Stato biodiversita` in Italia

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Stato biodiversita` in Italia
Società Botanica Italiana
Stato della BIODIVERSITÀ in ITALIA
9 788876 215148 >
Contributo alla strategia nazionale
per la biodiversità
ISBN 88-7621-514-X
Stato della
BIODIVERSITÀ in
ITALIA
Contributo alla strategia nazionale
per la biodiversità
a cura di
Carlo BLASI (ed. in chief )
Luigi BOITANI
Sandro LA POSTA
Fausto MANES
Marco MARCHETTI
PALOMBI EDITORI
STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
CONTRIBUTO ALLA STRATEGIA NAZIONALE PER LA BIODIVERSITÀ
a cura di
CARLO BLASI, LUIGI BOITANI, SANDRO LA POSTA, FAUSTO MANES E MARCO MARCHETTI
Autori
Giovanna Abbate (Roma), Nadia Abdelahad (Roma), Michele Aleffi (Camerino), Alessandro Alessandrini (Bologna),
Marisa Amadei (Roma), Ilaria Anzellotti (Roma), Roberto Argano (Roma), Paolo Audisio (Roma), Giorgio Bazzichelli
(Roma), Nicola Baccetti (Bologna), Emilio Balletto (Torino), Anna Barbati (Firenze), Giuseppe Barbera (Palermo),
Genuario Belmonte (Lecce), Annarosa Bernicchia (Bologna), Carlo Nike Bianchi (Genova), Edoardo Biondi (Ancona),
Carlo Blasi (Roma), Francesca Blasi (Roma), Marco Bodon (Genova), Ferdinando Boero (Lecce), Marco Alberto
Bologna (Roma), Giulia Bonella (Roma), Gabriele Bucci (Firenze), Luciano Bullini (Roma), Simona Bussotti (Lecce),
Giovanni Cannata (Campobasso), Francesca Capogna (Roma), Claudia Caporali (Viterbo), Roberto Caracciolo
(Roma), Giuseppe Maria Carpaneto (Roma), Laura Celesti Grapow (Roma), Orazio Ciancio (Firenze), Simone
Cianfanelli (Firenze), Fabio Conti (Camerino), Mario Cormaci (Catania), Piermaria Corona (Viterbo), Maria Fiore
Crescente (Roma), Piera Di Marzio (Isernia), Eugenio Dupré (Roma), Goffredo Filibeck (Roma), Valeria Filipello
Marchisio (Torino), Romolo Fochetti (Viterbo), Simonetta Fraschetti (Lecce), Giovanni Furnari (Catania), Gilberto
Gandolfi (Parma), Giuseppe Giaccone (Catania), Folco Giusti (Siena), Emanuela Giovi (Roma), Stefano Gomes
(Roma), Paolo Guidetti (Lecce), Loretta Gratani (Roma), Fausto Manes (Roma), Giuseppe Manganelli (Siena), Davide
Marino (Campobasso), Tommaso La Mantia (Palermo), Marco Marchetti (Isernia), Michela Marignani (Roma),
Miriam Marta (Roma), Stefano Martellos (Trieste), Leopoldo Michetti (Roma), Alessandro Minelli (Padova), Giulia
Mo (Roma), Carla Morri (Genova), Maria Cristina Mosco (Roma), Pier Luigi Nimis (Trieste), Susanna Nocentini
(Firenze), Giuseppe Notarbartolo di Sciara (Milano), Anna Occhipinti (Pavia), Marco Oliverio (Roma), Silvano Onofri
(Viterbo), Gianmarco Paris (Milano), Claudia Perini (Siena), Bruno Petriccione (Roma), Francesco Pinchera (Roma),
Enrico Porceddu (Viterbo), Baldassarre Portolano (Palermo), Fabio Renzi (Roma), Caterina Ripa (Viterbo), Riccardo
Scalera (Roma), Gian Tommaso Scarascia Mugnozza (Roma), Giuseppe Scarascia Mugnozza (Terni), Anna Scoppola
(Viterbo), Fabio Stoch (Roma), Oronzo Antonio Tanzarella (Viterbo), Nicoletta Tartaglini (Roma), Chantal Treves
(Aosta), Marino Vacchi (Roma), Giuseppe Venturella (Palermo), Fiorella Villani (Terni), Augusto Vigna Taglianti
(Roma), Marzio Zapparoli (Viterbo), Laura Zucconi (Viterbo).
PALOMBI EDITORI
A cura di:
Carlo BLASI (editor in chief )
Luigi BOITANI
Sandro LA POSTA
Fausto MANES
Marco MARCHETTI
Coordinamento editoriale:
Sandro BONACQUISTI, Piera DI MARZIO, Eugenio DUPRÉ, Nicoletta TARTAGLINI
Gruppo redazionale:
Patrizia ANGELOTTI, Ilaria ANZELLOTTI, Francesca BLASI, Goffredo FILIBECK, Raffaella FRONDONI,
Michela MARIGNANI, Andriy MELEKH
© 2005
Tutti i diritti riservati:
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio
Direzione per la Protezione della Natura
Progettazione, realizzazione grafica
e assistenza redazionale a cura di
Palombi & Partner S.r.l.
Via Timavo 12, 00195 - Roma
www.palombieditori.it
[email protected]
ISBN 88-7621-514-X
Foto di copertina:
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1. Parco Nazionale del Circeo - Mauro IBERITE
2. Riserva Naturale Montagne della Duchessa - Sandro BONACQUISTI
3. Pulsatilla alpina (L.) Delarbre subsp. millefoliata (Bertol.) D.M. Moser - Emanuela GIOVI
4. Larus audouinii - Leonardo ROSATI
5. Prostheceraeus roseus - Carla MORRI
6. Xanthoria fallax - Pier Luigi NIMIS
7. Maschio adulto del genere Baetis - Romolo FOCHETTI
Il contenuto del presente Volume rappresenta un contributo fondamentale per la realizzazione e l’implementazione della Strategia nazionale sulla Biodiversità, anche in considerazione dell’obiettivo strategico
globale denominato Obiettivo 2010 finalizzato ad una significativa riduzione della perdita di biodiversità
entro l’anno 2010.
Tale scadenza temporale sta impegnando tutte le Parti contraenti della Convenzione sulla Biodiversità nel
lavoro di revisione delle azioni intraprese.
Con la Convenzione di Rio de Janeiro il termine biodiversità si è diffuso considerevolmente; oggi non appartiene esclusivamente alle sedi accademiche e scientifiche, ma anche a quelle istituzionali degli Stati, dei
Governi e della società civile che insieme hanno formalizzato a livello globale l’importanza del valore intrinseco degli elementi che compongono la biodiversità, consapevoli che la conservazione della stessa, a tutti i livelli, sia indispensabile per il mantenimento della vita sul Pianeta.
Le varie sezioni del Volume permettono di mettere a punto e divulgare sia lo stato delle conoscenze fino
ad oggi raggiunto, grazie anche al notevole sforzo compiuto dalle Amministrazioni pubbliche e dalla società
civile nell’ultimo decennio, sia la necessità di intraprendere nuove azioni di coordinamento tra i vari soggetti coinvolti e conseguentemente di adeguare la normativa nazionale a vari livelli.
Il percorso delineato in particolare dalle sezioni relative alle ragioni della biodiversità e quelle rivolte alle
maggiori cause di perdita della biodiversità, pone le basi per costruire, a livello nazionale, un nuovo punto di
partenza per la programmazione futura a breve, medio e lungo termine.
La base conoscitiva, che il mondo della ricerca nazionale ci offre attraverso questo volume, è fondamentale per indirizzare le azioni strategiche attraverso l’elaborazione a livello sia nazionale che locale, di piani e programmi frutto di una collaborazione il più ampia possibile con tutti i soggetti coinvolti.
La Direzione per la Protezione della Natura del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, Autorità nazionale competente per la Biodiversità, ha già avviato il processo di confronto e consultazione tra le
altre Amministrazioni competenti e vari stakeholders; questo stesso volume ne è un primo risultato e colgo
l’occasione per ringraziare il mondo accademico e scientifico per lo sforzo compiuto.
Un ultimo pensiero, non per importanza, è rivolto anche e soprattutto ai non addetti ai lavori, singoli
cittadini, studenti, appassionati o semplicemente curiosi di conoscere aspetti fino ad ora “nascosti” dell’inestimabile patrimonio che caratterizza il nostro Paese; il contenuto di questo volume vuole raggiungere infatti un ulteriore obiettivo che è quello di contribuire ad aumentare in tutti, attraverso la conoscenza, la condivisione ed il senso di responsabilità nei confronti di questa ricchezza comune da trasmettere alle generazioni future.
Aldo COSENTINO
Il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio ha da sempre attivato collaborazioni con Società
scientifiche, Dipartimenti Universitari ed Enti di ricerca per favorire l’attuazione degli impegni assunti nel
quadro delle Direttive e Convenzioni internazionali tra cui, a titolo esemplificativo, la Convenzione di Berna, la Direttiva Habitat (Rete Natura2000), la Convenzione sulla Diversità Biologica, il Protocollo di Kyoto e la Convezione Europea sul Paesaggio.
Sono stati quindi attivati programmi di interesse scientifico e culturale quali il completamento delle conoscenze naturalistiche, la prevenzione e il recupero delle aree incendiate, la realizzazione della rete Natura
2000, le linee guida per la gestione dei SIC, la protezione e la gestione delle aree forestali e, oggetto del presente volume, la situazione della biodiversità in Italia.
Il testo Stato della Biodiversità in Italia illustra con rigore scientifico e sintesi divulgativa la biodiversità presente in Italia trattando in prevalenza della flora e della fauna, con indicazioni sulla vegetazione, gli habitat
di interesse comunitario e il paesaggio agrario e forestale. Offre quindi ampio spazio alla flora vascolare, alle
briofite, ai funghi, ai licheni e alle alghe di acqua dolce e marine, senza tralasciare la fauna terrestre, la fauna
delle acque dolci e quella marina e delle acque salmastre. Sua caratteristica peculiare è quella di tenere presente tutti gli elementi che determinano sia la ricchezza biologica (clima, biogeografia, genetica, azione dell’uomo, ecc.) che la riduzione e, in alcuni casi, la scomparsa (cambiamento di uso del suolo e frammentazione, cambiamenti globali, presenza di specie esotiche, ecc.) di biodiversità.
Per la raccolta organica delle conoscenze, oltre ovviamente a quelle già note da decenni e legate alla prassi tradizionale della ricerca, molto si deve alla convenzione “Completamento delle Conoscenze Naturalistiche in Italia” stipulata dalla Direzione per la Protezione della Natura con alcuni Dipartimenti universitari
(delle Università della Calabria, di Firenze, di Genova, di Parma e di Roma) e l’Istituto di Ecologia ed Idrologia Forestale del CNR (Cosenza). La convenzione, coordinata dal Dipartimento di Biologia Vegetale dell’Università “La Sapienza”, dopo il Programma Finalizzato “Promozione della Qualità dell’Ambiente” del
CNR è senza dubbio il progetto di ricerca naturalistico più complesso e integrato realizzato di recente a scala nazionale. I temi principali di tale progetto sono stati le serie di vegetazione e flora di particolare interesse
nazionale, la carta dell’uso del suolo, l’ampliamento delle conoscenze zoologiche, la carta del fitoclima d’Italia, le biocenosi marine costiere e le zone umide.
L’opera in oggetto è anche il risultato di un modello di collaborazione ampliamente collaudata con i dirigenti e i funzionari della Direzione per la Protezione della Natura che hanno promosso altri volumi essenziali per la conoscenza della biodiversità, tra cui sono da segnalare la Checklist delle specie della fauna italiana,
An annotated checklist of the Italian vascular flora e lo Stato delle conoscenze floristiche d’Italia.
Con il volume Stato della Biodiversità in Italia si sono raccolte informazioni per la valutazione delle criticità e pertanto si hanno ora gli elementi per definire, in stretta collaborazione con le Regioni e gli Enti locali, i Piani di Azione che potranno fare riferimento a informazioni qualitative e quantitative a scala di specie,
di comunità e di paesaggio.
Per sostenere questa nuova fase dedicata ai Piani di Azione, che nel loro insieme andranno a definire la
Strategia Nazionale per la Biodiversità, la Direzione per la Protezione della Natura e il Centro Interuniversitario “Biodiversità, Fitosociologia ed Ecologia del Paesaggio” dell’Università “La Sapienza”, a cui fanno riferimento numerosi Dipartimenti universitari e Società scientifiche, hanno creduto opportuno attivare alcune
nuove iniziative più coerenti con la fase attuale dedicata, oltre che agli approfondimenti di natura tassono-
mica e sintassonomica, alla valutazione e al monitoraggio dei cambiamenti. Si tratta di nuovi programmi
(coerenti con la strategia e gli obiettivi che la CBD ha individuato per il 2010) dedicati alla valutazione dello stato di conservazione dei Parchi nazionali e dei paesaggi d’Italia, alla conoscenza della rete dei boschi vetusti (per ora limitata ai Parchi nazionali, ma presto ampliata a tutto il Paese), al censimento delle specie esotiche (con particolare riferimento alla fascia costiera e ai Parchi marini) e alla rete delle IPAs (Important Plant
Areas). Con questi programmi si cercherà di ottimizzare le conoscenze acquisite finalizzandole al monitoraggio e all’individuazione, anche cartografica, delle aree di particolare interesse conservazionistico o biogeografico così come richiesto dalla CBD (strategia 2010), da Planta Europa e dall’IUCN. In questo modo si fornirà anche una risposta di dettaglio alla caratterizzazione delle ecoregioni definite, per ora in modo molto generale, a scala planetaria.
Nell’attività formativa scolastica e universitaria, infine, con il volume Stato della Biodiversità in Italia e la
pubblicazione degli altri volumi dedicati alla biodiversità floristica e faunistica italiana sarà possibile integrare i testi di provenienza internazionale con indicazioni originali sulla flora, la vegetazione, la fauna e i paesaggi del nostro Paese. Il bagaglio cartografico naturalistico realizzato negli ultimi dieci anni renderà possibile
interessanti correlazioni sistemiche con unità territoriali e paesaggistiche ottenute mediante la classificazione
gerarchica del territorio.
Stato della Biodiversità in Italia è un’opera realizzata secondo la visione ecosistemica promossa dalla CBD,
approccio essenziale per la formazione del naturalista, del biologo, dell’ecologo, dell’ambientalista, dell’agronomo e del forestale, ma anche per la formazione di tutte le professioni che utilizzano i principi della biologia della conservazione e dell’ecologia del paesaggio e si occupano di valutazione dello stato dell’ambiente, di
pianificazione e di progettazione ambientale a scala territoriale e paesaggistica.
Durante la stesura dei testi e la raccolta dei contributi, ci sono stati momenti difficili in cui ho pensato che
non saremmo riusciti a terminare il lavoro, momenti in cui mi trovavo a ripetere “mai più un progetto editoriale così complesso e articolato”. L’uscita del volume e la prossima pubblicazione in lingua inglese hanno cancellato il ricordo dei momenti difficili e pertanto si può pensare a nuovi percorsi editoriali.
Stato della Biodiversità in Italia è stato realizzato da 89 Autori di diversa estrazione scientifica. A loro va il
più sentito ringraziamento per aver lavorato con passione ed entusiasmo coscienti dell’importanza culturale
e scientifica dell’opera.
Un ringraziamento particolare al Direttore Generale, Aldo Cosentino, ai suoi collaboratori dirigenti e funzionari per il sostegno e i suggerimenti, agli amici Luigi Boitani, Sandro La Posta, Fausto Manes e Marco
Marchetti con i quali ho condiviso la realizzazione dell’opera e a tutti coloro, tra cui in particolare Piera di
Marzio, che ne hanno curato il coordinamento editoriale e redazionale.
Carlo BLASI
INDICE
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CONVENZIONI INTERNAZIONALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La conferenza di Stoccolma e la nascita del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La conferenza di Rio de Janeiro e la convenzione sulla diversità biologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il Consiglio d’Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sintesi del percorso evolutivo delle convenzioni internazionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Recepimento delle convenzioni nell’Unione Europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Recepimento della convenzione sulla biodiversità in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CONOSCERE LA BIODIVERSITÀ PER CONSERVARLA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lo sviluppo sostenibile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I “numeri” della biodiversità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
BIODIVERSITÀ E BIOGEOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Biogeografia e ricchezza di specie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Aspetti storici del popolamento animale e vegetale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Modelli di distribuzione della fauna e della flora . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
BIODIVERSITÀ E CLIMA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il clima d’Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
BIODIVERSITÀ E GENETICA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Diversità genetica e conservazione della biodiversità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Diversità genetica delle specie vegetali di interesse agrario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Diversità genetica delle specie arboree forestali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
BIODIVERSITÀ E PAESAGGIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La Convenzione Europea del Paesaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I Paesaggi d’Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CAMBIAMENTI DI USO DEL SUOLO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Principali trasformazioni del paesaggio italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Effetti dei cambiamenti di uso del suolo sulla biodiversità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CAMBIAMENTI CLIMATICI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Variazioni climatiche documentate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Fenologia e cambiamenti climatici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CAMBIAMENTI NELLA CONCENTRAZIONE DI CO2 E DEPOSIZIONI AZOTATE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Concentrazione di CO2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Aumento della concentrazione di CO2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Deposizioni azotate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Emissioni di ossidi di azoto (NOx), deposizioni azotate e acidificazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SPECIE ESOTICHE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Fauna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Flora . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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FLORA E VEGETAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149
FLORA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149
Piante vascolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149
Briofite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Funghi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Licheni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Alghe d’acqua dolce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Alghe e le piante vascolari marine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VEGETAZIONE E HABITAT PRIORITARI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La vegetazione nella Direttiva 92/43/EEC . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Gli habitat della Direttiva europea in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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FAUNA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
FAUNA TERRESTRE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Stato delle conoscenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Molluschi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Coleotteri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lepidotteri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Anfibi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Rettili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Uccelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mammiferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
FAUNA DELLE ACQUE DOLCI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Stato delle conoscenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Poriferi, Cnidari, Turbellari, Nematodi, Tardigradi, Gastrotrichi, Rotiferi, Irudinei, Oligocheti . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Molluschi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Gruppi vari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Crostacei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Insetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pesci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Anfibi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Rettili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Uccelli acquatici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mammiferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
FAUNA MARINA E DELLE ACQUE SALMASTRE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Stato delle conoscenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Plancton . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Benthos . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Gruppi vari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Molluschi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Artropodi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pesci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Rettili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Uccelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mammiferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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312
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SISTEMI FORESTALI E AGRARI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SISTEMI FORESTALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’approccio ecosistemico in selvicoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il patrimonio forestale italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Gestione selvicolturale e tipologie forestali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SISTEMI AGRARI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
361
361
361
364
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389
CONSERVAZIONE E MONITORAGGIO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CONSERVAZIONE IN SITU . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I primi Parchi Nazionali: dal 1922 al 1968 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La spinta delle regioni: dal 1967 al 1990 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La legge quadro nazionale sulle aree protette: dagli anni ’90 ad oggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Aree protette e Rete Natura2000 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CONSERVAZIONE EX SITU . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SINTESI SUI PRINCIPALI PIANI E PROGRAMMI DI MONITORAGGIO A LIVELLO INTERNAZIONALE E NAZIONALE . . . . . . . .
Il monitoraggio nell’ambito dell’azione conoscitiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Iniziative nazionali e sopranazionali per il monitoraggio della biodiversità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Le iniziative italiane curate dal sistema agenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Reti di monitoraggio coordinate dal Corpo Forestale dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La convenzione Completamento delle Conoscenze Naturalistiche di base . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il progetto Carta della Natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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409
409
410
411
412
415
420
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423
434
445
450
453
ACRONIMI E SITI INTERNET . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 457
ELENCO DEGLI AUTORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 465
Schede tematiche
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE
SINTESI DELLE DECISIONI ADOTTATE DURANTE LE COP . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’APPROCCIO ECOSISTEMICO NELLA CBD . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GLI ECOSISTEMI MONTANI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
IL DOCUMENTO “LINEE STRATEGICHE PER L’ATTUAZIONE DELLA CONVENZIONE DI RIO DE JANEIRO E PER LA REDAZIONE
DEL PIANO NAZIONALE SULLA BIODIVERSITÀ” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LA RIFORMA DELLA POLITICA AGRICOLA COMUNE: DA AGENDA 2000 AL DECRETO FISCHLER . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ
DALL’IDENTIFICAZIONE DELLE CAUSE ALLA INDIVIDUAZIONE DEI PUNTI SENSIBILI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LA BIODIVERSITÀ INTRASPECIFICA DEGLI ALBERI FORESTALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SVILUPPI E PROSPETTIVE SULLA BIODIVERSITÀ GENETICA INTRASPECIFICA E FUNZIONALE DELLE SPECIE ARBOREE FORESTALI . . . . . . . . . .
20
22
23
31
32
38
91
94
FLORA E VEGETAZIONE
LE BRIOFITE COME BIOINDICATORI DELL’INQUINAMENTO ATMOSFERICO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169
I LICHENI COME BIOINDICATORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 186
LE ALGHE D’ACQUA DOLCE COME BIOINDICATORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191
SISTEMI FORESTALI E AGRARI
STATO DI PROTEZIONE DELLE FORESTE ITALIANE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 366
I CENTRI NAZIONALI PER LO STUDIO E LA CONSERVAZIONE DELLA BIODIVERSITÀ FORESTALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 385
CONSERVAZIONE E MONITORAGGIO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
LA CONSERVAZIONE EX SITU DELLA FAUNA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 418
DALLA CHECKLIST A CKMAP: L’INFORMATIZZAZIONE DELLA FAUNA ITALIANA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 452
GIS NATURA: IL GIS DELLE CONOSCENZE NATURALISTICHE IN ITALIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 455
Flora, Fauna, Vegetazione e Habitat •13
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE
E LO SVILUPPO SOSTENIBILE
CONVENZIONI INTERNAZIONALI
[Stefano Gomes, Goffredo Filibeck, Michela Marignani]
Nel 1964 si verificò uno dei primi tentativi di intervenire sull’organizzazione dell’ordine economico internazionale tenendo conto dei problemi posti dai Paesi in via
di sviluppo (PVS). L’assemblea Generale istituì la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo
(UNCTAD), al fine di promuovere una più equa distribuzione delle ricchezze tra il Nord e il Sud del mondo1.
Tuttavia, lo sforzo politico svolto dagli Organismi internazionali per mitigare lo squilibrio economico e sociale
non ha portato significativi risultati.
Il primo decennio della politica per lo sviluppo, perseguita dall’ONU negli anni sessanta, ha enfatizzato uno
sviluppo di tipo industriale e urbano che, contrariamente alle aspettative, ha fatto registrare una diminuzione del
tasso di crescita economica e un incremento demografico di tipo esponenziale. In tale situazione, molti Paesi non
riuscirono a soddisfare la domanda alimentare interna.
Con il fallimento della politica di questo primo decennio, venne effettuata una revisione critica del processo di
sviluppo. Si configura una corrente di pensiero che sostiene la necessità di una nuova formulazione degli obiettivi e
di una strategia basata sull’utilizzo delle risorse rinnovabili.
1
Nel 1966 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la Risoluzione
n. 2029, ritenne necessario creare un Organo con funzioni sussidiarie
per garantire l’assistenza ai PVS e per accelerare il loro processo di
crescita economica e sociale, con particolare attenzione ai problemi
dei Paesi sviluppatisi di recente, denominato Programma per lo Sviluppo
delle Nazioni Unite (United Nation Development Programme - UNDP).
La maggior parte dei progetti elaborati dall’UNDP sono assicurati
dalle Agenzie specializzate del sistema delle Nazioni Unite come la
FAO, l’Organizzazione per lo Sviluppo Industriale (UNIDO), ecc.
Questo approccio ha delineato la filosofia del secondo
decennio: nasce il concetto di sviluppo ecologico, che alla
fine degli anni ‘80 assumerà la denominazione di sviluppo sostenibile, cioè quel tipo di sviluppo che mantiene a
lungo termine inalterate le potenzialità delle risorse naturali e ambientali necessarie a garantire un adeguato livello di benessere e qualità della vita.
Veduta di paesaggio agricolo dell’Appennino centrale (foto di P.
Di Marzio).
14 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
LA CONFERENZA DI STOCCOLMA E LA NASCITA DEL
PROGRAMMA PER L’AMBIENTE DELLE NAZIONI UNITE
Gli anni ‘70 videro la nascita del movimento ambientalista su scala internazionale. Il primo importante documento scientifico che recepiva le istanze sollevate da questo movimento fu lo studio redatto da un gruppo di esperti del Massachusetts Institute of Technology (MIT), pubblicato con il titolo “I limiti dello sviluppo” (MEADOWS et
al., 1972). Sulla base di estrapolazioni relative agli andamenti di crescita di popolazione, al livello di industrializzazione, all’inquinamento, alla produzione di alimenti, al
consumo delle risorse naturali, i ricercatori ritennero che
l’umanità avrebbe in breve tempo raggiunto i limiti naturali dello sviluppo. Si sottolineava quindi la necessità di
sostituire il modello economico basato sulla crescita illimitata con una situazione di stabilità economica ed ecologica. Questo stato di equilibrio, da intendersi in senso
dinamico, veniva definito dalla pubblicazione del MIT
come “la condizione in cui popolazione e capitale rimangono sostanzialmente costanti, grazie al controllo esercitato sulle forze che tendono a farli aumentare o diminuire”. In tale condizione risulterebbero garantiti i bisogni
materiali degli abitanti della Terra. Veniva sottolineato
che le probabilità di successo sarebbero state tanto maggiori quanto più rapidamente sarebbe stata intrapresa questa svolta decisiva.
Per la prima volta veniva quindi proposto un modello
di società in stato stazionario, cioè un sistema in cui fosse ridotto al minimo il consumo delle risorse realizzando
uno stato di equilibrio, definito con la dizione crescita zero: «se usiamo il termine crescita per indicare un cambiamento quantitativo e il termine sviluppo per riferirsi a
una modifica qualitativa, allora possiamo dire che l’economia in stato stazionario si sviluppa ma non cresce, proprio come la Terra, di cui l’economia umana è un sottosistema. Una ricchezza sufficiente, mantenuta e allocata
efficientemente, distribuita in modo equo - e non per
massimizzare la produzione - costituisce il giusto fine economico» (DALY, 1981).
Nel 1972, in pieno dibattito sulle ipotesi formulate
dai ricercatori del MIT, a Stoccolma si svolge la prima
conferenza internazionale che coinvolge i governi del
mondo sui temi dell’ambiente legati alle politiche di sviluppo, la Conferenza delle Nazioni Unite per l’ambiente
umano2.
Alla Conferenza di Stoccolma i Paesi in via di sviluppo dichiararono di non essere in grado di sostenere da soli i costi della protezione ambientale e della conversione
verso uno sviluppo sostenibile. Emerse anche una controversia: i Paesi industrializzati identificavano nel forte
aumento demografico registrato in quegli anni la principale causa degli squilibri economici e dell’esaurimento
delle risorse naturali; al contrario i Paesi del Terzo Mondo indicavano, quale causa prima, lo sfruttamento massiccio delle risorse operato dai Paesi sviluppati.
Il 15 dicembre 1972, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite3 istituì un’Agenzia con funzioni di coordinamento per l’azione ambientale, con sede a Nairobi, l’UNEP
(United Nations Environment Programme).
I compiti e le strategie dell’UNEP4
Obiettivo dell’UNEP è promuovere l’uso consapevole e lo sviluppo sostenibile dell’ambiente globale. A questo scopo collabora con numerosi partner: all’interno
delle Nazioni Unite, tra le organizzazioni internazionali, tra istituzioni nazionali e le organizzazioni non governative (ONG).
Suoi compiti sono:
- valutare lo stato e il trend dell’ambiente a livello globale, nazionale e regionale,
- promuovere strumenti ambientali nazionali e internazionali,
- rafforzare le istituzioni per una gestione consapevole
dell’ambiente,
- facilitare il trasferimento di conoscenze e di tecnologie
per lo sviluppo sostenibile,
- incoraggiare la formazione di nuove partnerships all’interno della società civile e nel settore privato
Per garantire la sua efficacia globale l’UNEP è supportato da sei uffici regionali (Europa, Africa, Nord America, Asia orientale e Pacifico, Latino America e Caraibi,
Asia occidentale), oltre a numerosi centri di eccellenza come il Global Resource Information Database Centre (GRID)
e il World Conservation Monitoring Centre (UNEPWCMC).
L’UNEP, come principale istituzione delle Nazioni Unite per l’ambiente, ha assunto un ruolo fondamentale nella promozione della Conservazione della diversità biologica, in applicazione del Capitolo 15 dell’Agenda 21 (vedi § successivo), promuovendo iniziative per la protezione delle risorse genetiche, delle specie e degli habitat.
2
Declaration of the United Nations Conference on the Human
Development del 16 giugno 1972.
3 General Assembly Resolution 2997 (XXVII) del 15 dicembre 1972.
4 Il sottocapitolo è stato curato da Miriam Marta.
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 15
Insieme al Consiglio d’Europa (vedi § dedicato), l’Ufficio Regionale dell’UNEP per l’Europa (REO, Regional
Office for Europe), lavora ad un progetto per l’armonizzazione e il supporto reciproco tra CBD e PEBLDS (PanEuropean Biological and Landscape Diversity Strategy), operando come Segretariato di quest’ultima e costituendo il
quadro di riferimento europeo per l’implementazione delle convenzioni inerenti la biodiversità.
Recentemente l’UNEP, insieme all’IUCN e al Centro
Regionale per l’Ambiente, ha promosso l’istituzione di
un “Servizio per l’implementazione dei piani di azione e
delle strategie nazionali per la biodiversità” che ha come
obiettivo l’integrazione degli strumenti globali, regionali e nazionali per la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità nei paesi dell’Unione Europea.
Le principali attività dell’UNEP per la tutela della biodiversità sono le seguenti:
- Convenzione sulla diversità biologica (CBD);
- Convenzione sul commercio internazionale delle specie
minacciate (CITES);
- Convenzione sulle specie migratorie (CSM);
- Accordo per la Conservazione delle specie migratori di uccelli d’acqua afro-eurasiatici;
- EUROBAT - Accordo per la conservazione dei pipistrelli in Europa;
- Progetto per la sopravvivenza delle scimmie - Progetto
innovativo dell’UNEP e UNESCO per fermare la minaccia di estinzione di gorilla, scimpanzè e orango;
- Programma globale di azione per la protezione dell’ambiente marino dalle attività di uso del suolo (GPA) - Ha
lo scopo di prevenire la degradazione dell’ambiente ma-
-
-
-
-
rino per le attività di uso del suolo aiutando i paesi a
preservare e proteggere l’ambiente marino;
Unità sulle barriere coralline;
Network internazionale per l’azione sulle barriere coralline (ICRAN) - Istituito nel 2000, è un panel globale
di esperti sulle barriere coralline che sta lavorando per
fermare la perdita di barriere coralline nel mondo.
L’ICRAN ha sviluppato un piano d’azione globale per
gestire e proteggere le barriere coralline, che si basa sulle raccomandazioni dell’ICRI (Iniziativa Internazionale per le barriere coralline, International Coral Reef Iniziative);
Centro Internazionale per lo sviluppo integrato della montagna (GRID-ICIMOD) - Istituito nel 1983, promuove lo sviluppo compatibile della montagna, economico e ambientale, e il miglioramento delle condizioni di
vita della popolazione montana nelle regioni dell’Hindo Kush e Himalaya (HKH);
Progetto UNEP-GEF sullo sviluppo di strumenti per la
biosicurezza nazionale - Un progetto triennale per assistere fino a 100 paesi nello sviluppo del National Biosafety Frameworks, per aderire al Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza;
Global Environmental Outlook (GEO) - GEO-3, la versione più recente, fornisce un sommario dei principali sviluppi ambientali avvenuti nei passati tre decenni, e l’analisi dei fattori sociali, economici e degli altri fattori che hanno contribuito al cambiamento che
è avvenuto nel suolo, nelle foreste, nella biodiversità,
nelle aree marine e costiere, nell’atmosfera e nelle aree
urbane.
16 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
LA CONFERENZA DI RIO DE JANEIRO E LA
CONVENZIONE SULLA DIVERSITÀ BIOLOGICA
L’ultimo decennio del ventesimo secolo vede una nuova grande riunione internazionale sui problemi dell’ambiente e dello sviluppo, ospitata a Rio de Janeiro (Brasile) dal 3 al 14 giugno 1992: la Conferenza delle Nazioni
Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED).
A vent’anni dalla Conferenza di Stoccolma, essa è stata a livello internazionale l’evento più importante per le
politiche ambientali globali ed ha costretto il mondo politico a confrontarsi con il concetto di sostenibilità.
Obiettivo principale della Conferenza era quello di costruire uno schema di azione per portare l’economia mondiale su un percorso di sviluppo sostenibile, che non depauperasse le risorse ambientali per le presenti e le future generazioni.
I risultati della Conferenza di Rio hanno portato alla
sottoscrizione, da parte dei rappresentati dei governi, dei
seguenti documenti:
1. la Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo, costituita da 27 principi che delineano diritti e responsabilità degli Stati nei confronti dell’ambiente, per la costruzione di un futuro sostenibile;
2. l’Agenda 21, il documento base esplicativo della teoria dello sviluppo sostenibile, contenente gli impegni per trasformare le dichiarazioni in principi guida, collegati alle convenzioni internazionali sottoscritte a Rio;
3. la Convenzione sul Cambiamento Climatico (UNFCCD),
per limitare la crescita di anidride carbonica nell’atmo-
sfera terrestre quale principale causa dell’aumento della temperatura;
4. la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), mediante la quale si propone un approccio globale, ecosistemico, per la protezione di tutti i livelli della diversità dei
viventi, nel tentativo di superare l’approccio frammentario risultante dalle convenzioni già esistenti;
5. la Convenzione per la lotta al fenomeno della desertificazione (UNCCD);
6. la Dichiarazione sui principi relativi alle foreste, che raccoglie indirizzi generali, formulati nell’impossibilità di
giungere alla sottoscrizione di una Convenzione giuridicamente vincolante.
Il vertice sullo sviluppo sostenibile “Rio +10” tenutosi a Johannesburg (Sud Africa) nel 2002, rappresenta una
verifica a dieci anni di distanza dalla conferenza di Rio de
Janeiro, con l’obiettivo di identificare misure concrete per
l’attuazione degli impegni presi con Agenda 21.
I governi riunitisi in quest’occasione hanno adottato
delle risoluzioni, stabilendo degli obiettivi specifici da perseguire entro determinate scadenze, tra cui ci interessa qui
sottolineare la data del 2010 fissata per raggiungere una
significativa riduzione del tasso attuale di perdita della
biodiversità.
A conclusione di quanto esposto, la figura 1.1 riporta
le Agenzie delle Nazioni Unite che dal 1964 curano il processo di attuazione delle politiche internazionali per l’ambiente e per lo sviluppo sostenibile.
L’UNEP svolge un ruolo importante nel processo di
organizzazione dei lavori, curando il programma ambientale sia a livello internazionale sia a livello regionale.
Fig. 1.1 - Meccanismi per
le politiche ambientali
internazionali.
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 17
La Convenzione sulla Diversità Biologica
Gli obiettivi della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) sono la conservazione della diversità biologica (a livello genetico, di specie, di comunità e di paesaggio), l’utilizzazione durevole dei suoi elementi e la ripartizione giusta ed equa dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche e dal trasferimento delle
tecnologie pertinenti.
Ogni Paese contraente coopera, per quanto possibile,
con le altre parti contraenti, direttamente o tramite organizzazioni internazionali competenti, nei settori non sottoposti alla giurisdizione nazionale e in altri settori di interesse reciproco, per la conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica
Si tratta di una Convenzione di straordinaria importanza in quanto prevede di conservare la biodiversità e individua nello sviluppo sostenibile e nella equa ripartizione delle risorse lo strumento fondamentale per centrare
l’obiettivo primario della Convenzione stessa.
Colpisce il divario tra importanza della Convenzione
e livello di conoscenza e divulgazione dell’articolato della medesima. Sono circa 187 i Paesi firmatari, ma ancora oggi quando si parla di biodiversità, come si accennava all’inizio, si pensa che sia una cosa importante, ma che
essenzialmente interessi le associazioni di volontariato, gli
ecologisti ed eventualmente gli ecologi di professione. La
Convenzione ci ricorda che la conservazione della biodiversità è un problema scientifico, biologico ed ecologico,
ma è anche un problema economico, politico e sociale
che riguarda tutti paesi del mondo.
La Convenzione è del 1992 e l’Italia ne ha formalizzato la sua partecipazione nel 1994. Ogni paese contraente è tenuto (art. 6) a:
- elaborare strategie, piani e programmi nazionali volti
a garantire la conservazione e l’utilizzazione durevole
della diversità biologica;
- integrare la conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica nei suoi piani, programmi e politiche settoriali o plurisettoriali pertinenti;
- identificare gli elementi importanti della diversità biologica ai fini della conservazione e di una utilizzazione
durevole;
- controllare, mediante campionamenti e altre tecniche,
gli elementi costitutivi della diversità biologica;
- analizzare i processi e le categorie di attività che hanno o rischiano di avere gravi impatti negativi sulla conservazione e l’utilizzazione durevole della diversità biologica, e sorvegliarne i loro effetti;
- conservare e gestire i dati derivati dalle attività di identificazione e di controllo.
Ogni parte contraente adotta misure economicamente e socialmente utili, che siano di stimolo alla conservazione e all’utilizzazione durevole degli elementi costitutivi della diversità biologica.
La convenzione prevede inoltre la promozione della ricerca che contribuisce alla conservazione e all’utilizzazione durevole della diversità biologica.
A scadenze regolari i paesi contraenti prendono parte
alle riunioni ordinarie e straordinarie organizzate dalla
Conferenza delle Parti (COP) tramite il Segretariato, elaborano rapporti da presentare alla COP sui provvedimenti adottati in adempimento alle disposizioni della
convenzione stessa e sulla loro efficacia, rispondono alle
richieste dell’Organo Sussidiario di Consulenza Scientifica, Tecnica e Tecnologica (Subsidiary Body on Scientific, Technical and Technological Advice - SBSTTA).
Evoluzione della convenzione attraverso le Conferenze
delle Parti 5
La COP è l’organo di governo della Convenzione sulla
Diversità Biologica. La sua funzione principale è assicurare l’implementazione della Convenzione e guidarne lo sviluppo (vedi Schede Sintesi delle decisioni prese durante le
COP e L’approccio ecosistemico nella CBD). Nel far ciò la
Conferenza istituisce dei gruppi di lavoro (working groups)
e di collegamento (liaison groups), per implementare il lavoro o per indirizzare i temi. Tra i principali gruppi individuati fino a ora ci sono quelli elencati nella tabella 1.1.
Le decisioni della COP si basano principalmente sulle indicazioni fornite dalle raccomandazioni del SBSTTA,
che per i suoi lavori individua dei gruppi Ad Hoc di Tecnici Esperti su tematiche prioritarie della Convenzione la
cui attività è stabilita per un determinato periodo temporale (tabella 1.2).
Alla COP competono anche l’adozione del bilancio, la
valutazione dei rapporti nazionali, l’adozione di protocolli e allegati e lo sviluppo di linee guida per i meccanismi finanziari.
Inoltre, nei suoi incontri (tabella 1.3), provvede a definire programmi e piani di lavoro nelle aree tematiche e
nei temi intersettoriali della Convenzione (vedi Scheda
Gli ecosistemi montani) e a stabilire periodicamente una
revisione di tali programmi, con l’obiettivo di favorirne
l’efficacia e l’implementazione.
5
Il sottocapitolo è stato curato da Goffredo Filibeck, Michela Marignani,
Miriam Marta, Francesca Blasi.
18 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Gruppi di Lavoro Ad Hoc
Gruppo di lavoro sull’articolo 8(j)
Gruppo di lavoro sull’Accesso e la Condivisione dei Benefici (ABS)
Gruppo di lavoro sulla Biosicurezza
Gruppo di lavoro sull’implementazione della Convenzione
Gruppi di collegamento
Gruppo di collegamento dei Tecnici Esperti su i Meccanismi di Clearing-House per la Biosicurezza
Gruppo di collegamento sulle Specie Aliene Invasive
Gruppo di collegamento sulla Biodiversità delle Acque Interne
Gruppo di collegamento sull’Approccio Ecosistemico (Ecosystem Approach)
Gruppo di collegamento su Identificazione, Monitoraggio e Indicatori
Gruppo di collegamento sulla Strategia Globale per la Conservazione delle Piante (Global Strategy for Plant Conservation)
Gruppo di collegamento sulla Biodiversità Agricola
Gruppo di collegamento sulla Formazione di Competenze (Capacity Building) per la Biosicurezza
Gruppo di collegamento sulla Biodiversità delle Zone Aride
Gruppi di esperti
Gruppo di esperti sull’Accesso e la Condivisione dei Benefici (ABS)
Gruppo di esperti sull’Accesso alle Risorse Genetiche e la Condivisione dei Benefici
Gruppo di esperti sulla Gestione, il Trasporto, il Confezionamento e l’Identificazione degli Organismi Viventi Modificati LMO
(Articolo 18, paragrafo 2.a)
Gruppo di esperti sui Meccanismi di Clearing-House per la Biosicurezza
Gruppo di esperti sulla Formazione di Competenze (Capacity Building)
Gruppo di esperti sui Meccanismi di Clearing-House (CHM)
Gruppo di Esperti sull’Approccio Ecosistemico
Tabella 1.1 - Gruppi di supporto alla COP.
Gruppo Ad Hoc aperto sulle Aree Protette
Gruppo Ad Hoc aperto sul Protocollo di Montreal
Gruppo Ad hoc di Esperti Tecnici sulle Zone Aride e Sub-umide
Gruppo Ad hoc di Esperti Tecnici sulle Conoscenze Tradizionali e i Meccanismi di Clearing-House
Gruppo Ad hoc di Esperti Tecnici sulla Biodiversità e i Cambiamenti Climatici
Gruppo Ad hoc di Esperti Tecnici sulla Biodiversità Marina
Gruppo Ad hoc sulla Biodiversità Montana
Gruppo Ad hoc di Esperti Tecnici sulle Aree Protette Marine e Costiere
Gruppo Ad hoc di Esperti Tecnici sulle Foreste
Tabella 1.2 - Gruppi di supporto al SBSTTA.
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 19
Incontri della Conferenza delle Parti
Temi affrontati programmi intrapresi
Primo Meeting
28 novembre - 9 dicembre 1994
Nassau, Bahamas
Guida ai meccanismi finanziari;
Programma di lavoro a medio termine.
Secondo Meeting
6 - 17 novembre 1995
Jakarta, Indonesia
Diversità biologica marina e costiera;
Accesso alle risorse genetiche;
Conservazione d uso sostenibile della diversità biologica;
Biosicurezza.
Terzo Meeting
4 - 15 novembre 1996
Buenos Aires, Argentina
Biodiversità agricola;
Risorse finanziarie e meccanismi di finanziamento;
Identificazione, monitoraggio e valutazione;
Diritto di proprietà intellettuale.
Quarto Meeting
4 - 15 maggio 1998
Bratislava, Repubblica Slovacca
Ecosistemi delle acque interne;
Revisione dell’operato della Convenzione;
Articolo 8(j) per il coinvolgimento delle comunità locali;
Condivisione delle risorse;
Jakarta Mandate sulle aree marine e costiere;
Biodiversità delle foreste.
Primo meeting straordinario della COP
22-24 febbraio 1999
Cartagena, Colombia,
Discussione sulla adozione di un protocollo sulla Biosicurezza –
sospesa per riprendere in data da destinarsi.
Ripresa del pimo meeting straordinario della COP
24-29 gennaio 2000
Montreal, Canada
Adozione del Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza
(divenuto operativo l’11 settembre 2003).
Quinto Meeting
24 maggio 2000
Nairobi, Kenya
Piano di lavoro congiunto per gli Ecosistemi di acque interne con la
Convenzione di Ramsar per la “River Basin Iniziative”;
Ecosistemi delle zone aride e semi-aride;
Uso sostenibile delle risorse, incluso il turismo;
Accesso alle risorse genetiche;
Commissione Intergovernativa per il Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza;
Biodiversità agricola.
Sesto Meeting
7 - 19 aprile 2002
The Hague, Olanda
Ecosistemi forestali;
Specie aliene;
Condivisione dei benefici;
Piano strategico della Convenzione 2002-2010;
Comunicazione, Educazione e Consapevolezza Pubblica (CEPA);
Strategia Globale per la Conservazione delle Piante (GSPC).
Settimo Meeting
9 - 20 febbraio 2004
Kuala Lumpur, Malesia
Ecosistemi montani;
Aree protette;
Trasferimento di tecnologie e cooperazione;
Accesso alle risorse genetiche e condivisione dei benefici (ABS);
Linee guida per l’uso sostenibile delle risorse.
Primo Meeting COP-MOP
23 - 27 febbraio 2004
Kuala Lumpur, Malesia
Prima Conferenza delle Parti al Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza:
discussione di meccanismi e procedure di implementazione del Protocollo,
condivisione delle informazioni, definizione del programma di lavoro.
Secondo Meeting COP-MOP
30 maggio – 3 giugno 2005
Montreal, Canada
Seconda Conferenza delle Parti al Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza:
definizione delle possibilità di implementazione del Protocollo, valutazione
e gestione del rischio, aspetti socio-economici.
Tabella 1.3 - Schema riassuntivo del programma di lavoro della Conferenza delle Parti dal 1994 al 2004.
20 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
SINTESI DELLE DECISIONI ADOTTATE DURANTE LE COP
[Miriam Marta]
I COP La biodiversità viene definita come un elemento fondamentale dello sviluppo sostenibile. La conservazione della biodiversità è, quindi, un obiettivo chiave per progettare uno sviluppo sostenibile e combattere la povertà. Durante questo primo incontro si sottolinea la necessità primaria di effettuare una valutazione dello status della diversità
biologica nel mondo. La varietà e la variabilità dei geni, delle specie, delle popolazioni e degli ecosistemi vengono considerate necessarie per garantire i beni essenziali della Terra
e le funzioni ecologiche. Si dichiara, inoltre, la necessità di
integrare Agenda 21 (vedi § La conferenza di Rio de Janeiro
e la Convenzione sulla Diversità Biologica) con la Convenzione sulla Diversità Biologica e di collegare la biodiversità con
i temi della deforestazione e della desertificazione.
II COP I paesi in via di sviluppo dichiarano la necessità di condividere i benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche. La biodiversità va analizzata considerando
anche i fattori socio-economici e culturali poiché costituisce un bene che migliora la qualità della vita delle popolazioni nel mondo.
Uno dei primi temi affrontati la biodiversità marina e costiera in favore della quale si decide di nominare un gruppo
di esperti per promuovere modelli di gestione integrata e
per definire un programma di lavoro sulla diversità biologica di questi ecosistemi.
Per promuovere la cooperazione tecnica e scientifica tra
i Paesi si promuovono i meccanismi di scambio delle informazione (Clearing House Mechanism - CHM), per sviluppare le capacità nazionali e facilitare l’accesso e il trasferimento di tecnologie.
La Conferenza stabilisce, inoltre, un gruppo di lavoro sul
rischio della gestione e del trasferimento di organismi geneticamente modificati.
III COP Viene ribadita l’esigenza di promuovere
un’azione coordinata della CBD con le altre convenzioni,
in particolare con Agenda 21 e, a tale scopo, vengono firmati un trattato di cooperazione tra la CBD e la Convenzione di Ramsar (Iran, 1971) e un accordo di cooperazione con la Convenzione per le specie Migratorie e gli Animali Selvatici (Convention on Migratory Species - CMS).
In questa Conferenza viene decretato il passaggio da un
programma di lavoro di medio termine a un programma di
lungo termine i cui presupposti sono:
- la promozione della conoscenza tecnica e scientifica,
- l’intensificazione e il miglioramento della cooperazione con
altre istituzioni,
- l’effettivo funzionamento delle istituzioni della Convenzione e l’ampliamento del coinvolgimento nella Convenzione delle organizzazioni non governative (ONG), del settore privato e dei settori istituzionali.
Si stabilisce un programma di lavoro pluriennale sulla Conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità agricola con l’obiettivo di promuovere gli effetti positivi delle pratiche agricole,
mitigare quelli negativi e promuovere la conservazione e l’uso
sostenibile delle risorse genetiche, di cui deve essere garantita
una giusta utilizzazione e una equa condivisione dei benefici.
Si sottolinea il ruolo cruciale delle foreste nella conservazione della biodiversità e l’importanza di individuare indicatori per la gestione forestale sostenibile. Si stabilisce, a questo
scopo, un programma di lavoro in cooperazione con il Panel
Intergovernativo sulle Foreste (PIF).
IV COP Promuove l’avvio di nuovi programmi di lavoro nelle aree d’interesse della Convenzione e la revisione di
quelli già in atto.
Per la tutela degli Ecosistemi di acque interne viene adottato un programma di lavoro che include la valutazione dello
status e del trend della biodiversità di questi ecosistemi, attraverso un approccio integrato, e l’identificazione di strategie
per la conservazione e l’uso sostenibile.
Viene adottato un programma di lavoro sulla Conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità marina e costiera, con
riferimento al Mandato di Giacarta (Jakarta Mandate, decisione II/10 sulla biodiversità marina e costiera), i cui obiettivi sono: gestione integrata dell’area marina e costiera, tutela delle risorse, aree protette, maricoltura, specie aliene e genotipi.
Viene avviato un programma di lavoro sulla Biodiversità
delle foreste per la promozione della ricerca, della cooperazione e dello sviluppo di tecnologie necessarie per la conservazione e l’uso sostenibile.
La Conferenza adotta, infine, le linee guida prodotte a Madrid per l’avvio di un programma di lavoro sull’articolo 8, per
assicurare la partecipazione delle comunità locali all’implementazione della Convenzione.
V COP Riguarda principalmente la biodiversità terrestre.
Viene definito un programma di lavoro sulla Biodiversità
delle aree aride, mediterranee, semi-aride, delle praterie e delle
savane; stabilendo lo stato della biodiversità, promuovendo
l’uso sostenibile delle risorse, l’equa condivisione dei benefici derivanti dalle risorse genetiche e combattendo la perdita
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 21
di biodiversità in queste aree e le conseguenze socio-economiche che ne derivano.
Si sottoscrive il piano di lavoro congiunto per gli Ecosistemi di acque interne con la Convenzione di Ramsar (Iran, 1971),
denonimata “River Basin Iniziative”.
L’approccio ecosistemico viene definito come una strategia
per la gestione integrata del suolo, dell’acqua e degli organismi
viventi per promuovere la conservazione e l’uso sostenibile delle risorse. L’applicazione di questo principio aiuta a raggiungere un equilibrio fra i tre obiettivi della Convenzione.
Si stabilisce un gruppo di esperti per la Biodiversità delle
foreste, per promuovere l’approccio ecosistemico, e si suggerisce alle Parti di considerare i risultati del Forum Intergovernativo sulle Foreste (Intergovernmental Forum on Forests - IFF);
Si richiede alle Parti di applicare i principi guida definiti
per le Specie aliene e di dare priorità allo sviluppo e all’implementazione di strategie e di piani di azione sulle specie aliene
invasive.
La Conferenza definisce i termini di riferimento per promuovere il necessario coordinamento della Global Taxonomy Initiative (GTI) con le iniziative nazionali e per predisporre appropriate strutture per lo studio e le collezioni naturalistiche.
Viene definito un piano di lavoro per la Commissione Intergovernativa per il Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza.
Si opera una revisione del programma di lavoro sulla Biodiversità agricola e si adotta un programma pluriennale con
l’obiettivo di implementare ulteriormente il programma già
delineato nella COP 3 e di promuovere l’agricoltura sostenibile e lo sviluppo rurale.
VI COP Rappresenta un punto di riferimento per lo
sviluppo e il progresso della Convenzione sulla Diversità Biologica. Essa sancisce, infatti, il passaggio dallo sviluppo delle politiche alla loro realizzazione. A questo scopo viene adottato un Piano Strategico per la Convenzione per guidare la
sua ulteriore implementazione a livello nazionale, regionale
e globale.
Durante la COP 6 vengono adottate numerose decisioni
e viene, inoltre, effettuata una revisione di tutte le principali
tematiche della Convenzione.
Viene adottato un programma di lavoro sulla Global Taxonomy Iniziative per delineare gli obiettivi e il ruolo dell’iniziativa e per individuare le informazioni tassonomiche necessarie a livello globale, regionale e nazionale.
Viene adottato un programma di lavoro per un’iniziativa globale sulla Comunicazione, l’Educazione e la Consapevolezza Pubblica (CEPA) per istituire una rete informativa
su questi argomenti e per lo scambio delle conoscenze e
delle esperienze.
Vengono adottate le linee guida di Bonn sull’accesso alle
risorse genetiche e l’equa condivisione dei benefici derivanti dalla loro utilizzazione.
Si richiede un ulteriore sviluppo di linee guida per includere gli argomenti correlati alla biodiversità all’interno della legislazione e della Valutazione d’Impatto Ambientale
(VIA).
La Conferenza adotta la Strategia Globale per la Conservazione delle Piante (Global Strategy on Plant Conservation
- GSPC).
Per la Strategia Globale sono stati definiti sedici specifici obiettivi divisi in cinque aree: comprensione e documentazione della diversità delle piante, conservazione, uso sostenibile, promozione della formazione e della consapevolezza, formazione delle competenze.
Si rinnova la richiesta alle Parti di armonizzare le politiche e i programmi nazionali con gli accordi multilaterali internazionali per l’ambiente (Multilateral Environmental
Agreements - MEAs) e con le iniziative regionali.
La COP istituisce, inoltre, un gruppo di collegamento
congiunto tra i Segretariati di CBD, UNCCD (United Nations Conference to Combat Desertification) e UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change).
VII COP Ha incentrato la propria attenzione sulla necessità di trovare strumenti concreti per realizzare il più importante obiettivo perseguito dalla Convenzione: la riduzione della perdita di biodiversità entro il 2010.
Sono stati adottati tre nuovi programmi di lavoro per affrontare adeguatamente altrettanti rilevanti argomenti: trasferimento di tecnologie, aree protette e diversità biologica
degli ecosistemi montani.
Sulla base delle esperienze accumulate nel corso degli anni, i programmi tematici sugli ecosistemi delle acque interne e sulla diversità biologica marina e costiera già adottati,
sono stati sottoposti ad un’operazione di valutazione e revisione per migliorarne le finalità e gli strumenti operativi.
Inoltre, il processo di negoziazione per un regime internazionale per l’uso delle risorse genetiche e l’equa condivisione dei benefici (Access and Benefit-Sharing - ABS)
ha registrato notevoli progressi verso un positivo accordo.
L’adozione delle “Linee guida sulla biodiversità e l’uso sostenibile di Addis Abeba” e delle “Linee guida volontarie
di Akwe: Kon” rappresentano, infine, un altro passo importante verso la concretizzazione degli articoli 10 e 8 (j)
della Convenzione.
22 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
L’APPROCCIO ECOSISTEMICO NELLA CBD
[Goffredo Filibeck, Michela Marignani, Stefano Gomes, Piera Di
Marzio, Marco Marchetti]
L’approccio ecosistemico è uno dei principi fondamentali dell’impostazione politica e scientifica della CBD, pur
non essendo menzionato nel testo della convenzione.
Il concetto fu introdotto al primo meeting di SBSTTA
e al secondo incontro della COP (Jakarta, novembre 1995),
dove si affermò che “La conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica e delle sue componenti dovrebbe essere ottenuta con un approccio olistico, tenendo conto dei tre livelli
di diversità e considerando attentamente i fattori sociali e socio-economici” e che “L’Approccio Ecosistemico dovrebbe essere il primo strumento d’azione da intraprendere in ambito della Convenzione” (decisione II/8, 1995).
Successivamente, nel 1998, in un incontro di esperti promosso dall’Olanda e dal Malawi si stilarono le prime definizioni di approccio ecosistemico, con l’emanazione di una
bozza di dodici Principi guida (Malawi Principles). Seguirono poi altri incontri che permisero di esaminare e meglio
definire tale approccio.
La sua definizione e la sua descrizione sono state recepite con la decisione 6 della COP 5, che ha sottolineato come tale criterio sia il quadro di riferimento fondamentale per
qualunque azione nell’ambito della Convenzione. L’applicazione dell’approccio ecosistemico è infatti ritenuta necessaria per raggiungere un equilibrio fra i tre obiettivi della
Convenzione stessa: conservazione, uso sostenibile, equa
condivisione dei benefici derivanti dalle risorse genetiche
(decisione V/6, 2000).
L’approccio è basato sull’applicazione di metodologie
scientifiche focalizzate sui diversi livelli di organizzazione
biologica e comprendenti i processi, le funzioni e le interazioni tra gli organismi e il loro ambiente. Esso riconosce che
la specie umana, con la sua diversità culturale, è parte integrante di molti ecosistemi.
Nella stessa decisione V/6, questa attenzione alla struttura, ai processi, alle funzioni e alle interazioni viene considerata coerente con la definizione di ecosistema prevista
dall’articolo 2 della CBD (“un complesso dinamico di comunità di piante, animali e microrganismi, insieme con il loro
ambiente non-vivente, interagenti come un’unità funzionale”)
e non prevede alcuna specificazione di unità spaziale o di
scala, a differenza della definizione di “habitat” (“il luogo o
tipo di sito dove un organismo o una popolazione esistono allo stato naturale”). Il termine ecosistema può pertanto rife-
rirsi a qualsiasi unità funzionale a qualsiasi scala: in effetti, la
scala di analisi e di azione andrebbe determinata caso per caso, in funzione del problema da risolvere.
L’approccio ecosistemico richiede inoltre una logica di flessibilità, per adattare le scelte gestionali alla natura complessa
e dinamica degli ecosistemi e alla mancanza di una completa
comprensione del loro funzionamento. Poiché i processi ecosistemici sono spesso non-lineari e presentano spesso un’inerzia nel tempo, la gestione deve essere aperta a una metodologia di apprendimento non teorico (learning-by-doing). Esso
non preclude altri approcci alla gestione e alla conservazione,
come ad esempio le aree protette o i programmi di conservazione mirati su una singola specie; ma può integrare tutti quelli preesistenti e altre metodologie, allo scopo di fronteggiare
situazioni complesse. Non esiste infine un’unica via all’approccio ecosistemico, poiché esso dipende dalle condizioni locali, nazionali, regionali o globali.
La decisione V/6 elenca i 12 principi tra loro complementari, interconnessi e da applicare congiuntamente. Sinteticamente, essi stabiliscono che: gli obiettivi della gestione del
suolo, dell’acqua e delle risorse biologiche dipendono da una
scelta di natura sociale; la gestione deve essere decentrata al
livello locale più basso possibile; devono essere anche considerati gli effetti (reali o potenziali) della gestione sugli ecosistemi adiacenti a quello direttamente in esame; la gestione
degli ecosistemi deve essere concepita in un contesto economico, allo scopo di: ridurre quelle distorsioni di mercato che
hanno effetti dannosi sulla diversità biologica; un obiettivo
prioritario dell’approccio ecosistemico deve essere la conservazione della struttura e del funzionamento degli ecosistemi,
allo scopo di preservare la continuità dei servizi da essi forniti; deve essere prestata attenzione alle condizioni ambientali che limitano la produttività naturale degli ecosistemi;
l’approccio ecosistemico deve essere intrapreso all’appropriata scala temporale e spaziale, basandosi sulla natura gerarchica della diversità biologica e favorendo, ove necessario, la connettività tra aree; gli obiettivi della gestione degli ecosistemi
devono essere individuati nel lungo periodo; la gestione degli ecosistemi deve riconoscere che i cambiamenti sono inevitabili; l’approccio ecosistemico deve ricercare il giusto equilibrio e la giusta integrazione fra conservazione e gestione della biodiversità; l’approccio ecosistemico dovrebbe considerare tutte le forme rilevanti di informazioni, dalla ricerca scientifica alle conoscenze indigene e locali; l’approccio ecosistemico dovrebbe coinvolgere tutti i settori della società e le discipline scientifiche.
