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FALLIMENTO DELLA MECCANICA CLASSICA
(come è sorta la visione quantistica del mondo)
Bartolome Allés
Lucca, 12 gennaio 2017
1
Meccanica classica
La meccanica quantistica ha provocato una rivoluzione nella nostra concezione della natura. Questa rivoluzione iniziò quando si scoprı̀ che la meccanica classica (o Newtoniana) non era in grado di descrivere tutti i fenomeni
meccanici.
Ma andiamo per ordine. Prima ci conviene fare una breve recensione della
meccanica classica. Questa si basa sulle tre leggi scritte da Isaac Newton
(1642–1727) nei Principia. Quella che più ci interessa ora è la seconda legge,
detta equazione di Newton: se la posizione ad ogni istante di tempo t di una
particella di massa m viene data dal vettore ~r(t) (le cui componenti sono
~r(t) = (x(t), y(t), z(t))), allora l’equazione di Newton mette in relazione ~r(t)
con la forza F~ che agisce sulla particella,
m
d2~r
= F~ .
dt2
(1)
Il fattore d2~r/dt2 altro non è che il vettore accelerazione1 ~a. L’equazione (1) a
volte viene espressa in termini del momento P~ della particella, definito come
il prodotto della sua massa m per la sua velocità ~v = d~r/dt, P~ = m~v ,
dP~
= F~ ,
dt
1
(2)
Ricordare che l’accelerazione quantifica i cambi della velocità nel tempo, la quale a
sua volta quantifica il cambio della posizione ~r con il tempo; perciò l’accelerazione è una
derivata seconda.
1
perché la massa m non dipende dal tempo (e quindi le derivate non agiscono
su m) e perché, come già detto, la derivata di una derivata fornisce la derivata
seconda,
!
d~r
d2~r
d
(3)
m
=m 2 .
dt
dt
dt
Notare che l’equazione (1) riguarda il movimento di una particella. Questo,
anche se a volte trascurato, è molto importante: la meccanica Newtoniana si
occupa di particelle. Allo scopo di usare la teoria per corpi più grandi (una
palla, un tavolo, ecc.), è necessario introdurre concetti di Fisica dei solidi.
Infatti, in tal caso, si immagina al corpo sminuzzato in piccole particelle,
ogniuna delle quali segue l’equazione (1) durante il suo movimento. L’ipotesi
di rigidità del solido2 , permette di ricostruirne il moto, partendo da quello
delle particelle in cui è stato diviso.
Siccome il concetto di particella rimane assai vago (ad esempio, quanto
piccola deve essere?), diventa necessario aggiungere una definizione che ne
chiarisca il significato. Questa definizione dovrà essere aggiunta alle sopraccitate leggi di Newton. Qui ci viene in aiuto la matematica. Un teorema,
chiamato di Cauchy–Kovalevskaya, ci assicura che l’equazione (1) permette di conoscere le traiettorie delle particelle senza ambiguità. L’ingrediente
dell’equazione che garantisce la validità del teorema è che la derivata più alta,
che in questo caso è la derivata seconda, è esplicita3 . Quindi una particella in
meccanica classica è un oggetto puntuale identificato dalla sua stessa traiettoria, visto che grazie al teorema, sappiamo che essa è univoca e perfettamente
definita.
2
Si tratta di una ipotesi aggiuntiva che proviene dalla Fisica dei solidi e che consiste nel
supporre che la distanza tra due qualsiasi particelle in cui si è scomposto il solido, resta
costante nel tempo.
3
Una equazione con le derivate seconde non esplicite sarebbe per esempio:
m~r sen
d2~r
dt2
2
= F~ .
(4)
Notare infatti che nel voler scrivere esplicita la derivata seconda di ~r, si deve trovare
l’inversa della funzione seno. Ma essa è multivaluata perché non vi è un solo arco il cui
seno prenda un dato valore numerico (per esempio l’arco il cui seno fa 12 può essere 30o ,
120o , ecc.). Inoltre, anche la radice quadrata non è una funzione univoca (ad esempio, la
radice del numero 4 può essere +2 oppure –2). Quindi non è chiaro che risultato otterremo
quando vorremo scrivere la derivata seconda di ~r.
2
Questo schema di lavoro, che si dimostrò estremamente utile (pensate che
la rivoluzione industriale non sarebbe stata possibile senza una buona teoria
della meccanica dei corpi4 ), cominciò a traballare quando delle particelle reali,
non sotterfugi immaginari, furono trovate per davvero. In particolare, queste
particelle non ammettevano di essere individuate seguendone la traiettora.
Vediamo di quali particelle si tratta.
2
L’ipotesi atomica
La prima avvisaglia sperimentale dell’esistenza di atomi arrivò dalla chimica.
