estratto - Sale della Comunità

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estratto - Sale della Comunità
SOMMARIO
ITINERARI MEDIALI
ANNO III
MARZO/APRILE 2002
N. 2
SAGGI
Spedizione in abb. postale
45% Art. 2 comma 20/b
Legge 662/96
Filiale di Torino
Registrazione Tribunale
di Roma
n. 567/99 del 1-12-1999
5
di Paolo Perrone
12
Direttore responsabile:
Dario Edoardo Viganò
Direzione e redazione:
ACEC
Via Nomentana, 251
00161 Roma
Tel. 06.440.2273
Fax 06.440.2280
[email protected]
www.acec.it
Editore:
Effatà Editrice
Via Tre Denti, 1
10060 Cantalupa (To)
Tel. 0121.353.452
Fax 0121.353.839
[email protected]
www.effata.it
Hanno collaborato:
Ezio Alberione, Federico Calamante,
Cristina Cano, Silvia Colombo, Matteo
Columbo, Flavia Conidi, Livio De
Marie, Nicola Di Mauro, Fabrizio
Fiaschini, Luigi Filippi, Alessandro
Franzini, Raffaella Giancristofaro,
Stefano Gorla, Enrica Mancini,
Leonardo Mello, Guido Michelone,
Paolo Pellegrino, Paolo Perrone,
Lorenzo Pinardi, Emanuele Rebuffini,
Raffaele Rezzonico, Giorgio Simonelli,
Aldo Maria Valli.
Hollywood
dopo il crollo delle Torri gemelle
Linfa dell’industria del cinema
made in USA: lo star-system
di Nicola Di Mauro
RUBRICHE
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FILM ANALISI
Il favoloso mondo di Amélie
di Raffaella Giancristofaro
Birthday Girl
di Federico Calamante
Brucio nel vento
di Silvia Colombo
Mulholland drive
di Matteo Columbo
Il Signore degli Anelli
di Raffaele Rezzonico
43
HOME VIDEO
Chocolat
La Comunidad-Intrigo all’ultimo piano
Grafica: Guido Pegone
Stampa: Tipografia Stargrafica
Grugliasco (To)
Contenders-Serie 7
Canone di abbonamento:
Una copia: 6.20
Annuo (6 numeri): 26.00
Versamento su c/c postale
n.33955105 intestato a:
Effatà Editrice
Via Tre Denti, 1
10060 Cantalupa (To)
di Alessandro Franzini
Moulin Rouge
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FUMETTO
Lucky Luke
il mito del West
di Stefano Gorla
52
TEATRO
L’apparenza inganna
di Leonardo Mello
Flatus vocis
Riessioni tra parola poetica e teatro in Carmelo Bene
di Lorenzo Pinardi
62
MUSICA
Ascoltare musica nel grembo materno
di Cristina Cano
Jazz italiano (Autori Vari)
The concert for New York City; America:
A Tribute To Heroes
di Guido Michelone
68
TELEVISIONE
Fuga dalla tv
di Aldo Maria Valli
Le nuove nomine Rai
precedute da misteri e contraddizioni
di Giorgio Simonelli
78
NEW MEDIA
Il sapere si aggiorna
di Enrica Mancini
Il cinema visto da Internet: http://www.us.imdb.com
di Flavia Conidi
84
LIBRI
Curare con il cinema
di Luigi Filippi
L’identità uttuante
di Paolo Pellegrino
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AVVENIMENTI
Innity Festival
Films and Spiritual Research
di Emanuele Rebuffini
Come nascono i Fioretti
a cura di Paolo Pellegrino
E d itor iale
Humphrey Bogart
La forza
e le leggi
di Hollywood
Il colpo terroristico inferto l’11 settembre 2001 all’America ha costituito di
riflesso anche l’occasione per misurare l’impatto della produzione culturale di
quel Paese sul resto del mondo. L’America si è rivelata per certi versi il metro
della misura – cosa che non ha sorpreso le persone più avvertite – di quanto
siamo civili, di quanto siamo sensibili, di quanto siamo tolleranti, lungimiranti,
paurosi, coraggiosi,... Sulle reazioni di quel Paese abbiamo modellato, chi per
adesione chi per contrasto, le nostre.