Nell’applicare i principi sopra ricordati, la COP suggeri-
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 23
sce come linee guida operative:
- concentrarsi sulle relazioni e i processi all’interno degli
ecosistemi;
- migliorare la condivisione dei benefici forniti dalle funzioni degli ecosistemi e in particolare la loro ricaduta su
coloro che partecipano alla gestione;
- utilizzare pratiche gestionali flessibili, che possano essere adattate in corso d’opera alla reazione degli ecosistemi e delle parti sociali;
- applicare la gestione alla scala appropriata per l’obiettivo,
decentrando le decisioni al più basso livello possibile;
- assicurare la cooperazione intersettoriale.
Alla fine del 2000, in risposta alla decisione V/6 sono
stati organizzati tre incontri regionali (Pathfinder Workshops),
rispettivamente nel Sud Africa, Sud America e Sud-Est Asiatico, per conto della Commissione per la gestione degli ecosistemi dell’IUCN, in collaborazione con il segretariato della CBD, dell’UNESCO-MaB e del WWF Internazionale.
Il loro principale obiettivo è stato quello di analizzare differenti casi studio sulle applicazioni dell’approccio ecosistemico.
In seguito, nell’ottobre 2002, l’Agenzia Federale Tedesca per la Conservazione della Natura ha organizzato un altro workshop sull’isola di Vilm, denominato “Further development of the Ecosystem Approach”, per rifinire i principi e
le guide operative sulla base dei casi studio e delle esperienze realizzate nel frattempo. Uno dei prodotti di tale incontro è stata una proposta per la riduzione dei testi dei principi guida (KORN et al., 2003). A Vilm sono stati inoltre
sottolineati i problemi evidenti nella struttura dell’Ecosystem Approach, come la necessità di chiarificazioni nella
struttura dell’approccio stesso e di incentivi economici, e la
carenza di linee guida per l’applicazione dell’approccio sul
territorio.
Negli incontri di luglio (CBD) e novembre 2003 (Ninth
meeting of the SBSTTA, Montreal) si è posta come priorità
la facilitazione dell’implementazione dell’approccio ecosistemico (WILKIE et al., 2003).
KORN H., SCHLIEP R., STADLER J., 2003 – Report on the international workshop on the Further Development of the Ecosystem Approach. BfN Skripten 78.
WILKIE M.L., HOLMGREN P., CASTANEDA F., 2003 – Sustainable
Forest Management and the Ecosiystem Approach: two concept, one
goal. Forest Resources Development Service, Working Paper
FM 25 FAO, Rome, Italy.
GLI ECOSISTEMI MONTANI
[Fausto Manes, Michela Marignani]
Nel 1998, durante il IV incontro della Conferenza
delle Parti, la Convenzione sulla Diversità Biologica affrontò per la prima volta il tema degli ecosistemi montani, chiedendo al SBSTTA e agli altri organi scientifici consultivi di occuparsi di tale argomento (decisione
IV/16), per poter affrontare in dettaglio la questione della conservazione e dell’uso sostenibile della diversità biologica negli ecosistemi montani nella COP 7.
Nel 2002 la COP 6 (decisione VI/30) ha chiesto al
Segretariato Esecutivo di preparare un’analisi sullo stato di conservazione, sui rischi e sulle minacce alle quali
sono sottoposti tali ambienti, includendo le informazioni ottenute dai rapporti nazionali dei Paesi firmatari della convenzione (decisione VI/25).
L’importanza dell’ecosistema montano per la CBD
risiede nella grande valenza etica, culturale, ecologica ed
economica delle montagne. Il diritto delle popolazioni
indigene e delle comunità locali di vivere e svilupparsi
si accompagna al rispetto e alla salvaguardia del patrimonio culturale di tali popolazioni che traggono sostentamento dalle risorse naturali della montagna.
È stato stimato che circa il 22% della popolazione
mondiale risiede in zone di montagna (Mountain Watch,
2002); inoltre milioni di persone che vivono distanti dalle zone montane beneficiano di numerose risorse (acqua, alimenti, legna, energia ecc.) che derivano dalle
montagne. Le montagne influenzano quindi, in maniera diretta o indiretta, quasi la metà della popolazione
umana (MESSERLI e IVES, 1997).
Preservare l’integrità ecologica del sistema montano
significa tutelare le relazioni d’interdipendenza tra gli organismi (struttura), conservare la funzionalità del sistema e assicurare una produttività economica di valore sia
quantitativo sia qualitativo: tali condizioni, nel rispetto
di un uso sostenibile delle risorse, permettono di garantire la sopravvivenza di queste popolazioni.
Gli ecosistemi montani assolvono molteplici funzioni
ecologiche quali, ad esempio, la gestione delle risorse: acqua, suolo e nutrienti, ma sono dei sistemi caratterizzati
da fragili equilibri. La tutela dell’integrità dei suoli rappresenta la priorità assoluta per il mantenimento dell’ecosistema montano e la conservazione della diversità biologica. Le severe condizioni climatiche delle montagne favoriscono la disgregazione dei substrati che la forza di gra-
24 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
vità trasporta costantemente verso valle, rallentando lo sviluppo dei suoli. I suoli sottili e l’instabilità dei versanti legata alla pendenza limitano, a loro volta, la crescita delle
piante, aumentando la vulnerabilità delle montagne al disturbo antropico e richiedendo lunghi tempi di recupero.
L’unico strumento per conservare il substrato e i nutrienti
è rappresentato dalla capacità della vegetazione di consolidare i versanti (KÖRNER, 1999). La grande diversità biologica e funzionale delle piante degli ecosistemi montani assicura una barriera efficace contro la perdita di suolo, conservando i nutrienti e la capacità drenante e filtrante dei terreni; inoltre migliorando la capacità di drenaggio dei terreni e la stabilità dei pendii si riducono i rischi come frane e
valanghe per le popolazioni delle aree a valle.
In questo contesto, proteggere la diversità biologica significa proteggere la funzionalità dell’intero sistema montano.
La montagna custodisce un patrimonio di biodiversità
tra i più preziosi al mondo: delle 20 specie di piante che
forniscono l’80% delle riserve alimentari mondiali (vedi
al § Diversità genetica delle specie vegetali di interesse agrario la tabella 2.1), 6 provengono da ecosistemi montani,
come ad esempio la patata (Ande peruviane), il grano (Sierra messicana) e il sorgo (altipiani dell’Etiopia).
La ricchezza degli ecosistemi montani dipende da diversi fattori quali l’altitudine, la latitudine e la topografia che
contribuiscono a creare un mosaico di habitat adatti allo sviluppo di una grande varietà di forme di vita. Inoltre, l’isolamento geografico di tali ambienti determina la presenza
di numerosi endemiti di elevato valore biogeografico. Sulle montagne dell’Asia Centrale, per esempio, esistono più
di 5.500 specie di piante da fiore, con più di 4.200 specie
nel solo Tajikistan (JENIK, 1997). Sulla montagna di Kinabalu in Sabah (Borneo) esistono più di 4.000 specie di piante (PRICE et al., 1999).
L’eccezionale diversità della vita degli ecosistemi montani è anche conseguenza della compressione delle fasce climatiche lungo un elevato gradiente altitudinale. A quote
molto elevate, la biodiversità diminuisce gradualmente così come la superficie terrestre, provocando un rapporto biodiversità/superficie che spesso supera le aree delle basse quote (KÖRNER e SPEHN, 2002). Ad esempio, nella fascia alpina, la zona al di sopra del limite naturale degli alberi rappresenta un punto di riferimento bioclimatologico che si
ripete nel mondo alle stesse temperature, a dispetto della
latitudine: tale fascia si estende per circa il 3% delle terre
emerse del mondo e ospita circa il 4% delle specie.
Gli ambienti montani sono ben rappresentati nel com-
puto generale delle aree protette: su un totale di 785 milioni di ettari di aree protette in tutto il mondo, ben 264
milioni di ettari sono in montagna, più che in qualsiasi altra categoria di paesaggio (KÖRNER et al., 2002).
I rischi e le minacce alle quali gli ecosistemi montani
sono maggiormente esposti sono stati individuati dalla
CBD nella prima stesura del programma di lavoro per la
diversità biologica delle montagne, elaborato durante il
SBSTTA 8, che è stato implementato da un gruppo di
esperti riunitosi in Italia nel luglio 2003.
Nel programma di lavoro si riconoscono la ricchezza degli ecosistemi montani, la fragilità degli equilibri che regolano la sopravvivenza delle specie e, inoltre, la vulnerabilità al disturbo antropico, in particolare alle trasformazioni
dell’uso del suolo e ai cambiamenti climatici globali.
Il programma della CBD pone inoltre l’attenzione sulla funzionalità dell’ecosistema montagna, ricordando lo
stretto collegamento che esiste tra zone di alta-quota e bassa-quota, specialmente in relazione alla risorsa acqua e alla risorsa suolo, ricordando il ruolo chiave della conoscenza e delle pratiche tradizionali delle comunità indigene e
locali per la conservazione e la gestione della diversità biologica delle montagne.
Il programma prodotto dal gruppo di esperti è stato
sottoposto alla revisione del SBSTTA 9 e ha costituito, infine, la base di lavoro per la COP 7, che sei anni dopo la
prima decisione (IV/16, 1998) ha definito il programma
di lavoro per ridurre significativamente la perdita della diversità biologica delle montagne entro il 2010 a livello globale, continentale e nazionale, attraverso la realizzazione
dei tre obiettivi della convenzione (la conservazione della
diversità biologica, l’uso durevole dei suoi componenti e
la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche) (VII/27, 2004).
JENIK J., 1997 – The diversity of mountain life. In: MESSERLI B., IVES
J.D. (eds.), Mountain of the World: A Global Priority. The Parthenon Publishing Group. New York. Pp: 199-235.
KÖRNER C., 1999 – Alpine plant life. Springer, Berlin
KÖRNER C., SPEHN E. (eds.), 2002 – Mountain biodiversity: a global assessment. The Parthenon Publishing Group. New York.
MESSERLI B., IVES J.D. (eds.), 1997 – Mountain of the World: A Global Priority. The Parthenon Publishing Group. New York.
PRICE M., WACHS T., BYERS E., 1999 – Mountains of the World: Tourism and sustainable mountain development. Berne, Switzerland:
Mountain Agenda.
UNEP-WCMC, 2002 – Mountain Watch.
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 25
IL CONSIGLIO D’EUROPA
Il Consiglio d’Europa (CoE) è un’organizzazione intergovernativa istituita nel 1949 per avviare la progressiva unione degli Stati europei. Raggruppa 45 paesi ed è
un’organizzazione distinta dall’Unione Europea. Il Consiglio d’Europa è stato istituito allo scopo di: tutelare i diritti dell’uomo e la democrazia parlamentare e garantire
il primato del diritto; concludere accordi su scala continentale per armonizzare le pratiche sociali e giuridiche
degli Stati membri; favorire la consapevolezza dell’identità europea, basata su valori condivisi, che trascendono
le diversità culturali.
Il CoE inizia il suo programma a favore dell’ambiente
nel 1961 dedicando particolare attenzione alla conservazione della natura e del paesaggio, distinguendosi con le
seguenti iniziative:
La Convenzione di Berna
Gli Stati membri nel corso della Conferenza Ministeriale Europea del 1979 a Berna hanno adottato la Convenzione sulla conservazione della vita selvatica e degli habitat in Europa, resa operativa nel 1982.
La Convenzione di Berna è un importante strumento
legislativo di diritto internazionale per la tutela della natura; maturato parallelamente alla definizione della Direttiva 79/409 - Uccelli, trova l’adesione di 45 Parti contraenti di cui 39 sono Stati membri del CoE, cui si aggiungono la Comunità Europea, il principato di Monaco e quattro Stati africani.
Nel 1998 è stata creata la Rete EMERALD (anche nota come EMERAUDE), che coinvolge i paesi esterni all’Unione Europea in una rete di aree d’interesse speciale dal punto di vista conservazionistico che sia compatibile con la Rete istituita con la Direttiva Habitat (Rete NATURA 2000).
La strategia Pan-europea sulla Diversità Biologica
e Paesaggistica (PEBLDS)
La strategia Pan-europea nasce per l’attuazione della
Convenzione sulla Diversità Biologica in Europa tra il
CoE e l’UNEP, con il contributo dell’Organizzazione la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura
(IUCN). È stata riconosciuta come strumento operativo
nel 1995, nel corso della Conferenza Ministeriale di So-
fia, Ambiente per l’Europa, con l’adesione di 54 Paesi appartenenti alla Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UN/ECE). Uno dei principali obiettivi della Strategia è l’istituzione entro il 2005 di una rete
ecologica pan-europea. Tale rete ecologica ha lo scopo di
assicurare la conservazione di specie, habitat, ecosistemi
e paesaggi di importanza pan-europea (BENNETT, 2002).
La Convenzione Europea sul Paesaggio
Un fattore chiave della qualità della vita sociale e individuale è rappresentato dal valore attribuito al paesaggio, valore che, oltre a contribuire allo sviluppo umano,
serve a identificare la cultura europea. La tutela del paesaggio gioca un importate ruolo d’interesse pubblico, in
quanto vi convergono aspetti ecologici, ambientali e sociali che conducono a rilevanti attività economiche come il turismo.
Il dibattito degli ultimi anni ha condotto alla formulazione di una struttura di riferimento che assicuri la
tutela del paesaggio. La Convenzione Europea sul Paesaggio è stata presentata per la sottoscrizione in occasione della Conferenza Ministeriale di Firenze del 20
ottobre 2000.
La Convenzione ha come scopo la protezione, la gestione e la pianificazione dei paesaggi e mira a organizzare una collaborazione fra Paesi Europei. Il paesaggio è definito come “una determinata parte di territorio il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e
dalle loro interrelazioni.” La convenzione riguarda tutto
il territorio: spazi naturali, paesaggi rurali, urbani e suburbani, spazi terrestri, acque interne e marine.
26 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
SINTESI DEL PERCORSO EVOLUTIVO DELLE
CONVENZIONI INTERNAZIONALI
Le convenzioni internazionali per la conservazione della natura possono essere attribuite a tre differenti fasi storiche (GOMES, 2002):
convenzioni di prima generazione, come gli accordi
per la tutela dei mari e delle coste dagli inquinamenti di
petrolio o per la protezione di specie di flora e fauna da
attuare in un contesto geografico regionale;
convenzioni di seconda generazione, cioè quelle successive al dibattito dei primi anni ‘70; ad esempio, la Con-
1933 1946 1949 1950 1951 1964 1966 1968 1969 1971 1972 1973 1974 1976 -
1979 1979 1980 1981 1981 1982 1983 1985 1986 1991 1992 1992 1994 2000 -
venzione di Ramsar del 1971, patrocinata dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN),
che salvaguarda le zone umide d’interesse internazionale,
la Convenzione sul commercio internazionale delle specie a rischio d’estinzione (CITES) del 1973 e la Convenzione per la tutela delle specie migratrici (CMS) del 1979.
In questo contesto si distingue, per l’approccio internazionale e per il ruolo svolto negli anni successivi, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982
(UNCLOS);
convenzioni di terza generazione, originate dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, che perseguono lo sco-
Londra: convenzione relativa alla conservazione della fauna e della flora allo stato naturale (Africa)
Washington: convenzione internazionale sulla regolamentazione della caccia alle balene (IWC)
Roma: accordo per la creazione della Commissione Generale della Pesca per il Mediterraneo
Parigi: convenzione internazionale per la protezione degli uccelli
Parigi: convenzione per la istituzione dell’Organizzazione Europea e Mediterranea per la Protezione delle Piante
Accordi per la conservazione delle specie antartiche di fauna e flora
Madrid: protocollo al Trattato Antartico sulla protezione ambientale (1991)
Rio de Janeiro: convenzione internazionale per la conservazione dei tunnidi dell’Atlantico
Algeri: convenzione africana per la conservazione della natura e delle risorse naturali
Nairobi: protocollo concernente le aree protette, la fauna e la flora selvatiche nella regione dell’Africa orientale (1985)
Roma: convenzione per la conservazione delle risorse biologiche dell’Atlantico sud-orientale
Ramsar: convenzione sulle zone umide di importanza internazionale - IUCN e UNESCO
Parigi: convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale - Consiglio d’Europa e UNESCO
Washington: convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche in pericolo di estinzione (CITES) - UNEP
Helsinki: convenzione per la protezione dell’ambiente marino dell’area del Mar Baltico
Barcellona: convenzione per la protezione del Mare Mediterraneo dall’inquinamento - UNEP
Barcellona: 6 protocolli, compreso quello relativo alle zone particolarmente protette e alla diversità biologica del Mediterraneo
(ASPIM) 1982-1995
Berna: convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa - Consiglio d’Europa
Bonn: convenzione sulla conservazione delle specie migratrici appartenenti alla fauna selvatica (CMS) - UNEP
Canberra: convenzione per la conservazione delle risorse marine viventi dell’Antartide
Abidjan : convenzione per la cooperazione nella protezione e nello sviluppo degli ambienti costieri e marini dell’Africa occidentale e centrale
Lima: convenzione per la protezione dell’ambiente marino e dell’area costiera del Pacifico sud-orientale
Montego Bay: convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) - UNEP
Cartagena: convenzione per la protezione e lo sviluppo dell’ambiente marino nella regione caraibica
Kingston: protocollo concernente le aree specialmente protette e la vita selvatica della convenzione di Cartagena (1990)
Nairobi: convenzione per la protezione, la gestione e lo sviluppo dell’ambiente marino e costiero dell’Africa orientale
Noumea: convenzione per la protezione delle risorse naturali e dell’ambiente del Pacifico meridionale
Salisburgo: convenzione per la protezione delle Alpi
9 protocolli, compreso quello relativo alla protezione della natura e alla tutela del paesaggio
New York: convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNCCC) - UNCED
protocollo di Kyoto (non ancora in vigore, 1997)
Rio de Janeiro: convenzione sulla diversità biologica (CBD) - UNCED
protocollo di Cartagena relativo alla prevenzione dei rischi biotecnologici (2000)
Parigi: convenzione per combattere la desertificazione - particolarmente in Africa (UNCCD) - UNCED
Firenze: convenzione europea sul paesaggio - Consiglio d’Europa
Legenda:
Contesto regionale
Tabella 1.4 - Le Convenzioni e i protocolli internazionali.
Contesto europeo
Contesto internazionale
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 27
Fig. 1.2 - Convenzioni e Protocolli Regionali.
Fig. 1.3 - Convenzioni Regionali.
po di integrare la tutela delle risorse ambientali nello sviluppo (sviluppo sostenibile): Convenzione sulla Diversità
Biologica, la Convenzione sul Cambiamento Climatico,
la Convenzione per la lotta al fenomeno della desertificazione.
La tabella 1.4 raccoglie le convenzioni internazionali
per la tutela della biodiversità suddivise per ambito territoriale. Permette inoltre di seguirne l’evoluzione nell’approccio alla conservazione della natura.
Un elemento fondamentale nel processo di attuazione
di una Convenzione è lo sviluppo di Protocolli attuativi
di settore (figure 1.2 e 1.3).
La Convenzione per la protezione del Mare Mediterraneo dall’inquinamento, sottoscritta a Barcellona nel
1976, ha sviluppato sei Protocolli tra cui quello riguardante le zone particolarmente protette e la diversità biologica nel Mediterraneo6.
La Convenzione per la protezione delle Alpi, sottoscritta a Salisburgo nel 1991, prevede alcuni protocolli monotematici dei quali nove sono stati adottati tra il 1994
e il 2000 e quattro sono in attesa di adozione. Tra i Protocolli adottati, Protezione della natura e tutela del paesaggio (1994) e Foreste montane (1996) curano l’aspetto naturalistico.
6
Titolo originale: Protocollo riguardante le aree particolarmente protette,
adottato a Ginevra il 3 aprile 1982, entrato in vigore il 23 marzo
1986, emendato a Barcellona il 10 giugno 1995 con il nuovo titolo.
28 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
RECEPIMENTO DELLE CONVENZIONI
EUROPEA
NELL’UNIONE
Nel 1972, stesso anno della Conferenza di Stoccolma,
con la Conferenza dei Capi di Stato e di Governo della
Comunità Europea a Parigi si ravvisò la necessità di attuare una politica ambientale comune, dando origine al
diritto comunitario in materia di salvaguardia dell’ambiente.
Da allora, con cadenza inizialmente quadriennale, viene periodicamente elaborato il Programma d’Azione per
l’ambiente, giunto attualmente alla sesta edizione (vedi §
successivo).
In seguito all’Accordo di Maastricht (1992), viene inoltre riconosciuta la necessità di promuovere la sottoscrizione, da parte dell’Unione Europea, di accordi internazionali in cui risulti oggettivo il coinvolgimento di più di
uno Stato comunitario. Vengono così sottoscritte:
- la Convenzione di Washington sul commercio internazionale di specie di flora e fauna a rischio di estinzione (CITES, UNEP, 1973);
- la Convenzione di Barcellona per la tutela del Mar Mediterraneo (UNEP, 1976);
- la Convenzione di Berna per la tutela della flora e della fauna selvatica in Europa (Consiglio d’Europa, 1979);
- la Convenzione di Bonn sulle specie migratrici (CMS,
UNEP, 1979);
- la Convenzione delle Alpi (1991);
- le Convenzioni sottoscritte nel corso della Conferenza di Rio de Janeiro, tra cui la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD, UNEP, 1992).
Il programma ambientale dell’Unione Europea7
In risposta alle istanze ambientali che si andavano concretizzando all’inizio degli anni ‘70 dello scorso secolo,
l’Unione Europea ha attivato una serie di “programmi di
azione ambientale” allo scopo di fornire le indicazioni di
base per successive proposte legislative e altre iniziative
della Commissione Europea.
Il I programma d’azione in materia ambientale (19731976) ha sottolineato da un lato l’importanza dei problemi ambientali connessi principalmente con l’urbanizzazione e la distribuzione geografica degli uomini e delle loro attività e dall’altro la necessità di trovare soluzioni unitarie a livello comunitario. Il programma insisteva quin7
Il sottocapitolo è stato curato da Miriam Marta relativamente ai primi
quattro Programmi d’Azione.
di soprattutto sull’esigenza di adottare misure in materia
urbanistica, di concentrazione urbana e di circolazione.
Il II programma d’azione (1977-1981) ha focalizzato
l’attenzione sulla riduzione dell’inquinamento, sulla protezione e il miglioramento dell’ambiente e sul rafforzamento della presenza comunitaria a livello internazionale. Ha, inoltre, avviato sia un programma di ricerca nel
settore della pianificazione urbana, mirato a un’analisi delle ripercussioni ambientali delle grandi concentrazioni urbane nella Comunità, che un programma di informatizzazione e monitoraggio ambientale.
Il III programma d’azione (1982-1986) non ha proposto, come i precedenti, misure da intraprendere, ma ha
affidato alla politica ambientale un ruolo “strutturale”,
dotandola di “obiettivi quadro”. Tra i più importanti
obiettivi quadro da raggiungere ci sono l’integrazione
della dimensione ambientale nelle altre politiche comunitarie e l’elaborazione di una procedura di valutazione
di impatto ambientale.
Il IV programma d’azione (1987-1992) ha riconosciuto il carattere preventivo della politica ambientale, sostenendo come la tutela ambientale debba costituire una
componente essenziale di tutte le politiche messe in atto,
sia sul piano economico che sociale. L’attenzione della
Comunità viene quindi rivolta anche alla qualità delle
condizioni ambientali.
Il V Programma d’Azione per uno sviluppo durevole e
sostenibile (1992-2000) è stato elaborato parallelamente
all’Agenda 21.
In tale contesto si collocano due importanti iniziative:
1. La Direttiva del Consiglio del 21 maggio 1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (92/43/CEE
- Habitat).
In precedenza, con la Direttiva del Consiglio del 2 aprile del 1979, concernente la conservazione degli uccelli
selvatici (79/409/CEE - Uccelli), era stata creato un insieme di aree protette, a livello europeo, per la tutela e
la salvaguardia dell’avifauna. Tale idea di gestione territoriale integrata è stata ulteriormente sviluppata dalla Direttiva Habitat mediante la creazione della rete NATURA 2000, rete dal carattere sovranazionale alla quale contribuiscono tutti gli Stati membri dell’Unione.
2. La Strategia comunitaria per la diversità biologica approvata nel 1998.
La strategia prevede quattro principali aree tematiche
nell’ambito delle quali sono individuati gli obiettivi
specifici da raggiungere mediante i piani d’azione e altri provvedimenti.
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 29
Gli obiettivi sono suddivisi in otto aree di intervento
politico, da raggiungere nell’ambito delle politiche nazionali e degli strumenti comunitari (figura 1.4).
Tale Strategia tiene anche conto degli obiettivi contenuti nella PEBLDS (vedi § Il Consiglio d’Europa).
A seguito dell’esperienza maturata alla fine del XX secolo, il VI Programma d’Azione per l’ambiente (2001-2010)
intitolato “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” sottolinea come il futuro lavoro di salvaguardia debba essere rafforzato anche mediante un aumento della conoscenza. In particolare risulta necessario ottenere maggiori informazioni sulla biodiversità, sulle pressioni che
la minacciano e sulle attuali tendenze consentendo la definizione di strumenti politici mirati ed efficaci.
Fig. 1.4 - La Strategia
Comunitaria per la diversità
biologica dal 1998.
30 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
RECEPIMENTO DELLA CONVENZIONE SULLA
BIODIVERSITÀ IN ITALIA 8
L’articolo 6 della Convenzione di Rio stabilisce che
“ciascuna parte contraente, secondo le proprie particolari
condizioni e capacità: elaborerà strategie, piani o programmi nazionali per la conservazione e l’uso sostenibile della
diversità biologica e adatterà a tale fine le sue strategie, piani o programmi esistenti, che rifletteranno, tra l’altro, le misure previste dalla presente Convenzione che riguardano la
parte medesima; integrerà, nella misura del possibile e nel
modo opportuno, la conservazione e l’uso sostenibile della
diversità biologica nei suoi pertinenti piani, programmi e
politiche settoriali o intersettoriali”.
L’impegno italiano si è concretizzato con la legge n.
124 del 14 febbraio 1994, con cui l’Italia ha ratificato la
Convenzione sulla Diversità Biologica, che richiede, a tutti i Paesi firmatari, di elaborare piani e programmi per la
conservazione della biodiversità e per l’uso sostenibile delle risorse, ove per uso sostenibile si intende “l’uso delle
componenti della diversità biologica secondo modalità e
a un ritmo che non ne comportino una riduzione a lungo termine, salvaguardandone in tal modo la possibilità
di soddisfare le esigenze e le aspirazioni delle generazioni
presenti e future”.
Una volta ratificata la Convenzione, è stato predisposto il documento “Linee strategiche per l’attuazione della Convenzione di Rio de Janeiro e per la redazione del
piano nazionale sulla Biodiversità”, approvato con delibera CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) il 16 marzo 1994 e pubblicato in
G.U. Serie generale n. 107 del 10/5/1994.
8
Il sottocapitolo è stato curato da Nicoletta Tartaglini.
Il 27 aprile 2004, la Presidenza del Consiglio di Ministri – Dipartimento per le Politiche Comunitarie con
proprio decreto ha istituito il Comitato di coordinamento Nazionale per la Biodiversità finalizzato a coordinare e definire la posizione comune italiana sulle tematiche inerenti la Biodiversità. Il Comitato è presieduto
congiuntamente dal Dipartimento per le Politiche Comunitarie e dal Direttore della Direzione per la Protezione della Natura del Ministero dell’Ambiente e della
Tutela dl Territorio.
Costituiscono il Comitato rappresentanti designati da:
- Ministero delle Politiche Agricole e Forestali
- Ministero della Salute
- Ministero delle Attività Produttive
- Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca
- Ministero degli Affari Esteri
- Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Fa anche parte del Comitato la Regione incaricata del
coordinamento delle altre regioni italiane per il settore
ambiente, al momento la regione Piemonte.
Possono altresì venire invitate alle riunioni del Comitato, con funzioni consultive, le Associazioni europee e
nazionali rappresentative degli operatori di settore e delle parti sociali interessate.
Il primo anno di attività del Comitato è stato incentrato sull’organizzazione delle competenze in essere e sui contributi per la compilazione del III national report della CBD.
La Direzione per la Protezione della Natura, Focal
Point nazionale per la Convenzione sulla Biodiversità, ha
curato i precedenti rapporti nazionali ed alcuni rapporti tematici. Tutti i rapporti sono disponibili sul sito
<www.biodiv.org>.
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 31
IL DOCUMENTO “LINEE STRATEGICHE PER
L’ ATTUAZIONE DELLA CONVENZIONE DI R IO DE
JANEIRO E PER LA REDAZIONE DEL PIANO NAZIONALE
SULLA BIODIVERSITÀ”
[Giovanni Cannata, Davide Marino]
Le linee guida redatte dal Ministero dell’Ambiente
rappresentano un primo tentativo di dare avvio concreto alla Convenzione, utilizzando risorse e strumenti già
disponibili grazie ad altri strumenti di politica ambientale, quali, ad esempio, il Programma Triennale per la
Tutela dell’Ambiente (ex legge 305/89) e il Programma
Triennale per le Aree Protette previsto dalla Legge n.
394 del 1991. Di questo strumento si sottolinea la necessaria flessibilità, proprio perché, data la sua specificità, gli obiettivi dovranno essere continuamente ridefiniti in base alle nuove conoscenze e alla valutazione
dei risultati ottenuti.
Il Programma di Azioni predisposto è articolato in 9
aree di lavoro, per ognuna delle quali vengono individuati gli obiettivi specifici all’interno dell’obiettivo generale dell’area e le azioni da attivare per raggiungere gli
obiettivi specifici: conoscenza del patrimonio italiano
di diversità biologica; monitoraggio sullo stato della biodiversità; educazione e sensibilizzazione; conservazione
in situ (aree protette, territorio non protetto, recupero
ambientale); promozione delle attività sostenibili; contenimento dei fattori di rischio; conservazione ex situ;
biotecnologie e sicurezza; cooperazione internazionale
ed ecodiplomazia.
Nel Documento si afferma la necessità della creazione di un’Unità per la Convenzione sulla Diversità Biologica, chiamata ad occuparsi della concreta attuazione
della Convenzione in Italia e che fungerà anche da coordinamento tra i vari Ministeri chiamati a collaborare. Nel Documento si dà conto, inoltre, delle risorse finanziarie disponibili. Tali risorse si suddividono in fondi stanziati ad hoc e capitoli di spesa delle Amministrazioni direttamente coinvolte nell’attuazione della Convenzione. Si fa anche riferimento alla possibilità di riutilizzare risorse di altre Amministrazioni, dopo opportuna concertazione tra le Amministrazioni interessate,
ai fini specifici della Convenzione. A ciò si aggiunge la
possibilità di utilizzare fondi disponibili a livello comunitario per programmi e progetti specifici.
L’obiettivo strategico del 2010: “Arrestare la perdita
di biodiversità entro l’anno 2010”
Alle soglie del III millennio nell’ambito del Consiglio
d’Europa, i capi di Stato e di Governo che hanno partecipato al Summit di Gothebörg (15-16 giugno 2001)
hanno convenuto sulla necessità di intraprendere azioni
concrete finalizzate ad arrestare la perdita di biodiversità entro il 2010. Tale decisione è stata in seguito condivisa e rafforzata in altre prestigiose sedi internazionali
quali il Summit mondiale per lo Sviluppo Sostenibile
(Joahnnesburg, settembre 2002) durante il quale nell’ambito del decennale della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, è stato adottato un Piano contenente azioni mirate a una significativa riduzione della perdita di
biodiversità entro l’anno 2010.
Nell’ambito della Convenzione per la diversità Biologica, le ultime due COP (Aja, 2002; Kuala Lumpur, 2004)
sono state caratterizzate da numerose decisioni volte a incrementare le attività delle Parti contraenti per un significativo raggiungimento dell’obiettivo globale, avviando
anche un processo di revisione sul programma di lavoro
della Convenzione stessa.
A livello continentale, attraverso la Risoluzione di Kiev
e la Strategia Pan-Europea, l’Europa ha individuato le
azioni da intraprendere per il raggiungimento dell’obiettivo del 2010.
Anche a livello comunitario, la Commissione Europea
adottando nel luglio 2002 il VI Programma d’Azione per
l’ambiente ha espresso, nella sua sintetica denominazione “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta”, la
propria adesione all’obiettivo globale del 2010 il cui rispetto ha guidato la scelta delle priorità nella programmazione delle azioni da intraprendere.
Durante lo svolgimento delle varie attività istituzionali che gli Stati ed i Governi portano avanti attraverso
Strategie, Piani e Programmi sia a livello nazionale che
internazionale, è emersa nelle varie sedi la necessità di
coinvolgere la società civile e tutti gli attori ed i settori
coinvolti affinché le tematiche ambientali vengano affrontate al fine di raggiungere sinergicamente l’obiettivo comune di arrestare la perdita di biodiversità, in modo tangibile, entro l’anno 2010.
La presenza millenaria dell’uomo nel continente europeo è in parte causa stessa dell’elevata biodiversità che lo
caratterizza. La varietà di ecosistemi, di habitat e le numerose specie che vivono sul nostro territorio e nei nostri mari, rappresentano una ricchezza che deve essere salvaguardata e monitorata in quanto parte della biodiver-
32 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
sità a livello planetario. Con questa consapevolezza sono
state messe a punto le strategie dell’Europa occidentale
ed orientale.
Nel maggio 2004 in Irlanda (Malahide) si è svolta una
Conferenza organizzata dalla Presidenza Irlandese e cofinanziata dalla Commissione europea, con l’obiettivo di
sensibilizzare tutti i settori della società civile e fornire alla Commissione e al Parlamento un programma di lavoro condiviso che ha prodotto un documento, approvato
dal Consiglio dell’Unione europea il 28 giugno 2004,
contente 18 obiettivi, strutturati a loro volta in un centinaio di targets, scaturiti dal processo di revisione della
strategia sulla biodiversità e dei relativi piani d’azione.
Il documento di Malahide esprime i risultati della re-
visione tecnico-scientifica della strategia comunitaria sulla Biodiversità e sui rispettivi Piani di azione effettuata in
questo ultimo anno attraverso la ridefinizione delle priorità sulle quali si dovranno produrre azioni concrete nei
prossimi 5 anni.
Il documento è preceduto da un preambolo che sarà completato dalla Commissione in collaborazione con
la Presidenza Irlandese e segue la struttura della Strategia Europea sulla biodiversità del 1998 (Politiche settoriali e Temi).
Nel complesso sono stati individuati 18 obiettivi, strutturati a loro volta in un centinaio di target, e sono stati
aggiunti un nuovo settore e un nuovo tema a quelli precedentemente stabiliti dalla Strategia del 1998.
LA RIFORMA DELLA POLITICA AGRICOLA COMUNE: DA AGENDA 2000 AL DECRETO FISCHLER
[Giulia Bonella]
Il processo di riforma della Politica Agricola Comune (PAC), a partire da Agenda 2000 si sta caratterizzando per
un progressivo rafforzamento dell’integrazione degli obiettivi ambientali e di conservazione della biodiversità nel quadro delle politiche di mercato e dello sviluppo rurale. La riforma della PAC (Regolamento CE 1782/03) si basa infatti su nuovi principi guida - disaccoppiamento, condizionalità ambientale, rafforzamento dell’intervento di sviluppo
rurale - la cui corretta attuazione a livello di Stato membro contribuirà in maniera significativa al mantenimento del
paesaggio agrario e forestale. L’elemento portante della riforma è il “disaccoppiamento”: se prima i contributi dell’Unione Europea venivano erogati in base al tipo di coltura praticata, con l’entrata in vigore della riforma l’impresa agricola percepira’ un unico importo di riferimento e non singoli premi per tipologia di prodotto coltivato. Diversamente
da ciò che potrebbe apparire a prima lettura, ciò non consente all’agricoltore di ricevere aiuti abbandonando i terreni. Il principio del disaccoppiamento è infatti complementare ad un altro importate criterio: la “condizionalità”. Il sostegno pubblico all’agricoltore è “condizionato” dal rispetto di standard ambientali e sanitari che si traducono nell’obbligatorietà di adottare tecniche eco-compatibili, rispettare le norme relative alla sicurezza alimentare, rispettare il benessere degli animali e mantenere la terra in buone condizioni agricole e ambientali. La condizionalità assume il significato strategico di strumento economico e normativo di integrazione della PAC con le altre politiche di settore, in
particolare quella ambientale.
L’Italia ha recepito il Reg. CE 1782/03 con il DM 5 agosto 2004 recante “Disposizioni per l’attuazione della riforma della politica agricola comune”. In attuazione dell’art.5 di tale decreto, il 13 dicembre 2004 è stato emanato il
D.M. n. 5406 esplicitamente indirizzato al criterio della condizionalità. Gli allegati 1 e 2 del D.M. n. 5406 definiscono i cosiddetti Criteri di Gestione Obbligatori (CGO) e le Buone Condizioni Agronomiche e ambientali (BCAA), disciplinando gli impegni che l’agricoltore è chiamato a rispettare anche nei confronti dell’ambiente e della biobiversità, con particolare attenzione ai siti Natura 2000.
Anche la proposta di Regolamento del Consiglio d’Europa sullo sviluppo rurale da parte del Fondo Europeo per la
Sviluppo Rurale (FEASR) per il periodo 2007/2013 pone come obiettivo il sostegno ad azioni volontarie di gestione
agricola e forestale integrate alla tutela dell’ambiente ed alla conservazione della biodiversità.
La proposta di Regolamento prevede, infatti, nella Sezione 2, Asse Prioritario 2, “Gestione del territorio”, l’individuazione di misure di sostegno intese a promuovere l’utilizzazione sostenibile dei terreni agricoli e delle superfici forestali, considerando in particolare specifiche indennità a favore degli agricoltori e dei selvicoltori all’interno dei siti
Natura 2000. Sono inoltre previste misure di sostegno agli investimenti aziendali non produttivi che favoriscano in
termini di pubblica utilità la rete Natura 2000.
ACCORDI PER LA CONSERVAZIONE E LO SVILUPPO SOSTENIBILE • 33
I Settori sono quindi:
1. Conservazione e uso sostenibile delle risorse naturali
(obiettivi 1=>4))
2. Agricoltura (obiettivo 5)
3. Foreste (obiettivo 6)
4. Pesca (obiettivo 7)
5. Politica regionale e pianificazione spaziale (obiettivo 8)
6. Energia,Trasporti, costruzioni ed industrie estrattive
(obiettivo 9)
7. Turismo (obiettivo 10)
8. Cooperazione economica e sviluppo (obiettivo 11)
9. Commercio internazionale (nuovo) (obiettivo 12)
E i Temi:
1. Conservazione delle risorse Naturali (nessun ulteriore
obiettivo, si fa riferimento al settore 1)
2. Equo accesso alle risorse e tradizioni locali (obiettivi
13 e 14)
3. Ricerca, monitoraggio e indicatori (obiettivi 15 e 16)
4. Educazione, formazione e sensibilizzazione (obiettivo 17)
5. Governance internazionale ambientale (nuovo) (obiettivo 18)
Fanno parte integrante del documento 2 allegati:
- Primo set di indicatori di riferimento proposti sulla
biodiversità (con riferimento a quanto riportato nell’ultima COP della CBD)
- “Dichiarazione di Killarney e raccomandazioni sulla
Ricerca per la Biodiversità” adottata dall’Assemblea della Piattaforma Europea per la Strategia della Ricerca
sulla Biodiversità nel maggio 2004.
Il documento è scaricabile dal sito:
<http://www.eu2004.ie/templates/document_
file.asp?id=17810>.
Durante l’incontro di Malahide è stata lanciata ufficialmente, a livello europeo, l’iniziativa IUCN denominata “COUNTDOWN 2010” che ha lo scopo di sensibilizzare i vari settori e la società civile sul raggiungimento dell’obiettivo del 2010.
Recentemente l’Italia, in occasione del primo incontro del gruppo di lavoro sulle aree protette della CBD
(Montecatini 13-17 giugno 2005) ha aderito formalmente, come nazione, all’iniziativa “COUNTDOWN 2010”
e ha lanciato il sito web <www.iucn.it>.
Bibliografia
BENNETT G., 2002 – Guidelines on the application of existing international instruments in developing the Pan-European Ecological Network. Committee for the Activities of the Council of Europe in
the field of Biological and Landscape Diversity. Nature and Environment, n.124, Council of Europe Publishing
DALY H.E., 1981 – Lo stato stazionario. Sansoni, Firenze.
GOMES S., 2002 – Analisi comparativa degli elementi che esprimono il
concetto di sostenibilità. Oikonomia, n. 1, giugno 2002.
MEADOWS D.H., MEADOWS D.L., RANDERS J., BEHRENS III W.W.,
1972 – I limiti dello sviluppo-Rapporto del System Dynamics Group,
MIT, per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità. Biblioteca della EST, Mondadori, Milano.
Flora, Fauna, Vegetazione e Habitat •35
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ
CONOSCERE LA BIODIVERSITÀ
PER CONSERVARLA
[Carlo Blasi]
Conoscere significa definire i modelli capaci di spiegare strutture e funzioni a diversa scala temporale, spaziale
e di organizzazione biologica.
Si parla tanto di ecologia e di biodiversità senza rendersi conto che per parlarne è necessario conoscere gli elementi che fanno parte degli ecosistemi e le relazioni complesse di natura ecosistemica che si vengono a creare tra
le popolazioni che fanno parte di un ecosistema.
Volendo conoscere, anche sinteticamente, in che modo si è modificato nel tempo il significato stesso del
termine ecologia possiamo risalire alla metà dell’800
quando ERNESTO HAECKEL parlava di “studio delle relazioni tra organismo e ambiente”. Con l’aumentare
delle ricerche in campo vegetazionale e biogeografico
si ebbe un grande impulso nello studio delle interazioni tra ambiente fisico e biologico. I fenomeni ecologici venivano interpretati in modo sempre più complesso ponendo al centro dello studio ecologico la valutazione delle relazioni tra singoli organismi e l’ambiente circostante. Così dall’analisi delle relazioni a scala di
individuo si passò rapidamente alla comunità esaltandone le peculiarità in termini di competizione e di solidarietà per arrivare a riconoscere una trama discreta
e non casuale nella distribuzione del paesaggio vegetale. Si parlava quindi di associazione vegetale, di zoocenosi (vita in comune di diversi animali) e di sinecolo-
gia (ecologia delle comunità). Già verso la fine del XIX
secolo si cominciarono a pianificare lavori integrati dedicati alla valutazione complessiva della biocenosi (vita in comune delle specie), considerando insieme il
comparto floristico e faunistico.
Nel frattempo, gli sviluppi della genetica ponevano
l’accento sullo studio delle popolazioni e svolsero un ruolo molto rilevante nel passaggio dallo studio dell’individuo a quello della comunità. Nel 1923 l’americano TANSLEY parlava di sistema ecologico o ecosistema rafforzando la relazione tra organismi viventi e ambiente. Il comparto biologico veniva analizzato sulla base della teoria
dei sistemi e pertanto le scienze biologiche si integravano in modo sempre più efficiente con le scienze fisiche e
con le scienze umane. L’ecosistema diventò l’unità di riferimento dell’ecologia in quanto sintesi della valenza fisica e biologica e infine in questi ultimi anni abbiamo assistito all’inserimento del paesaggio nel contesto ecologico e ambientale.
Riconosciuta questa stretta relazione tra specie, comunità, paesaggi e ambiente naturale si può ben dire che
l’ecologia è la disciplina che studia la biodiversità nelle diverse forme di organizzazione biologica in modo complesso e sistemico nello spazio e nel tempo.
L’attenzione per la biodiversità, forse sarebbe più corretto parlare di attenzione per la conservazione della biodiversità, è strettamente legata alla Convenzione sulla Diversità Biologica sottoscritta a Rio nel giugno del 1992
durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo.
36 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Nel 1972 la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano a Stoccolma (vedi § Le convenzioni per la
conservazione e lo sviluppo sostenibile) indicò la necessità
di accordi tra i governi e di un nuovo ordine nei rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri, entrambi responsabili, se
pure per motivi diversi, del degrado planetario. Le varie
crisi del petrolio del 1973 e del 1979 sembrarono ricordare al mondo che occorre fare un uso parsimonioso delle risorse naturali e che è indispensabile usare la scienza e
la tecnica orientandole al fine di salvare la sopravvivenza
della vita sulla Terra.
Da qui nasce la crescente attenzione per lo “sviluppo
sostenibile” inteso come il processo capace di soddisfare
i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere le
risorse naturali indispensabili per soddisfare le necessità
delle generazioni future.
Secondo questo modello di riferimento, la conoscenza della biodiversità diviene elemento essenziale di monitoraggio, di valutazione, di pianificazione, di gestione
e quindi di conservazione. Il sistema biologico che più
di qualsiasi altro può essere preso come esempio di sistema a elevata biodiversità è la foresta tropicale: la loro ricchezza biologica supera ogni immaginazione. In 50 ettari della penisola della Malesia vi sono più specie di alberi di quanti se ne trovano in tutta l’America settentrionale. Queste foreste, che coprono circa il 6% della su-
perficie terrestre, danno ospitalità a oltre il 70% di tutte le specie della Terra. Attualmente gli scienziati conoscono non più del 10% delle oltre 120.000 specie vegetali presenti nele foreste tropicali e ne hanno studiato in
modo approfondito solo l’1%.
Il livello di conoscenza dei fenomeni che stanno avvenendo nei diversi sistemi ambientali del pianeta è veramente molto limitato, conosciamo meglio la superficie
della luna di molte comunità biologiche che stanno rapidamente scomparendo sulla Terra.
Una delle cose che ci deve far riflettere è lo scarso impegno (ovviamente non si tratta di impegno personale)
che viene dedicato al riconoscimento degli esseri viventi. Ne conosciamo forse il 10% (alcuni scienziati parlano dell’1-2%) e ancor meno ne conosciamo le caratteristiche individuali e le modalità di interazione. Ogni nazione dovrebbe impegnarsi per conoscere la propria biodiversità e adoperarsi perché venga compresa, utilizzata
e salvata.
È purtroppo vero che nei Paesi industrializzati non si
riesce a percepire l’importanza della conservazione della biodiversità in quanto se ne è perso il contatto diretto. In proposito basti pensare che le 250.000 specie di
angiosperme di tutto il mondo ci offrono una straordinaria ricchezza di fiori e frutti, ma in realtà sono solo
poche decine quelle che normalmente utilizziamo per
alimentarci.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 37
I “NUMERI” DELLA BIODIVERSITÀ
È utile, nel voler descrivere lo stato della biodiversità
di un paese tenere presente anche l’aspetto quantitativo.
Colpisce pensare che, con i semi raccolti dalle piume di
un unico uccello, CHARLES DARWIN fu in grado di coltivare 82 specie di piante, che nella parte più urbana della
città di Roma (entro il raccordo anulare) vivono circa
1.300 specie vegetali, che la Flora d’Italia è costituita da
oltre 7.500 entità floristiche (vedi § Piante vascolari), la
Fauna da oltre 60.000 (vedi § Fauna), che la Flora del
Parco del Cilento si avvicina a circa 3.000 specie, che nel
piccolo Parco Nazionale del Circeo vivono oltre 1.500
specie vegetali e che lungo la fascia costiera pontina si hanno lembi di vegetazione forestale con 7-8 specie del genere Quercus quando in interi paesi dell’Europa centrale
se ne hanno solo due o tre. Possiamo essere indifferenti a
tutto ciò?
È nel procedere veloce della cultura e della sensibilità
ambientale che nasce l’esigenza di imparare a conoscere
la biodiversità. Viviamo immersi nella biodiversità ma
purtroppo non si dispone degli strumenti necessari per
riconoscerla. Fino a pochi decenni or sono l’ignoranza naturalistica era prerogativa del cittadino, oggi sta coinvolgendo anche il resto della popolazione. Non è agevole collegare quello che mangiamo con i luoghi di produzione,
come non è agevole saper interpretare le potenzialità della natura in funzione dell’osservazione della situazione
reale. Nei Paesi industrializzati non si accettano le limitazioni imposte dal normale evolvere dei fenomeni ambientali. Rispondiamo in modo emotivo solo alle catastrofi ambientali, senza però pensare che nella maggior
parte dei casi è l’uomo con la sua volontà di negare ogni
autonomo processo della natura a trasformare un fenomeno in catastrofe.
Per la natura la diversità è un bene primario che ne regola e ne condiziona lo sviluppo: se l’uomo non avesse
sostituito i boschi misti dell’Europa centrale con impianti forestali di abete rosso, non avremmo avuto in modo
così evidente il fenomeno della morìa del bosco. L’abete
rosso era senza dubbio più utile degli aceri, dei frassini e
delle querce per produrre legname da costruzione, ma nessuno pensava che fosse così sensibile all’inquinamento atmosferico. I sistemi naturali trovano la loro capacità di
adattamento e di stabilità proprio nella ricchezza di specie e nella diversità di comportamento delle stesse.
A questo principio si affidava l’agricoltura tradizionale, sempre diversa nelle produzioni e nelle attività; a questo principio i moderni ecologi fanno riferimento per pia-
nificare un modello territoriale efficiente e funzionale anche in termini di rete ecologica. Non è ancora stata formalizzata una definizione di “naturalità diffusa”, ma senza dubbio si identifica con un modello territoriale fortemente diversificato con al proprio interno tutti gli stadi
della successione naturale: aree aperte, coltivi, cespuglieti e boschi.
Attualmente a livello di elaborazione teorica è centrale nella gestione delle risorse naturali il contributo della
ricerca scientifica, così come è centrale l’approccio ecosistemico e la definizione della rete ecologia territoriale.
L’applicazione della Direttiva Habitat e della stessa CBD
sta favorendo inoltre nuove ricerche finalizzate alla valutazione dello stato di conservazione e alla valutazione di
incidenza, prassi complessa di natura ecosistemica necessaria per verificare la sostenibilità di variazioni d’uso o di
nuovi interventi nei siti della rete Natura 2000.
Un approccio paesaggistico allo studio della biodiversità risulta quanto mai attuale e in linea con gli obiettivi
della CBD in quanto ha il vantaggio di tenere sempre rigorosamente collegati i fattori ambientali con quelli umani (vedi § Biodiversità e paesaggio).
L’analisi paesaggistica così definita risponde perfettamente ai requisiti di un’analisi ecologica. Lo studio e la
conoscenza del paesaggio implica l’analisi della complessità, della integrazione dei saperi nella scala spaziale e temporale al fine di ricostruire i processi che hanno portato
alla situazione attuale e definisce i modelli dinamici da
applicare agli scenari futuri.
Bibliografia
BLASI C., 2003 – Scoprire la biodiversità. In: Paesaggi della biodiversità. Collana Immagini + Idee 01, pp. 8-27. Connecting cultures
editions
BLASI C., PAOLELLA A., 1992 – Progettazione ambientale. Cave, fiumi,
strade, parchi, insediamenti. Ed. NIS - Roma.
GIACOMINI V., 1980 – Perché l’ecologia. Ed. La Scuola, Brescia
HUDSON E.W. (ed.), 1991 – Landscape linkages and biodiversity. Island press. Washington.
PEARCE D., MORAN D., 1995 – The economic value of biodiversity.
IUCN, Earthscan, Londra.
38 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
DALL’IDENTIFICAZIONE DELLE CAUSE ALLA INDIVIDUAZIONE DEI PUNTI SENSIBILI
[FAUSTO MANES, FRANCESCA CAPOGNA]
Nel 1988 l’ecologo inglese NORMAN MYERS definì il concetto di hotspot al fine di identificare a scala globale un insieme di ecoregioni terrestri ad alta priorità di conservazione
(MYERS et al. 2000). Gli hotspot sono aree caratterizzate da
un’eccezionale concentrazione di specie endemiche, ma nello
stesso tempo sottoposte a un’eccezionale perdita di habitat. Il
44% delle specie vascolari e il 35% dei vertebrati sono confinati nei 25 hotspot che rappresentano l’1,4% della superficie
terrestre. Undici hotspot hanno perso almeno il 90% della loro vegetazione naturale originaria e tre di questi ne hanno persa il 95%.
I 25 hotspot comprendono diversi tipi di habitat. La foresta tropicale prevale in 15 hotspot e gli ecosistemi di tipo Mediterraneo in 5. Nove comprendono prevalentemente isole e
sedici hotspot si trovano ai tropici (figura 1).
L’identificazione e la designazione di ciascun hotspot avvengono sulla base della valutazione di tre fattori chiave che determinano anche l’importanza stessa di ciascuna area interessata: il numero di specie endemiche, il rapporto numero di
specie endemiche/area, sia per le specie vegetali che per i vertebrati, e la perdita di habitat. In tabella 1 sono elencate le 8
ecoregioni più calde (hottest hotspot) che appaiono almeno tre
volte nella graduatoria dei primi 10 per ogni fattore chiave di
identificazione. I primi della lista sono il Madagascar, le Filip-
pine e il Sundaland seguiti dalla foresta atlantica del Brasile e
dai Caraibi. Due hotspot si aggiungono a questa graduatoria:
le Ande Tropicali e il Bacino del Mediterraneo considerati candidati hyper-hot per la presenza in essi di un grande numero di
specie vegetali endemiche: 20.000 e 13.000 rispettivamente.
In particolare il Bacino del Mediterraneo è il più grande dei
5 ecosistemi di tipo mediterraneo; i 2.362.000 Kmq (estensione originaria della vegetazione primaria) di hotspot si affacciano sul Mediterraneo e comprendono parte della Spagna,
della Francia, dell’Italia, dei Balcani, della Grecia, della Turchia, della Siria, del Libano, della Tunisia, dell’Algeria, del Marocco e di centinaia di isole sparse. Della originaria estensione della vegetazione primaria rimangono solo 110.000 Kmq
(4,7%), la più bassa percentuale osservata tra tutti gli hotspot
della terra. In queste aree ci sono 25.000 specie di piante vascolari, 13.000 delle quali (52%) sono endemismi (tabella 2).
Questo hotspot (Bacino del Mediterraneo) è suddivisibile
in altri 10 mini-hotspot (figura 2) che coprono il 15% dell’area
totale, ma comprendono il 37% di tutti gli endemismi di quest’area. Questa caratteristica rende questo hotspot di importanza prioritaria per la conservazione della biodiversità. La macchia mediterranea, caratterizzata da arbusti sclerofilli (Juniperus, Myrtus, Olea, Phillyrea, Pistacia e Quercus), si estende su
più della metà della regione. Arbutus, Ceratonia, Chamaerops
Fig. 1 - I 25 “hotspot” o ecoregioni terrestri ad alta priorità di conservazione.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 39
HOTSPOT
Madagascar
Filippine
Sundaland
Foresta Atlantica del Brasile
Caraibi
Indo-Burma
Siri Lanka
Le montagne dell’ “Eastern Arc”
e Foresta costiera della Tanzania
Piante
endemiche
9.704
5.832
15.000
8.000
7.000
7.000
2.180
1.500
Piante endemiche/area
(n° di specie per 100Km2)
16,4
64,7
12,0
8,7
23,5
7,0
17,5
75
Vegetazione primaria
ancora presente (%)
9,9
3,0
7,8
7,5
11,3
4,9
6,8
6,7
Punteggio per la
designazione
5
5
5
4
4
3
3
3
Tabella 1 - Le 8 ecoregioni a più alta priorità di conservazione (“Hottest Hotspots”).
e Laurus sono importanti componenti della vegetazione mediterranea e rappresentano dei relitti della foresta originaria presente 2 milioni di anni fa. Arbusti quali Artemisia, Astragalus
ed Ephedra e alberi come Acer, Betula, Cercis, Fagus e Ulmus sono subentrati durante il Pleistocene, provenienti dall’Europa e
dall’Asia e sono ancora presenti nella flora mediterranea. Altre
specie degne di nota sono Cedrus sp. pl., presente a Cipro, in
Marocco e in Algeria e la palma nativa del mediterraneo, Phoenix theophrasti, in remoti siti della Turchia e della Grecia.
MYERS N., MITTERMEIER R.A., MITTERMEIER C.G., DA FONSECA
G.A.B, KENT J., 2000 – Biodiversity hotspots for conservation
priorities. Nature, 403: 853-858.
Estensione originaria della
vegetazione primaria (Km2)
Vegetazione primaria rimanente (Km2)
(% dell’estensione originaria)
Aree protette (Km2)
(% di hotspot)
Specie vegetali
Piante endemiche
(% di piante globali, 300.000)
Rapporto specie/area per 100 Km2 di hotspot
2.362.000
110.000
(4,7)
42.123
(38,3)
25.000
13.000
(4,3%)
11,8
Tabella 2 - Principali caratteristiche della vegetazione presente
all’interno del hotspot del Bacino del Mediterraneo (MYERS et al.,
2000).
Fig. 2 - “Hotspot” del Bacino
del Mediterraneo
40 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
BIODIVERSITÀ E BIOGEOGRAFIA
BIOGEOGRAFIA E RICCHEZZA DI SPECIE
[Carlo Blasi, Goffredo Filibeck, Augusto Vigna Taglianti]
La posizione geografica dell’Italia
La distribuzione degli organismi risponde a due categorie di fattori: i fattori ecologici, cioè le caratteristiche
dell’ambiente che consentono o meno a una data specie
di vivere in un dato sito, nonché le interazioni fra organismi che possono influenzare le possibilità che una specie ha di vivere in un sito; e i fattori biogeografici, cioè
la maggiore o minore possibilità per una specie di raggiungere un ambiente adatto ad essa. In altre parole, i
confini dell’areale di un organismo non dipendono solo
dalle caratteristiche ambientali, ma anche dalla presenza, tanto attuale quanto passata, di barriere e collegamenti geografici in grado di condizionare la dispersione della specie.
Ne consegue che anche la ricchezza di specie di un territorio va spiegata tanto in chiave ecologica che biogeografica. Così, l’elevata diversità faunistica e floristica dell’Italia è dovuta da un lato alla diversità di ambienti del
nostro Paese, che racchiude in uno spazio ristretto una
grande complessità di tipologie litologiche, topografiche
e climatiche; dall’altro alla storia paleogeografica e paleoclimatica assai complessa, che ha fatto sì che l’Italia potesse essere raggiunta da contributi floristici e faunistici
di origini molto diverse.
Il presente capitolo intende pertanto esporre sinteticamente i principali eventi storici che hanno influenzato
l’attuale popolamento vegetale ed animale del territorio
italiano, nonché le conseguenze che tali eventi hanno lasciato nel modello distributivo attuale della flora e della
fauna all’interno del Paese.
Un’accurata lettura biogeografica, in chiave storica ed
ecologica, può permettere di comprendere meglio le origini e il divenire di questa diversità biologica, di descriverne la distribuzione e di mettere in luce le aree geografiche a maggior ricchezza di specie.
L’area mediterranea rappresenta la porzione Sud-occidentale della regione Paleartica ed è compresa tra la zona
di transizione saharo-sindica a Sud, l’area caucaso-turanica ad Est e l’Europa centrale a Nord. Comprende quindi il Mar Mediterraneo e il Mar Nero e le terre circostanti, da riferire a ben tre continenti diversi: l’Europa meridionale, l’Africa settentrionale e l’Asia occidentale.