Joseph Louis Proust (1754–1826) formulò nel 1799 la legge delle proporzioni
definite: quando due o più elementi reagiscono per formare un determinato composto, si combinano sempre secondo proporzioni in massa definite e
costanti. Questa legge fu poi migliorata da John Dalton (1766–1844) nel 1808
(legge delle proporzioni multiple) per quei casi in cui due reagenti possono
formare più di un tipo di composto (ad esempio carbonio e ossigeno possono
formare monossido di carbonio CO oppure anidride carbonica CO2 ), e da
Amedeo Avogadro (1776–1856) nel 1811 per quei casi in cui ciò che conta
non è la massa ma il volume (l’ossido d’azoto NO2 si forma da azoto (N) e
ossigeno (O), ma poiché queste due sostanze si presentano normalmente in
forma di gas formati da molecole N2 e O2 , ogni volume di ossigeno richiede
metà volume di azoto).
Come mai queste leggi sono valide? Una naturale e quasi immediata
risposta era supporre che la materia fosse composta da atomi. Se tutti gli
atomi di una certa sostanza sono uguali tra loro (ma non necessariamente
uguali a quelli di altre sostanze), allora era ragionevole pensare che nel formare una certo numero di molecole di CO ci volesse sempre la stessa quantità
di atomi di C e di atomi di O. Raddoppiando la prima, si raddoppiava la seconda, mantenendo sempre la stessa proporzione. Questa era la cosiddetta
ipotesi atomica.
Ci pare superfluo ricordare che, date le dimensioni infime degli atomi, essi
non potevano essere visti nè misurati in alcun modo, almeno con le tecniche
del XIX secolo. Quindi, la suddetta ipotesi trovò molte reticenze. Ancora
4
Non solo la meccanica, ma anche altre branche della Fisica come la termodinamica
e l’elettromagnetismo furono coinvolte nell’epoca delle grandi scoperte e della meccanizzazione del lavoro.
3
nel 1910 una persona di grande rilevanza scientifica come Ernst Mach (1838–
1916) affermava:
Non staremmo facendo Fisica se pensassimo
alle molecole e agli atomi come realtà che
stanno alla base dei fenomeni fisici [...] gli atomi
devono restare solo uno strumento di lavoro,
come il concetto di funzione in matematica.
E. Mach, Popular scientific lectures, Open Court, (1910)
In aiuto alla ipotesi atomica arrivò una scoperta curiosa. Nel 1827 Robert
Brown (1773–1858), un botanico scozzese, stava esaminando polline in sospensione nell’acqua, quando osservò che i granelli di polline eseguivano un moto
frenetico e continuato. Erroneamente dedusse che il polline era vivo (conclusione erronea ma non tanto azzardata, in quanto gli spermatozoi animali
possono muoversi come esseri viventi). La scienza impiegò una settantina
di anni ad arrivare alla spiegazione che oggi sappiamo essere giusta: quel
moto frenetico era dovuto alle collisioni con le molecole dell’acqua. Fu Albert Einstein (1879–1955) chi nel 1905 fornı̀ un modello matematico per il
moto Browniano che era anche sperimentalmente verificabile5 .
Anche se incontrando ancora molta resistenza, la ipotesi atomica andava
facendosi strada. Ma con ciò sorgeva un nuovo problema: com’è fatto un
atomo? La risposta a questo quesito fu facilitata dalla scoperta dei raggi
catodici nel 1897 da parte di Joseph John Thomson (1856–1940). Si stabiliva
una differenza di potenziale elettrico grandissima (decine di migliaia di Volt)
tra due placche metalliche (anodo e catodo), chiuse in una ampolla di vetro
dentro la quale si era fatto il vuoto. L’enorme differenza di potenziale attirava
gli elettroni dal catodo che viaggiavano fino all’anodo innescando cosı̀ una
corrente elettrica attraverso l’aria rarefatta dell’ampolla. Questa corrente si
poteva misurare con un amperimetro e in più si vedeva un getto verde, il
cui colore era causato dalla emissione degli atomi di ossigeno eccitati dopo
le collisioni con gli elettroni viaggianti6 .
5
Le particelle di polline non ricevono colpi in modo isotropo ad ogni istante di tempo
e di conseguenza c’è sempre un lato che ne riceve di più. Dato che la direzione da cui le
arrivano più colpi varia continuamente in maniera impredicibile, la particella finisce per
muoversi a scatti e in modo aleatorio. Cosı̀, il granulo di polline compie una traiettoria a
zig–zag riuscendo a percorrere alla fine distanze nette che sono anche misurabili.
6
Il vuoto non è mai perfetto e un po’ di aria sempre resta. La spiegazione del colore
4
La constatazione che la materia (che di solito è neutra elettricamente) può
essere divisa in parti con cariche elettriche negative (gli elettroni) e positive
(gli ioni), diede luogo ai primi modelli atomici seri.
3
Modelli atomici
Thomson stesso, forte dalla scoperta dei raggi catodici, propose il modello
atomico che porta il suo nome. In esso, gli atomi sono sfere di carica elettrica positiva uniformemente distribuita e ripiena di elettroni di carica negativa. Simile a un panettone natalizio fatto di impasto carico positivamente e
farcito di uvette che portano cariche negative. Le due cariche sarebbero complessivamente uguali in modo tale da rendere l’atomo elettricamente neutro.
Questo modello poteva spiegare l’emissione di radiazione degli atomi (che allora cominciava a osservarsi) come dovuta a spostamenti degli elettroni dalle
loro posizioni di equilibrio dentro la sfera.