Un tratto innegabile del Novecento, sul piano culturale unitamente a quello
politico, economico, militare, è stato il porsi dell’America come Paese guida. E,
nella pervasione dell’immaginario dei popoli di ogni parte del mondo, il cinema
americano, e in particolare quello prodotto da Hollywood, ha svolto una parte
gigantesca.
Si tratta di un tema ampiamente analizzato, che in questo numero «IM»
rimette a fuoco percorrendone due aspetti. Nel saggio Hollywood dopo il crollo
delle torri gemelle, Paolo Perrone evidenzia anzitutto come la «fabbrica dei sogni»
americana abbia retto onorevolmente alla prova del terrore, mantenendo le sale
piene di spettatori e fornendo loro un sostegno emotivo, «come se due ore di
puro intrattenimento in una sala cinematografica [...] fossero il miglior antidoto
alla paura». Quindi passa ad analizzare le mosse più significative che le case
di produzione cinematografica hanno fatto per superare l’impasse che avrebbe
potuto condizionare l’intero sistema.
Nel saggio Linfa dell’industria del cinema made in Usa: lo star-system, Nicola
di Mauro ripercorre la nascita e lo sviluppo di quel fenomeno tipico del cinema
hollywoodiano che è il divismo, e che ha contribuito in modo decisivo a fare
del cinema americano il formidabile apripista alla cultura a stelle e strisce nel
mondo. Luci e ombre dell’industria delle star sono messe abilmente in evidenza
in un’analisi di taglio storico. Ma il sistema è ancora assai efficace, e non molto
è cambiato.
Dario E. Viganò
S ag g i
Hollywood
«T
he show must go on», lo spettacolo deve continuare. E puntualmente, come da copione, è continuato. Nonostante l’11
settembre. O forse, paradossalmente, proprio per questo.
Trentaquattro anni fa, proiettando lo sguardo su quel 2001 che ci siamo
già lasciati alle spalle, Stanley Kubrick aveva prefigurato un’Odissea
nello spazio. E invece, con gli attentati alle Twin Towers di New York
e al Pentagono a Washington, l’Odissea ha abbandonato computer di
bordo, missioni interplanetarie e soprattutto il grande schermo, scendendo di quota, molto più in basso, ben al di sotto dell’atmosfera terrestre. Sconvolgendo la nostra fiacca routine quotidiana e coinvolgendo,
di ritorno, nell’immenso scacchiere globalizzato che ha il suo cuore pulsante negli Stati Uniti, anche il mondo del cinema e la sua capitale, Hollywood.
Saggi
dopo il crollo
delle Torri gemelle
Proprio quella Hollywood che ben prima del duplice schianto al World Trade
Center aveva già fatto quattrini a palate con le collisioni aeree (Airport di George
Seaton, 1970) e il catastrofismo urbano (L’inferno di cristallo di John Guillermin,
1974). Per non parlare, in tempi più recenti, dell’agghiacciante trasformazione
della «Grande Mela» in un carcere di massima sicurezza (1997 – Fuga da New
York di John Carpenter, 1981), del ricorso spettacolare al terrorismo internazionale, reale o presunto (Die Hard – Trappola di cristallo di John McTiernan,
1988), e della polverizzazione di veri e propri simboli a stelle e strisce come l’Empire State Building o la stessa Casa Bianca (Indipendence Day di Roland Emmerich, 1996).
