L`opera d`arte da un punto di vista percettivo La psicologia della

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L`opera d`arte da un punto di vista percettivo La psicologia della
L’opera d’arte da un punto di vista percettivo
La psicologia della Gestalt
Se per Freud l’oggetto della sua speculazione artistica era il contenuto, per gli psicologi che hanno analizzato l’opera d’arte da un punto di vista percettivo (riconducibili alla psicologia della Gestalt) l’oggetto di indagine sono le qualità formali costitutive dell’opera. Mentre Freud si è occupato
del segmento Autore-Opera d’arte, per gli psicologi della Gestalt il segmento da analizzare è Opera
d’arte-Fruitore.
L’esponente principale di una psicologia che si è occupata dell’analisi percettiva delle immagini,
da semplici raffigurazioni geometriche in bianco e nero a opere artistiche di notevole complessità, è
Rudolf Arnheim. Arnheim, essendo uno psicologo di formazione gestaltista, considera i principi base della percezione, le leggi di organizzazione del campo, come presupposti fondamentali, come elementi base di una grammatica visiva, che vengono adoperati nella percezione e interpretazione
delle qualità formali delle immagini visive in generale e, in particolare, degli oggetti d’arte. Secondo questo approccio, il lavoro più organico di Arnheim è rappresentato dal suo libro “Arte e percezione visiva”, la cui prima edizione risale al 1954 e che è stato riveduto in maniera significativa nel
1974. In questo testo, configurazioni, immagini, dipinti, sculture, architetture e oggetti vengono sottoposti ad un’approfondita analisi delle caratteristiche formali, strutturali ed espressive che costituiscono le cosiddette regole compositive adoperate dall’artista, che guidano l’osservatore nella percezione dell’immagine (un approfondimento di questi aspetti sarà trattato nella seconda parte di questa dispensa).
Esistono, in particolare, due aspetti che acquisiscono rilevanza per una psicologia dell’arte in
chiave gestaltista: la buona forma e la teoria dell’espressione. Per buona forma è definita quella tendenza a preferire le forme che appaiono più equilibrate, regolari, simmetriche, le forme più “buone”
appunto. Le unità che compongono il campo percettivo si articolano in maniera tale che vengano
aggregate in strutture equilibrate, armoniche, coerenti tra loro, in una forma “il più buona possibile”. Prendiamo l’esempio delle due figure sottostanti.
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La figura sulla sinistra è vista su un piano bidimensionale, composta da sei triangoli regolari. Se
però eliminiamo semplicemente tre lati, otteniamo una figura formata da tre rombi adiacenti sul
piano; risulta però più semplice vedere un cubo tridimensionale: i tre rombi vengono regolarizzati,
secondo il principio più economico della buona forma, in un cubo formato da tre quadrati in prospettiva (figura sulla destra).
In entrambi i casi proposti, lo stimolo prossimale, l’informazione retinica, dà luogo a diverse interpretazioni: noi, in genere, quando le condizioni prevalenti lo consentono, scegliamo la forma più
semplice, regolare, simmetrica, appunto buona o pregnante. E’ come se il nostro sistema visivo fosse retto da una sorta di tendenza alla parsimonia, all’economizzazione degli sforzi, scegliendo, tra le
diverse alternative, quella che conduce alla massima semplicità figurale attraverso una riduzione del
numero di elementi della configurazione complessiva: lati, angoli, figure. Perché vedere nella figura
sulla destra, per esempio, tre rombi (poligono formato da lati uguali, ma angoli diversi), quando in
un cubo unifichiamo, innanzitutto, i singoli elementi in un tutto (il cubo) e, in secondo luogo, abbiamo un poliedro formato da quadrati che da un punto di vista geometrico sono poligoni più semplici del rombo?
Il secondo aspetto analizzato da Arnheim è la teoria dell’espressione. Secondo questa teoria un
oggetto d’arte esprimerebbe una serie di caratteristiche dirette e non mediate. Per esempio una forma o un colore esprimerebbero in maniera immediata la loro allegria o tristezza. La psicologia della
Gestalt propone un approccio differente rispetto a quello più tradizionale; secondo la tradizione filosofica e psicologica le qualità espressive che si attribuiscono ad un oggetto hanno a che fare con
le associazioni che nel tempo e nell’esperienza individuale si sono apprese. Secondo i gestaltisti la
percezione non è appresa, non proviene dall’esperienza e non è soggetta a modificazioni culturali
(ovviamente per quanto riguarda gli aspetti di base, riconoscimento, organizzazione e qualità espressive degli stimoli). Arnheim definisce l’espressione “come il corrispettivo psicologico dei processi dinamici che si risolvono nell’organizzazione degli stimoli percettivi” (Arnheim, 1949, trad it.,
p. 79). In altri termini, il rapporto tra il pattern stimolatorio (la dinamica della forma visiva) e
l’espressione che trasmette.
Per Arnheim la funzione psicologica degli oggetti è di natura sostanzialmente espressiva: gli
oggetti devono essere in grado di comunicare, attraverso le loro caratteristiche formali, qualità di
tipo espressivo. Sono dunque gli oggetti che portano in sé l’espressività. E’ famoso l’esempio del
salice piangente che non viene visto come triste perché assomiglia ad una persona triste, ma perché
la sua forma, la sua flessuosità, il suo pendere passivo impongono una configurazione strutturale
simile a quella della tristezza negli esseri umani (Arnheim, 1975).
