De genere
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ACHAB - Rivista di Antropologia Numero XIII - giugno 2008 Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione editoriale Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Redazione Paola Abenante, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi, Fabio Vicini, Sara Zambotti Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Referente del sito Antonio De Lauri Tiratura: 500 copie Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di Milano Bicocca. Questo numero è parzialmente finanziato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, Università degli Studi di Milano Bicocca. Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005 Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del dominio di alcune immagini qui pubblicate. Gli autori sono invitati a contattarci. La Rivista si riserva di corrispondere agli eventuali aventi diritto, che ne facciano richiesta, le relative spettanze in relazione all'uso di materiale pubblicato in questo numero. * Immagine in copertina di Federica Riva Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori, scrivete a: [email protected] ACHAB In questo numero... 2 Le donne musulmane hanno veramente bisogno di essere salvate? Riflessioni antropologiche sul relativismo culturale e i suoi altri di Lila Abu-Lughod Dossier: De genere 10 Introduzione: Il Seminario di Barbara Pinelli e Claudia Mattalucci 13 Non rompere il cristallo Voci di donne e uomini attorno alla delicatezza di Paola Abenante 20 L’interrelazione tra mobilità e immobilità nell’A.A.H.H. 11 di Luglio di Sara Bramani 26 Tu, oggi, non puoi entrare Tabu mestruali nel gorovodu, in Togo e Bénin di Alessandra Brivio 32 La seduzione sulla montagna di Arianna Cecconi 38 Lesbiche e trans FtM, contese all'incrocio fra identità di genere e orientamento sessuale di Helen Ibry 45 In between Rappresentazioni artistiche della diaspora ebraico – israeliana attraverso una prospettiva di genere di Fiammetta Martegani 51 Leadership femminili, desideri e strategie d’inclusione I percorsi associativi di due gruppi di donne migranti a Milano di Laura Menin 57 Dubri Movimento e pratiche della ritualita in un rituale religioso di Federica Riva 62 Osservazioni sulla costruzione del genere nelle pratiche di produzione radiofonica di Sara Zambotti 67 “Literatura sucia” y “graffiti de amor.” di Abel Sierra Madero 1 ACHAB Le donne musulmane hanno veramente bisogno di essere salvate? Riflessioni antropologiche sul relativismo culturale e i suoi altri di Lila Abu-Lughod* Qual è l'etica dell'attuale "Guerra al Terrorismo", una guerra che si giustifica con l'apparente intenzione di liberare, o salvare, le donne afgane? L'antropologia ha qualcosa da offrire alla nostra ricerca di una presa di posizione ideale nei confronti di questo fondamento logico per muovere guerra? La domanda di apertura del titolo del mio saggio è stata in parte dettata dal modo in cui ho personalmente vissuto la risposta alla guerra americana in Afganistan. Come molti colleghi il cui lavoro si è concentrato sulle donne e sulle questioni di genere in Medio Oriente, fui tempestata dalle richieste di intervenire, non solo nei programmi notiziari, ma anche nei diversi dipartimenti universitari, specialmente in quelli che si occupano di studi di genere. Come mai questo non mi ha fatto piacere, proprio a me che sono una studiosa che ha dedicato più di venti anni della sua vita a questo soggetto e che ha delle relazioni personali complesse con questa identità? Sarebbe potuta essere un'occasione per diffondere il verbo, disseminare il mio sapere e correggere i malintesi. L'urgente ricerca di conoscenza sulle nostre sorelle "women of cover" (come il Presidente George Bush le ha così mirabilmente definite) è lodevole e, quando proviene dai programmi di studio sulle donne dove il "femminismo transnazionale" è stato preso sul serio, risponde a una certa qual onestà (v. Safire 2001). Il mio disagio mi ha portata a riflettere sul perché, come femministe in o dell'Occidente, o semplicemente come persone che hanno a cuore le vite delle donne, dobbiamo essere cauti nei confronti di questa risposta agli eventi e alle conseguenze dell'11 settembre 2001. Voglio mettere in evidenza come questa ossessione per la condizione delle donne musulmane si collochi in un campo minato - una metafora che è per di più tristemente appropriata per un paese come l'Afganistan, con il più alto numero di mine pro capite. Spero di farmi strada tra queste mine usando la sensibilità dell'antropologia, disciplina il cui compito è stato di comprendere e gestire la differenza culturale. Allo stesso tempo, voglio rimanere critica riguardo la complicità dell'antropologia nella reificazione della differenza culturale. Spiegazioni culturali e mobilitazione delle donne È più semplice capire perché si dovrebbe essere scettici nel concentrare l'attenzione sulla "donna musulmana" se si comincia con la reazione pubblica americana. Analizzerò due manifestazioni di questa reazione: alcune conversazioni che ebbi con un cronista della PBS NewHour with Jim Lehrer e il discorso radiofonico della First Lady Laura Bush alla nazione il 17 novembre 2001. La presentatrice dello show NewsHour mi contattò inizialmente per vedere se ero disposta a fornire qualche informazione generale per inquadrare un pezzo sulle donne e l'Islam. Le chiesi sarcasticamente se avesse fatto qualche rassegna sulle donne in Guatemala, Irlanda, Palestina o Bosnia quando lo show si era interessato alle guerre in quelle zone; ma alla fine assentii a dare un occhio alle domande che intendeva porre ai partecipanti. Le domande erano disperatamente generali. Le donne musulmane credono "x"? Le donne musulmane sono "y"? L'Islam permette "z" alle donne? Le chiesi: se si sostituissero "cristiano" o "ebreo" laddove si ha "musulmano", queste domande avrebbero senso? Non pensavo mi avrebbe richiamata. Invece mi richiamò, due volte, una prima volta relativamente all'idea di un pezzo sul significato del ramadan e la seconda riguardo le donne musulmane in politica. La prima, in risposta al bombardamento e l'altra in seguito agli interventi di Laura Bush e Cherie Blair, moglie del primo ministro britannico. Ciò che colpisce riguardo a queste tre idee per dei nuovi programmi è il ricorso consistente al culturale, come se sapere qualcosa sulle donne e l'islam o sul significato del rituale religioso servisse a capire il tragico attacco al World Trade Center di New York e al Pentagono, o come l'Afganistan sia finito sotto il governo dei talebani, o che interessi potrebbero avere alimentato l'America e altri interventi nella regione negli ultimi ventocinque anni, o che ruolo abbia lo storico supporto americano dato a gruppi conservatori per minare i sovietici, o perché le caverne e i bunker in cui Bin Laden stava per essere gassato "vivo o morto", come il presidente Bush annunciò in televisione, furono 2 ACHAB sovvenzionati e costruiti dalla CIA. In altre parole, la domanda da porsi è perché conoscere la "cultura" della regione, ed in particolare le sue credenze religiose, e il modo in cui le donne sono trattate, sia più urgente che esplorare la storia dello sviluppo di regimi repressivi nella regione e il ruolo dell'America in questa storia. Avevo l'impressione che questa cornice culturale avrebbe precluso una seria analisi delle radici e della natura della sofferenza umana in questa parte del mondo. Invece di spiegazioni politiche e storiche, agli esperti fu chiesto di darne di cultural-religiose. Invece di domande che avrebbero potuto fare luce sulle interconnessioni globali, ci furono presentate quelle che servivano a dividere artificialmente il mondo in emisferi separati, ricreando una geografia immaginaria dell'Occidente contro l'Oriente, di noi contro i musulmani, di culture nelle quali le First Lady fanno discorsi contro altre culture in cui le donne girano silenziosamente avvolte nei burqa. La cosa che mi premeva maggiormente comprendere era perché le donne musulmane in generale, e le donne afgane in particolare, fossero così cruciali in questa spiegazione culturale che invece ignorava l'intricato sistema in cui tutti siamo coinvolti, in modalità a volte sorprendenti. Perché questi simboli femminili stavano per essere mobilitati in questa "Guerra contro il Terrorismo" in un modo che non aveva precedenti in altri conflitti? Il discorso radiofonico tenuto il 17 novembre da Laura Bush mette in luce la funzione politica che si persegue con una simile mobilitazione. Da una parte, il suo intervento demoliva importanti distinzioni che si sarebbero dovute mantenere. C'era un costante scivolamento tra i "talebani" e i "terroristi", tanto da diventare quasi la stessa parola - una sorta di mostruosa identità inter-connessa: i talebani-e-i-terroristi. Inoltre confondeva le cause per cui in Afghanistan le donne sono soggette a una continua malnutrizione, povertà e cattiva salute con le cause, ben diverse, della loro recente esclusione dal lavoro e dall'istruzione sotto il regime talebano, e confondeva inoltre queste cause con la gioia di sfoggiare unghie smaltate. D'altra parte, il suo discorso cristallizzava divisioni abissali, innazitutto tra "le persone civili di tutto il mondo", i cui cuori si spezzano per le donne e i bambini afgani, e i talebani-e-i-terroristi, quei mostri culturali che vogliono, come lei sosteneva, "imporre a tutti noi il loro mondo". Rivelatorio rispetto agli intenti, il discorso utilizzava la causa delle donne per sostenere il bombardamento americano e l'intervento in Afganistan e per fornire una giustificazione alla "Guerra al Terrorismo" di cui la questione delle donne era presumibilmente un punto caldo. Come Laura Bush sosteneva: "Grazie alle nostre recenti vittorie militari in gran part e dell'Afganistan, le donne non sono più segregate nelle loro case. Possono ascoltare la musica e impartire insegnamenti alle loro figlie senza il terrore di essere punite... . La lotta contro il terrorismo è anche una lotta per i diritti e la dignità delle donne" (U.S. Government 2002). Queste parole risuonano in maniera ossessionante nelle orecchie di chiunque abbia studiato la storia coloniale. Molti tra coloro che hanno fatto ricerca sul colonialismo inglese in Sud Asia hanno notato come la questione delle donne sia stata sfruttata nelle politiche coloniali; esempio ne sia come la pratica del sati (l'usanza delle vedove di immolarsi sulle pire funerarie del marito), i matrimoni precoci e ad altre usanze fossero usate per legittimare la dominazione. Come Gayatri Chakravorty Spivak (1988) ha cinicamente affermato: uomini bianchi che salvano donne di colore da uomini di colore. L'archivio storico è pieno di simili esempi, incluso il Medio Oriente. In Turn of the Century Egypt, quello che Leila Ahmed (1992) ha chiamato "femminismo coloniale" si dava da fare. Si trattava di una preoccupazione interessata in modo selettivo alla sofferenza delle donne egiziane, che si concentrava sul velo come un segno di oppressione ma che non dava alcun supporto all'educazione delle donne, una preoccupazione professata ad alta voce dallo stesso gentiluomo inglese, Lord Cromer, che a casa si opponeva al diritto di voto delle donne. La sociologa Marnia Lazreg (1994) ha offerto alcuni esempi vividi di come il colonialismo francese ha incorporato le donne alla propria causa in Algeria. Scrive: Probabilmente l'esempio più evidente della riappropriazione coloniale delle voci delle donne e della repressione di quelle tra loro che avevano iniziato a prendere le donne rivoluzionarie... come modelli non indossando più il velo, furono gli eventi del 16 maggio 1958 [proprio quattro anni prima che l'Algeria finalmente conquistasse la sua indipendenza dalla Francia dopo una lunga e sanguinosa lotta e 130 anni di controllo francese (NdA)]. Quel giorno fu organizzata una manifestazione dai generali francesi insubordinati per mostrare la loro determinazione a mantenere l'Algeria francese. Per provare al governo francese che gli algerini erano d'accordo con loro, i generali avevano fatto arrivare in autobus qualche migliaio di nativi dai villaggi vicini, assieme alle loro donne che furono solennemente svelate da quelle francesi. Riunire gli algerini e fargli fare dimostrazioni di lealtà per la Francia non era in sé un avvenimento inusuale durante il periodo coloniale. Ma togliere il velo alle donne durante una cerimonia ben allestita aggiungeva all'evento una dimensione simbolica che drammatizzava la caratteristica costante dell'occupazione francese in Algeria: la sua ossessione per le donne. [Lazreg 1994: 135]. Lazreg (1994) dà anche degli esempi memorabili del modo in cui la Francia aveva inizialmente cercato di trasformare le donne e le ragazze arabe. L'autrice fornisce una descrizione di alcune rappresentazioni durante le cerimonie di premiazione alla Muslim Girls' School ad Algeri nel 1851 e nel 1852. Nella prima scenetta, scritta da "una signora francese di Algeri", due ragazze arabe algerine rammentano il loro viaggio in Francia usando le seguenti parole: Oh! Francia protettrice: Oh! Francia ospitale! ... Nobile terra, dove mi sentii libera Sotto cieli cristiani pregando il nostro Dio: ... Dio ti benedica per la felicità che ci porti! E tu, madre adottiva, che ci insegnasti Che abbiamo una parte di questo mondo, Noi ti serberemo affetto per sempre! [Lazreg 1994: 68-69] Queste ragazze sono state preparate per invocare il dono di una 3 ACHAB parte di questo mondo, un mondo dove la libertà regna sotto cieli cristiani. Non è il mondo che i talebani-e-i-terroristi vorrebbero "imporre a tutti noi". Proprio come poco fa ho sostenuto, bisogna essere cauti quando delle icone culturali ben definite sono attribuite a narrative storiche e politiche confuse, e così bisogna anche essere diffidenti quando Lord Cromer nell'Egitto governato dagli inglesi, le signore francesi in Algeria e Laura Bush, tutti appoggiati da truppe militari, sostengono di stare salvando o liberando le donne musulmane. portatili". Ovunque velarsi significa appartenere ad una particolare comunità e a condividere un'etica della vita in cui le famiglie sono componenti fondamentali nell'organizzazione delle comunità e la casa è associata con l'inviolabilità delle donne. La domanda ovvia che segue è questa: se questo fosse il caso, perché dovrebbero diventare improvvisamente indecenti? Perché dovrebbero improvvisamente buttare al vento i segni distintivi della loro rispettabilità, simboli, siano essi il burqa o altri modi di coprirsi, che dovrebbero assicurargli la protezione nella sfera pubblica dalle molestie di estranei, comunicando a tutti che nonostante si muovano in un contesto pubblico sono ancora nello spazio inviolabile delle loro case? In modo particolare quando si tratta di modi di vestirsi che sono diventati così convenzionali che la maggior parte delle donne presta poca attenzione al loro significato. Per fare alcune analogie, di cui nessuna perfetta, perché siamo sorpresi dal fatto che le donne afgane non gettano via i loro burqa quando sappiamo perfettamente bene che non sarebbe appropriato indossare dei pantaloncini all'opera? Nello stesso momento in cui le discussioni sul burqa delle donne afgane stavano infuriando, una mia amica fu rimproverata dal marito per avere accennato al fatto di volere indossare un abito con i pantaloni in occasione di un matrimonio di classe: "sai bene che non si indossano pantaloni in un matrimonio WASP ", le ricordò. I newyorkesi sanno che le belle donne hasidiche acconciate, che sembrano così alla moda accanto a i loro austeri mariti con i soprabiti e i cappelli neri, indossano parrucche. Questo perché la credenza religiosa e le consuetudini comunitarie riguardo a ciò che è appropriato richiedono che si coprano i capelli. Come gli antropologi sanno perfettamente bene, gli individui indossano vestiti appropriati alla comunità sociale in cui vivono e sono condizionati da modelli socialmente condivisi, da credenze religiose e ideali morali, a meno che non trasgrediscano deliberatamente o non siano in condizione di permettersi un vestiario adeguato. Se si pensa che le donne americane hanno un'infinita possibilità di scelta per vestirsi, tutto quello che si deve fare è ricordare l'espressione, "la tirannia della moda". Quello che è successo sotto i talebani è che una modalità regionale di coprirsi o velarsi, associata ad una certa classe rispettabile ma non elitaria, fu imposta a tutti come "religiosamente" appropriata, anche se precedentemente c'erano stati diversi stili, popolari o tradizionali, con differenti gruppi o classi - diverse modalità di rappresentare il decoro delle donne o, in tempi più recenti, la devozione religiosa. Nonostante non sia un'esperta dell'Afganistan, immagino che la maggioranza delle donne rimaste in Afganistan, da quando i talebani assunsero il controllo, furono quelle provenienti dalle campagne e le meno educate, di famiglie poco ambienti, dal momento che furono le uniche che non riuscirono a sfuggire la sofferenza e la violenza che ha caratterizzato la recente storia dell'Afganistan. Se liberate dalla costrizione di indossare il burqa, la maggioranza di queste donne avrebbero scelto altri copricapi modesti, come tutte quelle che vivevano nelle vicinanze e non erano sotto il dominio talebano - la loro controparte rurale hindu nel nord dell'India (che Politiche del velo Vorrei adesso osservare più da vicino quelle donne afgane che Laura Bush sosteneva gioissero della loro liberazione da parte degli americani. Questo comporta una discussione sul velo, o sul burqa, dal momento che è centrale nella preoccupazione contemporanea riguardo le donne musulmane. Si getteranno così le basi per una discussione su come gli antropologi, le antropologhe femministe in particolare, hanno a che fare con il problema della differenza nel mondo globale. Per concludere, ritornerò sulla retorica di salvare le donne musulmane e offrirò un'alternativa. È senso comune che la prova definitiva dell'oppressione delle donne afgane sotto i talebani-e-i-terroristi è quello di essere costrette ad indossare il burqa. I liberali qualche volta confessano di essere sorpresi che nonostante l'Afganistan sia stato liberato dai talebani non sembra che le donne buttino via i loro burqa. Qualcuno che abbia lavorato in paesi musulmani deve chiedersi perché questo è così sorprendente. Ci si aspetta che una volta "liberate" dai talebani vogliano "ritornare" alle magliettine sopra l'ombelico e ai bluejeans, o spolverare i loro vestiti di Chanel. Bisogna essere più sensibili riguardo all'abbigliamento delle "women of cover", e forse c'è anche bisogno di fare il punto riguardo al velo. Innanzitutto, si dovrebbe ricordare che i talebani non hanno inventato il burqa. Era una modo locale di coprirsi che le donne Pashtun di una particolare regione adottavano quando andavano in giro. I Pashtun sono uno dei diversi gruppi etnici in Afganistan e il burqa era una delle molte forme di coprirsi nel subcontinente e nel sudovest asiatico che si è trasformata in una convenzione che simbolizza la modestia e la rispettabilità delle donne. Il burqa, come altri modi di "coprirsi", ha in molti contesti marcato una separazione simbolica tra la sfera maschile e quella femminile, come parte della generale associazione delle donne con la famiglia e la casa e non con lo spazio pubblico in cui gli stranieri si mescolavano. Venti anni fa, l'antropologa Hanna Papanek (1982), che lavorò in Pakistan, descrisse il burqa come un "isolamento portatile". Notò che molti lo vedevano come un'invenzione liberatoria perché permetteva alle donne di uscire dalla loro segregazione, osservando al contempo le prescrizioni morali basilari di separare e proteggere le donne dagli uomini non imparentati. Da quando mi imbattei nella sua espressione "isolamento portatile", incominciai a pensare queste vesti avvolgenti come "dimore 4 ACHAB coprono le loro teste e velano le loro facce ai simili) o le sorelle musulmane in Pakistan. Persino The New York Times ha pubblicato un articolo sulle donne afgane rifugiate in Pakistan che mirava ad istruire i lettori relativamente a questa varietà locale (Fremson 2001). L'articolo descrive e ritrae qualsiasi cosa, dal recente burqa-icona con le fessure per gli occhi ricamate, che una donna Pashtun spiegava essere il vestito appropriato per la sua comunità, agli ampi veli chiamati chador, ad il nuovo vestito islamico battezzato hijab da chi lo indossa. Coloro che generalmente indossano questo nuovo abito islamico sono generalmente studentesse indirizzate a carriere professionali, specialmente in medicina, esattamente come le loro controparti egiziane o malesi. Una di quelle che indossava gli ampi veli era una preside di scuola; l'altra era una povera commerciante ambulante. Le parole della giovane commerciante erano, "se lo facessi [indossare il burqa] i rifugiati mi prenderebbero in giro perché il burqa è per 'le donne di buona famiglia' che stanno a casa" (Fremson 2001: 14). Si mette qui in luce lo status locale associato al burqa - è per donne rispettabili che vengono da buone famiglie che non sono costrette a vivere facendo le commercianti ambulanti. Il giornale inglese The guardian pubblicò un intervista nel gennaio 2002 alla Dr. Suheila Sikkiqi, uno stimato chirurgo che ha il grado di luogotenente generale nei corpi paramedici afgani (Goldenberg 2002). Una donna sulla sessantina che veniva da una famiglia altolocata e che, come sua sorella, aveva studiato. Differentemente dalla maggior parte delle donne della sua classe, lei scelse di non andare in esilio. È presentata nell'articolo come "la donna che si oppose ai talebani" perché si rifiutò di indossare il burqa. Ne aveva fatto una condizione per ritornare al suo posto di direttore del maggior ospedale quando i talebani arrivarono all'inizio del 1996; appena otto mesi dopo fu licenziata assieme alle altre donne. Siddiqi è descritta come magra, elegante e sicura di sé. Eppure più avanti nell'articolo si nota come i suoi grigi capelli vaporosi sono coperti da un velo trasparente. Nonostante si sia rifiutata di indossare il burqa, infatti, non aveva alcun problema ad indossare lo chador o il velo. Infine, bisogna prendere in considerazione un punto cruciale riguardo al velo. Non ci sono solo differenti modi di coprirsi, che hanno diversi significati nelle comunità in cui sono messi in pratica, ma anche l'atto di coprirsi in sé non deve essere confuso, o inteso, come un'incapacità di agire. Come ho sostenuto nella mia etnografia su una comunità beduini in Egitto tra la fine degli anni '70 e degli '80 (1986), tirarsi il velo nero sulla faccia di fronte ad anziani stimati è considerato un atto volontario fatto da donne che sono profondamente attente alla loro condotta morale e ad avere un senso dell'onore legato alla famiglia. Uno dei modi di mostrare la loro condizione è quello di coprirsi le facce in determinati contesti. Sono loro a decidere nei confronti di chi è appropriato velarsi. Per citare un caso decisamente differente, il vestito islamico moderno, che molte donne istruite nel mondo musulmano hanno incominciato ad indossare dalla metà del 1970 in poi, simboleggia pubblicamente la devozione religiosa e può essere letto come un segno della ricercatezza colta urbana, una sorta di modernità (e.g., Abu-Lughod 1995, 1998; Brenner 1996; El Guindi 1999; MacLeod 1991; Ong 1990). Come Saba Mahmood (2001) ha così brillantemente mostrato nella sua etnografia sulle donne nei movimenti politici legati alle moschee in Egitto, questo nuovo tipo di vestito è anche percepito, da molte delle donne che l'adottano, come parte di uno strumento corporeo per coltivare la virtù, il risultato del loro desiderio proclamato di essere vicino a Dio. Due punti emergono da questa discussione decisamente fondamentale sui significati del velo nel mondo musulmano contemporaneo. Innanzitutto, bisogna abolire l'interpretazione riduttiva del velo come la quintessenza della schiavitù delle donne, anche qualora si sia contrari alla sua imposizione, come in Iran o con i talebani. (Si deve ricordare che i moderni stati della Turchia e dell'Iran hanno all'inizio del secolo scorso abolito il velo e preteso che gli uomini, eccetto gli ecclesiastici, di adottare abiti occidentali). Cosa si intende per libertà se si accetta la premessa fondamentale che gli uomini come esseri sociali, crescono necessariamente all'interno di certi contesti sociali e storici ed appartengono a determinate comunità che modellano i loro desideri e la loro comprensione del mondo? Denunciare semplicemente il burqa come un'imposizione medioevale non è forse una grossa violazione delle ragioni proprie delle donne su quello che stanno facendo? In oltre, si deve fare attenzione a ridurre le diverse situazioni e l'atteggiamento di milioni di musulmane a un singolo capo di vestiario. Forse è tempo di abbandonare l'ossessione occidentale per il velo e concentrarsi su qualche problema serio per il quale le femministe ed altri dovrebbero invece essere coinvolti. In definitiva, l'importante problema politico ed etico che il burqa solleva è come rapportarsi all'"altro" culturale. Come si deve trattare la differenza senza accettare la passività sottesa al relativismo culturale per cui gli antropologi sono giustamente famosi - un relativismo che sostiene che è la loro cultura e che non è affar mio giudicare o interferire, ma solo provare a capire. Il relativismo culturale è certamente un miglioramento rispetto all'etnocentrismo e al razzismo, all'imperialismo culturale e all'arroganza che lo sottende; il problema però è che è troppo tardi per non interferire. Le forme di vita intorno al mondo sono già il prodotto di una lunga storia di interazioni. Voglio esplorare la questione della donna, del relativismo culturale e del problema delle differenza da tre prospettive. Innanzitutto, voglio considerare come le antropologhe femministe (soprattutto quelle intrappolate in questa imbarazzante relazione, come Strathern [1987] ha sostenuto) devono comportarsi con questi intimi compagni politici. Mi sono spesso sentita combattuta quando ricevevo le petizioni via posta elettronica che circolavano negli ultimi anni in difesa delle donne afgane sotto i talebani. Non condividevo il dogmatismo dei talebani; non sostengo l'oppressione delle donne. Ma l'origine di questa campagna mediatica mi preoccupava. Generalmente non mi trovo in compagnia di simili celebrità holliwoodiane (vedi Hirschkind and Mahmood 2002). Non ho mai ricevuto una petizione da parte di 5 ACHAB queste donne per difendere il diritto delle donne palestinesi alla sicurezza contro il bombardamento israeliano o gli abusi quotidiani ai checkpoint, per chiedere agli Stati Uniti di riconsiderare il loro supporto per un governo che li ha spogliati, privati del lavoro e dei diritti di cittadinanza, negato le libertà più basilari. Forse però alcune di queste stesse persone potrebbero firmare petizioni per salvare le donne africane dall'amputazione dei genitali, o le donne indiane dal divenire corredi funerari. Ad ogni modo, non penso che sarebbe stato talmente facile mobilitare così tante donne americane ed europee se non si fosse trattato di uomini musulmani che opprimevano donne musulmane, "women of cover" verso le quali possono essere dispiaciute e nei confronti delle quali possono sentirsi compiaciutamente superiori. La diva televisiva Oprah Winfrey ospiterebbe le "Donne in nero", il gruppo di donne pacifiste di Israele, come fece la RAWA, l'Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell'Afghanistan, cui fui anche attribuito il premio Galmour Magazine di donne dell'anno? Chi siamo per fare dei "Reality Tours" post-talebani come quelli pubblicizzati su internet dal Global Exchange per marzo 2002 con il titolo "Coraggio e tenacia: una delegazione di donne in Afghanistan"? La logica di un tour da 1400 dollari è che "con la rimozione del governo talebano, le donne afgane, per la prima volta negli ultimi dieci anni, hanno l'opportunità di reclamare i diritti umani fondamentali e determinare il loro ruolo di cittadine alla pari, partecipando alla ricostruzione della loro nazione." L'obiettivo del tour, per celebrare la Settimana Internazionale della Donna, è "sviluppare una consapevolezza delle preoccupazioni e delle problematiche che le donne afgane incontrano così come testimoniare il cambiamento delle condizioni politiche, economiche e sociali che hanno creato nuove opportunità per le donne dell'Afghanistan" (Global Exchange 2002). Essere critici nei confronti di questa celebrazione dei diritti delle donne in Afghanistan non significa giudicare ogni organizzazione locale di donne, come la RAWA, i cui membri hanno coraggiosamente lavorato dal 1977 per un Afghanistan laico e democratico in cui i diritti umani delle donne fossero rispettati contro i regimi conservatori supportati dall'Unione Sovietica, dagli Stati Uniti, dall'Arabia Saudita e dal Pakistan. La loro documentazione degli abusi ed il loro lavoro nelle cliniche e nelle scuole è stato estremamente importante. Si tratta anche di non biasimare le campagne che denunciano le agghiaccianti condizioni cui i talebani sottopongono le donne. La campagna Feminist Majority ha aiutato a bloccare un accordo segreto su un oleodotto tra i talebani e la multinazionale statunitense Unocal, che stava andando avanti con il supporto dell'amministrazione americana. Le campagne femministe occidentali non devono essere confuse con le ipocrisie del nuovo femminismo coloniale di un presidente repubblicano che non è stato eletto per le sue posizioni progressiste sulle questioni femministe o di un'amministrazione che ha minimizzato il terribile record di violenze sulle donne da parte degli alleati degli Stati Uniti nell'Alleanza del Nord, come hanno documentato, tra gli altri, Human Rights Watch e Amnesty International. Stupri e aggressioni erano diffusi durante il periodo degli scontri che devastarono l'Afghanistan ben prima che i talebani arrivassero per restaurare l'ordine. L’importante, comunque, è suggerire che bisogna osservare da vicino ciò che si sostiene (e cosa non si sostiene) e pensare attentamente al motivo. Come si dovrebbe gestire la problematica politica ed etica di trovarsi d'accordo con coloro con cui normalmente non si è? Non so quante femministe che si compiacciono di salvare le donne afgane dai talebani si battano anche per una redistribuzione globale della ricchezza o contemplino la possibilità di ridurre drasticamente i loro consumi affinché gli africani o le donne afgane possano avere una qualche possibilità di ottenere ciò che credo debba essere un diritto universale: il diritto alla libertà dalla violenza strutturale dell'ineguaglianza globale e dalle devastazioni della guerra, il diritto quotidiano di avere abbastanza da mangiare, avere case per le proprie famiglie in cui vivere e prosperare, avere possibilità di fare vite dignitose affinché i loro figli possano crescere ed avere la forza e la sicurezza di scegliere, all'interno delle loro comunità e con chi vogliano, stili di vita che potrebbero benissimo includere il cambiamento nei modi in cui queste comunità sono organizzate. Sospettare questi intimi compagni è solo un primo passo; non ci darà un modo di pensare più positivo su cosa fare o da che parte stare. Per questo abbiamo bisogno di affrontare due questioni principali. Innanzitutto, l'accettazione della possibilità della differenza. Si tratta solo liberare le donne afgane per renderle simili a noi o potremmo dover riconoscere che anche dopo la "liberazione" dai talebani, potrebbero volere cose differenti da quelle che noi vorremmo per loro? Cosa facciamo per questo? In secondo luogo, è necessario essere vigili rispetto alla retorica di salvare le persone, per cogliere ciò che è sotteso nei nostri atteggiamenti. Ancora, quando parlo di accettare le differenze, non sto insinuando che ci si dovrebbe rassegnare ad abbracciare un relativismo culturale che giustifichi qualsiasi cosa che succede altrove come "tipico della loro cultura". Ho già discusso il pericolo di queste spiegazioni "culturali": le "loro" culture sono parte della storia e di un mondo interconnesso esattamente come lo sono le nostre. Ciò che sto sostenendo è la fatica di riconoscere e rispettare le differenze, esattamente come prodotti di storie diverse, come espressioni di desideri differentemente strutturati. Noi possiamo volere la giustizia per le donne ma possiamo accettare che potrebbero esserci idee differenti riguardo alla giustizia e che queste donne diverse potrebbero volere, o scegliere, futuri diversi da quelli che noi consideriamo migliori (vedi Ong 1988)? Dobbiamo considerare che queste donne potrebbero essere richiamate all'attenzione dell'umanità, così per dire, per mezzo di un linguaggio differente. I rapporti della conferenza di pace di Bonn tenutasi alla fine di novembre per discutere la ricostruzione dell'Afghanistan rivelarono differenze significative tra le poche donne afghane femministe e attiviste presenti. La posizione della RAWA era di rifiutare qualsiasi approccio conciliatore nei confronti del 6 ACHAB governo islamico. Secondo un rapporto che lessi, la maggior parte delle donne attiviste, specialmente quelle che vivono in Afghanistan, coscienti delle realtà del terreno, concordavano sul fatto che l'islam sarebbe dovuto essere il punto di partenza per la riforma. Fatima Galiani, un consigliere statunitense di una delle delegazioni, affermava "se io oggi vado in Afghanistan e chiedo alle donne di appoggiarmi con la promessa di portar loro la laicità, queste mi manderanno sicuramente all'inferno". Invece, secondo un rapporto, la maggior parte di queste donne si inspiravano nella loro lotta per l'eguaglianza ad un posto che potrebbe sembrare sorprendente: consideravano l'Iran come il paese in cui le donne ottenevano vittorie in un contesto islamico, in parte attraverso un movimento femminista filo-islamico che sfidava le ingiustizie e reinterpretava la tradizione religiosa. La situazione in Iran è essa stessa soggetto di un 'acceso dibattito tra i circoli femministi, specialmente tra le femministe iraniane in Occidente (per esempio, Mir-Hosseini 1999, Moghissi 1999, Najmabadi 1998, 2000). Non è chiaro se e in che modo le donne abbiano ottenuto vittorie o se i grandi progressi nel campo dell'alfabetizzazione, della riduzione del tasso di natalità, della presenza delle donne nel campo professionale e nel governo, edun fiorente femminismo in aree culturali quali la scrittura e la regia, si abbiano grazie o malgrado alla costituzione di una Repubblica islamica. Anche il concetto di un femminismo islamico è in sé controverso. Si tratta di un ossimoro o si riferisce ad un movimento possibile, formato da donne coraggiose che vogliono una terza via? Una delle cose riguardo alle quali è necessario essere il più attenti possibile quando si pensa al femminismo del terzo mondo e al femminismo in diverse parti del mondo musulmano, è come non cadere nella polarizzazione che pone il femminismo dalla parte dell'Occidente. Ho scritto riguardo al dilemma incontrato dalle femministe arabe quando le femministe occidentali intraprendono campagne che espongono le prime all’accusa di tradimento da parte di conservatori di vario tipo, sia islamici che nazionalisti. (Abu-Lughod 2001) Come alcuni, tra cui Afaseneh Najmabadi, sostengono, non solo è sbagliato guardare la storia in modo semplicistico, in termini di un'opposizione putativa tra Islam e Occidente (come oggi sta succedendo negli Stati Uniti ed è successo parallelamente nel mondo musulmano), ma è anche strategicamente pericoloso accettare questa opposizione culturale tra Islam e Occidente, tra fondamentalismo e femminismo, perché le numerose persone che nei paesi musulmani stanno cercando di trovare alternative alle ingiustizie attuali, quelli che potrebbero voler rifiutare di fare un taglia e incolla da differenti storie e culture, coloro che non accettano che essere femminista significhi essere occidentale, saranno sotto pressione nel scegliere, proprio come lo siamo noi: siete con noi o contro di noi? Quello che voglio ricordare è di essere coscienti delle differenze, rispettosi delle strade altrui verso un cambiamento sociale che potrebbe offrire alle donne vite migliori. Può esistere una liberazione che sia islamica? E, inoltre, è la liberazione stessa un obiettivo per cui tutte le donne o la gente si batte? L'emancipazione, l'eguaglianza e i diritti sono parte di un linguaggio universale che dobbiamo usare? Per citare Saba Mahmood, che scrive sulle donne che cercano di diventare pie musulmane in Egitto, "il desiderio di libertà e liberazione è un desiderio storicamente situato, la cui forza motivazionale non può essere assunta a priori ma si deve riconsiderare alla luce di altri desideri, aspirazioni e capacità che ineriscono in un soggetto culturalmente e storicamente situato" (2001:223). In altre parole, altri desideri possono essere più significativi per gruppi di persone differenti? Vivere in famiglie vicine? Vivere in modo pio? Vivere senza guerra? Io ho lavorato sul campo in Egitto per più di 20 anni e non posso pensare ad una singola donna che conosco, dalla più povera contadina alla più educata cosmopolita, che sia mai stata invidiosa delle donne statunitensi, donne che loro tendono a percepire come prive di comunità, vulnerabili alle violenze sessuali ed alla sregolatezze sociali, guidate dal successo individuale piuttosto che dalla moralità, o stranamente irrispettose di Dio. Mahmood (2001) ha fatto notare una cosa inquietante che accade quando qualcuno sostiene il rispetto di altre tradizioni. Lei nota che sembra esserci una differenza nelle richieste politiche fatte a coloro che lavorano su o stanno cercando di capire musulmani e islamici e coloro che lavorano su progetti laico-umanisti. Lei, che studia il movimento religioso in Egitto, è consistentemente spinta a denunciare tutti i danni causati dai movimenti islamici nel mondo, altrimenti viene accusata di essere un apologeta. Ma non sembra mai esservi una richiesta parallela per quelli che studiano l'umanesimo laico ed i suoi progetti, nonostante le terribili violenze che gli sono state associate negli ultimi due secoli dalle guerre mondiali al colonialismo, dai genocidi allo schiavismo. è necessario riporre poca fiducia nell'umanesimo laico così come nell'islamismo, ed è invece necessario aprire la mente alle complesse possibilità' di progetti umani, intrapresi in una tradizione come nell'altra. Oltre la retorica della salvezza Torniamo, infine, al mio titolo: "Le donne musulmane hanno bisogno di essere salvate?" La discussione su cultura e velo e su come si possano attraversare le secche della differenza culturale dovrebbe porre l'auto-compiacimento di Laura Bush per il giubilo delle donne afgane liberate sotto una luce differente. È profondamente problematico dipingere la donna afgana come qualcuno che ha bisogno di essere salvato. Quando si salva qualcuno si sottintende che lo si sta salvando da qualcosa. Lo si sta anche salvando per qualcosa. Quali violenze implica questa trasformazione e quali presunzioni sottendono alla superiorità di ciò per cui lo si sta salvando? I progetti di salvare altre donne dipendono da e rinforzano il senso di superiorità degli occidentali, una forma di arroganza che merita di essere sfidata. Tutto ciò che si deve fare per apprezzare la qualità condiscendente della retorica della salvezza delle donne è immaginare di usarla oggi negli Stati Uniti nei riguardi dei gruppi svantaggiati come le donne afro-americane o le donne della classe operaia. Adesso le consideriamo come sofferenti di 7 ACHAB una violenza strutturale. Siamo diventati politicizzati per quanto riguarda la razza e le classi ma non per quanto riguarda la cultura. Come antropologi, femministe o cittadini preoccupati, dobbiamo essere cauti nel calarci nei panni di quelle donne missionarie cristiane del XIX secolo che dedicarono le proprie vite a salvare le loro sorelle musulmane. Uno dei miei documenti preferiti di quel periodo è una raccolta chiamata Nostre sorelle musulmane, i verbali di una conferenza di donne missionarie tenutasi al Cairo nel 1906 (Van Sommer e Zemmer, 1907). Il sottotitolo del libro è Un grido di bisogno dalle terre del buio interpretato da coloro che l'hanno sentito. Parlando dell'ignoranza, della reclusione, della poligamia e del velo che importunavano le vite delle donne nel mondo musulmano, le donne missionarie parlavano della loro responsabilità nel fare sentire queste voci di donne. Come afferma l'introduzione, "loro non piangeranno mai per se stesse poiché sono sotto il giogo di secoli di oppressione" (Van Sommer e Zemmer, 1907:15). "Questo libro" - così comincia - "con la sua triste e reiterata storia di ingiustizia e oppressione è un'accusa ed un appello...È un appello alla femminilità cristiana a corre g g e re queste ingiustizie ed illuminare questo buio attraverso il sacrificio e il supporto" (Van Sommer e Zemmer, 1907:5). Oggi si possono sentire strani echi dei loro scopi virtuosi, anche se il linguaggio è laico, negli appelli non a Gesù' ma ai diritti umani o all'Occidente liberale. Il persistente valore di tale linguaggio simbolico e tali sentimenti può essere visto nel loro schierarsi per cause umanitarie assolutamente buone. Nel febbraio 2002, ricevetti un invito ad un ricevimento in onore di un network medico-umanitario internazionale chiamato Médecins du Monde/Medici del mondo (MdM). Sotto il patrocinio dell'Ambasciatore degli Stati Uniti, il capo della delegazione della Commissione Europea alle Nazioni Unite ed un membro del Parlamento Europeo, il cocktail era per la presentazione di una mostra fotografica sotto il banale titolo di "Donne afghane: dietro il velo". L'invito era rilevante non solo per la vivace fotografia di donne in svolazzanti burqa che camminavano attraverso le aride montagne dell'Afghanistan ma anche per la didascalia di cui vi cito un passaggio: Per 20 anni MdM si è battuto senza tregua per aiutare coloro che sono più vulnerabili. Tuttavia, sempre più spesso, dei veli coprono le vittime della guerra. Quando i talebani andarono al potere nel 1996, le donne afgane divennero senza volto. Svelare la faccia di una (donna) mentre riceveva cure mediche significava raggiungere una sorta di intimità, trovare un breve spazio di libertà segreta e recuperare un poco della sua dignità. In un paese in cui le donne non hanno accesso alle cure mediche di base perché non hanno il diritto di apparire in pubblico, dove le donne non hanno il diritto di eserc i t a re la medicina, il programma di MdM restò in piedi come tenace memento dei diritti umani....Per favore, unitevi a noi nell'aiutare ad alzare il velo. Nonostante non possa qui riprendere la questione delle fantasie di intimità legate al togliere il velo, fantasie reminiscenti l'ossessione coloniale francese così brillantemente smascherata da Alloula in The Colonial Harem (1986), posso chiedere perché progetti umanitari e discorsi sui diritti umani nel XXI secolo abbiano bisogno di basarsi su tali costruzioni delle donne musulmane. Non potremmo lasciare i veli e le vocazioni di salvare gli altri dietro di noi ed invece preparare la nostra comprensione sul modo in cui rendere il mondo un posto più giusto? La ragione per cui il rispetto della differenza non deve essere confuso con il relativismo culturale è che ciò non preclude il domandarsi come noi, che viviamo in questa privilegiata e potente parte del mondo, possiamo analizzare le nostre proprie responsabilità per le situazioni in cui altri, in posti lontani, si sono trovati. Noi non siamo fuori dal mondo, a vigilare su questo mare di benedetta povera gente, che vive nell'ombra, o velo, di culture oppressive; noi siamo parte del mondo. Gli stessi movimenti islamici sono comparsi in un mondo formato dall'intenso impegno delle potenze occidentali nelle vite dei medio-orientali. Un approccio più produttivo, mi sembra, è quello di chiedersi come possiamo contribuire a rendere il mondo un posto più giusto. Un mondo non organizzato in base a forze armate strategiche ed esigenze economiche; un luogo in cui certi tipi di forze e di valori che noi riteniamo ancora importanti possano avere un interesse e dove ci sia la pace necessaria per le discussioni, i dibattiti e le trasformazioni che avvengono nelle comunità. Dobbiamo domandarci a quale genere di condizioni del mondo possiamo contribuire per far si che tali volontà popolari non vengano (sovra)determinate dalla schiacciante sensazione di sentirsi indifesi di fronte alle forme di ingiustizia globale. Laddove cerchiamo di essere attivi negli affari di posti lontani, possiamo fare lo stesso con lo spirito di supportare quelli i cui obbiettivi nelle proprie comunità sono di rendere le vite delle donne (e degli uomini) migliori (come Walley ha sostenuto riguardo alle pratiche di mutilazione genitale in africa [1997])? Possiamo usare un linguaggio più egualitario di alleanze, coalizioni e solidarietà al posto che la salvezza? Anche la RAWA, l'ormai celebre Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Associazione rivoluzionaria delle donne dell'Afghanistan), che era così strumentale nel portare all'attenzione delle donne statunitensi gli eccessi dei talebani, si è opposta sin dall'inizio ai bombardamenti statunitensi. Non ci vedeva la salvezza delle donne afgane ma sofferenze e perdite maggiori. Si è a lungo appellata al disarmo ed alle forze di pace. I portavoce rimarcano i pericoli di confondere i governi con le persone, i talebani con afgani innocenti che saranno i più danneggiati. Essi ricordano ripetutamente al pubblico di osservare da vicino i modi in cui le politiche sono state organizzate intorno a interessi petroliferi, all'industria delle armi, e al traffico internazionale di droga. Non sono ossessionati dal velo, anche se sono i femministi più radicali che lavorano per una democrazia laica in Afghanistan. Sfortunatamente, solo i loro messaggi sugli eccessi dei talebani sono stati sentiti, anche se il loro criticismo nei confronti di quelli al potere in Afghanistan ha incluso regimi precedenti. Un primo passo nel sentire il loro messaggio più 8 ACHAB ampio, è quello di rompere con il linguaggio di culture aliene, o per capirle o per eliminarle. Il lavoro missionario e il femminismo coloniale appartengono al passato. Il nostro compito è di analizzare criticamente cosa possiamo fare per aiutare a creare un mondo in cui quelle povere donne afgane, per le quali "i cuori di quelle nel mondo civilizzato si spezzano" , possano avere vite sicure e dignitose. (Traduzione di Luigi Achilli) *Lila Abu Lughod, Dipartimento di Antropologia, Columbia University, New York, NY 10027 Versione originale:. Lila Abu-Lughod (2002) "Do Muslim Women Really Need Saving?", Anthropological Reflections on Cultural Relativism and Its Others, American Anthropologist, 104 (3), 783–790. Note Ringraziamenti. Voglio ringraziare Page Jackson, Fran MasciaLees, Tim Mitchell, Rosalind Morris, Anupama Rao, ed il pubblico del simposio "Reagire alla guerra" sponsorizzato dal Columbia University's Insitute for Research on Women and Gender (in cui presentai una versione precedente) per gli utili commenti, referenze, appunti ed incoraggiamenti. Bibliografia Mir-Hosseini, Ziba, 1999 Islam and Gender: The Religious Debate in Contemporary Iran. Princeton University Press. Moghissi, Haideh, 1999 Feminism and Islamic Fundamentalism. Londo: Zed Books. Najmabadi, Afsaneh, 1998 Feminism in an Isalamic Republic. In Islam, Gender and Social Change. Yvonne Hadda and John Esposito, eds. Pp. 59-84. New Yor: Oxford University Press. 2000 (Un)Veiling Feminism. Social Text 64:29-45. Ong, aihwa 1988 Colonialism and Modernity: Feminist Re-Presentations of Women in Non-Western Societies. Inscription 3-4:79-93. 1990 States Versus Islam: Malay Families, Women's Bodies, and the Body Politic in Malysia. 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Cultural Anthropology 16(2):202-235. 9 ACHAB D oss i e r De genere Introduzione Il seminario di Claudia Mattalucci e Barbara Pinelli Questo dossier è nato da un’esperienza seminariale di quasi due anni tenutasi presso l’Università di Milano-Bicocca, che ha coinvolto dottorande/i, docenti, assegniste e laureate in antropologia con il desiderio di mettere in comune i propri percorsi di studio e di ricerca e di ragionare insieme su che cosa significasse assumere una prospettiva di genere. Con scadenza quindicinale abbiamo errato attraverso la letteratura antropologica e la critica femminista, discutendo a partire da testi di volta in volta proposti dalle/i partecipanti. Tre incontri hanno accolto un’iniziativa più formale pensata per i dottorandi in Antropologia della contemporaneità e delle converg e n z e culturali in cui, sempre a partire da alcune letture, abbiamo discusso di “genere e istituzioni”, “genere e riproduzione” e “genere e lavoro”. Ad eccezione di questi incontri la partecipazione al seminario è stata quasi esclusivamente femminile. Per leggere questo dato è d’obbligo tenere presente che la scelta tra le iniziative proposte in università dipende, oltre che dall’interesse, da impegni lavorativi, di ricerca e familiari. Ci è tuttavia sembrato che la selezione sia stata ugualmente orientata da una precomprensione diffusa che identifica ancora il genere con un tema più che con una prospettiva e assegna l’interesse per il genere a soggetti altri rispetto al maschile. Coinvolte e forse conquistate dalle parole dei nostri incontri, abbiamo spesso sovrapposto ricerche, libri, esperienze, passioni individuali e condivise. All’inizio infatti avevamo chiaro solo qualche punto di partenza. Ci interessava quello spazio da cui ogni persona, partendo dall’esperienza del suo genere e del suo corpo sessuato, legge e accede al mondo. Cercavamo uno strumento per guardare sotto alla realtà delle nostre ricerche; per interrogarci su quello spazio posizionato, fisico e sociale, da cui si guarda il mondo e da cui, viceversa, il mondo guarda a noi. Più di una sensibilità, qualcosa che ci tocca da vicino, che tocca da vicino le nostre ricerche, le esperienze di campo, la nostra scrittura. Qualcosa da cui non si può prescindere, o comunque di non trascurabile. Un punto di partenza per noi obbligatorio che ci avrebbe portate altrove. Dire angolatura, luogo specifico o posizionamento non significa dire immobilità. Piuttosto eccentricità. Il soggetto eccentrico, caro alla riflessione femminista, è un “soggetto che contemporaneamente risponde e resiste ai discorsi che lo interpellano, e al medesimo tempo soggiace e sfugge alle proprie determinazioni sociali. Un soggetto capace di d i s a ffiliarsi dalle sue stesse appartenenze e conoscenze acquisite” (de Lauretis 1999:8), critico verso le posizioni dominanti e minoritarie con pretese egemoniche. Genere non è un concetto lineare, che lascia tranquillo il mondo. Al contrario, fa emergere le gerarchie di posizioni e le subalternità. Abbiamo ripensato al genere come pensiero della differenza o della costruzione della differenza; ancora di più, come modo per comprendere come queste differenze, una volta assunta forma reale, si esprimano in gerarchie. Abbiamo discusso di come la prospettiva di genere guardi al potere quasi sempre da posizioni subalterne o marginali, senza confonderle con posizioni di vittime. Come sguardo sul mondo, questa prospettiva è consapevole che il potere dipende sempre da che parte lo si guarda. Come metodologia, consente di cogliere aspetti del potere sconosciuti a chi guarda le sue dinamiche solo dalla parte del dominio. “Questo mio modo di vedere il mondo è sconosciuto agli oppressori”, scriveva bell hooks (1998:68), e anche a chi, pur andando a cercare nel margine, rimane coinvolto solo dalla prospettiva dell’oppressore. Il genere, infine, è anche una grammatica, perché è attento ai modi di rappresentare e costruire categorie, consapevole che queste operazioni sono sempre operazioni di potere. Abbiamo dedicato molto tempo alla decostruzione del termine genere. Ci siamo ripetute che genere è cosa ben diversa da donna/donne, ed è invece un sistema di relazioni, un principio strutturante il mondo, un elemento imprescindibile nella costruzione delle soggettività. Abbiamo ripreso fra le mani scritti quasi classici come il testo Chandra Mohanty (1988) e visto che la subalternità, come il potere, non è una categoria ma una stratificazione di posizioni e che il potere risulta diversamente distribuito anche fra soggetti marginali. Esistono 10 ACHAB D oss i e r De genere diversi modi di essere soggetti femminili e disparità di potere fra donne. La stessa relazione fra antropologhe e soggetti della ricerca che si instaura sul campo ne è testimone. Autrici come Gayle Rubin (1975) e Judith Butler (1996) ci hanno aiutate ad includere tra gli assi di discriminazione non solo la razza, la classe sociale, il capitale economico e simbolico ma anche l’orientamento sessuale e ad interrogarci sull’instabilità e sull’inconsistenza delle categorie di maschile e del femminile. Abbiamo letto Barbara Duden (2003) e fatto amara chiarezza sulle tirannie che toccano da vicino i nostri corpi e le nostre vite di donne nelle società in cui viviamo. Abbiamo inoltre discusso di posizionamento, agency, resistenza, rituale, ripetizione, soggetto, corpi, corpi naturali e corpi culturali, poteri, complicità e collusioni, pratiche, parole, scostamenti fra discorsi e pratiche. Ad ogni incontro si riproponevano in chiave diversa questi e altri temi, che chiedevano di aggiungere elementi per definirli oppure, al contrario, una chiusura semantica, una sintesi. Spesso, ad un certo punto della discussione, qualcuna sosteneva che forse quel concetto era meglio fermarlo, provare a definirlo. Capire quale pezzo stava aggiungendo alla nostra volontà, e forse difficoltà, di definire cosa significa avere una prospettiva di genere. Piene di interrogativi sui luoghi sociali, politici e anche fisici che noi, i nostri corpi occupiamo e che, a loro volta, le donne e gli uomini coinvolti nelle nostre ricerche oppure incontrati nella letteratura occupano, abbiamo poi compreso che non solo cercavamo il significato del genere come prospettiva, ma che ci chiedevamo cosa questa prospettiva ci avrebbe fatto vedere, e in che modo ci avrebbe portate a rimettere in discussione la teoria. E noi, cosa avremmo voluto restituire una volta fatta nostra questa chiave di lettura? Quello che cercavamo era una metodologia di ricerca che non spogliasse le persone delle loro d i fferenze e storicità, capace di accettare al contrario le molte identità e frizioni, pronta a riconoscere le differenze senza eliderle o gerarchizzarle. Una metodologia in grado di accompagnarci in un’avventura della contraddizione e della complessità. Questo punto è importante per capire il contributo che a nostro avviso l’antropologia - e ancor più nello specifico il sapere etnografico – dà agli studi di genere, e viceversa per comprendere che cosa una prospettiva di genere restituisce a chi, nelle vesti di antropologa o di antropologo, cerca di comprendere pezzi di mondo e le dinamiche delle sue gerarchie. Per la sua natura metodologica, l’etnografia guarda sotto ai linguaggi dominanti (Hodgson 2001). Le relazioni che si costruiscono sul campo e il materiale esistenziale a cui si accede grazie a queste relazioni fanno scoprire esperienze, parole e pratiche con cui donne e uomini sfidano le reti di potere in cui sono coinvolte. Così, raccontano le antropologhe femministe, l’etnografia diventa un “prisma attraverso cui accedere e analizzare le voci, le esperienze, l’agency spesso mute delle donne” (Hodgson 2001:17). L’etnografia non parla della donna come categoria astratta, come un fantasma svuotato della sua materialità e della sua storia. Parla invece di quella donna, o di quelle donne o quegli uomini, che con le loro storie reali e i loro corpi vivono l’esperienza di essere soggettività di genere come qualcosa di non innocuo. Per questo motivo abbiamo pensato di restituire, e anche di restituirci, attraverso la scrittura alcune delle nostre esperienze etnografiche. Nello scrivere di discorsi religiosi (Paola Abenante), rituali (Alessandra Brivio; Federica Riva), simbolismi della natura e del corpo (Arianna Cecconi), migrazioni (Sara Bramani; Laura Menin), tecnologie (Sara Zambotti), arte (Fiammetta Martegani) e retoriche di genere (Helen Ibry) ognuna è stata pronta a cogliere il potere nelle sue diverse epifanie che le soggettività coinvolte nelle ricerche vivevano, incorporavano, combattevano. Questa attenzione alle manifestazioni più o meno immediatamente visibili del potere non si è però espressa in una narrativa della vittimizzazione delle donne incontrate. Questa nota è importante per comprendere l’analitica del potere e il processo di costruzione delle soggettività che abbiamo lentamente messo a punto nei nostri incontri, senza arrivare ad un loro completamento e lasciandole piene di dubbi e sfumature. Nelle pagine che seguono è assente uno sguardo romantico sulla resistenza - una parola oggi spesso abusata, lasciata priva di una genealogia teorica e vuota di materiale esistenziale come di esperienza. Vi è, invece, attenzione alle soggettività, alle forme di complicità oppure di collusione al potere, di modi di maneggiarlo, raggirarlo, subirlo. Vi sono, più semplicemente, nomi di persona e pratiche di vita quotidiana che mostrano il funzionamento della gerarchie. Come donne e come antropologhe siamo consapevoli che il potere prima di produrre forme di sovversione e resistenze, produce marginalità. Poi la marginalità si fa o può diventare resistente, o meglio può cercare modi, vie, pratiche, parole, silenzi che rimuovono la subalternità, o che tentano di farlo. E a chi sta sul campo, tocca coglierle e registrarle. Questa metodologia si arricchisce di un doppio livello di analisi che lega il potere alla marginalità e la marginalità alla resistenza. Così intesa, l’analisi di genere più che parlare di forme di resistenza e di a g e n c y, non perde di vista il funzionamento della relazione di dominio, e anzi la esplora mostrandone la sua dimensione più processuale e pervasiva. Carica anche delle nostre letture e delle singole esperienze di ricerca, questa metodologia definisce le soggettività come appartenenti ad un genere, ma soprattutto come dipendenti dalle relazioni che si instaurano fra generi diversi. Nello specifico di queste ricerche, modi e livelli di socializzazione fra donne e relazioni fra ambiti maschili e femminili hanno un peso importante. Nonostante, inoltre, il genere sia considerato imprescindibile nel processo di costruzione delle soggettività, altri assi di differenza vengono a definirle. Multipositioned gendered subjectivity, è la giusta espressione inglese a noi quasi intraducibile. Significa che ogni soggettività assume simultaneamente e nella sua storia diverse identità fra loro anche contraddittorie, e diversi assi di differenza, pratiche e discorsi la attraversano e ne definiscono i posizionamenti. Occupa, inoltre, una posizione meno chiara e netta rispetto all’asse potere/resistenza. E’ un soggetto meno 11 ACHAB Do s si e r De genere puro, dice de Lauretis. Meno puro perché la relazione fra egemonico e subalterno non è dicotomica, né polarizzata. Consapevole che stare a margine, significa anche stare al centro di qualcosa d’altro. Il potere diventa un sistema di oppressioni concatenate e la soggettività di cui parliamo non è una soggettività coesa, ferma in una posizione o in un’identità, priva di potere. E’, al contrario, eccentrica e in possesso di un suo sguardo sul mondo, anche quando è marginale. Allora, è importante cogliere non solo la dimensione processuale del potere e della costruzione delle soggettività, ma leggere come processuale la relazione fra i due al fine di coglierne le sfumature, i momenti di rottura, di collusione e ambiguità; i modi con cui a vicenda si riassorbono, mostrandosi sotto altri aspetti, senza polarizzarsi sugli estremi dominio/resistenza I testi che seguono sono delle etnografie. Con un linguaggio vicino all’esperienza parlano di poteri e delle loro manifestazioni, di marginalità e sovversioni che le persone vivono e producono per via della sessuazione dei loro corpi, dei discorsi sui corpi e delle retoriche sui generi spesso nascoste nei fili egemonici di altri discorsi. In alcuni casi sono il risultato di ricerche di donne sulle donne. In altri, le autrici, prendendo spunto dal seminario, hanno invece cercato di rileggere alcuni elementi della propria esperienza di campo in una prospettiva di genere. Tappe di un percorso che intendiamo portare avanti, sono un primo tentativo di tradurre in scrittura etnografica la riflessione collettiva sulla metodologia. Parlano di donne ma non si fermano a questo. La prospettiva di genere va, infatti, a cercare i segni tangibili delle esperienze, le contraddizioni e le rotture delle soggettività e dei poteri; sa che la dinamica gerarchica del genere, che include anche il suo sovvertimento, è tradotta in discorsi a volte acclamati e più spesso sussurrati; è nelle dinamiche più invisibili, nelle trame della vita quotidiana e negli spazi più intimi. [email protected] [email protected] Bibliografia Butler Judith, 1996, Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Milano, Feltrinelli; ed. or. 1993, Bodies that Matter: on the Discoursive Limits of Sex, London, Routledge. de Lauretis Teresa, 1999, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli. Duden Barbara, 2003(2), Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita, Torino, Bollati Boringhieri. Hodgson Dorothy L., a cura, 2001, Gendered Modernities. Ethnographic Perspectives, New York, Palgrave. hooks bell, 1998, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano, Feltrinelli; ed. or. 1991, 1992, 1994, 1996. Mohanty Chandra Talpade, 1988, "Under Western Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourses", Feminist Review, 30, pp 61-88. Rubin Gayle, 1976, “Lo scambio delle donne: una rilettura di Marx, Engels,Lévis-Strauss e Freud”, in: DWF, pp. 23-63; ed. or. "The Traffic of Women: Notes on the Political Economy of Sex" in R. R. Reiter, 1975, Toward an Anthropology of Women, p. 157-210. Rubin Gayle, Butler Judith, 1994, "Sexual Traffic: An Interview," Differences, 6, "More Gender Trouble: Feminism Meets Queer Theory", pp. 62-99. 