Itinerari Mediali
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Shirley Temple
Eppure, o forse proprio per questo,
dopo l’11 settembre gli studios di Hollywood non sono crollati al suolo insieme
alle Torri Gemelle. La conferma è arrivata
da Jack Valenti, presidente dell’Associazione dei produttori americani: «Nelle settimane seguenti alla tragedia l’affluenza nei
nostri cinema, dopo lo shock iniziale, è
cresciuta del 7-8% rispetto allo stesso periodo del 2000, quando l’economia americana viaggiava a gonfie vele». Con un netto
aumento degli incassi, nei weekend successivi agli attentati, e un volume complessivo di affari, in alcuni fine settimane, di
quasi settanta milioni di dollari. Nessuna
flessione, insomma. Anzi, una decisa impennata. Esattamente come nel 1991,
quando gli incassi, durante la Guerra del Golfo, aumentarono per otto settimane
consecutive. O come nel 1995, dopo le bombe a Oklahoma City, quando la crescita al box office fu addirittura del 48 per cento in più.
Oggi come allora, con la morte nel cuore, tutti a caccia di feel good movies, i
film di buoni sentimenti. Come se due ore di puro intrattenimento in una sala
cinematografica di Manhattan fossero il migliore antidoto alla paura. Come se
l’eco di una tenera love story, sbocciata sul grande schermo, potesse poi riverberarsi, per giorni, anche nelle proprie case. Magari fino al settantesimo piano di
un grattacielo davanti alla Statua della Libertà.
THE DAY
AFTER
In fila al cinema, dunque, per risollevare il morale. Un bisogno di
sorrisi, carezze e spremute di cuori comprensibile e prevedibile, da parte dell’oceanico pubblico americano,
nonostante il segnale apparentemente contraddittorio dell’incremento nel
noleggio di dvd e videocassette di pellicole violente e spettacolari. Come
se drammi e tragedie, nel
Dopo l’11 settembre
gli studios di Hollywood
non sono crollati
al suolo insieme
alle Torri Gemelle
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Itinerari Mediali
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E
Clark Gable
LE STELLE
A GUARDARE
(NON)
Saggi
tepore delle proprie intimità casalinghe, potessero essere esorcizzate, senza precipitare sull’orlo di una crisi di nervi, dal replay di un action movie domestico.
Non è un caso, però, se uno dei film più visti nei cinema subito dopo l’11
settembre sia stato Hardball, diretto da Brian Robbins e interpretato da Keanu
Reeves, storia di redenzione, coraggio, riscoperta di valori e soprattutto di aggregazione, con un giocatore d’azzardo che si inventa allenatore di una piccola squadra di baseball a Chicago. Scoprendo il piacere di dare agli altri senza troppi
perché e riscoprendo se stesso e la propria, appannata coscienza. Venti milioni di
dollari rastrellati al botteghino in sole due settimane, le prime dopo l’11 settembre, quelle cruciali, e un lungo sospiro di sollievo per le majors hollywoodiane.
Anche se il forte impatto psicologico del rischio terrorismo (e poi dell’antrace)
sull’opinione pubblica ha costretto molte case di produzione a correggere, in
corsa, il tiro.
Niente più sequenze di bombe sugli aerei, immediatamente dopo la «national tragedy», niente più immagini di ordigni, dal timing millimetrico e devastante, pronti ad esplodere nei sotterranei di un edificio. E assolutamente niente
più fotogrammi della celebre skyline di New York antecedente all’11 settembre.
Come nel caso del sequel di Men in Black, di cui è stato rigirato il finale,
senza più le Twin Towers sullo sfondo e gli agenti K e J a passeggiarci tranquillamente davanti. Bloccato il trailer e rifatto il finale anche di Spider Man, per
non mostrare l’Uomo Ragno svolazzante proprio tra i due grattacieli distrutti,
rinviato a data da destinarsi Collateral Damage, in cui Arnold Schwarzenegger è
un pompiere la cui famiglia è stata sterminata da un attentato terroristico dinamitardo. Posticipata anche l’uscita di Gangs of New York di Martin Scorsese e di
Windtalkers di John Woo, sempre per non
turbare con violenze e brutalità un fragile
equilibrio psicologico.