L’espressione è spiegata sulla base del principio dell’isomorfismo. Nelle sue linee fondamentali
ed essenziali, col postulato dell’isomorfismo (ísos = stesso, morfé = forma) veniva avanzata
l’ipotesi (che è stata in seguito criticata) secondo cui la percezione di una forma o di un oggetto tro2
va delle precise corrispondenze (un isomorfismo appunto) nei processi fisiologici del cervello. Per
estensione, anche l’espressione è spiegata, appunto, in termini di isomorfismo. Si tratta di un processo che può aver luogo in supporti, oggetti, media molto diversi tra di loro, ma che possono risultare simili nella loro organizzazione strutturale (Arnheim). Il punto debole di questo approccio è che
questa relazione isomorfica tra forma (esterna) e attivazione di aree cerebrali corrispondenti e simili
non ha trovato riscontro empirico. I critici della psicologia della Gestalt affermano che tale teoria è
più conosciuta per le sue convincenti dimostrazioni delle famose leggi di organizzazione formale
che per l’interpretazione di queste leggi.
La seconda parte di questa dispensa è dedicata interamente all’analisi percettiva delle immagini
secondo un approccio che si può ricondurre ad Arnheim. Verranno prese in considerazione le caratteristiche strutturali delle immagini e gli aspetti compositivi che hanno condotto l’autore alla creazione artistica con le possibili spiegazioni teoriche.
Escher, un artista gestaltista?
Un’artista che si è interessato molto di psicologia della percezione, in particolare dei lavori dei
Gestaltisti, a cui deve parte del suo lavoro, è l’artista olandese Maurits Cornelius Escher. Gli studi
dei gestaltisti e di Rubin sul rapporto figura e sfondo furono di grande interesse e ispirazione per la
sua attività artistica. L’articolazione figura e sfondo con la sua ambiguità percettiva caratterizzò in
particolare i lavori di Escher alla fine degli anni trenta.
Escher visse per un lungo periodo in Italia, dal ‘21 al ‘34 circa, era molto attratto dal mare, dai
paesaggi e dalla luce. La sua produzione fino a questo periodo era prevalentemente figurativa e realistica. Il cambiamento verso una produzione più astratta e sperimentale fu determinato probabilmente dalla lettura del libro di Koffka “Principi di psicologia della forma”. Riprese quindi con molto interesse un argomento al quale si era dedicato in maniera saltuaria precedentemente.
Un altro fatto importante che determinò questo cambiamento di stile fu il viaggio che nel 1935
intraprese in Spagna dove poté ammirare i mosaici moreschi dell’Alhambra ed iniziò i suoi studi e
lavori sulla simmetria e sulla tassellazione del piano.
Alla base dei numerosi lavori di Escher sulla suddivisione periodica del piano troviamo il principio, ispirato dalla “Coppa con i due profili di Rubin”, secondo cui ogni figura usata può contemporaneamente svolgere due funzioni: figura e sfondo.
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Un’opera che può sintetizzare in maniera efficace questo tipo di ricerca è “Divisione regolare
del piano I” del 1957 (vedi immagine sopra), in cui si assiste ad un progressiva e continua trasformazione dei diversi elementi figurali, partendo da una semplicissima texture lineare (1), fino ad arrivare ad una tassellazione del piano composta da pesci bianci ed uccelli neri (12). In alcune parti
dell’opera si riscontra un completo equilibrio tra le regioni bianche e nere (4, 7, 10, 11), mentre in
altre, in seguito alla maggiore densità della trama (data dalle linee curve e dai cerchietti, che ci fanno immediatamente interpretare le stesse forme come uccelli) le diverse regioni invertono il ruolo di
figura e di sfondo (8, 9). Finché si arriva alla conclusione di questa metamorfosi nell’ultimo tassello
(12), in cui è dato massimo risalto alla contemporanea presenza di pesci e uccelli, in una relazione
di figura/sfondo o forse sarebbe più corretto di figura/figura.
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Wertheimer Balla: 1912-2012. Un secolo dal Movimento apparente1
Introduzione
Nel 1912, poco più di un secolo fa, due protagonisti della scienza e dell’arte, da prospettive molto
diverse affrontarono un argomento simile inerente la costituzione e la rappresentazione del “movimento apparente”. Max Wertheimer nel 1912, con la pubblicazione “Experimentelle Studien über
das Sehen von Bewegung” (Studi sperimentali sul movimento apparente), diede origine alla Psicologia della Gestalt. Giacomo Balla, nello stesso anno, diede un contributo fondamentale con il suo
programma di analisi dell’immagine, iniziato prima della sua adesione al futurismo, attraverso la
rappresentazione dinamica del movimento con immagini statiche, in particolare con tre opere: Ritmi
dell’archetto, Dinamismo di un cane al guinzaglio e la Bambina che corre sul balcone. Nonostante
i due personaggi non si siano mai conosciuti e non abbiano avuto nessun contatto è interessante osservare come siano giunti, attraverso due percorsi molto diversi (scientifico ed artistico), alla trattazione di tematiche simili.
