18. Rapporto Senlis

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18. Rapporto Senlis
OSSERVATORIO
Senlis Council
AFGHANISTAN
CINQUE ANNI DOPO:
IL RITORNO DEI TALEBANI *
Prefazione
2001: UN’OCCASIONE SPRECATA
N
el 2001 l’Afghanistan offriva alla comunità internazionale
due occasioni d’oro: la possibilità di distruggere il santuario
di al Qaeda mettendo fine al regime dei Talebani, e la possibilità di ricostruire l’Afghanistan, un paese di massima importanza
strategica, creando così un modello di impegno costruttivo tra
l’Occidente e un paese islamico.
Cinque anni fa, gli eventi dell’11 settembre 2001 avevano
costretto due culture globali a incontrarsi nel modo più drammatico. Furono gli Stati Uniti a guidare la risposta della comunità internazionale, lanciando operazioni militari su larga scala
in Afghanistan. Eppure, l’Afghanistan rappresentava una finestra di opportunità per la comunità internazionale, l’occasione
di avviare un progetto di collaborazione forte e di ampio respiro all’interno di uno Stato islamico. L’obiettivo dichiarato delIl testo che pubblichiamo traduce le pp. I-VI della Prefazione, le pp. 1-8
del Capitolo I e 187-192 del Capitolo V del ben più corposo (404 pp, con
grafici, tabelle, allegati documentari, corredo fotografico e bibliografia) rapporto Afghanistan Five Years Later. The Return of the Taliban, prodotto nella
primavera-estate del 2006 dal Senlis Council (www.senliscouncil.net)
Security & Development Policy Group, un isitituto di ricerca intenzionale con
sedi a Londra, Bruxelles, Parigi, Kabul, uffici in molte altre località
dell’Afghanistan e assistito da un Comitato di saggi composto da personalità
auotrevoli del mondo scientifico e politico europeo. Il Senlis Council conduce ricerche sul campo in particolare intorno al rapporto fra le politiche
internazionali di sicurezza, sviluppo, di contrasto al narcotraffico e il progetto di ricostruzione economico e istituzionale dell’Afghanistan che avrebbe
dovuto costituire l’obiettivo strategico (Nation Building) dell’intervento
prima degli USA e poi della spedizione ISAF della NATO in Afghanistan.
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l’intervento, eliminare i terroristi assassini nascosti in
Afghanistan, aveva suscitato grande entusiasmo nella popolazione afghana, fornendo alla comunità internazionale un’occasione eccellente per affrontare i bisogni reali e immediati di
quella popolazione. Inoltre, la realizzazione di questo progetto
avrebbe reso possibile influenzare in maniera positiva la percezione propria della comunità islamica globale, aprendo uno
spazio per una ulteriore collaborazione futura per affrontare
alle radici il fenomeno dell’estremismo.
Il fallimento delle politiche guidate dagli USA e dalla Gran Bretagna
contro la produzione di oppio ha avuto come effetto diretto il ritorno
dei Talebani, creando crisi di denutrizione e di sicurezza nell’Afghanistan meridionale.
A cinque anni di distanza, estese regioni dell’Afghanistan,
soprattutto nel Sud, sfuggono al controllo del governo centrale.
Gli insorti sono presenti in metà del paese: i Talebani sono tornati, e avanzano velocemente verso Kabul. Il ritorno dei Talebani è legato a doppio filo a una serie di insuccessi registrati dalla
comunità internazionale, molti dei quali, a loro volta, si collegano alla formulazione e alla attuazione delle politiche contro il
narcotraffico che si sono concluse con un totale insuccesso.
Anche se molti nel mondo musulmano percepiscono gli
eventi dell’11 settembre 2001 come la manifestazione concreta
dello scontro fra due culture globali, la consapevolezza di questo scontro culturale di fondo non è stata molto evidente nel
modo in cui la comunità internazionale si è poi comportata in
Afghanistan. C’è stata una profonda incapacità da parte della
comunità internazionale di rendersi conto del fatto che la maggioranza degli afghani ha una ‘visione del mondo’ completamente differente rispetto a quella del cosiddetto ‘mondo occidentale’. La popolazione afghana si identifica innanzitutto in
quanto musulmana, e il suo senso di identità culturale è legato
all’Islam e alla comunità islamica globale: la Umma 1.
Umma, termine arabo che significa letteralmente ‘comunità di fedeli’.