Nel 1909 Ernst Rutherford (1871–1937), Hans Wilhelm Geiger (1882–
1945) e Ernest Marsden (1889–1970) bombardarono una lamina molto sottile
di oro (spessa solo 1400 atomi) con particelle7 α e ne osservarono l’angolo
di uscita. Se l’atomo avesse avuto la struttura predetta da Thomson, le
particelle uscenti avrebbero dovuto essere quasi tutte deviate con angoli di
deviazione molto piccoli. Invece, Rutherford e collaboratori osservarono che
quasi tutte le particelle subivano deviazioni pressoché impercettibili tranne
per poche che erano fortemente deviate, alcune di 180 gradi.
Certamente questi risultati erano in forte contrasto con il modello di
Thomson. Fu Rutherford stesso chi propose un modello atomico migliore.
In esso gli atomi erano formati da un nucleo carico positivamente e molto
massiccio. Gli elettroni volterebbero attorno al nucleo come i pianeti orbitano
attorno al Sole. Le particelle α erano poco deviate perché molte passavano
nello spazio intermedio vuoto tra elettroni e nucleo, mentre le poche particelle
α fortemente deviate lo erano perché andavano a urtare contro il nucleo.
I precedenti risultati sperimentali permisero di dedurre anche le dimensioni dell’intero atomo (10−8 cm, cioè un centomilionesimo di centimetro) e
verde la sappiamo fornire oggi, ma allora, un tempo in cui la stessa struttura dell’atomo
era completamente ignota, nessuno era in grado di fornire una spiegazione seria.
7
Rutherford stesso aveva scoperto che la radiazione α era in realtà un getto di nuclei
di elio.
5
del nucleo (10−12 cm, un milionesimo di milionesimo di centimetro).
Ma il modello di Rutherford nacque già morto per il seguente motivo. Gli
elettroni possono orbitare attorno al nucleo solo se sono accelerati da una
forza centripeta. Questa forza è creata dall’attrazione elettrostatica verso
il nucleo. Ma la Fisica classica insegna che, essendo accelerati, devono per
forza irradiare e quindi perdere energia. Di conseguenza, l’atomo doveva in
poco tempo collassare. Il tempo necessario perché avvenisse questo collasso
si poteva calcolare e veniva
tempo di collasso =
1 m2e c3 R3
,
4
qe4
(5)
dove me è la massa dell’elettrone, qe la sua carica elettrica8 , c la velocità
della luce e R il raggio iniziale dell’orbita elettronica (uguale a circa il raggio
dell’atomo, ottenuto negli esperimenti di Rutherford). Il tempo (5) ammonta
a 10−10 secondi (0.1 millesimi di milionesimi di secondo). Ciò vuol dire che
il modello di Rutherford, a tutti gli effetti, diventa il modello di Thomson
in tempi brevissimi, quasi istantaneamente. Ma l’esperimento di Rutherford
dimostrava come questo non era possibile. Come facevano allora gli elettroni
ad evitare il collasso?
Affronteremo questa domanda più avanti. Ora vogliamo occuparci di
un’altro problema.
4
La radiazione degli oggetti caldi
Un vecchio problema irrisolto in termodinamica era calcolare l’energia totale
emessa da un corpo caldo a temperatura T . Se si usava la Fisica classica,
(intesa come quella ritenuta valida prima della comparsa della meccanica
quantistica), veniva un risultato infinito, il che era del tutto inaccettabile.
Vediamo di riprodurne il calcolo.
Per cominciare si semplifica il problema immaginando un corpo ideale
non riflettente e che solo irradia l’energia prodotta da se stesso per il fatto
8
Il rapporto qe /me si misurò osservando la deviazione dei raggi catodici di Thomson
sotto l’effetto di campi magnetici noti. La carica qe la ottenne Robert Millikan (1868–1953)
lasciando cadere goccine d’olio piene di ioni e frenandone la caduta con campi elettrici
opportunamente calibrati. Chiaramente da questi due risultati si desumeva la massa me .
6
di trovarsi a temperatura T . Questo oggetto ideale si chiama corpo nero9 .
Poiché la radiazione viene emessa da onde elettromagnetiche, per prima
cosa conviene capire quante di queste onde di frequenza ν si trovano in un
corpo nero. Per semplificare il calcolo, supporremo che il corpo nero è un
cubo cavo con pareti metalliche di lato L. Essendo metalliche, le pareti non
possono ospitare campi elettrici. Quindi, le onde elettromagnetiche che si
formeranno dentro il cubo dovranno essere stazionarie e non oscillare sulle
pareti. Questo obbliga a che la distanza L contenga esattamente un numero
intero di mezze lunghezze d’onda o, detto in altre parole, a quantizzare le
lunghezze d’onda λ in tal modo che L = (n/2)λ con n un intero positivo.
Usando l’espressione
νλ = c ,
(6)
valida per le onde elettromagnetiche (c è la velocità della luce10 ), deduciamo
ν = cn/(2L). Di conseguenza, il numero di onde oscillanti con una frequenza
compresa tra ν e ν + dν è (4L/c)dν (c’è un fattore 2 in più per tenere conto
delle due possibili polarizzazioni che ogni onda elettromagnetica può avere).
