Bari 1943, la seconda Pearl Harbor

Transcript

Bari 1943, la seconda Pearl Harbor
Bari 1943, la seconda Pearl Harbor
di MASSIMILIANO ANCONA
Bari come Pearl Harbor. L’attacco tedesco al porto pugliese del 2 dicembre 1943 come quello
giapponese alla base americana del 7 dicembre 1941. Fu il Washington Post, un paio di
settimane dopo l’incursione della
Luftwaffe
, a scrivere che «quello di Bari è stato il più grave, improvviso bombardamento subìto dopo
Pearl Harbor.
Delle 30 navi nel porto almeno 17 sono state affondate, fra le quali cinque mercantili americani,
e otto molto danneggiate. Le perdite in uomini sono state almeno un migliaio». Lo stesso
generale Dwight David Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate in Europa,
confermò l’episodio nel 1949: «Il 2 dicembre '43 avvenne nel porto di Bari un incidente molto
spiacevole e inquietante (…). Il porto fu soggetto a un’incursione e subimmo la più grave perdita
inflittaci durante l’intero periodo della campagna militare nel Mediterraneo e in Europa.
Perdemmo sedici navi (…)».
Ma né l’autorevole quotidiano americano, né Eisenhower scrissero che tra le navi distrutte c’era
la John Harvey, esplosa con il carico di un centinaio di tonnellate di bombe all’iprite (o gas
mostarda), sostanza chimica vescicante e mortale – già usata dai tedeschi a Ypres (Belgio)
durante la Grande Guerra -, nonostante il Protocollo di Ginevra, promosso dalla Società delle
Nazioni, l’avesse bandita dal 1925. Il
Washington Post subì la censura militare
imposta dagli inglesi. Censura che rappresenta ancora un ostacolo per la ricostruzione delle
operazioni militari sul fronte adriatico: «Non soltanto la presenza dell’iprite – ha scritto lo storico
Giorgio Rochat -, ma lo stesso bombardamento tedesco (…) fu cancellato dalla storia della
1/5
Bari 1943, la seconda Pearl Harbor
campagna (…). Tanto che
La battaglia d’Italia 1943-1945
di Dominick Graham e Shelford Bidwell (1989) neppure lo ricorda». Solo nel 1971, Glenn B.
Infield, ex maggiore dell’
U.S. Air Force
, lo ha rivelato nel saggio
Disaster at Bari
, tradotto e pubblicato nel 1977 dall’editore Mario Adda, che ne ha curato la ristampa nel 2003.
«I sintomi non sembrano quelli provocati dal gas iprite» disse il primo ministro britannico,
Winston Churchill, riferendosi alla diagnosi del colonnello americano Stewart Francis Alexander,
il consulente medico inviato a Bari il 7 dicembre dal Quartier generale in Algeri per accertare la
causa delle decine di morti “misteriose” seguite all’attacco della Luftwaffe. Il personale sanitario,
infatti, aveva curato i superstiti ritenendoli sotto choc per la permanenza nelle fredde acque del
porto e l’esposizione alle fiamme. «Ma io ho le prove – replicò Alexander -. Non vi è alcun
dubbio che molti sono morti per effetto dell’esposizione all’iprite. Nessun dubbio nella maniera
più assoluta». Churchill, invece, pretese che nei rapporti, pur segretati, le ustioni di natura
chimica fossero indicate con la sigla
N.Y.D.
(
not yet identified
), cioè «non ancora diagnosticate» e i decessi come «dovuti a ustioni provocate da azione
nemica». Il tutto perché non volle ammettere, per ragioni di prestigio, che il raid sul porto di Bari,
sotto la giurisdizione britannica, avesse provocato il più grave episodio di guerra chimica (forse
l'unico) del secondo conflitto mondiale. Tanto più che, poche ore prima dell’incursione, il
maresciallo dell’aria
Sir
Arthur Coningham, comandante delle forze aeree inglesi in appoggio all’VIII Armata, aveva
detto: «Lo riterrei un affronto personale se la
Luftwaffe
tentasse qualsiasi azione di rilievo in questa zona». Azione che invece giunse e con lo scoppio
della
John Harvey
– fra le altre conseguenze - provocò «617 casi di contaminazione da iprite, con una
percentuale del 13,6 di decessi» secondo quanto scritto dal colonnello Alexander il 20 giugno
1944 nel
Rapporto finale sui casi di contaminazione da iprite a Bari
: un dato ufficiale in un documento ufficiale.