STANNO
Per il ritorno in massa dei disaster movies,
comunque, provvisoriamente riposti in frigorifero, è solo questione di tempo. La
ferita lacerante al suo gigantismo e i possibili contraccolpi sullo star-system, Hollywood li ha saputi tamponare, appena
dieci giorni dopo il crollo delle Twin
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Gary Cooper
Towers, con la mobilitazione senza precedenti di una gran parata di divi. Tutti uniti
e compatti, fedeli alla bandiera della solidarietà, in una maratona televisiva benefica destinata a raccogliere fondi per le
vittime. Da Jack Nicholson a Brad Pitt,
da Tom Cruise a George Clooney, da Sylvester Stallone a Julia Roberts, Cameron
Diaz, Al Pacino, Jim Carrey, Clint Eastwood, Robert De Niro e Tom Hanks.
Alcuni di loro, nei momenti di emergenza, hanno offerto il proprio sangue.
Altri hanno donato il proprio denaro e
giocato in Borsa per contribuire a riavviare
l’economia. Altri ancora hanno cenato con i pompieri o si sono commossi sulle
macerie avvolte nel fumo a Ground Zero. Rassicurando gli americani e facendo
di Hollywood, una volta di più, la roccaforte dell’american way of life.
Anche e soprattutto grazie a loro, da settembre a oggi nessun sostanziale
deficit di produzione ha travolto le majors hollywoodiane, che hanno dovuto
tirare il freno a mano, ma solo dopo il picco di
investimenti e di progetti avviati fatto registrare
negli ultimi mesi per paura della raffica di scioperi
minacciata da attori e doppiatori. Con il conseguente accumulo di una notevole scorta di pellicole in magazzino. I blockbuster stanno per tornare
nuovamente in lavorazione e il rallentamento
avrà colpito al limite le strutture produttive di
livello intermedio. Nessun sostanziale cedimento,
di conseguenza, dei film d’azione, uno dei più
consueti, prolifici e granitici pilastri della produzione filmica hollywoodiana contemporanea,
insieme alle commedie romantiche e al fantasy.
Come Harry Potter e la pietra filosofale, rigorosamente «Made in England» ma targato Warner
Bros, oltre 93 milioni di dollari in soli tre giorni di
programmazione, a metà novembre, in Stati Uniti
e Canada. Una cifra cresciuta a dismisura nel peri-
Niente più
sequenze
di bombe
sugli aerei,
niente più
immagini
di ordigni,
dal timing
millimetrico
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Fred Astaire e Ginger Rogers
IL
TRIONFO DELL’AMORE
(E
DELL’ENTERTAINMENT)
La gioiosa macchina da spettacolo hollywoodiana, dunque, ha già riacceso i
motori. Il circuito indipendente, attivo e vivace fino a qualche anno fa, sembra
ormai aver perso colpi, fino ad essere in larga parte controllato e manipolato
(Sundance festival compreso) dall’establishment mediatico-finanziario dominante.
Borderline rimangono certamente autori come Lynch, i Coen, Altman, Gilliam
o Solondz, che non si sono ancora stancati di prendere a picconate, per un verso
o per l’altro, l’american way of life. Ma proprio dopo (e nonostante) l’11 settembre, tutto lascia pensare che l’intrattenimento di lusso offerto da Hollywood, con
il suo mix acchiappafolle di professionalità tecnica, popolarità di contenuti, effettistica speciale, divismo, autoreferenzialità
(narrativa e stilistica), serialità e soprattutto autopromozionalità, possa procedere
tranquillamente senza fastidiosi inciampi.
Soprattutto se shakerato ad arte da una
sapiente e calibrata regia di marketing.
Come un camaleonte, che si tinge dei
colori dell’ambiente in cui vive, mimetizzandosi, lo star-system hollywoodiano negli
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Saggi
odo seguente. Un record, per il film di Chris Columbus, tratto dal primo libro di
Joanne Rowling, distribuito in 8200 sale nel Nordamerica e costato 125 milioni
di dollari per la produzione e 40 milioni di dollari per la pubblicità. Un record
che ha spazzato via l’analogo, precedente primato di 72 milioni di dollari, al
debutto, stabilito nel ’97 da Il mondo perduto di Spielberg.