Designa la comunità dei musulmani al di là della loro nazionalità e della fram1
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La religione era, e in larga misura è tuttora, una parte così profondamente integrante della identità personale e della visione del
mondo degli afghani, da risultare di difficile comprensione per un
occidentale laico e ateo. Ricordo che nell’estate del 1998, al calar
della sera, mi sono trovato al limitare della strada che collega
Kabul e Kandahar. La strada è pessima, tanto che per lunghi tratti
gli autisti preferiscono guidare lungo i letti di fiume in secca, piuttosto che in quella serie pressoché ininterrotta di buche e di crateri che viene spacciata per una superficie stradale. Ci eravamo fermati sulla sommità di una collina, e la vista poteva spaziare per
miglia e miglia in ogni direzione. Potevo vedere i passeggeri stendere i loro pattu (le coperte tradizionali) nella polvere che ricopriva la strada per inginocchiarsi in preghiera. Anche i koochi 2 si erano
disposti con il volto in direzione della Mecca, vicino alle loro mandrie. Quella notte abbiamo dormito sul pavimento di una
Chaikhanna, una locanda molto primitiva lungo la strada. Al mattino, cinquanta uomini presero le loro coperte e le allinearono per
la preghiera del mattino, nella strada fuori della locanda. Per trovare qualcosa di equivalente da noi in Occidente, dovremmo pensare ai visitatori di un motel sull’autostrada che si riuniscono per
una messa all’aperto alle cinque del mattino 3.
In tutto il territorio dell’Afghanistan, le risposte di stampo militare
della comunità internazionale alle crisi di sicurezza e di sviluppo vengono considerate in realtà, strategie ispirate a un progetto di guerra
contro l’Islam.
L’amministrazione USA non capisce per niente questa visione
del mondo, e non è riuscita a valutare la realtà così come la vivono gli afghani: e cioè il fatto che le risposte aggressive di stabilizzazione e di ‘nation building’ incentrate sulla sicurezza vengono percepite come una guerra contro la cultura e la religione afghane.
Le implicazioni di questa visione del mondo sono immense,
e il disinteresse a comprenderla si dimostra estremamente danmentazione e differenziazione dei poteri politici che li governano. Contradetta
anche profondamente dalla divisioni interne all’Islam, la Umma resta tuttavia
l’orizzonte dell’unità mondiale degli islamici (NdR).
2
I Koochi sono afghani di etnia turcomanna (NdR).
3
J. Burke, Al Qaeda, Penguin, 2004, p. 62.
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noso per le forze internazionali di sicurezza presenti nel paese. Vi
è una percezione diffusa e sempre crescente fra gli afghani, che
la presenza della comunità internazionale in Afghanistan non
sia altro che una crociata di ‘cristiani invasori’, impegnati in una
guerra contro la cultura islamica afghana. È stata proprio questa
percezione a creare e a rafforzare il sostegno agli insorti dell’Afghanistan meridionale, e a influenzare l’opinione degli afghani
di fronte agli attentati kamikaze commessi nel paese.
Gli attentati contro le forze militari internazionali, una tecnica prima assolutamente sconosciuta nel paese, sono accettati
sempre più frequentemente come un valido mezzo di ‘autodifesa’
dagli attacchi sferrati contro i musulmani. Inoltre, va rapidamente calando di pari passi l’appoggio alle istituzioni del governo centrale create dalla comunità internazionale. Gli afghani di
tutte le età nell'Afghanistan meridionale sono decisamente convinti che i conflitti in corso in Palestina, in Libano e in Iraq
siano altrettante manifestazioni di uno scontro più ampio in atto
fra l’‘Occidente’ e il mondo musulmano, scontro attraverso il
quale l’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, tenta di ‘ricolonizzare’ gli Stati islamici allo scopo di espandere il proprio controllo su tutto il pianeta. Una recente ricerca sulle percezioni degli
afghani nei riguardi dell’Occidente indica che tali convincimenti sono molto diffusi in tutto il paese.
Perché la comunità internazionale sta portando la guerra contro gli
afghani?
La ‘guerra al terrore’ ha esasperato e perpetuato proprio quella situazione di pericolo che intendeva disinnescare nel Sud
dell’Afghanistan. La comunità internazionale guidata dagli Stati
Uniti insiste a definire il proprio impegno in Afghanistan una
‘guerra contro il terrore’. Eppure, gli afghani la percepiscono né
più né meno che come una guerra contro civili inermi in una
regione disperatamente povera. La minaccia costituita dalle operazioni militari della comunità internazionale in Afghanistan ha
creato in realtà quella che gli afghani del Sud del paese chiamano asabiya – il termine arabo che indica una identità di gruppo
unificato. Gli afghani del Sud del paese si identificano proprio
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con coloro che le coalizioni militari internazionali cercano di
distruggere, vale a dire i Talebani. Le attività della comunità
internazionale nel Sud del paese hanno rafforzato questa asabiya.
