- Amici del Museo – Ariano Irpino

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- Amici del Museo – Ariano Irpino
AEQVVM
TVTICVM
Organo dell’ASSOCIAZIONE
AMICI DEL MUSEO
ARIANO IRPINO
AEQVVM TVTICVM
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Aequum Tuticum
AEQVVM TVTICVM
Organo dell’Associazione
AMICI DEL MUSEO di Ariano Irpino
www.amicidelmuseoarianoirpino.it
E-mail: [email protected]
ANNO XI, n.5/2013
DIRETTORE RESPONSABILE
VINCENZO GRASSO
COORDINATORE DI REDAZIONE
MICHELE GIORGIO
[email protected]
Autorizzazione e Registrazione c/o
TRIBUNALE DI ARIANO IRPINO
N.02/09 del 17/02/2009
REDAZIONE
Via Villa Caracciolo, 27
c/o Giorgio Michele
83031 Ariano Irpino
E-mail: [email protected]
STAMPA
Tipolitografia IMPARA
Via Carpiniello, 4 - Ariano Irpino
E-mail: [email protected]
• 1a di copertina: Vue de la Ville d’Arriano (Equotuticum), d’un ancien munument appellé Autel de
Ianus, e de la fortesse detruite.
Louis Ducros,1778 - da”Voyage en Italie” - acquerello 230x728 cm. Amsterdam, Rijksprentenkabinet
• 4a di copertina: Logo dell’Associazione
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Aequum Tuticum
Redazione
Michele Giorgio - Presidente
Luigi Albanese
Tonino Capaldo
Emilio Chianca
Antonio D’Antuono
Ottaviano D’Antuono
Vincenzo Grasso
Floriana Mastandrea
Stanislao Scapati
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Aequum Tuticum
Organi dell’Associazione
CONSIGLIO
• Presidente
Michele GIORGIO
• V. Presidente
Luigi GRASSO
• Segretario tesoriere
Francesco COZZO
• Consiglieri Ottaviano D’ANTUONO
Giuseppe TISO
Candido IACOBACCI
COLLEGIO DEI REVISORI
• Presidente
• Componente
• Componente
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Matteo ADINOLFI
Antonio IMPARA
Maria Beatrice LANDI
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Aequum Tuticum
Sommario
Editoriale
di Michele Giorgio (Presidente dell’Associazione Amici del Museo) . . . . . . . . . pag.
Un missionario di Cristo in Terra Turca:
don Massimiliano Palinuro
a cura della Redazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ”
Aequum Tuticum e la Contrada S. Eleuterio di Ariano Irpino
di Luigi Albanese. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ”
Il realismo magico del Parzanese
di Tonino Capaldo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ”
Osvaldo Sanini
di Tonino Capaldo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ”
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Sant’Elzeario e Beata Delfina - Contributo iconografico
alla conoscenza dei compatroni di Ariano
di Emilio Chianca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 118
Mario D’Antuono: profondo studioso della psiche umana
di Antonio D’Antuono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 134
La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
che si venera nel Santuario di S. Liberatore in Ariano
di Ottaviano D’Antuono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 150
Televisione: ovvietà o eccezionalità
di Michele Giorgio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 160
Ariano al centro di un progetto per la riscoperta
delle radici normanne. Ariano prima contea ?
di Vincenzo Grasso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. ” 165
Puntare sulla ceramica: una strategia vincente
di Floriana Mastandrea. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 169
Aurelio Covotti storico della filosofia Saggio di Antonio D’Antuono
recensione di Stanislao Scapati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 172
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Editoriale
E ditoriale
Dalla nascita della rivista Aequum Tuticum, organo della nostra Associazione, i vari il Presidenti che si sono succeduti, hanno dedicato questa pagina
a brevi promemoria: il ricordo degli amici scomparsi, un sommario delle attività svolte, il programma o le note di eventi che hanno caratterizzato la vita
associativa dell’anno precedente.
Nel ventennale della nascita del nostro sodalizio, occorrerebbe dedicare
tutta la rivista a quanto è stato fatto dal 1993 ad oggi, per ripercorrerne la non
breve e proficua storia.
Per motivi di carattere pratico mi limiterò a tracciarne un sintetico excursus. Il
27 dicembre 1993 fu costituita la nostra Associazione “Amici del Museo e dei
Monumenti ed Opere di Antichità e d’Arte”- in breve: “Amici del Museo”,
il cui importante traguardo dei vent’anni di vita attivissima è ormai prossimo;
non molte Associazioni possono vantare questo primato o un “curriculum”
operativo pari a quello del nostro sodalizio. Credo di poter dire questo, né per
addurre meriti personali né per spirito di parte, ma perché bisogna oggettivamente riconoscere che quanto è stato fatto nel corso degli anni, si è potuto
realizzare soltanto grazie all’impegno di tanti “AMICI” che hanno dedicato
all’Associazione non solo il proprio tempo, ma anche il proprio cuore.
Non posso e non voglio stilare una classifica di merito né un elenco di
nomi, che risulterebbero forse noiosi e certamente incompleti, ma un grazie
va innanzitutto ai Presidenti che mi hanno preceduto, non disgiunto dal piacere di ricordarli in questa occasione.
In ordine di tempo il primo è stato il dott. Antonio Alterio “detto Tonino”,
che ha guidato l’Associazione dalla nascita fino al gennaio 2006.
Il secondo, è stata la compianta Prof.ssa Rita Gambacorta che, nonostante
le sue precarie condizioni di salute, ha “servito” l’Associazione dal gennaio
2006 fino all’aprile 2008.
Nel ricordare entrambi li ringrazio pubblicamente, unitamente ai Con-
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Editoriale
siglieri, che si sono alternati nel Direttivo nel corso degli anni. Ringrazio,
inoltre, i tanti AMICI ed ancor più quelli non più residenti in Ariano, ma ad
essa legati da un forte cordone ombelicale, che hanno contribuito alla crescita
dell’Associazione, animati da un amore profondo per la terra che li ha visti
nascere, appoggiando, senza riserve, tutte le iniziative promosse ed incoraggiandoci a continuare il lavoro intrapreso.
Grazie Amici! Cercheremo insieme di perseverare nell’impegno assunto,
con la stessa passione di sempre e con rinnovata forza, nonostante il tempo
presente sia irto di maggiori difficoltà rispetto al passato e il numero degli
associati sia diminuito sensibilmente.
Senza sovvenzioni, senza contributi pubblici, continueremo ancora con i
nostri “pochi” mezzi a concorrere all’arricchimento del patrimonio museale e
culturale della nostra Città, statene certi.
Dal marzo 2009 questa Rivista, prima pubblicata in maniera discontinua
e più volte come numero zero; ha assunto l’attuale veste di pubblicazione a
cadenza annuale, registrata ed autorizzata dal Tribunale di Ariano Irpino.
Sarebbe stato bello poter festeggiare il ventennale della nascita del nostro
sodalizio con una sede, ma ciò non è stato possibile per evidenti motivi economici: fino a qualche tempo fa siamo stati “ospiti” del MUSEO CIVICO e
della CERAMICA, che abbiamo contribuito in maniera “sostanziale” a far
crescere; attualmente non godiamo neanche di detta ospitalità. Tante volte ci
è stata promessa una sede, diversi gli amministratori, potrei farne i nomi, che
hanno fatto “promesse da marinai”, convinti forse con “gratuite”assicurazioni
di poter “rabbonire” lo scocciatore di turno, dimenticando che questi non rappresentava se stesso, bensì una Associazione da anni protesa al bene della
propria Città e alla sua crescita culturale.
Ariano, novembre 2013
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Michele Giorgio
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Un missionario di Cristo in Terra Turca
Un missionario di Cristo
in Terra Turca:
don Massimiliano Palinuro
a cura della Redazione
T
utti ad Ariano conoscono padre Max (don Massimiliano), suo paese
natale, parroco di San Nicola Baronia, docente di filologia del Nuovo Testamento presso la Ponteficia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale
in Napoli e Responsabile dei Beni Culturali della Diocesi Ariano-Lacedonia
fino alla sua decisione di partire, come missionario, per la Terra di San Giovanni Apostolo, la Turchia.
Attualmente vive e compie il suo apostolato a Smirne, sede dell’Arcivescovo Metropolita S.E. Mons. Ruggero Franceschini, dove subito si è attivato, fra l’altro, per la riapertura, dopo circa 50 anni dalla sua chiusura, della
locale Basilica Cattedrale di San Giovanni.
Per reperire fondi per il restauro si è recato anche in America, dove è stato
accolto con grande amore e generosità. Alla suddetta raccolta hanno contribuito la comunità di San Nicola Baronia, molto legata al suo ex parroco, e i
paesi circostanti.
Facciata Basilica Cattedrale di San Giovanni in Smirne - Turchia
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Un missionario di Cristo in Terra Turca
Pubblichiamo, a sua insaputa, la lettera inviata recentemente agli amici e
benefattori della missione di Smirne.
Progetto di riapertura della missione della Cattedrale di Smirne
Cari amici della missione,
desidero rendervi partecipi del progetto di riapertura della Basilica Cattedrale di San Giovanni di Smirne. Dopo quasi 50 anni, stiamo per riaprire
la Cattedrale che è anche la chiesa cattolica più importante della Turchia, in
quanto sede dell’Arcivescovo Metropolita di questa nazione. In questo luogo
San Giovanni Apostolo ed Evangelista ha vissuto, ha predicato il Vangelo ed
è morto. E’ un luogo caro alla memoria della nostra fede e perciò è necessario mantenere una presenza cristiana anche se ci troviamo in un contesto
quasi totalmente musulmano. In questo luogo vogliamo vivere e testimoniare
la nostra fede e cercare di portare Gesù anche a chi non lo ha mai conosciuto.
In questo momento stiamo ultimando i lavori di restauro e di adattamento delle strutture e domenica 29 settembre p.v. l’arcivescovo di Smirne S.E.
Mons. Ruggero Franceschini e il Segretario Generale della Conferenza
Episcopale Italiana S.E. Mons. Mariano Crociata restituiranno finalmente
al culto la Cattedrale. Mi auguro che, se Dio vuole, un giorno possiate venire
in pellegrinaggio in questa terra e possiate visitare questa Cattedrale, incoraggiando, con la vostra presenza, la piccola comunità cristiana che vive in
Turchia.
Ma a che cosa servirà questo luogo? Cerco di descrivere brevemente quale è lo scopo di questa missione.
1. Luogo per la formazione giovanile e vocazionale.
Innanzitutto la Cattedrale sarà un luogo deputato all’accoglienza di
quei giovani che vogliono fare un’esperienza di fede anche nella prospettiva di un discernimento vocazionale. I giovani che chiedono di
diventare cristiani hanno bisogno di un luogo di aggregazione e di
condivisione, possibilmente accompagnati e incoraggiati dai loro coetanei, dal momento che qui essere cristiani soprattutto per i giovani
è molto difficile e spesso si vive in una profonda solitudine. Inoltre
si spera che, con l’aiuto di Dio e per la preghiera di intercessione di
tutti voi, possano finalmente nascere vocazioni locali, perché ancora i
sacerdoti sono tutti stranieri e la Chiesa risulta essere un corpo estraneo alla società turca.
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2. Luogo per la testimonianza della carità cristiana.
L’annuncio del Vangelo deve essere accompagnato dalla testimonianza della carità. Gesù ha detto, infatti, “Da questo tutti sapranno
che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv
13,35). Noi non siamo venuti a fare propaganda ad un’idea politica
o ad una filosofia ma siamo venuti a mostrare l’amore che Dio ha
per tutti gli uomini. Con questo scopo, in collaborazione con la
Caritas Internazionale, stiamo realizzando presso la Cattedrale un
Centro d’Ascolto per contribuire all’assistenza medica dei bambini
privi di assicurazione sanitaria ricoverati presso il vicino ospedale
pediatrico di Smirne.
3. Luogo di accoglienza per i pellegrini e i visitatori.
Durante alcune ore del giorno la Cattedrale sarà aperta e disponibile per le visite e le celebrazioni dei pellegrini, soprattutto di
coloro che si recano sulle orme di San Giovanni. E qui - credetemi
- mantenere aperta una chiesa è molto difficile! Non sono, infatti,
rare le incursioni vandaliche e gli
assalti sacrileghi per cui è necessario un servizio di sorveglianza per la
sicurezza. L’accoglienza sarà rivolta
anche a quei visitatori musulmani
che desiderano visitare la chiesa e
conoscere il Cristianesimo. Come
saprete, qui in Turchia solo in chiesa
abbiamo la possibilità di annunciare il Vangelo liberamente perché
fuori è praticamente proibito. La
Cattedrale, pertanto, diventerà uno
spazio entro il quale sarà possibile
incontrare la gente per abbattere,
col paziente dialogo interpersonale,
i muri del pregiudizio e per rispondere alle domande che i musulmani
pongono con positiva curiosità a noi
cristiani. Molte delle conversioni
nascono proprio nel contesto di
questi dialoghi in chiesa.
Interno Basilica Cattedrale di San Giovanni
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Un missionario di Cristo in Terra Turca
Ecco: a tutto questo voi avete dato il vostro contributo quando, in tante
circostanze, mi avete affidato la vostra offerta. Vorrei dirvi un grande grazie
perché ogni vostra offerta, data sempre con spontaneità e amore, è servita
ad aggiungere un mattone alla costruzione di questa missione. Se vorrete
continuare a sostenere quest’opera, sappiate che ce ne è davvero bisogno e
sono certo che il Signore vorrà benedire ogni atto di generosità compiuto per
amore suo. Il momento non è certo favorevole per tutte le nostre famiglie ma
spero che anche nelle presenti ristrettezze non vogliate far mancare il vostro
piccolo aiuto perché questa missione possa rimanere aperta e possa essere un
luogo di testimonianza dell’amore di Gesù per tutti gli uomini.
Alcuni tra voi, amici della missione, hanno avuto l’idea di organizzare
una sorta di adozione a distanza della missione e delle sue attività in modo
da coinvolgere, in maniera organizzata, il maggior numero possibile di persone con l’offerta di una piccola somma mensile. L’idea mi sembra buona
perché l’unione fa la forza e con un piccolo sacrificio potreste fare tanto.
Confido che, senza alcuna polemica, ci sia chi si rende disponibile per assicurare il funzionamento di questa organizzazione.
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Un missionario di Cristo in Terra Turca
Più di ogni altra cosa, però, chiedo a tutti e a ciascuno di pregare per
questa missione perché questa si regge solo sui miracoli che Dio compie.
Qui la vita per i cristiani è molto dura: siamo solo una minoranza insignificante e mal sopportata. Nonostante ciò, ogni giorno il Signore benedice e accompagna con il suo amore questa piccola comunità cristiana che cammina,
confidando solo nella sua Parola.
Permettete, poi, che vi raccomandi di rimanere saldi nella fede cristiana
che avete ricevuto col vostro Battesimo. Nella nostra società occidentale non
si apprezza abbastanza il dono del Vangelo e con superficialità colpevole si
abbandona la fede e la pratica cristiana per seguire il nulla. Qui in Turchia,
invece, ci sono alcuni che non hanno paura di perdere tutto pur di diventare
cristiani e poter conoscere Gesù e il suo Vangelo. Raccomando a voi che avete avuto la Grazia di nascere e crescere cristiani: non lasciatevi allontanare
da Gesù e dalla sua Chiesa, per nessun motivo! Portate questa mia accorata
raccomandazione anche ai vostri figli e nipoti, perché nessuno si perda di
coloro che vi sono affidati.
Carissimi, il mio grazie è poca cosa e nessuno di voi sa che farsene. Perciò vi assicuro che la mia gratitudine si fa preghiera per voi e per le vostre
famiglie. Il Signore benedica e ricompensi ogni vostro atto di amore e vi conceda di perseverare nella fede dei vostri padri e di trasmetterla ai vostri figli.
In tal modo anche voi avrete la gioia di essere stati missionari del Vangelo e
di aver contribuito a rendere bella la nostra umanità.
Vi benedico con grande affetto nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo.
In Cristo
p. Massimiliano Palinuro f.d.
Giardini Basilica Cattedrale di San Giovanni
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Aequum Tuticum
Aequum Tuticum
e la Contrada S. Eleuterio
di Ariano Irpino
di Luigi Albanese
I
l territorio di Ariano Irpino è stato frequentato sin dalla preistoria,
come dimostrato dai reperti rinvenuti in località la Starza (sito noto
come Monte Gesso). I reperti ci attestano la presenza umana in un periodo
compreso dagli albori del VI millennio a.C. al X-IX sec. a.C.
Per motivi non noti, intorno al 900 a.C., l’abitato preistorico fu abbandonato per essere trasferito in un luogo non molto lontano, nella Valle del
Miscano, ad 8 Km in linea d’aria a NE di Ariano. Infatti, alcuni anni fa furono
rinvenuti, in quest’ultimo sito, bulini, punte di freccia, raschiatoi in selce che
presentavano una lavorazione primitiva di ceramica (creta e carbone) attestando la presenza di paleolitici e neolitici.
La Valle del Miscano o Valle miscana, un tempo Valle di Tesso, con la valle dell’Ufita e l’alta valle del Cervaro, l’antico Cerbalus, risultano, per i corsi
d’acqua e per la posizione geografica, incrocio delle vie naturali di transito tra
la conca beneventana ed il Tavoliere Pugliese.
“Con molta probabilità, poiché la fondazione della città di Aequum Tuticum [...] la si fa risalire al mitico eroe greco Diomede, il termine Tesso (Valle
di Tesso), va messo in rapporto con la Tessaglia, presunta patria di Diomede,
anche se alcune fonti lo fanno originario della Tracia” (R. Patrevita)1.
Successivamente nello stesso sito giunsero gli Irpini, una delle tribù che
insieme a Caudini, Pentri, Caraceni (o Carracini) e Frentani costituivano il
popolo dei Sanniti.
Gli Irpini assoggettarono e convissero poi, pacificamente, con i primi abitatori del luogo (forse gli Opici), fondendo in parte usi e costumi: sorse così
la città di Aequum Tuticum, cardo viarum dell’Italia meridionale, “durante
1)
Su tale episodio v. G. Tagliamonte, I Sanniti. Caudini, Irpini, Pentri, Carricini, Frentani, pp.28 e sg.,
1996, per l’uso propagandistico che ne fecero i Romani.
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l’impero romano importantissimo nodo stradale” (P Nuvoli)2, “baricentro di
una complessa griglia viaria di età romana” (P. Nuvoli)3, posta a 600 m. sul
livello del mare, ed indicata nei documenti alto-medioevali col nome di casale Ianensis, che si estendeva dall’arco del quadrivio all’incrocio della Via
Traiana con la Via Erculea. Più tardi il luogo assunse la denominazione di S.
Eleuterio, nome che la contrada conserva tuttora.
da Giovanna Gangemi - “Osservazioni sulla rete viaria antica in Irpinia” - in “L’Irpinia nella Società
Meridionale” - Ed. Centro Dorso, Avellino 1987, p. 123
Il nome della città è composto di due parole di origine diversa: Aequum,
di origine latina, indicherebbe “luogo pianeggiante, campo”; la seconda Tuticum, sannitica, “pubblico, popolare, comune”.
Nella sua stessa denominazione è evidente il riferimento all’organizzazione
statale dei Sanniti, basata su un’entità, la touta (cioè la comunità), di carattere
tribale e distribuita poi sul territorio secondo uno schema che lo stesso Tito
P. Nuvoli, La Tabula di Peutinger in area sannitica - Quadro geostorico e analisi di quattro percorsi,
p. 113, 1998.
3)
P. Nuvoli, lettera del 18.11.1998 indirizzata al dott. Pasquale Ciccone (1921-1999), in P. Ciccone,
Ariano nel cuore, terzo tomo, a cura di Aldo Ciccone, p. 238, 2009.
2)
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Aequum Tuticum
Livio definisce con un preciso termine vicatim, confermando questa tipologia insediativa basata su piccoli agglomerati, o pagi, e, molto probabilmente,
sulla comune fruizione di spazi pubblici, quali santuari o luoghi di rappresentanza.
Aequum Tuticum: area degli scavi
L’organizzazione politica, amministrativa e sociale del Sannio, al contrario di tutti gli altri popoli di origine sabellica, si mantenne sempre unita e
compatta, tanto da costituire una temibile unione etnica in grado di conservare la propria libertà più a lungo degli altri popoli limitrofi. La federazione era
costituita dalla unione di tutte le tribù sparse, nella loro lingua dette TOUTA,
che si identificavano con le più importanti città e che erano tutti uguali al cospetto del governo centrale. Infatti esse si reggevano con proprie leggi e con
propri magistrati, come tante piccole repubbliche indipendenti, le quali godevano di particolare autonomia. Queste tribù autonome erano saldamente “unite tra loro soprattutto da vincoli religiosi ed avevano il loro centro in santuari
comuni e federali che [...] a loro volta erano anche centri di scambio, nonché
politici per le decisioni comuni. Questa costituzione fu così perfetta ed autonoma da essere considerata tra le più avanzate forme di governo del mondo
antico. Tuttavia ebbe il torto di consentire ad ogni tribù la conservazione della
più ampia autonomia ed indipendenza, rendendo così impossibile una perfetta
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Aequum Tuticum
unione di tutta la stirpe sannitica e ciò fu la principale ragione della definitiva
conquista romana, come avvenne pure per gli Etruschi” (A. Di Iorio, 2003).
Aequum Tuticum: area degli scavi
L’attestazione del Touxion-Tuntikum, affiancato alla definizione di metropoli,
fa sì che possa essere attribuita a Aequum Tuticum la funzione di centro propulsore della zona. Implicitamente si desume che fosse uno dei centri della
Lega sannitica, o meglio, uno dei centri principali degli Irpini: intendendo,
in tal modo, Aequum Tuticum come luogo di raduno politico-religioso delle
popolazioni residenti nei dintorni, vero e proprio “campo del popolo e della
collettività”.
Nel VI secolo a. C. le comunità sannite disponevano di un centro di riunione a carattere protourbano: quello degli Irpini era, alla fine del IV secolo a.
C., Aequum Tuticum (G. Zecchini).
Forse fu sede del Kombennio sannita (Consiglio Federale), espressione di
un’oligarchia di governo, cui spettava di decidere per l’interesse comune,
stringere alleanze, dichiarare guerra, formulare leggi, risolvere contrasti e nominare l’embratur, il comandante supremo dell’esercito federale (CavallazziD’Amico).
Secondo Nicola Fierro Aequum Tuticum comprendeva “un vasto territorio [...], vari vici che oggi sono paesi”, sino a ricoprire un’estensione territoAEQVVM TVTICVM
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Aequum Tuticum
riale di 495,38 kmq.
Il Sogliano fa notare che il “misterioso” Aequum Tuticum negli autori e
negli itinerari antichi è riportato in vario modo: come “πολισ, μητροπολισ,
oppidum, oppidulum, statio e mansio”.
Nell’ambito sannitico l’aggettivo osco tùvtìks (lat. tuticus) è associato,
comunemente, alla carica di meddix.
Fra i Sanniti, il meddix tuticus era un magistrato di rango superiore: gli spettavano “il comando militare, la giurisdizione civile e criminale, funzioni di
rappresentanza politica e religiosa [...] pure l’esercizio dell’amministrazione
pubblica, il diritto di convocare e presiedere le adunanze del senato e del popolo, di proporre delibere” (G. Tagliamonte).
Il nome del meddix tutikus “deriva etimologicamente dalla parola osca
touta, ossia popolo. Pertanto il nome del capo politico, militare e giudiziario
significa il rappresentante prescelto dal popolo, perché derivava la sua autorità dalla volontà da questo liberamente espressa” (A. Di Iorio, 1979).
I meddices tutici delle varie tribù eleggevano al vertice della Lega Sannitica
un unico comandante supremo, scelto fra loro, denominato indifferentemente
imperator o dux.
Forse Aequum Tuticum esprimeva normalmente un proprio magistrato ordinario (vale a dire il meddix). Sconosciuta è la presenza nella città di altre cariche sannite come il meddiss semplice (che coadiuvava il supremo magistrato)
o del Keenstur (censore).
L’insediamento era ben collegato con la Mofeta della Malvizza, nei cui
pressi si ergeva il tempio della dea Mefite, “la grande Madre di tutte le genti
pastorali”: fu eretto a poca distanza da Equotutico e là si recavano i suoi abitanti per propiziarsi gli dei Inferi o per immergervi le greggi e curare malattie
come la scabbia, grazie al contenuto di zolfo delle pozze. Lo stesso facevano
altri Irpini nella ben più nota Valle di Ansanto.
La dea Mefite, divinità tipicamente italica, è legata alla protezione delle
sorgenti e degli armenti, ai campi ed alla fecondità ed è associata a fenomeni
di vulcanesimo (Cavalluzzo-D’Amico).
Aequum Tuticum è situato anche in prossimità del Santuario di Macchia
Porcara (territorio di Casalbore) e del relativo abitato sannita che, forse si
può identificare con la Vescellium riportata da Plinio.
Il tempio, di tipo etrusco-italico, dedicato al culto delle acque (probabilmente, quindi, alla dea Mefite), fu distrutto nel corso della seconda guerra
punica tra il 217 ed il 202 a.C.
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Aequum Tuticum
A Casalbore, l’archeologo Johannowsky ha ritrovato tutti gli elementi che
identificano il sistema vicano-paganico delle tribù sannitiche, cioè piccole
tracce di edifici, le fornaci, a monte le necropoli sia con tombe a tumulo della
classe elitaria che quelle più semplici a fossa ed il santuario (G. Colucci Pescatori, Internet).
Altra zona di interesse storico è la vicina località di Difesa Grande, nota
per la famigerata discarica, posta lungo il tratturo Pescasseroli-Candela, in
cui sono stati accertati: “strutture pertinenti ad un insediamento a carattere
artigianale (fornace) di età ellenistico-romana, documentato da abbondanti
frammenti di tegole e mattoni, ceramica comune, vernice nera, aretina, pesi
da telaio a disco, frammenti di mattoni da fornace, scorie e tracce di concotto;
materiale ceramico e anforario di un insediamento rustico di età romana; necropoli e tombe sannitiche, cippi miliari ed agrari, tracce di centuriazione, ville [...], diverticoli del grande Tratturo regio Pescasseroli-Candela; una grande
villa, documentata da strutture murarie, abbondanti tegole e ceramiche, basi
di marmo ed un frammento di una grande iscrizione, anch’essa in marmo”4.
L’abitato di Aequum Tuticum si affacciava sulla stessa Valle del Miscano
e si estendeva sull’altopiano retrostante entro un perimetro a semicerchio
assai esteso, nell’ambito del quale sorgevano le terme ed il foro.
Caio Ennio fu prescelto dall’imperatore Adriano per la costruzione delle
terme di Aequum Tuticum; ciò si evince dalla lettura della lapide esposta
dapprima nelle adiacenze degli scavi e dal luglio 2013 allocata nei pressi del
Castello di Ariano Irpino:
I
O
M
C ENNIUS C F FIRMUS
PERMISSU DECVRION C B
BENEVENTO AEDILIS
II VIR ID QVAESTOR
CVRATOR OPRIS THERMARUM
DATVS AB
IMP CAESARE HADRIANO AVG
4)
G. Tocco, Soprintendente archeologico delle Province di SA-AV-BN, Relazione del 26.05.1995, in P.
Ciccone, Ariano nel cuore, terzo tomo, a cura di Aldo Ciccone, p. 276 e sgg., 2009.
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Su di un prossimo colle, che costituiva l’arx5 della città, dovevano invece
sorgere i maggiori edifici ricordati dalle epigrafi, quali i templi di Venere,
di Giove e di Cibele (la Magna Mater), “personificazione della natura, della
fecondità e delle fiere” e protettrice, tra l’altro, dell’agricoltura e delle città.
In una iscrizione sepolcrale, sempre appartenente ad Aequm Tuticum,
Marcus ricorda affettuosamente la moglie che è stata “timpanistriae matris
deum”:
INNOCENTI FEMINAE
TIMPANISTRIAE
MATRIS DEUM
PT CON MARCUS
MF
I summenzionati templi erano molto frequentati dai fedeli: difatti i Romani, saccheggiando la città nel corso della terza guerra sannitica (298-290 a.C.),
s’impossessarono, sotto il comando del tribuno militare Q. Fabius Maximus
Gurges, della statua raffigurante l’Afrodite Nicefora (la Venere vittoriosa) e
la trasportarono a Roma come bottino di guerra; secondo Nicola D’Antuono,
invece, il simulacro raffigurava la dea Mefite, considerata come una Venere
Italica, Mefis fisid.
Oltre al predetto episodio, ignoto è attualmente il ruolo assunto da Aequum Tuticum durante le guerre sannitiche o quelle verificatesi nei secoli
successivi.
Nicola Fierro asserisce che la radice del nome Aekuum-Aequum forse è da
mettere in relazione con la divinità Afrodite, la cui statua, come già riferito,
fu depredata nel 297 a.C. (altri citano il 292 a. C.) dai Romani e collocata, nel
295 a.C. nel tempio di Venere costruito presso il Circo; l’Afrodite vincitrice
era soprannominata Madre (in lingua osca Aik): era questa la protettrice osca
che ha dato il nome allo stato tribale. Aequum Tutikum è la traduzione latina
dell’osco: Aikuum Tuvtikon, madre dello stato tribale.
Le aree sacre di Aequum Tuticum furono edificate in alto, così come gli omonimi santuari costruiti a Roma sul Palatino (templi di Cibele e Venere) e sul
Campidoglio (tempio di Giove Capitolino).
Mentre il Tagliamonte, op. cit., p.168, considera l’arx come un sito fortificato; L. Martiniello in Aeclanum tra leggenda e storia, 1996, p. 123 la ritiene “non una fortificazione, ma un semplice terrapieno,
rinforzato talvolta con sassi e pali di legno. In caso di pericolo costituiva un rifugio per vecchi, donne
e bambini e una buona protezione per le mandrie di bestiame contro i predatori nemici”.
5)
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AEQVVM TVTICVM
Aequum Tuticum
Aequum Tuticum: le terme, in primo piano il calidarium
Alla calda luce del sole, che investe in ogni stagione tutta la vallata, gli
Equotuticani iniziavano le proprie attività sotto lo sguardo protettivo degli dei.
L’agglomerato sannita occupava la valle con abitazioni “costruite in una tecnica molto semplice, con la parte bassa probabilmente in muratura - elementi
litici irregolari tenuti con argilla -, l’alzato delle pareti con una sorta di graticcio, reso impermeabile mediante argilla impastata con paglia, e il tetto in
tegole e coppi” (M. Romito).
Nel tempo i rinvenimenti di materiale archeologico ad Aequum Tuticum
sono sempre stati frequenti come ci ricordano i vari autori: “vi si trovano tutto
giorno varie, e belle lapidi sepolcrali di genti distinte [...] e varie altre si suppongono esservi sotto le rovine di non piccol giro del distrutto paese [...]” (T.
Vitale); “i coloni di S. Eleuterio affermano che trovano continuamente tombe,
acquedotti, cuniculi, monete, iscrizioni lapidarie” (N. Flammia).
Ancora all’inizio degli anni ‘60 del XX secolo, Domenico Petroccia riportava, nell’opera “Origini e rovina di Aequum Tuticum”, notizie inerenti alle
importanti tracce del sito e visibili all’epoca: “sulla sommità del colle fu scoperto un pavimento a mosaico e notevoli strutture in fabbrica che si sviluppavano per la lunghezza continua di diecine di metri, come risultò da saggi di
AEQVVM TVTICVM
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Aequum Tuticum
Aequum Tuticum: le terme, in primo piano il frigidarium
scavi poi abbandonati[...]”.
“Ad est della contrada presso la rotabile si estende una vasta necropoli.
L’aratura in profondità ha devastato gli impianti sepolcrali, tanto che il terreno è ridotto ad un conglomerato di ossa umane e di animali, di frammenti
fittili e di pasta vitrea”.
“Nella zona della necropoli o al limite di questa dovrebbe esistere - secondo la testimonianza dei coloni - una vasta cisterna, che fu sommariamente
esplorata ed è ora ostruita”.
“Verso il declivio del colle - dall’altro lato della città - fu scoperto invece
un basolato antico, in parte visibile ancora oggi. Nei pressi c’era una colonna
rovesciata che sporgeva appena dal terreno: vi si notava l’inizio di un’iscrizione, che continuava sulla faccia interrata [...]”.
“La strada basolata, visibile a mezza costa del colle, poteva costituire il
pomerio con l’andamento delle mura meridionali; i quartieri orientali in pianura erano certo limitati dalla necropoli ivi esistente. Anche se dagli altri lati
manca ogni riferimento attendibile, l’impianto urbanistico risultava adatto ad
un centro di notevole importanza”.
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AEQVVM TVTICVM
Aequum Tuticum
“Nessun indizio abbiamo dei quartieri residenziali, che dovevano estendersi a mezzogiorno, sul declivio del colle: da quel lato infatti entrava la via
Traiana proveniente dal ponte di Santo Spirito, come dimostrano le tracce di
basolato ancora esistenti. Fuori la porta meridionale - quella senza dubbio di
maggiore importanza - esistevano, come era consuetudine, i monumenti funebri più rappresentativi. Oltre la cinta orientale delle mura esistevano sepolcri
di gente modesta, come dimostrano le epigrafi rinvenute in quella zona, dove
si estende anche una più antica necropoli”.
Futuri scavi potrebbero mettere in luce i resti della cinta muraria che, forse, cingeva il colle: anche se le fortificazioni sono quasi assenti nel territorio
di Caudini ed Irpini.
Alcuni resti di cinta muraria sono venuti alla luce a Bisaccia (la cinta muraria è stata smantellata in età moderna), in località Civita di San Sossio Baronia6, Monteverde, Lioni ed Atripalda, mentre sono maggiormente presenti nel
territorio dei Pentri, Caraceni e Frentani (a Sepino in località Terravecchia,
Boiano, Pietrabbondante, alture prospicienti le alte valli del Trigno, del Biferno, del Fortore, ecc.). Per quanto riguarda specificamente Aequum Tuticum si
potrebbe ritenere che fosse stata innalzata una palizzata lignea simile a quella
di Aeclanum, la quale nell’89 d.C. era difesa da mura “che erano di legno”
(Appiano, Bellum civile, I, 51), quando Silla l’attaccò nel corso della Guerra
Sociale.
Nel territorio safina, sinora, sono state accertate la presenza di oltre duecento costruzioni in mura poligonali. I Sanniti avrebbero appreso tale tecnica
costruttiva tramite i contatti con i Micenei, che erigevano Palazzi arroccati su
alture e difesi da possenti mura (Cavalluzzo - D’Amico).
All’indomani della guerra sociale (bellum sociale), nell’87 a. C., la città
fu iscritta alla tribù Galeria insieme alla quasi totalità dei centri irpini, ad eccezione di Aeclanum che fu assegnata alla tribù Cornelia.
Aequum Tuticum durante l’Impero Romano fu elevato a Municipium
e nel 41 d.C., insieme a tutta la Valle del Miscano, entrò a far parte, se non
dapprima, del territorio di Benevento.
Invece, secondo il Salmon, il territorio appartenente ad Equotutico “fu
diviso tra la colonia di Benevento e quella dei Ligures Baebiani”.
I municipi erano governati da un collegio di quattuorviri o di duoviri: due
iure dicundo (curavano la giurisdizione sia civile sia penale ed assegnavano
G. Troncone, Sulle tracce di Romulea, nell’antica Hirpinia, Internet, Corriere dell’Irpinia del 08.02.2011.
6)
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Aequum Tuticum
i lavori pubblici) e due aedili (essi si incaricavano delle necessità quotidiane
come gli approvvigionamenti e la manutenzione delle strade); era presente
anche un senato locale (ordo) composto da circa cento consiglieri (decurioni).
Il Pietrantonio ricorda che “i Municipii conservavano i loro culti locali ed
erano autonomi solo per l’amministrazione interna, non potevano confederarsi e, per evitare che ciò avvenisse, era loro proibito di comunicare su questioni
d’interesse comune e anche di celebrare nozze tra cittadini di luoghi diversi.
Dovevano inoltre fornire a Roma quel numero di soldati e di marinai che veniva richiesto dai consoli ed anche armi, navi, vettovaglie, ecc.”
Il sito della città oscoromana si trova nelle adiacenze del Regio Tratturo
Pescasseroli-Candela o Via della Lana: vi transitavano gli armenti ed ha il
suo punto di origine sul confine tra il tenimento di Gioia e Pescasseroli alle
sorgenti del fiume Sangro in località Campomizzo, mentre termina al pozzo
di S. Mercurio nel territorio di Candela (lunghezza: circa 170 km di verde
pascolo; larghezza originaria: 111,60 m.).
Altro nome dei tratturi era quello di “vie del sale”, che, nell’allevamento
dei caprovini, è essenziale per evitare prodotti caseari e lana qualitativamente
scarsi.
I tratturi, prima dell’esistenza di buone strade, costituivano le principali
vie di comunicazioni: nella romana Saepinum (odierna Sepino ubicata nel
Molise) il tratturo svolgeva il ruolo di decumanus della città.
Lo stanziamento antropico dei Sanniti era condizionato dalla estesa rete
dei percorsi naturali tracciati dal continuo spostamento stagionale degli animali in cerca di pascoli. Di conseguenza il loro sistema abitativo, come quello
difensivo, si estendeva lungo i tratturi con centri numerosi, anche se di piccola entità. I luoghi di culto e quelli per seppellire i morti, le aree di ricovero
e di raduno erano tutti posizionati lungo il percorso tratturale o nelle sue immediate vicinanze, dove costruirono anche magazzini, empori commerciali,
officine, abbeveratoi e stazzi.
E se è pur vero che vi furono alcuni centri di discreta grandezza e di densità abitativa superiore al villaggio, essi erano posizionati sempre lungo le
vie della transumanza o edificati intorno a particolari luoghi di raduno degli
armenti e delle mandrie. Nell’area safina sono stati identificati sinora 52 tracciati, con andamento
nordovest-sudest, tutti strettamente correlati con tratturelli, bracci consortili e snodi viari, che formavano una fitta ragnatela di percorsi (CavalluzzoD’Amico).
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AEQVVM TVTICVM
Aequum Tuticum
Aequum Tuticum rappresentava il vero nodo stradale dell’Italia romana
meridionale: vi passavano la Via Traiana, che da Benevento conduceva a
Brindisi, la Via Aemilia, che dalle Valli dell’Ufita e del Calore portava a
Lucera o ad Aufidena (negli Abruzzi) e collegava la stessa Aequum Tuticum
con il centro urbano di Fioccaglia di Flumeri, la Via Erculea (da Aufidena
conduceva a Potenza), che fu portata a termine al tempo degli Imperatori
Diocleziano (284-305) e Massimiano Erculio (286-310).
La Via Traiana fu realizzata dall’imperatore Traiano, dal quale prende
il nome, tra il 109 ed il 114 d.C.: essa era più breve rispetto alla Via Appia
Parte romana: ambienti interpretati come horrea o tabernae
e permetteva di risparmiare un giorno di marcia, facilitando anche il rifornimento agrario di Roma.
Nel medioevo la Via Traiana assunse il nome di Via Sacra Langobardorum, perché era percorsa dai Longobardi beneventani, i quali si recavano in
pellegrinaggio verso la Grotta di S. Michele Arcangelo, simbolo del “Guerriero di Dio” per eccellenza, sul monte Gargano.
Partendo da Roma per giungere a Brindisi si poteva seguire la Via Appia,
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Aequum Tuticum
regina viarum, fino a Benevento: poi ci s’immetteva sulla Via Traiana.
Il percorso completo era: Roma-Sinuessa-Capua-Benevento-Aequum Tuticum-Aecae-Herdonia-Canosa-Brindisi.
Un’ulteriore via, l’Aurelia Aeclanensis, costruita sotto Adriano ed Antonino Pio, collegava la Traiana con l’Appia e, quindi, Aequum Tuticum con
Aeclanum.
Per quanto riguarda la Via Erculea, nel 1984, fu ritrovato, su segnalazione dell’Ispettore Onorario per i Beni Archeologici Nicola D’Antuono un cippo miliare con la doppia distanza “Ab Aufidena LXXXIII” ed “Ab Aequo VIII”;
secondo il dottor Pasquale Ciccone il reperto non è una colonna, “bensì una
semicolonna [...] [che] doveva essere poggiata su di un piedistallo e applicata
contro una parete in un insieme monumentale”7.
Il cippo miliare è alto cm. 67, presenta un raggio di cm. 25, una semicirconferenza di cm. 74. Esso era stato rinvenuto già una prima volta nel 1962
nella località Pezza della Spina a 400 m. dalla Masseria Intonti e reca incisa
la seguente iscrizione:
DIOCLETIANUS……………..
AUG. ET IMP.C.M.AUR. VALERIANUS
MAXIMIANUS P.F.INVICTUS AUG.
(ET) FLAVIUS VALERIUS MAXIMA
NUS NOBILSS CAESARES
AB AUFIDENA LXXXIII
AB AEQUO M. VIII
Il cippo risale all’epoca dell’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.) e della
tetrarchia (l’impero romano fu governato da due Augusti - imperatori - e da
due Cesari).
Ancora all’età di Traiano, risale la Tabula alimentaria, un documento
ritrovato a Macchia di Circello (BN) nel 1831 di grande importanza per la
conoscenza della topografia irpina: ad esempio Aequum Tuticum è riportato
come Pagus Aequanus.
7)
Vedi Pasquale Ciccone, “Ab Aufidena LXXXIII Ab Aequo VIII”, in P. Ciccone, Ariano nel cuore, terzo
tomo, a cura di Aldo Ciccone, p. 213 e sgg., 2009. Su tale argomento Ciccone tenne una precisa ed
appassionata relazione sulla Via Erculea e su Aequum Tuticum letta durante il Convegno di Ariano
Irpino, Terrazze Hotel Giorgione e Palazzo Forte (16-17-18 marzo 1995) “Organizzazione del territorio
dell’Irpinia antica. Ricerche e scoperte nell’arianese”.
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AEQVVM TVTICVM
Aequum Tuticum
Mantenendo, in età imperiale il nome di Pagus, la città denuncia ancora
una volta la propria origine sannita: difatti, secondo il Salmon, il pagus al
tempo dei Sanniti era “l’unità politica al di sotto della tribù”, “un distretto rurale semindipendente, che si occupava di questioni sociali, agricole e
soprattutto religiose: è inoltre possibile che attraverso di esso avvenisse il
reclutamento militare”.
Il pagus, al pari del municipium romano, assolveva funzioni governative a
carattere locale. I membri del governo discutevano in assemblea le decisioni
da approvare, riunendosi in consiglio
(delecti pagi).
Nel suo ambito, come entità politica, includeva nel proprio territorio “villaggi circondati non da mura
ma da palizzate (vici), o nelle zone
montagnose, cittadelle circondate da
mura utili come rifugi (oppida, castella)” (Salmon).
In sintesi, si poteva considerare
il pagus come un gruppo di villaggi,
un distretto, un cantone, comprendente a sua volta delle unità diffuse,
i vici, equivalenti in ambiente urbano
a quartiere, in campagna a masseria,
podere (M. Romito).
La posizione geografica di AequMiliario della via Erculea 8
um Tuticum era importante sia perché rivolta ad Oriente, vale a dire verso la parte più ricca dell’Impero, sia
in quanto si trovava a metà strada tra Roma e Brindisi: precisamente a 185
miglia rispetto al percorso totale di 378 miglia; tutto questo, per l’intersecarsi
di strade verso varie direzioni, ne faceva un importante “cardo viarum”.
La città era dotata di mansio e mutatio: in essa vi erano alberghi, stallaggi
e diversi negozi per l’approvvigionamento da parte di mercanti, trasportatori,
funzionari statali e semplici passeggeri, così come avveniva per altri nodi
stradali. In essa erano stati predisposti, inoltre, locali appositi per le riparazioni e la manutenzione dei carri.
8)
Da www.corriereirpinia.it - 17.9.11, G. Panzetta, M. Tanga, Herculeia, una via dimenticata.
AEQVVM TVTICVM
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Aequum Tuticum
Ad Aequum Tuticum funzionava pure un servizio postale, difatti Cicerone
soggiornando a Laodicea in Asia Minore, nel 50 a.C., scrisse all’amico Attico
di non aver ricevuto una sua lettera speditagli da Equotutico.
Per tutte queste caratteristiche, la città, analogamente come in altre stazioni itinerarie, si presentava all’occhio del visitatore come un andirivieni di
persone addette a varie mansioni: stationarii (impiegati al cambio dei cavalli), muliones (addetti agli animali), mulomedici (corrispondenti agli odierni veterinari), stratores (incaricati di badare alle stalle), carpentarii (addetti
all’efficienza dei carri), ecc.
Fu centro di commerci importanti per la zona: i Sanniti si rifornivano di
equini, carni, prodotti caseari, ma soprattutto di cereali.
Altri autori antichi che menzionano la città, oltre a Cicerone, sono: lo
Pseudo Plutarco, il quale narra di un simulacro di Afrodite, come già riferito, portato a Roma dal console Fabio Fabriciano quando l’espugnò; Mauro
Servio, che nello scolio al verso 9, libro VII dell’Eneide, annotava Aequum
Tuticum tra le città fondate da Diomede nella Daunia e dintorni, Claudio Tolomeo, il quale la riporta nella Introduzione Geografica.
Proprio a Mauro Servio è da riferire la più tarda notizia della città in epoca
romana durante il dominio dell’imperatore Onorio (395-435 d.C.).
Anche tre itinerari antichi (l’Antoniniano, la Tabula Pentingeriana e l’Itinerario Gerosolimitano o Burdigalense), nonché la Cosmografia dell’Anonimo Ravennate dell’VIII sec. d. C. citano Aequum Tuticum con diverse varianti ortografiche.
Nel 37 a. C. partirono da Roma per Brindisi, Orazio, Mecenate, Virgilio,
Cocceo ed altri per il rinnovo dell’accordo politico tra Ottaviano ed Antonio.
Orazio nel resoconto del viaggio (nella Satira V) parla di: “un luogo (oppidulum) [non ben identificato] che il nome non puoi mettere in un verso”.