12 ACHAB Do s si e r De genere Non rompere il cristallo Voci di donne e uomini attorno alla delicatezza di Paola Abenante Un tempo un uomo cantava al Profeta, la pace sia con Lui, e la voce dell'uomo era piena di grazia, e il Profeta, la pace sia con Lui, disse: abbassa la voce cantante, non rompere il cristallo1. Un hadith attribuito al Profeta durante un viaggio nel deserto: la carovana procede ritmata dal passo del cammello e dall'inshad/canto di una bella voce. Il profeta teme che la forza della voce del cantante possa frantumare come un cristallo la delicata anima delle donne che lo accompagnano. Un cenno alla delicatezza della donne, che si incorpora in una convinzione naturalista: la donna è raqiqa, delicata. L'aggettivo è sempre presente nelle parole dei confratelli e delle consorelle che ho frequentato al Cairo nel corso della mia ricerca sul sufismo egiziano2. Le retoriche sulla delicatezza definiscono lo sguardo sulla donna e della donna, il ruolo del femminile nel percorso sufi e la natura, tabia, del femminile. Sulla delicatezza femminile, suggerita dal testo sacro, si costruiscono discorsi che diventano senso comune e si intrecciano con gli eventi della vita quotidiana, dando vita a pratiche e ad azioni individuali per gestire la forza e la debolezza del femminile3 nei rapporti sociali. Il senso della delicatezza Associata all'emotività femminile, la raqiqa è un indice della necessità da parte dell'uomo di prendersi cura della donna, in quanto l'uomo è un essere più razionale, dotato di più aql/ ragione. La donna, delicata, è maggiormente esposta al pericolo materiale e spirituale perciò, in alcune interpretazioni radicali, è aura, ovvero 'da nascondere', e va nascosta nella sua materialità. Il corpo deve essere protetto con indumenti che coprano ogni sua visibile debolezza, la voce il più possibile dissimulata. Dal punto di vista sufi la raqiqa è piuttosto un dono di spiritualità. La maggiore emotività femminile favorisce l’elevazione spirituale ed è segno di un corpo interiore più sensibile rispetto a quello maschile4. La tradizione sufi considera l'emotività come il fondamento del cammino del mistico verso Allah, un percorso che progredisce attraverso stadi sempre più alti di amore, mahabba. Il rapporto con il creato è un rapporto di amore che procede attraverso diversi stadi emotivi: miil, ovvero la predisposizione nei confronti dell'amato; raghba il desiderio della presenza fisica; thalab, la richiesta della presenza; ualh, la confusione mentale a causa del costante pensiero rivolto verso l'amato; shawq, il desiderio carico di ansia; hawa, la 'caduta' nel sentimento di amore che porta con sé debolezza d'animo; shaghaf, la passione che implica l'immedesimazione nei desideri dell'amato; gharam ovvero l'amore incondizionato e infine 'ashq che implica l'immedesimazione completa nell'amato. Tutti questi stadi dell'amore sono presenti nella dimensione batini, ovvero interiore, di ogni donna e uomo, pur essendo attenuati e a volte nascosti dagli interessi sollecitati e coltivati nel mondo esteriore e materiale dello zahir. Il cuore infatti, sede dell'amore, viene velato dalle nafs, le anime che patiscono il materiale e attraverso cui la donna e l'uomo si relazionano al mondo esterno. Le nafs sono sette anime che ogni bambino sviluppa con la crescita, nel suo relazionarsi col mondo esteriore, fenomenico e visibile, fatto di materia e razionalità, lo zahiri5. Queste anime appesantiscono il corpo poiché indirizzano tutta l'attenzione dell'individuo verso scopi materiali, sollecitando le passioni corporee, i desideri o shahawat: così il corpo si materializza nei bisogni della vita quotidiana. La materialità del corpo costituisce un ostacolo per il raggiungimento dell'elevazione spirituale, un ostacolo all'emotività pura e slegata dalle passioni terrene e corporee. La donna possiede, secondo un senso comune sotteso dall'interpretazione del Corano, una maggiore predisposizione alla vita emotiva perché solitamente è meno impegnata nel mondo del lavoro e il suo h a l, ovvero la sua 'intenzione' può concentrarsi sull'emotività piuttosto che sul mondo esteriore e sui bisogni materiali. La donna inoltre, in quanto madre, ha in sé la predisposizione all'immedesimazione completa, lo ‘ashq, nel creato. Dal punto di vista delle donne e degli uomini stessi con cui ho parlato, questo significa una predisposizione maggiore all'interiorità, al batini. Attraverso questo discorso sull'invisibile e sull'interiore, che si incarna nella raqiqa, i confratelli che ho frequentato ri-articolano due concezioni predominanti nel discorso musulmano: il significato della differenza fisica e naturale tra uomo e donna, suggerita dalla tradizione religiosa e l'importanza del disciplinamento corporeo nella formazione del musulmano virtuoso. Dal punto di vista islamico il concetto di uguaglianza tra uomo e donna non ha senso. Sulla base di alcuni versetti del Corano e di numerosi hadith della sunna6, uomo e donna vengono concepiti come due esseri alternativi, dal punto di vista naturale, tabia, e dunque dal punto di vista dei loro ruolo sociali. 13 ACHAB Do s si e r De genere Sulla scorta di alcuni hadith, molti commentatori religiosi hanno fondato una diffusa concezione per cui la donna è caratterizzata da una sfera emotiva decisamente predominante rispetto a quella razionale dell'aql.7"Le donne sono state create dalle costole" e "sono come costole"8 sono solo due modi differenti per dire la stessa cosa. Il Profeta ha usato una parabola per spiegare la delicatezza della natura della donna, mettendo in evidenza che dovrebbe essere trattata in accordo con la sua natura. La sua costituzione delicata ed emotiva dovrebbe essere sempre tenuta a mente. Per via della debolezza fisica, della delicatezza emotiva e della vulnerabilità delle donne, gli uomini sono incaricati di esserne i guardiani. "Men are appointed guardians over women, because the men which Allah has made excel others, and because the men spend their wealth. So virtuous women are obedient and safeguard, with Allah's help, matters the knowledge of which is shared by them with their husbands"9 La particolare concezione della dimensione interiore ed emotiva della religione che si ritrova nella confraternita sufi che ho frequentato durante questo ultimo anno al Cairo, inverte tale dicotomia maschile-razionale versus femminile-emotivo, cercando di sviluppare il lato emotivo e delicato dell'uomo. Una mia conversazione con Issam, un giovane ma esperto sufi di 35 anni, a proposito di film che abbiamo visto insieme, esprime il punto di vista di un uomo che ha sviluppato le sue sensibilità. Il film Heya Fauda, diretto da un famoso regista egiziano, tratta la storia di un poliziotto corrotto, che usa violenza a una donna di cui è inverosimilmente innamorato e che da tempo lo rifiuta. Dal film, mi dice Issam, si può comprendere come anche un uomo sia capace di grandi sentimenti, ma anche come la materialità delle sue passioni e gli obblighi sociali lo distolgano dal coltivarli nella maniera corretta. Il risultato spesso si risolve in una esternazione sbagliata di tali sentimenti. Issam mi rivolge così un invito alla riflessione che sul momento mi lascia piuttosto perplessa. Solo più tardi comincio a comprendere, seppure non a giustificare. Mi spiega che non posso comprendere il significato del film se ragiono esclusivamente sullo svolgimento lineare della trama. La materialità degli eventi, il lato maddi, come mi dice, si può seguire solo con la ragione, tuttavia questa non può portarmi alla comprensione del significato profondo. Devo cogliere i segni, mi spiega, che il protagonista lancia e che sono simboli di una dimensione emotiva forte e ancora informe. Se il sentimento di questo poliziotto corrotto fosse compreso e nutrito con gli strumenti adeguati prevarrebbe sulle esigenze materiali dell'uomo. L'obiettivo di ogni uomo è di liberarsi della propria predominante materialità -che, attraverso uno slittamento semantico, rappresenta anche la materialità del pensiero razionale- e di aumentare le propria sensibilità emotiva. Ogni mezzo è valido, compreso l'amore per una donna, per nutrire il proprio panorama emotivo. L'emotività infatti è il fondamento del cammino del mistico verso Allah e il discepolo, in particolare se uomo, deve lottare per liberarsi dalle anime passionali che rendono pesante la materia del corpo. Il materiale è il maddi che si può comprendere attraverso la logica della parola; l'emotivo è invece il manaui, l’immateriale, che segue una logica simbolica dove gli eventi si comprendono empaticamente e in cui la vita sociale procede per assonanze emotive. Questo discorso sull'interiorità assume il suo significato particolare nel contesto storico-politico attuale del Cairo, dove è in corso una battaglia simbolica sulle forme della fede musulmana. Non è questo il luogo per spiegare a fondo il contesto sociale ma basteranno alcuni cenni per chiarire i riferimenti concreti di questo discorso sull'interiorità e per comprendere come si inserisca nel discorso, attualmente molto diffuso nella sfera pubblica egiziana, riguardante il disciplinamento corporeo del musulmano vistuoso. L'insistenza sulla dimensione interiore/batini della fede assume senso in contrapposizione alla definizione di una fede ostentata, eccessiva ed esteriore e che i miei interlocutori definiscono wahabita, in senso denigratorio. Nella società egiziana contemporanea domina una concezione sunnita, o wahabita secondo i sufi, dell'islam. Parte delle concezioni di questa forma di islam vengono dall'esterno e hanno preso piede stabilmente nella società e nella sfera pubblica egiziana a partire dagli anni '70, ovvero da quello che viene definito il periodo Saudita. Una forma di islam, questa, molto legata al disciplinamento esteriore del corpo che avviene attraverso il rispetto rigido delle norme rituali obbligatorie e super-erogatorie( volontarie); legata a un'accortezza alla forma visibile della virtù musulmana, espressa in particolare dagli indumenti e dalla distinzione nel comportamento di genere. In alcune delle sue inflessioni più radicali si oppone strenuamente al sufismo e alle sue manifestazioni, in quanto forma eterodossa della religione. La contrapposizione tra le due forme di islam si sviluppa attorno alla dimensione corporea che diventa il sito su cui si pongono e si negoziano i confini della legalità e della moralità delle pratiche religiose10. Shaykh Ali, un sufi che a lungo si è dedicato a spiegarmi la storia della confraternita, è molto chiaro nel definire l'inutilità di alcune pratiche legate a una forma esteriore e superficiale di religiosità: … una volta parlavo con un wahabi. Gli ho detto che la sua barba lunga era solo una forma di sunna shakliyya. Lui mi ha risposto che lo aiutava a tenersi lontano dalle donne e dal peccato… così gli ho risposto: in questo modo adori la tua barba, non Allah. (enta keda btobood el daqn, msh Allah) [intervista a Shaykh Ali, 01/2007] Questa citazione suggerisce come il disciplinamento del corpo, in questo caso esemplificato dalla barba lunga, elemento della sunna del Profeta quindi comportamento consigliabile per il musulmano virtuoso, sia considerato da Shaykh Ali uno strumento che distoglie dal vero obiettivo della fede. È solo sunna shakliyya dice, in senso denigratorio. Ovvero è solo una sunna legata all'apparenza, cui non corrisponde un grado equivalente di elevazione spirituale. Questo discorso dell' islam wahabi colonizza progressivamente la sfera pubblica, guadagnando spazio e potere nella formazione della moralità pubblica egiziana; la confraternita si posiziona in questo contesto rifiutando, da un punto di vista discorsivo, la dimensione esteriore della religione, definita in maniera 14 ACHAB Do s si e r De genere peggiorativa come shakliyya, dell'apparenza, e che si concretizza nel disciplina visibile del corpo, a vantaggio della dimensione interiore e emotiva, il batin, considerata come la vera dimensione morale dell'islam. Contemporaneamente, un secondo discorso di potere si interseca al discorso wahabi: il discorso di potere dello stato. In relazione a quest’ultimo, il discorso sull’interiorità veicola una seconda necessità di distinzione da parte della fede sufi, oltre alla distinzione sopracitata nei confronti del wahabismo. Il sufismo, infatti, ha subito dagli anni '70 in poi una stretta normalizzatrice da parte dello stato. Il governo di Sadat ha imposto norme allo svolgimento dei rituali sufi per venire incontro alla nuova moralità pubblica che cominciava a diffondersi attraverso la da'wa (predicazione) sunnita/wahabita. La stretta legale e la diffusione della moralità wahabita in molti ambienti della società egiziana hanno indotto le confraternite sufi a dissimulare le proprie pratiche. Di fronte alla necessità di dissimulare socialmente la pratica della propria fede sufi, la confraternita che ho maggiormente seguito ha sviluppato una retorica che, appoggiandosi alla dicotomia zahir/batin, esteriore/interiore, lega l'esteriore, il corporeo, la manifestazione visibile della fede, allo zahir, considerandolo l'aspetto più superficiale dell'islam. Per i confratelli, evitare lo zahir, il visibile e materiale, risponde a una duplice esigenza di distinzione e di inclusione: distinzione rispetto al wahabismo e inclusione nella normalità imposta dallo stato attraverso la dissimulazione delle proprie pratiche, considerate talvolta eterodosse e immorali. L'intrecciarsi di questi discorsi e di queste rappresentazioni politico-religiose può essere letto attraverso una prospettiva di genere, dove il genere diventa, in senso più ampio, uno strumento con cui cogliere i rapporti di forza, al di là dell'esclusivo gioco di potere eventualmente presente fra i sessi ma che ad esso si sovrappone: l'aql, il razionale, il maschile, il materiale, la logica della parola si sovrappongono o meglio si confondono inscindibilmente con la sfera pubblica e con l'islam pubblicamente diffuso e accettato, quello sunnita/wahabita, il quale si incarna nella forma visibile del corpo esteriore; l'emotivo, l'irrazionale, il femminile e l'immateriale e il simbolico costruiscono la sfera interiore, batini, sacra dell'islam sufi, la quale si dispiega invece in un corpo interiore fatto di emotività. In questo rapporto di forza i confratelli ripropongono tutti i rischi e la forza dirompente propria della femminilità in molta tradizione testuale islamica: in particolare il rischio per il sufismo di essere definito impuro e viceversa la forza dettata dalla sua pericolosità rispetto all'ordine sociale acquisito. Il sufismo propone una manifestazione della religiosità che mette in discussione le basi materiali e corporee e di genere della forma religiosa. Voci di uomini e il racconto della delicatezza La raqiqa femminile, simbolo dell'interiorità e dell'emotività, sembra acquisire, nell'ambito dei discorsi della confraternita, una valenza simbolica che rovescia i rapporti di forza nelle relazioni di genere. Il discepolo sufi deve liberarsi della propria dimensione razionale per giungere a comprendere le verità della fede. Per raggiungere la haqiqa, la verità, il discepolo attraversa, a un livello simbolico, una femminilizzazione in quanto inverte le dicotomie interioreesteriore, privato-pubblico, emotivo-razionale che si richiamano tutte alla dicotomia fondamentale del femminile e del maschile secondo molti dei commentatori del Corano11. Contemporaneamente il discorso sulla donna attribuisce al femminile una naturale e maggiore predisposizione al cammino spirituale in quanto la donna è r a q i q a, delicata. La stessa tradizione islamica viene ripresa e ri-articolata in maniera opposta rispetto alle interpretazioni considerate dai miei interlocutori come radicali: la debolezza, l'emotività della donna, piuttosto, rappresentano il suo elemento di forza, in quanto le permettono di essere naturalmente predisposta verso l'abbandono della componente razionale a vantaggio di quella emotiva. La donna e il femminile nel sufismo hanno, a parole, un grande vantaggio. Ma ancora una volta siamo nel regno del discorsivo e delle rappresentazioni. Nella concretezza delle pratiche la differenza di genere si re-incarna. Il corpo, nonostante sia negato dalla retorica sufi, non scompare nella pratica, piuttosto acquisisce una posizione diversa e attorno ad esso si costruisce un discorso alternativo rispetto alla tradizione islamica diffusa dal wahabismo: da corpo materiale, maddi, diventa corpo interiore, manaui, intangibile tuttavia importantissimo. Inoltre se tralasciamo i discorsi con cui la confraternita rappresenta la propria forma di fede e consideriamo le pratiche quotidiane, il corpo diventa il luogo in cui si articola nuovamente quella d i fferenza di genere che sembra invece essere sfumata nei discorsi. La seguente descrizione delle pratiche legate al rituale principale della confraternita servirà proprio a re-incorporare questi discorsi. Il rituale collettivo del giovedì, la hadra, rappresenta il momento culminante del percorso di avvicinamento agli Shaykh, i maestri della confraternita. Ogni settimana i confratelli praticano il dhikr, ovvero la ripetizione del nome di Allah. Gli uomini si dispongono a ferro di cavallo attorno ad un cantante (munshid) che intona le qasaid, poesie mistiche scritte dal santo della confraternita, e ad un uomo preposto a ritmare, attraverso il battito delle mani, il canto del munshid e il dhikr corale che si leva dalle voci degli altri uomini. Il dhikr è associato a dei movimenti del busto che oscilla lateralmente e frontalmente. Le voci, i corpi, le mani, la respirazione seguono un ritmo crescente che culmina in un battito specifico e che conduce i partecipanti nel wagd, ovvero nell'estasi. Lo scopo della hadra è di dare accesso, a coloro che vi partecipano, al mondo del batin, dell'interiorità. Le donne, in una stanza separata, ascoltano il suono della hadra e pronunciano il dhikr a bassa voce dal fondo delle loro sedie. La hadra rappresenta il climax della vicinanza agli Shaykh in quanto il canto chiama, letteralmente, gli Shaykh per nome, invitandoli a presiedere con il loro spirito al rituale. Così ciascuno confratello ha la possibilità di gustare la vicinanza fisica degli Shaykh e 15 ACHAB D o ss i er De genere procedere speditamente nella via della scienza mistica tramite l'incorporazione della baraka (grazia) dei santi. Tuttavia la gestione di questo rituale deve essere attentamente controllata, altrimenti rischierebbe di complicare notevolmente la posizione pubblica della confraternita. È necessario che i confratelli, così scrive lo Shaykh nello statuto della confraternita, non si lascino andare a manifestazioni emotive non controllate che potrebbero generarsi attraverso la hadra. La hadra ha infatti come scopo di alleggerire la materialità del corpo attraverso la sollecitazione della natura emotiva dei partecipanti: la hadra parla al cuore e permette ai partecipanti di separare lo spirito sottile dalla carne passionale. Lo spirito si eleva dal corpo ma questa elevazione deve rispettare le norme e la guida dei direttori della hadra e dello Shaykh. Sconsigliati se non riprovati, sono gli stati di hal, ovvero di estasi con perdita di coscienza. Le donne, che per loro natura, hanno un corpo più leggero e una sfera emotiva più forte, non devono partecipare attivamente alla hadra ma limitarsi ad ascoltarla, altrimenti si verificherebbe una separazione definitiva e pericolosa dello spirito dal corpo. Da questo abbandono non controllato agli stati emotivi derivano malattie dell'anima di varia entità: l'anima potrebbe abbandonare il corpo per un periodo oppure definitivamente, facendo 'impazzire' il fedele, oppure un eccesso di ritualità non guidata dallo Shaykh potrebbe portare i praticanti in contatto con i jinn12: il mondo del batin è estremamente ampio e vario, popolato da entità spirituali di varia natura e non tutte facilmente gestibili. Se il rapporto con il mondo del batin non è attentamente regolato e guidato da un esperto, sempre uomo, può aprire porte che una persona poco esperta non saprebbe gestire e può anche capitare che venga posseduta da un jinn. Dunque è proprio quando rientra il corpo che si manifesta nuovamente il luogo dove si articola il potere della fede maschile sulla fede femminile. La donna ha un percorso diverso rispetto a quello dell'uomo all'interno della confraternita. Il suo percorso prevede un numero inferiore di litanie da pronunciare e una dipendenza dal marito nella gestione di tali litanie. La sua presenza al rito settimanale, la hadra, non è indispensabile. La donna infatti ha naturalmente un corpo più leggero e la hadra è un processo di alleggerimento dei corpi: Mohamed, un insegnante all'interno della confraternita, mi dice che gli uomini hanno bisogno di defatigare il corpo per poter concentrarsi sui sentimenti, invece la donna è naturalmente predisposta al pensiero emotivo. Il praticare fisicamente la hadra potrebbe risultare addirittura nocivo per le donne. La hadra ha infatti delle limitazioni concrete alla partecipazione femminile: la donna può solo assistere da seduta, la sua voce nel pronunciare il dhikr deve essere bassa, le è interdetto di cantare pubblicamente, e in ultimo non deve chiudere gli occhi quando partecipa al rito. Coloro che lo fanno sbagliano, mi dice Mohamed, nel tentativo di imitare gli uomini. C'è un rischio molto forte che si perdano nel mondo dei sensi. Mi sono chiesta cosa potesse rappresentare questo rischio nella vita quotidiana e nel corso dei miei incontri con Issam, ho avuto una risposta che mi ha aiutata a rileggere alcuni eventi cui avevo assistito. Issam mi dice che le donne non possono eccedere nella vita spirituale, altrimenti corrono il rischio di abbandonare i propri obblighi domestici per rimanere nella dimensione interiore del batin. Il rischio è che prendano possesso della sfera dell'immaginario, legata inscindibilmente alla crescita emotivospirituale. Gli stadi di amore del discepolo sufi sono infatti in relazione reciproca con la costruzione di un corpo interiore che è fatto di nuove capacità sensoriali acquisite dal cuore e che espandono lo spazio del sé, aprendolo all'immaginario. Questo corpo spirituale è costituito da nuovi sensi spirituali: ogni qualvolta una nafs, anima passionale e legata alla materia, abbandona il corpo, viene sostituita da una nuova capacità sensoriale. Al primo livello di amore il discepolo perde la nafs amara (che impartisce ordini) e comincia ad acquisire, progressivamente le diverse abilità della basira, l'occhio interiore. I diversi gradi di manifestazione sono: ilhaam, la capacità di prevedere il fututro; manaam, la capacità di vedere in sogno; tanuiir, kashf, fatah qarib, fatah mubiin and fatah mutlaq che sono tutti livelli successivi di 'visione' attraverso cui il discepolo riesce a cogliere il significato interiore-batini di ciò che gli accade attorno. A un più alto livello di amore il discepolo perde la nafs alluama (la nafs che dà vita al senso di colpa) e acquisisce la samia, l'abilità di sentire con le orecchie del cuore. Poi la nafs el mulhama (orgoglio) cede il posto alla capacità della mutakallima, ovvero un parlare guidato dalle emozioni. Nel momento in cui le nafs-anime passonali abbandonano il corpo, che quindi si allontana dalla materialità dei bisogni esteriori, gli aggettivi sensoriali come la basira (la capacita visionaria) e la samia ( la capacità di ascoltare con le orecchie del cuore) prendono il loro posto e completano il corpo interiore del discepolo, ampliandone le capacità sensoriali e ampliando di conseguenza lo spazio immaginario del sé. Tutte queste nuove abilità sono in relazione direttamente proporzionale con i livelli di mahabba: più alto il grado di amore, maggiore diventa la capacità di vedere attraverso la basira, di sentire tramite la samia e così via. La donna, avendo una maggiore predisposizione all'emotività, in quanto raqiqa, acquisisce più velocemente e stabilmente questi sensi spirituali. La capacità femminile di avere visioni e percezioni spirituali non è ostacolata dalla materialità degli impegni mondani e lavorativi, così mi dice Issam, dunque la donna ha un rapporto più continuo con la sua dimensione batini, interiore. L'uomo al contrario è continuamente distratto dagli obblighi mondani dunque continuamente riportato alla materialità dell'esistenza esteriore. Per evitare però il rischio che questo contatto costante col mondo spirituale, cui la donna ha accesso, la allontani dai suoi doveri sociali di madre e di moglie, la gestione della ritualità è dunque per lo più responsabilità degli uomini. Voci di donne e la pratica della delicatezza Allo stesso tempo, le pratiche legate alla gestione di questo nuovo corpo interiore danno accesso a uno spazio dell'immaginario spirituale che apre nuove possibilità di azione. Se ancora una volta è l'aql (razionalità) maschile che decide i limiti della progressione femminile e gestisce materialmente i tempi dei riti e la fruizione dei testi scritti delle litanie, lo spazio orale o meglio 16 ACHAB D oss i e r De genere sensoriale, costruito attorno al corpo interiore, è fluido e aperto alla contrattazione grazie alla sua immaterialità. Nella pratica della ritualità, al di fuori dei contesti più strutturati, a volte alcune donne trovano uno spazio di agency e di rovesciamento del discorso maschile. La storia di Lamia, che racconto brevemente qui di seguito, ne è un esempio. Lamia è una donna di 43 anni, entrata nella confraternita da ormai 20 anni. Siamo diventate nel tempo molto amiche e mi racconta di come abbia perso il marito due anni fa, a causa di un tumore e di come sia solitaria la vita di una donna senza amore. Spesso al suo ritorno dalla scuola in cui insegna musica ci troviamo a guardare assieme film romantici e a parlare di come il suo cuore si stia nuovamente riempiendo di amore e di come il suo senso di solitudine stia cedendo il passo alla forza di questo sentimento. Desidera, mi dice, sposarsi con Ahmed, un confratello molto legato alla tariqa. Il suo amore e la sua scelta sono però osteggiati dalla famiglia di Lamia e in modo particolare dalla madre, che da sempre ha organizzato le relazioni sociali di tutti e tre i suoi figli. Il netto disaccordo della madre di Lamia è dovuto principalmente a motivazioni economiche: Ahmed è un uomo divorziato, con due figli a carico, che non offre alcuna garanzia e soprattutto nessuna dote. La situazione non sembra trovare soluzione ma dopo poco scopro che Lamia e Ahmed hanno organizzato un matrimonio per la settimana successiva. Lamia mi descrive alcuni dei suoi sogni, luogo di ingresso per lei e per coloro che possiedono la basira, all'interno del mondo interiore. Durante i suoi sogni Lamia ha avuto un contatto diretto e ravvicinato con gli Shaykh. Ha parlato con loro, raccontando i problemi che negli incontri 'dal vivo' non era riuscita a raccontare. Gli Shaykh, e in particolare Siti Nadia, con cui Lamia ha un legame di amore molto forte, le hanno risposto distintamente in sogno di non preoccuparsi, di seguire il suo cuore poiché il matrimonio sarebbe stato una benedizione per la confraternita in quanto avrebbe unito due persone che offrono molti servizi alla confraternita e che assieme, i due, avrebbero moltiplicato esponenzialmente la loro utilità. Dopo una settimana Lamia e Ahmed si sposano con il consenso dello Shaykh; Lamia ha trovato il coraggio di opporsi al volere della madre oltre che alla norma consuetudinaria della dote. Attraverso le capacità visionarie del suo nuovo corpo interiore ha sovvertito un rapporto di forza sociale molto radicato, quello con la madre, oltre che una norma sociale, morale e religiosa. Nell'ambito della confraternita il matrimonio viene silenziosamente accettato. Sulla scorta di questo come di altri esempi, si potrebbe ipotizzare che all'interno della realtà costruita attorno alla cosmologia spirituale si dispieghi, per Lamia, uno spazio in cui si costruisce un'estetica della persona, nel senso di una rappresentazione di sé, quasi di 'resistenza'. La cosmologia spirituale, incarnata nel corpo interiore e nei suoi sensi, si presenta dunque come spazio strutturato che fornisce i quadri concettuali per parlare di relazioni di vicinanza, di amicizia, di amore - nei confronti degli Shaykh come dei confratelli-, che subiscono delle censure sociali nella vita quotidiana. Inserisco il termine 'resistenza' fra virgolette poiché il comportamento assunto da Lamia non resiste o contrasta con il discorso religioso costruito attorno alla femminilità. Piuttosto Lamia inserisce le sue azioni all'interno del discorso stesso sulla delicatezza e si rappresenta completamente all'interno di quel ruolo/immagine di sé promosso dal modello della delicatezza sufi. È grazie alla delicatezza del suo essere donna che Lamia ha acquisito le capacità sensoriali e visionarie per comunicare con gli Shaykh e con la sua dimensione emotiva, in maniera conforme al discorso religioso della confraternita. Infine, vorrei mettere in evidenza alcuni elementi che emergono dall'intrecciarsi di voci, pratiche e rappresentazioni della raqiqa. La raqiqa è un dono del carattere femminile sufi che però sembra andare oltre le distinzioni di sesso e di genere. Taglia trasversalmente il ruolo di donna, di figlia, di moglie, di fedele. Rappresenta un fulcro attorno a cui si dispiegano rapporti di potere che prendono in prestito il linguaggio e le pratiche di genere, così come il genere è inteso attraverso la tradizione testuale islamica. Nello spazio della sfera pubblica la raqiqa è un elemento di debolezza politica di fronte all'avanzare dell'islam wahabi ma allo stesso tempo di sovversione. Il sufismo rappresenta l'elemento debole, privato, invisibile che però è sovversivo in quanto si richiama pericolosamente all'amore/mahabba. E l'amore è la retorica principale del carattere nazionale dell'islam egiziano, così come lo percepiscono molte delle persone che ho intervistato. " L'islam in ogni paese ha delle radici - mi dice un giorno Mohamed, sufi fuoriuscito dalla struttura delle confraternite, e ormai autodidatta in segreto- in Egitto l'islam è entrato e si basa sulla mahabba" [intervista a Mohamed, 02/2008]. Sovversivo ancora perché dà spazio a percezioni e usi del corpo che sono al limite della legalità e moralità della shari 'a, così come sono interpretate e definite dalle attuali strutture di potere. Nello spazio della confraternita la raqiqa è un discorso e una pratica. Le voci femminili e maschili si sovrappongono nel definire i termini del discorso sulla delicatezza. Sia le donne che gli uomini affermano l'emotività, la debolezza fisica, la minore razionalità propria del carattere femminile, e sia le donne che gli uomini agiscono seguendo il desiderio di incorporare queste caratteristiche. Nelle pratiche, di fronte a questo desiderio, queste stesse donne e questi stessi uomini si trovano a dover affrontare situazioni conflittuali con varie strutture di autorità: quella statale e della sfera pubblica, nel caso della condizione pubblica della confraternita cui ho fatto riferimento; quella dell'istituzione familiare, come nel caso di Lamia. "Tuttavia questi conflitti non esistono solo come una forma di resistenza all'autorità maschile, e pertanto non possono essere compresi solo come tali." 13 Questi conflitti non possono essere compresi nei termini di una politica femminista di liberazione. Per comprendere il significato della raqiqa è necessario invece svincolarsi, come suggerisce l'antropologa S. Mahmood, da una interpretazione binaria delle pratiche della delicatezza nei termini di resistenza e subordinazione. Perché questa coppia non è "sufficientemente attenta a motivazioni, desideri e scopi che non sono necessariamente compresi in questi termini."14 17 ACHAB D oss i e r De genere Le donne e gli uomini della confraternita incarnano la raqiqa, a differenti livelli, e la agiscono nel rispetto del rapporto di subordinazione e di complementarità che la delicatezza incarna nei confronti della forza maschile dello stato e dell'aql/razionalità. Non c'è un tentativo volontario di emancipazione dai rapporti di potere. Tuttavia, nello spazio bianco che esiste tra la parola delicatezza e le pratiche sensoriali che nascono attorno alla delicatezza, si articola la possibilità di declinare questo discorso sul femminile sufi in maniera che il batin, l'interiore, abbia una ripercussione sullo zahir, la vita sociale. [email protected] Note 1. Hadith numero 5857 tratto dalla collezione Sahih al-Bukhari. Gli hadith sono i detti del Profeta. 2. La tariqa Burhaniyya è la confraternita che ho maggiormente seguito nel corso della mia ricerca al Cairo, che si è svolta nel 2007-2008 ed è tuttora in corso. Questa confraternita è di origine sudanese e la famiglia degli Shaykh che la dirige è sudanese. Si è diffusa ampiamente in Egitto negli anni 70-80 ed è diffusa anche in molti contesti europei. È molto diffusa negli ambienti della medio-bassa borghesia e molti dei confratelli lavorano come dipendenti statali. 3. Per femminile si intende la particolare concezione della donna presente in molta della tradizione testuale mistica islamica e in particolare nell'ambito di una confraternita sufi presso la quale ho svolto la mia ricerca di campo. 4. Il corpo interiore è il corpo b a t i n i, ovvero il corpo spirituale che è complementare al corpo esteriore e materiale o zahiri. La dimensione del batin, come spiega Ibn 'Arabi nelle sue Futuhat al Makkiyya, ospita un livello intermedio di esistenza tra lo zahir, che è la manifestazione fenomenologica del divino, ovvero il mondo materiale come noi lo percepiamo, e il livello più alto della luce divina. Chodkiewicz M., (a cura di), I b n 'Arabi. Les illuminations de la Mecque, Albin Michel, Paris 1997; Corbin H. L ' i m m a g i n a z io n e c rea t r ic e . Le ra d i c i d e l s u fi s mo , L at e rza , R o m a-B a ri 2 0 0 5 . 5. Il corpo interiore di ogni essere umano, secondo la tradizione sufi, è composto di uno spirito, ruh, e di sette anime, nafs appunto, che velano il cuore impedendogli di comunicare con lo spirito. Le nafs sono propriamente dei veli che oscurano la capacità visionaria e spirituale del cuore, ombrandolo di nero. Si acquisiscono nel corso dell'esistenza per via del rapporto carnale e passionale che si ha con il mondo. Attraverso la ritualità, i discepoli progressivamente 'svelano' il cuore da questa anime, liberandosi contemporaneamente dalle passioni carnali. 6. La sunna è la collezione dei detti e dei fatti del Profeta, che incarnano l’esempio della virtù musulmana. 7. Valerie J. Hoffman-Ladd Polemics on the segregation and modesty of women in contemporary Egypt “Int. J. Middle East Stud.” 19, 1987; 23-50 8. Collezione di hadith Sahih al-Bukhari, volume 7, libro 62, n . 113 Corano 4:35 9. Molte parte del regolamento sufi, promulgato dal Consiglio Nazionale Sufi, dietro approvazione del governo, riguarda i confini che le confraternite devono rispettare nella pratica dei rituali, nella vicinanza fisica fra uomini e donne, nella stessa espressione fisica e visibile del e pubblica del sufismo in occasione delle celebrazioni annuali dei Santi. Cfr. Luizard J P. Comment rationaliser l'irrationnel ou le droit positive au secours de la mystique organisée, 1991, 5 “EgypteMonde Arabe”, Cedej, Cairo e Abenante P. La tariqa Burhaniyya: una via dell'islam in Italia, in " Afriche e Orienti ", 3 (2004), pp.163-171 e Misticismo islamico: riflessioni sulle pratiche di una confraternita contemporanea, in " Meridiana ", 52 (2005), pp.65-94 10. Lo stesso antropologo A. Hammoudi nota questa inversione simbolica della mascolinità attraverso il percorso sufi. Poiché lo studio di Hammoudi si svolge in un contesto completamente diverso, non intendo porlo come esempio significativo di una universalità di tale processo, quanto piuttosto dell'inversione maschile femminile come strumento affermato nella retorica sufi seppur utilizzato in maniere differenti e contestuali. Abdellah Hammoudi Master and disciple. The cultural foundations of Moroccan authoritarianism Univ. of Chicago Press, Chicago 1997 11. I jinn sono spiriti malevoli o benevoli che appartengono, secondo il Corano, al panorama cosmologico dell'islam. Si suddividono in diverse tipologie che sarebbe in questa sede troppo lungo enumerare. 12. Mahmood S., Feminist Theory, Embodiment and the docile Agent: Some Reflections on the Egyptian Islamic Revival, “Cultural Anthropology” 2001, 16(2), 202-236; cit. pag 208, traduzione dell'autore 13. Ibid. Bibliografia Abenante P. 2004 La tariqa Burhaniyya: una via dell'islam in Italia, in " Afriche e Orienti ", 3 Abenante P. 2005 Misticismo islamico: riflessioni sulle pratiche di una confraternita contemporanea, in " Meridiana ", 52 18 ACHAB Dossier De genere Abu-Lughod L. 2007 Sentimenti Velati. Onore e poesia in una società beduina Le Nuove Muse, Torino Chodkiewicz M. 1997 (a cura di), Ibn 'Arabi. Les illuminations de la Mecque, Albin Michel, Paris Corbin H. 2005 L'immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Laterza, Roma-Bari Delong Bas N.J. 2004 Wahhabi Islam: from revival and reform to global jihad Oxford Univ. Press, NY Hammoudi H. 1997 Master and disciple. The cultural foundations of Moroccan authoritarianism Univ. of Chicago Press, Chicago Hoffman V.and Ladd J. 1987 Polemics on the segregation and modesty of women in contemporary Egypt “Int. J. Middle East Stud.” 19 Luizard J P. 1991 Comment rationaliser l'irrationnel ou le droit positive au secours de la mystique organisée, “Egypte-Monde Arabe” 5, Cedej, Cairo Mahmood S. 2005 Politics of Piety Princeton Univ. Press, New Jersey Mahmood S. 2001 Feminist Theory, Embodiment and the docile Agent: Some Reflections on the Egyptian Islamic Revival, “Cultural Anthropology” 16(2) Moghissi H. 1999 Feminism and Islamic Fundamentalism, Zed Books, London Cairo: manifestazione contro le parole del ministro Farouk Hosni che nel novembre 2006 ha affermato: hijab "is a step backward for Egyptian women" - La traduzione delle scrittte è “LHijab (il velo) è un obbligo proprio come la salata (la preghiera quotidiana) eil digiuno (del ramadan)” 19 ACHAB D o s si e r De genere L’interrelazione tra mobilità e immobilità nell’Insediamento umano 11 di Luglio di Sara Bramani I n t roduzione: “Quien no quiere irse?” (Chi non vuole andarsene?) Una figura altrettanto paradigmatica e contemporanea del “multiple passport holder” ( possessore di molteplici passaporti) è quella del soggetto “stocked withouth passport” (“bloccato in luoghi particolari”); figura, la prima, descritta dall’autrice A. Ong nel suo testo Flexible Citizenship: The Cultural Logic of Transnationality1. Si può pensare ad esse quali figure paradigmatiche ai due estremi di un’asse teorico che congiunge la “dimensione” della mobilità a quella dell’immobilità? La questione non è semplice e così formulata rischia di riproporre una lettura dicotomica di queste dimensioni e di altre ad esse direttamente correlate quali: la relazione tra locale/globale, quella tra esclusione/inclusione, passività/ azione, centro/periferia e tradizione/modernità. Le rappresentazioni antropologiche “dell’altro” in quanto soggetto “aderente” a un territorio delimitato sono state oggetto di una revisione critica all’interno della disciplina; revisione che va posta in relazione agli importanti mutamenti avvenuti e in corso a livello globale tra i quali il “fenomeno” dell’emigrazione transnazionale. Ma “l’aderenza” del soggetto a un territorio delimitato non è solo una distorsione nelle pratiche di rappresentazione dell’altro esotico o ancora lontano; il sogno naif dell’etnografo nello spazio e nel tempo del suo lavoro di campo. E’ piuttosto la condizione strutturale di molti che, per differenti ragioni storico-contestuali, percepiscono, articolano e vivono la “localizzazione” come impossibilità di cambiamento. Il termine “localizzazione” traduce in questo caso la percezione di immobilità dei soggetti in riferimento alle opzioni di cambiamento pensabili e praticabili. “Quien no quiere irse?” (“chi non vuole andarsene?”) è una domanda retorica formulata spesso con ironia e che non richiede da parte dell’interlocutore risposta alcuna. E’ questa una questione ricorrente che articola la percezione di immobilità a quella di mobilità quale misura delle distanze, reali e/o immaginarie, che separano dal cambiamento desiderato e dai luoghi che simboleggiano questa possibilità di cambiamento. La percezione di immobilità, di essere bloccati in luoghi particolari, costruisce questi ultimi in rapporto a ciò che si muove, si modifica e cambia. “Mira! Ellos han levantado su casa, comprado su carro……….” (“guarda! Loro hanno tirato su la loro casa, hanno comprato la loro macchina….”). Attraverso l’analisi di storie di vita femminili raccolte in un insediamento umano di Año Nuevo (AN), il tentativo sarà quello di problematizzare questi nodi teorici proponendo una lettura del luogo dal quale i soggetti articolano la loro percezione di immobilità. Lettura della mobilità quindi dal punto di vista di coloro che non possono muoversi e che per tale motivo si percepiscono come esclusi dal “palcoscenico” del mondo. Ma queste storie di vita sono anche storie di mobilità dal momento che il luogo, dal quale e attraverso il quale si raccontano, è l’ultima tappa di un percorso di mobilità che l’ha reso pensabile e praticabile. Una delle vie più comuni di accesso femminile al mercato del lavoro è stata, come lo è ancora, il lavoro domestico trovato attraverso le reti familiari che, se da un lato consentono il movimento, dall’altro producono immobilità. E’ sufficiente soffermarsi sui verbi utilizzati nelle narrazioni delle loro storie di mobilità per avvicinarci alla comprensione della tensione viva e costante che le donne esprimono e avvertono tra le opzioni di cambiamento praticabili e i vincoli che queste producono. Possiamo osservare per esempio come nella storia di Maria i verbi che connotano il movimento eterodiretto si susseguono senza interruzione fino all’assunzione del ruolo di madre: “mi portò” (a Lima) lo zio, fratello del padre, che vive in AN e presso il quale ha svolto “ogni tipo di servizio domestico”; “mi consegnò a 11 anni” alla madre che non poteva accoglierla per il rifiuto del suo nuovo compagno. “Mi raccolsero” i religiosi per la strada e a 15 anni “mi consegnarono” alla Signora A., che la allevò “come fossi sua figlia”. In tutta questa eterodirezionalità, dice M., bisogna farsi voler bene : “Io sempre mi sono fatta voler bene: mi alzavo sempre prima di tutti e andavo a letto per ultima”. L’interesse di queste narrazioni risiede anche nella possibilità di pensare ad esse come a “preistorie” del processo di mobilità transnazionale in corso che ci raccontano e fanno luce, da un contesto e una posizione specifica, su processi che solo di recente sono stati inseriti “nell’agenda globale”. La mobilità è innanzitutto una risorsa posseduta e distribuita in modo diseguale. Qual è la soggettività dell’essere incastrati in luoghi particolari? Esiste una coscienza politica della differenza nel possesso di questa risorsa? Si tratterà qui di approfondire tali questioni a partire dal vissuto, dalle percezioni, dalle rappresentazioni di donne che non solo 20 ACHAB Dossier De genere vivono ai margini di una globalità tutta da definire ma che inoltre, si sentono bloccate in un contesto e in una posizione dove, per usare l’espressione di una di loro, Angelica, “ non cambia mai niente”. 1. “Al otro lado de la Tupac” ( all’altro della Tupac) Il contesto nel quale ho raccolto le storie di vita di soggetti femminili è quello dell’insediamento umano (A.A.H.H.) dell’11 di Luglio, settore di Año Nuevo, municipalità di Comas, Lima metropolitana. Questa è una definizione amministrativa che partecipa alla costruzione del luogo nei termini sequenziali con i quali si è di fatto costituita l’urbe ed è generalmente utilizzato in riferimento ad insediamenti sorti ai margini di invasioni e/o urbanizzazioni che hanno ottenuto un riconoscimento statale, o lo stanno per ottenere, attraverso il processo di titolazione. L’11 di Luglio è il nome dato al luogo che corrisponde alla data dell’invasione avvenuta nel 1982. Un gruppo di giovani “alojados” (“alloggiati”) nella parte già costituitasi di Año Nuevo decisero di occupare la parte immediatamente adiacente ai comitati vicinali 38 e 101 che, per ubicazione geografica, segnavano il limite territoriale tra il Pueblo Joven di Año Nuevo e le parti “libere” a ridosso delle montagne circostanti. La categoria di “alojados” è rilevante nel contesto ad oggetto e traduce la condizione di tutti coloro che, per ragioni economiche e carenze infrastrutturali urbane, vivono presso la casa dei parenti in attesa di trovare una sistemazione indipendente. In questo caso, come in molti altri, si trattava per lo più di coppie ospiti dai genitori di uno dei due coniugi. Uno dei criteri più diffusi per l’assegnazione del “lote”, ovvero il pezzo di terra sul quale edificare la casa è stato ed è quello di possedere una famiglia già costituita. E’ questo un criterio che possiede ovvie ragioni pratiche e che al tempo stesso traduce un valore sociale assegnato al tipo di “unione” rappresentato dalla coppia (eterosessuale) con figli. Sia la scarsità economica che la carenza di infrastrutture sono condizioni che hanno inciso non solo sul tipo di sviluppo urbano (invasioni) ma anche sui modelli di residenza dei soggetti. La coabitazione di tre o quattro nuclei familiari differentemente interrelati tra loro è infatti la norma nel contesto di Año Nuevo e non certo per scelta elettiva. Spesso i genitori assegnano ai figli che formano la loro famiglia una parte di eredità, costituita appunto dalla casa, affinché la edifichino nel tempo e ne facciano la loro dimora. Le difficoltà connesse al risparmio e quindi alle capacità economiche di investire nei materiali necessari alla costruzione si riflettono nelle abitazioni che si presentano in generale come inconcluse o forse sarebbe più appropriato definirle in formazione. In effetti una delle caratteristiche che più hanno colpito il mio sguardo fin dall’inizio del lavoro di campo è stata proprio questa incompletezza delle abitazioni e del contesto più in generale. Le strade non sono nella maggior parte dei casi pavimentate e la polvere e la sabbia del deserto ricoprono ogni corpo immobile e mobile. I secondi piani delle abitazioni sono spesso aperti, con i pilastri che sembrano sorreggere il cielo, in attesa di essere terminate. I materiali delle case, in particolare quelle ubicate a ridosso delle montagne, sono spesso provvisori come del resto sono provvisori molti spazi che cambiano di luogo a seconda delle esigenze e degli interessi della popolazione locale. Alcuni spazi di interesse pubblico sono in permanente stato di costruzione in attesa di trovare i fondi e i finanziamenti necessari al proseguimento dei lavori. Nell’11 di Luglio mancano i servizi di acqua e fognatura mentre i cavi elettrici e del telefono formano trame aeree che si intrecciano le une nelle altre e che sono oggetto di furto costante lasciando intere aree regolarmente senza servizio. Il servizio di raccolta dei rifiuti, per inciso uno dei problemi maggiori in questo contesto, è garantito secondo una periodicità del tutto irregolare che favorisce uno smaltimento d’emergenza che di fatto ricopre gli spazi non edificati. Arrampicandosi lungo i sentieri costruiti dal passaggio continuo e ripetuto degli abitanti è possibile osservare e ripercorrere storicamente i processi sociali che hanno caratterizzato le varie fasi dello sviluppo urbano. Più si sale, più la carenza di infrastrutture e le condizioni abitative peggiorano progressivamente. Più si sale, più è possibile cogliere la centralità che il principio dell’auto-organizzazione riveste e ha rivestito nello sviluppo urbano esente da pianificazione statale. Se il paesaggio è fisicamente verticale, verticale è anche la modalità più diffusa di percepirlo e di percepirsi all’interno di esso. Dire che si abita in un insediamento umano equivale a posizionarsi soggettivamente in un contesto denso di rappresentazioni conflittuali che evocano, da un lato il sacrificio, la lotta, la conquista di uno spazio “proprio” e dall’altro la carenza e l’insufficienza dei mezzi atti a garantirselo. Da un lato l’orgoglio con il quale si narrano gli eventi precedenti e successivi all’occupazione dell’area, la conoscenza capillare di una mappa (i soggetti e i luoghi) che collettivamente va costruendosi anche in rapporto alle zone circostanti, la percezione espressa in tante narrazioni di un divenire storico di cui si è parti integranti. Dall’altro lato, la caratterizzazione negativa di cui gli insediamenti sono oggetto in quanto luoghi “malsani” sia da un punto di vista ambientale che sociale. La percezione di essere ai margini di un centro che continua a essere distante sia a livello temporale che spaziale e il desiderio frustrato di cambiamento che a livello del discorso assume, non a caso, un carattere spaziale. “Hablan de nosotros como ratas” (“parlano di noi come ratti”) mi dice Angelica riferendosi alla considerazione che “los de abajo” (“coloro che vivono nelle parti basse”) hanno nei confronti degli abitanti dell’11 di Luglio. Sebbene da 3 anni a questa parte il Pueblo Joven di Año Nuevo sia stato integrato in un unico settore a livello municipale e metropolitano, rendendo la distinzione tra le differenti aree e denominazione inessenziale da un punto di vista amministrativo, gli attori sociali continuano a percepirsi come appartenenti a contesti differenti e spesso contrapposti in termini di bisogni, diritti e doveri. 