Si tratta di un’area complessa, la cui stessa posizione
geografica ne giustifica la elevata biodiversità, condizionando la compresenza di numerose e distinte realtà bioclimatiche ed ecosistemiche. Soprattutto la sua storia pregressa dal punto di vista paleogeografico e paleoclimatico, con le trasformazioni del bacino della Tetide, le diverse fasi orogenetiche, la formazione del Mediterraneo, lo
spostamento di placche di varia estensione, la vasta emersione di terre durante il Messiniano e le glaciazioni del
Pleistocene, ha svolto un ruolo di enorme importanza nel
modellare il popolamento vegetale e animale dell’area mediterranea.
L’Italia, a sua volta, è in posizione centrale nell’area
mediterranea e il bacino tirrenico, che ne rappresenta il
centro geometrico, è circondato dalla penisola e dalle
isole maggiori. Questa posizione ha senza dubbio facilitato, e continua a facilitare, i fenomeni di colonizzazione da parte di specie provenienti dalle terre circostanti, in particolare da occidente, da Sud e da oriente. A
Nord, l’Italia è delimitata dall’arco alpino, che la separa e contemporaneamente la collega con l’Europa centrale, condizionandone il popolamento da parte delle
componenti settentrionali e orientali.
La ricchezza di specie
La ricchezza di specie, citata talvolta come “numerosità”, spesso definita semplicemente come “biodiversità”, rappresenta l’indicatore più immediato e più utilizzato per la valutazione della diversità specifica o tassonomica di un’area.
Il numero di specie presenti in Italia è altissimo: senza
considerare qui Procarioti, Protisti, Alghe e Funghi, le sole piante superiori o vascolari (Pteridofite, Gimnosperme
e Angiosperme) sono 6.711 (vedi § Piante vascolari), cui
vanno aggiunte circa 1.130 Briofite (vedi § Briofite); le specie animali (Metazoi) attualmente note per l’Italia entro i
suoi confini politici sono circa 55.600 (MINELLI, 1996).
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 41
Le 55.600 specie della fauna italiana sono ripartite nei
diversi gruppi tassonomici con percentuali che ben corrispondono allo schema generale della fascia temperata
della regione Paleartica. I vertebrati rappresentano poco
più del 2% della nostra fauna, mentre assolutamente predominanti, con oltre l’82% delle specie, sono gli artropodi, comprendenti i crostacei, gli aracnidi, i miriapodi
e soprattutto gli insetti, che da soli, con le loro oltre 37.000
specie, rappresentano il 67% degli animali italiani.
Venendo a considerare come il numero totale delle specie animali attestate per l’Italia si ripartisca nei diversi ambienti (terrestre, acqua dolce e marino), si può osservare
come ben 47.536 specie (secondo STOCH, 2000), oltre
l’86% dell’intera fauna, siano di ambienti continentali
(con circa 42.000 terrestri e 5.600 d’acqua dolce), contro “solo” 8.000 strettamente marine. Va tuttavia osservato che a tale enorme diversità terrestre concorrono, essenzialmente, pochissimi gruppi animali (gasteropodi polmonati, vertebrati e artropodi, tra cui dominano gli insetti, con circa l’80% delle specie). Al contrario, la fauna
marina, che pure ha una biodiversità a livello specifico assai minore, è caratterizzata da una biodiversità altissima
a livello “filogenetico”, con la presenza della quasi totalità dei diversi piani strutturali. Molti gruppi, e spesso interi phyla, sono infatti esclusivamente o quasi del tutto
marini, come i poriferi, gli cnidari, gli ctenofori, i nemertini, gli anellidi policheti, i picnogonidi tra gli artropodi,
i briozoi, gli echinodermi, i tunicati e i cefalocordati.
L’Italia nel contesto europeo
Rispetto ad altri paesi europei, l’Italia mostra una ricchezza floristica e faunistica nettamente elevata. Le oltre
6.700 piante superiori attualmente censite nella flora italiana (vedi § Piante vascolari), anche sottraendo le circa
1000 esotiche naturalizzate, costituiscono la metà delle
12.500 specie stimate per l’intera Europa e pongono il
nostro Paese come la prima nazione del continente per
numero assoluto di specie vegetali (WORLD CONSERVATION MONITORING CENTRE, 1992). Basti pensare che il
territorio della Regione Lazio contiene più specie dell’intero Regno Unito, che è di superficie circa uguale a quella dell’Italia (cfr.: STACE, 1991; ANZALONE, 1996). L’Italia è prima in Europa anche per ricchezza floristica misurata depurando l’effetto “ampiezza dell’area”, cioè per rapporto fra diversità osservata e diversità attesa in base alla
superficie (CRISTOFOLINI, 1998).
Per quel che riguarda la fauna, anche limitando il confronto a qualche gruppo animale per cui si dispone di
checklist affidabili, si può osservare come, ad esempio, il
numero di ortotteri presenti in Italia (333 specie) sia circa il triplo di quello accertato per la Polonia (102), il decuplo di quello della Gran Bretagna (30) e della Norvegia e oltre 150 volte quello dell’Islanda, mentre il numero di lepidotteri, uno dei gruppi di insetti meglio conosciuti, supera in Italia le 5.000 specie, più del doppio di
quelle presenti in Gran Bretagna (2.400). Per i coleotteri, un altro gruppo di insetti ben noto e di grande significato biogeografico (l’ordine rappresenta da solo oltre 1/4
delle specie animali!), in Italia sono presenti circa 12.000
specie, contro le 6.000 della Polonia, le 3.700 della Gran
Bretagna, le 3.375 della Norvegia e le 239 dell’Islanda
(MINELLI, 1996). In generale, l’Italia è uno dei paesi europei con la maggiore diversità documentata per moltissimi gruppi di invertebrati.
Queste osservazioni rispecchiano pienamente il ben
noto gradiente latitudinale della ricchezza di specie, per
cui la diversità diminuisce con l’aumentare della latitudine (ASHTON, 2001); in quanto Paese a bassa latitudine
nel contesto europeo, l’Italia è decisamente più ricca di
specie rispetto ai Paesi centro-europei o nordici.
L’Italia nel contesto mediterraneo
Prendendo in esame la diversità faunistica italiana rispetto a quella di altri paesi dell’area mediterranea, si può
osservare come la ricchezza di specie di vari gruppi animali (uccelli nidificanti, mammiferi, rettili, anfibi, neurotteri, lepidotteri ropaloceri e ditteri tipulidi) nell’Italia
peninsulare, più la Sardegna, la Sicilia e la Corsica, mostri un valore piuttosto basso se confrontata con la Penisola Iberica, l’Africa Nord-occidentale, i Balcani e l’Anatolia; questo valore è comparabile con quello delle prime
due regioni, ma nettamente inferiore a quello delle aree
del Mediterraneo orientale (OESTERBROEK, 1994). Tali
dati, tuttavia, sono profondamente influenzati dalla diversa estensione delle aree in esame: considerando infatti il numero di specie per unità di superficie, l’area italiana mostra i livelli più elevati.
Osservazioni in parte analoghe valgono per la diversità floristica: la flora della Turchia (circa 8.500 specie: DAVIS, 1965-1985) è più ricca di quella italiana, ma il rapporto specie/superficie è superiore nel nostro Paese.
Questi risultati possono essere coerentemente interpretati con il fatto che, nonostante la ridotta estensione, l’Italia mediterranea comprende una grande varietà di ambienti, rappresentativi della intera diversità ecosistemica
mediterranea.
42 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
ASPETTI STORICI DEL POPOLAMENTO
A
ANIMALE E VEGETALE
Gli aspetti storici del popolamento animale
Pur relativamente giovane, a partire dall’Oligocene
l’Italia ha subito una storia paleogeografica e paleoecologica molto complessa, che ha inciso profondamente su
composizione e distribuzione della sua fauna e i cui principali eventi possono essere molto schematicamente riassunti come segue:
1. Il distacco di microplacche europee, che, nel corso del
Miocene (da 23 a 6 milioni di anni fa circa) (figura
2.1a), si sono spostate verso Sud, andando a saldarsi al
Nord Africa o alla nascente catena appenninica o che
sono rimaste isolate (placca sardo-corsa). La presenza
di affinità faunistiche tra distretti italiani e Nord-africani o tra la placca sardo-corsa e l’Europa occidentale
possono essere attribuiti a tali eventi di vicarianza (GIUSTI e MANGANELLI, 1984; LA GRECA, 1990).
2. Il prosciugamento per evaporazione del Mediterraneo
nel Messiniano, avvenuto circa 6 milioni di anni fa e
dovuto alla chiusura per ragioni tettoniche del collegamento con l’Atlantico (figura 2.1b). In realtà sull’entità del prosciugamento non c’è unanimità di vedute,
ma certamente si ebbero collegamenti fra regioni precedentemente e successivamente separate dal mare, ad
es. fra il nordafrica e la Sicilia, fra quest’ultima e i nascenti Appennini e ancora fra gli Appennini e i Balcani. Ciò ha permesso imponenti scambi faunistici (GIUSTI e MANGANELLI, l.c.; STEININGER et al., 1985; AZZAROLI, 1990; ESTABROOK, 2001).
3. La riapertura dello stretto di Gibilterra, con la costituzione dell’attuale assetto geografico dell’area mediterranea e in particolare della penisola italiana nel Pliocene (da 5 a 2 milioni di anni fa) (figura 2.2a), le trasformazioni del clima da caldo-umido a mediterraneo fino
alla prima grande glaciazione, il Biber, quando si sono
saldati gli arcipelaghi appenninici meridionali ed è comparso l’ambiente di alta montagna (LA GRECA, 2002).
4. L’abbassamento del livello del mare (a causa del maggior
volume di acqua imprigionata nei ghiacciai polari) nel
corso delle glaciazioni pleistoceniche (ultimo milione di
anni), che ha connesso aree attualmente separate dal mare, consentendo ulteriori scambi faunistici (figura 2.2b).
Le fasi glaciali, e di conseguenza le connessioni fra le attuali isole, hanno occupato circa il 90% dell’ultimo milione di anni, in quanto i periodi freddi hanno avuto
durate dell’ordine di centinaia di migliaia di anni, gli in-
B
Fig. 2.1 - La paleogeografia dell’area mediterranea all’inizio del Miocene
(a), e nel Miocene superiore (Messiniano) (b), secondo STEININGER
et al. (1985), ridisegnato. Legenda: in azzurro le aree marine, in giallo
le terre emerse; al tratto sono accennati, per confronto, gli attuali
profili di costa.
terglaciali dell’ordine di decine di migliaia di anni (DAVIS, 1983; FOLLIERI e MAGRI, 1997). La geografia delle
coste che osserviamo attualmente risale a soli 13.000 anni fa, cioè alla fine dell’ultima glaciazione, durante la
quale il livello del mare è stato più basso di almeno un
centinaio di metri. Nel corso degli altri eventi glaciali
del Quaternario si sono avuti abbassamenti anche maggiori; pertanto l’attuale livello marino costituisce una situazione “eccezionale” e transitoria (ROHLING et al.,
1998). D’altra parte la presenza di ghiacciai ha agito da
fattore di disgiunzione fra popolazioni. Le glaciazioni
hanno influito sul popolamento anche in termini paleoecologici, a causa dello spostamento e dei mutamenti
di estensione relativa dei vari habitat.
Mentre le tracce dei più antichi eventi paleogeografici
e paleoclimatici (come la deriva delle microplacche e il
prosciugamento messiniano) sono oggi meno facilmente
identificabili a causa del successivo sovrapporsi di ulteriori processi storici, quelle più recenti delle glaciazioni pleistoceniche emergono prepotentemente e sono state ampiamente studiate dai biogeografi.
Le glaciazioni hanno profondamente influenzato il
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 43
B
A
Fig. 2.2 - La paleogeografia dell’Italia nel Pliocene (a) e nel Pleistocene, durante la glaciazione di Riss (b), secondo L A GRECA (2002), ridisegnato.
Legenda: a) in colore le terre emerse nel Pliocene, in azzurro le aree marine, al tratto le coste attuali; b) in colore chiaro i ghiacciai del Riss, in
grigio le terre emerse durante il Riss per abbassamento del livello del mare, in azzurro le aree marine, in marrone le terre emerse attuali.
popolamento animale del nostro paese determinando:
1. il ritirarsi verso Sud delle specie termofile, le quali hanno potuto sopravvivere in ambienti costieri o in oasi
xerotermiche;
2. la colonizzazione di aree meridionali da parte di specie settentrionali, le quali si sono potute spingere a Sud
grazie alla presenza d0i un clima più freddo e che, con
l’instaurarsi di un nuovo periodo caldo, sono eventualmente sopravvissute come “relitti glaciali”;
3. la frammentazione di popolazioni continue in popolazioni isolate per la formazione di barriere rappresentate da piccoli ghiacciai;
4. la successiva riespansione verso Nord delle popolazioni che si erano contratte a Sud.
Tutti questi fenomeni sono oggi ben documentati da
studi faunistici e da analisi filogenetiche condotte su basi morfologiche, biochimiche e molecolari in numerosi
gruppi animali (CARPANETO, 1975; CAPANNA, 1993; BULLINI et al., 1998; HEWITT, 1999; HUGOT e COSSON, 2000).
L’ambiente marino ha una sua storia biogeografica autonoma, indipendente da quella delle terre emerse, se si
esclude la platea continentale, e non offre modelli di distribuzione geografica che possano contribuire sostanzialmente allo studio della storia del suo popolamento.
Gli aspetti storici del popolamento vegetale
Le vicende paleogeografiche già citate in merito alla
storia della fauna, hanno notevolmente influito anche sulla storia floristica, ma con modalità spesso diverse a causa della grande differenza che separa piante e animali in
fatto di dinamiche di dispersione.
È importante anzitutto rilevare come il fatto che il territorio del nostro Paese sia un collage di regioni aventi
storia paleogeografica diversissima (DE GIULI et al., 1987;
BOCCALETTI e MORATTI, 1990; COSENTINO et al., 1993;
DOGLIONI e FLORES, 1995) costituisca una delle cause
della grande diversità floristica italiana. In particolare, in
relazione all’eterogeneità fitogeografica del nostro Paese
possiamo ricordare i seguenti eventi paleogeografici.
La Sardegna apparteneva, insieme a parte della Corsica e alle Baleari, a una zolla corrispondente circa alle attuali Spagna e Francia, dalle quali si è staccata soltanto all’inizio del Miocene. Presenta quindi numerose, interessanti disgiunzioni o vicarianze sardo-balearico-iberiche,
come pure paleondemismi relitti grazie alla sua relativa
stabilità tettonica (ARRIGONI, 1980).
Le Alpi hanno cominciato il loro sollevamento nel
Cretacico, mentre il sollevamento dell’Appennino (e la
44 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
contestuale apertura del Mar Tirreno) è molto più recente, avendo avuto inizio nell’Oligocene e con un sollevamento finale sino alle quote attuali che è addirittura di epoca Pleistocenica. Nel Pliocene gli Appennini
più che una catena continua costituivano un arcipelago
di grandi isole e di questo isolamento si hanno ancora
tracce nella flora.
Agli Appennini appartengono anche i monti della Sicilia settentrionale; la Calabria (insieme coi M. Peloritani in Sicilia), invece, costituisce un lembo della catena alpina. Poiché anche la Corsica settentrionale è geologicamente omogenea alle Alpi, si ipotizza che tra il Cretacico e l’Eocene la catena alpina abbia continuità di forma
e di estensione verso Sud (il Mar Tirreno non si era ancora aperto). La storia particolare della Calabria può contribuire a spiegare alcune notevoli disgiunzioni (Genista
anglica, specie dell’Europa atlantica che ricompare in Calabria; Alnus cordata e Pinus laricio, entrambi disgiunti fra
Appennino meridionale e Corsica).
La Puglia costituisce un lembo di zolla africana lasciato indisturbato dall’orogenesi appenninica. Nel Miocene
e Pliocene era collegata tramite terre emerse con la Dalmazia, attraverso la dorsale attuale Gargano-Tremiti-Pelagosa. Questo legame spiega una parte delle affinità floristiche transadriatiche, che però vanno ricondotte per
una parte probabilmente preponderante alle variazioni
quaternarie del livello marino (vedi oltre).
Nel Messiniano, il già citato disseccamento del Mediterraneo comportò quasi certamente importanti variazioni climatiche in senso continentale e arido, pertanto la
sua influenza sulla flora non è limitata alla creazione di
“ponti” geografici (che possono spiegare ad esempio vicarianze sardo-sicule-nordafricane: ARRIGONI, 1980): la
crisi climatica ha anche spinto, lungo queste nuove vie di
comunicazione, specie steppiche o xerofile o alofile (BOCQUET et al., 1978). Così, le specie della vegetazione ad arbusti spinosi delle alte montagne mediterranee presentano notevoli vicarianze fra le varie catene del bacino; le
specie delle rupi marittime sono collegate a specie di ambiente desertico montano dell’Asia centrale; le piante alofile dei nostri ambienti a suolo salato sono strettamente
affini a specie desertiche del Medio Oriente e dell’Asia
(PIGNATTI, 1994). La crisi del Messiniano può forse essere collegata anche con le amplissime disgiunzioni fra il
Mediterraneo e l’Africa orientale (o addirittura meridionale) mostrate da alcuni generi (Helichrysum, Silene) e
persino specie (Erica arborea) (BOCQUET et al., l.c.); tuttavia il problema costituito dal ricorrente pattern di disgiunzioni e vicarianze ai margini del continente africa-
no, che sembrano essere relitti di un bioma pan-africano
scomparso, è probabilmente più complesso (cfr. BRAMWELL, 1985).
Come avviene per la fauna, anche per la flora gli eventi risalenti al Terziario, seppur spesso ancora leggibili nel
paesaggio vegetale attuale, mantengono tracce limitate se
comparati all’enorme impatto esercitato in epoca molto
più recente dalle glaciazioni del Quaternario. Nelle regioni del Mediterraneo i glaciali non si sono manifestati come periodi in cui il territorio era dominato dai ghiacci:
infatti, in Europa meridionale si rinvengono tracce geomorfologiche solo di piccoli e isolati ghiacciai (cfr. ad es.
JAURAND, 1999). I dati palinologici delle regioni mediterranee, relativi a periodi corrispondenti alle fasi glaciali alpine e nordeuropee, pur essendo caratterizzati dall’assenza di polline di specie arboree, non registrano – a differenza di quanto avviene in Europa centrale – la presenza di specie di tundra, bensì presentano elevate quantità
di polline di Graminaceae, Chenopodiaceae e soprattutto
di Artemisia (FOLLIERI et al., 1988; TZEDAKIS, 1993; FOLLIERI e MAGRI, 1997; MAGRI e SADORI, 1999; ELENGA et
al., 2000). Questi pollini fossili vengono interpretati come indicativi di una vegetazione di tipo steppico; di conseguenza, si ipotizza che alle vere e proprie “glaciazioni”
dell’Europa centrale e settentrionale abbiano fatto riscontro nelle regioni mediterranee fasi di clima arido, forse
continentale ma non necessariamente molto freddo (SUC,
1984; FOLLIERI e MAGRI, 1994 e 1997; ELENGA et al.,
l.c.). Ciò significa che una vegetazione prevalentemente
erbacea ha dominato il paesaggio vegetale di gran parte
dell’Italia mediterranea per gran parte dell’ultimo milione di anni, con l’interruzione di brevi periodi forestali
(FOLLIERI e MAGRI, 1997).
Durante queste fasi, la flora arborea sopravviveva in
zone “di rifugio” meridionali, la cui localizzazione ed
entità non è ancora ben chiarita: gli ultimi studi ipotizzano che potesse trattarsi di una fascia di foreste a
media altitudine, ubicata soprattutto nelle tre penisole
mediterranee (iberica, italiana e balcanica) e nella regione caucasica (BENNETT et al., 1991; TZEDAKIS, 1993;
CARRIÓN GARCÍA et al., 2000; HEWITT, 2000, TARASOV et al., 2000). Da questi rifugi, al termine di ogni
glaciale si espandeva una rapidissima ondata di ricolonizzazione delle superfici rese di nuovo adatte alla vegetazione legnosa, fino a raggiungere gli estremi settentrionali dell’Europa.
Le principali conseguenze delle oscillazioni climatiche
pleistoceniche sulla fitogeografia del nostro Paese possono essere riassunte come segue.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 45
Impoverimento floristico rispetto ad altri continenti
L’Europa presenta, se confrontata con i settori dell’America settentrionale e dell’Asia orientale analoghi
per caratteristiche climatiche, un numero molto basso
di specie legnose. I macrofossili e i dati palinologici
mostrano chiaramente che questo impoverimento è dovuto agli eventi glaciali. L’assenza di queste massicce
estinzioni nelle regioni temperate degli altri continenti è stata spesso imputata al fatto che le specie non vi
avrebbero incontrato ostacoli geografici nelle continue
migrazioni Nord-Sud, mentre in Europa le catene montuose a orientamento Est-Ovest e il Mediterraneo avrebbero impedito le vie di fuga verso meridione. Tuttavia,
secondo BENNETT et al. (1991), i dati palinologici mostrano che le oscillazioni climatiche quaternarie provocavano migrazioni “di sola andata”: all’inizio di ogni
fase calda, le specie migravano dai rifugi dell’Europa
meridionale verso Nord, mentre all’esordio delle fasi
fredde non si aveva una migrazione a ritroso, ma semplicemente l’estinzione delle popolazioni settentrionali e la sopravvivenza delle sole popolazioni meridionali, rimaste nelle aree di rifugio. Questa ipotesi implica
che la sopravvivenza degli alberi europei attraverso il
Quaternario è avvenuta solo grazie a quei siti in cui le
specie potevano vivere sia durante i glaciali che durante gli interglaciali. Se in questi siti dell’Europa meridionale si verificava l’estinzione della popolazione di
una specie durante un interglaciale, allora l’intera specie probabilmente si estingueva durante il glaciale successivo (cfr. anche: TZEDAKIS, 1993; MAGRI, 1998). La
povertà della flora legnosa europea rispetto a quella
nordamericana si potrebbe quindi spiegare, secondo
questo modello, con il fatto che l’Europa meridionale
è immediatamente bordata dai deserti nordafricani,
pertanto l’area che rimarrebbe permanentemente forestata durante le diverse fluttuazioni climatiche sarebbe molto piccola.
Ricchezza floristica rispetto all’Europa centrale
Le estinzioni pleistoceniche da un lato spiegano perché l’Italia presenti una certa povertà floristica rispetto
a regioni di altri continenti con clima e geografia analoghi; dall’altro contribuiscono a motivare l’elevatissima diversità vegetale del nostro Paese quando comparato con l’Europa centrale e settentrionale. Infatti, oltre
che alla grande eterogeneità dell’ambiente fisico, la ricchezza della flora italiana è dovuta in gran parte anche
al fatto che la nostra Penisola è stata una delle aree di rifugio durante i glaciali.
Popolazioni separate dalle glaciazioni
Durante i glaciali le Alpi erano coperte da un’unica
grande calotta di ghiaccio; tuttavia alcune cime, per
posizione periferica o per morfologia molto ripida, restavano libere dai ghiacci (cosiddetti nunatakker). Molti taxa dell’attuale flora alpina presentano una distribuzione che è perfettamente coincidente con quella dei
nunatakker individuati su base geomorfologica, i quali formano essenzialmente due allineamenti a Nord e
a Sud della catena montuosa. Si verificano quindi i seguenti casi: a) specie che tuttora presentano una distribuzione frammentata e corrispondente con i singoli
nunatakker (es. Cytisus emeriflorus); b) serie di specie
affini nate da una specie unitaria che durante i glaciali si è frammentata su questi rifugi (ad es. il gruppo di
Papaver alpinum); c) coppie di specie affini nate dalla
disgiunzione Nord-Sud sui due lati delle Alpi (ad es.
Callianthemum anemonoides/C. kernerianum); d) specie che, pur essendo state separate dalle glaciazioni e
pur presentandosi tuttora in due popolazioni disgiunte sui due lati della catena alpina, non si sono differenziate (es. Rhododendron hirsutum). Si ha quindi la formazione di veri e propri tipi di areale legati alla distribuzione dei nunatakker (PIGNATTI , 1994; C ONTE e
CRISTOFOLINI, 2000).
Relitti glaciali
Specie a corologia ed ecologia boreale/alpina si trovano talora a quote molto basse: così ad es. le zone umide della costa toscana fra la Versilia e la Foce dell’Arno
ospitano Drosera rotundifolia, Eriophorum gracile, Rynchospora alba ecc. (GIACOMINI, 1958). Queste specie sono state interpretate come relitti di un clima di tundra,
sopravvissuti grazie alle particolari condizioni bioclimatiche (elevata oceanicità e scarsa aridità estiva) della Toscana settentrionale. Invece, i piccoli popolamenti di
Fagus sylvatica a bassa quota presenti in varie località dell’Italia centrale e meridionale (cfr. ad es.: ANZALONE,
1961a e 1961b; SCOPPOLA e CAPORALI, 1998), talora citati anch’essi come “relitti glaciali”, vanno in realtà interpretati esclusivamente in funzione delle particolarità
attuali degli ambienti in cui si trovano (forre, versanti
vulcanici, ecc.). Il faggio, infatti, non ha effettuato una
“discesa” né altitudinale né latitudinale durante le glaciazioni, ma solo una esplosiva espansione (dai rifugi italiani e balcanici) durante l’ultimo interglaciale (anche
nell’interglaciale precedente non ha avuto, nell’Europa
centrale, il ruolo che ha oggi) (BENNETT et al., 1991;
POTT, 1997; MAGRI, 1998).
46 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Elementi steppici
Da quanto si è detto più sopra sul carattere “steppico”
dei glaciali nel Mediterraneo, consegue che nel nostro
Paese bisogna considerare come tracce delle glaciazioni,
oltre alle specie di tundra, anche e soprattutto i taxa ad
attuale baricentro corologico nelle steppe asiatiche. Essi
si rinvengono in Italia sia nelle praterie primarie di alta
montagna, sia nelle praterie secondarie (in particolare in
ambiti climatici submediterranei e/o con una certa impronta continentale).
Influenza sulle flore insulari
Come si è visto più sopra, durante i glaciali il livello
del mare era di almeno 100 m più basso dell’attuale. Molte delle attuali isole minori italiane, pertanto, sono state
a lungo collegate con la terraferma e fra loro (cfr. ad es.
ARRIGONI, 1974).
Affinità transadriatiche
Un effetto notevole dell’abbassamento del livello
marino è stato il prosciugamento dell’Adriatico, almeno fin quasi all’altezza del Gargano. Questo contribui-
sce a chiarire la grande somiglianza floristica e vegetazionale fra l’Appennino e i Balcani. Numerosissimi, infatti, i casi di disgiunzioni transadriatiche (M ONTELUCCI, 1972; PIGNATTI, 1982; CONTI, 1998), particolarmente vistose nel caso di specie arboree o arbustive:
talora il subareale italiano di queste fanerofite ha carattere relittuale (Quercus trojana, Quercus macrolepis,
Styrax officinalis), ma più spesso accade che queste legnose balcaniche rivestano anche da noi un ruolo importante nella vegetazione (Quercus frainetto, Carpinus
orientalis, Paliurus spina-christi, Cercis siliquastrum; sebbene non si tratti di vere disgiunzioni, non possiamo
dimenticare che a baricentro balcanico sono anche due
fra le specie che più dominano la fisionomia vegetazionale dell’Appennino: Quercus cerris e Ostrya carpinifolia). Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze
non è facile riconoscere quali e quanti fra i casi di disgiunzione o vicarianza transadriatica siano dovuti alle variazioni di livello marino pleistoceniche e non invece a collegamenti più antichi, a loro volta riconducibili sia alla tettonica del Neogene sia al prosciugamento del Messiniano.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 47
MODELLI DI DISTRIBUZIONE DELLA FAUNA
E DELLA FLORA
Modelli di distribuzione della fauna
Confrontando la ricchezza di specie per unità di superficie delle diverse regioni italiane, si può osservare, nell’ambito del nostro paese, un gradiente latitudinale opposto a quello messo in luce a livello europeo, consistente in un impoverimento faunistico da Nord verso Sud.
Questo gradiente, riscontrato per gruppi animali molto
diversi, quali gli uccelli e vari gruppi di insetti, soprattutto coleotteri (MASSA, 1982; AUDISIO et al., 1995; FOCHETTI et al., 1998), può essere inquadrato nel cosiddetto “effetto penisola”, cioè nel fatto che gli scambi con altre regioni sono limitati all’area di continuità con il resto
della massa continentale.
Per studiare le relazioni di affinità faunistica tra diversi distretti del nostro paese, vari autori hanno proceduto
a individuare delle regioni naturali (sostanzialmente corrispondenti alle regioni amministrative) e a studiarne le
affinità in base al popolamento animale. Utilizzando diversi gruppi di coleotteri (carabidi e crisomelidi), BARONI URBANI et al. (1978) hanno evidenziato la presenza di
tre gruppi di regioni nettamente distinti: (1) insulare (isole maggiori); (2) padano-alpino (regioni dell’arco alpino);
(3) appenninico (tutte le altre regioni). Questi gruppi sono stati ribaditi in seguito su crisomelidi alticini (BIONDI, 1988), meloidi (BOLOGNA, 1991) e nuovamente su
carabidi (VIGNA TAGLIANTI, 1999). Tali affinità sembrano ascrivibili più a fattori ecologici (climatici) che storici (paleogeografici e paleoecologici) e possono essere coerentemente interpretate con la diversa presenza degli elementi settentrionali (prevalenti nel distretto alpino) e meridionali (prevalenti nei distretti appenninico e insulare)
a cui si accompagnano elementi peculiari. Questo pattern sembra quindi coerentemente interpretabile con la
presenza di gradienti latitudinali, rappresentati dal contrapposto andamento delle specie ad areale più settentrionale e di quelle ad areale più meridionale. Risultati sostanzialmente simili sono stati anche ottenuti, partendo
da un sistema di regioni basato sui singoli bacini fluviali, per plecotteri e coleotteri acquatici (AUDISIO et al.,
1995; FOCHETTI et al., 1998). Utilizzando i dermatteri,
VIGNA TAGLIANTI (1993) ha invece ottenuto un quadro
meno definito, dove però le regioni tirreniche formano
un gruppo molto omogeneo, in cui risultano incluse anche Sicilia e Sardegna. In questo caso, dunque, sembra
che il popolamento rifletta una discontinuità opposta,
longitudinale, che probabilmente riflette la compresenza, nel nostro paese, di elementi occidentali (tirrenici) ed
elementi orientali (adriatico-balcanici).
Approcci di sintesi di questo tipo, se permettono di cogliere la struttura generale del popolamento animale del
nostro paese, vanno tuttavia affiancati ad analisi di maggior dettaglio, basate sullo studio di modelli di distribuzione ricorrenti (detti corotipi), che possano caratterizzare le peculiarità dei singoli gruppi di regioni. In particolare, appare evidente che il “gruppo appenninico” rappresenta un sistema di regioni molto complesso ed eterogeneo, in cui si possono senz’altro riconoscere componenti faunistiche con una storia molto diversa.
In generale, le specie italiane possono essere ascritte a
corotipi relativi all’Asia paleartica (figura 2.3), all’Europa (figura 2.4) o all’area mediterranea (figura 2.5), mentre poche specie mostrano distribuzioni estese alle regioni paleotropicali o sono da considerare elementi cosmopoliti o subcosmopoliti. Per quanto riguarda gli elementi endemici o subendemici, questi vanno attribuiti a corotipi generali basandosi sulle loro affinità filogenetiche
(VIGNA TAGLIANTI et al., 1993): molti elementi alpini,
alpino-appenninici e appenninici sono da riferire ai corotipi centroeuropeo o S-europeo, ma altri elementi appenninici (talora con diffusione transadriatica o transionica) (figura 2.6) vanno riferiti a corotipi mediterranei,
così come gli elementi tirrenici, siculi (talora con diffusione siculo-maghrebina), sardi e sardo-corsi (figura 2.7).
Sul piano strettamente geografico, va osservato che la
posizione dell’Italia al centro del bacino mediterraneo dà
al nostro paese un carattere di “transizione”, ove vengono
a sovrapporsi faune tanto a gravitazione W-Mediterranea
che E-mediterranea, nonché N-Africana. Per i più diversi gruppi animali, si possono infatti evidenziare, accanto
ad una scontata componente Mediterranea in senso lato,
elevate percentuali di corotipi W-Mediterranei ed E-Mediterranei. Questi ultimi comprendono gli elementi cosiddetti transadriatici e transionici, la cui importanza biogeografica, già enfatizzata dallo stesso GRIDELLI (1950),
continua ad attrarre l’attenzione dei biogeografi, testimoniando i contatti ripetuti, e paleogeograficamente molto
diversi, che l’Italia Sud-orientale ha avuto con la penisola
balcanica (GIACHINO e VAILATI, 1993, CASALE et al., 1996;
LA GRECA, 1999; CIANFICCONI e TUCCIARELLI, 1999). Ad
esempio, come già detto per la flora, distribuzioni di questo tipo possono essersi originate sia come conseguenza
del prosciugamento messiniano del mediterraneo, sia per
l’emersione di terre tra le coste italiane e balcaniche (ponte gargano-balcanico) nel Pleistocene.
48 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.3 - Alcuni corotipi di specie
animali ad ampia distribuzione
paleartica
(Sibirico-Europeo,
Centroasiatico-EuropeoMediterraneo, Turanico-Europeo).
Fig. 2.4 - Alcuni corotipi di specie
animali ad ampia distribuzione
europea (Europeo, Centroeuropeo,
S-Europeo).
Gli elementi N-Africani, pur complessivamente meno
rappresentati, costituiscono un contingente faunistico non
trascurabile in Sardegna e, soprattutto, in Sicilia, due regioni che mostrano interessanti affinità con l’Africa settentrionale, derivanti sia da fenomeni di vicarianza che
hanno coinvolto antiche microplacche, sia da successivi
eventi di dispersione (GIUSTI e MANGANELLI, 1984; STEI-
NINGER et al., 1985; LA GRECA, 1990; ESTABROOK, 2001).
Nella fauna marina (BIANCHI et al., 2002) si possono
invece individuare solo tre tipi fondamentali di componenti faunistiche: le specie endemiche del Mediterraneo
(tra cui i paleoendemiti relitti della Tetide), le specie atlantico-mediterranee e le specie ad ampia distribuzione (panoceaniche). A queste vanno aggiunte le componenti
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 49
Fig. 2.5 - Alcuni corotipi di specie
animali ad ampia distribuzione
mediterranea (W-Mediterraneo, EMediterraneo, N-Africano).
Fig. 2.6 - Un esempio di distribuzione
disgiunta appenninico-dinarica:
Carabus cavernosus, un coleottero
carabide steppico, con diffusione
transadriatica.
atlantiche subtropicali e boreali (penetrate nel Mediterraneo durante le fasi interglaciali e glaciali), i più recenti
migranti dell’Atlantico orientale, tramite lo stretto di Gibilterra e le specie provenienti dal Mar Rosso dopo l’apertura del Canale di Suez (specie “lessepsiane”, dal nome
del diplomatico che ottenne la realizzazione del canale
stesso, inaugurato nel 1869).
Modelli di distribuzione della flora italiana
Per quel che riguarda la distribuzione della diversità floristica all’interno del Paese, rinviamo ai dati e alle considerazioni riportati da ABBATE et al. in questo stesso volume.
Ci si può qui limitare a osservare che la distribuzione della ricchezza floristica in Italia non presenta l’effetto peni-
50 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig 2.7 - La distribuzione delle specie del genere Percus (coleotteri
carabidi): elementi W-mediterranei, prequaternari, la cui diffusione
e speciazione sono correlate con fattori storici (crisi messiniana ed
eventi plio-pleistocenici): 1. villai, 2. corsicus, 3. reichei, 4. grandicollis,
5. strictus, 6. cylindricus, 7. lineatus, 8. lacertosus, 9. bilineatus, 10.
dejeani, 11. paykulli, 12. passerinii, 13. andreinii (non sono riportate
le due specie delle Baleari).
sola citato per la fauna. Infatti, la massima diversità si osserva in aree quali l’Appennino centrale (3.000 entità in
Abruzzo, 2.000 nel piccolo Molise e 1.900 in un elenco
provvisorio del solo Parco Nazionale d’Abruzzo) (CONTI,
1995 e 1998; LUCCHESE, 1995) e nei settori costieri della
Penisola (il promontorio di Monte Argentario, nella Toscana Meridionale, contiene 1.160 entità in una superficie
di soli 6.000 ettari; 1.900 taxa sono stati rinvenuti sui Monti Aurunci, nel Lazio tirrenico; un elenco preliminare del
comprensorio del Cilento, nella Campania meridionale,
cita quasi 2.000 specie) (MORALDO et al., 1990; BALDINI,
1995; MOGGI, 2001). Questa differenza di pattern fra ricchezza faunistica e ricchezza floristica può essere imputata
a varie ragioni. Anzitutto, bisogna ricordare che la Penisola Italiana è stato uno dei rifugi a partire dal quale le specie vegetali hanno ricolonizzato l’Europa dopo l’ultima glaciazione; pertanto è logico che si abbia un gradiente di di-
versità che decresce dalla penisola verso il continente, contrariamente a quanto avviene in penisole colonizzate per
dispersione a partire dalla massa continentale. Inoltre, l’Italia centrale e l’Italia meridionale presentano una elevata eterogeneità climatica, fattore che ha maggiore influenza sulla diversità vegetale che non sugli animali. Infine, gli ecosistemi mediterranei costituiscono, a livello mondiale, un
hot-spot di ricchezza floristica, mentre non costituiscono
un’area ad altrettanto elevata diversità faunistica (cfr. ad es.
WORLD CONSERVATION MONITORING CENTRE, 1992).
Per quel che concerne la distribuzione dei corotipi sul
territorio italiano, secondo una elaborazione di PIGNATTI (1994) sulla base delle regioni amministrative, si può
osservare che:
- le Eurimediterranee sono frequenti in tutte le regioni
senza un chiaro gradiente;
- le Stenomediterranee hanno invece la massima frequenza in Sicilia, Sardegna, Puglia e Calabria; decrescono
com’è logico verso Nord, raggiungendo il minimo in
Trentino e Friuli;
- le Orofile Sud-Europee hanno i valori massimi nelle
regioni alpine;
- le Eurasiatiche decrescono (anche se irregolarmente)
da Nord verso Sud e presentano i minimi in Sicilia e
Sardegna;
- le Atlantiche hanno valori assoluti molto bassi ovunque, ma è interessante il fatto che mostrano comunque una chiara concentrazione nelle regioni occidentali: nell’ordine, Sardegna, Toscana, Piemonte, Liguria, Lazio, Sicilia.
Nel complesso, anche per la flora vale quanto osservato per la fauna e cioè che la peculiare posizione geografica dell’Italia fa sì che nel nostro Paese si sovrappongano
flore a diversa gravitazione e origine (cfr. MONTELUCCI,
1972 e 1977). Infatti, se la parte tirrenica settentrionale
della Penisola presenta un forte contributo dell’elemento
W-Mediterraneo e persino specie a corotipo Atlantico, i
settori adriatici ma anche le stesse coste tirreniche centrali sono caratterizzati da una forte impronta E-Mediterranea e Illirica. D’altra parte, gli elementi Eurasiatico, Circumboreale e Orofilo-S-Europeo discendono lungo tutta la catena appenninica fino a raggiungere la Sicilia, mescolandosi alla componente Mediterraneo-Montana. Non
manca nel Sud e nelle Isole il contributo dell’elemento
Stenomediterraneo-Meridionale (corrispondente all’elemento N-Africano degli zoologi) che, insieme ad elementi quali il Saharo-Sindico e il Mediterraneo-Turanico,
mantiene un legame (in gran parte di origine messiniana?) con la fascia arida nordafricana-mediorientale.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 51
Zoogeografia regionale
La valutazione percentuale del numero di specie rispondenti ai vari corotipi nelle diverse regioni consente
di riconoscere nel nostro paese sei province zoogeografiche che si distinguono per una peculiare composizione
faunistica, dovuta a fattori paleogeografici, paleoecologici ed ecologici: alpina, padana, appenninica, pugliese, sicula, sarda (RUFFO e VIGNA TAGLIANTI, 2002).
Provincia alpina
La fauna che nel Terziario popolava la nascente catena
alpina è oggi rappresentata prevalentemente da artropodi del suolo o cavernicoli, con distribuzioni ristrette ai settori marginali delle Alpi che vennero risparmiati dalle glaciazioni quaternarie (“massicci di rifugio”), come le Alpi
Liguri o le Prealpi Giulie, Venete e Lombarde. Ciò che
caratterizza la fauna delle Alpi è l’altissima percentuale di
specie aventi distribuzioni rispondenti a corotipi settentrionali (europei, asiatico-europei e sibirico-europei), conseguenza delle fasi climatiche fredde del Quaternario, durante le quali si sono verificati estesi spostamenti faunistici dall’Asia settentrionale verso l’Europa meridionale.
La ricchezza della fauna è anche dovuta all’estensione altitudinale delle Alpi che ha consentito l’insediamento di
specie aventi esigenze ecologiche differenti, da quelle forestali dei boschi di conifere e di latifoglie a quelle delle
praterie di alta quota o della tundra alpina. Un’altra conseguenza del glacialismo quaternario è la presenza di numerose specie (circa 200) con distribuzione discontinua
“boreoalpina” (Europa settentrionale e Alpi) (figura 2.8).
Bassissima è invece la percentuale di corotipi mediterranei, che non superano il 2% della fauna, salvo che in particolari territori prealpini noti col nome di “oasi xerotermiche”, caratterizzati da clima più caldo e secco, come i
Colli Euganei, i Colli Berici, i versanti meridionali delle
Prealpi Veronesi o a occidente la Val di Susa.
Provincia padana
La pianura padano-veneta, formatasi in epoca relativamente recente, postpliocenica, per gli apporti alluvionali dei grandi fiumi alpini e di quelli appenninici, costituisce un territorio di transizione tra il mondo alpino e quello appenninico. I biotopi maggiormente interessanti sono i querco-carpineti residui delle antiche selve padane,
le brughiere, i boschi ripariali dei grandi fiumi e ciò che
rimane delle vaste aree paludose, oggi estremamente ridotte. La fauna di questi ambienti va riferita perlopiù al
corotipo centroeuropeo, soprattutto a Nord del Po, op-
pure mostra affinità orientali. Particolarmente significativa è la fauna delle acque dolci, sia superficiali che sotterranee, per la presenza di specie, anche endemiche, di
origine orientale, penetrate molto addentro nella pianura padana, fino al Piemonte.
Provincia appenninica
Corrisponde al territorio peninsulare che ha come asse la catena appenninica. L’Appennino era variamente
frammentato durante il Miocene e il Pliocene in una serie di isole, che hanno avuto la possibilità di essere colonizzate da elementi delle antiche faune egeiche e tirreniche. Sullo stock faunistico paleomediterraneo relitto, percentualmente più ricco e diversificato che nelle Alpi, si è
sovrapposta, durante le crisi climatiche del Quaternario,
una fauna di origine settentrionale, costituita da elementi alpini, europei, asiatico-europei e sibirico-europei che
hanno raggiunto l’estremo Sud della penisola e la Sicilia.
In seguito al miglioramento climatico verificatosi durante l’ultima glaciazione würmiana, le specie di origine settentrionale hanno subito una vistosa diminuzione numerica e un progressivo accantonamento, da Nord a Sud, a
Fig. 2.8 - Un esempio di distribuzione disgiunta, “boreoalpina”, di
una specie animale da riferire a un corotipo olartico: la pernice bianca,
Lagopus mutus.
52 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
quote sempre più elevate. Contemporaneamente, gli elementi termofili mediterranei hanno subito una considerevole espansione in senso inverso.
Provincia pugliese
Comprende i territori del Gargano, delle Murge e delle Serre salentine, la cui storia geologica è legata all’antica Egeide, di cui rappresenta forse l’estremo occidentale.
La provincia pugliese è caratterizzata anche dalla modesta elevazione dei rilievi che non superano mai i 1.000
metri e sono costituiti da tavolati calcarei aridi, fortemente carsificati. Le peculiarità faunistiche della provincia pugliese sono relative soprattutto agli invertebrati, tra i quali sono molto numerose le specie con distribuzioni transadriatiche e transioniche (oltre 100 solo tra i coleotteri).
Un’importante caratteristica biogeografica è la presenza,
nell’ambiente acquatico sotterraneo delle aree carsiche
murgiane e salentine, di specie endemiche d’origine marina, aventi affinità con specie indopacifiche e/o caraibiche, relitti dell’antica fauna del Mediterraneo quando esso era ancora parte della Tetide.
tà occidentali, che ne rappresentano il contingente faunistico più antico (derivato dalla fauna premiocenica della microzolla sardo-corsa), con una percentuale elevata di
endemiti (il 6,5% della fauna sarda contro il 4,2% di quella sicula). Tra questi, sono particolarmente significativi
alcuni elementi della fauna troglobia. L’insularità della
Sardegna fu interrotta durante il Miocene, quando la Sardegna ebbe collegamenti diretti o indiretti con la regione appenninica, con la Sicilia e con il nordafrica, confermati dalla presenza di elementi sardo-toscani, sardo-siculi o sardo-siculo-maghrebini.
Fitogeografia regionale
In merito alla suddivisione dell’Italia in province fitogeografiche su base floristica, mancano purtroppo studi
recenti e dettagliati. GIACOMINI (1958) suddivide il nostro Paese fra la Regione Medioeuropea e la Regione Mediterranea (figura 2.9). La prima comprende le Alpi, la
Pianura Padana e l’Appennino fino all’Abruzzo e si suddivide in una provincia Alpina e una Provincia Appenni-
Provincia sicula
La Sicilia rappresenta il prolungamento insulare della
provincia appenninica. Le catene costiere dai Peloritani
alle Madonie, nelle fasi di collegamento con il continente durante il Quaternario, sono state colonizzate da specie di origine settentrionale, che rappresentano circa il
30% della fauna sicula, concentrate soprattutto nei boschi di querce e faggi del versante tirrenico. A questa componente temperato-fredda si oppone una forte rappresentanza di specie xero-termofile, in particolare sui versanti
meridionali interni, che accentuano il carattere mediterraneo arido dei monti della Sicilia. La fauna siciliana annovera inoltre un numero rilevante di specie paleomediterranee e paleotirreniche derivanti dalle faune terziarie
delle aree tirreniche.
Provincia sarda
La fauna della Sardegna presenta marcati caratteri di
“insularità”: biodiversità a livello specifico meno elevata
(le specie viventi in Sardegna sono circa 10.500 contro le
14.000 della Sicilia) e assenza di molte specie tra le più
frequenti e diffuse in Italia. La componente mediterranea
della fauna sarda è la più elevata fra tutte le province zoogeografiche italiane, mentre le specie corrispondenti a corotipi settentrionali sono in numero molto limitato. Si
osserva invece la presenza di un alto numero di specie paleomediterranee e soprattutto paleotirreniche, ad affini-
Fig. 2.9 – Suddivisioni fitogeografiche dell’Italia, secondo GIACOMINI
(1958), ridisegnato. Legenda: 1.1 Prov. Alpina (1.1.1 Distr. Alpino,
1.1.2 Distr. Monferrino-Langhiano, 1.1.3 Distr. Insubrico, 1.1.4 Distr.
Padano); 1.2 Dominio Illirico; 1.3 Prov. Appenninica; 2.1 Prov. Adriatica
(2.1.1 Distr. Adriatico W, 2.1.2 Distr. Adriatico E, 2.1.3 Distr.
garganico); 2.2 Prov. Ligure-Tirrenica (2.2.1 Distr. Tirrenico, 2.2.2
Distr. Cirmo-Corso, 2.2.3 Distr. Siculo).
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 53
nica; lungo la costa adriatica raggiunge il mare solo fino
a Ravenna. La Regione Mediterranea comprende le Isole, tutta l’Italia meridionale e i settori costieri della parte
settentrionale della Penisola, escluse le coste da Ravenna
a Trieste che competono alla Regione Medioeuropea. Secondo questo schema, la Regione Mediterranea si suddivide in Italia fra una Provincia Ligure-Tirrenica, che al di
fuori del nostro Paese comprende anche la Provenza e la
Corsica, e una Provincia Adriatica, che comprende anche
le coste dell’ex-Yugoslavia (per una fascia piuttosto sottile, mentre il retroterra è ascritto alla Provincia Illirica della regione Medioeuropea). Questo modello è stato ripreso anche da TAKHTAJAN (1986), nella sua suddivisione
floristica dell’intero pianeta.
Da questa impostazione si discosta la proposta di ARRIGONI (1980) (figura 2.10), sia in merito all’estensione
relativa delle due Regioni, sia per la diversa articolazione
interna. Questo Autore riconosce in Italia un Dominio
Medioeuropeo della Regione Eurosibirica, suddiviso in
un Settore Alpino (Alpi), un Settore Pannonico-Padano
(che accomuna la Pianura Padana e le coste adriatiche settentrionali della Penisola all’area pannonica) e un Setto-
re Appenninico (che discende fino all’Aspromonte). Pertanto, secondo questo modello la Regione Eurosibirica
discende lungo la costa Adriatica fino al Gargano escluso e nell’interno raggiunge l’Aspromonte. La Regione Mediterranea viene suddivisa in Italia fra un Dominio Italico-Provenzale (coste tirreniche della Penisola e Provenza), un Dominio Sardo-Corso (Sardegna e Corsica) e un
Dominio Apulo-Siculo: quest’ultimo accomuna la Sicilia, le coste calabresi e la Puglia, ma non la costa balcanica che è inquadrata in un autonomo Dominio Illirico.
Più simile allo schema di GIACOMINI è l’impostazione
di RIVAS-MARTINEZ et al. (2001) che, in una carta fitogeografica dell’Europa in scala 1:16.000.000, suddividono l’Italia come segue (figura 2.11). La Regione Eurosiberiana discende lungo l’Appennino fino alla Campania
compresa. Sul versante adriatico raggiunge la costa fino
all’altezza di Ancona, su quello tirrenico si ritira all’interno già all’altezza delle Apuane. Si suddivide, in Italia, in
una Provincia Alpina limitata alle Alpi e in una Provincia Appennino-Balcanica, che accomuna la pianura Padana (Settore Padano), l’Appennino (Settore Appenninico), i Balcani (settore Illirico) nonché la Grecia interna e
Fig. 2.10 – Suddivisioni fitogeografiche dell’Italia, secondo
A RRIGONI (1980), ridisegnato. Legenda: 1.1 Dominio
Medioeuropeo (1.1.1 Settore Alpino, 1.1.2 Settore PannonicoPadano, 1.1.3 Settore Appenninico); 2.1 Dominio Illirico; 2.2
Dominio Apulo-Siculo; 2.3 Dominio Italico-Provenzale; 2.4
Dominio Sardo-Corso.
Fig. 2.11 – Suddivisioni fitogeografiche dell’Italia, secondo RIVASMARTINEZ et al. (2001), ridisegnato. Legenda: 1.1 Prov. Alpina; 1.2
Prov. Appennino-Balcanica (1.2.1 Sett. Padano, 1.2.2 Sett. Appenninico,
1.2.3 Sett. Illirico); 2.1 Prov. Adriatica (2.1.1 Sett. Apulo, 2.1.2 Sett.
Epiro-Dalmatico); 2.2 Prov. tirrenica (2.2.1 Sett. Italico, 2.2.2 Sett.
Siculo, 2.2.3 Sett. Sardo, 2.2.4 Sett. Corso).
54 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
la Bulgaria. La Regione Mediterranea nel nostro Paese
prevede una Provincia Adriatica, che accomuna la Puglia
(Settore Apulo) alla fascia costiera della ex-Yugoslavia e
dell’Albania (Settore Epiro-Dalmatico) e alla Grecia (Settore Peloponnesiaco); una Provincia Tirrenica, che a differenza degli altri due modelli non si estende alla Provenza, ma comprende soltanto le coste occidentali della penisola (Settore Italico), la Sicilia (Settore Siculo), la Sardegna e la Corsica (Settore Sardo e Settore Corso).
Gli endemiti
L’Italia è caratterizzata da un numero elevato di specie
animali endemiche che rappresentano circa il 10% del totale della fauna. Allo stesso ordine di grandezza corrisponde la percentuale di endemismo tra le piante vascolari:
circa il 13% se si comprendono anche le subendemiche,
cioè specie con areale sconfinante su piccole zone oltre i
confini politici italiani, circa il 10% limitandosi alle endemiche in senso stretto (PIGNATTI, 1982 e 1994; vedi §
Piante vascolari).
La percentuale di endemiti della fauna italiana (specie
esclusive dell’Italia “politica”), soprattutto fra gli animali
terrestri e d’acqua dolce, è molto varia a seconda dei gruppi e può superare il 25% in parecchi ordini di insetti e in
alcune grosse famiglie (ad es. plecotteri, ortotteri, coleotteri carabidi e stafilinidi) e giungere quasi al 60% negli
pseudoscorpioni e nei diplopodi. Nella fauna marina le
specie endemiche italiane sono in numero decisamente
più basso (meno del 1,5%), data la maggiore continuità
ambientale dei nostri mari nell’ambito del Mediterraneo,
che ha viceversa un tasso di endemismo di oltre il 25%.
In generale, per quanto riguarda la fauna terrestre, si
tratta per lo più di specie di alta quota, o cavernicole, o
insulari. Di nuovo, sono proprio la complessa articolazione territoriale dell’Italia e le vicissitudini paleogeografiche e paleoclimatiche sopra ricordate a rendere conto di
tali valori. Il sollevamento della catena alpina e di quella
appenninica in massicci distinti, il successivo isolamento
di queste aree montuose durante le glaciazioni pleistoceniche, nonché le variazioni nella distribuzione altimetrica dei piani vegetazionali causati dai cambiamenti climatici, sono stati fattori sicuramente importanti nei processi di speciazione, che hanno dato origine a popolazioni
isolate (e quindi endemiche) nei diversi distretti montuosi (BRANDMAYR e ZETTO BRANDMAYR, 1994; ZUNINO e
ZULLINI, 1995; LA GRECA, 1996; BULLINI et al., 1998;
BLONDEL e ARONSON, 1999). L’ampia estensione del fenomeno carsico, soprattutto nell’Italia Nord-orientale,
con una presenza massiccia di grotte, ha poi arricchito la
nostra fauna di un elevato contingente di specie endemiche cavernicole. Infine, la presenza di due grandi isole (la
Sicilia e la Sardegna) e di un numero enorme di piccole
isole, anche se per lo più di origine recente (spesso vulcanica), ha portato a un notevole numero di endemiti insulari e microinsulari. Nel caso della Sardegna e della Corsica, è possibile riconoscere endemiti di origine molto antica, interpretabili come relitti della deriva della placca
sardo-corsa (CACCONE et al., 1994; PALMER e CAMBEFORT, 1997; PALMER, 1998). I numerosi endemiti delle
piccole isole sono invece il risultato di fenomeni di speciazione probabilmente molto recenti e veloci, conseguenti alla formazione di piccolissime popolazioni insulari isolate andate incontro a deriva genica per effetto del fondatore.
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RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 57
BIODIVERSITÀ E CLIMA
[Carlo Blasi, Leopoldo Michetti]
Il clima è generalmente definito come il complesso delle condizioni metereologiche (temperatura, pressione atmosferica, ecc.) che caratterizzano una regione o una località
relativamente a lunghi periodi di tempo e che sono determinate, o quanto meno influenzate, da fattori ambientali (latitudine, altitudine, ecc.). La distribuzione della vegetazione è principalmente correlata ai caratteri climatici e, in
particolare dagli andamenti delle temperature e delle precipitazioni. In ambiti floristicamente omogenei, la struttura della vegetazione è determinata, oltre che dal clima,
dai caratteri morfologici e pedologici che plasmano l’etereogeneità naturale del territorio, carattere principale per
definire le potenzialità fitoclimatiche di un’area.
Nel corso di questo secolo si è sviluppata una nuova
scienza (fitoclimatologia) finalizzata a studiare le relazioni
esistenti tra andamento delle temperature e dei regimi di
precipitazione e distribuzione delle fitocenosi. La fitoclimatologia, e più in generale la bioclimatologia, ha avuto
una grande importanza negli ultimi decenni anche in relazione alla sempre maggiore disponibilità di dati sperimentali e alla più facile utilizzazione di grandi mole di
dati che ha seguito la crescita e lo sviluppo delle discipline statistiche e informatiche.
Integrando i valori medi di temperatura, precipitazione
e umidità relativa nel periodo vegetativo (maggio-luglio)
con i valori della temperatura media minima e l’indicazione della data del primo e ultimo gelo, MAYR (1906-1908)
individuò per l’emisfero Nord sei zone forestali definite su
base fisionomica (Palmetum, Lauretum, Castanetum, Fagetum, Picetum e Alpinetum o Polaretum). Successivamente,
PAVARI (1916) propose uno schema climatico che emendava in parte quello di MAYR: mediante l’utilizzazione di
ulteriori parametri relativi all’intero anno (temperatura del
mese più caldo e del mese più freddo, temperatura media
massima, distribuzione delle piogge e quantità delle precipitazioni riferita sia all’intero anno e alla sola stagione più
calda) contribuì a meglio definire le zone climatiche forestali in “tipi” e “sottozone”. Dopo questi lavori, e in particolare dopo i lavori di KÖPPEN (1900-1931), aumentano
le proposte di “classificazioni ecologiche” secondo cui più
fattori climatici vengono combinati in indici che mettono
in evidenza la correlazione esistente tra il clima e la distribuzione della vegetazione reale. Ad esempio la proposta di
DE MARTONNE (1926) che, in relazione all’aridità, definisce la distribuzione della vegetazione in ambiente mediterraneo. Più recentemente furono definite per l’intero pia-
neta da BAGNOULS e GAUSSEN (1957) e WALTER e LIETH
(1960) le nove fasce climatiche o zonobiomi che coincidono con aree zonali per vegetazione e suoli (WALTER, 1983).
A scala geografica più ristretta, dal 1949 al 1978 GIACOBBE fornì molti contributi relativamente al clima del bacino
del Mediterraneo: in base all’escursione termica annua e al
regime delle precipitazioni propone due indici (termico e di
aridità) con i quali individua le biocore del territorio italiano (mediterranea sempreverde, montana mediterranea, submediterranea, subcontinentale, continentale, montana delle Alpi, cacuminale). Su questa base RIVAS MARTINEZ (19811996) ha proposto per la Penisola Iberica indici di mediterraneità per quantificare l’aridità estiva, da integrare con un
indice termico, indicatore del freddo invernale, che portano
all’individuazione di 3 regioni, 15 piani e 32 orizzonti.
Per l’Italia, i contributi che abbiano interessato sistematicamente tutto il territorio sono stati quelli di DE PHILIPPIS (1937), GIACOBBE (1978) e TOMASELLI et al. (1973).
A scala locale si hanno contributi di ARRIGONI per la
Sardegna e la Toscana (1968, 1972), di MACCHIA per il Salento (1984) e di BIONDI e BALDONI (1995) per le Marche. Nel 1988 BLASI et al. formulano una nuova proposta
metodologica finalizzata alla definizione del fitoclima della Campania (Blasi et al. 1992). Al posto degli indici gli
Autori utilizzarono i dati grezzi delle stazioni termopluviometriche, ricavando la media mensile, calcolata lungo un
trentennio, delle temperature minime, massime e delle precipitazioni. Successivamente diventano sempre più numerosi gli studi bioclimatici che prendono spunto dalla classificazione mediante analisi multivariata dei dati grezzi. È
doveroso comunque ricordare che già DE PHILIPPIS (1937)
aveva sottolineato l’importanza di integrare le informazioni emerse degli indici con i dati di temperatura e precipitazione dato che gli indici, empirici e fortemente collegati
all’area ove vengono tarati, possono avere un grado di informazione comunque incompleto. Nel 1994 con il Fitoclima del Lazio (BLASI, 1994) si individuarono 15 tipi fitoclimatici in scala 1:250.000 ottenuti classificando le 36
variabili termopluviometriche utilizzate per la regione Campania. Questi tipi vengono collocati all’interno di due regioni principali (mediterranea e temperata) e due di transizione (mediterranea di transizione e temperata di transizione) che vanno a sostituire la regione submediterranea. I
tipi, ottenuti su base prevalentemente climatica, hanno assunto una valenza fitoclimatica mediante i diagrammi termopluviometrici e il calcolo degli indici ombrotermico e termico di RIVAS MARTINEZ (1996). In questo modo si ha
un’integrazione che ottimizza il valore dell’informazione
dei dati grezzi con quella degli indici bioclimatici.