Ma le onde nel corpo nero non vibrano in una sola direzione. Lo fanno
lungo le pareti nord–sud, est–ovest oppure alto–basso. Quindi le lunghezze
d’onda possibili all’interno di un corpo nero sono rappresentate da tutti i
punti con coordinate intere positive in un sistema di tre assi. Da questo
segue che il numero di onde con una frequenza compresa tra ν e ν + dν sarà
uguale al volume di un ottavo di guscio sferico di raggio n e spessore dn,
1
2L
2L 2
,
×
2
ν
dν
×
×
4π
|{z}
8
c
c
{z
}
|{z}
|
{z
}
|
polarizzazioni
spessore guscio
ottavo di sfera
superficie guscio
(7)
e questo produce
8πL3 2
ν dν ,
(8)
c3
che è il numero di onde di una data frequenza ν nel corpo nero. Per completare il calcolo ci resta conoscere quant’è l’energia media di una di queste
9
Una buona approssimazione al corpo nero sono le pareti interne di un oggetto cavo,
annerite con un colore nero opaco e irradianti attraverso un buco praticato sulla superficie.
10
Un’onda avanza λ metri in un periodo che dura τ secondi. Quindi, la sua velocità è
λ/τ . Ma siccome la frequenza ν viene definita come il numero di lunghezze d’onda che
avanza in un secondo, essa è uguale proprio a ν = 1/τ .
7
onde di frequenza ν. In realtà questa energia in Fisica classica non dipende
dalla frequenza ma solo dalla temperatura.
Classicamente l’energia E di una onda elettromagnetica è proporzionale
al quadrato dell’intensità del suo campo elettrico oscillante. Quindi E può
variare da 0 a ∞. D’altro canto, la probabilità che un sistema in equilibrio
termico a temperatura T abbia energia E è proporzionale a11 exp(−E/T ).
Quindi, l’energia media del sistema è12
Z
∞
Z0
dE e−E/T E
=T .
∞
dE e−E/T
(10)
0
In conclusione, la densità spaziale di energia irradiata13 a una frequenza ν
sarebbe il prodotto tra (8) e (10) diviso per il volume L3 ,
8πT 2
ν dν .
(11)
c3
L’energia totale irradiata si ottiene sommando (11) a tutte le frequenze,
variando ν da 0 a ∞. Si ottiene un risultato proporzionale all’integrale
Z
∞
ν 2 dν = ∞ .
(12)
0
Cioè, i corpi caldi dovrebbero irradiare una energia infinita. Questa è la
cosiddetta catastrofe ultravioletta (perché a causare l’infinito è il fatto di
dover integrare fino a frequenze altissime, nell’ultravioletto e oltre).
11
Questa distribuzione
R ∞ di probabilità fu scoperta da Ludwig Boltzmann (1844–1906).
Per calcolare 0 dE exp(−E/T ) conviene introdurre il cambiamento di variabile
R∞
R∞
u = E/T , con cui l’integrale diventa T 0 du exp(−u) = T perché 0 du exp(−u) = 1.
R∞
Per calcolare 0 dE E exp(−E/T ) conviene invece riscrivere questa espressione come la
derivata, cambiata di segno, rispetto 1/T dell’anteriore integrale. Quindi,
12
−
d
d
1
T
T = −
d
d
1
1
T
1
T
=
1
1 2
T
= T2 .
(9)
(10) si desume dividendo i due risultati.
13
L’espressione (11) è la densità di energia in forma di onde elettromagnetiche dentro
il corpo nero. L’energia per unità di tempo irradiata dal corpo nero si chiama radianza
e non è (11). La radianza si ottiene valutando l’emissione ad un certo angolo e sommando il risultato per tutti gli angoli. Per semplicità dell’esposizione, noi trascureremo
questo dettaglio che aggiunge solo un fattore costante, poco rilevante allo scopo del nostro
discorso.
8
Questo problema non trovava alcuna apparente soluzione nella Fisica classica. Max Planck (1858–1947) nel 1900 provò quasi per disperazione a immaginare che l’energia non fosse proporzionale alla intensità dell’onda ma
più semplicemente alla sua frequenza. Precisamente, assunse che E in (10)
doveva essere N hν con h una costante universale e N il numero di onde con
quella frequenza. Inoltre, trattandosi di onde singole, l’integrazione doveva
essere sostituita per una somma su N . Il risultato
∞
X
e−N hν/T N hν
N =0
∞
X
=
e
−N hν/T
hν
,
e
−1
hν/T
(13)
N =0
si ottiene sommando le serie del numeratore e denominatore14 . La densità di
energia nel corpo nero secondo Planck era dunque (8) moltiplicato per (13)
e diviso tra L3 ,
8πν 2 hνdν
,
(16)
c3 ehν/T − 1
che è in perfetto accordo con i dati sperimentali e che, una volta integrato su
ν, porta alla legge di Stefan–Boltzmann secondo cui l’energia totale è finita
e proporzionale a T 4 . Questo successo portò Planck ad affermare
Qualsiasi grandezza Fisica con un grado di libertà
la cui “coordinata” sia una funzione sinusoidale del
tempo, può possedere solo energie totali E tali che
14
Chiamando u = exp(−hν/T ), possiamo scrivere la somma nel denominatore come
∞
X
uN =
N =0
1
,
1−u
(14)
il che si ottiene sviluppando il membro destro in serie di Taylor (la serie è convergente
perché u = exp(−hν/T ) è sempre minore di 1). La somma del numeratore invece è, a
parte il fattore hν,
∞
X
N =0
Nu
N
∞
u
1
d
d X N
=
.