21 ACHAB Dossier De genere L’avenida Tupac Amaru, che taglia orizzontalmente la parte nord della metropoli congiungendola alle zone centrali, è uno tra una lunga serie di riferimenti spaziali che fungono da simboli di d i fferenziazione economica e sociale e da termini di comparazione per chi, vivendo più in alto, guarda verso il basso per misurare e dare un senso alle condizioni “infrastrutturali” nelle quali vive, come pure una direzione “materiale” ai propri desideri. “Al otro lado de la Tupac” (“all’altro lato della Tupac”) è un’espressione diffusa nelle narrazioni che ho raccolto e che rende conto in modo molto chiaro di una percezione dello spazio altamente stratificato e gerarchizzato. Una gerarchia e una stratificazione che possiede i suoi confini reali e immaginari: dove inizia un comitato e finisce l’altro, dove inizia e finisce una zona, settore o insediamento, dove inizia e finisce il pericolo, dove inizia e finisce il contesto in cui la conoscenza di soggetti e luoghi consente di non guardarsi alle spalle e sentirsi al sicuro, dove inizia e finisce la possibilità di usufruire di beni e servizi, dov’è rilevante o utile la categoria di vicino, dove è possibile e proficuo affidarsi alla fiducia di una serie di presupposti condivisi e in definitiva a un “noi” agito piuttosto che pensato. Non sono cose di poco conto, come è dimostrato dalla impermeabilità di alcuni contesti, dallo sforzo richiesto per oltrepassare la ferraglia che protegge ogni “bene”, dal tempo necessario per abbassare, e comunque mai completamente, la “guardia”, dallo slittamento continuo tra i posizionamenti che i soggetti assumono per stabilire un terreno comune di dialogo. Mi sono soffermata su questi aspetti ed elementi del contesto al fine di situare la storia di Rubyla che inserirò qui di seguito. La scelta di lavorare sulle storie di vita e di mobilità/immobilità femminile nell’insediamento umano dell’11 di Luglio prende avvio, come abbiamo visto, da itinerari differenziati attraverso i quali ho cercato, in una prima fase, di comprendere le conseguenze a livello locale di alcuni dei processi definiti, a livello teorico, attraverso il concetto di “globalizzazione” e in particolare il processo della migrazione transnazionale. 2. La storia di Rubyla La storia di Ruby è esemplare rispetto a molte dimensioni e livelli di analisi rilevabili in riferimento all’interrelazione tra le dimensioni della mobilità e dell’immobilità. Qui, come del resto in molte altre storie, non si riscontra la presunta stabilità che secondo la letteratura caratterizzerebbe la famiglia in area andina. Ruby, figlia di una donna molto giovane, non conoscerà mai il padre e verrà allevata dalla nonna fino alla morte di quest’ultima, quando suo zio (fratello della madre) la porterà a Lima dove lui viveva da tempo. Lo zio, dice Ruby, non era il primo ad essere venuto a Lima, “si sono calati uno con l’altro e piano piano sono venuti tutti”. Ruby stabilisce in questo modo un interessante parallelo tra questo modello di mobilità e quello utilizzato attualmente verso l’estero: “E’ uguale a come fanno ad andare in Italia o in Argentina”, dice Ruby, raccontando di una cugina “disperata per andarsene” in Argentina che ha lasciato la figlia di tre mesi con la madre indebitandosi per poter viaggiare. Ora, dice Ruby, “vorrebbe tornare ma è incastrata, le persone che le hanno prestato i soldi vengono a cercarla. Ha un lavoro ma ci vuole un po’ di tempo prima che riesca a restituire e non ha ancora ricevuto il primo stipendio. “Noi le abbiamo detto di resistere se no che senso ha che è andata?” . Questione interessante e proiettiva il cui costo materiale (il debito contratto) converte mobilità in immobilità (è incastrata) e il cui costo affettivo ed emotivo (la figlia di tre mesi) si traduce in valore di “resistenza” che i familiari consigliano con lo sguardo puntato oltre la situazione presente. L’espressione “disperata per andarsene” è comunemente associata alla mobilità femminile qualora il movimento comporti l’affidamento, la cura e l’allevamento della prole alla madre e più raramente ad altre familiari. E’ interessante soffermarsi anche su come nasce questo progetto di mobilità collettivo. Questo nasce infatti all’incontro tra differenti traiettorie di mobilità che si generano una con l’altra e che producono e riproducono sia specifiche continuità che cambiamento e innovazione. Ed è una zia emigrata da tempo in Italia e tornata per le vacanze che rende fattibile il progetto argentino. Lavorare e guadagnare in un contesto estero accessibile alle risorse disponibili per poter risparmiare la quantità di denaro sufficiente per raggiungere un altro contesto estero al momento solo più desiderabile. In questo caso L’Italia, in particolare la città di Firenze, dove la zia tornerà una volta terminate le sue vacanze. In quanto opzioni e progetti condivisi all’interstizio tra differenti traiettorie di mobilità e tra la dimensioni del reale e dell’immaginario, essi implicano e presuppongono pratiche e relazioni sociali concrete. Era la figlia di Ruby che avrebbe dovuto viaggiare ma è incinta e “non ha potuto andare”. Prima di tornare alla sua storia di mobilità Ruby pone un’altra questione fondamentale e aperta: “ Chi è che non vuole andarsene? Qui in Perù siamo sfruttati.” La Lima che Ruby incontra a sei anni è quella di Barrios Altos, urbanizzazione consolidata il cui contesto le rimarrà come termine di comparazione rispetto a quello da cui si racconta e nel quale vive. E’ anche quella dell’ambito familiare attraverso il quale il movimento dalla provincia si fa possibile e che la riceve al suo interno. Qui Ruby vivrà l’ambiguità dei legami che la uniscono ai membri del nucleo familiare che lei esprime raccontando del trattamento differenziale ricevuto rispetto a quello dei suoi cugini in merito allo studio e al lavoro domestico. La iscrivono alla primaria ma non le consentono di proseguire negli studi: “Io avrei voluto, volevo studiare infermeria ma non ebbi questa libertà di andare a lavorare fuori. Essendo come una figlia dovevo obbedire. Solo con uno sguardo ti dicevano quello che dovevi fare. I miei cugini sì hanno potuto studiare. Rimasi con loro fino ai 18 anni e non fu grazie a loro che aprii gli occhi”. Questo movimento o gesto di “aprire gli occhi” è un’altra cornice ricorrente nelle narrazioni femminili raccolte e viene quasi sempre associata a una figura esterna alla famiglia che appoggia 22 ACHAB D o s si e r De genere senza chiedere nulla in cambio. Qui Ruby la definisce quale protettrice che non solo le insegnerà un mestiere ma anche le proporzionerà i contatti necessari per esercitarlo (costura). Iniziazione al mondo del fuori identificato con il lavoro e reso possibile da una relazione esterna a quelle del gruppo familiare nel quale si continua comunque a risiedere e a corrispondere al ruolo che in questo si ricopre. “Io continuavo ad occuparmi della casa e dei miei cugini…..” coltivando, con ciò che definirei lavoro di straforo, il proprio progetto di indipendenza e autonomia qui, come in molti altri casi, associato al possesso e dominio di un mestiere. L’incontro e l’unione con il partner, ma in definitiva l’assunzione del ruolo di madre, interrompono il processo di individualizzazione riportando Ruby tra le pareti domestiche dello zio: “Ho sofferto molto e l’unico desiderio che avevo era andarmene di casa. A loro non piaceva mio marito, non gli volevano bene, lo buttarono fuori di casa e volevano mandarmi a lavorare come domestica crescendo loro mia figlia. Mio marito era un irresponsabile, beveva molto e non mi portava a casa il diario2”. Lo zio si stufa e allontana il marito dalla sua casa: protezione e ingerenza, appoggio e obbedienza in una trama intricata di relazioni gerarchiche dove le categorie età, sesso, grado di parentela sono interconnesse e rinforzano una con l’altra lo stato di soggezione. E il progetto di indipendenza si fa casa e Ruby attende fino a quando il processo di invasione dell’11 di Luglio non lo rende agibile e vi si unisce “per vivere da sola nella mia casa e sentirmi libera dalla mia famiglia. Ho dovuto afferrarmi a mia figlia e fino a che non ha terminato la media, ho lavorato come cuoca, in pulizie, curando i bambini, come volontaria.” Ora Ruby vende pane e camminando con il suo cesto carico percorre tutta la montagna guadagnando tre soles per ogni 100 panini venduti dalle tre del mattino, ora in cui raccoglie il pane alla panetteria insieme agli altri canastero s, come vengono chiamati i venditori ambulanti di pane, fino alle 10/11 della stessa mattina. Ruby produce in questo modo un circuito di scambio che dalla vendita, passando per il credito, arriva fino al trueque ( baratto): “ Ci sono persone che non pagano per 15 giorni e allora faccio trueque e se non possono pagarmi in denaro mi danno una gallina, riso, zucchero. Tutto ciò che mi può servire per la casa.” E’ preoccupata per la concorrenza sul prezzo che alcune panetterie “clandestine” stanno praticando ( 8 soles al posto di 10 per 10 panini) e sulle conseguenze che questa disuguaglianza di prezzi, come lei la definisce, ha sui suoi guadagni già insufficienti per coprire le spese. Il marito, dopo la nascita del primo figlio di sua figlia, è tornato ma non trova lavoro nel suo mestiere di muratore: “Ora è qui stabilmente come se fosse l’uomo della casa. Perché si sente così? Perché non è stato così prima? mai ho potuto contare sul suo appoggio. Dov’era lui quando io ho cresciuto mia figlia?” Risposta della stessa Rubyla: “Lui è il padre di mia figlia”. Ruby continua a guardare in basso mentre racconta di quanto sia contenta di aver finalmente costituito una famiglia con la nascita della nipote: “Ora ci sono i natali, i compleanni, le feste”. Ruby non è soddisfatta ed esprime questa insoddisfazione nel desiderio di una casa nella parte bassa “dall’altro lato della Tupac”, ritornando con il pensiero all’urbanizzazione del suo incontro con Lima e alla casa di un’altra zia che vive in zona Retablo: “Che bello che è li”. Desiderio condiviso dalla figlia e per la realizzazione del quale “Il progetto è quello che vada. Speriamo, dipende tutto da Dio, con la salute si lavora e si può fare denaro. Se vedo che in un altro paese è meglio per lei a buona ora.” Ruby e io conversiamo sul significato di alcuni termini (provinciano, serrano, cholo) e sul loro utilizzo, lei non ha mantenuto alcun legame con il suo luogo di origine dove, dopo averlo lasciato a 6 anni, non ha più fatto ritorno, “sono passati tanti anni, come sarà adesso?”. Il costo per il trasporto è troppo alto e qui mi pare come se l ’ A rgentina e l’Italia siano distanze immaginate secondo parametri del tutto differenti. Turismo/lavoro: scopo e utilità differenti senza contare che sono le relazioni il motore del movimento e relazioni vive con il luogo Ruby non ne ha per nulla. E nel mezzo di questo discorso sul posizionamento e sulle eso ed endo-definizioni di soggetti e situazioni Ruby prende posizione e dice: “Nonostante la faccia che ho3 non si presti ad essere limeña, Io sono venuta qui da piccola, sono cresciuta con questo cibo, con tutte queste cose e mi sento limeña. Mio figlio è un po’ scuro (moreno) e quando era piccolo si metteva il borotalco e poi diceva: adesso sono bianco. Io ridevo e lui mi chiedeva perché non era venuto fuori con il colore della nonna che è bianca.” Arriva una vicina e Ruby mi informa che lei è di Ayacucho e mentre la conversazione si estende al vicinato come di consueto e una vicina commenta che le differenze tra qui e la sierra si sono assottigliate e che se non lavori non mangi, la vicina di fronte arriva piangendo chiedendomi se posso aiutarla a mettersi in comunicazione via internet con il figlio che è in viaggio per l’Argentina. E’ spaventata perché lo ha sognato mentre si trovava in difficoltà. Intrecci narrativi: ¿Donde está Lima? La scelta di occuparmi delle narrazioni femminili nel contesto dell’11 di Luglio rappresenta una svolta e allo stesso tempo un approdo del mio lavoro di ricerca. Il primo tentativo di lettura di queste narrazioni femminili è stato quello di ricostruire Lima attraverso le traiettorie di mobilità di queste donne. Sono emersi in questa analisi aspetti contraddittori, percezioni differenziali a seconda delle temporalità e spazialità in gioco nelle narrazioni che spero queste narrazioni aiutino ad esplorare. La metropoli limeña in questi racconti, memorie e riflessioni, emerge quale contesto investito da importanti processi storici di cui non si è sempre consapevoli e che nella maggior parte dei casi non si sa dominare. Lima appare come un percorso verso la conquista di una stabilità 23 ACHAB Dossier De genere che assume la forma di una casa e di un lavoro attraverso la lotta e l’invenzione. E’ il luogo dove si è materializzata la stabilità a prezzo di grandi sforzi, è il luogo del desiderio ( miglioramento condizioni ambientali e abitative) ed è anche il luogo da dove se si potesse ci si allontanerebbe. La narrazione di sé inizia quasi sempre in un’altrove dove il processo di socializzazione passa attraverso e si costituisce per mezzo del lavoro e del legame con la terra: il tempo della semina e della raccolta, i rituali religiosi connessi alla nascita, alla crescita , alla morte e alle festività dei santi. Legami fondamentali e fondanti che si ritrovano non a caso nel linguaggio utilizzato dai soggetti per esprimere i valori da loro percepiti come essenziali (condivisione, appoggio, lotta, sofferenza, etc). Legami ed esperienze da non disgiungere dalle relazioni a queste inerenti; ed è forse a partire da questo che è possibile dare senso a una certa cosmologia dove il passaggio dall’uno all’altro dei campi di relazioni rappresentabili e rappresentati si fa incerto e questi si associano ed evocano uno con l’altro pur senza confondervisi totalmente (famiglia, lavoro, mobilità, organizzazione, per citarne solo alcuni). E’ in questa cornice di interpretazione che si può provare a comprendere come i campi di relazioni si fanno valori e i valori campi di relazioni e come sia difficile stabilire ciò che venga prima e ciò che né derivi. Interrelazioni complesse dove le continuità e le discontinuità, come del resto le dinamiche di inclusione e di esclusione, non sono analizzabili in quanto alternative una all’altra o quali opzioni che si escludono a vicenda ma piuttosto quali fattori, strategie, meccanismi, tattiche compresenti in interrelazioni complesse e agiti dai soggetti in riferimento a dei contesti di interazione di volta in volta specifici. Ma è poi Lima il centro di questi percorsi? O è forse il percorso in sé che si fa centro rispetto al desiderio quale motore dell’azione che identifica movimento (mobilità) con miglioramento? Mi sorprendono le continuità di fatto e le discontinuità dichiarate a partire da elementi semplici e essenziali. Gli stessi dai quali si parte e si arriva: l’acqua per cercare la quale si scava un pozzo di 50 metri al paese “dove non cresceva più nemmeno un filo d’erba”. L’acqua che da 20 anni ancora manca, dice Mercedez riferendosi all’11 di Luglio dove ora vive: “E’ da 20 anni che siamo qui e non abbiamo ancora né acqua né fognature”. Le distanze che invece di ridursi si fanno più riconoscibili: tra O. e Lima e tra Lima e un altrove che è desiderio di futuro. A O. gli infermi muoiono nella dimenticanza, qui nell’11 Luglio “i politici una volta eletti si dimenticano di noi”. L’ emigrazione è per Mercedez una superazione (superarse) che rappresenta inoltre il filo della narrazione di sé , è il coraggio e il valore che spinge ad avanzare: “Uscire dal mio paese era un avanzamento”. E’ innanzitutto una geografia di movimento maschile, i fratelli che vanno e vengono contrattati per la fabbricazione del carbone e la determinazione perché si faccia opzione femminile: “Non era costume lasciare andare le donne sole”. E’ Sechura, un piccolo centro urbano bruciato dal sole e dalla polvere, teatro di una festività religiosa alla quale si è portate e che allarga l’orizzonte del paese natale e fa nascere l’idea di conoscere, scappare. “Ricordo ancora quel buco nella pietra dove ci riparavamo dal vento e dalle botte per il conteggio del numero dei capi di bestiame che a volte non tornavano”. Ma come? Come domestica, attraverso uno zio che fa da ponte verso una zia che vive in città. E’ Piura, esperienza scioccante per l’assenza di riferimenti altri da quelli familiari che oltre a consentire il movimento appaiono nel racconto di Mercedez quali motori e freni all’azione. E’ la necessità di guadagnarsi l’affetto dei cugini cucinando lavandogli i vestiti, pulendogli l’abitazione, facendo commissioni. “Mi stancavo molto: lavoravo dalle sei della mattina alle undici della notte.” E’ la zia di Mercedez che si fa ponte per altri movimenti prestandola all’amica (“mi chiese in prestito”) e il cui raggio d’azione lascia Piura sullo sfondo per attraversare un confine (commerci tra Lima ed Ecuador). “Uscire dal paese è avanzare”, ripete Mercedez con lo sguardo rivolto verso il basso. Ma questo avanzamento per Mercedez è anche una fuga dalla violenza del marito di sua zia e un nascondersi dall’esito di questa violenza che porta in grembo. Un avanzamento interrotto dall’infermità della madre che la riporta ad Olmos. Un luogo questo che funge da connessione stabile tra le mutevoli circostanze della vita e le relazioni di lavoro. E poi M. ritorna a Lima, lasciando la figlia alla madre guarita, allo scopo di garantirle un’eredità: “Bisogna rimanere vigili”. La terra e la casa quali eredità da lasciare perché non c’è altro da lasciare. I figli che non possono continuare a studiare, le mani che sono rimaste troppo a lungo nell’acqua e che ora fanno male: lavando, stirando, pulendo, cucinando e ora cucendo per conto terzi perché mancano o si pensa manchino i requisiti per arrivare direttamente alla fonte. La figlia rimasta al paese diventa motore di ulteriori percorsi di mobilità: la casa del fratello che si offre di accoglierla, l’acquisto del terreno nell’11 di Luglio, Chiclayo, poi Chimbote e di nuovo Lima. Non la Lima delle case belle, dell’illusione di possederne una uguale, ma la casa nell’A.A.H.H. 11 de Julio dove le relazioni a ffettive, economiche, sociali si sovrappongono e sono indispensabili per ottenere risorse necessarie. E da qui il coraggio, la lotta, la speranza, il desiderio si assumono come valori che consentono di valutare il proprio essere andata in riferimento a coloro che sono rimasti e a coloro che, presenti all’interazione, si spera continuino ad andare. “La mia vita è migliore perché loro vivono- i fratelli- in una provincia dove a 4 km non c’è luce, non c’è acqua, non c’è niente. Magari riuscissero ad andarsene di qua – i suoi figli- spero che abbiano questa fortuna.” Lima per Rosa è solo il nome di una città lungo il mare, quando non si sa ancora cosa sia né una né l’altro. La geografia storica e sociale conta relativamente ai nodi presenti che rendono possibile il movimento di Rosa in uno spazio che a 8 anni è ancora irrappresentabile. Movimento eteroregolato dal padre incapace, date le risorse disponibili, di farsi carico dei figli in conseguenza della disgregazione familiare e che utilizza il legame con la madrina 24 ACHAB Dossier De genere della figlia quale meccanismo di riorganizzazione del gruppo familiare. “Dalla notte alla mattina mi ritrovai a Lima”. E’ questa una cornice ricorrente che esprime l’assenza totale di controllo esercitato dal soggetto in riferimento alla propria esperienza di mobilità: movimenti fisici lungo la direttrice di relazioni che hanno una storia che spesso non si conosce e alla quale non si ha spesso partecipato ma di cui si è la continuazione incarnata. Affidata per lavorare nella casa della madrina come domestica dovrà attendere di lavorare in casa di estranei, ancora come domestica, per potersi sentire come in famiglia. Il Lavoro domestico diventa qui mezzo e strumento di autonomia con tutte le contraddizioni inerenti a questo tipo di relazione di lavoro. Sono queste delle contraddizioni per altro già vissute nella differenza dei diritti e doveri tra sé e i coetanei della famiglia, nella condivisione di una routine familiare in condizione di subordinazione oltre che di dipendenza (età, sesso, ruolo). E Lima è Monte rico dove vive “la jente de plata”. La gente di denaro, gente che “mi dava perfino le mance per uscire”. Maria è orgogliosa di poter lasciare ai figli la sua eredità: la casa. La casa che da esito orgoglioso della sua storia di mobilità diviene al tempo stesso fattore di immobilità: “Mi piacerebbe chiudere gli occhi e mi dico rimarrò così ma ai miei figli dico che devono lavorare per sobresalir. La nostra vita è stata molto triste, vorrei che loro avessero un lavoro, una casa costruita. Lavorare per riempire la pancia non è sufficiente. La situazione la vedo male perché non abbiamo un lavoro sicuro. Se troveranno un lavoro stabile possono andare da un’altra parte in un posto migliore.” E mentre il figlio di M. esprime la percezione del luogo quale temporaneo, M. conclude “Io rimarrò qui, non posso obbligarli a restare, questa è la mia eredità.” La casa è un elemento e un simbolo centrale in questi molteplici tentativi di situarsi all’interstizio tra dinamiche esogene ed endogene che spesso è difficile controllare o com-prendere. E così che Lima pare a volte la ricorrenza di questo ritornare alla (casa), crocevia di itinerari controllabili e incontrollabili, che ne fa il luogo dell’amore e della nascita e il desiderio/necessità di uno spazio nostro. Spazio da conquistare, spazio per cui lottare, spazio di comunità come processo che passa attraverso l’invasione, la difesa del terreno, l’acquisizione della legittimità indiscussa dello stesso, il lavoro collettivo per renderlo agibile e per garantirsi i servizi che ne consentano l’abitabilità. Lavoro collettivo, faenas, aiuto reciproco e unità diventano strumenti di lotta essenziali, valori agiti piuttosto che pensati nelle continuità e discontinuità delle proprie esperienze passate e necessità presenti. Comunità, vicinato e famiglia, nel farsi dell’urbanizzazione si scontrano con lo stato e allo stesso tempo ne ottengono legittimità (come un timbro solenne su giochi ormai conclusi) attraverso relazioni clientelari e personalistiche. Molti invasori, dice per esempio Elena, sono andati “adelante”. “Avanti”, ovunque questo sia, come la parte bassa che vede dal rialzo con gradini attraverso il quale si accede alla sua porta. Guarda in basso e nomina le opere che occupano spazi un tempo vuoti: campi sportivi, parrocchia, parchi. A volte vorrebbe andarsene ma senza il denaro sa che dovrebbe iniziare tutto da capo, tornare indietro non è un’opzione percorribile. In alto, qui, dalla posizione dalla e nella quale articola il suo discorso mancano molte cose. Alcune di esse essenziali (servizio di acqua e fognature). I cambi, nodo concettuale e materiale a partire dal quale si vive e si pensa alla propria posizione in relazione al mondo, sono lenti. C’è la percezione che questi avvengano a un ritmo troppo lento rispetto a come dovrebbero. L’esterno è spesso una relazione d’appoggio poco chiara e trasparente come sono oscuri i canali e i processi decisionali. Il futuro è incerto e l’elezione del “nuovo” presidente ricorda la penuria e la sofferenza. Il racconto del presente è assorbito dal lavoro (una bottega domestica e i lavori di bordato che svolge in casa), dai desideri irrealizzabili (la figlia che non ha risorse per poter continuare a studiare), dai risparmi impossibili e dai conti frustranti. Ed è da qui, da questo ingresso panoramico sul mondo circostante, che la modernità viene percepita come cambiamento che il paese sperimenta per intermedio di (è qualcosa di esterno) “computer, moneta più forte, strade e la tecnologia riduce i posti di lavoro”, che Elena esprime in modo assolutamente chiaro la sua percezione di “immobilità” (esclusione): “ la tecnologia è un cambio per chi può permetterselo, io non ho nemmeno il computer figurati internet.” E più avanti aggiunge: “Io rimango con la voglia e basta”. Elena è orgogliosa della loro conquista, che è anche la sua conquista (la sua casa): oggetto materiale e sensoriale a partire dal quale loro diventano noi e loro . “Noi (che) viviamo in uno stato di povert à” (immobilità/ relazione ai cambiamenti), “loro (che emigrano) “e se gli va bene mandano i soldi alla loro famiglia, tirano su la loro casa e se ci sanno fare investono in un commercio”. Ed è qui che l’emigrazione continua ad essere una questione di famiglia (o una nuova conquista?). Ma a ben vedere non si tratta di un’alternativa ma piuttosto, come rivelano le narrazioni di queste donne, dell’interrelazione complessa tra Stato – Nazione, regime familiare e sistema economico globale. [email protected] Note 1 A. Ong, Flexible citizenship. The cultural logic of transnationality, Paperback, 1998. 2 Con il termine “diario” si suole definire la quantità di denaro che l’uomo porta a casa dal lavoro giornaliero o, a seconda, settimanale. 3 Qui Ruby si riferisce sia alla fisionomia del suo volto che al colore scuro della sua pelle. 25 ACHAB D o ss i er De genere Tu, oggi, non puoi entrare Tabu mestruali nel gorovodu, in Togo e Bénin di Alessandra Brivio Gli studi che si sono occupati delle interdizioni a cui le donne sono sottoposte durante il ciclo mestruale, si sono prevalentemente espressi in termini di "tabu", cioè delle restrizioni imposte alle donne e di "sporco" e "impuro" quindi di contaminazione simbolica. Cercherò di mostrare, nelle pagine che seguono, come i tabù relativi al sangue mestruale non siano portatori di significati univoci. Innanzitutto uomini e donne possono avere opinioni molto differenti rispetto alle prescrizioni che entrambi devono rispettare. Analizzando il caso specifico di un vodu detto gorovodu, cercherò di mostrare come i significati attribuiti al sangue mestruale siano condizionati e mutino a seconda delle contingenze storiche e sociali. Il sangue mestruale è oggetto di maggiori attenzioni e si connota come liquido inquinante, all'interno di questo ordine vodu, sia a causa del suo specifico percorso storico, che delle sue peculiarità di culto antistregoneria. L'epistemologia che sottoscrivono gli aderenti al vodu è estremamente fluida e i significati come le pratiche sono soggette a cambiamenti anche notevoli da un "couvant" - cioè gruppo di persone che si raccolgono attorno a un voduno (o houno) e a un insieme di vodu - all'altro. Esiste una forte competizione tra i diversi voduno che devono, attraverso le loro attitudini personali - poteri mistici, carisma, coraggio, fantasia e creatività -, essere in grado di trattenere nella loro sfera d'influenza sia i vodu che i fedeli. Per tale motivo risulta sempre difficile e pericoloso fare delle generalizzazioni, assumendo i significati come universali. "La forza e l'immanenza" (Augé 1982) sono gli elementi costitutivi di questa religione, che quindi non lascia spazio ai dogmatismi. Nell'ampio e complesso panorama dei vodu1 africani, il gorovodu (vodu della noce di cola) o tron2 ha uno statuto differente acquisito grazie alla sua storia relativamente recente. Al suo interno trovano posto diverse divinità o vodu che, prima di giungere in questa regione e assumere una nuova identità, fecero un lungo e complesso percorso geografico e storico. I detentori del culto, diffuso sia in città che nelle campagne, affermano che il loro vodu è straniero perché arriva dal Ghana. Lo scambio di divinità tra le diverse popolazioni che si affacciano sul Golfo di Guinea ha una lunga e incessante tradizione. Ma il gorovodu, oltre a provenire dal Ghana, è considerato un vodu hausa3, poiché "la sua origine" è situata al nord, nella regione della savana. Si tratta di un fenomeno che interessò, a partire dai primi anni del secolo scorso, un'ampia regione, dalla Costa d'Avorio fino alla Nigeria, e vide un "esercito" di divinità, originarie della regione oggi al confine tra costa d'Avorio, Ghana e Burkina Faso, viaggiare verso la costa grazie alle loro peculiarità di culti guaritivi e antistregoneria (Field 1940, Ward 1956, Goody 1957, McCaskie 1981e 2005, Parker e Allman 2005). Si creò una prima rete di scambi rituali e di commercio di oggetti sacri tra il nord e il sud dell'attuale Ghana, soprattutto tra gli asante, ma la voce di queste nuovi e potenti risorse mistiche si diffuse anche in Togo e in Bénin. La gente iniziò quindi a viaggiare da est verso ovest, alla ricerca di una soluzione più efficace ai loro problemi. Il gorovodu si diffuse ed ebbe successo nei differenti contesti sociali soprattutto perché rappresentava una risposta ai problemi di infertilità e di mortalità infantile. In alcune sue forme, ad esempio in Nigeria negli anni '50, indirizzò la sua forza contro i culti tradizionali, soprattutto quelli controllati dalle donne, e quelli, come le maschere Gelede, percepiti essere espressione dei poteri occulti femminili e quindi della stregoneria. Fu un periodo violento, di forti conflitti sociali, durante il quale si cercò, anche con la forza, di controllare il ruolo femminile all'interno della società (Morton 1956, Matory 1994). In altri contesti, come quello beninese e togolese, non sembra4 che il conflitto fu così esasperato da trasformare le cerimonie in vere ordalie nelle quali le donne erano costrette, anche contro la loro volontà, ad ammettere di appartenere alla stregoneria. Il gorovodu è un culto che, ancora oggi la continua a esercitare una funzione antistregoneria. Questa è comunemente considerata una peculiarità femminile, anche se nessuno esclude che gli uomini possano "averla"5. Per i sacerdoti del gorovodu, i sofo, il sangue mestruale è una vera minaccia. La loro principale preoccupazione nel momento in cui mi consentivano di entrare in un altare era la possibilità che fossi mestruata. I sofo mi apparivano quasi minacciosi nell'interrogarmi sul mio stato fisico, cosa che non era mai successa negli altari degli altri vodu. Temevano che io potessi mentire ed entrare nonostante l'interdizione. La loro enfasi su questo argomento mi colpì innanzitutto per l'insolita incursione nella mia intimità e in secondo luogo perché mi sembrava che l'idea di impurità e di sporco che essi 26 ACHAB Dossier De genere associavano alla donna, durante il ciclo mestruale, rappresentasse una categoria che si opponeva in modo eccessivamente dicotomico all'idea di pulito che imputavano al loro vodu. L'ambiguità, bisogna ricordare, è una delle chiavi attraverso cui cercare di comprendere il mondo vodu che racchiude, sintetizza e supera al suo interno gli opposti: bene - male, maschile femminile, materiale - immateriale. I sofo non erano tanto preoccupati per la mia incolumità fisica quanto per quella dei loro vodu: il gorovodu è un vodu "propre", pulito, essi ripetevano, e non ama il sangue delle mestruazioni, che è diverso, "esce in modo strano", è sporco. Il loro linguaggio evocava in modo esplicito idee di "purezza e pericolo" (Douglas 1966)6. Le opposte categorie di sporco e pulito non si coniugavano con il linguaggio abitualmente parlato dal vodu e soprattutto con quello di una società che non condivide una visione dicotomica del reale e una concezione del corpo basata sull'opposizione tra spirito e materia quali categorie fisse e impermeabili. Piuttosto vi è normalmente un'associazione complessa di questi termini, che si definiscono anche secondo logiche e strategie che potremmo definire situazionali. In un contesto culturale come quello dell'Africa occidentale e più specificatamente tra i praticanti il vodu, l'"individuo" è percepito come un'entità aperta, multipla, in relazione con altre entità visibili o invisibili, e soprattutto non è l'esclusivo proprietario del proprio corpo e degli organi e fluidi che lo compongono. Il corpo è sempre collocato in uno spazio ai limiti tra l'individuale e l'appartenenza a differenti discorsi collettivi. Nel cercare di trovare una risposta alle ragioni di questo tabu, e ricordando che è sempre stata una visione prevalentemente maschile quella che ha definito il mestruo come inquinante e che raramente gli etnologi hanno interrogato le donne su ciò che esse pensassero del loro ciclo mestruale (Gottlieb 1988:31), ritenni necessario parlare proprio con le donne di questo argomento. Bella, una giovane trosi7 mi spiegava in questi termini i divieti del gorovodu: "Non si può venire (all'altare) con le mestruazioni, devi ben lavare i vestiti che hai messo durante quel periodo, prima di ritornare, perché poi devi essere pulita. Non puoi neppure, in quel periodo, mangiare la carne degli animali sacrificati per il vodu, perché se lo fai il tuo sangue non si fermerà mai più. Se vuoi vedere cosa succede ed entrare nell'altare…allora puoi entrare, ma a tuo rischio… perché tu entri e poi magari inizierai ad avere mal di pancia, ti sdrai per riposarti, ma poi continui ad avere mal di pancia (ad avere le mestruazioni) fino a morire. Non è stato il vodu a ucciderti, ma tu stessa che non hai rispettato le sue regole."8 Il sangue mestruale era definito inizialmente da Bella in termini di sporco. Le adepte e le trosi del gorovodu accettavano quindi questa idea, ma ciò non significava che esse si considerassero effettivamente in uno stato di impurità; riconoscevano invece lo statuto ambiguo del loro sangue rispetto a quello di cui si nutrono abitualmente i vodu. Vi era quindi un'inversione di prospettiva, poiché dal punto di vista femminile, era il sangue sacrificato ai vodu che poteva interferire con il loro sangue, causando delle mestruazioni perpetue, che in una specie di "ipersimbolizzazione della fertilità" (Gottlieb 1988: 68) le rendevano sterili. Le donne stavano lontane dall'altare per proteggere la loro fertilità e in termini più generali la loro vita, e non dovevano essere sottoposte a coercizione o a domande inquisitorie, come nel mio caso di donna straniera ed esterna al culto9. Il sangue - hou in ewe e fon -, non solo quello mestruale, ha uno statuto ambiguo e polisemico, essendo al contempo simbolo di morte e di vita, liquido invisibile, nascosto all'interno del corpo, e visibile, ma solo nel momento della morte10. Il sangue è l'alimento preferito dei vodu, ed è essenziale al mantenimento di un rapporto proficuo tra visibile e invisibile. Nelle sue ambivalenze è l'elemento più prossimo all'essenza impalpabile e contraddittoria del vodu stesso. Anch'esso, come il sangue, si palesa, si rende visibile attraverso la morte, ma l'uomo lo venera in quanto strumento invisibile di vita e di rigenerazione. Come il sangue, il suo stato è simile a quello di un fluido in continuo movimento; il vodu scorre come un'energia in infiniti luoghi differenti, ma non perciò perde le sue potenzialità. La prossimità tra vodu e sangue è testimoniata dall'uso, anche se poco frequente, della parola hou come sinonimo di vodu e dall'etimologia della parola houno11, utilizzata, soprattutto tra gli ewe, per definire i sacerdoti del vodu. Houno significa la madre (no) del sangue (hou), dove l'inversione di genere da madre a padre - gli houno sono prevalentemente uomini - rende evidente la necessità di incorporare, in questo ruolo, entrambe le identità maschile e femminile12. Gli uomini e le donne devono essere intercambiabili anche nel loro ruolo di "contenitori" della divinità, infatti durante la possessione rituale si trasgrediscono sia i limiti tra il mondo visibile e invisibile che quelli tra i generi. Gli adepti che vanno in trance sono definiti vodussi, cioè "spose del vodu". Ma la loro identità di genere viene, nel momento della possessione, cambiata dalla divinità, che a sua volta non ha una chiara identità sessuale. Non esiste quindi differenza tra uomini e donne come "spose" del vodu e la fusione tra divinità e uomodonna, annulla ogni confine di genere. Il sangue nel vodu non è stato simbolizzato, come nel cristianesimo. Il sangue versato come sacrificio necessario a salvare l'uomo, non può essere evocato come un'idea, ma deve essere vissuto come un'esperienza sensibile. Gli animali in quasi tutti i sacrifici vodu vengono sgozzati e sottoposti a una morte lenta, che metta in scena le ambiguità del sangue; esso, fluendo inesorabilmente al di fuori del corpo dell'animale, mostra agli uomini il passaggio dalla vita alla morte, palesando la sua stessa funzione. Le donne perdono sangue, quindi possiedono un fluido che si mette in competizione con quello degli animali, essenziale alla vita dei vodu, in qualche modo prossimo ai vodu. Il sangue mestruale è lo strumento del potere femminile che, nella sua forma più violenta e pericolosa, diviene stregoneria. La comune credenza secondo cui è più facile che le donne anziane siano delle streghe, aze, deriva dal fatto che esse, avendo superato 27 ACHAB D oss i e r De genere il periodo fecondo, sono in grado di trattenere il loro sangue, quindi energia vitale, ase13, al loro interno. Il sangue spesso viene citato nelle canzoni dedicate alle Gelede e nei versi in cui si parla delle aze; esse lo usano per le attività quotidiane, si lavano e lavano i vestiti, dimostrando di essere in grado di controllarne e manipolarne il flusso vitale, creando disordine e esibendo la loro capacità di sprecare e controllare l'energia. Alle streghe viene offerto olio di palma, poiché il suo colore rosso, può renderlo un sostituto del sangue e quindi placare i loro desideri di morte. Secondo le concezioni e gli usi locali il sangue mestruale può avere anche valenze positive14. Innanzitutto è il liquido della procreazione che contribuisce alla nascita dell'uomo e, restando nella sfera dei poteri magici, può essere utilizzato per fare pozioni, filtri d'amore e, ad esempio, aggiunto nel sugo della carne o del pesce, può aiutare le venditrici ambulanti ad acquisire un sempre maggior numero di clienti. Tra gli Ashanti, secondo quanto scrisse Rattray, le interdizioni a cui erano sottoposte le donne mestruate erano molto rigide, dato che si riteneva che esse potessero togliere potere agli stool (seggi) degli antenati; la punizione per chi infrangeva le regole era la morte. Ma allo stesso tempo il sangue, percepito quindi come estremamente pericoloso e "inquinante", veniva utilizzato da alcuni preti asante per realizzare dei kunkuma, "il più potente suman15 in Ashanti" (Rattray, 1927:13). Il gorovodu si pone oggi, rispetto agli altri vodu cosiddetti "ancestrali" o "tradizionali", come un vodu "moderno" che cerca, facendo proprio un discorso che si intesse di implicazioni politiche, di porsi al di sopra di tutti gli altri vodu. La pulizia, l'ordine e la facilità d'accesso al culto sono dei valori associabili alla società "moderna" e che i fedeli del gorovodu cercano di incorporare. I vodu "classici" sono spesso considerati un retaggio del mondo contadino, o in ogni caso identificati con una fetta di popolazione meno "evoluta". La categoria di pulito, attribuita al gorovodu, deve essere compresa secondo un'epistemologia propria di uno specifico panorama storico. Esso è un vodu "moderno", straniero e pulito in opposizione ai cosiddetti vodu autoctoni o "tradizionali", accusati in determinati momenti storici e politici di essere troppo vicini alla stregoneria, sporchi, selvaggi e primitivi. Il gorovodu ha fatto proprio un'estetica che privilegia l'ordine e la pulizia. Gli altari sono ampi, luminosi e accoglienti. Le abitazioni delle singole divinità sono squadrate e costruite in cemento; in molti casi rivestite di piastrelle bianche, espressione di modernità e progresso. Gli "oggetti" (Augé 1988) gorovodu hanno superfici uniformi, rese splendenti dalla costante sovrapposizione di strati di sangue che viene omogeneamente distribuito su di essi in modo che essa appaia compatta, nera e luminosa. L'estetica "dell'ordine" di questi altari può essere meglio compresa se confrontata all'estetica "del disordine" tipica degli altari vodu, dove prevale un caos apparente, la sovrapposizione materica, la metamorfosi delle forme, e gli ambienti sono generalmente bui, piccoli o poco accoglienti. La storia di questo vodu e il suo percorso geografico sono quindi elementi essenziali per comprenderne i cambiamenti epistemologici che sembrano aspirare a una semplificazione dei significati16. Il gorovodu rivendica un'origine che si spinge al nord, un nord che può andare ben oltre le regioni della savana per arrivare fino alle rive del Giordano e alla Mecca. I riferimenti alla religione musulmana sono molteplici ed espliciti. Secondo Agbassi Agbeko, una delle rare donne sofo, che acquisì il vodu quando era ancora in età fertile, l'interdizione per le donne mestruate, ad entrare nel tempio, sarebbe solo l'acquisizione di una pratica straniera e relativamente recente: "è un divieto che interessa solo questi vodu perché loro sono puliti. E' la stessa interdizione che hanno i musulmani e il vodu ci è stato dato dagli hausa, quindi ha le stesse abitudini. Se vieni a pregare e hai le mestruazioni, le tue preghiere non funzioneranno e il vodu ti renderà malata."17 Anche Adzrobassa, una trosi di circa cinquant'anni, che frequentava il medesimo "couvant" di Bella, raccontandomi di sua sorella, che divenne sofo da giovane, mi disse: "Un tempo la legge non era così rigida e si poteva diventare sofo anche da giovani. Lei (la sorella) aveva un bosofo18 e quando aveva le mestruazioni era lui ad entrare nell'altare. Poi lei si purificava. Bastava mettere le mani nell'acqua che c'è all'ingresso, la stessa cosa che bisogna fare se si tocca un cadavere. Ora la regola è un po' più difficile e rigida."19 Sia Agbassi che Adzrobassa accettavano le regole del loro vodu, soprattutto perché se così non avessero fatto si sarebbero ammalate; esse non consideravano però la donna mestruata come impura. Le regole inoltre apparivano come "novità" legate all'origine "hausa", quindi straniera, della divinità o a un irrigidimento avvenuto negli ultimi anni, che esse accettavano proprio per rispetto delle peculiarità del loro vodu. L'idea di sporco è un concetto che il gorovodu ha mutuato sia dalla religione musulmana che da quella cristiana, con cui i suoi fondatori, all'inizio secolo, si confrontarono. Come nella moschea, prima di entrare nell'altare bisogna togliersi le scarpe e lavarsi le mani nell'acqua, ma nel caso del gorovodu è un'acqua arricchita di atike, erbe cariche di potere mistico. Il gorovodu, soprattutto negli ultimi anni, è divenuto il vodu "pulito" che, anche grazie a questa sua caratteristica, sembra riscuotere un maggiore interesse da parte di chi, pur appartenendo a una famiglia di tradizione vodu, si è allontanato dalla sua pratica. Prima di arrivare tra gli ewe del Togo e i fon del Bénin, le divinità fecero molta strada, caricandosi di precetti, pratiche e immagini mutuate da genti straniere quali i popoli della savana, gli ashanti e gli anlo, ma anche i predicatori cristiani d'inizio secolo. Le interdizioni riassumono quindi un insieme di significati che si sono andati stratificando nel tempo e di cui, in parte, si è persa memoria. Come ricordava Adzrobassa, la donna dopo le mestruazioni si deve purificare, come quando ha toccato il corpo di un morto. Esistono infatti interdizioni, comuni alla pratica dei popoli di 28 ACHAB D oss i e r De genere lingua ewe, che regolano i fluidi e i contatti che possono avvenire tra di essi. Una donna fertile deve purificarsi dopo aver toccato il corpo di un morto, poiché altrimenti il contatto con la morte causerebbe le mestruazioni perpetue e quindi l'infertilità (Fiawoo 1974: 272). Tra gli anlo ewe del Ghana, verso la fine dell'800, i fluidi prodotti, sia dagli uomini che dalle donne, erano considerati delle sostanze potenzialmente pericolose. Si credeva, ad esempio, che se due uomini avessero dormito con la stessa donna il loro sperma si sarebbe unito e ciò avrebbe portato a risultati fatali. Il mestruo, inoltre, aveva il potere di togliere la virilità agli uomini, di rubare potere agli oggetti caricati spiritualmente e di aggravare gli ammalati (Greene 2002: 88). Alcune di queste precauzioni sono ancora oggi ritenute valide20, almeno tra gli ewe del Togo. Pur essendo un'interdizione meno enfatizzata, è vietato, anche per i fedeli del gorovodu, entrare nell'altare subito dopo aver avuto un rapporto sessuale, perché sul corpo potrebbero ancora esserci tracce di sperma; esso, come il sangue, interferisce con la forza del vodu o è vulnerabile ad esso. Solo nelle società cosiddette "avanzate", il susseguirsi delle generazioni e il ciclo della vita è considerato un fenomeno che "ha luogo "naturalmente"" (Marglin, Mishra 1992:31). In altri contesti, invece, il sangue mestruale e lo sperma, in quanto fluidi riproduttivi, sono sovente oggetto di rappresentazioni e pratiche da parte degli uomini e delle donne che percepiscono lo scorrere della vita anche come un prodotto delle loro stesse attività. Si tratta di liquidi corporei dotati di una forza loro propria, spesso indipendente dalla persona da cui fuoriescono. La loro funzione e il loro valore cambia a seconda del contesto e delle relazioni in atto. Il problema non è quindi legato al solo sangue mestruale, ma a un insieme di liquidi corporei, carichi di potere generativo, la cui essenza potrebbe reagire in modo catastrofico con quella, altrettanto materiale dei vodu. Non esiste quindi una condanna assoluta dei liquidi in quanto tali, ma la consapevolezza, quasi chimica, che le relazioni e interazioni tra gli elementi sono estremamente delicate. Come i vodu sono delle realtà complesse, costituite a partire dall'accumulo sapiente di materie vegetali, organiche e minerali, così l'uomo, entità tutt'altro che unitaria, si pone in una relazione di omologia rispetto alle divinità. Lo sperma e il mestruo sono i componenti dell'uomo che più lo avvicinano alle forze dell'invisibile, ed è in base a questa constatazione che la loro essenza assume una valenza ambigua. Tenendo in considerazione tali concezioni e ricordando che il vodu, in quanto religione politeista è particolarmente aperto a incorporare senso, è più facile comprendere come le interdizioni relative al sangue mestruale si siano arricchite di una valenza contaminante, soprattutto grazie alla retorica del "pulito", che il gorovodu ha fatto propria. Uomini e donne percepiscono le interdizioni legate al sangue mestruale secondo prospettive differenti, che possono mutare negli anni e secondo il contesto sociale di riferimento. Per gli uomini, i sofo in particolare, la donna mestruata è sporca e quindi non deve avvicinarsi, perché ciò potrebbe "rovinare" i vodu. Per le donne non avvicinarsi al vodu significa agire per il proprio bene, garantire e preservare la propria fertilità ed essere in sintonia con la divinità a cui ci si è affidate. La sua origine di culto antistregoneria ha sicuramente esasperato, rispetto agli altri vodu, il timore del sangue mestruale, che è divenuto oggi un precetto espresso in termini di sporco e pulito. La posizione della donna nella società dei paesi africani che ho preso in considerazione, nonostante le forme di estrema violenza nelle quali i rapporti di genere possono sfociare, non è comunque di semplice esclusione o sfruttamento. Le regole e i tabù che le società hanno elaborato attorno alla donna sono state generalmente percepite come oppressive e discriminanti nei suoi confronti e, essendo stati analizzati soprattutto in contesti sociali non occidentali, sono divenuti un simbolo "dell'arretratezza dei meno sviluppati" (Marglin, Mishra 1992: 23). Le pratiche e le interdizioni, così come la paura delle streghe, mettono piuttosto in luce l'incessante interrogarsi sui temi che riguardano l'uomo, la donna e la loro collaborazione nel fondamentale compito di garantire il susseguirsi delle generazioni. L'idea di sporco, legata al sangue mestruale non è quindi assoluta e tanto meno una percezione naturale; la donna non è sporca né impura, ma è produttrice di un fluido molto potente. Il sangue ha un'agentività che prescinde dal volere della donna, ma ella può essere in grado di controllarlo e manipolarlo, se ne ha la capacità e la necessità. E' questo il punto critico: l'appropriazione che la donna può fare dei propri liquidi escludendo l'uomo dal controllo dei fluidi e della loro combinazione. Sicuramente oggi è più difficile cogliere l'uniformità e la coerenza di alcuni significati, per cui anche il sangue mestruale, come molti altri aspetti della vita e dei rapporti umani, si è appesantito di immagini e pratiche disturbanti, che si esprimono attraverso un linguaggio meno aperto alle mediazioni. Il sangue mestruale nel gorovodu sembra aver perso parte della sua polisemicità e tende ad essere interpretato secondo le più semplici categorie di sporco e pulito, ma nelle parole delle donne mantiene la complessità dei suoi significati che si inscrivono in un discorso attento agli elementi e equilibri cosmici. [email protected] Note (*)L'articolo è frutto di ricerche svolte nell'ambito del progetto inter-universitario MEBAO, Missione Etnologica in Bénin e Africa Occidentale, diretto Alice Bellagamba, finanziato dal Ministero degli A ffari Esteri - Direzione Generale per la Promozione e la Cooperazione Culturale (DGPCC) e cofinanziato dal Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione "Riccardo Massa" dell'Università di Milano-Bicocca 1. Nelle seguenti pagine utilizzerò come sinonimi "vodu" e 29 ACHAB D oss i e r De genere "divinità", anche se questa traduzione può risultare fuorviante. Spiegare e definire il vodu in termini coerenti o almeno comprensibili alla logica occidentale è stato un obbiettivo che ha segnato profondamente gli studi relativi alla religione "tradizionale" di quest'area. I primi missionari, così come i primi amministratori, nel migliore dei casi, videro nei vodu degli angeli, dei santi o comunque degli intermediari tra gli uomini e Dio, che essi identificarono con Mawu, uno dei vodu di Abomey. Definire il corpus dei vodu, come un pantheon (Herskovits 1933; Le Hérissé 1911; Augé 1988) è stato un altro approccio che, se ne ha facilitato la comprensione, ha creato ulteriori possibilità di malinteso, così come i molteplici tentativi di classificazione e numerazione. Non cercherò quindi di dare una definizione di vodu, sperando che alcuni suoi significati e implicazioni possano emergere dalle pagine che seguono. Mi riferisco al vodu africano cioè quello praticato nel Bénin e Togo meridionale e in una piccola area del Ghana, a est del fiume Volta. Il culto degli orisha, che appartiene invece ai popoli di lingua yoruba, ha un legame molto stretto con i vodu. Molti di essi sono infatti degli orisha yoruba che furono incorporati durante le migrazioni, le guerre e le conquiste che agitarono i popoli della regione. 2. Tron è una parola ewe che viene, come nel caso di "vodu" tradotta con "divinità"..L'utilizzo della parola testimonia che le divinità, originarie del nord, furono poi assemblate ed ebbero grande successo tra gli anlo-ewe dell'attuale Ghana e proprio da qui si diffusero in Togo e Bénin. 3. Gli "hausa" sono musulmani e il termine viene usato in Africa occidentale per definire genericamente chiunque pratichi l'islam. 4. I documenti d'archivio e i testi scritti prevalentemente da missionari dell'epoca mettevano in luce la sua valenza sincretica e le possibili implicazioni politiche piuttosto che la valenza antistregoneria. Cessou (1936) missionario a Lomé, volendo evidenziare la corruzione morale che il nuovo culto implicava, riportò, ad esempio, casi di mogli che, protette dal vodu, riuscivano ad avvelenare il marito, complice il loro amante. 5. Esiste una stregoneria mercificata che tutti, uomini e donne, possono comprare per conquistare potere economico, sociale o politico. La stregoneria che si tramanda di generazione in generazione è invece esclusivamente femminile. In lingua fon ed ewe si chiama aze, in nago-yoruba àjé. Le aze si nutrono di carne umana e di sangue, oppure d'olio rosso di palma, che metaforicamente sostituisce il sangue. La letteratura antropologica, soprattutto quella relativa alle popolazioni di lingua yoruba è ricca di riferimenti alle àjé. Secondo le concezioni locali praticamente ogni donna è potenzialmente una àjé, "perché le madri controllano il sangue delle mestruazioni", è un flusso energetico che unisce tutte le donne rendendole potenzialmente raggiungibili dal potere mistico delle madri, cioè le streghe. Le madri sono delle figure importanti nella mitologia yoruba e legate soprattutto al culto delle Gelede. La funzione principale di questo culto era quello di placare Iyanla. L'identificazione di Iyanla non è univoca, in alcune aree ella è la moglie di Obatala, la prima donna dell'universo yoruba, ma più in generale racchiude in se i principali attributi delle divinità femminili e spesso viene identificata con la Grande Madre chiamata anche Onile cioè "la padrona della terra". La sua identità è legata alle divinità dell'acqua Yemoja (madre di tutte le acque), Olokun (dea del mare), Osun (dea del fiume Osun); ha gli stessi poteri di Ile (Terra) e Oduduwa - la dea della terra - perché rende feconda la vita, l'umanità e la civiltà; talvolta è Odu - la fondatrice della stregoneria. 6. La dicotomia puro e impuro ha caratterizzato molti studi che si sono concentrati sui tabu legati alle mestruazioni. Secondo il modello teorico proposto dalla Douglas (1966) una sostanza è ritenuta inquinante in base a una percezione condivisa di anomalia rispetto a un dato ordine o sistema culturale. Per cui un inquinante è, allo stesso tempo, il prodotto e la minaccia a uno specifico ordine sociale. In quanto tale esso diviene oggetto a proibizioni volte a garantirlo e proteggerlo. Il sangue mestruale, se si assume che il corpo fisico sia una metafora del corpo sociale, ben incarna questa teoria, soprattutto se interpretato come anomalia simbolica, come un liquido fuori posto: un sangue sporco. Sempre in questa prospettiva si sono situati gli studi ( Rosaldo e Atkinson 1975) che hanno associato il sangue mestruale all'esclusione femminile da tutte le attività che comportano contatto con il sangue come la caccia, i sacrifici o l'esecuzione di scarificazioni. 7. La trosi - moglie del tron - cioè della divinità, è un'iniziata che va in trance e durante la possessione vede e parla con gli occhi e la bocca della divinità che in quel momento incarna. 8. Intervista del 2 settembre 2006, Klikamé-Lomé 9. Esistono molte regole a cui i fedeli del gorovodu devono sottostare, come ad esempio il divieto di rubare o di mangiare la carne di maiale. Le regole non sono universali per tutti i "couvant", ma vi sono sfumature differenti che ciascuna comunità fa proprie. Il non rispetto delle regole, provocando l'ira del vodu, comporta un intervento patogeno dello stesso, che causerà la malattia o un'altra forma di disordine all'interno della vita dell'individuo. 