Stessa musica per la Disney, che nonostante l’annuncio previsionale della
caduta libera dei profitti per il primo trimestre del 2002 (meno della metà dei
ritorni economici di un anno prima) ha portato a casa 63 milioni di dollari con
l’arrivo nelle sale della sua ultima fatica in tandem con la Pixar, Monsters Inc,
contro i 57 milioni di dollari incassati, nel 1999, per Toy Story 2. Nulla, però,
in confronto al travolgente sbarco nei cinema de Il Signore degli anelli, primo
capitolo tratto da Tolkien e diretto da Peter Jackson. Un kolossal che ha sbancato
i botteghini dell’intero pianeta. E chissà cosa ci aspetta con l’imminente secondo
episodio della nuova serie di Guerre stellari, di George Lucas, e i due nuovi capitoli di Matrix, sempre diretti dai fratelli Wachowski.
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UNO
SGUARDO SUI GENERI(S)
Se l’horror classico ha invece un po’ chiuso per saturazione il proprio ciclo commerciale (con la sola evidente eccezione de La Mummia 1999, e La Mummia
– Il ritorno, 2001, entrambi di Stephen Sommers, e il bluff massmediatico
di The Blair Witch Project di Myrick e Sanchez, 1999), virando nettamente
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Itinerari Mediali
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Greta Garbo
ultimi anni ha accolto nuove sfumature
caratteriali nel proprio immaginario recitativo, nuove modalità espressive, provenienti da un contesto sociale mutato con i
tempi e molto più imbastardito, maggiormente aderenti ai gusti trasversali del pubblico del Terzo millennio. Per un George
Clooney che, attingendo al passato, rifà
Clark Gable con tanto di baffetti e brillantina nei capelli in Fratello, dove sei? (di Joel
Coen, 2000), altri interpreti, come Johnny
Depp, invertono la rotta fra perdenti e vincenti, impersonando con efficacia la figura
del loser. Facendo coabitare l’allure seduttiva ed elegante ereditata da un Cary Grant e il fascino muscolare di un Sylvester
Stallone o di un Bruce Willis con una postmoderna vocazione alla sconfitta.
Al cuore, comunque, non si comanda. È una regola che a Hollywood conoscono bene. Specialmente da quando, nel 1989, il successo clamoroso di Harry
ti presento Sally (diretto da Rob Reiner) ha riacceso l’interesse produttivo verso
le commedie sentimentali, sofisticate e romantiche, spentosi progressivamente
nel decennio precedente. Da Insonnia d’amore (1993) e C’è post@ per te (1998),
entrambi di Nora Ephron, a Pretty Woman (1990) e il suo alter ego Se scappi ti
sposo (1999), entrambi di Garry Marshall, passando per Il matrimonio del mio
migliore amico (di Paul Hogan, 1996) e Qualcosa è cambiato (di James L. Brooks,
1997), lungo tutto l’arco degli anni Novanta Hollywood ha ripreso contatto
con le scaramucce e i battibecchi amorosi, costantemente ripagata dall’affetto
del pubblico. Un pubblico vasto e onnivoro, che non ha trascurato nemmeno
le declinazioni più struggenti e larmoyantes (Autumn in New York di Joan Chen,
2000), o il demenziale puro (Tutti pazzi per Mary dei fratelli Farrelly, 1998, o
American Pie di Paul Weitz, 1999) e la sua variante cialtronesco-citazionistica
(Scary Movie, di Keenen Ivory Wayans, 2000)
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Saggi
Betty Davis
verso il parapsicologico e il metafisico (Il
sesto senso, 1999, e Umbreakable, 2000,
entrambi di M. Night Shyamalan, ma
anche The Others di Alejandro Amenabar,
2001 e Vanilla Sky di Cameron Crowe,
2001), il cinema d’animazione non conosce crisi, trascinando al cinema grandi e
piccini divisi equamente fra Disney e Dreamworks.