La psicologia della Gestalt
La psicologia della Gestalt nacque in Germania, a Berlino ed è conosciuta prevalentemente per i
suoi studi sulla percezione visiva. Oltre al suo fondatore, Max Wertheimer (1887-1967), gli esponenti più noti furono i suoi allievi Kurt Koffka (1886-1941) e Wolfgang Köhler (1887-1967). La parola tedesca Gestalt può essere tradotta in italiano con forma, schema. La teoria della Gestalt propone due leggi generali sullo studio dei fenomeni psichici: 1) I fenomeni psicologici, non solo quelli
percettivi, avvengono in un campo (il concetto di campo era stato mutuato dalla fisica e in psicologia assumeva il significato di uno spazio vitale in cui agiscono forze con valenze contrapposte); 2) I
processi, per quanto le condizioni lo permettano, tendono a rendere lo stato del campo “buono”, nella direzione di un equilibrio delle forze presenti.
In antitesi all’associazionismo di Wundt, che definiva la mente sulla base di modelli simili ad una
chimica mentale e la percezione come l’attività d’unione di singoli elementi in un tutto, i Gestaltisti
spiegavano l’atto percettivo come un comportamento globale, immediato e unitario che non era costituito dalla semplice somma degli elementi in un tutto. La caratteristica di questo tutto sarebbe determinata dalle relazioni reciproche tra gli elementi che formano l’oggetto; da qui la famosa massima: “Il tutto è più della somma delle singole parti” (Mastandrea, 2004). Per esempio, nonostante
una melodia possa essere suonata in tonalità diverse, viene riconosciuta sostanzialmente identica,
purché rimangano invariati gli intervalli tra le note; eppure modificando la tonalità è cambiato tutto,
1
Questo lavoro è stato pubblicato sulla Rivista di Psicologia dell’Arte. Mastandrea S. (2012). Wertheimer Balla. 19122012: un secolo dal Movimento apparente, Rivista di Psicologia dell’Arte, n. 23, 39-53.
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non è rimasta neppure una nota uguale nelle diverse melodie (von Ehrenfels, 1890/1984). Allo stesso modo, una forma (per esempio un triangolo), può essere riconosciuta come tale, sia quando è costituita da tre linee rette, sia quando è formata da punti organizzati in una struttura che definiamo
appunto triangolare. Ciò che risulta importante per i gestaltisti, non sono gli elementi in sé di una
configurazione, ma sono le relazioni tra le unità che compongono la struttura, quelle che venivano
definite “qualità emergenti”. Già il fisico austriaco Ernst Mach, nel suo testo L’analisi delle sensazioni (1885), affermava che le strutture spaziali costituite da forme geometriche e le strutture musicali composte da melodie erano indipendenti dai loro elementi costitutivi di base, rispettivamente, le
linee e le note.
Il movimento apparente
La formulazione di una teoria della percezione in termini gestaltisti può essere fatta risalire al 1912,
anno di pubblicazione dello studio di Wertheimer sul movimento apparente. Il moto apparente consiste nella percezione fenomenica di movimento, in assenza di movimento fisico. Nell’esperimento
di Wertheimer, immagini luminose stazionarie, presentate in rapida sequenza, davano luogo alla
percezione di un unico punto luminoso in movimento; si osservava dunque una discrepanza tra piano fisico e fenomenico, tra la realtà e quello che in effetti era percepito.
Esistono condizioni in cui è possibile percepire un movimento in assenza di movimento reale. E’ la
ben nota condizione del movimento apparente che si rinnova ogni volta che vediamo delle lucine
luminose che sembrano rincorrersi, mentre semplicemente si accendono e si spengono in maniera
sincronizzata. Dopo avere pianificato una serie di studi condotti nell’arco di un paio d’anni, Wertheimer pubblicò nel 1912 il suo lavoro sul movimento apparente (fenomeno phi) o movimento
stroboscopico (per stroboscopio si intende un sistema di proiezione di luci a intermittenza molto rapida). Suo figlio Michael racconta che il padre ebbe l’intuizione del movimento apparente durante
un viaggio in treno. Folgorato da questa intuizione scese a Francoforte e si recò in un negozio di
giocattoli dove acquistò uno stroboscopio che iniziò ad utilizzare nella sua camera d’albergo (Mecacci, 1992). Un paio di anni dopo pubblicò il lavoro sul movimento apparente che segnò l’inizio
della psicologia della Gestalt. In che cosa consiste il movimento apparente di Wetheimer? Se due
lampadine vengono accese in successione, con un intervallo piuttosto lungo (superiore ai 200 millisecondi) tra la prima e la seconda, si percepiranno due luci stazionarie che si accendono e si spengono indipendentemente l’una in seguito all’altra. Se l’intervallo è invece molto breve, si vedranno
due luci che si accendono simultaneamente. Se l’intervallo, sarà ottimale, circa 60 ms, il risultato
percettivo sarà quello di una luce in movimento o meglio di un punto luminoso che si muove dalla
posizione in cui si trova la prima luce a quella in cui si trova la seconda (Fig. 1).
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Figura 1. Esempi di movimento apparente: in a) la luce si sposta da sinistra verso destra;
in b) il rettangolo verticale compie un ribaltamento sull’asse orizzontale;
in c) la figura superiore compie un movimento rotatorio.
E’ il principio del movimento che viene utilizzato nella proiezione della pellicola cinematografica.