Alcuni autori antichi come Pomponio Porfirone, scoliaste di Orazio, credette
di identificare la località nascosta sotto la perifrasi in Aequum Tuticum.
Nel 1893, il Flammia smentì quest’ipotesi, proponendo Ordona, mentre
oggi si suggerisce la città di Ausculum (odierna Ascoli Satriano in Puglia).
Lo storico Tommaso Vitale nell’opera Storia della Città Regia di Ariano
e sua Diocesi (1794) riporta notizie su Aequum Tuticum localizzandola, tra
l’altro, esattamente a S. Eleuterio. Inoltre, menziona la già citata lapide relativa a Caio Ennio curatore delle terme ed il rinvenimento di una fornace romana “nella masseria Corsano di diretto dominio della Commenda di Malta,
verso Camporeale, nella contrada denominata Tivoli, e Figoli [...] colla bot-
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AEQVVM TVTICVM
Aequum Tuticum
Parte medievale: ripostigli
tega, e molti rottami di detti vasi; fra i quali uno intiero, quantunque piccolo
conservo presso di me”.
Altri personaggi nominati dalle epigrafi sono un decurione eclanese di
nome Marco Seio Massimo (CIL, IX, 1425) ed una Statia l. Helenia, che edificò un “monumentium sibi et coniugi suo et suis” (CIL, IX, 1921).
“A proposito della gens Seia occorre notare che si trattava di una stirpe
molto estesa nel Sannio da Larino ad Aequum Tuticum (Ariano Irpino) ed oltre, fino a Canosa. Cfr. C.I.L., IX, 398 (Canosa); 768 (Larino); 1425 (Aequum
Tuticum): sono ricordati rispettivamente L. Seius Eros, Q. Seius Pri... e M.
Seius Maximus” (D. Petroccia, Samnium, 1981).
Invece, la gens Statia, tipicamente irpina, era presente anche a Capua,
Lacedonia, Compsa e nei dintorni di Benevento. Un altro gentilizio attestato è
Seppius: esso era leggibile sulla lapide CIL, IX, 148, dove vi era una dedica al
Genio della colonia beneventana da parte di una liberta di C. Seppius (nome
di origine osca e diffuso anche a Frigento, Venusia e Benevento).
Altri nomi e gentilizi di cui resta memoria sono: Caerellius (CIL IX, 1443),
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Aequum Tuticum
Iulius (CIL IX, 1437), Marcius (CIL IX, 1439) e Octavius (CIL IX, 1442).
Con l’avvento del cristianesimo fu vescovo regionale della città S. Eleuterio martirizzato il 15 maggio del 305 d.C., sotto l’imperatore Diocleziano:
S. Eleuterio è da identificare con S. Liberatore, uno dei patroni arianesi; infatti, S. Liberatore (nome latino) corrisponde esattamente a quello greco di S.
Eleuterio9.
Il luogo del martirio fu invece nella contrada omonima “trovandosi in
quel luogo (contado) per ragioni del suo ufficio pastorale o per sfuggire l’ira
dei tiranni”.
La città, dopo il 476 d.C., ormai in piena decadenza, divenne un casale, il
quale fu citato per la prima volta nell’ottobre del 755, come possesso dell’abbazia beneventana di Santa Sofia col nome, già ricordato, di casale Ianensis.
In un diploma di Arechi II, nel quale il principe concedeva al Monastero di S.
Sofia di Benevento la chiesa di S. Maria si legge: “in finibus Ianensibus, locus
qui dicitur Lumianus”.
Il casale assunse più tardi, dall’anno 988, la denominazione di S. Eleuterio da una chiesa eretta in onore del santo: forse lo stesso edificio sacro, che
sorgeva nei limiti dell’attuale omonima masseria, ricordata in un catalogo del
XIV secolo.
Nella Cattedrale di Ariano Irpino è collocato un fonte battesimale, testimonianza d’epoca romana, adattatato a tal uso, con un’iscrizione dell’epoca
del Vescovo Mainardo (1070): in essa è ricordato il trasporto del fonte dalla
Chiesa, non ben identificata, dedicata al martire S. Ermolao.
Come riferisce Massimiliano Palinuro, S. Ermolao non è mai citato nei
titoli delle chiese di Ariano né nei dintorni. Pertanto, vista la posizione della
località di S. Eleuterio sulla Via Traiana, che la poneva in collegamento diretto con Benevento, ove S. Ermolao era venerato da epoca paleocristiana,
i cui resti mortali sono conservati tuttora nella Cattedrale della città, si può
supporre che “la chiesa battesimale di S. Ermolao, in rovina nell’XI secolo,
potrebbe essere l’antica cattedrale della comunità cristiana aequotuticana”.
Il casale di S. Eleuterio contribuì durante la III Crociata con tre soldati al
tempo del re di Sicilia Guglielmo il Buono (1153-1189) (G. Grasso).
Nel XIII secolo il feudo di S. Eleuterio era abitato: c’erano luoghi di culto
con numeroso clero come attesta un documento del 1292, nel quale abitanti
e chierici, per il tramite del vescovo di Ariano Ruggero de Vetro, ricorrono
9)
Sulla questione S. Eleuterio-S. Liberatore, tra l’altro vedi: M. Palinuro, San Liberatore e le origini
della chiesa di Ariano, 2006.
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AEQVVM TVTICVM
Aequum Tuticum
alla corte di Napoli per denunciare soprusi perpretati dal miles Giovanni de
Sabino (M. Palinuro).
Il feudo di S. Eleuterio fu donato da Federico II al vescovo di Ariano.
Nel 1303, la donazione di S. Eleuterio con altre terre, annessa alla contea di
Ariano, fu confermata con altre terre dal Conte Ermengardo De Sabram al
vescovo arianese Raimo.
La donazione avvenne dopo che fu esaudita una richiesta di grazia da parte
del conte rivolta a S. Ottone per far guarire suo figlio Elziario, futuro santo. Il miracolo è raffigurato nel pannello sinistro della statua d’argento di S.
Ottone: “in tempo di epidemia esso era gravemente malato ed in pericolo di
vita, quando il pio Ermengardo, suo genitore, fiduciosamente si rivolse a S.
Ottone, e ne ottenne la guarigione”10.
Ma nel 1344, alcuni pellegrini inglesi diretti in Terrasanta notarono l’abbandono dei luoghi e ne furono così sfavorevolmente sorpresi da ricordarli
nella loro relazione: “Inde ad Padolam inexpugnabilem, sanctu Archangelum,
sanctu Lucherum, Rypelongam, per via profundissimas, flexuostas ed multum litiosa usque Trogeam”. (D. Petroccia. 1962-63).
Successivamente S. Eleuterio ritornava in possesso dei conti di Ariano.
Nel 1452 Innico da Guevara, magnanimo nei confronti della Chiesa, fece
reintegrare i vescovi arianesi nel possesso del feudo di S. Eleuterio.
Il titolo di barone di S. Eleuterio assunto dai vescovi dopo l’annessione
definitiva alla mensa vescovile, fu conservato fino alla promulgazione del
motu proprio “Ecclesiae Sanctae” di Paolo VI (6-8-1966), che aboliva i titoli, mentre i vari terreni del feudo furono incamerate per le leggi eversive.
Nel 1564 ad Ariano esistevano due Ospedali per Pellegrini, uno nei pressi
della Porta della Strada, annesso alla Chiesa di S. Giacomo, ed un altro sulla
“Via dell’Angelo” ed esattamente sull’antica Via Traiana, che passava per
Aequum Tuticum come riferisce Ottaviano D’Antuono (2001).
Nel Catasto Onciario (1753-54 - Archivio del Museo Civico di Ariano Irpino) è scritto: “[...] da quella strada [...] che viene dalla Fontana di S. Maria
detta delle Cammarelle, dove era anticamente lo Spitale, e tira per quel vallone per finche giunge a Miscano [...]”
L’Ospedale sulla Via Traiana probabilmente sorgeva nelle vicinanze del
10)
Avvenimento contestato da M. Palinuro in San Liberatore e le origini della Chiesa di Ariano, 2006,
che in una nota a p. 42 scrive: “la pretesa donazione da parte del Conte Ermengao de Sabramo in
seguito ad un miracolo di S. Ottone è pura falsità tendente ad esaltare la pietà del padre di S. Elziario.
In realtà i documenti hanno gettato una fosca luce su Ermengao. Questi fu costretto dopo episodi di
vera guerriglia urbana a ratificare un diritto più antico della Chiesa arianese”.
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Aequum Tuticum
vallone che da S. Eleuterio scende al Miscano, solcando i terreni della Masseria di Macchiacupa.
Il termine “Cammarelle” ci riporta al periodo romano e si riferisce alle
“Cammere”, cioè ai locali che venivano realizzati per contenere l’acqua che
alimentava le fontane.
L’Ospedale ad Aequum Tuticum era situato in un posto di notevole importanza, derivata certamente dalla presenza di una ristoratrice e preziosa “fonte”.
Non potrebbe essere, prosegue sempre il D’Antuono, la “Fontana di S.
Maria delle Cammarelle”, la famosa “Camera” di S. Eleuterio che delimita
il nuovo territorio assegnata alla Città di Troia nel Diploma dell’anno 1024
degli Imperatori di Oriente Besilio e Costantino, inviato ai Conti di Ariano?
“Scilipet incipit a Camera Sancti Eleuterii, et vadit ad locum, qui vocatur bitruscellum, et indi iuxta fluvium discendendo vadit [...]”.
Scavi più recenti effettuati a S. Eleuterio hanno messo in luce, tra l’altro,
parti di un edificio termale risalente al I sec. d.C.
La maggior parte delle costruzioni individuate vanno dalla seconda metà
del II sec. d.C. fino alla seconda metà del IV e V sec. d. C.
Un evento tellurico causò ingenti danni al sito in età tardoantica (metà IV
sec. d.C.): forse lo stesso terremoto che nel luglio del 369 d.C. colpì Aeclanum; anche qui l’evento fu catastrofico, come si legge su un’epigrafe eclanese, che cita un certo Umbonio Mannachio, di rango senatorio, definito “fabricatori ex maxima parte etiam civitatis nostrae”.
In seguito, a S. Eleuterio, vi fu una ripresa edilizia testimoniata dal ritrovamento di un ambiente con uno splendido mosaico policromo geometrico.
Sono venute alla luce, inoltre, ceramiche, monete tardoantiche ed ambienti
allineati a schiera che possono essere visti come horrea (locali per deposito
di prodotti quale il grano) oppure come tabernae (locali commerciali).
Sempre alla seconda metà del II sec. d.C. sono riferibili due tombe ad inumazione, indizio di una necropoli posta al lato sud della Via Traiana.
Ad una rioccupazione del centro in età medioevale (epoca angioina) si
riferiscono alcuni ambienti che inglobano i muri romani, ruotandone l’orientamento di 45º, alcuni dei quali comunicanti e disposti intorno ad un cortile
centrale pavimentato.
Il cortile è dotato di un pozzo per la captazione delle acque: ciò presuppone una disposizione in isolati dei vari edifici.
La rioccupazione del luogo è riportata dal Vitale: il 3 settembre 1269 il
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Aequum Tuticum
Parte medievale: pozzo per la captazione delle acque
re Carlo I d’Angiò deliberò che gli abitanti di S. Eleuterio potevano ritornare
nelle loro case abbandonate nel 1255; ciò fu possibile dato che il re aveva
debellato la minaccia dei Saraceni eliminando la loro colonia a Lucera.
La frequentazione di S. Eleuterio si protrasse fino XV sec. durante il quale
un altro terremoto (1456) determinò la fine di questo importante insediamento, di cui Ariano ne rappresenta l’erede storico.
I rinvenimenti di parti di piatti, coppette e brocche coprono, appunto, un
arco temporale fino al XVI secolo (O. D’Antuono, 2008), con una cospicua
rappresentanza relativa ai secoli XIII-XIV secolo: periodo appartenente alla
Protomaiolica, contraddistinto dai colori bruno manganese, verde ramina e
giallo ferraccia.
La Protomaiolica è una classe ceramica che compare in Italia nel XIII
secolo: essa si identifica per una invetriatura a base stannifera, coprente (M.
D’Antuono).
Nel luglio del 2013 l’intero lapidarium di Aequum Tuticum (circa 40 manufatti), con alcune lapidi inedite provenienti dalle masserie limitrofe come
quella di S. Donato, è stato collocato all’ingresso e all’interno del Castello di
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Ariano, in modo da rendere più visibile e conosciuta la storia del sito sannitaromano. Reperti che integrano quelli esposti nel Museo Archeologico in Via
Donato Anzani di Ariano Irpino nel palazzo omonimo.
Dopo il sisma del 1456 “la baronia di S. Eleuterio non ebbe più storia ed
il casale scomparve del tutto. Rimase l’altopiano assolato e desolato” (Petroccia), ove “nel silenzio par di sentire ancora il vocio e le grida dei Sanniti
riuniti in assemblea”. Se vogliamo, però, rimuovere l’oblio del tempo e degli
uomini da questo importante sito archeologico bisogna riprendere gli scavi
per evidenziare le strutture più antiche ed ampliare l’esigua area esplorata;
oggi più che mai sono attuali le parole del Vitale, il quale ricordando Aequum
Tuticum affermò: “il di cui sito per la varietà, e vicende del tempo, che tutto
divora e consuma, trovasi sottomesso con dispiacere degli Amatori dell’Antichità alla coltura, ed all’aratro”.
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Aequum Tuticum
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Aequum Tuticum
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Il realismo magico del Parzanese
Il realismo magico
del Parzanese
Una umanità vera e dolente,
trasfigurata dalla fantasia
di Tonino Capaldo
Per il Bicentenario della nascita del poeta arianese
Grottaminarda (Av), gennaio 2009
L
a vita e le opere del Parzanese presentano, come quelle di tanti altri
autori, mille sfaccettature e mille angolazioni
e pongono, da sempre, una serie di problemi,
che si snodano l’uno dall’altro, come tante
scatole cinesi.
Avventurarsi su questa strada, e sollevare
altre diatribe su problematiche e aspetti già
dibattuti diffusamente in passato dal fior fiore
degli studiosi, esula dallo spirito e dalle finalità di questo intervento, che nella proposizione
del tema e nel suo sviluppo intende sottolineare, da un altro punto di vista, valori e portata
dell’opera del Nostro.
Nello stesso tempo, sul piano divulgativo, intende offrire un piccolo contributo per stimolare innanzi tutto le nuove generazioni ad avvicinarsi alla
vita, alle opere, all’esempio di quanti, in tanti modi e in ambiti diversi, hanno
dato il meglio di sé per una società e un mondo a misura d’uomo, in cui amore, solidarietà, giustizia, libertà, tolleranza, progresso (inteso in senso morale
e intellettuale, prima che scientifico ed economico); affrancamento dai bisogni, dalle paure, dalle malattie e dall’ignoranza non siano chimere, vuote
teorie e vane parole.
Ripercorrendo le Memorie della mia vita, scritte dal Parzanese nel 1851
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Il realismo magico del Parzanese
(un anno prima della morte), si resta colpiti, fra le altre cose degne di nota,
dalle frequenti osservazioni antropo-psicologiche di cui il testo è intessuto. Il
nostro Autore, infatti, è un attento osservatore non solo di individui, ma di intere comunità, con le quali venne a stretto contatto per necessità, per naturale
predisposizione e per il suo magistero di educatore, sacerdote, predicatore;
ruoli che “in tempi di grandi rovesci”, come già era capitato al suo buon
vescovo, gli diedero “occasione di farsi esperto delle miserie, viltà e scelleraggini degli uomini”, certo non da protagonista, ma in qualità di vittima e
testimone della “tristizia dei tempi”.
Infermo e sofferente sin dall’infanzia, umiliato e piagato (ma non piegato)
dalle percosse dei “più forti” (padre, maestri, coetanei), segnato dalla malinconia e dall’infelicità, incompreso anche dalle persone più care, il 18 agosto
1851 inizia a scrivere le Memorie della sua vita “perché un giorno abbia ad
essere conosciuto qual mi sono e non qual mi son venuti figurando amici e
nemici”1.
Dà voce, così, al tormento di un’anima, da sempre reclusa in un ambiente, geografico e culturale (il villaggio), troppo ristretto e opprimente per uno
spirito libero e ribelle.
Sentendo avvicinarsi, prematuramente, l’ora estrema, si confessa davanti
a Dio, prima che davanti agli uomini, con parole nelle quali “mi si avrà a
vedere dentro e fuori senza orpello e senza inganno”. Dall’intimo profondo
prorompe la verità, in cui l’anima splende come in “corpo chiarissimo di
cristallo”.
È l’ora in cui si aspetta con serenità il giudizio di Dio, di fronte al quale
è insignificante il giudizio degli uomini, “tutti, qual più e qual meno, matti,
ingiusti, bugiardi ed invidiosi”.
La “galleria” dei tipi umani, unici e diversi, si apre con i “profili” delle
persone a lui più vicine (non sempre le più care!).
Ecco, per prima, venirci incontro la figura dell’avo paterno, ben delineato da due soli aggettivi: “risoluto e bizzarro”, cui segue quella del padre,
Giuseppe Parzanese, “uomo di poco cervello, ma leale, onorato e religioso
quanto si può credere”.
1)
Anche gli scritti in prosa del Parzanese risultano alquanto elaborati sotto l’aspetto formale. Uno studio
accurato sullo stile e sulla lingua del Nostro consentirebbe di cogliere, al di là degli aspetti puramente
tecnici (presenza ricorrente di versi nel periodo; accordi ternari, aggettivazione binaria; andamento
oratorio; ritmo; cesure, ecc.) altri particolari della sua personalità e altre peculiarità della sua arte
(prestiti, citazioni; imitazione, innovazione; originalità, creatività nell’uso degli strumenti espressivi).
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Il realismo magico del Parzanese
Armonioso, toccante per il tono intimistico e poetico, è il “ritratto” della
madre, Giovanna Farétra di Grottaminarda, negli anni della puerizia soppiantata dall’amore smisurato che al piccolo Pietro Paolo portavano l’ava paterna,
Serafina Cardinale (“donna ch’era stata, tra le arianesi bellezze, famosa”) e
l’avo paterno Antonio (“destro, acuto, sciupatore del suo e dell’altrui”).
“Cotesti due, che io piangerò finché avrò fiato, mi erano larghi di tante
cure e carezze, da persuadermi di essere loro figliolo; ed io mel credei; e più,
perché mia madre mi si mostrava sempre dura ed accigliata. Allora io non
sapeva quanto l’avrei amata immensamente” (stupendo endecasillabo!).
La madre, “nata da onesta ed agiata famiglia, era donna d’ingegno pronto e sottile, spedita parlatrice, e di belle e fiere sembianze.
Il cuore ebbe affettuoso, l’anima nobile; e se fosse stata per poco allevata
con qualche studio, sarebbe stata donna rarissima, e senza quei pochi difetti
propri degli animi, come il suo, intolleranti e vivaci”.
Questo rapporto così intenso con la madre non può non richiamare alla
mente quello non meno sofferto e profondo che il più famoso P.P.P. ebbe con
la sua genitrice:
“Tu sei la sola al mondo
che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre,
prima d’ogni altro amore.
Sei insostituibile!
Per questo è dannata alla solitudine
la vita che mi hai data”2.
Supplica alla madre, da Poesia in forma di rosa (1964) di Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 - Ostia,
Roma, 1975) - scrittore, poeta, regista cinematografico e teatrale italiano. Trascorse l’infanzia e la
prima giovinezza in Friuli; nel dialetto di questa regione scrisse le Poesie a Casarsa (1942) e La
meglio gioventù (1954). Per alcuni anni insegnò nelle scuole statali, ma nel 1950, per sfuggire allo
scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si trasferì con la madre a Roma
dove visse tra gli emarginati delle borgate. Da questa esperienza nacquero i romanzi Ragazzi di vita
(1955) e Una vita violenta (1959), che procurarono all’autore una contrastata notorietà. Continuò a
scrivere poesie: Le ceneri di Gramsci (1957), l’Usignolo della chiesa cattolica (1958), La religione
del mio tempo (1961); Il sogno di una cosa (1962), Poesia in forma di rosa (1964), Trasumanar e
organizzar (1971) e a pubblicare articoli di critica letteraria e saggistica politica sui principali giornali
e riviste. Per il suo impegno sociale e politico e per il suo anticonformismo fu in modo controverso
al centro della vita culturale italiana degli anni Sessanta e Settanta. Nel cinema Pasolini operò a
partire dal 1954 prima come sceneggiatore, poi come regista (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962)
reinventando un linguaggio cinematografico autonomo di alta qualità figurativa. Il linguaggio di P.
approdò a risultati più compiuti ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), in cui l’armonica fusione del
2)
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Il realismo magico del Parzanese
Questo ritorno alla madre, come alla più ferma sicurezza degli affetti della
vita, come a colei che, inspiegabilmente, conosce e comprende e ama i più riposti sentimenti che attraversano l’animo/a di un figlio (da quando è bambino
a quando diventa adulto), è un leit motiv ricorrente in tutti i tempi, in tutti i
luoghi e presso tutte le civiltà e ceti sociali. Passare in rassegna o solo accennare alle migliaia di studi ed esempi anche artistici rintracciabili su questo
tema sarebbe un lavoro interessante, ma senza dubbio dispersivo.
Pertanto, a titolo esemplificativo, mi preme riportare la testimonianza
di un altro Grande (le cui vicissitudini umane, politiche e culturali costituiscono un patrimonio civile e didascalico-morale per tutti), perché fornisce,
indirettamente, anche una conferma della notorietà del Parzanese in ambito
nazionale alla fine dell’Ottocento.
Antonio Gramsci, pensatore e uomo politico, internato nelle carceri fasciste dal 1926, in una bellissima lettera alla mamma del 15 giugno 1931, ricorda
con dolcezza e gratitudine gli anni in cui, alunno dei primi anni della scuola elementare, tornato a casa, trovava nella figura della madre una seconda
maestra, sempre premurosa, paziente e disponibile a seguire i figli nel fare i
compiti, correggere, spiegare, ascoltare.
“Ci hai aiutato a imparare a scrivere; e prima ancora ci avevi insegnato
molte poesie a memoria; io ricordo ancora Rataplan e l’altra
“Lungo i clivi della Loira
che qual nastro argentato
corre via per cento miglia
un bel suolo avventurato”3.
Scommetto che il ricordo di Rataplan e della canzone della Loira ti faranno sorridere.
cinema con la letteratura, la pittura e la musica diede l’avvio a quel “cinema di poesia” di cui P.
doveva essere in Italia uno dei più convinti teorici: Uccellacci e uccellini (1966), Edipo re (1967),
Teorema (1968), Medea (1969), Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle
Mille e una Notte (1974).
3)
I versi, liberamente citati da Gramsci, sono il principio del poemetto Le due madri di Arnaldo Fusinato,
scrittore e patriota (Schio 1817 - Roma 1889); volontario nel 1848, dettò il Canto degli insorti che gli
dette subito notorietà come poeta patriottico; l’anno dopo partecipò alla difesa di Venezia scrivendo,
in tale occasione, i famosi versi A Venezia. È di questi anni la sua intensa attività giornalistica che,
stroncata a Venezia dall’Austria, riprese poi efficacemente a Milano nella redazione de Il pungolo.
Sensibile all’influsso di Giusti, scrisse Poesie politiche, Poesie giocose e Poesie serie (1853-1854),
tutte caratterizzate da una facile vena poetica e da un genuino impegno umano e politico.
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Il realismo magico del Parzanese
Eppure ricordo anche quanto ammirassi (dovevo avere quattro o cinque
anni) la tua abilità nell’imitare sul tavolo il rullo del tamburo, quando declamavi Rataplan.
“Rataplan! Perché guarda la gente
a vedermi appoggiato al bastone...?
Alto là: sono un vecchio sergente,
e so dirvi che voce ha il cannone...!
Presto, avanti! E si andava a battaglia,
come al ballo cantando si va.
Parea pioggia di fior la mitraglia,
Rataplan, rataplan, rataplà”4.
Del resto tu non puoi immaginare quante cose io ricordo in cui tu appari
sempre come una forza benefica e piena di tenerezza per noi”5.
Amore, grazia, angoscia e solitudine. Un filo rosso accomuna sempre i
poeti dell’anima, un unico e sempre diverso modo di sentire la vita, di vivere
passioni esclusive.
Proprio dalla complessità della vita e della “storia di un’anima” occorre
partire per meglio comprendere la sincerità dell’ispirazione e l’originalità dei
sentimenti e dei modi espressivi, per non lasciarsi fuorviare, nel godimento e
nel giudizio estetico, dalle reminiscenze e dalle suggestioni letterarie sempre
presenti in tutti gli autori, ma liberamente e diversamente rielaborate nel momento creativo.
Pietro Paolo Parzanese: Il vecchio sergente, da Canti del Viggianese (storia di canti e cantastorie) –
1846.
5)
Antonio Gramsci - Uomo politico e pensatore (Ales, Cagliari, 1891 - Roma 1937). Vicino in gioventù
all’autonomismo sardo, frequentò l’Università di Torino dal 1911, avvicinandosi alla milizia socialista
e rivoluzionaria. Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (PCd’I) e nel 1924 fu eletto
deputato. Dopo il delitto Matteotti, la soppressione delle libertà costituzionali e l’instaurazione della
dittatura fascista, fu arrestato nel novembre del 1926 con altri dirigenti del partito e condannato dal
Tribunale speciale a venti anni di reclusione per attività cospirativa. Detenuto nel carcere di Turi,
nel 1934, per le condizioni di salute aggravatesi durante la reclusione, fu ricoverato in una clinica di
Formia dove si spense nel 1937. La pubblicazione degli scritti politici, le Lettere e i Quaderni del
carcere hanno avuto grande rilevanza nella cultura italiana del dopoguerra. Prevalentemente ispirati da
esigenze ermeneutiche, i Quaderni iniziano un’indagine di ampio respiro critico su molti aspetti della
società, della storia e della cultura moderna. Rilevanti gli approfondimenti su altri temi quali la storia
degli intellettuali italiani, il pensiero politico di Machiavelli e il rapporto tra letteratura e società; sul
terreno propriamente filosofico, il serrato confronto con B. Croce si accompagna con un’interpretazione del marxismo in chiave storicistica e antideterministica (“filosofia della praxis”), lettura che pone
al centro della riflessione l’attività umana come è storicamente determinata e l’insieme dei concreti
rapporti (economici, sociali, ideologici, giuridici, ecc.) che legano gli uomini tra di loro.
4)
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Il realismo magico del Parzanese
Alla base del mondo artistico del Parzanese c’è un’umanità dolente e infelice, un’infanzia e un’adolescenza provate da miseria, percosse, umiliazioni;
una vita, brevissima, gettata nel crogiuolo ardente delle passioni, fra tante
persone reali, di ogni ceto e cultura, con i loro vizi, virtù, sogni e speranze,
ambizioni, intrighi, superstizioni, ipocrisie...
C’è, insieme, l’esigenza forte e incontrollabile del poeta di trasfigurare
questa realtà, di elevarsi senza evadere, di vivere in una dimensione spirituale
di libertà, giustizia, amore, pace e fratellanza. C’è l’anelito, sempre presente
nei grandi spiriti, di affrancare i sentimenti dai limiti della corporeità e della
quotidianità, sottraendoli, attraverso la magia dell’arte e della poesia, alla caducità del tempo e delle cose.
Dai vari scritti in prosa (Memorie, Lettere, Viaggi, ecc.) del Parzanese
emerge anche un prezioso spaccato delle comunità locali, delle classi del popolo e dei ceti dominanti; uomini e ambienti ben caratterizzati e ben resi,
nelle varie sfumature, con maestria, con discreto e suggestivo realismo, con
partecipazione e sensibilità non comuni, spesso con sofferta rabbia e indignazione, da cui scaturiscono, anche nei riguardi del clero “numeroso ed incolto”, parole sferzanti di disapprovazione e di condanna.
“Non so a quanto di bene possa riuscire un prete, che solo per amor di lucro fa le viste di consacrarsi a Dio; e che senza studi, senza nobiltà di affetti,
senza altezza di animo, assaporando appena un po’ di teologia pratica, vive
con lucri e stipendi inferiori a quelli degli artigiani, rompendo ad ora ad ora
la pigra sua vita con rumorose e sozze scampagnate.
È da piangere, quando si considera che di circa ottanta preti che siamo,
non ve ne son due che valgano a fare da maestri nel seminario, né uno solo
che abbiasi letta una volta la Bibbia: cosa incredibile, ma vera!
Quindi non può non essere che questa gente sia ambiziosa, ipocrita e,
quel che è peggio, nemica a morte delle lettere e dei letterati.
Dei pochi preti buoni dirò più avanti, ma troppo pochi, e questi medesimi
o ignoranti , o di scarsa dottrina”.
Emerge qui, in modo evidente, un Parzanese alquanto inflessibile nel giudicare scelte e comportamenti opportunistici, messi in atto da chi dovrebbe
essere di buon esempio e guida morale, ma che non ha né la vocazione né
adeguata formazione culturale o apertura mentale verso il nuovo e verso le
lettere e le scienze.
È ormai comprovato, al di là delle teorie e degli studi svolti in proposito,
che nell’infanzia c’è già, in nuce, quella che sarà la vita di un adulto; ovve- 44 -
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Il realismo magico del Parzanese
ro che i fattori ereditari, le condizioni socio-culturali, l’ambiente, gli affetti,
le cure, le amicizie, l’educazione e l’istruzione ricevute nell’infanzia, nella
maggior parte dei casi, segnano e condizionano lo sviluppo, la realizzazione
di ogni uomo, con le sue specificità e potenzialità.
Non si tratta di “predeterminazione” o di “determinismo”, ma è indubitabile che ogni elemento, ogni circostanza, umana e naturale, con cui interagiamo nei primi anni della nostra formazione, ha il suo peso e la sua influenza.
A tal proposito, vediamo come il Parzanese rievoca la sua infanzia “irrequieta e travagliata da continue infermità”.
“Fatto fanciullo, mi ricordo di aver avuto le notti agitate e tetre; spesso,
svegliatomi di balzo con grave peso al cuore, tremando di strane e bieche
paure.
Forse al mal di nervi, che fin d’allora mi travagliava, aggiungevasi per
mio danno l’udir che faceva certi brutti racconti di orchi, streghe e versiere
(megere) che tutto mi riempivano di terrore, ed ebbero a spaventarmi fino
alla matura adolescenza.
Pur tutta volta, in quella solitudine di notti vegliate, vagava non senza
diletto con la mia fantasia, figurandomi cose strane e sopra natura... Come
portava la mia condizione e la ragione dei tempi, venni allevato con poca
cura, e più che altro a furia di busse e di picchiate, che toccava non di rado
dai miei educatori e parenti.
Ricordomi, tra le altre cose, fatto non so che sconcio fanciullesco, mio
padre aspettò che fossi andato a letto, dove con bestiale mattezza mi percosse
ignudo com’era (ero) con un gruppo di funicelle, tanto che mi si ebbe poi a
medicare i lividori a sale e aceto, come suol farsi agli asini ed altre bestie. Di
che ho sempre conservata fiera ed odiosa memoria”.
Parimenti, dei maestri e dei primi sette anni di scuola il Parzanese non
conserva un piacevole ricordo:
“Se l’amore dello studio non mi fosse stato connaturato nell’animo avrei
- egli dice - gittato via i libri e datomi al vizio perdutamente”, per colpa di
uomini ignoranti e violenti, che riuscivano a rendere tenacemente “odioso e
fastidioso lo studio”.
Ecco la “galleria” dei suoi primi maestri.
“Il primo maestro che mi fu dato fu un vecchio monaco francescano detto
P. Benedetto da Bonito, uomo di grossa ignoranza e di poco santi costumi;
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Il realismo magico del Parzanese
pur tutta volta mi volle del bene assai, vedendomi leggere e scrivere speditamente e con un garbo che in tutta la mia vita mi fece poi tenere uno dei più
gentili ed animosi leggitori che mai fossero.
E la mia svegliatezza tirò tanto l’attenzione del mio maestro, che un dì,
mostratomi a quei frati che andavano per la maggiore, questi restarono stupiti, e pregavano Dio che mi fossi renduto monaco per crescere splendore e
riputazione al loro ordine, già per le napoleoniche guerre e coscrizioni venuto stremo di buoni e valenti uomini. Forse che sarebbe stato ciò il mio meglio,
e molte e gravi noie della vita avrei schivate...
Dalla scuola del P. Benedetto mi fu mestieri passare a quella del sacerdote Raffaele Ciaburri, di Grottaminarda, dove con mia madre dimorai per
due anni l’agosto ed il settembre, mesi assegnati a riscuotere quel poco danaro che ci veniva dal meschino nostro negoziuccio. E non che andassero
meglio i miei studi, cascai, come suol dirsi, dalla padella nella bragia. Fiero
ed arrabbiato pedante era Don Raffaele, il quale, non guardandomi come il
mio vecchio maestro, in capo a cinque dì, per non aver io saputo recitargli la
definizione del participio, fattomi ingroppare un compagno, mi contò sul mio
di dietro una dozzina di percosse con una spranga di legno; di che vissi più
tempo pesto e addolorato”.
La descrizione della scuola, oltre a svelare quanto di poco “idilliaco” ci
sia stato nella fanciullezza e nella vita reale del Parzanese, per la sua crudezza
ed essenzialità espressiva pare uscita dalla penna di uno dei migliori narratori
ottocenteschi dei drammi, miserie e ingiustizie che affliggevano le classi più
deboli e più povere della società del tempo in Europa (si pensi, per esempio,
al Dickens6 del Circolo Pickwik e di Olivier Twist).
“La scuola era un porcile, dove la ragazzaglia più ribalda dei trivi e delle
taverne sedeva insieme a’ polli ed ai conigli del reverendo.
Io poveretto, che per essere di volto e di modi alquanto delicato e gentile,
6)
Charles Dickens - Scrittore (Portsmouth 1812 - Londra 1870). Sin dall’infanzia, povera e infelice, fece
precoci esperienze in umili lavori e visse a contatto con il popolo londinese. Nel 1833 uscirono sul
Monthly Magazine i primi Sketches by Boz (raccolti in volume nel 1836). The Pickwik Club (1837),
pubblicato a dispense mensili, come poi la maggior parte delle sue opere, gli procurò fama e fortuna
immediata; i personaggi incarnavano in modo spontaneo i lati più tipici e costanti del temperamento
inglese, e la tecnica era quella cara al Dickens: l’improvvisazione di episodi e scene intorno a un
gruppo di personaggi, ritratti ognuno con sottile umorismo e grande incisività. Con Oliver Twist
(1838), A Christmas carol (1843), David Copperfield (1850) si confermò il romanziere più popolare
dell’Inghilterra.
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Il realismo magico del Parzanese
non mi acconciava troppo con que’ dissolutacci, n’era schernito, sputacchiato e peggio.
Solamente un Francesco Barrasso, giovane buono e membruto, mi trattava onoratamente e con affetto ossequioso; e poi che io ebbi acquistato un po’
di nome con l’andare degli anni, egli già fatto padre di molti figli rallegrasi
ogni volta che in me s’incontra, e mi onora con affetto di fratello”.
Ma se quella crudele stagione dell’infanzia ha lasciato nel Parzanese segni indelebili e ferite profonde, che nemmeno il tempo è riuscito a sanare, la
sua visione “romantica” della natura e del paesaggio conserva ancora la sua
freschezza, la sua innocenza, la sua ricca gamma di sentimenti, che spaziano
dallo stupore alla malinconia, dal piacere del ricordo all’amore per tutte le
creature.
A questo punto il ritmo rievocativo diventa meno teso e accelerato, assumendo la cadenza ampia e pacata del lento musicale.
Ecco, così, una stupenda pagina sulle bellezze della natura, in cui si armonizzano mirabilmente, come in una piccola sinfonia, elementi visivi, sonori
e spirituali.
“Ne’ pochi mesi che mi trattenni in Grottaminarda incominciai a sentire
le pacate e schiette bellezze della natura, essendo a ciò assai acconcio quel
villaggio dov’è tanta pompa di verdura, e correr di fiumi, cader di cascatelle,
e colline e burroni amenissimi; senza dir nulla di quelle malinconiche sere
autunnali che le case di campagna fumano su per il dosso de’ monticelli e
nelle pianure.
Di due cose specialmente mi ricordo sempre con diletto: di una luna che
vedeva (vedevo) fuggire dietro una fila di pioppi come iva innanzi il cocchio
che ci portava; e della devota chiesetta di Maria di Carpignano, posta tra
due siepi in campagna con una fontana che mormora continuamente innanzi
al piccolo santuario.
Delle quali naturali bellezze sentivami così fortemente preso, che, nel dovermi rendere in patria, piangendo mi accomiatai dagli alberi e dai fiori che
era (ero) uso vedere ogni dì.
Di che accadde che le mie poesie giovanili, povere di ogni pregio, questo
han di buono, che vi si respira per entro il profumo di coteste bellezze, e l’innocente amore di tante gentili creature”.
La poesia, intanto, incominciava a sbocciargli nell’anima, “come un fiore
occulto” persino a lui stesso. Alle notturne fantasie e all’amorosa corrispon-
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Il realismo magico del Parzanese
denza con tutte le creature si unisce il richiamo ineludibile “a cantare i dolori
della Vergine; ed il feci in pochi mestissimi versi con un paragone che poi ho
trovato nei più grandi poeti antichi e moderni, ma che allora non solo non
aveva letti, ma nemmeno sentiti nominare”.
Toccante è la rievocazione della sorella Nicoletta, più grande di lui di due
anni. Poche espressioni, intimistiche e poetiche, bastano a tracciarne la figura
affettuosa, di un candore ineffabile.
“Mostrai i miei versi a Nicoletta mia sorella; fanciulla di mente svegliata
ed accorta e giudiziosa leggitrice. Da lei, che per un tempo mi amò con assai
affetto, appresi più molto che da tutta la plebe de’ miei primi maestri”.
Un breve flash back su una forte emozione provata all’età di nove anni,
quando il poeta fu condotto al teatro dei burattini: “Maggior contento di quel
che gustai non proverò altra volta in vita mia. Era (ero) tutt’occhi, il cuore
mi batteva forte; non dormii più notti ripensando a quel che aveva (avevo)
inteso e veduto. Ma il ceffo del mio pedante valse a cavarmi di capo queste
care fantasie”7.
Parzanese, in altri scritti, rimarca l’arretratezza e l’inadeguatezza della
scuola del tempo nel regno dei Borboni di Napoli, lasciata, specialmente per
l’istruzione delle classi più basse, nelle mani di un clero “rozzo ed incolto”;
una scuola nozionistica, ripetitiva, violenta nei metodi e nell’approccio con
gli educandi, limitata e riduttiva per i contenuti e per gli insegnamenti che vi
si impartivano.
“Nell’Alemagna - annota amaramente nel Viaggio a Bagnuolo del 1835
- vige l’usanza di far apparare (imparare) alla classe de’ contadini e degli
artigiani non solo il saper leggere, lo scrivere e l’aritmetica, ma la musica
pure, un poco di disegno ed il ballo; e spesso avviene che un borghigiano vi
reciti i più belli versi di Schiller. Genti benedette!”.
Sempre sospeso fra Cielo e terra sin dall’infanzia, il poeta, ancora fanciullo, dal mondo dei sogni ad occhi aperti fu ricondotto alla realtà, anche stavolta
in modo brusco, da “un vecchio arciprete, Carlo Aliprandi, famoso tra la
gente per indole bizzarra e manesca, gran bevitore di vino, lingua sporca di
7)
Il Parzanese, in realtà, non si tolse mai dalla testa la passione per il teatro. Declamava versi già a
dieci anni; a sedici, nel teatro comunale di Benevento, improvvisò una tragedia, intitolata “Sedecia”.
Nella vasta e varia produzione del Parzanese si annoverano anche le tragedie: Giulietta e Romeo,
Sordello ed Ezzelino, Ituriele.
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Il realismo magico del Parzanese
tutte le nefandezze del trivio.
Dicono i suoi scolari (tutta schiuma di bricconi) che nello esporre la
teologia morale adoperasse un linguaggio da bordello, non solo toccando
materie sozze, ma (quel che fa orrore!) eziandio nel trattare de’ più augusti
sacramenti...
Io, condannato a stare i lunghi dì nella casa di lui, sfogava la mia ira
sfondando quadri e correndo s’ soffitti, onde poi venivano le busse, i digiuni
ed altri castighi.
Un dì, fra gli altri, non so per che cagione cotesto fiero Minosse mi flagellò tanto e sì crudelmente, che, presane una colica, ebbi per nove anni a
sentirmene travagliate le viscere; e se non ne morii fu miracolo...”.
Orbene, risulta evidente che, mentre nella poesia del Parzanese tipi e persone reali vengono, in un certo qual modo, nobilitati e assurgono a simboli,
metafore, figure esemplari, nel campo della prosa invece, pur depurata in parte delle scorie, una umanità varia, dolente o violenta, cui il poeta ha pagato
lo scotto o con cui è venuto a contatto nella sua vita, vien fuori in tutta la sua
corporea evidenza.
Una teoria interminabile di uomini e donne, intere comunità ci scorrono
davanti: maestri, ecclesiastici, borghesi e nobili, artigiani e lavoratori della
terra, popolani e popolane, viandanti, lazzari, soldati, suonatori, mendicanti,
bambini abbandonati, poveri, malati, ciechi, sordi, storpi…
Rudimentali, ma sintetiche ed efficaci “radiografie” di anime…
Un caleidoscopio umano dalle mille forme e dalle mille facce, costumi,
comportamenti, sensibilità…
“I miei compagni erano una ragazzaglia nuda e scostumata; come poi
non mi si fosse guastato il cuore in tanta bassezza e viltà io non so dirlo. Pure
incominciai fin d’allora ad amare i figliuoli de’ contadini e degli artigiani, e
ad osservare con riverente compassione gl’infiniti travagli dei poveri.
Intanto, “secco e sparuto, con due occhiacci pieni di passione e di sgomento”, vivendo lontano “da’ trastulli puerili” e immerso nella sua connaturata malinconia, il Parzanese, nel novembre del 1820, entrò nel Seminario,
un po’ per carità del Vescovo ed un po’ per i saggi risparmi fatti dalla madre.
Anche le pagine dedicate alla vita nel Seminario (che presentano spunti,
evidentemente emotivi e non programmatici, di denuncia sociale dell’infanzia rubata) sono degne della migliore tradizione narrativa del Primo Otto-
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Il realismo magico del Parzanese
cento, e a pieno titolo potrebbero rientrare nel genere del diario o romanzo
autobiografico-psicologico.
“Sozzo e barbaramente condotto era quel luogo, a me riuscì sopra ogni
modo tetro e pauroso; e quel ch’è peggio, entratovi con l’anima pura e candidissima, in poco tempo l’ebbi, per l’esempio e le parole dei compagni, irreparabilmente guasta...
Rettore del luogo era un Canonico, Ferdinando Caruso, lungo, sparuto,
burbero. Buon uomo in fondo e di retto costume; ma cervello piccolo e gretto.
Stava sempre in sul farci lamentevoli rampogne; quando gli saliva la stizza, metteva mano allo staffile, e i colpi piovevano alla dirotta. I maestri venivano qual da’ boschi di Roseto e qual dai più disperati casali di Puglia, tutta
gente scostumata ed ignorante.
I servi sudici e feroci; i desinari grossolani e copiosi; da per tutto un lezzo da rècere (ributtare) le budelle. Ma le notti erano veramente sepolcrali;
perché, spenti i lumi, restava solo in un angolo ad illuminare la nostra stanzaccia una lampada tetra e fioca come quelle che si pongono ne’ cimiteri.
Abbrividii, tremai, caddi in una profonda mestizia; sospirava (sospiravo) le
pacifiche notti passate in mia casa; orrende vigilie mi tormentavano.
Con tutto questo non rifuggiva (rifuggivo) dallo studio”.
Intuizioni e una sofferta, convinta avversione per i metodi autoritari, per
il nozionismo e verso una scuola imperniata solo su regole, formali e grammaticali, trovano conforto e riferimenti nelle nuove dottrine pedagogiche che
ponevano al centro del processo educativo e didattico il fanciullo.
Di alcuni pedagogisti - osserva ironicamente il Parzanese - ai suoi tempi
non si conosceva neppure il nome. Che dire poi dell’inadeguatezza dei libri
che giravano nelle scuole?
“Fra questi ingrati studi il cuore e l’anima mi s’inaridirono un poco; perché alle giovani menti tornano inutile peso i precetti grammaticali, specialmente se vanno scomparendo dalla lettura di libri acconci a nutrire quell’età
quanto inesperta delle umane cose tanto avida di sapere. E questi libri vorrebbono essere un po’ di storia sacra e profana, apologhi e novellette, gentili
poesie, schiette prose italiane; di geografia, storia naturale, usi e costumi de’
popoli quanto possa entrare in quei cervelli senza opprimerli.
A’ miei tempi non si sapeva tra noi di Taverna8 e Parravicino9 nemmeno il
8)
Giuseppe Taverna - Educatore (Piacenza 1764 - ivi 1850). Sacerdote, si dedicò all’educazione dei
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Il realismo magico del Parzanese
nome; di geografia, storia ed altro, era come parlare di cose scomunicate. Né
oggidì si va meglio nei seminarii”.
A conclusione di questa piccola “galleria” mi piace riportare un “ritratto
psicologico”, quello del Vescovo di Ariano, mons. Domenico Russo, che ha
l’ampiezza, l’empito, la variazione, nei toni e nell’andamento dell’espressione, dei panegirici; genere, questo, in cui il Parzanese si distinse ai suoi tempi
per la forza oratoria e per lo stile piacevole e armonioso10.
“Il Vescovo non capiva ne’ panni per avere in me non so quali e quante
speranze. Egli era nato in Napoli di ricca famiglia di negozianti; nella sua
gioventù (che fu molto vivace e calda), essendo chierico, trattò assai domesticamente que’ grandi uomini
Nel sermoneggiare non cadde mai nel triviale e nel basso; e più volte si
levò quasi a tutta l’altezza dell’eloquenza.
Di meravigliosa memoria; delle cose de’ suoi tempi acuto e facondo narratore; senza infingimenti od ipocrisie, odiava gli ipocriti ( da’ quali tuttavia
non sempre poté o seppe guardarsi) ed i giovani ingegni confortava di lodi e
di aiuti.