Nonostante le tassative disposizioni del primo ministro al British medical corps, alcune relazioni
furono però archiviate nella loro stesura originale. Come quella nel diario di guerra del 98°
Ospedale generale britannico: «I feriti continuano ad arrivare dalla zona bombardata. Numero
2/5
Bari 1943, la seconda Pearl Harbor
complessivo 444, esclusi 19 giunti morti. Di questo totale, 331 soffrono di ustioni da iprite, in un
primo momento diagnosticate
Dermatite N.Y.D.
e successivamente denominate “Ustioni dovute ad azione chimica”».
Il numero definitivo dei morti, tuttavia, non è stato mai accertato. Poiché molti abitanti della città
furono vittime inconsapevoli di quel gas venefico. Come, ad esempio, Alessandro Raucci,
investito da uno schizzo di acqua infetta durante l’incursione e morto il giorno dopo fra le
braccia dell’amico Pietro Sbordini nei pressi della Basilica di San Nicola. In città, peraltro,
c’erano molti feriti e i militari avevano la precedenza. Un maggiore inglese, negando l’accesso
in ospedale a un gruppo di civili, disse: «Come sapete, è in corso una guerra».
Il generale Eisenhower raccontò poi l’episodio nelle sue Memorie, pur senza parlare di iprite e
con l’obiettivo di minimizzarne gli effetti: «Una circostanza connessa all'attacco di Bari avrebbe
potuto avere le più serie conseguenze. Una delle navi era carica di gas che eravamo sempre
costretti a portare al nostro seguito nell’incertezza delle intenzioni tedesche sull’uso di
quest’arma. Per fortuna c'era il vento e il gas fuggente non recò danni. Se il vento fosse spirato
in direzione opposta, però, avrebbe potuto benissimo verificarsi un disastro».
L’iprite sulla John Harvey c’era. Ma persino i responsabili dell’equipaggio ne erano stati
informati per via ufficiosa e furono obbligati al segreto. Un segreto temuto dal capitano Elwin F.
Knowles, comandante del mercantile, dal tenente Thomas H. Richardson, addetto alla
sicurezza del carico, e dal tenente Howard D. Beckstrom, responsabile per la manutenzione
delle bombe. Un segreto che, con la loro morte durante l’incursione tedesca, sarebbe stato
“svelato” dal colonnello Alexander.
Ecco perché, alle cinque di sera di quel 2 dicembre 1943, il tenente Richardson ebbe un
sussulto scorgendo il ricognitore nemico che sorvolava il porto. Fuori dal tiro della contraerea,
da un’altezza di 23 mila piedi (circa 8.000 metri), il tenente tedesco Werner Hahn aveva visto e
contato le navi, prima di virare a nord e dirigere il ricognitore, un Messerschmitt Me-210, verso
la base per riferire ai superiori.
Nel comando di Frascati, il feldmaresciallo Albert Kesselring, capo delle forze naziste in Italia,
pensava a un obiettivo da colpire per ritardare l’avanzata verso nord dell’VIII Armata britannica
e ostacolare l’organizzazione e l’attività dei bombardieri della 15ª Air Force americana di base a
Foggia. Partendo dal capoluogo dauno, gli apparecchi avrebbero potuto raggiungere e colpire
3/5
Bari 1943, la seconda Pearl Harbor
le città tedesche, austriache, dell’Italia centrosettentrionale e i Balcani. Il porto di Bari, uscito
quasi indenne dalle vicende belliche, era l’attracco per le navi che costituivano il supporto
logistico per entrambe le operazioni. Almeno 600 mila litri di benzina a cento ottani, infatti, erano
trasferiti da Bari a Foggia ogni settimana. Per rendere più agevoli tali operazioni era stato creato
l’
Adriatic Depot, la
cui attività era cominciata proprio il 2 dicembre sotto il comando del generale americano James
Harold Doolittle - fra i protagonisti del raid su Tokyo dell’anno precedente – e la cui base era
stata fissata a Bari.