La pellicola è composta da numerosi fotogrammi che non sono altro che fotografie statiche ripetute
diverse volte mentre la scena da riprendere cambia, si muove e si modifica. All’inizio del cinematografo, quando esisteva solo il cinema muto, il numero di fotogrammi che la tecnologia dell’epoca
era in grado di produrre era di 18 al secondo. Un numero esiguo per poter ottenere una visione di
movimento fluido e continuo. Infatti, se guardiamo un film muto dell’epoca, notiamo che i personaggi si muovono non in maniera fluida e progressiva, ma a scatti. Attualmente con i moderni sistemi di proiezione si è riusciti ad aumentare il numero di fotogrammi per secondo, che sono diventati 24; inoltre questi 24 fotogrammi vengono ripetuti ogni secondo per 3 volte, secondo una successione sincronica, per un totale di 72 fotogrammi al secondo; il risultato è quello della percezione di
movimento ottimale. Si tratta comunque sempre di immagini statiche presentate in rapidissima successione, molto più rapida in quest’ultimo caso rispetto all’esperimento di Wertheimer.
Il Futurismo e Giacomo Balla
La data ufficiale di nascita del Futurismo si fa solitamente risalire alla pubblicazione del Manifesto
sul quotidiano francese Le Figaro il 20 febbraio 1909, a firma di Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini e Balla. In realtà, una prima pubblicazione del manifesto apparve il 5 febbraio del 1909,
sulle pagine del quotidiano bolognese La Gazzetta dell’Emilia. Il manifesto letterario del 1909 fu
esteso un anno dopo alla pittura e, in seguito anche ad altre forme di espressione artistica come scultura, architettura, scenografia, fotografia, cinema, poesia e anche musica. I primi pittori firmatari furono Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, ai quali si aggiunsero in seguito Giacomo Balla e Gino Severini (Lista, 2009).
Alcuni passaggi tratti dal manifesto focalizzavano l’interesse di questa corrente d’avanguardia sul
movimento e la velocità: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova, la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa è più bella della Vittoria di Samo7
tracia”. Con questa dichiarazione nacque l’avventura di una delle avanguardie storiche artistiche
più famose. Come afferma Popper (1970), “Forse per la prima volta nell'arte moderna l’idea del
movimento precede sia la sua percezione sia la sua emozione […] Comunque nelle opere futuriste il
movimento si colloca per lo più a metà strada fra il movimento oggettivo (impressionistico, neoimpressionistico o cubista) e il movimento soggettivo (espressionistico), in una categoria che si può
chiamare movimento concettuale” (Popper, 1970, pp. 53-54).
Gli inizi del XX secolo sono caratterizzati da numerose conquiste, scoperte e creazioni che segneranno conseguimenti decisivi per il progresso e la modernità. Uno dei temi dominanti è il movimento, inteso come la possibilità di diminuire le distanze reali tra le persone attraverso l’uso di mezzi
meccanici che cosentono spostamenti più rapidi. A cavallo dei due secoli ‘800 e ‘900 viene costruita l’automobile (il motore a propulsione è del 1850). Nel 1899 a Torino viene fondata la prima fabbrica di automobili FIAT, nel 1900 un’altra fabbrica di automobili, in Germania, la Daimler Benz.
Nel 1903 i fratelli Wright compiono il primo volo in aeroplano (Carollo, 2002). Diversi artisti futuristi (tra questi Balla e Russolo) dedicano studi e lavori importanti che hanno come contenuto
l’automobile, come oggetto di massima espressione dinamica della modernità attraverso il movimento. E’ un esempio lo studio di Balla che trasforma una macchina dell’epoca (molto squadrata e
poco dinamica) in uno studio d’automobile dove vengono trattati e sviluppati gli elementi formali
che più di altri sono rappresentativi del dinamismo figurato, le linee diagonali e il cerchio (le ruote
dell’automobile; Fig. 2).
Figura 2. G. Balla, Studio di automobile, 1912
Le mostre futuriste in Europa nel 1912
La prima mostra dei futuristi si tenne a Parigi nel Febbraio 1912, presso la Galerie Chez Bernheim
Jeune, dal 5 al 24 febbraio dal titolo “Les Peintres Futuristes Italiens” (Fig. 3).
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Fig. 3. A sinistra la locandina della mostra e a destra i futuristi
Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi nel 1912
Alla mostra parigina vennero esposte le opere di tutti i pittori firmatari del manifesto ad eccezione
di Balla, la cui opera Lampada ad arco (Fig. 4) fu censurata da Boccioni, perché non sufficientemente futurista, nonostante il quadro di Balla fosse presente nel catalogo della mostra del 1912,
stampato a gennaio (Lista, 2008).
Figura 4. G. Balla, Lampada ad arco, 1911-1912, olio su tela,
cm. 174x114, New York, The museum of Modern Art
L’attribuzione della data di creazione del quadro è stata piuttosto problematica. La data riportata
nell’angolo superiore sinistro del quadro è del 1909. De Marchis (2007) sostiene che l’anno riportato, 1909, “non è la data dell’opera bensì la dedicatoria al testo di Marinetti Uccidiamo il chiaro di
luna cui si riferisce l’iconografia del dipinto che da esso dipende, testo del 1909 ma conosciuto da
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Balla nella edizione in traduzione italiana del 1911. Dunque il dipinto è posteriore a tale data e ne
dipende. La data è forse stata aggiunta in previsione dell’esposizione alla mostra futurista a Parigi
del 1912 […]. Boccioni fonte autorevole, lo ascrive al 1912” (De Marchis, 2007, p.17). In una lettera ad Alfred H. Barr Jr. (direttore del MOMA a New York), Balla scrive: “Per meglio precisare Vi
spiego che il quadro della “Lampada” è stato da me dipinto durante il periodo divisionista (19001910); infatti il bagliore della luce è ottenuto mediante l'accostamento dei colori puri. Quadro, oltre
che originale come opera d'arte, anche scientifico perché ho cercato di rappresentare la luce separando i colori che la compongono. Di grande interesse storico per la tecnica e per il soggetto. Nessuno a quell’epoca (1909) pensava che una banale lampada elettrica poteva essere motivo di ispirazione pittorica; al contrario, per me il motivo c'era ed era lo studio di rappresentare la luce e soprattutto, dimostrare che il romantico “chiaro di luna” era sopraffatto dalla luce della moderna lampada
elettrica (Fagiolo dell’Arco, 1967, pp. 112-113).