10. Come scrive Camporesi, riferendosi alle concezioni delle antiche culture greche ed ebraiche esisteva un "enigma del sangue". Il sangue è un "liquido in perenne movimento, interno e invisibile, linfa vitale per la pianta uomo come l'acqua lo è per i vegetali, il sangue possedeva una potente carica metaforica coagulante simboli ora terrifici ora salvifici connessi all'immagine nera della dissoluzione e della morte o a quella positiva della rigenerazione e della vita" (Camporesi 1997:5). 11. E' un sinonimo di voduno ed anche di sofo - che significa sacerdote in twi-. 12. Come evidenzia Nadia Lovell (2002), in ambiente ewe ouatchi, il sangue di una persona è dato dalla madre, mentre le ossa dal padre, per cui il sangue designa sempre l'appartenenza matrilineare. Nel caso dei sacerdoti vodu essi sono metaforicamente e fisicamente imbevuti del sangue delle antenate. Hounka - la corda di sangue - è il termine utilizzato per designare chi diviene fedele di un vodu. Ricordando che anche i 30 ACHAB D o s si e r De genere vodu sono hou, cioè sangue, secondo la Lovell si può identificare hunka, come il meccanismo attraverso cui si commemorano le antenate donne: i vodu servono a commemorare la componente femminile dell'individuo mentre quella maschile, gli antenati, vengono ricordati singolarmente, citandone il nome, nelle occasioni cerimoniali (2002: 41-47) 13. L'ase è la forza vitale che appartiene alle divinità, agli antenati, agli uomini, ma anche alle piante, alle rocce, alle canzoni, alle preghiere e alla parole. Solo l'ase permette che la vita proceda e che avvengano dei cambiamenti; essa ha una valenza mistica e religiosa così come politica e sociale, essendo un segnale di potere, forza e autorità 14. Come mette in luce la Gottlieb (1988) i "tabu mestruali" pur essendo in qualche misura universali, come le mestruazioni stesse, hanno significati ambigui e spesso multivalenti: possono limitare le azioni delle donne oppure quelle delle persone o delle cose che le circondano (1988:7-10). Infatti il sangue mestruale può anche essere percepito come un simbolo positivo di fertilità, come mostra ad esempio la Hanssen (2002) per i Baul del Bengala indiano e la Gottlieb (1988) per i Beng della Costa d'Avorio. Anche in occidente, nell'Italia del 1500 la donna durante il ciclo mestruale, fu liberata dalla macchia dell'impurità. Il mestruo divenne un privilegio, assumendo un segno decisamente positivo: un dono divino che aiutava a regolare l'equilibrio fisico e psicologico della donna (Camporesi 1997: 94-95) 15. Suman: talismani e amuleti 16. Uno dei due ordini in cui oggi si divide il gorovodu, il tron kpeto deka (divinità della pietra uno), rivendica un primato in questo ambito rispetto al suo corrispettivo, il tron kpeto ve (divinità della pietra due). In esso, ad esempio, l'assenza di trance viene spiegata come una maggiore forma di controllo e di ordine corporei. 17. Intervista del 7 settembre 2006 a Keghe - Lomé 18. Si tratta dell'aiutante del s o f o, cioè colui che sta effettivamente sempre a disposizioni della gente che arriva all'altare. Sofo, di solito, interviene solo per casi gravi e importanti. 19. Intervista del 5 settembre 2006 a Klikamé-Lomé 20. Secondo un bokono di Afagnan, il divieti relativi al mestruo sono validi per tutti i vodu, ma egli sottolinea anche altri divieti: "le donne con le mestruazioni non possono entrare negli altari. La donna non può entrare anche dopo aver partorito, per tre mesi. Se entri o fai scappare il gbogbo che lavora con il vodu, oppure può succedere che non potrai mai più avere figli. Rischi di distruggere la forza del vodu. E' un sangue che non è normale, un sangue sporco, un sangue che esce in modo differente, non piace ai vodu. Non puoi entrare anche se hai avuto dei rapporti, sei sporco di sperma e non ti sei lavato." (intervista dell'11 settembre 2006 ad Afagnan,Togo) Bibliografia Augé M. (1982) Génie du paganism. Paris, Gallimard (trad.it : Il genio del paganesimo Bollati e Boringhieri, 2002) Augé M. (1988) Le dieu objet. Paris, Flammarion. (trad. it.: Il dio oggetto. Meltemi, Roma, 2002) Camporesi P. (1997) Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue. Garzanti Douglas M. (1966) Purity and Danger. Routledge (trad.it.: Purezza e pericolo Il Mulino 1993) Fiawoo K.D. (1974) "Characteristic features of Ewe ancestor worship" Ancestors, ed. William H. Newell, 263-281. The Hague: Mouton Field M. J. 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Tutte le notti mi perseguitava nella casa di sopra, lassù mi perseguitava”.1 In questo articolo nato da un’etnografia sulle Ande Peruviane, mi sono avvicinata ad una prospettiva di genere attraverso l’analisi delle rappresentazioni e delle pratiche che circolano attorno alla “seduzione”, un’esperienza dove uomini, donne, divinità, sogni, e corpi partecipano. Ho esplorato la seduzione sia attraverso le storie di vita, che attraverso le “narrazioni oniriche” di donne di diff e r e n t i generazioni che vivono nelle comunità campesine (Chiwa, e Contay)2 in cui si è svolta questa ricerca, iniziata nell’agosto 2004,3 nella regione di Ayacucho, 4 sulle Ande Peruviane. Sia a Chiwa che a Contay mi sono trovata a vivere in famiglie di donne sole che avevano perso il marito,5 e anche quando andavo a far visita nelle altre case del villaggio erano soprattutto le donne che incontravo.6 Data la maggior facilità che ho avuto nell’accedere alle parole delle donne, ho così deciso di avvicinarmi alle esperienze, e alle rappresentazioni della seduzione attraverso il loro sguardo. Nella letteratura antropologica che si è occupata del contesto andino viene spesso evocata la complementarietà tra il maschile ed il femminile come essenziale nella costruzione dell’idea di persona, ed è la coppia la dimensione in cui ogni individuo trova la sua completezza (Arnold, 1997). Anche nelle rappresentazioni della “natura” e delle “divinità” la coppia è una dimensione centrale, i luoghi hanno una connotazione sessuale, vi sono montagne maschio e montagne femmina (Bernard, 1991), ed in generale ogni forma vivente è vista all’interno di una prospettiva sessuata, e deve essere accompagnata dal suo corrispettivo per essere “completa”7. Nonostante alcune recenti analisi etnostoriche sulla “androginia”8 presente in alcuni miti andini abbiano evidenziato la presenza di categorie di genere preispaniche che destabilizzano la divisione dicotomica,9 la categorizzazione di molte entità, piante, frutti, semi, luoghi, in maschili o femminili, è un aspetto costantemente evocato nelle narrazioni degli abitanti di entrambe le comunità campesine. La formazione della coppia avveniva fino a poco tempo fa molto precocemente, e già a partire dai quattordici anni le ragazze avevano un compagno, e i primi figli, ma oggi questa situazione sta cambiando, e l’età del matrimonio si è posticipata. Come in passato anche oggi i primi innamoramenti e corteggiamenti avvengono generalmente nella solitudine degli altipiani, lontano dal villaggio, e dallo sguardo degli adulti. I giovani si incontrano mentre pascolano gli animali, e lì cominciano giochi di seduzione, che a volte diventano veri e propri incontri sessuali. Secondo Isbell (1978) non vi è nel contesto andino una stigmatizzazione della libertà sessuale delle giovani, ed anche nelle frequenti situazioni in cui le ragazze restino incinte, il figlio verrà allevato nella famiglia estesa della madre, senza che questo le pregiudichi definitivamente la possibilità di sposarsi successivamente. La libertà sessuale che caratterizza l’adolescenza si interrompe invece non appena si forma una coppia ufficiale; il matrimonio implica generalmente la regola di residenza virilocale,10 e nei primi anni la coppia si trasferisce nella casa dei genitori del marito, e solo successivamente formerà un nucleo autonomo. Nel corso di questa ricerca ho parlato di matrimoni con donne di differenti generazioni e i loro racconti sono molto diversi. Le narrazioni di donne che oggi sono nonne nella comunità, evocano perlopiù matrimoni obbligati, decisi dalle famiglie, e le loro descrizioni ruotano attorno all’idea di rantikuy” (che indica l’azione di “scambio e vendita”), di engaño (inganno), di “apay” (rapire). “(..)Quando io ero ragazzina mia madre mi ha venduto e mi ha fatto sposare con la forza, mi ha chiuso in casa bevendo alcool e chicha11. (..) così era prima, ora dipende dalla tua decisione, i genitori non ti vendono (..)”12 Le donne delle nuove generazioni scelgono invece per lo più liberamente il futuro compagno, eppure anche nei loro discorsi la parola “engaño” continua a rappresentare un aspetto centrale attraverso cui descrivono le relazioni con gli uomini. Se oggi l’engaño non sembra dipendere più dalle costrizioni famigliari, il far ubriacare le giovani in occasione delle feste comunitarie è considerata una strategia di seduzione-engaño spesso utilizzata dagli uomini, così come le ragazze raccontano come essi spesso le “engañano” con false promesse di matrimonio solo per avere delle relazioni sessuali. Penelope Harvey (1994) in una ricerca sulle relazioni di genere in alcune comunità campesine della regione del Cuzco evidenzia come le donne non ammettano quasi mai di avere avuto una relazione sessuale e usino spesso il verbo “engañar” per alludere ad essa13. 32 ACHAB D oss i e r De genere La parola “engaño” sembra evocare quindi una sorta di passività delle donne, come se le giovani non scegliessero liberamente il compagno o una relazione sessuale, ma fossero indotte da una serie di circostanze (ubriacatura, false promesse, costrizioni fisiche). Ma accanto a queste strategie discorsive dove le donne si auto-rappresentano come prede “ingenue” del desiderio, ho spesso assistito nel corso delle feste comunitarie a giochi di seduzione dove le giovani attraverso il ballo, il canto e gli sguardi sono al contrario le attive protagoniste del gioco seduttivo. La paura di essere engañate da false promesse, la paura di rimanere incinte di un compagno che poi le abbandoni sono comunque due aspetti che ricorrono frequentemente nei discorsi delle donne di differenti generazioni. La seduzione è anche un aspetto centrale che caratterizza le relazioni con le divinità, e nel corso di questa etnografia ho spesso incontrato narrazioni mitiche, o racconti di sogni e visioni in cui l’Apu,14 (la divinità della montagna), o i gentiles (antenati) si manifestano agli abitanti della comunità per “engañarlos” sedurli. A Contay le seduzioni dell’Apu vengono in alcuni casi raccontate come una sorta di leggenda, come storie che si dice siano successe ad una parente, ad una vicina (un modello narrativo attraverso cui si tramandano generalmente i racconti e i miti popolari), ma in altri casi vengono invece descritte come esperienze vissute in prima persona, esperienze accadute davvero, che si contrappongono al “cuentu” (racconto). L’incontro con l’Apu può avvenire in sogno o venire descritto come una visione sperimentata dalla giovane da sveglia, mentre si trovava sola sulla montagna pascolando i suoi animali; bisogna infatti tenere presente che a Contay l’attività della pastorizia è affidata soprattutto alle donne, e in passato come oggi, fin da piccole le ragazze trascorrono giornate o anche intere settimane in una choza (capanna) lontano dal villaggio, da sole o accompagnate dai fratelli più piccoli, per controllare gli animali. Questa esperienza di prolugata solitudine sulla montagna sembra influire sulla frequenza degli incontri onirici e visionari con l’Apu. Se i giovani “umani” sono descritti come esperti “nell’arte di engañar”, secondo le interpretazioni locali l’Apu in quanto divinità si può avvalere di molte più strategie, e di veri e propri incantesimi (encantos); potrà apparire nei sogni o nella solitudine della montagna nelle sembianze di un giovane gringo, blancon (bianco), o di un militare15 che seduce con lusinghe e promesse. “E il signore aveva la sua camicetta, ed il capello pettinato all’indietro, mi chiamava dal fondo della grotta (machay) e sicuramente se io fossi stata più vicina o lui fosse stato più vicino mi avrebbe nascosto (pakaruanman), in questo stesso luogo (la grotta) mi avrebbe nascosto. Così sono le nostre montagne. Anche il nostro Antarcacca16 paka17 (nasconde)” (Flora, 25 anni, comunità di Contay). Secondo le interpretazioni locali, le seduzioni della divinità (come le seduzioni umane) possono avere differenti conseguenze: portare al matrimonio, ad una gravidanza, ma anche alla malattia, 18 e persino alla morte19. Le donne di Contay raccontano che se la ragazza20 accetta il corteggiamento della divinità potrà diventare ricca (ovvero possederà molti animali), ma non dovrà mai sposarsi, e in alcuni casi sparirà per sempre dalla comunità. L’Apu oltre alla fedeltà impone il silenzio “non devi raccontarlo a nessuno”, e se la donna romperà il patto, lui potrà punirla con la malattia o in alcuni casi con la morte. Come quella ragazzina che aveva raccontato alla sua famiglia di aver incontrato sulla montagna una bel gringo, e che se ne sarebbe andata via con lui, ma che non ha fatto in tempo a realizzare il suo sogno, perché il giorno dopo i militari (durante l’epoca della violenza) gli hanno sparato un colpo dietro la nuca: “è che quando uno fa il patto con l’Apu non deve dirlo a nessuno” commenta Eudelia, reinterpretando questo episodio di violenza, così quotidiano in quegli anni, come il castigo della montagna per aver svelato il segreto. Anche la scomparsa di alcune giovani o bambini sulla montagna può venir spiegata facendo riferimento alla seduzione della divinità. C’è poi una donna che vive in una casa fuori dal villaggio non ha marito né figli, ed in compenso possiede una gran quantità di pecore, e di lei si commenta che sia una sposa dell’Apu. Se nell’organizzazione e nella struttura della comunità campesina la coppia è un’istituzione fondamentale, l’anormalità degli individui “incompleti” viene a volte spiegata e “normalizzata” all’interno di un universo mitico: attraverso narrazioni che, facendo allusione alla divinità della Montagna, ricostruiscono l’essenzialità della coppia. Oggi le giovani solteras (non sposate) sono sempre più numerose ed in genere la loro scelta è associata ai progetti lavorativi nelle città; di loro non si dice che siano le spose della montagna, ma “l’anormalità” di coloro che hanno scelto di non formare una coppia e vivono isolati, continua a suscitare sospetti. La seduzione dell’Apu viene evocata anche per spiegare altri tipi di anormalità presenti nel contesto comunitario, come la “locura” (pazzia).21 Le espressioni medio-traumado (mezzo-traumatizzato), opa (sordo-muto, o ritardato) vengono spesso usate per descrivere un malessere provvisorio o permanente, che può generare la perdita della parola, e che può essere causato dall’incontro con l’Apu. Anche l’anormalità di una gravidanza, o la precoce mortalità di un neonato possono venir attribuiti all’intervento sessuale della divinità della montagna. In alcuni casi viene descritto come una sorta di vento (aire)22, che penetra il corpo della donna che si è addormentata sulla montagna, fecondandola senza che lei se ne accorga, mentre in altri casi la gravidanza sembra essere generata da un atto sessuale avvenuto in sogno. Se nei casi di quelle che vengono considerate le “spose dell’Apu” o di coloro che sono definite “medias loquitas” (mezze-pazze, tonte, ritardate) sono gli altri che costruiscono narrazioni al “posto loro”, vi sono molti casi in cui i riferimenti agli incontri sessuali con la montagna vengono utilizzati in prima persona dalle donne stesse, per giustificare delle condotte personali, come nel caso delle gravidanze illegittime. Per una donna attribuire una gravidanza ad un sogno o ad un incontro sessuale con l’Apu può rappresentare anche una forma di agency, che le consente di giustificare una condotta altrimenti difficilmente accettabile all’interno del contesto famigliare e della comunità.23 La pratica dell’aborto viene in questi casi tollerata e l’abbandono del 33 ACHAB D o ss i er De genere neonato, “dejarlo morir” (lasciarlo morire), diventa una sorta di morte naturale, dal momento che si dice che i figli dell’Apu o dei gentiles nascono morti o sono destinati ad una vita brevissima. Le gravidanze attribuite alle seduzioni dell’Apu possono essere interpretate anche come modalità per esteriorizzare il senso di colpa di fronte alla perdita reale o all’abbandono di figli sulla montagna,24 non va infatti dimenticato che si tratta di zone dove la mortalità infantile è molto elevata. L’Apu viene rappresentato come una entità pericolosa che può nascondere le giovani, farle impazzire ed anche ucciderle, ma al tempo stesso come uno “sposo” potente che le riempirà di ricchezze: questi diversi aspetti che caratterizzano la stessa divinità rivelano un’ambiguità intrinseca al potere, che impedisce di parlare dell’Apu nei termini di un giudizio manicheo buono-cattivo (Earls 1973, Gose, 1986, Ricard 2004). Quando l’Apu viene associato al maligno, al pericolo, i racconti delle sue seduzioni si trasformano in una sorta di monito che spaventa le giovani affinché non abbiano relazioni con sconosciuti incontrati sulla montagna. In altri casi invece alcune ragazze che hanno confidato ai famigliari il loro incontro con l’Apu, ricordano di essere state sgridate dagli stessi genitori proprio per aver raccontato, perchè se non l’avessero fatto avrebbero forse potuto ricevere doni e ricchezze. Quando Vitalicia, una campesina di Contay, viveva da sola nella choza, racconta che l’Apu per tre volte l’aveva visitata di notte, bussando alla sua porta. Per farsi aprire, le aveva promesso che le avrebbe procurato acqua per irrigare il suo campo, seminarlo e farvi crescere ogni tipo di verdura: “Vitalicia, aprimi la porta! Da quì uscirà molta acqua ..vuoi vacche? Vuoi pecore? Io ti farò una cequia (canale d’irrigazione dell’acqua), ci saranno verdure, ci sarà un giardino pieno di verdure..aprimi la porta!..25 io non dicevo nulla, stavo zitta..solo il mio cagnolino diceva hiii..hiii…Io non gli ho aperto, ma lui continuava a chiamarmi dalla porta “Aprimi! Aprimi!” io non gli aprivo ma ero bagnata di sudore”. Il terzo giorno Vitalicia era andata a casa dello zio, e gli aveva raccontato26 che un uomo veniva la notte e le diceva di aprirgli la porta e che lei aveva avuto paura, ma lo zio invece di confortare la nipote, l’aveva rimproverata dicendo che quel signore poteva essere l’Apu, e che se lei lo avesse ricevuto avrebbe sicuramente avuto molte pecore e vacche, come la signora Isabella di cui si diceva fosse la moglie dell’Apu27. “Se non avessi parlato..se te ne fossi stata zitta e tranquilla, ti avrebbe dato vacche e pecore..Isabella dicevano che aveva molte pecore perché era stata con Urqu (l’Apu)”. Le parole dei famigliari che sgridano le figlie per aver svelato l’incontro con l’Apu, possono venire comprese se si tiene presente la pratica precedentemente evocata del “tratanakuy”, dei matrimoni organizzati, in cui le figlie venivano “entregade” (consegnate-vendute) ad uomini spesso più vecchi di loro, ma che occupavano uno status socio-economico superiore. Far dialogare alcune narrazioni di sogni con le testimonianze della storia “diurna” delle donne di Contay ha consentito da un lato di poter meglio contestualizzare alcune trame oniriche, e dall’altro di riflettere sulle molteplici articolazioni tra la “vita diurna” e la “vita notturna”, tra la storia presente e passata degli abitanti di Chiwa e Contay. L’esplorazione delle manifestazioni oniriche dell’Apu e della sua “icona” è diventata occasione per riflettere anche su alcune rappresentazioni del potere e della violenza che circolano nell’immaginario notturno e che sono intimamente legate al tema della seduzione. Le peculiari vestigia di alcuni personaggi, la cui presenza è attestata storicamente (hacendados, preti, militari), sembrano essere state incorporate dentro l’ icona onirica dell’Apu. In alcuni casi la sua seduzione viene descritta come violenta e queste narrazioni oniriche non possono non essere messe in relazione con gli abusi che avvengono nel contesto comunitario, che caratterizzavano spesso una pratica degli hacendados28 e, durante la guerra, dei militari29, violenze di cui tutti sono a conoscenza ma di cui non si parla esplicitamente.30 Se a Contay molte donne raccontano di aver sperimentato in sogno la seduzione o le violenze dell’Apu (nelle sembianze di un militare), nessuna ha mai raccontato di essere stata vittima di un abuso sessuale reale: le narrazioni riguardano sempre conoscenti, e famigliari. Le violenze sessuali rappresentano spesso un “segreto pubblico” (Taussig, 1987), destabilizzato da figli illegittimi, da alcune rare testimonianze e anche da questi sogni dove l’Apu si manifesta nelle sembianze di quegli stessi personaggi di potere che hanno segnato la storia di questi luoghi. Che il potere rappresenti anche un oggetto erotico è una tematica che è stata esplorata da differenti discipline. Oltre che riflettere e rispecchiare abusi o episodi di violenza, i sogni seduttivi dell’Apu sembrano a volte parlare anche del desiderio di alcune donne di incontrare un uomo che viene da fuori e che potrà cambiare la loro vita. Spesso le giovani di Contay descrivono il loro fidanzato ideale secondo un canone estetico (un giovane gringo, alto) e sociale in cui generalmente non rientrano i loro coetanei che vivono nella comunità. L’ambiguità che caratterizza le rappresentazioni dell’Apu sembra riflettere l’ambiguità che caratterizza anche alcuni personaggi umani che detengono il potere. Un qualsiasi straniero, gringo, uomo ricco ed anche un militare, possono essere descritti come figure pericolose o abusanti, ma al tempo stesso attrattive in quanto rappresentano ed incarnano una possibilità di ascesa sociale, esercitando quindi un ambiguo potere seduttivo. Evocare la categoria di ambiguità non significa affatto minimizzare il problema della violenza. Quando una giovane campesina sperimenta il desiderio di sedurre il gringo, l’hacendado, il militare ecc.., si è comunque autorizzati a parlare di “violenza” in relazione alle strutture di dominio e alla disuguaglianza implicita nei rapporti di forza presenti in questo contesto. Nella relazione tra una giovane campesina ed un apu (hacendado, militare, ecc..) è evidente una dissimmetria e disuguaglianza di potere che può manifestarsi a differenti livelli (forza fisica, potere materiale, potere culturale). Anche se la giovane può sperimentare una situazione ambigua, e non è quindi solo spaventata ma anche attratta dal gringo-apuhacendado-militare, la disuguaglianza di potere tra i due soggetti autorizza l’uso del termine “violenza simbolica” nell’accezione 34 ACHAB Do s si e r De genere proposta da Bourdieu (1977). Farmer fa inoltre notare l’ipocrisia della nozione di “sesso consensuale”, in contesti sociali in cui le scelte non sono libere, ma limitate dalle condizioni di povertà, di razzismo, e di violenza politica (Farmer , 2004). Inizialmente quando mi avvicinavo alle narrazioni di queste seduzioni oniriche cercavo di comprendere se esse fossero sperimentate solo “oniricamente” o rappresentassero invece una modalità di parlare di violenze subite, di giustificare episodi accaduti, ma nel corso della ricerca mi sono accorta come le molteplici connessioni tra le narrazioni mitiche, le narrazioni dei sogni, i corpi, la storia, le violenze, le pratiche e le strategie sociali si compenetrassero: se da un lato sarebbe riduttivo demistificare queste narrazioni oniriche e leggerle soltanto come un riflesso della “realtà”, o interpretarle attraverso una prospettiva funzionalista, dall’altro sarebbe ugualmente limitante considerarle delle narrazioni di sogni che non hanno alcun legame con le pratiche sociali e con la storia di queste montagne. Le seduzioni dell’Apu possono essere analizzate da diversi punti di vista e prospettive, se da un lato sembrano rappresentare una forma d’incorporazione delle narrazioni mitiche che circolano nel contesto comunitario, dall’altra é importante analizzare l’uso sociale di questi racconti. In alcuni casi sembrano testimoniare la violenza e il controllo sociale che le donne subiscono nel contesto comunitario, in altri casi sembrano rappresentare delle modalità attraverso cui le donne rendono visibili pratiche abusive, parlano dei propri desideri e giustificano condotte illegittime, ovvero attraverso cui sfuggono a quello stesso controllo sociale che regola la vita comunitaria: i figli attribuiti all’Apu possono essere sia il frutto di abusi sessuali, che di rapporti illegittimi scelti dalle donne liberamente. Con queste riflessioni non voglio affatto sottovalutare il problema della violenza che molte donne vivono nel contesto comunitario, ma al tempo stesso credo sia importante non cadere nella reificazione della generica categoria “donna del Terzo Mondo”, considerata il prototipo della vittima per eccellenza31 (Mohanty, 2003). Questa categoria non aiuta a comprendere la specificità dei contesti locali e alcune strategie messe in atto dalle donne, in questo caso attraverso le narrazioni oniriche. Le donne non sono solo “engañate” dagli uomini della comunità , né sono solo vittime della seduzione dell’Apu, in alcuni casi la divinità della Montagna diventa complice dei loro desideri, della loro libertà sessuale, e dei loro sogni. Note 1."Me perseguía en mis sueños, con ojos marrones, como esta niña blanca, se parecía a tío Santiago, era blanco, bien gringo, El era muy parecido a el, todas las noches me persigue ,en la casa de arriba, allí me perseguía. 2. Entrambe le comunità sono state molto colpite dalla violenza, entrambe sono di piccole dimensioni (Contay ha circa 200 abitanti, mentre Chiwa solo una trentina di famiglie). La maggior parte degli abitanti si dedicano all'agricoltura e alla pastorizia, perlopiù come forme di sussistenza famigliare. 3. La ricerca si è articolata in tre periodi di permanenza sul campo, tre mesi nel 2004, otto mesi nel 2005, e sette mesi nel 2006. 4. Situata nelle Ande sud-centrali questa regione è stato l'epicentro di un conflitto armato (1980-1992) tra il movimento rivoluzionario Sendero Luminoso, e le Forze Armate (FFAA), una guerra civile che ha causato 70 mila vittime, per lo più campesinos della regione di Ayacucho. 5. Spesso mi veniva da pensare che gli uomini fossero effettivamente di meno, una percezione non del tutto falsa visto che in entrambe le comunità vi sono delle spiegazioni a questa predominanza femminile. A Chiwa le donne più anziane raccontano che molti uomini del villaggio sono morti per la loro febbre dell'oro. Circa quarant'anni fa era venuto nella comunità un prete che aveva convinto le autorità comunali a scavare sotto l'altare della chiesa perché lì avrebbero trovato l'oro. Tutti gli uomini di Chiwa che hanno lavorato come peones per scavare sotto l'altare sono morti, uno ad uno…e l'oro non è mai apparso. A Contay invece la minoranza degli uomini viene spiegata soprattutto in relazione alla guerra. Nell'Informe finale della Comisión de la Verdad risulta che furono gli uomini le principali vittime, e sono soprattutto le donne che si trovano oggi a fare i conti con la memoria della violenza, e con il processo di riconciliazione. 6. Il fatto che fossi una "donna soltera" (non sposata) rappresentava inoltre un elemento insolito, e tra le varie fantasie che gli abitanti delle comunità avevano rispetto alla mia presenza, veniva ripetutamente evocata l'idea che fossi in cerca di marito. Per non alimentare possibili malintesi, ho così preferito mantenere relazioni soprattutto con le donne, e incontrare gli uomini sempre attraverso la mediazione femminile. 7. In quechua la coppia viene definita warmi-qari, un'espressione generata dall'unione stessa della parola "qari" uomo, e "warmi" donna, ed è importante sottolineare che nonostante l'importanza della simbologia del maschile e del femminile, non esiste nella lingua quechua una differenziazione linguistica di genere. 8. L'antropologa Isbell analizzando alcuni miti andini d'origine, appartenenti al manoscritto di Huanrochirí, sostiene che "l'androginia" (una entità tanto maschile quanto femminile e considerata riproduttiva), è una categoria fondamentale nel sistema di genere delle Ande. Essa non rappresenterebbe soltanto una "complementarietà" finale, ma al contrario l'androginia dovrebbe pensarsi come una totalità più grande della somma delle sue parti. Per un approfondimento di questo tema si rimanda al testo di Isbell B., "De inmaduro a duro: lo simbólico femenino y los esquemas andino de género", in Arnold D., (editora), Mas alla del silencio: las fronteras de género en los Andes, Ilca, La Paz, Bolivia, 1997, pp. 253-300). [email protected] 35 ACHAB Do s si e r De genere 9. A Contay vi è una donna di circa settant'anni, che sembra ancor oggi perturbare le classificazioni di genere. I comuneros dicono infatti che sia mezzo donna e mezzo uomo, alludendo non ad un ermafroditismo nel corpo, quanto piuttosto ad una oscillazione sessuale legata alla temporalità. Dicono che in alcuni mesi è donna ed in altri diventa uomo, di nascosto la chiamano machorra, e in molte occasioni le persone mi hanno sconsigliato di andare a parlare con lei perché avrebbe potuto essere pericoloso. 10. Il matrimonio è spesso un'occasione in cui si rinforzano alleanze tra le famiglie, si effettuano trasferimenti di terra, e rappresenta una sorta di patto economico. 11. La chicha è una bevanda tradizionale delle regioni andine, ottenuta dalla fermentazione del mais. 12. "Cuando era chica mi madre me vendió y por la fuerza me hizo casar, me encerró en mi casa tomando trago,chicha..(..) así era antes, ahora no es así es tu decicion nomás, los padres ya no te venden". 13. L'espressione "me engaño" allude implicitamente all'avere avuto una relazione sessuale. In molte etnografie sull' "amor andino" viene spesso evocato come il gioco di seduzione prenda spesso la forma di una sorta di lotta, dove la resistenza attiva delle donne è vista come un'espressione di desiderio. 14. Se oggi le donne di Chiwa e Contay vengono visitate in sogno sia dalle divinità appartenenti al pantheon cristiano, che a quello andino, sono solo queste ultime ad essere protagoniste dei sogni sessuali, e nessuna donna mi ha mai raccontato di essere stata sedotta in sogno da un Santo. Gli appetiti sessuali sembrano quindi una prerogativa delle divinità autoctone, dell'Apu e dei gentiles (antenati). 15. Le stesse persone possono sognare l'Apu sia nella forma di un condor, un animale molto importante nella mitologia andina, sia nelle sembianze di un gringo (un uomo bianco, ben vestito) o di un militare, e queste diverse immagini vengono interpretate come una manifestazione della stessa divinità, ed attivano una risposta rituale. Le peculiari vestigia di alcuni personaggi, la cui presenza è attestata storicamente (hacendados, preti, militari), sembrano essere state incorporate dentro l' "icona onirica" dell'Apu. 16. Ogni comunità campesina ha il proprio Apu di riferimento, e Antarcacca è il nome dell'Apu di Contay. 17. Il verbo quechua "pakaruanman" (nascondere) è usato spesso in relazione alla divinità della montagna: l'Apu ti nasconde, e ti fa scomparire. Nelle narrazioni viene spesso evocata una vera e propria porta che si apre sulla montagna, una porta che si materializza all'improvviso, e da cui si può intravedere l'interno della montagna (ukhupi), spesso descritto come un palazzo meraviglioso dentro cui vi è frutta di ogni tipo, ricchezze, e che alcuni descrivono come una città. 18. Se la sessualità e la seduzione sembrano rappresentare fin dall'epoca pre-ispanica una delle possibili modalità di relazione tra le divinità e gli umani, è difficile stabilire se la connessione tra la sessualità onirica e la malattia sia una interpretazione autoctona, o se invece sia frutto dell'influenza della morale insegnata dai missionari, e del processo di colpevolizzazione della sessualità messo in atto dal Cristianesimo (Le Goff, 1985). 19. In alcuni casi la causa di questi sogni viene considerata il fatto di essersi addormentati o seduti in alcuni posti considerati "incantati" e pericolosi. L'attacco della Montagna sul corpo della persona prenderà quindi la forma onirica di un tentativo di seduzione, o di una molestia sessuale da parte di un gringo. Questi sogni vengono interpretati come una manifestazione del daño dell'Apu (che si manifesta come una malattia), ed attivano alcune pratiche rituali, come portare una offerta rituale ( pagapu) nel luogo da cui si pensa essere stati attaccati. 20. Come si è precedentemente accennato ogni montagna viene differenziata attraverso una prospettiva sessuata; l'Apu non è solo una divinità maschile, vi sono anche Apu che appaiono nelle sembianze di una donna per sedurre i comuneros uomini, ma in questa ricerca mi sono avvicinata prevalentemente alle narrazioni delle donne. 21. Anche in molte società amazzoniche viene documentata la presenza di una varietà di spiriti che seducono in sogno, o nella solitudine della foresta, generando forme distinte di pazzia, o mutismo (Taylor 1993, Perrin 1998, Severi 1988) Fantasmi sessuali che perturbano la realtà con azioni patogene che si inscrivono nei corpi di coloro che li incontrano. 22. L'Apu può manifestarsi non solo attraverso sembianze umane, ma anche attraverso un fumo, o vapore che esce dalla terra. 23. L'antropologo Flores Ochoa (1987) è stato uno dei primi a dare una spiegazione funzionalista di queste gravidanze attribuite a cause soprannaturali, che riguardano soprattutto due categorie di donne, le giovani non sposate, e le vedove: e concludeva la sua analisi esortando gli etnologi a domandarsi se le credenze che essi incontrano e analizzano sono davvero "reali" o se non si tratta, piuttosto, di strumenti efficaci di controllo sociale, dove l'entrata in scena, dell'Apu o dell'antenato consente di spiegare un comportamento deviante. L'antropologo Ricard (2004) si spinge oltre la spiegazione funzionalista mostrando come, sebbene in molti casi né le donne né i comuneros credono che il responsabile "di fatto" della gravidanza sia il gentiles o l'Apu, al tempo stesso pensano che in linea teorica avrebbero potuto esserlo. Se venisse negata la possibilità di queste gravidanze soprannaturali, non ci sarebbe più ragione di credere nelle entità del sistema religioso andino. Dal punto di vista della collettività è necessario sostenere la possibilità (teorica) di una gravidanza "soprannaturale" e quindi dell'esistenza di entità di un mondo altro, perché se così non fosse, si arriverebbe alla distruzione di tutto un sistema di credenze che servono a pensare il mondo. Le idee religiose (di cui fanno parte sia i gentiles che l'Apu) appartengono infatti ad un universo di idee che non può venir messo in discussione dall'esperienza. Questa distinzione tra la responsibilità "di fatto" della gravidanza e la possibilità "di diritto" rende possibile da un lato l'utilizzo di un episodio mitico per legittimare una condotta illegittima, ma dall'altro non nega l'efficacità della credenza nell'Apu e nella sua possibilità di manifestarsi agli umani (Ricard, 2004). 24. Analizzando le narrazioni delle gravidanze attribuite a cause soprannaturali, da un punto di vista psicologico, Brunel sostiene che esse possano avere anche la finalità di alleggerire le donne dal senso di colpa nei casi della morte di figli piccoli. Brunel G., "La enfermedad como seduccion real o como sueño: el caso del soq'a andino", in Antropologica, año 1986, IV, n. 4, Pucp, Lima 25. "Chay yakullamanta chuqpaspaykim yardinata, Tarpunki 36 ACHAB Do s si e r De genere llapachan, miranqa, kaymi hacienda kanqa". 26. Come è successo alle altre donne che hanno svelato la segretezza dell'incontro, da quando Vitalicia parlò con lo zio, il misterioso giovane notturno non è più apparso. 27. "Isabel nirqa Ciertucho imaya kakun, cabra ovejaspam karqa, chaysi orqoan kasqa, chaysi portiqiasqa cabrata ovejata". 28. Fino agli anni Cinquanta, nelle zone rurali del territorio peruviano vigeva il regime latifondista. Venivano chiamate haciendas le grandi proprietà terriere che non solo durante il Virreinato, ma anche nell'epoca della Repubblica rappresentavano la colonna vertebrale del territorio peruviano. Questo regime latifondista metteva in atto forme di sfruttamento feudale che si manifestavano attraverso il lavoro gratuito dei campesini sia in faenas (corvée) agricole ( semina, e raccolto), sia presso la casa dell'hacendado. 29. Nel teatro della guerra gli abusi sessuali hanno rappresentato una pratica generalizzata, ma la Commissione della Verità, nel tentativo di portare alla luce gli innumerevoli casi di violazione perpetrati dall'esercito, si è trovata di fronte al silenzio delle donne e all'impossibilità di verbalizzare quello che era successo. 30. Condivisa è infatti l'idea che nell'epoca della hacienda potessero accadere simili violenze dimostrate anche dai numerosi figli illegittimi generati da queste unioni tra hacendados e campesine. La possessione sessuale era un'ulteriore dimostrazione del potere e della dominazione che i latifondisti esercitavano sugli abitanti delle comunità e secondo l'antropologa Valérie Robin (2002) si può anche comprendere come l'impotenza dei campesinos di evitare gli abusi perpetrati sulle loro spose-figlie, e di fare giustizia (dato lo stretto legame che vincolava le autorità giudiziarie ai latifondisti), avrebbe portato ad una sorta di procedimento negazionista. Vi era un'obbligata e tacita complicità delle famiglie di fronte a queste violenze. Le storie che parlano delle aggressioni sessuali notturne dell'Apu o degli antenati (gentiles), secondo Robin, sembrano evocare in forma allusiva gli abusi realmente commessi dai latifondisti. 31. Al tempo stesso come sottolinea Mohanty l'auto rappresentazione vittimistica viene oggi utilizzata dalle "donne del terzo mondo" per beneficiare dei piani di aiuto umanitario, ma questo non significa che si tratti solo di vittime senza nessuna capacità d'azione. Bibliografia Ansion J., Desde el rincón de los muertos: el piensamiento mitico en Ayacucho, Gredes Editor, Lima, 1987 Antze P., Lambek M., (editors), Tense Past: Cultural Essays in Trauma and Memory, Routledge, New York-London, 1996 Arnold D., (editora), Mas alla del silencio: las fronteras de género en los Andes, Ilca, La Paz, Bolivia, 1997 Bernand C., La solitudes des Renaissantes : malheurs et sorcellerie dans les Andes, Presse de la Renaissance, Paris, 1985 Brunel G., “La enfermedad como seduccion real o como sueño: el caso del soq’a andino”, Antropologica, IV, n. 4,1986, pp. 227-235 Cavero R., Incesto en los Andes: las “llamas demoníacas” como castigo sobrenatural, Universidad San Cristobal de Huamanga, Ayacucho, 1990 Cordero M., Mas allà de la intimidad: cinco estudios en sexualidad, salud sexual y reproductiva, PUCP Fondo Editorial, Lima, 1996 De la Cadena M. “Las mujeres son màs indias”: Ethnicidad y genero en una comunidad andina del Cuzco”, Revista Andina, año 9, n 1,1991, pp.7-29 Duviols P., “Un symbolisme andin du double: la lithomorphose de l’ancêtre”, Actes du XVII Congrès International des Américanistes, vol IV, Paris, 1976, pp. 359-364 Earls J., “La organizacion del poder en la mitologia quechua” in Ideología mesianica del mundo andino, Ossio J., (editor), Edicion de Ignacio Prado Pastor, Cuzco, 1973 Farmer P., “On Suffering and Structural Violence: A View from Below”, in Violence in War and Peace, Scheper-Hughes e Bourgois P., (Editors), Blackwell Publishing, Malden-Oxford-Victoria, 2004 Favre H., “Tayta Wamani: Le culte des Montagnes dans le centre sud des Andes Péruviennes”, Etudes Latino-Américaines III, 1967, pp.120-141 Flores Ochoa J., “La viuda y el hijo de soq’a machu”, Allpanchis, n 3, 1973 Greimas J., Sémiotique des passions: des états des choses aux états d’âme, Editions du Seuils, Paris, 1991 Harris O., “The power of signs: gender, culture and the wild in the Bolivian Andes”, in Nature, Culture and Gender, Maccormack C., Strathern M., (editors), Cambridge University Press, 2001 Harvey P., “Domestic violence in the Peruvian Andes”, in Sex and Violence: Issues in representation and experience, Harvey P., Gow P., (editors), Routledge, London and New York, 1994, pp.66-89 Harvey P., “Los “hechos naturales”de parentesco y género en un contexto andino” in Mas alla del silencio: las fronteras de género en los Andes, Arnold D. 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I corpi, i generi, le sessualità di questi soggetti si sono trovati al centro di una battaglia discorsiva. Ritengo interessante questo confronto perché ha messo in luce le contraddizioni di alcune costruzioni teoriche e ha ribadito la centralità dell'intreccio fra sessualità e genere. Cercherò di mostrare la complessità delle identificazioni di genere, sesso e orientamento sessuale e i vari piani in cui essenzialismo e costruzionismo sono stati utilizzati. In questo articolo intendo delimitare l'analisi a un preciso evento e a due gruppi di soggetti che si sono confrontati, eterogenei al loro interno ma uniti dalla loro collocazione identitaria come lesbiche o come FtM. Utilizzo queste due categorie in quanto è così che si sono contrapposte mettendo parzialmente in secondo piano le specificità individuali. Dal 4 al 6 giugno 2004 a Firenze si è svolto il "Polispazio Queer", una rassegna di cultura lesbica e queer organizzata dalla rete Lespride che ha visto la partecipazione di circa 800 persone. All'interno del "Polispazio" uno dei temi di maggiore rilievo è stato l'incontro con alcuni soggetti FtM, realizzato utilizzando diversi canali di espressione: una rassegna di video, due presentazioni di libri alla presenza di autori e autrici, dibattiti, spettacoli di teatro. Ho scelto questo momento sia per la ricchezza dei posizionamenti e delle interpretazioni che sono emerse, sia perché i soggetti che hanno partecipato a quella stagione di confronto lo ricordano come uno dei momenti di maggiore rilevanza per la sua intensità e per l'ampia partecipazione nazionale. Ad ogni modo le osservazioni e le opinioni qui riportate sono venute chiarificandosi in me anche grazie ad altre occasioni di incontro in cui sono stata coinvolta. Lespride era una rete nazionale di gruppi, associazioni e singole lesbiche che si era costituita nel 2003 con l'intento di promuovere iniziative a favore della visibilità politica e culturale del lesbismo in occasione della manifestazione del Pride del 2004 che si sarebbe svolta in Toscana. Gli scopi di Lespride erano: l'organizzazione di eventi a tematica prevalentemente lesbica, la promozione della produzione culturale lesbica in tutte le comunità LGTQ (lesbica, gay, transgender, queer) e all'esterno di esse, la critica all'eterosessualità obbligatoria, l'affermazione e l'empowerment della soggettività lesbica, lo scambio e l'incontro fra le diverse soggettività del movimento lesbico e con altre soggettività del movimento LGTQ. Al di là di queste priorità comuni, le componenti di Lespride non erano affatto omogenee fra loro, i posizionamenti identitari, personali, politici erano talvolta molto differenti, ma molti dei riferimenti teorici erano condivisi. Fra questi troviamo alcune delle teoriche che hanno decostruito nell'ultimo secolo i concetti di sesso e genere e che sono divenute di riferimento per i movimenti lesbici, femministi, queer e transgender: De Beauvoir (1949), di cui è nota l'affermazione "donna non si nasce, lo si diventa", ripresa poi da molte/i altre/i studiose/i, fra cui le antropologhe femministe; Rubin (1975), che attraverso il concetto di sex-gender system non si limita a indicare che il genere è costruito dalla cultura, ma che anche il sesso biologico viene da questa plasmato; Laqueur (1992) e Kessler (1996), che affermano il carattere culturale dell'importanza data al sesso biologico come supposta base di una differenza imprescindibile e origine di un destino sociale; Rich (1985), che propone di valorizzare il continuum lesbico, ovvero tutte le "esperienze in cui si manifesta l'interiorizzazione di una soggettività femminile" (ivi, p. 26), che comprendono quindi anche quei rapporti privilegiati fra donne in cui non vi è stata o non è stata desiderata una relazione sessuale, e che ha sostenuto il potenziale sovversivo del rapporto lesbico proprio perché costituisce un radicale atto di resistenza e di rifiuto del patriarcato, il cui meccanismo fondante è l'eterosessualità obbligatoria; Wittig (1980), che sottolinea come una delle caratteristiche fondanti del genere "donna" sia l'orientamento eterosessuale, che implica subordinazione all'uomo, e afferma quindi che "le lesbiche non sono donne" (ivi, p. 72); De Lauretis (1999), che ha posto il concetto di "soggetto eccentrico", cioè marginale, decentrato, che attraversa coscientemente i confini di identità, comunità, corpi e discorsi; Butler, che definisce il genere come "un'imitazione per la quale non esiste l'originale" (1993, p. 313), come una performance, una "ripetizione ritualizzata di convenzioni sociali" che "producono retroattivamente l'illusione che ci sia un'essenza stabile" (1999, p. 18). Questi riferimenti teorizzano che la lesbica avrebbe il potere di decostruire il genere femminile, ma se indubbiamente per molti aspetti la lesbica si è ribellata al ruolo di genere, molti altri suoi comportamenti vi sono comunque riconducibili, come conseguenza di una socializzazione ricevuta costantemente fin dalla nascita (Gianini Belotti, 1973; Saraceno, 2003). Harding (1991) ritiene, inoltre, che il lesbismo crei una discontinuità rispetto ai meccanismi della misoginia anche femminile, che è una delle espressioni delle società patriarcali. 38 ACHAB Do s si e r De genere La maggior parte delle lesbiche di Lespride erano da tempo attive nel movimento lesbico femminista radicale: si tratta di soggetti che riflettono e producono movimento quotidianamente a livello personale, teorico e politico, come intellettuali e/o militanti. In Lespride la parola lesbica1 è stata marcatamente utilizzata per affermare il proprio posizionamento: insieme alla volontà di destrutturare le costr(u/i)zioni sottese a ogni identità, vi era la scelta di appropriarsi di quella lesbica per posizionarsi attivamente nel proprio contesto sociale, coscienti delle specifiche dinamiche di potere che lo contraddistinguono. I soggetti FtM con cui si è stabilito il confronto erano parte del Coordinamento Nazionale FTM, una rete supportata dall'associazione Crisalide Azione-Trans, che "fornisce informazioni, supporto organizzativo, di consulenza e counselling a persone geneticamente femmine in transizione verso il maschile (transessuali, transgender2) o la cui identità di genere sessuale non rientri in alcun stereotipo culturale né maschile né femminile (intersessualismo, androginia, travestitismo, ecc.)"3. Si tratta di soggetti più giovani politicamente, anch'essi con scelte identitarie differenti fra loro, che maneggiavano eterogenee concezioni teoriche del fenomeno transgender e che hanno scelto l'autorganizzazione in un soggetto politico autonomo e visibile. Il concetto di transgender è utilizzato per indicare il superamento del binarismo sessuale e di genere e della loro presunta necessaria coerenza: "transgender è infatti una visione del continuum comportamentale che esiste tra le due polarità. […] legittimare tutte queste possibili forme di espressione della propria sessualità significa in sostanza negare che ne possa esistere una ufficiale […][e] anche negare che ne possa esistere soltanto una di alternativa, inufficiale, ribelle." (Velena, 1998, p. 238); anche Rothblatt (1997) propone il paradigma del "continuismo sessuale" come superamento di quello del "dimorfismo sessuale". In quest'ottica diversi FtM si sono rifatti anche alle teorie sulla performatività del genere (Butler) e alle teorie queer. La nozione di transessualismo, invece, riconduce all'interno del modello binario di genere ed è da più parti (Saraceno, 2003; Roen, 2002; Nardacchione, 2000; Nicotra, 2006) riconosciuta come prodotto del recente sviluppo delle tecnologie mediche che hanno reso possibile il "cambiamento di sesso”4 . È comune tra i soggetti trans la descrizione di sé come "uomini intrappolati in corpi di donne" o "uomini nati nel corpo sbagliato": questo "errore di natura" viene riparato attraverso un cambiamento del corpo per renderlo conforme all'identità di genere (Legge 164/1982). Se questa definizione ha avuto il merito di decriminalizzare comportamenti e soggetti non convenzionali dal punto di vista del genere, ne ha anche rigidamente incanalato i percorsi. Sovente i soggetti con un'identificazione di genere incerta raccontano di conformarsi alle richieste del sistema medico e psichiatrico per dare senso alla propria storia, omettendo ciò che potrebbe indebolire il buon esito della richiesta di transizione. Anche per questa ragione e per aprire a una definizione più flessibile dei generi, il movimento trans chiede da tempo una legge che consenta il cambiamento dei dati anagrafici senza l'obbligo della "riattribuzione chirurgica del sesso". Fatte queste sintetiche premesse di presentazione dei due principali gruppi di soggetti presenti al "Polispazio Queer", mi rivolgo ora all'analisi di quel che è accaduto in particolare durante il dibattito "Transgenderismo FTM nell'attualità". Ritengo che in quell'occasione siano entrati in contatto due mondi identitari ed esperienziali che, seppur eterogenei al loro interno, hanno irrigidito nel confronto le proprie affermazioni teoriche e politiche. Questo meccanismo è stato osservato anche per altri fenomeni di costruzione identitaria, quale quella etnica, "costrutto culturale mediante il quale un gruppo produce una definizione di sé e/o dell'altro collettivi […] autoattribuendosi una omogeneità interna e una diversità rispetto ad altri"; infatti l'identità etnica "non è pensabile se non in maniera contrastiva e contestuale" (Fabietti, 1995, p. 18, 43). I rapporti fra identità esperita, identità esternata e identità imposta dall'esterno sono utili per interpretare sia i processi creatisi nel confronto fra lesbiche e FtM, sia quelli interni a ciascuna delle due comunità e le loro relazioni con l'esterno. Nodale nel confronto è stata la ricerca degli elementi comuni alle due esperienze e di quelli divergenti. Sia gli FtM sia le lesbiche sono individui nati femmine e quindi socializzati, più o meno rigidamente, al genere femminile; entrambi hanno patito una forte insofferenza a tale ruolo sociale - questo non vale per tutte le lesbiche, ma per molte - con la conseguente ricerca di soluzioni alternative di vivibilità, tra cui spesso un'assunzione di caratteri socialmente considerati maschili. Molte lesbiche riconducono questo fenomeno al rifiuto di un ruolo socialmente inferiore e vincolato a un maschio, lo interpretano come una possibilità per differenziarsi e farsi riconoscere come soggetti eroticamente desideranti altre donne e come uno strumento di difesa dai maschi. A differenza delle lesbiche, che collocano al centro della propria costruzione identitaria il desiderio per un'altra donna, gli FtM vivono come cruciale il bisogno di riconoscimento di sé come maschi e uomini. Per questa ragione i percorsi a cui questi soggetti danno vita sono differenti. Molti FtM assumono caratteristiche comportamentali tipiche del genere maschile e intraprendono processi di modifica del proprio corpo: assunzione di ormoni con conseguente sviluppo dei "caratteri sessuali secondari" maschili (peli, abbassamento della voce, modifica della localizzazione dei grassi), mastectomia, isterectomia, falloplastica o clitoridoplastica. Molti però scelgono solo alcune di queste procedure - per esempio solo ormoni e riduzione del seno o solo interventi demolitivi e non ricostruttivi - grazie alle quali sovente riescono a "passare"5 da uomini. Il raggiungimento di tale obiettivo spesso è sufficiente a soddisfare il bisogno di identità ricercata, non vengono quindi intrapresi gli interventi di maggiore pericolosità o quelli che diminuirebbero, o annullerebbero, la sensibilità erogena. In altri casi invece la presenza nel proprio corpo di organi e funzioni specificamente femminili è insopportabile e conduce alla scelta degli interventi chirurgici più invasivi6. Sulla scorta di queste narrazioni di sé e di queste esperienze di vita sono risultati centrali nella discussione i seguenti quesiti: quali aspetti del proprio corpo determinano l'appartenenza all'uno o all'altro genere? E dunque quali tratti bisogna modificare perché si possa parlare di "cambiamento di sesso"? Il sesso, quindi, è una 39 ACHAB Do s si e r De genere questione di organi genitali esterni, come suggeriscono gli studi sulle persone intersessuate che subiscono irreversibili interventi alla nascita per adattare organi genitali ambigui al sesso più "probabile"? O è una questione di "caratteri sessuali secondari" visibili, come suggerisce lo straniamento che ci provoca la vista di individui che non riusciamo bene a collocare nell'uno o nell'altro genere? O di organi genitali interni? O di ormoni? O di cromosomi (sono note numerose varianti oltre ai più comuni xx e xy)? O forse più probabilmente si tratta di genere biologizzato? Non bisogna dimenticare che vi è anche una vasta realtà di persone che, scontente del loro essere uomini o donne, ricorrono all'endocrinologia e alla chirurgia per accentuare i caratteri del proprio sesso/genere secondo lo stereotipo estetico occidentale. Si può parlare allora di transessualismo MtM, da maschio a supermaschio, e di transessualismo FtF, da femmina a superfemmina (Nardacchione, 2000). Questi esempi non fanno che confermare che i generi sono una costruzione. Così l'espressione FtF (o MtM) è talvolta utilizzata, in modo diverso, anche da alcune lesbiche (e gay) per riferirsi al loro percorso dall'iniziale rifiuto del genere femminile (o maschile), al quale venivano socializzate essendo nate femmine (o maschi), al successivo avvicinamento a quel genere secondo proprie elaborazioni. Inoltre, va notato che l'obbligo di legge di asportare i propri organi genitali - per gli FtM quelli interni - impone la sterilità. Viene così socialmente esorcizzata la minaccia costituita dall'esistenza di persone che possano decidere liberamente delle proprie capacità riproduttive al di fuori dei ruoli "naturali". Durante il dibattito sono emersi anche altri nodi: la forte richiesta di legittimazione dell'esperienza FtM, il bisogno degli FtM di differenziarsi dalle lesbiche, con le quali dicono di essere spesso stati "confusi", la critica di alcune lesbiche all'essenzialismo di alcuni FtM, la complessità delle identificazioni di genere e delle loro incorporazioni, la difficoltà di un reciproco riconoscimento critico delle identità sessuali e di genere. In Italia il fenomeno FtM è poco conosciuto7 e molto recente è una sua organizzazione associativa. Una delle ragioni potrebbe risiedere nelle differenze peculiari del genere di partenza (femminile) a cui queste persone sono state socializzate, per il quale la proiezione nello spazio pubblico non è considerata prioritaria, oppure nella diversa attenzione sociale di cui godono i nati maschi, rispetto alle nate femmine, storicamente oggetto di diniego. Ma potrebbe anche esserci una diversità legata al genere di elezione, in quanto il genere maschile rappresenta la neutralità che rende possibile l'invisibilità, al contrario di quello femminile (per le trans MtF) che è quello che la nostra cultura spettacolarizza. Questi processi di survisibilizzazione e al tempo stesso di invisibilizzazione delle donne sono alcuni dei meccanismi che