Seneca, Naturales Quaestiones I, 3, 4-5
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Seneca, Naturales Quaestiones I, 3, 4-5
Seneca, Naturales Quaestiones I, 3, 4-5 Poterat enim uerum uideri, si arcus duos tantum haberet colores, si ex lumine umbraque constaret. Nunc diuersi niteant cum mille colores, Transitus ipse tamen spectantia lumina fallit: Vsque adeo quod tangit idem est, tamen ultima distant. Videmus in eo aliquid flammei, aliquid lutei, aliquid caerulei et alia in picturae modum subtilibus lineis ducta. Vt ait poeta, an dissimiles colores sint, scire non possis, nisi cum primis extrema contuleris. Nam commissura decipit: usque eo mira arte naturae quod a simillimo coepit, in dissimillimo desinit. Quid ergo istic duo colores faciunt lucis atque umbrae, cum innumerabilium ratio reddenda sit? “In effetti la spiegazione avrebbe potuto sembrare giusta se l’arcobaleno avesse soltanto due colori, se cioè fosse formato solo di luce e di ombra; invece Benché vi splendano mille colori, dall’uno all’altro il salto inganna l’occhio di chi guarda: tanto ciascuno somiglia al suo vicino, ma distano gli estremi1. Vi riconosciamo un po’ di rosso-vivo, un po di giallo-arancio, un po’ di blu e altri colori tracciati con linee sottili come in un arazzo; come dice il poeta, non sarebbe possibile percepire la diversità del colore, a meno che non si confrontino i primi con gli ultimi. E’ infatti la loro vicinanza che inganna: a tal punto, per mirabile arte della natura, la gradazione comincia dal colore più simile al primo e termina con il più dissimile. A che ci servono dunque due colori, la luce e l’ombra, dato che dobbiamo giustificarne tanti?” (trad. di P. Parroni, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, 2002) 1 Ov. Met. VI 65-67.