Nella carità, singolare; nel dispregio delle ricchezze, senza pari; semplice
e frugale, come i primi padri della Chiesa”.
giovani, dapprima a Piacenza poi a Parma e in seguito a Brescia, dove dal 1812 resse il collegio
Peroni, che fu costretto ad abbandonare nel 1822, perché perseguitato dalla polizia austriaca. Nel 1825
Maria Luisa gli affidò la direzione del collegio Lalatta a Parma. Dopo il 1831, soppresso il collegio,
trascorse un lungo periodo in penosa indigenza, fino a quando il governo rivoluzionario non lo nominò
professore onorario di filosofia. Di principî liberali anche in materia religiosa, fu ammiratore di Locke
e razionalista in educazione.
9)
Luigi Alessandro Parravicini - Pedagogista (Milano 1799 - Vittorio Veneto 1880). Il suo Manuale di
pedagogia e metodica generale (2 voll., 1842 e 1845), ispirato particolarmente alle idee di J.- H.
Pestalozzi e di J.-B. Girard, rappresenta un tentativo, lodevole per il tempo, di offrire in forma sistematica, sebbene meramente empirica, i problemi della pedagogia e della didattica. Notevole, invece,
Giannetto (1837), libro per le scuole elementari, che riscosse grandissimo successo in Italia, soprattutto
perché, in quel periodo, era l’unica opera scritta appositamente per i più piccoli
10)
Parzanese fu un fecondo ed eloquente predicatore sacro, rinomato in varie città degli Abruzzi, delle
Puglie e della Campania per i suoi Sermoni e Panegirici, originali e innovativi sia per i contenuti
che per l’impostazione e lo sviluppo oratorio. Fra le sue opere si annoverano anche due volumi di
Prediche quaresimali, pubblicati postumi nel 1894.
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Il realismo magico del Parzanese
BIBLIOGRAFIA
• P. P. Parzanese - “Memorie della mia vita” - in Opere complete, edite ed
inedite vol. II - 1893
• P. P. Parzanese - Canti del Viggianese (storia di canti e di cantastorie) 1846
• P. P. Parzanese - Poesie inedite - Susanna Editore, Napoli 1899
• Viaggio a Bagnuolo, di P. P. Parzanese (dall’8 al 14 giugno 1835), pubblicato a Napoli nel 1932, a cura di F. Lo Parco, con il titolo “Un viaggio
attraverso l’Irpinia compiuto da P. P. Parzanese nell’agosto 1835”
• A. Gramsci - Lettere dal carcere, Einaudi 1947
• P. P. Pasolini - Poesie in forma di rose, Garzanti 1964
• Mario Battaglini - La Repubblica Napoletana: Origini, nascita, struttura
- Roma 1982
• AA.VV. - Storia di Napoli. Le biografie dei protagonisti della Repubblica
partenopea del 1799
• Capolavori della poesia romantica, a cura di Guido Davico Bonino, con
introduzione di Stefano Zecchi. Arnoldo Mondadori Editore. Milano 1991
• Enciclopedia Treccani
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Il realismo magico del Parzanese
Parzanese “paesista”,
nel “Viaggio a Bagnoli” (1835)
I
l Parzanese, sia nelle prose che nelle poesie, rivela una straordinaria
sensibilità nel cogliere le variazioni del colore del paesaggio e della
natura e una tale perizia nel rendere gli effetti atmosferici e luministici che
riesce agevolmente a coinvolgerci in un processo di immedesimazione-condivisione di stati d’animo e godimento estetico.
Disquisire sulle tecniche e sugli strumenti usati per raggiungere certi risultati artistici poco conta. I mezzi espressivi, si sa, presentano confini indefinibili quando, nell’opera d’arte, si fondono mirabilmente parole, suoni,
immagini , sentimenti e cultura, riuscendo a ri-creare certe atmosfere assorte,
di dolce malinconia e di luce soffusa, e, insieme, la mutevole bellezza dei
colori del cielo (albe, tramonti, notti serene o tempestose, nebbie e vapori…)
col sottofondo di voci e silenzi.
Fatta questa necessaria, sintetica premessa, mi preme altresì aggiungere,
prima di addentrarmi nel vivo dell’argomento, che è difficile passare in rassegna tutte le suggestioni pittoriche presenti nei testi del Parzanese. Ne riporterò e analizzerò alcune, significative, riscontrate nella lettura dei “Viaggi” del
1835 e del 1845 e in qualche poesia.
Il “Viaggio a Bagnuolo”(Bagnoli), dall’8 al 14 agosto 1835, si apre con
una stupenda “veduta” che a pieno titolo potrebbe essere inserita nella storia
del Paesismo del primo Ottocento napoletano, quando la grande tradizione
europea fu rinnovata nel nuovo spirito della visione romantica e del sentimento poetico della natura. Il Parzanese “reporter-pittore” riesce a rendere
con maestria e naturalezza le esperienze visive e le suggestioni scaturite dalla
presa diretta con la realtà.
Ecco come viene “dipinta” dal nostro Autore l’alba di quel sereno giorno
d’agosto.
“Il cielo sorrideva di un delicato cilestro, che rosseggiava come un lembo
di porpora alla parte dell’Oriente: un antico pellegrino, trasportato da una
soave illusione, avrebbe aspettato di vedere a mezzo dell’aria una giovinetta
amorosa, che velata di leggerissimo vapore avesse sparso a piene mani un
nembo di gigli e di rose”.
Le notazioni coloristiche, con una particolare attenzione alle sfumature,
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Il realismo magico del Parzanese
si fanno, poi, più fini ed elaborate (si osservino l’inquadratura panoramica, le
gradazioni e passaggi tonali, gli effetti della nebbia e della luce).
“Sulla pianura opposta vedeansi ondeggiare, sulle cime di alcuni pioppi,
leggerissime falde di nebbia azzurrognola, la quale iva velando quegli alberi,
come per temperare gentilmente il verde opaco delle foltissime foglie...
Dinnanzi al sole, che sorgeva maestoso a sinistra, quelle vaporose strisce
si assottigliarono, si spezzarono e dileguaronsi a un tratto nell’aria. Quel colore dolce di zaffiro orientale, che poco innanzi tingeva soavemente il cielo,
erasi andato a perdere a poco a poco in un velo sottilissimo di luce, la quale
si spandeva a dar mille diverse figure agli obbietti, e ridestava nei campi il
movimento e l’industria...”.
Dal “paesaggio” al “bozzetto” o “quadretto agreste” il passo è breve.Qui
il Parzanese riesce a crearne uno con pochi sapienti tocchi, sufficienti tuttavia
a suggerire l’illusione visiva.
“Sulle aie si aggiravano ancor sonnacchiosi i villani, dei quali chi ventilava il frumento per sceverarlo dalle paglie, chi si appressava alle capanne
per trar fuori i faticosi buoi, e tal’altro empiva di pur’acqua al vicin fonte
una brocca!
Di qua e di là si levavano colonne irregolari di vapori, che infine si consumavano con quella rapidità con cui le saettava la luce”.
Numerosi sono tali “quadretti di genere” riscontrabili negli scritti del Parzanese.
Spesso la sua “tavolozza”, ricca di stimoli e suggestioni, sollecita accostamenti, rimandi e analogie con pittori veri e propri. Anzi, alcune quartine della
poesia “L’Ave Maria di Autunno” anticipano addirittura il delicato lirismo e
l’atmosfera velata di tristezza dalla luce del tramonto che emana il quadro
“L’Angelus” del pittore Jean François Millet11 (1814-1875).
“Il lento suon de la remota squilla
che vien da l’alta torre del villaggio,
11)
Jean-François Millet (Gréville-Hague, 1814 – Barbizon, 1875), pittore e disegnatore francese, celebre
per le sue grandi tele di soggetto contadino: Il vagliatore (1848), Andando al lavoro (1850-1851), Le
spigolatrici (1857), L’Angelus (1857-1859), La morte e il taglialegna (1859), Primavera (1868-1873).
Nel periodo di Barbizon, si dedicò a rappresentazioni di scene agresti a metà strada tra il naturalismo
e il realismo: i protagonisti dei suoi dipinti, contadini o persone delle classi più umili, sono ritratti
con grande dignità e forza d’animo. Le sue opere vennero più volte riprese da artisti come Vincent
Van Gogh e Salvador Dalí. I suoi disegni e pastelli anticiparono e influenzarono in parte la tecnica
dei divisionisti.
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Il realismo magico del Parzanese
saluta per la opaca aria tranquilla
d’espero il bianco raggio.
L’ode tra’ densi pioppi de la valle,
traendo un figlio a man, la contadina,
che fumar vede allo sboccar del calle
a capanna vicina.
Oh! In questa autunnal ora solenne,
quando il velo dell’aere si annera,
di pianto confortata apre le penne
verso il ciel la preghiera”.
Quest’aura di “realismo magico” o romantico spira anche dal “quadretto”
dedicato a Sturno, in cui Parzanese giunge all’imbrunir del cielo alla vigilia
di un dì di festa.
“L’aspetto della chiesa, posta in mezzo a’ tigli ed agli olmi; il canto semplice e divoto del popolo, che rispondeva a la voce del sacro ministro; pochi
lavoratori che si eran posti genuflessi in sull’entrare, appunto quando tornavano dalla fatica; un’aria indefinita di religiosa malinconia mi commossero...
e trovai che non possono le parole esprimere queste tenere emozioni di soave
tristezza. Sorgeva intanto la luna mesta, taciturna, ed il popolo usciva di
chiesa in composto e divoto atteggiamento; si diradò la folla, si divise per
riverse vie, ed a poco a poco andava tacendo ogni voce; luccicavano poche
lucerne, e la pace scendeva su quelle dimore non contaminate dal delitto o
dall’ambizione”.
Non conscio del suo talento e della sua perizia di “paesista” de facto,
indipendentemente dai mezzi e dalle tecniche espressive messe in atto, il Parzanese, con un certo rammarico, annota più avanti: “Avrei voluto in quel momento possedere il talento e l’espertezza di un paesista, per ritrarre in una
tela questa scena commovente e deliziosa”.
Pochi tocchi, per non dire “pennellate”, bastano a tratteggiare Torella,
“villaggio fabbricato deliziosamente sulla sommità di una collina”, e Nusco,
costruita “sul dosso di una facile collina; ma le abitazioni affumicate e per
nulla eleganti, le campagne coltivate con pochissima industria, la rendono
una città inamena e di sgradevole prospettiva”.
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Il realismo magico del Parzanese
Poi, avvicinandosi sempre più agli Appennini, il Parzanese resta colpito
dal fascino mistico della Chiesetta di S. Maria di Fontigliano e fornisce, ancora una volta, un piccolo “saggio” di buon gusto pittorico e discreto giudizio
estetico.
“La chiesetta nominata di Fontigliano, di vecchia costruzione e quasi
diruta, mette tuttavia nell’animo una inesprimibile tenerezza…
Alcune pitture rozzamente condotte si veggono al di sopra della porta, e ti
farebbero credere che quest’arte fosse tuttora nella sua prima infanzia, tanto
sono irregolari i disegni, uniforme il colorito e mostruose le figure”.
A questo punto risulta evidente che il letterato e poeta Parzanese, oltre a
una naturale e non comune sensibilità pittorica, possedeva passione, conoscenze specifiche e una buona “cultura” anche nel campo delle arti figurative
(come in quello musicale).
Se ne hanno riprove e conferme proseguendo nella lettura del “resoconto”
del Viaggio del 1835, sfogliando le pagine del “diario” del Viaggio in Puglia
del 1845 o quelle del Poliorama pittoresco del 1847-1848. Proprio su questo
periodico napoletano comparvero, tra l’altro, alcuni “articoli” del Parzanese,
dall’impostazione aneddotica e didascalica, dedicati: il primo alla Madonna
di Cimabue del Louvre (in Scene artistiche del 25 settembre 1847); il secondo
a Giulio Romano e Pietro Aretino (18 marzo 1848), il terzo al Maestro Rembrandt (25 marzo 1848).
Da questi e da altri elementi si desume che la “cultura pittorica” del Parzanese, pur non organica, era senza dubbio alquanto varia ed estesa, a giudicare
anche dai numerosi riferimenti, riscontrabili nella sua produzione letteraria,
sia ad autori minori di “scuola napoletana e fiorentina” sia ai grandi della
pittura italiana e straniera.
Finezza di gusto e discreto senso critico rivela il Nostro nel descrivere
il quadro della Vergine col Bambino fra i santi Pietro e Paolo, quadro che,
allora, si conservava a Bagnoli “nella Congregazione accosto alla chiesa principale” e che poi, grazie all’interessamento dell’artista Michele Lenzi (18341866), fu trasferito nella Chiesa Madre.
“In esso è dipinta una Madonna di tale espressione che accoglie in viso la
maestà e la bellezza, inchinando in soave atto gentile i suoi occhi sulla mano
del bellissimo suo bambino, che porge la chiave al Principe degli Apostoli.
Al destro lato si osserva un S. Paolo ritto, in aria di severo contegno, ed i
lineamenti ed il colorito della sua testa sono mirabili.
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Il realismo magico del Parzanese
Il disegno delle figure non è condotto con molta diligenza, ma il colorito
perfetto in ogni maniera fa testimonianza della perizia del pittore. Avremmo
a prima vista creduto che fosse stato questo quadro opera del Sabatino, ma
l’ombra bruna di cui vanno ricoperte le figure ci fece ricordare che non si dilettava egli di tal maniera , avvezzo all’imitazione pura e nitida di Raffaello”.
Dal brano su riportato emerge, altresì, un’attenzione ben consolidata a
cogliere l’equilibrio dell’insieme, l’armonia dei gesti e delle movenze, ma
principalmente l’espressione dei sentimenti, emozioni e significati che il dipinto trasmette allo spettatore.
Ma continuiamo a seguire il viaggio del nostro “reporter-pittore”. Nel bel
mattino del 13 agosto 1835, il Parzanese e una lieta compagnia di giovani, in
tenuta di montagna, in pochissimo tempo, raggiungono l’altopiano del lago
Laceno.
Una vastissima pianura si apre davanti ai loro occhi, una veduta panoramica meravigliosa in cui tutte “le delizie dei giardini inglesi pare si trovino
unite lassù dalla natura in modo bellissimo e singolare”.
Sublime è il paesaggio, sublime è l’ispirazione che detta al “poeta-pittore”
questa stupenda pagina, che verrebbe immiserita da qualsiasi, pur autorevole,
commento.
“Verso oriente si alza gigante su que’ monticelli il Cervalto (Cervialto),
bruno di folte foreste, e che nasconde il suo capo entro le nubi, e mille diverse
erbe sulle sue vette nutrica. Ma quel che piace maggiormente è il vedere quel
semicerchio di colline, che correndo, sempre elevandosi, verso occidente, si
fanno sempre più variate e diverse, mentre le une alle altre si succedono colle
amenissime sommità, e con gradazione meravigliosa vanno tra le sinuosità
alternandosi l’ombre e la luce, finché o dai monti più alti son dominati, o
in cento altre colline in lontananza si perdono, come per effetto di magico
pennello. E vuolsi in questo spettacolo la variazion di colori sopra ogni altra
cosa osservare, perché le montagne in lontananza si fanno di un verde opaco
e monotono: le cime degli alberi delle collinette che son dappresso, come liberamente percorse dal sole, si tingono di un verde chiarissimo di smeraldo,
che va degradandosi insensibilmente più al basso ove si fa denso e bruno”.
Di fronte all’azzurrità del cielo e alla trasparenza dell’acqua del lago, che
infondono un senso di stordimento e, insieme, di calma serena, il cuore, la
mente, la mano non possono restare indifferenti.
Ecco, così, sgorgare dalla penna del Nostro un altro stupendo “quadro”
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Il realismo magico del Parzanese
all’aria aperta “a compimento di tante bellezze campestri”.
“Il chiarissimo lago, all’occidentale estremità della pianura, si fa specchio delle prossime colline, e di un ciel puro come il zaffiro orientale. In esso
tanti spettacoli diversi si rappresentano, per quanti sono al variar del giorno
i cangiamenti della luce, or tenue, or temperata, or vigorosa, ora smorta”.
P
Parzanese “paesista”,
nel “Viaggio in Puglia” (1845)
roseguendo nella lettura di alcuni “bozzetti” tracciati dal Parzanese
in “Un viaggio di dieci giorni”, possiamo comprendere come si è
evoluta la resa dell’esperienza visiva della realtà da parte del nostro “reporterpaesista”. Per cominciare, ecco il “quadro” di Ariano, illuminata dai raggi del
sole nascente all’alba del 5 maggio 1845, “dipinto e firmato” dal trentaseienne abate arianese.
“In quell’ora questa malinconica città, che si alza bruna e severa sulla
vetta di tre colline, faceva un bellissimo vedere. Ariano guardata dalla parte
di oriente mostra ben poche abitazioni e queste mezzo nascoste tra gli alberi:
ma è di là che si vede torreggiare il suo vecchio castello, cui un boschetto
di tigli s’imbruna a’ piedi, ombreggiando le croci e le tombe di un piccolo
cimitero.
La collina da questa parte scende rapidissima; ma tutta sparsa di case
biancheggianti tra’ vigneti, e ricca di castagni e di pioppi che vi fanno deliziosa frescura. Di sotto apresi una valle, che serpeggiando dilungasi verso
mezzodì: una valle densa di olivi, di viti e di ogni maniera di alberi, una
specie di teatro a cui veggonsi in fondo paesetti e villaggi, qual sul declivio
di un monte, e qual sul cucuzzolo di una collina: e tutte queste cose vedute
per entro ad un velo di vapore sottilissimo di un azzurro volgente al violetto”.
Mentre la carrozza, tirata da tre sparuti ronzini, si dirige verso il Vallo di
Bovino, “l’occhio pittorico” del Parzanese (che se ne sta tacito, solo e senza
compagnia) è sempre sveglio, vigile e attento alle bellezze del paesaggio che,
come in una visione, ad ogni svolta gli si apre davanti meraviglioso e diverso.
“Le pianure di Camporeale si stendevano come un tappeto di verzura un
cotal poco gialleggiante; ed il sole, inviandovi su qualche raggio furtivo, vi
suscitava mille gradazioni di colori bellissimi”.
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Il realismo magico del Parzanese
Dopo l’erta, faticosa e fastidiosa, che da Giardinetto mena nelle campagne
della Puglia - si legge nell’elaborato “taccuino” di viaggio - “salivano di tutta
lena i cavalli; il cielo per poco ci si restrinse sul capo, entrati che fummo in
una piccola gola formata da due colline; ma quando fummo in quello sboccare di quella gola, dove terminava la salita, chi può dire qual magnifica scena
ci si aperse davanti?”.
La risposta a questa domanda retorico-letteraria non si fa attendere e costituisce un altro mirabile “saggio” di pittura paesistica.
“Una pianura vastissima sterminata, coperta di un verde tappeto che arricciavasi ondeggiando al soffio del vento. Di rimpetto il Gargano nudo, scosceso e coronato da un cerchio di nuvole minacciose... A sinistra, sul dorso di
una collina, appariva Lucera ed il suo castello...
A destra, curvavasi come una mezzaluna l’Adriatico, che in lontananza
pareva di un azzurro cupo, e che piegandosi perdevasi dietro le rocce del
Gargano”.
Le pagine dedicate a “Manfredi in Puglia” si aprono con uno stupendo
“quadro d’ambiente” in cui la “bravura” pittorica del Parzanese è un tutt’uno
con quella letteraria.
Ma qui ci troviamo di fronte a un salto di qualità artistica, che ha il fascino del nuovo e della scoperta, in quanto la spiccata capacità del Parzanese a
cogliere le variazioni e gradualità della luce su persone ed oggetti crea suggestioni, emotive più che tecniche, di ascendenza caravaggesca.
In una notte buia e tempestosa di dicembre, l’interno di una capanna di
pastori è così ben descritto nei minimi particolari, resi evidenti dagli effetti
della luce delle fiamme del focolare , che ci fa subito venire in mente uno dei
notturni “drammaticamente illuminati” di Gherardo delle notti (pittore olandese, 1590-1656). La “scena di genere” qui appresso riportata risulta alquanto
elaborata anche sotto l’aspetto stilistico- espressivo.
“Era una delle più scure e paurose notti di dicembre. Sulle montagne cadeva serrata e densa la neve: sulle pianure della Puglia scendeva a rovesci
un’acqua ventata, che dilagava pe’ campi furiosamente.
Un vecchio pastore abruzzese, e con lui tre giovani figli, e parecchi altri
compagni sgomenti da quel fiero temporale, si erano rannicchiati intorno ad
un vasto focolare, e novellando si ristoravano nel calore di una fiamma viva
e rigogliosa.
Lunga e stretta era la capanna del vecchio abruzzese, ed il fumo lentamente ingombrandola dava alle cose e alle persone un non so che di fanta-
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Il realismo magico del Parzanese
stico e vacillante.
Da per tutto stavano appesi archi, zagaglie; e pelli di orso, di lupi e di
volpi ivano appiccate a cavicchi di ferro…
Chi avesse in quella capanna guardato dalle soglie, avrebbe veduto un
cerchio di luce vaporosa, che quando più dilungavasi dalla vampa del focolare diveniva più fioca ed incerta; una catena appiccata di un capo ad una
trave del tetto, con l’altro teneva sospesa sul fuoco una caldaia, nella quale
gorgogliando bolliva una minestra di erbe selvagge; la luce poi, sbattendo
più forte sulle persone che stavano sedute in giro attorno al focolare, mostrava sette o più volti fieri ed abbronzati, e lunghi capegli che scappavano di
sotto a berretti di feltro, ed occhi neri e scintillanti che guardavano di ora in
ora nelle tenebre, come per iscoprirvi qualche cosa.
Aggiungi a questo, le grosse pelli di montone che loro pendevano alle
spalle, ed avrai un di que’ quadri fantastici, che sapevan dipingere Gherardo
delle notti12 e Salvator Rosa”13.
A questo punto ci viene spontaneo concludere affermando, con profonda
ammirazione, che ci troviamo di fronte a “un di que’ quadri fantastici” che
sapeva dipingere anche il nostro “poeta-reporter” Parzanese.
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Bibliografia
Viaggio a Bagnuolo, di P. P. Parzanese (dall’8 al 14 giugno 1835), pubblicato a Napoli nel 1932, a cura di Francesco Lo Parco, con il titolo “Un
viaggio attraverso l’Irpinia compiuto da P. P. Parzanese nell’agosto 1835”.
Un viaggio di dieci giorni (5-15 maggio 1845), a cura dell’Associazione
“Amici del Museo di Ariano”.
P. P. Parzanese: Opere complete - vol. I - 1889
P. P. Parzanese: “Memorie della mia vita” in Opere complete - vol. II 1893
Poliorama pittoresco, periodico - Napoli 1847-1848
Gerard (o Gerrit) van Honthorst, detto Gherardo delle Notti (Utrecht, 1590 - 1656), pittore olandese,
cresciuto alla scuola di Abraham Bloemaert, recatosi a Roma nel 1610, fu profondamente colpito
dalla pittura del Caravaggio, alla quale si ispirò nelle opere successive in gran parte dedicate a soggetti
pastorali, resi con sapienti e ricercati effetti luministici, non privi di una certa carica espressiva.
13)
Salvator Rosa (Napoli, 1615 - Roma, 1673), pittore di epoca barocca, artista eclettico e versatile (si
espresse anche nella recitazione, nella poesia e nella musica), fu attivo oltre che nella sua città natale
anche a Roma e Firenze. Personaggio preromantico dalla vita movimentata e ribelle, toccò nella sua
arte vari temi , spaziando dai paesaggi spettrali con scene di fatti violenti, ai soggetti di gusto classico
(come La morte di Socrate), a opere dal tono esoterico e magico (come Streghe e incantesimi), a temi
allegorici e filosofici (La Fortuna) o di soggetto mitologico-morale. Il vivace artista fu soprannominato
“Salvator delle battaglie” per le numerose rappresentazioni pittoriche di grandiose battaglie.
12)
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Il realismo magico del Parzanese
Pietro Paolo Parzanese:
Cimabue, Giulio Romano, Rembrandt
Scene artistiche (e didascaliche)
N
el periodico “Poliorama pittoresco”, pubblicato a Napoli fra settembre 1847 e marzo 1848, compaiono, nella Sezione “Scene artistiche”, tre “articoli” di P. P. Parzanese dai seguenti titoli:
1. La Madonna di Cimabue, 25 settembre 1847
2. Giulio Romano e Pietro Aretino, 18 marzo 1848
3. Maestro Rembrandt, 25 marzo 1848
Gli “articoli” dedicati ai tre artisti, più che saggi di indagine e analisi artistica, sono nel complesso aneddoti didascalici e di cronaca sulla vita dei tre
pittori, con pochi cenni, anche se di discreto valore, alle caratteristiche della
loro arte.
1. Madonna di Cimabue - 1267
Cimabue, che stava portando a termine la Madonna in Maestà di S. Maria Novella, riceve nella sua bottega la visita di Carlo d’Angiò principe di
Provenza, chiamato dal papa Clemente IV per cacciare da Napoli Manfredi.
Nel descrivere il quadro della Madonna il Parzanese si sofferma sulla “luce
dorata, sulle figure leggiadre e divine, sul senso del meraviglioso e gentilezza
delle forme, sulla grazia e vigore, sulla pura artistica squisitezza che superava
quella dei pittori greci e Italiani”.
Le altre figure presentano “un certo che di severo”; nelle teste dei vecchi
“impresse tanta forza” da renderle “così vivamente animate”.
Carlo d’Angiò, pur amante delle belle arti, disapprova le simpatie politiche del Cimabue e con “un terribile sorriso” commenta: “Cattiva parte seguisti, Cimabue, e non generosa!”.
Da allora il pittore fiorentino cominciò a struggersi di cupa malinconia.
“Dal dì che gli venne in casa l’Angioino, e ne intese quelle fiere e superbe
parole, tenne per certa la caduta de’ Ghibellini e presagì nuove sciagure alla
patria”.
Come un’ossessione, ogni volta che pensava alla sua Madonna, gli si presentava, insieme, l’aspetto austero di Carlo. Quando, poi, a Firenze giunse la
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Il realismo magico del Parzanese
notizia che Manfredi era stato ucciso nella battaglia di Benevento e che Carlo
era entrato vincitore a Napoli, Cimabue ne restò profondamente addolorato.
“Da quel dì – osserva il Parzanese – egli non visitò mai più il quadro di S.
Maria Novella, ed in tutti i suoi dipinti tentò in vano di spargere quella luce e
quella calma ch’egli più non aveva nel cuore”.
E così conclude: “Pur tutta via Cimabue fece grandi progressi nella pittura e si attribuisce a lui la gloria di aver richiamata nell’arte l’imitazione del
naturale”.
2. Giulio Romano e Pietro Aretino
In Giulio Romano e Pietro Aretino i riferimenti pittorici a contenuti pruriginosi forniscono il pretesto per intessere una divertente storiella edificante
a lieto fine.
Il pittore Giulio Pippi, più noto come Giulio Romano, si concede anche
lui, seguendo in questo il suo maestro Raffaello, qualche “licenza” sia nella
vita che nell’arte, tanto da finire sulla bocca di bacchettoni moralisti e di malelingue “bugiarde e calunniose”.
In breve: Giulio Romano viene rovinato dalla cattiva compagnia di Pietro
Aretino, del quale ha illustrato dodici sonetti osceni. Per discolparsi, il pittore
rinfaccia al poeta “flagello dei principi” di averlo indotto a “insozzare la carta
con quelle sozze figure quando era mezzo brillo, quando i vapori del vino gli
salivano al cervello”.
Ma, quando tutto sembra ormai perduto, ecco arrivare un genio salvatore,
“una bellissima fanciulla di nome Ghita, di vaghissimo aspetto, con due occhi
neri ed ardenti”.
È lei che riesce a sottrarre Giulio Romano alla compagnia di quel “poeta
scellerato, uomo troppo aborrito in Roma, divenuto poi famoso per l’audacia
e per la dissolutezza”.
Tutto bene quel che finisce bene! La morale è salva, in barba alla libertà
dell’arte!
3. Maestro Rembrandt
In questo “articolo”, presente sul Poliorama pittoresco del 25 marzo 1848,
la “cultura pittorica” del Parzanese appare sotto una luce diversa. Più che un
“saggio” è un aneddoto su Rembrandt, ben congegnato sul piano fantasioso,
ben impostato e ben reso a livello narrativo-espressivo, tutto incentrato a dimostrare l’avarizia e l’inumanità (che rasenta il cinismo) del pittore olandese.
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Il realismo magico del Parzanese
La presentazione dell’artista ha tutto l’aspetto di un giudizio preventivo o
di un “teorema”, viste le premesse e i corollari, dagli esiti scontati.
“Rembrandt - scrive l’abate arianese - fu un gran pittore e un misero taccagno... Per ammucchiare danaro avrebbe venduto l’anima e l’ingegno... Questo peccato di sporca avarizia era giunto a guastare in Rembrandt il corpo non
meno che l’anima... Gli si apprese al cuore quella brutta ruggine dell’avarizia
che gli si guastò la persona... Anima avara e crudele...”.
L’aneddoto raccontato dal Nostro, se avesse qualche fondamento di verità, sarebbe a dir poco agghiacciante. Mi provo a riassumerlo in poche parole.
Per rappresentare dal vero “un uomo morente di fame nel deserto d’Arabia”, Rembrandt e la moglie “segregano” nella loro casa-bottega un giovane
accattone, che per otto giorni, dietro promessa di una ricompensa di tre zecchini a lavoro compiuto, si sottopone (o meglio è sottoposto) a digiuno completo perché “si assottigli un po’ nella buccia”.
Il giovane, alla fine, ridotto a pelle e ossa, viene utilizzato, inerte, come
modello e schernito dall’artista durante le sedute di posa.
“Il maestro Rembrandt - parole esatte del Parzanese - dandosi da fare sulla
tela, quanto più al giovane morente si drizzavano i crini in capo, più allegramente lavorava.
Quando ebbe portato a termine l’opera, il maestro die’ un grido di gioia
e, gettando tavolozza e pennelli, si pose a guardare con amore il suo quadro.
Intanto il giovane già dava i tratti e se ne andava al mondo di là. Si dové pensare a farlo seppellire di notte e con grande segreto!
Ma la famiglia di quel disgraziato non seppe nulla e non ebbe nemmeno
il becco di un quattrino dall’inumano pittore!”.Così conclude il Parzanese.
Nell’articolo compare solo un generico accenno al modo di dipingere del
Rembrandt, “che poté mostrare la sua valentia nei risalti della luce ed in quella gradazione di ombre, che parendo nascondere una o più figure, a chi ben
osserva, appena le velano, e si potrebbe contarne i capelli”.
Certo, questo aneddoto romanzato, didascalico-moraleggiante, non ha valore a livello di analisi/giudizio estetico e non fornisce, sul piano divulgativo,
alcun contributo o stimolo a chi voglia avvicinarsi e conoscere l’arte di Rembrandt.
La pittura del quale - secondo quasi tutti gli studiosi più acclarati del settore - appare decisamente orientata verso una rappresentazione sempre più
interiorizzata della realtà e delle vicende umane, mirando a comprenderne e
a esprimerne il senso più intimo, la verità più nascosta, in cui gli effetti lumi-
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Il realismo magico del Parzanese
nistici e il gioco delle ombre servono ad approfondire l’interpretazione emozionale dei soggetti rappresentati. Per quanto riguarda l’inumanità del Rembrandt bollata dal Parzanese (troppo succubo, in questo caso, di una fantasia
bizzarra e di un retrivo nonché semplicistico moralismo religioso), mi piace
riportare le parole di Hippolyte Taine14: “L’opera del Rembrandt è di tanta
bellezza estetica e coscienza morale da farlo il più umano di tutti i pittori”.
Un quadro del Seicento descritto dal Parzanese
P
ietro Paolo Parzanese (Ariano di Puglia 1809 - Napoli 1852), sacerdote, predicatore, poeta e scrittore, di tanto in tanto veniva a Grottaminarda, “per ragioni del suo ministero o per motivi di interesse, da solo, o
con la diletta madre, Giovanna Farétra, nativa del borgo”.
E perciò ebbe modo, in più occasioni, di esaminare il quadro dell’Apparizione della Croce a S. Teresa, che ancora oggi si trova nell’abside della
Chiesa di S. Maria Maggiore di detta cittadina.
Va notato, innanzitutto, che il nostro autore, nel descrivere il dipinto, rivela una spiccata sensibilità e discrete conoscenze sulle arti figurative, su cui
produsse diversi scritti.
“È un quadro di antico pennello, ma di ignoto autore”, osserva il Parzanese, smentendo chi voleva attribuirlo a Giuseppe Ribera (1593-1656), detto
lo Spagnoletto, perché “la serenità e la pace, che è da per tutto, lo mostrano
di un’altra mano”.
La descrizione del quadro, poi, in un periodo in cui non è stata ancora
inventata la fotografia, rivela un certo impegno nel rendere visivamente sia
l’impostazione dell’insieme che la ricchezza dei particolari.
“La rappresentazione è di un angelo, che a Santa Teresa, tanto devota della passione del Cristo, mostra la Croce...
Ella se ne sta inginocchiata, a destra, quando, in mezzo all’orazione, vede
a mezz’aria lo spirito di paradiso, che sostiene il segno della redenzione; tal
che rimane estatica con le braccia aperte, in guisa che la sinistra mano presenta un mirabile scorcio”.
14)
Hippolyte Adolphe Taine (Vouziers 1828 - Parigi 1893), filosofo e storico francese, è considerato il
maggior teorico del naturalismo.
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Il realismo magico del Parzanese
Altresì sono ben evidenziati i contrasti fra luci ed ombre, dinamismo e staticità; e grande attenzione è data alla varietà di atteggiamenti e stati d’animo
delle figure rappresentate.
“L’angelo, vestito di color rosso e cilestrino, vien da manca, con nubi e
luci addietro e attorno, che fa l’aria trasparente e vaporosa, e par tutto inteso a
mostrare alla Santa la Croce, che regge in
atto di affettuosa riverenza; nel che fare,
piglia un movimento così grazioso e gentile che meglio non si potrebbe.
Sotto la Croce è un altro angeletto,
che alza un cotal poco le manine, come
se volesse aiutare a sostenerla; a rincontro, due altri spiriti celesti, i quali,
formando un bel gruppo, stanno in atto
di guardare quell’estasi e quella visione
mirabilissima”.
Allo sguardo attento del nostro osservatore non sfugge nulla; il resoconto
si arricchisce, pertanto, di altri dettagli
e annotazioni.
“In fondo ed alle spalle della donna
estatica sono due monache, le quali, entrando nella cella, si fermano stupefatte,
perché di esse una mostra di accennare
alle compagne che venissero, e l’altra la
rattiene, temendo non dovesse rompere
quell’estatico rapimento”.
La descrizione analitica, tuttavia, non
si esaurisce in un puro esercizio di bravura, ma è finalizzata a far risaltare l’idea
o sentimento generale che la “mano maestra” del pittore ha voluto rappresentare,
cioè il “momento miracoloso” dell’estasi,
sottolineato dall’irraggiare della luce e
dalla gradazione dei diversi colori, “accorgimenti di arte de’ valorosi e grandi
Particolare - Apparizione della Croce a S. del buon secolo della pittura”.
Teresa
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Il realismo magico del Parzanese
Osservazioni stilistico-espressive
sulla prosa del Parzanese
C
ome gli “scritti in versi”, anche gli “scritti in prosa” del Parzanese
risultano alquanto elaborati sotto l’aspetto formale. Uno studio accurato sullo stile e sulla lingua del Nostro consentirebbe di cogliere, al di là
degli aspetti puramente tecnici (frequenza di versi nel periodo, accordi ternari, aggettivazione binaria, andamento oratorio, ritmo, cesure, ecc.) altre peculiarità della sua arte (prestiti, citazioni, imitazione, innovazione, originalità
nell’uso degli strumenti espressivi) e della sua personalità.
Già a una prima analisi, per quanto sommaria, balzano evidenti alcune
espressioni e sintagmi ricorrenti, quali, ad esempio, una coppia di aggettivi
o di nomi, che per la loro efficacia potrebbero definirsi “binomi risolutori”.
Vezzo, abilità tecnico-erudita, trucchi del mestiere, lessico prefabbricato
o caratteristica di uno stile e di un modo di esprimersi personale e creativo?
Questi segni formali ricorrenti, estrapolati dal contesto, destano qualche
dubbio, ma, visti nell’insieme, risultano ben inseriti nel discorso e spesso
rendono l’espressione più scorrevole, gradita e caratteristica.
Numerose sono le “formule” o le “espressioni di serie” riscontrabili nei
testi del Parzanese.
Se ne riportano alcune a titolo esemplificativo.
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Ingegno pronto e sottile
Risoluto e bizzarro
Indole bizzarra e manesca
Onesta ed agiata famiglia
Malinconico e rabbuiato
Faccia gonfia e livida
Cuor facile e benigno
Vecchietto lieto ed aperto
Occhi vivacissimi e grandi
Nel triviale e nel basso
Acuto e facondo narratore
Semplice e frugale
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Il canto semplice e divoto
In composto e divoto atteggiamento
Scena commovente e deliziosa
Abitazioni affumicate e per nulla eleganti
Variate e diverse
Verde opaco e monotono
Denso e bruno
Fiamma viva e rigogliosa
Fantastico e vacillante
Fioca ed incerta
Volti fieri e abbronzati
Occhi neri e scintillanti
Osservazioni sugli schemi metrici ricorrenti
nelle poesie del Parzanese
F
requenti sono gli schemi metrici classici della tradizione letteraria:
- Terza rima dantesca con chiusa
- Sonetto (2 quartine + 2 terzine di endecasillabi)
- Ottave di endecasillabi
- Endecasillabi sciolti
Altri schemi metrici si riscontrano nelle seguenti poesie:
• A lei
- Strofe di 6 settenari
- Schema: xaxabb (x= verso sdrucciolo)
• Dopo la pioggia
- Strofe di 6 versi di cui 5 endecasillabi e il 3° verso settenario
- Schema: ABaBCC
• Frammento
-Strofe di versi decasillabi, divise ciascuna in 2 periodi ritmici di 4 versi.
Il verso finale di ogni periodo è tronco.
- Schema: ABBC DEEC
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Il realismo magico del Parzanese
• La fata
- Strofe di 9 ottonari, divise ciascuna in 2 periodi ritmici di 5 e 4 versi.
Il verso finale di ogni periodo è tronco.
- Schema: abbac eedc
• Aprile ad oriente
- Strofe di 12 versi ottonari ciascuna.
Il 12° verso, tronco, rima col 12° verso della strofa successiva.
- Schema: aabbcdcdeffg
• Alla luce
- Otto strofe di 6 settenari, alternate ad otto strofe di 8 settenari
- Schema:xaxaxb
xcxcxddb (x= verso sdrucciolo)
1° strofa: 3 versi sdruccioli alternati a
2 versi piani rimati.
L’ultimo verso tronco rima con l’ultimo verso tronco della strofa successiva
2° strofa: 3 versi sdruccioli alternati a
2 versi piani rimati;
6° e 7° verso piani a rima baciata,
8° verso tronco.
“O del sovrano Artefice
Bell’opra e meraviglia;
Del labbro dell’Altissimo
Prima e diletta figlia,
Salve! Non furo i secoli,
Se pria non fosti tu!
Ancor non si curvavano
Le sfere e i firmamenti:
Privi di moto e di orbita
Dormiano gli astri spenti,
Quando dal chiuso vortice
Di notte eterna e truce
Ti trasse, o diva luce,
L’onnifica virtù”.
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Il realismo magico del Parzanese
•
-
Alla Luna15
Quattordici strofe di 6 versi settenari ciascuna
1° strofa: xaxaxb
2° strofa: xcxcxb
In ogni strofa il 1°, 3° e 5° verso sono sdruccioli e liberi dalla rima;
il 2° e il 4° piani e rimati fra loro;
il 6° verso tronco rimato col verso tronco della strofa successiva.
“O de le fresche tenebre
Dissipatrice, o Luna,
Che una dolcezza incognita
Spandi per l’aria bruna
Perché versi ineffabile
Da’ raggi tuoi piacer,
Quando di vapor tenue
Ombrata ascendi in cielo,
E i venticelli aleggiano
Tra ’l candido tuo velo,
Che in mille pieghe volgesi
E palpita leggier?”.
• L’uomo
-Dieci strofe di 8 settenari
Quarto e ottavo verso tronchi rimati fra loro
15)
Vedi: Alessandro Manzoni - Adelchi Atto quarto, Coro (morte di Ermengarda)
“Sparsa le trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel.
Cessa il compianto: unanime
s’innalza una preghiera;
calata in su la gelida
fronte, una man leggiera
sulla pupilla cerula
stende l’estremo vel”.
AEQVVM TVTICVM
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Il realismo magico del Parzanese
-Schema: abbddxc (x= verso sducciolo)
•
•
Il soldato16
-Otto strofe di 6 dodecasillabi a rima baciata
(la 3° strofa è mutila di due versi)
-Schema: AABBCC (gli ultimi due versi di ogni strofa sono tronchi)
“Dio lo volle! L’Italia s’è desta,
E dal fango solleva la testa.
Ahi! Tanti anni tradita, percossa,
Le catene, piangendo, portò.
Dio lo volle: l’Italia si è scossa,
E le infami catene spezzò”.
•
Addio a Partenope
Inno di 12 strofe. Ogni strofa è composta da 8 versi settenari:
i primi 4 sdruccioli e piani alternati,
gli altri 4 piani e tronchi alternati.
- Schema: xaxabcbc (x= verso sdrucciolo)
16)
“ Ti pesan molti anni sul capo, o soldato;
Lo dicon le rughe del fronte abbronzato;
Lo dicon quegli occhi pocanzi sì fieri,
Or pieni di lunghi codardi pensieri:
E il core una volta bollente di ardir
Ognora più freddo ti senti languir”.
L’Italia e Napoli
- Tredici strofe di 6 versi decasillabi
- Schema: AABCBC (il 4° e il 6° verso tronchi)
Vedi: Alessandro Manzoni – Adelchi – Atto terzo, Coro
“Dagli atrii muscosi, dai Fòri cadenti,
dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l’orecchio, solleva la testa,
percosso da novo crescente rumor”.
- 70 -
AEQVVM TVTICVM
Il realismo magico del Parzanese
“Come il sogno d’un arabo
Napoli mia sei bella:
Boschetti ti profumano
Di aranci e di mortella…
Di stelle verginali
Lieto il tuo cielo appar;
Scendon ventando l’ali
Gli angeli nel tuo mar”
• L’Irpinia
- Sonetto
- Schema: ABAB ABAB CDC DCD
“Stettero un dì per queste balze irpine
I vecchi padri come rocce immoti;
Ed al fulmin de l’aquile latine
Offerser petti a libertà devoti.
Bruni dal sole e con diffuso crine
Trassero a morte da gli antri remoti;
E quelle, che inducean, pelli ferine
Sanguinose lasciavano ai nepoti.
Pur la tremenda eredità, negletta,
Imprecò su’ degeneri protervi,
Pari al sangue oltraggiato, alta vendetta.
Così Irpinia perdé fortezza e nervi;
Ed or ne’cenci dal tiranno aspetta
Un pan che nutra gli affamati servi”.
* * *
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Il realismo magico del Parzanese
Momenti felici e momenti di disperazione
XII – La squilla vespertina
“Lei sol ebbi, che dagli occhi
mi tergea le amare stille,
quando assisa su’ ginocchi,
il mio duol temprando andò”.
XX – L’usignolo
“Verrà dì che da tutti obliato
dormirò, per non sorger mai più;
e tu solo al sepolcro verrai,
al tornar della bella stagion”.
Bibliografia
- Opere complete, di P. P. Parzanese - vol. I e vol. II - 1889
- Poesie inedite, di P. P. Parzanese, a cura di Nicola Susanna - 1899
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AEQVVM TVTICVM
Il realismo magico del Parzanese
PIETRO PAOLO PARZANESE
P
Vita
.P. Parzanese nacque ad Ariano di Puglia nel 1809 e morì di febbre
tifoidea a Napoli nel 1852.
Di salute malferma, ebbe sin dall’infanzia una vita infelice e tormentata.
Dopo i duri anni trascorsi in seminario, fu ordinato sacerdote e nominato maestro di grammatica nel seminario del suo paese. A 24 anni ottenne la
cattedra teologale; dal 1835 al 1837 resse la diocesi di Ariano in qualità di
vicario capitolare. Poi, abbandonati gli uffici ecclesiastici e l’insegnamento, si dedicò alla predicazione e ai suoi studi prediletti, nonché agli interessi
molteplici verso cui si sentiva portato (che spaziavano dalla letteratura alla
musica, dalla filosofia alla pittura, al teatro).
Tentò vari generi letterari, sia in prosa che in poesia, e si rivelò operoso e
fecondo in diversi campi (traduzioni, relazioni di viaggi, postille, saggi critici, recensioni, ecc.)
Tradusse dalla Bibbia, da Plauto, da Shakespeare, da Klopstok, da Hugo
e da Lamartine; postillò Dante; studiò Monti, Foscolo, Manzoni e autori contemporanei.
A una lettura attenta (e svincolata, nei limiti del possibile, da schematismi
ideologici e critico-letterari, sia riduttivi che enfatizzanti), la personalità del
Parzanese, poliedrica e complessa, romanticamente oscillante fra populismo
conservatore e ribellismo liberal-risorgimentale, non può non rivelarsi in tutta
la sua grandezza e originalità (umana, culturale ed umana).
“...perché un giorno abbia ad essere conosciuto qual mi sono e non qual
mi son venuti figurando amici e nemici”. Era questo l’auspicio formulato dal
poeta quando iniziò a scrivere le Memorie della sua vita, il 18 agosto 1851.
Rispettare questa sua estrema volontà è ancor oggi difficile. Ma bisogna tentare!