operano nell'androcentrismo (Busoni, 2000)8. La seguente è l'opinione di un FtM che era presente al dibattito: trovo che ci sia sicuramente una ragione di tipo culturale: chi nasce donna è destinata a identificarsi con un ruolo subalterno, in cui la rinuncia all'affermazione di sé, dei propri bisogni e urgenze diventa abitudine, routine, carattere [cioè un dato socioculturale]. Poi sicuramente possiamo appellarci a una spiegazione di tipo biologico. Chi ha vissuto la transizione, sia in un senso che nell'altro, sa esattamente quale differenza intercorra tra ciò che gli ormoni femminili e maschili determinano in termini di stati d'animo, modi di reazione, intensità nella capacità di affermare i propri bisogni. […] [C'è un altro aspetto più psicologico]: credo che sia in qualche modo più semplice spogliarsi di un privilegio, piuttosto che da non privilegiati permettersi di assumerlo. […] per me personalmente questo è stato il nodo cruciale: affrontare il senso di colpa che assale l ' o p p resso, o meglio l'oppressa, quando si identifica con l'oppressore. (Cangelosi, 2004, p. 24-25). Emerge qui un altro nodo cruciale: il rapporto con il femminile e con il maschile, con i significati sociali che essi ricoprono e con i modi in cui lesbiche e FtM li hanno rielaborati. Molti FtM hanno riferito un senso di tradimento vissuto dalle lesbiche nei loro confronti, in quanto invece di spazzare via i condizionamenti negativi che il patriarcato applica al femminile, essi ne rappresenterebbero un'incarnazione. Cangelosi e altri hanno rifiutato questa interpretazione e hanno affermato di essere coscienti dei rapporti di potere fra i generi, ma di voler essere uomini "nuovi"9 : se il femminismo è nato per ripensare il femminile in opposizione a un maschile violento, coercitivo, da mettere in discussione, è come se nel vissuto mio e di altri, questa premessa venisse portata alla sua naturale conseguenza: quegli uomini a cui chiedeva di essere diversi, di imparare a rispettare il femminile, quegli uomini a cui chiederlo siamo anche noi. (Cangelosi, 2004, p. 25). Molti, però, non hanno un precedente percorso femminista e hanno utilizzato per la descrizione di sé il linguaggio medico della disforia di genere richiedendo un'accettazione incondizionata della loro scelta di vita sulla base dell'accoglimento della sofferenza che essa ha causato. Proprio questa differenza di linguaggi è emersa chiaramente nel dibattito e ha causato non poche incomprensioni. Tale concezione, infatti, secondo cui l'identità di genere e l'orientamento sessuale sarebbero due aspetti distinti dell'identità di una persona, è incompatibile con il femminismo costruzionista, a cui si rifanno molte lesbiche, che considera l'orientamento sessuale una caratteristica utilizzata dalla tradizione socio-culturale occidentale per la strutturazione dell'identità di genere: l'eterosessualità obbligatoria e l'omofobia sono fondanti per la costruzione della maschilità e della femminilità. Come mostrano, convincentemente, alcuni studi antropologici (per es. Blackwood e Wieringa, 1999), identità di genere e orientamento sessuale sono categorie cognitive culturalmente connotate e di complessa lettura, così come lo sono i loro intrecci o la loro netta disgiunzione. È stato interessante osservare come le affermazioni di alcune teoriche hanno assunto valenze diverse a seconda del tipo di appropriazione che ne è stata fatta: per esempio "donna non si nasce, lo si diventa" di De Beauvoir è stata utilizzata per affermare che il genere è una costruzione culturale, ma anche per asserire che anche il sesso lo è, cioè da una parte per dichiarare il rifiuto di una femminilità patriarcale e valorizzare una differente femminilità che includa anche caratteristiche "maschili", dall'altra 40 ACHAB Do s si e r De genere per sostenere il rigetto del femminile e un'assunzione decisa del maschile. Similmente, una duplice lettura è stata fatta della provocatoria affermazione "le lesbiche non sono donne" di Wittig, includendola da un lato nel pensiero femminista radicale, dall'altro nella riflessione transgender e facendone ricadere il significato o solo sulle costruzioni di genere o anche su quelle strettamente connesse ai corpi. Considero questo fenomeno cruciale nei meccanismi di costruzione identitaria qui descritti. Secondo Butler, la concezione che il desiderio di diventare un uomo o un transuomo o di vivere da transgender sia motivata da un ripudio della femminilità, presuppone che ogni persona che nasce con un'anatomia femminile sia per ciò stesso in possesso di una appropriata femminilità. (2005, p. 7). Tale assunto è confutato dai numerosi studi sulla costruzione del genere. Proprio a questo proposito secondo la teorica lesbica Borghi, presente al dibattito, il romanzo Stone Butch Blues di Leslie Feinberg (2004)10, opera centrale nel confronto che sto descrivendo, si muove sulle tracce di un dibattito tra comunità lesbiche, talvolta cruento, sulla (presunta) naturalità del femminile, dove essere nata donna costituisce l'invalicabile fro n t i e r a dell'appartenenza di genere. Mentre comprendo l'inquietudine, e persino la paura, che può suscitare un* trans rispetto alla convinzione di stampo irigariano del radicamento di una donna nella propria differenza sessuale11, resto convinta dell'illusione della verità che comporta l'inscrizione (e descrizione) del sesso biologico, e considero il genere una tecnologia rispetto alla quale l'autodeterminazione trans rappresenta un cosciente gesto di riappropriazione autoriale. (Borghi, 2004, p. 28). Pur condividendo tale posizione, vedo il rischio di una lettura del genere come di qualcosa che sia modificabile a piacimento. Al contrario, la presa di coscienza dei processi sociali, culturali e psicologici attraverso cui si strutturano i generi non porta alla possibilità di scardinarli in toto. Ad ogni modo anche Butler ci dice che: il desiderio transessuale di diventare uomo o donna non può essere liquidato come un semplice desiderio di conformarsi per stabilire delle categorie identitarie. […] può trattarsi di un desiderio di trasformazione in sé e per sé, una ricerca di identità come esercizio trasformativo, un esempio di desiderio stesso come attività trasformativa. […] [Non bisogna inoltre] dimenticare che i rischi di discriminazione, di perdita di lavoro, di molestie pubbliche e di violenza aumentano per coloro che vivono apertamente come persone transgender. (Butler 2005, p. 6-7). Koths, un trans FtM, riconosce la non accettazione lesbica del rifiuto FtM del femminile come se questo significasse il rovescio dell'identità lesbica costruita dal pensiero lesbo-femminista e la totale svalorizzazione del corpo femminile; ma Koths sostiene che vi sia anche un sentimento di competizione: molti ftm affermano di aver vissuto un certo grado di ostilità quando frequentavano spazi lesbici; […][perché vi è] uno strisciante risentimento della butch12 basato sull'idea che gli ftm abbiano scelto di lasciarsi alle spalle una certa mascolinità femminile allo scopo di assicurarsi le comodità di un "esser maschio non-ambivalente"; […] [si tratterebbe di] un sentimento di competizione non-amichevole verso forme alternative di mascolinità; […][ma] la transessualità non è un'inevitabile progressione dell'essere butch. (Koths, 2004, p. 21-22). Alcune lesbiche hanno raccontato che durante il loro percorso di ricerca identitaria si sono interessate alla possibilità FtM per poi scartarla; alcune hanno dichiarato un forte desiderio di conoscenza di essa, perché avrebbe potuto offrire nuove letture del proprio vissuto; per altre, invece, si trattava di una scelta lontanissima dalla propria esperienza. Una redattrice della rivista lesbica "Towanda!" nell'editoriale del n. 14, Attratte dall'altro sesso. Butch, transgender, FtM. Mezzo secolo di transiti, ha dichiarato: "intendevamo capire quanto le lesbiche siano attratte dalla maschilità, sia come tratto evidente nella donna che amano, sia per se stesse, tanto da scegliere di essere butch o perfino FtM" (Giansiracusa, 2004, p. 3). Ella considera dunque gli FtM come espressione di una delle tante forme di mascolinità femminili. Si delinea qui una netta contrapposizione relativa all'interpretazione del vissuto lesbico e FtM: alcune lesbiche riconducono gli FtM all'insieme delle molte esperienze di mascolinità vissute da soggetti nati femmine, mentre diversi FtM rifiutano questa associazione e si considerano afferenti alla categoria altra dei transessuali; alcune lesbiche si considerano portatrici di rielaborazioni della mascolinità, oltre che della femminilità, e su questo fondano una somiglianza con gli FtM, invece alcuni FtM collocano le lesbiche all'interno della categoria donne e non ricercano con esse alcuna vicinanza. Dato che la maggior parte degli FtM è eterosessuale, cioè sceglie come oggetto del desiderio le donne, alcune lesbiche li hanno considerati delle lesbiche che hanno portato più in là il rifiuto del genere femminile radicato nel corpo, ovvero molte li hanno considerati comunque delle donne. Altre lesbiche, invece, hanno preferito accogliere per la soggettività FtM il paradigma biologistico e dualistico della "disforia di genere" poiché rifiutavano una posizione radicalmente transgender che avrebbe comportato il "rischio" di essere confuse con gli FtM da parte della società. Dal canto loro gli FtM hanno rivendicato una differenza a partire da un desiderio13 diverso, un bisogno di riconoscimento nel genere maschile, il quale è spesso però rielaborato soggettivamente, come si evince dalla seguente affermazione: "Daniele: non ritengo il fatto di avere un fallo condizione necessaria, e spesso nemmeno sufficiente, a dirsi uomini" (Poidimani, 2006, p. 86). Questo posizionamento si scontra però spesso con le concezioni dell'identità maschile che hanno molti uomini eterosessuali e gay: è emersa dai discorsi degli FtM una difficoltà a interagire con questi soggetti sia perché non desiderano adeguarsi a modelli di complicità fra uomini basati sulla misoginia, sia per la mancanza del pene. D'altronde, però, è proprio il riconoscimento non ambiguo nella categoria 'uomo' che consente agli FtM di accettarsi e riconsiderare anche altri aspetti del proprio sé, infatti Daniele afferma: "una volta che socialmente sei accettato come maschio, allora puoi permetterti di 41 ACHAB Do s si e r De genere inventare il tuo maschile", "la terapia ormonale ti consente di non violentarti troppo [cioè dover dimostrare attraverso il comportamento la propria mascolinità], di rilassarti perché è il tuo corpo che parla per te" (ivi, p. 99). Durante il dibattito, oltre alle teorie, anche la storia è diventata terreno di battaglia per ricondurre a sé fenomeni di discostamento dal genere femminile e rafforzare la propria costruzione identitaria; ci si sono contesi soggetti nati femmine che in passato, così come nel presente, hanno scelto di vivere mascolinizzandosi: lesbiche, butch, trans FtM, drag king, donne in abiti maschili (travestite), donne soldato, vergini, donne che hanno vissuto senza sposarsi (zitelle), personaggi di romanzi. Va ricordato che dal suo emergere fino agli anni '50 il concetto di 'lesbica' era strettamente legato all'assunzione di caratteri maschili e che questo modello è stato modificato dalla seconda ondata del femminismo. Dunque, prima degli anni '50 sarebbe stato molto difficile utilizzare i parametri sociali e culturali interpretativi all'interno dei quali si muovono oggi lesbiche e FtM14. Sulla scorta degli studi storici e antropologici che si sono occupati di fenomeni di gender-crossing si può affermare che le forme che questi hanno assunto nel tempo e nelle culture sono estremamente variegate e fortemente connesse al proprio peculiare contesto sociale15, dunque chiedersi quale identità assumerebbero oggi soggetti vissuti nel passato o in altri presenti, difficilmente può portare a una risposta anche perché, almeno per quel che riguarda altre epoche storiche, è raro poter sapere quale descrizione di sé facessero questi soggetti. Ad ogni modo tale quesito è rilevante perché può essere considerato parte integrante della ricerca di affermazione identitaria dei soggetti di oggi attraverso dei tentativi di risignificazione delle molte forme di mascolinità femminili e la ricerca di confini, magari frastagliati, fra queste, confini necessari per classificare il mondo e orientarsi in esso. Ma cosa dovremmo porre alla base di tali classificazioni? L'autodeterminazione dei soggetti? Il loro scopo dichiarato o non dichiarato? Per Bolin (1987) è rilevante l'analisi dei cambiamenti di status e ruolo sociale che il travestitismo-transgenderismo ha determinato; Nicotra fa presente che "nelle molteplici ricostruzioni storiche sul cambio di genere e di sesso, […] sembrerebbe che una delle principali motivazioni delle donne che sceglievano una vita da uomo era quella di potersi sottrarre alla posizione femminile di svantaggio e aprirsi una via per poter accedere agli stessi privilegi e opportunità offerte agli uomini" (2004, p. 16-17). La ricerca di confini rischia di rifarsi a una concezione dualistica dei generi e delle sessualità in qualche modo essenzialista anche perché utilizza dicotomie tipiche del modello patriarcale per descrivere corpi che proprio sul transito cercano di costruire la pratica e il senso della propria vita. Ciò nonostante, secondo l'antropologo Valentine (2002), non bisogna dimenticare che la separazione tra genere e sessualità è una distinzione per la quale si è dovuto lottare e che è stata ed è ancora necessaria per affermare il diritto alla differenza, sia lesbica sia transessuale FtM. Secondo l'antropologo Hekma (2000), nonostante le diversità culturali e storiche, si possono riconoscere alcune tipologie prevalenti di relazioni omoerotiche: quelle strutturate sul genere, in cui una delle due partner assume il ruolo di genere opposto, venendo a occupare nuove (terze) posizioni di genere; quelle basate sulla differenza di età; quelle egualitarie, tipiche del nostro secolo; quelle fondate sulla differenza di classe. Sulla base di questa griglia e cosciente del fatto che le interpretazioni dell'antropologo/a possono non essere condivise dai soggetti osservati, Hekma riconduce le lesbiche al modello egualitario e gli FtM a quello stabilito sulla contrapposizione di genere. Seguendo Hekma, forse potremmo sostenere che il confronto "Transgenderismo FTM nell'attualità" ha mostrato la presenza di una sorta di sincretismo culturale in cui convivono più di una delle tipologie individuate. Tuttavia tale modellizzazione, sebbene importante come strumento di analisi, pone alcuni problemi: Hekma sceglie di tenere come dato fisso il sesso di nascita dei soggetti e colloca anche i soggetti transgender in una classificazione delle tipologie di relazioni sessuali fra persone dello stesso sesso, catalogando dunque i fenomeni di transgenderismo come parte di quelli relativi all'omosessualità. Questa identificazione è molto distante da quella di molti soggetti trans di oggi che ritengono la propria esperienza profondamente diversa da quella delle e degli omosessuali, anche se va tenuto in considerazione che la separazione fra identità di genere e orientamento sessuale è culturalmente connotata e altrove è (stata) concepita diversamente. Ad ogni modo, dove dovremmo collocare soggetti che si riconoscono come FtM, ma scelgono uomini come loro partner sessuali?16 Lo stesso Hekma afferma che l'antropologia non dovrebbe limitarsi allo studio delle forme sociali, ma anche occuparsi delle molte espressioni individuali delle regole culturali osservando ogni soggetto nel continuo rapporto dialettico fra l'interpretazione del proprio sentire e i discorsi socialmente disponibili. Il dibattito "Trasgenderismo FTM nell'attualità" si è concluso senza il raggiungimento di una sintesi condivisa fra le varie posizioni, ma con la consapevolezza della necessità di continuare a discuterne. Note 1. L'appropriazione della parola lesbica è di per sé un atto di separazione che ha identificato una pratica politica ripresa dal movimento femminista denominata separatismo. Il separatismo lesbico nasce nella seconda metà degli anni '70 dall'esigenza di affermare l'identità lesbica, organizzandosi in gruppi indipendenti con politiche e linguaggi autonomi, da una parte rispetto alle donne eterosessuali femministe, che invece prediligevano una [email protected] 42 ACHAB Do s si e r De genere politica comune di genere, spesso ignorando la differenza legata all'orientamento sessuale, dall'altra rispetto ai gruppi gay che invece, sotto l'ombrello dell'orientamento omosessuale, concepito però dal punto di vista maschile, non contemplavano la differenza femminile (Danna, 2000; Fiocchetto, 1992). 2. Il termine transessuale si riferisce generalmente a una persona che sceglie di intraprendere un percorso di adeguamento chirurgico e ormonale del sesso anatomico all'identità di genere; il termine transgender "comprende una realtà ricca e variegata che spazia dai travestiti o cross-dresser e include anche quelle persone che vivono le loro esperienze come esponenti di altro sesso senza aver alterato le funzioni biologiche del proprio corpo, soggetti che vivono in un continuum lui/lei non marcatamente definibili ma che sperimentano, nel loro percorso di vita, alternativi ruoli di genere. Include anche persone che hanno usufruito dell'attribuzione di sesso parziale senza sottoporsi a tutti gli interventi chirurgici di demolizione e/o (ri)costruzione, e quei soggetti che invece hanno optato solo per le terapie ormonali." (Nicotra, 2006, p. 57). 3. Testo tratto da un volantino del Coordinamento Nazionale FTM: http://ftminfoline.tripod.com/coordinamento_ftm.htm 4. Le persone trans sarebbero portatrici di "disturbi dell'identità di genere" e di "disforia di genere", secondo la terminologia utilizzata rispettivamente dall'American Psychiatric Association (DSM IV), dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD 10) e dalla letteratura psicologica. 5. "Passare", come l'inglese passing, si riferisce alla pratica attraverso cui un soggetto cerca di convincere gli altri di essere portatore di determinate caratteristiche identitarie. Camaiti Hostert (1996) sostiene peraltro che il passing non sia solo una pratica mimetica, ma anche di dissolvimento identitario. 6. Per un'articolata presentazione delle esperienze e scelte di vita e dunque per il ventaglio dei diversificati posizionamenti soggettivi FtM cfr. Nicotra (2006) e Poidimani (2006). 7. Per una ricostruzione storica del fenomeno vedi Nicotra (2004, 2006). 8. Tali affermazioni sono solo mie ipotesi, ma potrebbe essere interessante in futuro approfondirle osservando come siano intrecciate nei soggetti trans, in modi diversi, alcune modalità comportamentali connesse al genere (sessualità, autorizzazione alla presa di parola in pubblico, modalità relazionali, ecc.). 8. Vedi ad es. il titolo dello spettacolo teatrale "One new man show. Atto unico per solo uomo nuovo" di Matteo Manetti e Davide Tolu. 9. Leslie Feinberg è un noto attivista transgender statunitense, scrittore di saggi e romanzi, sindacalista socialista attivo nel movimento operaio internazionalista e impegnato per i diritti delle comunità LGBT, delle donne e dei neri. 10. Non è un caso che, negli anni novanta, il movimento lesbico italiano fu parimenti (o forse anche maggiormente) scosso dalle richieste di riconoscimento come donne da parte delle trans MtF. In quel caso la resistenza da parte delle lesbiche era motivata, oltre che dalla diffidenza verso una femminilità non biologica, anche dalla volontà di difendere gli spazi femminili conquistati con fatica sottraendoli al pervasivo e universalistico protagonismo maschile. 11. Butch: lesbica mascolina. Femme: lesbica femminile. Stone butch: lesbica di pietra, dura. Per approfondire cfr. Nestle (1985) e Feinberg (2004). "la butch funziona da paradosso irrisolto, da punto cieco dell'eterosessualità di cui imita e deforma il maschile; rappresenta una pratica contra-sessuale [vedi Preciado, 2002] di risignificazione del corpo perché rivela il sistema sesso-genere come un sistema di scrittura, una tecnologia di inscrizione dei corpi e delle istituzioni sui corpi." (Borghi, 2004, p. 29). 12. Il termine desiderio è correntemente utilizzato dal movimento femminista e lesbico e mette al centro dell'agire del soggetto il "partire da sé" che intreccia la dimensione personale e quella politica. 13. Per dei lavori di ricostruzione storica dell'amore fra donne in occidente cfr. Faderman (1981), Fiocchetto (1987), Danna (1994), Bonnet (1995), Lupo (1998). 14. Infatti nell'ambito di studi su società non occidentali si è cercato di utilizzare terminologie (same-sex identities and desires, third gender, third sex, female same-sex relations, ecc.) che evitino di rendere invisibile a livello transculturale l'ampia varietà di generi, trasgressioni sessuali, identità sessuali e i loro significati (Herdt, 1997; Lewin e Leap, 1996, 2002; Bisogno e Ronzon, 2007). 15. A questo proposito vedi l'interessante lavoro di Arfini (2007) che ha riletto i molteplici transiti nella vita di un trans FtM gay attraverso il fondo di archivio che egli ha lasciato Bibliografia Arfini, E. A. G., 2007, Louis G. Sullivan: formazione di un transessuale gay, in Antosa, Silvia (a cura di), OmoSapiens 2. Spazi e identità queer, Carocci, Roma. Bisogno F. e Ronzon F. 2007, Altri generi. 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L’ulivo invece, storico simbolo di pace a partire dalla sua citazione biblica, è la pianta antica e preziosa che cresce naturalmente in questo territorio da ben prima della nascita dello Stato d’Israele, oltre ad essere anche l’albero che in numerosi documentari vediamo i soldati israeliani sradicare dai territori occupati. (fig.2) L’opera d’arte descritta, A Declaration, è una video-installazione Partendo dal presupposto che non esiste un’esperienza universale della “diaspora ebraico-israeliana”, né che esiste, a priori, un’“identità diasporica ebraico-israeliana”, questo lavoro si propone tuttavia di individuare alcune peculiarità nella rappresentazione e nell’auto-rappresentazione della propria esperienza di yeridah, attraverso l’analisi delle opere di alcune artiste di origine ebraico-israeliana. La scelta di adottare in questo tipo di analisi una prospettiva di genere, analizzando opere di artiste che al centro delle loro opere scelgono di esplorare il complesso rapporto tra genere e israelianità, nasce da una duplice specificità legata al contesto artistico israeliano: se infatti le dinamiche di genere hanno fortemente influenzato la costruzione dell’identità nazionale israeliana, e con essa la propria rappresentazione artistica, va inoltre sottolineato come nell’arte israeliana contemporanea, soprattutto per quanto riguarda il mondo dell’arte quotato a livello internazionale, il numero di artiste israeliane donne supera di gran lunga, soprattutto in termini di percentuali rispetto al mercato globale dell’arte, il numero di artisti israeliani uomini, determinando una sorta di processo di contro-discorso e di controegemonia al femminile dell’arte israeliana, il cui percorso storico era invece stato fortemente caratterizzato da un’egemonia marcatamente declinata al maschile, sia dal punto di vista della produzione che dei prodotti. Nel tentativo di condurre una breve analisi di genere sull’attuale panorama della rappresentazione e auto-rappresentazione dell’esperienza della yeridah, ho voluto fare particolare Fig. 1 Yael Bartana, Declaraion, 2006 (particolare) girata nel 2006 da Yael Bartana, artista ebraico-israeliana ormai di fama internazionale, che attualmente ha lasciato Israele per vivere ad Amsterdam, descrivendo un nuovo ma sempre più frequente movimento di tipo diasporico: la yeridah, vale a dire il movimento diasporico da Israele verso l’esterno, in contrapposizione alla aliyah, ovvero il ben più noto e consueto movimento diasporico dall’esterno verso Israele. fig. 2 Yael Bartana, Declaraion, 2006 (particolare) 45 ACHAB D o s si e r De genere riferimento al significativo saggio “Daugters of Sunshine” del 2000 di Irit Rogoff, nata e cresciuta in Israele, titolare della cattedra di Art History and Visual Culture al Goldsmiths College di Londra, dove attualmente lavora e vive, come lei stessa afferma, l’esperienza della diaspora delle diaspore. La sua ricerca etnografica si è concentrata principalmente sulle diverse immagini che hanno rappresentato (e in parte tuttora rappresentano) la donna israeliana, più precisamente: la donna ebraico-israeliana e di origini europee (in ebraico ashkenaz), all’interno della cultura immaginaria israeliana e soprattutto in rapporto all’ideologia sionista. Attraverso questa specifica chiave di lettura di genere Rogoff cerca di tracciare alcune coordinate, per meglio comprendere i processi di costruzione e quindi di decostruzione dell’identità ebraico-israeliana, pur nelle sue diverse e ricchissime sfaccettature. Inanzitutto Rogoff mette in luce come l’immagine della donna israeliana inizi ad essere costruita proprio in Europa, agli albori del movimento sionista, quando “the earliest images show pioneer women who had immigrated from Eastern Europe at the turn of the century, performing both private and public chores, laundering the clothes and breaking up stones for the paving of roads and building of houses” (Rogoff, 2000, p.172). Ciò che viene sempre mostrato in questo tipo di rappresentazioni è l’immagine di una donna attiva, produttiva, eroica e combattente, simbolo della conquista della terra, della patria e della nazione, simile ai suoi coetanei maschi nei doveri da svolgere e nei valori da difendere e diffondere, in netta contrapposizione invece a una rappresentazione del femminile più sensuale, nonché spesso stereotipizzata, solitamente adoperata per rappresentare invece il corpo “altro” della donna mediorientale e di origine non ashkenaz. Rogoff sottolinea come questo tipo di rappresentazione di tipo “orientalista”, espressione di una prospettiva essenzialmente colonialista che tende a riprodurre la donna come passiva, silenziosa, immobile, fonte di desiderio e di sensualità romantica, venga spesso utilizzata per rappresentare in generale, e non soltanto al femminile, il popolo palestinese in particolare e più in generale il corpo sociale appartenente al mondo e alla cultura araba “altra”, “as a constant disruptive ‘other’ against which the center could define itself .” (Rogoff, 2000, p.170). Simili modalità di rappresentazione tendono infatti ad esaltare in maniera lampante il carattere dominante, moderno, e di matrice euro-centrica, peculiare al processo di costruzione dell’ideologia sionista: “white, Eurocentric, bourgeois and masculine assumes itself to be norm and the measure of what is to be Israeli” (Rogoff, 2000, p.163). In quasi tutte le sue raffigurazioni – “women laundering and breaking stones for road paving, women posturing as soldiers and modeling swim wear” (Rogoff, 2000, p.163) – la donna israeliana viene dunque solitamente rappresentata “come un uomo”, o meglio, “desessualizzata” e assimilata al corpo sociale (maschile) israeliano: “their bodies are veiled beneath layers of functional clothing, their sexual identity negated, subjugating themselves to their duties.” (Rogoff, 2000, p.173). Per meglio comprendere la costruzione peculiarmente maschile del corpo sociale israeliano risulta in tal senso paradigmatica la complessa analisi svolta nel 2001 da Mira Weiss nella sua etnografia dal significativo titolo Chosen Body, dove Weiss definisce la “cultura del corpo eletto” come uno dei processi peculiari nella costruzione della nazione e dello Stato di Israele. L’ipotesi di Weiss è che la società israeliana abbia messo in atto una vera e propria opera di regolazione dei corpi come parte del processo di formazione della propria identità collettiva. Il perdurante coinvolgimento di Israele nel conflitto armato coi vicini arabi, infatti, avrebbe fatto sì che si formasse una società profondamente preoccupata dei propri confini territoriali così come dei confini del proprio corpo. Secondo Weiss, sin dalle origini della nazione, il corpo d’Israele è stato per ciò regolato in modo da configurare una “nuova persona”, e prima della nascita dello stato di Israele nel 1948 questa “nuova persona” era declinata secondo il modello del “pioniere” (halutz): secolare, forte, virile, sano e fisicamente perfetto, dal corpo unico, collettivista, intercambiabile e “scelto” (Weiss, 2004, pp. 97 112). Adi Nes, uno dei più quotati artisti israeliani contemporanei, notoriamente e dichiaratamente omosessuale, attingendo proprio da questo tipo di immaginario fortemente stereotipizzato, ne propone una forte critica, come appare in modo piuttosto provocatorio nel suo lavoro, dove l’argomento privilegiato è sempre quello dell’esperienza militare, declinata esclusivamente e rigorosamente al maschile, nonostante in Israele, come noto, il servizio militare sia inderogabilmente obbligatorio anche per le donne. Ciò a cui Nes tende infatti fare riferimento in modo decisamente critico è la forte relazione tra senso di appartenenza e mascolinità, strettamente legati non soltanto all’esperienza dell’esercito ma soprattutto all’esperienza dell’israelianità. In tal senso risulta paradigmatica l’opera Untiled del 1995 (fig.3), rivisitazione della Pietà di Michelangelo, in cui la figura della Madonna che conforta Gesù morente viene sostituita da quella di un soldato ferito, stretto fra le braccia di un compagno. In questa, come in gran parte delle sue opere, l’artista sceglie sempre di trasformare un’immagine “reale”, “plausibile”, tratta da uno dei tanti momenti di vita quotidiana nell’esercito, e di trasferirli in un contesto mitologico, dalla coreografia studiata a tavolino, come accade ad esempio anche nella rivisitazione dell’Ultima cena di Leonardo: Untitled, 1999 (fig.4), dove ciò che a prima vista sembrerebbe una raffigurazione diretta di un momento di vita quotidiana, si propone in realtà, in modo al tempo stesso ironico e critico, sensuale e provocatorio, di demistificare il mito della costruzione “militaresca” del corpo sociale israeliano, come succede in modo assolutamente provocatorio nell’opera Untitled del 1996 (fig.5), che ritrae un nerboruto soldato in posa plastica, intento a mostrare la propria massa muscolosa. Quanto questo tipo di rappresentazioni quanto ha influenzato la costruzione dell’identità israeliana nelle donne di origine ebraicoisraeliana, e soprattutto, nelle loro auto-rappresentazione artistica? In questo complesso gioco delle parti, secondo Rogoff la donna israeliana si sarebbe di fatto trovata in una paradossale situazione di esistenza: al tempo stesso colonizzante e colonizzata, 46 ACHAB Do s si e r De genere Israeli State.” (Rogoff, 2000, p.177 ). Nel corso del 2007, avendo lavorato per alcuni mesi come ufficio stampa di A.M.A.T.A. (Amici del Museo di Arte di Tel Aviv) Onlus, ho avuto occasione di entrare in contatto diretto con tre artiste di origine ebraico-israeliana che attualmente vivono e lavorano in Italia. Tutte e tre sono arrivate in Italia inizialmente per ragioni legate allo studio dell’arte. Tarin si poi è spostata e ormai vive in Italia da 11 anni. Michal vive in Italia da due anni e non sa ancora se restare o tornare in Israele. Noga, essendo arrivata in Italia a 18 anni e avendo scelto di fare obiezione di coscienza nei confronti dell’esercito, scelta tutt’altro che semplice e soprattutto con non poche conseguenze di carattere ostracizzante, probabilmente in Israele non farà mai ritorno. Tre diverse esperienze di yeridah e tre diversi modi di Fi g. 3 - Adi Nes, Untiled, 199 5 rappresentarla, attraverso le proprie performance artistiche. dominante e dominata: “the State of Israel, founded on a rhetoric Secondo Michal Blumenfeld, nata a Bersheva nel 1976, e giunta of socialist equality, has been continuously shaker by accusations nel 2006 a Roma, dove tutt’ora vive e lavora, questa situazione di of racial discrimination ambivalenza, di conflitto against Sephardic Jews and interiore, peculiare by gnawing voices insisting all’esperienza della yeridah, on recognition for the è qualcosa di quasi Palestinians. The situation “ineliminabile” come cerca of women, who has started di spiegare: “Abbiamo out as supposedly equal sempre il peso della storia partners in the radical sulle spalle. Anche se non si social experiment of vuole, non si può scappare Zionism, has remained mai completamente da sadly unevolved. (…) The Israele e dalla sua storia, feminine subject positions dove presente e passato within it are simultaneously continuano a convivere colonized and marginalized assieme. Israele infatti è un both in relation to dominant paese assolutamente ideology an the ensuant internal Fig. 4 - Adi Nes, Unti t led ( L ’ultima cena), 1999 giovane e proiettato verso il futuro, contradictions of its own gender mentre la tradizione ebraica invece specific identity” (Rogoff, 2000, pp.166, 174 ). Rogoff sottolinea è inestricabilmente legata al passato. Ciò provoca una scissione come questa situazione di della personalità e la continua ambivalenza, peculiare nella ricerca di un equilibrio all’interno costruzione dell’identità della di questo conflitto, che nella donna israeliana, non faccia che costruzione dell’identità ebraicoriprodursi ed autoalimentarsi in israeliana diventa un tema modo pervasivo, anche, ridondante: l’eterno conflitto tra paradossalmente, qualora si scelga presente e passato, Israele e di lasciare Israele, attraverso quel Palestina, identità maschile e tipo di esperienza che Rogoff identità femminile. Io ho cercato di chiama la “diaspora della risolverlo cercando proprio di diaspora”, la y e r i d a h: “perhaps attingere al passato per proiettarmi those of us who occupy positions of nel futuro”, come avviene ad clearly articulated ambivalence: esempio, secondo Michal, nella (…) ‘the Diaspora’s diaspora’ to sua opera del 2006 The Hebrew coin a phrase. Nowhere are these Lesson (fig.6), in cui quattro volti contradictions are ambivalent states di donne appartenenti a quattro more clearly visible than in the generazioni sottolineano il ruolo Fig. 5 - Adi Nes, Unti l ed, 1996 conditions of femininity within the centrale delle donne nella 47 ACHAB Do s si e r De genere trasmissione rigorosamente matrilineare della cultura e dell’identità ebraica. Il ricorso all’alfabeto ebraico, metafora della parola come condizione indispensabile per la possibilità di costruire una memoria collettiva, ma anche, e al tempo stesso, per la possibilità di dialogo e quindi di cambiamento, nel lavoro di Michal risulta centrale, come vediamo anche nell’opera del 2005 The Lost Couple (fig.7): “L’opera di Adamo ed Eva e l’albero della conoscenza con le 22 lettere dell’alfabeto ebraico appese tra i rami al posto della frutta indica che tutto è possibile e che attraverso la parola si può creare un dialogo con l’altro (…) sempre attraverso il rispetto e il riconoscimento delle due identità” (Blumenfeld, 2006). Secondo Michal, questa necessità di trovare armonia all’interno del conflitto, sia esso conflitto interiore, tra maschile e femminile o tra israeliani e palestinesi, diventa un aspetto dominante nella costruzione dell’identità diasporica ebraico-israeliana: “Il tema della coppia, tema privilegiato nelle mie opere, non è qualcosa che rimanda a una visone romantica dell’amore tra uomo e donna, ma al contrario è il tentativo di superare ogni rigida dicotomia, a partire da quella tra maschile e femminile. Adamo ed Eva infatti dopo essere stati cacciati dal Paradiso Terrestre non hanno più trovato equilibrio e sono entrati una sorta di loop negativo, come quello in cui si trovano attualmente israeliani e palestinesi. La mia idea è invece quella di provare, attraverso l’esperienza della coppia, di cui Adamo e Eva sono un’icona, come yin e yang, a costruire un nuovo spazio in cui l’armonia prevalga su ogni altro sistema egemonico, e in quanto tale necessariamente squilibrato.” La necessità di costruire un terzo spazio come spazio di dialogo, risulta centrale anche nel lavoro di Tarin Gartner, nata nel 1974 a Gerusalemme e giunta nel 1997 a Milano, dove da allora vive e lavora. Attraverso le proprie opere, al centro delle quali domina sempre la propria esperienza corporea, Tarin cerca infatti di sottolineare come confini e muri possano essere attraversati, se non nella realtà, quanto meno tramite l’immaginazione e la sua rappresentazione attraverso immagini. Come spiega Tarin, “l’idea di utilizzare il mio corpo per cercare di varcare i confini nasce dal tentativo di usare me stessa per creare un ponte non solo tra il mio paese di origine e i paesi con cui si trova in conflitto, ma anche tra me e i fruitori della mie opere, cercando di dimostrare, attraverso il mio esempio, che la possibilità di varcare confini e creare un dialogo è possibile”. Così nell’opera del 2003 Ghesner (fig.8) Tarin, tra gli spazi vuoti delle pietre della costa di Rosh Hanikra, al confine con il Libano, vi costruisce sopra, utilizzando il proprio corpo, un ponte, metafora della volontà dell’artista di poter mettere in relazione terre divise dall’arbitrarietà dei confini. Il tema dell’attraversamento dei confini nel lavoro di Tarin risulta assolutamente centrale, come accade anche nel lavoro del 2003 Gvulot + Tarin (fig.9), dove Gvulot in ebraico significa “confine”. In quest’opera un’istantanea rappresenta l’alto filo spinato che divide il territorio di Israele da quello del Libano, immagine a cui Tarin applica con delle calamiti una serie di sovra-immagini che la auto-ritraggono in un paesaggio tipicamente mediterraneo, come se l’artista volesse comunicarci il suo sogno di un mondo in cui il Mediterraneo riesca finalmente a scardinare i confini costruiti forzosamente dagli uomini in una natura che invece non li concepisce. Fi g. 7 - M ic hal Bl umenfeld, The Lost Couple, 2005 Fig. 8 - Tarin Gartner, Ghesner, 2003 Fig. 6 - Michal Blumenfeld, The Hebrew Lesson, 2006 48 ACHAB D oss i e r De genere Anche per Tarin, vivendo a cavallo tra due “mondi”, la condizione di “scissione” all’interno della sua esperienza di yeridah risulta Fig 9 - Tarin Gartner, Gvulot + Tarin , 200 3 dominante: “Vivo un forte dualismo. Talvolta mi sembra di condurre una doppia vita. (…) Non è facile vivere lontana, ho un forte senso di responsabilità nei confronti di Israele e verso al mia famiglia. E’una posizione che comporta una piccola sofferenza continua, ma che mi da la forza di fare sempre di più” (Hands Up, 2006). In tal senso, l’opera d’arte come forma di resistenza risulta particolarmente paradigmatica nel lavoro di Noga Ingbar, nata nel 1984 a Tel Aviv e giunta nel 2002 a Milano, dove tutt’ora vive e lavora. Noga si interroga su cosa abbia significato per lei scegliere di lasciare Israele e trasferirsi in Italia. Come lei stessa afferma: “a volte vivo tormentata dall’idea di non essere rimasta in Israele, di non stare lavorando lì, per aiutare il mio Paese ad uscire dal vicolo cieco in cui ormai si sta chiudendo sempre di più. A volte però mi sembra che ciò che riesco a produrre attraverso il mio lavoro artistico, anche riguardo alla costruzione e alla decostruzione della mia identità di israeliana, non sarebbe mai stato possibile se non avessi lasciato Israele, un paese costruito attraverso la diaspora e in cui la dimensione diasporica risulta da sempre dominante. A volte definirei la mia esperienza diasporica qui in Italia come una sorta di ‘auto-diaspora’, e in effetti anche ciò che faccio col mio lavoro in qualche modo nasce dall’esigenza di ricostruire e al tempo stesso decostruire le origini centro-europee della diaspora ebraica in Israele”. Le opere di Noga ripercorrono infatti anni e memorie del secolo scorso attraverso la re-interpretazione di figure estrapolate da un archivio fotografico che Noga ha raccolto in diversi anni di lavoro. Le fotografie utilizzate sono spesso ritratti di gruppo, posti su uno sfondo che varia di volta in volta dalla tela grezza, alla ripetizione in pattern, a giornali israeliani bilingue degli anni ‘60 e ‘70, fortemente legati al movimento di contestazione pacifista, come accade ad esempio nell’opera 1915 1944 1967 (fig.10), in cui sullo sfondo di una serie di carte geografiche che descrivono l’espansione dello Stato di Israele, viene “ri-editata” la foto di un gruppo di presunti pionieri, e in Pioneers (fig.11), dove in netto contrasto con l’immagine di sfondo che ritrae un uomo “tipicamente mediorientale” troviamo un altro gruppo di presunti pionieri “tipicamente ashkenaz”. Nel lavoro di Noga risulta decisamente significativo il processo di raccolta di foto d’epoca a cui l’artista spesso attinge da un repertorio prevalentemente “centroeuropeo”, in particolar modo appartenete alla Germania del periodo nazista, sia perchè, dal punto di vista spaziotemporale, epicentro dell’esperienza diasporica ebraica verso Israele, sia perché, come sottolinea Noga stessa, nella costruzione sionista dello Stato d’Israele, il pioniere, l’“uomo nuovo”, era inequivocabilmente ashkenaz (Ingbar, 2007). Noga, che pur di non prendere parte dell’esercito ha scelto, come lei stessa afferma, l’esperienza dell’“auto-diaspora”, nelle sue opere attinge dunque al materiale prodotto dalla retorica “pionieristico-militaresca” peculiare alla costruzione dello Stato di Israele, proprio per decostruire, attraverso il suo lavoro artistico, la propria “israelianità”. Anche nel lavoro di Noga il processo di costruzione e decostruzione della propria identità di israeliana della diaspora tende dunque a trovarsi in quello spazio in between, per usare le parole di Bhabha, quel third place, lo spazio della negoziazione, Fi g. 10 - Noga I ngbar, 1915 1944 1967 , 2006 in cui ogni formazione discorsiva si imbatte nei confini dislocati, d i fferenziati, della rappresentazione del gruppo che li ha determinati, in luoghi d’enunciazione nei quali i limiti e le limitazioni del potere sociale sono affrontati con un rapporto conflittuale. (Bhabha, 1994, p. 46 nell’ed.it) È l’identità culturale ad emergere sempre in questo contraddittorio e ambivalente spazio nel quale colonizzatore e colonizzato tessono relazioni di interdipendenza e costruiscono mutuamente la propria soggettività. Come sottolinea Pandolfi, lo slittamento teorico da Said a Bhabha 49 ACHAB D os si e r De genere Fig. 11, Noga Ingbar, Pioneers , 2006 sembra di particolare importanza: se infatti Said costruisce ancora per coppie antinomiche, Bhabha per slittamenti. Ma in questo spostamento si annida una strategia di radicalità che può essere ancora più corrosiva: mostrare come i veli della seduzione si aggroviglino intorno alla soggettività del colonizzatore e del colonizzato insieme; mostrare come il gioco degli specchi fra le due posizioni, producendo nuove fantasie e desideri, possa rendere molto più complessi i rapporti di potere (Pandolfi, 1990, pp. 18 -19 nell’ed.it.), siano essi tra dominante e dominato, israeliano e palestinese, uomo e donna. Lo spazio prodotto attraverso i diversi lavori delle artiste che vivono l’esperienza della yeridah risulta in tal senso uno spazio in between, in cui le diverse protagoniste, attraverso l’uso del proprio corpo, individuale e femminile, e la decostruzione del corpo (collettivo e maschile) israeliano, tentano di sovvertire antagonistiche opposizioni binarie fra dominanti e dominati, israeliani e palestinesi, maschile e femminile, permettendo così l’emergere di un terzo spazio, come spazio di resistenza. E forse un giorno, per concludere con le parole di Bhabha, “esplorando questo Terzo Spazio, potremo eludere la politica delle dicotomie e apparire come gli altri di noi stessi” (Bhabha, 1994, p. 60 nell’ed.it) [email protected] Bibliografia Bartana Y., 2007, In the army I was an outstanding soldier, a cura di Scardi G., Siz, Verona Blumenfeld M., 2006, Il tentativo di unire gli opposti, in Shalom, n. 10 Bhabha H.K., 1994, The location of culture, Routledge, London-NY (trad.it. 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I recenti paradigmi socio-antropologici per leggere le migrazioni contemporanee si sono rivelati attenti alla dimensione multi-situata e transnazionale delle relazioni sociali e dell'esperienza quotidiana dei soggetti migranti (Basch et al., 1994:7) e ciò ha talvolta condotto alcuni studiosi ad enfatizzare la natura contro-egemonica delle pratiche di attraversamento dei confini fra due o più stati-nazione. Molte studiose femministe hanno invece reagito rispetto all'approccio transnazionale1 con un senso di ambivalenza, soprattutto quando conduce ad una celebrazione acritica della fine dello stato-nazione, che oscura la natura politica ed esclusiva su cui continuano a fondarsi la cittadinanza e i confini nazionali (Salih, 2003; Yeoh 2005: 60-71). Il transnazionalismo sembra offrire un modello teorico utile ad articolare la complessità delle esperienze e delle pratiche di mobilità poiché supera una visione dicotomica dei processi migratori intesi come frattura, prodotta da una sorta di nazionalismo metodologico (Wimmer, Glick-Schiller 2002:301), fra paese d'origine e contesto d'approdo. D'altra parte, una lettura in chiave liberatoria, progressista e resistenziale di questi fenomeni rischia di censurare come il differente posizionamento che i soggetti si trovano ad occupare all'interno di molteplici assi di discriminazione e microstrutture di potere partecipi a plasmarne le scelte, i desideri e gli immaginari, ma anche a definire diverse strategie per far fronte a condizioni di (im)mobilità. Tra gli anni '80 e '90, la nascita di uno sguardo attento alle asimmetrie e specificità di genere nello studio dei processi migratori ha contribuito a ridefinire categorie d'analisi e riformulato interrogativi teorici, spostando l'interesse verso dimensioni precedentemente poco esplorate: la rilevanza dell'appartenenza di genere nel dare forma al progetto e all'esperienza migratoria, ma anche come soggettività, relazioni di potere e rappresentazioni del sé e del corpo siano rinegoziate e contestate nei percorsi di mobilità di uomini e donne (Willis, Yeoh 2000). Una maggiore attenzione ai molteplici fattori che regolano l'accesso alla mobilità internazionale e alle dinamiche sessuate dei processi di inclusione ed esclusione dei soggetti nel mercato globale2 ha inoltre contribuito a problematizzare il ruolo cruciale che uomini e donne migranti svolgono all'interno dei più ampi processi di riformulazione dei confini dello stato-nazione nel paese d'origine, quanto nel contesto d'approdo (Basch et al. 1994, 1995, Ongaro 2001). In questo articolo esploro alcuni dei presupposti e delle forme attraverso le quali due gruppi di donne migranti si organizzano per far fronte alle difficoltà incontrate durante il loro percorso d'inserimento lavorativo a Milano. Il capoluogo lombardo e la sua provincia, dove risiede quasi la metà della popolazione straniera presente nella regione (388.950 su una presenza che oscilla fra 838.000 e 882.000, ISMU 2006), è da oltre trent'anni un luogo in cui s'intrecciano molteplici progetti e traiettorie di mobilità. La storia articolata dei transiti di migranti e di rifugiati nel territorio si mescola infatti a percorsi d'emigrazione-immigrazione regionale, nazionale e internazionale. Gli sviluppi delle diverse forme associative riflettono queste complessità, che sono legate, oltre alle specificità del contesto di partenza e d'approdo, all'interrelazione fra soggetti istituzionali, politiche locali e nazionali3. A partire dall'esperienza della Filipino Women's League for P ro g ress e Donne in Cammino, due associazioni nate dall'iniziativa di alcune donne immigrate di diverse nazionalità che ho incontrato durante il mio lavoro di ricerca nell'ambito del progetto "Partecipazione migrante nella provincia di Milano"4, cerco di far emergere come l'idea di una supposta linearità materiale e simbolica nei percorsi migratori dalle "periferie" verso un "centro", che informa alcune narrative emancipazioniste di cui sono oggetto le donne del "terzo mondo" (Amos, Parmar, 1984; Mohanty 1986), riproduca gerarchie di tempi e luoghi, censurando altre storie e tradizioni di modernità. La pluralità dei desideri e delle attese che prendono forma all'interno dei diversi ambiti associativi svela infatti anche le profonde ambiguità e le tensioni in cui si muovono le donne che accedono alla mobilità internazionale e alla "modernità occidentale". Il mio scopo è dare visibilità ai significati e alle strategie identitarie che sembrano sottese alla decisione dei due gruppi di dare vita ad un'associazione di/per sole donne. A quali forme di discriminazione si sentono soggette le donne migranti che ho incontrato? Quali risorse mobilitano e quali strategie attivano per contrastare posizioni di subalternità sociale e simbolica? Desidero inoltre riflettere sulle soggettività plurali che le donne 51 ACHAB Do s si e r De genere rivendicano, a partire dalle logiche di inclusione che sembrano definire i confini dei due gruppi, ma anche dei linguaggi che hanno usato per descrivere alcuni vissuti quotidiani, parlare di sé e dell'associazione. Essendomi presentata come una giovane ricercatrice interessata a incontrare persone immigrate che facessero parte di reti associative per raccoglierne il punto di vista, ma pur sempre nell'ambito di una ricerca promossa da un ente pubblico, mi sono inevitabilmente posizionata, insieme alle mie interlocutrici, all'interno di una specifica cornice politica, istituzionale e discorsiva, la quale costituisce al tempo stesso il limite e la prospettiva dalla quale mi sono mossa. Credo, infatti, che ciò abbia contribuito a definire il contesto dei nostri incontri e a dare forma ai contenuti delle nostre conversazioni. Alcune donne hanno forse interpretato lo spazio dell'intervista come la possibilità di descrivere le attività e i progetti dell'associazione di cui fanno parte. Altre, nel ripercorrerne gli sviluppi, hanno enfatizzato la positività della propria esperienza associativa, per poi spigarmi che per certi aspetti le socie perseguono obiettivi diversi per il futuro o le molteplici difficoltà di ottenere finanziamenti e credibilità dinnanzi alle istituzioni italiane. Le donne manager della Filipino Women's League for Progress Le isole Filippine hanno una lunga tradizione e cultura di mobilità, in parte legata al passato coloniale del paese. Durante gli anni '70, i flussi migratori si sono moltiplicati, diramandosi, oltre a Stati Uniti, Australia e Canada, verso l'Asia Meridionale, il Medio Oriente e l'Europa, fino a toccare anche nazioni come l'Italia. Le diverse strutture religiose hanno svolto un ruolo cruciale sia nel creare e consolidare catene migratorie, definendo canali informali di reclutamento e inserimento lavorativo di donne soprattutto nell'ambito del lavoro di cura, sia nel promuovere momenti di aggregazione e socialità (Lainati 2000; Andall 2000). Nella città di Milano, dove gli uomini e le donne provenienti dalle Filippine rappresentano uno fra i gruppi nazionali numericamente più rilevanti (33.050, Ismu 2006), l'associazionismo costituisce una realtà complessa che attraversa svariati ambiti e assume forme diverse, come band rock giovanili, gruppi informali, chiese pentecostali o associazioni di rappresentanza. L'esperienza della Filipino Women's League for Pro g ress (FWLP) si situa dunque in un contesto variegato e in divenire. La FWLP è una Organizzazione non governativa nata a Milano nel 2004 dall'iniziativa di un gruppo di donne filippine laureate per far fronte alla condizione lavorativa in cui si trovano, all'interno di un mercato che le include principalmente nel lavoro di cura. Le storie di vita di alcune delle donne filippine che ho incontrato sono attraversate da periodi più o meno lunghi di clandestinità, prima di poter ottenere un permesso di soggiorno. Altre si sentono sfruttate dalle famiglie italiane dove lavorano e lamentano di non ricevere uno stipendio adeguato o in nero, che le costringe a vivere quotidianamente in una situazione di precarietà e di invisibilità. Joanna, presidentessa dell'associazione in Italia da sette anni, ritiene che una simile condizione di marginalità gravi ancor di più sulle donne con una formazione superiore e un'esperienza lavorativa qualificata che avevano sperato di poter investire in un progetto migratorio all'estero5. Una volte giunte in Italia, però, scoprono spesso una realtà piuttosto diversa da quella immaginata. When we arrived here in Italy, we saw the situation of Filipino women, doing job come domestica. Tante filippine che dice: "I am so tired of doing domestic job […] our brains do not work with domestica, solo per pulire, cleaning, washing, taking care of elderly". [...] Women think: "Facciamo di più, because we studied at the University. We should think more, use our brains more!"6. La FWLP è ora composta da 65 socie che si incontrano la prima domenica di ogni mese nei locali noleggiati presso la Chiesa di Santa Maria del Carmine o in altre parrocchie milanesi, dato che l'associazione non dispone di una sede propria, né la possibilità di pagare un affitto. In questi anni, si sono impegnate in un lavoro di auto-formazione ed ora le donne esperte in ambito giuridico e commerciale stanno studiando le leggi italiane per capire come modificare lo statuto dell'associazione e darsi una forma che consenta loro di operare in altri settori, ottenere un mutuo e avviare un'attività commerciale. Il gruppo vorrebbe aprire un'agenzia di viaggi, attiva fra Filippine, Italia, Stati Uniti e Canada, perché, come mi ha spiegato Joanna, "We women should do business here, because the other Blacks, the Africans, the Chinese, they are making their business, so, why Filipinos can't do their own business?". Il desiderio di trasformare gli aspetti di dipendenza e di marginalità nelle loro vite, attraverso la definizione di una nicchia etnica del mercato del lavoro in cui inserirsi, offre alle donne filippine la possibilità di accedere a spazi di autonomia economica, interiore e sociale. D'altra parte, si muove all'interno e rischia di rafforzare le dinamiche che producono forme di esclusione o di inclusione parziale. Quando ho chiesto a Joanna i motivi per cui hanno deciso di non coinvolgere gli uomini che spesso, pur avendo una formazione elevata, sono impiegati in ambiti dequalificati, mi ha risposto con un tono di meraviglia e ovvietà che questi non sono considerati partner affidabili e desiderabili, "We think that women can do better then men. In Filipinas women are a little bit active and they think better. Men parla, parla, drinking, in giro, oh no!". Ha poi aggiunto che anche nelle Filippine le donne sono ritenute più attive e capaci, poiché migrano per prime e, tramite le rimesse inviate, sostengono gli studi dei figli e la quotidianità delle famiglie rimaste a casa. Eppure, l'immagine di donna forte, indipendente e capace, che traspare dalle parole di Joanna non è priva di tensioni e ambivalenze. L'idea di donna che si prende cura degli altri, perchè più responsabile e intraprendente rispetto agli uomini, si mescola infatti a vissuti di marginalità e di tristezza. La consapevolezza di vivere una situazione lavorativa percepita come inadeguata rispetto alle proprie competenze e attese si acuisce nei momenti di solitudine e nostalgia, rendendo ancor più manifesti gli esiti dolorosi della dislocazione dei legami affettivi. Alcune donne scelgono di ricostruire una vita affettiva in Italia, dimenticando (forget) la famiglia lasciata a casa. Per cercare di far fronte e di arginare situazioni