u =u
=u
du
du 1 − u
(1 − u)2
N =0
Dividendo (15) per (14) e non dimenticando il fattore hν, ne segue (13).
9
(15)
sia soddisfatta la relazione E = N hν dove ν è la
frequenza di oscillazione della grandezza fisica nel
tempo, h è una costante della natura e N un numero intero positivo.
M. Planck, “Zur theorie des gesetzes der
energieverteilung im normal spectrum”,
Verh. Dtsch. Phys. Gres., volume 2, pagina 237, (1900)
Una sola onda di energia hν viene chiamata fotone.
Lo stesso Planck era assai disturbato dal modo con cui aveva raggiunto il
risultato corretto (16). Non capiva che volesse mai dire che l’energia dovesse
essere concentrata in una onda, cioè, che fosse quantizzata,
Anche se la validità di (16) deve prendersi
per assolutamente certa, e visto che proviene più che altro
da un colpo di fortuna, c’era da attendersi che non abbia
altro che una validità prettamente formale. Per questa ragione,
dal giorno stesso in cui formulai (16), mi misi anima
e corpo all’impresa di capirne il vero significato fisico.
M. Planck, Scientific autobiography, Philosophical library, (1949)
Ma i suoi dubbi crollarono quando la teoria precedentemente spiegata
coronò il suo primo successo.
5
L’effetto fotoelettrico
I fisici tedeschi Heinrich Hertz15 (1857–1894), Wilhelm Hallwachs (1859–
1922) e Philipp Lenard (1862–1947) furono i primi a scoprire il cosiddetto
effetto fotoelettrico. Esso consiste nel fatto che metalli elettricamente carichi
perdono la carica se illuminati con raggi ultravioletta16 .
Come già detto prima, secondo la Fisica classica l’energia di un onda
elettromagnetica è proporzionale al quadrato dell’intensità del suo campo
elettrico. Quindi, se un fascio di luce deve far saltare elettroni da un metallo,
15
Hertz anche produsse per la prima volta le onde che la teoria dell’elettromagnetismo
di Maxwell prediceva.
16
I dispositivi fotoelettrici odierni usati per la chiusura di cancelli, telecomandi, ecc.,
usano materiali che non sempre hanno bisogno di luce ultravioletta per attivarsi.
10
lo farà qualunque sia la frequenza della luce, ma solo dopo un po’ di tempo,
quando il metallo abbia assorbito abbastanza energia.
Ma i dati sperimentali smentivano questa spiegazione, poiché si osservava
che gli elettroni saltavano solo se illuminati con luce di una certa frequenza
(quella ultravioletta appunto), e saltavano subito, senza attendere di assorbire abbastanza energia dalla luce incidente.
Il mistero fu svelato da Einstein nel 1905. Usando la teoria di Planck, e
sapendo che gli elettroni hanno bisogno di una energia Emin per abbandonare
il metallo, Einstein assunse che è l’urto di un singolo fotone che, se sufficientemente energetico, può fare saltare l’elettrone. Quindi, la frequenza ν della
luce incidente doveva soddisfare Emin = hν. In altre parole, ciò che conta è
la frequenza. L’intensità della luce solo determina il numero degli elettroni
fuggiaschi, dunque l’amperaggio della corrente generata. Infatti, l’intensità
aumenta con il numero di fotoni.
In questa maniera, l’immagine che della luce introdusse Planck, secondo
cui essa è formata da una miriade di onde, ogniuna delle quali trasporta
un’energia come fossero particelle, otteneva il suo primo vero riconoscimento17 .
6
La funzione d’onda
Se i parametri lunghezza d’onda e frequenza in un raggio di luce soddisfano le
equazioni λ = c/ν e E = hν, allora dato che l’energia dei raggi di luce è proporzionale al suo momento, kP~ kc = E (un fatto noto anche classicamente18 ),
si evince che
h
λ=
,
(17)
kP~ k
per fotoni. Louis de Broglie (1892–1987) nel 1924 azzardò a proporre che la
relazione (17) dovesse avere una validità universale. Cioè, doveva essere valida per ogni particella, anche massiva. Cosı̀, secondo de Broglie, gli elettroni
17
Ciò che convince di una nuova teoria non è che sia in grado di offrire soluzioni a vecchi
problemi (trovare in qualche modo la soluzione a un vecchio problema usando, all’uopo,
la libertà di cambiare la teoria fisica è in fondo più facile di quanto possa sembrare), bensı̀
che predica con successo nuovi effetti fisici.