Afferma ancora De Marchis (1977), in conclusione ai riferimenti riportati sulle difficoltà legate alla
datazione, che l’opera potrebbe datarsi dopo la riedizione italiana del testo di Marinetti e quindi tra
il 1911 e il 1912. Al contrario dunque, da quanto affermato da Balla, il testo di Marinetti, “Fu così
che trecento lune elettriche cancellarono con i loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde
degli amori”, avrebbe fornito l’ispirazione per la creazione del quadro: (De Marchis, 1977, p. 18).
E’ interessante osservare l’analogia con il manifesto pubblicitario per l’azienda elettrica AEG del
1910, disegnato da Beherens (Fig. 5). L’irradiamento della luce è reso in entrambe le opere attraverso gli elementi che costituiscono una fitta trama di particelle luminose in espansione.
Figura 5. P. Beherens, Manifesto pubblicitario per la società elettrica tedesca AEG, 1910.
La seconda mostra futurista ebbe luogo a Londra, nel marzo 1912, presso la Sackville Gallery. La
terza mostra si tenne a Berlino dal 12 aprile al 15 maggio con il titolo “Futuristen”, presso la Galleria Der Sturm. E’ divertente l’aneddoto che narra di Marinetti che con un taxi girava per le strade di
Berlino con Walden (compositore, critico e poeta tedesco) lanciando i manifesti “Viva il futurismo”. La quarta mostra del 1912 si tenne a Bruxelles, dal 20 maggio al 5 giugno, dal titolo “Les
peintres futuristes italiens”, presso la Galleria George Giroux (Ouvrard, 2009). E’ interessante nota10
re come proprio nel 1912 si tennero in diverse città europee, tra cui anche Berlino dove avevano sede gli studiosi della nascente Psicologia della Gestalt, diverse mostre futuriste nel tentativo di diffondere la conoscenza di questa importante avanguardia. Non esistono comunque riscontri documentati della conoscenza reciproca tra questi due gruppi di ricercatori nell’ambito della scienza e
dell’arte. Come afferma Bartoli (2009), i futuristi conoscevano gli studi e le ricerche di Ernst Mach
dell’Università di Vienna su argomenti relativi all’ottica e all’acustica. Boccioni mostrerà di aver
letto, oltre ai lavori di Mach, quelli sull’ottica fisiologica di von Helmholtz, i principi di psicologia
di Spencer e gli studi di psico-fisica di Fechner (Lista, 2008). Evidentemente l’interesse per il movimento, il dinamismo percettivo e la sua rappresentazione era frutto dello spirito del tempo, agli
inizi di un secolo ricco di profonde e rapide trasformazioni.
Balla e la rappresentazione del movimento attraverso immagini statiche
E’ proprio questa coincidenza temporale che vede, nello stesso anno, il 1912, la pubblicazione del
lavoro di Wertheimer sul movimento apparente e alcune opere di Giacomo Balla che rappresentano
una sorta di movimento apparente reso, non attraverso la procedura sperimentale utilizzata da Wertheimer, ma con immagini statiche che esprimono un notevole effetto di dinamismo.
Come sappiamo, la poetica futurista era rivolta per buona parte allo studio del movimento, della velocità e del dinamismo.
Se il movimento può essere definito come la modificazione fisica e graduale della posizione di un
oggetto nello spazio in relazione al tempo, il dinamismo può essere definito come l’attribuzione di
movimento ad un oggetto o ad un’immagine che di per sé è statica. La percezione del dinamismo
figurale è legata a fenomeni di strutturazione ed organizzazione della figura, dove entrano in gioco i
vari elementi costitutivi dell’immagine (assi, diagonali, relazioni sopra-sotto ecc.). Artisti, pittori,
grafici, illustratori, fin dall’antichità, hanno sempre cercato di rappresentare il dinamismo di elementi della scena su una superficie bidimensionale che di per sé è statica. Cutting (2002) ha svolto
un’analisi delle diverse modalità che gli artisti hanno utilizzato per raffigurare persone od oggetti in
movimento. Egli riconduce a cinque, le modalità che sono state utilizzate per rappresentare il movimento: 1) Un equilibrio dinamico ottenuto attraverso la rottura della simmetria della figura; 2) La
rappresentazione di immagini multiple (stroboscopiche), attraverso la sovrapposizione parziale o la
traslazione e la conseguente creazione di ritmo; 3) Il piegamento in avanti dell’immagine in una posizione diagonale; 4) La sfocatura, che simula la persistenza dell’immagine sulla retina; 5) Le linee
d’azione come frecce o semplici linee, come vengono utilizzate frequentemente nei fumetti.
Nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910 Balla scrive “ per la persistenza della immagine sulla retina, le cose in movimento si moltiplicano […] così un cavallo in corsa non ha quattro
gambe: ne ha venti” (Sylvia, 2005). Con quest’affermazione Balla fa riferimento al lavoro sulla
cronofotografia condotto da Etienne Jules Marey che nel 1882, mediante uno strumento che egli
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stesso costruì, noto col nome di “fucile fotografico”, riprese con scatti rapidi in successione il movimento in volo degli uccelli e l’andamento di esseri umani (Fig. 6).
Figura 6. E. Marey, Uomo che cammina indossando vestito nero con striscia bianca ai lati, 1883.
Nello stesso periodo circa, negli Stati Uniti, Eadweard Muybridge condusse delle ricerche simili a
quelle di Marey in cui fotografava corpi umani e animali in movimento. La sua tecnica era quella di
cogliere l’immagine in movimento attraverso una serie di scatti in successione. La famosa rivista
Scientific American gli dedicò una copertina (Fig. 7).
Figura 7. Copertina del Scientific American dell’ottobre 1878, dedicata allo studio di E. Muybridge
sul cavallo in movimento.
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Balla, proprio nel 1912, dipinge tre opere molto innovative all’interno della stessa produzione futurista e più in generale dell’arte. Dinamismo di un cane al guinzaglio può essere considerato il primo
quadro compiutamente futurista di Balla (Fig. 8).
Figura 8. G. Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912, olio su tela, cm. 90,8x110,2, Buffalo,
Allbright-Knox Art Gallery, Gift of G.F.Goodyear.
In quest’opera è evidente la scomposizione del movimento nelle zampe del cane che sembrano roteare in modo frenetico. Anche il guinzaglio sembra che oscilli rapidamente, così come le scarpe della
signora che porta a passeggio il cagnolino. L’autore ha voluto fermare in un’unica scena movimenti
che si esplicano in successioni temporali diverse. Da un punto di vista percettivo viene riprodotto il
meccanismo di persistenza dell’immagine sulla retina. Attraverso la memoria sensoriale (in particolare quel tipo di memoria sensoriale denominata “memoria iconica”) il nostro occhio è in grado di
trattenere, per un centinaio di millisecondi circa, l’immagine che viene proiettata sui recettori retinici. Ossia, l’immagine registrata sulla retina non decade immediatamente, ma viene trattenuta dai recettori per circa un decimo di secondo; questo fenomeno prende il nome di persistenza
dell’immagine sulla retina. Uno degli esempi più conosciuti è quello della brace della sigaretta. Se
al buio qualcuno fa muovere velocemente una sigaretta accesa, l’osservatore è in grado di percepire
delle linee continue di colore rossastro che corrispondono alla traiettoria che compie la sigaretta.
Questo fenomeno è dovuto al fatto che i recettori retinici rimangono attivi per qualche decina di
millisecondi anche dopo che l’oggetto non è più presente in quella determinata posizione del campo
visivo, ma si è spostato. L’immagine, nell’esempio la brace della sigaretta, sarà percepita di un colore sbiadito che dopo circa un centinaio di millisecondi si esaurisce; in seguito intervengono i recettori retinici dell’area adiacente che trattengono a loro volta l’immagine successiva e così via. La
percezione che si crea è quella di una linea continua che tiene conto di tutto questo susseguirsi di
informazioni visive. L’immagine non essendo più presente nella posizione inziale subisce un deca13
dimento di risoluzione che dà luogo a quella che comunemente è detta sfocatura dell’immagine. Tale sfocatura sarebbe dunque la memoria iconica residua in seguito allo spostamento dell’immagine
presente nel campo visivo da un punto a quello successivo. Secondo l’analisi proposta da Cutting
(2002), una delle tecniche utilizzate dagli artisti è proprio quella della sfocatura dell’immagine dovuta al fenomeno della persistenza retinica. Balla utilizza questa modalità per rendere il dinamismo
del cane al guinzaglio. L’artista, in particolare, si sofferma sugli elementi più mobili della scena: le
zampe e la coda del cagnolino, il guinzaglio e le scarpe della signora. Più che avanzare, sembra che
il cagnolino agiti le zampette facendole roteare sospeso in aria. Balla mostra nel dipinto
un’accelerazione di tutta la scena. La presentazione simultanea delle diverse posizioni delle zampe
del cane crea un andamento vorticoso o basculante, così come il guinzaglio sembra agitarsi avanti e
indietro o sembra roteare come nel gioco del salto della corda. Le scarpe della signora compiendo
un percorso più ampio rispetto alle zampe e al guinzaglio assumono un andamento rapido in avanti.
La seconda opera di Balla presa in considerazione è Ritmi dell’archetto (Fig. 9). Questo quadro è
stato dipinto durante il secondo soggiorno di Balla a Düsseldorf ospite dei coniugi Löwenstein; il
marito di Gretel Löwenstein (allieva di Balla a Roma) era un avvocato, appassionato violinista a cui
Balla dedica il quadro (Lista, 2009).
Fig. 9. G. Balla, Ritmi dell’archetto, 1912, olio su tela, cm. 52x75,
Estorick Collection of Modern Italian Art.