Fantascienza e azione, inoltre, hanno
proseguito a intersecare senza sosta i propri,
rispettivi territori, centrifugando spesso
insieme echi fumettistici e accelerate da
videogame, ripiegando su se stessi e sulla
propria esuberanza tecnologica la giustificazione della loro medesima ragion d’essere. Semplificato al massimo l’intreccio narrativo o, al contrario, annacquato
con mille rivoli periferici il nucleo della vicenda, film come La tempesta perfetta
(di Wofgang Petersen, 2000) o Armageddon (di Michael Bay, 1998) hanno fatto
breccia come prodotti di puro consumo visivo, girandola rutilante di pirotecniche magie della Silicon Valley.
Con un occhio sempre attento alla sorellastra tv (Da morire di Gus Van Sant,
1995, The Truman Show di Peter Weir, 1998, Pleasantville di Gary Ross, 1998,
EdTv di Ron Howard, 1999, e Betty Love di Neil Labute, 2000), Hollywood
cerca di risolvere la crisi dei generi classici celebrando se stessa con una pioggia
di sequel e remake (da Scream 3 di Wes Craven, 2000, a Il pianeta delle scimmie
di Tim Burton, 2001). Fino al punto di non ritorno, la fotocopia integrale di un
capolavoro come Psycho di Alfred Hitchcock, firmata da Gus Van Sant nel 1999.
Stessa sceneggiatura, stessa scelta di inquadrature, stessa partitura musicale. Un
perfetto replicante nell’universo dei possibili. Là dove finzione e realtà giocano di
sponda rimpallandosi parentele e filiazioni, genealogie e certificati di nascita. Al
punto che le immagini delle Twin Towers in fiamme, l’11 settembre, sventrate da
un duplice missile alato, non somigliavano nemmeno all’ennesimo, straordinario
documento filmato della Cnn. Vero, maledettamente vero. Talmente vero da farci pensare,
Paolo Perrone
anche se solo per un millesimo di secondo, di
Giornalista de «Il Nostro Tempo»,
averlo già abbondantemente visto in qualche
collabora con «Filmcronache» e
brutto film di Hollywood.
Radio 101 Milano.
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F ilm A n a lis i
Il favoloso
mondo di
Amélie
D
opo una brillantissima stagione francese ed europea,
Il favoloso mondo di Amélie
arriva anche in Italia: la storia di
una ragazza che vota se stessa a far
del bene agli altri e che decide di
prendere al volo la storia d’amore
della sua vita. Sullo sfondo, alcuni
angoli caratteristici di una Parigi da
cartolina in stile retrò.
CRONACA
DI UN
SUCCESSO ANNUNCIATO
Con l’immancabile esibizione di orgoglio nazionale, la stampa francese ha
strombazzato il successo inaspettato del
film più buonista dell’anno. Uscito ad
aprile, il film ha subito diviso pubblico e critica francesi: Claude Lelouch
si è addirittura sbilanciato a definire il
quarto film di Jeunet come una rivoluzione pari a quella operata nell’ambito
FABULEAUX DESTIN D’AMÉLIE
POUFRANCIA, 2001)
REGIA: Jean-Pierre Jeunet
INTERPRETI: Audrey Tautou,
Mathieu Kassovitz, Rufus,
Dominique Pinon, Jamel
Debboute, Urbain Cancelier
SCENEGGIATURA: Jean-Pierre
Jeunet, Guillame Laurant
FOTOGRAFIA: Bruno Delbonnel
MONTAGGIO: Hervé Schneid
MUSICA: Yann Tiersen
PRODUZIONE: Claude Ossard
DISTRIBUZIONE: Bim
DURATA: 2h
LAIN,
Film Analisi
(LE
dell’arte figurativa dal cubismo.
Poi si è diffusa la notizia della proiezione privata all’Eliseo per Chirac.