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Il realismo magico del Parzanese
Opere
Poesia
• Le armonie italiane (1841)
• Canti popolari – Fiori e stelle (1843)
• I canti del Viggianese (1846)
• Canti del povero (1852)
Prosa
Prediche e Panegirici
• Tre panegirici (pubblicati a Napoli nel 1832)
• Predica per le tre ore dell’agonia di Gesù Cristo (1852)
• Prediche Quaresimali e Sermoni Sacri (pubblicati a Napoli nel 1853)
Relazioni di viaggi
• Viaggio a Bagnuolo (8-14 agosto 1835)
• Viaggio di dieci giorni in Puglia (5-15 maggio 1845)
Teatro
• Sedecia (composta a 16 anni)
• Il vendicativo (1829)
• L’Ituriele (1830-1840)
• Giulietta e Romeo
• Sordello (tragedia in prosa)
• Ezzelino (tragedia in prosa)
Traduzioni
• Versione delle “Melodie ebraiche” di George Byron (1837)
• Versione di una “cantica” di Victor Hugo
• Traduzioni dalla Bibbia, da Plauto, Klopstok, Shakespeare
Scene artistiche per la Rivista napoletana“Poliorama pittoresco”
Novelle, racconti, bozzetti
Saggi critici e letterari
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
Osvaldo Sanini
poeta
Un prisma dalle mille facce
di Tonino Capaldo
Osvaldo Sanini,
cultore del bello, educatore dei giovani,
testimone di pace, libertà e giustizia
R
ipercorrere e sintetizzare, nei risvolti essenziali, la vicenda umana ed artistica di
un poeta genovese confinato dal fascismo nel 1941
a Grottaminarda, dove trascorse fra miseria e malanni gli ultimi anni della sua vita, è compito non
agevole, specialmente per chi, allora adolescente,
non ebbe modo di frequentarlo e di seguirne da vi- Osvaldo Sanini
cino l’esempio e l’insegnamento.
Eppure furono molti i grottesi che in quei lontani anni Cinquanta sentirono soffiare, nell’aria stagnante del paese, una ventata di novità, di intelligenza, di cultura e onestà, insieme a un patrimonio di valori, ideali e aspirazioni
che sembravano venire da un altro mondo.
Oggi, quasi tutti i testimoni diretti di quella “bella stagione” sono scomparsi, ma diverse persone ricordano ancora il garbo, il sorriso e la gentilezza
con cui il “professore”, in ogni luogo, in ogni ora o circostanza, rispondeva al
saluto anche degli sconosciuti e dei più piccoli; l’espressione “Buongiorno,
figliolo!” era, poi, destinata a imprimersi in modo indelebile nella memoria.
Il professore e poeta, dalla vita errabonda e travagliata, entrato ormai a
pieno titolo nella “storia” della nostra cittadina, è Osvaldo Sanini, nato a Canea (isola di Creta) nel 1876 da padre ex garibaldino e mazziniano e da madre
fiumana, trasferitisi prima a Parma poi a Genova, dove i figli ebbero modo di
continuare gli studi e intraprendere la carriera forense e giornalistica.
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Osvaldo Sanini
***
Dalle acque dell’Egeo ai cieli del Nirvana.
La personalità del Sanini si disvela sin dagli anni della matura giovinezza,
quando, nella raccolta di liriche “Io” (titolo emblematicamente nietzschiano),
pubblicata a Torino nel 1912, prendono forma e si impongono, per la forbita
armonia espressiva e per la vasta (anche se non sistematica) visione razionalfilosofica, le sue ansie esistenziali, le sue aspirazioni, il suo indomabile anelito alla libertà.
Un caleidoscopio di immagini, colori, sensazioni, sentimenti scaturisce
dal profondo dell’essere e rende icasticamente la metafora della vita nel suo
fluire altalenante fra gioia e dolore, slanci e cadute, odio e amore smisurati.
“...Io traversai per vie lucide e piane
il trambusto immane
de le popolose
cosmopoli, ove bollono più irose
le passioni e il vizio pigro esala il pestifero suo fiato.
E d’odio smisurato sentii e d’amore immenso il cuor capace,
e de l’affanno e del piacer gli abissi
toccai tutti: io vissi
mille vite e mille,
io vissi più del Lama; e le pupille
stanche ho di tutto, e anelo, fiume distruggitore, a la tua pace”.
Così canta il Sanini nella lirica “Achad”, che, per molti aspetti, rappresenta il punto più alto raggiunto dalla sua concezione pessimistica dell’esistenza,
sulla quale, con profonda amarezza, non nutre più sogni:
“...Io so quanto acuto
e struggente è il senso
de l’essere, io so quale incubo immenso
è la Vita”1.
1)
O. Sanini: Nachad (1912) - strofe 20-21-22.
La lirica Nachad è dedicata ad Arturo Graf (Atene 1848-Torino 1913), poeta, prosatore e critico letterario versatile, che introdusse il Sanini nel mondo letterario; il Graf, dopo aver conseguito la laurea
in legge all’Università di Napoli, curò per qualche anno gli interessi commerciali della famiglia in
Romania. Tornato in Italia, ottenne, per i suoi studi sulla letteratura italiana, la cattedra all’Università
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Osvaldo Sanini
“Attraverso i due poli dell’esaltazione e dell’annientamento dell’Io – scrive Pirro Oppezzi sul Secolo XIX di Genova nel 1912 – vi è tutta una gradazione di affetti e di sentimenti, che danno vita e colore alle aspirazioni del
poeta.
Dal pessimismo cieco di talune poesie, come Dall’intimo, Ignoto, egli
è trascinato ad entusiastici accenti di passione e di amore come in Toto ex
corde, Ananchè, ad illusioni ottimistiche di perfezione umana, come in Fantasmi, e poi di nuovo allo sconforto e alla desolazione.
...La libertà che offre la così detta civiltà è più formale che sostanziale.
La massa schiaccia e deturpa l’individuo. E il poeta nell’Assente celebra
l’isolamento, l’esiglio dal mondo, avvicinandosi, così, a poco a poco all’apoteosi dell’annichilimento”.
La suprema espressione della libertà, “oltre le caduche forme, oltre la vita
transitoria”, si realizza nella definitiva distruzione della materia e dello spirito, nel fiume dell’assoluto Nulla, dove si attinge, “col riposo eterno, l’infinita
libertà che non han uomini e numi”.
Forse il Sanini più autentico e profondo, meritevole di considerazione e
risonanza più ampie, è da ricercarsi già in questo “viaggio” o “esilio”, in
questo perenne vagabondare, in questa continua ricerca (umana, poetica e
intellettuale), che dai cieli dell’Ellade, dalle sacre sponde natie dell’Egeo,
giunge, attraverso la saggezza e la spiritualità orientale, all’immutabile quiete
del Nirvana2.
Ma è un approdo momentaneo e di breve durata, anche se intenso, in
quanto il porto ideale (in cui un poeta “classico” - e “romantico” insieme quale fu il Sanini cercherà, con nostalgia, di trovare “quiete”) resterà pur sempre l’Ellade, con i suoi miti, le sue epopee, i suoi canoni di bellezza, armonia,
serenità e perfezione mai più eguagliati.
***
di Torino. Nella sua attività letteraria, da una giovanile fase di adesione al positivismo e al verismo,
caratterizzata da un pessimismo quasi nordico e da dubbi e assilli metafisici romanticamente espressi,
approdò al simbolismo cristiano, pur conservando quella vena meditabonda che lo accomuna al Boito
e al Prati della maturità. Tra le sue opere, le raccolte di versi Medusa (1880), Rime della selva (1906)
e il saggio L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel sec. XVIII (1911).
2)
Per la “Storia della filosofia indiana” vedi: Sarvepalli Radhakrishnan (1888-1975), autore anche di “An
idealist view of Life” (1929) e Leonardo Vittorio Arena “La filosofia indiana” (Ed. Newton Compton,
1995); Storia delle religioni, a cura di Henri-Charles Puech – Universale Laterza, Bari 1978.
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Osvaldo Sanini
I discepoli e gli amici più cari del poeta, passati ormai quasi tutti a miglior
vita, hanno lasciato testimonianze appassionate sulla personalità del Maestro,
figura esemplare (sia sul piano culturale che civile) ed educatore dalle idee
aperte e innovatrici, che a un sapere nozionistico e ripetitivo contrapponeva
un apprendimento critico, basato sul dialogo, sulla conoscenza dei fatti umani
e sullo studio delle lingue, della letteratura e dell’arte.
In questo breve saggio mi soffermerò solo su alcuni aspetti salienti della
figura e dell’opera del Sanini, rimandando all’interesse e alla perspicacia di
chi vuole saperne di più la scoperta di altri temi e altri particolari.
Ogni approccio alle opere del Nostro, ovviamente, risulterà tanto più
completo, piacevole e istruttivo quanto più gli elementi biografici e artistici
verranno visti alla luce dei contesti storici, culturali e politici in cui si colloca
la vicenda del poeta genovese: dal clima letterario e filosofico europeo fra le
due guerre agli anni della dittatura fascista, della seconda guerra mondiale e
del dopoguerra, alla rinascita democratica e alla ventata di speranze, di giustizia sociale e di libertà.
Potranno risultare illuminanti (specialmente per chi quei tempi non ha
vissuto) anche tutti i dati e tutti gli aneddoti tramandati dagli anziani e dagli
amici che ebbero la fortuna di conoscerlo, in quanto contribuiscono a rendere
più attuale, più umana e vicina a noi la sua figura.
***
Un profilo abbastanza completo e puntuale si evince dalla lettura e
dall’analisi delle opere saniniane, dalle quali emergono, con forza, la consapevolezza e l’intento, direi la “missione”, del poeta di affidare alle nuove generazioni, affacciantisi sullo scenario di un mondo nuovo (nato dopo gli anni
bui della dittatura fascista e della guerra), un messaggio di pace, di speranza,
di giustizia sociale, di elevazione delle masse lavoratrici attraverso l’istruzione e la cultura, di amore per la democrazia e per la libertà3.
Sul ruolo e sui rapporti fra il poeta e la società così scriveva Giacinto Spagnoletti in “Poeti del Novecento”, nel 1960.
“Esclusi da ogni sfera di dominio da più di un secolo, messi al margine della società, spesso banditi
come irregolari pericolosi e costretti a scendere a durissimi patti con la realtà quotidiana, i poeti non
sanno rassegnarsi a considerare la poesia qualcosa di più di un gioco innocuo e solitario. Mentre il
mondo moderno affinava i suoi strumenti scientifici e creava nuove macchine, la poesia, a dispetto di
tutto, ambiva a giustificare le cose supreme, a capire e a definire, dentro se stessa, l’universo. I poeti,
se sanno ormai chiaramente che il mondo può fare a meno della poesia, non riescono a distruggere
l’illusione che la poesia serva a qualcosa. In ogni poeta che scrive ritorna il mito di Orfeo”.
3)
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Osvaldo Sanini
È da notare, in proposito, che la lezione di vita del Maestro (significativa
pur nell’ingranaggio della grande Storia) non è caduta nel vuoto in quanto,
attraverso gli anni e le generazioni, è riuscita a innescare un processo di maturazione abbastanza diffusa, apparentemente invisibile, ma inarrestabile.
“A egregie cose il forte animo accendono
l’urne dei forti, o Pindemonte, e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta”4
cantava l’antesignano ottocentesco del nostro poeta.
Certo, la religione degli affetti, l’esemplarità della vita dei Grandi, insieme ad altri valori universali, se interiorizzati e trasmessi di generazione in
generazione, costituiscono una molla indispensabile, un elemento basilare di
continuità e progresso spirituali.
Un tema, questo, chiaramente foscoliano. E non è il solo!
Affinità di sentire, esperienze esistenziali, convinzioni ed altri aspetti accomunano il Nostro al grande poeta dei Sepolcri.
Un’analisi più circostanziata consente di individuare tali temi di fondo
e di sottolineare doverosamente esiti di valore e proporzioni diverse, perché
ogni artista, come ogni uomo, è unico, irripetibile, inimitabile.
Infatti il Sanini, pur richiamandosi idealmente ai Grandi del passato, cercò
sempre di essere se stesso, con le sue contraddizioni e le sue certezze.
C’è da osservare, tuttavia, che il tema dell’esilio (trasfigurazione del più
prosaico “confino”), i miti dell’infanzia e della patria lontana (Creta, Genova), l’avversione alla tirannide, la religione degli affetti, l’eternità della poesia non sempre trovano il colpo d’ala sublime e il giusto equilibrio.
Sovente fanno velo la rabbia, le sofferenze, il risentimento per le umiliazioni subite, le privazioni fisiche e psichiche, ancora troppo incandescenti e
gravide di scorie perché possano assurgere alla sfera rarefatta e temperata
dell’arte.
Esemplare, in tal senso, è il carme La tomba fraterna (del 1946), in cui,
accanto ad accenti di commosso lirismo, nell’animo del settantenne poeta,
Ugo Foscolo (Zante 1778-Turnham Green, Londra 1927): I Sepolcri – vv. 151-154
4)
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Osvaldo Sanini
“un divorante fuoco di martirio
e le sue fiamme s’agitano al soffio
della vendetta, giusta anco se fiera”.
E l’ira si mescola al cordoglio senza misura, tanto che non consente di
trovare
“le convenevoli parole/ di vituperio”
contro il codardo delatore, a causa del quale anche il caro fratello Vico
(anima gentile, franca e generosa) è venuto morire
“...in questo
attorniato da cime e flagellato
sempre da i più spietati orridi verni
malinconico mio luogo d’esilio”5.
Qua e là, nelle poesie del Nostro, si avvertono reminiscenze, suggestioni,
che richiamano alla mente autori ben più noti (da Dante al Parini, da Petrarca
al Foscolo, dal Pascoli al Carducci, al D’Annunzio).
Ma, a ben guardare, si tratta solo di echi, di ascendenze, comunque filtrate
e rielaborate, che non inficiano l’ispirazione e l’espressione poetica complessiva, in quanto il Sanini più autentico e felice (sul piano artistico) rivela una
spiccata personalità e un’intima coerenza.
È il Sanini che si interroga sul significato dell’esistenza, che propugna
ideali di amore e di uguaglianza, che rivela il suo impegno nelle questioni civili, che grida contro le ingiustizie e la malvagità umana, che non smette mai
di credere nell’uomo e nella possibilità di una sua rigenerazione.
***
L’arte del Sanini, coerente specchio della sua vita, rivela, nella sua evoluzione, una profonda maturazione umana, morale e poetica.
La ricerca di soluzioni formali segue di pari passo la ricerca dell’identità
dell’uomo, in un’incessante altalena fra inquietudine e pacificazione (dall’esacerbato individualismo e cupo pessimismo nichilistico degli anni giovanili,
motivi ispiratori della raccolta di poesie “Io” del 1912, all’ottimismo uma5)
O. Sanini: La tomba fraterna (1946), vv 8-11.
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Osvaldo Sanini
nitario della vecchiaia avanzata, eternato nelle liriche inedite del “Canto dal
Confino”, composte durante il ventennio grottese).
Poeta aristocratico (nel senso di “colto”) e popolare (per la sua vena
schietta e comunicativa), Sanini sperimenta le forme poetiche ed espressive
più varie (endecasillabi sciolti, terza rima, sonetto, ballata, canzone, ode),
spaziando dal monologo lirico al dialogo, dall’ironia all’invettiva, allo sfogo
ossessivo, alla poesia di circostanza e di maniera.
Predilige il ritmo regolare, gli effetti piani o aspri a seconda del sentimento da evidenziare, l’evocazione di sensazioni visive e musicali, il ricorso alle
reiterazioni e alla simmetria, l’espressione forbita e l’aggettivazione elegante.
Se, talvolta, si abbandona al piacere della forma leziosa e ricercata, rivelando abilità tecniche straordinarie, nei momenti migliori, però, riesce a
fondere in una mirabile sintesi creativa sentimento ed espressione.
Al Sanini mancarono, forse, le occasioni, il clima adatto, il colpo di fortuna perché la sua poesia potesse esprimere le più riposte potenzialità ed essere
consacrata fra quella dei Grandi del nostro tempo.
A titolo esemplificativo, si noti (e si gusti in anteprima) l’armonia del
sonetto
“Monti ch’io non cercai...”, tratto dalla raccolta “Canto dal confino”:
“Monti ch’io non cercai, fate che almeno
sian le mie strofe come l’aria lievi
e rubino l’azzurro al ciel sereno
e la bianchezza fulgida a le nevi.
Fate che almen su più basso terreno
lasci ricordi più del piombo grevi
e, di devozione il cuore pieno
e d’alata speranza, a Dio m’elevi.
Monti, purificatemi co’ venti
freschissimi de l’alba, con la luce
de l’aurora, con l’acque de’ torrenti.
Nel salïente al sol vapor sottile
alfine io senta in me quanto seduce
l’anima sol, non l’involucro vile”.
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Osvaldo Sanini
Qui l’ispirazione scorre fluida, melodiosa, dal principio alla fine, e si arricchisce via via di immagini, emozioni e pensieri, ben evidenziati dalla varietà
e proprietà del linguaggio poetico (allitterazioni, metafore, personificazioni:
la “speranza alata”) e dal lessico impreziosito con parole colte (“fulgida”,
“grevi”, “salïente”).
I monti dell’Irpinia (non più quelli della Grecia o della Scandinavia) vengono invocati quali pronubi di una poesia leggera come l’aria, serena come il
cielo azzurro, candida e pura come la neve. Le ardue vette, nell’auspicio del
Sanini, concorrano, altresì, a conservare la memoria dell’infelice esule, dopo
averlo liberato della prigione del corpo e purificato attraverso gli elementi
vitali della natura (“i venti freschissimi dell’alba”, “la luce dell’aurora”, “le
acque dei torrenti”). Sol così il poeta può anelare ad avvicinarsi alla divinità
e a ritrovare l’essenza delle cose, la bellezza dello spirito.
***
Giornalista corrispondente del “Secolo XIX” di Genova e de “Il Sole” di
Milano, dopo le movimentate esperienze nelle diverse città d’Europa (Genova, Berlino6, Copenaghen, Oslo7, Parigi), il Sanini, mentre dalla Francia
rientrava in Italia, nel Natale del 1940 venne arrestato alla frontiera, recluso
prima nelle carceri di Susa e Genova, relegato poi dalla dittatura fascista in
uno sconosciuto paesino del Sud, Grottaminarda, in quel tempo povero materialmente e spiritualmente.
Dal febbraio del 1941 al 28 febbraio del 1962 (anno della sua morte) il
confinato genovese alloggiò in una misera stanzetta al secondo piano di uno
Nella capitale tedesca (nei primi decenni del XX secolo crogiuolo di circoli, movimenti letterari,
sociali e filosofici d’avanguardia) il Sanini strinse amicizia, tra gli altri, con Mario Mariani, figura
dalla forte personalità, delle cui idee il Nostro non poté non risentire. Mario Mariani (Solarolo, 1884
- São Paulo, 1951), scrittore, giornalista del Messaggero e saggista, ebbe in Italia, all’inizio del XX
secolo, un certa popolarità per i suoi romanzi provocatori, permeati di anarchismo, analisi sociale e
una blanda critica ai valori della rinata classe borghese. Con l’avvento del Fascismo (a cui rivolse
una critica spietata, ma più da un punto di vista sociologico che politico), emigrò in Francia, dove
pubblicò i Quaderni dell’Antifascismo e del Volontarismo. Infine si stabilì in Brasile, non facendo
mai più ritorno in Italia, nemmeno a liberazione avvenuta. Tra le sue opere, i saggi: Il ritorno di
Machiavelli, 1916 ; Studi sulla catastrofe europea, 1917; Povero Cristo, 1920 (romanzo - Casa Editrice
Sonzogno).
7)
Copenaghen, Oslo. I viaggi nei Paesi nordici ispirarono al Sanini le poesie pubblicate, nel 1954, nella
raccolta “Fiori scandinavi” (Reggio Calabria, Edizioni Procellaria), fra le quali degne di nota sono le
liriche: “Ode alla Danimarca”, “Amundsen”, “Reviviscenza”, “Aurora boreale”, “Addio Scandinavia”,
“Vespri nordici”, “Viale dei sospiri”.
6)
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Osvaldo Sanini
stabile al Largo Sedìle. In quel piccolo vano, “arredato” da un lettino, un rozzo tavolo, un paio di sedie e da una “fornacella” a carbone (che fungeva da
scaldino e fornello), il Sanini, gratis o dietro piccole ricompense in natura, un
piatto di pasta (fusilli, cicatielli) dava lezioni di Italiano e Francese a non più
di due studenti per volta.
L’habitat del “pericoloso” ospite era completato da una grossa logora valigia (in cui conservava indumenti ed effetti personali) e da fogli, manoscritti,
libri di esercizi in tedesco, un dizionario francese, due grammatiche tedesche,
Eschilo in tedesco, poesie di Alfred De Vigny8, sparsi dappertutto, in perfetto
sacro disordine e perennemente ricoperti di uno strato inamovibile di polvere.
“O modesta stanzuccia di villaggio
che a me d’aria e di sol fosti cortese,
tu sarai meta di pellegrinaggio
certo a la gente che il mio canto intese”.
Aspettative e illusioni a parte, da quell’angusto “rifugio” il pensiero del
poeta, per vent’anni, spaziò libero per l’infinito, innervando (con passione,
amore e gratitudine) nella vasta cultura democratica europea (acquisita in
Francia, Germania, Scandinavia, Genova) vita, luoghi, uomini e comunità
dell’Irpinia.
A Grottaminarda l’attendevano giornate non liete, le avversità del clima e
l’ostilità di un ambiente sociale diffusamente ignorante, “educato” dalla propaganda del regime all’odio, alla diffidenza, al disprezzo e all’intolleranza.
Il poeta, anima fervida e ribelle, non si arrende al primo impatto e, tra sofferenze e restrizioni d’ogni sorta, tra incomprensioni e cattiverie più o meno
intenzionali, riesce pian piano a sollevarsi e a volare in alto come un’aquila,
simbolo del suo genio, al di là delle “aspre ostili altitudini” e delle “abissali
nefandezze umane”. Col passare degli anni, l’errabondo figlio del mare, si innamorerà dell’ardua montagna, dei dolci borghi, delle meraviglie della natura
del sud.
Nel cuore del vegliardo esule avviene, così, una metamorfosi inimmaginabile appena pochi decenni prima ed esplode in uno stupendo canto di gioia,
di gratitudine, di elevazione verso il cielo:
Dal Verbale di perquisizione all’internato Osvaldo Sanini, Municipio di Grottaminarda – 30 maggio
1941 – XIX
8)
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Osvaldo Sanini
“Irpinia bella, in maschera
vil, uomini a’ più rei crimini pronti,
voleano ch’io quaggiù lasciassi l’ossa,
e ne l’inverno gelido,
entro la cerchia bianca de’ tuoi monti,
mi gettarono come in una fossa.
Mi volean morto i perfidi;
ma tu m’alzasti da la sepoltura
e mi scaldasti il cuore e apristi il ciglio,
tu mi parlasti tenera
e prendesti di me gentile cura
come ti fossi il più diletto figlio.
Se a la superba tavola
non mi sedetti mai del ricco esoso,
che del digiuno altrui gioisce e ride,
tutto lo slancio nobile
conobbi del tuo popol generoso
che col viandante il bruno pan divide.
Senza famiglia, o Irpinia,
sol con un’Ombra, io vivo sul tuo suolo,
e lente, uguali, scorrer vedo l’ore;
ma la mia solitudine
si popola d’immagini, che solo
sanno crear le tue splendide aurore.
O bei pianori, o vertici,
che il sole abbraccia ed accarezza l’aria,
come larghe su voi l’ali dispiega
il mio pensiero libero,
come l’anima, ognor più solitaria,
in onde più diafane s’annega.
Apre, ostili altitudini
di Nusco, di Chiusano, di Trevico,
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Osvaldo Sanini
a i cangiati occhi miei pare oggi lieve
la già pesante cupola
de le nubi, ché il turbine m’è amico
e m’è sorella l’implacabil neve.
Io mi perdo ne i torbidi
cieli o m’aggiro ne l’azzurro terso,
sciolti i vapori, in compagnia dei falchi,
e a sera con gli Spiriti,
che dominano i culmini converso,
né più mi sembra che il pianeta io calchi”.9
Dopo un primo periodo di
indifferenza e di incomprensione, il “professore” conquistò
la stima e la benevolenza della
gente, specialmente dei giovani, che furono affascinati dalla
sua cultura e dalla sua vitalità
sorprendente.
Pur avendo superata la soglia
dei 70 anni, mostrava ancora
l’entusiasmo e il cuore di un
ventenne. Girava per le strade
del paese in compagnia dei suoi
giovani “discepoli”, osservava
ogni cosa, si fermava a parlare
con artigiani, bottegai, piccoli
commercianti e contadini venuti
a vendere i loro scarsi prodotti.
Per la sua ingenuità, l’uomo
Sanini, vittima e protagonista involontario di qualche scherzo bonario, entrò nell’aneddotica locale in modo
affettuoso come “uno di noi”, ma sempre rispettato per la sua levatura morale
e culturale10.
O. Sanini: All’Irpinia (1948)
“Agli amici più cari riservava l’antisera per la consueta passeggiata. Una volta, passa Giuseppe De
9)
10)
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Osvaldo Sanini
La bellezza del paesaggio irpino, la generosità della gente, le scene di vita
paesana destavano il suo interesse, la sua commozione e accendevano il suo
estro poetico.
Nello stesso tempo, come intellettuale subiva i condizionamenti dell’ambiente stagnante della provincia e del piccolo villaggio, in cui, per dirla con
Gramsci11, “grande importanza hanno i pettegolezzi, le inimicizie, la polemica personale, dove nessun interesse trova la vita internazionale e nazionale
(se non come curiosità, stranezza, calcolo elettorale o di carriera)”.
Nell’impatto, il poeta, lo scrittore, il giornalista, il poliglotta, il cosmopolita errante rischia di “rimetterci” e di essere sconfitto.
Sprovincializza, disvela gli orizzonti della conoscenza e del sapere alle
giovani leve, ma deve fare i conti con una mentalità gretta e rozza, che pensa
in piccolo e con un ambiente che “respira fascismo a pieni polmoni”.
A Grottaminarda, il Sanini trova una realtà ben definita nei suoi connotati
di miseria e di ignoranza, una comunità in fondo generosa, originale e autentica (con i suoi costumi, tradizioni, linguaggio, credenze ), ma per lui nuova e
difficile da capire al primo impatto, una comunità dominata da poche famiglie
di notabili e proprietari terrieri, nonché da uno sparuto numero di “intellettuali di tipo tradizionale” (preti, avvocati, maestri, medici) di estrazione contadina o piccolo borghese del centro abitato.
Il Sanini, tuttavia, giorno dopo giorno, svolge un ruolo di rottura nei confronti dei gruppi dominanti, dedicando gran parte delle sue giornate all’elevazione morale e culturale dei figli del ceto medio artigiano.
Il suo metodo di acculturazione, di ascendenza socratica, si esercita nelle
botteghe, per la strada, nella sua umile stanzetta situata in una palazzina a più
piani al Largo Sedile. In modo aperto e schietto, anche se non programmatico, è finalizzato alla trasmissione del sapere, all’insegnamento degli ideali
di amore, fratellanza e rispetto della persona umana, alla ricerca se non della
verità almeno di una visione abbastanza critica delle cose attraverso il colloRosa, uno dei quattro spazzini del paese, e, dopo averlo salutato con tanto di cappello, domanda: «Chi
è quel signore?». E noi: «Professore, si chiama Peppeniciello Lu Taralluccio». E lui: «Offarbacco!
Pennicello della luce. Che nome romantico!»”. Dal “Diario di ricordi personali” di Pasquale Iacoviello
(1925-2001), allora giovane sarto, che molto risentì, sul piano della formazione culturale ed umana,
dell’amicizia del Sanini.
11)
Antonio Gramsci (Ales 1891-Roma 1937), pensatore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito
Comunista e studioso della “Questione meridionale”. Arrestato dal governo fascista nel 1926, fu
recluso a Turi e quindi ricoverato (1933) a Formia e a Roma, dove morì dopo una lunga malattia. I
suoi scritti maggiori sono le Lettere dal carcere e i Quaderni (post. 1948-1951): studi sul ruolo degli
intellettuali e del partito, sull’arte e la letteratura, sul risorgimento e la società italiana.
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
quio e il confronto12.
Col passare del tempo la solidarietà degli amici, specialmente dei più giovani, lenisce le sofferenze dell’esule e lo concilia con l’ambiente un tempo
ostile.
È nel mutato clima, è in uno sperduto paese irpino che il “professore”
genovese, a oltre 70 anni, ha modo di esplicare di nuovo la sua vena più autentica e di raggiungere, ancora una volta, le più alte vette della poesia.
Vedono così la luce, dopo un periodo di macerazione e di silenzio, stupende composizioni in cui i motivi della bontà, dell’altruismo, del dolore, della
gratitudine, della meraviglia di fronte alla bellezza della natura e del paesaggio meridionale raggiungono elevati toni lirici.
Si vedano, tra gli altri, i canti: Per i poeti futuri (1946); La tomba fraterna (1946); All’Irpinia (1948); Dio! Quanta neve, quanta neve scende; O
mio mare, o mio mare!...; L’orologio del borgo suona l’ore; Monti ch’io non
cercai...; Gaia è l’aurora su Grottaminarda; Santa Maria…; Così, da questo
culmine romito; Prime piogge d’autunno; Leggendo il tuo volume... (a P.P.
Parzanese).
Dei su citati componimenti mi piace riportare il sonetto “Gaia è l’aurora
su Grottaminarda”, uno dei tanti dedicati dal Sanini al “dolce borgo d’Irpinia”, che ospitò il poeta negli ultimi vent’anni della sua vita (1941-1962):
“Gaia è l’aurora su Grottaminarda:
incede tra le nuvole e una festa
di vive rose a i monti intorno appresta,
mentre al fiume un vapor bianco s’attarda.
D’arancio il cielo tingesi: una cresta
s’orla d’aureo splendore e pare ch’arda,
e fremono le piante e una gagliarda
onda vitale i nidi e i cuori desta.
Dolce borgo d’Irpinia! Passa l’ora
12)
Sanini, negli anni del secondo dopoguerra, fu maestro e guida per molti giovani, figli di artigiani,
piccoli commercianti, contadini e operai. Alla sua “scuola” si formarono i primi “discepoli” ed “amici”: Remo e Roberto Minichiello, Luigi Lazzaruolo, Pasquale Iacoviello, Michelangelo Bozza, Mario
Melucci, Leopoldo faretra, Giovanni Vitale, Nello Rossetti.
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Osvaldo Sanini
fatata e già le fresche meraviglie
non scopre a gli occhi attoniti l’aurora.
Non più ne l’alto ridono vermiglie,
eppur le rose tue restano ancora
su la guancia gentil de le tue figlie”.13
Si noti la stupenda personificazione dell’aurora, che, come una dea, incede maestosa tra le nuvole, creando nel cielo e sui monti circostanti il “dolce
borgo d’Irpinia” un tripudio di luci e di colori caldi (vive rose, arancio, oro,
vermiglie).
In pochi attimi la visione fiabesca (“l’ora fatata”) svanisce e, con lei, si
dileguano anche le “fresche meraviglie” della natura.
Ma un segno di quell’onda vitale e una scia di quel fulgore continuano a
brillare negli occhi, nel riso, sulle guance gentil delle “donzellette” grottesi.
E molto più resta nel cuore e nella mente del poeta, ormai ringiovanito, se
non rinato, nel suo dolce “nido d’aquila”.
***
Nella lunga, errabonda e tormentata esistenza del Sanini la poesia ebbe
senza dubbio un ruolo di primaria importanza; fu infatti la sua principale passione, compagna inseparabile, vitale come l’aria, lenitrice e catartica.
Tuttavia, altri aspetti dei suoi lavori letterari (dal teatro alla narrativa),
meritevoli di attenzione e di indagine, potrebbero fornire tasselli significativi
per completare il mosaico della sua complessa e versatile personalità14.
Un accenno, però, alla raffinata sensibilità musicale dei suoi versi e a una
certa inclinazione per l’oratoria (nel senso più alto del termine) mi corre l’obbligo fare.
Nella raccolta poetica dell’ultimo periodo (“Canto dal confino”) numerosi
sono i componimenti dedicati dal Sanini all’Irpinia, alle sue bellezze artistiche e naturali, ai paesi della valle dell’Ufita, alla gente semplice o a personaggi più o meno famosi, alle tradizioni, alle credenze, alle leggende locali.
E vasta è la gamma dei temi trattati.
Parma, Genova, Paesi scandinavi si fondono con la poesia quotidiana del13)
14)
O. Sanini, dalla raccolta di poesie Canto dal confino
Per le Opere del Sanini vedere la Scheda riportata in appendice.
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Osvaldo Sanini
le piccole cose, con la scoperta della bontà e generosità umana, con l’annullamento di se stesso nella bellezza del creato.
Momenti di serenità e gratitudine (vedi: All’Irpinia) si alternano ad altri di
“cupo sgomento de la vita” (La tomba fraterna), di speranza, riscatto e fede in
un mondo migliore (Nella Vandea italiana, Cristo è socialista).
Sempre presente, poi, è la contrapposizione fra natura buona (amica e madre) e natura cattiva (ostile e matrigna), specchio della sua concezione della
vita e dei suoi stati d’animo.
Dal punto di vista estetico non possono non colpire gli esordi lirici e le
ampie “chiuse” (scorrevoli e piane), gli intermezzi (permeati di pensieri ed
affetti) o l’armonia dei versi e il prezioso mosaico delle parole.
Musicalità e originalità insieme, in quanto il Sanini, pur restando fedele,
nell’uso della lingua e delle strutture metriche, alla tradizione, cerca sempre
di rendere in modo personale i motivi della sua ispirazione.
Di qui il linguaggio forbito, il vocabolo colto e ricercato, i periodi ricchi
di subordinate e figure retoriche (anafore, iperbati, metonimie, ecc.), la grafia
e la punteggiatura impeccabili, che non sono orpelli tecnici esteriori, leziosi, vuoti e formali, ma rispondono a un’intima esigenza di rendere quel che
“amor gli ditta dentro” con i ritmi, le pause, i toni più giusti e appropriati.
Accade così che l’anima “fervida e ribelle” del poeta, perennemente errante e inquieta, si sciolga panteisticamente nel creato, arborea prole immersa
in un supremo oblio di se stessa, “atomo d’erba ed atomo di sole”, o che si
plachi, quale “naufraga nota”, nel gran mare dell’essere, “su l’onde de l’immenso ocean de i suoni”. Accade ancora che proprio lui, il Sanini, figlio del
mare, si innamori dell’ardua montagna e senta un mistico desio di salire, di
ascendere ai sommi cieli, a Dio, oltre i bei pianori e le alte vette dei monti
irpini.
I sensi si smarriscono nel rigoglio della natura, le splendide aurore e le
notti stellate scaldano l’animo del vegliardo poeta; hanno il potere di “cavar
lagrime pie” dai suoi occhi, di popolare di ricordi e immagini care la sua solitudine.
Il suo pensiero libero, giunto sulle sponde dell’infinito, prova la vertigine
del sublime e, negli alti silenzi, “ne le notti più nitide d’estate”, ascolta una
musica celestiale, divina (“che non ha terrestri suoni”).
La sua poesia, priva ormai di ogni connotazione materiale e corporea,
purificata dai “venti freschissimi dell’alba, dalla luce dell’aurora, dalle acque
dei torrenti”, vola in alto nell’azzurro terso, oltre il “ vorace tempo che tutto
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Osvaldo Sanini
ingoia”, oltre i confini umani e naturali, a “contemplare, nell’ambito santo de
le volte eteree, quanto di puro e luminoso esiste”.
Il Sanini conosce bene la forza ammaliatrice e persuasiva della parola,
quando è declamata con trasporto, con attenzione ai toni, alle pause, al ritmo
e all’armonia complessiva. Sotto questa luce sembra che molte composizioni,
nell’ampia gamma poetica del Nostro, siano state pensate e scritte per essere
lette ad alta voce, per essere, più precisamente, “recitate”.
Tutto appare ben congegnato, oltre che sentito, per tale scopo: dal vocativo iniziale alla chiusa finale, passando attraverso un crescendo intermedio in
cui si condensano sensazioni, idee, affetti.
È un corso d’acqua che va ingrossandosi via via di commozione e pensieri, fra svolte e riprese, costruzioni sintattiche spesso ardite e complesse, ma,
pur nella struttura chiusa della metrica tradizionale, controllate e impeccabili.
Frutto senza dubbio di un lungo studio e tirocinio, ma anche di una connaturata predisposizione per l’uso degli strumenti espressivi verbali.
Avviene, così, che l’onda creativa del poeta si anima fra le sue dita, abili
anche in età avanzata, e fluisce depurata sino alla foce, dove finalmente si
placa.
Di fronte alle più belle liriche del Sanini qualcuno potrebbe chiedersi:
È retorica, puro artificio o bravura?
Niente di tutto questo, se non un genuino sentire e rispondere a una esigenza intima, profonda, che prende vita in una forma altrettanto spontanea e
originale, anche se elaborata. Sicché tutto l’insieme (dal ritmo che si genera
man mano che la poesia procede al sentimento che si sprigiona) tende verso
un punto culminante di liberazione e di coinvolgimento del lettore, uditore o
spettatore, grazie al fascino, alla bellezza delle parole associata alla gestualità, come a teatro.
Di qui le belle “aperture”, la varietà dei toni, le allocuzioni in cui si fondono l’empito del cuore e i voli della fantasia.
Sanini, senza dubbio, di tutto questo era profondamente innamorato e si
autocompiaceva, tanto che, di riflesso, non riusciva a sottrarsi, lui esperto del
mestiere, alla suggestione, al godimento estetico, all’ammirazione per tutte le
parole ben organizzate e ben dette ad alta voce, fossero quelle della poesia,
15)
Il Sanini scrisse anche diversi testi teatrali (commedie, drammi, operette). Vedi Scheda delle Opere
in appendice.
A proposito dell’importanza e dell’utilità del teatro così il Sanini scriveva: “Si ricordi soltanto in che
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Osvaldo Sanini
della recitazione teatrale15 o dell’oratoria forense e politica.16
Esemplificativi, in tal senso, sono i versi dedicati a evocare la “bravura”,
creativa e battagliera, del fratello Vico, avvocato di grido il quel di Genova,
che
“l’acuto scintillante ingegno
esercitava nel forense agone
e infiorava di grazie agili l’ardua
concione e d’insueti motti il foglio
arido, a dilettar gl’inclini orecchi
e ne gli occhi a destar lampi di riso”.17
O le quartine ispirate dalla potenza salvifica dei “discorsi” di Ireneo Vinciguerra18, il quale, con la sua oratoria, riusciva ad ammaliare e ad infiammare
le piazze dei paesi dell’Irpinia, nei comizi per il Referendum (fra Monarchia
e Repubblica) del 2 giugno 1946.
“In quest’angolo de l’Ufita malsano
per pozze e nebbie, dove mi spedì
la coppia Mussolini e Carignano
ad accorciare i miei calanti dì,
-------------------------------------Vinciguerra t’udii. La tua favella
tutta la possa avea del temporal
che purga l’aria, il cielo spazza e abbella
rendendolo tersissimo cristal”.19
16)
17)
18)
19)
conto tenevano il teatro gli antichi Greci, il popolo che al mondo rivelò la Bellezza e irraggiò la Civiltà. Per l’elevazione intellettuale della gioventù, la scuola non basta: ad essa occorrono collaboratori,
e il più efficace di tutti è manifestamente il teatro, che dilettando insegna...
Rappresentazione di opere drammatiche e comiche degne, di commedie vestite di ottima musica sarebbero non solo un diletto intellettuale per ognuno, ma apporterebbero anche un utile a speciali categorie
di lavoratori, soprattutto durante il periodo invernale. Uno spettacolo svariato, ideato e realizzato con
gusto, potrebbe costituire un’attrazione per un ragguardevole pubblico forestiero! Gli esercenti non
avrebbero nulla da perdere”.
Per l’arte oratoria (canoni e regole dell’eloquenza, norme compositive e stilistiche, registri e varietà
del inguaggio) e per i rapporti fra oratoria e poesia, vedere: Fedro, di Platone (427-347 a. C.) e
Institutiones oratoriae, di Quintiliano ( 35-95 d. C.)
O. Sanini: La tomba fraterna (1946), versi 37-42
Ireneo Vinciguerra (1887-1954), avvocato, socialista, fu eletto deputato alla Costituente il 2 giugno
1946.
O. Sanini: Nella Vandea italiana (1946), versi 1-4; 13-16
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Osvaldo Sanini
Da notare che il vocativo “Vinciguerra, t’udii” giunge alla fine di una
lunga premessa che ci tiene con il fiato sospeso per ben 12 versi, essendo
formata da un unico periodo ben strutturato, carico di tensione emotiva, che
sale poi sempre più nelle strofe successive, man mano che il canto si dispiega,
ed esplode, alla fine, in un acuto di gioia per la realizzazione di un “sogno”
(di libertà, democrazia e uguaglianza) perseguito, fra ristrettezze e privazioni
d’ogni genere, per tanti e tanti anni.
“O compagno di lotta, io non vedea
una plebe di servi intorno a me,
non più un’italica Vandea,
devota a i ricchi, a gli scaccini e a i re,
ma un gran popolo in piedi, che de i padri
ignavi scuote il giogo secolar...”.20
Altra notazione sullo stile della poetica saniniana: Spesso, già nelle esclamazioni o vocativi iniziali si incomincia ad assaporare il motivo conduttore e
il ventaglio di emozioni, ricordanze, pensieri, non mai sopiti dolori, amarezze, rimpianti.
Ecco un piccolo campionario di esordi lirici:
“Irpinia bella, in maschera vil...”; “Eroica Parma, fiore de l’Emilia…”;
“O mia Genova bella...”; “A che torni, o primavera...”; “ O modesta stanzuccia di villaggio...”; “O querce, o pini, o aerei pioppi...”; “O da la gabbia libero
e dal laccio,/ vola, vola, o mio genio, aquila audace...”; “Monti, ch’io non
cercai...”.
Per concludere questa sezione, un breve appunto sulla “poesia di circostanza”. Per non apparire scortese e ingrato verso i pochissimi che gli volevano bene, e per “disobbligarsi” verso gli amici che lo invitavano a feste e cerimonie (matrimoni, battesimi ecc.), il Sanini (che, ci tiene a dirlo con orgoglio,
a la superba tavola/non si sedette mai del ricco esoso,/che del digiuno altrui
gioisce e ride), in più d’una occasione compose epigrammi, ballate, poesie
celebrative o testi da musicare (serenate, canzoni e romanze per drammi e
commedie).
20)
O. Sanini: Nella Vandea italiana (1946), versi 49-54
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Osvaldo Sanini
Pur dettati da motivazioni esterne ed estemporanee, spesso anche questi
scritti risultano ben organizzati e non privi di spunti originali.
Ecco la prima strofa di un “Brindisi nuziale”:
“Da lustri in questo mio luogo d’esilio
scorrer via via le generazioni
io vedo come acqua di fiume, e gli uomini
e le cose mutar con le stagioni...”.21
Come si può ben notare, ogni aspetto della personalità e dell’arte del Sanini è ricco di suggestioni, stimoli, rimandi, e fornisce tasselli utili per la
composizione del quadro complessivo.
***
Sarebbe interessante, attraverso uno studio approfondito, conoscere quando, per quali vie e perché il Sanini passò da un radicale individualismo22 (spiritual-filosofico) a una sorta di umanitarismo collettivistico o di socialismo
utopistico sentimentale23. Sulla base da quanto si evince dagli scritti disponibili, non sembra che questa evoluzione abbia radicati fondamenti scientifici e
dottrinali, né risulta che le tappe e l’approdo finale si muovano nell’ambito di
un attivismo di carattere sociale ed economico.
I due poli contrapposti del “pensiero” saniniano, probabilmente, affondano le radici, oltre che in una buona “cultura” umanistica e giuridica, in una
spiccata sensibilità (e capacità intuitivo-speculativa) e in una visione sentimentalmente bonaria, idealistica della storia, della società e della convivenza
umana.
O. Sanini: Brindisi nuziale (al dr. Rocco Villanova e Clelia Romano, 1961).
Individualismo radicale: storicamente è uno dei due diversi aspetti in cui si manifesta l’anarchismo.
“Il liberalismo economico e politico viene portato alle estreme conseguenze. Viene proclamato il
diritto quasi illimitato del singolo all’isolamento sociale, per cui alcuni pensatori hanno ormai ben
poco a che vedere con i movimenti sociali, con i quali l’individualismo radicale ha tuttavia in comune
le radici illuministiche. Una figura caratteristica, in Germania, fu Max Stirner (1806-1856), il cui
libro L’unico (Der Einzige un sein Eigentum, 1845) influenzò il Nichilismo, che doveva svilupparsi
in seguito”. Werner Hofman: Da Babeuf a Marcuse – Storia delle idee e dei movimenti sociali nei
secoli XIX e XX.
23)
Comunismo (socialismo) utopistico: “Questa variante del comunismo economico viene definita utopistica in quanto i fondatori e gli adepti vogliono iniziare subito la realizzazione della società ideale,
imboccando la via della riforma pacifica, senza tener conto delle condizioni storiche. Il sogno del
comunismo egalitario appartiene già all’epoca preindustriale (Utopia, di Tommaso Moro, 1516; La
città del sole ,“Civitas solis”, 1602, di Tommaso Campanella)”. Werner Hofman, op.cit.
21)
22)
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Osvaldo Sanini
È ipotizzabile che un ruolo importante in tale metamorfosi o illuminazione (dall’Io al Noi e agli Altri) l’abbia avuto il Mariani24, figura eccentrica,
spirito anticonformista e libertario. O i circoli e gli ambienti frequentati nei
primi decenni del XX secolo dal giornalista e poeta genovese, già allora ribelle, sognatore, e il suo insopprimibile anelito verso un mondo più giusto
e più buono, insieme a una latente, vaga idea di una società migliore, in cui
siano garantiti, oltre ai bisogni primari, la dignità delle persone, il diritto alla
libertà, all’istruzione, alla giustizia, alla pace.