La percezione che gli afghani hanno dell’Occidente: un malcelato
risentimento.
La recente inchiesta sulle percezioni che gli afghani hanno
della presenza degli occidentali nel loro paese ha evidenziato
livelli significativi di ostilità nei confronti delle motivazioni
che sono alla base dell’impegno della comunità internazionale
in Afghanistan. Cinque anni di presenza internazionale nel
paese non sono riusciti a creare un più forte senso di solidarietà tra afghani e Occidente, anzi una maggioranza di afghani
percepisce un profondo contrasto tra gli obiettivi di modernizzazione e quelli dell’Islam. Se la comunità internazionale non
interverrà con misure urgenti per impegnarsi in maniera valida
e rispettosa al fianco delle comunità afghane locali e per
affrontare quelle che sono le loro preoccupazioni reali, l’abisso
che separa l’Afghanistan dalla comunità internazionale diventerà ancora più profondo.
Addirittura l’88% della popolazione maschile in Afghanistan critica
l’Occidente per aver accresciuto le tensioni a carattere generale fra
Islam e Occidente.
Come dimostra la espansione crescente dell’insurrezione, che
ormai si estende su metà del territorio del paese, più della metà
della popolazione afghana considera un problema la relazione tra
i musulmani e l’Occidente. I due terzi delle persone intervistate
hanno espresso il loro convincimento che la pubblicazione delle
vignette satiriche danesi nel febbraio 2006, con l’immagine del
profeta, dimostrava una mancanza di rispetto per l’Islam, anche
se molti intervistati hanno condannato le violente proteste che
hanno fatto seguito alla pubblicazione di quelle vignette.
Per quanto riguarda le qualità personali degli occidentali,
quasi due terzi degli afghani intervistati considerano gli occidentali intolleranti, e più della metà ha espresso la convinzione
che gli occidentali siano semplicemente cristiani ferventi. Tale
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opinione nasce dalla percezione che le attuali guerre tra Occidente e paesi islamici siano soltanto ispirate da una professione
di fede cristiana.
Quasi la metà della popolazione afghana ritiene che gli occidentali non
rispettino le donne (46%), siano disonesti (50%), egoisti (48%),
immorali (46%) e violenti (40%).
Anche se gli afghani disapprovano decisamente le violenze
commesse dagli insorti contro i civili afghani, più della metà
delle persone che hanno risposto alle interviste ritiene che alcuni atti, come gli attentati kamikaze, siano giustificati quando
alla base ci sia una motivazione politica.
Quasi la metà (49%) degli intervistati si è detta convinta
che Osama bin Laden agisca a tutela dei loro interessi sulla
scena mondiale, e il 47% rifiutava di credere alle prove che
gli attacchi dell’11 settembre 2001 fossero stati compiuti da
arabi.
Scetticismo nei confronti delle iniziative di ‘nation building’ in
Afghanistan.
Il quarantuno per cento delle persone che hanno risposte
all’intervista è convinto che la democrazia non darebbe
buoni risultati in Afghanistan. Quasi tre quarti degli intervistati si è dichiarata frustrata per il fatto che i paesi musulmani sono molto meno prosperi di quanto potrebbero essere. Un
quarto degli intervistati ha imputato questo deficit di prosperità alle politiche degli USA e dei paesi occidentali, anche se
molti hanno posto sotto accusa le scarse possibilità di istruzione disponibili nel paese. Quasi la metà dei partecipanti
all’inchiesta (49%) ha dichiarato che esiste un conflitto
naturale fra essere un musulmano osservante e vivere in una
società moderna. Un numero molto minore di persone credeva che tale conflitto esista anche per un cristiano. Quasi un
terzo degli intervistati ha manifestato il suo sostegno a favore del fondamentalismo islamico, anche se l’ascesa globale
dell’estremismo islamico destava la preoccupazione del 67%
dei partecipanti.