E’ un’opera fortemente legata al precedente dinamismo di un cane al guinzaglio. In questo dipinto
l’artista conduce un’accurata analisi dei movimenti che le dita della mano sinistra del violinista
compiono sulle corde del manico del violino. Anche in questo caso è stata scelta la tecnica della
sfocatura dell’immagine e della sovrapposizione delle immagini. In primo piano possiamo vedere la
mano sinistra del violinista riproposta quattro volte in posizioni differenti, dalla più sfuocata (la
mano nella posizione inferiore) fino alla rappresentazione della mano nella posizione più alta meno
sfuocata e quindi quella più prossima temporalmente. La mano impugna il manico del violino riproposto anch’esso quattro volte. Le dita nella posizione superiore sono come sdoppiate e non si
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capisce se appartengano alla mano precedente. Si può vedere l’archetto, anche questo rappresentato
quattro volte che appare muoversi all’interno della struttura trapezoidale della composizione. Il polsino della camicia bianca sotto la giacca è costituito da un’unica striscia formata la linee di diverse
gradazioni di bianco che tiene insieme le rappresentazioni sovrapposte delle mani in posizioni diverse.
L’ultimo della serie dei tre quadri del 1912 dedicati al movimento è la Bambina che corre sul balcone (Fig. 10). Secondo Lista (2008) l’opera avrebbe avuto una lunga fase progettuale ed esecutiva,
tra l’estate e l’autunno 1912.
Fig. 10. G. Balla, Bambina che corre sul balcone, 1912, olio su tela, cm. 125x125,
Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna.
Come afferma Fagiolo dell’Arco (1988), Balla iniziò a spostare da A a B quello che prima era stato
immobile. Con le evidenti differenze, vorrei sottolineare la forte analogia di quest’opera di Balla
con lo studio sul movimento apparente di Wertheimer. Come osserva Pierantoni (1986) la spiegazione scientifica dei dipinti di questo periodo dedicati alla scomposizione dinamica dei corpi e
all’analisi cinetica è riconducibile agli esperimenti di Wertheimer sul movimento apparente. Più in
generale si può dare lettura di quest’opera di Balla secondo i principi gestaltisti di organizzazione
formale e ricondurre la scomposizione pittorica del movimento che ne fece Balla al lavoro di Wertheimer sul movimento apparente.
In questo dipinto la pennellata è tipica della tecnica divisionista. La figura della bambina è scomposta in una serie di forme irregolari colorate che costituiscono l’unità base della composizione. Il titolo, e in particolare il termine “corre”, ci è sicuramente di aiuto per interpretare il soggetto. La scom15
posizione dei gesti e dei movimenti della bambina sul balcone vengono catturati da Balla in una serie di istantanee frammentate, in sequenza da sinistra verso destra.
Il primo problema che si pone è come facciamo ad affermare che il soggetto tratta di una bambina
che corre, avendo a disposizione solo delle figure geometriche colorate irregolari?
Secondo Wertheimer e gli psicologi gestaltisti il nostro sistema visivo organizza e articola le diverse
parti che compongono una scena, non in termini di unità elementari presenti nella configurazione,
ma in un certo numero di fattori che agevolano l’unificazione degli elementi in un tutto. Il risultato
visivo, fenomenico (ciò che appare), per usare un termine molto caro ai gestaltisti, è in genere una
riduzione degli elementi, che vengono raggruppati sulla base di alcune caratteristiche condivise. Il
risultato finale della nostra percezione avrebbe a che fare quindi con un tutto che non è semplicemente la somma dei singoli elementi, ma un’organizzazione immediata e unitaria delle diverse parti. Esisterebbe dunque una tendenza ad articolare il campo visivo in base alla natura degli elementi
disponibili, che, in genere, raggruppiamo se sono vicini tra di loro, se sono simili per forma o colore, se formano una configurazione chiusa, se la linea si sviluppa in una direzione continua e omogenea ed, infine, se costituiscono delle forme buone, cioè semplici, regolari, simmetriche o pregnanti, per quanto le condizioni stimolatorie lo permettano e se in queste riconosciamo elementi noti.
Quando gli elementi figurali che costituiscono la stimolazione percettiva sono composti da un insieme di elementi misti, si manifesta la tendenza all’articolazione di unità percettive fra elementi
che sono simili tra loro per un qualche aspetto. La legge della somiglianza può dipendere da
un’uguaglianza cromatica, di forma, di grandezza o altro. Secondo la legge della vicinanza, a parità
di altre condizioni, le parti più vicine di una configurazione vengono a formare unità figurali distinte e separate (Mastandrea, 2004).
Le macchie colorate, apparentemente caotiche che compongono la bambina, sono organizzate proprio in base a queste due leggi della somiglianza e della vicinanza. Elementi cromatici simili vengono raggruppati percettivamente in maniera da costituire le diverse parti del corpo della bambina.