Rimandando a tempi e occasioni migliori la risposta a questi interrogativi, per il momento mi limito a formulare, in base ai documenti disponibili,
sintetiche annotazioni sull’impegno e sulle idee politiche del poeta genovese.
Per l’educazione ricevuta, per le scelte di vita, per le idee manifestate in
più di una occasione, il Sanini fu senza dubbio antifascista; e perciò fu condannato al confino col marchio infamante di “internato politico”.
Antifascista, dunque, ma anche socialista: un socialista sui generis, non
ideologizzato, sentimentale, umanitario, evangelico. Si veda in proposito il
carme “Cristo è con noi”, di cui si riportano qui alcune strofe:
“O fedeli, de i labari vermigli
lo sventolio non è presagio tristo
di perdizione: noi non siamo figli
de l’Anticristo.
……………………………………...
Un mondo ingiusto di padroni e schiavi
Ei sovvertire volle;
e con parole or aspre ora soavi
parlò alle folle.
………………………………………
O credenti, il pensier nostro è conforme
a la divina legge: il cuore, pieno
d’amore pe’ reietti, calca l’orme
del Nazareno.
……………………………………….
24)
Mario Mariani (Solarolo 1884 – São Paulo, 1951), scrittore, giornalista del Messaggero e saggista
(vedi nota n.6).
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
Sta soltanto nel bene collettivo
la salvazione.
Via la disparità rea di fortuna
con l’orgia a i ricchi e a i poveri lo scherno:
siedano alfine gli uomini a un comune
desco fraterno.
Abbia ciascuno con giustizia uguale
la ciotola di latte e i caldi panni
ne l’età prima e un tetto, un capezzale
ne gli ultimi anni.
O credenti, non noi de’ Farisei
siamo gli eredi: il sangue di Chi cinse
la corona di spine i nostri bei
vessilli cinse.
Quel sangue tutta compendiò la storia
d’ogni umano servaggio e patimento.
Le rosse insegne pur di Cristo in gloria
fluttuano al vento”. 25
Del resto, questa condizione era ben presente al Sanini stesso, che così
scrive: “Degli individui ricchi di denaro e poveri di intelligenza hanno creato
di me un personaggio politico, mentre io non sono che un artista26, cioè un
cultore del bello. Per me il gran nemico da combattere non è questo o quel
partito, è l’ignoranza, causa prima di tutte le sventure...”.
Sensibile alle contraddizioni e alle ingiustizie in cui si dibatte l’uomo del
XX secolo, divide l’Umanità (su un piano emotivo più che teorico) in buoni e
25)
26)
O. Sanini: Cristo è socialista (1947)- strofe: 1-3-9-18(ultimi due versi)-19-20-21-22
Nelle lettere formali e nelle istanze rivolte ad autorità politiche e istituzionali, il Sanini non si qualificò
mai “uomo politico”, bensì sempre “scrittore in prosa e in versi” o “artista”. Infatti, pur entusiasmandosi e partecipando in qualche modo alla ventata di libertà e agli avvenimenti successivi alla fine
della guerra (referendum del 1946, elezioni del 1948), sentì sempre, profondamente e coerentemente,
il primato dei momenti universali (arte, filosofia, religione) sui momenti contingenti e particolari
(politica, economia).
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Osvaldo Sanini
cattivi e vede nella Storia una lotta perenne tra forze contrapposte, tra Male e
Bene, secondo l’antica concezione manichea.
Questa visione, apparentemente semplicistica, ha come sottofondo una
vasta cultura, una buona conoscenza delle Letterature, della filosofia (principalmente tedesca), delle religioni, della psicoanalisi ed è permeata di princìpi
e valori etici universali.
L’umana solidarietà verso i deboli e i reietti, la condanna delle ingiustizie
e delle sopraffazioni, l’avversione per la tirannide e per il militarismo si alternano a momenti più “terreni”, in cui il poeta indugia sugli aspetti della vita
quotidiana del paese o si abbandona a sentimenti meno “eroici”, dettati dalle
sofferenze e restrizioni fisiche, dalla corporeità debole e vacillante.
“...Ho molto sofferto di cordoglio e di solitudine, di freddo e di fame; io
sono rimasto qui a Grottaminarda in condizioni miserrime”....
Non ho mezzi. Durante due lunghi anni vissi qui senza sussidi, consumando le ultime lire e vendendo indumenti e gli oggetti più cari”. 27
A conclusione delle tematiche affrontate in questo breve “saggio”, mi
preme ribadire, ancora una volta, che mille (come cantava il poeta in una
stupenda lirica giovanile28) sono le facce del prisma da analizzare con umiltà,
metodo e diligenza, se si vuole avere dell’opera e della figura del Sanini una
visione non approssimativa e disorganica.
“Un prisma dalle mille facce” altalenante fra grandezza e miseria, odio e
amore, sconfitte e vittorie, che “in una oscura lotta violenta / tra giubilo e dolore, / nel fuggente attimo vive l’eterna immensa vita”, ma proprio per questo
autentico, grande, degno di affetto, gratitudine e ammirazione.29
O. Sanini: Lettera a S.E. Conte Carlo Sforza – Roma (Grottaminarda, 19 ottobre 1944).
O. Sanini: Lettera a Sua Eccellenza Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio ( post 1945).
28)
O.Sanini: Io sono un prisma dalle mille facce (dalla raccolta “Io” - STEN - 1912).
29)
Questi appunti sul Sanini, nelle linee generali, risalgono al gennaio 1986. Sono stati rivisti e integrati
in occasione del Cinquantesimo Anniversario della scomparsa del poeta (1962-2012). Riordinati e
ampliati nei mesi di maggio e giugno 2013, vengono pubblicati, per la prima volta, su questa rivista.
27)
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
OPERE
Poesia
-Io, Casa Editrice STEN, Torino 1912. pagg. 157
-Fiori scandinavi, Ed. Procellaria, Reggio Calabria 1954. pagg. 47
-L’esilio in patria
-Il bastone di Garibaldi
-Canto dal confino
-Poesie e canzoni popolari
Teatro
Commedie
-Il trionfo di don Procopio, 1950
-Il cafone milionario
-Il teatro non s’ha da fare
-Le nuove catacombe
-Perocchetto
-Trogloditi odierni
-Dal regno dei mariti al…
-Il prosciutto di Balvano
-La fidanzata coi baffi
-Prosdocimo Cucuzziello cerca moglie
-Bibinet et ses millions (operetta in francese)
-Il conquistatore (scherzo fantastico-musicale)
-Il supergenio
-Omero (la patria balnearia)
Drammi
-Manole (tragedia), 1949
-La croce del sud
-Principe
-Il triclinio
-Il chiostro d’Arges
-Caligola
-Milonia Cesonia
-Lena e Cecilia
-I menestrelli
-Croce di stelle
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
Narrativa
Romanzi
-Amori a gran velocità
-Il mondo dello schermo
Racconti
-La stella alfa e altri scritti
-La leggenda degli erranti, Ed. Procellaria, Reggio Calabria 1955, pagg.71
-L’incorruttibile
-Il re dei misteri
-La grande paura
-La pelliccia e altri racconti
-La leggenda delle tute bianche
-Le vergini delle nevi
-Il terzo postino
-Lena
-Non e Rep
-L’uomo-fantasma
-La cometa
-Eclissi d’amore
-Scritti su Grottaminarda e su personaggi grottesi
Nota n.1
Ho elaborato questa scheda delle opere del Sanini nel settembre 1990, sulla base della documentazione, in
prevalenza manoscritta, custodita in quel tempo presso la Biblioteca della Scuola Media Statale “Giovanni
XXIII” di Grottaminarda (Av).
Nota n.2
Su iniziativa di un “Comitato per il recupero dei beni culturali di Grottaminarda”, nel 1978 furono trasferiti al
patrimonio pubblico tutti gli scritti (editi ed inediti) del Sanini, conservati fino ad allora dall’ing. Remo Minichiello, che del poeta genovese era stato uno degli alunni prediletti. A cura dello stesso “Comitato”, nel 1979,
fu pubblicato un volume divulgativo (cenni biografici, testimonianze, miniantologia), di circa 200 pagine, dal
titolo: Osvaldo Sanini – L’internato (Avellino CFD).
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
OSVALDO SANINI
(1876-1962)
Giornalista, poeta e scrittore.
Antologia a cura di Tonino Capaldo
Cenni biografici
Osvaldo Sanini nasce a Canea (isola di Creta) il 15 settembre 1876. La
famiglia, nel 1880, si trasferisce prima a Parma, città di origine, poi a Genova,
dove il Sanini prosegue gli studi laureandosi in legge. Come corrispondente
dall’estero del Secolo XIX viaggia per l’Europa (Scandinavia, Danimarca,
Germania, Francia) e viene a contatto con letterati (Arturo Graf, Mario Mariani) e compositori (Dardo Migliar, Franco Sapio, Lao Silesu). Il 24 dicembre del 1940, rientrando in Italia da Parigi, dove aveva soggiornato quasi
dieci anni, venne arrestato dalla polizia fascista e mandato al confino a Grottaminarda (Avellino). In questo borgo d’Irpinia resterà, vivendo in ristrettezze, dal febbraio 1941 al 28 febbraio 1962 , anno della sua morte.
Figura esemplare ed educatore dalle idee aperte e innovatrici, dopo un
primo periodo di indifferenza e di incomprensione, il “professore” conquistò
la stima e la benevolenza della gente, specialmente dei giovani. Nel mutato
clima, in uno sperduto paese del sud, l’esule genovese , a oltre 70 anni, ritrovò
la sua vena più autentica e raggiunse, ancora una volta, le più alte vette della
poesia.
Opere principali
Io - (poesie) - STEN (Società Editrice Nazionale Torino) -1912 - pagg. 157
Fiori scandinavi - (poesie) - Ed. Procellaria, Reggio Calabria - 1954 - pagg.47
Canto dal confino (poesie)
Il trionfo di don Procopio (commedia)
Il chiostro d’Arges (dramma)
Manole (tragedia)
La leggenda degli erranti (racconto), Ed. Procellaria, Reggio Calabria 1955. pagg.71
L’orologio del Borgo (poesie)
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
Antologia
Questa piccola antologia è parte integrante del breve “saggio” sul poeta
Sanini.
Essa risponde a una duplice esigenza:1) arricchire la “documentazione” e
le citazioni già presenti nell’esame dell’arte del Nostro; 2) essere di stimolo
per una conoscenza più ampia e organica della poesia dell’esule genovese.
La scelta delle liriche – necessariamente circoscritta – ha portato a “sacrificare” altri componimenti altrettanto significativi e ricchi di spunti e di
suggestioni.
Nel lavoro di revisione e di ampliamento degli appunti, mi sono reso conto, alla luce dell’esperienza e delle idee maturate nel corso degli anni, che la
figura e l’opera del Sanini meriterebbero studi qualificati e approfonditi e ben
altra attenzione che non gli episodici approcci, formali e approssimativi. Nella trascrizione dei testi poetici ho cercato, nell’ambito delle mie competenze,
di riprodurre fedelmente, anche nella loro veste grafica, le pagine vergate dal
poeta. A riprova che il Sanini non fosse un artista “estemporaneo” o “improvvisato”, ma lucido e ispirato anche in età avanzata, e quanta cura e meticolosità (“labor limae”!) dedicasse alle sue “creazioni poetiche”, prima di renderle
pubbliche o affidarle alla stampa, si esamini attentamente la riproduzione della pagina autografa (manoscritta) della stupenda lirica “All’Irpinia”. Per non
togliere all’acume e alla sensibilità del lettore nuove e personali emozioni, mi
sono limitato a fornire, nelle note, brevi schede e dati essenziali su circostanze, personaggi e schemi metrici adottati dal Sanini.
Le prime due liriche dell’antologia, “Nachad” e “Io sono un prisma da
le mille facce”, fanno parte della raccolta “Io” (Ed. STEN - Torino -1912);
“Addio Scandinavia” e “Reviviscenza” furono pubblicate in “Fiori scandinavi (Ed. Procellaria – Reggio Calabria – 1954); l’ode “Per i poeti futuri”, i due
canti “Nella Vandea italiana” e “All’Irpinia”, insieme agli otto sonetti della
raccolta “Canto dal confino” furono composti fra il 1941 e il 1962 a Grottaminarda (Av), dove il poeta genovese era stato “internato” dal fascismo.
Nota
Schemi metrici ricorrenti nei sonetti:
-quartine: ABAB-ABAB; ABBA-ABBA; ABBA-BAAB
-terzine: CDE-CDE; CDE-EDE, CDC-DCD
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
Nachad
ad Arturo Graf 1
“...nel lento senza mutamento volvere de l’ore
ogni ampio sfolgorio di cieli smuore,
vani gli astri s’estinguono
ed anche de le Urì2 sbiancasi il volto.
Oh! l’andare disciolto da l’implacabile Io, l’andare vuoto
di senso e volontà, libero alfine,
fuori del confine
reo de la materia,
fuori dal proprio spirto, altra miseria,
fuori dal ciclo d’esseri e cose, fuor dal faticante moto.
E dormir d’un ignoto sonno qual mai mortale od immortale
non conobbe: d’un sonno immune d’ogni
labile di sogni
balenio, d’ogni eco;
persino de la tenebra più cieco
sordo più del silenzio, ch’anco il silenzio ha un rombo esile d’ale;
dormir d’un irreale sonno, lontan lontano, oltre la sfera
de l’esistente, ove non pure fioco
spiro d’aere loco
trova, e il vuoto è intorno
come dentro di sé, né più ritorno
Morte fa ne la Vita, ma il tempo ma lo spazio occupa intera;
La lirica Nachad è dedicata ad Arturo Graf (Atene 1848-Torino 1913), poeta, prosatore e critico letterario versatile, che introdusse il Sanini nel mondo letterario; il Graf, dopo aver conseguito la laurea
in legge all’Università di Napoli, curò per qualche anno gli interessi commerciali della famiglia in
Romania. Tornato in Italia, ottenne, per i suoi studi sulla letteratura italiana, la cattedra all’Università
di Torino. Nella sua attività letteraria, da una giovanile fase di adesione al positivismo e al verismo,
caratterizzata da un pessimismo quasi nordico e da dubbi e assilli metafisici romanticamente espressi,
approdò al simbolismo cristiano, pur conservando quella vena meditabonda che lo accomuna al Boito
e al Prati della maturità. Tra le sue opere, le raccolte di versi Medusa (1880), Rime della selva (1906)
e il saggio L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel sec. XVIII (1911).
2)
Urì o Uri, dall’arabo al-hur (le fanciulle) dagli occhi neri, destinate al godimento di coloro che hanno
meritato il Paradiso islamico.
1)
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
dormir come chimera dormir può, come un che senza attributo
senza nome sol dorme, che per fibra
menoma non vibra
né trae fiato, e resta
in immobilità perfetta e in questa
non falla mai per turbo di millenni, per soffio di minuto.
Fiume de l’assoluto Nulla, te invoco e voglio! Apri o tra i fiumi
dolcissimo il tuo seno; su me piega
l’onda tua, m’annega:
dammi tu pietoso,
dammi tu fiume, dammi col riposo
eterno l’infinita libertà che non han uomini e numi!”.3
***
“Io sono un prisma da le mille facce
e specchio in me l’immagine del mondo:
d’ogni forma vital serbo nel fondo
de l’essere, per breve ora, le tracce.
Istante, attimo sono, a la natura
ed al fato trastullo: orma e memoria
lasciar di me non bramo; anche la gloria
nel caos de l’età non s’infutura.
Quando, ove nato fui non cale. Io vivo,
io sento – questo è il tutto – soffro e godo:
lo dice il cuor se singhiozzar io l’odo,
lo dice il cuor se palpita giulivo.
Nachad, in sanscrito Nulla assoluto - Dalla raccolta “Io” - Ed. STEN - Torino, 1912
Sono riportate in questa miniantologia le ultime sestine delle ventotto che compongono la lirica.
Da notare il respiro ampio del periodare e il linguaggio colto, ricercato ed elaborato, in sintonia
con la complessità e profondità dei pensieri e dei sentimenti che stanno alla base dell’ispirazione.
L’andamento del ritmo rende bene il lungo e faticoso percorso e la metafora della vita verso la quiete
del Nirvana (vedi le pagine 2-3-4 del “saggio” Osvaldo Sanini – poeta , che precede queste note).
Schema metrico: i versi 1° e 6° di ogni sestina sono composti da un settenario + un endecasillabo;
il 2° e il 5° verso sono endecasillabi; i versi 3° e il 4° senari . Rime: ABbcCA.
Meticolosa è la ricercatezza e la precisione delle rimalmezzo (da me sottolineate): il settenario del 1°
verso rima con il 6° verso della strofa precedente e costituisce anche un raffinato enjambement fra
le sestine.
3)
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
In un’oscura lotta vïolenta
entro mi fremon giubilo e dolore;
ne le viscere mie ferve l’amore,
ne le viscere mie l’odio fermenta.
Che val se eterno non son io? Se innanzi,
se dietro, tutto fu, sarà mistero;
se, caduco, ogni affetto, ogni pensiero,
un fior di me non avverrà ch’avanzi?
S’apra la tomba pur sotto la culla!
Nel mio soffrir, nel mio gioir possente,
l’eterna immensa vita io nel fuggente
attimo vivo. Sono un mondo, un nulla”.4
Ode alla Danimarca
“O Danimarca, il giusto olio tu versi
a la mia fioca lampada. Morente
era la bella fiamma e si ravviva:
or balzano i pensieri integri, tersi,
fulgidi su da l’impigrita mente
che d’improvviso ridiviene attiva.
Quando approdato fui nel sacro suolo
tuo, de la Libertà l’angelo mosse
vêr me, baciommi su la bocca triste:
in quel bacio trovai balsamo al duolo:
le strofe mi fluir da le commosse
labbra a l’ardente mio pianto commiste.
Dalla raccolta “Io” – Ed. STEN – Torino, 1912
Panismo e nichilismo sono ricorrenti nella poesia del Sanini.
Vedi il sonetto “meriggio irpino” (Dalla raccolta Canto dal confino, di O. Sanini. post 1941):
4)
“O querce, o pini, o aerei pioppi! Anch’io
respiri qui a l’aperto in un beato
isolamento quale arborea prole
e, tutto immerso in un supremo oblio
di me stesso, sparisca nel creato,
atomo d’erba ed atomo di sole”.
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
Oh! benedetta sia ancor la prua,
Danimarca gentil, su cui mi piacque
te, costellata d’isole, cercare:
poiché oggi aspiro la fraganza tua,
e fiore che le foglie sovra l’acque
spieghi, meraviglioso fior del male.
Non io t’amo pe’ fieri tuoi Vikingi,
per la guerresca gloria del tuo vecchio
popol corrente il mondo a la ventura;
ma per la pia ghirlanda ch’ora cingi,
ma per l’odierna tua progenie, specchio
d’una migliore Umanità futura.
Io vedo intorno fulgere più belle
armi non volte a disumane mire,
gli arnesi de l’artiere e del bifolco,
e vedo le tue figlie, non ancelle
ma sì compagne a’ tuoi figli, accudire
al comun bene da la reggia al solco.
Tutte io percorro l’isole felici:
lungo le sponde a raccattar conchiglie
mi curvo, e pe’ sentieri a coglier more;
e incontro sempre dolci visi amici,
e al desco lor mi chiamano famiglie
ch’han ne’ grand’occhi e ne le mani il cuore.
Sotto sembianze calme, anime ardenti!
Sosto innanzi a i casali ed a i castelli
e l’istessa m’appar semplice scena:
ebbri di Libertà tutti, ma intenti
ad alleviar la pena de i fratelli,
e pure d’una rondine la pena.
O Danimarca, non io straniero
mi nomo. Poso l’orma fiduciosa
e certa sopra la tua terra opima,
poi che il riflesso sei del mio pensiero,
- 104 -
AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
poi che in te trovo ogni soave cosa
che avea nel sogno conosciuto prima.
Magico suolo altro non v’è ch’io vanti
così: per le radici intime sento
che la tua felicità in me trapassa:
ne la selva cresciuta de’ miei canti
ecco riodo mormorare il vento
che l’alte cime de’ tuoi faggi squassa.
Te canto e canterò sempre: la prole
tua dal sorriso candido e leale,
i rosei chiomedor fanciulli e donne,
finché aperti saran questi occhi al sole,
e il fantasma verrà de l’ideale
a fluttuare sul mio cuore insonne”.5
***
Reviviscenza
“Tu sei la primavera e sei l’aurora.
De le tue fresche tinte si colora
tutta l’anima mia;
erra per i suoi spazi interminati
la voce tua come di mille alati
limpida melodia.
Tu sei l’aurora e sei la primavera.
Nel cuor mi poni con la man leggiera
un floreal tesoro:
ridon via via su l’improvvise aiuole
l’azzurro de’ tuoi vasti occhi ed il sole
de le tue chiome d’oro.
Dalla raccolta “Fiori Scandinavi” - Ed. Procellaria, Reggio Calabria, 1954.
“Ho vissuto in una nazione ove la donna è altamente considerata e onorata, parificata all’uomo, non
solo dalla legge, ma dalla consuetudine: Questo paese – la Danimarca – è il paese della più perfetta
legislazione sociale, il paese più civile del mondo”.
O. Sanini: Uno scritto per un matrimonio
5)
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
Sol di rose e di raggi fatta sembri;
nessuna ch’io già vidi mi rimembri
parvenza o creatura.
Con la notte passarono le stelle
nel cielo mio. Tu fra le cose belle
sei cosa nuova e pura.
Non più la notte ho in cuor né il verno: Un’alta
gioia i sensi e gli spiriti m’esalta;
con la folle irruenza
del torrente il cui ghiaccio il sole ha strutto
mi corre il sangue ne le vene, e tutto
è in me reviviscenza!”.6
***
“Quando da Susa a Genova spedito
co’ ferri a’ polsi uscii da la stazione,
non il caldo saluto di persone
care io m’ebbi; pur ero intenerito!
O città de la mia lieta stagione,
o a me più bello, o a me più dolce sito,
fin tra i tuoi marmi io ricevei l’invito
di camminar diritto a la prigione.
Grande era, dopo venti anni, lo scorno!
Ma là ne l’Acquaverde ergersi vidi
la statua del gigante tra i giganti
e mi dissi: se pur Colombo un giorno
conobbe le catene, or via sorridi
a gli uomini meschini e marcia avanti”.7
***
Dalla raccolta “Fiori Scandinavi” - Ed. Procellaria, Reggio Calabria, 1954.
Schema metrico: Sestine formate da quattro endecasillabi e due settenari (il 3° e il 6° verso). Rime:
AAbCCb.
7)
Dalla raccolta “Canto dal confino” di O. Sanini . (Sonetto – Rime: ABBA-BAAB-CDE-CDE)
6)
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
“Dio! Quanta neve, quanta neve scende
sul carcere ne l’aria rabbuiata:
per un poco s’arresta e poi riprende
a cader larga, fitta, infaticata.
Un immenso lenzuolo si distende
e avvolge i picchi e copre la vallata:
a mirarne il candor che freddo splende
i rinchiusi si affacciano a la grata.
Lenta ne i cuor col fioccar muto e lieve
una malinconia penetra, e stanche
rende le membra e sonnolenti i cigli.
Ma ne l’anima io porto il sol: le neve
è per me volo di farfalle bianche
su campi interminabili di gigli”.8
***
“O mio mare, o mio mare! Ancor le arene
ultime io premo ed il tuo scroscio sento,
ancora l’indicibile contento,
s’empie l’onda che va l’onda che viene.
Come a l’anima mia s’apron le scene
pie del passato, e come a l’occhio intento
riaffacciansi in lume di portento
e dolci de l’infanzia ore serene!
Odo in te de’ miei morti la favella
e ne le tinte tue so ritrovare
gli occhi materni, azzurra doppia stella.
Per mille e mille rimembranze care
io t’amo, e ancor più perché a la bella
dea Libertà sei fido specchio, o mare”.9
Dalla raccolta “Canto dal confino” di O. Sanini . (Sonetto – Rime: ABAB- ABAB-CDE-CDE)
Dalla raccolta “Canto dal confino” di O. Sanini . (Sonetto- Rime: ABBA-ABBA-CDC-DCD)
8)
9)
AEQVVM TVTICVM
- 107 -
Osvaldo Sanini
***
“Eroica Parma, fiore de l’Emilia,
di tele e suoni e violette piena,
amo lo spirto tuo che la serena
arte e la fiera libertà concilia.
Città fremente, a cui, da la vigilia
de i moti patrii, mai fallì la lena,
amo il tuo volto che d’ardir balena
sempre e a le tirannie mai non s’umilia.
Epico Oltratorrente, che pur ieri
su i ponti rinnovasti e ne le strade
l’ire e l’audacie del Medioevo,
ricaccia il Duce e i suoi scherani neri
come facesti un dì con le masnade
di Federico imperatore svevo”.10
***
“Così, da questo culmine romito
che a l’arso petto un puro offre ed intenso
ristoro d’aria, e il copioso incenso
sparge d’agresti fior per l’infinito,
ove s’apre vêr l’Ufita al rapito
occhio, ne la solar lampa, un immenso
oceano verde, vada ogni mio senso
in fra la vegetale orgia smarrito!
O querce, o pini, o aerei pioppi! Anch’io
respiro qui a l’aperto in un beato
isolamento quale arborea prole
10)
Dalla raccolta “Canto dal confino” di O. Sanini . (Sonetto- Rime: ABBA-ABBA-CDE-CDE)
- 108 -
AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
e, tutto immerso in un supremo oblio
di me stesso, sparisca nel creato,
atomo d’erba ed atomo di sole”.11
***
“Leggendo il tuo volume, che resiste,
o Pier Paolo, al soave e mesto incanto
de la Giovine cieca nel tuo canto
le lacrime a i sospiri son commiste.
Triste è l’essere cieco, ma più triste
è aver gli occhi, che vedono e pertanto
non mirar mai, non contemplar mai quanto
di puro al mondo e luminoso esiste.
Sacerdote e poeta, in bronzeo busto
effigiato via via da l’erta Ariano
natia per tutto il nostro ampio paese
guarda, e le ciglia chiudi pe’l disgusto…
Che orrore! La pia luce splende invano
per i ciechi di mente, o Parzanese”. 12
11)
Dalla raccolta “Canto dal confino” di O. Sanini . (Sonetto- Rime: ABBA-ABBA-CDE-CDE)
Dalla raccolta “Canto dal confino” di O. Sanini . (Sonetto- Rime: ABBA-ABBA-CDE-CDE) – Le
sottolineature sono mie.
Pietro Paolo Parzanese nacque ad Ariano di Puglia nel 1809 e morì a Napoli nel 1852. Di salute malferma, ebbe sin dall’infanzia una vita infelice e tormentata. Dopo i duri anni trascorsi in seminario, fu
ordinato sacerdote e nominato maestro di grammatica nel seminario del suo paese. A 24 anni ottenne
la cattedra teologale; dal 1835 al 1837 resse la diocesi di Ariano in qualità di vicario capitolare. Poi,
abbandonati gli uffici ecclesiastici e l’insegnamento, si dedicò alla predicazione e ai suoi studi prediletti, nonché agli interessi molteplici verso cui si sentiva portato. Tentò vari generi letterari, sia in
prosa che in poesia, e si rivelò operoso e fecondo in diversi campi. Tradusse dalla Bibbia, da Plauto,
Shakespeare, Klopstok, Byron, Hugo e Lamartine; postillò Dante; studiò Monti, Foscolo, Manzoni
e autori contemporanei. La personalità del Parzanese, poliedrica e complessa, oscilla romanticamente
fra populismo conservatore e ribellismo liberal-risorgimentale.
OPERE- Poesia: Le armonie italiane (1841), Canti popolari, Fiori e stelle (1843), I canti del Viggianese (1846), Canti del povero (1852); Prosa: Prediche e Panegirici, Relazioni di viaggi (Viaggio
a Bagnuolo, 1835; Viaggio di dieci giorni in Puglia, 1845); Teatro: Sedecia, Il vendicativo (1829),
L’Ituriele (1830-1840), Giulietta e Romeo, Sordello ed Ezzelino (tragedie in prosa).
Fra i recenti “studi” sul Parzanese: Antonio D’Antuono – Parzanese prosatore (il letterato, il narratore,
l’autobiografo), 2010.
Tonino Capaldo: Il realismo magico del Parzanese, Parzanese “paesista”, 2009.
12)
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
“L’orologio del borgo suona l’ore
roco, segno che fuor la neve cade:
dentro il letto, nel buio un gel m’invade
come mi si fermasse a un tratto il cuore.
È silenzio; non voce, non rumore
pure velato sale da le strade:
appena rompe l’aria, appena rade
i vetri il suon de l’orologio e muore.
Tutto d’intorno tace, tutto è un bianco
cimitero per me: sopra un avello
numerato cader vedo la neve.
Un avel senza nome... Oh! l’occhio stanco
da gli uomini distogli, o mio fratello,
e la vita tra i giusti ti sia lieve”.13
***
“Prime piogge d’autunno, mentre il suolo
flagellate rabbiose, lo sgomento
de la vita me coglie, e più mi sento
quaggiù come un uccel smarrito e solo.
Verso il rifugio del passato io tento
di ripararmi con forzato volo,
ma ne la visïon non mi consolo
di quanto è morto omai, di quanto è spento.
O miei cari, che non ne le funeree
dimore m’aspettate, ma nel puro
ambito santo de le volte eteree,
deh! fate che il vorace tempo ingoi
questi anni miei: l’uccel sperso al sicuro
si sentirà, quando sarà con voi”.14
13)
14)
Dalla raccolta “Canto dal confino” di O. Sanini . (Sonetto- Rime: ABBA-ABBA-CDE-CDE)
Dalla raccolta “Canto dal confino” di O. Sanini . (Sonetto- Rime: ABBA-BAAB-CDC-EDE)
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
Per i poeti futuri
Abbassammo lo sguardo, Europa, su’ tuoi vari
paesi. Guizzar lampi vedemmo e vasti fiumi
errar per valli e piani,
e vedemmo non chiare acque i rigonfi fiumi
portare, ma purpuree a tutti quanti i mari,
ai mari più lontani.
Innalzammo lo sguardo, Europa, a’ tuoi diversi
cieli: non più l’azzurro vedemmo, ma un rovente
riverbero d’incendi,
e vedemmo aggirarsi fatta sanguinolente
la nuvola ed avvolgere il puro sole e i tersi
astri in velami orrendi.
Varcammo il tuo confine, Europa, oltre ogni Oceano,
ogni monte. Vedemmo mettere rossa bava
l’onda, rossa erba il suolo;
e vedemmo l’immensa Asia che si svenava
e l’Africa e l’Americhe e l’Australia che ardeano
come infernal crogiuolo.
Questo vedemmo, e, come d’un cratere ch’erutta,
ovunque udimmo il rombo e di terrestri e alate
armi lo scoppio e il cozzo;
l’urlo udimmo d’innumeri carni martoriate;
de i figli e de le madri il rantolo; di tutta
l’Umanità il singhiozzo.
Altri un dì canteranno. Non noi, da la smarrita
anima, fremebondi poeti d’oggi. Noi
ne l’angoscia e ne l’ira
demmo l’odio a i carnefici più che il canto a gli eroi:
se le corde tentammo, fra le convulse dita
ci si spezzò la lira”.15
Questa lirica ottenne il Primo premio al Concorso di poesia bandito da “Il Convegno” di Napoli –
maggio 1946.
Schema metrico: cinque strofe di sei versi ciascuna, di cui il 3° e il 6° settenari, gli altri: settenari
doppi. Rime: ABcBAc
15)
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
Giugno 1946
a Ireneo Vinciguerra16
Nella Vandea italiana
In quest’angolo de l’Ufita malsano
per pozze e nebbie, dove mi spedì
la coppia Mussolini e Carignano
ad accorciare i miei calanti dì,
qui dove “guerra! guerra!” gli imboscati
urlavan sì da perdere il respir
per speronare i poveri soldati
tra i petardi e le musiche a partir,
qui dove bande di contrabbandieri
più dispiegano intensa attività
e le ventose de i mercanti neri
succhiano il sangue de l’umanità,
Vinciguerra t’udii. La tua favella
tutta la possa avea del temporal
che purga l’aria, il cielo spazza e abbella
rendendolo tersissimo cristal.
Sotto lo scroscio fier di tue rampogne
prendean la fuga e di tua voce al suon
le calunnie de’ chierci e le menzogne
de’ sazi corifei del re fellon.
Per tua magia ridesti, in me i fantasmi
s’ergevan d’albe che non tornan più,
fiammeggiandomi in cuor gli entusiasmi
de la mia tramontata gioventù.
16)
Ireneo Vinciguerra (1887-1954), principe del foro arianese, antifascista, fervente repubblicano, socialista,
punto di riferimento e di aggregazione nel Referendum istituzionale fra Monarchia e Repubblica del
2 giugno 1946, fu eletto deputato alla Costituente.
- 112 -
AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
Una lacrima su da la commossa
anima mi salìa con un sospir,
mentre le note di “Bandiera rossa”
facean eco patetica al tuo dir.
O compagno di lotta, io non vedea
una plebe di servi intorno a me,
non più un’italica Vandea17
devota a i ricchi a gli scaccini18 a i re,
ma un gran popolo in piedi, che de i padri
ignavi scuote il giogo secolar
e ritogliere vuole il sacco a i ladri,
il colmo sacco ch’essi a lui rubar”.
***
All’Irpinia
All’Irpinia è una delle più belle poesie del Sanini. In essa la ritrovata gioia
del canto e la varietà dei temi, pensieri, valori ed emozioni raggiungono un
perfetto equilibrio, una aggraziata armonia e una non comune serenità di
toni. Si placano, finalmente, e si stemperano, dopo tanti e tanti anni, tutte
le antinomie che hanno segnato la vicenda esistenziale e poetica dell’esule
genovese: odio-amore, male-bene, gioia-dolore, tempesta-quiete, schiavitùlibertà, vita-morte.
Dopo gli anni bui della dittatura e della guerra, col rinascere della vita, delle
speranze e dei sogni (di democrazia e giustizia sociale), il poeta scopre la nobile bontà del popolo generoso e sente nascere in sé uno schietto sentimento
di gratitudine anche verso una terra pochi anni prima, apparentemente, inospitale e ostile (l’Irpinia), che diventerà per lui, dopo Genova, una seconda
patria; ritrova la Libertà, la dea da sempre adorata; si incanta davanti alla
Vandea (fr. Vendée), dipartimento della Francia, nella Regione Pay de la Loire. Nel 1793 insorse
contro la rivoluzione repubblicana in difesa della monarchia. Dopo crudeltà e massacri da entrambe
le parti, nel 1796 la regione fu pacificata.
18)
Sagrestani
Schema metrico: quartine di versi endecasillabi, di cui il 2° e il 4° di ogni strofa è tronco – Rime:
ABAB
17)
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
meraviglia delle bellezze della natura e si innamora ( lui, errabondo e ribelle
figlio del mare) dell’ardua montagna, delle splendide aurore e dei dorati tramonti del sud; recupera memorie, immagini care ed affetti; dispiega il suo
pensiero libero, come negli anni giovanili, “oltre le caduche forme, oltre la
vita transitoria” per ascendere, ormai purificato, “ai sommi cieli, a Dio”, e
cantare l’Amore e l’eternità della Poesia, lenitrice e salvifica, “che vince di
mille secoli il silenzio”.
febbr. del 1948
a Nino Falcucci
All’Irpinia
“Irpinia bella, in maschera
vil, uomini a’ più rei crimini pronti,
voleano ch’io quaggiù lasciassi l’ossa,
e ne l’inverno gelido,
entro la cerchia bianca de’ tuoi monti,
mi gettarono come in una fossa.
Mi volean morto i perfidi;
ma tu m’alzasti da la sepoltura
e mi scaldasti il cuore e apristi il ciglio,
tu mi parlasti tenera
e prendesti di me gentile cura
come ti fossi il più diletto figlio.
Se a la superba tavola
non mi sedetti mai del ricco esoso,
che del digiuno altrui gioisce e ride,
tutto lo slancio nobile
conobbi del tuo popol generoso
che col viandante il bruno pan divide.
Il pane e il vino limpido
che al labbro giunge come acceso bacio
accompagnato da festoso augurio:
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
sul piano e il monte a l’ospite
offre perfino il rustico suo cacio
il povero pastor nel suo tugurio.
È pur bello ne gli ozii,
d’amico casolar sul limitare
seduti, bere e raccontar novelle,
mentre i neri occhi vividi
de le pie campagnole, col calare
del vespero, s’accendon come stelle!
Senza famiglia, o Irpinia,
sol con un’Ombra, io vivo sul tuo suolo,
e lente, uguali, scorrer vedo l’ore;
ma la mia solitudine
si popola d’immagini, che solo
sanno crear le tue splendide aurore.
Se la presenza eterea
del fratel caro, che a morir qui venne,
mette per me sopra ogni cosa un velo,
pur sempre m’affascina,
dietro il fuggir de gli astri, la solenne
marcia di luce ch’occupa il tuo cielo.
La freschezza mi penetra
de le rose sul capo mio sospese:
e il nascere del giorno benedico,
che a grado a grado aureola
di sottilissim’oro il bel paese,
che tristi e stolti a me volean nemico.
Ma no: sotto i tuoi platani
il primo passo, o indomita Avellino,
mosse la Libertà, la dea che adoro;
d’allora, tra i begli alberi
sacri, ben più soave, più divino
s’ode cantar de gli usignoli il coro.
L a Libertà pur gridano
AEQVVM TVTICVM
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Osvaldo Sanini
le voci che si levano da Morra19
e da la Baronia20, due voci pure
che pianser ne l’esilio:
udendole, mi par che irato corra,
o Irpinia, il tuon su le tue scabre alture.
Figlio del mare, io l’ardua
montagna or amo: e di salir m’assale
tutto l’essere un mistico desio;
spicchino verdi o candide,
le tue vette mi sembrano le scale
per ascendere a i sommi cieli, a Dio.
O bei pianori, o vertici,
che il sole abbraccia ed accarezza l’aria,
come larghe su voi l’ali dispiega
il mio pensiero libero,
come l’anima, ognor più solitaria,
in onde più diafane s’annega.
Apre, ostili altitudini
di Nusco, di Chiusano, di Trevico,
a i cangiati occhi miei pare oggi lieve
la già pesante cupola
de le nubi, ché il turbine m’è amico
e m’è sorella l’implacabil neve.
Io mi perdo ne i torbidi
cieli o m’aggiro ne l’azzurro terso,
sciolti i vapori, in compagnia dei falchi,
e a sera con gli Spiriti,
che dominano i culmini converso,
né più mi sembra che il pianeta io calchi.
Morra, oggi Morra De Sanctis – Francesco De Sanctis (Morra irpina 1817-Napoli 1883), storico della
letteratura, partecipò all’insurrezione napoletana del 1848, fu arrestato e, dopo tre anni di carcere
(1850-1853), mandato in esilio. Insegnò prima a Torino, poi al Politecnico di Zurigo. Dopo l’Unità
d’Italia fu deputato al parlamento e ministro della pubblica istruzione.
20)
Baronia, comprensorio dell’Irpinia in cui si trova la città natale di Pasquale Stanislao Mancini (Castel
Baronia 1817-Roma 1888), giurista e politico, ministro degli esteri (1881-85).
19)
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AEQVVM TVTICVM
Osvaldo Sanini
Ne le notti più nitide
d’estate, mentre alto il silenzio grava,
guardo lassù le Costellazioni
ed ascolto una musica,
che pie da gli occhi lagrime mi cava,
musica che non ha terrestri suoni.
Perché, perché l’immagine
Tua l’operoso Amor nel cuore grato
de l’esule sì dolce e pura mìnia?
Il cuore non sa esprimerlo:
ma è grande in lui, come se fosse nato
da Te, la gioia di cantarti, o Irpinia”.21
Questa ode, composta nel febbraio del 1948, è dedicata a Nino Falcucci, commerciante di scarpe
grottese, noto per la sua generosità.
Schema metrico - 16 sestine così strutturate: il 1° verso è un settenario (sdrucciolo); 2° verso:
endecasillabo (rima A); 3° verso: endecasillabo (rima B); 4° verso: settenario (sdrucciolo); 5° verso:
endecasillabo (rima A); 6° verso: endecasillabo (rima B).
21)
AEQVVM TVTICVM
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
Sant’Elzeario e Beata Delfina
Contributo
alla migliore conoscenza
dei compatroni di Ariano
- Prima parte -
di Emilio Chianca
L’
interessante e dettagliata pubblicazione del compianto Don
Donato Minelli, Storia d’amore e di vita,
sui santi patroni di Ariano, Sant’Elzeario
de Sabran e la beata Delfina da Signe,
come avviene per le opere religiose o
per le agiografie, nel tempo ha svolto un
ruolo importante, ma la continua ricerca
nelle fonti archivistiche acquisisce e aggiunge nuove immagini e documentazioni alla già abbondante dotazione di opere
e di informazioni utili all’alimentazione
della fede e della devozione popolare.
La biografia dei nostri santi patroni,
ogni giorno più ricca e articolata, offre
sempre nuovi spunti per la chiarificazione del tempo, nel quale Ariano era crocevia di re e di santi, punto di riferimento
Albero francescano sec. XIX
ineludibile per gli assetti e gli equilibri
politici europei, con il re Carlo II d’Angiò, che riteneva questa nostra Città
degna di essere protagonista della storia, al punto da affidarla nelle mani della
fidatissima famiglia dei Sabran.
Lungi da me la pretesa di scrivere o trattare in modo più compiuto o con
maggiore proprietà di linguaggio questo straordinario tema, che investe e
condiziona religiosità e storia medievale.
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AEQVVM TVTICVM
Sant’Elzeario e Beata Delfina
Il mio precipuo intento è il desiderio di portare un modesto contributo alla
migliore conoscenza dell’iconografia dei santi Elzeario e della Beata Delfina attraverso la pubblicazione di alcune immagini, edite ed inedite, reperite
con passione e sacrificio economico sui
mercati internazionali, nel notorio mio
antico impegno quotidiano per valorizzare Ariano e ridarLe dignità e prestigio
dispersi nell’oblìo e nella mediocrità
dei suoi odierni rappresentanti.
La pubblicazione di immagini sacre,
tratte dalla mia collezione di “santini”,
non può non essere integrata da notizie
tratte da prestigiose pubblicazioni internazionali e da altre fonti non riportate
sull’opera del Minelli.
Dalla Enciclopedia Treccani (Dizionario Biografico degli italiani) apprendiamo, riportando integralmente,
che “ELZEARIO de Sabran, santo. Nacque nel 1285 o nel 1286 a Robians,
vicino al castello di Ansouis (Vaucluse, Sec. XIX (sul retro notizie tratte dal Breviario
Francia) da Ermengaud e da Laudune del Terz’Ordine Regolare)
Albe, signora di Roquemartine.
Il suo nome, Auzias in provenzale, Elizarius o Elziarius in latino, non era
molto diffuso all’epoca, ma esisteva già nella famiglia; suo nonno paterno
(morto nel 1307) si chiamava infatti così.
I Sabran erano un’importante famiglia dell’aristocrazia provenzale, originaria della Linguadoca (il feudo di Sabran si trovava nel siniscalcato di
Beaucaire) ma impiantata ad est del Rodano alla fine del XII secolo, dacché
Reynon de Sabran aveva sposato Gersende de Forcalquier.
La loro figlia maggiore, Gersende (II), aveva sposato Alfonso, conte di
Provenza e di Barcellona, nel 1193. Da questa unione era nato Raimondo
Berengario V, conte di Provenza, una delle cui figlie, Beatrice, sposò Carlo
d’Angiò, diventato re di Sicilia nel 1266.
Questa genealogia spiega perché Elzeario, la cui famiglia paterna discendeva da un secondo matrimonio di Reynon de Sabran, sia definito negli
atti comitali o reali degli Angioini “cugino” dei sovrani napoletani.
AEQVVM TVTICVM
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
Dal conte-re, i Sabran avevano in feudo un certo numero di paesi e di
terre situati tra il Lubéron e la valle della Durance a sud di Apt e il castello
di Ansouis. Il padre di Elzeario, Ermengaud, dopo la morte, avvenuta prima
del 1293, di Laudune Albe, madre di E., di sua sorella Sibille e di suo fratello Isnard, si risposò con Elise (o Alix) des Baux, da cui ebbe due figlie e un
maschio, Guillaume.
E., avendo perso la madre nella primissima infanzia, venne allevato da
Gersende Alphant, donna piissima, la cui influenza l’avrebbe molto segnato
sia sul piano morale sia su quello religioso. Poiché suo padre Ermengaud,
avendo ricevuto da Carlo II d’Angiò, nel 1293, l’investitura della contea di
Ariano, dovette partire per l’Italia, il ragazzo venne affidato ad uno zio, Guillaume de Sabran, monaco e poi abate (1294) di St-Victor, a Marsiglia, il quale lo iniziò probabilmente al disprezzo del mondo e alla spiritualità monastica. Tuttavia, alla fine del 1295 o all’inizio del 1296, Elzeario venne fidanzato,
per volontà di Carlo II, a Delphine de Signe, signora di Puimichel, che aveva
all’epoca undici o dodici anni. L’unione era ben accetta alle due famiglie per
ragioni patrimoniali, poiché la sposa era
l’ereditiera di un certo numero di signorie
nella parte centrale della valle della Durance, vicino a Manosque e a Forcalquier,
territori vicini ai domini dei Sabran.
Il matrimonio fra i due giovani fu celebrato a Puimichel nel 1300. Delphine, che,
come E., era rimasta orfana in giovane età
ed era cresciuta in un monastero, era però,
e restò tutta la vita, profondamente attaccata alla verginità. Fu così che si ribellò
a questa unione tanto contraria alle sue
aspirazioni. L’intervento dell’inquisitore
francescano Guillaume de St-Martial e le
pressioni della famiglia finirono per vincere le sue resistenze, ma Delphine accettò
il matrimonio col fermo proposito di non
acconsentire all’unione carnale nella vita
coniugale. Sembra che all’inizio il giovane E. abbia incontrato una certa difficoltà
nel piegarsi a queste esigenze. Ma un riSec. XX - (da “Il Pane di Sant’Antonio”)
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AEQVVM TVTICVM
Sant’Elzeario e Beata Delfina
catto basato sulle sofferenze fisiche che
Delphine avrebbe patito e soprattutto
le estasi mistiche di cui E. fu ben presto gratificato (a Sault nel 1302, a Aixen Provence nel 1304 e a Ansouis nel
1305) lo portarono progressivamente
ad accettare le concezioni della giovane
sposa in materia di verginità e a farle
sue.