58 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
IL CLIMA D’ITALIA1
L’elevata estensione latitudinale della Penisola Italiana,
la presenza di complessi sistemi orografici orientati nel
senso della longitudine e latitudine e la vicinanza delle
masse continentali africana
ed euroasiatica determinano
una elevata diversità di Regioni climatiche, bioclimi e
tipi climatici a seconda che
prevalgano influenze tropicali o medio-europee. Essendo le specie vegetali coerenti con un determinato clima,
maggiore sarà la variazione
climatica, maggiore sarà la
biodiversità.
La determinazione della
variabilità climatica utile ai
fini fitoclimatici segue la proposta già consolidata (BLASI,
1994; BLASI et al., 1988) in
cui si prendono in esame stazioni termopluviometriche e
le relative variabili mensili
(tmin, Tmax, P) per un intervallo temporale di un trentennio, periodo ritenuto sufficiente per essere considerato, una “normale climatica”
dal punto di vista statistico.
L’analisi multivariata applicata ai dati grezzi (valori
mensili delle temperature
massima e minima e delle
precipitazioni) di 400 stazioni termopluviometriche operanti dal 1955 al 1985
ha condotto alla individuazione di 28 “gruppi” o “classi” che si differenziano tra loro per l’andamento annuale delle 36 variabili considerate (figura 2.12).
1
Analisi realizzata dal Dipartimento di Biologia Vegetale dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma nell’ambito della convenzione “Completamento delle conoscenze naturalistiche di base” stipulata con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, Direzione per la
Protezione della Natura.
Fig. 2.12 - Distribuzione delle
400 stazioni raggruppate per
classi.
Distribuendo geograficamente i 28 gruppi è stata ottenuta la cartografia del fitoclima d’Italia.
Per ogni classe è stata individuata la Regione climatica di appartenenza mediante l’applicazione dell’indice
ombrotermico estivo normale e compensato (Ios2, Ios3,
Ios4) di RIVAS MARTINEZ (1996). Se l’indice è maggiore
di 2 siamo nella Regione Temperata, se è minore di 2 nella Regione Mediterranea.
La Regione Mediterranea si estende su tutto il versante tirrenico, ad esclusione di un tratto della Riviera di le-
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 59
Fig. 2.13 - Schema gerarchico della classificazione fitoclimatica dalle regioni alle varianti.
vante in Liguria, continua nelle grandi e piccole isole, nella parte ionica e nel versante adriatico fino ad arrivare in
Abruzzo all’altezza di Pescara.
La Regione Temperata è localizzata nell’Italia settentrionale, in tutto l’arco appenninico e antiappenninico e
nelle isole maggiori a medie e alte quote.
La Regione Mediterranea di Transizione “borda” il clima mediterraneo e fa parte di quelle classi nel cui interno vi è un passaggio tra le stazioni mediterranee e temperate con prevalenza delle prime; la medesima cosa avviene per la Regione Temperata di Transizione, in cui le
stazioni temperate prevalgono su quelle mediterranee.
Poiché una stessa Regione Climatica può caratterizzare più classi, queste sono state raggruppate in funzione del Bioclima evidenziato mediante il valore dell’indice di continentalità Ic: con valori di escursione
termica fino a 18 °C si ha un bioclima oceanico, da 18
a 21 °C un bioclima semicontinentale, da 21 °C a 28
°C un bioclima subcontinentale e oltre 28 °C un bioclima continentale.
Il passaggio dalle 28 classi alle 83 varianti è stato ottenuto mediante il calcolo degli indici It (termico) e Io (om-
brico o pluviometrico) di RIVAS MARTINEZ (l.c.).
Una sintesi dei passaggi effettuati è presente in figura 2.13.
È importante tenere presente che la spazializzazione
delle classi (e quindi la cartografia) si basa sui dati grezzi mensili di temperatura massima, temperatura minima e precipitazione e che gli indici sono stati utilizzati
per qualificare in termini bioclimatici i diversi campi
della cartografia.
Come si è detto l’uso combinato di dati grezzi, indici bioclimatici e diagrammi termopluviometrici ha portato alla spazializzazione di 2 Regioni Climatiche con le
relative transizioni: Mediterranea, Mediterranea di Transizione, Temperata e Temperata di transizione (figure
2.14 e 2.15).
I 9 bioclimi (complessi climatici) individuati evidenziano vaste regioni territoriali omogenee per caratteri fisici (altitudine, esposizione tirrenica o adriatica, morfologie particolari quali vallate alpine, vallate interne appenniniche e delle isole maggiori o pianure costiere) e andamento dei parametri climatici (temperature, precipitazioni) (figure 2.16 e 2.17).
60 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.14 - Carta del fitoclima d’Italia. Le classi
Temperate sono 18, quelle Temperate di
transizione 5, quelle Mediterranee 3 e quelle
Mediterranee di transizione 2.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 61
62 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.15 - Distribuzione spaziale e percentuale
delle regioni fitoclimatiche in Italia.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 63
Fig. 2.16 - Distribuzione spaziale e
percentuale dei bioclimi in Italia.
64 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.17 - Percentuale di presenza delle classi fitoclimatiche nelle
regioni amministrative italiane.
Fig. 2.18 - Clima temperato oceanico (Foresta della Lama. Foto di
L. Rosati).
Fig. 2.19 - Clima temperato semicontinentale (Parco Nazionale delle
Foreste Casentinesi M.Velino-Cafornia, versante della Piana del Fucino
presso Massa d’Albe. Foto di L. Rosati).
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 65
In sintesi la distribuzione dei 9 bioclimi in Italia è la
seguente:
1. Clima temperato oceanico (figura 2.18): comprende le classi 1-3-6-7-10 ed è tipico di tutto l’arco alpino,
appenninico ad alta e media quota e Sicilia altomontana.
I tipi climatici variano da criorotemperato ultraiperumido-iperumido a mesotemperato iperumido-umido.
2. Clima temperato semicontinentale (figura 2.19):
comprende le classi 2-12-28 ed è localizzato nelle vallate
alpine e nelle vallate interne dell’Appennino centro-settentrionale a esposizione prevalentemente adriatica. I tipi climatici variano da orotemperato umido-subumido/iperumido a supratemperato umido-subumido.
3. Clima temperato oceanico-semicontinentale (figura 2.20): comprende le classi 4-5-9-16-21 ed è ubicato nelle prealpi centrali e orientali, in zone collinari del
medio adriatico e nelle valli interne di tutto l’Appennino fino alla Basilicata con esposizione tirrenica. Locali
presenze in Sardegna. I tipi climatici variano da supratemperato/orotemperato iperumido-ultraiperumido a
mesotemperato umido subumido.
4. Clima temperato subcontinentale: comprende le classi 24-26 ed è tipico della Pianura Padana dal Piemonte alla foce del Po. I tipi climatici variano da supratemperato
umido-subumido a mesotemperato umido-subumido.
5. Clima temperato semicontinentale-subcontinentale: comprende le classi 13-23-25 ed è localizzato a Sud
del Po, nelle valli moreniche prealpine centrali e nelle pianure alluvionali della parte orientale dell’Italia settentrionale. I tipi climatici variano da supratemperato iperumido/umido a mesotemperato umido-subumido.
6. Clima temperato oceanico di transizione (figura 2.21):
comprende la classe 8 ed è ubicato prevalentemente in tutte le valli dell’antiappennino tirrenico e ionico, con significative presenze nelle grandi isole. I tipi climatici variano da
mesotemperato a mesomediterraneo umido/iperumido.
7. Clima temperato oceanico-semicontinentale di
transizione (figura 2.22): comprende le classi 11-1922-27 ed è localizzato prevalentemente nelle pianure e
nei primi contrafforti collinari del medio e basso Adriatico e Ionio; presenze significative nelle zone interne delle Madonie in alcune aree della Sardegna. I tipi climatici variano da supratemperato umido-subumido a mesomediterraneo umido-subumido.
8. Clima mediterraneo oceanico (figura 2.23): comprende le classi 14-15-18 e contorna tutta l’Italia dalla
liguria all’Abruzzo (Pescara) e le grandi isole. I tipi climatici variano da un inframediterraneo secco-subumido
a un termomediterraneo subumido.
Fig. 2.20 - Clima temperato oceanico-semicontinentale (Alto viterbese
tra Vico e Tuscania. Foto di L. Rosati).
Fig. 2.21 - Clima temperato oceanico di transizione (Lago del Turano.
Foto di L. Rosati).
Fig. 2.22 - Clima temperato oceanico-semicontinentale di transizione
(Calanchi della Val Marecchia. Foto di L. Rosati).
66 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
9. Clima mediterraneo oceanico di transizione
(figura 2.24): comprende le classi 17-20 e ha una presenza continua sulle coste del medio e alto Tirreno. Risulta più frammentato nel basso Tirreno e Sicilia: si segnala una importante presenza nelle pianure interne e
nei primi contrafforti della Sardegna. I tipi climatici variano da un termotemperato umido-subumido a un mesomediterraneo umido-subumido.
Fig. 2.23 - Clima mediterraneo oceanico (Gargano, la costa tra Vieste
e Mattinata. Foto di L. Rosati).
Fig. 2.24 - Clima mediterraneo oceanico di transizione (Sardegna,
Supramonte, la Valle di Lanaittu. Foto di L. Rosati).
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RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 67
BIODIVERSITÀ E GENETICA
DIVERSITÀ GENETICA E CONSERVAZIONE
DELLA BIODIVERSITÀ
[Luciano Bullini, Maria Cristina Mosco]
La diversità biologica: componenti genetiche e ambientali
La diversità biologica ha due componenti strettamente connesse, quella genetica e quella ambientale e ciò ha
reso particolarmente difficile la sua analisi sperimentale.
Attualmente le ricerche su questo tema si sono moltiplicate per le sue implicazioni teoriche e pratiche. Per esempio nella specie umana le interazioni geni-ambiente vengono indagate: 1) nello sviluppo delle capacità cognitive, intellettuali e “creative”, anche in rapporto al sesso;
2) nella predisposizione alle più varie patologie infettive, dismetaboliche, vascolari e neoplastiche; 3) in rapporto ai disturbi della sfera comportamentale (schizofrenia, psicosi, mania, aggressività, asocialità, tendenza a
sviluppare tossicodipendenze), ecc.
È possibile confrontare sperimentalmente in alcune
specie ceppi con differenze genetiche note per un numero significativo di geni (molto pochi se considerati
in percentuale). L’approccio sperimentale che in passato ha dato i risultati migliori si basa sull’eliminazione
della variabilità di una delle due componenti, genetica
o ambientale. Poiché è assai più facile eliminare la variablità della prima componente rispetto alla seconda,
molte ricerche sono state realizzate con quest’ultima
tecnica. Organismi geneticamente omogenei (linee pure, cloni) possono essere ottenuti con metodi diversi a
seconda delle modalità riproduttive e capacità di rigenerazione delle specie di appartenenza. In quelle a riproduzione sessuale obbligata le linee pure vengono
prodotte mediante successivi incroci tra stretti consanguinei (genitore-figlio o fratello-sorella, inincrocio); nelle specie ermafrodite si procede con generazioni successive di autofecondazione, che è la forma più estrema di
inincrocio; negli organismi che possono riprodursi per
via vegetativa la discendenza di un singolo individuo è
geneticamente omogenea e costituisce un clone. Nelle
piante ad esempio è possibile ottenere cloni partendo
da cellule somatiche differenziate di un singolo individuo, che si sdifferenziano e tornano totipotenti, cioè in
grado di formare nuovi individui. Nella specie umana
la totipotenza delle cellule staminali (in particolare di
quelle embrionali, i cui blastomeri possono dare origi-
ne ad individui geneticamente identici) renderebbe tecnicamente possibile la clonazione riproduttiva, che però non è accettabile per motivi etici; si ricorre pertanto ai gemelli monovulari, che si originano spontaneamente dai blastomeri di un singolo uovo fecondato.
Queste ricerche hanno dimostrato che la variabilità di
origine ambientale (variabilità clonale) non si trasmette alle generazioni successive (non ereditarietà dei caratteri acquisiti). All’interno di un clone la selezione naturale è del tutto inefficace. Ciò spiega perché le capacità di adattamento delle popolazioni con bassa variabilità genetica siano minime; l’erosione genetica in una
popolazione prelude spesso alla sua estinzione.
Per descrivere il ruolo dei geni e dell’ambiente nella
variabilità biologica è necessario introdurre alcuni termini. La costituzione ereditaria (o patrimonio ereditario)
di un individuo è detta genotipo; esso è l’insieme dei geni che quell’individuo ha ricevuto dai suoi genitori e rimane sostanzialmente immutato nel corso della vita. L’insieme delle caratteristiche morfologiche, fisiologiche e
comportamentali di un individuo viene detta fenotipo;
esso è il risultato dell’interazione tra il suo genotipo e
l’ambiente in cui esso si è sviluppato ed è vissuto; il fenotipo, a differenza del genotipo, si modifica continuamente nel corso della vita. L’insieme dei fenotipi cui un
dato genotipo può dare origine nei vari contesti ambientali è detto norma di reazione.
Ricerche divenute classiche sulla norma di reazione di
vari genotipi di una pianta, la composita Achillea lanulosa, sono state realizzate da CLAUSEN e dai suoi collaboratori (1948) in California. Vari individui, geneticamente
identici in quanto originati per riproduzione vegetativa
di una singola pianta, venivano coltivati a quote diverse,
dal livello del mare a più di 3.000 metri. Gli individui
progenitori di ciascun clone erano stati raccolti in stazioni a quote e con microclimi diversi. Il confronto tra le varie piante ha mostrato che, pur condividendo lo stesso genotipo, esse differivano nell’aspetto, nella velocità di crescita, nella fertilità, ecc. a causa delle differenti condizioni ambientali (figura 2.25). D’altra parte anche gli individui geneticamente diversi, ma coltivati nelle medesime
condizioni ambientali, davano origine a fenotipi diversi.
Va notato che non vi è un genotipo “migliore” in
tutte le condizioni ambientali: genotipi che danno piante rigogliose a livello del mare non si sviluppano a 3.000
metri; viceversa genotipi che crescono bene a 3.000
metri non si sviluppano o si sviluppano assai poco al
livello del mare. Più ampia è la norma di reazione dei
geni che controllano un carattere, più estesa sarà la sua
68 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.25 - Variazione fenotipica in cloni (numerati da 1 a 5) della composita Achillea lanulosa. Ogni clone è stato ottenuto mediante riproduzione
vegetativa a partire da una singola pianta; le piante progenitrici dei cloni sono state raccolte nelle seguenti località della California: San Gregorio,
m 300 (clone 1), Knight’s Ferry, m 300 (clone 2), Aspen Valley, m 2.000 (clone 3), Tenaya Lake, m 2.400 (clone 4) e Big Horn Lake, m 3.600
(clone 5). Individui dello stesso clone sono stati fatti crescere in giardini botanici a quote diverse: Stanford, San Francisco Bay, livello del mare;
Mather, Sierra Nevada, m 1.400; Timberline, Sierra Nevada, m 3.000.
Si osserva che: 1) lo stesso genotipo, posto in differenti condizioni ambientali, dà origine a fenotipi diversi (alla quota più elevata: Timberline,
m 3.000, le piante dei cloni 1 e 2) non si sono sviluppate; 2) genotipi differenti, sviluppatesi in differenti condizioni ambientali, danno origine
a fenotipi diversi. Ogni genotipo ha infatti la sua norma di reazione, che può essere definita come l’insieme dei fenotipi cui quel genotipo può
dare origine a seconda delle condizioni ambientali in cui si sviluppa (CLAUSEN et al. 1948, modificato).
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 69
variazione fenotipica; all’opposto, se la norma di reazione dei geni è ristretta, il carattere presenterà un unico fenotipo, indipendentemente dalle condizioni ambientali in cui l’individuo si è sviluppato e vive. Il gene non determina quindi necessariamente un dato carattere, o non ne determina la sua espressione più intensa. Esso stabilisce una norma di reazione ai fattori
esterni, per cui l’espressione del carattere controllato
da quel gene è il risultato di un’interazione del fattore
genetico con i fattori ambientali che agiscono durante lo sviluppo dell’individuo. La primula Primula sinensis rubra, coltivata a temperatura ordinaria, forma
fiori rossi, se invece è mantenuta in serra sopra i 30 °C
dà fiori bianchi. La primula affine P. sinensis alba, invece, dà fiori bianchi a qualunque temperatura. È evidente che il colore dei fiori nelle due varietà è controllato da geni diversi, che hanno diversa norma di reazione. Analogamente, l’albinismo nel coniglio di razza Hymalaya è influenzato dalla temperatura: i peli che
si formano in regioni del corpo più esposte al raffreddamento (estremità delle zampe, delle orecchie, del
muso) sono di color bruno, anziché bianco. In base a
questo principio si spiega come una costituzione genetica sfavorevole possa essere corretta con particolari terapie (per esempio somministrazione di ormoni e vitamine, o di medicamenti). Inversamente, una costituzione normale può essere profondamente modificata e resa anormale dall’azione di determinati fattori
esterni: ad esempio la somministrazione alla gestante
di un farmaco, la talidomide, provoca una grave disfunzione nello sviluppo fetale, che determina la formazione di un individuo focomelico; la rosolia contratta dalla madre durante la gestazione può indurre
gravi malattie nel feto; ecc. Nell’uomo la possibilità di
modificare l’espressione dei geni consente molti interventi terapeutici che “correggono” condizioni ereditarie patologiche o mortali. L’eredità perde così il carattere di una fatalità ineluttabile; non sempre, tuttavia,
è possibile, almeno per ora, correggere del tutto le conseguenze di alcune condizioni genetiche, tra cui alcune anomalie cromosomiche, come quella che provoca
il mongolismo, legate a mutazioni o eventi meiotici
particolari come la non disgiunzione.
Altri casi ben noti di interazioni tra genotipo e ambiente sono quelli delle “forme stagionali” e delle somazioni, varianti fenotipiche di individui geneticamente simili, note anche come ecotipi. Nella farfalla Araschnia levana, ad esempio, la colorazione delle ali è chiara (forma levana) nella generazione che sfarfalla in pri-
mavera e assai più scura (forma prorsa) in quella estiva; è inoltre possibile ottenere individui con fenotipi
diversi, spesso intermedi tra levana e prorsa, sottoponendoli a shock termico all’inizio della vita pupale (figura 2.26). Risultati simili sono stati ottenuti in altre
specie di farfalle, come Precis octavia (figura 2.27) e
Inachis io (figura 2.28).
L’origine della diversità genetica
Ogni organismo sviluppa sia strutture che funzioni
proprie della specie cui appartiene, sia caratteristiche individuali; ciò avviene grazie all’informazione genetica
contenuta nella cellula che ha dato origine all’organismo e nelle cellule che lo costituiscono. L’informazione
genetica ha la sua base fisica nelle molecole dell’acido
desossiribonucleico o, nelle forme di vita più antiche e
in alcuni virus attuali, in quelle dell’acido ribonucleico
(RNA); essa è codificata dalla sequenza delle basi azotate (adenina, timina, guanina e citosina) dei nucleotidi
del DNA (negli organismi a RNA al posto della timina
v’è l’uracile) ed è uguale nei diversi organismi.
La diversità genetica è presente a tutti i livelli di organizzazione dell’informazione ereditaria: dai codoni,
segmenti di DNA costituiti da tre paia di nucleotidi che
codificano per gli aminoacidi (i “mattoni” che costituiscono le proteine), ai geni, le unità fisiche e funzionali
dell’informazione ereditaria che dirigono la sintesi delle molecole proteiche (geni strutturali) o controllano
l’espressione di altri geni (geni regolatori), ai cromosomi, unità discrete del patrimonio ereditario (genoma)
costituite da sequenze lineari di geni e di altro DNA,
all’intero genoma.
Alla base della diversità genetica vi sono le mutazioni, variazioni a livello genico, cromosomico o genomico del patrimonio ereditario degli individui, che vengono trasmesse alla discendenza. Le mutazioni geniche sono alterazioni nella sequenza del DNA del gene (sostituzioni, inserzioni o delezioni di basi); il meccanismo più
frequente con cui si originano è rappresentato dagli errori nel corso della duplicazione del DNA, ma importanti sono anche: a) gli errori durante i processi di riparazione del DNA; b) l’esposizione a varie sostanze chimiche mutagene (iprite, anilina, ecc.); c) vari agenti fisici (raggi X, radioattività sia corpuscolare che non,
ecc.). Le mutazioni cromosomiche modificano la struttura o il numero dei cromosomi; le mutazioni genomiche cambiano il numero dei set cromosmici e/o la loro
origine; se essi derivano dalla medesima specie si parla
70 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.26 - Forme stagionali e somazioni nella vanessa Araschnia levana; generazione primaverile, forma levana (A-E); generazione estiva, f. prorsa
(G-M); f. porrima (F); f. obscura: (N) (POZZI, 1990, modificato).
di autopoliploidia, se da specie diverse di allopoliploidia.
Le mutazioni che insorgono in un individuo sono di
solito svantaggiose perché alterano geni, cromosomi e/o
genomi che la selezione naturale ha modificato nel corso della storia evolutiva della popolazione, adattandola alle condizioni ambientali in cui essa vive. Se, tuttavia, l’ambiente cambia per cause naturali o ad opera
dell’uomo, per esempio in seguito all’immissione massiccia nell’ambiente di una molecola di sintesi tossica
per alcuni organismi, la comparsa di un mutante in grado di detossificarla consentirà la sopravvivenza di popolazioni che vivano a contatto con tale sostanza.
La presenza, in una popolazione, di due o più forme
diverse di un dato carattere è detta polimorfismo. Se il carattere è sotto il controllo di un singolo gene, la popolazione polimorfica avrà due o più forme alternative di tale gene, dette alleli. Con due alleli (A’ e A’’) si hanno tre
genotipi, due omozigoti (A’A’ e A’’A’’) e uno eterozigote
(A’A’’). Gli esempi di polimorfismo genico con vari alleli sono innumerevoli; uno di questi, che riguarda varie
specie di coccinelle, è mostrato in figura 2.29.
Un polimorfismo può mantenersi in una popolazione per un numero indefinito di generazioni, oppure
dopo poche generazioni essa può tornare al monomorfismo. Ad esempio, nel caso della mutazione per la resistenza al DDT in una popolazione di insetto, l’allele mutato scomparirà in poche generazioni se nell’ambiente in cui la popolazione vive non è presente DDT,
oppure sostituirà completamente l’allele normale se il
DDT è presente. In entrambi i casi il polimorfismo si
manterrà solo per alcune generazioni (polimorfismo
transeunte). Molti adattamenti biologici si basano su
polimorfismi genetici stabili (polimorfismi bilanciati).
Per esempio la resistenza genetica alla malaria di alcune popolazioni della specie umana è legata ad anomalie biochimiche dei globuli rossi, determinate da mutazioni a geni distinti, comparse in modo indipendente; tali geni presentano, nelle regioni malariche, polimorfismi bilanciati con vantaggio del genotipo eterozigote (figura 2.30). Esempi di polimorfismi bilanciati a livello cromosomico sono quelli per inversioni e per
traslocazioni, che consentono alle popolazioni di una
specie di adattarsi alle diverse stagioni, oppure a quote più o meno elevate, come nel moscerino Drosophila pseudoobscura (figura 2.31) e nella pianta Clarkia
williamsonii (figura 2.32).
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 71
Fig. 2.27 - Forme stagionali nel ninfalide
africano Precis octavia; forma della
stagione umida (A); forma stagione secca
(B); forma intermedia (C).
Anche il polimorfismo per il colore e il bandeggio del
guscio di alcune chiocciole (per esempio Cepaea nemoralis) è di tipo bilanciato; la frequenza delle varie forme
muta infatti da popolazione a popolazione a seconda
delle caratteristiche del substrato e della sua vegetazione, poiché nelle diverse tessere ambientali cambia la probabilità delle varie forme di sfuggire alla predazione a
vista ad opera degli uccelli (figura 2.33).
Un caso ben noto di polimorfismo adattativo stabile
è rappresentato dall’eterostilia, cioè dalla presenza nei
fiori di individui della stessa specie di stili di diversa lunghezza (piante a fiori longistili o brevistili); tale adattamento, presente ad esempio in varie specie del genere
Primula, impedisce l’autofecondazione (figura 2.34).
Un altro meccanismo che mantiene stabile il polimorfismo è la selezione dipendente dalla frequenza. In
questo caso la fitness di un genotipo varia col il variare della sua frequenza nella popolazione; esempi di tale fenomeno si osservano nel mimetismo batesiano e
mülleriano. Ad esempio le femmine della farfalla Papilio dardanus, commestibile e non protetta dai predatori, presentano uno spiccato polimorfismo per il colore, il disegno e la forma delle ali; le varie forme, che
hanno una peculiare distribuzione geografica nell’Africa sub-sahariana, imitano ciascuna specie diverse di
farfalle inappetibili e protette dalla predazione, presenti con diversa frequenza nelle varie regioni dove vive P.
dardanus. L’imitazione da parte di specie non protette
di specie evitate dai predatori perché incommestibili è
detto mimetismo batesiano; le specie non protette sono
dette mimi, quelle incommestibili modelli. I maschi di
P. dardanus non sono mimetici, probabilmente per mo-
72 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.28 - La vanessa Inachis io in vari
stadi del ciclo biologico; larva (A);
crisalide (B); adulti della forma typica (C,
D) e una somazione (E) ottenuta
mediante shock termico (24 ore a -10 °C
all’inizio della vita pupale).
tivi di selezione sessuale; ogni maschio, d’altra parte,
feconda più femmine; la sopravvivenza di queste ultime, invece, è essenziale per la specie.
Vari insetti incommestibili presentano livree simili,
anche appartenendo a famiglie e a ordini diversi, in modo che il predatore, dovendo associare l’incommestibilità delle prede a un numero ristretto di modelli, realizzi l’apprendimento uccidendo un minor numero di individui per ciascuna delle specie appartenenti al complesso mimetico (mimetismo mülleriano). Anche specie
incommestibili e vistosamente colorate (colorazioni aposematiche) possono presentare un polimorfismo per il
colore e per il disegno; è il caso dei lepidotteri del genere Zygaena (figura 2.35). Ad esempio Zygaena ephialtes
nella sua vasta area di distribuzione, che comprende gran
parte della regione paleartica, imita due distinti modelli aposematici, uno con segnali rossi e neri, l’altro con
segnali bianchi, neri e gialli. Il primo di tali modelli è
di gran lunga il più frequente in Europa continentale e
in Asia centrale, mentre il secondo è particolarmente abbondante in Italia peninsulare e nei Balcani, grazie soprattutto alla grande numerosità delle specie incommestibili del genere Syntomis.
Alla base dei polimorfismi genici e cromosomici vi
sono le mutazioni che, come si è detto, rappresentano
la fonte primaria della diversità genetica. I tassi di mutazione, tuttavia, sono bassi, e non generano una variabilità genetica sufficientemente grande da consentire
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 73
Fig. 2.29 – Basi genetiche del polimorfismo cromatico di due coccinelle del genere Adalia.
In alto: polimorfismo cromatico nella coccinella Adalia decempunctata (Coleoptera, Coccinellidae). Il gene A è polimorfico con tre alleli: A typ
(dominante sia su Ache che su Ame), Ache (dominante su Amel, ma recessivo rispetto a Atyp), Amel (recessivo sia rispetto a Atyp, che rispetto a Ache). E’
schematizzato l’incrocio tra un individuo della forma 10-punctata (genotipo Atyp Amel ) e uno della forma 10-pustulata (genotipo Ache Amel ); nella
progenie di F1 il 50% degli individui appartiene alla forma 10-punctata (25% con genotipo Atyp Ache e 25% con genotipo Atyp Amel ), il 25 % alla
forma 10-pustulata (genotipo Ache Amel ) e il restante 25% alla forma bimaculata (genotipo Amel Amel ) (MAJERUS, 1994, modificato).
In basso a sinistra: frequenza relativa delle forme 10-punctata (in rosso), 10-pustulata (in giallo) e bimaculata (in nero) di A. decempunctata in
Gran Bretagna (MAJERUS, 1998, modificato).
In basso a destra: frequenza relativa delle forme melaniche (in nero) e non melaniche (in rosso) di A. bipunctata in Gran Bretagna (LEES, 1981,
modificato).
74 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.30 - Polimorfismo bilanciato al gene Hb in popolazioni umane adattate alla malaria; gli individui eterozigoti HbAHbS sono protetti dalla malattia.
Fig. 2.31 – Cambiamenti nel tempo delle frequenze di tre ordinamenti cromosomici polimorfici (inversioni) in popolazioni della California del
moscerino Drosophila pseudoobscura. Gli ordinamenti cromosomici considerati sono: Standard (ST), Chiricahua (CH) e Arrowhead (AR). Ogni
figura riporta la frequenza di un particolare ordinamento cromosomico nel corso dell’anno nelle tre località: Andreas Camp , Pinon Flats ,
Keen Camp . Le frequenze delle inversioni ST e CH cambiano drasticamente nelle prime due popolazioni, che vivono a bassa quota, raggiungendo
rispettivamente il minimo e il massimo all’inizio dell’estate, e rimanendo relativamente costanti a Keen Camp. La frequenza di AR rimane invece
relativamente costante nel corso dell’anno in tutte e tre le località (WRIGHT e DOBZHANSKY, 1946, modificato).
Fig. 2.32 - Polimorfismo cromosomico per una traslocazione nella
pianta Clarkia williamsoni; nella figura sono riportate le frequenze
degli eterozigoti traslocati in popolazioni a quote diverse, dai 300 ai
1.600 m: il pallino nero dà il valore medio nella popolazione, le linee
i limiti di confidenza al 95% (WEDBERG et al., 1968, modificato).
alle popolazioni di adattarsi, via selezione naturale, ai
cambiamenti nello spazio e nel tempo delle condizioni
ambientali (una parziale eccezione è rappresentata da
alcuni microorganismi con tempi di generazione estremamente brevi). Partendo dalle mutazioni la riproduzione sessuale moltiplica pressoché all’infinito il numero delle combinazioni genetiche. In questa modalità di
riproduzione la formazione di un nuovo individuo avviene attraverso l’unione di due cellule specializzate, i
gameti. A differenza delle cellule somatiche, che hanno
due set di cromosomi omologhi, uno di origine paterna e l’altro di origine materna (diploidia), i gameti hanno un solo set cromosomico (aploidia, simbolo: n). La
fusione del gamete maschile con quello femminile, detta fecondazione o anfimissi, ristabilisce la diploidia e dà
origine allo zigote, da cui si sviluppa il nuovo indivi-
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 75
Fig. 2.33 - Polimorfismo per il colore e il bandeggio del guscio nella chiocciola Cepaea nemoralis. A: guscio scuro con bande; B: guscio scuro
senza bande; C: guscio chiaro con bande; D: guscio chiaro senza bande; E: frequenza del carattere guscio con o senza bande (sull’asse delle
ascisse) e guscio scuro o chiaro (sull’asse delle ordinate); la frequenza delle varie forme differisce da popolazione a popolazione, a seconda delle
caratteristiche dell’habitat (tipo di substrato e di vegetazione); ogni cerchio corrisponde a una popolazione di C. nemoralis; il colore del cerchio
indica il tipo di vegetazione nella stazione in cui la popolazione è stata osservata. La base genetica del polimorfismo cromatico di C. nemoralis
è relativamente complessa e si basa sulla variazione di un supergene (CAIN e SHEPPARD, 1954, modificato).
duo. Nella sessualità ha un ruolo centrale la meiosi, il
processo che porta alla formazione dei gameti (più esattamente la meiosi dà origine ai gameti negli animali,
mentre dà origine alle spore nelle piante; da queste si
sviluppano i gametofiti, aploidi, che producono i gameti). La meiosi è derivata dalla mitosi, il processo di
duplicazione delle cellule somatiche. La meiosi consiste in due divisioni cellulari consecutive che, a partire
da una cellula diploide della linea germinale, danno origine a quattro cellule aploidi; la prima divisione meiotica è riduzionale: i cromosomi omologhi, dapprima
strettamente appaiati, si separano e migrano ai due poli della cellula, che si divide dando origine a due cellule aploidi; la seconda divisione meiotica è equazionale
e non differisce dalla mitosi se non per il fatto di realizzarsi in una cellula aploide.
Nella meiosi i cromosomi di origine paterna e materna di ciascuna coppia si distribuiscono in modo indipendente nelle quattro cellule aploidi prodotte; il numero di combinazioni generato dall’assortimento indipendente dei cromosomi omologhi dipende da quante
sono le coppie cromosomiche (figura 2.36); nella specie umana, in cui n = 23, il numero di combinazioni
è 223; nei gameti di un uomo si realizzano, cioè, quasi
dieci milioni di combinazioni genetiche. Ancor più rilevante come meccanismo generatore di nuove combinazioni genetiche è la ricombinazione o crossing over,
cioè lo scambio di segmenti di un cromosoma con segmenti corrispondenti del suo omologo, che avviene durante la prima divisione meiotica, quando gli omologhi sono strettamente appaiati (figura 2.37). Come
conseguenza dei due fenomeni meiotici dell’assorti-
76 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.34 - Eterostilia nel genere Primula. Le primule, come molte altre angiosperme, hanno fiori ermafroditi, cioè con stami e pistillo nello
stesso fiore; tuttavia l’autoimpollinazione è rara. Vari meccanismi favoriscono la fecondazione crociata, cioè l’unione dei gameti maschili e
femminili prodotti da individui diversi, conspecifici ma geneticamente differenziati (allogamia). Nella figura viene illustrato il meccanismo della
eterostilia, un polimorfismo genetico che porta alla formazione di piante con due tipi di fiori: longistili, con stilo lungo, stigma all’estremità
superiore del tubo della corolla, stami a metà circa del tubo, e brevistili, con stilo corto, stigma a metà circa del tubo della corolla, stami
all’estremità superiore del tubo. Le piante possono avere fiori brevistili e longistili, ma non entrambi. Molte popolazioni di quasi tutte le specie
del genere Primula presentano piante sia a fiori longistili che brevistili, con frequenza simile. In A è raffigurata un’infiorescenza della primula
P. veris, a fiori brevistili, in B un fiore brevistilo (a sinistra) e uno longistilo; in C e in D sono mostrate sezioni di fiori brevistili (a sinistra) e
longistili (a destra ). Alcuni insetti impollinatori (pronubi) penetrano profondamente nella corolla e raccolgono polline dalle antere delle piante
a fiori longistili per depositarlo poi sullo stigma di piante a fiori brevistili; altri pronubi visitano la parte superiore dei fiori e raccolgono polline
dalle piante a fiori brevistili per depositarlo poi sugli stigmi di quelle a fori longistili. L’eterostilia avita l’autoimpollinazione, favorendo l’incrocio
assortativo (cioè non casuale) negativo (cioè tra piante fenotipicamente diverse). Il polimorfismo per l’eterostilia è controllato da almeno tre geni
strettamente associati (loci linked), che costituiscono il supergene per l’eterostilia.
Fig. 2.35 (pagina a fianco) - Mimetismo mülleriano e polimorfismo in lepidotteri del genere Zygaena.
A - Polimorfismo per il colore e per il disegno nella farfalla Zygaena transalpina (Lepidoptera, Zygaenidae), inappetibile per quasi tutti i potenziali
predatori; nella prima fila il alto forme rosse non melaniche, diffuse in Italia settentrionale e nelle Alpi, appartenenti al complesso mimetico
mülleriano a pattern rosso e nero illustrato nella Fig. C; nella seconda fila forme rosse melaniche della sottospecie xanthographa, presente in
Italia centro-meridionale; nella terza fila forme gialle più o meno melaniche della sottospecie xanthographa; nella quarta fila, in basso, forme
gialle non melaniche della sottospecie tilaventa, diffuse in Friuli e nella Venezia Giulia.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 77
B - Polimorfismo nella farfalla Zygaena ephialtes: in alto a sinistra forma peucedanoide rossa (peucedani) appartenente al complesso mimetico
mülleriano a pattern rosso e nero illustrato in Fig. 3; in alto a destra forma peucedanoide gialla (aeacus); in basso a sinistra forma efialtoide rossa
(ephialtes); in basso a destra forma efialtoide gialla (coronillae), appartenente al complesso mimetico mülleriano a pattern nero, bianco e giallo,
comprendente le specie del genere Syntomis (Lepidoptera, Ctenuchidae), illustrato in Fig. D.
C - Complesso mimetico mülleriano comprendente varie specie del genere Zygaena, coleotteri del genere Trichodes ed emitteri del genere Cercopis.
A tale complesso mimetico, diffuso in Europa, appartengono anche le forme rosse non melaniche di Z. transalpina e la forma peucedanoide
rossa di Zygaena ephialtes (SBORDONI e FORESTIERO, 1984, modificato).
D - Complesso mimetico mülleriano comprendente le specie Syntomis e la forma efialtoide gialla di Zygaena ephialtes; sono raffigurati in alto a sinistra
un esemplare di S. ragazzii, in alto a destra e sotto tre esemplari di S. phegea, in basso a destra un esemplare della forma efialtoide gialla di Z. ephialtes;
tale complesso mimetico è diffuso abbondantemente in Italia peninsulare e nei Balcani centrali (SBORDONI e FORESTIERO, 1984, modificato).
78 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.36 - Assortimento indipendente dei cromosomi omologhi durante
la prima divisione meiotica (CURTIS e BARNES, 1985).
mento indipendente dei cromosomi e della ricombinazione una progenie originatasi per via sessuale, per
quanto numerosa, è costituita da individui geneticamente diversi tra loro (i gemelli monozigoti, geneticamente identici, derivano da un singolo uovo fecondato). La riproduzione sessuale, benché molto più complessa ed energeticamente assai più costosa delle altre
modalità riproduttive, si è evoluta indipendentemente in vari gruppi di organismi ed è attualmente presente nella loro grande maggioranza. La perdita della sessualità (per esempio nelle popolazioni di angiosperme
che a causa dell’estinzione locale dei pronubi si riproducono clonalmente) prelude spesso all’estinzione della popolazione.
La diversità genetica delle specie è influenzata dal flusso genico: quando un individuo si sposta da una popolazione a un’altra, e in quest’ultima si riproduce, trasferisce ad essa i suoi geni contribuendo ad aumentarne la
variabilità genetica. Il flusso genico, se intenso e prolungato nel tempo, è un’importante forza “antievolutiva”;
esso, infatti, tende a mantenere geneticamente uniformi le popolazioni di una specie, riducendo le differenze che tra esse insorgono come conseguenza: 1) delle
mutazioni, che compaiono in modo indipendente nelle varie popolazioni; 2) della selezione naturale, cioè del-
Fig. 2.37 - Coppia di cromosomi omologhi, ciascuno formato da due
cromatidi identici, uniti nel centromero, alla fine della profase I; sono
mostrati i prodotti meiotici senza crossing-over (sopra) e con un evento
di crossing-over (sotto).
la riproduzione differenziale (fitness) dei vari genotipi,
che rende più frequenti in ciascuna popolazione geni e
combinazioni geniche che meglio si adattano alle particolari condizioni ambientali in cui la popolazione vive;
3) dei fenomeni di deriva genetica, cioè dei cambiamenti stocastici (cioè casuali) delle frequenze geniche e cromosomiche causati dalle variazioni nel numero degli individui che compongono una popolazione. L’interruzione prolungata del flusso genico tra popolazioni (causata per esempio dell’insorgere di barriere geografiche) ne
favorisce il differenziamento genetico e può culminare
con la formazione di nuove specie (speciazione allopatrica - figure 2.38 e 2.39).
La diversità genetica delle popolazioni e la minaccia
di estinzione
Come si e detto la diversità genetica, oggi studiabile quantitativamente con vari marcatori genetici, è essenziale per la sopravvivenza delle popolazioni. Essa è
infatti alla base dei processi adattativi, grazie ai quali
le popolazioni riescono a fronteggiare con successo il
continuo variare nel tempo e nello spazio dei diversi
fattori ecologici (condizioni climatiche, specie competitrici, predatori, parassiti, risorse trofiche utilizzabili,
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 79
Fig. 2.38 - Differenziamento
morfologico e genetico in orchidee
diploidi e autotetraploidi del
complesso Anacamptis morio. A:
A. champagneuxii, 2n=36 (Francia
meridionale; DELFORGE, 2001); B:
A. morio morio, 2n=36 (Francia
settentrionale; BOURNÉRIAS et al.,
1998); C: A. morio A, 2n=36
(Trentino, Italia; PERAZZA, 1992);
D: A. morio A forma albiflora,
2n=36 (Italia; CRESCENTINI e
KLAVER 1997); E: A. longicornu,
2n=36 (Sicilia; DELFORGE, 2001);
F: A. morio E, 2n=36 (Macedonia;
DELFORGE, 2001).
Fig. 2.39 - Frequenze alleliche al
gene Dia-2, codificante per la
proteina enzimatica diaforasi, nel
complesso A. morio (2n). 1, 2, 5:
A. champagneuxii (2n); 3: A.
champagneuxii (4x); 4, 6-9: A.
morio morio (2n); 10-22: A. morio
A (2n); 23-26: A. longicornu (2n);
27-29: A. morio E (2n).
80 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
composizione chimica del medium, ecc.), come esemplificato dalla cosiddetta Red Queen Hypothesis di VAN
VALEN (1973).
Perché una popolazione mantenga la sua variabilità
genetica e la sua flessibilità adattativa è necessario che
le sue dimensioni rimangano al di sopra di un certo livello (concetto di minima popolazione vitale, MVP,
Shaffer, 1981). Nelle piccole popolazioni, infatti, stress
ambientali possono provocare fluttuazioni della natalità e della mortalità tali da portare all’estinzione; inoltre, le piccole popolazioni perdono variabilità genetica, come predetto da modelli matematici e confermato da esperimenti sul campo, a causa dell’inincrociocio
(o inbreeding, cioè la riproduzione tra individui imparentati,) e della deriva genetica. Inoltre, poiché nel patrimonio ereditario di ciascun membro della popolazione sono presenti allo stato eterozigote alleli svantaggiosi o letali (genetic load o carico genetico), l’incrocio
tra parenti (e, nelle specie ermafrodite, l’autofecondazione) aumenta di molto la probabilità che tali alleli
siano presenti nella discendenza allo stato omozigote
(depressione da inbreeding); come conseguenza molti
individui non raggiungono la maturità sessuale o, se la
raggiungono, hanno prole poco numerosa, poco vitale, con basso successo riproduttivo o addirittura sterile. In natura operano molti meccanismi che prevengono l’inbreeding. Per esempio in molti primati gregari
i maschi, giunti all’età riproduttiva, abbandonano il
gruppo in cui sono nati e vanno a riprodursi in un altro gruppo; in molte specie animali è stata dimostrata
una particolare forma di selezione sessuale, detta vantaggio della forma rara: gli individui con caratteristiche
fenotipiche diverse da quelle più frequenti nella popolazione hanno maggiore probabilità di accoppiarsi; nelle piante l’allogamia, cioè l’impollinazione tra fiori di
piante diverse, è favorita da vari adattamenti, mentre
l’autogamia è ostacolata; nelle piante con fiori ermafroditi gli organi sessuali maschili e femminili spesso
maturano i gameti in tempi diversi, oppure sono collocati in modo da rendere improbabile l’autofecondazione. Quando le popolazioni diventano piccole molti di tali meccanismi cessano di operare.
Per il mantenimento della variabilità genetica di una
popolazione ciò che conta non è, tuttavia, il numero totale degli individui che la compongono (N), ma il numero degli individui che si riproducono (Ne = dimensione effettiva della popolazione). Nelle popolazioni naturali N e Ne possono essere molto diversi; negli insetti, per esempio, il numero di uova e di larve nella popo-
lazione può essere assai elevato; la gran parte degli individui, tuttavia, muore prima della metamorfosi uccisa da
infezioni, endoparassiti, a predatori, o a causa della scarsità di risorse trofiche, o ancora per le condizioni climatiche avverse. Anche in altri gruppi animali, soprattutto
ove manchino le cure parentali, la mortalità durante gli
stadi giovanili è elevata. Nelle stime della dimensione che
una popolazione deve avere per mantenere nel tempo
un’elevata variabilità genetica vanno quindi distinte le
specie che subiscono forti fluttuazioni demografiche (per
esempio molti invertebrati, molte piante annue), da quelle in cui tali fluttuazioni sono minori (per esempio mammiferi e uccelli). In entrambi i casi vanno presi in considerazione anche gli eventi ambientali e demografici negativi per la popolazione, prevedibili a medio e a lungo
termine.
Come abbiamo visto la variabilità genetica intrapopolazionale è fortemente influenzata, oltreché dalla dimensione della popolazione, dalla presenza o meno di flusso
genico con altre popolazioni conspecifiche. Nelle popolazioni isolate la perdita di variabilità genetica in seguito
a deriva è infatti un fenomeno difficilmente reversibile,
che può essere bilanciato solo da eventi di mutazione. Ciò
rende queste popolazioni ad alto rischio di estinzione. Attualmente le popolazioni isolate sono assai più numerose che in passato a causa di barriere di vario tipo create
dall’uomo, per esempio vaste aree ad agricoltura intensiva, conurbazioni, insediamenti industriali, grandi opere
viarie, ecc.
Gli esempi di popolazioni e specie attualmente a rischio di estinzione, molte delle quali mostrato una variabilità genetica fortemente ridotta (erosione genetica),
sono numerosi. Vanno ricordati: l’elefante di mare Mirounga angustirostris, che ha subito nel secolo scorso un
pronunciato crollo demografico, soprattutto a causa
della caccia indiscriminata; il ghepardo Acinonyx jubatus, cha ha mostrato completa assenza di variabilità genetica ai marcatori studiati; il leone asiatico Panthera
leo persica, la cui popolazione residua, ibridata con individui della sottospecie africana Panthera leo leo, ha
mostrato un rapido e significativo aumento della fecondità; il bisonte Bison bison, di cui si pensa fossero presenti da 50 a 100 milioni di individui prima della colonizzazione dell’America settentrionale da parte degli
europei, e che sopravvive oggi solo all’interno di parchi e riserve; il bisonte europeo Bison bonasus, la cui popolazione attuale, distribuita soprattutto nel Parco di
Bialowieza in Polonia, deriva da pochi individui e mostra gli effetti della depressione da inbreeding (aumen-
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 81
to della mortalità e riduzione della fertilità, H ART e PUCEK, 1994); il panda maggiore Ailuropoda melanoleuca, la cui sopravvivenza è minacciata soprattutto dalla
deforestazione ad opera dell’uomo, i pesci Hoplostetus
atlanticus, Gadus morhua, Thunnus thynnus, Xiphias gladius, Salvelinus frontinalis, di cui è stata documentata
la perdita di variabilità genetica in seguito a pesca intensiva (le gravi infezioni e parassitosi osservate recentemente nelle popolazioni mediterranee di tonno e pesce spada sono probabilmente una conseguenza della
perdita di variabilità genetica che esse hanno subito).
Tra le specie italiane ricordiamo la Scarpetta di Venere
Cypripedium calceolus, estinta o a rischio di estinzione
in vari paesi europei non tanto per la raccolta indiscriminata, come si è a lungo creduto, quanto per la mancata maturazione dei frutti (fruiting failure) legata alla
rarefazione degli insetti pronubi, con l’importante conseguenza dell’intensificarsi, in molte popolazioni, della riproduzione vegetativa (figura 2.40); l’orchidea delle paludi Anacamptis palustris, ridotta a piccole popolazioni a causa della rarefazione del suo habitat naturale (dovuta alle bonifiche e al prosciugamento delle zone umide), la cui variabilità genetica è risultata significativamente minore di quella della specie affine A. laxiflora; il cervo del Boscone della Mesola Cervus elaphus, le cui piccole dimensioni, scarsa resistenza alle
malattie e scarsissime fecondità sono dovute a inbreeding depression; il camoscio d’Abruzzo Rupicapra pyrenaica ornata, risultato quasi privo di variabilità ai marcatori studiati; il lupo Canis lupus, ridotto fino a poco
tempo fa a poche decine di individui con bassa variabilità genetica e depressione da inbreeding.
Per la gestione delle popolazioni e delle specie minacciate di estinzione è necessario conoscerne la struttura
genetica. Per esempio nelle popolazioni minacciate in
cui i fenomeni di depressione da inbreeding sono evidenti e il numero degli individui che si riproducono diminuisce di generazione in generazione, può risultare
necessaria l’immissione di individui di origine geografica diversa; tuttavia tale pratica non è priva di rischi e
va impiegata con cautela. I geni di una popolazione sono, infatti, il risultato di lunghi ed estesi processi di coadattamento; l’outbreeding potrebbe provocare una diminuzione del livello di coadattamento genico (outbreeding depression).
La conservazione della diversità genetica degli organismi, sia all’interno che tra le popolazioni, ha un’importanza cruciale per la loro salvaguardia; ciò ha determinato la nascita di una nuova disciplina: la Genetica
della Conservazione (Conservation Genetics) con riviste
e pubblicazioni specializzate. Due sono gli obiettivi principali che tale disciplina persegue: 1) preservare la diversità genetica esistente; 2) consentire ai processi evolutivi che la determinano di continuare a operare. In
particolare è necessario monitorare la variabilità genetica delle popolazioni animali e vegetali sottoposte a sfruttamento ad opera dell’uomo con la caccia, la pesca o la
raccolta indiscriminata e stabilire caso per caso l’entità
dei prelievi compatibili con il mantenimento della diversità genetica. Va, inoltre, caratterizzata su scala geografica la struttura genetica delle popolazioni (filogeografia), per identificare le unità significative di evoluzione (Evolutionary Significant Unit - ESU); tali unità sono costituite da gruppi di popolazioni geneticamente
differenziati in seguito a un isolamento geografico più
o meno prolungato; ogni unità merita di essere conservata, in quanto rappresenta una frazione significativa
della diversità genetica della specie (AVISE e HAMRICK,
1996). Vanno, infine, identificate e protette le aree geografiche che risultino centri di diversità genetica per la
presenza di specie endemiche, di popolazioni numerose e geneticamente variabili di specie altrove depauperate, o di zone ibride (cioè aree di contatto tra popolazioni geneticamente differenziate).
La realizzazione di riserve per la conservazione della
diversità genetica sia nel nostro paese che nel resto del
mondo è necessaria e urgente; i parchi e le riserve naturali tradizionali infatti spesso non comprendono nei loro confini i centri di diversità genetica; inoltre, i criteri
e i metodi di gestione delle riserve di diversità genetica
non sono gli stessi utilizzati nei parchi e nelle riserve naturali tradizionali.
82 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 83
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Fig. 2.40 – Orchidee del genere Cypripedium e loro pronubi.
Sono raffigurate alcune specie di orchidee del genere Cypripedium (figg. A-E, I), con fiori grandi e vistosamente colorati e col caratteristico
labello a forma di scarpa, da cui i nomi popolari di “scarpetta di venere” o “scarpetta della Madonna”. I fiori di queste orchidee sono privi di
nettare e non danno alcuna “ricompensa” ai pronubi (deceptive orchids). Il fiore funge da “trappola” temporanea; vari insetti, attirati da stimoli
visivi e olfattivi, vi penetrano attraverso l’ampia apertura imbutiforme del labello (figg. E, G, H). Se l’insetto ha dimensioni troppo grandi,
come nel caso dell’ape domestica (Apis mellifera), può rimanere intrappolato nel fiore e morirvi; se l’insetto è troppo piccolo, esce da uno dei
due fori laterali senza sporcarsi di polline. I pronubi specifici, in C. calceolus alcuni apoidei del genere Andrena di dimensioni medie, specialmente
A. haemorrhoa (fig. F), penetrano nel fiore e, sfregando il corpo peloso su stigma e antere, si coprono di polline; quindi fuoriescono da uno
dei fori laterali; successivamente, visitando il fiore di un’altra orchidea conspecifica, la impollinano. L’uso massiccio di DDT e di altri insetticidi
di sintesi ha provocato il declino dei pronubi delle Cypripediacecae; la grande maggioranza dei fiori nelle specie europee e nord-americane non
vengono fecondati e non producono semi (fruiting failure). Poichè nel genere Cypripedium non è possibile l’autofecondazione naturale, la
riproduzione avviene spesso per via vegetativa, mediante propagazione di rizomi ipogei. Nelle popolazioni in cui ciò avviene si hanno livelli
elevati di inbreeding e conseguente riduzione della variabilità genetica (genetic erosion). La fig. G mostra schematicamente la morfologia di un
fiore di C. calceolus; nella fig. H una sezione sagittale mostra la struttura interna del fiore; una freccia indica il percorso di un pronubo dal suo
ingresso attraverso l’apertura imbutiforme del labello alla sua fuoriuscita da uno due fori laterali. (Figg. A e D da DELFORGE, 2001; B e C da
CRIBB, 1997; E da BUTLER; 1991; F da GIBBONS 1995; G da JONG, 2002; H da PROCTOR et al., 1996; I da BOURNERIAS, 1998, modificati).
84 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
DIVERSITÀ GENETICA DELLE SPECIE VEGETALI
DI INTERESSE AGRARIO
[Oronzo Antonio Tanzarella, Enrico Porceddu, Gian Tommaso
Scarascia Mugnozza]
Per biodiversità delle piante agrarie si intendono le risorse genetiche, cioè ogni materiale di origine vegetale, di
valore attuale o potenziale per l’agricoltura e l’alimentazione e per i prodotti anche non-alimentari che dall’agricoltura, selvicoltura inclusa, si possono ottenere: tessili,
farmaceutici, biocombustibili, materiali da costruzione e
per bioindustria, ecc. La transizione delle comunità umane primitive da cacciatori-raccoglitori nomadi a comunità stanziali di agricoltori ha permesso di soddisfare le esigenze alimentari di un numero crescente di individui e di
limitare il numero di componenti che si dedicavano al reperimento dei mezzi di sostentamento. Ciò ha determinato il rapido incremento demografico del Neolitico e,
successivamente, lo sviluppo grazie alla diversificazione
Fig. 2.41 - Alcuni prodotti agricoli.
Grano
Riso
Mais
Patata
Orzo
Patata americana
Tapioca
Vite
Soia
Avena
Sorgo
Canna da zucchero
Miglio
Banana
Pomodoro
Barbabietola da zucchero
Segale
Arancio
Cocco
Semi di girasole
Tabella 2.1 – Le 20 specie principali su cui si basa l’alimentazione
umana (HARLAN, 1976, modificata), in ordine descrescente di importanza.
delle attività umane, delle civiltà e della cultura. La riduzione della biodiversità nell’ambito dei materiali coltivati rappresenta una conseguenza inerente all’attività agricola che ha dovuto, inevitabilmente, scegliere e selezionare le specie più idonee per soddisfare le esigenze alimentari dell’uomo e quelle degli animali domestici nell’ambito della variabilità esistente in natura. Ciò è dimostrato dal fatto che, nel corso della sua storia come agricoltore, l’uomo ha utilizzato per la produzione agricola
circa 3000 delle 75.000 specie potenzialmente eduli che,
a loro volta, rappresentano circa un quarto delle specie
vegetali conosciute (figura 2.41). Le specie attualmente
coltivate sono 150 e l’alimentazione umana si basa su 20
(tabella 2.1) di esse, mentre tre sole specie, il frumento,
il riso e il mais, forniscono il 60% delle calorie e il 56%
delle proteine consumate dall’uomo.
La storia del miglioramento genetico vegetale negli ultimi 100 anni è stata quella di un successo straordinario.
Con la nascita della genetica all’inizio del ventesimo secolo divenne possibile dare un’impostazione scientifica rigorosa ai programmi di miglioramento genetico che, nel
Fig. 2.42 - Spighe in un campo di frumento.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 85
Fig. 2.43 - Crescita della popolazione mondiale dal 1950 al 2050
(Fonte: U.S. Census Bureau).
Fig. 2.44 - Variazione dell’area coltivata a cereali per persona dal 1950
al 2050.
corso degli anni, sono ricorsi a strumenti sempre più sofisticati per modificare le caratteristiche genetiche delle
piante coltivate. Negli anni ‘50 e ‘60 l’introduzione nei
paesi in via di sviluppo di varietà di cereali altamente produttive, in grado di avvalersi del perfezionamento delle
tecniche agronomiche e, in particolare, dell’introduzione
della meccanizzazione, del miglioramento delle tecniche
di fertilizzazione e dell’uso di fitofarmaci, ha determinato incrementi produttivi straordinari, dando luogo a quella che è stata definita “Rivoluzione verde” (figura 2.42).
L’aumentata produttività ha permesso di soddisfare le esigenze alimentari di una popolazione mondiale in crescita esplosiva e di limitare la messa in coltura di nuove aree,
riducendo il tasso di deforestazione (figure 2.43 e 2.44).
L’attività di miglioramento genetico ha prodotto anche
una più avanzata standardizzazione qualitativa, nutrizionale e tecnologica dei prodotti agricoli, soddisfacendo le
richieste dei consumatori e dell’industria di trasformazione alimentare (figure 2.45 e 2.46). Come spesso accade nelle attività umane, tuttavia, anche i risultati più
Fig. 2.45 - Variabilità tra diverse varietà di mele.
Fig. 2.46 - Acini di uva di diverso colore.
86 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.47 - Variabilità per il colore e la forma delle
cariossidi e per le dimensioni della spiga in mais.
Fig. 2.48 - Variabilità tra spighe di frumento.
straordinari non sono scevri da zone d’ombra e inconvenienti. La diffusione delle varietà altamente produttive,
infatti, ha provocato un’intensa erosione delle risorse genetiche delle specie coltivate, con la scomparsa delle vecchie razze locali che presentavano un’elevata variabilità
genetica e una buona adattabilità ad ambienti specifici.
Ciò, a lungo termine, potrebbe pregiudicare gravemente
il conseguimento di ulteriori miglioramenti produttivi,
qualitativi e resistenti a stress biotici e abiotici a causa della ridotta variabilità genetica alla quale attingere per il reperimento di nuovi geni e blocchi genici da introdurre
nelle varietà coltivate.
Una parte dell’immenso patrimonio di variabilità genetica esistente nelle vecchie varietà locali coltivate nella
prima metà del secolo scorso si è salvata grazie all’attività di raccolta e conservazione del germoplasma delle specie coltivate (figure 2.47, 2.48, 2.49 e 2.50).