Infine, la polemica sollevata dalle osservazioni di Serge Kagansky (redattore
della rivista «Les Inrockuptibles»), che
dalle pagine di «Libération» ha accusato
il film di dare un’immagine retrograda
e idealizzata della Francia e di essere
uno spot della destra lepenista. Polemiche a parte, il film dividerà anche in
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La sua reazione
a un habitat familiare
privo di affetto
le farà prendere
la decisione
di prodigarsi a
risolvere i problemi
degli altri
Italia: da una parte ci saranno quelli
disposti a lasciarsi trascinare dalla caritatevole e un po’ dolciastra missione
della protagonista. Dall’altra, gli scettici, i cinici e gli allergici ai film francesi e a quell’aria un po’ svagata e
minimalista che circola da quelle parti.
Cerchiamo di capire se si tratta dell’ennesima manifestazione di «gallismo» o
meno.
REALISMO
MAGICO
Jean-Pierre Jeunet è noto ai cinefili
di tutto il mondo per un piccolo
film cult di inizio anni Novanta, Delicatessen, scritto a quattro mani col
disegnatore Marc Caro, e al quale Il
favoloso mondo di Amélie deve molto in
quanto a costruzione dell’inquadratura.
Il mondo di Jeunet (che in Amélie e
nel suo entourage si proietta con tutte le
sue manie e le sue predilezioni) è veramente una realtà a se stante: ipercromatica, comica, leggera ma razionalmente
organizzata. Anche in Delicatessen (in
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Itinerari Mediali
Con Nino (Mathieu Kassovitz) entra
l’amore nella vita di Amélie.
mezzo ci sono stati La cité des enfants
perdus e il capitolo hollywoodiano di
Alien 4 – La clonazione) la scelta andava
nella direzione di un mondo fumettistico, dall’artificiosità esibita e dai personaggi privi di chiaroscuri. E anche
qui (la storia è ambientata in una ripulita Parigi di fine anni Novanta) l’estetica è la stessa: il mondo di Amélie,
del resto, non può che essere «favoloso», e solo nelle favole il protagonista
ha poteri soprannaturali e fa marciare
l’azione contro ogni verosimiglianza.
La scelta è obbligatoria: o lasciarsi
andare alle divagazioni e alle libertà
di regia e sceneggiatura, o rimanere
fuori dal gioco. L’inizio è folgorante per
senso del comico, gusto cromatico e
sintesi narrativa: in pochi minuti vengono tratteggiate la storia e le ossessioni
di una bambina dall’infanzia né felice
né infelice, piuttosto, fredda. La sua
reazione a un habitat familiare privo
di affetto le farà prendere, improvvisamente e casualmente, la decisione di
prodigarsi a risolvere i problemi degli
altri.
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Amélie (Audrey Tautou): eroina del
buonismo post-postmoderno.
tamente romantico del
film, ci sarebbero altri
indizi a confermarlo:
la colonna sonora parigina e «truffautiana»
di Yann Tiersen, che
accompagna con allegre partiture al piano
le corse di Amélie, il
riferimento ai dipinti di Renoir (padre
del regista Jean), il fatto che Jeunet e
il suo co-sceneggiatore Guillame Laurant avessero deciso in prima istanza il
nome di Garance per la protagonista
(lo stesso di Arletty in Amanti perduti
di Marcel Carné). Dati di fronte ai
quali gli attacchi di lepenismo al film
risultano a dir poco strumentali e perdono senso.