Nel castello di Ansouis, e soprattutto a Puimichel, dove vissero dal 1307
al 1310, essi condussero una vita pia ed
edificante. È a questi anni che risalgono
probabilmente le Coutumes (o statuti)
per la signoria che costituiscono un vero
e proprio programma di vita religiosa e
morale ad uso di tutti i residenti nella
casa e nelle terre. Nel 1316 E. e Delphine fecero voto di castità in presenza del
frate minore Jean Jolia pur continuando a vivere insieme. Sembra fuori dubbio che in tutto questo periodo la coppia Sec. XX - copia
abbia subito la forte influenza dei frati
minori provenzali di tendenza spirituale: Jean Jolia, Philippe Alquier, Guillaume Espitalier e Hugues de Brancols, il quale, nel testamento di E., redatto
nel 1317, è designato come suo confessore. Questi ultimi, in quella prospettiva escatologica che li distingueva, raccomandavano ai laici, e in particolare
ai beghini e alle beghine di cui erano i direttori spirituali, la pratica della
“castità evangelica”, seguendo l’insegnamento di Pietro di Giovanni Olivi,
di cui condividevano i principi. Questa pratica consisteva non tanto nel rifuggire dal mondo, quanto piuttosto nel restare nel suo seno accettandone gli obblighi e le regole, rifiutando però gli aspetti carnali dell’esistenza, andando
in tal modo a costituire una testimonianza di vita condotta secondo lo Spirito.
Sappiamo inoltre che E. e Delphine incontrarono a Marsiglia, nel 1304, il
grande medico catalano Arnaldo di Villanova, seguace dell’escatologia apocalittica, che li aiutò a perseverare nel loro disegno fornendo alle loro famiglie, desiderose di veder nascere al più presto un erede, delle giustificazioni
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
rassicuranti a proposito della sterilità della loro unione (Vie occitane de ste
Delphine, in J. Cambell, Vies occitanes..., pp. 160 ss.).
Dopo la morte di Carlo II d’Angiò nel 1309 e l’ascesa al trono di Sicilia del figlio terzogenito Roberto E. venne chiamato a succedere al padre,
morto nel 1310, come conte di Ariano. Lasciata Delphine in Provenza, egli
dovette lottare tre anni per imporre la sua autorità in questa città che, trattata con durezza da Ermengaud, mal sopportava la dominazione angioina.
Dovette anche regolare delle questioni finanziarie con la sua matrigna, Elise
des Baux, che si era risposata, e tentare di recuperare l’eredità della sua sorellastra Cecilia, eredità che il marito di lei, Guillaume Baloard, maresciallo
di Sicilia, non voleva restituirgli (cfr. i documenti editi da R. de Forbin d’Oppède, La bienheureuse Delphine..., pp. 409 s.). Nel 1312, nel momento in cui
la discesa in Italia di Enrico VII risvegliò le lotte tra guelfi e ghibellini, E. si
unì all’esercito di re Roberto con il contingente di 25 cavalieri e 50 fanti che
la contea di Ariano doveva fornire, e prese il comando, al fianco di Jean de
Morée, delle truppe che furono inviate a Roma, dopo aver ricevuto l’investitura di cavaliere dal sovrano in persona. Partecipò allora con vivo piacere
- piacere di cui, dicono le biografie, si pentirà in seguito - ai combattimenti
che si svolsero in città, attorno al Colosseo, e che terminarono con la ritirata
delle truppe imperiali verso Tivoli. Dopo la morte di Enrico VII in Toscana a
Buonconvento il 24 ag. 1313 il partito angioino ebbe definitivamente la meglio ed E., nominato da re Roberto giustiziere dell’Abruzzo Citeriore, partì
alla riconquista di Ariano, che aveva approfittato dei disordini politici per
ribellarsi di nuovo. Le testimonianze concordano sul fatto che egli esercitò
un’influenza moderatrice sul fratello del re, Filippo di Taranto, il quale voleva scatenare in città una feroce repressione, e che seppe guadagnarsi la stima
dei suoi sudditi con la sua dolcezza e la sua umanità.
Nel 1314, stabilizzatasi la situazione politica, E. fece venire Delphine in
Italia. Per la maggior parte del tempo la coppia risiedeva a Napoli, soprattutto a Quisisana, nel palazzo fatto costruire da re Roberto tra Portici e Castellammare, dove questi passava l’estate in compagnia della regina Sancia.
E., che sembrava aver svolto un ruolo piuttosto importante a corte, fu autorizzato, nel gennaio del 1315, a tornare in Provenza per un anno, ma ritardò
la partenza fino al 1316. Approfittò quindi del suo soggiorno in Francia per
regolare un certo numero di problemi feudali e, prima di rientrare in Italia
via mare, fece testamento a Tolone, il 18 luglio 1317.
In questo atto, il cui testo ci è pervenuto (R. de Forbin d’Oppède), E. chie-
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AEQVVM TVTICVM
Sant’Elzeario e Beata Delfina
deva di essere sepolto nella chiesa dei frati minori di Apt, vestito dell’abito
di questo Ordine, che gli era particolarmente caro come indicano i lasciti
che istituì in favore di tutti i conventi francescani di Provenza: nei documenti
contemporanei che lo riguardano non è mai fatto cenno di una sua appartenenza al Terz’Ordine. Legò anche un calice d’argento e degli ornamenti alla
cattedrale di Ariano e due once d’oro per i frati minori della città. Per i suoi
domini patrimoniali e i suoi feudi provenzali e italiani il suo successore designato era il fratellastro Guillaume de Sabran. Ma E. ebbe cura di restituire
a Delphine tutto quello che ella gli aveva portato in dote, insieme ai villaggi
di Robians e di Cabrières, staccati dalla baronia di Ansouis, e al castello di
Maddaloni, nel Regno di Napoli, concessi a titolo vitalizio, e a tutti i suoi beni
mobili.
Al suo ritorno a Napoli, E. fu incaricato da re Roberto di assistere con
i suoi consigli il giovane duca Carlo di Calabria e la sua sposa Caterina
d’Asburgo. Secondo i biografi, lui e Delphine esercitarono una felice influenza sulla coppia principesca. Dopo che Carlo venne nominato vicario del re
nel 1319, a causa della partenza di Roberto per la Toscana e la Lombardia,
E. svolse il ruolo di suo ministro principale. Seppe resistere alle lusinghe
dei cortigiani e dei sollecitatori prese dei provvedimenti perché fosse resa
giustizia ai poveri e si segnalò per la generosità delle sue elemosine. Alcuni
documenti degli archivi angioini di Napoli attestano la sua responsabilità
in diverse e delicate missioni: il 15 febbr. 1322 fu inviato ad Amalfidal duca
di Calabria per svolgere un’inchiesta sulle violenze che avevano contrassegnato gli scontri tra i nobili e il popolo; qualche mese dopo, il 28 ag. 1322,
fu incaricato di porre fine al conflitto tra l’abate di Cava dei Tirreni e i suoi
vassalli. Infine, prima del maggio del 1323, gli venne affidata la delicata
missione di trattare a Parigi il matrimonio tra Carlo di Calabria, vedovo
dal 1323, e Maria, figlia di Carlo di Valois. Delphine lo accompagnò fino
ad Avignone, E. continuò poi da solo per Parigi, dove intavolò trattative con
la corte di Francia, trattative che portarono alla conclusione di un accordo
sul matrimonio in questione, firmato il 4 ottobre. Ma prima di poter vedere il
successo dei suoi sforzi, E., colpito da una febbre altissima e da una malattia
fulminante, morì il 17 sett. 1323 nel palazzo del re di Sicilia a Parigi, dopo
essersi confessato al frate minore provenzale François de Meyronnes, suo
amico. Subito informata della morte dello sposo, Delphine si ritirò a Cabrières, dove - stando alla sua testimonianza (Vie occitane de sainte Delphine in
J. Cambell, Vies occitanes..., pp. 180 ss.) - E. le sarebbe apparso nel marzo
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
del 1324, per dirle di non rattristarsi oltremodo di questa separazione, ma di
gioire della sua ritrovata libertà di votarsi completamente al servizio di Dio.
E. è, con Delphine, un tipico esempio di quella élite laica, particolarmente
presente nelle regioni che vanno dalla Catalogna all’Italia meridionale, che,
all’inizio del XIV secolo, aspirava a raggiungere la salvezza conformando la
propria vita al Vangelo, seguendo il solco tracciato dai frati minori, ai quali
fu legatissima in Provenza come a Napoli. Più sereno della sua sposa, cui
affermava peraltro di dovere la propria conversione, sembra sia stato meno
turbato di lei dalle condanne che, a partire dall’avvento di Giovanni XXII,
colpirono gli spirituali e i loro protetti, i beghini di Linguadoca, ai quali entrambi erano molto vicini. È anche vero che la sua prematura scomparsa gli
permise di evitare le fasi più difficili di questo conflitto, che inveceDelphine,
la quale sopravvisse fino al 1360, avrebbe vissuto in tutta la sua drammatica
intensità. Ad ogni modo, la sua morte fu il punto di partenza di una venerazione immediata: fin dal momento in cui il corpo di E. fu sepolto presso i frati
minori di Apt, in Provenza, sulla
sua tomba cominciarono a prodursi miracoli. Nel 1327 il vescovo di
questa città, Raymond Bot, indirizzò a Giovanni XXII una supplica, opera del teologo francescano
François de Meyronnes (Libellus
supplex pro canonizatione, in Acta
sanctorum Septembris, VII, pp. 521
s.), per ottenere l’approvazione del
culto che non ebbe però alcun seguito. La domanda venne reiterata
con maggior successo nel 1351, su
richiesta degli Stati di Provenza.
Con la bolla Grandis nobis adest
del 1º sett. 1351 (ibid., p. 523),
Clemente VI ordinò l’apertura di
una inchiesta sulla vita e sui miracoli di E., che venne svolta nei mesi
successivi. Sessantotto testimoni,
fra cui Delphine, vennero in questa
occasione ascoltati dai commissari
Sec. XX
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AEQVVM TVTICVM
Sant’Elzeario e Beata Delfina
su 170 articoli nella chiesa dei frati minori di Apt. Sfortunatamente, gli atti
non sono stati conservati; ne possediamo però un sommario, composto nel
1363 per papa Urbano V. Quest’ultimo, figlioccio di E., esaminò con benevolenza la pratica del proprio padrino, che venne da
lui canonizzato a Roma il 15 apr. 1369. Dato però che
Urbano V, lasciata la città, morì subito dopo, la bolla
di canonizzazione venne promulgata dal suo successore Gregorio XI, a St-Didier di Avignone il 5 genn. 1371
(Rationi congruit, ibid., pp. 525 s.).
Tra il 1371 e il 1373 uno splendido mausoleo, di
cui rimangono solo alcune statue, venne costruito in
suo onore nella chiesa dei frati minori di Apt, grazie al
cardinale Anglic Grimoard, fratello di Urbano V; la traAlbero francescano slazione dei resti avvenne il 18 giugno 1373. In questa
Beata Delfina
(particolare)
occasione, la regina Giovanna di Napoli donò ai francescani 1.000 libbre d’oro per la costruzione di un bustoreliquiario d’argento, terminato nel 1381, in cui venne inserita una parte
del suo cranio. In Italia, la cattedrale di Ariano ricevette un osso del mento,
mentre una statua che lo raffigurava venne posta sulla facciata della stessa
cattedrale nel 1510.
Ma, fuori dei confini della Provenza, dove conobbe una certa diffusione
tra la fine del XIV secolo e la distruzione della sua tomba, avvenuta nel 1562
ad opera degli ugonotti, la propagazione del culto di E. fu opera dei francescani, che nel XV secolo lo inserirono nell’elenco dei santi del Terz’Ordine e
lo rappresentarono in alcuni cicli agiografici, nei quali egli viene presentato
come una delle glorie francescane. L’esempio più famoso è quello della chiesa di S. Francesco a Montefalco (Umbria), in cui Benozzo Gozzoli ha raffigurato E. come un vecchio barbuto col capo cinto di una corona comitale.
Le biografie di maggior importanza furono però composte nel Sud della
Francia; basti pensare alla Vita latina, opera di un anonimo francescano
(composta tra il 1363 e il 1370, pubblicata in Acta sanctorum Septem., VII,
pp. 539-564), e alla Vie occitane, redatta da un chierico originario della regione di Albi negli ultimi decenni del XIV secolo, sulla base della Vita latina
e della tradizione orale (in J. Cambell, Vies occitanes, pp. 40 ss.).
In Italia, la prima biografia di una certa rilevanza gli fu consacrata dal
compilatore francescano Mariano da Firenze nel suo Trattato del Terz’Ordine, composto verso il 1520-1521.”.
AEQVVM TVTICVM
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
Un accurato, integralmente riportato, interessante articolo di Regine Pernoud, tratto da Pagine Cattoliche, ci aiuta a comprendere e meglio definire le
virtù della Beata Delfina:
“Sebbene abbastanza rari, ci sono esempi di santi e
di sante che si sono conservati perfettamente casti nella vita coniugale, astenendosi da ogni rapporto sessuale
pur vivendo accanto al coniuge. Nei processi di canonizzazione si insiste allora sul “lungo tormento sopportato per amore di Dio” da questi santi. Gli esempi non
mancano, ma forse non ce ne sono di più simpatici di
quello offerto da una coppia che trascorre in una regione
profumata - Apt, Puimichel o Cabrières - una vita che
pare “uscita direttamente dalla Leggenda aurea”, come
osserva Andre Vauchez .
Albero francescano Sant’Elzeario
Delfina è nata infatti a Puimichel, probabilmente nel
(particolare)
1285. Era figlia del signore del luogo. La madre era di
Barras, a circa dieci chilometri da Signe. Giovanissima, Delfina perde i genitori, ha una sorellastra, dal leggiadro nome di Alayette, che entra presto
in convento. Quanto a Delfina, i parenti che le restano, degli zii, la mettono
nel monastero agostiniano di Santa Caterina, a Soys, dove si trova sua zia,
una certa suor Cecilia, che probabilmente esercita una forte influenza sulla
bambina. I suoi zii la riprendono quando ha tredici anni, poiché la vogliono
maritare.
Carlo II d’Angiò, re di Sicilia, la destinava al figlio del conte di Ariano.
Delfina rifiuta: dichiara alla sua famiglia che ha deciso di restare vergine e
di votarsi a Dio. Furore degli zii, che insistono tanto più in quanto temono
che il re fraintenda la causa del rifiuto, e vi veda una maniera mascherata di
respingere la domanda. Per cercare di convincere la fanciulla, e ritenendo
che un religioso la potrà influenzare meglio di loro, fanno intervenire un francescano, a cui Delfina comunica esplicitamente la sua intenzione di votarsi
a Dio. Il religioso le spiega la difficile situazione in cui metterebbe la sua
famiglia, e le consiglia di consentire comunque al fidanzamento, salvo poi
rifiutare il matrimonio, in seguito. Delfina si lascia persuadere e scambia le
promesse richieste con il giovane Elzeario (Auzias) di Sabran, probabilmente
nel 1297.
Due anni dopo, il 5 febbraio 1300, il matrimonio è celebrato ad Avignone.
Delfina ha quindici anni, due di più del giovane sposo. Quando quest’ultimo
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
le parla di rapporti sessuali, risponde invocando l’esempio di Cecilia e di Valeriano suo sposo, nell’antichità, oppure la vicenda di Alessio che abbandonò
il tetto familiare la sera delle sue nozze. E lo fa con tanta gentilezza, si legge
nel processo di beatificazione di Delfina, che Elzeario “si mise a piangere,
per un senso fortissimo di devozione”.
Tuttavia, senza scoraggiarsi, ogni tanto insiste con la giovane moglie, al
punto che un giorno essa si ammala, colpita da una forte febbre, e fa sapere
al suo sposo che guarirà solo se egli le prometterà di vivere accanto a lei in uno stato di
astinenza perpetua.
Poco dopo Elzeario parte per assistere a
una vestizione nel castello di Sault. Durante
questa assenza riflette profondamente sulla
richiesta di una sposa che ama, e decide di
accettare la sorprendente situazione che ne
deriva per entrambi.
Poiché era morto suo padre, dovette recarsi in Italia per regolare la successione; la
sua assenza si sarebbe protratta per quattro
anni. Quando ritorna, Delfina gli confessa
di avere fatto voto di verginità nella cappella del castello di Ansouis. Lungi dall’adombrarsi, Elzeario vuole pronunciare lo stesso
voto; dopodiché i due sposi ricevono insieme
la comunione dalle mani del loro confessore. Entrambi trascorrono la vita compiendo
opere buone, tanto quanto possono. Pur am- Sec. XVIII
ministrando i suoi beni e possedimenti, Elzeario ha riunito a Puimichel una piccola comunità che accetta una regola
di vita che potremmo dire monacale: funzioni religiose, discorsi spirituali,
opere di carità. Apparentemente vive come un gran signore del suo tempo,
ma ha visioni mistiche; e, sebbene Elzeario condivida il letto della sua sposa,
quest’ultima dorme vestita, ed entrambi quando sono soli nella loro camera
si alzano e pregano insieme.
Elzeario fu inviato alla corte di Francia per un’ambasciata: si trattava di
proporre una sposa per il duca di Calabria. Durante questa assenza, mentre
si trovava ad Avignone e pregava, Delfina ebbe improvvisamente la visione
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
di tutta la famiglia del conte vestita di nero. Capì che Elzeario era morto.
E infatti qualche tempo dopo la notizia giungeva da Parigi alla Provenza.
Delfina pianse a lungo quello sposo così amato, fino al giorno in cui, mentre
pregava nuovamente, nella sua camera, a Cabrières, egli le apparve e disse:
“II nostro vincolo si è spezzato; ne siamo liberi”. Infatti entrambi erano ormai liberi da quel legame coniugale che era stato insieme la loro gioia e il
loro tormento. In seguito Delfina decise di vendere tutto quello che possedeva
per darne il ricavato ai poveri, prendendo alla lettera le parole del Vangelo;
prima i beni mobili, poi i castelli. Poiché la regina di Sicilia, Sancia, moglie
del re Roberto, glielo chiese, si recò a Casasana in Sicilia, dove restò parecchi anni per prendersi cura della regina e farle compagnia. Lì fece voto di
povertà assoluta, conforme all’iniziativa presa in Provenza. Convocò i suoi
familiari, i domestici, dichiarando che tutto ciò che si trovava nella sua residenza apparteneva loro e che ne avrebbero goduto vita natural durante,
con l’obbligo di donare tutto ai poveri dopo la morte; “Se, per amore di Dio,
vi piacesse tenermi con voi, insieme a mia sorella monaca, e procurarci le
cose necessarie alla vita come fareste con due donne povere qualsiasi, spero
che Dio vi compenserà... E voglio che d’ora in poi non mi consideriate più
come la vostra signora, ma solo come vostra compagna e come una semplice
pellegrina che avete ospitato in nome di Cristo”. Ritornata in Provenza, partecipava a tutti i lavori domestici e specialmente a quelli più semplici, come
scopare o lavare i piatti. Portava solo abiti grossolani di semplice bigello, e,
in testa, un velo di tela di lino.
Delfina morì trentasette anni dopo il suo sposo, nel 1360, “il giorno successivo a Santa Caterina, all’aurora”. Aveva settantasei anni, ed era già malata da parecchio tempo. Elzeario era stato dichiarato santo dopo un processo
avviato nel 1351. Tre anni dopo la morte di Delfina cominciava anche il suo
processo di beatificazione. Le persone del suo ambiente riferirono numerosi
miracoli accaduti poco dopo la sua morte. Infatti il 26 novembre 1360 il suo
corpo, rivestito del saio dei frati minori, era stato trasportato nella chiesa di
Santa Caterina. La notte successiva si udì risuonare una musica armoniosa,
riferiscono dei testimoni. Molti dichiarano di essere usciti per vedere donde
provenissero quei canti, ma, poiché non videro nessuno, li attribuirono ai cori
angelici. Un certo Stefano Martino, che non poteva camminare senza le grucce, entrò nella chiesa e ne uscì guarito, quel 26 novembre; e il giorno dopo
il procuratore di Apt, Raybaud de Saint-Mitre, che aveva deciso di offrire un
pasto ai poveri nella casa della contessa, fu sorpreso vedendo arrivare molte
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
più persone di quelle previste. Egli aveva fatto cuocere solo un’émine, vale a
dire circa cinque litri di piselli; ce ne sarebbe voluto il triplo, per nutrire le
duecento persone circa che si presentarono; ma dopo che tutti ebbero mangiato rimase ancora una grossa marmitta piena di piselli.
Dunque i miracoli si susseguirono dopo la morte di Delfina, tanto che, nel
1363, fu intrapreso il suo processo di canonizzazione. L’arcivescovo di Aix,
i vescovi di Vaison e di Sisteron furono
incaricati dell’indagine, che cominciò il
14 maggio 1363 ad Apt, nella chiesa dei
Cordiglieri. Una seduta solenne nella
cattedrale riunì tutta la folla, che approvò il processo e dichiarò la santità della
contessa d’Ariano.
Da quel momento il processo con le
deposizioni dei testimoni oculari è considerato concluso. Il testo è consegnato
al papa nell’ottobre successivo. Ma a
questo punto i penosi eventi che affliggevano la cristianità avevano un contraccolpo. Urbano V, che allora occupava il
trono pontificio di Avignone, e che era il
figlioccio di Elzeario, si trovava in una
posizione difficile. Desiderava rientrare
a Roma, effettuò persino un ritorno che
Sec. XIX - (sul retro notizie tratte dal Breviasarebbe stato brevissimo, e preferì rinrio Romano Serafico - Lezione abbreviata)
viare la canonizzazione di Delfina. Poi
si succedono, ad Avignone, dal 1378, pontefici eletti in condizioni più che
dubbie, e con i quali si apre il periodo chiamato del Grande Scisma. Occorre
attendere il 1417 perché siano ristabilite, nella Chiesa, la pace e l’unità. Nel
frattempo, nella cappella dei Cordiglieri di Apt, il corpo di Delfina era stato
deposto in una cassa vicino a quella che conteneva le spoglie del suo sposo
sant’Elzeario. Il tempo passava. Il processo non fu mai ripreso. Elzeario è
sempre venerato come santo, mentre Delfina ha solo diritto al titolo di beata.
Lo strano destino di questa coppia di santi assume tutto il suo rilievo solo
se è collocato sullo sfondo tragico e perturbato in cui visse. Sappiamo che nel
XIV secolo hanno luogo grandi catastrofi naturali; la carestia del 1315-16, la
peste nera del 1348; e, oltre alle guerre franco-inglesi, la cristianità è in uno
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stato di incertezza di fronte a un papato un poco indebolito, tenuto al guinzaglio dal re di Francia e dall’Università di Parigi, e residente ad Avignone
dal 1309. In quest’epoca così perturbata, la santità di questa coppia vergine
e totalmente accordata con la vita del Regno di Dio e i destini escatologici
dell’umanità intera assume un alto significato: “Saranno come angeli nel
cielo”, si legge nel Vangelo.
In maniera più concreta, Elzeario
e Delfina, nella loro preoccupazione
costante di approfondire la fede che
li anima, sono utili più volte. Elzeario è amico di un famoso francescano,
Francesco di Maironnes, del convento
di Sisteron, che, recatesi a Parigi per
insegnare, ha potuto assistere il conte di Ariano nel momento della sua
morte. Quanto a Delfina, i testimoni
del suo processo dichiarano più volte che sapeva dissuadere coloro che
“avevano opinioni false, o parlavano
male del Sommo Pontefice”. Si doveva
discutere intensamente nella regione
avignonese, e non a torto, di fronte a
una corte pontificia di cui il meno che
si possa dire è che conduceva un’esiSec. XIX
stenza poco conforme alla povertà
evangelica! Ancor più, il suo processo è l’eco delle asserzioni eretiche allora
molto diffuse intorno alla Santa Trinità e al “Regno dello Spirito Santo”
che annunciavano numerosi visionari, e che aveva l’effetto di introdurre nella vita divina una specie di “quaternità”: conseguenza delle predicazioni
profetiche di un Gioacchino da Fiore, che al suo tempo non era stato quasi
ascoltato, ma di cui lontani discepoli riprendevano le accese teorie intorno
a una Chiesa dello Spirito Santo che sarebbe succeduta a quella di Cristo.
Sappiamo in che modo tali errori avessero trovato spesso eco nei francescani, nel ramo di quelli che erano chiamati spirituali. Un certo Durando, che
depone al processo di Delfina, mostra la contessa “inorridita” dalle opinioni
eretiche di un frate minore di cui non ha potuto ricordare il nome e che era
venuto da Napoli per discutere con lei sulla fede nella Trinità. “Si serviva di
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
sofismi per tentare di provare che c’era in Dio una quarta persona” dichiara.
La contessa rispose ricordando l’insegnamento della Chiesa e il simbolo di
Atanasio. In un’altra occasione, fu davanti al papa stesso, Clemente VI, che
Delfina, chiamata a discutere con santi dottori, li sbalordì con la sua autorità; e tutti conclusero che non poteva sapere tante cose “se non per ispirazione dello Spirito Santo”.
Si tratta probabilmente dello stesso Durando di cui più testimoni narrano
la vita al processo di Delfina, da cui fu miracolato.
Si trattava di un guascone, Durando Arnaldo de la Roque Aynière.
Lui e alcuni compagni imperversavano per la Provenza, nel 1358, quando
caddero in un’imboscata preparata dalla gente di Ansouis, che, senza processo, li gettò in un pozzo “profondo circa ventidue canne”, come precisa un
testimone. Lo chiusero con grosse pietre, poi si allontanarono. Quando gli
avevano legato le mani, Durando aveva invocato nel suo cuore la contessa
Delfina, che era allora ad Apt, e di cui lo aveva profondamente colpito la
fama di santità. Ora, in fondo al pozzo, dove era stato gettato il lunedì, tornò
in sé il mercoledì mattina, e una voce interiore gli disse: “Alzati, esci di qui”;
si accorse che i cadaveri dei suoi compagni che erano stati gettati prima di
lui avevano attutito la sua caduta, e che era stato colpito solo da una grossa
pietra, alla tibia. Riuscì ad alzarsi, gridò con tutte le sue forze; stupefatti,
quelli che erano nel castello lo sentirono, gli portarono delle corde e lo tirarono fuori sano e salvo. In seguito Durando si recò da Delfina, ascoltò le sue
esortazioni e si convertì, si confessò e per qualche tempo restò vicino ad Apt,
nel romitaggio di Santa Maria di Clermont. Pare che in seguito sia diventato
frate, probabilmente a Rocamadour. Nel processo di canonizzazione depone
a tre riprese.
(I santi del medioevo, edizioni Rizzoli, Milano 1986, traduzione di Anna
Marietti, pagg.114-119)
La seguente bibliografia spero contribuisca all’opera di recupero e di valorizzazione dei nostri compatroni, ben sostenuta da Don Donato Minelli, per
cui ad oggi rimane ancora incompleta, in attesa di migliori energie intellettuali e di maggiori risorse destinate al suo completamento.
- “Il testamento di E. del 18 luglio 1317 è pubblicato in R. de Forbin d’Oppède, La bienheureuse Delphine de Sabran..., Paris 1883, pp. 412-425;
- le Coutumes o statuti redatti da E. per i suoi sudditi provenzali si leggono
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
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in E. Borély, Les miracles de la grâce..., II, Carpentras 1844, pp. 125-129,
e in R. de Forbin d’Oppède, cit., pp. 84-94; cfr. inoltre Acta sanctorum...
Septembris, VII, Paris 1867, pp. 494-564;
Chronica XXIV generalium, in Analecta franciscana, III, Ad Claras Aquas
1897, p. 485; Z. Lazzeri, Officia rythmica sancti Elzearii et sanctae Delphinae, in Arch. franc. hist., X (1917), pp. 231-238;
F. M. Delorme, Documents sur st-Yves et st-Elzéar, in Studi francescani,
XXXII (1936), pp. 164-179;
Vida di san Alzeas compte d’Aria, in J. Cambell, Vies occitanes de stAuzias et de ste-Delphine, Roma 1963*, pp. 40-127;
J. Cambell, Le sommaire de Penquite pour la canonisation de st-Elzéar
de S., in Miscell. franc., LXXIII (1973), pp. 438-473; Id., Enquête pour
le procès de canonisation de Dauphine de Puimichel comtesse d’Ariano
(Apt-Avignon, 1360), Torino 1978; Mariano da Firenze, Il trattato del
Terz’Ordine, a cura di M. D. Papi, Firenze 1985, pp. 528-533;
J. Raphael, S’ensuit la Vie de monseigneur st-Aulzias de S., comte d’Arian,
glorieux confesseur et vierge, Paris 1507;
E. Binet, La vie et les éminentes vertus de st-Elzéar de S. et de la bienheureuse comtesse Dauphine, Paris 1662;
L. Wadding, Annales minorum, Romae 1635, VI, pp. 278-290, 336 s.; VII,
pp. 13-21; VIII, pp. 87, 727;
R. de Forbin d’Oppède, La bienheureuse Delphine de S. et les saints de
Provence au XIVe siècle, Paris 1883, passim;
G. Kaftal, Iconography of the saints in Tuscan painting, Firenze 1952,
coll. 343 s.;
A. Balducci, E., in Biblioteca sanctorum, IV, Roma 1964, coll. 1155 ss.;
S. Gieben, Appunti per l’iconografia dei santi e dei beati dell’Ordine della
penitenza (sec. XIII-XIV), in I frati penitenti di S. Francesco nella società
del Due e Trecento, a cura di Mariano d’Alatri, Roma 1977, pp. 111-124;
F. Baron, Le mausolée de st-Elzéar à Apt, in Bulletin monumental, CXXXVI
(1978), pp. 267-283;
A. Vauchez, La santità nel Medioevo, Bologna 1989, pp. 345-348; Id., I
laici nel Medioevo. Pratiche e esperienze religiose, Milano 1989, pp. 91102, 234-249.
(Enciclopedia Treccani - Dizionario Biografico degli Italiani)
Mons. Pisapia Emerico - Orationes ex Proprio Arianensi desumptae - 2
Maggio 1910 (Archivio Emilio Chianca)
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Sant’Elzeario e Beata Delfina
- P. Bilancetti Claudio- Vita del glorioso confessore di Cristo santo Elzeario Conte, tradotta di latino in volgare italiano....- Praga, 1594
- F. Emanuello Cangiamila - Embriologia Sacra, ovvero dell’Uffizio de’
sacerdoti, medici e superiori....- Milano,1751 (pagg.90-91)
- Quaderni di Diritto Ecclesiale- Anno 2002
Padre Giuliano Piccioli - Sant’Elzeario De Sabran Conte di Ariano Unione Francescana - Firenze 1941
O Padre, che negli sposi Elzeario e Delfina
hai donato esempi insigni di virtù
nello stato del matrimonio,
concedi a noi che li veneriamo su questa terra
di poter aver parte, in cielo, alla loro beata compagnia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
(Fra Cecilio)
Celleno (Viterbo) - Affresco del chiostro del convento - San Rocco e Sant’Elzeario Conte di Ariano
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Mario D’Antuono
Mario D’Antuono:
profondo studioso
della psiche umana
Omaggio a mio padre a vent’anni dalla morte
(1914-1993)
di Antonio D’Antuono
La verità segreta del mondo è che tutte
le cose sussistano per sempre e non muoiano,
ma si sottraggono per un po’ alla vista e in seguito facciano ritorno. Niente muore; gli uomini si
fingono morti e si sottopongono a finti funerali e
a dolenti necrologi, mentre loro stanno là a guardare dalla finestra, belli sani e a posto, in qualche
nuova guisa foggiati.
(Ralph Waldo Emerson)
“E’
già piuttosto raro che un medico della psiche umana, uno psicoterapeuta, come Mario d’Antuono, si interessi attivamente
di Parapsicologia, ma è, a mio avviso, ancora più
raro che accetti di discutere quegli aspetti che possono fare postulare l’esistenza di una realtà extrafisica, un mondo di essenze intelligenti ed operanti; e naturalmente, che ne discetti partendo da basi
scientifiche e dalla propria esperienza di studioso
dotato di rigore culturale e critico [...]. Un’altra
caratteristica dell’originalità dello studioso [...] è
data dal fatto di unire, di conciliare una sincera stima per Sigmund Freud,
con una visione della problematica psichica e psicologica umana che vada
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Mario D’Antuono
al di là del dato immediato, scavando in profondità e percependo «qualità»
che rimandano inevitabilmente ad una concezione anti-materialistica della
vita, dell’uomo, di tutto...”1. Con queste parole Giorgio di Simone, studioso
di fama internazionale, Direttore del Centro Italiano di Parapsicologia, oltre
che docente alla facoltà di Scienze Psichiche e Accademico Tiberino, autore
di prestigiosi lavori, come Entità A - Rapporto dalla dimensione X - Ed. Mediterranee, Roma, 1973 - delinea in maniera sintetica e incisiva gli interessi
culturali di Mario d’Antuono, profondo studioso dell’animo umano e della
fenomenologia paranormale, che venti anni fa, il 23 marzo 1993, si spegneva
in Ariano Irpino, suo paese natale2.
Nel suo primo lavoro, I poteri dell’inconscio (1974), pur guardando al
cardine della teoria freudiana, all’inconscio, di indiscussa importanza, in
quanto su esso poggia l’intera struttura psichica, si discosta dal padre della
psicoanalisi, per approdare ad una visione maggiormente totalizzante dell’inconscio stesso, ammettendo accanto ad un inconscio personale (S. Freud) un
inconscio collettivo (C. G. Jung). Infatti egli chiaramente afferma: “una delle
istanze freudiane, la più importante e complessa, sia che la si voglia esaminare sotto l’aspetto dinamico, sia che la si voglia considerare sotto quello
puramente topico, è «l’inconscio o Es» che avevamo definito come un fondo
limaccioso in cui si agitano gli istinti più bestiali, sede delle passioni più
travolgenti. Noi accettiamo parzialmente siffatta definizione e ne esporremo
le ragioni [...]”3.
L’inconscio è da intendersi come un centro di forza, un serbatoio dove gli
istinti forniscono energia capace di far funzionare tutto l’apparato psichico,
paragonabile ad una grande fucina, in cui affluisce materia grezza, la quale
sarà poi trasformata in prodotti finemente lavorati.
Le pulsioni più importanti, esistenti nell’inconscio si estrinsecano in desideri vari di natura libidica (Eros) o mortidica (Thanatos): i primi sono relativi
al Super-Io, il quale è da considerarsi soltanto come una parte scissa dall’Es,
in quanto tutte le pulsioni o tensioni hanno origine dalla stessa fonte, dalla
sfera istintuale, che permea di sé il sottofondo della nostra personalità; i secondi riguardano l’Es. Ciò che caratterizza l’individuo, il suo modo di fare
ed essere sono il risultato di un «compromesso» fra le pulsioni dell’Eros
(istinto di vita), che si estrinseca nell’amore, nella costruttività e creatività, e
G. DI SIMONE - Prefazione a: M. d’Antuono - I poteri dell’inconscio - Ed. Zephyr, Roma, 1974, p. 7.
Era nato l’11/11/1914 (anagraficamente il 14/11/14).
3)
M. D’ANTUONO - I poteri dell’inconscio - Ed. Zephyr, Roma, 1974, p. 61.
1)
2)
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Mario D’Antuono
del Thanatos (istinto di morte), che si manifesta nell’odio e nella distruzione.
L’Io, che è la “facciata” dell’Es, la punta cosciente, il rappresentante conscio
di quell’iceberg che è l’Es, è l’espressione più vera di detto compromesso.
Ma accanto all’inconscio personale M. d’Antuono ammette, sulla scia di Carl
Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, un inconscio collettivo, inteso come campo di esperienze collettive ereditarie comuni a tutta l’umanità:
«L’inconscio collettivo è la poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo dell’umanità, che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale», il
cui contenuto è rappresentato da immagini primordiali e meta-individuali,
dette «archetipi», forme pure e universali o immagini-tipo ereditarie uguali
per tutti.
Tra i vari esempi tesi ad avvalorare
la fondatezza e l’importanza dell’inconscio collettivo, mi piace riportarne uno
in particolare, del quale fa menzione M.
d’Antuono, anche perché riguarda un fenomeno sui generis, descritto da Vittorio
Tedesco Zammarano (1890-1959): “Un
esempio chiaro e suasivo di come possa
funzionare e rivelarsi a meraviglia l’inconscio collettivo ce lo dà Vittorio Tedesco Zammarano, esploratore e provetto
cacciatore di belve in terra africana, il
quale, nel suo libro «Auher mio sogno»4,
mette in rilievo un fenomeno stranissimo che concerne le donne negre di razza cunama. Egli così scrive: «Le donne
di Lacatacura e di Tacalambi vengono
colpite, durante la stagione delle piogge,
da misteriosi accessi isterici che durano da cinque a sette giorni nel corso
dei quali, esse parlano e cantano in arabo anziché in Cunama. Il mistero
consiste nel fatto che queste donne come quasi del resto tutti i conterranei
ignorano la lingua araba e non ricordano dopo la crisi isterica né saprebbero
ripetere alcune delle parole e tantomeno delle frasi pronunciate». Trattasi,
senza alcun dubbio, di un fenomeno non comune rivelatore della potenzialità
Si riferisce alla 2° ediz. del 1935 - Casa Ed. Ceschina, Milano -, perché la 1° ediz. del 1925 è intitolata Auhertzee Mio Sogno.
4)
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Mario D’Antuono
dell’inconscio atavico o collettivo, pertinente alle donne di razza cunama. I
Cunama, popolo primitivo dell’Eritrea, stanziatosi nella regione fra il Gash e
il Setit, parlano un idioma di tipo nilotico, ma tuttora ignorano completamente la lingua araba. Un tempo, durante una violenta scorribanda, una tribù
araba di predoni, riuscì a penetrare nel territorio cunama, uccidendo tutti i
negri di sesso maschile e deflorando le donne che, inorridite, ne subirono la
terribile onta. La tribù araba più tardi si ritirò portando seco un dovizioso
bottino, ma le donne, le sole superstiti, psichicamente traumatizzate, generarono, trasmettendo alla progenie, il «ricordo inconscio» di un avvenimento
spiacevole, che segnò per le sole donne Cunama l’inizio di un’epoca nuova,
in quanto diedero alla luce figli di sangue promiscuo dai caratteri somatici
inconfondibili, sebbene essi abbiano molte affinità con il popolo d’Etiopia”5.
Quanto esposto non deve meravigliare soltanto perché esula dalla realtà di
cui abbiamo esperienza, in quanto abitualmente tutti noi utilizziamo elementisimbolo della nostra memoria collettiva, i quali conferiscono “sacralità” e
“valore” alla nostra esistenza, come ad esempio l’uovo a Pasqua, l’albero o il
vischio e il pungitopo a Natale, ecc., pur non avendo la chiara consapevolezza di ciò che essi rappresentano o non conoscendone l’esatto significato, né
come siano giunti fino a noi attraverso varie trasformazioni e sovrapposizioni
temporali, espressioni dell’esperienza millenaria dell’umanità, sedimentate
nel nostro inconscio collettivo.
Come la nostra mente cosciente opera attraverso forme-pensiero universali, comuni a tutta l’umanità, che i filosofi (Aristotele, Kant, ecc.) hanno chiamato categorie (sostanza, qualità, quantità, relazione, ecc.), per mezzo delle
quali cataloghiamo, quantifichiamo, relazioniamo, qualifichiamo le cose del
mondo che ci circonda oggettivandole, così il nostro inconscio collettivo si
manifesta e opera tramite immagini-tipo primordiali o archetipi, che fungono
da forme universali inconsce (la Grande Madre, il Fanciullo, l’Androgino,
l’Albero, la Ruota, il Padre, ecc.), rintracciabili in miti, racconti, fiabe, leggende, formule magiche, riti religiosi, espressioni artistiche, ecc., che accomunano i vari popoli, al di là delle differenze fra essi esistenti.
Recenti studi condotti da Roger Nelson dell’Università di Princeton hanno evidenziato l’esistenza di una mente collettiva, paragonabile ad un grande
accumulatore di energia, capace di recepire, contenere, connettere e sommare
le vibrazioni scaturenti da emozioni, ansie, paure, tensioni di singole indivi5)
M. D’ANTUONO, op. cit., pp. 67-68.
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dualità, anche distanti fra loro. Per mezzo di speciali e sofisticati computer,
l’équipe che fa capo a Nelson è in grado di registrare sensazioni emotive
collettive, generate da eventi di grande portata, che accadono in qualunque
parte della Terra (es. da terremoti di intensità pari o superiori al 6° grado
della scala Richter). Tali macchine hanno registrato tra le altre cose quanto,
a livello emotivo e psicologico, è avvenuto in seguito all’attacco terroristico
dell’11 settembre 2001 alle torri gemelle di New York, facendo presupporre
l’esistenza di una mente universale, di cui non siamo coscienti, che connette
tutti gli esseri viventi del globo terrestre. Studi analoghi sono stati condotti
anche presso l’Università di Padova ad opera di Patrizio Tressoldi.
Quanto ho affermato è stato ben messo in luce nella trasmissione televisiva Voyager del 25-12-2008 dal titolo: “La forza della nostra mente”6.
Ma la peculiarità del pensiero di M. d’Antuono rispetto alle teorie summenzionate consiste nell’ammettere accanto all’inconscio personale e all’inconscio collettivo una memoria genetica: se è vero che un certo strato dell’inconscio è senza dubbio personale e che sotto di esso si nascondono, a guisa
di sedimenti stratificati, tutte le esperienze delle generazioni passate racchiuse
nell’inconscio collettivo, su tali stratificazioni si innesta la memoria genetica,
rappresentata dal DNA (acido desossiribonucleico) e dal m-RNA (acido ribonucleico). Tale argomento sarà oggetto di un’attenta analisi sia in Compendio
di Medicina psicosomatica (1986), sia nel lavoro inedito Inconscio collettivo,
memoria genetica o dottrina della reincarnazione?, di cui è stata pubblicata
soltanto l’introduzione7. In quest’ultimo lavoro afferma, in maniera chiara e
decisa, che l’inconscio collettivo è “innato ed ereditabile e viene, di generazione in generazione, veicolato dalla coppia genitoriale al momento dell’impatto dei due gameti formanti lo zigote”8, cioè al momento del concepimento.
Siamo di fronte ad una tesi che può essere definita traducianesimo o generazionismo psicologico. Di tale tesi si è avvalso per rigettare quella reincarnazionistica di Morey Bernstein, sostenuta in The Search for Bridey Murphy
(1956), di David Graham in Reincarnazione come terapia (1977) e di Jan Stevenson in Reincarnazione - 20 casi a sostegno (1975)9. Su questo argomento,
Vedi A. D’ANTUONO - Le maioliche di Ariano - Note Antropologiche - Ed. Associazione Amici del
Museo Ariano Irpino, Grafiche Lucarelli, Ariano, 2009, p. 28.
7)
M. D’ANTUONO (a cura di A. D’Antuono) - Inconscio collettivo, memoria genetica o dottrina della
reincarnazione? - in Aeqvvm Tvticvm - Associazione Amici del Museo, Ariano Irpino - marzo 2009,
Tip. Impara, pp. 70-77.
8)
M. D’ANTUONO (a cura di A. D’Antuono), op. cit., p. 74.
9)
Vedi anche A. D’ANTUONO - La triade umana e l’ereditarietà psicologica nella visione di Mario
D’Antuono - Associazione Amici del Museo, Ariano Irpino, Litografia Impara, 1994, pp.16-17;
6)
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Mario D’Antuono
attualmente si sta sviluppando un ricco e variegato dibattito, che dall’esclusivo terreno filosofico-religioso (Empedocle, i Pitagorici, Platone, le religioni
dell’Indo, il Buddismo, ecc.), sta assumendo una coloritura più scientifica,
grazie al contributo di un consistente numero di psichiatri e psicologi, i quali
stanno adottando tecniche terapeutiche di tipo regressivo nella cura dei loro
pazienti, cioè stanno utilizzando tecniche ipnotiche che fanno regredire il paziente a vite precedenti, specialmente in casi di persone sottoposti a terapia, i
cui sintomi risultano resistenti a trattamenti medici e psicoterapie tradizionali.
La maggior parte degli studiosi interessati alla problematica sono convinti
assertori della metempsicosi o la accettano ipoteticamente, in base ad osservazioni effettuate durante sedute ipnoterapiche su un consistente numero di
pazienti. Fra essi sono da annoverare, oltre ai citati Morey Bernstein, Jan
Stevenson e David Graham, studiosi di vaglia come Raymond A. Moody Jr.,
Brian Weiss, Thorwald Dethlefsen, J. Allan Danelek, Manuela Pompas, ecc.
Accanto alle tecniche regressive di stampo ipnoterapico, mediante le quali
il paziente rivive, in uno stato modificato di coscienza, l’esperienza di vite
passate (Terapia R), sono da annoverare quella del Rebirthing (= Rinascita),
adottata dal guru indiano Babaji e introdotta in Occidente dallo statunitense
Leonard Orr, basata sulla respirazione circolare, senza pause tra inspirazione
ed espirazione, e quella della Respirazione Olotropica (= che tende verso la
totalità) di Stanislav Grof, simile alla precedente per la metodica respiratoria
profonda e veloce, nota ai monaci tibetani e del Sud-Est asiatico, entrambe
utilizzate per visualizzare ugualmente le vite precedenti.