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Capitolo I
L’INSTABILITÀ DELL’AFGHANISTAN
E IL RITORNO DEI TALEBANI
Sintesi
Il deterioramento delle condizioni di sicurezza
e un nuovo fronte di insurrezione
Al di sotto della superficie, è tutto un ribollire di tensioni
AHMAD FAHIM HAKIN,
Commissione afghana indipendente per i diritti umani,
agosto 2006 4
Nei cinque anni trascorsi dall’inizio delle operazioni militari
internazionali, la situazione dell’Afghanistan è peggiorata in
misura significativa. Dopo un periodo di calma relativa nei
primi anni successivi alla cacciata dei Talebani, la violenza
torna a diffondersi da un capo all’altro del paese. Di conseguenza, molti afghani pensano che il loro paese sia ora meno
sicuro di quanto non fosse nel 2001. Anche se attualmente è
insediato un ‘governo democratico’, i benefici della stabilità
economica e sociale, della pace sono rimasti per la popolazione in larga misura mere promesse. In particolare, le operazioni militari internazionali non hanno saputo conseguire il loro
principale obiettivo, che era quello di garantire la sicurezza e
la stabilità del paese, cioè le due fondamenta essenziali della
democrazia e dello sviluppo economico.
Le coalizioni militari internazionali non hanno saputo evitare che i
Talebani riconquistassero il controllo di metà del paese.
La situazione della sicurezza nel paese si va chiarendo. Le
coalizioni militari internazionali non sono riuscite a concretizzare le aspettative che avevano alimentato nel 2001. Sia
Enduring Freedom, l’operazione guidata dagli USA, che l’ISAF,
Citato in C. Gay, Nation Falthering Afghans’ Leaders draws Criticism, «The
New Yor Times», agosto 2006.
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l’operazione guidata dalla NATO, non hanno saputo mettere a
frutto la possibilità di colmare il divario che separa il mondo
occidentale da quello musulmano. Al contrario, al momento,
tali operazioni militari alimentano vieppiù la frustrazione e il
risentimento diffusi nella popolazione afghana, radicando in
essa una sfiducia sempre crescente nei confronti di quelle stesse forze USA e NATO che all’inizio aveva accolte piena di speranza. Concentrandosi in maniera eccessiva su missioni militari aggressive, la comunità internazionale, e segnatamente gli
Stati Uniti, hanno perso la battaglia per conquistare i ‘cuori e
le menti’ degli afghani.
Attualmente cresce sempre più la forza degli insorti che
occupano le province meridionali dell’Afghanistan: cinque
anni dopo essere stati scacciati dal potere, i Talebani ora esercitano un controllo psicologico e militare de facto su quasi la
metà del territorio del paese. Nonostante l’impegno delle forze
militari internazionali, i Talebani sono riusciti a riorganizzare
le proprie forze, hanno modificato con successo le loro tattiche, reclutato e addestrato nuovi combattenti, e, quel che più
conta, hanno conquistato un vasto seguito nella popolazione
afghana. Una volta di più, la popolazione sembra presa nella
morsa di due forze militari in espansione. È inutile dire che il
popolo afghano ha ben poco da guadagnare da questa nuova
escalation di violenza.
La sicurezza è al livello più basso dal 2001 a oggi: l’insurrezione
ormai è capace di uno slancio autonomo
Dopo cinque anni di tentativi, non c’è ancora pace in
Afghanistan: i Talebani sono tornati, e adesso la linea del fronte spacca il paese in due. Gli attacchi si susseguono giorno dopo
giorno: numerose province, del tutto sicure fino a tempi recenti, adesso vivono la tragica esperienza degli attentati suicidi,
degli assassinii, degli agguati e delle esplosioni; le truppe USA e
NATO-ISAF sono costantemente impegnate in operazioni di guerra e subiscono perdite significative, soprattutto nelle province
meridionali di Helmand e Kandahar; aumenta costantemente il
numero dei civili uccisi.
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Il popolo afghano adesso contesta le motivazioni su cui si basa la presenza militare internazionale.
Lo sviluppo dell’insurrezione ha provocato una ulteriore evoluzione delle operazioni militari internazionali, rendendo ancora più confuse le linee di demarcazione tra Enduring Freedom,
guidata dagli Stati Uniti, e l’ISAF, guidata dalla Nato. La poca
trasparenza e l’impostazione soltanto militare di entrambe le
missioni hanno fatto cadere in una trappola le forze della coalizione militare internazionale. Invece di dare l’impressione di
dare le caccia ai terroristi e garantire sicurezza, stabilità e sviluppo al paese, tutte le forze militari internazionali di coalizione
sono considerate semplicemente alleate del governo di Karzai e
corresponsabili della poca sicurezza e della corruzione dilagante
nel paese. Le forze militari internazionali di coalizione non sono
viste come elementi neutrali che si battono per il bene del popolo afghano, bensì come elementi che prendono una posizione
ben precisa in un contesto di guerra civile tra due gruppi che lottano entrambi per conquistare il potere in Afghanistan.