UN’EROINA
Film Analisi
Una storia che
riporta la ducia
nel genere umano
e la voglia
di comunicare
La «crisi» della giovane protagonista si
rivela quando l’amore
entra nella sua vita,
grazie all’arrivo di
Nino, commesso in
un pornoshop, che
ha la mania di collezionare le fototessere
smarrite dalla gente nei pressi delle stazioni. Detto questo, l’associazione al
cosiddetto «realismo magico» o «poetico» del cinema francese degli anni
Trenta comincia a giustificarsi. Amélie
vive nell’oggi, ma ignora e combatte
a modo suo le ingiustizie di cui è
testimone: punisce il droghiere presuntuoso che maltratta il suo commesso, ristabilisce l’armonia nel bar
dove lavora e nel proprio condominio,
indirizzando per il Bene degli altri le
correnti d’amore. Se non fosse per l’evidente impianto irrealistico e spudora-
MINIMALE
Il successo di Il favoloso mondo di
Amélie si può spiegare solo in parte col
bisogno di ottimismo che circola dopo
la chiusura di un anno contrassegnato
dalla guerra e dagli attentati terroristici
agli USA. È un misto di «francesità» da
esportazione, ben confezionata, e una
rassicurante favola sulle idiosincrasie
comuni (ogni personaggio ne è affetto)
che si risolvono, prima o poi, in qualcosa di positivo. Una storia che riporta
la fiducia nel genere umano e la voglia
di comunicare, di «resettare» la propria coscienza e di darsi degli obiettivi, delle scadenze a favore del prossimo. Indubbiamente gran parte della
«favolosità» è dovuta all’accurato lavoro
Itinerari Mediali
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della messa in scena e della scenografia
(Jeunet è noto per la sua meticolosità).
Ma anche all’espressione trasognata e
accattivante della (finora) sconosciuta
Audrey Tautou, eroina del buonismo
post-postmoderno. Inoltre, è anche un
compiaciuto esercizio stilistico e un
cosciente gioco di rimandi cinefili.
A partire dalla citazione diretta della
corsa di Jules e Jim di François Truffaut, il maestro al quale la generazione
successiva di cineasti (e non solo francofoni) guarda come a un modello
insuperabile e a un esempio di grazia
e di amore per la vita (e di amore
per il cinema). La gioia di vivere che
pervade l’opera truffautiana da troppo
tempo è assente dagli schermi francesi,
in quest’ultima stagione occupati da
prodotti nazionali impegnati sul versante storico/fantasy (Belfagor, Il patto
dei lupi), o tradizionalmente attaccati
alla commedia di stampo teatrale (La
cena dei cretini, Il gusto degli altri, L’apparenza inganna, solo per fare alcuni
titoli). E a fiutarne l’assenza è stato
proprio Jeunet, che ha sfruttato sapien-
Nella notte del 31 agosto Amélie decide
la sua missione: «aggiustare la vita
degli altri».
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Itinerari Mediali
temente la sua esperienza ventennale di
regista pubblicitario per fare dei primi
venti minuti del film un’irresistibile
crescendo di comicità, al servizio di un
soggetto che si presta a invenzioni fantastiche e a gag a catena.
Il rimpianto di Jeunet è per un
mondo esteticamente più bello di
quello attuale, e quindi anche per un
tipo di cinema: le accelerazioni da
comiche del muto, il casting attento
a scovare tipi fisici eccezionali (come
Collignon, il commerciante arido e tracagnotto, e Joseph, l’innamorato geloso
ossessivo) rivendicano il bisogno di una
vivacità che ormai si è persa non solo
nei rapporti interpersonali, caratterizzati da un’omologazione e da un’indifferenza sempre maggiori, ma nel
cinema stesso, attratto da una concezione di cinema sempre meno autoriale
e sempre più digitale, con la pretesa
di una verosimiglianza spesso ingannevole o autoreferenziale. Amélie spinge
a far sognare, alla Capra, l’esistenza
di un angelo custode. Fa piazza pulita
dell’incomunicabilità e dell’alienazione
di inizio millennio, cancella la violenza rovesciata in riso del cinema
contemporaneo. Collega europea di
Forrest Gump, Amélie si regala completamente alla platea come un esempio gradevole e possibile, praticabile,
di emancipazione dalla timidezza e dall’ingombro dei propri ricordi. Perché,
citando Thorveau, «vive la vita che ha
immaginato».
Marzo-Aprile 2002
Raffaella Giancristofaro