Diverso e originale è il punto di vista di M. d’Antuono, anch’egli esperto
ipnoterapeuta: accanto all’inconscio collettivo junghiano, sul quale fonda la
sua tesi per contrastare quella reincarnazionistica, ammette anche una memoria genetica, quale substrato biologico dello stesso, andando al di là dell’assunto del fondatore della psicologia analitica, in accordo con le più recenti
acquisizioni scientifiche in questo specifico ambito del sapere: “L’uomo non
eredita solo biologicamente ma anche psichicamente”10. Infatti, noi sappiamo che la base della vita e l’unità fondamentale della cellula è il DNA. Ad
esso “spetta il compito di trasmettere nei secoli l’informazione genetica e
con la sua peculiare funzione di archivista, di svolgere la sua mirabile opera
nell’immensa biblioteca delle basi azotate. Stando così le cose viene spontaneo chiedersi: «Se il DNA con i suoi RNA trasfert, messaggero e ribosomiale,
10)
M. D’ANTUONO - Compendio di Medicina Psicosomatica - Ed. Zephyr, Vitinia di Roma, 1986, pp.
16 e 168.
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rappresenta la biblioteca, chi è il bibliotecario e chi ordina al DNA di preparare quella determinata sequenza e non un’altra?». Si potrebbe rispondere in
termini biologici che l’operatore è il RNA messaggero. Ammettendo ciò, significherebbe attribuire ad una macromolecola capacità pensative, direttive
e coscienziali di gran lunga superiori a quelle dello stesso cervello. La verità
è ben altra e diciamo subito che dietro i meccanismi biofisici della materia si
nasconde un artefice sapiente: lo Spirito”11. Quest’ultimo, non essendo materia, non è da confondersi con l’anima, di natura simil-materiale, la quale
funge da intermediaria tra il corpo e lo spirito e viene veicolata dalla coppia
genitoriale all’atto stesso del concepimento, secondo quanto avevano affermato Tertulliano e Agostino di Tagaste, di cui lo spirito stesso si serve. Per
essa è da intendersi non lo spirito, che si identifica con la psiche superiore, di
natura più alta, ma soltanto la psiche inferiore, cioè le tendenze sentimentali,
le passioni, i gusti e le inclinazioni: “Tali tendenze, che hanno il loro parallelo nella psiche animale, costituiscono la cosiddetta «psiche inferiore»,
legata al substrato biologico, ai centri nervosi e agli organi endocrini. Si
ereditano così i diversi gradi di sensibilità e di reattività, nonché la tendenza
all’azione o alla quiete, all’aggressività o alla docilità [...]. Le stesse anomalie psichiche come le deficienze mentali, le abnormi tendenze istintive, essendo anch’esse legate al substrato biologico, possono essere ereditate alla pari
di quelle anatomiche e fisiologiche”12. D’altra parte la stessa parola animale
sta ad indicare un essere vivente che è dotato di un’anima (da cui i termini
animato, animale), ma non dello spirito, mente o psiche superiore, che differenzia l’uomo dagli altri esseri viventi.
La stessa problematica sarà ripresa da M. d’Antuono in un altro suo lavoro inedito, anche se incompiuto, La conoscenza del bambino, del fanciullo
e dell’adolescente alla luce della genetica, della psicologia sperimentale e
della pedagogia, nel quale scriverà che “non [...] deve essere ritenuta alogica e antiscientifica la nostra affermazione: «la coppia genitoriale veicola la
psiche inferiore». Quest’ultima, da non confondersi con lo «spirito» o «anima razionale», viene «ex traduce» generata dalla coppia genitoriale. Essa,
veicolata tramite la dinamica del «plasma germinale», forma il substrato
psicobiologico di ogni individuo [...]. Pertanto diciamo: «ai genitori è affidata la genesi dell’anima sensitiva». Come i corpi sono generati dai corpi,
11)
M. D’ANTUONO, op. cit., pp. 145-146.
M. D’ANTUONO, op. cit., pp. 189-190.
12)
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così l’anima, veicolo sottile, intesa come sostanza simil-materiale, è generata
dall’interscambio delle forze animiche racchiuse nel plasma germinale, cioè
nei gameti di entrambi i genitori. Come una lucerna si accende da un’altra
lucerna, così la vita dell’anima sensitiva si origina e brilla di luce rutilante
nel momento in cui ha luogo la «trasmissione energetica» di natura germinale”13.
Corpo, anima e spiritus sono i tre aspetti (triade umana) di un unico principio caratterizzante l’uomo nella sua interezza, cioè visto come unità psicosomatica. La stessa “tradizione ellenica, nella forma più elevata che è il Platonismo, insegna che l’essere umano è composto di un corpo detto «soma»,
di uno spirito (noûs), indicante la «mente», la «ragione» e l’«intelletto, e di
un’anima che li unisce detta «psiché». [...] Anche la dottrina indo-tibetana
espone ugualmente lo stesso principio ternario: Tamas, corrispondente al
soma; Rajas all’anima; Satwa allo spirito.
S. Paolo, sulla scorta della concezione ternaria mosaica: bâsâr (corpo),
néifes (anima), rûah (spirito), riporta lo stesso pensiero, ripreso e ribadito dal più autorevole dei Padri della
Chiesa, Sant’Ireneo, nel suo trattato
‘Resurrezione’”14.
Agli autori summenzionati aggiungo: Pitagora, il quale nel parlare del corpo come la parte mortale
dell’uomo, affermava che ciò che noi
chiamiamo anima formava un terzo
elemento intermediario tra il corpo e
lo spirito, la quale simile a un corpo
etereo vivificava il corpo materiale.
Da ciò la distinzione tra un’anima di
natura mortale (psiché) e un’anima
di natura divina o spirito immortale
(daìmon); Filone di Alessandria, detto l’Ebreo, che opera la prima gran M. D’ANTUONO - La conoscenza del bambino, del fanciullo e dell’adolescente alla luce della
genetica, della psicologia sperimentale e della pedagogia - (inedito) - fogli V e VI del cap. I.
14)
M. D’ANTUONO - Compendio di Medicina Psicosomatica - Ed. Zephyr, Vitinia di Roma, 1986, p.
32.
13)
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de sintesi tra la filosofia greca e la Bibbia ebraica e, tra i Padri apologisti,
sant’Ignazio di Antiochia e l’apologista Taziano.
Accanto alla triade corpo, anima e spiritus, M. d’Antuono ammette l’esistenza di un altro trinomio, che ingloba, meglio chiarisce e specifica la parte
animico-spirituale dell’uomo: anima, animus e spiritus. Essi non sono tre
realtà separate tra loro, ma tre aspetti o piani interagenti fra loro di un’unica
realtà, né devono essere confusi con i concetti di persona, anima e animus del
fondatore della psicologia analitica C. G. Jung, per il quale il termine persona
indica l’uomo nelle sue complesse strutture fisiologiche; anima rappresenta
«l’eterno femminino» che giace nell’inconscio maschile e che da esso promana; animus racchiude «l’eterno mascolino», immagine primigenia dell’uomo
presente nell’inconscio della donna. Per M . d’Antuono, invece, anima è da
considerasi una “facoltà simil-materiale dalle vibrazioni sottilissime [...], le
cui funzioni possono essere così sintetizzate: 1) rendere possibile il processo
senso-percettivo; 2) fare da intermediario fra la mente e il corpo; 3) servire
da veicolo fra gli stati coscienziali e l’azione [...] Pertanto «anima» è il fulcro intorno a cui ruota tutto il processo senso-percettivo”; animus è la parte
inconscia di ognuno di noi ed è fonte di un potenziale energetico inesauribile: “i pensieri più nobili, i ragionamenti più sottili, le deduzioni e le nostre
introspezioni più chiare e profonde sono di esclusiva pertinenza di questo
aspetto fascinoso del nostro mondo”; spiritus costituisce l’aspetto metarazionale dell’uomo. “Infatti, di «spiritus» sono le intuizioni, i presentimenti,
le immersioni nel mondo dell’Infinito, alla cui soglia si arresta ogni umana
immaginazione […]. Ogni incrinatura di ‘anima’, ogni dirottamento di ‘animus’ sono [per ‘spiritus’] sommamente deleteri”15.
La concezione triadica dell’uomo (corpo, anima, spiritus e la relativa specificazione di anima, animus, spiritus, che ingloba e meglio definisce la parte
animico-spirituale) è molto vicina alla teoria dei Tre mondi cognitivi, interagenti fra loro, espressa nell’opera L’Io e il suo cervello (1977), a firma di
Karl R. Popper e del premio Nobel della fisiologia John C. Eccles: il mondo
1 o mondo degli oggetti, è espressione dell’universo intero e di tutto quanto
appartiene alla realtà biologica, non escluso il cervello umano, ritenuto a torto
generatore del pensiero; il mondo 2 o mondo degli stati mentali, rappresenta
le disposizioni psicologiche e gli stati consci e inconsci (pensieri, sentimenti,
memorie, sogni, immaginazioni, propositi); il mondo 3 o mondo degli oggetti
15)
Vedi M. D’ANTUONO, op. cit., pp. 32-39.
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incorporei, dello spirito o dell’Io puro, racchiude l’essenza dell’individuo, le
cui leggi regolano le forze del pensiero e della vita.
La concezione del mondo fisico di Marco Todeschini, autore di opere di
notevole interesse scientifico come La teoria delle apparenze (1949) e La
Psicobiofisica (1953), basata sul principio unifenomenico16, la concezione
ternaria di Mosé17, di Paolo di Tarso (vedi: 1 Tessalonicesi 5,23; Ebrei 4,12 e
Filippesi 1,27), di alcuni Padri della Chiesa e Apologisti cristiani, le dottrine
indo-tibetane e la teoria di John C. Eccles, espressa in La conoscenza del
cervello (1973) e L’Io e il suo cervello (1977), trovano in M. d’Antuono un
terreno quanto mai fruttuoso e un singolare interprete.
Egli ha offerto, inoltre, un contributo consistente alle ricerche sul problema del rapporto mente-corpo (mind-body problem), facendo sua la prospettiva dualistica, la quale rivendica contro lo scientismo, la legittimità di
una distinzione, sul piano ontologico, del pensiero dal suo supporto biologico. Nell’ambito di tale prospettiva la sua posizione si inserisce nel settore
Per il principio unifenomenico l’unica realtà oggettiva di tutta la vasta fenomenologia del mondo
fisico è il movimento dello spazio, inteso non come vuoto ma come realtà fluido-dinamica, buia e
silente, nella quale sono immerse le masse materiali. Tutti i fenomeni relativi alla materia, alla massa,
all’elettricità, al movimento, al calore, al magnetismo, alla luce, ecc. non sono altro che apparenze di
quest’unica realtà oggettiva. L’uomo stesso è paragonato da M. Todeschini ad “uno scoglio investito
incessantemente dalla furia dei marosi ed immerso in una buia notte sconvolta da venti gagliardi
ed impetuosi. Egli, tuffato così nel vasto ed irrequieto oceano dello spazio fluido universale, avverte
l’infrangersi delle onde buie silenti ed atermiche, trasformando tale urto in molteplici sensazioni. Il
centro unificatore del mondo fisico universale, compreso il nostro corpo [di cui lo stesso cervello
fa parte], è il «quid ultrafisico» o «principio pensante» [mente o spirito] il solo capace di sentire,
percepire, giudicare e ragionare. [...]. Poiché noi non abbiamo altri mezzi di percezione all’infuori
degli organi di senso, la rappresentazione soggettiva di ogni fenomeno oggettivo è la risultante di
tre componenti: fisica, biologica e psichica [che corrispondono alle triade corpo, anima, spirito di M.
d’Antuono]. Pertanto egli [Todeschini] afferma testualmente: «Se una vibrazione buia di spazio ad alta
frequenza 10, colpisce la retina dell’occhio avente frequenza propria 2, la vibrazione risultante avrà
una frequenza 12 che sarà la somma delle prime due. La vibrazione 12 trasmessa al cervello sarà,
quindi, ben diversa da quella 10 che ha colpito l’occhio. Noi saremo perciò soggetti ad un triplice
errore: quello di ritenere che fuori di noi esista luce di un determinato colore, mentre, invece, non
esiste che una vibrazione buia di spazio; quello di ritenere che ad un determinato colore corrisponda
una certa frequenza 12, mentre ne corrisponde un’altra 10 ben diversa; quello di ritenere che l’occhio
non alteri le vibrazioni che riceve, mentre invece, ne cambia la frequenza a causa dell’oscillazione
propria 2 che gli atomi della retina subiscono per effetto della forza centrifuga degli elettroni costituenti»” (M. D’ANTUONO, op. cit., pp. 100-101). Per M. Todeschini, insomma, l’occhio può essere
paragonato più che ad una macchina fotografica ad un apparecchio televisivo, che trasforma le onde
buie in vibrazioni elettroniche e, quindi, in immagini, suoni e colori, grazie al «quid ultrafisico» o
«principio pensante» e non al cervello, che riceve non onde luminose, ma soltanto impulsi elettrici.
La stessa cosa si può dire per l’orecchio, paragonato al funzionamento di un impianto telefonico, e
per gli altri organi di senso.
17)
Vedi anche COHEN - Il Talmud - Ed. Laterza, Bari, 2000, pp. 109-112.
16)
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dell’interazionismo, a cavallo tra l’interazionismo forte (mentale e corporeo
comunicano tra loro bidirezionalmente) di J. C. Eccles e K. R. Popper, ecc.,
e la cosiddetta teoria causale della mente (è la mente che agisce sul corpo e
non viceversa). Infatti, nel prendere le distanze sia dalla prospettiva monistica
(tutte le attività mentali possono ridursi a quella cerebrale), sia dalla prospettiva indifferentistica (che va alla ricerca di una “terza via” tra dualismo e monismo), M. d’Antuono afferma che è la mente o spirito (intelletto pensante o
«quid ultrafisico»), a generare il pensiero e non il cervello, il quale è soltanto
strumento di psichicità; esso essendo una parte del corpo, entra nella sfera
di influenza del principio unifenomenico di cui M. Todeschini si fa assertore: “Se Tizio, impegnato nella lettura di un testo, decide di interromperla
temporaneamente, chi è che gli ordina il blocco degli automatismi? Contemporaneamente chi gli ordina di trasformare le impressioni ottiche o acustiche in riflessi motori che dànno origine alla locomozione, alla masticazione,
all’ingerimento del cibo, alla minzione, all’orgasmo sessuale, alla parola e
alle più disparate azioni che costituiscono la complessa operosità dell’uomo?
Qual è l’agente latente e misterioso capace di attuare la conversione dallo
stato inconscio al conscio?[...]. La mente con i suoi pensieri è il supporto di
ogni cosa esistente”18.
I suoi studi, oltre che al campo psicologico, vengono rivolti anche a quello
della parapsicologia, nell’ambito della quale si è interessato di problematiche
relative alla fenomenologia criptoestesica (telepatia - chiaroveggenza - previsioni e precognizione), ipnotica (sonnambulismo - applicazioni terapeutiche psicometria), bilocativa o ecsomatica (sdoppiamento o proiezione), telergica
(telecinesi - toribismo o poltergeist - levitazione), teleplastica (materializzazioni ectoplasmatiche - fenomeni ideoplastici - apparizioni), ecc., sperimentando personalmente le tecniche psicofoniche19 e quelle concernenti l’effetto
Kirlian20.
A titolo esemplificativo riporto soltanto un caso fra i tanti concernenti
la fenomenologia paranormale, cui M. d’Antuono fa riferimento ne I poteri dell’inconscio - Parte seconda - relativa alla Parapsicologia - che mi ha
M. D’ANTUONO, op. cit., pp. 97-98, 107.
Per un’analisi più particolareggiata dell’argomento vedi A. D’ANTUONO - La triade umana e l’ereditarietà psicologica nella visione di Mario D’Antuono, Litografia Impara, Ariano, 1994, pp. 28-34.
19)
Vedi M. D’ANTUONO, op. cit., pp. 86-91 (Fenomeni metapsicofonici sperimentalmente studiati Inconscio prodigioso o rivelazioni di entità disincarnate?).
20)
Vedi M. D’ANTUONO - Droga e frustrazioni giovanili - Ed. Zephyr, Vitinia di Roma, 1978, pp.
49-65 (Cap. V); I poteri dell’inconscio - Ed. Zephyr, Roma, 1974, p. 167-169.
18)
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sempre coinvolto e toccato intimamente, pur non
essendone stato testimone oculare; ricordo ancora
gli occhi di mio padre imperlati di lacrime, nel
parlare a distanza di anni del lacerante accadimento:
“Un caso particolare di poltergeist21 con chiari segni premonitori riguarda la mia famiglia e
avvenne il 9 gennaio del 1944. I fenomeni si susseguirono per quattro sere quasi alla stessa ora
con delle finalità ben precise: preavvisarci di
Ottaviano D’Antuono
eventi molto tristi concernenti la perdita del no(1941-1944)
stro piccolo Ottaviano, bimbo sano, robusto e intelligentissimo di circa tre anni.
Stava per scoccare la mezzanotte. Io e mia moglie eravamo ancora nella
stanza da letto dei nostri tre bambini. Io, invero, ero intento a studiare un
classico di Freud «Inibizione, sintomo e angoscia»; mia moglie, invece era
intenta nel ricamo per il quale aveva un particolare talento. I nostri tre bambini dormivano già profondamente. Ad un tratto sul pavimento del corridoio
che immetteva nella nostra camera da letto sentimmo rotolare una pallina di
piombo che andò a battere contro la porta. Mia moglie mi guardò come per
chiedere a me la spiegazione dello strano fenomeno. Senza indugio mi alzai,
accesi la luce del corridoio, ispezionai ogni angolo, ma niente fu possibile
reperire.
La sera del 10 gennaio, alla stessa ora, si ripeté lo stesso fenomeno della
sera precedente.
La sera dell’11 gennaio il fenomeno si presentò sotto una forma ben diversa. Giù in cucina si sentì un insolito fracasso e il rotolio del coperchio che
copriva il grosso recipiente, in cui mia moglie era solita far bollire l’acqua
con la quale lavare i pavimenti. Senza farmi prendere da vana paura, mi alzai, accessi la luce e mi precipitai giù per le scale che portavano alla cucina
sottostante. Ispezionai ogni angolo, ma tutto era in ordine, tranne il coperchio che s’era rovesciato.
La sera del 12 gennaio il fenomeno si presentò in una forma del tutto
21)
“Poltergeist - termine tedesco che significa «spirito chiassoso». L’insieme dei fenomeni paranormali
oggettivi e spontanei legati di solito ad un ambiente, spesso dovuto alla presenza di un medium o
all’influenza di un’entità disincarnata. Il Sudre li chiama «fenomeni di toribismo»” - da: M. D’ANTUONO - I poteri dell’inconscio - Ed. Zephyr, Roma, 1974, p. 318 (Glossario).
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Mario D’Antuono
insolita: nel nostro salottino attiguo alla camera da letto furono sentiti colpi
sul pavimento, fruscii, stridii e rovinio di sedie e poltroncine; un vero pandemonio! Proprio allora mi ero infilato sotto le coltri e, poiché la serata era
gelida, preferii rimanere a letto senza alcun turbamento. Infatti poco dopo mi
addormentai profondamente.
L’indomani, 13 gennaio, mi alzai per tempo e, verso le ore dieci, mentre
davo lezioni a due giovani studenti, sentii dal pianterreno delle grida di raccapriccio. Era mia moglie che mi chiamava disperatamente: grida accorate
miste al pianto angoscioso e irrefrenabile della nostra creaturina che era
precipitata nel recipiente dell’acqua bollente deposto sul pavimento. Eppure
i nostri tre bambini, Nicola di anni 6, Maria di anni 5 e Ottaviano di anni 3,
poco prima erano intenti a giocare nel corridoio. Com’era potuto accadere?
Il piccolo Ottaviano, che calzava scarpettine di gomma, eludendo la vigilanza del fratellino maggiore e della sorellina, era sceso giù in cucina inavvertitamente. Nello scendere le scale, era scivolato precipitando nel grosso
recipiente sottostante. Ustioni diffuse e profonde, nonché la conseguente tossicosi ne minarono, in poco tempo, la giovane vita: infatti, tra atroci sofferenze, il piccolo si spense il 26 gennaio [era nato il 30 settembre 1941].
- Semplice coincidenza! - potrebbe insinuare qualcuno.
Noi la escludiamo. I fenomeni e gli eventi concomitanti sono di un’evidenza tale da non ammettere una spiegazione diversa da quella che pensiamo. Il rotolio della pallina per due sere consecutive sul pavimento del corridoio indica ovviamente il luogo dove i nostri bambini si sarebbero trastullati;
il fracasso e il susseguente rovesciamento del coperchio, stanno, di certo, a
significare il mezzo con cui il bimbo si sarebbe ustionato, i colpi e il relativo pandemonio dell’attiguo salottino stanno a dimostrare tutt’altra cosa che
una semplice coincidenza. Chi fu l’agente di tali fenomeni? Un’intelligenza
disincarnata, lo spirito guida del bimbo o l’inconscio o superconscio di uno
dei genitori che inconsciamente già presagiva ciò che stava per accadere alla
propria creaturina?
Noi optiamo per l’ultima ipotesi, senza, peraltro ritenere assurde e superate le altre due ipotesi precedenti.
Da precisare che nessun rumore era stato avvertito prima di allora nella
nostra abitazione né mai furono avvertiti fenomeni del genere dopo il triste
evento. L’insolito carattere dell’avvertimento dà rilievo e valore al caso singolarissimo.
Pertanto possiamo affermare che da ogni anima sia essa incarnata o di-
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sincarnata emana e brilla una forza produttrice di fenomeni paranormali
che noi chiamiamo «forza psichica o animica». La vita non è che essenza
spirituale che adombra tesori inesauribili che diventano talvolta manifesti e
operativi solo in episodi occasionali e temporanei”22.
Non ho assaporato la gioia di conoscere mio fratello Ottaviano in questa
vita (il primo, perché poi è venuto al mondo il secondo, che amo e stimo profondamente) e di percorrere insieme tratti significativi delle nostre esistenze
per ovvi motivi anagrafici. Di lui so soltanto ciò che raccontava mio padre: aveva paura dell’ombrello aperto e della maschera del
lupo, e quanto diceva mio fratello Nicola, il
quale asseriva che, ancora fanciullo, dopo
la morte di Ottaviano, per diversi anni, quasi tutte le sere, dopo essere andato a letto,
ad un determinato orario, avvertiva nella
camera dove dormiva un intenso profumo
di violette, dopo di che dall’armadio vedeva uscire per incanto un bambino dai tratti
non ben identificati, tanto che, abituatosi
alla dinamica di quanto spessissimo visualizzava, appena sentiva il suddetto intenso
profumo, già sapeva quello che sarebbe accaduto subito dopo.
In Droga e frustrazioni giovanili (Zephyr - Vitinia di Roma, 1978), M.
d’Antuono, “con un’analisi stringata, evidenzia gli effetti esiziali e corrosivi
degli stupefacenti su tutto l’apparato psicosomatico”23. Nel ribadire l’inscindibile unità dell’essere umano in tutte le sue manifestazioni biologiche e spirituali, prende le distanze, ancora una volta, dalle posizioni positivistiche, che
riducono “con un tecnicismo «sui generis» le istanze spirituali ed esistenziali
a un mero determinismo biochimico”24. Augusto Fausto Nuzzi (giornalista di
scienze medico-biologiche e accademico dell’Ateneo Internazionale di Psicobiofisica di Bergamo, di cui lo stesso M. d’Antuono è stato membro), curatore della prefazione all’opera, nel condividerne a riguardo le affermazioni,
22)
23)
24)
M. D’ANTUONO - I poteri dell’inconscio - Ed. Zephiyr, Roma, 1974, pp. 229-231.
Dalla Premessa dell’Editore a: M. D’ANTUONO - Droga e frustrazioni giovanili - Ed. Zephiyr, Vitinia
di Roma, 1978, p. 7.
M. D’ANTUONO - Droga e frustrazioni giovanili - Ed. Zephiyr, Vitinia di Roma, 1978, p. 105.
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Mario D’Antuono
testualmente scrive: “Uno dei falsi miti del nostro tempo è lo scientismo, cioè
l’illusione di poter conoscere la realtà nelle sue varie dimensioni servendosi
esclusivamente della scienza moderna, e di risolvere ogni problema umano
grazie ad essa e alle sue applicazioni tecniche”25.
Interessanti, oltre ai capitoli che concernono specificamente il mondo della droga, le diverse sostanze stupefacenti, il sistema yogico e l’acido lisergico
nell’esperienza mistica, sono i cap. IV e VIII: in quest’ultimo si sofferma su
alcune tecniche terapeutiche (la terapia psicosintetica, il cui ideatore è stato
Roberto Assagioli, l’ipnoterapia, la psicoterapia e la terapia con il nucleo
familiare); nel cap. IV analizza alcune tipologie nevrotiche (Il tipo paranoide
- Il tipo isterico - Il tipo nevrotico ossessivo - Il tipo nevrotico narcisista - Il
tipo fallico-orale). E’ al tipo fallico-orale che M. d’Antuono ascrive freudianamente l’alcoolista e il consumatore di sostanze stupefacenti: “I tossicomani
in genere, tra cui primeggiano gli alcoolisti, appartengono al tipo fallicoorale. E’ ovvio che gli stadi genitale e orale svolgono un ruolo di primo piano
nella vita di ogni uomo dall’infanzia sino all’età matura. Soltanto questi due
organi erogeni sono in grado di stabilire un vero contatto e una vitale, salda
fusione fisica con un altro organismo. Per il bambino il contatto con la sua
genitrice è particolarmente importante. Infatti entrambi per nove mesi son
vissuti in perfetta simbiosi e tale comunione simbiotica perdura anche dopo
la nascita. [...]. Ovviamente con la crescita del neonato la madre è costretta
a interrompere l’allattamento sostituendolo con cibi più solidi. L’azione frustrante dell’interruzione non è priva di disagio specie quando l’interruzione
è brusca e repentina. [...]. L’insoddisfazione accompagnerà per il resto della
vita il bambino che tenderà di compensare questo imperioso bisogno o mangiando troppo o bevendo esageratamente, specie nell’età adulta. Infatti sintomi orali sono presenti in tutte le nevrosi, ma sono particolarmente accentuati
nel depresso cronico, nel maniaco depressivo, nel drogato e nell’alcoolista
cronico: in questi casi l’individuo si ritira allo stadio orale. [...]. E’ con il
termine «oralità» che entreremo nel mondo della droga. Essa evidenzia la
caratteristica più appariscente del consumismo in voga con il suo duplice
aspetto reattivo: l’uno simboleggiante la concretizzazione dell’oggetto ingerito e assimilato, l’altro la risposta aggressiva di tipo nevrotico-fallico tendenzialmente caratteriale”. E’ chiaro, però, che in un ragazzo o un giovane
normale, aggiunge M. d’Antuono, la fuga nel mondo della droga può verifi25)
A. F. NUZZI, Prefazione a: Droga e frustrazioni giovanili - Ed. Zephiyr, Vitinia di Roma, 1978, p. 9.
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AEQVVM TVTICVM
Mario D’Antuono
carsi in circostanze diverse, come ad esempio per «contagio morale»: “Infatti il ragazzo normale può lasciarsi trascinare o per imitazione o per mera
curiosità, spinto non solo dalla sua alata fantasia, ma altresì dal desiderio
irrefrenabile di appagare un piacere. Ci troviamo, così, dinanzi a un tipico
caso di contagio morale. Circa tale contagio non ci sono dubbi di sorta”26.
Alle opere menzionate sono da aggiungere vari articoli pubblicati nella
rivista Ara-Iani: Turbe psichiche e patogenesi (1977), L’essenza del pensiero
e la sua dinamica (1977), La genesi del pensiero è nel “Quid ultrafisico”
(1977).
Concludo con le suadenti e incisive affermazioni, che spessissimo ho sentito risuonare sulle labbra di mio padre e che riassumono l’intero suo insegnamento. Esse rappresentano una finestra spalancata sull’Infinito, una rassicurante luce che brilla vivida sull’oceano tenebroso, senza sponde e senza
fondo, del nulla eterno e rischiara le buie notti di noi smarriti naviganti o i
passi del nostro non sempre agevole e a volte tormentato viaggio terreno, con
le quali si chiude la sua prima opera: “Lo spirito dell’uomo è incorruttibile
e sta saldo contro tutti gli assalti del tempo. Pertanto egli può leggere la
sua immortalità nelle grotte sepolcrali, dove un tempo scorreva il sangue dei
sacrifici. Può leggere altresì la sua immortalità sui disadorni mausolei, che
chiedono ai passeggeri un ricordo e una preghiera per quelli che fisicamente
non sono più. Può leggere infine, la sua immortalità sugli squallidi tumuli
dove mani pietose vengono a rinnovellare i fiori e le corone già appassite dal
tempo.
L’uomo è immortale!
Che egli sappia comprendere il vero significato della vita: in tal modo la
morte non sarà per lui un terribile spauracchio, ma solo un cambiamento di
coscienza. Che realizzi in sé, con reiterati conati, il regno dello Spirito, che è
regno di pace e di giustizia e al termine della sua ultima sera passi calmo e
sereno all’altra riva e sciolga dinanzi al ghigno lugubre della pallida morte,
il peana della sua vittoria: «Non omnis moriar» «Io non morrò tutto»”27.
26)
27)
M. D’ANTUONO, op.cit. pp. 47-49.
M. D’ANTUONO - I poteri dell’inconscio - Ed. Zephiyr, Roma, 1974, p. 292.
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
La “Statua lignea
di Sant’Elzeario de Sabran”
che si venera nel Santuario
di S. Liberatore in Ariano
di Ottaviano D’Antuono
Santo Elzeario già conte di questa città, con imagine di rilievo modernamente scolpita in altra foggia,
che non stava prima per voluntà del già detto moderno vescovo [Don Alfonso de Ferrera, 1585-1603],
et di suo dinaro, et in tal forma di vera somiglianza d’un Francese di maraviglioso aspetto. (Ultimo
decennio del sec. XVI)
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AEQVVM TVTICVM
N
La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
el remoto mese di giugno del 1990, venivo invitato dal parroco della Chiesa di S. Liberatore, Don Salvo Albanese, e dai componenti
il Comitato Pro-Santuario, fra i quali Antonio Masuccio fu Filippo, Carmine
Masuccio, Antonio Scarpellino e Giuseppe Masuccio, a visionare un’antica
opera lignea raffigurante il Santo Conte di Ariano, Elzeario de Sabran, uno
dei tre compatroni della nostra Città.
Nella sagrestia del tempio, depositata in un angolo fra due pareti, perché
ormai non più in grado di reggersi, fra un groviglio di cartapesta, legno e
smangiato, vi era ciò che restava dell’antico simulacro del nostro “Santu Liziario”.
I presenti mi raccontarono che per trasportare il manufatto dalla grotta,
situata in fondo ad un vallone, ove era stato deposto qualche decennio prima,
si era presentata la necessità di legarlo sopra una robusta scala, per non perdere i vari elementi che lo componevano, prima di affrontare l’aspra risalita.
Ancora mi dissero che Sant’Elzeario era andato in sogno ad Antonio Masuccio fu Filippo e a Michele Masuccio, abitanti della contrada di S. Liberatore, e agli stessi avrebbe detto: “Ad Ariano nessuno si ricorda più di me,
andate a prendere la mia statua, giù nella grotta e riportatela in Chiesa”.
Quelle parole mi toccarono l’animo e
con particolare premura fissai quell’insieme di polvere, ragnatele, cartacce e anobi.
Con affetto riguardai la venerata immagine del Santo, Signore di Ariano dal 1310
al 1323, del temuto e valoroso guerriero,
del grande politico, dell’affermato diplomatico, del Virtuoso che “pranzava con i
poveri, che visitava i lebbrosi, curandoli
di persona, baciando, anche, le loro piaghe”.
Ebbi l’impressione, in quell’istante,
che l’annoso monumento, con occhi sperduti, ricavati su un viso longitudinalmente
squarciato, volesse piangere, chiedendomi compassionevole aiuto.
L’amore e il rispetto per i Santi Patro- “... l’annoso monumento, con occhi sperni di Ariano, trasmessi ai propri figli dal duti, ricavati su un viso longitudinalmente
mio amato e mai obliato genitore, Mario, squarciato, volesse piangere, chiedendomi
compassionevole aiuto.”
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
Fasi del restauro
mi riportarono indietro nel tempo e rividi gli anni favorevoli e sereni della
mia fanciullezza: ancora riudivo, non senza commozione, le esortazioni di
mio padre che ci invitava ripetutamente ad alzarci dal letto alle ore quattro
del mattino, il 15 maggio di ogni anno, per recarci a piedi, con gli zii e i cugini, al Santuario di S. Liberatore.
Don Gabriele Guardabascio, nel suo lavoro del 1923, S. Liberatore Vescovo e Martire, rigorosamente descrive ciò che faceva parte delle mie rimembranze: “E’ uno spettacolo commovente, vedere, nel giorno a lui sacro,
processioni interminabili di fedeli, molti scalzi, grondanti sudore pel lungo
cammino, pieni di polvere; e vanno carponi per terra, su quel suolo benedetto, bagnato dal sangue dell’eroe invitto, piangendo, gridando per implorare
grazie, o per sciogliere il voto di favori ricevuti”.
In quegli anni, fino al terremoto del 1962, la statua di Sant’Elzeario era
collocata al lato destro, guardando, dietro l’altare maggiore, ove a centro era
disposta quella di S. Liberatore; a sinistra era posizionata quella dell’Immacolata.
La demolizione del venerato tempio, decretata dalla solita infame “politichetta locale”, perfettamente in linea con quella nazionale, in questa miserevole “Italietta di Pinocchio”, aveva portato alla rimozione di tante antiche
sacre reliquie; fra queste anche la nostra statua di Sant’Elzeario.
Ad Ariano il passato non ha mai avuto fortuna; lo stesso dicasi per il futuro: mai gli arianesi hanno “guardato indietro per andare avanti”!!
Essenzialmente furono queste le motivazioni che mi indussero ad accetta- 152 -
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
re l’invito che mi si rivolgeva per il delicato, lungo, certosino ripristino, che
esegui per una intera estate, nei locali messi a disposizione dall’Associazione
Circoli Culturali, con il prezioso aiuto dell’amico decoratore Lello Guardabascio, permanentemente disponibile ed entusiasta, e con la valida collaborazione di mio fratello Antonio.
Nello stesso tempo, nell’abside della Chiesa venivano ricavate due nicchie per ricollocare le statue di Sant’Elzeario e dell’Immacolata.
I materiali e il lavoro vennero offerti gratuitamente dal muratore Antonio
Masuccio fu Filippo, aiutato validamente dal maresciallo Antonio Perrina, dal
padre di questi, Pasquale, nonché dal giovanissimo Ermanno Zerella.
Infine, dopo il lungo esilio, prima del 27 settembre, giorno della sua commemorazione, la statua di Sant’Elzeario veniva riproposta al culto degli arianesi nel Santuario di S. Liberatore.
Nel depliant che curai e che venne distribuito durante i festeggiamenti,
riportai quanto segue: “[...] due
sono le statue di Sant’Elzeario
esistenti tuttora nella città di
Ariano: una trovasi nella Cattedrale, risalente al 1903 e fatta realizzare dal Vescovo Mons.
D’Agostino, l’altra, di antica
fattura, venerata nel Santuario
di S. Liberatore ed esposta al
culto fino al terremoto del 1962;
quest’ultima risale, con molta
probabilità al sec. XVI”.
I decenni successivi mi vedranno intento a realizzare il
Museo “G. Arcucci” ed il Museo
Civico di Ariano, uno dei più
considerati Musei della Ceramica d’Italia, attuato nell’affetto
degli studiosi e dei concittadini,
ma nel totale isolamento istituzionale, avversato dalla politica
Don Gabriele Guardabascio ai piedi dell’altare di San locale, già ben definita in preceLiberatore con ai lati le nicchie dell’Immacolata e di denza, tutta intenta a partorire
Sant’Elzeario (c. 1923).
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
servi ed inetti e a “prostituire
l’intera provincia”, come, quotidianamente, mi ricordava l’indimenticato amico Don Pasquale Ciccone (la frase in corsivo è
sua).
In questo durevole periodo,
nessuna volta dimenticai il nostro Sant’Elzeario e la sua immagine lignea; come avrei potuto!!
A Lui e a S. Liberatore, unitamente a Madre Giuseppina Arcucci, Serva di Dio, rappresentavo giornalmente le tante ostilità
subìte, le innumerevoli ambasce
e le offese.
Nella presentazione della
“Mostra” dedicata al nostro Parzanese, nel Bicentenario della
sua nascita (2009), diretta da
chi scrive ed inserita nel Cata- Altorilievo di Sant’Elzeario sulla facciata della Cattelogo voluto da S. E. il Vescovo, drale di Ariano.
Mons. Giovanni D’Alise, ebbi a dire: “[...] Considerai quindi la necessità di
costituire presso il Museo Civico, fra le varie Sezioni, anche una Biblioteca di
Storia Locale. [...]. Tale operosità ha prodotto nel tempo, esiti vantaggiosi ed
oggi la Collezione Libraria del Museo Civico dispone di quasi tutte le opere
concepite dai nostri maggiori [...]”. In questa preziosa raccolta di scritti, concretizzata con il contributo economico degli arianesi e della Regione Campania, ho trovato tanti validi riscontri ai frequenti interrogativi che mi ponevo.
In essa ho rinvenuto i tanti chiarimenti che con premura ricercavo anche in
merito alla statua lignea di Sant’Elzeario, oggetto della mia narrazione.
Tommaso Vitale, nella Sua “Storia” del 1794, nel descrivere la Chiesa di
S. Liberatore, dice: “[...] Nell’Altar maggiore vi è la statua di S. Liberatore.
E i due altri Altari sono dedicati a S. Vito, ed a S. Eligio [...]”.
Dalla testimonianza del nostro ineguagliato storico veniamo a conoscenza
che alla fine del 1700, in S. Liberatore non vi erano “altare e statua” dedicati
a Sant’Elzeario.
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
Nicola Flammia, presentando
le Chiese Rurali, nella sua “Storia”
del 1893, scrive, in merito a quella
di S. Liberatore: “[...] La chiesa è
pulita, comoda, vi è la statua del
santo circondata da voti in cera
[...]”.
Alla fine del secolo XIX, dunque, ancora nel Santuario di S.
Liberatore, non è presente alcuna
statua di Sant’Elzeario. Lo stesso
storico, invece, configurando la
Chiesa Cattedrale, ci informa asserendo: “[...] Vengono di fronte gli
altari di S. Elziario in marmo e la
statua del Santo in legno”.
Dall’affermazione del Flammia veniamo a sapere che, alla fine
del 1800, la statua collocata in Cattedrale di Sant’Elzeario è in legno.
La stessa come ho già detto,
Sant’Elzeario - Piatto o cm. 64 in maiolica delle
Fabbriche di Ariano - Maestro dell’adormita, primi nel 1903, sarà sostituita con altra,
decenni del secolo XIX - coll. Virgilio Iandiorio, Ma- realizzata in cartapesta, “negli stanocalzati (Av)
bilimenti Orcesi di Lecce, su commissione del Vescovo Andrea D’Agostino”.
Altra fondamentale dichiarazione ci viene fornita dallo storico Gabriele
Grasso, il quale descrive la statua lignea di Sant’Elzeario che trovasi in Cattedrale, prima della relativa rimozione.
Nel 1901, nel lavoro raro ed introvabile (si conosce un solo esemplare), S.
Ottone Frangipane nella Storia e nella Leggenda, il Grasso, a pag. 27 scrive:
“Guardate S. Elziario nel penultimo altare della navata a sinistra.
Un’accozzaglia di colori invano vorrebbe supplire al vacuità dell’espressione; un palamidone1 lungo e pesante ve lo farebbe apparire un frate; una
faccia imberbe2, che non risponde agli anni da lui vissuti; un berretto in testa
che non sapreste definire: ecco gli elementi caratteristici di quella statua [...].
1)
2)
palamidone: lungo cappotto o soprabito invernale con falde.
imberbe: che non ha barba; viso da ragazzo, da giovane.
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
L’Assunta con Sant’Ottone e Sant’Elzeario. Ceramica
delle Fabbriche di Ariano - a divozione Oto Pulino, 1851
- coll. Gaetano Bilotta, Roma.
Lo storico in questione descrive esattamente la statua che
nel mese di giugno del 1990 nel
Santuario di S. Liberatore mi
veniva presentata e affidata per
il relativo restauro.
Effettivamente il “povero
Sant’Elzeario” indossava “un
berretto in testa” in cartapesta,
che copriva i capelli e la corona;
sotto di esso un vuoto creato nel
tempo dalla estenuante e continua operosità dei tarli.
La cartapesta, prodotto caratteristico delle botteghe leccesi, era presente in tantissime
altre parti della statua, coprendo
completamente il libro, anch’esso guasto, che il Santo presenta
nella mano sinistra. Al posto del
volume vi era un rigonfiamento
del “palamidone”, che accentuava indubbiamente la goffaggine del manufatto, sottolineata
dal nostro storico Grasso.
Le vicissitudini della statua di Sant’Elzeario, ormai, si mostravano nella loro comprensibilità: nel 1901, data certa, la statua, malridotta da tempo,
ripristinata rozzamente, collocata sul “penultimo altare della navata a sinistra” della Cattedrale, si offre, nella sua grossolanità, alla vista dei fedeli e
del nostro Gabriele Grasso.
Due anni dopo, nel 1903, Mons. Andrea D’Agostino, Vescovo di Ariano,
pensa di sostituirla con un altro simulacro e, nello stesso anno, l’antica immagine del Santo Conte, alterata da un restauro maldestro, condotto solo per coprire le rovine e che ne aveva modificato in modo dozzinale l’originario “maraviglioso aspetto”, sarà “confinata nella Chiesa Rurale” di S. Liberatore.
Per desiderio dello stesso Vescovo, nel 1911, identico e con novello aspetto, verrà riportato nei medaglioni in bronzo, al principio della scalea della
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
Cattedrale.
Ancora non appagato, ho anche
ricercato nel tempo il nome di chi
volle la realizzazione dell’antico
simulacro del nostro “Santo Conte
Elzeario De Sabran”. Nella stessa
raccolta libraria realizzata, come
già detto, presso il Museo Civico,
ho trovato la desiderata risposta al
quesito.
Nell’ultimo decennio del sec.
XVI, Alfonso De Ferrera, spagnolo,
Vescovo di Ariano dal 1585, lo stesso che aveva fatto realizzare il nuovo coro della Cattedrale da “Mastro
Nunzio intagliatore”, provvede, a
proprie spese, a far eseguire anche
la “nuova statua” di Sant’Elzeario:
la notizia trovasi nell’opera del notaio Scipione de Augustinis, “DeSantino merlettato con la statua di Sant’Elzeario,
scrizione di questa città d’Ariano collocata in Cattedrale, voluta da Mons. D’Agostidella provincia di Principato Ul- no nel 1903.
teriore Mediterranea, ...”, scritta,
secondo Nicola Flammia, nel 1593; Gianfranco Stanco, invece, nella sua edizione critica, ascrive la “Descrittione d’Ariano Città della Provintia...” al
1596.
La preziosa informazione, nella descrizione generale della Cattedrale, recita: “à piè della quale (cappella) è quella di Santo Elzeario già conte di questa città, con imagine di rilievo modernamente scolpita in altra foggia, che
non stava prima per voluntà del già detto moderno vescovo, et di suo dinaro,
et in tal forma di vera somiglianza d’un Francese di maraviglioso aspetto,
con haver fatto ristorar la sua cappella similmente di pietra di Rosito in bellissimo modo ornata, nella quale stà dipinta la città intiera”.
Dopo aver gratificato la mia congenita vaghezza e aver ridato un futuro,
una storia e un tempo alla Sacra “imagine di rilievo” del Santo Conte di Ariano, mi piace ultimare, anche per contribuire a rievocare e onorare il “quasi
dimenticato” benefattore della comunità arianese, riportando quanto scritto
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
in merito dal nostro Scipione Agostinio Arianeo, alla fine del 1500: “[...] ELZEARIO di Sabrano figlio di HERMOALDO alla cui morte successe al
stato, ch’era di anni vinti tre, et fù gran Senescalco del Regno, et ebbe
per moglie DELFINA ch’ambidue (mentre vissero) menaron vita casta, et
celebre. Di questo ELZEARIO à tempo di sua pueritia si ragiona, che ‘l
Magiordomo del Padre lamentandosi con Hermoaldo conte, ch’Elzeario
suo figlio ogni giorno cacciava fuor di casa il pane quello dispensando (per
quel che si diceva) à poveri. Una mattina tra l’altre, à tempo di crudelissima
neve d’inverno, continuando il Giovane il suo costume di dispensare il pane
à poveri, all’uscir di casa vedendolo il Padre con il seno del suo mantello
molto carrico dimandolli, che cosa portasse, all’impensata il giovane gli
disse, ch’erano rose, et aperto il seno del mantello trovò che veramente
erano rose. Fu il giovane inanimato à far’ il suo solito dal Padre, il quale
ordinò à suoi di casa, che non lo staccassero da sì fatta buon’opera vedendo
il Miracoloso effetto à tempo di neve un seno di suo mantello così colmo di
rose.
[...] Or quanto deve gloriarsi Ariano havere havuto un Santo per suo
Conte, et Padrone”.
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La “Statua lignea di Sant’Elzeario de Sabran”
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Televisione: ovvietà o eccezionalità
Televisione:
ovvietà o eccezionalità
L’art. 9 della Costituzione Italiana e Benigni
di Michele Giorgio
L’
ovvietà non è sempre sinonimo di verità. La conferma di tale assunto, sta tutta nella data del 17 dicembre dello scorso anno.
Mi sembra quasi inutile dire che l’avvento della televisione nel gennaio
1954 con un unico canale, ha cambiato usi ed abitudini del nostro paese; dapprima rappresentando un “bene di lusso” è entrata nelle case di “pochi ricchi”,
poi man mano ha fatto da catalizzatore sociale, allorquando riusciva a riunire
molte persone in case private o nei bar. Le trasmissioni avevano la durata di
poche ore e, in alcune occasioni, la nazione si fermava con “il festival” di
Sanremo e “Campanile sera” o con i vari Corrado, Febo Conti, Mario Riva,
Enzo Tortora, i quali si affacciavano dal piccolo schermo, nelle case italiane.