L’Afghanistan è entrato in una spirale di violenza incontrollabile.
La lotta contro una guerriglia bene armata richiede necessariamente un esercito numeroso. Se vorrà portare avanti questa
strategia, l’operazione NATO-ISAF dovrà rafforzare la sua presenza militare e intensificare le sue attività, con il rischio di esporre alla morte un maggior numero di soldati, senza migliorare in
misura significativa il livello di sicurezza. La strategia degli insorti antigovernativi, più che a ottenere una vittoria militare, mira
a infliggere al nemico perdite significative, allo scopo di costringere l’ISAF-NATO a lasciare il paese o, quanto meno, a ridurre il
suo sostegno al governo centrale. È probabile che questa spirale
di violenza diventerà molto rischiosa per le forze NATO-ISAF,
visto che i gruppi antigovernativi guadagnano una popolarità
sempre crescente fra la popolazione. Inoltre, è probabile che
uno scenario simile spacchi il paese in due: il Nord e l’Ovest
relativamente pacificati sotto l’autorità del governo centrale,
sostenuto dai comandanti tajiki, hazara e uzsbeki, e il caos delle
province meridionali e orientali, controllate dai neo-Talebani.
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Capitolo V
IL FALLIMENTO DELLE PRIORITÀ
DEL NATION BUILDING 5
Cinque anni fa, l’eliminazione del regime dei Talebani era ritenuta da una opinione molto larga il segno di una nuova era per
l’Afghanistan. Per un paese devastato da decenni di violenze e
miseria, l’intervento della comunità internazionale sembrava
annunciare un futuro luminoso, confermato dalle dichiarazioni
che promettevano alle popolazioni afghane la liberazione dall’insicurezza e dall’oppressione. Gli USA definivano la sconfitta
dei Talebani come un dovere umanitario, e promettevano ‘libertà duratura’ per il popolo afghano. Questo capitolo analizza in
quale misura la comunità internazionale ha tenuto fede a queste
promesse
Noi sappiamo che una vera pace sarà realizzata
solo quando avremo dato agli afghani
il senso che stanno realizzando le proprie aspirazioni.
George W. Bush, aprile 2002 6
In realtà, c’è un enorme gap tra le massicce spese per realizzare la sicurezza in Afghanistan e gli scarsi risultati del ‘nation
5
Usato originariamente per definire il processo di superamento delle divisioni religiose, etniche, tribali come condizione per la costruzione in Stati
autonomi dei territori fuoriusciti dalle frammentazioni del dominio coloniale,
il termine è stato usato, in anni più recenti, per denotare il supposto obiettivo
delle operazioni militari degli USA in Medio Oriente, e soprattutto in Iraq. Nel
lessico dei neocons il ‘nation building’ è divenuto più esplicitamente l’uso della
forza militare, e della guerra, per promuovere la ‘transizione alla democrazia’ in
paesi a regimi autoritari. In questo senso, questo capitolo, che traduciamo nell’abstract offerto dallo stesso SENLIS, racconta, nel linguaggio freddo e neutrale
dell’analisi sul campo, assai più che gli insuccessi militari di Enduring Freedom
(e della missione NATO-ISAF che ne è la proiezione e continuazione), il fallimento della motivazione più propagandisticamente ambiziosa dell’amministrazione Bush in Afghanistan (NdR).
6
Discorso pronunciato al seminario sulla National Security del George C.
Marshall Reserve Officers’ Training Corps Award, aprile 2002.
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buildng’ realizzati attraverso queste spese deviate dal loro scopo
originario. La prevalenza di spese concentrate sulla sicurezza
indica che sin dall’inizio le priorità della comunità internazionale, così come erano determinate dagli orientamenti degli USA,
non coincidevano affatto con quelle della popolazione afghana.