difficili e 52 ACHAB Do s si e r De genere comportamenti ritenuti inadeguati, descritti da Joanna come aspetti della disgregazione sociale e della perdita di valori "filippini e cristiani" legati alla mobilità, il gruppo vorrebbe creare un programma di formazione morale (value formation) rivolto alle donne e ai coniugi. I membri delle famiglie ricongiunte si trovano spesso sole nel lavoro di ricomposizione di una quotidianità a Milano dopo anni di separazione e di sperimentazione, non priva di contraddizioni, di diversi ruoli di genere. Lontane da "casa", le filippine svolgono un ruolo economico cruciale, che trasforma gli immaginari e le relazioni con i membri della famiglia estesa. In patria, dove il "sacrificio" delle donne alla nazione le spinge oltre i suoi confini, sono costruite retoricamente come moderne eroine della mobilità globale, sebbene coesistono, in realtà, rappresentazioni molteplici della mobilità femminile, che rivelano i costi materiali e simbolici di pratiche che implicano la trasgressione di ruoli, comportamenti e spazi di genere considerati appropriati (Perrenas 2006: 95-115). In Italia, invece, le donne filippine impiegate come domestiche accedono in molti casi ad una precaria autonomia materiale e decisionale. Il contesto d'intimità lavorativa in cui si trovano coloro che sono occupate a tempo pieno nelle case, dove svolgono un lavoro invisibile, manipolano corpi e riproducono relazioni, rende incerta sensazione e la capacità di agire un ruolo attivo nella propria vita. Gli incontri legati alla celebrazione di festività nazionali o religiose sono narrati come temporalità sospese, spazi per sé in cui potersi svagare, alleggerite del senso di amarezza che avvolge la vita quotidiana. "E' la nostra consolazione, mi ha detto Joanna, dimentichiamo le nostre preoccupazioni, il nostro lavoro nelle case". Per quanto il nome dell'associazione richiami immagini di "emancipazione" e "progresso" per tutte le filippine, in realtà, coloro che sono prive di una formazione superiore sono escluse dal gruppo perché le socie della FWLP ritengono che la loro presenza rallenterebbe il lavoro di auto-formazione. "We want to train the other women, but not the all other women can be a trainer", mi ha spiegato Joanna, aggiungendo che solo dopo aver avviato un'attività commerciale progettano di coinvolgere le altre, offrendo loro una formazione professionale nell'assistenza agli anziani o nel settore dei servizi, come cameriere o bariste. Si tratta di una scelta provvisoria e pragmatica, ma che può forse esprimere anche il desiderio di creare, consolidare o conservare una leadership socio-economica rispetto alla più ampia popolazione di migranti filippini. Ciò genera infatti anche critiche e incomprensioni perché è considerata da molti elitaria ed esclusiva. Questo aspetto ritorna nella volontà del gruppo di organizzare incontri di lettura e studio della Bibbia riservate alle sole socie, per rispondere al desiderio di confrontarsi con "altre donne intelligenti" con cui poter scambiare pensieri e riflessioni, riaffermando così i confini materiali e simbolici che le separano dalla più ampia "comunità" filippina milanese. Al momento del mio incontro con Joanna, alcune donne stanno iniziando a lavorare come assicuratrici e contabili in piccole imprese italiane, mentre la maggioranza continua a svolgere il lavoro di domestica. Donne in cammino: pratiche di relazione e risorse culturali Donne in cammino è un'associazione no profit nata nel 2002 dall'iniziativa di Marisa, una donna brasiliana di ascendenza italiana che, dopo varie esperienze presso enti e cooperative italiane, ha deciso di dare vita lei stessa ad un'associazione insieme ad un gruppo di donne straniere. Si tratta di donne laureate, ma che in molti casi non sono mai riuscite a trovare lavoro in Italia, se non in ambiti marginali o considerati dequalificati. Insieme a loro e ad alcune donne italiane, Marisa ha creato una "banca del tempo", che è arrivata a coinvolgere circa 87 famiglie sul territorio, tramite il passaparola fra le residenti del quartiere di Milano in cui lei vive. Le donne hanno iniziato a riunirsi di casa in casa per bere insieme il caffè, scambiare esperienze o organizzarsi nella gestione dei figli e degli impegni quotidiani e, quando è diventato difficile gestire gli incontri nelle case, alcune di loro hanno deciso di costituire un'associazione formale. Grazie ad un bando comunale, sono poi riuscite ad ottenere una sede a Milano. Marisa ha offerto alle dieci donne straniere che hanno condiviso con lei il progetto una formazione nell'ambito dell'intercultura, grazie ad una lunga esperienza professionale costruita, tra Brasile e Italia, attraverso percorsi di studio e lavoro come psicomotricista, pedagogista ed educatrice. Le donne hanno allora cominciato proporre attività di educazione interculturale nelle scuole milanesi7 e, a poco a poco, hanno avviato altri progetti e coinvolto donne migranti di varie nazionalità. Oltre alla formazione e ai progetti nelle scuole, l'associazione organizza corsi di chitarra, lingua cinese, italiano per donne straniere, giornate di pulizia delle strade o di lettura di poesie, attività ricreative rivolte in particolare agli abitanti del quartiere per creare momenti d'incontro e di conoscenza reciproca. In alcuni casi, l'associazione, ora registrata all'Albo Provinciale, è riuscita ad accedere a dei fondi comunali per finanziare i propri progetti. Durante il nostro incontro presso la sede dell'associazione, ho chiesto a Marisa le ragioni per cui hanno creato un'associazione di/per donne e lei mi ha risposto: Non era una cosa non agli uomini, però c'era una fotografia di Salgano che mi ha molto colpito. E' una donna che cammina con un cesto sulla testa, non so se hai presente, c'è il vento e ci sono degli alberi di olive, lei va. E io ho detto dentro di me: "Donne in cammino!". Io voglio trovare le altre donne che camminano, che generano, perché io sono donna, e portare la famiglia, gli uomini […] Come si può creare una politica, fare tutte queste cose, in una politica che non è per le donne, che ti vieta? Questo può essere qua, con questa mentalità, ma per le altre donne che vengono da un altro paese…Io vengo dal Brasile, ci sono i movimenti, c'è un po' di ribellindia, hai capito?8 Nella narrazione di Marisa, il desiderio di creare spazi di incontro e pratiche di relazione fra donne s'intreccia ad una critica di genere alla politica italiana, che considera per molti aspetti lontana dall'esperienza di molte donne migranti, delle quali sottolinea piuttosto l'attivismo e l'apertura mentale. Costruendole come soggetti forti, intraprendenti e ribelli, Marisa dà voce ad un contro-discorso che rovescia certe retoriche emancipazioniste di 53 ACHAB Do s si e r De genere cui sono oggetto le donne straniere, spesso immaginate come soggetti passivi e tradizionali da aiutare. Al tempo stesso, nel momento in cui le descrive come portatrici di peculiari saperi ed esperienza, evocando "qualità femminili" di creatività e generatività, mette in secondo piano le profonde differenze che esistono fra le donne immigrate. L'associazione nasce con l'obiettivo di coinvolgere al suo interno donne migranti laureate, per "tenere insieme le persone che sono tra virgolette a rischio […] perché sono persone che hanno una formazione e non riescono ad inserirsi". Per quanto negli ultimi anni la loro attività si sia concentrata sul lavoro di educazione interculturale nelle scuole, il progetto iniziale mirava infatti a riunire e consolidare un gruppo di "donne che potessero recuperare la loro forza all'interno del territorio". In realtà, collaborano come educatori e animatori interculturali anche alcuni uomini immigrati di diverse nazionalità, anch'essi con un'istruzione superiore, i quali partecipano ad estendere e riformulare i confini immaginati del gruppo. La conversazione con altri membri dell'associazione svela però ulteriori dimensioni, punti di vista e aspettative legate alla partecipazione all'interno di questa realtà. Le donne e l'uomo che ho incontrato in occasione di una riunione interna mi hanno raccontano di essere entrate in contatto con l'associazione attraverso Marisa o una rete di conoscenti che conduceva a lei. Tramite il lavoro con l'associazione, mi hanno detto di aver avuto la possibilità di dare un nuovo significato alla propria vita, tessendo relazioni e condividendo dei progetti, ma anche di aver avuto l'occasione di conoscere meglio se stesse e la "propria cultura". Descrivendo l'esperienza di educazione interculturale nelle scuole, molte hanno sottolineato l'importanza e l'utilità della presenza di una persona che "rappresenta proprio la sua cultura". Una donna d'origine russa, inoltre, mi ha spiegato che "c'è bisogno proprio di questa autenticità che può dare solo la persona che viene da un paese diverso". Da queste parole, traspare il desiderio di alcune di definire e rivendicare la specificità di una nuova figura professionale attiva nell'ambito della mediazione interculturale. Ciò rivela un' appropriazione attiva dei linguaggi culturalisti che abitano le politiche e i discorsi pubblici sulla diversità culturale, ma se da un lato, ciò consente di articolare esperienze e dar voce ad alcuni vissuti personali, dall'altro finisce col proporre un'immagine dei migranti come "portatori di cultura". In altre parole, la rivendicazione di forme di autenticità culturale legate all'appartenenza nazionale, che esprime una strategia di visibilità e una richiesta di riconoscimento della propria professionalità, risponde in modo efficace ai paradigmi della multiculturalità, i quali rischiano di restituire una visione statica delle culture e delle identità Soggettività plurali e strategie associative Dal confronto fra le due realtà associative emergono alcune analogie che riguardano in primo luogo i limiti che molte donne straniere incontrano nell'accesso ad un mercato occupazionale etnicizzato e marcato in termini di genere, che le situa principalmente nel lavoro di cura o in ambiti marginali, proprio per il fatto di essere donne e di essere straniere. La situazione descritta da Joanna mette in luce le ambiguità delle politiche di genere che regolano il sistema sanitario, sociale e occupazionale italiano, le quali favoriscono il ritorno del lavoro di cura tra le mura domestiche e la sua delega alle donne migranti. Il lavoro di cura, che si svolge spesso in un contesto di deregolamentazione, risulta funzionale a sanare in modo informale i vuoti del sistema di welfare locale e nazionale9. Le narrazioni e i vissuti evocati dalle persone che ho incontrato svelano anche l'ambivalenza di molte retoriche emancipazioniste di cui sono oggetto le donne, le quali celebrandone l'ingresso nello spazio pubblico e produttivo - pensato in contrapposizione con quello privato, dove si manipolano i corpi e si nutrono le relazioni -, trascurano che per molte ciò non comporta una ridistribuzione di genere del lavoro domestico, ma le costringe ad un doppio lavoro o alla sua delega ad altre donne. L'esperienza della mobilità internazionale non produce necessariamente esiti "emancipatori" o "liberatori" nell'esistenza di queste donne, e comunque non in modo lineare e privo di tensioni e ambiguità. Le catene di delega transnazionale della cura (Salazar Perrenas 2000), prodotte dalla divisione internazionale del lavoro riproduttivo, offrono una prospettiva utile per osservare le dinamiche complesse che producono o consolidano gerarchie di etnia, nazione, classe sociale e forme di etnicizzazione delle relazioni di potere fra donne. Entrambi i gruppi, che sono espressione di una élite culturale, nascono dal desiderio di far fronte a questa situazione, coinvolgendo una specifica tipologia di persone, le donne migranti laureate. La scelta, che mostra i limiti impliciti della categoria "donna migrante", se intesa come un'entità monolitica e non intrecciata contestualmente ad altri posizionamenti (Brah, Phoenix, 2004), non definisce a priori le risorse che i due gruppi attivano. Pur facendo riferimento, nelle pratiche e nei discorsi, alle categorie di "genere" e di "etnia" o "cultura", le strategie e le modalità con cui decidono di mobilitare il capitale simbolico di cui dispongono sono diverse, ne configurano la forma e ne definiscono le specificità. Le donne della FWLP rifiutano il ruolo di 'domestiche della globalizazzione' (Salazar Parrenas 2001) e cercano di promuovere attività che consentano loro di spendere altrove le risorse professionali costruite prima di migrare, attraverso i percorsi di studio e di lavoro. Dal momento che il mercato occupazionale etnicizza il loro accesso al lavoro, la strategia delle donne filippine della FWLP sembra essere quella di definire una "nicchia etnica", cioè uno spazio vuoto del mercato italiano in cui inserirsi ed etnicizzarlo a loro volta. Le socie di Donne in Cammino, invece, re-inventano una professionalità a Milano, attraverso percorsi formativi svolti in Italia. Alcune delle donne che ho incontrato, narrando la propria esperienza all'interno dell'associazione come un percorso di conoscenza interiore ed una riscoperta delle risorse etniche e culturali che "naturalmente" possiedono, costruiscono l'appartenenza nazionale come un elemento di autenticità culturale, che diviene una risorsa spendibile nell'ambito dell'intercultura e dalla mediazione 54 ACHAB D os si e r De genere culturale. Queste pratiche generano però esiti complessi e contraddittori poiché se da un lato offrono alle donne spazi di agentività, possibili percorsi di autonomia materiale e simbolica, dall'altro consolidano strategie di inclusione parziale che riproducono forme di etnicizzazione e auto-etnicizzazione. In queste pagine, ho descritto le strategie dei due gruppi in modo lineare, pur consapevole della parzialità del mio sguardo e dei molteplici punti di vista che coesistono in entrambe le associazioni. Desideravo soprattutto provare a riflettere sui complessi immaginari e sulle strategie identitarie che orientano alcune pratiche dell'associarsi in due gruppi di donne. In questa prospettiva, la categoria di "donne migranti" sembra occultare, più che svelare le diverse posizioni e i vissuti, che sono l'esito dell'incontro di memorie, appartenenze nazionali e di classe, con le specificità del contesto di approdo. Definendosi come lavoratrici e professioniste, le persone che ho incontrato rivendicano altre soggettività oltre a quelle in cui sono spesso collocate, mentre lo spazio dell'associazione diviene il luogo in cui articolare ed esprimere il desiderio di un ruolo attivo nel paese in cui vivono, facendosi portatrici di istanze di partecipazione e di cittadinanza. Entrambi i gruppi, non cercano solo di definire altri canali d'inserimento lavorativo, ma radicano la propria azione all'interno di legami di solidarietà e amicizia, per condividere progetti e tempo libero, ma anche i vissuti di tristezza e di nostalgia, ricollocando il proprio sé in una rete di relazioni. Legami, reti associative e azioni di mutuo aiuto, lungi dall'essere la "naturale" espressione di una comune appartenenza etnica, nazionale o di genere, comportano forme di stratificazione interna e la parziale esclusione di altri e altre. Le progettualità alla base delle scelte d'inclusione e delle pratiche dell'associarsi in entrambi i casi sembra dunque collocarle al di là delle rigide categorie di "gruppo etnico" e "gruppi di donna", nelle quali una parte della letteratura italiana sul tema dell'associazionismo migrante tende ad iscrivere e interpretare queste realtà. Note straniero in Italia, per il quale si rimanda ad es. a Pietro Basso, Fabio Perocco, Gli Immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, Franco Angeli, Milano, 2003. Sulla relazione fra politiche locali, immigrazione e associazionismo a Milano si rimanda invece a Tiziana Caponio Tiziana Caponio, Policy Networks and Immigrants' Associations in Italy: The Cases of Milan, Bologna and Naples in “Journal of Ethnic and Migration Studies”, Vol. 31, No. 5, 2005, pp. 931-950 e al volume Città italiane e immigrazione. Discorso pubblico e politiche a Milano, Bologna e Napoli, Il Mulino, Bologna 2006. 4. L'indagine, che si proponeva di esplorare le forme delle partecipazione istituzionale e dell'associazionismo immigrato nella provincia di Milano, si è svolta tra aprile e giugno 2007. Essa si basa su interviste semi-strutturate e in profondità realizzate con attivisti/attiviste e soci/socie di associazioni di Milano e Provincia. I nomi delle persone a cui fanno riferimento i frammenti di interviste riportate sono pseudonimi. 5. Rachel Salazar Parrenas ha messo in luce che molte delle donne filippine occupate nel lavoro di cura in Italia e negli Stati Uniti appartengono alla classe media e che nel paese d'origine erano impiegate come insegnanti, professioniste, piccole imprenditrici. La scelta di migrare è spesso legata al mantenimento della propria posizione socio-economica e della propria famiglia, minacciata dalla crisi economica. Si veda Caring for the Filippino Family: How Gender Differentiates the Economic Cause of Labour Migration, “Women and Migration in Asia”, Vol. 4, Anuja Agrawal 2006. 6. Tutte le citazione sono tratte da una lunga intervista realizzata con Joanna il 15/05/07. 7. I percorsi educativi proposti dall'associazione hanno come obiettivi la decostruzione di stereotipi e pregiudizi, la promozione dell'accoglienza e la conoscenza delle "culture altre", la sensibilizzazione sui temi e valori della cittadinanza interculturale * La ricerca è stata svolta all'interno del progetto "Partecipazione Migrante" del CREAM (Centro Ricerche Etno-antropologiche di Milano) dell'Università Bicocca di Milano sotto la direzione di Alice Bellagamba e Mauro Van Aken. Il progetto è stato finanziato dalla Provincia di Milano - Assessorato Pace, partecipazione, sport, idroscalo e cooperazione internazionale. Sono molto grata alle persone che hanno preso parte alle tante discussioni che hanno attraversato lo spazio del seminario e che durante il lavoro di revisione dei testi mi hanno offerto commenti, critiche e suggerimenti. 1. Linda Basch et al., hanno definito transnazionalismo come "the process by which immigrants forge and sustain multi-stranded social relations that link together their societies of origin and settlement. […] An essential element of transnationalism is the multiplicity of involvements that transmigrants sustain in both home and host society", Nation Unbound: Transnational Projects, Postcolonial Predicments and Deterritorialized NationS t a t e s, New York: Routledge, p. 7. Si veda anche Steven Vertovec, Robin Cohen, Migration, Diaspora and Transnationalism, Edward Elgar Publishing, Cheltenham and Northampon 1999. 2. Patricia Pessar e Sarah Mahler, ad esempio hanno elaborato il concetto di "geometrie di genere del potere", a partire dalla nozione di "power geometry of time-space compression" proposta da Doreen Massey (1994), attraverso il quale la geografa ha messo in luce come le particolari condizioni che hanno generato la compressione spazio-temporale, al contempo definiscano i margini delle reali possibilità di accesso al flusso di informazioni e alla mobilità delle persone, situandole all'interno di reti di potere asimmetriche. 3. Non è possibile ripercorre qui la storia dell'associazionismo [email protected] 55 ACHAB D oss i e r De genere e multietnica, la conoscenza e la valorizzazione delle differenze (dal sito web www.donneincammino.org). 8. Tutte le citazioni fanno riferimento ad un'intervista realizzata con Marisa presso la sede dell'associazione il 14/05/07. Le citazioni di altri membri sono state raccolte in un secondo momento, nell'ambito dello stessa giornata in cui si svolgeva una riunione interna. 9. Sul tema del lavoro di cura in Italia e dell'associazionismo si rimanda ad es. a Jacqueline Andall, Gender, Migration and Domestic Service. The politics if Black Women in Italy, Aldershot, Ashgate 2000; relativamente al contesto milanese esiste una recente indagine della Camera di Commercio di Milano "Donne immigrate e lavoro di cura", Milano 2006 Bibliografia Valeie A., Pratibha P. Challenging Imperial feminism, "Feminist Review", N.17, 1984, pp. 3-19 Jacqueline A. Gender, Migration and Domestic Service. The politics if Black Women in Italy, Aldershot, Ashgate 2000 Arjun A. Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001 Linda B., Glick Schiller N., Szalton-Blanc C. Nation Unbound. 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Branda Yeoh, "Transnational Mobilities and Challenge" in Lise Nelson and Joni Seager, A companion to Feminist Geography, Blackwell Publishing, Malden, MA 2005, pp. 61-73. 56 ACHAB Do s si e r De genere Dubri Movimento e pratiche della località in un rituale agricolo1 di Federica Riva Introduzione all'etnografia A ritroso, ripensando ai periodi di ricerca di campo presso alcuni villaggi himalayani di Tehri Garhwal, India nord occidentale, mi sono resa conto di come l'esperienza etnografica sia stata prima di tutto un processo di "apprendistato ecologico". La partecipazione ad alcune pratiche agricole (quelle che richiedevano un lavoro intensivo e meno compromettenti per il raccolto), il muovermi in verticale imparando a non guardare in basso, tagliare l'erba sui pascoli non terrazzati, il rispetto dei confini, la consapevolezza dei pericoli e delle azioni azzardate, le modalità di partecipazione in cucina, l'adeguamento alla disponibilità stagionale delle risorse collettive, mi facevano perdere il senso delle domande antropologiche che erano il motivo per cui mi trovavo lì. Mi confondevo nei piccoli e ripetitivi gesti quotidiani imitando, per quanto mi era possibile, le pratiche esperte delle donne che mi davano ospitalità. Il mio aiuto era gestito dalle donne a me più intime che mi indirizzavano secondo le priorità di cooperazione collettiva nella gestione dell'abitare quotidiano; gli scambi di lavoro e l'aiuto tra donne è infatti una risorsa sempre più essenziale che deve essere collettivamente ben giocata e in modo assolutamente mutuale2. Lottavo con me stessa per riuscire ad andare oltre; inseguivo "l'eccezione al quotidiano"e spazi di parola con interlocutori/trici a ffinché mi restituissero un senso esplicito e comunicabile dell'agri-cultura come un orizzonte interpretativo della quotidianità. E della fatica. Nonostante la predisposizione teorica ad un approccio ecologico all'antropologia3 , l'immersione etnografica e il mio apprendistato a svolgere compiti ordinari a volte mi sembravano proprio fine a se stessi. La possibilità di testualizzare l'esperienza etnografica durante il seminario di genere mi ha fatto riportare l'evento eccezionale che volevo analizzare (Dubri, il pellegrinaggio della divinità locale in occasione del raccolto dei monsoni) ad una ordinarietà quasi corporea, a percezioni che mi sembravano mute, ad una serie di ragionamenti pratici irriflessi e alle tecniche del vivere quotidiano che mi imponevano un coinvolgimento attivo con l'ambiente. La mia stessa dimensione corporea di partecipazione all'ambiente si è infranta in un caleidoscopio di posizionamenti. Quello che è rimasto sono una serie di relazioni ritenute appropriate tra persone e ambiente a cui si è intrecciati attraverso le azioni sviluppate al suo interno e che ne fanno "the environment of a way of acting" (Wittgenstein1979:7) Movimenti divini e gastro-politiche della località Per "j a a t", pellegrinaggio, non bisogna intendere solo un movimento verso la divinità, uno spostamento fisico-spirituale, un'ascesa-ascesi verso il sacro che consenta una comunione con il divino. Spesso i pellegrinaggi che caratterizzano le aree himalayane sono un percorso, yatra,compiuto dagli abitanti delle montagne con la divinità localmente venerata; mossa su di un palanchino (palki) la divinità transita all'interno della propria area di influenza che di solito si estende a 4-5 villaggi. Naag Devta (la divinità serpente, una forma di Shiva) "arriva" (Devta andi) per celebrare Toulu in beisaak4, periodo primaverile quando è pronto il grano e le varietà di miglio e verso la fine del periodo monsonico, nel mese di badon, per Dubri che anticipa i raccolti principali di riso, miglio e legumi. L'arrivo della divinità al villaggio propizia l'abbondanza del raccolto, bateru. La stessa parola viene usata sia come sinonimo della festività che per indicare la generosità della famiglia nell'ospitalità e offerta di cibo. "Bateru kalya?", "ne hai avuto/mangiato in abbondanza?" La nozione di produttività agricola, infatti, non risponde a parametri puramente quantitativi; comprende, piuttosto, un senso immateriale di supporto comunitario, meljot. Il cibo indica e costruisce relazioni sociali, è un potente mezzo di contatto tra persone e gruppi, gli è riconosciuta la capacità di rendere omogenei gli esseri umani che entrano in contatto attraverso la sua condivisione (Hansen 2006). Le precedenze nel ciclo di distribuzione e i diritti-doveri di ospitalità regolano le transazioni appropriate e spesso esemplificano relazioni di solidarietà o rivalità, di esclusione, gerarchia o intimità tra persone. (Appadurai 1981) . Nel contesto hindu del Garhwal, proprio per compensare le qualità omologanti del cibo, saper mangiare nel modo, tempo, posizione e contesti appropriati significa riconoscere le differenze di status, le differenziazioni di genere e generazionali nonché le relazioni opportune tra persone. Ma soprattutto significa sapersi posizionare in modo socialmente accettabile5. Per questo l'abbondanza di cibo, la sua preparazione e la consumazione collettiva nel giorno di arrivo di Naag Devta è un atto "gastro-politico" di costituzione di relazioni sociali inclusive. Intorno alla condivisione di cibo, di cui Naag devta risulta l'unico ospite onorato, si costituisce una collettività come comunità di pratica agricola, una relazione collettiva con l'ambiente montano come luogo di sussistenza. La trasformazione dell'ambiente in cibo attraverso la produzione agricola implica una relazione "appropriata" e quindi "fertile" di uomini e donne 57 ACHAB Do s si e r De genere con la terra. In quanto trasformazione dell'ambiente, il raccolto è frutto di una cooperazione umana e divina e con l'arrivo di Naag Devta, il cibo è prasaad, dono divino. Per questo motivo il cibo, al centro del pensiero tassonomico e morale della vita quotidiana, diventa anche, nel suo riferimento alla cooperazione divina alle pratiche umane, un elemento rituale centrale nella costituzione della collettività agricola dove temporaneamente si sospendono le sue qualità di segmentazione e differenziazione sociale. La capacità della divinità di fornire un'identità pubblica ad un gruppo si fonda quindi su una relazione collettiva con l'ambiente che è prasaad . L'abbondanza, bateru, sta nelle relazioni feconde di cooperazione tra uomini/donne, divinità e località. Momenti di r i cerca di campo L'utero della terra A Dubri, il pellegrinaggio di Naag Devta prende la forma di una staffetta il cui percorso è contrattato di anno in anno creando, così, una circolarità nelle precedenze dell'arrivo della divinità nei rispettivi villaggi. Un palanchino costituito da due legni lunghi circa due metri su cui è riposta l'effige (nishan) della divinità, consente il movimento di Naag Devta insieme agli uomini, che "vanno a prenderla" per portarla al proprio villaggio. Il palanchino, afferrato ai quattro pali che ne costituiscono l'estremità, consente lo spostamento della divinità nello spazio ma anche il movimento su se stessa in una danza (Nag Devta nach raha hai, Naag Devta balla) che esprime la benevolenza divina (Nag Devta kush hai, è contenta). Mentre il movimento viene affidato agli uomini, alle donne compete il "ruolo gestazionale" (Bourdieu 1999) di preparazione del terreno per il passaggio della divinità. Dai confini verso il centro del villaggio (chonri), le donne versano a terra il panchamirt, un liquido costituito da cinque elementi: burro, urina di mucca, miele, yogurt, latte. La preparazione del luogo di arrivo di Naag Devta viene invece affidato all'ouji della casta degli harijan, figura centrale in ogni momento rituale della collettività. Gli ouji scandiscono i tempi cruciali della collettività con il suono del dol (tamburo): quotidianamente accompagnano i movimenti del sole all'alba e al tramonto, fiancheggiano il palanchino degli sposi durante il barat (processione) matrimoniale, annunciano l'inizio della primavera, ma soprattutto con i loro suoni ritmici "fanno ballare la divinità" dal momento in cui esce dal tempio fino a quando ci ritorna. Per giorni si può seguire il percorso di Naag Devta attraverso le mulattiere che portano da un villaggio all'altro solo ascoltando le direzioni sonore del dol. Durante il festival di dubri, per una settimana, si costituisce un vero paesaggio sonoro che conferisce un senso di connessione ai villaggi in cui Naag Devta transita. Per Dubri, l'ouji prepara un buco di un metro di diametro che viene riempito di coltivi prossimi alla raccolta: jhangora, mandua, (due qualità locali di miglio), mais e verdure. Ci si riferisce al buco come alla "pancia della terra", al suo "utero (cok) che afferra (pakadna) i raccolti". La terra, infatti, non rimane sostanza inerte nelle forme di interazione che ne assicurano la fecondità; si tratta, piuttosto, di un soggetto attivo nel processo di produzione, che ha preferenze, diete appropriate, appetititi, capacità di afferrare o meno i raccolti, che è debole o forte, che ha bisogno di riposare. Quindi la preparazione dell' "utero che afferra i coltivi" da parte dell'ouji, serve a ribadire il ruolo attivo della terra nel processo di relazioni feconde della collettività con la località. Dall'"utero" che viene richiuso e ricoperto di terra e pietre, sbucano le coltivazioni a stelo lungo, come il mais, la jhangora e la mandua. Le donne, riunite intorno al luogo dove sono trattenuti i coltivi offrono i simboli culinari del festival a Naag Devta: puri, pakore, dahi e subzi. E' il movimento della divinità su se stessa, la sua danza che dà inizio al momento di competizione maschile nel cercare di "tirare fuori" (nikalna) dalla pancia della terra quanto più raccolti è possibile, propiziazione all'abbondanza del raccolto effettivo che avverrà dopo 15-20 giorni. I raccolti sono pronti, peda ho gea, letteralmente "sono nati" da una relazione legittima con il locale. Qualità terrene, residenza e fecondità Secondo l'agronomia sostanzialista che caratterizza l'agricoltura nei villaggi del Garhwal, la terra conferisce le proprie qualità o proprietà alla coltivazione che deve essere predisposta a riceverle. Qualità che fluiscono all'uomo attraverso la catena di processi implicati nella produzione di cibo. La specificità del cibo connesso al contesto ecologico, infatti, diventa spesso un elemento di identità collettiva e di distinzione sociale, simbolo di uno stile di vita, rehen sehen, di un "modo di risiedere", di abitare il territorio come risorsa primaria. L'immaginario culinario viene spesso connesso ad un immaginario di relazione spaziale (Feldman P. 2006)6. È come se il cibo, le pratiche quotidiane e le forme di collaborazione (tra uomini e donne di diverse caste, generazioni ed estrazioni sociali, con la terra e Naag Devta) che sono implicate nella sua produzione fossero alla base dell'interiorizzazione del luogo da parte degli abitanti e del processo stesso di divenire i luoghi. Performare lo scambio rituale di cibo-prasad durante Dubri, apparentemente incuranti delle differenziazioni sociali, ribadisce che il villaggio, l'individuo e la comunità sono elementi di un'unità bio-morale, nonostante le differenze di casta, classe, genere o generazionali . Come sostiene William Sax, in Garhwal " by working collectively , mixing and 58 ACHAB Do s si e r De genere sharing food, and especially through their rituals, villages constitute themselves as biomoral entity" (Sax, 2002, p.49). La performance rituale che precede il raccolto, riafferma che terra e abitanti (umani, animali, divini, demoniaci) sono parte di un sistema interattivo di scambio e che la co-partecipazione all'ambiente tramite pratiche agricole costituisce un elemento distintivo della comunità pahari (della montagna). La molteplicità delle prospettive viene facilmente omessa nelle espressioni rituali collettive che si fondano appunto sull'ideologia agnatizia dominante che la comunità condivida una cultura omogenea, uno sguardo comune sul locale e identiche pratiche di relazione al luogo di residenza. L'autenticità di una cultura condivisa si fonda, infatti, sulla naturalizzazione di un rapporto con il territorio che nel Garhwal significa appartenenza al luogo di residenza patrivirilocale. Nel caso dell'uomo, questo luogo coincide con lo spazio dei propri antenati, con il proprio luogo natale, nonché con quello che sarà il luogo per la propria discendenza maschile. Per quanto riguarda la donna sposata, invece, lo spazio sociale appropriato coincide con l'abbandono (mai così totalizzante e definitivo come gli uomini amano rappresentare) dei luoghi legati alla propria infanzia e il contenimento nello spazio7 del marito. L'affacciarsi ad un nuovo paesaggio naturale e sociale e cercare di farne parte attraverso l'abilità nelle pratiche quotidiane può, infatti, essere considerato il vero rito di iniziazione della donna all'età adulta. Alcuni attribuiscono la definizione di Dubri al rituale che precede il raccolto nel periodo monsonico ad un'erba delle colline himalayane, dublu gaas. Proprio per la sua capacità di attecchire e facilità nel riprodursi, la dublu gaas assume un valore simbolico e viene utilizzata in molti rituali di propiziazione all'abbondanza ed alla fertilità. Viene donata alla nascita di un figlio maschio che, differenza delle figlie femmine, continuerà la relazione della discendenza paterna con il luogo di residenza; ma è anche shaguun8, un elemento rituale di buon auspicio per una relazione di appartenenza feconda al territorio, che accompagna le attività di ogni periodo di raccolta agricola.. A Dubri, ognuno si porta a casa un ciuffetto dublu gaas, insieme ai raccolti ottenuti dall'"utero della terra". C'è un detto garhwali che dice "gaanth gaanth se sab aur se barti dublu gaas hoti hai, usi prakaar tu (stri) hamko maatrgotra aishvarya se vismrat karo", "come la dublu gaas cresce da ogni nodo, cosi' tu (donna) diffondi la discendenza con prosperità". Il riferimento è alla donna come dublu gaas: condizione per la fecondità "legittima"consiste nel "mettere le radici a terra" e diffondere il gotra (lignaggio) del marito attraverso nuova prole. Le donne sono rappresentate come l'anello di continuità con il locale e la tradizione; consentono, e non solo simbolicamente, che la comunità famigliare rimanga legata al territorio e che venga rafforzata dalle relazioni comunitarie all'interno del villaggio. Sono loro le principali addette ai lavori agricoli che seguono l'aratura, alle attività quotidiane per la sussistenza e alla cura del bestiame. La massiccia emigrazione maschile verso i centri urbani in cerca di lavoro salariato, infatti, ha fatto sì che progressivamente, nel corso degli ultimi 30 anni, le donne siano state gli effettivi residenti dei villaggi himalayani. Sono loro, inoltre, che mantengono vive le relazioni di cooperazione (padyiaal, scambio di lavoro) all'interno della comunità agricola durante i periodi di intenso lavoro. Il radicamento, la stabilità, i legami con la località e la fecondità legittima sono ciò che fa di un "essere femminile" una "devi" (la stessa parola viene usata sia per la divinità femminile che nomignolo post-maritale per la donna). La donna diventa tale nel momento in cui "si sposa al luogo di residenza" sancito dalle alleanze matrimoniali delle rispettive famiglie; diventa devi con l'entrata nello spazio del marito, consentendo una discendenza legittima e la continuità di una relazione del lignaggio maschile con il territorio . Pratiche della località Nelle rappresentazioni dominanti di Dubri, la donna, come la dublu gaas, è immobile, anello di radicamento al luogo, che attecchisce dove la metti. D u b r i, descritta dagli informatori/trici come performance di radicamento al territorio, di relazione feconda, legittima ed esclusiva al luogo di residenza, ci indica anche come la trasformazione radicale della donna, il suo processo di enskilment 9, sia condizione necessaria alla riaffermazione di una cultura omogenea della località. Trasformazione che viene rappresentata come un viaggio, esistenziale oltre che geografico, senza ritorno, allontanamento definitivo dai luoghi della propria fanciullezza, dagli spazi affettivi prematrimoniali, dal contesto ecologico del villaggio di origine. Il rapporto tra suocere e nuore10, espressione del potere e dei conflitti generazionali tra donne all'interno della famiglia, può essere considerato emblematico a tal riguardo. Parlando con le donne che hanno figli maschi sposati (e che hanno quindi tutte le carte in regola per esibire il loro pieno radicamento al luogo di residenza) viene spesso riferito di come le loro bhwari (nuore) non sappiano "fare niente", di come debbano imparare tutto ciò che la renderà, nel tempo, una brava sposa, madre ed eventualmente suocera. Il riferimento alla mancanza di'"abilità" nei lavori agricoli e routine quotidiane, è particolarmente significativo, infatti, nel definire ciò che, nell'ottica della suocera, ancora manca alla giovane sposa per radicarsi definitivamente al locale, ad una nuova geografia condivisa nel villaggio del marito. La negoziazione dell'appartenenza della donna allo spazio avviene, quindi, attraverso quella che viene rappresentata come iniziazione alle pratiche agricole. Queste affermazioni sono da inserire nel contesto sociale dei villaggi himalayani dove il ruolo delle donne in agricoltura è centrale per la sussistenza della famiglia. Il valore culturale cruciale assunto dal lavoro agricolo fa sì che la partecipazione ad una comunità agricola femminile e l'alleggerimento della mole di lavoro delle altre donne della famiglia, sia l'espressione di "radicamento" effettivo della giovane sposa. L'uscita dal luogo natale viene quindi rappresentata, questa volta secondo l'ottica dominante 59 ACHAB Do s si e r De genere rappresentata dalle suocere, con l'acquisizione dal nulla di abilità che sanciscono una nuova relazione, culturalmente mediata, con lo spazio. Eppure le bambine, sin da tenera età, rappresentano un aiuto spesso indispensabile nelle famiglie pahari. Collaborano con la madre nella raccolta del foraggio per gli animali, nella sarchiatura del terreno dopo l'aratura; sanno riconoscere le piante utili da quelle dannose e sono spesso abili nella mondatura e nella macinazione manuale dei grani; sono un prezioso sostituto in cucina, nella pulizie e nell'accudire i bambini più piccoli durante i periodi di intenso lavoro agricolo che tengono la madre lontana da casa dall'alba fino al calare del sole. Le loro abilità nello specifico contesto rurale himalayano sono considerate un elemento non da poco nelle contrattazioni matrimoniali, a volte più dell'educazione scolastica. La loro incapacità esibita dalle suocere, sembra essere, quindi, una vera e propria costruzione culturale. Si sancisce, ancora una volta, che il divenire donna ha origine da un vuoto, da una cancellazione. Inoltre, la sua appartenenza al (viri)locale deve essere inaugurata con il radicamento esclusivo nello spazio del marito e con la condivisione assoluta dei codici culturali che lo governano. Si esorcizza, in questo modo, il movimento della sposa come relazione tra luoghi che la collocherebbe sempre un po' anche "altrove". Una posizione eccentrica quella della donna che, se ammessa socialmente nella forma di pubblico rituale, farebbe infrangere l'illusione di una cultura autentica ed esclusiva basata sul virilocale. Riconoscere alle donne la loro condizione di migranti, infatti, significherebbe anche riconoscere la natura ibrida della relazione al locale che si fa punto di incontro tra luoghi ed appartenenze diverse. Altri momenti connessi al rituale della raccolta ci suggeriscono la natura ambigua della posizione femminile rispetto alla località; ci raccontano del legame tra i due luoghi che, in una prospettiva femminile11, sembra inalienabile, anzi, sembra essere condizione stessa del vivere un luogo, il locale in quanto donna. Si parla di amicizia (dosti) di Naag Devta con la dhyiaani (figlia sposata) e della sua contentezza (kushi) se le viene concesso di tornare alla mait (casa natale) durante i festival, In realtà questo viene riferito da informatori/trici solo in seguito ad una mia domanda diretta ("le dhyiaani tornano a casa per D u b r i?"). Le riposte mettevano in evidenza il fatto che fosse di buon auspicio che soprattutto le giovani spose tornassero alla propria casa natale. Nello stesso tempo, però, ci tenevano a precisare la non obbligatorietà di questo ritorno (se non vanno non ci sarà maledizione-dos-da parte della divinità). Sancendo la marginalità della visita alla casa natale rispetto alla riuscita della performance rituale, rendono questo momento di celebrazione di una prospettiva femminile sul locale contingente alle volontà individuali e quindi innocuo per quanto riguarda le politiche dominanti di genere. La celebrazione di Dubri, seguendo il movimento di Naag Devta, avviene in giorni diversi in ogni villaggio. E' proprio la scansione temporale che consente la celebrazione (questa volta non pubblica) da parte delle donne di un legame con uno spazio anteriore, di una geografia emozionale originaria che non viene mai rimpiazzata completamente dall'ordine sociale di residenza virilocale. Dalle donne giovani l'arrivo di Naag Devta alla loro mait viene spesso descritto come il momento più emozionante dei giorni di festival, a cui mi veniva richiesto di partecipare seguendole nel loro viaggio di ritorno, in giornata e a piedi. In questa occasione la donna diviene spesso ospite informale del rituale pubblico. Dopo la distribuzione e lo scambio rituale collettivo di cibo-prasad, la dhyiani si ritrova con la propria madre, spose di fratelli, nipoti, zie, cugine intorno al chulla (fuoco per cucinare), nello spazio interno della propria geografia d'origine. La condivisione di chai (thè) e ancora cibo è un momento di intimità tra donne in cui ci si scambia informazioni, si racconta di distanze, nostalgie e relazioni tra famiglie. E' un rituale informale femminile ai margini della performance rituale pubblica che ci suggerisce come la donna non smetta mai di essere dhyiaani (figlia sposata) per la propria famiglia natale e come la relazione tra luoghi sia alla base di una relazione femminile con la località. [email protected] Note 1.La ricerca è stata svolta all'interno del dottorato in Antropologia della Contemporaneità dell'Università di Milano Bicocca e nell'ambito del Progetto Ev-K≈-CNR - Ricerche Scientifiche e Tecnologiche in Himalaya e Karakorum, grazie al contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche e del Ministero degli Affari Esteri. I periodi di ricerca di campo sono stati compresi tra dicembre 2001 e settembre 2006, svolti sia in internship con il Research Foundation for Science Technology and Ecology a Dehra Doon che presso alcuni villaggi di Jaunpur Block, distretto di Tehri Garhwal, Uttarakhand, India NordOccidentale. Il processo di elaborazione testuale del materiale etnografico è coinciso con il seminario permanente di antropologia di genere presso l'Università di Milano Bicocca. 2. La preferenza per famiglie nucleari rispetto a quelle allargate (dove c'era una suddivisione delle mansioni), l'emigrazione maschile di figli e mariti, la crescente scolarizzazione anche delle ragazze, hanno reso quasi esclusivo il ruolo delle donne singole come responsabili della sussistenza quotidiana. 3. Cfr. Ingold 2001. 4. Secondo il calendario garhwali che viene utilizzato sia per scandire i momenti rituali che per le attività agricole, beisaak è il periodo tra il 15 aprile e il 15 di maggio mentre badon spazia tra il 15 agosto e il 15 settembre. 5. La condivisione appropriata del cibo ha costituito un momento importante della mia educazione alla località durante i periodi di ricerca etnografica. "Jutthu" è l'espressione che viene usata quando si superano i confini dell'intimità fisica tra persone in legami inappropriati; è da quel divieto che sono stata educata a relazioni di cibo più o meno appropriate anche se non fisse, quanto, piuttosto, variabili nel tempo e circostanze. 6. La mandua e jhangora, (detti anche mota anaag, grani grossi) due tipi di miglio che richiedono poca acqua e sono resistenti alle 60 ACHAB Do s si e r De genere difficili condizioni atmosferiche montane, sono il simbolo di un'alimentazione che è diventata rappresentativa anche di un modo di essere e di vivere il territorio impervio del Garhwal. Colture tradizionali che hanno svolto un ruolo importante per la sicurezza alimentare delle famiglie pahari, mandua e jhangora, nonostante l'elevato valore nutritivo, hanno subito una svalutazione progressiva con la rivoluzione verde. Spesso sostituite con colture considerate più "produttive"(high value cash crop) in quanto commerciabili sul mercato e rispondenti ai gusti alimentari di potenziali clienti delle pianure, il grano e il riso sono diventati indici di benessere economico e di un'alimentazione "moderna". L'associazione delle colture tradizionali di mandua e jhangora ad una realtà sociale arretrata e stile di vita arduo, si può riscontrare anche in alcune canzoni popolari note nell'area di Tehri Garhwal. La Kuder Geet (tipologia di canzone che racconta la nostalgia -khud- per la persona amata che si trova lontano o per la casa natale che si deve lasciare col matrimonio) ci può fornire alcuni indicatori di come le gerarchie "colturali"e alimentari intervengano nelle relazioni tra persone della montagna e persone della pianura. Nella seguente canzone, una ragazza di Rishikesh (città in riva al Gange, situata nella pianura adiacente alle montagne) chiede di non essere data in sposa ad un pahari; denigra lo stile di vita delle famiglie che abitano le montagne facendo riferimento ai loro costumi alimentari: Caro padre, quali sono i costumi sociali Dove cerchi un compagno di vita per me? Che vestiti vestono là? Che cibo mangiano? Vestono sari di lana E mangiano jhangora e mandua Non ci andrò mai là Caro padre, non ci andrò mai là Al di fuori dell'ideologia modernista, ancora oggi mangiare roti di mandua o jhangora è sinonimo di una relazione di radicamento alla terra del Garhwal. 7. Sax, come essere inseriti nello spazio di qualcun altro significa esserne subordinato (Sax 1990, p.496) 8. Durante il mundi, la mondatura del grano,per esempio, un ciuffo di questa erba viene fatto sbucare da un cono fatto con escrementi di mucca (anch'essi , insieme all'urina di mucca, considerati un elemento rituale purificatore) e posto in cima al giogo intorno cui vengono fatti ruotare i buoi 9. Tim ingold, 2001 10. Si mette in evidenza come l'ideologia dominante non sia supportata necessariamente ed esclusivamente dagli uomini 11. Come ho già messo in evidenza con il riferimento alla relazione sasu-bhwari (suocera-nuora), non si può parlare di una prospettiva monolitica di uomini o donne sulla località. Piuttosto, è il posizionamento individuale (età, abilità, carattere, specificità della proprio ruolo nella configurazione parentale, complicità con le altre donne della famiglia allargata, presenza nel nucleo famigliare di altre donne con maggiore autorità o di spose più giovani, presenza di figli maschi, casta, proprietà famigliari etc; ) che influenza il modo di abitare lo spazio di residenza e di vivere il legame con la famiglia di origine e le relazioni con il proprio villaggio natale. Così, anche la prospettiva maschile è profondamente influenzata da una serie di variabili che definiscono la specificità del legame individuale con il territorio. Quando parlo di discorso dominante, non lo faccio coincidere con le storie di uomini quanto alla legittimazione sociale del predominio maschile. Bibliografia Appadurai A., 1981, G a s t ropolitics in Hindu South Asia, in “American Ethnologist”, vo.8, n° 3, Simbolism and Cognition, pp.494-511 Bourdieu P.,1999, Il dominio maschile, trad.it. 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Wittgenstein, L 1979, Remarks on Frazer's Golden Bough, Atlantic Highlands NJ, Humanities Press 61 ACHAB Do s si e r De genere Osservazioni sulla costruzione del genere nelle pratiche di produzione radiofonica di Sara Zambotti Since technology and gender are both socially constructed and socially pervasive, we can never fully understand one without also understanding the other (Lohan & Faulkner: 2004, 319) Il dibattito pubblico in Italia intorno al rapporto tra media e genere si anima spesso nei programmi televisivi e sui quotidiani intorno alle rappresentazioni del "femminile" e del "maschile": in breve, intorno ai "modelli" di genere forniti dai media considerati come agenzie culturali e, particolarmente in Italia, come "formative". Sul versante invece dei media intesi come organizzazioni, alcune recenti ricerche sociologiche hanno indagato il ruolo del genere soprattutto nelle dinamiche organizzative e nella divisione del lavoro all'interno di Radio Rai (cfr. Rella, Cavarra: 2004) e all'interno dell'emittente pubblica francese (Glevarec: 2001) attraverso una compresenza di metodologie quantitative e qualitative. Prendendo in esame il primo di questi contesti (Radio Rai) propongo qui alcune considerazioni sulla dinamica di genere basate su un'osservazione etnografica condotta all'interno delle redazioni di alcuni programmi in una prospettiva che analizza i prodotti mediatici a partire dalla complessità dei contesti in cui essi sono ideati. La mia osservazione è contestualizzata all'interno degli spazi di lavoro di Radio Rai, in particolare negli studi e nelle redazioni di alcuni programmi del secondo e terzo canale della radio pubblica a Roma e a Milano dove lavoro dal 2004. E' indubbio che tale posizionamento (essere parte attiva nei processi stessi di cui parlo) influenza la mia scrittura, la mia riflessione e i vincoli che delimitano il mio sguardo. Così i materiali di ricerca non sono solo gli incontri, gli ascolti e le osservazioni ma la trasformazione stessa della mia "performatività" di genere. Infatti, il linguaggio, il verbale e il non verbale del ricercatore reagiscono al contesto e la lettura di questi adattamenti (delle incorporazioni e dei limiti di questa incorporazione) è un altro campo di segni in cui leggere l'azione della dinamica di genere. Spostandoci così dal piano di un'analisi delle rappresentazioni, si tratta in queste pagine di considerare la costruzione sociale del genere in relazione alle dinamiche di divisione del lavoro, ovvero come l'attribuzione di diversi ruoli professionali a uomini e donne e la loro interconnessione producano specifiche e diverse relazioni di genere. In particolare, mi propongo di analizzare come una differenzazione di genere si produca nel contesto osservato a partire dalla convergenza tra aspetti micro e macro strutturali, quali: le trasformazioni dei regimi contrattuali da dipendenti a precari, la conseguente individualizzazione del lavoro e il cambiamento dei mezzi di produzione da analogici a digitale. Si osserveranno in primo luogo le relazioni di genere nel rapporto tra conduttori e redazione come esempio di una visione complementare di specificità maschili e specificità femminili e in secondo luogo si osserveranno le nuove pratiche di produzione digitale come ambito in cui si sta sviluppando una diversa agency femminile e, per concludere, si analizzerà come questa nuova soggettività si pone in relazione a una dimensione di appartenenza a una collettività di pari. In questo caso si intende capire come e quanto questa soggettività femminile si percepisce come parte di una formazione collettiva di donne che condividono lo stesso ambito di lavoro e lo stesso regime di lavoro precario e individualizzato, quali sono dunque le pratiche attraverso cui si produce un senso di appartenenza e di riconoscimento. Questo tipo di analisi muove dall'ipotesi teorica che esista una relazione significativa tra la rilevanza della differenza di genere nelle pratiche produttive di programmi radiofonici e le rappresentazioni di genere presenti nei messaggi veicolati. Quindi, secondo l'ipotesi qui proposta, l'organizzazione dei processi produttivi finirebbe per iscrivere una traccia nei testi realizzati e nei "modelli" di genere proposti. Le dimensioni in cui la radio viene raccontata, agita e percepita dalle persone che la abitano, e che propongo qui di analizzare come percorsi in cui rilevare la dinamica di genere, sono lo spazio fisico (in particolare qui parlerò della "palestra" e degli studi di registrazione), le tecnologie (i computer, i software, i microfoni, etc.), le figure professionali (gli autori, i tecnici, i redattori, i conduttori) e le competenze in cui è convenzionalmente diviso il lavoro radiofonico. Tutti questi elemementi (che Askew e Mill categorizzano come Technologies, Contexts and Texts, cfr. Askew e Mill: 2002) cristallizzano alcuni degli aspetti che vengono convenzionalmente osservati nell'analisi antropologica dei media. 