18
La teoria dell’elettromagnetismo di Maxwell prevedeva che la luce fosse portatrice di
momento. Questo fu sperimentalmente verificato da Pyotr Lebedev (1866–1912) nell’anno
1901 inviando un fascio di luce su una bilancia di torsione equipaggiata con due specchi e
osservando che gli specchi ruotavano.
11
si muovono a cavallo di un’onda che ha la lunghezza d’onda indicata da (17).
de Broglie scrisse nel 1924
Ad ogni particella che si muova con un momento
(massa × velocità) kP~ k, si può assegnare un onda di lunghezza (17).
L. de Broglie, Recherches sur la théorie des quanta,
Tesi di dottorato (1924), pubblicata in
Ann. de Physique, volume 3, pagina 22, (1925)
Questa ipotesi riuscirebbe a spiegare la stabilità delle orbite elettroniche nel modello atomico di Rutherford se gli elettroni seguissero onde di de
Broglie stazionarie. Questa stazionarietà fu dimostrata da Erwin Schrödinger
(1887–1961) quando, usando una equazione che oggi porta il suo nome,
h2
h ∂
ψ=− 2
i
2π ∂t
8π m
!
∂2
∂2
∂2
ψ+Vψ ,
+
+
∂x2 ∂y 2 ∂z 2
(18)
riuscı̀ a trovare la funzione d’onda più generale di un elettrone nell’atomo
di idrogeno. Nell’equazione (18) h è la costante di Planck, m la massa della
particella (in questo caso l’elettrone) e V il potenziale a cui essa è sottomessa
(in questo caso il potenziale elettrico del nucleo di carica positiva). i è l’unità
immaginaria, i2 = −1. Dovuto alla presenza di i in (18), le soluzioni ψ
non stazionarie (quelle per cui derivata temporale non si annulla), saranno
in generale funzioni a numeri complessi19 , mentre le soluzioni ψ stazionarie
saranno funzioni reali.
Schrödinger formulò l’equazione (18) nel 1926 comparando l’evoluzione
di un sistema meccanico classico secondo la teoria di Hamilton–Jacobi che è
una delle tante formulazioni alternative della meccanica Newtoniana20 . Nella
teoria di Hamilton–Jacobi ψ (che essendo una funzione che varia nel tempo
e a seconda del punto dello spazio dove venga valutata, si può scrivere come
19
Una funzione ψ è a numeri complessi se si può scrivere come ψ = ψℜ + iψℑ dove ψℜ
e ψℑ sono funzioni a numeri reali.
20
Un’altra formulazione della stessa meccanica Newtoniana è la teoria di Joseph–Louis
Lagrange (1736–1813). Queste teorie furono sviluppate prevalentemente durante il XVIII
secolo e, anche se non aggiungevano nulla di rilevante dal punto di vista logico, offrivano
nuove prospettive della meccanica che con il tempo si rivelarono utili dal punto di vista
teorico e anche pratico (risolvere un problema meccanico con la teoria di Lagrange è spesso
molto più facile che abordarlo direttamente con l’equazione (1)).
12
ψ(t, x, y, z) = ψ(t, ~r)) gioca un ruolo secondario, ma in meccanica quantistica
diventa ciò che vibra nell’onda associata alla particella.
Arrivati fin qui, c’è una domanda che sorge spontanea: qual’è il significato
di ψ? Ad esempio, sappiamo che un raggio di luce è la propagazione della
vibrazione di due campi, uno elettrico e l’altro magnetico, ortogonali tra di
loro e avanzando alla velocità della luce. Ma noi sappiamo dare un significato
fisico a questi campi: esercitano delle forze sulle cariche elettriche. E per
quanto riguarda ψ?
A questa domanda trovò risposta Max Born (1882–1970) nel 1926. Egli
dimostrò che se il moto di una particella è governato dall’equazione (18),
allora il modulo al quadrato di ψ moltiplicato per un volume spaziale, per
esempio
|ψ(t, x, y, z)|2 dx dy dz ,
(19)
fornisce la probabilità di trovare la particella in uno spazio di volume dx dy dz
attorno al punto ~r = (x, y, z) al tempo t. Ricordare che il modulo quadrato di
una funzione a numeri complessi ψ = ψℜ + iψℑ non è ψ 2 ma |ψ|2 = ψℜ2 + ψℑ2 .
Questo fatto, oltre che dare senso alla funzione ψ, ha una conseguenza
fondamentale: pare ovvio che si possa affermare che la probabilità di una
particella di trovarsi da qualche parte nell’universo21 sia 1. Quindi, la somma
di (19) su tutto lo spazio deve fare 1,
Z
+∞
−∞
dx
Z
+∞
−∞
dy
Z
+∞
−∞
dz |ψ(t, x, y, z)|2 = 1 ,
(20)
per ogni istante di tempo t. Non tutte le funzioni soddisfano questa condizione. Quelle che sı̀, devono necessariamente andare a zero per grandi
valori di k~rk. Quindi, le particelle non possono sicuramente disperdersi per
tutto l’universo22 . Si dice che le funzioni che soddisfano (20) appartengono
a uno spazio di Hilbert. La clausola (20) deve essere imposta come una condizione suppletiva durante la risoluzione dell’equazione (18).