Esistono (vedi § Salvaguardia e monitoraggio della biodiversità in Italia) due possibili approcci alla conservazione della biodiversità: in situ ed ex situ. La conservazione
in situ della biodiversità in agricoltura è stata definita da
BROWN (1999) come il mantenimento della diversità presente all’interno e tra popolazioni delle specie utilizzate
direttamente in agricoltura o come fonti di geni negli habitat in cui tale diversità ha avuto origine e continua a svilupparsi. Essa riguarda interi ecosistemi agricoli e comprende sia le specie utilizzabili direttamente, sia le specie
selvatiche affini presenti. Fin dai primordi dell’agricoltu-
ra le specie selvatiche hanno contribuito ad arricchire la
biodiversità delle specie coltivate attraverso gli eventi di
ibridazioni spontanee che si sono verificati ai margini dei
campi coltivati. Numerosi caratteri incorporati nelle moderne varietà coltivate di patata, frumento, orzo, riso,
mais, avena, ecc., importanti soprattutto per l’adattabilità (ad esempio resistenze a stress biotici e abiotici) hanno
avuto origine dalle specie selvatiche. Questo processo è
ancora in atto nei centri di domesticazione delle piante
coltivate, che si trovano prevalentemente in paesi in via
di sviluppo. Le specie selvatiche rappresentano una fonte preziosa e insostituibile di geni utili, soprattutto per resistenze a malattie e a parassiti, da trasferire nelle varietà
coltivate altamente produttive attraverso i programmi di
miglioramento genetico. È necessario, infatti, reperire
continuamente nuovi geni di resistenza che permettano
di contrastare lo sviluppo di ceppi patogeni in grado di
superare le resistenze introdotte precedentemente. La disponibilità di più fonti di resistenza consente, inoltre, di
accumulare più geni di resistenza, il cui effetto combinato ostacola e procrastina lo sviluppo di ceppi virulenti da
parte del patogeno. La riduzione dell’uso di fitofarmaci,
possibile grazie all’uso di genotipi resistenti, ha una duplice ricaduta positiva: limita l’impatto ambientale dell’attività agricola, evitando l’immissione di sostanze tossiche nocive per l’uomo e per la fauna, e riduce i costi di
produzione, aspetto particolarmente importante per i paesi in via di sviluppo. Sono innumerevoli i geni di resisten-
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 87
Fig. 2.49 - Variabilità per le dimensioni e il colore in semi di Phaseolus
coccineus.
Fig. 2.50 - Variabilità tra cariossidi di diverse varietà di riso.
za a patogeni trasferiti da specie selvatiche nei materiali
coltivati mediante programmi di miglioramento genetico, ad esempio: in frumento resistenze a ruggini e oidio
da varie specie selvatiche dei generi Triticum e Aegilops;
in riso resistenze a virus, batteri e funghi da specie selvatiche del genere Oryza; in patata resistenza alla peronospora e in pomodoro resistenze a vari funghi, batteri e virus da molte specie selvatiche del genere Solanum; ecc.
Dai materiali selvatici è possibile però trasferire anche ge-
ni per il miglioramento delle qualità nutrizionali e tecnologiche, ad esempio, geni per aumentare il contenuto proteico delle cariossidi di frumento e per una maggiore concentrazione di vitamina C in pomodoro. In molti casi,
purtroppo, la sopravvivenza dei materiali selvatici è seriamente minacciata dalla distruzione o dal deterioramento
dei loro habitat naturali. Numerose specie selvatiche affini a cereali coltivati quali frumento e miglio, ad esempio, sono notevolmente a rischio per l’eccessivo pascolamento e dai processi di desertificazione. Altre specie selvatiche utilizzabili per il trasferimento di geni in patata,
pomodoro e fagiolo crescono in aree montuose del Sudamerica e dell’America centrale, tali ecosistemi sono
estremamente fragili e vulnerabili a causa dell’intensa erosione determinata dalla crescente pressione delle popolazioni umane. Alcune specie selvatiche affini a quelle
coltivate crescono, generalmente, negli ecosistemi agricoli, all’interno e intorno alle aziende agricole; l’industrializzazione dell’agricoltura, con un’estesa meccanizzazione e l’uso di erbicidi, compromette gravemente,
quindi, la sopravvivenza di queste specie. L’antropizzazione sempre più estesa e diffusa, anche nei paesi in via
di sviluppo, con la conseguente distruzione di habitat e
di ambienti naturali, pone in termini molto gravi e urgenti l’esigenza di adottare misure adeguate di supporto
economico e tecnico per la salvaguardia di queste fondamentali risorse genetiche nei paesi di origine. Spesso, infatti, questi paesi non possiedono le risorse economiche
necessarie per attuare le opportune misure di conservazione della biodiversità.
La conservazione in situ, naturalmente, rappresenta
il sistema ottimale di conservazione delle risorse genetiche vegetali, perchè le popolazioni possono continuare a evolversi nel proprio ambiente di origine, nel quale è possibile il raggiungimento del giusto punto di equilibrio tra conservazione della variabilità genetica preesistente e adeguamento ai cambiamenti climatici e ambientali. Tale evoluzione, tuttavia, può essere troppo rapida, deteriorando la struttura genetica originaria e la
variabilità esistente nei materiali di partenza. La soluzione ideale potrebbe essere quella di una conservazione a lungo termine del seme, per bloccare la struttura
genetica e la sua rigenerazione nelle regioni da cui deriva, per limitare l’effetto deleterio della selezione in un
ambiente diverso. Spesso, per una serie di motivi, non
esistono alternative alla conservazione ex situ, in paesi e
ambienti diversi da quelli di origine dei materiali conservati. La conservazione ex situ è indispensabile, ad
esempio, per le vecchie varietà locali, la cui coltura è sta-
88 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
ta abbandonata dagli agricoltori. Questi materiali rappresentano una fonte inestimabile di geni utili, che possono essere adoperati agevolmente per il trasferimento
nelle moderne varietà altamente produttive. Trattandosi della stessa specie e di genotipi che, essendo stati coltivati, possiedono un elevato grado di domesticazione,
infatti, non presentano i problemi che derivano dall’uso
di specie selvatiche, che richiedono un lungo lavoro di
“ripulitura” dei geni sfavorevoli introdotti con l’ibridazione, attraverso ripetuti reincroci o con tecniche di ingegneria cromosomica. Un altro vantaggio della conservazione ex situ è che la custodia delle stesse accessioni in
centri dislocati in diversi paesi, evita che eventuali incidenti possano distruggere irrevocabilmente questi materiali insostituibili. La conservazione ex situ comporta
una serie di attività che comprendono: la raccolta, la gestione e la conservazione delle collezioni di germoplasma, la rigenerazione del materiale custodito, la caratterizzazione e valutazione delle accessioni, la documentazione e la distribuzione agli utilizzatori. Tutte le fasi
richiedono grande precisione e accuratezza, ma l’elemento più critico per gli inconvenienti insiti nella procedura è la rigenerazione del seme per il ripristino della germinabilità. Durante la rigenerazione al di fuori dell’ambiente di origine, infatti, è inevitabile che si verifichi una
modificazione della struttura genetica e, quindi, della
variabilità dei materiali custoditi.
Le tecniche rese disponibili dai progressi della biologia molecolare e del DNA ricombinante, in particolare
i marcatori molecolari, possono contribuire in maniera
sostanziale a rendere più efficaci le azioni di conservazione del germoplasma sia in situ che ex situ. Utilizzando i
marcatori molecolari è possibile effettuare una valutazione accurata dell’entità e della distribuzione della variabilità genetica esistente nelle popolazioni naturali, ciò permette di scegliere in maniera mirata le aree dove è presente il massimo della variabilità e di indirizzare verso di
esse le azioni più opportune di conservazione in situ o la
raccolta di campioni per la conservazione ex situ. Nella
fase successiva, di conservazione, i marcatori molecolari
possono essere impiegati per il monitoraggio della variabilità genetica, verificando che questa non venga erosa,
soprattutto durante la rigenerazione dei semi. La conoscenza della variabilità esistente nelle collezioni e, soprattutto, l’individuazione ed eliminazione delle eventuali ridondanze consentono di realizzare “core collections”, che
racchiudono il massimo di variabilità genetica all’interno di un numero ridotto di accessioni rappresentative
dell’intera collezione, razionalizzando la gestione dei ma-
teriali e la loro distribuzione agli utilizzatori. Altrettanto fondamentale è l’uso dei marcatori molecolari nella
fase successiva, di uso del germoplasma per il miglioramento genetico, soprattutto quando sono disponibili
mappe cromosomiche sature, mediante le quali è possibile trovare sempre uno o più marcatori strettamente associati al gene che si intende selezionare. La disponibilità di marcatori strettamente associati al gene di interesse facilita il suo trasferimento mediante la MAS (Map
Assisted Selection), perchè rende possibile la selezione nelle piante appena germinate, senza dover attendere la manifestazione del carattere nella pianta adulta, con risparmio di tempo e spazio, aspetto particolarmente importante nelle piante arboree.
Il trasferimento mirato di geni che controllano caratteri utili dal germoplasma nei materiali coltivati è stato
possibile, fino all’avvento dei marcatori molecolari e all’ottenimento di mappe genetiche sature, solo per caratteri semplici a controllo monogenico. Ciò costituisce un
serio inconveniente, perchè la maggior parte dei caratteri di interesse agronomico sono caratteri quantitativi, con
controllo poligenico. L’analisi QTL (Quantitative Trait
Loci - loci di caratteri quantitativi), che permette di dissezionare i caratteri quantitativi complessi in singole componenti mendeliane localizzandole sui cromosomi grazie alla loro cosegregazione con marcatori molecolari,
rende possibile l’ipotesi di trasferire blocchi genici che
controllano caratteri quantitativi di rilievo da materiali
di germoplasma. Tra i caratteri più interessanti che potrebbero essere reperiti nelle collezioni di germoplasma
e trasferiti nelle varietà coltivate, grazie all’individuazione e localizzazione di QTL, vi sono, in particolare, geni
per la produttività, per caratteristiche qualitative e nutrizionali, per resistenze a stress abiotici e per resistenze
a patogeni e insetti. Molte resistenze, comunemente definite orizzontali, infatti, hanno un controllo poligenico
e, pur presentando un livello di resistenza inferiore rispetto a quelle controllate da geni singoli (resistenze verticali), vengono superate più difficilmente da ceppi virulenti del patogeno.
Fino a 30 anni fa la caratterizzazione della biodiversità in Italia si limitava a iniziative sporadiche e frammentarie di singoli ricercatori. La svolta avvenne all’inizio degli anni ‘70, con l’istituzione, da parte del Comitato Nazionale per le Scienze Agrarie presso il CNR
(Consiglio Nazionale delle Ricerche), del Laboratorio
del Germoplasma di Bari, successivamente divenuto istituto permanente. Durante gli ultimi trent’anni l’Istituto del Germoplasma ha svolto un’intensa attività di rac-
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 89
colta, conservazione e valutazione di numerose specie
coltivate e di specie selvatiche affini importanti nei paesi del Bacino Mediterraneo. Il CNR ha promosso anche
la creazione di una rete nazionale per la salvaguardia delle risorse genetiche degli alberi da frutto, alla quale partecipano istituti del CNR, università e istituti del Ministero dell’Agricoltura. L’istituzione del Ministero dell’Ambiente ha rappresentato un punto di svolta fondamentale nella pianificazione della ricerca nel settore ambientale e nella gestione e conservazione della biodiversità vegetale e animale in Italia. La conservazione degli
ecosistemi naturali, d’altronde, per le innumerevoli implicazioni, relazioni e interazioni reciproche, non può
prescindere dai problemi connessi con l’attività agricola, con una sua gestione sostenibile ed ecocompatibile e
con i materiali vegetali utilizzati.
Tre tipi di iniziative possono essere intraprese per preservare la biodiversità alla base dell’agricoltura italiana:
protezione, in parchi e riserve al di fuori di essi, di ampi tratti di ecosistemi naturali, che contengano progenitori selvatici di specie agrarie importanti, sia vegetali che
animali;
protezione e utilizzazione in azienda (on farm) di cultivar rare o minacciate e/o di progenitori selvatici (ad
esempio portainnesti), nonché di razze di animali domestici in via di estinzione;
stoccaggio e mantenimento ex situ di germoplasma di
specie agrarie.
Nell’ambito del primo tipo di iniziative, si può procedere alla individuazione e salvaguardia di ampi tratti di
habitat naturali che, con le loro popolazioni di piante,
animali e microrganismi, possono contribuire a un generale equilibrio della natura e assicurare la conservazione
delle risorse genetiche delle piante coltivate. Si tenga presente, a tal riguardo, che non sempre i progenitori selvatici delle piante agrarie sono sufficientemente protetti in
natura negli habitat selvatici. È quindi opportuno che tale istanza venga adeguatamente presa in conto nell’identificazione delle aree da assoggettare a protezione.
Nell’ambito del secondo tipo di iniziative, è essenziale che siffatti materiali vengano conservati assieme alla variabilità genetica che scaturisce dalla loro ibridazione.
Al terzo tipo di iniziative appartengono gli interventi
di stoccaggio a lungo termine ex situ dei materiali genetici. Ne possono essere oggetto in particolare cultivar,
razze e, almeno per ora in misura assai minore, progenitori selvatici con scarse prospettive di sopravvivenza in
situ. Tali interventi assumono, e assumeranno, per lo più
la forma di banche di geni.
Nelle piante agrarie, la perdita di diversità genetica è
connessa con l’adozione di varietà caratterizzate, tra l’altro, da: rapida e uniforme germinazione dei semi; fioritura e maturazione quasi contemporanee; taglia e forme adatte alla coltivazione e raccolta meccanica; fioritura e maturazione il più possibile contemporanee; prodotto uniforme dal punto di vista gustativo, di pezzatura, di composizione chimica; stabilità produttiva anno dopo anno. L’uniformità genetica conseguente, però, favorisce il rapido diffondersi di nuove popolazioni di patogeni che, a seguito
di mutazione, ricombinazione o altro, possono manifestare virulenza rispetto a piante e animali già utilizzati in agricoltura e in precedenza tolleranti o resistenti.
Il superamento di tale vulnerabilità richiede che i moderni sistemi agricoli siano dotati di un ampio mosaico
di diversità genetica sia nell’ambito delle singole specie
agrarie che tra le specie stesse. Per questo è indispensabile che gli Enti promotori e finanziatori di programmi di
ricerca nel settore agricolo organizzino e supportino progetti di ricerca volti a:
- valutare la distanza genetica tra le varietà di una specie
e determinare la natura della resistenza ai patogeni e
della interazione ospite-parassita, da attuarsi assieme a
un tempestivo rilevamento delle variazioni nella virulenza dei parassiti e nel panorama varietale della specie agraria considerata;
- valutare l’erosione genetica e la vulnerabilità e monitorare l’uso e la distribuzione geografica di germoplasma di élite;
- costituire pool genici nuovi, alternativi, con funzioni
di riserva genica da mettere a disposizione dei miglioratori genetici e dei genetisti agrari. In particolare, è
necessario individuare nuove fonti geniche e incorporare i geni reperiti in materiali di base per il miglioramento genetico.
Queste e altre misure potrebbero garantire il mantenimento di una variabilità genetica adeguata a rispondere
efficacemente, ora e nel futuro, alle nuove agrotecnologie, ai mutamenti di virulenza dei patogeni e ai cambiamenti nelle esigenze della società in generale.
Di fondamentale importanza, per il conseguimento degli obiettivi fissati dalla CBD, sarà la stretta integrazione
e cooperazione tra i diversi programmi nazionali per la
conservazione della biodiversità. Per una maggiore efficienza nell’affrontare i problemi che, spesso, coinvolgono le relazioni tra diversi paesi, sarebbe auspicabile un’azione di coordinamento da parte di organismi sovranazionali, quali la FAO. Nella conservazione delle risorse genetiche agrarie svolge un ruolo primario la rete dei sedi-
90 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
ci Istituti internazionali afferenti al Consultative Group on
International Agricultural Research (CGIAR), quasi tutti
ubicati in paesi in via di sviluppo (tabella 2.2), che custodiscono oltre 500.000 accessioni. Molti di questi Istituti, grazie alla loro localizzazione nei centri di origine, dove si trovano le specie progenitrici selvatiche delle piante
coltivate, svolgono un ruolo insostituibile per la conservazione ex situ delle risorse genetiche.
L’impegno più rilevante nella conservazione delle risorse genetiche è quello dell’International Plant Genetic
Resources Institute (IPGRI), diretto continuatore dell’International Board for Plant Genetic Resources (IBPGR),
promosso e istituito a Roma dalla FAO nel 1974. L’IPGRI, Istituto ospitato a Roma dal Governo italiano, secondo appositi accordi internazionali, sponsorizzato e finanziato da FAO, Banca Mondiale, UNEP (United Nations Environment Programme), Banche regionali e da numerosi Governi, tra i quali l’Italia, ha il compito statutario di monitorare, conservare e favorire l’uso sostenibile
delle risorse genetiche per il benessere del genere umano,
attraverso programmi di ricerca e di formazione e una serie di centri regionali.
Fondamentale, a questo riguardo, è il “Trattato internazionale sulle risorse genetiche vegetali per l’alimentazione e l’agricoltura” che, dopo sette anni di negoziati, è
stato approvato - in armonia con le disposizioni della
CBD - dalla Conferenza intergovernativa della FAO nel
novembe 2001.
L’Italia ha già retificato il Trattato (con Legge 6 aprile
2004, n. 101), i cui principali obiettivi possono così riassumersi: conservazione con i metodi più appropriati delle risorse genetiche per l’agricoltura e la sicurezza alimentare; adozione di un “sistema multilaterale” (che si applica a vegetali appartenenti a 64 generi) che faciliti l’accesso e l’uso delle risorse genetiche e nel contempo assicuri
l’equa ripartizione dei benefici derivanti dalla commercializzazione dei nuovi materiali (varietà, ecc.) ottenuti
per l’impiego autorizzato di risorse genetiche.
Il Trattato prevede che i benefici possano essere ripartiti a vantaggio di: progetti di raccolta e conservazione di
germoplasma, programmi di formazione, di informazione, di ricerca e di trasferimento tecnologico. Possono anche essere previsti interventi a favore dei coltivatori dei
paesi in sviluppo detentori di biodiversità, specialmente
di quelle comunità agricole che per generazioni hanno
conservato e consentito l’evoluzione delle risorse genetiche, salvaguardando così una essenziale quota di biodiversità vegetale. Dette risorse genetiche sono elemento indispensabile per garantire il corrispondente progresso delle piante coltivate, in relazione a imprevedibili variazioni
ambientali e in funzione delle diverse e crescenti esigenze dell’umanità.
CGIAR - Consultative Group on International Agricultural Research
CIAT - Centro Internacional de Agricultura Tropical, Colombia
CIFOR - Center for International Forestry Research, Indonesia
CIMMYT - Centro Internacional de Mejoramiento de Maiz y Trigo, Messico
CIP - Centro Internacional de la Papa, Perù
ICARDA - International Center for Agricultural Research in the Dry Areas, Syria
ICRAF – International Centre for Research in Agroforestry, Kenya
ICRISAT - International Crops Research Institute for the Semi-Arid Tropics, India
IFPRI - International Food Policy Research Institute, USA
IITA - International Institute of Tropical Agriculture, Nigeria
ILRI - International Livestock Research Institute, Kenya
IPGRI - International Plant Genetic Resources Institute, Italia
IRRI - International Rice Research Institute, Filippine
ISNAR - International Service for National Agricultural Research, Olanda
IWMI - International Water Management Institute, Sri Lanka
WARDA - West Africa Rice Development Association, Costa d’Avorio
WorldFish Center, Malesia
Tabella 2.2 - Centri di ricerca internazionali della rete CGIAR.
http://www.cgiar.org/
http://www.ciat.cgiar.org/
http://www.cifor.cgiar.org/
http://www.cimmyt.org/
http://www.cipotato.org/index2.asp
http://www.icarda.cgiar.org/
http://www.worldagroforestrycentre.org/level1a.htm
http://www.icrisat.org/
http://www.ifpri.org/
http://www.iita.org/
http://www.cgiar.org/ilri/
http://www.ipgri.cgiar.org/
http://www.irri.org/
http://www.isnar.cgiar.org/
http://www.cgiar.org/iwmi/
http://www.warda.cgiar.org/
http://www.worldfishcenter.org/
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 91
DIVERSITÀ GENETICA DELLE SPECIE ARBOREE FORESTALI
[Gabriele Bucci, Fiorella Villani, Giuseppe Scarascia Mugnozza]
Gli studi condotti negli ultimi decenni hanno mostrato come la biodiversità genetica degli alberi forestali in Italia, e in tutta la regione mediterranea, sia in genere più elevata che in altre regioni d’Europa: oltre a un discreto numero di specie endemiche, esistono pool genici specifici e
peculiari lungo la penisola italiana anche per specie forestali ad ampio areale, quali Fagus sylvatica, Abies alba, Picea abies, Quercus sp.p., ecc. Tra i motivi alla base dell’elevata biodiversità rilevabile vi è la particolare storia evolutiva della regione, con la presenza di aree-rifugio durante
le ere glaciali per varie specie ad areale pan-europeo. Tale
situazione richiede uno studio approfondito della variazione genetica tra ed entro le popolazioni di alberi mediterranei. I marcatori genetici e le mappe geniche possono
essere di grande utilità per lo studio della genetica delle
popolazioni forestali e dei processi evolutivi di alberi. Applicazioni immediate di questi studi spaziano dal miglioramento genetico forestale alla pianificazione e gestione di
riserve e parchi naturali, nonché alla definizione di strategie appropriate per la conservazione delle risorse genetiche in situ e ex situ, in relazione soprattutto al previsto
cambiamento delle condizioni ambientali e al probabile
spostamento degli habitat favorevoli alle suddette specie.
LA BIODIVERSITÀ INTRASPECIFICA DEGLI ALBERI FORESTALI
[Gabriele Bucci, Fiorella Villani, Giuseppe Scarascia Mugnozza]
Studio dei processi microevolutivi
L’analisi della dinamica della biodiversità genetica a livello di popolazioni, attraverso lo studio dei processi microevolutivi che la governano, risulta fondamentale per la formulazione di appropriate strategie di conservazione delle risorse
genetiche a lungo termine e per l’adozione di pratiche gestionali corrette ed efficaci.
La limitata differenziazione tra popolazioni, caratteristica
di specie ad allogamia prevalente come gli alberi forestali, pone la domanda di come tale variabilità sia organizzata e distribuita spazialmente entro le singole popolazioni. Inoltre, il modo in cui la biodiversità genetica presente nelle popolazioni è
organizzata può influenzare l’azione della selezione naturale,
la trasmissione ereditaria di tratti adattativi e/o può condizionare la diffusione nella popolazione di nuove varianti adattative. Ad esempio, vari studi di autocorrelazione spaziale in varie specie arboree d’interesse forestale hanno evidenziato alti
livelli di aggregazione dei genotipi, con patch size (dimensioni medie dell’area all’interno della quale gli individui mostrano livelli di correlazione genetica maggiore rispetto a due individui campionati casualmente nell’intera popolazione) di
circa 20 m nel caso, ad esempio, di Picea Abies e Fagus sylvatica.
Inoltre vengono studiate le dimensioni effettive di popolazioni naturali (es. Pinus Leucodermis del Pollino, BUCCI e
VENDRAMIN, 2002) e i numerosi esempi di specie interfertili in grado di scambiarsi varianti alleliche con alto valore adattativo e di dinamica della biodiversità (genere Quercus in Piemonte e Fraxinus delle Alpi e dell’Appennino).
Struttura genetica delle specie e biodiversità delle popolazioni italiane
I processi microevolutivi in atto, quali deriva genetica, selezione direzionale o microstazionale, dispersione, ecc., com-
binati con le caratteristiche di biologia riproduttiva, storia
evolutiva ed eterogeneità degli habitat colonizzati, contribuiscono frequentemente a determinare livelli di biodiversità genetica ineguali nelle diverse parti dell’areale di diffusione delle specie. L’analisi della struttura genetica delle specie a livello macrogeografico, e in particolare le stime di diversità genetica e divergenza delle popolazioni, può permettere l’identificazione dei pool genici esistenti e di serbatoi di variabilità
genetica (hotspot) utili come base per la definizione di appropriate politiche di conservazione delle risorse genetiche delle
specie.
Ad esempio:
- la presenza di alleli unici e di alleli rari con frequenza elevata nella popolazione di Picea abies dell’Appennino settentrionale permette di ipotizzare che essa appartenga a un
pool genico diverso rispetto a quello alpino, supportando
l’ipotesi dell’esistenza di aree-rifugio della specie nell’Italia centrale durante l’ultima epoca glaciale;
- attraverso la ricostruzione delle relazioni filogenetiche delle popolazioni di Abies alba è stato possibile mostrare come le popolazioni dell’Italia meridionale e centrale fossero filogeneticamente più simili tra loro rispetto a quelle
settentrionali; le popolazioni dell’Italia centrale hanno infatti origine dalla mescolanza di differenti pool genici in
epoca post-glaciale ovvero dalla ricolonizzazione originatasi da aree-rifugio localizzate in epoca glaciale nell’Italia
meridionale;
- nel caso di Pinus halepensis, è dimostrata l’elevata varianza aplotipica di alcuni loci cloroplastici ipervariabili per
popolazioni situate nel Gargano e nella Grecia continentale rispetto ad altre popolazioni del resto dell’areale della
specie, il che fa ipotizzare l’esistenza di un hotspot di biodiversità per la specie a cavallo dell’Adriatico meridionale;
- anche per Fagus sylvatica è confermata l’ipotesi dell’esistenza di aree-rifugio nell’Italia meridionale per la specie durante il periodo glaciale, da cui hanno preso origine le ondate
92 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
migratorie di ricolonizzazione post-glaciale della catena appenninica;
- nel caso di Fraxinus excelsior, è stato osservato come la diversità genetica delle popolazioni italiane sia maggiore di
quella rilevata per le rimanenti popolazioni dell’areale europeo della specie; in particolare, la maggiore diversità sembra dovuta a un nucleo alpino orientale che presenta aplotipi non presenti in nessun’altra popolazione europea.
Isolamento riproduttivo, deriva genetica e frammentazione degli habitat
Il grado di isolamento per sé può costituire un fattore importante in grado di influire sulla struttura genetica delle popolazioni. Infatti una drastica riduzione del numero di riproduttori all’interno di popolazioni in condizioni di isolamento può determinare variazioni stocastiche delle frequenze alleliche fino a portare alla fissazione di alleli specifici per deriva genetica e conseguente perdita di biodiversità. Ciò comprova inoltre l’effetto negativo della frammentazione degli habitat sulla biodiversità in alberi forestali: con l’aumento del
grado di isolamento delle popolazioni di specie forestali in
conseguenza della frammentazione dell’areale, aumenta il pericolo di perdita della variabilità intrapopolazione a opera della deriva genetica.
Pattern geografici di biodiversità e breeding zone
Le breeding zone sono regioni geografiche geneticamente
omogenee all’interno delle quali è considerato ottimale l’adattamento di popolazioni locali alle specifiche condizioni ambientali. Da ciò deriva che il trasferimento incontrollato di
materiale di propagazione tra diverse regioni può portare a
inquinamento dei pool genici locali e a una riduzione della
sopravvivenza e della crescita del materiale stesso. Le breeding
zone costituiscono inoltre il background genetico utile per stabilire il numero e la localizzazione delle riserve ‘biogenetiche’
per le singole specie forestali, nell’ottica di una migliore e più
appropriata strategia di conservazione della biodiversità intraspecifica e dei pool genici di lungo termine.
Alcuni studi sono stati, ad esempio, condotti in Picea abies
mirati alla delineazione geografica di aree geneticamente omogenee nell’intero areale europeo della specie: sono state identificate cinque differenti zone lungo l’arco alpino. È interessante notare che sulla base dei dati a disposizione, la zona Sudoccidentale delle Alpi (Alpi Liguri, Marittime e Cozie), incluso il nucleo appenninico della presunta zona-rifugio di
Campolino (Appennino Pistoiese), risulta essere altamente
divergente rispetto al resto dell’areale italiano ed europeo, con
elevati livelli di biodiversità intraspecifica, e quindi interessante da un punto di vista conservazionistico.
BUCCI G., VENDRAMIN G.G., 2000 – Statistiche spaziali applicate allo studio della biodiversità: identificazione di ‘breeding zones’ in specie
forestali. In: BUCCI G., MINOTTA G., BORGHETTI M. (a cura di) Applicazioni e prospettive per la ricerca forestale italiana. SISEF Atti 2.
Edizioni Avenue Media, Bologna, pp. 217-224.
Adattamenti locali, differenziazione ecotipica e
filogeografia
Pressioni selettive a livello locale possono determinare
fenomeni di adattamento a condizioni ecologiche specifiche, con la creazione all’interno della specie di differenti ecotipi fortemente differenziati tra loro. Pressioni selettive a livello macrogeografico, per esempio determinate
da variabili climatiche, spesso generano invece clini (gradienti) di cambiamenti nell’areale della specie, in accordo con i gradienti climatici o ambientali.
I processi di migrazione delle popolazioni lasciano traccia nel patrimonio genetico degli organismi. Per le specie
forestali, la ricolonizzazione di habitat favorevoli avviene
normalmente per disseminazione da parte di un sottogruppo di individui che fanno parte della popolazione di
origine. In assenza di processi selettivi, tracce di variazioni casuali nella composizione o nella frequenza allelica nel
sottogruppo dei colonizzatori possono persistere a lungo
nel tempo nelle popolazioni insediamenti in un dato ambiente. A loro volta, i colonizzatori danno origine a nuo-
vi insediamenti, con variazioni casuali in termini di frequenza e composizione allelica, e così via. Tale processo
comporta frequentemente una perdita di biodiversità genetica. È possibile ricostruire i percorsi migratori delle
specie forestali analizzando il percorso dei loro alleli a livello macrogeografico o valutando il gradiente di variazione delle frequenze alleliche delle attuali popolazioni,
risalendo ai centri di diffusione della specie (aree-rifugio
in epoca glaciale) che presentano normalmente un’elevata biodiversità genetica e funzionale.
Negli ultimi anni, l’analisi delle relazioni filogenetiche
tra le popolazioni di specie forestali, grazie all’identificazione e disponibilità di marcatori molecolari neutrali, ha
permesso il conseguimento delle informazioni necessarie
per comprendere il ruolo svolto da processi microevolutivi (storici e/o attuali) nel definire l’attuale distribuzione delle risorse genetiche delle specie. Oltre alla ricostruzione di eventi cruciali come i processi di ricolonizzazione, tali studi hanno portato all’identificazione di hotspot
di biodiversità genetica (utili nell’ottica della definizione
delle strategie di conservazione delle risorse genetiche) e
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 93
hanno fornito il necessario background informativo per
comprendere e predire i possibili processi migratori attesi come conseguenza dei cambiamenti climatici previsti.
I risultati delle suddette attività di ricerca possono essere
sintetizzati come riportato qui di seguito:
1. il grado di differenziazione genetica tra popolazioni varia in funzione delle strategie riproduttive delle diverse
specie, in particolare dei meccanismi di dispersione di
seme e polline. Specie con semi piccoli a facile dispersione anemofila (ad es., Populus tremula - SALVINI et al.,
2001) sono caratterizzati da un grado di differenziazione genetica inferiore rispetto a specie con semi grossi
e/o a dispersione zoocora (ad es., Fagus sylvatica);
2. la distribuzione della diversità genetica tra popolazioni è fortemente influenzata dall’azione dell’uomo; forti pressioni antropiche possono determinare modificazioni sostanziali nella struttura genetica della specie, come a esempio nel caso di Castanea sativa in cui
la bassa divergenza genetica tra popolazioni è stata causata dall’intenso scambio di materiale genetico in epoca romana;
3. la maggior parte delle specie forestali europee presenta una strutturazione macrogeografica della biodiversità genetica, con alleli/aplotipi filogeneticamente più
simili che risultano mediamente raggruppati in regioni limitrofe (BUCCI e VENDRAMIN, 2000a,b);
4. l’attuale distribuzione della diversità genetica è fortemente condizionata dagli eventi manifestatisi durante
l’ultima glaciazione e dai processi migratori nel periodo post-glaciale, a partire dai tre principali rifugi posti nelle tre principali penisole europee (penisola iberica, italiana e balcanica);
5. a livello multispecie, è stato osservato che le foreste caratterizzate da più elevata divergenza genetica sono localizzate nelle zone meridionali europee dove erano localizzati i rifugi durante l’ultima glaciazione, mentre
quelle caratterizzate da più alti livelli di diversità genetica sono localizzati nell’Europa centrale dove diverse
vie migratorie hanno confluito, determinando uno
scambio genico tra popolazioni molto divergenti.
Da quanto emerso dagli studi finora condotti risulta
quindi che l’Italia ha rappresentato uno dei principali rifugi dal quale la ricolonizzazione post-glaciale ha avuto
origine. Per tale motivo, le popolazioni della penisola italiana sono in genere caratterizzate da elevata ricchezza genetica, con presenza di alleli/aplotipi rari e unici, ad esempio nel caso di Fagus sylvatica, Fraxinus excelsior, Quercus
ilex, Corylus avellana, Abies alba. La vicinanza della penisola italiana con la penisola balcanica ha favorito, duran-
te precedenti periodi geologici, lo scambio genico con popolazioni di altra origine, aumentando quindi il livello di
diversità genetica e il valore di conservazione delle popolazioni italiane, come nel caso del Pinus halepensis e del
complesso multispecifico Quercus robur, Q. petraea, Q.
pubescens e Q. frainetto.
Biodiversità funzionale e caratteri adattativi
Lo studio della base genetica di caratteri complessi costituisce il passo iniziale e indispensabile per la valutazione delle relazioni tra biodiversità funzionale e potenziale
adattativo di popolamenti di specie forestali in grado quindi di ottenere differenti performance ecofisiologiche che
rispecchiano anche diversità di tipo geografico.
a) Biodiversità adattativa ed efficienza d’uso idrico
L’adattamento a periodi di siccità, particolarmente frequenti in ambiente mediterraneo, può essere di tipo strutturale (inspessimenti cuticolari, cere, tricomi, sclerofillia,
strutture epigee prostrate, ecc.), di tipo ecofisiologico (regolazione stomatica, “sfasamenti” fenologici, ecc.), o di
tipo “attivo” (basato cioè sulla capacità di captazione di
acque superficiali in periodi miti e di acque profonde in
periodi di siccità). Diverse combinazioni o diversi gradi
di espressione dei meccanismi citati sono alla base della
biodiversità funzionale e dell’adattabilità di individui, demi o popolazioni. Esistono poche informazioni in letteratura sulla biodiversità adattativa di specie vegetali, a causa della complessità delle ricerche nel settore. Recenti studi con isotopi stabili del carbonio e altre tecniche fisiologiche hanno focalizzato dinamiche evolutive comuni in
specie filogeneticamente assai diverse (Castanea, Pinus,
Quercus, Eucalyptus, Pseudotsuga etc.), ma tutte diffuse in
regioni a stagionalità marcata (come quelle mediterranee)
attraversate da gradienti climatici. Le specie suddette hanno mostrato una risposta in efficienza di uso idrico inversa rispetto a quanto emerso in esperimenti comparativi.
Studi italiani su popolazioni mediterranee e orientali di
Castanea sativa (LAUTERI et al., 1997, 1999) hanno rivelato le basi fisiologiche dell’adattabilità a diversa disponibilità idrica nonché l’esistenza di un ecotipo mediterraneo e di uno orientale. Test di provenienza hanno indicato una marcata differenza di efficienza d’uso idrico, saggiando gli ecotipi con tecniche isotopiche. La funzionalità radicale e le interazioni pianta-ambiente nel continuum suolo-pianta-atmosfera sono attualmente studiate
con gli isotopi stabili dell’ossigeno. Test di progenie in fitotrone e in una rete di campi comparativi, sta producendo i primi risultati evidenti sulla plasticità fenotipica e
94 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
sulla varianza additiva di popolazioni europee di castagno
in siti climatici contrastanti. Lavori paralleli su specie filogeneticamente distanti dal castagno (Quercus ilex e Pinus pinaster) hanno confermato le analogie nella diversità intraspecifica dei meccanismi di adattamento alla disponibilità idrica (TOGNETTI et al., 2000) su scale geografiche diverse.
b) Biodiversità e meccanismi di difesa contro patogeni
I terpeni sono una classe di metaboliti secondari complessi presenti in oli essenziali e resine, separabili con tecniche di laboratorio (cromatografia con fase mobile gassosa), che sono coinvolti nei processi di difesa chimica
da attacchi parassitari in specie forestali. Essi sono sotto
forte controllo genetico, come risulta dai valori elevati di
stima dell’ereditabilità e sono stati frequentemente utilizzati come marcatori biochimici per la caratterizzazione tassonomica in studi sulla biodiversità tra specie, tra
popolazioni all’interno della stessa specie, tra famiglie e
cloni. Variazioni nel contenuto e nella natura di compo-
sti terpenici, in provenienze da parti diverse dell’areale
di differenti specie forestali, sono considerate come interessanti indizi di resistenza differenziale all’attacco di
patogeni.
c) Diversità geografica a carico di caratteri funzionali
Le caratteristiche morfologiche, strutturali o fisiologiche degli individui concorrono a determinare le loro performance ecofisiologiche in natura e sono alla base dell’adattamento funzionale alle condizioni ambientali degli habitat di appartenenza. Variazioni nelle suddette caratteristiche riscontrabili a livello macrogeografico (cioè
diversi valori dei parametri per i tratti suddetti in popolazioni di diverse provenienze all’interno dell’areale di distribuzione delle specie) costituiscono interessanti indizi
circa il valore adattativo dei caratteri studiati e al contempo rivelano possibili adattamenti differenziali a condizioni climatiche specifiche, nell’ottica di una migliore comprensione della capacità delle popolazioni di far fronte al
previsto cambiamento climatico.
SVILUPPI E PROSPETTIVE SULLA BIODIVERSITÀ GENETICA INTRASPECIFICA E FUNZIONALE DELLE SPECIE
ARBOREE FORESTALI
[Gabriele Bucci, Fiorella Villani, Giuseppe Scarascia Mugnozza]
Nel settore della biodiversità forestale risulta urgente il
riordino dei dati genetici esistenti, attraverso la riorganizzazione delle informazioni attualmente disponibili, la standardizzazione dei metodi di lavoro e il coordinamento degli sforzi di campionamento e di analisi, al fine di estendere le conoscenze sulla biodiversità intraspecifica e di allestire una “mappa di reperibilità” delle risorse genetiche esistenti. C’è inoltre la necessità di approntare “mappe di rischio” per la biodiversità intraspecifica forestale, che tengano in considerazione la capacità di risposta evolutiva dei
popolamenti forestali a fenomeni di depauperamento genetico da deriva (frammentazione, riduzione dell’estensione degli habitat, ecc.) e di selezione in rapporto a mutate
condizioni ecologiche degli habitat (fluttuazioni climatiche, cambiamento dell’uso del territorio, ecc.). L’approntamento di mappe tematiche a livello nazionale relative al
valore di conservazione delle risorse genetiche naturali di
singole specie forestali (integrando tecnologia GIS ad analisi avanzate per l’estrapolazione a livello regionale) è la base per l’ottenimento dell’informazione necessaria a definire gli hotspot di biodiversità intraspecifica e un utile stru-
mento di supporto decisionale per ecologi forestali, pianificatori e responsabili delle politiche di sviluppo. Infine, la
modellizzazione della risposta dei popolamenti forestali al
mutamento delle condizioni ambientali previsto dagli scenari regionali ottenuti con modelli climatici è strumento
fondamentale per la definizione di appropriate politiche di
conservazione.
Meccanismi di mantenimento della biodiversità: ‘nuovi’
approcci a ‘vecchie’ idee
La recente introduzione di tecniche di laboratorio per
l’individuazione di polimorfismi a carico del DNA degli individui fornisce un potente strumento di analisi dei processi che stanno alla base dell’attuale distribuzione della variabilità genetica e dei meccanismi che ne permettono il mantenimento. I processi selettivi (clinali, direzionali, disruptivi, microstazionali, epistatici, ecc.) sono sempre stati invocati tra i principali fattori in grado di mantenere elevati livelli di biodiversità intraspecifica nelle popolazioni di alberi forestali. La disponibilità di polimorfismi in regioni espres-
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 95
se del genoma di specie forestali (e quindi potenzialmente
sotto selezione) potrà nel prossimo futuro permettere di far
luce sull’importanza di tali processi in natura rispetto a processi di tipo stocastico (ad esempio, deriva genetica), rilevabili tramite polimorfismi di tipo neutrale (come la maggior
parte del DNA non espresso).
Biodiversità intraspecifica e stabilità/resistenza degli ecosistemi forestali
Gli alberi forestali sono organismi longevi, allogami e in
generale fortemente eterozigoti e hanno sviluppato meccanismi per il mantenimento di elevati livelli di biodiversità intraspecifica. Questi meccanismi, in combinazione con l’elevata eterogeneità degli habitat in cui vivono, hanno contribuito a far sì che, salvo poche eccezioni, gli alberi siano tra gli
organismi viventi a più alta variabilità genetica tra quelli studiati fino ad oggi. Ciò che a tutt’oggi non si conosce è l’effetto della suddetta biodiversità sulla produttività e la stabilità
delle biocenosi forestali. A questo riguardo, sono tre le domande fondamentali che necessitano di una risposta basata
su studi scientifici appropriati.
(1) In condizioni ambientali fluttuanti (tipiche di ambienti forestali di regioni boreali anche in assenza di perturbazioni esterne), una popolazione composta da individui che presentano diversi optima ecologici presenta una maggiore produttività rispetto a popolazioni omogenee dal punto di vista
genetico e con uno medesimo optimum? Esperimenti e simulazioni sulla biodiversità interspecifica hanno riportato evidenze circa la maggiore produttività di comunità altamente
eterogenee in termini funzionali rispetto a comunità semplificate e con ridotti livelli di biodiversità.
(2) Qual è il peso relativo in popolazioni naturali di alberi forestali della plasticità fenotipica individuale (che favorisce l’acclimatazione a mutate condizioni ambientali) e della
diversità intra-popolazione (che fornisce il materiale di base
per processi di adattamento evolutivo) sulla stabilità degli ecosistemi forestali? Il bilancio di questi due processi nelle attuali biocenosi forestali è lo stesso in condizioni ottimali (ad esempio, al centro dell’areale delle specie) e marginali (ad esempio, in popolazioni disgiunte dall’areale principale, cioè in
condizioni limite per l’acclimatazione della specie)? Anche in
questo caso, studi sulla biodiversità interspecifica di comunità di prateria hanno evidenziato come una maggiore biodiversità all’interno di gruppi funzionali fornisca una maggiore stabilità alla biocenosi, in termini di resistenza alla colonizzazione da parte di specie invasive.
(3) Come conseguenza del punto (2), qual è la rilevanza
nelle varie specie di alberi forestali della differenziazione ecotipica rispetto alla plasticità fenotipica individuale, ovvero fino a che punto il vasto areale di molte specie forestali è la conseguenza di processi di differenziamento genetico in razze o
ecotipi, e fino a che punto è invece frutto della capacità de-
gli individui di quella specie di acclimatarsi ad un largo spettro di condizioni ambientali differenti? Quest’ultimo punto
è focale sia per stabilire corrette politiche di conservazione
della biodiversità e attuare appropriate strategie di salvaguardia a lungo termine. Ad esempio, se l’obiettivo è la conservazione del potenziale adattativo della specie, risulterebbe cruciale preservare popolazioni relitte adattate a condizioni specifiche e, con esse, geni specifici codificanti per caratteri funzionali, in contrasto con la conservazione di popolazioni marginali di specie funzionalmente omogenee con elevata plasticità fenotipica.
In conclusione, mantenere nel tempo la stabilità produttiva di biocenosi forestali significa mantenerne la
resistenza/resilienza a perturbazioni ambientali (come quelle previste dal cambiamento climatico), ma significa anche
mantenerne o aumentarne la complessità/diversità? Per rispondere a questa domanda, è necessaria una maggiore quantità di evidenze scientifiche che ci si aspetta da ricerche future sulla funzionalità ecosistemica e sul rapporto tra complessità/diversità funzionale e produttività/stabilità delle
biocenosi forestali.
Migrazione come risposta al cambiamento climatico
Le specie forestali sono in grado di far fronte al cambiamento climatico previsto dai modelli di circolazione globale
attraverso acclimatazione a mutate condizioni ambientali (in
relazione alla plasticità fenotipica degli individui), evoluzione adattativa (tramite selezione di genotipi con performance
ecofisiologiche peculiari) o migrazione delle popolazioni (tramite disseminazione di propaguli verso habitat favorevoli).
Peraltro, quest’ultimo processo sembra essere stato la via primaria con cui le specie forestali hanno risposto a cambiamenti ambientali del passato.
Negli ultimi 13.000-14.000 anni (cioè dalla fine dell’ultima glaciazione), il clima europeo ha subito un costante riscaldamento, che ha provocato un progressivo spostamento delle fasce bioclimatiche verso Nord. È noto che le comunità
biotiche forestali hanno seguito lo spostamento degli habitat
a loro favorevoli attraverso un lento processo di disseminazione e ricolonizzazione degli ambienti che via via risultavano
più adatti all’insediamento di ecosistemi forestali. Tale processo è avvenuto con tempi e velocità diverse per le diverse
specie che compongono la copertura forestale europea: è stato calcolato che la velocità media di migrazione con cui le foreste hanno ricolonizzato le aree lasciate libere dalla copertura glaciale variava da 0,05 a 2 km per anno, a seconda della
capacità di disseminazione delle specie.
Serie climatologiche e modelli al calcolatore concordano
nel prevedere, per i prossimi decenni, un riscaldamento medio del pianeta. Ciò provocherà un ulteriore spostamento
delle fasce bioclimatiche verso i poli, in modo più accentuato nell’emisfero boreale. Lo spostamento degli habitat favo-
96 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
revoli innescherà a sua volta la migrazione delle foreste, come già è avvenuto (e sta tuttora avvenendo). Rispetto al passato, però, la velocità del cambiamento climatico è elevata e
tale da superare di gran lunga la capacità delle foreste di colonizzazione e insediamento delle foreste in habitat favorevoli. Ciò potrà avere una serie di conseguenze negative dal
punto di vista del patrimonio di biodiversità delle nostre foreste: (1) la composizione in specie delle foreste potrà cambiare in relazione alla capacità delle singole specie di far fronte al previsto cambiamento delle condizioni ambientali e a
fattori di competizione interspecifica; (2) nella maggior parte dei casi si assisterà a una riduzione dell’estensione e a un
aumento della frammentazione degli ecosistemi forestali, innescando processi di deriva genetica e depauperamento genetico delle specie; (3) in aree dove maggiore sarà l’effetto
del cambiamento si potrà arrivare all’estinzione locale di specie forestali, in maggiore misura laddove esistono barriere all’espansione naturale e alla migrazione (si pensi per esempio
alle Alpi); (4) aree attualmente deputate alla conservazione
della biodiversità potrebbero perciò risultare fortemente impoverite in termini di potenziale adattativo/evolutivo delle
specie presenti e perciò non più funzionali allo scopo; (5) le
aree-rifugio localizzate nel Sud dell’Europa (i maggiori ‘serbatoi’ di variabilità genetica) sono quelle aree maggiormente esposte agli effetti del cambiamento climatico (per desertificazione o tropicalizzazione del clima), il cui depauperamento genetico costituirebbe la maggiore perdita di biodiversità genetica e funzionale e un grave danno alla ricchezza
del patrimonio forestale europeo.
Bibliografia
BUCCI G., VENDRAMIN G.G., 2000a – Adaptibility of a relic population: a case study in Pinus leucodermis Ant. In: MATYAS C. (a cura di), Forest Genetics and Sustainability. Kluwer Academic Publishers, The Netherlands, pp. 105-110.
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the European Norway spruce natural range: preliminary evidences.
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PARLAMENTO ITALIANO, 2004 – Legge 6 aprile 2004, n. 101 “Ratifica
ed esecuzione del Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche per
l’alimentazione e l’agricoltura, con Appendici, adottato dalla trentunesima riunione della Conferenza della FAO a Roma il 3 novembre
2001”. G.U. n. 95 del 23 aprile 2004 - Supplemento Ordinario n.
73.
SALVINI D., ANZIDEI M., FINESCHI S., MALVOLTI M.E., TAURCHINI
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TOGNETTI R., MICHELOZZI M., LAUTERI M., BRUGNOLI E., GIANNINI R., 2000 – Geographic variation in growth, carbon isotope discrimination and monoterpene composition in Pinus pinaster Ait. provenances. Canadian Journal of Forest Research, 30: 1682-1690.
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 97
BIODIVERSITÀ E PAESAGGIO
[Carlo Blasi]
LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO
Nel volume “Flora” della collana “Conosci l’Italia”,
GIACOMINI e FENAROLI scrivono: “I paesaggi tanto diversi di cui si compone la fisionomia del nostro Paese sono quasi sempre improntati da forme caratteristiche di vegetazione: forme di alberi e di foreste, forme di fiori e di zolle fiorite, forme di erbe e di praterie, ora educate sapientemente
dalla mano dell’uomo, ora lasciate crescere in selvatica libertà: per esse si arricchiscono di bellezza, di colori, di vita, le
prospettive della pianura, dei colli, delle montagne... Se il
paesaggio così concepito assume un significato non esclusivamente estetico, ma anche scientifico e naturalistico, non crediamo che venga limitata o impoverita l’emozione con cui
guardiamo agli incomparabili aspetti della nostra Terra. Pensiamo invece che nuovi fonti di conoscenze possano ispirare
nuovi motivi di ammirazione e di interesse verso la natura”
(GIACOMINI e FENAROLI, 1958).
Negli anni ‘60, HENRY A. GLEASON e ARTHUR CRONQUIST, rispettivamente curatore emerito e curatore dell’Orto Botanico di New York, si spingono ancora oltre
nel segnalare lo stretto rapporto tra vegetazione e paesaggio: “Plants and the landscape. Perhaps we would do well
to change one word in that phrase and write plants are the
landscape” (Piante e paesaggio. Forse faremmo meglio a
cambiare una parola in questa frase e scrivere le piante sono il paesaggio) (GLEASON e CRONQUIST, 1968).
Successivamente si è rivisto il significato del termine
paesaggio fino ad arrivare alla attuale definizione presente nell’articolo 1 della Convenzione europea del Paesaggio in cui si tende a integrare la componente naturalistica con quella storica, sociale, culturale ed estetica: “una
determinata parte di territorio, così come è percepita dalle
popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”,
Da questa breve premessa ben si comprende come il paesaggio, risultato della interazione complessa e sistemica di
fattori naturali, storici culturali e sociali, sia patrimonio delle discipline naturalistiche e di quelle umanistiche. Per questa ragione il paesaggio, considerato dalla Convenzione europea sinonimo di territorio, è il riferimento di natura ecosistemica essenziale per la conservazione della diversità biologica legata molto spesso non solo alle caratteristiche della
natura, ma alla più complessa evoluzione di natura, storia e
cultura. Tutto ciò ben si collega con gli obiettivi e con l’elenco degli habitat prioritari della Direttiva habitat in quanto
molti sono gli habitat di interesse prioritario legati alla presenza di attività agro-silvo-pastorali e ben definito è l’obiettivo generale della Direttiva in merito alla considerazione di
tutto il territorio e non solo dei siti ben conservati.
In un recente convegno organizzato a Roma dall’International Association for Environmental Design (IAED) si sono affrontate le varie tematiche connesse all’attuale interpretazione del paesaggio. In particolare, si è discusso il significato nuovo attribuito alla percezione intesa come “riconoscimento” delle identità di un luogo e non come stato emozionale del singolo. Se, come dice giustamente TURRI (2002), il paesaggio è da considerarsi come il volto visibile del territorio che si muove, vive e invecchia con gli uomini, la percezione del paesaggio non deve essere intesa come un fatto emozionale e privato, ma come il riconoscimento di questa complessa interazione di storia, natura e
cultura. Attribuire alla percezione il significato di riconoscimento significa collocare il paesaggio nella sfera delle
azioni che caratterizzano la pianificazione e la gestione del
territorio (BLASI et al., 2005).
La frammentazione degli ecosistemi dovuta all’intervento umano determina nuovi tipi di copertura del suolo e altera, in termini funzionali e strutturali, i sistemi naturali creando variazioni molto evidenti a livello di paesaggio, di habitat e di composizione floristica e faunistica. Il paesaggio
segue la storia dell’uomo e risente dell’evoluzione culturale
e sociale delle popolazioni locali. Tutto questo però all’interno di un sistema di riferimento fisico e biologico che
evolve e si trasforma con tempi propri e di norma diversi
dalla rapidità delle trasformazioni indotte dall’uomo. In proposito basti pensare ai cambiamenti dei sistemi produttivi
in agricoltura che, seguendo logiche di mercato con prospettive temporali inferiori al decennio, hanno determinato profonde variazioni anche a scala di paesaggio. È opportuno in proposito tenere anche presente che una delle cause più significative di perdita della biodiversità è appunto
legata al cambiamento di uso del suolo (vedi § successivo).
Per tutto questo insieme di ragioni, anche in questo
volume si è creduto opportuno, nel descrivere lo stato della biodiversità a scala di specie e di comunità, presentare,
anche se in modo sommario, i principali sistemi di paesaggio del nostro Paese ottenuti dalla integrazione di modelli tipologici e cartografici (fitoclima, unità litomorfologiche e serie di vegetazione) realizzati nel vasto programma “Completamento delle conoscenze naturalistiche” promosso dalla Direzione per la Protezione della Natura del
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio (vedi § Sintesi sui principali piani e programmi di monitoraggio a livello internazionale e nazionale).
98 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
I PAESAGGI D’ITALIA
Non si possono classificare e comprendere in termini strutturali e funzionali i paesaggi se non si conoscono le potenzialità fisiche e biologiche di un territorio e se non
si conosce, in termini tipologici e cartografici, l’eterogeneità ambientale determinata
prevalentemente da cause di natura fisica (clima, litologia e morfologia). La creatività dell’uomo integrata con una sapiente conoscenza delle peculiarità ambientali hanno spesso
determinato paesaggi ove si hanno porzioni
di territorio ad uso agricolo con elementi di
naturalità diffusa e paesaggi ove l’azione dell’uomo si è integrata in modo compatibile
con la natura al punto da rendere quasi impossibile scindere l’elemento sociale, culturale ed economico da quello naturale (paesaggi culturali).
Ecco quindi che la classificazione gerarchica del territorio (BLASI et al., 2000, 2001,
2003) diviene la base metodologica essenziale per individuare e cartografare gli ambiti potenzialmente omogenei (unità ambientali) e gli ambiti eterogenei ma funzionalmente e morfologicamente omogenei (unità di paesaggio). Tutto ciò è il riferimento essenziale per la conoscenza della rete ecologica territoriale determinata dall’integrazione
dell’eterogeneità potenziale con l’eterogeneità reale cartografata secondo la legenda del
CORINE Land Cover (BLASI et al., 2005).
È la visione integrata ed ecosistemica del
paesaggio a dare senso a questa nuova concezione dinamica e attiva della conservazione della biodiversità, ripresa in più parti nella stessa CBD e in particolare nella Direttiva
Habitat.
Questa è la ragione per cui già da alcuni
anni si sta cercando di evidenziare, oltre alla copertura e all’uso reale, l’eterogeneità potenziale riconoscibile mediante l’applicazione di un processo integrato e deduttivo che,
sovrapponendo “strati informativi” fisici (clima, litologia e morfologia) e biologici (vegetazione, flora e fauna), ricava i modelli e
ne individua la relativa distribuzione. Questo processo (BLASI et al., 2000) integrato
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 99
con il tradizionale rilievo fitosociologico di base (processo induttivo) ha permesso di riconoscere a piccola scala
(1:250.000) l’eterogeneità anche in termini di “serie di
vegetazione” intese come l’insieme di comunità tendenti
verso una stessa tappa matura all’interno di un determinato ambito territoriale omogeneo per caratteri fisici e
biologici e variabile anche in funzione della scala.
Volendo dare però un quadro sintetico dei principali
paesaggi d’Italia, dato che, come si è visto in questo capitolo, è ben conosciuta l’eterogeneità climatica a scala
sia nazionale che regionale e l’eterogeneità litomorfologica (BRONDI, 2001) si è scelto di integrare in ambito
GIS solo questi primi due basilari strati informativi ottenendo ben 67 sistemi di paesaggio (figure 2.51 e 2.52).
Fig. 2.51 - Legenda della carta dei
sistemi di paesaggio (BLASI et al., in
stampa). Pagina precedente
Fig. 2.52 - Carta dei sistemi di
paesaggio (BLASI et al., in stampa).
100 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.53 – Dettaglio della carta dei sistemi di
paesaggio: Italia settentrionale (BLASI et al., in
stampa).
Da questa sintesi emerge per il nostro Paese l’elevata
eterogeneità, ma anche una “discreta” strutturazione
paesaggistica. Sono poche le aree tendenzialmente omogenee (come per esempio la Pianura Padana, la fascia
collinare umbro-marchigiana e la Penisola Salentina),
dato che in prevalenza si ha una grande integrazione
spaziale tra i sistemi di paesaggio. Tra le porzioni di territorio più complesse emerge chiaramente il complesso alpino orientale, la Toscana, la Calabria e la Sicilia.
Per quanto già detto nella parte dedicata alle ragioni
della biodiversità già da questo sintetico elaborato si
potrebbero trarre informazioni utili per definire gli ambiti ad elevata biodiversità potenziale. È opportuno tenere presente che i poligoni che individuano i sistemi
di paesaggio, sono strutturali, ossia non legati all’azione dell’uomo, ma al macro clima e alle caratteristiche
litomorfologiche. È facile ipotizzare che per analisi a
scala regionale sarebbe opportuno prendere in esame
un riferimento climatico e litomorfologico di maggiore dettaglio.
Per meglio evidenziare il carattere paesaggistico d’Italia si è preferito analizzare separatamente il Nord (inclu-
207 Pianure alluvionali recenti
208 Pianure alluvionali antiche
223 Rilievi prevalentemente arenaceo-conglomeratici compatti
234 Rilievi prevalentemente costituiti da rocce gneissico-migmatitiche
Tabella 2.3 - Principali tipi di paesaggio dell’Italia settentrionale (BLASI et al., ined.).
ettari
2.693.905,44
1.924.980,19
837.740,82
718.189,78
6.174.816,23
%
22,54
16,10
7,01
6,01
51,66
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 101
Fig. 2.54 - Dettaglio della carta dei sistemi di paesaggio:
Italia centro-meridionale (BLASI et al., in stampa).
sa l’Emilia-Romagna), il centro-Nord e il centro-Sud insieme, la Sicilia e la Sardegna.
Il Nord d’Italia (figura 2.53, tabella 2.3) è fortemente
caratterizzato da sistemi di paesaggio della regione temperata. Tra questi prevalgono i rilievi montuosi areanaceo-conglomeratici e i rilievi prevalentemente costituiti
da rocce gneissico-magmatiche. Sono molto sporadici i
paesaggi legati al bioclima mediterraneo, ma ai fini della
conservazione della biodiversità, queste piccole porzioni
di territorio rappresentano delle isole di straordinario interesse conservazionistico.
Nella Penisola, centro Nord e centro-Sud d’Italia (figura 2.54, tabella 2.4), prevalgono i rilievi della regione bioclimatica temperata, tra cui sono da segnalare quelli carbonatici, quelli areanaceo-conglomeratici compatti e quelli costituiti da rocce marnose. Per la regione bioclimatica
mediterranea si segnala un’alta percentuale di ripiani carbonatici e di colline inframontane sabbiose e argillose.
In Sicilia (figura 2.55, tabella 2.5) ovviamente prevalgono i paesaggi della regione bioclimatica mediterranea
e tra questi sono da segnalare i rilievi arenacei, carbonatici e argillosi. Da segnalare, oltre ai i sistemi collinari ar-
112 Ripiani carbonatici
223 Rilievi prevalentemente arenaceo-conglomeratici compatti
225 Rilievi costituiti in toto o in parte da rocce marnose
229 Rilievi costituiti in toto o in parte da rocce calcaree
Tabella 2.4 - Principali tipi di paesaggio dell’Italia centro-meridionale (BLASI et al., ined.).
ettari
949.318,43
1.475.249,99
696.667,31
1.683.638,88
4.804.874,61
%
7,22
11,22
5,30
12,81
36,55
102 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 2.55 - Dettaglio della carta dei
sistemi di paesaggio: Sicilia (BLASI
et al., in stampa).
Fig. 2.56 - Dettaglio della carta dei sistemi di paesaggio: Sardegna
(BLASI et al., in stampa).