Al contrario, per i cinque anni successivi la comunità internazionale ha privilegiato la sicurezza fisica, perseguita con mezzi
militari, rispetto all’obiettivo di risollevare l’Afghanistan dalla
estrema povertà e dall’instabilità economica. Le preoccupazioni
della comunità internazionale determinate dall’egemonia Usa,
concentrate come erano sull’obiettivo della sicurezza militare in
Afghanistan, rispondevano piuttosto a obiettivi di ‘sicurezza in
casa propria’, come dimostrano le operazioni militari anti-insurrezione e anti-terrorismo condotte con grande durezza in tutto il
paese afghano.
Ma la priorità data dalle direttive imposte dalla guida
degli USA all’intervento della comunità internazionale ha
prodotto risultati disastrosi sia per la popolazione afghana
che per la comunità internazionale. Si è aperta un contrasto
e un rifiuto crescenti dell’azione della comunità internazionale, poiché gli afghani ora contestano la legittimità dell’intervento internazionale nel loro paese. Cinque anni di intervento internazionale in Afghanistan non hanno per nulla
migliorato la vita quotidiana degli afghani. A milioni sono
tuttora ossessionati dalla povertà e muoiono per malattie che
si potrebbero facilmente prevenire o curare. Benché gli sforzi internazionali siano stati in misura massiccia indirizzati
alla sicurezza, nel paese l’insicurezza aumenta ogni giorno più
rapidamente facendo registrare una quota crescente di morti
e feriti.
Questi orientamenti determinati dalla direzione degli USA,
sempre più esclusivamente concentrati su obiettivi di sicurezza
fisica, hanno deviato risorse destinate agli obiettivi impellenti
di sviluppo fino a provocare fra spese militari e investimenti
destinati alla ricostruzione e allo sviluppo una sproporzione
espressa dalla colossale percentuale del 900%. Questa concentrazione sull’intervento militare ha rafforzato e ribadito la miliQ U A L E
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tarizzazione di altri interventi, in particolare gli interventi
della comunità internazionale sulla crisi dell’oppio. Le durissime strategie, che hanno scelto come via fondamentale quella
della totale eradicazione, hanno indebolito gli afghani e hanno
avuto un impatto estremamente negativo sul coordinamento e
la coerenza fra le politiche di ricostruzione e sviluppo.
Considerando le numerosissime sfide costituite dalla povertà
in Afghanistan, il privilegiamento delle politiche anti-narco
rispetto agli obiettivi di sopravvivenza degli afghani è risultato
incomprensibile per le comunità rurali e ha provocato la sottovalutazione di altri effetti più positivi dell’intervento della
comunità internazionale.
L’interpretazione strettamente dominata dalla preoccupazione della ‘sicurezza in casa propria’ ha indirizzato le risorse e le
politiche per la ricostruzione e lo sviluppo verso i classici modelli sperimentati nel dopoguerra nei paesi occidentali, come per
esempio quello delle consultazioni elettorali, che avevano il pregio di dimostrare al proprio elettorato in patria che la ‘sicurezza
in casa propria’ era stata realizzata proprio attraverso le politiche
attuate in Afghanistan. Il consenso generato dalla eliminazione
del regime dei Talebani provava che l’urgenza avvertita dalla
comunità internazionale, indirizzata dagli USA, di consolidare i
vincoli della democrazia era tollerata e addirittura approvata da
gran parte della popolazione afghana. Tuttavia, visto che gli sforzi per impiantare la democrazia erano intesi a sollecitare un consenso altrove che in Afghanistan, essi non si preoccupavano
granché del paese reale, con le sue condizioni di povertà di
massa e di incerta sopravvivenza di milioni di afghani.
Nonostante l’Afghanistan oggi abbia un presidente, una
Costituzione, un Parlamento eletto, l’incapacità di queste istituzioni democratiche di garantire servizi fondamentali come il
sostegno alla povertà, l’istruzione, la tutela della salute e la giustizia hanno compromesso gli sforzi della comunità internazionale di istituire una vera democrazia.
Cinque anni di progetti di ‘nation building’ condotti dagli USA
e dalla Gran Bretagna non hanno reso l’Afghanistan né più sicuro né più prospero. Concentrare l’intervento in modo intenso ed
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esteso sull’obiettivo di liberare gli afghani dalla povertà avrebbe,
al contrario, creato una solida base sulla quale ricostruire l’Afghanistan. Invece, poiché la riduzione della povertà non è
diventata un obiettivo prioritario, gli sforzi della comunità internazionale per costruire la democrazia si sono infranti di fronte al
fatto che gli afghani muoiono di fame.
(Traduzione di Rita Imbellone)
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