La decisione di colpire il porto pugliese fu presa a fine novembre ‘43 in una riunione alla quale
parteciparono Kesselring, il feldmaresciallo Wolfram Freiherr von Richthofen, comandandante
della 2ª
Luftflotte, il maggiore
generale Dietrich Peltz, specialista nella tecnica del bombardamento, e Werner Baumbach,
generale delle forze aeree da bombardamento. Quest’ultimo aveva indicato nel complesso degli
aeroporti foggiani l’obiettivo migliore. Più vaga era l’idea di Peltz, che avrebbe voluto fermare
con una serie di incursioni l’avanzata verso nord sulla costa tirrenica della V Armata inglese. «I
rifornimenti sono la chiave di volta nell’attuale situazione in Italia» aveva eccepito invece
Richthofen: Bari era l’ideale.
Una squadriglia di 105 bombardieri Junkers Ju-88 piombò così sulla città alle 19.25 del 2
dicembre di 67 anni fa, una serata fredda, ma limpida. Il porto era illuminato, perché le
operazioni proseguivano anche di notte. Gli incursori, al comando del tenente Gustav Teuber,
lanciarono migliaia di
finestre (lamìne di
stagnola) per ingannare i radar della contraerea che comunque non funzionavano. Il comando
inglese aveva infatti sottovalutato il guasto alle postazioni sul
Garrison Theatre
(l’attuale teatro
Margherita
). Così, i tedeschi poterono colpire da un’altezza di soli 45 metri, causando morte e distruzione
sul molo foraneo di Levante – dov’erano ancorate la maggior parte delle navi - e sul lungomare.
Ma le bombe caddero anche in via Piccinni, via Abate Gimma, via Sparano e via Crisanzio. In
queste parti della città i cadaveri dei civili estratti dalle macerie furono 181. Filomena Del
Vecchio, che abitava in via Petrelli ed era sigaraia, ricorda: «Davanti alla manifattura dei
tabacchi, in via Crisanzio, si fermò un autobus pieno di gente che si rifugiò sotto un palazzo tra
via Crisanzio e via Ravanas (…). Una bomba cadde proprio su quel palazzo. Saltarono le
tubature dell’acqua e le persone che vi si erano rifugiate morirono. Il giorno dopo (…) furono
estratti dalle macerie 15 cadaveri e, tra questi, quello di una bambina schiacciata da una trave.
Aveva non più di sette anni (…)».
L’odore “d’aglio”, caratteristico del gas mostarda, invase l’aria per giorni, colpendo soprattutto il
4/5
Bari 1943, la seconda Pearl Harbor
borgo antico. Le acque del porto, invece, diventarono un miscuglio mortale composto dall’iprite
sprigionatasi dopo lo scoppio della John Harvey, dalla nafta che sgorgava dall’oleodotto sul
molo San Cataldo e dal fuoco delle esplosioni. Nel miscuglio si dimenarono centinaia di marinai
sbalzati dalle navi. Molti di loro morirono subito o nei giorni e nei mesi seguenti.
Il raid tedesco ebbe conseguenze anche dal punto di vista strategico. Quarantamila tonnellate
di petrolio, materiale medico, cibo, armi e munizioni andarono perduti. E il porto pugliese per
almeno un mese fu inutilizzabile rallentando sul fronte adriatico l’avanzata alleata che si
sarebbe dovuta congiungere alle forze sbarcate ad Anzio il 22 gennaio del ‘44. Solo dai primi
giorni di febbraio potè riprendere a pieno ritmo le attività. Il blitz del 2 dicembre fu un duro colpo
- soprattutto per la costituzione della nuova 15ª Air Force, la cui attività dipendeva quasi del
tutto dai rifornimenti in arrivo nel porto di Bari - in un periodo in cui si prospettavano notevoli
esigenze di naviglio per le operazioni che Roosevelt, Churchill e il leader sovietico Josif Stalin
avevano pianificato durante la Conferenza di Teheran (28 novembre-1 dicembre 1943), tra le
quali l’apertura di un altro fronte occidentale nella primavera seguente.
Ai baresi, dopo quel tragico 2 dicembre, non rimase che piangere i morti. Dimenticati dai libri di
storia.
LA VICENDA
Il volume che ricostruisce questa vicenda è stato scritto da Glenn. B. Infield. Titolo: “Disastro a
Bari. La storia inedita del più grave episodio di guerra chimica nel secondo conflitto mondiale”. Il
testo (tradotto da Vito Mannari) contiene un saggio introduttivo di Giorgio Assennato, docente in
medicina del lavoro presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Bari, e Vito
Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia
contemporanea (Ipsaic). Il volume (pagg. 346, € 15) è edito dall’editore barese Adda (tel.
080-5539502).
5/5