21
Nel linguaggio comune le probabilità si misurano in percentuali. Cosı̀, l’affermazione
a cui fa capo questa nota si direbbe “la probabilità è 100%”. Nel linguaggio matematico invece, le probabilità si misurano come numeri compresi tra 0 e 1 (corrispondenti
rispettivamente di 0% e 100%).
22
Sottolineiamo che l’annullamento per grandi valori di k~rk è solo una condizione necessaria, in quanto la validità di (20) impone una condizione assai più forte.
13
7
La natura ondulatoria
Un’onda ha sempre una certa ampiezza. Non è mai concentrata in un solo
punto spaziale. E questo vale anche per ψ, il che fa che in linea di principio
non sia possibile assegnare una posizione precisa alla particella rappresentata
da ψ.
Il caso estremo succede quando l’onda è costituita da una sola sinusoide
uniforme lungo tutto lo spazio. In tal caso, poiché la lunghezza d’onda è
perfettamente definita, lo è anche il momento della particella, secondo (17).
Invece la posizione della particella è completamente ignota perché abbiamo
una probabilità uguale di trovarla in un punto che in un’altro punto qualsiasi.
L’unico modo di evitare lo sparpagliamento dell’onda (e quindi precisare meglio la posizione della particella rappresentata dall’onda), consiste nel
comporre oscillazioni di diversa lunghezza d’onda fino a formare il cosiddetto
pacchetto d’onda. Esso, dovuto a interferenze distruttive e costruttive, produce un’onda che ha valori non zero solo in una ristretta regione spaziale. Ma
nel fare cosı̀, il momento (legato alla lunghezza d’onda tramite la relazione
di de Broglie), non ha più un valore preciso23 .
Quindi, non solo la posizione ma anche il momento della particella (e
quindi anche la sua velocità) resta indeterminato. Anzi, più qualunque delle
due quantità è nota, e più l’altra resta indeterminata. Analizzando le proprietà matematiche di un onda, è possibile stabilire rigorosamente una disuguaglianza che coinvolge la minima imprecisione possibile con cui posizione e
momento di una particella sono misurabili. Se chiamiamo △x e △P x rispettivamente alle imprecisioni nella coordinata X della sua posizione e nella
componente P x del suo momento, si ha
△x △P x ≥
h
,
4π
(21)
e analogamente per le coordinate Y , Z e componenti P y , P z . Le relazioni
precedenti furono trovate da Werner Heisenberg (1901–1976) nell’anno 1927
23
Non solo, una funzione d’onda ψ che magari ad un certo tempo iniziale t0 può essere
stata abbastanza compressa attorno a un certo punto (x0 , y0 , z0 ), può durante la successiva
evoluzione temporale sparpagliarsi aumentando quindi la regione dello spazio dove c’è una
ragionevole probabilità di trovare la particella. Questo fenomeno è dovuto al fatto che
le diverse onde di lunghezza d’onda definita che la compongono, si muovono a velocità
diverse (diversa λ implica diversa kP~ k), disfacendo cosı̀ la localizzazione del pacchetto.
14
e sono la trascrizione matematica del principio di incertezza di Heisenberg
secondo cui, momento e posizione non possono essere noti simultaneamente
con qualunque precisione. Heisenberg scriveva nel 1958
Dobbiamo sempre ricordare che ciò che
osserviamo non è la natura in se stessa, ma
la natura cosı̀ come ci appare a seconda
del metodo di osservazione.
W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, (2003)
Questa affermazione vuol dire che, se ci impegniamo a misurare la posizione
di una particella con la massima possibile precisione consentita dai nostri
strumenti, perderemo informazione riguardo il suo momento e viceversa. Ad
esempio, un elettrone orbitando attorno al nucleo di un atomo è descritto
da una funzione d’onda soluzione dell’equazione di Schrödinger. Secondo
Born, questo elettrone ha una certa probabilità di essere trovato in un certo
punto. Se “becchiamo” l’elettrone nel punto (x0 , y0 , z0 ) (per esempio con
delle pinze), allora l’avremo fermato e quindi non sapremo con quale velocità
si stava muovendo. Cioè, avremo perso ogni informazione sul momento che
l’elettrone trasportava mentre orbitava nell’atomo.
Le conseguenze del principio di Heisenberg sono molto profonde. L’idea
sviluppata durante il periodo classico, secondo cui ogni particella deve essere
definita proprio dalla sua traiettoria (vedi sezione 1), è completamente illusoria. Infatti, la più significativa differenza tra meccanica classica e quantistica
consiste nell’esistenza di traiettorie definite nella prima e la loro assenza nella
seconda. La nozione di traiettoria non serve più per individuare una particella. D’ora in poi essa dovrà essere caratterizzata dalla sua funzione d’onda.
Ma, trattandosi di un’onda, questa funzione non è in grado di fornire tutte le
informazioni di cui solitamente la Fisica fa uso (nel caso presente, posizione
e momento simultaneamente).