62 ACHAB Do s si e r De genere In particolare, volendo delineare "l'articolazione dei rapporti di forza" (Gramsci 2001: 1563) nell'ambito della relazione tra ruoli professionali e uso dei mezzi di produzione all'interno di Radio Rai rilevo come primo aspetto la ricorrenza di una distinzione nella prassi (non esplicitata ufficialmente) tra mansioni femminili e mansioni maschili. In secondo luogo, osservo come la condivisione di un inquadramento professionale e di uno spazio fisico di lavoro nell'ambito del settore produttivo del "montaggio" porta allo sviluppo di particolari relazioni tra pari in assenza di momenti istituzionalizzati di aggregazione. Conduttori e redazioni: una relazione di complementarietà? All'interno delle varie fasi della produzione radiofonica è riconoscibile una differenziazione tra competenze e ruoli professionali tra uomini e donne a cui corrisponde una conseguente diversificazione tra salari e riconoscimenti all'interno dell'azienda. Da un punto di vista delle differenze di ruolo, il maschile e il femminile si associano prevalentemente alla separazione tra lavoro autoriale e lavoro redazionale laddove il primo è il lavoro creativo di invenzione e di scrittura e il secondo è l'ambito esecutivo e organizzativo. In prevalenza, "l'idea" è maschile, maschile è più spesso anche la voce radiofonica mentre il lavoro di esecuzione, organizzazione, reperimento delle risorse è femminile. Il lavoro redazionale si muove intorno all'idea autoriale, la intuisce, la sviluppa e le da sostanza (attraverso la ricerca di materiali di rassegna stampa, il reperimento di contatti per possibili interviste e un lavoro di tipo burocratico). Questi sono gli aspetti immediatamente osservabili che emergono da una prima descrizione della divisione del lavoro. In particolare, il dato che mi sembra più lampante è la scarsa presenza di donne "al microfono", ovvero di donne che agiscono nel ruolo più visibile ed esposto al pubblico. Perché non riesce a svilupparsi una performatività femminile diffusa di "conduzione" dei programmi? Riguardo a questo punto, le colleghe esprimono pareri diversi: "le donne non si autorizzano a certi ruoli artistici (in particolare quelli maggiormente esposti come il conduttore, il comico, l'attore, etc.) in quanto donne". L., una redattrice, per esempio, a questa obiezione risponde "perché il microfono è potere". Il problema è mettere a fuoco come determinate prerogative continuano nel tempo ad essere connotate secondo una differenza di genere. Si può analizzare questa ricorrenza parlando di subalternità di ruolo della donna rispetto al modello performativo maschile? Mi riferisco qui al saggio Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile di Carla Lonzi scritto nel contesto del movimento femminista italiano all'inizio degli anni settanta in cui si contestava il paradigma della complementarietà tra maschile e femminile nella produzione artistica. La creatività maschile ha come interlocutore un'altra creatività maschile, ma come cliente e spettatrice di questa operazione mantiene la donna il cui stato esclude la competitività. La donna è condizionata in una categoria che garantisce a priori al protagonista della creatività l'apprezzamento dei suoi valori. (Cfr. Lonzi: 1971, 63) L'analisi proposta da Lonzi sembra in parte congruente al dato etnografico, lo inquadra in una distinzione tra ricorrenza di ruoli femminili ("redazionali") e ruoli maschili ("di conduzione") che risultano complementari e differenziati in termini di riconoscimento sociale (visibilità), di riconoscimento aziendale (salari) e di identificazione soggettiva (ovvero quanto la soggettività è sollecitata, accolta e riconosciuta nelle diverse mansioni). Per quanto riguarda questo ultimo aspetto, la performance al microfono è direttamente identificata con la personalità del suo attore mentre il lavoro redazionale è concepito come svolgimento di una serie codificata di mansioni meno "soggettivizzate" ma più standardizzate. Questo è da ricondurre alla tipologia di programmi di RadioRai dove la relazione tra ascoltatori e radio è pensata come una relazione di intimità, di riconoscibilità, in cui si tende ad "affezionare" il pubblico ai conduttori radiofonici. "Lo scopo della radio è quello di far ridere chi è bloccato nelle code del traffico", mi disse uno dei responsabili dei programmi. Da ciò ne deriva una grande "soggettivizzazione" della performance del conduttore, che diventa così riconoscibile dal suo timbro di voce, dal suo carattere, dalle caratteristiche della sua ironia. Esiste certamente una tecnica, una ritualità che restano tuttavia celate per lasciar spazio alla costruzione di un tono "colloquiale", immediato, informale e spontaneo di persone che "chiaccherano" che ha come obiettivo la "fidelizzazione" del pubblico. Il lavoro di redazione, invece, è percepito come un ambito di maggiore sostituibilità perchè le competenze sono più esecutive e quindi più facilmente trasmissibili e meno spazio è lasciato all'espressione della soggettività di chi le svolge. Un ambito interessante per analizzare come la congiuntura tra lavoro esecutivo, precarietà contrattuale e trasformazioni delle infrastrutture tecnologiche della produzione ha aperto un nuovo spazio alla costruzione di una competenza "al femminile" e di una relazione diversamente complementare tra competenze maschili e femminili è quello della tecnologia. La palestra: quando l'esistenza di uno spazio comune permette lo sviluppo di relazioni orizzontali Se parlando di genere, si individuano gli snodi e le pratiche in cui la differenza viene costruita ed articolata, un aspetto interessante ed immediatamente osservabile è il richiamo a universi dicotomici maschili/femminili nei nomi di alcuni strumenti. […] the artifact itself, or its representation through instruction manuals, advertisements, marketing, or the media, can often be shown to incorporate configurations of the user, including gender scripts […] (Bray: 2007, 42). Ma la tecnologia non dovrebbe essere neutra? Parrebbe di no. Per esempio, i registratori, i microfoni, le casse, i mixer che compongono il materiale necessario per registrare, modificare e diffondere il suono (operazioni base contenute nell'insieme più ampio del processo produttivo radiofonico) sono collegati tra loro da cavi che trasportano il suono. Questi cavi, si dice, "entrano" ed "escono" e le loro estremità vengono chiamate "maschio" o "femmina" dove la presa femmina è bucata e quella "maschio" è invece dotata di estremità combacianti. Se possiamo ricostruire un immaginario simbolico nelle fattezze delle forme tecnologiche, in questo caso abbiamo a che fare con la relazione tra due entità 63 ACHAB Do s si e r De genere materialmente diverse e complementari, che funzionano nella loro unione: la differenza dell'uno è in funzione dell'altra, non c'è gerarchia tra i due elementi, come due pezzi di un puzzle, come i poli positivo e negativo di una pila. Tuttavia, recenti ricerche femministe nell'ambito dei STS (Sciences and Technologies Studies) propongono un approccio antropologico allo studio della tecnologia che non si ferma a considerare quest'ultima come una "metafora" ma che va ad analizzare come differenziazioni di genere vengano costruite attraverso le pratiche di uso degli strumenti tecnologici. La tecnologia è in questo senso il risultato di pratiche sociali in cui i mezzi di produzione si trovano a giocare un ruolo importante nella configurazione dei rapporti tra i generi, in termini di definizione di competenze, di ruoli professionali e quindi di relazioni di potere. Tra queste studiose, Bray scrive: One fundamental way in which gender is expressed in any society is through technology. Technical skills and domains of expertise are divided between and within the sexes, shaping masculinities and femininities. (Bray: 2007, 44). Da questo punto di vista, il tecnologico non è per forza un campo di analisi sempre pertinente, ma certamente lo è nell'ambito della radio in quanto combinazione tra voce e tecnologia, in cui la distinzione tra i vari ruoli professionali è basata sulla interconnessione tra pratiche ideative, "autoriali" e mezzi tecnici per produrle. La domanda iniziale è quindi ripostulata come segue: osservando le pratiche e i discorsi che si sviluppano nell'ambito dell'uso delle tecnologie di produzione radiofonica, quali diversi posizionamenti di genere emergono? Anche la produzione radiofonica di Radio Rai si è via via digitalizzata, questo significa che il lavoro di montaggio e confezione di un programma preregistrato vengono assemblati attraverso un software digitale. L'introduzione di questa strumentazione negli anni novanta ha modificato radicalmente il processo produttivo comportando una ridefinizione delle pratiche di lavoro, dei ruoli professionali, dei salari e degli aspetti simbolici implicati nella vita quotidiana di questo microcontesto (inserito nel più vasto ambito di una "precarizzazione" progressiva dei regimi di lavoro). Quando entrai per la prima volta in Rai nel 2003, questo software era ancora una relativa novità di recente introduzione (due o tre anni). Allora la maggioranza di coloro che lavoravano nei programmi si era formata in un contesto produttivo diverso, analogico, che prevedeva una distinzione tra lavoro ideativo (autoriale) dei contenuti (competenza degli autori) e lavoro tecnico (ovvero tutte le operazioni che riguardavano il trattamento del suono: montaggio, registrazione etc): competenza dei tecnici. Il lavoro di montaggio e pulitura dei suoni era allora affidato alla figura professionale dei tecnici che operavano su nastro magnetico andando a tagliarlo e incollarlo. Con l'introduzione delle nuove infrastrutture digitali poi, riprendendo il "taglia e incolla" dei programmi di scrittura (come Word), il software audio in questione è intuitivamente utilizzabile da parte di chi è già familiarizzato con la pratica di scrittura digitale. Tuttavia, il trattamento della qualità del suono è rimasto materia di lavoro del tecnico tanto da non essere previsto dalle possibilità di editing di questi software. La divisione del lavoro, così, è rinforzata anche dalla sua traduzione negli "script" (cfr. Latour: 2006) di un mezzo le cui possibilità creative sono così ritagliate a misura delle mansioni richieste al suo utente. Quando il software venne introdotto, si dovette procedere a una ri-qualificazione del personale. A coloro che erano abituati a scrivere i testi e "ad andare in voce" fu impartito un corso per imparare a usare il nuovo linguaggio provocando reazioni contrastanti. "Mi rifiuto di fare il corso e toccare quella macchina. Questo è solo un modo per l'azienda di tagliare i costi e mandare a casa un bel po' di tecnici", mi disse uno dei responsabili dei programmi, assunto in Rai da molti anni. Fu certamente un momento di ridefinizione delle professionalità che provocò molte critiche pubblicate anche sui quotidiani nazionali (cfr. Paolo Fabbri su L'Unità tra gli altri). Anche G., una regista che lavora presso Radio Rai da una decina di anni, considerata una delle più competenti, propone spesso una lettura "sindacale" della questione descrivendo l'informatizzazione come una dequalificazione sia del lavoro che del prodotto. Dal suo punto di vista, di persona che del lavoro tecnico fa una competenza di cui andare fiera e che ha vissuto la transizione dal "vecchio" regime analogico al "nuovo" regime digitale, forte è la contraddizione delle nuove leve giovanili disposte a lavorare "sottopagate" pur di ottenere un contratto: "in questo modo, se tutti accettano certe condizioni di lavoro, l'azienda non cambierà mai la sua politica: un tempo questo era un mestiere serio, oggi è lavoro per giovani manipolabili." Il cambio di infrastruttura tecnologica è avvenuto infatti contemporaneamente a un cambio nelle politiche del lavoro dell'azienda che non assume più nuovo personale dipendente ma ha introdotto tipologie di contratti individuali a tempo determinato. Questa prassi ha reso anche in Rai difficile per i nuovi lavoratori a contratto lo sviluppo di una formazione collettiva che possa operare sul piano sindacale. Da un altro punto di vista, questa importante informatizzazione di parti del processo produttivo ha portato anche a un avvicinamento tra lavoro ideativo e lavoro tecnico, riportando nelle mani di chi lavora all'interno delle redazioni mezzi più intuitivi e accessibili. Questa trasformazione assume oggi caratteristiche interessanti relativamente alla dinamica di genere. Se come scrive Bray, infatti, il computer è generalmente associato a pratiche connotate come maschili, il suo uso all'interno del processo produttivo radiofonico lo rende oggi tecnologia prettamente femminile e generazionalmente connotata (cfr. Bray: 2007). Perché, chi usa questo software? Se il tecnico dell'epoca "analogica" era prevalentemente un uomo (per quanto questo non fosse esplicitato come condizione di accesso al lavoro) a cui era riconosciuta una professionalità precisa, chi oggi utilizza il software compie una serie di operazioni che non sono più così facilmente definibili attraverso le vecchie categorie di riferimento. Certo è che dal lavoro quasi artigianale, riservato a pochi, a cui si accedeva attraverso un apprendistato e a cui corrispondeva un regime contrattuale da dipendente a tempo indeterminato, si è passati a procedure decisamente più semplici, 64 ACHAB Do s si e r De genere spesso trasmesse tra colleghi in via informale e che possono quindi essere svolte da personale meno "specializzato" e, di norma nel contesto da me osservato, prevalentemente femminile e precario. Il cambiamento è quindi radicale sia in termini generazionali, di genere, di status contrattuale, di competenze, di salari e di apprendistato. Anche in termini spaziali, il lavoro di montaggio e post produzione avviene in un locale appartato rispetto agli studi di registrazione. Questo spazio è chiamato "palestra" ed è frequentato soprattutto da giovani donne che ne possiedono la chiave. Dato che il personale tecnico rimasto attivo è ancora prevalentemente interno (cioè dipendente dell'azienda) mentre chi usa il nuovo software appartiene alla nuova generazione dei contratti precari, è uso tra i tecnici definire la palestra come il luogo "degli esterni", in cui loro non hanno motivo di entrare (il loro regno, invece, sono gli studi da cui parte il segnale di trasmissione dei programmi). Il tecnico svolge quindi un lavoro che percepisce come residuale, in via di estinzione. Come sosteneva G., anche i tecnici con cui ho avuto modo di parlare si lamentano di essere stati relegati a una mera funzione di "schiacchia bottoni". Da una parte percepiscono il lavoro svolto dalle nuove figure redazionali che accedono al montaggio digitale come un'intromissione in un ambito produttivo storicamente di loro competenza, dall'altra lamentano un conseguente disinvestimento da parte dell'azienda nell'ambito della cura della qualità del suono e dei montaggi. La palestra diventa così uno spazio connotato al femminile, in cui entrano ed escono quella decina di giovani donne che svolgono queste mansioni all'interno dei programmi prodotti nella sede di Milano. Lo spazio è ristretto con tre postazioni computer individuali. All'interno di ogni redazione è di solito solo una persona delegata all'utilizzo di questa macchina, questo fa sì che la piccola comunità che si crea "nella palestra" sia al riparo da sovrapposizioni di ruoli in quanto ognuno afferisce a un programma diverso. In genere il tipo di operazioni di montaggio che si svolgono in questo settore sono: la confezione dei file destinati al podcast, il montaggio di spot ed interviste e il montaggio di trasmissioni pre-registrate. Chi compie queste operazioni è in genere o il/la regista o un/una redattore/redattrice. Il femminile e il carattere generazionale sono così caratteristiche abbastanza visibili di una tipologia di lavoro considerato di "gavetta", esecutivo, scarsamente responsabilizzato in un'accezione comune di un pubblico che ama la radio perché parlata, perché voce amica piuttosto che amare la materialità del suono e la sua qualità. L'aspetto generazionale è senz'altro connesso alla novità di questo settore professionale che nasce come bacino di assunzioni a tempo determinato escludendo così le generazioni più adulte che hanno regimi contrattuali più tutelati. A diversi regimi contrattuali corrispondono infatti diverse età anagrafiche: i dipendenti sono i più anziani, per lo più impiegati nei settori amministrativi o nel settore editoriale come responsabili dei programmi (oltre ai quadri dirigenti), i TD (tempo determinato) sono in genere persone che hanno circa 40 anni e che hanno contratti di 9 mesi con un'interruzione di 3 che permette loro di maturare una serie di diritti che a volte fanno valere in cause all'azienda (che, se vengono vinte, portano all'assunzione a tempo indeterminato), le SCRITTURE sono invece i nuovi contratti per le generazioni più giovani che vanno di fatto a svolgere lavori che per gestione del tempo e presenza nell'azienda sono simili alle prassi lavorative dei dipendenti ma che, con una evidente contraddizione, vengono inquadrati come liberi professionisti (senza assicurazione e tutele per i giorni di malattia, per la maternità o le ferie) . Lo spazio comune della palestra crea di fatto la possibilità di una comunicazione trasversale, che supera i confini dei quattro muri delle redazioni in cui ogni programma lavora (in genere, infatti, ad ogni redazione corrisponde un programma ed una stanza). Questo porta allo sviluppo di amicizie, collaborazioni e senso di appartenenza a una piccola comunità trasversale che, in mancanza di questo spazio, probabilmente non avrebbe occasione di incontrarsi. Questo riconoscimento e questa complicità si basa così sulla condivisione di uno stesso status basato sul ruolo professionale in u n ' o rganizzazione gerarchica. Questa comunità si riconosce simile al suo interno soprattutto in relazione a pratiche maschili gerarchicamente superiori da molti punti di vista e con cui stenta a mettersi in contraddizione. Questa la tipologia di discorsi che è possibile fare dentro la palestra. S., F., I., alcune delle mie colleghe, a più riprese mi hanno espresso che non accettano certe condizioni di lavoro (precario e considerato sottopagato) perché è un lavoro dentro il contesto di Radio Rai. Un giorno E. venne a fare un colloquio di presentazione. Giovane regista teatrale donna in un ambiente fortemente maschile, E. venne a presentarsi a un dirigente della radio. Era il suo primo ingresso in Rai e ricordo che definì la struttura "di una tristezza ospedaliera". E' in effetti rilevante quanto ci si possa identificare e affezionare a un posto di lavoro precario e difficilmente spendibile altrove per la ricaduta simbolica di essere parte di questo grande carrozzone "ospedaliero". I rapporti che si sviluppano all'interno di questo spazio si basano dunque sulla condivisione iniziale di una condizione strutturale che non è tuttavia omogenea in termini di salari ma certamente lo è per tipologia di contratto, età, ruolo professionale e spesso per una concordanza di progettualità, ansie per il futuro, senso di incertezza e investimento nel lavoro. In mancanza di momenti collettivi istituzionalizzati e di identità collettive fornite dalla struttura (che siano momenti di formazione aziendale o sindacale), la palestra è un luogo in cui nell'informalità si sviluppa un "movimento di congiuntura": ovvero "occasionale, immediato, quasi accidentale" (Gramsci 2001: 1579). Lo scambio si basa anche su consigli su come usare i macchinari andando così a colmare un vuoto di formazione istituzionale. Questo sapere è personale, non codificato, costruito giorno per giorno nella pratica. Si condividono anche pettegolezzi, battute, scherzi sul "maschile" dato che ognuna di queste redattrici o registe si confronta al di fuori di questo spazio con i suoi "uomini al microfono", ovvero i conduttori delle trasmissioni in cui lavora. La relazione con una performatività maschile è presente per tutte, è una congiuntura che crea comunanza e riconoscimento perché 65 ACHAB Do s si e r De genere nelle chiacchere si costruiscono per il gusto di farlo somiglianze di atteggiamento da parte dei conduttori uomini che assumono così anch'essi una connotazione di genere, vengono accostati dentro la categoria del maschile in un parlarsi che si muove dentro le pratiche classificatorie dicotomiche. Gli spazi in cui analizzare la costruzione del genere all'interno dell'universo organizzativo di Radio Rai non si limitano unicamente a una ricognizione di come i diversi ruoli professionali sono diversamente ricoperti da uomini e donne ma possono estendersi anche al racconto delle pratiche di femminilizzazione di queste divisioni, al modo in cui queste differenze/somiglianze sono percepite e praticate dagli attori sociali che abitano questi spazi. Il rapporto con le tecnologie, inoltre, è un ambito importante di sviluppo di un senso di riconoscimento connotato nei discorsi "al femminile", uno spazio "storicamente" di appartenenza maschile ma che in seguito alle trasformazioni dei regimi lavorativi ha subito una relativa dequalificazione in qualche modo connessa a un accesso più diffuso delle donne. [email protected] Note coinvolgono aspetti quali il desiderio, l'identificazione/rifiuto, le emozioni, il senso di sè. Guardato da questa prospettiva, il media e la sua relazione con il "genere" diventa prima di tutto una pratica di interpretazione (spesso partecipata con altri soggetti) non isolabile dal suo contesto sociale e politico (cfr. Abu-Lughod: 2002; Mankekar: 2002). 3. "In the 1970s computers were thought of as "information technologies" and coded male; it was widely assumed that women would have problems with them. By the 1990s computers had also become "communication technologies"; now it was presumed that womed would engage with them enthusiastically." (Bray: 2007, 43) 4. Nella sede di RadioRai di Milano, per esempio, due sono le donne che svolgono questa mansione a fronte di una decina di uomini. 5. Diversa la distinzione se penso al terzo canale, dove la forza produttiva è meno giovane in relazione a un prodotto culturale "più alto" e un pubblico più adulto, anche qui le differenze di genere ed età si configurano diversamente. 6. Gramsci distingue in queste pagine "movimenti organici" e "movimenti di congiuntura", i primi hanno si svolgono su un orizzonte temporale più lungo e portano allo sviluppo di una critica sociale che "investe i grandi aggruppamenti" e che può portare ad effettiv icambiamenti strutturali della società. I movimenti di congiuntura sono invece "danno luogo a una critica politica spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità responsabili immediatamente" (Gramsci: 1579). 1. Inoltre, se si considerano i media come processi circolari di produzione/ricezione di significati come invita a fare Stuart Hall (Hall: 2006, 43), la portata analitica di una distinzione tra ambiti di produzione e ambiti di ricezione non sembra essere più così ricca. Coloro che lavorano nelle fasi produttive sono infatti a loro volta lettori e spettatori continuamente esposti alla lettura di segni mediatici e di volta in volta modificano, rifiutano, accettano il significato proposto producendone uno nuovo, orginale. Nell'ambito della produzione radiofonica qui analizzata emerge inoltre come un programma radiofonico sia la confezione in un linguaggio specifico di discorsi prodotti o da altre testate mediatiche (attraverso il lavoro di rassegna stampa dei giornali o attraverso il riferimento a programmi televisivi) o attraverso l'intervista a terzi, pratiche che di fatto implicano una ricezione, un ascolto, una reinterpretazione. 2. Nell'ambito del recente sviluppo di ricerche etnografiche attente al ruolo delle tecnologie comunicative, antropologhe come Purnima Mankekar e Lila Abu-Lughod propongono analisi del rapporto tra genere e media in contesti come l'Egitto e l'India contemporanei in cui mettono in relazione la ricezione di testi mediatici con altre traiettorie che influenzano la vita quotidiana dei soggetti: la religione, il lavoro, le scelte migratorie, i legami familiari, l'amore e l'amicizia. In entrambe queste due intense e complesse etnografie il mezzo è inserito in pratiche di ricezione indagate come momenti di costruzione del sé che Bibliografia Abu-Lughod, L. Egyptian Melodrama- Technology of the Modern Subject?, in Ginsburg, F.; Abu-Lughod, L.; Larkin, B., Media Worlds. Anthropology on New Terrain, University of California Press, 2002 Askew, K. e Wilk R. R., The Anthropology of Media. A reader, Blackwell Publishers, 2002 Bray, F. Gender and Technology, "Annual Review of Anthropology", 2007, 36, pp. 36-53. Glevarec, H. France Culture à l'oeuvre. Dynamiques des professions et mise en forme radiophonique, CNRS Editions, Paris, 2001 Gramsci, A. 3: Quaderni 12-29 (1932-1935), in Quaderni dal Carcere, Einaudi, Torino, 2001 Hall, S. Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, Il Saggiatore, Milano, 2007 Latour, B. Dove sono le masse mancanti? La sociologia di qualche manufatto mondano, in Mattozzi A., a cura di, Il senso degli oggetti tecnici, Meltemi, Roma, 2006 Lonzi, C. "Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile", Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1974 Mankekar, P. Epic Contests: Television and Religious Identity in India, in Ginsburg, F.; Abu-Lughod, L.; Larkin, B., Media Worlds. Anthropology on New Terrain, University of California Press, 2002 Rella, P. e Cavarra, R., a cura di, Il genere della radio. Carriera, famiglia e pari opportunità, FrancoAngeli, Milano, 2004 66 ACHAB “Literatura sucia” y “graffiti de amor.”* di Abel Sierra Madero. A Roberto Zurbano y para Adriana, siempre. Pobres palabras escondidas temblando en lo invisible ¿quién las paga? ¿Será porque son piedras lanzadas al rostro de lo eterno? ¿Porque son la elocuencia del silencio, la rebeldía de lo que muere, el eco anticipado del grito de mañana? Luis Rogelio Nogueiras Desde entonces prohibieron dibujar lo que sentía el alma para cuidar y encadenar la calma, y como no le dejaron sitios donde dibujar su dolor se rayó su cuerpo con un tatuaje de amor. Carlos Varela La ciudad oculta. Si Pedro Juan Gutiérrez se hubiera dedicado a la sociología o a la antropología, seguramente sería él y no yo el autor de estas páginas, que se deben fundamentalmente a una inesperada, insoportable y mundana necesidad fisiológica de caminante citadino en una plomiza tarde de septiembre, luego de un par de cervezas en un tugurio del Vedado habanero. Justo en la calle L, entre 15 y 17, divisé, desesperado, a una anciana obesa, que somnolienta y cabeceante, se apostaba frente a un pasillo y sobre las piernas dejaba entrever un plato plástico con algunas monedas, imagen elocuente de que estaba próximo a un baño público. El lugar había desempeñado durante los ochenta un papel importante en la alimentación de muchos habaneros, que aún recuerdan con nostalgia aquel sitio que pertenecía a una cadena de restaurantes estatales especializados en comida avícola, rápida, y que llevaban morbosa y metonímicamente el nombre de “Pio Pío”. Cuando me disponía veloz a alcanzar los sanitarios, la anciana me interpeló bruscamente, indicándome que estos se encontraban ocupados por otros “orinantes”. Desconsolado, me detuve a esperar no menos de quince minutos. Al ver mi rostro y paseitos ansiosos, la vigilante sanitaria tuvo un arranque histérico y comenzó a vociferar; lanzaba improperios de manera estridente a los que se encontraban en el baño, que al oírla, salieron despavoridos ante los embates de la anciana que amenazaba con llamar a la Policía. Los tres sujetos pasaron ante mis ojos rápidamente, cabizbajos, pero con una mirada que transmitía una complicidad mutua, portadores de un “secreto” que habían compartido en el interior del baño, y que me dispuse a descifrar inmediatamente, aunque ya resultaba un tanto predecible. El lugar, de una fetidez insoportable, con un ventanuco mugriento y sin luz artificial, olía a azufre y a metano, a semen y sudor cristalizado, a sexo furtivo y anónimo. Era una especie de marcaje territorial hecho por “animales tropicales” citadinos. Las paredes, p e rgaminos transtextuales de hormigón, caóticamente emborronadas, descubrían una anónima y clandestina comunión de “escritores” que se mueven entre prácticas sexuales “periféricas”, públicas y privadas al mismo tiempo, y formas escriturales marginales de flujo y reflujo, en el centro de una ciudad que los desconoce. Esa comunidad abierta de grafo/hablantes -acostumbra-da al ir y venir de los transeúntes-, en la que se entremezclan diversas profesiones, clases y grupos sociales, dejaba entrever una serie de identidades en pugna y sociabilidades atraídas por el contacto físico. Mudo y atónito testigo, me sobrecogieron las historias y narrativas que albergaba aquel sitio. Cuántas tintas y rasguños, cuántos sueños, humedades fugaces, lágrimas, guiños, muecas, 67 ACHAB gemidos y jadeos, pulsiones, frases entrecortadas, trazos sin censura, iconos, falos erectos y burbujeantes, represiones, complicidad, cuántos gritos y cuánto silencio. Aquel baño era una especie de confesionario post-moderno, como si fuese el único lugar donde estos escritores se encontraran a sí mismos, libres para expresar sus más íntimos deseos y fantasías. Ante tantas dudas e interrogantes, sólo tenía la certeza de que detrás de cada trazo había disímiles y fragmentadas narrativas e historias de vida que confluían en ese baño día tras día, y que el sitio estaba cargado de códigos compartidos que lo habían convertido de lugar fisiológico/evacuativo en un espacio de confluencias, encuentros y desencuentros, sociabilidad, rituales, discusiones políticas en torno a la sexualidad e intercambios sexuales de muchos, muchísimos sujetos, que hacen del baño, siguiendo a Mark Auge- un “lugar antropológico”1. O sea, un territorio con rasgos identitarios, relacionales e históricos, cargado de sentido por aquellos que lo habitan por diversos motivos o necesidades y que es, al mismo tiempo, principio de inteligibilidad para aquel que lo observa. La noción de lugar antropológico esbozada por Auge se articula o se adecua perfectamente con el sitio que he venido describiendo. Como otros lugares, el baño brinda y devela para cada uno de los que lo frecuentan un conjunto de posibilidades, de reglas y de prohibiciones, cuyo contenido es a la vez espacial y social. Un lugar –señala Auge- “donde los itinerarios individuales se cruzan y se mezclan, donde se intercambian palabras y se olvida por un instante la soledad”2. Aquel palimpsesto caótico, era el soporte de una “mensajería delirante”3 , graffitera, de tipo sexual, efímera y transitoria, marginal -paralela a los códigos lingüísticos y estéticos de los canales de comunicación tradicionales y a las editoriales oficiales- una literatura descarnada en forma de lexemas, sintagmas, mensajes dialógicos y performativos dirigidos a lectores asiduos o potenciales; pintada y repintada una y otra vez, capa tras capa por las brochas de instituciones sanitarias, y que a personas de sensibilidad media, propensas al rubor y al asco, pudiera resultar obscena, sucia. Los términos literatura sucia o “realismo sucio” fueron clasificaciones que la crítica literaria española de los setenta les adjudicó a escritores como Charles Bukowski, autor de libros como La máquina de follar y Erecciones, eyaculaciones, exhibiciones. Tales calificativos tienen que ver con la concepción higiénica y pudorosa que ha predominado en la estilística del canon literario occidental tradicional y con las nociones de alta o baja cultura, lo letrado o lo iletrado; con creencias, códigos o prejuicios institucionalizados sobre lo sucio, lo limpio, lo bueno, lo malo, lo impropio, lo abyecto, lo obsceno, lo marginal; concepción en la que subyacen valoraciones que abarcan no sólo la literatura sino todas las relaciones sociales y que le reduce posibilidades de desarrollo a temáticas culturales alternativas respecto de lo considerado como la verdadera cultura. El uso de vocablos que aluden de manera descarnada a la realidad en relación con lo sexual, la raza o las clase sociales producen cierta molestia, porque subvierte o quebranta las fronteras simbólicas históricas de lo público y lo privado, lo expresable y lo impronunciable, sedimentadas en nuestro imaginario colectivo. Así, se construyeron representaciones en torno a "palabras sucias", prácticas sexuales “sucias” y “aberradas”, "gestos groseros", desterrados a una dimensión subcultural de lo bajo y lo escatológico; tales representaciones cuestionan no sólo el habla de determinados sectores, sino su propia identidad socio-cultural. Al tiempo que avanzaba en la investigación y reflexionaba en torno a estas cuestiones literarias, la idea de visitar la azotea de Centro Habana de donde han salido títulos como Trilogía sucia de La Habana, El rey de La Habana, Animal tropical, Carne de perro, y El nido de la serpiente resultaba cada vez más recurrente. Pedro Juan Gutiérrez, uno de los escritores latinoamericanos más difundidos de los últimos tiempos, fue lanzado -por Anagrama, la editorial que ha publicado su obra en España desde finales de los años noventa hasta la actualidad- como el Charles Bukowski caribeño o el Henry Miller habanero; sin embargo, el escritor me confesó que el término “realismo sucio” no le atrae en modo alguno y que constituye una camisa de fuerza para su creación. En ese sentido señala: “La literatura no es sucia ni limpia, ni ética ni no ética, creo que esos son sólo conceptos que ha impuesto el mundo occidental para condicionar o educar no sólo la creación artístico-literaria, sino para condicionar la vida de la gente con principios morales, porque lo prohibido, lo que se suele considerar como lo obsceno, seduce a la gente; el ser humano tiene en su interior una carga muy morbosa que intenta esconder a toda costa. Para mí el realismo es el vehículo de mis catarsis personales respecto de la realidad social que me circunda, es el único modo que he encontrado para decir realmente lo que pienso sin eufemismos, aunque muchos piensen que lo hago por dinero.”4 Me decía, además, que para algunas personas sus libros de carácter realista no se corresponden con “una manera legítima de hacer literatura”; por el contrario, Melancolía de los leones -que no había tenido en el mercado tanta aceptación como Trilogía sucia… o El rey de La Habana- para sus lectores y colegas en la Isla es uno de los textos más apreciados. Melancolía de los leones –comenta- “es un texto de ficción de corte existencial, salido completamente de la imaginación, sin embargo, es el libro por el que muchos verdaderamente me aprecian como escritor”. Y agrega con respecto a la línea más cuestionada: Existen grandes prejuicios con este tipo de literatura, se piensa que es facilista, que implica algún tipo de concesión y que soy un pervertido sexual, pornógrafo o vouyerista y no saben que para mí ha sido muy duro, muy difícil escribir sobre esos temas y esos personajes y para hacerlo he tenido que investigar muchísimo. Se ha pensado también –erróneamente- que el realismo sucio tiene que ver con hablar del deterioro social a través del prisma de Centro Habana o de describir exhaustivamente escenas sexuales; pero para mí tiene que ver con conflictos que afrontan sujetos reales. Escribir de esta manera me permite llegar a los límites de cada personaje, no escamotearle posibilidades de habla, de deseos o expectativas, de acción, que escritos de otra forma no sería posible lograr. Los registros lingüísticos que utilizo no los he 68 ACHAB inventado yo –por supuesto- han estado ahí para ser usados, y son utilizados a diario por muchísimas personas que no tienen tiempo para pensar si están utilizando buenas o malas palabras, sus preocupaciones son otras, las de la sobrevivencia. No veo por qué no puedan ser llevados esos registros a la literatura y que eso comprometa su calidad o seriedad. En un pequeño ensayo titulado “Verdad y mentira en la literatura”, el escritor es aún más elocuente. En ese texto se lee: “Ante esos espíritus timoratos me sonrío y los ignoro. No se imaginan que por el contrario, no exagero, sino que me veo obligado a reducir la realidad para hacerla creíble, que es la condición sine qua non de la literatura: tiene que ser creíble. En literatura vale todo. Lo único absolutamente prohibido es aburrir.”5 Ciertamente, muchos le adjudican a la literatura de ese corte rasgos de vulgaridad y pornografía. Al parecer, no les seduce el regodeo o el interés en contar “todas las cosas malas que nos pasan en Cuba (…)”6 y la ubican en una otredad literaria, que la hará disolverse con el tiempo. Ahora bien, este tipo de literatura puede despertar escozor, ascos o rechazo; podría incluso catalogarse en muchos casos de misógina y heterosexista; sin embargo, considero que tiene determinados valores, como los de destacar los conflictos existenciales y cotidianos, los cambios que se vienen produciendo en el sujeto social cubano contemporáneo; pero el valor primordial es el de la memoria, de la memoria colectiva cotidiana de los últimos años, que ni la prensa ni los medios oficiales van a reflejar nunca. Ya lo he dicho en otros textos, gran parte de la crítica y la teoría social –édita o pública- que se viene haciendo en Cuba se la debemos fundamentalmente a la literatura, que ha desempeñado en ese sentido un papel de vanguardia. Muchos de los elementos que se aprecian en la literatura cubana contemporánea tienen que ver con que durante los años setenta la literatura y otras manifestaciones artísticas se circunscribieron a referentes verdaderamente estrechos, tanto desde el punto de vista temático como estético. La novela policíaca, por ejemplo, según Leonardo Padura Fuentes, se concebía sólo como “novela policíaca revolucionaria”, y añade: “Había que escribir una novela reafirmativa ideológicamente, revolucionaria.”7 Durante los ochenta, se produce un cierto descongelamiento y la literatura cubana empieza a transitar por senderos que hasta entonces eran prácticamente vedados. Con esta apertura, los temas sexuales, que ofrecen ciertamente posibilidades de conflictos, devinieron tópicos recurrentes luego de tantos años de silencio. El mismo Padura apunta: “Los años setenta fueron muy regresivos para Cuba en literatura y ha venido ahora una especie de destape, ahora ya nadie concibe una obra de teatro si no ubica dos personajes desnudos.”8 Según Paul Ricoeur, el problema de la literatura tiene que ver con la noción de trabajo y se enmarca dentro de una estilística general concebida como “meditación sobre las obras humanas.” Para este autor, el texto literario rehúye, es decir, está en oposición con el del lenguaje diario mediante un desapego que él conceptualizó como “distanciamiento de lo real consigo mismo,”9 el cual introduce la ficción en nuestra aprehensión de la realidad dando cabida a nuevas “posibilidades de ser en el mundo”. Coincido con Ricoeur cuando manifiesta que la ficción y la poesía operan con elementos de la realidad y afectan al sujeto, pero no en la modalidad de ser ahí, sino en la modalidad de poder ser.10 Así, la realidad cotidiana se metamorfosea en la literatura en virtud de lo que el mismo Ricoeur llama variaciones imaginativas. Ahora bien, este debate sobre lo literario o la literalidad ha tomado otros matices que no debemos soslayar. Coseriu, desde un enfoque estructuralista ha considerado que lo literario tiene que ver con un uso lingüístico que actualiza determinadas posibilidades del sistema de la lengua, estableciéndose en una “modalidad de uso” de este sistema.11 Por su parte, Teun Van Dijk, esboza el término “gramática textual literaria” como la capaz de unificar la relación entre una “teoría de los textos literarios” y una “teoría de la comunicación literaria” para analizar las relaciones entre el texto, su contexto y situación textual, social y psicológica.12 Para este autor, “los fenómenos literarios no se definen necesariamente por la literalidad, sino por las modalidades de producción y recepción comunicativa”.13 O sea, que el reconocimiento de un texto como literario ya no proviene tanto de sus propiedades sino de la función social que desarrolla en tanto que discurso.14 Desde esta perspectiva, la literatura “es lo que una comunidad de lectores, de acuerdo con la práctica de unos determinados autores, decide llamar literatura, aunque es evidente que no se puede denominar así a cualquier cosa: el texto ha de responder a unos modelos constructivos determinados.”15 Así, podemos asegurar, con Joan Garí, “que la literatura no usa ninguna lengua especial diferente a la ordinaria, ni es una decoloración de esta. Sencillamente las necesidades del juego literario son distintas de las del juego conversacional.”16 Una visión literaria sobre los baños públicos nos la ofrece el cuento “El retrato de Dorian Gey”, del escritor cubano Jorge Ángel Pérez. El protagonista de la historia comenta: “¡Ay los baños públicos! Eso sí me gustaba (…) Aunque hoy estoy entregada a un hombre, a mi hombre, me encantaba entonces disfrutar de esos uri-narios, mal olientes y enrarecidos, que se levantan desde el suelo como grandes falos. Ya dentro, situado estratégi-camente, y con la vista en una sola dirección, comenzaba a disfrutar de aquella hilera de penes excitados, que intentaban escaparse de las manos de su dueño o de las del vecino de urinario para venir a las mías, que no harán otra cosa que acariciarlos, desde arriba hasta la base misma, sin prisa, sabiamente, porque para penes se hicie-ron estas manos, y nunca es suficiente el tiempo que se les dedique (…) Y se iba el primero, y si te he visto ni me acuerdo, pero yo me quedaba, siempre me quedaba hasta el final, hasta que no había una en pie (…)”17 La comunión de códigos entre el mundo “literario” y el mundo “real” podrá ser constatada más adelante; cuando se reproduzcan algunas entrevistas realizadas durante el trabajo de campo. Como se verá, los que separa a ambos, es sólo una delgada línea. Lo que distingue el graffiti de la literatura no es el soporte -ese es solo un contraste epidérmico- sino su pragmatismo y dialogismo. 69 ACHAB La literatura, obviamente, no es sólo recreación con fines intelectuales o artísticos. El graffiti proviene de otras necesidades expresivas y comunicativas, aunque muchos de ellos puedan ser considerados como expresiones artísticas populares o empíricas. En el graffiti está subrayada una peculiar pragmática de la comunicación; es espontaneidad, fugacidad, furtividad y anonimato, escritura iniciática, o como -dice Margarita Mateo- “el ejercicio del criterio a partir de una escala valorativa diferente”18 , donde el receptor está “plenamente facultado para convertirse en autor (…) fascinante excepción en el universo de los discursos con componentes estéticos.”19 El graffiti puede ser leído desde la noción de realizaciones estratégicas20, esbozada por Teun Van Dijk para analizar los procesos en que hablantes y escritores se debaten para que sus discursos sean coherentes, y señala: “Lo que es válido en lo referente a las estructuras del discurso lo es también para su procesamiento mental y para las representaciones requeridas en la producción y la comprensión: la cognición tiene una dimensión social que se adquiere, utiliza y modifica en la interacción verbal y en otras formas de interacción.”21 La literatura y el graffiti pueden compartir determinados códigos o modos de expresión; sin embargo, en el primer caso, el discurso posee un carácter legitimado, pues la literatura se irradia desde las editoriales –centros por excelencia de canonización y circulación cultural- en tanto que el graffiti de corte sexual se mantiene oculto y encuentra voz sólo en el refugio del baño. La editorial es una institución prestigiosa y legitimante de discurso y cultura; el baño, por el contrario, es la institución de lo abyecto y lo escatológico, de lo silenciado. Aquí, además, tendríamos que tomar en cuenta quién habla, para cotejar la actitud social ante el discurso y las funciones sociales atribuidas. El autor de una novela, un cuento, u otros géneros literarios, es un sujeto reconocido, investido de prestigio social y acreedor de otras cuotas simbólicas, mientras que el autor del graffiti es un sujeto repudiado. Eso explicaría –en parte- por qué unos textos son aceptables y otros no; probablemente muchos nieguen la condición textual del graffiti. Tengo por costumbre, antes de entregar un texto a un editor y consentir su publicación- distribuirlo entre amigos y colegas, para ver los niveles de aceptación y trabajar sobre las críticas que se le señalen al texto. Algunos de mis lectores primarios, consideraron que muchos de los graffitis que se reproducen en este trabajo “son muy fuertes” y que debía suprimir los más descarnados. Ese ejercicio me sirvió para evaluar la “aceptabilidad” de esos textos y los prejuicios que tienen aun personas con una sensibilidad nada mojigata. Lamento haber desoído sus consejos y los he puesto todos, sin excepción. Este ensayo está encaminado a proponer pistas para la lectura de prácticas, dinámicas y configuraciones desde otros imaginarios y otros códigos. No estuvo entre mis objetivos la evaluación cualitativa de los graffiti ni la selección de muestras estadísticamente representativas, sino más bien traté de trabajar con algunas hipótesis para reflexionar en torno a la configuración del espacio y su resemantización cultural, es decir, a su reapropiación, acerca de los complejos rituales, procesos simbólicos, referencias imaginarias, los itinerarios y las confluencias que marcan la geografía de un lugar y su rutina diaria; de los discursos que allí se sostienen y el tipo de relaciones e intercambios. No pretendo elaborar un texto de carácter semiótico, sólo que a veces me apoyo en recursos que brinda esta disciplina para el análisis –desde una perspectiva de género- de algunos discursos y narrativas de los sujetos que frecuentan el baño, mediante el estudio de los mensajes emitidos, su intención y sus efectos. Entender estas prácticas y discursos no en su fugacidad, sino en su significación y significantes más permanentes, parece constituir la esencia de nuestro problema h e r m e n é u t i c o . El graffiti es el pretexto para analizar algunos de estos micromercados de comunicación sexual y la concepción de las relaciones genérico/sexuales, a través de las demandas o necesidades explicitadas en este tipo de discurso y que se generan en los intercambios entre sujetos asiduos al baño. Este trabajo parte del interés de documentar de alguna manera tales procesos culturales a partir de los meca-nismos discursivos por medio de los cuales éstos se realizan. El graffiti es el elemento que articula la reconstrucción etno-gráfica de lo que acontece en esos lugares, donde el discurso se presenta en su “naturalidad” cotidiana. Entre cuatro paredes. Acaban de separarse, aún acezantes, sin mirarse a los ojos, el sexo de él húmedo, ya fláccido, embadurnado, cho-rreante de semen: un hilillo blancuzco, suspendido del glan-de, línea precisa, casi recta, (…) Se apartan levemente. Se han desunido, despegado; van a vol-verse de espaldas, cada uno a su espacio: animales hartos y rivales, voraces, saciados. Severo Sarduy. El graffiti en el baño público sustituye a la voz, no a la palabra, al gemido o la mueca, es la marca somática del cuerpo lacerado y reconstruido al mismo tiempo, la marca de lo inescuchable, de lo indecible. Cargados de pulsiones eréctiles y seminales, esos trazos se erigen en significantes del atrevimiento, de la transgresión, escribiendo, emborronando el canon, inundado de orina, semen y grafos en ese espacio conquistado, usurpado a la ciudad. Trazos libres y secretos -“metonimia del falo en la mano y el pincel”22 -, indescifrables a la lectura racional y frontal; puesta en escena realizada por el sujeto urbano para descargar sus pulsiones y sus miedos, sus más íntimos deseos en esa geometría “secreta”. El graffiti funciona como un anclaje territorial, propio de la liturgia y la mascarada, para imantar, atraer. Si, como apunta Severo Sarduy, “la escritura constituye al sujeto, lo define a sí mis-mo y lo sutura”, el graffiti tendría como corolario “reírse de la autoridad, garabatear el modelo, impugnar a los inquisidores, ensuciar, manchar, orinar, eya-cular sobre lo impoluto, lo perfecto, lo inalcanzable por su nitidez y su armonía (…) anuncio obsceno, navajazo contra la tela canó-nica, pedrada a la Monalisa, quema del templo de Efeso.”23 William, un informante clave en esta investigación, lo explica de esta manera: 70 ACHAB “La gente escribe en los baños como una forma de comunicarse, para que todo el mundo lo lea, porque son deseos eróticos inconfesables; como tienen una sexualidad reprimida, es la manera de expresar, de confesar lo que en realidad desean. En los baños uno no puede compartir, no puede conversar, la interacción en los baños es impersonal. Hay personas que sienten placer escribiendo insultos o escenas sexuales, o memorias de un encuentro sexual o afectivo importante, una historia que marcó su vida personal, también hay quien deja mensajes. No se ve poesía en estos lugares, ni literatura o diálogo sobre el capítulo 8 de Paradiso de Lezama.”24 Los sujetos que asisten al baño manejan el texto escrito y el habla en general como individuos, pero también como miembros de un grupo social, al tiempo que pertenecen a otros grupos sociales y profesionales; por lo tanto, participan de varias ideologías grupales; de modo que sus prácticas, contradicciones y variaciones estarán determinadas por el grado de identificación con un grupo e ideología específicos.25 En las interacciones entre los actores sociales, el discurso puede develar actitudes y autoidentificaciones grupales; pero las ideologías que porta el grupo, como apunta Teun Van Dijk, no siempre pueden ser leídas directamente de las prácticas sociales individuales.26 Durante el trabajo de campo y en la aplicación de entrevistas pude constatar que aunque los sujetos compartan prácticas similares, sus actitudes difieren sustancialmente en dependencia de la ideología de género específica, la cual determinará las lógicas interaccionales y las formas de sociabilidad. La sociabilidad tiene que ver con la configuración de relaciones sociales interaccionales y con los espacios en que se desarrollan estas, además está asociada con el aprendizaje social y la internalización de patrones y normas conductuales.27 Cuando aludo al término sociabilidad me refiero a la creación y establecimiento de contextos interaccionales de menor o mayor complejidad y estabilidad y con algún grado de sistematicidad, en los cuales acontece la vida social de una institución, en este caso el baño, en tanto contexto social que imprime un matiz peculiar a las prácticas discursivas y que lo caracterizan como tal. El baño puede entenderse como un “submundo” -subcampo diría Bordieu-, en que el graffiti se articula a través de la adquisición de vocabularios especí-ficos, de "roles”, así como la internalización de campos semánticos que estructuran interpretaciones y comportamientos de rutina. Como señalan los sociólogos Berger y Luckmann, estos “submundos" internalizados son realidades parciales que contrastan con el "mundo de base" adquirido, al tiempo que constituyen realidades más o menos coherentes, caracterizados por compo-nentes normativos y afectivos a la vez que cognoscitivos.28 Los baños públicos constituyen contextos interaccionales y discursivos en función de la sociabilidad de los visitantes asiduos y de las prácticas verbales y no verbales de estos, de sus actuaciones cotidianas, que le dan sentido de una cultura microlocal. Como señala Ramfis Ayús, la “sociabilidad implica crear y recrear no sólo los espacios, sino las maneras de conducirse e intercambiar significados socialmente”.29 Las sociabilidades en los baños están carac-terizadas por la existencia de patrones de interacción verbal que asumen rasgos peculiares de cultura situada, o sea que poseen su propia especificidad. En estos patrones está contenida una lógica interaccional histórica constitutiva de esas interacciones sociales y funcionan “como marco organizador del entramado interactivo, discursivo y p r á c t i c o - o r d i n a r i o ” . 