RAGIONI DELLA BIODIVERSITÀ • 103
114 Colline inframontane, pedemontane o costiere argillose
123 Rilievi prevalentemente arenaceo-conglomeratici compatti
124 Rilievi prevalentemente argillosi e argilloscistosi
129 Rilievi costituiti in toto o in parte da rocce calcaree
ettari
282.708,20
349.994,32
190.262,49
305.297,70
1.128.262,71
%
10,99
13,61
7,40
11,87
43,87
ettari
195.559,61
234.119,05
181.996,02
591.741,27
1.203.415,95
%
8,17
9,78
7,60
24,71
50,26
Tabella 2.5 - Principali tipi di paesaggio della Sicilia (BLASI et al., ined.).
129 Rilievi costituiti in toto o in parte da rocce calcaree
130 Rilievi di vulcaniti acide
131 Rilievi costituiti in toto o in parte da vulcaniti basiche
135 Rilievi costituiti da rocce cristalline
Tabella 2.6 - Principali tipi di paesaggio della Sardegna (BLASI et al., ined.).
gillosi e marnosi, quelli formati da substrati evaporatici e
i terrazzi marini ed alluvionali. In Sicilia assumono ovviamente un particolare significato i paesaggi del bioclima temperato quali quelli presenti sull’Etna e più in generale sui rilievi marnosi.
Anche in Sardegna (figura 2.56, tabella 2.6) prevalgono
i paesaggi del bioclima mediterraneo tra cui più diffusi sono i rilievi costituiti da rocce cristalline, da rocce calcaree
o caratterizzati da vulcaniti acide e basiche. Molto significative sono anche le pianure alluvionali e i terrazzi marini.
La conoscenza tipologica e cartografica dei sistemi di
paesaggio d’Italia sarà un ottimo riferimento territoriale
per quanto previsto per il 2010 dalla strategia nazionale
per la conservazione della biodiversità specialmente in termini di conoscenza territoriale della distribuzione di “specie esotiche”, di “boschi vetusti”, e più in generale per la
“valutazione dello stato di conservazione” effettuata per ambiti omogenei e per l’individuazione delle “Important
Plant Areas” (IPA).
Bibliografia
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BLASI C., FORTINI P., CARRANZA M.L., RICOTTA C., 2001 - Analisi
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BLASI C., SMIRAGLIA D., CARRANZA M.L., 2003 - Analisi multitemporale del paesaggio e classificazione gerarchica del territorio: il caso
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BRONDI A., ANDRIOLA L., GRAUSO S., MANFREDI FRATTERELLI F.,
SACCHI R., ZARLENGA F., 2001 – Substrati litomorfologici degli ambienti italiani. ENEA.
CLEMENTI A., 2002 - Interpretazioni di paesaggio. Meltemi, Roma.
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GLEASON H.A., CRONQUIST A., 1968 - Manual of Vascular Plants of
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SESTINI A., 1963 – Il paesaggio. TCI, Milano.
SMIRAGLIA D., CARRANZA M. L., RICOTTA C., BLASI C., 2001 – Analisi diacronica e valutazione dello stato di conservazione del paesaggio. Atti della 5a Conferenza Nazionale ASITA-Volume II, 13811386.
TURRI E., 2002 – La conoscenza del territorio. Marsilio ed., Venezia.
VENTURI FERRIOLO M., 2002 – Etiche del paesaggio. Il progetto del
mondo umano. Editori Riuniti. Roma.
Flora, Fauna, Vegetazione e Habitat •105
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ
[Fausto Manes, Francesca Capogna]
La diversità dei viventi e la loro distribuzione sul territorio tendono continuamente a variare, per effetto dei
naturali processi evolutivi, per gli effetti dei cambiamenti climatici a lungo e a breve termine e per le conseguenze dell’azione umana.
L’impatto dell’uomo sull’ambiente naturale avviene a diverse scale spaziali e temporali. I disastri ecologici, l’inquinamento industriale, la deforestazione e la conversione di
habitat naturali in terreni agricoli e industriali si verificano
ininterrottamente su vaste aree di ciascun continente. Tutte queste attività antropiche alterano l’habitat per molte specie vegetali e animali e determinano una riduzione della biodiversità (figura 3.1). Dove avvengono cambiamenti am-
bientali catastrofici, il maggiore impatto sulla biodiversità
avviene istantaneamente, sebbene effetti residui possano
prolungarsi per diversi anni. In altro modo, l’impatto a lungo termine che modifica un habitat potrebbe avvenire su
una scala di tempo molto più ampia minacciando di estinzione numerose specie. Inoltre, l’alterazione di alcuni caratteri strutturali e funzionali di una comunità o di un ecosistema che avviene quando le specie si estinguono aggrava
ulteriormente questo processo di estinzione.
Sono stati identificati cinque importanti fattori, denominati driver, che determinano cambiamenti nella biodiversità a scala globale (SALA et al., 2000): cambiamenti
dell’uso del suolo, cambiamenti climatici, aumento della concentrazione di anidride carbonica (CO2) atmosferica, deposizioni azotate e piogge acide, introduzioni di
specie animali e vegetali esotiche.
Fig. 3.1 - Il ruolo della biodiversità nei
cambiamenti globali. Le attività umane
(1) motivate da scopi intellettuali,
culturali, economici, spirituali sono
causa di cambiamenti ambientali ed
ecologici di importanza globale. (2)
Attraverso vari meccanismi le variazioni
climatiche influenzano la biodiversità
(3); cambiamenti nella biodiversità
possono provocare direttamente
alterazioni nell’ecosistema (4). I
cambiamenti globali possono inoltre
influire direttamente sugli ecosistemi
(5) (CHAPIN et al., 2000, modificato).
106 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Mediante l’utilizzo di modelli globali, è stato possibile costruire scenari futuri di cambiamenti della biodiversità per l’anno 2100 nei principali biomi presenti sulla terra (artico, alpino, boreale, prateria temperata, savana, mediterraneo e deserto) e calcolare anche il singolo contributo di ciascun fattore a tale fenomeno. Tali
studi hanno inoltre quantificato a livello globale (di tutti i biomi) l’impatto di ciascun fattore di cambiamento
(figura 3.2).
In tutti gli ecosistemi terrestri i cambiamenti nell’uso
del suolo rappresentano il fattore con il più alto indice
di impatto sulla biodiversità perché determinano una
perdita di habitat a cui è associata una rapida estinzione di specie; il secondo fattore, in ordine decrescente di
importanza, è rappresentato dai cambiamenti climatici
e, in particolare, dall’aumento di temperatura che interesserà maggiormente le latitudini elevate. Gli altri fattori hanno effetti, di intensità molto variabile, a scale
spaziali minori.
Vengono di seguito sinteticamente descritti gli effetti
sulla biodiversità dei diversi fattori, che verranno esaminati nel dettaglio nei prossimi capitoli.
Cambiamenti di uso del suolo
Le attività umane legate ai cambiamenti nell’uso del
suolo degradano sistematicamente ecosistemi e habitat
causando spesso anche la loro completa scomparsa: quando la qualità dell’ambiente è così bassa da non poter più
sostenere la sopravvivenza di una specie chiave si può arrivare, infatti, alla perdita sia di un habitat che dell’inte-
ro ecosistema. Per esempio la conversione delle praterie
temperate in campi coltivati o delle foreste tropicali in
praterie determina un’estinzione locale della maggior parte delle specie vegetali e delle specie animali a loro associate il cui habitat è caratterizzato principalmente dalla
composizione della vegetazione. La causa principale del
cambiamento dell’uso del suolo è rappresentata dall’espansione della popolazione umana che converte ecosistemi
naturali in ecosistemi dominati dall’uomo. Il risultato
principale di queste azioni è una frammentazione a scala
di habitat e di paesaggio (figura 3.3). Secondo MALCOM
e HUNTER (1996) questo processo iniziò quando l’uomo
alterò la continuità del paesaggio naturale mediante interventi legati allo sviluppo dell’agricoltura e della residenza. Mano a mano che il territorio è convertito all’uso
agricolo, gli ecosistemi naturali risultano isolati l’uno dall’altro determinando la “frammentazione” del paesaggio.
Quasi in tutti i casi, la frammentazione può ridurre la
diversità delle specie native nel loro habitat naturale poiché piccole e isolate porzioni di territorio sono caratterizzate da: (1) una minore eterogeneità ambientale, (2)
una minore presenza di specie rare e specie sensibili alle
dimensioni dell’area, (3) piccole popolazioni più vulnerabili alle estinzioni locali, (4) una limitata immigrazione (5) una minore presenza di specie vagili. Dal punto
di vista faunistico, le prime specie minacciate sono i grandi predatori e le specie di taglia grande. La frammentazione conduce quindi ad ecosistemi dominati da specie
opportuniste, caratterizzate da una buona capacità di dispersione, colonizzazione, crescita rapida e con brevi cicli di vita.
Fig. 3.2 - Effetti dei maggiori
fattori di cambiamento sulla
biodiversità. Nel box in alto a
destra è mostrato il caso del
Bacino del Mediterraneo (SALA et
al., 2000, modificato).
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 107
Fig. 3.3 - Esempi di modificazioni del paesaggio.
Cambiamenti climatici
Per cambiamento climatico si intende soprattutto l’innalzamento della temperatura media terrestre legato all’aumento della presenza in atmosfera dei cosiddetti “gas
serra” (principalmente vapore acqueo, ma anche anidride carbonica, metano, ossidi di azoto, ecc.). Tale innalzamento della temperatura ha effetti sulla biodiversità che
si esplicano soprattutto a livello di quei biomi che sono
caratterizzati da climi più estremi (biomi artico, alpino,
deserto e nella foresta boreale).
Aumento di anidride carbonica atmosferica
L’aumento della concentrazione di CO2 atmosferica
determina un maggiore indice di impatto sulla biodiversità di quei biomi dove la presenza di acqua è limitante per le specie vegetali e dove la vegetazione è caratterizzata dalla presenza contemporanea di specie C3 e
C4 le quali si differenziano per caratteristiche legate al
processo di assimilazione della CO2 e alla capacità di
utilizzare al meglio l’acqua. Sulla base di caratteristiche
legate al processo di assimilazione della CO2 e alla capacità di utilizzare al meglio l’acqua le piante C4 sono
meglio adattate ad ambienti in cui possono verificarsi
periodi intensi di stress idrico.
Tra i biomi considerati, quelli che potrebbero essere
maggiormente colpiti dagli effetti negativi di questo fattore sono le praterie e la savana proprio per le loro caratteristiche legate a un’aridità pronunciata.
Deposizioni azotate e piogge acide
L’aumento delle deposizioni azotate e la conseguente
acidificazione interessano maggiormente le foreste temperate, le foreste boreali e i biomi artico e alpino. L’input fornito dalle deposizioni azotate in tali biomi, caratterizzati
da una carenza di azoto, potrebbe fornire un vantaggio
competitivo a quelle specie che hanno più elevati tassi di
accrescimento. Le praterie, la savana e il bioma di tipo mediterraneo possiedono un indice di impatto intermedio
perché la crescita delle specie vegetali è limitata sia dall’azoto che da altri fattori. In particolare, le foreste di querce nel Bacino del Mediterraneo sono state interessate, nel
corso di secoli, da ripetute perdite di nutrienti a causa sia
degli incendi che del prelievo della biomassa. Questi tipi
di disturbo hanno abbassato le riserve di nutrienti nel suolo rendendo questo bioma positivamente sensibile alle deposizioni azotate. I deserti e le foreste tropicali sono, invece, i biomi meno sensibili perché limitati rispettivamente dalla presenza di acqua e dalla disponibilità di fosforo.
Introduzione di specie esotiche
Rappresenta un altro fattore la cui intensità varia in accordo con le condizioni ambientali e con le caratteristiche
biogeografiche. La ridotta distanza tra i Paesi, per commercio o per turismo, ha aumentato il numero di introduzioni accidentali di specie aliene. Quando una specie è
introdotta in un ecosistema dove non è mai stata presente prima, può creare uno sbilanciamento dei processi naturali che mantengono l’ecosistema in equilibrio e condurre alla scomparsa delle specie native. Le conseguenze
dell’introduzione delle nuove specie dipendono dalla biologia di entrambe le specie, quella introdotta e quella nativa. La capacità di una previsione degli effetti di una introduzione, accidentale o no, è sempre limitata e ciò suggerisce che un’accurata valutazione dovrebbe essere considerata caso per caso. Secondo alcune le previsioni, comunque, l’introduzione di specie esotiche potrebbe avere il
maggiore indice di impatto sulla biodiversità presente nel
bioma Mediterraneo e in quello delle foreste temperate.
108 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
CAMBIAMENTI DI USO DEL SUOLO
Il paesaggio italiano, quale oggi ci appare, è il risultato
di profonde trasformazioni territoriali avvenute a carico
degli ecosistemi naturali primari (praterie, foreste, zone
umide) per ottenere superfici utilizzabili come aree agricole o urbanizzate (figura 3.4). Il motore fondamentale di
tale processo (driving force) sta nella capacità della specie
umana di evolversi culturalmente (livello tecnologico). Come osserva MAINARDI (2002): «La vera rivoluzione culturale è cominciata con l’addomesticamento degli animali e
delle piante. Con il conseguente avvento della pastorizia
e dell’agricoltura non solo ha avuto luogo il primo impatto negativo sulla biodiversità (un campo coltivato con
un’unica specie vegetale in sostituzione di una foresta), ma
si è pure assistito, con il progressivo incremento delle risorse, al definitivo scollamento tra demografia e territorialità». E dato che l’Italia ha visto svilupparsi civiltà da più
di tremila anni, l’impatto ‘culturale’ della società umana
sugli ecosistemi naturali è molto antico.
Le trasformazioni di una certa rilevanza risalgono all’epoca romana (II sec. a.c - IV sec. d.c.), ovvero al periodo d’espansione della “frontiera agricola”. Alla conquista
del territorio da parte dei romani seguiva - soprattutto
nelle aree di pianura - la deforestazione per l’utilizzazione agricola dei terreni, che venivano suddivisi ‘geometricamente’ tra i coloni (centuriazione). La distruzione del-
le foreste primarie della Pianura Padana, che secondo documenti storici e dati paleobiologici era ricoperta da foreste planiziali e boschi igrofili ripariali, ha avuto inizio
proprio con la penetrazione e colonizzazione, prima etrusca e poi romana, nei territori della Gallia cisalpina. Lo
stesso destino hanno seguito gli ecosistemi legati ad ambienti ripariali (boschi igrofili, aree golenali sabbiose e limose ad arbusti) delle grandi aree vallive padane e peninsulari andati quasi completamente distrutti e sostituiti,
nel corso del tempo, da formazioni secondarie o piantagioni forestali come i pioppeti.
La deforestazione dei territori forestali per l’uso agricolo o pastorale dei terreni o per il semplice sfruttamento del legname è proseguita nel corso dei secoli. Essa è stata ovviamente più incisiva nelle aree più idonee e remunerative per le attività umane (fascia costiera, pianura e
bassa collina). Generalmente a una prima fase di diradamento della copertura forestale per un utilizzo del terreno come pascolo, seguiva l’effettivo disboscamento ed eliminazione delle ceppaie e la trasformazione del pascolo
in area coltivabile nei terreni più idonei. Nelle aree collinari e montane i terreni più pietrosi rimanevano utilizzati a bosco ceduo, mentre gli altri a pascolo (figura 3.5).
La deforestazione è stata, più raramente in Italia, legata anche a esigenze di controllo politico del territorio. È
il caso dell’isola di Lampedusa, che nel 1843 su ordine
del re di Napoli Ferdinando di Borbone II fu completamente deforestata per diventare una colonia agricola sotto il controllo dello stesso re. Fu così sottratta alle mire
espansionistiche degli Inglesi, che all’epoca già controlla-
Fig. 3.4 - Il paesaggio dei primi terrazzi alluvionali nella pianura
emiliana, bacino del torrrente Enza, Reggio Emilia (foto di M.
Marchetti).
Fig. 3.5 - Il paesaggio dei querceti evoluti dei rilievi vulcanici laziali,
la Macchia Grande di Manziana, il pratone nella fustaia di cerro e
farnetto (foto di M. Marchetti).
[Marco Marchetti, Anna Barbati]
PRINCIPALI TRASFORMAZIONI DEL PAESAGGIO ITALIANO
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 109
Fig. 3.6 - La Piscina delle Bagnature, all’interno della Selva demaniale
del Parco Nazionale del Circeo (foto di S. Bonacquisti).
Fig. 3.7 - Promontorio del Conero e scoglio del Trave. In primo piano
Arundo pliniana (foto di L. Rosati).
vano la vicina Malta. Lampedusa, originariamente coperta da foreste mediterranee che crescevano particolarmente rigogliose lungo i canaloni ricchissimi di acqua dolce
e fauna (BACCETTI et al., 1995), divenne così una terra
arida e sterile.
Quest’ultimo secolo ha segnato un periodo particolarmente intenso per la rapidità e l’estensione dei processi
di trasformazione del paesaggio. Il cambiamento delle
condizioni di vita, favorito dall’evoluzione tecnologica
dell’ultimo secolo, è alla radice non solo dello sviluppo
urbano (industriale e residenziale), ma anche delle profonde mutazioni nel territorio rurale.
Esempi in tal senso sono rappresentati dalle massicce opere di bonifica delle pianure costiere e interne (es.
maremma toscana e laziale), che hanno determinato la
frammentazione o la scomparsa dei sistemi lacustri e delle paludi forestali. Il paesaggio della pianura Pontina è
stato completamente trasformato con la bonifica integrale degli anni ‘30, che ha determinato una drastica riduzione delle “Selve” (paludi forestali) che la ricoprivano (figura 3.6). A ciò seguì la canalizzazione dell’area
per il deflusso delle acque stagnanti, l’appoderamento
dei terreni, la costruzione delle vie di comunicazione e
la costruzione di tre nuove città: Latina (Littoria), Pontinia e Sabaudia.
Anche lo sviluppo delle principali aree metropolitane
italiane (Roma, Napoli, Milano) è avvenuto sostanzialmente nel XX sec. Roma, per esempio, ha cominciato ad
espandersi oltre la cerchia delle mura aureliane solo dalla metà del ‘900; la campagna romana ‘fuori le mura’ si è
quindi trasformata in una vasta area metropolitana compresa entro l’anello del Grande Raccordo Anulare.
Sempre dell’ultimo secolo (circa 70 anni fa) è la spesso irreversibile distruzione delle aree dunali e retrodunali costiere per lo sviluppo edilizio legato alle attività turistico-ricreative (nel caso delle dune) o per la coltivazione
(retrodune). Oggi rimangono pochi frammenti isolati degli estesissimi litorali sabbiosi delle coste adriatiche e tirreniche (figura 3.7).
Il territorio rurale (coltivi, pascoli, boschi e incolti) ha
subìto nel ‘900 una progressiva trasformazione non solo
per la ‘sottrazione di superficie’ legata allo sviluppo urbano (industriale, residenziale, delle infrastrutture). Il passaggio dall’agricoltura di sussistenza e di autoconsumo a
quella di mercato, avvenuto nel corso degli ultimi cinquant’anni, ha comportato due processi opposti: da una
parte l’industrializzazione e intensivazione agricola e zootecnica, dall’altra l’abbandono rurale e l’estensivazione
delle aree economicamente marginali.
Nelle aree di pianura e di media e bassa collina si sono diffuse le colture intensive e le produzioni foraggiere artificiali (prati artificiali). La diffusione delle monocolture e la semplificazione strutturale del paesaggio agricolo, necessaria per la meccanizzazione, hanno determinato una drastica caduta della biodiversità vegetale, che
solo nell’ultimo quinquennio ha iniziato a invertire la
tendenza in alcune aree. Con l’agricoltura intensiva non
solo sono scomparse le specie spontanee, come le graminacee selvatiche, ma sono stati eliminati tutti quegli
elementi strutturali tipici del paesaggio agricolo tradizionale (siepi, alberate, boschetti, alberi di grandi dimensioni), determinanti per la sopravvivenza di molte
specie di uccelli legate all’ambiente agricolo.
Le aree rurali ove la struttura del paesaggio agricolo tra-
110 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
dizionale è riuscita a conservarsi (mosaico di particelle di
vario tipo, presenza di margini ecotonali, elementi divisori, boschetti, alberi di grandi dimensioni ecc.) rappresentano, viceversa, punti di concentrazione dell’avifauna
(PILASTRO, 2002).
L’abbandono colturale dei terreni agricoli o dei prati
naturali (pascoli e prati-pascoli naturali) nelle aree marginali d’alta collina o media e bassa montagna (alpina e appenninica) ha rappresentato, per altri versi, un ulteriore
fattore deprimente la biodiversità. L’effetto più pericoloso dell’abbandono è stata la progressiva contrazione delle
praterie naturali (es. praterie terofitiche tipiche di ambienti steppici), che fino ad allora erano state mantenute da
pratiche colturali tradizionali come il pascolo estensivo.
La pastorizia transumante ha consentito per lungo tempo
il mantenimento di habitat favorevoli per uccelli legati ad
ambienti steppici per la nutrizione o la riproduzione. L’abbandono della pastorizia transumante (es. abbandono della transumanza dall’Abruzzo alla Capitanata avvenuto nella seconda metà del XX sec.) e la conseguente trasformazione di questi ambienti xerici aperti ha determinato la rarefazione (es. gallina prataiola, starna italiana, albanella
minore o falchi predatori delle steppe) o l’estinzione (quaglia tridattila) dell’avifauna legata a questi ambienti.
Le aree agricole abbandonate in alcuni casi sono state
ricolonizzate dalle specie forestali spontanee; nei terreni
più degradati, sono state rimboschite utilizzando talvolta anche specie esotiche o comunque alloctone.
Da quanto brevemente esposto appare evidente quanto il paesaggio originario del nostro Paese sia stato profondamente trasformato dalle attività antropiche che si
manifestano con differenti usi e coperture del suolo. L’antropizzazione, inevitabile conseguenza dell’evoluzione socioeconomica e culturale, ha comportato la distruzione o
la trasformazione degli ecosistemi primari, creandone di
nuovi (secondari) come gli agro-ecosistemi, le foreste semi-naturali e i cosiddetti ‘ecosistemi urbani’.
Nel contesto di studi specifici a carattere locale (AGNOLETTI, 2002) o regionale le trasformazioni del paesaggio
in tempi recenti (ultimi due secoli) sono state misurate
attraverso mappe storiche d’uso del suolo, derivate da catasti storici o da fotointerpretazione.
Un’analisi quantitativa del processo di trasformazione del paesaggio italiano non è stata ancora realizzata a
scala nazionale. Allo stato attuale, è possibile quantificare la distribuzione nazionale dei differenti tipi di uso/copertura del suolo, secondo la classificazione europea CORINE land cover (AA.VV., 1993), utilizzando il database geografico relativo alla Cartografia dell’uso del suolo
CORINE land cover II livello
ha
2.1 Seminativi
8.110.643,08
3.1 Zone boscate
8.007.695,71
2.4 Zone agricole eterogenee
5.356.176,67
3.2 Zone caratterizzate da vegetazione
arbustiva e/o erbacea
3.628.297,38
2.3 Colture permanenti
2.278.725,34
1.1 Zone residenziali
954.156,84
3.3 Zone aperte con vegetazione rada o assente 685.409,23
2.3 Prati stabili
494.109,36
5.1 Acque continentali
223.498,51
1.2 Zone industriali, commerciali e infrastrutture 223.134,24
5.2 Acque marittime
97.920,27
1.3 Zone estrattive, cantieri, discariche
e terreni artefatti e abbandonati
57.181,66
4.2 Zone umide marittime
49.714,06
4.1 Zone umide interne
16.501,84
%
26,85
26,51
17,73
12,01
7,54
3,16
2,27
1,63
0,74
0,74
0,324
0,19
0,16
0,05
Tabella 3.1 - Distribuzione, in ettari e in percentuale rispetto alla
superficie totale nazionale, dell’uso/copertura del suolo in Italia secondo
la classificazione CORINE Land Cover II livello, in ordine descrescente
di copertura.
e delle coperture vegetazionali in scala 1:250.0001 (tabelle 3.1 e 3.2).
Le zone boscate e i seminativi (principalmente colture intensive) rappresentano, con quote equivalenti, oltre
il 50% del territorio nazionale. Nonostante questa diffusa presenza di sistemi agricoli industrializzati, quasi il
18% della superficie nazionale è costituito da aree agricole che conservano una struttura complessa, favorevole per la conservazione della biodiversità (zone agricole
eterogenee). Le praterie naturali (continue e discontinue)
rappresentano solo il 6% della superficie nazionale. Una
cifra ancora più preoccupante riguarda le zone umide che
tra interne e marittime assommano allo 0,2% del territorio nazionale.
1
Realizzato da diverse Università italiane su finanziamento della Direzione per la Protezione della Natura del Ministero dell’Ambiente
e della Tutela del Territorio nell’ambito del progetto Completamento delle Conoscenze Naturalistiche di base.
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 111
CORINE
CORINE
II livello
III e IV livello
1.1 ZONE RESIDENZIALI
111
Zone residenziali a tessuto continuo
112
Zone residenziali a tessuto discontinuo e rado
1.2 ZONE INDUSTRIALI, COMMERCIALI E INFRASTRUTTURE
121
Aree industriali, commerciali e dei servizi pubblici e privati
122
Reti stradali, ferroviarie e infrastrutture tecniche
123
Aree portuali
124
Aeroporti
1.3 ZONE ESTRATTIVE, CANTIERI, DISCARICHE E TERRENI ARTEFATTI E ABBANDONATI
131
Aree estrattive
132
Discariche
133
Cantieri
141
Aree verdi urbane
142
Aree ricreative e sportive
2.1 SEMINATIVI
2111
Colture intensive
2112
Colture estensive
212
Seminativi in aree irrigue
213
Risaie
2.2 COLTURE PERMANENTI
221
Vigneti
222
Frutteti e frutti minori
223
Oliveti
224
Altre colture permanenti
2.3 PRATI STABILI
231
Prati stabili
2.4 ZONE AGRICOLE ETEROGENEE
241
Colture temporanee associate a colture permanenti
242
Sistemi colturali e particellari complessi
243
Aree prevalentemente occupate da colture agrarie con presenza di spazi naturali importanti
244
Aree agroforestali
3.1 ZONE BOSCATE
3111
Boschi a prevalenza di leccio e/o sughera
3112
Boschi a prevalenza di querce caducifoglie
3113
Boschi misti a prevalenza di latifoglie mesofile
3114
Boschi a prevalenza di castagno
3115
Boschi a prevalenza di faggio
3116
Boschi a prevalenza di specie igrofile
3117
Boschi e piantagioni a prevalenza di latifoglie non native
3121
Boschi a prevalenza di pini mediterranei e cipressete
3122
Boschi a prevalenza di pini montani e oromediterranei
3123
Boschi a prevalenza di abete bianco e/o abete rosso
3124
Boschi a prevalenza di larice e/o pino cembro
3125
Boschi e piantagioni a prevalenza di conifere non native
31311
Boschi misti a prevalenza di leccio e/o sughera
31312
Boschi misti a prevalenza di querce caducifoglie
31313
Boschi misti a prevalenza di latifoglie mesofile
31314
Boschi misti a prevalenza di castagno
31315
Boschi misti a prevalenza di faggio
31316
Boschi misti a prevalenza di specie igrofile
Superficie
(ha)
184.201
769.955
180.171
12.081
10.709
20.172
45.808
2.042
9.331
12.524
14.219
7.093.553
449.237
319.731
248.122
539.422
439.481
1.293.248
6.574
494.109
429.881
2.586.004
2.078.927
261.364
684.833
2.019.509
852.816
769.861
993.175
113.998
150.489
194.012
236.463
619.171
318.368
11.412
60.222
102.520
129.006
79.193
169.942
849
Tabella 3.2 - Ripartizione dell’uso/copertura del suolo in Italia, in ettari, secondo la classificazione CORINE Land Cover III e IV livello
(aggiornamento al periodo 1998-2002). Segue a pagina successiva
112 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
3.2
3.3
4.1
4.2
5.1
5.2
31317
Boschi misti a prevalenza di latifoglie non native
31321
Boschi misti a prevalenza di pini mediterranei e cipressete
31322
Boschi misti a prevalenza di pini montani e oromediterranei
31323
Boschi misti a prevalenza di ab. Bianco e/o ab. Rosso
31324
Boschi misti a prevalenza di larice e/o pino cembro
31325
Boschi misti a prevalenza di conifere non native
ZONE CARATTERIZZATE DA VEGETAZIONE ARBUSTIVA E/O ERBACEA
321
Aree a pascolo naturale e praterie
3211
Praterie continue
3212
Praterie discontinue
322
Brughiere e cespuglieti
3231
Macchia alta
3232
Macchia bassa e garighe
ZONE APERTE CON VEGETAZIONE RADA O ASSENTE
331
Spiagge, dune e sabbie
332
Rocce nude, falesie, rupi, affioramenti
335
Ghiacciai e nevi perenni
ZONE UMIDE INTERNE
411
Paludi interne
412
Torbiere
ZONE UMIDE MARITTIME
421
Paludi salmastre
422
Saline
423
Zone intertidiali
ACQUE CONTINENTALI
511
Corsi d’acqua, canali e idrovie
512
Bacini d’acqua
ACQUE MARITTIME
521
Lagune
522
Estuari
523
Mari e oceani
9.835
111.612
176.507
1.551.443
45.657
3.014
24
781.960
1.089.208
711.498
189.878
855.729
56.853
578.961
49.596
16.260
241
23.808
25.791
115
54.105
169.394
96.449
420
1.052
Tabella 3.2 - Ripartizione dell’uso/copertura del suolo in Italia, in ettari, secondo la classificazione CORINE Land Cover III e IV livello
(aggiornamento al periodo 1998-2002). Segue da pagina precedente
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 113
EFFETTI
DEI CAMBIAMENTI DI USO DEL SUOLO SULLA
BIODIVERSITÀ
La contrazione di un habitat caratterizzato da una
certa copertura del suolo si accompagna all’isolamento
e alla lontananza tra i diversi frammenti residui. In tal
senso i frammenti di habitat residui possono essere considerati come isole di un arcipelago, immerse in un mare (matrice) di natura diversa. In queste condizioni il
numero di specie presenti in una determinata superficie (frammento) di habitat, o la perdita di specie derivante da una riduzione di estensione di tale habitat, può
essere teoricamente stimato attraverso il modello di
MCARTHUR e WILSON (1967) della ‘biogeografia insulare’. Ciò vale fondamentalmente per le specie fortemente dipendenti da condizioni ecologiche ristrette legate alla specificità dell’habitat (specialiste o stenoecie),
generalmente endemismi.
Secondo il modello, le specie endemiche di un habitat scompaiono nel caso in cui questo sia distrutto, ma
nella realtà questi fenomeni hanno dinamiche molto
più complesse.
L’effetto più pericoloso della riduzione e della frammentazione dell’habitat per la sopravvivenza delle specie è la limitazione delle possibilità d’interscambio genetico fra le popolazioni isolate e numericamente impoverite (rarefazione). La frammentazione può determinare una diminuzione della diversità genetica nelle popolazioni residue, riducendo dunque le possibilità di
cambiamento evolutivo. Quando la dimensione della
popolazione e quindi la diversità genetica scendono al
di sotto di un certo limite, le future opzioni evolutive
diventano talmente scarse da condannare la specie a un
rapido declino (MASSA, 1999a). La distruzione o la trasformazione degli ecosistemi originari è riconosciuta come la principale causa della rarefazione ed estinzione di
gran parte delle specie animali italiane (BOLOGNA, 2002).
La possibilità di sopravvivenza delle popolazioni frammentate è quindi drammaticamente legata alla dimensione (cfr. concetto di popolazione minima vitale, SHAEFFER, 1981) e alla connessione tra le popolazioni isolate (sottopopolazioni) nei diversi frammenti di habitat.
La frammentazione critica per la sopravvivenza delle
specie è diversa a seconda del tipo di organismo. Come
osserva MASSA (1999b), per molti insetti o anfibi una
semplice strada asfaltata può rappresentare una barriera che blocca drasticamente le possibilità d’incontro tra
individui viventi nei diversi blocchi; per i grandi predatori il fattore critico è l’estensione dei frammenti di ha-
bitat residuo, ciascuno dei quali può non raggiungere
neppure la superficie dell’area familiare (home range) di
un solo individuo. Ecco perché tra le principali minacce alla conservazione delle specie negli habitat naturali
residui è proprio la costruzione di nuove infrastrutture
(es. impianti di risalita, strade, ferrovie, autostrade), che
aggrava ulteriormente l’attuale situazione di frammentazione degli habitat.
Sempre MASSA (1999b) afferma che le possibilità di
sopravvivenza aumentano se gli animali riescono a spostarsi efficacemente tra un blocco e l’altro a livello di individuo o di popolazione (metapopolazione). Questo accade se le specie non sono specie interne (es. picchi o ghiandaie), che per poter persistere in un habitat frammentato necessitano di blocchi di habitat completamente protetti da una zona tampone che allontani dalla loro area
vitale la presenza di margini netti con la matrice esterna.
Grado d’isolamento tra i frammenti di habitat residui, qualità della matrice di connessione ed effetto di
margine sono dunque tutti fattori che influiscono sulle possibilità di sopravvivenza delle specie endemiche.
C’è poi la possibilità che alcune specie riescano ad
adattarsi agli habitat secondari, qualora questi conservino parte delle caratteristiche di un habitat naturale.
È il caso per es. di pascoli e lande derivate dalla distruzione di habitat forestali ove sono rinvenibili componenti floristiche e faunistiche spontanee, derivanti da
radure o habitat preesistenti (BRANDMAYR, 2002). Questi habitat, definiti seminaturali benché la fisionomia
originaria dell’ecosistema sia stata alterata, sono ricchissimi di specie animali e vegetali di origine spontanea.
La distruzione degli habitat primari, d’altra parte, si
accompagna alla creazione di nuovi spazi e habitat (agroecosistemi, ecosistemi urbani) favorevoli all’insediamento e alla diffusione di specie sinantropiche, ovvero specie (animali e vegetali) che risultano più o meno dipendenti da manufatti, processi (es. concimazione, mietitura, aratura nei coltivi) o risorse trofiche (discariche)
messe a disposizione involontariamente dall’uomo. Si
tratta in genere di specie opportuniste sia dal punto di
vista dell’alimentazione che nella scelta dei siti di riproduzione, specie che manifestano elevata capacità di spostamento. Ciò spiega la crescita (mai osservata in passato) che si è registrata negli ultimi decenni nel numero di specie animali (es. cicogna, storno, gabbiani, volpe, merlo, gazza, pettirosso) capaci di colonizzare gli
ambienti urbani (inurbamento).
Nei parchi urbani, poi, si possono rilevare presenze
inaspettate, come avifauna tipicamente legata ad am-
114 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
bienti forestali, che si ritrovano in queste isole verdi anche con densità particolarmente elevate. Un esempio in
tal senso è rappresentato dalla colonia di allocchi (Strix
aluco) del Parco Storico di Monza.
Le specie vegetali in grado di adattarsi alle condizioni ecologiche dell’ambiente urbano (habitat dispersi, isolati, super-calpestati, iper-azotati, semi-desertici, effimeri) hanno strategie di sopravvivenza specifiche: alta produttività, cicli vitali brevi, scarsa lignificazione. Spesso
questi caratteri appartengono a specie di provenienza
esotica (alloctone) che possono diventare talmente competitive in nicchie ecologiche proprie di specie indigene o nelle nicchie suddette, da soverchiare ed eliminare
gli elementi indigeni (invasioni).
Diverse sono invece le considerazioni relative ai paesaggi suburbani dove le condizioni di transizione ecologica unite a gravi forme di degrado o a limitazioni e
vincoli nelle connessioni, date ad esempio dalle recin-
zioni indiscriminate, corrispondono spesso anche a forme insediative e tipologie urbanistiche di bassa qualità
anche per l’uomo.
In definitiva l’antropizzazione del paesaggio produce due effetti opposti sulla biodiversità: aumenta l’estensione degli ecosistemi secondari che, essendo legati a
esigenze contingenti dell’attività umana, sono più instabili rispetto agli ecosistemi naturali (es. foreste). In
queste condizioni le popolazioni endemiche, naturalmente sedentarie e specializzate, tendono a essere sostituite da specie mobili, opportuniste e poco esigenti di
grandi spazi.
La biodiversità complessiva a scala di paesaggio (regionale e nazionale) diminuisce con l’antropizzazione,
poiché comunità fra loro molto differenti vengono sostituite con comunità molto simili su vaste estensioni
(BRANDMAYR, 2002).
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 115
CAMBIAMENTI CLIMATICI
[Carlo Blasi, Leopoldo Michetti]
Molti dei componenti minori dell’atmosfera interagiscono con la radiazione infrarossa terrestre causando
il cosiddetto “effetto serra”. L’effetto serra consente la
vita sulla terra, poiché la sua presenza aumenta la temperatura superficiale del pianeta di circa 33 °C rispetto
ai valori che avrebbe in sua assenza. Il principale gas serra è il vapore acqueo che però, diversamente da altri gas
serra, è soggetto a forti variazioni di concentrazione sia
nello spazio che nel tempo (IPCC, 1995).
Dall’inizio della rivoluzione industriale, l’uomo ha
modificato la composizione atmosferica, immettendovi
grandi quantità di gas serra “minori”, tra cui più nota è
l’anidride carbonica (CO2).
Possiamo notare che il valore di concentrazione naturale di CO2, quello cioè che garantiva il benefico effetto serra naturale, era di circa 280 ppmv (parti per milione in volume) mentre in 150 anni – ma essenzialmente negli ultimi 70 – abbiamo portato la concentrazione
di anidride carbonica a poco meno di 364 ppmv (valore al 1998) pari a un aumento del 30% circa. Con l’attuale trend di crescita si prevede il raddoppio (560 ppmv)
del valore preindustriale entro 35 anni circa. Entro la fine del secolo si potrebbe avere un valore quattro volte
maggiore (vedi figure 3.8 e 3.9). In altre parole avremo
prodotto una variazione della concentrazione atmosfe-
a
rica di CO2 tre volte maggiore della massima variazione
registrata in poco meno di mezzo milione di anni. Guardando la fortissima correlazione tra temperatura media
e concentrazione di gas serra (ma sono disponibili analoghi dati anche per la concentrazione di metano) è possibile aspettarsi, con tali grandi e rapidissime variazioni
antropogeniche della concentrazione di CO2, un effetto serra di vaste proporzioni.
Fig. 3.9 - Estrapolazione della concentrazione di CO 2 all’anno 2100.
Il valore stimato è 1330 ppmv (scenario IPCC IS92e. Statistica: GDI
1997).
b
Fig. 3.8 - a) variazioni naturali di CO2 e incremento antropogenico dopo la rivoluzione industriale nel 1800. Dati da IPCC (1995); statistica
GDI (Global Dynamics Institute) 1997. b) zoom dell’intervallo temporale 1850-2000 in cui viene mostrato il trend esponenziale della concentrazione
di CO2 dopo la rivoluzione industriale.
116 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
VARIAZIONI CLIMATICHE DOCUMENTATE
Il tasso attuale di riscaldamento superficiale è pari a
0,15 °C per decennio ed è riscontrabile a tutte le scale:
mondiale, europea e nazionale.
Le variazioni maggiori sono state registrate nell’emisfero Nord alle latitudini più elevate (Circolo Polare Artico, Europa, Asia, America) con incrementi della temperatura nel corso dell’ultimo decennio di 3/5 °C rispetto al secolo precedente. Per lo stesso periodo gli incrementi si riducono a 0,5 °C all’equatore, mentre non
si osservano variazioni significative nell’emisfero australe. In particolare alla scala continentale europea la maggior parte delle aree ha mostrato in questo secolo aumenti medi di temperatura sino a 0,8 °C. L’aumento
non sembra essere continuo: è presente fino al 1940,
poi si è avuta una flessione sino al 1970 e successivamente un drastico nuovo aumento dagli anni ’70 in poi.
Queste caratteristiche sono evidenti maggiormente alle medie e alte latitudini. Durante gli anni ’90 il riscaldamento è stato molto elevato, con aumenti variabili
tra 0,25 e 0,5 °C in soli 10 anni. Oltre a fare più caldo
di giorno, fa anche sempre meno freddo di notte: infatti nell’ultimo secolo l’aumento delle temperature minime è risultato pari al doppio di quello delle temperature massime. Così nel nostro emisfero è in atto un
accorciamento della stagione fredda, con la conseguente riduzione dell’innevamento e un forte regresso della
superficie dei ghiacciai sia sulle montagne sia nell’Artide, dove lo spessore della calotta polare risulta diminuito del 40%.
In merito alla valutazione nelle variazioni climatiche
stanno emergendo considerazioni basate non solo su modelli, ma sull’andamento di dati reali considerati per periodi significativi (50, 100 anni) (figura 3.10).
In Italia esiste un numero ampio di serie termometriche e pluviometriche, ma solo una parte limitata è disponibile per la ricerca climatologica. Tra le serie disponibili meritano particolare importanza quelle dell’UCEA
(Ufficio Centrale di Ecologia Agraria, Roma) che contengono numerose informazioni di meteorologia sull’area nazionale. Esse furono ricostruite e informatizzate negli anni ’70, nell’ambito di un progetto del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che supportò la registrazione di temperature massime, minime e precipitazioni giornaliere di 27 serie secolari. Queste serie iniziavano dal 1870 e finivano intorno al 1970, presentando molti dati mancanti. Dall’analisi dei dati emerge che,
per l’Italia, il riscaldamento misurato dal 1860 ad oggi
Fig. 3.10 - Andamento dello scarto della temperatura media annuale
globale della media, periodo 1961-1990. Le linee continue
rappresentano la media mobile su dieci anni. In alto gli ultimi 140
anni (misure termometriche in stazioni al suolo). In basso l’ultimo
millennio (varie fonti di dati) (IPCC, 2001).
è di circa 1 °C, con una parte sostanziale dell’incremento (0,6 °C +/-0,2 °C) a partire dal 1900. L’aumento della temperatura sul territorio italiano durante gli ultimi
40 anni ha avuto, quindi, un tasso di crescita di circa
0,03 °C/anno, che risulta superiore a quello medio sia
a scala globale che europea. Gli anni ’90 sono stati i più
caldi del millennio: nel 1997 e nel 1998 si sono raggiunti i valori più elevati.
A titolo esemplificativo si analizzano i casi dell’Italia
settentrionale (figura 3.11) e della Maiella, ove la variazione degli ultimi 30 anni sta riducendo la continentalità a vantaggio della oceanicità (figura 3.12).
Per quanto riguarda le precipitazioni, nel corso degli
anni ’90 si è osservato mediamente un aumento alle latitudini elevate (tra lo 0,5 e l’1% per decennio) e una
riduzione alle medie e basse latitudini (-0,3/-0,5% per
decennio). In Europa centro-settentrionale buona parte dell’aumento delle precipitazioni annuali sembra de-
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 117
Fig. 3.11 - Incremento annuo
delle temperature massime e
minime misurate in Italia
settentrionale nel periodo 19611998. Il colore rosa evidenzia
variazioni positive delle
temperature statisticamente
significative (ZUCCHERELLI,
2000). Trend Tmax annuale
(°C/anno). Trend della Tmin
annuale (°C/anno).
rivare da un aumento delle stesse durante la stagione invernale e quella primaverile; sembrano invece essere diminuite le precipitazioni durante la stagione estiva.
Nel bacino del Mediterraneo, invece, sembra assai
evidente e significativa la diminuzione delle precipitazioni durante tutte le stagioni a partire dalla fine degli
anni ’50 fino a oggi. La barriera orografica costituita
dalle Alpi è in grado di modificare la tendenza delle precipitazioni che risulta in aumento nell’Europa continentale (a Nord delle Alpi) e in diminuzione nell’Europa mediterranea.
Oltre che come quantità totale, le piogge hanno cam-
biato anche le modalità con cui si verificano: nelle regioni tropicali e sub tropicali si denota un aumento dei giorni con pioggia intensa e una riduzione del numero dei
giorni piovosi. Alle medie ed elevate latitudini la frequenza delle piogge intense è aumentata dal 2 al 4%.
In Italia, è stato osservato un aumento significativo del
numero dei giorni fortemente piovosi (più di 25 mm al
giorno) e la diminuzione di quelli con pioggia debole (meno di 25 mm al giorno). Le conseguenze dirette di questo andamento si esprimono da una parte con la maggiore incidenza delle situazioni di alluvioni causate da forti
piogge (in questo incide naturalmente non solo il caratFig. 3.12 - Confronto diacronico (1921-1955 e
1960-1994) tra la Tmax, tmin e tmed della
stazione di Pescocostanzo (1359 m). La tmin
nell’intervallo 1921-1955 risulta essere minore di
circa 2 °C nel periodo invernale rispetto
all’intervallo 1960-1994, mentre la Tmax
nell’intervallo 1921-1955 è di circa 2 °C superiore
nel periodo estivo rispetto all’intervallo 19601994. Diminuisce la continentalità a favore del
regime oceanico (inverni molto freddi ed estati
più fresche). Applicando la regressione alle stazioni
termopluviometriche della Maiella, di cui
Pescocostanzo fa parte, si vede che i limiti
bioclimatici (RIVAS-MARTINEZ, 1996) cambiano
nei due intervalli temporali analizzati. Nel periodo
1921-1955 il limite tra supratemperato e
orotemperato è a circa 1680 m, mentre tra
orotemperato e criorotemperato è a circa 2.330
m. Nel periodo 1960-1994 i suddetti limiti si
trovano rispettivamente a 1850 m circa e 2470
m circa.
118 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 3.13 - Distribuzione geografica delle
stazioni. Il quadrato rosso si riferisce
alle stazioni con serie centennali, mentre
il quadrato azzurro a quelle con serie
degli ultimi 50 anni. Sono anche
indicate le regioni (N e S) e le subregioni
(NW, NEN, NES, CE, SO, IS)
(BRUNETTI et al., 2000b).
tere della pioggia ma anche la gestione del territorio), dall’altra con una progressiva tendenza a un maggior consumo di acqua da parte della vegetazione, legato all’aumento delle temperature.
Per il nostro Paese le variazioni nelle precipitazioni
in termini quantitativi e di periodicità risulta essere l’ele-
Inverno
Primavera
Estate
Autunno
Anno
NW
-26 +/- 17
+
-26 +/- 10
-14 +/- 7
NEN
+
-18 +/- 6
-12 +/- 5
Inverno
Primavera
Estate
Autunno
Anno
NW
+
+
+
+
+11 +/- 5
NEN
+
+
+
+
mento di maggior peso nei confronti dei cambiamenti. La complessità orografica e morfologica individuano infatti nelle piogge il parametro climatico assolutamente più predittivo che consente la suddivisione in
vari settori, così come riportato in figura 3.13 e nella
tabella 3.3.
Giorni di pioggia
CE
SO
-38 +/- 13
-34 +/- 11
+
-23 +/- 9
-12 +/- 6
-21 +/- 5
Intensità
NES
CE
SO
+
+12 +/-5
+
+17 +/- 7
+17 +/- 7
+
+17 +/-8
+
+9 +/- 4
+10 +/-4
+
NES
-41 +/- 15
-18 +/- 6
IS
-19 +/- 9
+
+
-
N
-34 +/- 15
+
-16 +/- 7
-14 +/- 5
S
-31 +/- 10
+
-14 +/- 5
IS
+
N
+
+
+10 +/- 4
+
+7 +/- 3
S
+
+
+11 +/- 5
+6 +/- 3
+
-
Tabella 3.3 - Variazione dei giorni e dell’intensità di pioggia nelle sub-regioni per il periodo 1951-1996. I numeri in grassetto hanno un livello di significatività maggiore del 95%; i numeri non in grassetto hanno un livello di significatività dal 90 al 95%; quando il livello di significatività è più basso del 90% è dato solo il segno (positivo o negativo) dell’andamento.
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 119
FENOLOGIA E CAMBIAMENTI CLIMATICI
[Loretta Gratani, Maria Fiore Crescente]
Il riscaldamento globale dell’atmosfera ha portato negli ultimi 100 anni a un aumento della temperatura media terrestre di circa 0,6 °C e il fenomeno si è manifestato con maggiore evidenza fra il 1910 e il 1945 e dal 1976
a oggi. Il tasso di riscaldamento in quest’ultimo periodo
risulta il più elevato in assoluto degli ultimi 1000 anni,
soprattutto a causa dell’aumento delle temperature minime che sono cresciute ad un tasso doppio rispetto alle
massime; di conseguenza, alle medie e alle alte latitudini
sono diminuiti i periodi con temperature inferiori a 0 °C
e ciò ha determinato, dal 1960 a oggi, un decremento della copertura nevosa e della estensione dei ghiacci di circa
il 10% (WALTHER et al., 2002). Si è riscontrato, inoltre,
un cambiamento non uniforme nel regime delle precipitazioni, con un incremento dello 0,5-1% per decade alle
medie e alle alte latitudini dell’emisfero Nord e una diminuzione dello 0,3% per decade ai sub-tropici (CLIMATE CHANGE, 2001).
Numerose ricerche indicano che i cambiamenti climatici hanno influenzato un numero elevato di organismi
con distribuzione geografica diversa (HUGHES, 2000). A
livello ecosistemico, gli effetti si manifestano attraverso
l’alterazione dei processi più sensibili alle variazioni dei
fattori climatici (PARMESAN e YOHE, 2003).
Un notevole contributo alla conoscenza dell’impatto del cambiamento climatico sui sistemi naturali è dato dalla fenologia, che studia la periodicità e la lunghezza delle fasi del ciclo stagionale o vitale degli organismi.
Recentemente tali studi sono mirati a valutare sia gli
effetti del cambiamento climatico sul ciclo fenologico,
che le conseguenze di tali effetti sulla distribuzione delle specie e sul funzionamento degli ecosistemi. Le registrazioni fenologiche forniscono una indicazione integrata della sensibilità delle specie alla variazione dei fattori ambientali e in particolare a quelli climatici. I cambiamenti nella lunghezza e nella periodicità delle fenofasi e in particolare le variazioni inter-annuali dell’attività primaverile, che controlla la fissazione annuale della CO2, sono quindi indicatori sensibili del cambiamento climatico.
A livello europeo, il monitoraggio fenologico ha una
lunga tradizione e ha portato alla raccolta di serie di dati, utilizzabili anche per valutare l’impatto del cambiamento climatico sui sistemi naturali. La rete europea dei
Giardini Fenologici Internazionali (International Phenological Gardens, IPG) fondata nel 1957, copre una vasta
area dell’Europa nella fascia latitudinale 42° N – 69° N
(dalla Scandinavia alla Macedonia) e longitudinale 10°
W – 27° E (dall’Irlanda alla Finlandia a Nord a dal Portogallo alla Macedonia a Sud) (figura 3.14; tabella 3.4)
e interessa 55 Giardini Fenologici (CHMIELEWSKI, 1996;
RÖTZER e CHMIELEWSKI, 2000). La rete utilizza cloni geneticamente selezionati di specie arboree e arbustive (Betula pubescens, Fagus sylvatica, Larix decidua, Picea abies,
Pinus sylvestris, Populus canescens, Populus tremula, Prunus avium, Quercus petraea, Quercus robur, Ribes alpinum, Robinia pseudoacacia, Salix aurita, Salix acutifolia,
Salix glauca, Salix smithiana, Salix viminalis, Sambucus
nigra, Sorbus aucuparia, Tilia cordata), al fine di ottenere dati comparabili su piante non influenzate da differenze genetiche. Uno degli obiettivi dell’IPG è anche
quello di realizzare una rete fenologica globale, che possa raccogliere dati a livello mondiale utili per il monitoraggio a lungo termine.
Anche l’Italia vanta una lunga tradizione fenologica,
soprattutto grazie all’opera di MINIO e MARCELLO, che
hanno coordinato la Rete Fenologica Italiana rispettivamente dal 1922 al 1936 e dal 1953 al 1965, di DALLA
FIOR che ha coordinato la rete fenologica regionale del
Fig. 3.14 - Distribuzione dei Giardini Fenologici Internazionali (IPG)
(CHMIELEWSKI, 1996, ridisegnato).
120 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
n° IPG
01
02
06
07
08
10
12
13
14
15
16
18
19
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
38
39
40
41
42
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
55
56
57
58
60
61
62
68
77
78
79
83
Latitudine Longitudine
63°29’
10°53’ E
60°16’
05°21’ E
69°45’
27°00’ E
64°31’
26°27’ E
60°23’
22°33’ E
55°40’
12°18’ E
57°14’
09°55’ E
51°56’
10°15’ W
52°20’
06°35’ W
52°18’
06°31’ W
53°23’
06°20’ W
50°59’
03°48’ E
50°00’
05°44’ E
53°39’
10°12’ E
51°20’
09°40’ E
50°06’
08°47’ E
49°59’
07°58’ E
49°45’
06°40’ E
48°43’
09°13’ E
48°49’
09°07’ E
48°03’
07°36’ E
48°04’
07°41’ E
48°00’
07°51’ E
48°01’
07°59’ E
47°55’
07°54’ E
47°52’
08°00’ E
47°57’
08°31’ E
48°11’
11°10’ E
48°51’
13°31’ E
48°55’
13°19’ E
48°56’
13°20’ E
48°56’
13°31’ E
50°59’
13°32’ E
53°47’
21°35’ E
41°15’
08°30’ W
47°20’
08°48’ E
47°17’
11°24’ E
47°15’
11°30’ E
48°15’
16°22’ E
48°15’
16°43’ E
48°20’
18°22’ E
48°27’
18°56’ E
47°36’
19°21’ E
46°04’
14°30’ E
46°02’
16°34’ E
45°47’
19°07’ E
43°45’
18°01’ E
42°05’
19°05’ E
44°22’
20°57’ E
41°39’
22°51’ E
47°48’
13°04’ E
53°44’
09°53’ E
47°34’
12°57’ E
47°35’
12°58’ E
49°46’
07°03’ E
Altitudine Osservazioni
25
1964 50
1964 180
1968 115
1968 10
1965 30
1971 20
1972 14
1966 80
1966 60
1967 30
1966 15
1963 500
1972 46
1970 500
1965 99
1959 118
1973 265
1960 380
1961 330
1968 285
1972 265
1968 270
1970 500
1976 1210
1970 1485
1971 680
1973 540
1963 737
1974 756
1974 956
1974 1370
1976 360
1962 127
1967 30
1968 600
1963 600
1973 900
1968-85; 1991 202
1960 150
1960-88; 1992 180
1962 540
1966 220
1974 310
1962 146
1962 90
1975
1000
1962 5
1975 121
1974 240
1962 440
1985 13
1988 1430
1994 950
1994 480
1995 -
Tabella 3.4 - Localizzazione dei Giardini Fenologici Internazionali
(IPG) (CHMIELEWSKI, 1996).
Trentino dagli anni ’20 agli anni ’60 e di MONTELUCCI
che ha collezionato dati relativi al periodo 1960-1982.
La realizzazione di una rete di Giardini Fenologici è tuttavia un fatto abbastanza recente e il primo Giardino è
stato costituito nel 1982 a San Pietro Capofiume (BO).
Attualmente è attiva una rete di nove Giardini distribuiti nel territorio nazionale (figura 3.15), le cui attività sono coordinate dal Gruppo di Lavoro Nazionale per i
Giardini Fenologici, costituitosi nel 1993, in collaborazione con la Società Botanica Italiana, Enti regionali,
l’associazione di Aerobiologia e Istituti Universitari. Il
Gruppo ha predisposto un elenco di specie indicatrici
comuni a tutti i Giardini, ottenute per propagazione vegetativa da piante madri presenti nel Giardino di San
Pietro Capofiume, più esattamente Crataegus monogyna, Corylus avellana, Ligustrum vulgare, Robinia pseudoacacia, Sambucus nigra. Sono state incluse in questo
elenco tre diverse specie di Salix (S. acutifolia, S. viminalis e S. smithiana) provenienti dall’IPG (BOTARELLI e
SACCHETTI, 1998).
Fig. 3.15 - Distribuzione dei Giardini Fenologici in Italia. 1) Arboreto
di Arco (TN); 2) Bonisiolo di Mogliano Veneto (TV); 3) San Pietro
Capofiume (BO); 4) Montepaldi San Casciano (FI); 5) Orecchiella
Garfagnana Corfino (LU); 6) Fontanella Sant’Apollinare di Marsciano
(PG); 7) Portici, (NA); 8) Pantanello di Bernalda (MT); 9) Fenosù
Oristano (SS) (MANDRIOLI, 1998).
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 121
Il monitoraggio fenologico effettuato dall’IPG ha evidenziato l’aumento della temperatura attraverso la registrazione dell’anticipo degli eventi primaverili. Nelle zone temperate, infatti, la schiusura delle gemme, la fogliazione e la fioritura (fenofasi) rispondono all’accumulo
della temperatura al di sopra di un valore soglia, che è
specie-specifico e un aumento delle temperature medie
invernali e primaverili si riflette in un anticipo delle fasi (RATHCKE e LACEY, 1985). In particolare, CHMIELEWSKI e RÖTZER (2000) hanno evidenziato come nel periodo 1969-1998, in Europa, l’inizio dell’attività vegetativa sia mediamente anticipato di 2,7 giorni per decade,
per complessivi 8 giorni. Risultati simili sono stati ottenuti da KOCH (2000) per Fagus sylvatica, Acer platanoides, Betula pendula, Aesculus hippocastanum, Larix decidua, Malus domestica, Prunus avium, Syringa vulgaris e
specie del genere Quercus, analizzando registrazioni effettuate in Svizzera, Austria e Slovenia, nel periodo 19601999. MENZEL (2000), utilizzando dati fenologici relativi a cloni di specie arboree e arbustive, ha messo in evidenza, per il periodo 1959-1996, un anticipo di circa 6
giorni (-0,21 giorni/anno) per il processo di fogliazione
e un ritardo di 4,5 giorni (+0,15 giorni/anno) per il processo di senescenza fogliare, con un conseguente allungamento medio della stagione di crescita di 10,8 giorni
dal 1960. RÖTZER e CHMIELEWSKI (2000) hanno messo in evidenza, attraverso modelli di regressione multipla, le relazioni fra la data d’inizio delle fenofasi e fattori quali l’altitudine, la latitudine e la longitudine (figura 3.16). Mentre il fattore altitudine varia da 2,0 giorni/100m per l’inizio della fogliazione in Fagus sylvatica
a 4,6 giorni/100m per l’inizio della fioritura in Robinia
pseudoacacia, il fattore latitudine da 1,8 giorni/° per l’inizio della fogliazione in Fagus sylvatica a 4,5 giorni/° per
l’inizio della fogliazione in Prunus avium, il fattore longitudine da 0,23 giorni/° per l’inizio della fogliazione in
Fagus sylvatica a 0,83 giorni/° per l’inizio della fogliazione in Prunus avium. GRATANI et al. (2000) hanno evidenziato una differenza di circa 15 giorni nella data di
schiusura delle gemme in Quercus ilex L. fra il centro
(Castelporziano, Roma, 41°45’N 12°26’E, livello del
mare) e il Nord Italia (Nago, Trento, 45°55’N 10°53’E,
260 s.l.m.) e di tre settimane nella durata del processo
di allungamento dei germogli. La topografia gioca un
ruolo notevole nel determinare la variabilità spaziale delle fenofasi, poiché incide sulla variazione locale della temperatura. GRATANI et al. (1999) in uno studio condotto
a Campo Imperatore (Gran Sasso d’Italia) hanno evidenziato differenze fenologiche significative per le specie delle associazioni presenti nel piano subalpino (1.8002.000 m s.l.m.) e nel piano montano (1440-1800 m
s.l.m) e, a livello dello stesso piano, variazioni in aree topograficamente diverse. Nel piano montano, ad esempio, l’inizio della fioritura mostra un anticipo di 10-15
giorni rispetto al piano subalpino e raggiunge il picco
massimo dopo circa 20-25 giorni dall’inizio del fenomeno; l’attività fenologica è più breve dove le condizioni
microclimatiche sono più limitanti e, nei siti più esposti all’azione del vento, anche il periodo di maturazione
dei frutti è più ristretto.