La determinazione con la quale dobbiamo rinunciare alla concezione classica della natura fu espressa chiaramente da Erwin Schrödinger quando nel
1922 affermò
Da dove salta fuori la diffusa credenza che il comportamento
delle molecole debba essere determinato con causalità assoluta?
Semplicemente dall’abitudine, ereditata da migliaia di anni, di
pensare causalmente, il che fa apparire del tutto priva di senso
15
la sola idea di una evoluzione indeterminata di una successione
qualsiasi di eventi.
E. Schrödinger, What is a law of nature?, Oldenburg, (1962)
8
Recupero della Fisica classica
Non esiste la traiettoria di una particella che viaggia dal punto A al punto
B nello spazio. Solo si può valutare la probabilità che la particella arrivi a
B essendo partita da A. Una espressione per questa probabilità fu scritta da
Richard Feynman (1918–1988) nel 1948. La sua formulazione matematica è
X
traiettorie
2
eiS/h ,
(22)
dove S è l’azione della particella lungo una traiettoria24 . Poiché in (22) compare l’unità immaginaria i, l’esponenziale exp(iS/h) = cos(S/h) + i sen(S/h)
è una funzione oscillatoria. Se l’energia cinetica classica della particella è
K = 21 mv 2 e l’energia potenziale dove si muove è V , allora S è
S=
Z
tB
tA
dt(K − V ) ,
(23)
dove tA e tB sono i tempi in cui la particella si trova in A e in B rispettivamente. L’espressione (22) consente di capire perché la meccanica quantistica
solo fornisce probabilità: perché la traiettoria seguita dalla particella non
è certa, a riprova del carattere intrinsecamente indeterminista della Fisica
quantistica.
Se la massa della particella fosse molto grande, allora dovremo essere nel
regime classico e una traiettoria sulla quale la particella viaggia la si dovrebbe
poter individuare. Dimostriamolo.
Per cominciare, se la massa è grande, l’energia cinetica K diventa grande
anch’essa, S ≫ h (dagli studi sul corpo nero, si conosce il valore enormemente
piccolo della costante di Planck h, dell’ordine di 10−34 in unità internazionali). Stando cosı̀ le cose, la funzione exp(iS/h) = cos(S/h) + i sen(S/h) varia
24
(22) si deduce dall’equazione di Schrödinger. Di fatto, entrambi sono equivalenti, nel
senso che anche l’equazione (18) si può dedurre da (22).
16
moltissimo al variare (anche poco) della traiettoria nella somma in (22). Siccome, un’integrale fornisce sempre un’area e questa è positiva (negativa) se la
funzione nell’integrando è positiva (negativa) e, inoltre, le funzioni trigonometriche sen e cos sono oscillanti tra −1 e +1, possiamo capire che lungo
un largo ventaglio di possibili traiettorie il risultato di (22) rimarrà per forza
nullo. Ma c’è una eccezione: quelle traiettorie lungo le quali S prende un
valore estremale (cioè o un massimo o un minimo). Infatti, ogni funzione
varia molto poco nei suoi punti estremali (di fatto, la solita definizione di
massimo o minimo è che la derivata della funzione sia zero). Quindi, solo
vicino alle traiettorie estremali la somma (22) può fornire un contributo non
nullo.
In realtà qui non siamo interessati a quanto può ammontare questo contributo. L’unico che vogliamo è giustificare che le particelle “grandi” (appartenenti al mondo classico), seguono una traiettoria ben definita. Tant’è
vero che si può dimostrare25 che la traiettoria che rende estremale S è proprio data dalla soluzione dell’equazione di Newton! E cosı̀ ci ritroviamo nella
Fisica Newtoniana.
25
Si richiede la matematica del calcolo di variazioni, che qui non vogliamo affrontare e
che fu inventata da Lagrange e Leonhard Euler (1707-1783).
17
Bibliografia
Vogliamo finire dando una breve lista di libri che trattano la teoria quantistica
in maniera introduttiva. Cominciamo per i più divulgativi,
[1] W. Heisenberg, Fisica e Filosofia, Il Saggiatore, (2003).
[2] A. Pais, Subtle is the lord, Oxford University Press, (1982); [in inglese,
non conosco traduzioni].
Un po’ più impegnato (ma di livello di primo anno di laurea),
[3] R. Feynman, Lectures on physics, volume 3, Addison–Wesley, (1965); [in
inglese, esiste traduzione in italiano].
Infine, libri di testo (livello di ultimi anni di laurea). I tre ultimi sono in
italiano e il primo è quello con cui imparai io (ed è davvero un eccellente
libro),
[4] C. Cohen–Tannoudji et al., Quantum mechanics, Wiley and sons, (1977);
[in inglese, esiste versione francese].
[5] Luigi E. Picasso, Lezioni di meccanica quantistica, ETS, (2000).
[6] E. d’Emilio, Luigi E. Picasso, Problemi di meccanica quantistica, ETS,
(2003).
[7] K. Konishi, G. Paffuti, Meccanica quantistica: nuova introduzione, Edizioni Plus, (2005).
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