Partendo dalla parte superiore riconosciamo i capelli o un copricapo composto da macchie colorate
e il volto formato da macchie più omogenee di varie tonalità di gialli. Percorrendo con lo sguardo la
figura verso il basso troviamo una serie di macchie prevalentemente azzurre che costituiscono il busto; un’interruzione del busto è data da una sorta di linea ondulata e, al di sotto, una serie di macchie simili alla parte superiore che, in questa posizione, formano la gonna della bambina. Ancora
più sotto un’altra striscia di colorazione prevalentemente beige che forma il ginocchio della bambina e più in basso macchie cromatiche per buona parte azzurre che formano i calzettoni e, infine, nella parte inferiore macchie di colore nero che costituiscono le scarpe. I colori dominanti del dipinto
sono caratterizzati da varie tonalità di azzurro (busto, gonna e calzettoni), di giallo e marrone (viso e
ginocchia) e di nero (scarpe). Non esistono linee e contorni, per cui la capacità di riconoscere gli elementi costitutivi della scena rappresentata è una sorta di problem-solving visivo; riusciamo molto
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bene a trovare la soluzione proprio attraverso la capacità che il nostro sistema visivo possiede di
creare delle unità figurali sulla base della unificazione di elementi singoli raggruppati sulla base dei
principi di somiglianza e vicinanza. Il riconoscimento finale della bambina che corre è reso possibile grazie al confronto della scena del quadro con lo schema mentale che con l’esperienza ci siamo
formati di una bambina che corre. In mezzo a questo apparente caos di macchie colorate giustapposte e sovrapposte, sembra impossibile, ma si riesce a riconoscere anche la ringhiera del balcone. Sarebbe sicuramente molto più difficile vederla se il termine balcone non fosse stato indicato nel titolo. Il nostro sistema visivo è in grado di unificare quelle macchie di colore che, in virtù del loro orientamento verticale (si potrebbe parlare di somiglianza per orientamento), formano delle unità distinte da tutto il resto della figura. Le barre verticali che formano la ringhiera possono anche essere
contate abbastanza facilmente e si scopre che sono in numero di dieci. E’ curioso notare che in una
fotografia (Fig. 11) sono ritratti i coniugi Balla con la figlia Luce nel balcone di casa, dove si può
vedere la lunga ringhiera; sulla destra della stessa figura è riportato uno studio sul movimento.
Fig. 11. A sinistra i coniugi Balla con la figlia Luce nel balcone di casa a Roma e,
a destra, uno studio di Balla per Bambina che corre sul balcone, 1912
Inoltre, queste dieci linee verticali che di fatto costituiscono le barre della ringhiera di casa Balla
(Fig. 11) sono delimitate da una linea superiore ed una inferiore sempre composte da macchie colorate; in questo caso però l’unificazione è disposta secondo un orientamento orizzontale. Il rapporto
tra le diverse rappresentazioni della bambina e la ringhiera crea un effetto insolito. Sembra persino
che il corpo della bambina si intrecci con la ringhiera: il corpo della bambina si trova in secondo
piano rispetto alla ringhiera collocata davanti, mentre i calzettoni e le scarpe sembrano fuoriuscire
dalla ringhiera fino a trovarsi davanti alla ringhiera che retrocede in secondo piano. Se assumiamo
che la ringhiera funga da cornice e le barre verticali da singoli fotogrammi cinematografici, possiamo contare nove diversi “scatti” della bambina in un progressivo spostamento di posizione.
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La rappresentazione del movimento è focalizzata in tre precise linee andamentali del quadro: la
prima collocata all’altezza della mano, la seconda delle ginocchia e la terza delle scarpe. Ad
un’attenta osservazione la mano segue un moto oscillatorio dapprima discendente e successivamente ascendente, tipico del movimento reale della mano di una persona in corsa. Le ginocchia sembrano anch’esse mosse da una forza propulsiva che si esplica formalmente in una sorta di cuneo che
procede verso destra. L’occhio dell’osservatore segue le diverse tonalità del colore arancio che definisce la mano e le ginocchia della bambina in corsa. Le scarpe, che risaltano per la loro caratteristica cromatica nera, costituiscono l’elemento di maggiore mobilità del soggetto attraverso l’uso
della diagonale, che come è ben noto è utilizzata nella rappresentazione pittorica di un oggetto in
movimento (Arnheim, 1974). I tacchi delle scarpe sollevati da terra, assieme alle gambe imprimono
un forte dinamismo all’intera figura.
A differenza delle prime due opere esaminate, nella Bambina che corre sul balcone Balla non ha utilizzato la tecnica della sfocatura dovuta alla persistenza retinica dell’immagine, bensì il principio
della traslazione dinamica dell’immagine, in sequenze presentate simultaneamente. Che cos’è il dipinto di Balla se non una trasposizione pittorica di quanto Wertheimer andava studiando sperimentalmente con il movimento apparente? Wertheimer aveva condotto la sua ricerca attraverso
l’accensione e lo spegnimento di due lampadine, in due posizioni diverse, in due tempi differenti.
Quando l’accensione e lo spegnimento in successione avevano una durata ottimale si percepiva un
movimento solo apparente in quanto nella realtà vi era assenza di movimento fisico. Balla pone tutte le lucine di Wertheimer, aggiungendo il colore, contemporaneamente sullo stesso piano e nello
stesso momento. Nell’esperimento di Wertheimer si è in presenza di una reale successione temporale tra l’accensione delle luci, mentre nel dipinto, Balla aggiunge la quarta dimensione dello spazio,
il tempo, attraverso la scomposizione cinetica della bambina in corsa e la ripetizione della figura in
una nuova relazione spazio/temporale. In conclusione, il risultato finale, pur partendo da premesse
molto diverse, scientifiche da un lato e artistiche dall’altro, potrebbe essere definito equivalente.
Wertheimer e Balla non si sono mai conosciuti nella realtà, ma lo spirito del tempo li ha fatti incontrare.
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