OSBORNE et al. (2000) hanno mostrato come la fase
di fioritura di Olea europaea sia fortemente influenzata
Fig. 3.16 - Relazione fra le fenofasi
e l’altitudine, la latitudine e la
longitudine. Fo=inizio fogliazione;
Fi=inizio fioritura; Ge=inizio
allungamento germogli (RÖTZER e
CHMIELEWSKI, 2000).
122 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 3.17 - Variazioni della data di fioritura di Olea europaea in risposta alle variazioni della temperatura (OSBORNE et al., 2000).
dalle temperature medie primaverili, ipotizzando un anticipo di 3-23 giorni fra il 1990 e il 2030 (figura 3.17);
gli autori suggeriscono di utilizzare questa specie come
indicatore del cambiamento climatico nel Bacino del
Mediterraneo.
Poiché il riscaldamento del clima provoca un cambiamento nel regime termico, a cui non corrisponde, tuttavia, un cambiamento nel fotoperiodo, specie localmente adattate ad una certa combinazione di luce e temperatura possono risultare danneggiate. In generale, si
possono ipotizzare (LECHOWICZ, 2001) tre tipi di risposta delle specie al cambiamento climatico: 1) le specie
possono migrare per rimanere nello stesso regime climatico a cui sono adattate fenologicamente; di tale fenomeno ci sono evidenze alla fine dei periodi glaciali; 2)
le specie possono adattarsi alle nuove condizioni climatiche; c’è sempre un certo grado di variabilità fra gli individui di una popolazione per quanto riguarda la lunghezza e la periodicità delle fasi fenologiche e da un punto di vista evolutivo ci si aspetta il mantenimento di tale variabilità. Le differenze fra gli individui di una popolazione possono favorire lo spostamento di fase in ri-
sposta al cambiamento climatico e, in un tempo sufficientemente lungo, possono determinare una risposta
adattativa; 3) le specie possono rispondere negativamente al cambiamento climatico perdendo la dominanza all’interno del sistema oppure estinguendosi. Per quanto
riguarda il primo punto, la frammentazione degli habitat pone delle barriere alla migrazione, riducendo la possibilità di spostamento delle specie e abbassando la variabilità genetica all’interno delle popolazioni che restano isolate, rendendole quindi più vulnerabili.
Da quanto detto emerge che il monitoraggio fenologico è uno strumento utile per trarre informazioni relative al cambiamento climatico. Grazie alla lunga serie di
dati fenologici raccolti, l’Europa è particolarmente attiva nello sviluppo di modelli fenologici. La realizzazione
di una Rete Fenologica a livello globale certamente contribuirà a estrapolare i risultati delle singole ricerche, consentendo di migliorare le valutazioni dell’impatto del
cambiamento climatico sulla produttività agricola, sul
funzionamento delle foreste, sulla biodiversità e su tutte le problematiche legate alla salute umana.
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 123
CAMBIAMENTI NELLA CONCENTRAZIONE DI
CO2 E DEPOSIZIONI AZOTATE
[Fausto Manes, Francesca Capogna]
CONCENTRAZIONE DI CO2
Uno dei maggiori effetti che derivano dai cambiamenti di uso del territorio interessa il ciclo del carbonio e in
particolare i cambiamenti nella concentrazione atmosferica della CO2 (FAO/UNEP, 1999).
La concentrazione di CO2, infatti, è aumentata dal valore noto per il 1600 d.C. (285 ppmv) fino al di sopra
dei 366 ppmv nel 1998 (KEELING e WHORF, 1999). Il
tasso decennale di incremento nell’ultimo secolo è stato
persistente e più rapido di qualsiasi altro periodo nell’ultimo millennio. Questo tasso di cambiamento può essere spiegato dagli effetti cumulativi che derivano dal consumo di combustibili fossili, dalla deforestazione e dalla
risposta degli oceani e della biosfera all’azione dell’uomo.
Dal 1850 al 1998, 270 ± 30Gt di C sono state emesse dalla combustione di combustibili fossili e dalla produzione di cemento (MARLAND et al., 1999); 176 ± 10Gt
di C sono state accumulate in atmosfera (ETHERIDGE et
al., 1996; KEELING e WHORF, 1999). L’uptake cumulativo a opera degli oceani durante questo periodo è stato stimato essere di 120± 50Gt di C (KHESHGI et al., 1999;
JOOS et al., 1999). Il bilancio del carbonio per questo periodo mette in evidenza un ammontare netto globale di
C sulla superficie terrestre di 26 ± 60Gt di C. In altre parole, il sistema terrestre è assimilabile ad una sorgente.
Durante il periodo che va dal 1850 al 1998, le emissioni nette cumulative e globali di CO2 derivanti da cambiamenti di uso del suolo sono state stimate di circa 136±
55 Gt di C. Di queste emissioni, circa l’87% era dovuto
a cambiamenti avvenuti in aree forestate e circa il 13%
ad aree coltivate e praterie delle medie latitudini (HOUGHTON, 1999; HOUGHTON et al., 1999, 2000). A questo
punto sarebbe necessaria una richiesta globale residua di
110 ± 80 Gt di C per bilanciare la differenza tra la sorgente netta terrestre (26 ± 60Gt di C) e la più grande sorgente terrestre derivante dagli effetti del cambiamento
dell’uso del territorio sulle riserve di carbonio.
Numerosi studi confermano il fatto che l’aumento
della CO2 atmosferica agisce su molte specie vegetali
mediante un aumento della fotosintesi netta, della biomassa vegetale (POORTER, 1993; CEULEMANS e MOUSSEAU, 1994; WULLSCHLEGER et al., 1995, 1997) e dell’efficienza di uso dell’acqua (SAXE et al., 1998; WOODWARD et al., 2002). SAXE et al. (1998) hanno dimostra-
to che un raddoppio della concentrazione della CO2 atmosferica determina un aumento di circa il 50% della
produzione di biomassa nelle specie arboree angiosperme e un aumento di circa il 130% nelle gimnosperme.
Come recentemente dimostrato da I DSO e K IMBALL
(2001), comunque, questa iniziale stimolazione dell’accrescimento può declinare significativamente per acclimatazione negli anni successivi e raggiungere un livello
di equilibrio molti anni dopo. Esperimenti recenti (LEAVITT et al., 2003) hanno confermato un trend in aumento dell’efficienza nell’uso dell’acqua, dovuto principalmente all’aumento antropogenico della concentrazione
di CO2 atmosferica; questo fenomeno potrebbe causare una crescita molto più rapida degli alberi in ambienti aridi, agendo come serbatoi di carbonio per la CO2
in eccesso. Gli ecosistemi aridi, che occupano circa il
20% della superficie terrestre, sono tra quelli, infatti,
maggiormente sensibili alle elevate concentrazioni atmosferiche di CO2 associate ai cambiamenti climatici.
La produzione primaria nei deserti è fortemente limitata dall’acqua e dal contenuto di azoto. In condizioni di
elevate concentrazioni di CO2, l’immediata e positiva
risposta dell’efficienza nell’uso dell’acqua migliora le relazioni idriche a favore della produzione primaria. Inoltre, le diverse risposte delle specie all’elevata CO2 possono modificare le interazioni competitive, cambiando
potenzialmente la composizione di una comunità. In
Nord America, le elevate concentrazioni di CO2 hanno
favorito a lungo termine la dominanza di alcune graminacee esotiche rispetto a numerose specie native annuali. Questo cambiamento nella composizione in specie a
favore di graminacee annuali esotiche, guidato da quello globale, ha la potenzialità di accelerare gli effetti del
ciclo del fuoco tipico di quegli ambienti, di ridurre la
biodiversità e di alterare la funzione dell’ecosistema nei
deserti del Nord America (SMITH et al., 2000).
Ad oggi, tuttavia, le conoscenze sugli effetti a lungo
termine della fertilizzazione dovuta alla CO2 sull’assorbimento del carbonio da parte delle foreste sono ancora
limitate.
124 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
AUMENTO DELLA CONCENTRAZIONE DI CO2
In Italia il monitoraggio della concentrazioni di CO2 in
atmosfera avviene da tempi relativamente recenti. Nel nostro paese esistono due stazioni per il rilevamento “ di fondo” della CO2, che possono essere rappresentative dell’area
mediterranea (ENEA, 2001). Le misure effettuate dalla stazione di Monte Cimone (MO), funzionante dal 1978, costituiscono la serie storica più lunga per l’area del Mediterraneo. In figura 3.18 è riportata la serie di dati disponibile per il periodo 1990-1999. La media annuale della concentrazione della CO2 atmosferica è pari a 360,5 ppm. Le
informazioni sull’andamento del periodo evidenziano una
crescita intorno al 4%, passando dai 354,2 ppm del 1990
ai 368,6 del 1996. Questi risultati confermano una generale tendenza alla modificazione nella composizione dell’atmosfera, in accordo anche con i dati rilevati dalle altre
stazioni della rete mondiale di monitoraggio, osservata anche su scale temporali più ampie di quella in esame.
Nell’isola di Lampedusa (TR) è ubicata la seconda
stazione di monitoraggio attiva da maggio 1992. La serie di dati relativa al periodo 1992-2001 è riportata in
figura 3.19. L’isola di Lampedusa è stata prescelta come
sito remoto di riferimento perché, essendo ubicata al
centro del Mediterraneo e non influenzata da perturbazioni di CO2 provenienti da fonti antropiche (zone urbane, industriali, traffico o altro) o da sensibili fonti naturali (ciclo di fotosintesi e di respirazione di boschi, foreste o comunque di estesa vegetazione), soddisfa tutti
i requisiti di rappresentatività della CO2 di fondo richiesti dal WMO (World Meteorological Organization). La
media della concentrazione del periodo analizzato è 365,5
ppm, con una crescita del 3% passando da 360,8 del
1993 a 372,5 dei primi nove mesi del 2001. La costante crescita delle concentrazioni di CO2 registrate nelle
due stazioni trova conferma nei risultati relativi agli aumenti della componente energetica (10%) tra il 1994 e
il 1999. Solamente un serio intervento di politica ener-
Fig. 3.18 - Concentrazioni di CO2
(Stazione di Monte Cimone).
Anni 1990-1999 (ppmv) (ENEA,
2001, modificato).
Fig. 3.19 - Concentrazioni di CO2
(Stazione di Lampedusa). Anni
1992-2001 (ppmv) (ENEA, 2001,
modificato).
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 125
getico-ambientale in questo settore potrebbe consentire di rispettare il Protocollo Kyoto che ci impegna a ridurre le emissioni dei gas serra entro il 2012 del 6,5%
rispetto al 1990.
In figura 3.20 è riportato l’andamento dei 4 paesi che
hanno maggiormente contribuito alla emissione di anidride carbonica nel contesto dell’Unione Europea. La Germania e il Regno Unito sono gli unici paesi che hanno ridotto le loro emissioni in confronto al 1990 (rispettiva-
mente del 16% e del 9%), mentre tutti gli altri paesi europei le hanno aumentate. L’Italia, con un aumento del
5%, è il paese che ha incrementato meno le sue emissioni subito dopo la Svezia. L’Italia presenta, infatti, nel 1999
emissioni di CO2 pro-capite pari a circa 8 tonnellate contro un valore europeo di 8,7. Questo risultato colloca l’Italia all’11° posto di una graduatoria guidata dalla Finlandia (12 tonnellate pro-capite) e chiusa, con 6 tonnellate
annue, dai portoghesi (figura 3.21).
Fig. 3.20 - Emissioni di CO2
da processi energetici in alcuni
paesi dell’Unione europea
(Fonte: Agenzia Europea
dell’Ambiente, 2001) (ENEA,
2001, modificato).
Fig. 3.21 - Emissioni di CO2
anno 1999 (tonnellate pro capite)
(ENEA, 2001, modificato).
126 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
DEPOSIZIONI AZOTATE
La fertilizzazione con azoto rappresenta un valido sistema per aumentare la produzione agricola e risulta particolarmente efficiente nell’aumentare la produttività delle piantagioni di foreste nelle regioni climatiche mediterranee, temperate e boreali (LINDER et al., 1996). Fertilizzazioni con azoto e fosforo promuovono la fotosintesi e,
in particolare, l’azoto stimola l’aumento del numero e della crescita delle foglie, determinando una maggiore estensione o densità della chioma.
Negli ultimi anni la deposizione atmosferica di azoto
sugli ecosistemi forestali è in crescita a causa delle elevate emissioni di sostanze azotate in forma ossidata provenienti dalle attività industriali e dai mezzi di trasporto e
di sostanze azotate in forma ridotta prodotte dall’allevamento di bestiame e dall’agricoltura (GALLOWAY, 1995).
In Nord Europa e in alcuni siti negli Stati Uniti (FENN
et al., 1998) è stato documentato un notevole aumento
di deposizioni azotate rispetto ai livelli pre-industriali
(SUTTON et al., 1993). Negli Stati Uniti dell’est, il rilascio di NOx ad opera del consumo di combustibili fossili ha innalzato le deposizioni azotate di circa 10 volte
se paragonate all’era pre-industriale (HICKS et al., 1990).
Studi recenti prevedono un aumento delle emissioni di
N in tutto il mondo (il fenomeno sarà particolarmente
intenso in Asia e in Africa) per l’utilizzo indiscriminato
dei fertilizzanti e per il consumo di combustibili fossili
(GALLOWAY, 1995).
Un inventario di dati che provengono da diversi siti di
campionamento ha rivelato che la crescita degli alberi sta
aumentando in Europa (SPIECKER et al., 1996). Le deposizioni umide e secche di nutrienti potrebbero aver contribuito a questa crescita delle foreste. In generale, la deposizione (umida e secca) annuale totale di azoto (ossidato e ridotto) in aree rurali varia tra i 5 e i 40 kg ha-1anno-1; le concentrazioni minori si hanno nelle aree forestali remote, per lo più alle elevate latitudini e ai tropici
(FREYDIER et al., 1998).
In alcuni ambiti, tuttavia, il carico di deposizioni azotate sulle foreste ha ecceduto la capacità di assimilazione di alcuni ecosistemi, conducendo a uno sbilanciamento del contenuto di nutrienti e ad una lisciviazione
di NO3- nelle acque di ruscellamento, in un processo conosciuto come “saturazione da azoto” (ABER et al., 1989,
1998). La saturazione da azoto è stata descritta per le foreste che ricevono una notevole quantità di N, che varia tra i 20 e i 100 kg ha-1 anno–1, in Olanda, in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti.
Esiste una scarsa conoscenza relativa alle deposizioni
atmosferiche di N nelle aree rurali del Bacino del Mediterraneo e agli effetti potenziali di tale fenomeno sulle foreste mediterranee.
Per centinaia di anni le foreste di leccio del Bacino del
Mediterraneo sono state soggette a ripetute perdite di
nutrienti a causa degli incendi e della raccolta del legname. Questi disturbi potrebbero aver abbassato le risorse
di nutrienti nel suolo. Una minore disponibilità di nutrienti potrebbe essere parzialmente responsabile della
bassa produzione primaria netta epigea delle foreste di
leccio (6.3 t ha-1 anno-1 in Spagna, IBANEZ et al., 1999),
sebbene la limitazione idrica e altri fattori possano essere implicati.
Un esperimento condotto in una foresta di leccio in
Spagna ha rivelato che la produzione netta epigea aumentava sia dopo l’irrigazione che dopo la fertilizzazione con
250g di N ha-1 (RODÀ et al., 1999). La fertilizzazione con
N aumenta enormemente la produzione fogliare e di ghiande, dimostrando che le foreste mediterranee possono rispondere ad aumenti della disponibilità di azoto nonostante la presenza di una forte limitazione idrica.
Certamente continui apporti di N a basse dosi potrebbero avere effetti completamente diversi da quelli di una
singola e grande somministrazione di fertilizzante. In ogni
caso, l’evidenza dei risultati dimostra che le deposizioni
atmosferiche azotate sono trattenute all’interno degli ecosistemi e verosimilmente nel suolo e nella vegetazione.
L’azoto atmosferico potrebbe essere utilizzato dagli alberi per mantenere la loro crescita, ma gli effetti a lungo termine di questa aumentata disponibilità di azoto sono ancora materia di approfondimento. Una chiave di incertezza riguarda, infatti, quanto e per quanto tempo il tasso annuale corrente di deposizione di azoto potrà sostenere la crescita e la produzione netta di un ecosistema
(NEP) forestale.
Numerosi studi hanno evidenziato una relazione tra i
cambiamenti nella ricchezza in specie e il gradiente di disponibilità di nutrienti. La risposta tipica osservata è stata una curva a campana: la ricchezza in specie è bassa a
bassi livelli di nutrienti, aumenta fino a un picco per livelli intermedi e declina più gradualmente ad alti livelli
di nutrienti (PAUSAS e AUSTIN, 2001). Un numero relativamente piccolo di specie riesce a tollerare condizioni
estreme di carenza di nutrienti. Quando le risorse aumentano, più specie possono sopravvivere e quindi la ricchezza in specie aumenta. A più alti livelli di nutrienti, soltanto poche specie altamente competitive diventano dominanti determinando il declino della diversità.
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 127
EMISSIONI DI OSSIDI DI AZOTO (NOX), DEPOSIZIONI AZOTATE E ACIDIFICAZIONE
Relativamente all’anno 1999 le emissioni totali di ossidi di azoto stimate per l’Italia ammontano a circa 1467
Gg pari a poco meno del 15% del totale europeo. Il settore energetico e, in particolar modo, il settore del trasporto stradale sono i maggiori responsabili per quasi la
totalità di tali emissioni. L’andamento temporale di tali
emissioni nazionali è tendenzialmente decrescente (diminuzione del 24% in dieci anni). Dal 1980 al 1992 si ha
una tendenza alla crescita per gli ossidi di azoto; negli anni successivi la tendenza si inverte (figura 3.22). L’obiettivo di 1814 Kt/anno al 1994, previsto dal Protocollo di
Sofia, è stato effettivamente raggiunto in quell’anno mentre si è ancora lontani dal tetto di 1000 Kt/anno che non
dovrà essere superato nel 2010.
La mappatura dei carichi critici di azoto sul territorio italiano mostra, in generale, la sensibilità dei suoli all’azoto
contenuto nelle deposizioni con riferimento all’eutrofizzazione. I suoli alpini dell’Appennino Ligure, ma anche della Sardegna e di alcune zone dell’Italia centrale sono i più
sensibili al fenomeno dell’eutrofizzazione. Le aree più critiche dove è necessaria una riduzione delle deposizioni di azoto sono particolarmente concentrate nell’arco alpino.
L’analisi condotta sui dati del periodo 1987-1998 del-
le stazioni della rete ENEL di campionamento delle deposizioni umide consente di affermare, tuttavia, che l’acidificazione è diminuita.
Come è noto l’inquinamento atmosferico è un problema di non facile risoluzione dal momento che non si limita mediante controlli su scala nazionale. Infatti, il 70%
degli ossidi di azoto e il 47% di ammoniaca emessi in Italia vengono trasportati oltre le frontiere nazionali, andando a depositarsi oltre i nostri confini. Per contro il 30%
degli ossidi di azoto e il 12% dell’ammoniaca che interagisce sul nostro territorio provengono da altri paesi (Stime EMEP 1997: Programma di cooperazione per il monitoraggio e la valutazione della trasmissione a lunga distanza di inquinanti atmosferici in Europa).
Le indagini sullo stato di salute dei boschi effettuate
dal CONECOFOR (vedi § Reti di monitoraggio coordinate dal Corpo Forestale dello Stato) hanno messo in evidenza una maggiore defoliazione delle chiome delle latifoglie rispetto alle conifere. Tra le conifere di età minore
di 60 anni la specie più danneggiata è il pino silvestre,
mentre per individui di età superiore ai 60 anni i danni
maggiori si sono riscontrati in individui di abete bianco.
Tra le latifoglie giovani la roverella e il castagno hanno
presentato un numero considerevole di individui mediamente defoliati, mentre per individui di maggiore età la
specie più danneggiata risulta essere il faggio.
Fig. 3.22 - Emissioni di NOx da processi
energetici in alcuni paesi dell’Unione
europea. (Fonte: Agenzia Europea
dell’Ambiente, 2001) (ENEA, 2001,
modificato).
128 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
SPECIE ESOTICHE
[Riccardo Scalera, Laura Celesti Grapow]
In molte parti del mondo, una delle principali cause
di perdita della biodiversità è rappresentata dalla introduzione, al seguito dell’uomo, di un crescente numero di
specie al di fuori del loro areale originario (REJMANEK,
1995). Le specie introdotte, dette anche “esotiche” o “aliene”, sono in Italia tra i fattori maggiormente responsabili dell’estinzione di molte specie. Inoltre possono causare ingenti danni economici, sanitari e socio-culturali che
necessariamente si riflettono su tutta la società. Non tutte le specie introdotte sono dannose, al contrario molte
di esse sono di grande utilità, come ad esempio numerose piante che costituiscono oggi la base alimentare di gran
parte della popolazione mondiale (HOYT, 1992). In generale, la maggioranza delle specie non riesce a superare
la serie di barriere presenti (riproduttive, ambientali) e a
stabilirsi in nuovi territori. Tuttavia una piccola parte di
esse, indicate con il termine “invasive” (RICHARDSON et
al., 2000), riesce ad affermarsi e a diffondersi in modo tale da diventare una minaccia alla persistenza dei taxa autoctoni e quindi alla biodiversità. Ciò nonostante, le problematiche scaturite dalle cosiddette “invasioni biologiche”, come viene comunemente indicata la diffusione delle specie esotiche, sono state spesso trascurate o sottovalutate anche negli ambienti scientifico-accademici: basti
ricordare che in un passato non troppo lontano sono esistite addirittura delle società specializzate nell’acclimatazione di specie esotiche! Solo negli ultimi anni stiamo assistendo a una crescente attenzione da parte dell’intera
comunità scientifica e del mondo politico-istituzionale.
Attualmente le invasioni sono considerate, dopo la distruzione degli habitat, uno dei principali fattori di perdita della biodiversità nella biosfera (HURKA 2002). L’articolo 8h della CBD, dedicato alle specie esotiche, evidenzia l’importanza di un’attenta valutazione delle entità introdotte ed esprime la necessità della prevenzione, del controllo e della rimozione di quelle specie ritenute dannose.
Un elemento prioritario nella gestione delle invasioni consiste quindi nella conoscenza delle singole specie, del loro
ruolo attuale e delle loro potenzialità invasive.
Una prima risposta a questa esigenza venne negli anni ’80 dalla commissione “Scientific Committee on Problems of the Environment” (SCOPE), una rete di esperti
fondata nel 1969 all’interno del Consiglio Internazionale per la Scienza (International Council for Science – ICSU) a cui aderiscono 38 istituzioni scientifiche nazionali e consigli di ricerca e 22 unioni scientifiche interna-
zionali che evidenziò l’impatto delle specie invasive sugli ecosistemi (DRAKE et al., 1989).
Più di recente il Global Invasive Species Program (GISP),
istituito nel 1997 da parte dello SCOPE, del Centro Internazionale per l’Agricoltura e le scienze Biologiche (CAB
International – CABI) e dall’IUCN e parzialmente finanziato dall’UNEP (GISP PHASE I), ha rivolto l’attenzione all’identificazione e al controllo delle specie più problematiche (MOONEY, 1999). Nel dettaglio, il programma ha lo scopo di elaborare una strategia globale in risposta alle minacce poste dalle specie esotiche invasive (Invasive Alien Species – IAS), e di fornire un supporto tecnico e scientifico per l’implementazione dell’art. 8 sopracitato. Il GISP è costituito da un team di esperti in conservazione delle risorse naturali, fra cui biologi, economisti, politici e manager, che lavorano con la finalità di fornire agli organismi locali, nazionali e internazionali strategie a lungo termine e strumenti per il controllo delle invasioni. Attualmente sono parti istituzionali del programma (GISP PHASE II): il CABI, lo IUCN, lo SCOPE, la
CBD, l’istituto nazionale del Sudafrica per la biodiversità (South African National Biodiversity Institute – SANBI), il programma Working for Water (WfW), la campagna antincendi Ukuvuka Fire Stop, l’UNEP, il gruppo di
specialisti per le specie invasive (Invasive Species Specialist
Group – ISSG) della commissione per la salvaguardia delle specie (Species Survival Commission – SSC) dell’IUCN,
il progetto DIVERSITAS and International Programme of
Biodiversity Science e l’organizzazione australiana per la ricerca scientifica e industriale (Australia’s Commonwealth
Scientific and Industrial Research Organisation – CSIRO).
È stata infine adottata dal Consiglio d’Europa, in occasione del 23° incontro del Comitato Permanente della Convenzione di Berna (Strasburgo, dicembre 2003), una Strategia Europea sulle Specie Aliene Invasive (Rec. N.99/2003).
Le introduzioni non sono un fenomeno recente; le loro origini risalgono addirittura alla preistoria. Per questo
motivo talvolta potrebbe risultare assai difficile, se non addirittura impossibile, stabilire se una determinata specie è
giunta in una certa regione per cause naturali o al seguito
dell’uomo. Un caso tipico è quello dell’Istrice (Hystrix cristata), una specie la cui presenza in Italia è da alcuni studiosi considerata autoctona, mentre altri ritengono che sia
stata introdotta in epoca storica dai Romani. Certo è che
negli ultimi anni la continua traslocazione di specie, che
ormai coinvolge un’infinità di organismi animali e vegetali in ogni parte del pianeta, sta assumendo proporzioni
davvero inquietanti, soprattutto a causa della crescente liberalizzazione del mercato. I principali fattori che sotten-
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 129
dono alle introduzioni infatti, per quanto intenzionali o
accidentali, sono riconducibili al turismo e al commercio
internazionale, legati a tutta una serie di attività produttive quali ad esempio l’agricoltura e l’allevamento a scopo
alimentare e industriale, ma anche al collezionismo e al
mercato degli animali da compagnia. Inoltre molti mezzi
di comunicazione rappresentano degli ottimi vettori per
specie di ogni genere. Così come i ratti utilizzano da secoli gli scafi delle imbarcazioni per colonizzare ogni angolo del pianeta, un’infinità di organismi marini si lasciano
trasportare da un oceano all’altro attraverso le acque di zavorra nelle cisterne delle navi. Poi ci sono una molteplicità di vertebrati e invertebrati che, a prescindere dalle dimensioni, riescono a sfruttare efficacemente un passaggio
nelle stive degli aerei e nei container.
Le implicazioni ecologiche delle invasioni sono di primaria importanza e coinvolgono l’intera biosfera, dagli
habitat acquatici alle terre emerse. Già ELTON (1958), uno
dei fondatori dell’Ecologia, sosteneva che l’introduzione
di organismi viventi all’esterno delle aree in cui si sono
evoluti può causare alterazioni permanenti a tutti i livelli di organizzazione ecologica. Anche se la presenza di
nuove specie sembra aumentare la biodiversità su scala locale, essa può compromettere gli equilibri all’interno di
un sistema e portare al declino e alla scomparsa di alcuni
taxa su scala mondiale. Le specie alloctone possono agire sia direttamente, per competizione, che indirettamente, interferendo nei rapporti interspecifici tra i componenti di una comunità e modificando gli equilibri preesistenti negli ecosistemi. Un ulteriore rischio consiste nelle interazioni genetiche tra piante introdotte e native (ibridazione), che in alcuni casi può minacciare la persistenza di specie rare (RHYMER e SIMBERLOFF, 1996).
Non tutte le specie oggetto di introduzioni diventano
invasive. Secondo una regola empirica infatti solo una su
dieci riesce a insediarsi in maniera stabile e di queste generalmente non più di una su dieci finisce per costituire
un problema per le comunità autoctone. La componente faunistica e vegetazionale di origine esotica può essere
assai variabile nello spazio e nel tempo, in quanto è soggetta a un notevole dinamismo dettato dal successo di alcune specie a fronte della scomparsa di altre.
Secondo recenti ricerche mirate a fare il punto sulla situazione nel nostro paese, il numero di entità esotiche presenti in Italia è piuttosto elevato. Il quadro faunistico conta infatti alcune centinaia di specie non native in circolazione nell’ambiente naturale. Tra queste ne sono state identificate almeno 60 di vertebrati, di cui ben il 40% rappresentato da pesci d’acqua dolce (tabella 3.5). Si tratta però
Mammiferi
Crocidura russula (Crocidura rossiccia)
Lepus capensis (Lepre sarda)
Sylvilagus floridanus (Minilepre)
Oryctolagus cuniculus (Coniglio selvatico)
Sciurus carolinensis (Scoiattolo grigio)
Tamia sibiricus (Tamia siberiano)
Callosciurus finlaysonii (Scoiattolo siamese)
Myocastor coypus (Nutria)
Rattus norvegicus (Surmolotto)
Rattus rattus (Ratto nero)
Mus musculus (Topolino domestico)
Ondatra zibethicus (Topo muschiato)
Hystrix cristata (Istrice)
Mustela vison (Visone americano)
Dama dama (Daino)
Ovis ammon musimon (Muflone)
Uccelli
Threskiornis aethiopicus (Ibis sacro)
Cygnus olor (Cigno reale)
Colinus virginianus (Colino della Virginia)
Phasianus colchicus (Fagiano comune)
Alectoris barbara (Pernice sarda)
Alectoris chukar (Coturnice orientale)
Francolinus francolinus (Francolino comune)
Francolinus erckelii (Francolino di Erckel)
Amazona aestiva (Amazzone fronte blu)
Myiopsitta monachus (Pappagallo monaco)
Psittacula krameri (Parrocchetto dal collare)
Amandava amandava (Bengalino comune)
Paradoxornis alphonsianus (Becco a cono golacenerina)
Rettili
Trachemys scripta elegans (Testuggine dalle guance rosse)
Mauremys caspita (Mauremide caspita)
Testudo graeca (Testuggine greca)
Testudo marginata (Testuggine marginata)
Chamaeleo chamaeleon (Camaleonte comune)
Coluber hippocrepis (Colubro ferro di cavallo)
Anfibi
Rana catesbeiana (Rana toro)
Pesci
Acipenser transmontanus (Storione bianco)
Cyprinus carpio (Carpa)
Carassius carassius (Carassio)
Abramis brama (Abramide)
Pseudorasbora parva (Pseudorasbora)
Rodeus amarus (Rodeo amaro)
Rutilus rutilus (Rutilo)
Naso sp. (Naso)
Ictalurus melas (Pesce gatto)
Ictalurus punctatus (Pesce gatto punteggiato)
Ictalurus nebulosus (Pesce gatto nebuloso)
Silurus glanis (Siluro)
Salvelinus fontinalis (Salmerino di fonte)
Oncorhynchus mykiss (Trota iridea)
Coregonus sp. (Coregone)
Coregonus macrophthalmus (Bondella)
Lota lota (Bottatrice)
Gambusia affinis (Gambusia)
Lampris regius (Pesce re)
Micropterus salmoides (Persico trota)
Lepomis gibbosus (Persico sole)
Perca fluviatilis (Persico reale)
Stizostedion lucioperca (Sandra)
Gymnocephalus cernuus (Acerina)
Tabella 3.5 - Elenco delle specie di vertebrati introdotte in Italia.
130 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
delle sole entità naturalizzate, quelle cioè con popolazioni
in grado di sostenersi autonomamente senza supporto da
parte dell’uomo. Se considerassimo anche le specie semplicemente acclimatate o avvistate solo occasionalmente in
natura come conseguenza di pochi esemplari fuggiti dalla
cattività (pertanto con popolazioni potenzialmente in grado di naturalizzarsi o suscettibili di estinzione locale) il numero di specie esotiche in Italia sarebbe ben più alto: è questo il motivo per cui talvolta i dati riportati in letteratura
non concordano. Peraltro è possibile che non tutti gli studiosi siano d’accordo sulla presunta alloctonia di entità che
potrebbero esser state introdotte nell’antichità, soprattutto qualora gli indizi storici o paleontologici siano scarsi o
addirittura assenti. Anche ciò contribuisce a diversificare le
stime presentate in lavori diversi.
Alle introduzioni propriamente dette bisogna aggiungere un altro lungo elenco di specie: quelle oggetto di traslocazione faunistica. Si tratta in questo caso di specie che
sono state oggetto di immissione da una parte all’altra del
nostro paese. Un esempio tipico è quello della lepre europea (Lepus europeus), una specie che originariamente in
Italia era limitata alle regioni settentrionali e centrali, che
è stata oggetto di numerose immissioni a scopo venatorio
anche in Italia centro-meridionale e in Sicilia, dove è presente la lepre appenninica (Lepus corsicanus), un endemi-
smo particolarmente vulnerabile nei confronti di questo
genere di interventi. Un caso particolare di traslocazioni
faunistiche è quello delle isole interessate da introduzioni
di specie originarie della penisola. Pensiamo alla Sardegna,
dove si ritiene che tutte le specie di mammiferi presenti
siano di origine alloctona. La situazione può assumere in
questo contesto dei connotati assai allarmanti, considerato che in tutto il mondo, nei sistemi insulari, le introduzioni di specie esotiche sono ritenute la principale causa
di estinzione in assoluto per la specie native.
Nella maggior parte dei casi purtroppo le gravi conseguenze delle introduzioni non sono immediatamente percepibili. Quando comunque una specie esotica si è ormai
insediata e comincia a rappresentare una minaccia pressante per l’ambiente, per le attività produttive o per la salute dell’uomo, allora può essere necessario prendere in
considerazione delle azioni di controllo o eradicazione,
strategie che però sono per loro natura esposte al
consenso/dissenso popolare a seconda delle delicate questioni di ordine etico e utilitaristico che entrano in gioco.
Questo limite è stato ben evidenziato in Italia nel caso del
tentativo di eradicazione dello scoiattolo americano (Sciurus carolinensis), una specie potenzialmente pericolosa per
la sopravvivenza dello scoiattolo rosso (Sciurus vulgaris) e
in grado di procurare seri danni alle coltivazioni.
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 131
FAUNA
[Marzio Zapparoli2]
Al momento non è disponibile un elenco ragionato
delle specie animali non indigene in Italia, esistono solo
sintesi parziali relative soprattutto agli artropodi di interesse economico e ai vertebrati. Le note che seguono si
basano sulle checklist delle specie della fauna italiana (MINELLI et al., 1993-1995), su alcune delle suddette sintesi
(PELLIZZARI e DALLA MONTÀ, 1997; ANDREOTTI et al.,
2001; SCALERA, 2001) e su singoli lavori specifici.
Riguardo alla fauna terrestre, tra nematodi, molluschi
gasteropodi, artropodi e vertebrati, è possibile stimare, indicativamente e per difetto, la presenza nel nostro Paese
di almeno 450 specie accidentalmente o intenzionalmente introdotte, buona parte delle quali compresa nella classe degli insetti. In alcuni casi si tratta di specie di antica
introduzione, spesso antropofile e perciò oramai cosmopolite, ad es. i roditori commensali dell’uomo o gli insetti delle derrate. Si tratta in ogni caso di una componente
limitata, ancorché di grande interesse applicativo. Maggiore è invece il numero delle specie introdotte in epoche
più recenti. Tra gli insetti fitofagi di interesse agrario e forestale, ad esempio, le specie introdotte con il commercio tra il 1945 e il 1995 sono 115; di queste, circa il 76%
2
Con il contributo di Gilberto Gandolfi (pesci d’acqua dolce), Marco Oliverio (molluschi marini), Simona Bussotti, Paolo Guidetti e
Marino Vacchi (pesci marini), Anna Occhipinti (specie esotiche dell’ambiente marino).
è rappresentato da omotteri sternorrinchi (figura 3.23).
Quasi l’80% risulta acclimatata. Molte specie sono legate a piante ornamentali e alcune hanno iniziato la loro
espansione in Europa proprio a partire da focolai italiani
(Corythuca ciliata, Parectopa robiniella, Metcalfa pruinosa). Tra il 1945 e il 1964 le specie introdotte sono state
13, 0.6 all’anno. Nel 1965-74, questo quoziente sale a
1.8 e nel 1975-95 giunge a ben 4.2 specie/anno. La tendenza all’aumento non è certo destinata a rallentare, basti pensare che negli ultimi tre anni sono almeno una ventina i casi pubblicati di insetti di nuova introduzione. La
maggior parte dei fitofagi passivamente insediatisi nel periodo 1945-95 è di origine paleartica e neartica (17% Wpaleartica, 10% E-paleartica, 27% neartica), il 16% neotropicale, il 14% afrotropicale, l’8% australoasiatica e il
7% orientale.
Molti casi di acclimatazione sono noti anche tra gli insetti utilizzati nella lotta biologica, alcuni anche appositamente allevati. Altresì preoccupanti per il loro impatto
sanitario sono le introduzioni di specie in grado di trasmettere agenti patogeni alla fauna locale o all’uomo o di
costituire serbatoi epidemici per patogeni altrimenti occasionali.
Le problematiche e gli esempi appena riportati interessano soprattutto ecosistemi urbani e agro-ecosistemi,
numerosi sono tuttavia gli episodi documentati anche
in ambienti naturali. Si possono ricordare il coleottero
carabide SE-europeo Carabus montivagus, la cui presenza nelle Alpi centrali è probabilmente dovuta a movimenti militari occorsi durante la Grande Guerra. Dal
Fig. 3.23 - Ripartizione per ordini
degli insetti di interesse agrario e
forestale introdotti in Italia dal
1945 al 1995 (PELLIZZARI e DALLA
MONTÀ, 1997).
132 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
a
b
Fig. 3.24 - Cacyreus marshalli, lepidottero sudafricano della famiglia
dei Licenidi il cui bruco si sviluppa su piante dei generi Geranium e
Pelargonium, introdotto in Italia alla fine degli anni ’90 del XX secolo
(foto di A. Zilli) (a: fronte; b: retro).
1965 è presente in N-Italia il gasteropode polmonato
W-europeo Arion lusitanicus, attualmente in espansione. Nel 1995 è giunto l’imenottero sfecide di origine indiana Sceliphron curvatum. Tra i macrolepidotteri acclimatati si possono ricordare i classici esempi dei saturnidi di origine asiatica Antheraea yamamai e Samia cynthia, entrambe deliberatamente introdotte nella seconda metà dell’Ottocento, e il licenide sudafricano Cacyreus marshalli (figura 3.24), giunto accidentalmente in
Italia a partire dalla fine del ventesimo secolo. Alcune
specie sono state oggetto di transfaunazioni, soprattutto dal continente alla Sardegna, come il coleottero meloide Mylabris variabilis introdotto nel 1946 per la lotta alle cavallette e oggi presente anche in Corsica. Introduzioni e transfaunazioni hanno interessato anche gli
ambienti ipogei, ad esempio nel caso del coleottero colevide cavernicolo Bathysciola derosasi, acclimatato dagli anni ‘50 in una grotta del Lazio.
Sia i ripopolamenti ittici, sia l’acquaristica hanno contribuito all’inquinamento faunistico dei nostri ambienti acquatici mediante il rilascio intenzionale od occasionale di specie esotiche di molluschi. Così, negli ultimi
anni, in Italia, come in altri paesi europei, si è assistito
non solo alla diffusione negli ambienti naturali di diverse specie estranee, sia di gasteropodi (Potamopyrgus antipodarum, Physa acuta, Helisoma duryi, ecc.) che di bivalvi (Anodonta woodiana, Dreisseina polymorpha, ecc.),
ma anche alla transfaunazione di alcune specie autoctone (Viviparus ater, Emmericia patula, ecc.) da un distretto geografico all’altro.
Paragonato agli invertebrati, il numero di vertebrati
terrestri non indigeni è sicuramente basso (36 specie),
il loro impatto sulle cenosi locali è tuttavia altrettanto
importante (figura 3.25). Come per gli insetti fitofagi,
la maggior parte dei vertebrati terrestri introdotti è rappresentata da specie paleartiche e neartiche (rispettivamente 48% e 19%), seguono le specie orientali (14%),
le afrotropicali (11%) e le neotropicali (8%). Tra gli anfibi l’unica specie certamente non indigena è Rana catesbeiana, neartica, introdotta a scopo alimentare negli
anni ‘30. Al Nord questa specie è forse in competizione con Pelobates fuscus, anuro indigeno di particolare
pregio naturalistico.
I rettili introdotti sono almeno sei, di questi la specie
più problematica è Trachemys scripta, neartica, introdotta negli anni ‘80. Di grande diffusione come “animale da
compagnia” e frequentemente abbandonata negli ambienti naturali e nelle aree urbane, si ritiene che questa
specie possa competere con Emys orbicularis, l’unica testuggine indigena italiana, attualmente in forte declino
Fig. 3.25 - Composizione percentuale della componente non indigena
(in verde, parte superiore) nelle classi di vertebrati terrestri in Italia.
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 133
Gipeto
Falco cuculo
Colino della Virginia
Pavoncella
Parrocchetto dal collare
Parrocchetto monaco
Cuculo dal ciuffo
Allocco degli Urali
Rondine rossiccia
Cesena
Bengalino comune
Gypaetus barbatus
Falco vespertinus
Colinus virginianus
Vanellus vanellus
Psittacula krameri
Myiopsitta monachus
Clamator glandarius
Strix uralensis
Hirundo daurica
Turdus pilaris
Amandava amandava
decennio e origine
località
1990 - reintroduzione
1990 - immigrazione
1980 - introduzione
1950 - immigrazione
1970 - introduzione
1980 - introduzione
1960 - immigrazione
1990 - immigrazione
1960 - immigrazione
1960 - immigrazione
1990 - introduzione
P.N. Stelvio (versante lombardo)
provincia di Parma
Lombardia, Piemonte
provincia di Venezia
Genova (Liguria)
Genova (Liguria)
Toscana, Sardegna
provincia di Udine
Gargano (Puglia)
Trentino-Alto Adige
Molise, Lazio, Veneto ecc.
coppie
(status anno 2000)
2?
20 ca.
4000-6000
600-1000
30-80
30-70
meno di 10
meno di 10
15-25
5000-10000
100-500
Tabella 3.6 - Nuove specie di uccelli nidificanti in Italia (specie non acquatiche immigrate, introdotte o reintrodotte nella seconda metà del XX secolo).
per l’alterazione dei corpi idrici. La testuggine marginata (Testudo marginata) è un endemismo della Grecia meridionale, che presenta popolazioni anche in Sardegna risalenti a introduzioni assai antiche.
Il numero di specie di uccelli esotici osservate in Italia è molto elevato (110), ma solo una dozzina sono quelle naturalizzate o acclimatate (tabella 3.6). Di esse circa
la metà è costituita da fasianidi, introdotte a scopo venatorio; le altre sono in gran parte utilizzate a scopo ricreativo. Tra le poche specie che potrebbero avere un impatto negativo sull’ambiente sono il cigno reale (Cygnus
olor), la cui attività alimentare può alterare le fitocenosi
acquatiche, il fagiano (Phasianus colchicus), potenziale
competitore di galliformi autoctoni, e gli psittaciformi
Myopsitta monachus e Psittacula krameri, serbatoi naturali di psittacosi.
Per quanto riguarda i mammiferi, le specie non indigene sono 16, per la maggior parte roditori (tabella 3.7).
In alcuni casi si tratta di antiche introduzioni, accidentali (Rattus rattus, R. norvegicus, Mus domesticus, Crocidura
russula), o a scopo venatorio (Lepus capensis, Oryctolagus
SCIURIDI
Scoiattolo grigio
Sciurus carolinensis
Scoiattolo variabile
Tamia siberiano
Callosciurus finlaysonii
Tamia sibiricus
MICROTIDI
Ondatra o
Topo muschiato
MIOCASTORIDI
Nutria
cuniculus, Dama dama, Ovis orientalis) (tabella 3.8). Particolarmente preoccupante è la presenza dello scoiattolo
grigio (Sciurus carolinensis), sciuride neartico del quale sono state introdotte poche coppie a scopo amatoriale in
Italia NW tra il 1948 e il 1994. La specie è oggi diffusa
soprattutto nelle provincie di Torino e Cuneo, da dove si
ritiene altamente probabile l’espansione verso le Alpi, con
gravissima minaccia per la sopravvivenza dello scoiattolo
rosso (S. vulgaris); la specie inoltre arreca danni alle colture specializzate (nocciolo) e al patrimonio selvicolturale. A scopo amatoriale, negli anni ‘80 sono stati introdotti anche lo scoiattolo variabile (Callosciurus finlaysonii),
indocinese, localizzato solo ad Acqui Terme (AL), e il tamia (Tamia sibiricus), E-paleartico, in località del Nord e
del centro. Entrambe le specie sono in espansione; il rischio che C. finlaysonii arrechi danno alle cenosi forestali e alle attività selvicolturali è elevato; il tamia non sembra produrre interferenze negative. A scopo venatorio negli anni ‘60 è stato introdotto il minilepre (Sylvivagus floridanus), lagomorfo americano che potrebbe entrare in
competizione con i lagomorfi autoctoni.
introdotto dagli Stati Uniti già alla metà del secolo scorso, la popolazione
piemontese è in fase di rapida espansione
specie asiatica introdotta negli anni ’80 presso Acqui Terme
specie asiatica introdotta in diverse aree del nord Italia, una popolazione
lungo il tratto bellunese del Piave presenta maggiori potenzialità di ampliamento
Ondatra zibethicus
introdotto in Europa nella prima metà del XX secolo, attualmente in espansione
Myocastor corpus
la naturalizzazione è avvenuta nella seconda metà del secolo scorso e ha portato
a una rapida colonizzazione dei bacini idrografici di gran parte dell’Italia
Tabella 3.7 - Eventi storici della introduzione o immigrazione spontanea da altre aree di introduzione in Europa di alcuni taxa di Roditori.
134 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
SUIDI
Cinghiale
Sus scrofa
la divergenza genetica tra la pretesa sottospecie maremmana originaria (S. s. majori) e
quella europea (S. s. scrofa) introdotta è ridotta; la popolazione sarda sembrerebbe
aver avuto origine da forme domesticate
CERVIDI
Cervo
Cervus elaphus
Daino
Dama dama
Capriolo
Capreolus capreolus
popolazioni autoctone solo nel Bosco della Mesola (Ferrara) (C. e. elaphus) e in Sardegna
(C. e. corsicanus)
introdotta già nel Neolitico, ma vi sono ipotesi di presenza della specie in Italia già sul finire
dell’ultima glaciazione
popolazioni autoctone della ssp. C. c. italicus sono sopravvissute solo in ambiti geografici
isolati (Provincia di Siena, Castelporziano, Gargano e Orsomarso in Calabria)
BOVIDI
Muflone
Capra di
Montecristo
Ovis [orientalis]
musimon
Capra aegagrus
derivato probabilmente da pecore in fase iniziale di domesticazione, il muflone sardo
è oggi considerato da diversi autori una sottospecie di O. orientalis
popolazione derivata da una antica introduzione di forme semidomestiche di egagro asiatico,
successivamente interessata da ulteriori immissioni di capre domestiche
Tabella 3.8 - Eventi storici della introduzione o immigrazione spontanea da altre aree di introduzione in Europa di alcuni Ungulati.
Tra l’inizio del ‘900 e gli anni ‘20 sono stati introdotti
in Europa come animali da pelliccia: l’ondatra (Ondatra
zibethicus), neartica, e la nutria (Myocastor coypus), neotropicale; tipici di ambienti umidi, questi roditori sono oggi
acclimatati e in espansione. In Italia, l’ondatra è presente
nel NE, recentemente colonizzato dall’E-Europa. La nutria è presente nella Pianura Padana, lungo la costa tirrenica e quella adriatica; popolazioni isolate sono note nel
NE, nel S, in Sicilia e in Sardegna. Soprattutto la nutria è
responsabile di gravi alterazioni agli ecosistemi ripariali,
provocando la scomparsa della vegetazione e della fauna
associata; sono altresì noti danni alla stabilità degli argini
e agli agro-ecosistemi adiacenti. Come animale da pelliccia è stato introdotto in Europa dagli anni ‘50 il visone
americano (Mustela vison). In Italia questa specie è localizzata nel NE e nel centro dove è presente l’unico nucleo
stabile. Questo mustelide può essere un competitore della lontra (Lutra lutra) e della puzzola (Mustela putorius),
può minacciare uccelli e micromammiferi e arrecare danni alla zootecnia e all’ittiocoltura. In futuro, si ritiene probabile la colonizzazione del nostro Paese da parte del cane procione (Nyctereutes procyonoides), canide E-paleartico, introdotto in E-Europa come animale da pelliccia negli anni ‘30-’50 e da qui in fase di attiva espansione.
Nel complesso delle acque interne italiane risultano
oggi introdotte e in gran parte acclimatate moltissime specie di pesci provenienti da svariate parti del mondo. Tra
queste, la carpa è certamente quella di più antica introduzione. Per alcune altre, come la bottatrice, il pigo e il
persico, è stata supposta, ma non provata, l’introduzione
in epoca medioevale. Introduzioni successive hanno iniziato ad essere svolte a partire dalla metà del XIX secolo
e si sono protratte fino al 1970, con specie di provenien-
za europea come il lavarello e il luccioperca o Nord-americana come la trota iridea, il salmerino di fonte, il pesce
gatto, il persico sole, il persico trota e la gambusia.
Con una impressionante progressione, negli ultimi trenta anni sono poi comparse in Italia altre specie di varia
provenienza: dall’Europa centrale e orientale la bondella,
il siluro (Silurus glanis), l’acerina (Gymnocephalus cernuus),
il misgurno (Misgurnus fossilis) e una nutrita serie di ciprinidi danubiani e illirici; dall’Asia orientale la pseudorasbora (Pseudorasbora parva), la carpa erbivora (Ctenopharyngodon idellus), la carpa testa grossa (Hypophthalmichthys molitrix) e la carpa argento (H. nobilis); dall’Africa la tilapia (Tilapia sp.); dal Nord America il pesce gatto punteggiato (Ictalurus punctatus), dal Sud America il
pesce re. Diverse altre specie sono state segnalate in acque italiane, ma ancora non si hanno prove della loro acclimatazione. Nei bacini del distretto Padano-Veneto si
ha oggi una continua evoluzione dei popolamenti, alla
comparsa di nuove specie introdotte corrisponde una contrazione delle popolazioni di specie indigene e, in certi
casi, anche di specie alloctone precedentemente diffuse.
Le introduzioni più antiche avevano motivazioni economiche, per incentivare la pesca professionale o l’allevamento. Con il passare del tempo gradualmente si sono
sovrapposti interessi derivati dalla pesca ricreativa, oggi
divenuti preminenti.
La colpevole leggerezza con cui sono immesse nelle nostre acque specie provenienti da oltre confine ha causato
danni irreparabili. Nella grande maggioranza dei casi l’effetto dell’introduzione di una specie estranea è deleteria
per il delicato equilibrio dell’ecosistema. Essendo poi i nostri ecosistemi acquatici in condizioni generalmente piuttosto precarie, l’insediamento di nuove specie procura dan-
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 135
ni che rischiano di peggiorare ulteriormente la situazione,
provocando fenomeni di competizione e rendendo sempre più probabile l’estinzione di specie indigene.
Una ventina di specie di molluschi viventi lungo le nostre coste sono di origine alloctona, l’1,4% della malacofauna italiana. Tre di esse sono indicate come invasori lessepsiani (immigrati dal Mar Rosso nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez): il piccolo mitilide Brachidontes pharaonis e i due nudibranchi Bursatella leachi e Chromodoris quadricolor. Tre specie di bivalvi eduli (Tapes philippinarum, Crassostrea gigas e Saccostrea cucullata), sono
fuoriuscite accidentalmente da impianti per l’acquacoltura o da aree lagunari limitate entro le quali non è stato
ovviamente possibile confinarle. Nel caso della vongola
del Sud-Est asiatico (Tapes philippinarum), dato l’alto valore commerciale della specie, questa è stata ampiamente introdotta nella maggior parte delle lagune italiane, soprattutto nel Nord Adriatico, dove ha successivamente
dato luogo a popolazioni naturali. L’invasività delle popolazioni naturalizzate rappresenta un problema per la
biodiversità autoctona, in particolare per la vongola verace nostrana (Tapes decussatus) oramai pressoché soppiantata dalla specie aliena. Le restanti specie aliene sono di
evidente apporto antropico accidentale. Nel caso ad esempio dei due mitilidi Musculista senhousia e Xenostrobus securis, si paventano gravi alterazioni delle comunità lagunari con seri danni alla biodiversità. In tutti i casi sono
pressoché sconosciuti i rischi a vari livelli per le comunità autoctone in termini sia di competizione per le risorse
con specie nostrane, sia di introduzione di patogeni (virus, batteri e micosi) o parassiti.
Le cause dell’introduzione di nuove specie di pesci marini in Mediterraneo possono essere antropiche o naturali (anche se spesso il confine tra le due categorie è labile
o difficile da stabilire). Le specie che fuoriescono dagli acquari e dagli impianti di acquacoltura ricadono nella prima categoria. Uova e larve di specie ittiche possono essere anche trasportate per mezzo delle acque di zavorra delle navi. Allo stesso modo, navi con carene particolarmente “sporche”, cioè ricoperte da cospicue incrostazioni, possono costituire un vettore di trasporto per esemplari giovanili e adulti di forme ittiche bentiche di piccole dimensioni. Simili meccanismi di introduzione passiva sono stati per esempio ipotizzati per il Pomacentride tropicale indo-pacifico (Abudefduf vaigiensis; figura 3.26) segnalato
nel Golfo di Napoli e, più recentemente, in mar Ligure
o per la cernia lessepsiana Epinephelus coioides rinvenuta
in Nord Adriatico. Lo stesso si dica per il Mugilide Mugil soiuy, introdotto in Mar Nero dalle coste Asiatiche
Orientali (Russia, Cina e Corea) per l’acquacoltura e il
cui ingresso in Mediterraneo è ormai ritenuto prossimo
date le ampie capacità di adattamento tipiche dei Mugilidi. Tale caso pone l’attenzione su un aspetto di cui si dovrà tener conto nel momento in cui vi saranno proposte
per l’uso di specie ittiche alloctone ai fini dell’acquacoltura in Mediterraneo.
Fig. 3.26 - Esemplari di Abudefduf vaigiensis (Foto di R. Fenner).
Sino al 1869 l’introduzione di specie alloctone era essenzialmente dovuta agli ingressi di origine atlantica. Solo dopo l’apertura del canale di Suez fu possibile l’invasione anche di specie di origine indo-pacifica. Più di una
dozzina di queste sono diventate così abbondanti da essere anche sfruttate commercialmente. Tra le circa 90 specie ittiche alloctone in Mediterraneo, soltanto un esiguo
numero (3 specie) è di origine atlantico-boreale (ad affinità per le acque fredde), mentre la quasi totalità (87 specie) è di origine indopacifica e atlantico-tropicale (a maggiore affinità per le acque calde).
La cosiddetta ‘tropicalizzazione’ del Mediterraneo, che
implica la comparsa ed espansione di specie termofile all’interno del bacino, potrebbe spiegare il fatto che gran
parte (oltre il 90%) delle specie non native in questo ma-
136 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
re siano termofile. Ciò suggerisce che cambiamenti climatici come il riscaldamento delle acque possano essere
alla base del successo delle specie ittiche alloctone ad affinità per le acque calde nel bacino del Mediterraneo.
La scoperta di specie non indigene è, anche nei mari
italiani, un fenomeno sempre più frequente. Il numero
di specie ittiche alloctone fino ad ora segnalato nei mari
italiani è di 17 di cui 3 elasmobranchi. Tra esse, ve ne sono alcune che possono ritenersi visitatrici occasionali delle nostre acque (“specie vagabonde”). Ad esempio, i tre
squali riportati più avanti in tabella 3.9 appartengono a
questo gruppo di specie alloctone. Di tutte e tre le specie, infatti, si conoscono singoli ritrovamenti per i nostri
mari: Sphyrna mokarran (figura 3.27) nel Golfo di Genova, Rhizoprionodon acutus nel Golfo di Taranto e una recente segnalazione di Galeocerdo cuvieri (figura 3.28) nelle acque dello Stretto di Messina. Per i pesci ossei si possono citare gli esempi di Halosaurus owenii (di origine
atlantica, ritrovato prima sulle coste algerine e poi su quelle della Sardegna Meridionale), Beryx splendens (distribuito ubiquitariamente in quasi tutti gli oceani, ma segnalato con certezza solo una volta in Mediterraneo lungo le
coste del mar Ligure) e del marlin Makaira indica (introdottosi probabilmente da Gibilterra e catturato in Mar
Ligure). Altre specie extra-mediterranee segnalate recentemente, invece, hanno rapidamente costituito popolazioni in grado di riprodursi e mantenersi anche nelle nostre acque. L’esempio più importante è costituito dal tetraodontiforme Sphoeroides pachygaster. Proveniente dall’Atlantico tropicale, fu segnalato per la prima volta in
Mediterraneo nel 1981 nelle acque delle Isole Baleari e
nel 1985 in Sardegna e nel Canale di Sicilia. Negli anni
successivi si ebbero numerosi ritrovamenti in Mediterra-
neo, dapprima nel bacino occidentale, successivamente
in Adriatico, Ionio e in tutto il resto del bacino di Levante. Attualmente, nel Canale di Sicilia la specie costituisce
una cattura abituale, priva di valore commerciale, delle
imbarcazioni a strascico. A proposito di questa specie, sono stati ritrovati riferimenti scientifici che documentano
la sua presenza in Mediterraneo già nel XVI secolo. È possibile dunque ipotizzare che per molte specie atlantiche
si siano create già in passato situazioni ambientali e climatiche favorevoli per penetrare in Mediterraneo e mantenere questo ampliamento di areale in modo temporaneo o definitivo.
Solo di recente l’interesse degli ecologi marini per il fenomeno delle invasioni di specie alloctone è aumentato
in relazione ad alcuni casi emblematici che stanno procurando danni ecologici ed economici di vasta portata:
ne sono un esempio quella del Mediterraneo da parte delle alghe tropicali del genere Caulerpa, l’invasione del Mar
Nero da parte dello ctenoforo Mnemiopsis leidyi e del gasteropode Rapana venosa.
L’introduzione di specie alloctone è un fenomeno antico, ma ha avuto una grande accelerazione negli anni più
recenti; una lista di tutti gli animali marini non indigeni
segnalati a ottobre 2002 nelle acque italiane è costituita
da 79 invertebrati e 18 pesci (tabella 3.9).
Gli invertebrati introdotti in acque italiane appartengono agli anellidi (20 specie), ai crostacei (20), ai molluschi (28) e ad altri gruppi (11). Per alcune delle specie riportate si tratta di singole segnalazioni che necessitano di
verifica e conferma. Nella lista non sono comprese specie
introdotte prima del 1950, quali ad esempio Ficopomatus enigmaticus, Hydroides dianthus, H. elegans, Balanus
eburneus, B. improvisus.
Fig. 3.27 - Esemplare di Sphyrna mokarran (Foto di F. Boero).
Fig. 3.28 - Esemplare di Galeocerdo cuvieri (Foto di J. Stafford).