Erano i bei tempi del bianco e nero, di un segnale piuttosto traballante, ma
tutto sommato si viveva nell’attesa di poter assistere a qualche trasmissione
particolare. I piccoli, dopo “Carosello”, dovevano andare tutti a nanna e invidiavano quelli più grandicelli, che potevano invece godere un po’ di più di
quella scatola piuttosto ingombrante ma sicuramente magica.
Il simbolo per eccellenza dei massmedia nel tempo si è ovviamente evoluto, il colore è esploso nel 1977 ed è stato un bel vedere la vita nei suoi colori
reali, a volte forse a tinte un po’ forti, ma niente in confronto al bianco e nero,
di cui le giovani generazioni non hanno la minima idea. La seconda metà
degli anni novanta ha visto nascere e legittimare in Italia anche la televisione
commerciale: da allora niente più è stato come prima.
Ciò che è diventato ovvio è che la televisione, da suppellettile intrattenitrice o elettrodomestico da compagnia, riempie le ore di gran parte del giorno
di una enorme fetta di popolazione; questo ruolo che sino a non molti anni
fa veniva svolto dalla radio, oggi è stato prepotentemente “occupato” dalla
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Televisione: ovvietà o eccezionalità
televisione.
E’ molte volte la “voce mancante” di chi è rimasto solo in una famiglia:
viene accesa al risveglio per spegnersi andando a letto da migliaia di individui
soli e forse potrei dire in milioni di case.
Pur riconoscendo che con la moltiplicazione dei canali e la nascita delle
televisioni tematiche, si è cercato di appagare le richieste e gli interessi più
svariati, è possibile affermare, senza tema di smentita, che il ruolo sociale
del piccolo schermo non sempre ormai, viene svolto nel migliore dei modi,
tanto che molto spesso ci lamentiamo di quanto ci viene propinato, così come
prima ne esaltavamo, i pur esigui orari di trasmissione......... ed ecco l’ovvio:
“Non tutto è uguale sempre”.
Il 17 dicembre scorso, Rai Uno ha voluto offrirci uno di quegli spettacoli
che certamente “restano” nei cuori e nelle menti delle persone, portando nelle
nostre case un “magnifico” Benigni, che con il suo dire, tra il serio e il faceto,
ha voluto dedicare due ore di “amore” alla Costituzione più bella del mondo,
la Costituzione della Repubblica Italiana: “Un atto di amore per l’atto fondativo della nostra comunità nazionale”.
A questo “Atto d’amore”, 12milioni di spettatori hanno assistito entusiasti, testimoniando quanto la tematica sia sentita e quanto non sia vero che il
pubblico cerchi solo spettacoli leggeri o sciocchi. Inutile dire che assistere a
questo spettacolo avrebbe fatto bene a tutti: la televisione in questa occasione
è tornata ad assumere quel ruolo di professionalità indiscussa, il più delle volte trascurato, rendendo fruibile una eccezionalità, a cui nel passato tutti non
avrebbero mai potuto assistere contemporaneamente.
A beneficio di chi ha perso l’opportunità o per rinfrescare la memoria di
chi ha ascoltato, mi sembra importante ricordare il passaggio relativo all’articolo 9 della nostra Costituzione, a cui la nostra Associazione guarda:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione.”
Dice Benigni:
“E’ una cosa eccezionale! Noi siamo il paese della bellezza, siamo il Paese che ha “inventato” la Sindrome di Stendhal. Stendhal era lo scrittore
francese autore di romanzi come “Il Rosso e il Nero” e la “Certosa di Parma”. Quell’uomo amava l’Italia a tal punto, che volle che sulla sua tomba
fosse scritto “Milanese”. Voleva essere italiano. Quando arrivò a Firenze
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Televisione: ovvietà o eccezionalità
vide Santa Croce e svenne,
perché la bellezza davanti alla quale si trovava era
tale che lo sommerse. Crollò.
Ricerca, sviluppo, cultura.... Su cosa si deve investire? Sulle persone! E’
quello il capitale che frutta.
Adesso sembra una spesa Benigni durante lo show su Rai 1 (Ansa)
investire sulle persone, ma i Padri e le Madri costituenti guardavano lontano. La Grande politica è guardare lontano, mentre oggi non si guarda oltre
un palmo di naso. Quella cosa delle tre “I” “Impresa, Inglese, Internet” va
bene, ci vogliono tutte, ma ci vuole anche la cultura.
Ci vogliono gli ingegneri, ma ci vuole anche la cultura classica altrimenti
sei rovinato, non hai le basi. Quando si costruisce un ponte, una ferrovia, una
cattedrale, si costruisce anche per emozionare. Prendete i computer, se non
siamo attenti e ci mettiamo un po’ di cultura, non siamo noi a programmare i
computer, sono i computer a programmare noi.
Se non nascevano Marconi o Meucci, sicuramente qualcun altro prima o
dopo, avrebbe inventato la radio e il telefono. Ma se non nascevano Manzoni
e Leopardi, nessun altro al mondo avrebbe scritto “I promessi sposi” o “L’infinito”. Nessuno, mai! E se non ci fossero stati “I promessi sposi” la nostra
vita sarebbe stata diversa. Come se non ci fosse stata la radio. Stessa cosa.
L’articolo 9 è stato copiato veramente da tutti. Siamo stati i primi nel
mondo a mettere fra i principi fondamentali la tutela del paesaggio e del
patrimonio storico e artistico. Quando è stato scritto questo articolo in Italia c’era miseria. Una miseria totale. C’era talmente miseria che il governo
Parri stabilì il prezzo politico del pane. E nonostante ciò i Padri costituenti
scrissero che occorreva tutelare la bellezza, il paesaggio e il patrimonio artistico. Tutti beni immateriali, ma importanti quanto il pane. Lo scialo, il lusso
che si sono presi! Ho una tale ammirazione per quelle persone che le vorrei
abbracciare una per una.
Ma come gli è venuto in mente? Non c’era una lira, non c’era una lira e
loro l’hanno buttati lì quei pochi centesimi che avevano. Ma su cosa?
Avevano chiaro nella loro testa che l’Italia si stava rifacendo, doveva rinascere. L’Italia si doveva riaprire al mondo! Guardavano lontano, sapevano
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Televisione: ovvietà o eccezionalità
che è meglio un popolo vestito bene e di bell’aspetto ma con un po’ di fame
che un popolo sazio ma devastato.
Cenerentola, l’avete vista? Cenerentola non ha da mangiare, è trattata
male dalla madre, dalle sorelle, ma quando arriva la fata, lei non chiede
abbacchio e trippa. Chiede di essere bella. E i Padri costituenti hanno fatto
così. “Voglio che il mio Paese sia bello”.
L’articolo 9 è l’articolo più originale perché fa una cosa incredibile,
esprime un principio giuridico: fa diventare legge la nostra memoria. Protegge la nostra memoria storica. “Dovete sempre sapere chi siete”, ci dice.
“Dovete sapere che siete una cosa straordinaria”. Ci hanno rifatto una carta
d’identità nuova. Prima non eravamo nessuno e ora scopriamo che possiamo
essere, anzi siamo, meravigliosi.
Guardate poi che cosa hanno fatto. Alla tutela del paesaggio hanno aggiunto la parola “ambiente”. Il Paesaggio italiano non è un paesaggio qualsiasi, mettiamocelo nella testa: è il paesaggio italiano. E’ un marchio, non è
uguale al paesaggio francese o spagnolo. No, il paesaggio italiano sta negli
occhi, nella mente, nella memoria, nell’anima di tutto il mondo. Nelle più
grandi opere, nei romanzi e nella pittura, il paesaggio italiano è il nostro
paesaggio. E quando lo si tratta male è una cosa tremenda.
Una volta c’erano i campi di sterminio, ora c’è lo sterminio dei campi.
Ma è la stessa violenza, quella della guerra. Distruggiamo quello che loro
volevano che fosse tutelato. Noi tutti viviamo a spese delle generazioni future,
viviamo a spese dei nostri figli. E gli stiamo distruggendo tutto. Dobbiamo
renderci conto che il paesaggio è il respiro della nostra anima. Un paesaggio
distrutto non ritorna mai più. Dobbiamo tutelarlo, è la nostra memoria, noi
nasciamo da lì!
Cosa hanno voluto dire i Padri e le Madri costituenti con quelle brevi
parole, “Tutelare il paesaggio”? Che cosa ci volevano dire?
Ci hanno detto: “Vogliate bene alla vostra mamma”.
Il paesaggio, l’ambiente, la nostra memoria storica è la nostra madre.
Ci ha fatto lei. Questa nazione, questa terra è nostra madre. Ci ha fatto lei.
Questa nazione, questa terra è la nostra memoria storica. Le opere d’arte che
abbiamo fatto siamo noi, è la nostra immagine. Quindi l’articolo 9 ci dice:
“Dovete volere bene alla vostra mamma”. E allora, vogliamole bene”.
Qualcuno potrebbe dire: “Ovvio Benigni è un attore, ha fatto uno spettacolo, lo hanno pagato, ecc.”
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Televisione: ovvietà o eccezionalità
Io non trovo ovvio un bel niente e vorrei poter godere di queste parole
ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Vorrei che queste parole non fossero soltanto il frutto di un ascolto occasionale dello spettacolo di un nostro grande
attore, ma potessero essere fatte proprie da ognuno di noi e applicate da coloro che hanno responsabilità politico-amministrative.
Benigni dice “Viviamo a spese delle generazioni future”. E’ proprio vero!
Ma dobbiamo fare in modo che i nostri figli non maledicano la nostra trascuratezza.
Ambiente, paesaggio, memoria storica, monumenti, tradizioni e quant’altro devono appartenerci veramente ed essere parte integrante della nostra vita.
Dobbiamo maturare una coscienza comune condivisa, per difendere la storia
dei nostri padri e quanto essi ci hanno lasciato in eredità, insegnando ai nostri
figli l’amore e soprattutto il rispetto di ciò che ci è stato affidato da secoli di
storia, che nessuna nazione può vantare, ma che tutto il mondo tanto ci invidia.
E’ veramente molto stupido essere invidiati e non curare ciò che altri vorrebbero possedere. Spero, forse un po’ presuntuosamente, che l’aver riproposto le parole di Benigni, possa essere utile almeno a qualcuno. Mi è parso
necessario evidenziare non solo quanto sia importante il ruolo che svolge una
grande televisione, non ovvia, ma quanto sia fondamentale difendere quel
bene comune che è la nostra Costituzione, riflettendo appena su un solo articolo.
E quando Benigni dice: “Mi permetto di dire una cosa che solo un papa
o un buffone possono dire. Domani mattina quando vi svegliate dite ai vostri
figli che sta per cominciare un giorno che prima di loro non ha mai vissuto
nessuno. In secondo luogo ditegli di andare a testa alta, di essere orgogliosi
di appartenere a un popolo che ha scritto queste cose tra i primi nel mondo.
Dei politici lo hanno scritto. Ditegli di essere orgogliosi, che abbiano fiducia
e speranza.”
Non posso non dire che il modo di raccontare la Costituzione come ha
fatto Benigni è semplicemente geniale: ha rafforzato il mio orgoglio di essere
Italiano e penso di tutti noi, facendoci comprendere che è necessario pretendere che la nostra Costituzione venga osservata e difesa da tutti.
Un grazie particolare a Benigni e agli ideatori di simili spettacoli che ci
consentono di riflettere su quanto di “sacro” i Padri Costituenti hanno voluto
scrivere per noi.
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AEQVVM TVTICVM
Ariano prima contea?
Ariano al centro di un progetto
per la riscoperta delle radici
normanne. Ariano prima contea?
di Vincenzo Grasso
I
l 20, 21 e 22 settembre scorso, su iniziativa del Centro Europeo di Studi Normanni, che ha una propria sede nell’edificio che ospita anche la
biblioteca comunale «P.S. Mancini» e che gestisce il Museo della Civiltà Normanna e la sala delle armi «Mario Toso», da qualche anno allestiti mirabilmente sul castello normanno, si è svolta la prima sessione di studi su «Popoli,
testi e manufatti: trasmissione culturale nei mondi normanni dei secoli XI
e XII». L’evento culturale, che ha richiamato sulla città del Tricolle studiosi
dell’epopea normanna provenienti da tutto il mondo, è stato curato oltreché
dal Centro Europeo di Studi Normanni che ha in Ortensio Zecchino il vero
motore, anche da altre eminenti istituzioni culturali: l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, l’Universitè De Caen - Basse Normandie, l’University of Cambrige Emmanuel College e l’University of East Anglia. La seconda
sessione di studi, a riprova dell’importanza
del tema in discussione, è prevista per il 2014
e si svolgerà presso l’Emmanuel College di
Cambrige. Ad Ariano Irpino si sono confrontati David Bates, Alice Taylor, Daniel Power,
Sir John Baker, Alheydis Plassmann, Elma
Brenner, Jolanda Ventura con gli italiani Anna
Laura Trombetti, Errico Cuozzo, Amalia Galdi, Armando Bisanti, Edoardo D’Angelo e Ortensio Zecchino.
Questa nota di cronaca, che vale come
premessa per il discorso che si intende fare,
è necessaria per capire che Ariano Irpino ha
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Ariano prima contea?
davvero una grande opportunità da sfruttare per rilanciare il suo ruolo di centro culturale e soprattutto per dare seguito alla valorizzazione del castello
normanno. Il completamento dei lavori di restauro e ristrutturazione del maniero arianese è essenziale proprio ai fini dell’ambizioso progetto di «recupero» delle nostre radici . Ma subito dopo deve avvenire qualcosa di diverso:
un rinnovato impegno per riportarci realmente a queste nostre radici con i
Normanni. Insomma, con un’intensificazione soprattutto da parte dei giovani
della ricerca storica e archeologica. Con l’istituzione di borse di studio, confronti internazionali, recupero perfino di eventuali tradizioni culinarie e artigianali. Sanno davvero tutti chi sono stati i Normanni? Sanno davvero tutti
cosa può comportare una riscoperta di questa epopea nel nostro territorio? Si
possono instaurare legami attraverso scambi culturali, turistici ed economici
con altri territori europei? Proprio come fecero i Normanni? Basta rileggere
alcune pagine di storia per capirlo perfettamente.
Dopo l’anno Mille i Normanni si stabilirono con successo anche lontano dalla Normandia. Dopo aver conquistato la terra d’Inghilterra si diressero verso il sud Italia (1000-1016) con vari obiettivi ed evidenti necessità
di espansione. Ma anche per proteggere a pagamento dei pellegrini diretti
al santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo nel Gargano.
Successivamente furono ingaggiati, inoltre, come mercenari nella difesa delle città costiere dagli attacchi dei saraceni e soprattutto nelle ribellioni antibizantine in Puglia. Un gruppo di Normanni con almeno cinque fratelli della
famiglia Drengot combatté i Bizantini in Puglia sotto il comando di Melo
di Bari. Melo fu sconfitto a Canne e costretto a rifugiarsi a Bamberga, in
Germania, dove cessò di vivere nel 1022. Venne eletto a capo dei Normanni
Rainulfo Drengot che, partendo da un palazzo-castello che occupa nell’antico
borgo Sancte Paulum at Averze, fondò la città di Aversa, che divenne successivamente il punto di riferimento di tutti i Normanni che vennero in Italia. Da
Aversa, unica città di fondazione normanna, transitarono i membri della famiglia degli Altavilla guidata da Guglielmo Braccio di Ferro (morto nel 1046),
che, da Melfi, portò un radicale cambiamento all’interno dell’assetto politicoterritoriale del Mezzogiorno. Questa ricostruzione dei fatti, che assegna ad
Aversa il singolare primato di essere stata la prima contea normanna in Italia,
non è condivisa da tutti gli storici. Tra gli studiosi che hanno collaborato e
collaborano con il Centro Europeo di Studi Normanni di Ariano Irpino, c’è
chi sostiene, e tra questi il professore Enrico Cuozzo, uno dei massimi esperti
dell’epopea normanna, che Ariano sia stata la prima vera contea normanna del
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Ariano prima contea?
Sud d’Italia. C’è un documento nel Chronicon Sanctae Sophiae, databile al
1019, che parla in maniera non diretta della contea di Ariano, confermandone
l’esistenza prima di Aversa, fondata quest’ultima nel 1030 dal conte Rainulfo
Drengot. Ma c’è, ovviamente di più. Ariano - e questo non è mai stato messo
in dubbio - fu la città regia che ospitò due famose «Assise», che non fecero
altro che sancire dal punto di vista giuridico gli ideali e dei principi che Ruggero II pose a base del suo neonato Regno, fondando una visione sacrale della
sovranità, in evidente contrapposizione e distinzione con il Papato. Insomma,
una forma di organizzazione di Stato moderno, con conseguenze ben chiare
per sovrano, Chiesa e sudditi. Perché proprio il territorio di Ariano? Per la sua
centralità? Per i primi insediamenti normanni? Per l’esistenza di un castello
o per una scelta politica ritenuta strategica? La prima Assise, che si celebrò
nel settembre del 1140, ebbe indubbiamente una grande valenza politica, di
essa si parlò successivamente come di una data importante per la nascita di
uno Stato moderno. In cosa consisteva la convocazione di un’Assise? Ruggero II riunì in un’assemblea tutti i grandi del Regno (principi, feudatari e
dignitari ecclesiastici), per promulgare il primo corpo di leggi valido per tutto
il territorio regio, dal Tronto alla Sicilia. Un modo concreto ed evidente per
affermare il suo primato, ma anche per disciplinare, con un corpo di leggi,
la vita in una territorio fin troppo vasto e privo di regole certe. 44 «paragrafi», che disciplinavano molti aspetti della vita amministrativa, giudiziaria e
militare del Regno e che portavano a risoluzione diverse questioni tanto di
natura civile quanto di natura ecclesiastica, furono i cardini del rinnovamento
giuridico ipotizzato. Per l’occasione a simbolo (e forse principio) dell’acquisita unità statuale, fu coniata una nuova moneta, il ducato. Due anni dopo,
nel luglio del 1142, a Silva Marca, si svolse la seconda Assise, che si occupò
prevalentemente di «legislazione penale». Sulla necessità di tenere le Assise e
sulle conseguenze si sono soffermati autorevoli studiosi. Di sicuro Ruggero II
interpretò al meglio quella che era un’esigenza di fondo: fare una necessaria
sintesi delle tradizioni giuridiche diverse, ispirate al diritto romano, al codice
giustinianeo, all’Editto di Rotari, al diritto canonico e quindi anche alle tradizioni franche, longobarde, normanne, bizantine e musulmane. Per circa sette
secoli successivi quelle norme dettate sul nostro territorio sono state alla base
della regolamentazione giuridica della vita del Mezzogiorno d’Italia. Influenzarono molto anche le famose Costituzioni federiciane di Melfi del 1231. Si
intuisce, dunque, da questi eventi storici che la contesa di Ariano dovette
svolgere per tutto il periodo normanno un ruolo importante non solo dal punto
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Ariano prima contea?
di vista politico, ma anche strategico. Sono d’altra parte le fonti normanne
con Amato di Montecassino, Goffredo Malaterra, Gugliemo Apulo e Falcone
Beneventano a confermarlo. Ed allora? Torniamo al discorso iniziale. Perché
non stringere rapporti ancora più diretti e proficui tra la città, intesa come comunità residente e associazioni culturali, con il Centro Europeo di Studi Normanni? Perché non fare con la ricerca storica sui Normanni una scommessa
sul rilancio della città? Ce ne sarebbe bisogno, viste anche le ultime vicende
politiche e amministrative che hanno investito la città.
Bibliografia essenziale :
- Tommaso Vitale - Storia della regia Città di Ariano e sua Diocesi - Arnaldo Forni Editore
- Nicola Flammia - Storia della città di Ariano - Tip. G. Marino, 1893
- Ortensio Zecchino - Le Assise di Ariano in «Storia illustrata di Avellino e
dell’Irpinia» Sellino & Barra Editori , 1997
- Enrico Cuozzo - L’unificazione normanna e il Regno normanno svevo, in
«Storia del Mezzogiorno», diretta da G. Galasso e R. Romeo, 1989
- Enrico Cuozzo - Intorno alla prima contea normanna nell’Italia meridionale, in «Cavalieri alla conquista del Sud. Studi sull’Italia normanna in
memoria di Léon-Robert Ménager», Bari-Roma, 1998
- Ariano Irpino - Città dei Normanni, a cura dell’Amministrazione Provinciale di Avellino- Beta Gamma Editrice, Viterbo, 1998
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Puntare sulla ceramica
Puntare sulla ceramica,
una strategia vincente
Incontro con il Dirigente scolastico dell’Istituto Superiore Bruno-Dorso,
già preside del Liceo Guido Dorso, di Ariano Irpino, Francesco Caloia
di Floriana Mastandrea
Prof. Caloia, in giugno presso il Liceo Artistico Guido Dorso, che da settembre in seguito all’accorpamento rientrerà nel plesso Bruno-Dorso, si è
tenuta una mostra “L’Arte nel Design il Design nell’Arte” cui è seguito un
convegno sul tema...
P
remetto che il Liceo Guido Dorso, si presenta sul piano delle offerte
didattiche del nostro territorio, come una delle istituzioni scolastiche
più variegate e ben organizzate, grazie a un’ampia proposta, che parte dal
ramo delle scienze umane, passando per il linguistico, fino ad arrivare al più
recente ramo artistico, che ho fortemente voluto e finalmente nel 2010, ottenuto. Quest’indirizzo fornisce allo studente strumenti necessari per conoscere
il patrimonio artistico nel suo contesto storico e culturale, e consente di maturare le competenze necessarie per dare espressione alla creatività e capacità
progettuale in ambito artistico. Il nostro principale obiettivo è la formazione
di una figura professionale capace di dedicarsi alla progettazione e alla realizzazione di qualsiasi oggetto, in ceramica, legno, metallo o tessuto che sia. Il
liceo ha proposto ed ottenuto altresì di aprire una sezione dell’artistico presso
la Casa Circondariale di Ariano Irpino, organizzando al suo interno apposite aule per i laboratori artistici. I lavori realizzati dai detenuti della sezione
carceraria sono stati esposti nella mostra inaugurata il 12 giugno, insieme a
quelli realizzati dagli studenti: sculture, quadri, mattonelle, maschere, vasi,
bassorilievi, oggetti di design, tutti lavori eccellenti che hanno suscitato stupore e ammirazione tra i visitatori della mostra.
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Puntare sulla ceramica
In quali impieghi può essere utilizzata la ceramica?
La ceramica abbraccia una vastissima quantità di prodotti, che si ottengono modellando impasti di argilla e di altre terre che vengono cotti e, successivamente, decorati o ricoperti con un rivestimento di vernice e smalto.
La ceramica è stata adoperata per impieghi diversi, dalle stoviglie per uso
quotidiano, fin dall’epoca neolitica, alla statuaria greca e romana, ai rivestimenti, come per le famose piastrelle dell’Alhambra di Granada, alle madonne
e putti di terracotta invetriata della famiglia di scultori e ceramisti italiani,
Della Robbia, che nei secoli XV e XVI lavorarono dalle statuine e tabacchiere del Settecento, alle porcellane di Capodimonte, per giungere a noi, con la
realizzazione di oggetti e opere di moderno design. In relazione al tema della
sostenibilità, la ceramica si è rivelata un materiale eccellente, dotato di virtù
straordinarie, sia come prodotto finale, sia nel suo processo di lavorazione.
Come rilanciare la ceramica?
Servono in primis persone culturalmente preparate, creativi che sanno
guardare al passato per realizzare prodotti per la contemporaneità. Ariano Irpino, come dimostra la sua storia, è un territorio con un’antica vocazione e
tradizione nel campo della ceramica, ma non è conosciuta nel mondo per
questa peculiarità: molti cittadini del posto non sanno neanche che Ariano si
fregia del titolo di Città della ceramica. Chi non è del settore non lo percepisce, mentre nelle città d’arte di tradizione ceramista, tutto ne parla, dalle
sculture collocate nelle piazze o nelle rotonde, alle targhe in ceramica della
segnaletica stradale, dall’arredo urbano, alle vetrine dei negozi, alla pubblicizzazione di mostre, che periodicamente presentano le opere di artisti del
settore. Quotidianamente, insomma, cittadini e visitatori, incontrano la ceramica nelle strade, nei palazzi, nelle scuole, negli uffici, nelle stazioni ferroviarie, negli ospedali.
Quali le ricadute economiche sul territorio?
La ceramica arianese può risultare un potente fattore di attrazione economica, che sarebbe miope ignorare: il patrimonio locale della ceramica è un
patrimonio latente, che abbiamo cioè, senza esserne consapevoli. È attualmente un settore promozionale del territorio per niente sfruttato, difficilmente
accessibile, che rappresenta un punto debole dell’ambito turistico sul quale
sarà necessario intervenire. E per partire, bisognerà valorizzarne la storia, le
caratteristiche, le potenzialità, offrendo servizi qualitativamente competitivi
che ne aumentino la visibilità, in un quadro di sviluppo che guardi al turismo
come fattore di valorizzazione locale e di recupero e capitalizzazione di una
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Puntare sulla ceramica
cultura a rischio di marginalizzazione. Puntare sulla ceramica significa attuare una strategia vincente in ogni campo e su ogni mercato. Lo sviluppo del
grado di attrattività del territorio può puntare in modo significativo sul patrimonio della ceramica, che potrebbe svolgere un ruolo di richiamo costante e
alternativo al turismo tradizionale. Ciò è possibile attraverso l’offerta di servizi culturali legati proprio al mondo della ceramica, da diffondere e rendere
il più possibile comprensibili e attrattivi per un pubblico eterogeneo. I sistemi
locali devono scegliere la propria vocazione, se non vogliono essere subalterni. Se guardiamo ai nostri beni culturali locali in un’ottica di mercato, considerandoli un capitale, bisogna accrescerne il valore mediante la conoscenza
e la tutela, mettendo in circolo iniziative attraverso la scuola, dalla materna
alle superiori, per formare alla sensibilità estetica e al saper fare, competenze
oggi basse o del tutto trascurate. Il Liceo Artistico è già al lavoro, operando
su arte e design, dalla progettazione di oggetti di uso comune, all’arte per
l’arte, come, ad es., i pannelli decorativi. Con investimenti appropriati, spazi
adeguati e una mirata formazione rivolta anche ai docenti, l’istituto dovrebbe
diventare il cuore pulsante di giovani e creatività, un ambiente stimolante,
dove anche i cittadini possano frequentare seminari di studio e approfondimento su temi specifici.
Ceramica Arianese - Opera realizzata dagli allievi del Liceo Artistico della sezione carceraria
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Aurelio Covotti
Aurelio Covotti
storico della filosofia
- Saggio di Antonio D’Antuono -
RECENSIONE di Stanislao Scapati1
T
ranne la breve colonna sull’«Enciclopedia Filosofica» del «Centro
Studi Filosofici» di Gallarate, a firma di Cleto Carbonara, suo discepolo, con una ristrettissima bibliografia, e qualche altra citazione sparsa qua
e là, poco si è scritto in Italia su Aurelio Covotti. Non ve n’è cenno neanche
sull’«Enciclopedia Italiana» dell’Istituto Treccani, alla quale pure aveva col1)
La presente recensione è stata pubblicata sul Corriere del 25 ottobre 2012, p. 19, con il titolo: D’Antuono riscopre il filosofo Covotti e sul sito http://www.irpino.it/.../367-libri-qaurelio-covotti-storicodella-filosofiaq-di-ant...
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AEQVVM TVTICVM
Aurelio Covotti
laborato nei primi volumi; le varie e copiose appendici che giungono fino al
2006 lo ignorano.
All’estero solo nel numero di settembre 1935 della «The Philosophical
Review» della «Longmans, Green and Co.» di New York viene brevemente
recensita in poche righe «La metafisica del bello e dei costumi di Arturo Schopenhauer» a cura di Radoslav A. Tsanoff del «The Rice Institute» che così
lo presenta: “Professor Covotti’s volume summarizes, in faithful paraphrase
and extended quotation, the substance of the aesthetics and the ethical social philosophy of Schopenhauer. This summary should serve to interest the
Italian beginner in a further and more critical study of Schopenhauer’s thought”. Qui si parla di un compendio (summary) e di estese citazioni (extended
quotation) con l’invito a qualche iniziato italiano a svolgere uno studio più
approfondito (more critical study) del pensiero schopenhaueriano: studio critico, fa capire il recensore, che manca nel testo del Covotti, dedicando invece
molto più spazio a un’opera sullo stesso filosofo del Prof. Umberto A. Padovani, trovandola evidentemente più interessante.
Bisogna giungere fino al 1968 per avere finalmente una vera e propria
ricostruzione della vita e del pensiero di Aurelio Covotti attraverso i ricordi
precisi e commossi del Prof. Giuseppe Martano, figura umanissima di grande
studioso e docente, anche lui formato nella scuola del Maestro arianese. Si
poté così avere da quella conferenza, poi data alle stampe, una visione più
chiara e definita del Covotti nel mondo del pensiero filosofico, estrapolata dal
Prof. Martano dalle stesse opere del Maestro, che non lasciò nulla di scritto
su di sé, fornendo però indirettamente all’acume di un attento indagatore la
chiave per penetrare nei labirinti della sua mente. E questa chiave Martano la
trovò nello Schopenhauer, a completamento e integrazione del mondo antico
greco, patria ideale del Covotti, con l’arte che placa le pene dell’anima e col
pensiero che placa la sete del sapere.
Mancava però ancora la presenza di uno studioso locale per dare ancora
più lustro alla personalità del Covotti: già da tempo il Prof. D’Antuono raccoglieva testi e testimonianze su Aurelio Covotti e ne aveva, negli anni scorsi,
riassunte le sue ricerche in due pubblicazioni che riviste, ampliate, approfondite con nuovi richiami, hanno dato vita oggi a un nuovo saggio, poliedrico e
composito, vero e proprio punto di riferimento per chiunque voglia erudirsi.
E proprio con un problema di profonda erudizione si apre il lavoro del
Prof. D’Antuono. E’ di vecchia data infatti la polemica sulla validità, vera o
presunta (a seconda dell’umore dei critici) della «storia della filosofia» come
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Aurelio Covotti
emerge dal 1° libro della «Metafisica» aristotelica.
Il Prof. D’Antuono affronta subito l’argomento all’inizio stesso del suo
saggio, citando tra gli oppositori in merito di Aristotele Bacone e Giordano
Bruno. Il tono del Bacone è più attenuato, rispetto al Bruno, perché non infierisce, come quest’ultimo, pur paragonando Aristotele ai sultani Ottomani
sempre pronti a sbarazzarsi dei parenti più prossimi per timore di congiure. Così Aristotele nel 1° libro della Metafisica, intende fare dei filosofi che
l’hanno preceduto? Bruno non ha dubbi: “Pitagora, Parmenide e Platone
non devono essere sì scioccamente interpretati, secondo la pedantesca censura di Aristotele” (in «De la causa, principio et uno»). E incalza: “Parmenide
ignobilmente trattato da Aristotele” (ib.). Per pura curiosità si vada a controllare in che cosa consiste questo “ignobile trattamento” nella «Fisica», I, 3:
dove si legge dello scontro tra l’«uno» eleatico e il «molteplice» aristotelico
che tutto risolve in chiave sillogistica. Lo Stagirita parla di errori dovuti a
premesse false con altrettante false conclusioni. Il tono di Aristotele è dunque
pacato, tutt’altro che ingiurioso, laddove il linguaggio del Bruno è polemicamente incontrollato.
Dice il Covotti («La filosofia nella Magna Grecia e in Sicilia, fino a Socrate», 1900, pag. 8) che Aristotele presenta “in una luce diversa dalla luce
loro propria le dottrine dei suoi predecessori”: tutta qui la questione della
“storicità” aristotelica, secondo questa premessa, difettosa di imparzialità per
far tutto convergere sul pensiero dello Stagirita.
Si veda qualche esempio: cita il filosofo il poeta Simonide a proposito del
suo detto: “Dio solo ha questo privilegio” (Metafisica, I, II), cioè il privilegio
di esistere per sé. Cosa ha fatto Aristotele? Ha espresso, senza contaminarlo,
il pensiero di un poeta (e questo può essere obiettivamente storia), poi ci riflette sopra a modo suo per trarne le conseguenze che si confanno al suo pensiero. Un po’ di storia dunque c’è (perché il detto è riportato integralmente),
poi viene il commento che fa parte del filosofare aristotelico.
Andando oltre ci si imbatte in Talete, fondatore della scuola milesia, che
dice: “l’ente permanente è l’acqua”: riferendo queste parole (Metafisica, I,
III) ha Aristotele alterato il pensiero di Talete? Ha soltanto riferito un dato di
fatto che costituisce una notizia storica. La questione potrebbe in questo caso
anche non riguardare la sola storia, ma anche la filosofia, perché per Aristotele manca un’aperta discussione sull’elemento troppo ristretto in una sola
parola. Il commento che viene dopo non ha alterato la citazione originale,
mutandola o cambiandone il senso. Anzi qui ci sono le tracce di una preistoria
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Aurelio Covotti
della filosofia, poiché genialmente Aristotele intuisce come il pensiero filosofico è stato preceduto dall’intuizione poetica: infatti prima che Talete parlasse
di acqua c’è Omero (Iliade, XIV, 201, 246) che “rappresenta Oceano e Tetide
come i promotori della creazione” (Metafisica, I, III, 6): e la scienza moderna
conferma che l’intuizione omerica e quella di Talete sono esatte, perché è
dall’acqua che sono nate le prime forme viventi.
E così, proseguendo, è per Anassagora che pone l’aria prima dell’acqua,
per Eraclito e il suo fuoco e per Empedocle e i suoi quattro elementi. Anassagora è citato ancora per i primi principi che sono infiniti. C’è posto anche per
Parmenide, in quanto per lui le cause sono due (v. Δόξα) (fr. 8 Diels).
Continuando su questo tono le cose non cambiano; c’è solo da aggiungere
che se non si può parlare di una vera e propria storia della filosofia, rintracciabile sia pure in germe nel primo libro della «Metafisica» aristotelica, è
perché le opinioni dei primi pensatori sono come sommerse dall’abbondanza
di commenti posteriori che le accompagnano.
Covotti, comunque, circa un decennio dopo, ritorna, nella lezione prolusiva ai corsi universitari di Napoli, sulla questione del «primo storico della
filosofia»; in quell’occasione, senza esitare, oppugnando Bacone e quant’altri
bastian contrari, riafferma convinto la legittima pertinenza di quel titolo al
filosofo di Stagira: “Aristotele di fatti, ci si presenta anche come il primo storico della filosofia” («I Presocratici», cap. I). Gli si riaffaccia però il dubbio
se Aristotele è stato fedele espositore del pensiero ionico o eleatico e via dicendo, o se ha tutto piegato sotto il suo proprio punto di vista. C’è chi sostiene (e cita Eduard Zeller tedesco, Theodor Gomperz austriaco e John Burnet
scozzese) la storicità dell’esposizione aristotelica e chi afferma il contrario.
Covotti, da buon professore di storia della filosofia, passa in rassegna in questa prolusione le varie correnti di pensiero prearistotelico, smanettando fino
alla stroncatura di Hegel e della sua visione idealistica, per celebrare, invece,
al suo posto i «Parerga e Paralipomena» di Schopenhauer, scoprendo così
l’approdo risolutivo del suo travaglio intellettuale.
La fitta documentazione che arricchisce il saggio del Prof. D’Antuono,
dove l’Autore ha riunito i risultati di due precedenti suoi studi sullo stesso
soggetto, è altrettanto stimolante, come la lettura del Covotti, da spingere il
lettore nella ricerca di ulteriori approfondimenti, quasi a convalida e conferma delle tesi che vi sono esposte. Queste naturalmente non possono essere
univoche, come si apprende dallo stesso Covotti che nei fervidi anni della
prima gioventù, quando, dai 21 ai 29 anni, ha prodotto una copiosa messe di
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Aurelio Covotti
indagini sul mondo dell’antica Grecia, meritò il plauso dei vari maestri, suoi
numi tutelari, dei quali ben presto eguagliò l’altezza.
Era inevitabile che il Covotti, già con la sua tesi di laurea iniziando a interessarsi del pensiero presofistico, finisse poi con l’imbattersi, quasi di riflesso,
nella tanto dibattuta questione di Aristotele, considerato a torto o a ragione
storico della filosofia, scontrandosi il giovane studioso con i grandi maestri
del pensiero critico-filologico.
L’ultimo decennio del XIX secolo vede esaurirsi l’attività produttiva del
Covotti: nei primi anni del secolo seguente partecipa ad un concorso, ottiene
un premio, ha vari incarichi nei licei che lo portarono dalla Sicilia alla Valtellina; ma è soprattutto la bestia nera del crollo nervoso dovuto al surmenage
mentale del troppo lavoro svolto negli anni giovanili, alla maniera del Leopardi, a tenerlo per diversi anni lontano dagli studi e dal lavoro, al punto da
preoccupare anche il suo caro maestro Hermann Diels, che da Berlino non ha
mai smesso i suoi rapporti epistolari con il suo prediletto Covotti, chiamato
ormai «amico» e non più «allievo».
Il Prof. D’Antuono lo rivede ora nel pieno e travagliato possesso della
cattedra universitaria napoletana, raggiunta nel 1909 e inaugurata con l’ampia prolusione già discorsa dove ritorna la questione del «primo storico della
filosofia» che tanto gli sta a cuore.
Ancora una volta il Prof. D’Antuono lascia parlare direttamente il Covotti
sempre sulla «vexata quaestio» del primo storico della filosofia.
Infatti Covotti, quasi a riprova della «storicità» di Aristotele, richiama
l’attenzione del lettore su un’altra «storia» in nuce, quella della medicina,
farraginosa raccolta di testi che vanno sotto il nome di Ippocrate di Coo, famoso medico dell’antichità, e che possono dare l’impressione di una incipiente rappresentazione storicamente intesa di questa scienza. Quindi se va bene
per Ippocrate, altrettanto potrebbe essere per Aristotole.
L’esposizione del Prof. D’Antuono, abbondante di una messe di molteplici e chiarificatrici citazioni e note (tali da spaventare quasi lo sprovveduto
lettore che non immaginava come un libro di piccola mole fosse frutto di tanta
erudizione) passa attraverso le varie fasi della vita di Aurelio Covotti rievocandone i risvolti più intimi, dalla vita pubblica a quella privata, dai disagi
fisici per lo strapazzo mentale dovuto al troppo studiare, agli ameni episodi
scaturiti dal culto più che mai classico del buon vino. Vengono ricordate anche le passeggiate solitarie del giovanissimo Covotti, ancora ragazzo, per i
viottoli di campagna, a lui familiari, suscitando la curiosità e le perplessità dei
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Aurelio Covotti
contadini della zona che lo prendevano per matto vedendolo discutere con se
stesso, tutto solo com’era, e tutto concentrato nei suoi pensieri si infervorava
e agitava le mani. Così ricordava il caro amico Prof. Aristide Graziano.
La robusta costituzione contadina (era uomo di campagna) lo rimise in
sesto e ci furono altri anni di lavoro fervido ed erudito: tra il 1909 e il 1934
uscirono a cadenza periodica i vari saggi, raccolti poi in volume, tutti o quasi
tutti dedicati ai filosofi prearistotelici, il grande amore della sua vita. Come
socio dell’Accademia di Scienze morali e politiche della Società Reale di
Napoli, era tenuto a presentare di volta in volta, come gli altri colleghi, il
frutto dei suoi studi e dove poteva mai coglierli se non nel fertile campo del
suo intelletto?
Ma vi furono altri excursus nella vita intellettuale del Covotti; se è vero
che il mondo classico fu il suo mito e la sua meta di studioso, non trascurò, per
i suoi impegni universitari, altri campi: si interessò, ricorda il Prof. D’Antuono, di Schopenhauer, Geulincx, di Malebranche, di Spinoza e il suo «Tractatus theologico-politicus»; passò poi alla pedagogia di Pestalozzi, traducendone dal tedesco (come aveva fatto con la «Metafisica del bello e dei costumi»
di Schopenhauer) la vastissima opera, intercalando tra i brani originali, più o
meno lunghi, le sue esposizioni e considerazioni strettamente personali. Molti
altri interessi covottiani rimasero nascosti in manoscritti concernenti autori
come G. B. Vico e la sua «Scienza Nuova», J. H. Pestalozzi e la sua riforma
della scuola popolare con le storie esemplari di Leonardo e Geltrude (entrambi oggetto di lezioni universitarie, Vico alla Federico II, Pestalozzi al “Suor
Orsola Benincasa”), e molto altro materiale sparso in centinaia di cartelle
volanti, tenute insieme da cordicelle. Si stupisce chi, gettando uno sguardo su
questi manoscritti, scopre la calligrafia fitta e sottile del Covotti che ricopia
alla lettera il testo tedesco della «Metafisica» di Schopenhauer o dei «Parerga», di cui pur possedeva l’edizione a stampa. Perdita di tempo, per distrarsi
o semplice svago? Vallo a capire. Bastano in ogni modo i suoi «Presocratici»
per dargli lustro e fama.
A voler illustrare passo passo tutto il saggio del Prof. D’Antuono occorrerebbe scrivere un altro libro per poter mettere bene in luce tutti gli argomenti
interessantissimi che vi sono raccolti. Il lavoro ha richiesto una mole non indifferente di ricerche attente e minuziose. Una fatica ben premiata dall’ottima
riuscita.
3-IX-2012
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5ª Giornata FIDAM 2008
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Ricollocazione targa, cortile palazzo Vitoli-Cozzo
Articolo da “Ottopagine” 10 Aprile 2009
Articolo da “Corriere” 2 Aprile 2009
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6ª Giornata FIDAM 2009 - Donazione Eredi D’Alessandro Una fornace delle fabbriche di Ariano per la produzione di ceramiche
Presentazione libro di Antonio D’Antuono “Le maioliche di Ariano” - Note antropologiche 13 Agosto 2009
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7ª Giornata FIDAM 2010
Presentazione “Aequum Tuticum” - Numero speciale -
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ELENCO DONATORI AL MUSEO CIVICO
alla data del 31/12/2012*
- Adriatica Costruzioni
- Alterio Antonio
- Associazione Amici del Museo di Ariano Irpino
- Associazione Amici del Museo di Foggia
- Associazione Circoli Culturali di Ariano Irpino
- Associazione F.I.D.A.P.A. di Ariano Irpino
- Associazione LIONS Club di Ariano Irpino
- Associazione Panathlon Intenational di Ariano Irpino
- Aucelletti eredi
- Autocardito di Gino Giorgione
- Avella Egidio
- Banca Popolare Ariano Valle Ufita
- Bilotta Federico
- Blasi Antonio
- Capozzi Ada
- Cardinale Antonio
- Cardinale Giuseppe
- Caro Donato
- Chianca Emilio
- Ciccarelli Erminio
- Ciccone Adriana
- Ciccone Aldo
- Ciccone Maria
- Ciccone Pasquale
- Ciccone Teresa
- Circolo Culturale Nuova Dimensione di Ariano Irpino
- Cocca Domenico
- Corsano Angelo
- Cozzo Francesco
- Cozzo Giovanni
- Credito Italiano
- Cuoco Franco
- D’Alessandro Annamaria
- D’Alessandro Emma
- D’Alessandro Domenico
- D’Alessandro Vincenzo
- D’Alessandro Vittorio
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- D’Amato Manfredi
- D’Angelo Ugo Costruzioni
- D’Antuono Antonio
- D’Antuono D’Alessandro Luigia
- D’Antuono Mario
- D’Antuono Nicola fu Mario
- D’Antuono Nicola fu Silvio
- D’Antuono Ottaviano
- D’Agostino Maurizio
- De Donato Antonio
- De Furia Aldo
- De Iesu Franceschina
- De Majo Ettore
- Del Conte Claudio
- Dekor Maioliche
- Di Chiara Giuseppe
- Di Furia Franco
- Di Furia Mazza Rosa Maria
- Dotoli Emilia
- Esposito Andrea
- Famiglia Speranza - Eredi di Silvio Speranza
- Ferragamo Nicola
- Flammia Gennaro
- Formato Augusto
- Formato Gabriele
- Forte Graziella e Carla
- Franza Luigi
- Gambacorta Raffaele
- Gianuario Antonio
- Giorgio Michele
- Giorgione Natale
- Gonzi Bruno
- Grasso Antonio fu Luigi
- Grasso Gaetano
- Grasso Lorenzo
- Guardabascio Raffaele
- Guardabascio Vincenzo
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- Iacobacci Candido
- Iannarone Gennaro
- Iorio Celeste
- Iuorio Carmine, Marinunzia, Myriam e Simona
- Lanzafame Concetta
- Liscio Nicola
- Maiolicart
- Manganiello Antonio
- Mariano Mario
- Mascia Carlo
- Mastrangelo Vito Ciriaco
- Mazza Emerico Maria
- Mazza Renato
- Melito Nicola
- Moscatelli Antonietta
- Moscatelli Pasquale
- Orsogna Giovanni
- Ortu Mario (eredi)
- Paradiso Mario
- Paticchio Francesco e Pisapia Isabella
- Pignatelli Della Leonessa Melina
- Pirelli Serra Teresa
- Pisapia Enzo
- Piscitelli Antonio
- Pollastrone Luigi
- Pratola Nicolantonio
- Pro Ariano
- Provincia di Avellino
- Purcaro Giuseppe
- Riccio Loreta e Rosa
- Rogazzo Vincenzo
- Russo Luigi - S. Agata di Puglia (Fg)
- Salvatore Salvatore (direttore Vicum)
- Sampietro Pino
- SanPaolo Banco di Napoli
- Santosuosso Domenico
- Scapati Guglielmo
- Schiavo Luigi
- Scrima Stefano
- Serluca Pia
- Sorgarello Novario Anita Lucia
- Spagnuolo Lorenzo
- Speranza Francesco Paolo e Gerardo
- Speranza Gabriele
- Titomanlio Guido
- T L T Engineering
- Tiso Tullio
- Vara Liberato
- Villamarino Carmela
- Zecchino Ortensio
* Salvo errori e refusi di stampa. Si pregano gli interessati di segnalare eventuali imprecisioni, scusandocene anticipatamente.
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Un particolare ringraziamento agli amici
che hanno collaborato per la realizzazione
della stampa di questa rivista.
La redazione
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