3 0 La sociabilidad de la que estamos hablando tiene que ver con la identidad urbana y con formas de sociabilidad otras, en que se perciben diversos modos de comunicar y de habitar que la ciudad hace hoy “posibles e imposibles” y que podrían insertarse dentro de lo que Michel Maffesoli ha dado en llamar tribus urbanas, articuladas -según Martín Barbero- en “implicaciones emocionales, en compromisos precarios, en localizaciones sucesivas y que crean sus propias matrices comunicacionales”31. Las tribus urbanas –señala Barbero- marcan de forma identitaria tanto las temporalidades (sus ritmos de agregación, sus cadencias de encuentro) como los trayectos con que demarcan los espacios. “No es el lugar en todo caso el que congrega, sino la intensidad de sentido depositada por el grupo, y sus rituales, lo que convierte a una esquina, una plaza, un descampado o una discoteca en territorio propio”32. Sobre los aglutinantes de estos conglomerados urbanos, Barbero apunta que no son ni un territorio fijo, ni un consenso racional y duradero. “Lo que convoca y religa a las tribus urbanas –subraya- es más del orden del género y la edad, de los repertorios estéticos y los gustos sexuales, de los estilos de vida y las vivencias religiosas.”33 Además de las sociabilidades caracterizadas únicamente por razones sexuales, tendríamos que prestarles atención a la escritura y la lectura colectiva o individual; leer un graffiti en un baño público, pone en tela de juicio la intimidad de otros y la nuestra p r o p i a . La escritura/lectura puede crear también lazos sociales alrededor de un texto, establecer relaciones, nexos entre sujetos reunidos alrede-dor de un grafo; el discurso subsiste así, en medio de una sociabilidad letrada e iletrada, asidua o potencial, pública y privada al mismo tiempo. La escritura también funciona como pretexto de encuentros y puede otorgar sentido e identidad al espacio y a los que lo habitan recurrentemente. Para Roger Chartier, la sociabilidad representa tanto la actividad que convoca como el espacio que configura la nueva relación social que se establece.34 Una de las ideas medulares de la sociolingüística interaccional consiste en que el lenguaje contextualiza y es contextualizado35, o sea, que las expresiones y las construcciones discursivas que a los miembros les sirven para hablar de sus mundos vitales, permiten revelar también las características y propiedades culturales, es decir, contextuales, de su habla.36 Un elemento importante que no debemos descuidar es que el baño no es sólo su límite geo-topográfico o arqui-tectónico, sino que es un punto en el despliegue de redes de sociabilidad y trayectos mucho más complejas, como veremos más adelante. El graffiti, inherentemente discursivo, es el modo de expresión 71 ACHAB primordial en los baños públicos; es el tes-timonio, la fuente primaria, la marca textual de un sujeto que construye y recrea la imagen de otros y de sí mismo. El graffiti explica en algún sentido los procesos y dinámicas sociales de estos entornos ur-banos, a través de él he podido explorar los recursos comunicativos y modos interaccionales que reflejan estados de ánimo, deseos, ansiedad, felicidad, etc. El graffiti no sólo es un canal de comunicación verbal y vehículo de representaciones cognitivas y afectivas, sino que al mismo tiempo articula las relaciones que se establecen. Nos permite acceder a diversas formas de producción y repro-ducción de las prácticas interaccionales y códigos socioculturales identitarios que configuran los roles de los interactuantes en medio de los procesos sexo-comunicativos, al tiempo que funciona como un poder simbólico en que se actualizan las relaciones de fuerza entre los locutores y sus respectivos grupos sociales.37 La noción de relacionalidad ayudaría a describir y a interpretar los itinerarios, las trayectorias personales, las pulsiones emocionales que marcan las acciones cotidianas y los es-fuerzos de convivencia entre estos sujetos y cómo estas prácticas y discursos, -entendidas como rituales de relación- se expresan a través de una "interdependencia intersubjetiva", cristalizada en mentalidades coordinadas, lo que da coherencia y sistematicidad a las mismas.38 El método. El asunto del método de investigación resultaba efectivamente complicado, la cuestión del objeto empírico sería resuelta con la ampliación de la muestra de graffiti mediante la visita a otros baños de la ciudad, para cotejarlos entre sí. Pero llevar a cabo ese casual e inusitado trabajo de campo sin sujetos directos a quien observar, era aún más difícil; porque los que llegaban o estaban mientras recogía la muestra graffitera -cámara y grabadora en mano-, se negaron rotundamente a concederme entrevistas o a responder pregunta alguna, y salían asustados. Una indagación de este tipo demandaba, de modo especial, lo que los antropólogos llaman “observación participante” -para obtener esa información que sobrepasa cualquier metodología y que no aparecerá en entrevista alguna-, en la que el investigador desarrolla estrategias que viabilizan su inserción en un contexto, comunidad o sociedad determinada, para interactuar, si no de manera óptima, al menos cordial, con sus miembros.39 La observación participante imponía ineludiblemente al investigador su presencia allí, en un terreno en el que se desarrollan prácticas ajenas y que nada tiene que ver con una comunidad campesina, una plaza urbana, o una ceremonia religiosa. Acudí a los baños en diferentes ocasiones, pudiera decirse que con cierta asiduidad, despojado, hasta donde fuera posible, de los prejuicios disciplinares y humanos, intentando dar respuestas a las hipótesis que construía diariamente. Entraba un rato, volvía a salir, conversaba con el vigilante de turno y con algún que otro “usuario” y así transcurrieron algunos días, los suficientes para completar la muestra graffitera y comprender las dinámicas y los rituales de esos lugares. Uno de los que testimoniantes de este trabajo es Oscar, un cuarentón que se desempeñaba como barman en la cafetería del Pío Pío, pero que dejaba entrever una especie de antropólogo naif por los detalles que aportó, aunque un tanto etnocéntrico y prejuiciado. Sobre el lugar y los sujetos que lo frecuentaban, me c o m e n t a b a : “Son un montón de homosexuales que se meten allá adentro y se ponen a escribir en las paredes y a hacer cosas raras, cosas que hacen ellos… tú sabes. Vienen todos los días a cualquier hora, lo mismo por la mañana, que al mediodía que por la noche que por la madrugada. Lo mismo jóvenes que viejos. Ahí entra de todo. Lo mismo homosexuales que invertidas, los que se ponen a mirar, los que le dan a los homosexuales. Es el baño del relajo. Entra uno primero y después el otro, y después se quedan ahí una hora, y viene otro y otro y otro. Con lo chiquito que es el baño, a veces hay ocho o diez tipos metidos allá adentro. Se han producido fajazones, porque se ponen a mirar a uno que está orinando. No arman griterías ni nada, todo es muy calladito. Van entrando y se van quedando y el que termina, tú sabes, va saliendo, así es como funciona. Al que le dieron, espera a que le den al otro y así.”40 El minucioso testimonio del barman aporta algunos detalles en los que se deja entrever la otredad marcada por el ojo del que observa respecto de su objeto observado. Primeramente, cuando manifiesta que los sujetos que frecuentan el baño hacen “cosas raras, cosas que hacen ellos… tú sabes”, está implícito el desconocimiento de ese tipo de prácticas sexuales, que aunque las presuponga, no las enuncia de manera explícita, para subrayar precisamente esa distancia del grupo al que se refiere respecto de aquel al que él pertenece. En la concepción del barman, subyacen dos órdenes dicotómicos y contrapuestos, inscritos en dos dimensiones: su propia normalidad y la anormalidad a la que remite a los “bañistas”, signados por la idea de la rareza, análoga a la alienación. Por otra parte, en su testimonio están asentadas categorías atributivas respecto de los sujetos a los que describe y que aluden al desempeño y distribución de roles sexuales, apoyados en la dicotomía de representación de lo masculino y lo femenino, construidos culturalmente tomando como referencia dos polos opuestos: la actividad y la pasividad, es decir, los que penetran, que para nuestro testimoniante son “los que les dan a los homosexuales”- y los que son penetrados, es decir, el “montón de homosexuales que se meten allá adentro.” Para el antropólogo Guillermo Núñez Noriega, esta es una de las características fundamentales del modelo dominante de comprensión de los homoerotismos. Por otra parte, manifiesta que esta clasificación de los individuos según sus papeles constituye una “metonimización” de los mismos respecto de sus órganos sexuales. O sea, el sujeto homoerótico es reducido a “sujeto anal receptor”, el cuerpo homoerótico es aprehendido como “orificio” y el deseo homoerótico es entendido como un “deseo anal del pene”.41 Otro que accedió a hablarle a la grabadora fue Paco, un jovial 72 ACHAB anciano, custodio del turno de la noche en el baño público ubicado en la calle 23 esq. a J, en el parque que honra al caballero de la triste figura, don Quijote de la Mancha. En este sitio, el azulejado impide a los escribanos desarrollarse a plenitud, y no pude recoger muestras graffiteras; sin embargo, las veces que lo frecuenté pude apreciar una intensa actividad sexual dentro y en sus inmediaciones. Al respecto decía Paco: “Aquí vienen homosexuales, gente que no trabajan, vienen ladrones, carteristas, aquí viene de todo. Es un baño público en el centro del Vedado. La mayoría de los homosexuales que entran al baño vienen solos; algunos vienen en parejas, pero no abrazados ni nada de eso aquí. No, ni de manos; porque esto no es un hotel ni ná de eso. Yo no permito ninguna falta de respeto aquí. A veces la pareja se queda fuera y el otro entra. Eso es inevitable, uno no puede contra eso. Yo lo que hago es que cuando se me concentra mucha gente aquí adentro yo los saco pa fuera, que vayan pal parque a conversar, la tertulia y el toqueteo pal parque. Aquí lo que se forma es mucha miradera, eso es normal. Está el homosexual respetuoso y el que no es respetuoso, que tocan a alguien… -se ríe nervioso-, se emocionan un poco y empiezan a tocar al otro que tienen al lado. Ríe nuevamente.”42 En este testimonio, los homosexuales son ubicados en una dimensión delincuencial similar a la de “vagos, ladrones y carteristas”. Sin embargo, estos últimos bien podrían utilizar la seducción homoerótica como mascarada para tales actividades delictivas ante sujetos vulnerables, con disímiles conflictos y ávidos de sexo. Por otra parte, la representación de la homosexualidad que manifiesta el anciano descansa en las fronteras del “respeto”, entendido como la abstinencia de “miradera” y “toqueteos”. Sin embargo, pese a las reservas que expresan los celadores, en algunos baños de la ciudad, existe un patio interior, al que denominan “reservado”, donde los visitantes disfrutan de un poco más privacidad luego de haberles pagado a los vigilantes algo de d i n e r o . Durante el trabajo de campo, pude percibir que en las afueras de algunos baños se apostaban, en disímiles horarios, ojos acechantes, en espera del mejor momento para entrar. Yunior, un rostro recurrente en algunos de los baños de la ciudad, me ofreció muchas pistas en ese sentido. He aquí la descripción que me dio de algunos de esos individuos: “Ese es el típico bugarrón, que sólo busca la satisfacción sexual y sin importarle para nada el otro, es guiado exclusivamente por sus instintos, no se involucra sentimentalmente, tú los has visto, parecen auras tiñosas, buitres esperando por hombres como yo, los que tenemos cierto amaneramiento… que se nos vea la pluma y que como estamos necesitados… Se hacen los muy machitos y conciben el sexo homosexual como un acto de penetración, no hay besos, no hay caricias, ni la mínima señal de afecto, ni los puedes estar mirando mucho porque se acomplejan. Es simplemente 'vírate y dale', todo muy rápido. Cuando eyaculó da la espalda y se va sin mirar pá atrás, no importa que el otro no haya terminado, ese no es su problema. Si a uno de estos tipos le gustó, te dice en los horarios y los días que viene para que tú los espere, si no, escribe en las paredes dejando pistas para todos. También puede ser, no estoy seguro, que como no tienen a quién contarle, escriben por una necesidad de expresar lo que sienten. Los lugares todos los conocen y van allí a desahogarse. Yo cuando no tengo parejas, vengo porque siempre resuelvo mi problema, aquí, en otro baño o en un edificio derrumbado, un matorral, porque no tengo dinero para pagar un cuarto y aunque lo tuviera ninguno de ellos va a caminar conmigo ni de aquí a la esquina; porque en el porte se les ve que tienen familia y eso, tampoco nadie le va a alquilar un cuarto a dos pájaros, a menos que uno sea extranjero y tenga dólares en los bolsillos.” Este testimonio contiene algunos elementos interesantes para el análisis del discurso y las prácticas a las que hemos venido aludiendo, como son los recursos metonímicos y metafóricos para intentar explicar las dinámicas que se producen y su ubicación en ellas. Al emplear la analogía, es decir, al referirse a otros como aves de rapiña (buitres), está describiendo una situación interaccional, organizacional y cultural. Este recurso narrativo tiene utilidad socio-antropológica para descifrar las relaciones entre los actuantes, al tiempo que descubre los modos en que esas prácticas son narradas, cómo se organizan a nivel individual y colectivo y cómo se hacen expresables. De acuerdo con Ayús, estos recursos nos revelan que estas prácticas son una "negociación consigo mismo, con los otros en uno mismo (...) resultante de una interpretación" realizada por el/los actor/es social/es y renegociada con y por el analista cultural.43 Rigo, un joven tornero, utiliza también tales recursos en su descripción de la dinámica interaccional: “En los baños le caen como moscas a un tipo, a babosearlo todo, ahí no se habla, lo más que se dice es: '¡Échate pa' allá!', por eso a mí no me gusta, los baños me cortan, no puedo con esa promiscuidad y esa peste.” Sin embargo, hay testimonios que contrastan con este y que tienen que ver con una concepción escatológica del sexo. “Me excita ese olor -señala Ernesto-, esa mezcla de orine de muchos hombres, me da morbo, no lo puedo evitar, alimenta mis fantasías.” El baño constituye una comunidad de habla construida de individualidades que poseen un núcleo común de competencia comunicativa, en la que se comparten ciertos "modos de habla", y su significación social puede ser interpretada a partir de lo que Alfred Schütz denominó como significatividades de la copresencia, para dar cuenta de esa comunidad de espacio-tiempo cargado de sentido e intenciones, donde los actores sociales, en sus roles como interlocutores, puedan reconstruir e interpretar los "síntomas del pensamiento del otro."44 Cuando Schütz se refiere al tiempo no lo hace desde un punto de vista estrictamente cronológico, se trata del tiempo interior, o sea, que cada copartícipe interviene en la vida en curso del otro, puede captar en un presente vívido los pensamientos del otro tales como éste los construye, paso a paso; cada uno de ellos comparte las anticipaciones del futuro en cuanto a deseos, ansiedades.45 En la descripción de Junior, aflora un elemento que tiene que ver con determinadas formas de poder o control -no de índole 73 ACHAB coercitivo, sino mental y simbólico-, ejercido sobre él por parte de los “buitres” que le imponen la conducta que ellos desean o esperan de él. En ese sentido, algunos graffiti desempeñan un papel importante atendiendo a que – como señala Van Dijk- los medios esenciales para influir sobre la mente de otras personas de forma que actúen como queremos son el texto escrito y el habla.46 Algunas de las ofertas y las demandas expresadas en los graffiti apuntan a sujetos emisores que responden a los cánones tradicionales de masculinidad y no se consideran a sí mismos como homosexuales, a pesar de que participen en intercambios sexuales con personas del mismo sexo. Los graffiti que expongo a continuación ilustran, además, los horarios de mayor efervescencia del lugar en el año 2004, algunos rituales para el encuentro y cómo se reproducen estereotipos y esquemas de representación de los homoerotismos. En muchos de los textos analizados se observa la recurrencia del estilo funcional publicitario. Se estructuran siguiendo los patrones de oferta y demanda, especialmente se observa el recurso de la superlatividad en las promesas y compromisos de “calidad del producto.” 1. Singo a hombres por el culo. Si quieres conocerme y vives sólo ven a verme el viernes 23 de abril a las 2: PM, vendré vestido de blanco. 2. Soy mulato y de pinga grande y me gustan los culos y que me la mamen, dime cómo vernos. Lugar, aquí, Hora, martes o miércoles de 4 _ a 5 PM. 3. Parto a maricas. Martes 6-4-04. 4. Tengo una pinga grande y gorda y me gustan los pasivos y lampiños y que no sean fuertes. 4:30-7PM, todos los días. 5. Todos los días vengo. Tengo una pinga de 8 pulgadas y gorda. Te espero. 6. Tengo una pinga grande y gorda. Vengo todos los días de 4: 30 a 6:30 PM. Dame señas.47 El lenguaje registrado en los baños, puede ser interpretado como acción social, idea que procede de la teoría de los actos de habla, que plantea que los recursos con los que nos comunicamos no sólo tienen la función de repre-sentar la realidad, sino que además, con ellos esbozamos promesas, compromisos, apues-tas, quejas, peticiones y saludos, deseos, pasiones, emociones y diversos estados de ánimo. En estos discursos, el pene – en particular su tamaño y grosor- se inscribe como un capital simbólico inscrito en una economía de placeres y estereotipos para seducir a otros, “anales/receptores”.48. Estos códigos “peniles” están encaminados al esclarecimiento de roles sexuales adscritos a la masculinidad. En muchos de ellos la raza también se inserta como un capital simbólico para negociar este tipo de intercambios, apelando a mitos culturales relacionados con símbolos sexuales históricos. Las contradicciones que se manifiestan en estos discursos tienen que ver con las valoraciones y denominaciones que utilizan los otros (heterosexuales) y los homosexuales respecto de sí mismos. Estas denominaciones crean sentidos y constituyen formas de valoración y devaluación que evidencian los conflictos objetivos y subjetivos de los individuos; representan categorías atributivas y aluden, generalmente, al desempeño y distribución de roles sexuales, apoyados en la dicotomía de representación de lo masculino y lo femenino. Se han construido tomando como referencia dos polos opuestos: la actividad y la pasividad, es decir, el que penetra y el que es penetrado. Por eso, muchos individuos, aunque tengan evidentemente un estilo de vida adscrito al homosexualismo, manifiestan una estrategia de resistencia a la autoaceptación de tal categoría. En Cuba, a los varones que tienen sexo con otros del mismo sexo sin considerar tales prácticas como homosexuales, se les conoce en el habla popular como “bugarrones”. Este término ha funcionado como estrategia autodenominativa de muchos de estos sujetos. Sin dudas, es una categoría eufemística que los mantiene en las fronteras, donde pueden entrar y salir cuando lo deseen, y no tiene una connotación tan peyorativa. La proyección de género y el desempeño de “roles” tienen que ver con los grupos en que se desenvuelven los homosexuales. Efectivamente, existen algunos que siguen reproduciendo el papel del macho tradicional por las ventajas o prestigio que reporta al que encarne tal personaje. Estos sujetos, aunque tienen plena conciencia de sus sentimientos y deseos sexuales hacia personas del mismo sexo y aunque perciban su diferencia a nivel psicológico, no se definen ni se aceptan como homosexuales, pese a que se declaren asiduos a estas prácticas. A algunos, el sentimiento de diferencia, el mismo contexto en que se desenvuelven y las condiciones que lo propicien, los llevará inevitablemente a autodefinirse como homosexuales, pero este proceso puede tardar mucho tiempo, incluso, años. Otros, en cambio, manifiestan una gran resistencia a la autodefinición como homosexuales y se adscriben a categorías como bisexuales o a ninguna específica. Tales procesos se insertan en lo que Eve Kosofsky Sedgwick conceptualizó como “epistemología del armario”. Esta noción conceptual, aunque restringe un tanto las complejidades intrapsíquicas que se producen en las vivencias homosexuales, porque delimita fronteras y espacios/tiempos, es útil para entender cómo se negocia la diferencia sexual y cómo se adquiere una conciencia socio-sexual diferenciada que se cristalizará o no en la identidad homosexual. El “armario” está sedimentado y estructurado de tal modo que no se puede salir definitivamente, por los modos en que los sujetos han sido interpelados c u l t u r a l m e n t e . Deshacerse del “armario” depende de las individualidades, de las historias y narrativas de los sujetos. Esa estructura no se inscribe en el sujeto simplemente como un espacio/tiempo interno o externo, sino que se encuentra, a la vez, en las dos dimensiones. Como señala Didier Eribon: “No se está nunca del todo dentro porque (…) el ‘armario’ siempre puede convertirse en un «secreto público», y siempre hay al menos una persona que sabe y de la que se sabe o se sospecha que sabe. No se está nunca completamente fuera porque surge, en un momento u otro, la obligación de silenciar lo que se es.”49 El estudio de estos espacios sugiere que en ellos, efectivamente, 74 ACHAB los homosexuales se sienten cómodos y disfrutan de libertades; sin embargo, terminan por asumir posiciones discretas en otros espacios sociales y familiares. Este fenómeno sucede aún entre los homosexuales más asumidos, que en algún momento han tenido que transigir con la cuestión del armario,50 que está sedimentado y estructurado de tal modo que no se puede salir definitivamente, por las maneras en que los sujetos han sido interpelados culturalmente. En la actualidad, cada vez se hace más evidente que la masculinidad tiene disímiles configuraciones y está atravesada por un sinnúmero de prácticas, o sea, que existen diversas maneras de ser hombre y de encarnar lo masculino, y en muchísimos casos se deja entrever un cierto distanciamiento del modelo tradicional del macho. Sin embargo, las investigaciones que he venido realizando en los últimos años, así como las de otros colegas, apuntan a una cierta estaticidad en cuanto a las representaciones a nivel macro social, las que varían en dependencia de espacios y contextos; sucede algo similar a los procesos del “armario”. La noción de masculinidad en la sociedad contemporánea, sigue siendo una camisa de fuerza para muchas personas que tienen que vivir en la frontera del anonimato y la clandestinidad para realizarse como seres humanos, plenos. Uno de los entrevistados –William-, relata así sus conflictos y debates internos respecto de la masculinidad y la manera en que vive su s e x u a l i d a d : “Yo vivo en los Pocitos entre siete plantes abakuá, y ahí la gente te examina desde que sales de tu casa hasta que regresas, te están probando la hombría todo el tiempo, los códigos de convivencia son muy fuertes, muy duros, muy violentos; los estereotipos llevados hasta el extremo, donde las mujeres y los pájaros no significan nada. Ver a hombres en estos lugares con los mismos estereotipos, conectados con el pene de otro tipo en la boca o penetrados, eso me sugería una morbosidad tan grande que no imaginas, me relajaba, amortiguaba ese inconsciente e inevitable sentimiento de culpa, me di cuenta de que no soy un monstruo, que no soy un fenómeno, que no soy un pervertido, pero sobre todo que no estoy solo.” Los baños públicos son lugares cargados de sentido y funcionan a manera de referente para un grupo de varones que desarrollan prácticas sexuales y discursivas homoeróticas. Sin embargo, a muchos homosexuales estos espacios les provocan rechazo o incomodidad, ya sea por pudor o por prejuicios. El testimonio de Ángel Luis es ilustrativo de la complejidad de estos procesos interaccionales: “El baño del parque del Quijote es para esos pájaros promiscuos y excéntricos, a mí no me gusta que me vean en ese lugar que es un foco y es como si la gente tuviera un cartel en la frente que dice: '¡Soy maricón!'. Fíjate que yo me puedo estar reventando de las ganas de orinar y yo no entro ahí ni muerto, sigo de largo. ¡Capaz que me vea alguno de mis amigos! Eso me daría mucha pena.” Al parecer, el baño funciona para este sujeto como una especie de coming out con costos simbólicos que no está dispuesto a pagar. Ángel Luis, aunque no va a los baños en busca de sexo, me confesó que es asiduo a otros espacios y dinámicas a los que me referiré más adelante. El miedo de ser descubierto es revelado mediante la representación negativa de la grupalidad a la que se refiere, o sea, a “esos pájaros promiscuos y excéntricos.” Por otra parte, resulta interesante el empleo del adjetivo “foco” para referirse al lugar, que es enunciado en términos de claridad o de esclarecimiento identitario. El graffiti en los baños puede ser analizado a partir de lo que los lingüistas han designado como patrón de interacción verbal (PIV), concepto aplicado fundamentalmente al análisis conversacional. Estos textos están estructurados sobre la base de patrones que, aunque abstractos, sirven para orientar las acciones comunicativas de los actores sociales y tienen que ver con marcos de referencia subyacentes a la interacción, al tiempo que marcan la lógica interaccional de acuerdo con el contexto.51 Los patrones, al ser unidades recurrentes y sistemáticas, “nos permiten relacionar el contexto extraverbal dado en la si-tuación de comunicación, con los procedimientos discursivos que se movili-zan”52 y funcionan como estructu-ras referenciales -ya que constituyen caminos históricos, ensayados y repeti-dos- y como estructuras internalizadas, por lo tanto ordenadores del discurso.53 Pueden ser entendidos como dispositivos normativos, pautas de acción e interpreta-ción, cuya violación puede ser la causa de malentendidos y crisis en la comu-nicación. Como señala la investigadora María Teresa Sierra: “Seguir un patrón significa entonces realizar una secuencia de accio-nes o actos verbales, guiados por una lógica interaccional para alcanzar fines materiales o simbólicos determinados.”54 Las lógicas interaccionales están atravesadas por continuas negociaciones que develan las complejas relaciones de fuerza y cuotas de poder s i m b ó l i c a s . En los testimonios citados subyace la existencia de micromercados sexuales, con ofertas y demandas de diversa índole, intercambios en los cuales el mediador no es precisamente el dinero, sino los prejuicios sociales, los miedos a ser descubiertos, las censuras y las autocensuras, que dan lugar a modos de vida duales, fronterizos y ambiguos, clandestinos, itinerantes y anónimos, desprotegidos y por lo tanto peligrosos, de los que sólo nos queda una literatura expresada a través de graffiti de amor, pero de un amor que todavía, en pleno siglo XXI, “no se atreve a decir su nombre”. En el baño no tiene lugar la economía de la abstracción comercial o de sexo-servicio en la que prevalece una relación contractual mediada por el dinero y en que la significación de cada objeto -en este caso sujeto- depende de su “valor” de uso, es decir, de mercancía aislado del trabajo. La economía que prevalece en estos lugares pertenece a la del intercambio simbólico, donde “los objetos significan y valen con relación a los sujetos que los intercambian, aquella en que el objeto es un lugar de encuentro y de constitución de los sujetos: inscripción, por tanto, en otra lógica, la de la ambivalencia y el deseo.”55 Las ofertas citadas más arriba tienen como contraparte otros mensajes de emisores que demandan explícitamente este tipo de intercambios, reproducen los mismos esquemas y estereotipos, y se inscriben en esta economía de placeres como “pasivos”. Estos 75 ACHAB discursos están adaptados a la lógica interaccional del contexto, recrean y complementan el patrón de interacción verbal marcado por un grupo de hablantes, al tiempo que construyen otros patrones de acuerdo con sus roles o identidades. 1. Soy maricón y me gusta que me mamen el culo y mamo pingas. Me gustan los mulaticos y los negros. Vengo todos los días, ¿cómo puedo verte? 2. La felicidad de un hombre es la pinga de otro hombre. 3. Soy trigueño y busco un negro que tenga una buena pinga. Vengo todos los días de 5 PM a 7 PM. 4. Quiero un buen pingón. 4: 30 a 7 PM todos los días. 5. Soy medio chino, vengo casi todos los días y me gusta mamar como un loco. 6. Me llamo Roberto. Me gustan los hombres para gozarlos. Te espero miércoles 17-3- 04. 4:30 PM. 7. Estoy buscando a alguien con una morronga así (señala una flecha con un gran pene dibujado), estoy loco porque alguien me haga sentir de verdad lleno de hombre. 8. Necesito un machón. Pon nombre y teléfono para localizarte. 9. Quiero un pene grande. Otros, como Rafael, manifiestan: “Busco alguien serio con quien tener sexo, no parejas. Búscame aquí todos los días, hago de todo y me gusta disfrutar. Vengo todos los días 4: 30 – 7 PM. Dame señas.” En la actualidad, dentro de los círculos homosexuales ha surgido la categoría completos para referirse a aquellos que tienen una existencia sexual más desenfadada, o sea, a los que se sitúan fuera de los cánones relacionales tradicionales porque piensan que la existencia de roles limita no sólo las experiencias sexuales, sino también la convivencia de pareja y las relaciones entre los grupos homosexuales. Así piensa otro “escritor”, que en el anonimato plasmó: “Doy para que me den, esto es vida, locura, sexo.” Aquí, el verbo en ambas formas posee una connotación figurativa. La imagen empleada puede ser entendida como código de penetración fálica en que el emisor subraya que no está inscrito en la economía tradicional de roles sexuales, sino que está dispuesto a un intercambio más abierto. Este tipo de mensajes constituyen, ciertamente, una rareza dentro de la muestra graffitera. Sin embargo, el verbo empleado es elocuente de una violencia simbólica intrínseca en la concepción y representación del sexo en estos códigos “peniles”.56 Quizás, el interés en conservar el anonimato sea una de las causas de que esta producción textual tenga un tipo de factura fugaz y furtiva. Pero para muchos, el baño puede llegar a convertirse en un modo de vida; la caligrafía y el estilo de un mismo escritor puede aparecer de manera recurrente. William lo describe de este modo: “Hay personas que tienen estos lugares como un espacio más de su rutina diaria, como su casa. Otros lo asumen como un lugar para iniciarse, para satisfacer necesidades sexuales o para experimentar”. Algunos parecen encontrar la satisfacción plena y abandonan por un tiempo la promiscuidad que implica necesariamente este tipo de relaciones, y dejan mensajes constantes y codificados para otro escritor específico: “Te necesito ver, es urgente. ¿Vienes? Te espero el 8-4-04 a las 31/2 PM”. Muchos mensajes dejan entrever los altibajos del lugar en ciertos días y horarios. Un escritor decepcionado reflejó: “Hoy está malísimo el baño, no ha venido nadie. 12 a 3: 10 PM.” Las carencias económicas, los problemas de independencia que generan la incapacidad de adquirir una vivienda propia, la falta de espacios sociales que respeten las relaciones homoeróticas (como posadas, moteles o casas de alquiler), además de otros elementos inscritos en lo psicológico -inseguridad para establecer relaciones fuera de cuatro paredes, los prejuicios que impiden la autoaceptación y que tienen que ver con la representación tradicional de los homoerotismos- parecen incidir decisivamente en el establecimiento y proliferación de este tipo de prácticas sexuales. Muchos de los entrevistados piensan que la promiscuidad está condicionada por muchos de estos factores. Otros, sin embargo, aunque reconocen que estos elementos influyen muchas veces en la existencia de estos modos de interacción, piensan que aunque esas barreras desaparecieran, aun así, van seguir subsistiendo este tipo de lugares ocultos para personas que tienen una vida homosexual ocasional.” En ese sentido, Jesús expresa: “Aquí vienen muchos que no pretenden ni quieren tener relaciones afectivas o de pareja, al menos, no como una prioridad; aquí satisfacen su paréntesis homosexual y continúan su vida normal. También la promiscuidad genera hábito, temor al compromiso y los riesgos que conlleva; es mucho más cómodo el desahogo sexual de esta manera.” Alain, un joven imberbe y de constitución un tanto escuálida, que accedió a la entrevista luego de interpelarlo varias veces a la salida de uno de los baños, dice que: “Es común en parejas de homosexuales que al cabo de un tiempo la relación se abra un poco. Esto puede parecer ridículo porque la idea que se tiene de los homosexuales es que son posesivos, hipercelosos. Eso puede que tenga que ver alguna etapa; pero es normal que con el paso de los años cada uno tenga sexo por su lado y que sigan manteniendo el vínculo afectivo, con un vínculo sexual no tan exclusivo. La convivencia se trata de respetar porque la amistad se mantiene; encontrar otro lugar es muy difícil, por eso siguen viviendo en la misma casa, siguen compartiendo el mismo espacio, pero cada cual tiene sexo por su cuenta, incluso pueden llegar a compartir sexo con otra persona que uno de los dos introduzca en la relación.” Uno de los elementos más interesantes recogidos en la muestra graffitera tiene que ver con la identidad pública basada en la sexualidad y los derechos de los homosexuales. Se trata de graffitis inscritos en una dimensión dialógica, participativa e interactiva a un nivel menos primario y en la que se insertan escritores de orientación sexual diversa. Aunque el diálogo y la discusión política se circunscriba a cuatro paredes, a miembros de la comunidad de escritores y a lectores asiduos o potenciales, constituye una práctica cultural alternativa, imposible de controlar, que subvierte de alguna manera las estructuras de poder tradicionales que han desplazado a estos grupos al ostracismo, a la ilegalidad y a la subcultura, anulando las discusiones públicas 76 ACHAB en torno a esta problemática. A mensajes de este tipo generalmente se les presta atención; algunos “escritores” los comentan, invitando a su vez a otros al debate y al diálogo. “¡Viva la Comunidad gay de Cuba!”, exclama eufórico alguien con inmensas letras azules en el baño del Pío Pío. Debajo, otro, escéptico, disiente, le replica: “¿Qué comunidad?” Este diálogo es sumamente interesante y merece una reflexión. Desde que comencé a estudiar el lugar pude constatar que este desempeñaba un papel importante en el establecimiento de redes de intercambios sexuales marginales y que se insertaba en lo que he conceptualizado como ambiente homoerótico habanero; es decir, la dimensión espacio-temporal en la que se reúnen o interactúan individuos no sólo identificados con la homosexualidad, espacios de diversidad sexual y cultural, no excluyentes por razones de orientaciones o identidades sexuales, -aunque hay cierta parte de eso-, donde tienen lugar procesos culturales y en los que se comparten códigos lingüísticos, estéticos y se establecen redes de amigos; un ambiente fundamentalmente nocturno, informal, inestable, itinerante, que se reconfigura y se desplaza constantemente por el mapa de la ciudad. La idea de ambiente, a diferencia del término comunidad, que todavía hoy muchos se empeñan en defender, ofrece una idea más precisa de negociaciones que se producen entre estos grupos y las instituciones estatales por lograr que se creen espacios de socialización, aunque no posean una conciencia colectiva. La noción de ambiente se adecua más al modo subcultural y periférico en el que se desenvuelven.57 Otro de los “escritores” se insertó en el debate para impugnar el contenido de los textos. En su mensaje reclama: “No escriban más tonterías. Por culpa de gente como ustedes todo se nos pone malo. Gracias.” Tal vez, pensaría que los graffitis y la manera descarnada en que se expresan refuerzan la imagen devaluada y distorsionada que tiene la sociedad respecto de los homosexuales, algo de lo que no estoy muy seguro. Este graffiti está estructurado sobre la base de la persuasión; se emplea para ello un argumento pragmático, relacionado con las consecuencias no deseadas que tales mensajes podrían ocasionar y está encaminado a la movilización del miedo a los probables efectos. Aunque el hablante participa de las prácticas y los intercambios, no comparte el discurso base del contexto. En su pronunciamiento se aprecia una ruptura, un distanciamiento respecto del grupo al que se refiere: “por culpa de gente como ustedes”; el hablante reafirma su posición frente a la dinámica contextual y la lógica escritural de los otros, a quienes representa negativamente al tiempo que los responsabiliza -“todo se nos pone malo”- de la discriminación y las sanciones sociales normativas, descubriendo al mismo tiempo su propia ideología. En el baño de la Biblioteca Central de la Universidad de La Habana, tuve acceso a una intensa discusión graffitera que comenzó con un llamado a la tolerancia hacia los homosexuales por parte de un “escritor”, que apuntó: “Esto es para los que no son homosexuales. Miren a la homosexualidad; pero la parte buena de ella. Piensa que ellos pueden ser tu amigo y tener la mejor de las relaciones basada en el respeto.” Aunque la intención y los reclamos del hablante son válidos no sé cómo se puede delimitar de manera categórica la homosexualidad en partes buenas o malas. En este discurso, en que la redacción deja mucho que desear para alguien que se mueve en círculos universitarios, está implícita la idea de la abyección y la anormalidad de la homosexualidad respecto de la heterosexualidad, lo que sigue reforzando los abismos culturales entre ambas categorías. Este escritor fue interpelado y rechazado por otros dos escribanos. Uno de ellos fue muy escueto y manifestó: “Sí. Un imbécil.” El otro mensaje desde la misma tónica enunciaba: “O un maricón. Respeto quizás, comprensión, nunca.” Resulta paradójico que afirmaciones como estas, de rechazo y homofobia, no aparecieron en baños ubicados en lugares no “letrados”, con acceso a personas más heterogéneas y de diversa índole, sino en la Pontificia y Real Universidad de San Jerónimo de La Habana, donde se supone haya una mayor cultura de debate en ese sentido. Sin embargo, los mensajes antes referidos recibieron la respuesta de otros escritores contestatarios y de una posición más abierta, como este que escribió lo siguiente: “De mentes estrechas como la suya han surgido las personas que más daño le han hecho al mundo y cuidado, detrás de la intransigencia puede que se esconda tu homosexualidad.” El debate continuó más abajo con los textos de otros escritores. Uno de ellos exclamó indignado: “¡Partía de maricones!” y otro que manifestaba: “Lucho por la normalidad. No pueden tener ningún derecho por desviados.” El deseo heterosexualizado -señala Judith Butler- se instituye en una matriz de inteligibilidad cultural, en la se producen oposiciones binarias y asimétricas entre lo femenino y lo masculino, en la que estos conceptos se expresan como ideales o atributos identitarios: “hombre y mujer”. Así, aquellas identidades en que el género no es consecuencia manifiesta del sexo y otras en las que las prácticas del deseo no son consecuencia ni del sexo ni del género, apuntan a una incoherencia o discontinuidad de los epistemas culturales que regulan y moldean la sexualidad, son desterradas de ese campo de accesibilidad “humana”, consideradas como zonas abyectas, impensables58, anormales. El último intento. Como había apuntado en páginas anteriores, el baño no es sólo su límite geo-topográfico o arqui-tectónico, sino que es un punto en la confluencia y despliegue de redes de sociabilidad y trayectos mucho más complejos. Las travesías urbanas de estos sujetos se interceptan con otros lugares y sitios de encuentro más ocultos y con otras dinámicas interaccionales. Se trata de lugares al aire libre propicios para intercambios sexuales aún más clandestinos que en los baños públicos. Me refiero a enclaves ubicados en el municipio Plaza de la Revolución, en la periferia de varios hospitales y en áreas comprendidas en las calles G y Zapata. Estos lugares han sido unificados a través del uso de metáforas y analogías; en la actualidad se les conoce como “El último intento”. El término, percepción ordinaria y consensuada, le concede al espacio una connotación simbólica reconocida por los usuarios de estas dinámicas culturales. Lakoff y Johnson ponen 77 ACHAB énfasis en la centralidad de la metáfora para destacar aspectos puntuales de nuestra experiencia cotidiana, como crea-dora de realidades y guía para la acción diaria. Las metáforas actúan como conceptos, modelos perceptivos, y generan homología entre el pensamien-to y la realidad, de ahí la importancia de su estudio sistemático59. “El último intento” alude al fin de itinerarios y trayectos de índole sexual. Ángel Luis lo describe mucho mejor que yo; en ese sentido manifestó: “Es la manera que tenemos para que se sepa que si sales un día, o si estás atacao y no encuentras nada, si no has ligado a nadie, puedes pasar por esos lugares y de seguro vas encontrar a alguien con quien hacer algo. Hay quien sale de una fiesta y va por ahí, otros son punto fijo, otros los visitan durante un tiempo y después se ausentan, eso depende. Yo comencé a ir a estos lugares en el 2003, en el 2004 tuve una relación y no fui más hasta hace poco en que me separé de mi pareja para actualizar mi agenda sexual.” Todos los entrevistados que frecuentan “El último intento”, así como la rotonda del hospital clínico-quirúrgico de la calle 26; los alrededores de la Ciudad Deportiva (Avenida Boyeros), la Quinta de los Molinos (Ave. Salvador Allende desde Infanta hasta Zapata), el parque de la Escuela Normal (Infanta y Amenidad), la Playa del Chivo (salida del túnel de La Habana), entre otros, coinciden en que en estos lugares, aunque se vive en la catarsis sexual, las sociabilidades tienen un carácter menos impersonal que en los baños públicos. William apunta en ese sentido: “Aunque es muy difícil que allí se pueda encontrar afecto humano, porque esos lugares son de encuentro ocasional y tan pronto como se traspasa los límites geográficos de esa zona, nadie te conoce, no te saludan, rehuyen la vista. La sexualidad se vive de ese perímetro hacia dentro. Sin embargo, hay quien se encuentra con un amigo, comparten vivencias; conversan gran parte de la madrugada. De mis relaciones en esos lugares han s u rgido muchas amistades con gente maravillosa que he encontrado allí de diferentes clases y profesiones. Me han enamorado con textos bíblicos: ‘Quien es fiel en lo poco es fiel en lo mucho’ y yo me ilusioné muchísimo; pero la película es muy diferente en la vida real. Hay quien quiere compartir su teléfono conmigo y extender por un tiempo esos encuentros; pero muchos se resisten a establecer una relación más personal.” El testimonio de Enrique ofrece otros matices de las dinámicas y las lógicas interaccionales de esos sitios. A continuación reproduzco fragmentos de su testimonio: “Todos los hombres que están allí están para eso y el que no, pasa por allí sin mirar para los lados; el que se detiene es el que está para eso y se deja intervenir. ¿Qué volá asere? Si estamos allí es por algo. Algunos fingen que están orinando; pero en realidad están exhibiendo sus genitales para que otros evalúen su oferta. Muchas veces no se habla, no se interactúa emocionalmente, incluso hay alguno al que le están mamando el rabo y ese ni siquiera lo mira, simplemente vira la cara, muchas veces no se dice nada, cuando se habla es de un modo impersonal, anónimo, hasta los nombres se cambian, yo, el nombre que utilizo en esos lugares es Alejandro. El placer mutuo no importa, es una lucha entre todos por eyacular primero; porque saben que después que ha sucedido el otro se va a retirar sin decir nada. No se tocan, no se hablan, o a veces como me ha sucedido, que me dicen: ‘Mámala; pero no me toques, no me toques échate pá allá’.” Algunos de los informantes de este trabajo coinciden en que los clásicos roles sexuales se difuminan en estos sitios. Héctor piensa que “el que marca la diferencia desde el inicio es un principiante en estas cosas. Para el que lleva algún tiempo en esta historia, todo es circunstancial, dependiendo de la persona con quien se interactúe. La gente en esos lugares comparte sin complicarse tanto la vida y empiezan a hacer de todo, a descargarle a todo. Hay quien sólo consiente una masturbación mutua y hasta allí llega.” Sin embargo, en los testimonios de los entrevistados resulta recurrente la presencia de los llamados bugarrones, los cuales son descritos como “hombres que fuera de allí tienen una vida heterosexual y que van allí para descargar; pero que no quieren percatarse, no quieren reconocer que lo están haciendo, muchos vienen borrachos, como una auto-justificación, otros tienen sexo y les da por agredir después al otro, eso es muy común, personas con una sexualidad reprimida y que la identifican con la agresión.” Al parecer, estos lugares son frecuentados por algunos sujetos que pretenden intercambios sexuales para luego asaltar y robar a los homosexuales. Los entrevistados subrayan la ausencia de solidaridad en estos parajes. Al respecto comenta William: “Si le dan un machetazo a alguien nadie se mete, se forma la corredera de hombres en cueros o con los pantalones por la rodilla. Son asaltantes, tienen sexo para engatusar a la víctima a la que van a atacar, terminan y les quitan las cosas de valor y van tumbando.” Ernesto me relató su experiencia: Yo ni loco voy a meterme en un monte de esos. Un día yo estaba en mi casa estaba en fase… con tremenda atacadera, le pedí a un amigo que me dijera dónde podía encontrar algo y me llevó por los alrededores del hospital Calixto García, cuando estábamos tallando con un pepillito, un chiquito lindísimo, veo que cerca de allí había dos tipos que se veía que no estaban pa' eso y me fui rápido. Me di cuenta que ahí hay que ir en short, como si fueras al campismo, porque ya yo me veía con la puñalada en la espalda, esos tipos no tenían cara de bugarrones, sino de asesinos. Según algunos sujetos, en estos lugares se despliegan disímiles sentimientos, algunos además de apuntar a la ausencia de solidaridad, señalan la envidia como un sentimiento característico de estas sociabilidades. En ese sentido, dice William: “Hay maricones que son trágicos, te ven conversando con un tipo y yo no sé si es por envidia o qué y te tratan de espantar al punto diciendo que hay policía o algún asaltante.” Es significativa –refieren los entrevistados- la cantidad de personas que buscan participar como espectadores del intercambio sexual entre dos varones en esos lugares. También señalan que es frecuente que parejas de homosexuales busquen a terceros para tener sexo. Durante el trabajo de campo pude constatar que sobre todo los fines de semana, algunos automóviles 78 ACHAB se detienen, accionan el claxon o hacen señas con las luces, buscando jóvenes dispuestos a esos menesteres. Los códigos lingüísticos que se utilizan en estos lugares son diversos, y los registros tienen que ver con la procedencia social o el acervo cultural de los sujetos interactuantes. Entre los registros más cercanos a lo popular se destacan “matar jugada”, “descargar”, “matizar” o, simplemente, refiere William: “Como me dijo un médico en cierta ocasión: ‘Salí de guardia ahora, ¿quieres hacer algo?’” Estos códigos están acompañados muchas veces de interjecciones y de elementos extraverbales o paralingüísticos, como señas chiflidos para llamar la atención. A modo de conclusiones. Hace aproximadamente veinte años, las relaciones socio/sexo/ afectivas comenzaron a cambiar, el Sida trastocó los modos relacionales que los seres humanos habían diseñado hasta entonces. Esta epidemia le comenzó a imprimir a la vida terrenal altas dosis de muerte, inseguridad, prejuicios y mitos. Numerosas campañas mediáticas han transcurrido desde que apareciera el primer caso, dirigidas al inicio, exclusivamente hacia hombres homosexuales y prostitutas. Sin embargo, todavía la concepción de estas no ha variado sustancialmente desde entonces. Las campañas y las políticas públicas que se implementan siguen siendo conservadoras, mojigatas y heterosexistas en extremo; continúan desconociendo la proyección socio-sexual de otros grupos, lo que impide la instrumentación de acciones encaminadas a su información y protección. Se trata de sectores que tienen una existencia sexual más compleja y matizada de lo que estamos acostumbrados a pensar, con rasgos y tendencias a una bisexualidad no asumida o concientizada. Algunos estudios en Cuba, indican que el Sida tiene más incidencia en sectores como estos y que los especialistas han dado en llamar HSH, o sea, hombres que tienen sexo con otros hombres y que representan el 65% del total de las personas diagnosticadas y el 83, 4 % del total de hombres.60 En los baños a los que asistí durante este inusitado trabajo de campo, no encontré rastro alguno de sexo protegido, como condones o graffitis que reflexionaran en torno al Sida e Infecciones de Transmisión Sexual, tampoco tabloides o propaganda de orientación y prevención, lo que hace a este tipo de lugares más vulnerables al contagio y a la propagación de enfermedades. En cierta ocasión hablando con un joven médico que colabora con el Centro Nacional de Prevención de ITS y VIH (Sida), lo interpelé sobre la necesidad de hacer un trabajo más profundo en el diseño de estrategias para la prevención, y uno de los argumentos que esgrimió tenía que ver con el costo de las máquinas expendedoras de condones. Al respecto me comentaba: “Las máquinas son muy caras, y tú sabes cómo es eso, les pones una en el baño del Quijote, por ejemplo, y al mes ya no sirve; porque le entraron a patadas o qué se yo.” Sólo le pude preguntar, sin poder evitar la ironía y el sarcasmo: “¿No es más alto el costo humano, simbólico y económico por conceptos de salud, de atención médica y de importación de retrovirales que el de una m á q u i n a ? ” Paradójicamente, muchos de los entrevistados indican que en los lugares como “El último intento” el sexo es más seguro aunque el contexto sea más peligroso. En ese sentido, me aclara William: “La mayoría de la gente lleva condones allí, los que no los llevan son los que sólo consienten una masturbación mutua. La conciencia en la prevención de VIH e ITS está bien extendida entre la gente que van a esos lugares, además muchos de ellos son enfermeros, médicos y personal de la salud, así que la prevención –se ríe con sornaestá garantizada.” Otro de los elementos que ocupó mi atención en los baños frecuentados fue la escasa presencia de escritura femenina y de narrativas de corte heterosexual. En los exclusivos “para damas” no encontré siquiera un trazo que develaran narrativas análogas a las encontradas en los baños de “caballeros”; en los baños unisex, es decir, aquellos compartidos por ambos, resulta difícil aventurarse a catalogar algún trazo que descubriera a una mujer. Al parecer, la escritura en baños proviene de necesidades y prácticas homoeróticas de varones. Estos grupos tienen que reconfigurar sus prácticas en dependencia del contexto y de nue-vas condiciones socioculturales a las que la red grupal tiene que adaptarse para sobrevivir. El traslado y la usurpación de otro espacio a la ciudad, fue una de las mutaciones que la red grupal asidua al baño del Pío Pío tuvo que experimentar meses después de mis incursiones, porque el baño fue clausurado: un muro sepultó tanto los graffiti como las prácticas en ese lugar. Quede este trabajo para salvarlos del olvido. Descentralizar nuestra mirada constituye al mismo tiempo un requisito metodológico, además de un fin político. Vivimos en un mundo que no hemos aprendido a mirar aún, donde se siguen reforzando, tristemente, otredades y abismos culturales. La sexualidad, en sus diversas expresiones, no está permeada de un pecado “original” patológico como los nuevos conservadurismos intentan demostrar para reforzar mediante moralismos trasnochados, lo natural, lo normal, lo correcto. 79 ACHAB Note * Este texto forma parte de un libro que estoy preparando sobre escritura urbana e ideología de género. 1 Marc Augé. Los “no lugares”, espacios del anonimato. Una antropología de la sobremodernidad, Editorial Gedisa, S.A., Barcelona, 2000, p. 57-58 2 Ibídem, p. 72. 3 Armando Silva Téllez. Una ciudad imaginada. Graffiti, expresión urbana., Universidad Nacional de Colombia, Bogotá, 1986. 4 Entrevista a Pedro Juan Gutiérrez en su casa el viernes 28 de julio de 2006. 5 Pedro Juan Gutiérrez. “Verdad y mentira en la literatura”. En: Encuentro de la cultura cubana , No 26/ 27, Asociación Encuentro de la cultura cubana, Madrid, otoño- invierno de 2002, 2003, pp.276-281 6 Simone Denter y Karoline Bahrs. “Entrevista con Mirtha Yañez.” En: [C. A.] Aspectos del campo cultural cubano. Una excursión a La Habana, Zentralinstitut Lateinamerika-Institut (LAI), Berlín, 2003, p. 231. El subrayado es mío. 7 Noemí Madero Domínguez. “Entrevista a Leonardo Padura Fuentes”. Este texto está aún inédito. 8 Ídem. 9 Paul Ricoeur. “La función hermeneústica del distanciamiento”. Título original: « La fonction herméneutique de la distanciation», en Du Texte à l’action. Essais d’herméneutique, II, París, Seuil, 1986, págs. 101–117. Publicado antes en F. Bovon et G. Rouiller (eds.), Exegesis. Problèmes de méthode et exercises de lecture. Neuchâtel, Delachaux et Niestlé, 1975, págs. 201–215. 10 Ídem. 11 E. Coseriu. “Tesis sobre el tema “Lenguaje y poesía”. En: El hombre y su lenguaje, Gredos, Madrid, 1977. Tomado de Joan Garí. La conversación mural. Ensayo para la lectura del graffiti, Editorial Fundesco, Madrid, 1995, p.143. 12 Teun Van Dijk, “Some problems of Generative Poetics”. En: Poetics, No. 2, 1971, p. 26. Tomado de Joan Garí, Op. cit, p.144. 13 Joan Garí. La conversación mural. Ensayo para la lectura del graffiti, Editorial Fundesco, Madrid, 1995, p.144. 14 Ídem. 15 Teun Van Dijk. “The pragmatics of Literary Communication”. En: Studies in the Pragmatic of Discourse, Mouton, La Haya, 1981. Tomado de Joan Garí, Op. cit, p. 149. 16 Joan Garí, Op. cit, p. 149. 17 Ibidem. 18 Margarita Mateo Palmer. Ella escribía poscrítica. Casa Editora Abril, La Habana, 1995, p.22. 18 Joan Garí, Op. cit, p.153. 20 Teun A. Van Dijk. (comp.) El discurso como interacción social. Estudios sobre el discurso II. Una introducción multidisciplinaria. Editorial Gedisa, Barcelona, 2001, p. 22. 21 Ídem. 22 Severo Sarduy. La simulación, Monte Ávila Editores, Caracas, 1982, p.76. 23 Ibídem, p.123. 24 Entrevista a William el 25 de agosto de 2006 en casa de mi amigo Ernesto. Agradezco a ambos la ayuda que me brindaron durante el trabajo de campo y especialmente a Ernesto González por sus esfuerzos conciliatorios entre su grupo de amigos y conocidos familiarizados con estas prácticas, para que accedieran a ser entrevistados. 25 Teun A. Van Dijk Op. cit., p. 58. 26 Ídem. 27 Ramfis Ayús Reyes. El habla en situación: conversaciones y pasiones. La vida social en un mercado, México. D.F, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, 2005, pp. 62-63. Este libro resulta muy interesante para la temática de la sociabilidad. El autor, desde un enfoque transdisciplinar, hace un balance exhaustivo de las corrientes teóricas que abordan este tópico para encauzar su trabajo epistémico e investigativo sobre los mercados de México. Desafortunadamente, Ramfis, a quien tuve la oportunidad de conocer e intercambiar algunas ideas, murió en México en la primavera de este año. 28 Peter Berger, Thomas Luckman, La construcción de la social de la realidad, Editorial Amorrortu, Buenos Aires, 1994, p.175. Citado por Ramfis Ayús, Op. cit., p. 57. 29 Ibídem., p. 33. 30 Ibídem., p. 84. 31 J. M. Barbero. “Mediaciones urbanas y nuevos escenarios de comunicación”. En: Sociedad, Buenos Aires, no. 5, octubre de 1995, pp. 35-47. También puede verse: Michel Maffesoli. El tiempo de las tribus: el declive del individualismo en la sociedad de masas. Editorial Icaria, Barcelona, 1990. 32 Ídem. 33 J. M. Barbero. «Mediaciones urbanas y nuevos escenarios de comunicación», en Sociedad, Buenos Aires, no. 5, octubre de 1995, pp. 35-47. 34 Para más información puede verse: Roger Chartier. “Ocio y sociabilidad: la lectura en voz alta en la Europa moderna.” En: El mundo como representación. Historia cultural: entre práctica y representación, Editorial Gedisa, Barcelona, 1996. 35 Ramfis Ayús. Op. cit., p.72. 36 Ídem. 37 Pierre Bordieu. ¿Qué significa hablar? Economía de los intercambios lingüísticos, Editorial Akal, Madrid, 1985, p.11. 38 Este concepto fue esbozado por psicólogo social construccionista Kenneth J. Gergen, Realidades y relaciones. Aproximaciones a la construcción social, Editorial Paidós, Barcelona, 1996, p. 269. 39 Para más información puede verse: Roberto Cardoso de Oliveira. El trabajo del antropólogo, Editorial Unesp, Madrid, 1998, pp. 17-59. 40 Entrevista a Oscar, barman de la cafetería del Pío Pío, el miércoles 28 de septiembre de 2005. 41 Guillermo Núñez Noriega. “Reconociendo los placeres, 80 ACHAB desconstruyendo las identidades. Antropología, patriarcado y homoerotismos en México.” En: Desacatos. Revista de antropología social., CIESAS, México, DF, No 6, primaveraverano 2001, pp. 22-23. 42 Entrevista a Paco en el baño del Quijote, el miércoles 28 de septiembre de 2005. 43 Ramfis Ayús. Op. cit., p.223. 44 Alfred Schütz. El problema de la realidad social, Editorial Amorrortu, Buenos Aires, 1995, p. 46. 45 Ídem. También puede verse Ramfis Ayús. Op. cit., p.266. 46 Van Dijk Estudios sobre el discurso II. Una introducción multidisciplinaria. Editorial Gedisa, Barcelona, 2001, p.41. 47 Estos graffiti fueron registrados en el baño del Pío Pío sito en la Calle L e/ 15 y 17, Vedado, Ciudad de La Habana el miércoles 28 de septiembre de 2005. Reproduzco estos respetando las características lingüísticas -incluyendo lo relativo a los registros- de los emisores. 48 El término es del antropólogo Guillermo Núñez Noriega. 49 Didier Eribon. Reflexiones sobre la cuestión gay, Barcelona, Editorial Anagrama, 2001, p. 160. 50 Eve Kosofsky Sedgwick. Epistemology of the Closet, Berkeley y Los Ángeles, University of California Press, 1990, pp.68-70. (Epistemología del armario, Ediciones Tempestad, 1998.) 51 Ramfis Ayús, Op. cit., p.84. 52 Ídem. 53 Ídem. 54 María Teresa Sierra, Discurso, cultura y poder. El ejercicio de la autoridad en los pueblos hñähñús del Valle del Mezquital, Gobierno del Estado de Hidalgo/ CIESAS, 1992, pp. 89-90. Citado en Ramfis Ayús, Op. cit., p.84. 55 J. Martín Barbero. “Prácticas de comunicación en la cultura popular.” En: Máximo Simpson Grimberg. Comunicación alternativa y cambio social, Editorial UNAM, México, 1981, pp. 237-251. 56 El concepto “códigos peniles” lo tomo de Peter Beattie. “Códigos ‘peniles’ antagónicos. La masculinidad moderna y la sodomía en la milicia brasileña, 1860-1916.” En: Daniel Balderston, Donna J. Guy (comp.). Sexo y sexualidades en América Latina, Buenos Aires, Editorial Paidós, 1998, pp. 109139. 57 Para una descripción más detallada puede verse: Abel Sierra Madero. Del otro lado del espejo. La sexualidad en la construcción de la nación cubana, La Habana, Editorial de Casa de las Américas, 2006. 58 Judith Butler, Op. cit., p.20. 59 Ramfis Ayús, Op. cit., p.209. Para más información véase: George Lakoff y Mark Johnson. Metáforas de la vida cotidiana, Editorial Cátedra, Amdrid, 1998. 60 Leonardo L. Chacón Acosta. “La prevención del VIH. Entre los hombres que tienen sexo con otros hombres (HSH)”, Revista Sexología y Sociedad, año 8, no. 20, diciembre de 2002, p. 13. Al Bar - Cuba, 2008 - Foto di Conny Russo 81 ACHAB Militares - mujer Foto di Norangela Romero Bevilacqua, Sri Lanka, Maggio 2005 82 ACHAB Visitate il nuovo sito di Achab www.achabrivista.it La rivista è interamente scaricabile in formato .pdf Les coiffeuses - Cotonou 2007 - Foto di Al essandr a Brivi o Note per la consegna e la stesura degli articoli. Gli articoli dvono essere in formato Word o Rich Text Format (.rtf). Si consiglia di usare il carattere times o times new roman corpo 12. L'articolo deve avere una lunghezza minima di 3 cartelle e massima di 15 (interlinea 1,5; corpo 12). Si consiglia di ridurre al minimo le note che non dovranno essere inserite in automatico ma digitate come testo alla fine dell'articolo. Nel testo il numero della nota deve essere inserito mettendolo tra parentesi. Gli articoli devono essere spediti al seguente indirzzo: [email protected]. La redazione provvederà a contattare gli autori. ACHAB