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 137
CNIDARIA
Clytia hummelincki (Leloup, 1935)
Diadumene cincta Stephenson, 1925
Garveia franciscana (Torrey, 1902)
ANELLIDA
Amphicorina eimeri (Lagerhans, 1880)
Branchiomma luctuosum (Grube, 1869)
Desdemona ornata Banse, 1957
Dispio uncinata Hartman, 1951
Isolda pulchella Muller, 1858
Lumbrineris inflata Moore, 1911
Lysidice collaris Grube, 1870
Mediomastus capensis Day, 1961
Metasychis gotoi (Izuka, 1902)
Monticellina dorsobranchialis (Kirkegaard, 1959)
(=Tharyx heterochaeta Laubier, 1961)
Notomastus aberrans Day, 1963
Ophryotrocha japonica nomen nudum
Pileolaria berkeleyana (Rioja, 1942)
Protodorvillea egena (Ehlers, 1913)
Pseudofabriciola filamentosa (Day, 1963)
Questa caudicirra Hartman, 1966
Rhodine gracilior Tauber, 1879 (=Rhodine loveni)
Rullierinereis anoculata Cantone, 1982
Spirorbis marioni Caullery et Mesnil, 1897
Streblosoma hesslei (Day, 1955)
BRYOZOA
Arachnoidea protecta (Harmer, 1915)
Celleporella carolinensis Ryland, 1979
Electra tenella (Hinks, 1880)
Tricellaria inopinata (d’Hondt et Occhipinti Ambrogi, 1985)
PYCNOGONIDA
Ammothea hilgendorfi (Böhm, 1879)
Anoplodactylus californicus (Hall, 1912)
CRUSTACEA, COPEPODA
Acartia grani Sars, 1904
Acartia tonsa Dana, 1849
Pteriacartia josephinae Crisafi, 1974
CRUSTACEA, PERACARIDA
Paracerceis sculpta (Holmes, 1904)
Elasmopus pectenicrus (Bate, 1842)
Caprella scaura Templeton, 1836
CRUSTACEA, DECAPODA
Callinectes danae* Smith, 1869
Callinectes sapidus Rathbun, 1896
Calappa pelii Herklots,1851
Dromia (=Sternodromia) spinirostris* (Miers, 1881)
Dyspanopeus sayi (Smith, 1869)
Herbstia nitida Manning et Holthius, 1981
Heteropanope laevis* (Dana, 1852)
Marsupenaeus japonicus (Bate, 1888)
Menaethius monoceros * (Latreille, 1825)
Percnon gibbesi (H Milne Edwards, 1853)
Portunus pelagicus (Linnaeus, 1758)
Rhithropanopeus harrisii (Gould, 1841)
Scyllarus caparti* Holthuis, 1952
Thalamita gloriensis Crosnier, 1962
MOLLUSCA, BIVALVIA
Anadara inaequivalvis (Bruguière, 1789)
Anadara demiri (Piani, 1981)
Brachidontes pharaonis (Fisher, 1870)
Crassostrea gigas (Thunberg, 1793)
Eastonia rugosa* (Helbling, 1779)
Musculista senhousia (Bensor in Cantor, 1842)
Mya arenaria Linnaeus, 1758
Perna picta (Born, 1778)
Pinctada radiata (Leach, 1814)
Saccostrea cucullata (Born, 1778)
Tapes philippinarum (Adams et Reeve, 1850)
Xenostrobus securis (Lamarck, 1819)
MOLLUSCA, GASTROPODA
Aeolidiella indica* (Bergh, 1888)
Bursatella leachii De Blainville, 1817
Cerithium scabridum Philippi, 1848
Chromodoris quadricolor (Rueppell et Leuckart, 1828)
Crepidula fornicata (Linnaeus, 1758)
Cuthona perca* (Marcus, 1958)
Doris bertheloti* (d’Orbigny,1839 )
Haminoea callidegenita Gibson et Chia, 1989
Melibe fimbriata Alder e Hancock, 1864
Odostomia (Megastomia) cfr. sicula * Philippi, 1851
Polycera hedgepethi Marcus, 1964
Polycerella emertoni Verrill, 1881
Rapana venosa (Valenciennes, 1846)
Rissoina spirata* (Sowerby, 1820)
Sabia conica (= Hipponyx conicus) * (Schumacher, 1817)
Sclerodoris cfr. tuberculata *Eliot,1904
TUNICATA
Botrylloides violaceus Oka, 1927
Microcosmus exasperatus Heller, 1978
PISCES
Abudefduf vaigiensis (Quoy et Gaimard, 1825)
Berix splendens Lowe, 1834
Chaunax suttkusi Caruso, 1889
Diodon hystrix (Linnaeus, 1758)
Epinephelus coioides* (Hamilton, 1822)
Galeocerdo cuvieri (Peron et Le Sueur, 1822)
Makaira indica (Cuvier, 1832)
Pinguipes brasilianus Cuvier et Valenciennes, 1829
Pisodonophis semicinctus (Richardson, 1848)
Pomadasys stridens (Forsskål, 1775)
Pristis pectinata Latham, 1794
Rhizoprionodon acutus (Rüppell, 1837)
Seriola fasciata (Bloch, 1793)
Seriola carpenteri Mather, 1971
Sphoeroides pachygaster (Muller et Troschel, 1848)
Sphyrna mokarran (Rüppell, 1837)
Stephanolepis cfr. diaspros Fraser-Brunner, 1940
Synagrops japonicus (Doderlein, 1884)
Tabella 3.9 - Lista aggiornata a ottobre 2002 degli invertebrati e pesci marini alloctoni rinvenuti nelle acque italiane. (* = segnalazioni singole).
138 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 3.29 - Aree di origine delle specie alloctone segnalate nei mari
italiani.
Fig. 3.30 - Probabili modi introduzione delle specie alloctone segnalate
nei mari italiani.
L’Adriatico settentrionale rappresenta un’area ad alta incidenza di introduzioni: 17 specie sono segnalate solo in
questo mare e addirittura 9 soltanto in Laguna di Venezia
(l’idrozoo Garveia franciscana, il briozoo Celleporella carolinensis, il picnogonide Ammothea hilgendorfi, i crostacei
peracaridi Paracerceis sculpta, Elasmopus pectenicrus, Caprella scaura e il decapode Dyspanopeus sayi, il nudibranco Doris bertheloti e l’ascidiaceo coloniale Botrylloides violaceus).
Tra le specie di invertebrati introdotte nei mari italiani, circa il 25 è nativo dell’Oceano Atlantico, il 18% delle specie è originario dei Mari Giapponesi e dell’Indopacifico, il 18% del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, l’11%
dei mari tropicali ed equatoriali e infine il 14% dell’Oceano Pacifico. Non è possibile stabilire l’origine del 14%
degli invertebrati alloctoni (figura 3.29).
Per quanto riguarda le vie di introduzione, si ritiene
che il 29% delle specie sia stato trasportato per mezzo delle acque di zavorra delle navi e una buona percentuale
(19%) abbia raggiunto autonomamente le coste italiane
compiendo una lenta migrazione attraverso il Canale di
Suez (specie lessepsiane). L’acquacoltura (14% delle introduzioni), il trasporto sulle chiglie delle imbarcazioni
(fouling, 16%) e le introduzioni accidentali dovute alle
pratiche di acquariofilia (1% delle introduzioni) sembrerebbero avere un ruolo di secondaria importanza, rispetto alle acque di zavorra, nel trasporto degli invertebrati
alloctoni nel nostro Paese (figura 3.30).
Alcune specie introdotte volontariamente ormai da
diversi anni per scopi commerciali sono ben acclimatate nel nuovo ambiente. L’ostrica Crassostrea gigas e la
vongola Tapes philippinarum supportano una fiorente
attività di pesca nelle acque del Nord Adriatico. Il gasteropode asiatico Rapana venosa (figura 3.31), predatore di bivalvi, sebbene abbondante in alcune zone dell’Adriatico e in fase di espansione, non sembra almeno
per il momento aver causato evidente impatto ecologico ed economico. Recentemente oltre a R. venosa viene
seguita con preoccupazione la rapida espansione del bivalve indopacifico Anadara demiri, ritrovato nel 2000
in grande quantità lungo le coste dell’Adriatico centrale. Il briozoo Tricellaria inopinata (figura 3.32), giunto
agli inizi degli anni ‘80 in laguna di Venezia probabilmente insieme a prodotti destinati all’acquacoltura, ha
avuto una rapida espansione iniziale, occupando tutti i
settori della laguna, ad eccezione delle aree più dissalate e divenendo il briozoo più abbondante in tutte le aree
lagunari. Il granchio subtropicale Percnon gibbesi, segnalato per la prima volta in prossimità del litorale dell’isola di Linosa, si sta rapidamente espandendo verso altre
località siciliane tra cui Pantelleria, Ustica e lungo il litorale catanese e palermitano.
La maggior parte dei pesci alloctoni ritrovati in acque
italiane proviene dai mari tropicali atlantici (61%), mentre il 39% dall’area indopacifica. Nessuna specie risulta
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 139
Fig. 3.31 - Il muricide Rapana venosa è presente nelle acque del Nord
Adriatico dal 1974. Questa specie, originaria dei mari della Cina e del
Giappone, e introdotta in Mar Nero (1947) ed Adriatico (1973), è un
vorace predatore di bivalvi di interesse commerciale. La sua recente
introduzione involontaria (probabilmente dovuta alle acque di zavorra
delle grandi navi commerciali) in aree di particolare pregio per
l’allevamento e la pesca dei bivalvi (Baia di Chesapeake, USA; Rio de
la Plata, Uruguay; Baia di Quiberon, Francia) ha dato avvio a diverse
iniziative di studio a livello internazionale. La barra verticale bianca
indica 1 cm (foto di D. Savini, 2002).
originaria di acque fredde (Atlantico boreale). Un singolo individuo della cernia indopacifica Epinephelus coioides è stato raccolto vivo allo stadio giovanile nel Golfo di
Trieste; il suo riconoscimento è stato possibile solo quando l’esemplare ha raggiunto lo stadio adulto. I pesci pelagici di grosse dimensioni potrebbero aver raggiunto le
coste italiane passando dallo stretto di Gibilterra (66%)
e in minor numero dal Canale di Suez (6%), mentre alcuni pesci di dimensioni minori sarebbero stati introdotti dalle navi (28%). I dati sembrano indicare un flusso
crescente di immigranti dall’Atlantico (Stretto di Gibilterra) dovuto in primo luogo a variazioni climatiche: il
rapporto precipitazioni/evaporazione nel bacino Mediterraneo è deficitario e ciò crea correnti prevalenti in entrata da Gibilterra, inoltre si aggiunge l’effetto del riscaldamento globale che comporta l’aumento delle temperature superficiali delle acque e favorisce l’ingresso di specie ad affinità tropicale; infine, l’aumentato traffico marittimo gioca un ruolo tutt’altro che secondario nell’introduzione di vertebrati marini.
Il traffico navale commerciale e le pratiche di acquacoltura sono in crescita esponenziale ed è altamente pro-
Fig. 3.32 - Colonia del briozoo alloctono Tricellaria inopinata su Mytilus
galloprovincialis. T. inopinata è presente in Nord Adriatico (Laguna di
Venezia, 1982 e Laguna di Grado, 1990). Il briozoo, originario del
Nord Pacifico, è stato probabilmente introdotto in laguna di Venezia
associato a prodotti destinati all’acquacoltura ed è stato successivamente
diffuso sulle coste atlantiche, dalla Galizia alla Manica e al Mare del
Nord. La barra verticale bianca indica 1 cm (foto di D. Savini, 2003).
babile che anche il numero di introduzioni sia destinato
a crescere in tempi relativamente brevi. Un aspetto di fondamentale importanza per il controllo del fenomeno è il
riconoscimento immediato delle specie di nuova introduzione, capacità che richiede conoscenze tassonomiche
specialistiche, purtroppo non sempre valorizzate nell’attuale panorama scientifico.
140 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
FLORA
[Laura Celesti Grapow]
In Italia non esiste un rapporto aggiornato a scala nazionale sulla distribuzione della flora esotica e sull’impatto delle invasioni, ma già dall’inizio del 1900 sono stati
pubblicati numerosi elenchi di specie, censimenti a livello regionale o locale e studi sulla comparsa e la diffusione di singoli taxa (cfr. ad esempio BÉGUINOT e MAZZA,
1916; VIEGI et al., 1974, 1990; GENTILE, 1991). Le stime complessive più recenti, ottenute dalla banca dati della flora vascolare italiana (vedi § Piante vascolari), indicano la presenza di 751 specie alloctone, che rappresentano il 11% della flora d’Italia. Si tratta di valori molto inferiori rispetto ad altri paesi, ad esempio dell’Europa Centrale (CELESTI GRAPOW e BLASI, 1998): in Repubblica Ceca le specie vegetali esotiche costituiscono il 33% (PYŠEK,
2002), in Germania il 22% (KOWARIK, 2002), in Austria
il 26% (ESSL e RABITSCH, 2003). Inoltre sul nostro territorio le specie che realmente riescono a penetrare nelle
cenosi naturali e a minacciare i popolamenti autoctoni
sono relativamente poche, soprattutto se confrontate alla situazione che si riscontra nel Nuovo Mondo, in particolare in Australia, Nuova Zelanda e nelle isole Oceaniche (ad es. Hawaii). Nel Bacino Mediterraneo l’elevata biodiversità, la costante introduzione di nuove specie
e il lungo adattamento della flora all’impatto dell’uomo
hanno reso numerose comunità vegetali relativamente resistenti alle invasioni (cfr. ad es. DI CASTRI, 1990; NAVEH
e VERNET, 1991) e le specie introdotte rimangono per la
maggior parte confinate agli habitat antropizzati e alle
coltivazioni. Ciò nonostante esistono specie problematiche per le cenosi naturali, taxa in forte espansione e casi
di particolare gravità e, pertanto anche in Italia le invasioni costituiscono una minaccia alla conservazione della biodiversità.
Seguendo la terminologia più recente si definiscono alloctone (esotiche) le specie migrate al di fuori del loro
areale originario nel neolitico o post-neolitico tramite l’intervento deliberato o accidentale dell’uomo (RICHARDSON
et al., 2000). Le piante esotiche vengono quindi distinte
sulla base di tre criteri: le modalità di immigrazione, il
grado di naturalizzazione e il periodo storico di introduzione. In base al primo, le specie introdotte volontariamente dall’uomo, ad esempio a scopo alimentare od ornamentale e sfuggite alla coltura, si distinguono dalle avventizie, sopraggiunte in modo accidentale. Queste ultime, in gran parte erbacee, sono le più diffuse tra le specie infestanti, che creano ingenti danni alle colture e si
diffondono negli ambienti ruderali. Gli Amaranthus (Amaranthaceae) ad esempio, prevalentemente di origine americana, invadono velocemente i campi coltivati e abbandonati grazie alla rapida crescita vegetativa e alla produzione di un elevatissimo numero di semi dispersi dal vento. Una singola pianta di A. retroflexus può produrre fino
a 120.000 semi nel suo breve ciclo vitale. Un’altra erbacea annuale capace di produrre un elevatissimo numero
di semi è la Conyza canadensis (Asteraceae), originaria dell’America Settentrionale. Può raggiungere 3 metri di altezza e invadere campi, vigneti e orti nonché canali di irrigazione e terreni incolti. L’elevata resistenza di questa
specie costituisce un problema ecologico perché il suo
controllo può richiedere un massiccio uso di erbicidi.
L’acetosella gialla (Oxalis pes-caprae, Oxalidaceae), introdotta nel bacino Mediterraneo dal Sudafrica nel 1796, infesta oliveti, frutteti e giardini nell’Italia Mediterranea disperdendosi per mezzo di bulbilli prodotti dal fusto sotterraneo. Inoltre l’elevata concentrazione di ossalati nelle sue foglie, simili a quelle dei trifogli, può portare ad avvelenamento dei pascoli. Anche lo stramonio (Datura
stramonium, Solanaceae), nota come erba delle streghe o
del diavolo per le sue proprietà narcotiche, allucinogene
e sedative, è dotata di elevata tossicità e costituisce un pericolo per gli erbivori pascolanti.
Il grado di naturalizzazione costituisce una misura del
successo delle specie nel nuovo territorio e una stima della loro “invasività”. In base ad esso si distinguono le specie occasionali, che si riproducono per poche generazioni
ma non formano popolamenti stabili, le naturalizzate, in
grado di stabilirsi nella nuova area geografica indipendentemente dalle fonti di semi originarie e le invasive, la cui
rapida e incontrollata diffusione crea problemi ecologici
ed economici (PYŠEK, 1995). Queste ultime sono generalmente una percentuale molto bassa rispetto al totale delle specie introdotte. Tuttavia in alcuni casi, in assenza dei
competitori, degli erbivori e dei parassiti che ne limitano
le popolazioni nelle aree originarie, alcune specie possono
riprodursi molto rapidamente e competere direttamente
con le specie autoctone per le risorse ambientali: per la luce a livello epigeo, per l’acqua e i nutrienti a livello ipogeo. In realtà, più frequentemente che per interferenza diretta le piante invasive agiscono indirettamente, alterando gli equilibri degli ecosistemi, ad esempio modificando
i cicli dei nutrienti. È il caso della robinia (Robinia pseudoacacia, Fabaceae), la specie legnosa invasiva più diffusa
e più nota in Italia. Avvalendosi della simbiosi con batteri azotofissatori nei noduli radicali, tipica della famiglia
delle leguminose, questa specie può alterare il ciclo del-
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 141
l’azoto arricchendo il terreno a svantaggio di specie native adattate a suoli poveri. Originaria degli Stati Uniti NordOrientali la robinia è stata introdotta in Europa all’inizio
del 1600 e ampiamente coltivata per numerosi motivi: come specie ornamentale, per la presenza tra l’altro di fiori
profumati e vistosi, per la sua crescita rapida, per il legno
duro e per il robusto sistema di rizomi che ne ha permesso l’utilizzo per stabilizzare scarpate stradali e ferroviarie.
Rapidamente è sfuggita alla coltura e in Italia rappresenta un esempio di specie che non solo invade gli ambiti antropizzati ma si espande nelle cenosi naturali. Si tratta di
una competitiva-ruderale, la strategia di maggior successo tra le specie invasive, ossia capace di unire ad una forte competitività (rapida crescita, notevole sviluppo del sistema vegetativo e radicale) i caratteri della specie pioniera (capacità di colonizzare nuovi habitat, efficiente riproduzione e dispersione). Proprio per il suo carattere di specie pioniera, il taglio periodico effettuato allo scopo di limitarne la diffusione ne ha al contrario favorito a lungo la
propagazione. Tuttavia è noto che in numerosi casi, se non
ringiovaniti dai tagli, i popolamenti di robinia sono destinati a perdere il carattere dominante e a regredire nel tempo (BERTACCHI et al., 2001).
Assieme alla robinia, una delle principali specie legnose invasive in Italia è l’albero del paradiso (Ailanthus altissima), appartenente alla famiglia tropicale delle Simaroubaceae. È un albero caducifoglio con foglie composte
che raggiunge anche i 25 metri di altezza. Originario della Cina Centrale è stato introdotto in tutto l’emisfero settentrionale intorno alla metà del 1700, prevalentemente
piantato lungo i viali cittadini per la sua tolleranza all’ambiente urbano. È dotato di notevole vigore sia nella propagazione vegetativa che da seme. Dioico (i fiori maschili e quelli femminili sono portati su diversi individui), una
singola pianta può produrre anche un milione di semi
l’anno, dispersi dal vento e dall’acqua. Per la capacità di
adattarsi a un ampio spettro di condizioni ambientali e
per le efficienti modalità di dispersione, l’ailanto si è rapidamente diffuso nelle aree temperato-calde di Europa,
Stati Uniti e Australia dove costituisce stand monospecifici che competono con la vegetazione nativa. In Italia è
quasi esclusivamente limitato alle aree ruderali e di intenso impatto antropico e generalmente non penetra nella
vegetazione naturale, ma in ambito urbano è una specie
problematica perché le radici danneggiano le fondamenta delle costruzioni e i manufatti archeologici.
Anche il Prunus serotina è una specie legnosa in espansione. È una pianta forestale originaria delle regioni orientali del Nord America, introdotta in Europa nel XVII se-
colo a scopo ornamentale. Coltivata inizialmente solo in
parchi e giardini, verso la fine del XIX secolo fu utilizzata in opere di riforestazione e iniziò a spontaneizzarsi all’interno delle stesse foreste. Tuttavia, anziché formare alberi ad alto fusto utilizzabili per il legno, il P. serotina cominciò a sviluppare bassi cespuglieti e iniziò ad invadere
diversi tipi di foreste, modificando le condizioni ecologiche degli strati arbustivi ed erbacei inferiori e impedendo il rinnovamento delle specie autoctone con la formazione di popolamenti molto densi. Attualmente, numerosi paesi europei sono interessati dall’invasione di questa specie, che può germinare e crescere in una vasta gamma di condizioni ambientali ed ha una efficiente modalità di propagazione, raggiungendo presto la maturità riproduttiva e producendo un gran numero di frutti.
Fra le specie invasive in rapida espansione merita un cenno il Senecio inaequidens, asteracea di origine sudafricana,
che a causa della efficiente dispersione dei semi provvisti di
pappo e quindi trasportati dal vento, si sta diffondendo in
tutta Italia, prevalentemente lungo i margini stradali.
Per quanto riguarda il terzo criterio, il periodo di immigrazione, le specie di antica introduzione, dette archeofite, vengono spesso considerate parte integrante della flora locale. Ne è un esempio la canna domestica (Arundo
donax, Poaceae) la più grande graminacea nel Mediterraneo, alta sino a 6 metri. Di origine asiatica, è stata introdotta per costituire barriere e per utilizzare i culmi, simili al bamboo. Grazie alla presenza di rizomi sotterranei,
forma popolamenti densi presso le sponde dei canali o
lungo strade e reti ferroviarie ed è attualmente diffusa nelle aree tropicali e subtropicali di tutto il mondo.
Le piante introdotte dopo il 1492 sono dette neofite.
Tale data, con la scoperta dell’America, rappresenta l’inizio del periodo di colonialismo europeo che permise a numerosissime specie di superare le barriere biogeografiche
tra il continente Eurasiatico, quello Americano, l’Australia e le aree più distanti dell’Africa. In realtà sono state soprattutto le specie trasportate dai coloni europei dal Vecchio Mondo ad aver causato i maggiori danni alla biodiversità nelle nuove terre (DI CASTRI, 1989), in particolar
modo nelle isole, ma in maniera minore è avvenuto anche il flusso inverso. Non bisogna dimenticare che l’importazione di specie alloctone in Europa ha riguardato
per la maggior parte piante di grande importanza per lo
sviluppo delle società umane, basti pensare alle numerose specie alimentari di origine americana quali la patata
(Solanum tuberosum) e il pomodoro (Lycopersicon esculentum). Solo in alcuni casi le alloctone hanno assunto nei
nuovi territori caratteri di invasività, particolarmente se
142 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
sopraggiunte in regioni biogeografiche con caratteristiche
simili a quelle di origine. Questa corrispondenza tra il clima delle aree originarie e quelle colonizzate fa sì che in
Italia esistano due gruppi distinti di specie esotiche, le più
mesofile stabilizzate nella regione fitoclimatica temperata e quelle più termofile nella regione mediterranea.
Nell’Italia temperato-continentale prevalgono le entità originarie delle regioni temperate del nordamerica (ad
es. Ambrosia artemisiifolia, Solidago canadensis, S. gigantea) e dell’Asia (ad es. Reynoutria japonica, Impatiens glandulifera, I. parviflora) fortemente invasive anche in Europa Centrale e Settentrionale. La presenza di Ambrosia artemisiifolia, asteracea di origine nordamericana, è stata segnalata per la prima volta in Italia nel 1902 (PIGNATTI,
1982). Attualmente è in forte espansione, ampiamente
diffusa nelle aree urbane e negli ambienti antropizzati in
Europa Centrale. Il problema creato da questa specie consiste nella forte allergenicità dei suoi granuli pollinici che
possono anche causare fenomeni di sensibilizzazione verso altre composite. La Reynoutria japonica (Polygonaceae)
è un’erbacea perenne con crescita vigorosa nativa del Giappone, Taiwan e della Cina Settentrionale. Al di fuori del
suo areale originario è un’infestante aggressiva che invade gli habitat ripariali e antropizzati formando popolamenti impenetrabili lungo corsi d’acqua, bordi di vie e
ferrovie. Introdotta in Europa a metà del ‘700 a scopo ornamentale, per fissare le scarpate sabbiose e come foraggio, si è diffusa in Europa Centrale e Settentrionale, negli Stati Uniti, in Canada, in Nuova Zelanda e in parti
dell’Australia. In Italia Settentrionale è una specie in espansione, frequente nella Pianura Padana occidentale e Nordoccidentale e nelle valli prealpine (FRATTINI, 1987). È
un’eccellente competitrice, poiché il fogliame forma rapidamente chiome dense che ombreggiano le aree sottostanti impedendo la germinazione delle specie indigene.
È inoltre capace di colonizzare habitat pionieri. Grazie alla sua elevata plasticità ecologica è in grado di adattarsi a
un’ampia varietà di fattori ambientali, tollerare pH estremi, suoli con alti contenuti di sali e inquinati da metalli
pesanti. Anche in questa specie il ruolo dei semi, idrocori e anemocori, nella dispersione è secondario e la pianta
si diffonde prevalentemente tramite rizomi sotterranei.
Sono sufficienti alcuni frammenti di rizoma nel terreno
per il suo sviluppo e ciò ne rende particolarmente facile
la diffusione e costoso il controllo. Indirettamente inoltre causa ingenti danni ambientali per l’uso degli erbicidi utilizzati per debellarla.
Un’altra specie asiatica in rapida espansione in Italia
Settentrionale è l’Impatiens parviflora (Balsaminaceae).
Diffusa dapprima come specie ruderale, alla fine del 1800
era già divenuta una delle più comuni specie invasive nelle foreste del Centroeuropa. Anche la congenerica I. glandulifera è di origine asiatica; introdotta all’inizio del XIX
secolo, si sta espandendo negli habitat ripariali in Europa Settentrionale e Occidentale. La sua potenzialità invasiva è dovuta alla efficiente dispersione idrocora dei semi
e alla capacità, nonostante si tratti di una specie annuale,
di competere con robuste specie perenni native.
Nella regione mediterranea prevalgono di converso gli
elementi termofili di origine Neotropicale (ad es. Agave
americana - figura 3.33, Nicotiana glauca – figura 3.34,
Opuntia ficus-barbarica) o provenienti da altre regioni a
clima mediterraneo (Carpobrotus acinaciformis – figura
3.35, C. edulis, Oxalis pes-caprae) che costituiscono spesso un problema in aree bioclimaticamente affini come la
California o l’Australia Sud-Occidentale. È il caso dei
Carpobrotus (Aizoaceae), provenienti dalla Regione del
Capo in Sudafrica, la cui invasione costituisce attualmente una delle principali minacce alle cenosi indigene e agli
ecosistemi costieri nel Bacino Mediterraneo. C. acinaciformis e C. edulis sono stati introdotti nel Mediterraneo
Fig. 3.33 - Agave americana, Torre Astura - Lazio (foto di L. Rosati).
PERDITA DELLA BIODIVERSITÀ • 143
Fig. 3.34 - Nicotiana tabacum (foto di L. Rosati).
Fig. 3.35 - Carpobrotus acinaciformis, Torre Astura - Lazio
(foto di L. Rosati).
e in California all’inizio del XIX secolo come specie ornamentali e per la stabilizzazione di dune e scarpate. Si
riproducono sia da seme che vegetativamente tramite il
fusto radicante ai nodi. Tollerano una grande varietà di
condizioni di umidità e nutrienti, diffondendosi sia sulle dune che sulle coste rocciose. A causa del portamento
prostrato, formano densi tappeti monospecifici e competono direttamente con le altre specie per la luce, i nutrienti, l’acqua e lo spazio. La loro rapida espansione può
produrre estinzioni a livello locale e costituire un pericolo per la biodiversità in presenza di endemismi o specie rare, come sta avvenendo sulle isole Baleari per alcune specie endemiche del genere Limonium. Accumulando sali nelle foglie succulente, i Carpobrotus alterano il
pH del suolo e possono diminuire la disponibilità dei
nutrienti. Inoltre, determinando l’accumulo di materiale organico sulle dune sabbiose, possono favorire lo stabilirsi di altre specie estranee su un substrato altrimenti
di difficile colonizzazione.
Il fico d’India (Opuntia ficus-barbarica) è una cactacea
originaria del Messico, introdotta in Europa da Cristoforo Colombo nel 1500. Coltivata per i frutti commestibili e come siepe, questa specie robusta e spinosa invade aree
ruderali e abbandonate, pascoli e garighe. È attualmente
una specie problematica in California, Sudafrica, Hawaii e in alcune aree dell’Europa Meridionale, dove sostituisce la vegetazione naturale e limita l’accesso ad alcuni siti, formando barriere impenetrabili.
Da questa breve sintesi sulla flora invasiva in Italia si
rileva che ai fini della conservazione della biodiversità esi-
ste una differenza fondamentale tra le specie che rimangono limitate agli habitat antropizzati e quelle che invadono le cenosi naturali. Generalmente gli ambienti più
interessati dalle invasioni sono infatti quelli più fortemente influenzati dall’uomo quali coltivazioni, centri abitati,
zone industriali e vie di trasporto (CELESTI GRAPOW et
al., 2004). Il disturbo antropico crea nicchie ecologiche
vuote e instaura stadi precoci della successione, particolarmente favorevoli alla colonizzazione da parte di nuove
specie. Nelle città inoltre il processo di invasione è favorito dalle maggiori possibilità di dispersione. È per questi motivi che la componente esotica costituisce una percentuale consistente della flora dei centri abitati, che si
aggira intorno al 40% in Europa Centrale e circa al 20%
in Italia (CELESTI GRAPOW et al., 2001; CELESTI GRAPOW
e BLASI, 2002).
Fra gli ambienti naturali più soggetti alle invasioni prevalgono gli habitat ripariali, quelli planiziali, quelli costieri e quelli acquatici. Ne è un esempio l’invasione dell’alga verde di origine tropicale Caulerpa taxifolia (Chlorophyta, Ulvophycea) che costituisce una grave minaccia
alla biodiversità nel mare Mediterraneo. La caulerpa, di
origine tropicale, è stata utilizzata a partire dagli anni ‘70
come pianta decorativa per gli acquari tropicali. I primi
popolamenti spontanei furono osservati nel 1984 in un
tratto costiero nei pressi di Monaco. Occupavano un’area
di appena un metro quadrato e probabilmente derivavano da individui sfuggiti dal Museo Oceanografico di Monaco. Cinque anni più tardi la colonia copriva più di un
ettaro e alla fine del 2001 erano interessati dalla infesta-
144 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
zione 6 paesi (Germania, Francia, Italia, Spagna, Croazia e Tunisia), più di 130 kmq di fondale e 190 km di
costa. In Italia il primo rinvenimento risale al 1992, ma
da allora la specie si è rapidamente diffusa e attualmente copre circa 10.000 ettari. Contrariamente a ciò che
accade nel Mediterraneo, nelle acque tropicali originarie
questa alga non forma mai colonie dense. La riproduzione vegetativa è vigorosa e la dispersione è facilitata dal
trasporto a grandi distanze di frammenti del tallo per
mezzo delle ancore delle navi e delle reti da pesca; tali
frammenti tendono ad affondare, costituendo nuove colonie dove si posano. L’efficiente propagazione è inoltre
dovuta al contenuto di tossine che la rendono poco appetibile e alla capacità di formare popolamenti fitti su
un’ampia varietà di substrati e a profondità molto variabili. L’introduzione della caulerpa ha causato conseguenze ecologiche gravi in modo particolare alle praterie dell’endemica pianta vascolare Posidonia oceanica in quanto l’alga riduce la penetrazione della luce e altera le funzioni di questo fragile e importante ecosistema. Inoltre
minaccia la diversità di numerose comunità marine fra
cui le cenosi di alghe e l’ittiofauna.
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Flora, Fauna, Vegetazione e Habitat •149
FLORA E VEGETAZIONE
FLORA
PIANTE VASCOLARI
[Giovanna Abbate, Alessandro Alessandrini, Fabio Conti]
Per piante vascolari, o Tracheofite, si intendono tutti
gli organismi vegetali provvisti di veri tessuti conduttori.
Rappresentano il più grande gruppo di piante verdi che
costituisce la vegetazione dominante su gran parte della
superficie emersa del nostro pianeta. Appartengono a questa grande categoria i Licopodi, gli Equiseti, le Felci e le
Spermatofite o Fanerogame, ovvero le piante a seme; queste ultime a loro volta comprendono le Cicadee, il Ginko, le Conifere, le Gnetofite e il grande gruppo delle Angiosperme, meglio note come piante a fiore. Tradizionalmente le Angiosperme venivano suddivise in Dicotiledoni e Monocotiledoni; di recente gli studi sistematici hanno portato a un’ulteriore ripartizione delle Dicotiledoni
in gruppi più arcaici (Paleoerbe e Magnoliide) ed Eudicotiledoni.
zione più approfondita del territorio, dalla descrizione
di nuove entità (spesso endemiche), dalla rivalutazione
di alcune entità, dall’ingresso di piante avventizie. Ciascuna flora generale, quindi, oltre a un suo proprio valore intrinseco, riveste anche un valore ‘di relazione’ rispetto al momento storico, alle flore precedenti e a quelle successive.
L’indagine floristica a scala regionale e locale, dopo
un periodo di relativa stasi, si è rivitalizzata soprattutto nell’ultimo ventennio (AA.VV., 1978-2004; POLDINI , 1991, LUCCHESE , 1995; ANZALONE , 1996; ALES SANDRINI e BRANCHETTI, 1997; CONTI, 1998). Lo sviluppo parallelo delle tecnologie informatiche e le esigenze sempre più sentite di conoscenza e conservazione dell’ambiente in tutte le sue componenti, hanno favorito poi la pianificazione e strutturazione di molte
banche dati, a contenuto e scala assai differente. Ricordiamo a tale proposito le moderne Banche dati floristiche informatizzate realizzate per le Regioni Valle
d’Aosta (BOVIO et al., 2000) e Friuli-Venezia Giulia
(POLDINI et al., 2001).
La ricerca floristica in Italia
La banca dati della flora vascolare italiana1
Per flora vascolare si intende l’insieme di tutte le entità vascolari presenti in un determinato territorio. Per
quanto riguarda l’Italia le opere generali sulla flora vascolare sono relativamente poche: BERTOLONI (183354), PARLATORE (1848-1896), FIORI (1923-1929), ZANGHERI (1976) e, più recentemente, di PIGNATTI (1982).
Ciascuna opera assume un valore proprio in quanto registra lo stato delle conoscenze sulla flora del periodo
in cui è stata elaborata. Attraverso il confronto tra flore di periodi diversi è possibile rilevare modifiche nel
numero delle entità trattate, che possono derivare: da
una migliore conoscenza della sistematica, dall’esplora-
Questa banca dati ha il pregio di rappresentare il primo strumento informatico per un’analisi della diversità
floristica italiana. Non rappresenta un momento di revisione critica di tipo tassonomico, ma un’importante
raccolta della grande mole di conoscenze floristiche acquisite negli ultimi venti anni.
1
Realizzata nel triennio 1999-2002 dal Dipartimento di Biologia
Vegetale dell’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’ su
finanziamento del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio,
Direzione per la Protezione della Natura.
150 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.1 - Maschera di interrogazione della Banca dati sulla lista
nazionale.
Obiettivo primario di questo progetto è stato quindi
di riunire in modo organico e coerente tutte le informazioni floristiche disponibili per il territorio italiano, rendendole fruibili agli utenti più diversi. La collaborazione
di numerosi floristi delle diverse regioni italiane, che hanno fornito molti dati in via di pubblicazione, ha garantito un aggiornamento pressoché totale.
Nello specifico i dati utili alla redazione della lista delle specie vascolari presenti in Italia sono stati estrapolati
dalle tre fonti principali attualmente disponibili: Flora
d’Italia (PIGNATTI, 1982), Med- Checklist (GREUTER et
al., 1984, 1986, 1989), Flora Europaea (TUTIN et al.,
1968-1980, 1993). Sono state poi aggiunte segnalazioni
successive rinvenute nella letteratura floristica e fornite
da referenti regionali e tematici.
Per l’aggiornamento nomenclaturale sono stati utilizzati lavori monografici e Flore di altri Paesi europei, editi di recente.
I campi compilati hanno interessato: Criticità tassonomica e/o nomenclaturale; Distribuzione; Endemicità;
Esoticità; Categorie IUCN; Tutela regionale; Status internazionale.
La Banca dati può essere interrogata mediante un programma ad hoc, che consente un doppio accesso: uno ai
dati della lista nazionale, l’altro ai dati delle singole liste
redatte per le 20 regioni amministrative italiane. Nei due
casi è possibile visualizzare la gran parte delle informazioni contenute nella Banca dati, come riportato nella scheda in figura 4.1 relativa a Taxus baccata L. (figura 4.2).
Per una descrizione più dettagliata della struttura e dei
contenuti della Banca dati si rimanda ad ABBATE et al.
(2001). In questa sede vengono utilizzati e discussi i dati riferiti esclusivamente alle entità spontanee e alle av-
Fig. 4.2 - Taxus baccata L., una Gimnosperma ampiamente diffusa in
Italia, come si evince dalla schermata della banca dati in figura 4.1
(foto di E. Giovi).
ventizie naturalizzate, il cui ciclo vitale si svolga completamente e da diversi anni in natura.
La consistenza della flora vascolare italiana
La flora vascolare italiana, in relazione a quanto riportato nella Banca dati recentemente aggiornata2, conta 6.711 specie ripartite in 196 famiglie e 1.267 generi.
La tabella 4.1 fornisce i valori per le quattro categorie
sistematiche principali: Pteridofite, Gimnosperme, Angiosperme Dicotiledoni e Angiosperme Monocotiledoni. Le famiglie più rappresentate risultano ovviamente
appartenere alle Angiosperme e sono nell’ordine: Compositae (1.028 specie), Leguminosae (445), Rosaceae (334),
Cruciferae (297) e Caryophyllaceae (289) nell’ambito delle Dicotiledoni; Graminaceae (535), Cyperaceae (193) e
Orchidaceae (124) nella seconda classe (tabella 4.2).
I valori computati a scala regionale evidenziano un
patrimonio floristico considerevole per un gran numePTERIDOFITE
GIMNOSPERME
ANGIOSPERME DICOTILEDONI
ANGIOSPERME MONOCOTILEDONI
Totale
nº specie
124
28
5.230
1.329
6.711
Tabella 4.1 - Numero delle specie della flora vascolare italiana, ripartite
nelle quattro categorie sistematiche principali.
2
I dati contenuti nella banca dati sono stati continuamentete aggiornati presso il Dipartimento di Biologia vegetale dell’Università “La
Sapienza” di Roma, anche dopo la fine della convenzione con il
MATT, fino al febbraio 2005.
FLORA E VEGETAZIONE • 151
nº specie
ANGIOSPERME DICOTILEDONI
Compositae
Leguminosae
Rosaceae
Cruciferae
Caryophyllaceae
Umbelliferae
Scrophulariaceae
Labiatae
Ranunculaceae
Plumbaginaceae
ANGIOSPERME MONOCOTILEDONI
Graminaceae
Cyperaceae
Orchidaceae
1.028
445
334
297
289
238
220
203
165
131
535
193
124
Tabella 4.2 - Famiglie più rappresentate nella flora vascolare italiana
e loro consistenza in specie.
ro di regioni italiane. Spiccano tra queste quelle a maggiore variabilità ambientale, ovvero Piemonte (3.521),
Toscana (3.435), Friuli-Venezia Giulia (3.335), Veneto
(3.295), Abruzzo (3.232), Lazio (3.228) e Lombardia
(3.220) (figura 4.3).
Comparando tali valori con quanto riportato da PIGNATTI (1982; 1994), emerge un forte incremento numerico delle famiglie, dei generi e delle specie sia a scala nazionale che regionale: il numero delle specie è aumentato di ben 1.112 unità, quello dei generi di 21 e
quello delle famiglie di 16. Tali variazioni, come già detto, non sono sempre imputabili alla scoperta di entità
nuove per la scienza o al rinvenimento entro i confini
nazionali o regionali di piante già note per territori limitrofi. La spiegazione sta spesso nell’ingressione sempre più massiccia di specie esotiche naturalizzate, provenienti da Paesi lontani per azione dell’uomo, e nel-
l’approfondimento degli studi tassonomici su diversi
gruppi che ha portato a nuove interpretazioni della variabilità e quindi a una differente attribuzione di questa
al livello di specie.
Per quanto riguarda le specie esotiche naturalizzate, allo stato attuale ne sono state censite 751, pari all’11,2%
della flora totale; una gran parte di queste sono di origine americana (GENTILE, 1991). Se si pensa che nel 1974
VIEGI et al. avevano censito 527 specie entrate a far parte stabilmente della flora italiana, si può affermare come
negli ultimi decenni ‘l’inquinameno floristico’, valutabile in questi termini, stia assumendo in Italia dimensioni
non trascurabili.
Relativamente al numero complessivo dei generi trattati nelle principali opere di Flora Italiana, l’analisi storica effettuata di recente da ALESSANDRINI e PALAZZINI CERQUETELLA (2001) evidenzia come, a partire dall’inizio dell’Ottocento, si possa individuare una chiara tendenza all’incremento che deriva essenzialmente dai seguenti motivi: istituzione di nuovi generi, riabilitazione di generi
trascurati, rinvenimento di generi nuovi per la flora italiana. Si riportano in figura 4.4 le valutazioni numeriche,
aggiornate con i dati a nostra disposizione.
Nel futuro i valori per i diversi ranghi gerarchici saranno suscettibili di ulteriori variazioni via via che si acquisiranno nuovi dati soprattutto per le regioni ancora poco
indagate, quali ad esempio Basilicata e parte della Campania. Fondamentale sarà poi l’approfondimento di gruppi tassonomicamente critici, caratterizzati da una complessa biologia riproduttiva; ricordiamo ad esempio alcuni generi nell’ambito delle famiglie Rosaceae (Rosa, Rubus, Alchemilla) e Compositae (Centaurea, Hieracium), sui
quali sono già stati avviati alcuni studi. Da non sottovalutare poi i numerosi nodi di tipo nomenclaturale che dovranno ancora essere sciolti, comportando di conseguenza anche risvolti di tipo quantitativo.
Fig. 4.3 - Numero di specie
appartenenti a Pteridofite,
Gimnosperme, Angiosperme
Dicotiledoni, Angiosperme
Monocotiledoni, nelle 20
regioni italiane (sigle delle
regioni come in CONTI et al.,
1997).
152 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.4 - Numero di generi nelle
principali opere sulla flora italiana
(A L E S S A ND R I NI , P A L A Z Z INI
CERQUETELLA, 2001, aggiornato).
Le entità endemiche
In termini fitogeografici la flora vascolare italiana è riconducibile a nove corotipi principali, dove per corotipo
si intende un gruppo di entità con areali coincidenti (sensu PIGNATTI, 1982; tabella 4.3).
Sulla base delle valutazioni effettuate da ANZALDI et al.
(1988), al consistente contingente di Eurasiatiche (20,93%)
e di Stenomediterranee (16,65%) si affianca, di poco subordinato, l’insieme delle Endemiche, che si attesta nel
complesso sul 13,50%.
Per quanto lontano dai valori raggiunti nei Paesi a carattere insulare, il valore computato per l’Italia risulta abbastanza elevato; a questo contribuiscono essenzialmente gli endemiti alpini, quelli appenninici e i sardo-corsi.
In questa sede si riportano i dati aggiornati per l’Italia,
sia a scala nazionale che regionale, per una categoria comprendente solo le Endemiche in senso stretto e le Endemiche sardo-corse (figura 4.5). Non avendo tenuto conto delle entità subendemiche come invece fatto da ANZALDI et al. (l.c.), non è possibile fare delle comparazioni
numeriche con il valore sopra riportato.
Dall’analisi dei nostri dati emerge come il numero complessivo di endemiche, comprensivo anche delle entità di
rango subspecifico, sia pari a ben 1.021, di cui 767 specie e 281 sottospecie. A scala regionale le due regioni insulari Sicilia e Sardegna si attestano, come ci si poteva attendere, su valori molto alti, pari rispettivamente a 321 e
254 entità; seguono Calabria (205), Abruzzo (177), Lazio (164) e Basilicata (159). Le regioni dell’arco alpino,
ospitando entità più di tipo subendemico, mostrano in
genere valori contenuti.
Endemiche: specie esistenti soltanto in un territorio (area geografica, regione, nazione) oppure soltanto in una porzione di questo. Si dividono in paleoendemismi, di origine terziaria o più antica, e neoendemismi, di origine pleistocenica e post-glaciale.
Mediterranee: specie con areale centrato sul bacino del Mediterraneo. Al loro interno si distinguono le Stenomediterranee, presenti lungo
le coste e nelle aree più calde, le Eurimediterranee, che penetrano fino all’Europa centrale, e le Mediterraneo-montane, presenti sulle catene montuose mediterranee.
Eurasiatiche: specie diffuse nel continente eurasiatico. Comprendono specie sudeuropee-sudsiberiane, tipiche delle zone calde dell’Europa;
pontiche, presenti nell’Europa sud-orientale continentale (N del Mar Nero-Balcani), illiriche/anfiadriatiche: distribuite nei Balcani e lungo il versante adriatico della Penisola italiana; paleotemperate, caratteristiche delle zone temperate paleoatiche (Eurasia e N-Africa), eurasiatiche, presenti dall’Europa al Giappone, e turaniche, con areali centrati sul Medio-Oriente, Turchia, Asia interna steppica e desertica
(ma a volte anche Caucaso, Balcani e Mediterraneo).
Atlantiche: rappresentano l’elemento occidentale della nostra flora, con baricentro sulla costa atlantica. Si dividono in atlantiche (anfiatlantiche), tipiche delle zone dell’Europa occidentale a clima temperato-oceanico e mediterraneo-atlantiche, presenti nelle zone litorali
atlantiche e mediterranee.
Orofile S-Europee: specie montane e alpine dei rilievi dell’Europa meridionale (Pirenei, Alpi, Carpazi, Alpi Dinariche).
Boreali: specie limitate alle parti più fredde dell’Europa e del Nordamerica (presenti in Italia per lo più sulle Alpi). Si distinguono in artico-alpine, tipiche delle zone fredde circumartiche e alpine elevate, circumboreali, dietribuite nelle zone temperato-fredde oloartiche (Eurasia e Nord-America), e euro-siberiane, limitate alle zone temperato-fredde paleoartiche (Eurasia).
Gruppi ad ampia distribuzione: si tratta di specie presenti in tutte le zone del mondo, o almeno nella maggioranza di esse. Comprendono le specie cosmopolite, presenti in tutte le regioni biogeografiche, sub-cosmopolite, molto diffuse ma con importanti lacune (es. continenti o intere zone bioclimatiche), paleotropicali, diffuse nei Paesi della fascia tropicale dell’Africa e Asia, pantropicali, presenti nella fascia tropicale dell’Eurasia, dell’Africa e dell’America, e infine le aventizie e le esotiche naturalizzate, popolazioni temporanee o permanenti di specie di altre regioni biogeografiche.
Tabella 4.3 - Sintesi dei principali corotipi della Flora Italiana (da PIGNATTI, 1982).
FLORA E VEGETAZIONE • 153
Fig. 4.5 - Numero delle entità
endemiche (specie e sottospecie)
presenti nelle 20 regioni italiane (sigle
delle regioni come in CONTI et al.,
1997).
Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Abruzzo. Per valutare meglio la ricchezza floristica bisogna inoltre mettere in relazione il numero di entità presenti con la superficie del territorio regionale e tenere conto che in questi valori sono
comprese anche le entità esotiche naturalizzate.
Misurazioni oggettive della ricchezza floristica di un
territorio si basano invece sul numero di specie per unità di superficie, depurate dall’effetto ‘ampiezza dell’area’,
poiché tale rapporto diminuisce con l’aumentare della
Fig. 4.6 - Viola aethnensis Parl. subsp. messanensis (W. Becker) Merxm.
et Lippert, entità endemica dell’Appennino meridionale e della Sicilia
(foto di S. Bonacquisti).
La diversità tassonomica e la diversità floristica
È possibile effettuare delle prime valutazioni quantitative sul valore conservazionistico delle flore regionali utilizzando alcuni Indici di diversità tassonomica ampiamente collaudati (POLDINI, 1991; SELVI, 1998). Nello specifico gli Indici qui considerati sono basati sul rapporto percentuale tra numero di famiglie e numero di generi e tra
numero di generi e numero di specie; questi vengono ritenuti buoni indici di diversità perché sensibili alla presenza di taxa tra loro poco strettamente imparentati, quindi differenti per caratteristiche ecologiche.
Dall’analisi dei dati riportati in tabella 4.4, le regioni
a più elevata diversità tassonomica risultano essere la Puglia, l’Umbria, la Sardegna, il Molise, le Marche e l’Emilia-Romagna. Se si analizzano invece i soli valori assoluti
del numero di entità presenti (tabella 4.5), si può osservare come le regioni più ricche siano Piemonte, Toscana,
nº
famiglie
nº
generi
Valle d’Aosta
Piemonte
Lombardia
Trentino-Alto Adige
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Liguria
Emilia-Romagna
Toscana
Marche
Umbria
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
143
171
171
161
170
171
169
165
174
152
152
174
160
141
163
142
142
148
157
157
618
887
828
756
878
885
879
839
953
785
763
925
862
752
847
759
780
798
859
778
Italia
196
1.267
nº
nº famiglie/ nº generi/
specie nº generi nº specie
(%)
(%)
2.068
23,14
29,88
3.304
19,28
26,85
3.017
20,65
27,44
2.776
21,30
27,23
3.111
19,36
28,22
3.094
19,32
28,60
2.977
19,23
29,53
2.609
19,67
32,16
3.249
18,26
29,33
2.436
19,36
32,22
2.241
19,92
34,05
3.041
18,81
30,42
2.989
18,56
28,84
2.308
18,75
32,58
2.691
19,24
31,48
2.199
18,71
34,52
2.501
18,21
31,19
2.513
18,55
31,75
2.793
18,28
30,76
2.295
20,18
33,90
6.711
15,47
18,88
Tabella 4.4 - Indici di diversità tassonomica per le 20 regioni italiane.
154 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Valle d’Aosta
Piemonte
Lombardia
Trentino-Alto Adige
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Liguria
Emilia-Romagna
Toscana
Marche
Umbria
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Italia
superficie (km2)
nº entità
3.264
25.399
23.859
13.607
18.365
7.844
5.418
22.125
22.992
9.693
8.456
17.227
10.794
4.438
13.595
19.357
9.992
15.080
25.707
24.090
2.174
3.521
3.220
2.985
3.295
3.335
3.131
2.726
3.435
2.571
2.360
3.228
3.232
2.412
2.844
2.287
2.636
2.630
3.011
2.408
301.302
7.634
Tabella 4.5 - Numero di entità vascolari nelle 20 regioni italiane (fonte
dati di superficie: http://www.globalgeografia.com/italia/italia_sup.htm).
superficie. Valutazioni fatte dagli Autori citati hanno
dimostrato come le nazioni d’Europa ove si concentra
la maggiore diversità floristica siano nell’ordine l’Italia,
l’ex Jugoslavia e la Spagna (PIGNATTI, 1994; CRISTOFOLINI, 1998). Analogamente a quanto fatto per le regioni italiane in tabella 4.6 si riportano i dati relativi ai
paesi europei.
Le specie vulnerabili, endemiche e rare della flora vascolare italiana3
La pubblicazione del “Libro Rosso delle Piante d’Italia” (CONTI et al., 1992), con l’indicazione di quasi 500
piante (più dell’6% della flora vascolare) ritenute a rischio
di estinzione nel territorio italiano (LUCAS e SYNGE, 1978),
rappresentò una prima risposta nazionale alle esigenze di
carattere protezionistico e fu di stimolo alla conoscenza
della flora minacciata del nostro Paese.
Recentemente, il Database EDEN (Enhanced Database of ENdangered species)4(SBI, 2000) ha fornito, su
base bibliografica, ulteriori e più puntuali informazioni su distribuzione ed ecologia delle piante vascolari riportate nel Libro Rosso.
superficie (km2)
Albania
Svizzera
Austria
Portogallo
Ungheria
Bulgaria
ex Cecoslovacchia
Grecia
Romania
Isole Britanniche
Italia
ex Jugoslavia
Polonia
Norvegia
Finlandia
Germania
Svezia
Spagna
Francia
ex URSS europea
28.750
41.290
83.860
92.000
93.030
110.910
127.300
131.990
235.500
244.800
301.302
256.393
311.730
323.917
377.009
353.640
449.531
505.545
551.695
5.443.900
nº specie
3.200
3.100
3.350
2.850
2.600
3.600
3.050
4.150
3.600
2.400
6.711
5.075
2.350
1.500
1.350
3.050
1.700
5.200
5.000
4.450
Tabella 4.6 - Numero di specie di piante vascolari nei paesi europei
(CRISTOFOLINI, 1998; dati aggiornati per l’Italia secondo Banca dati,
2005).
Nel 1997 fu seguita la nuova versione delle ‘IUCN Red
List Categories’ (IUCN, 1994; RIZZOTTO, 1995) per la redazione delle “Liste Rosse Regionali delle Piante d’Italia”
(CONTI et al., 1997), altro importante testo, frutto della
collaborazione dei migliori floristi delle varie parti del Paese e oggi ancora utilizzato. In base alle liste regionali fu
ampliato e integrato l’elenco delle entità minacciate del
Libro Rosso che arrivò a un totale di 1.011 entità a rischio di estinzione a livello nazionale, il 13% circa della
flora vascolare italiana. La figura 4.7 riporta la loro ripartizione nelle seguenti categorie: EX=estinti; EW=estinti
in natura; CR=gravemente minacciati; EN=minacciati;
VU=vulnerabili; LR=a minor rischio; DD=dati insufficienti. Già dai dati riportati in figura emerge una componente, pari a circa il 2% di entità dell’elenco nazionale, di cui alla fine degli anni ‘90 non si avevano informazioni sufficienti.
3
4
Il sottocapitolo è stato curato Anna Scoppola e Claudia Caporali.
Convenzione tra il Ministero dell’Ambiente e la Società Botanica
Italiana sulle entità rare e in via di estinzione della flora italiana; nell’ambito dei progetti LIFE Natura LIFE92 NAT/IT/013100 e LIFE94 NAT/IT/001048.
FLORA E VEGETAZIONE • 155
Fig. 4.7 - Ripartizione percentuale della flora minacciata (1.011 entità)
nelle categorie IUCN.
Negli anni 2000-2005, parallelamente alla realizzazione della checklist della flora vascolare italiana (CONTI et
al., 2005) è stato eseguito un approfondito aggiornamento del quadro distributivo di un contingente di 1.165 entità vascolari della flora italiana altamente caratterizzanti
la flora del nostro Paese5. Tali entità sono state scelte principalmente in base a criteri di vulnerabilità (sensu IUCN,
1994), endemicità e rarità. Il numero di 1.165 entità risulta, infatti dall’insieme delle piante elencate nel Libro
Rosso del 1992, di quelle aggiunte nell’ampliamento nazionale del 1997, delle entità elencate nell’Allegato II della Direttiva Habitat presenti in Italia, di alcune entità endemiche ad areale ristretto tra quelle che la Società Botanica Italiana nel 1995 ha suggerito all’Unione europea
per l’inserimento in un eventuale ampliamento dell’Allegato II della Direttiva Habitat.
Su questo contingente di entità si sono concentrate le
ricerche di una fitta rete di collaboratori e specialisti, in
massima parte soci della Società Botanica Italiana, coordinati dall’Erbario dell’Università della Tuscia di Viterbo
(UTV), che con le loro conoscenze dettagliate e aggiornate hanno permesso l’archiviazione di più di 27.000 record ripartiti fra dati bibliografici provenienti da fonti attendibili e il più possibile recenti, dati d’erbario verificati uno a uno e dati di campagna inediti. La figura 4.10
mostra appunto la consistenza percentuale dei dati raccolti nelle varie regioni: la prevalenza dell’una o dell’altra
componente è da mettere in relazione con la presenza e
la disponibilità in una data regione di importanti strutture museali e biblioteche o di gruppi di ricerca particolarmente attivi sul territorio; alla situazione della Tosca5
Nell’ambito della convenzione “Completamento delle conoscenze
naturalistiche in Italia”, stipulata tra diversi Atenei, CNR e Ministero dell’Ambiente.
Fig. 4.8 - Dianthus rupicola Biv. s.s. (VU nel Libro Rosso nazionale)
in Calabria (foto di G. Spampinato).
Fig. 4.9 - Aurinia leucadea (Guss.) C. Koch (EN nel Libro Rosso
nazionale) in Puglia (foto di P. Medagli).
na o della Sardegna si contrappone ad esempio quella delle Marche o del Molise e quella dell’Emilia-Romagna.
I dati raccolti nell’ambito del progetto e parzialmente
sintetizzati nelle figure che seguono inducono ad alcune
interessanti considerazioni.
La figura 4.11 mostra ad esempio il numero di entità
calcolato in base alla loro distribuzione reale ottenuta con
i dati di questo aggiornamento e ripartite per regione: da
notare l’elevato numero di entità nelle grandi isole (per
lo più endemiche ad areale ristretto), in alcune regioni
dell’arco alpino e in Toscana.
La figura 4.12 mostra, invece, la ripartizione regionale del contingente di entità a rischio non ancora sufficientemente conosciute. In particolare, la prima cartina (a)
riporta la situazione delle entità ‘inquirenda’ a livello regionale, quelle piante non più osservate in tempi recenti
(talvolta anche da più di un secolo) e forse ormai scomparse localmente, di cui si hanno dati distributivi ancora
insufficienti o su cui esistono problemi tassonomici ancora aperti. La seconda cartina (b) mostra la situazione
delle ‘excludenda’, categoria che raggruppa le entità che,
156 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.10 - Ripartizione percentuale dei dati fra le diverse fonti utilizzate, per regione.
in base all’attuale aggiornamento, sono da escludere dalla flora autoctona delle varie regioni in quanto estinte localmente, segnalate in passato per errore, confuse con entità affini o presenti solo in coltura. Il significativo numero di entità delle due categorie in molte regioni conferma la necessità di compiere ulteriori studi su questa componente della flora vascolare, sebbene da molti sia ormai
considerata ben nota. In realtà, non è facile dimostrare la
scomparsa di una entità se non ci sono dati sufficienti e
non si può essere certi della distruzione del suo habitat in
tutte le stazioni note. È più corretto, in questi casi, parlare di piante ‘non più osservate’ o ‘forse estinte’. Inoltre,
molto spesso sono i nomi di piante che scompaiono mentre il ‘pool genico’ del patrimonio floristico rimane pressoché invariato in quanto molte delle entità scomparse
Fig. 4.11 - Numero di entità della flora minacciata
presenti in ciascuna regione.
dalla flora di una o l’altra regione o dall’intero territorio
nazionale, sono in genere rimpiazzate da entità affini messe in evidenza da studi biosistematici recenti più approfonditi (PIGNATTI et al., 2001).
Tra le ‘excludenda’ vanno considerate ‘critiche’, dunque meritevoli di un esame più attento, soprattutto quelle entità che risultano tali in tutte le regioni in cui erano
segnalate fino ad oggi (tabella 4.7); la loro esclusione dalle flore regionali determina, infatti, un’immediata perdita di biodiversità a livello nazionale. Appartengono a questo gruppo, fra le altre, Apium repens (Jacq.) Lag., ormai
scomparso da Trentino-Alto Adige, Emilia Romagna e
Abruzzo, di cui la vecchia citazione per la Lombardia è
probabilmente da considerare errata, Peucedanum coriaceum Rchb. var. pospichalii Thell., Bellevalia ciliata (Cyr.)
Fig. 4.12 - Consistenza del contingente di entità minacciate nelle diverse regioni: A inquirenda, B - excludenda.
FLORA E VEGETAZIONE • 157
Entità estinte almeno in natura
Status IUCN
in Italia (1997)
EW
CR
EW
VU
EW
VU
EW
EW
EW
EW
CR
CR
EW
EX
EX
EX
EX
EW
CR
EW
EW
Status IUCN
in Italia (1997)
EX
LR
VU
VU
LR
EN
LR
EW
LR
VU
LR
LR
LR
LR
DD
DD
Regionie di provenienza degli ultimi dati distributivi
Carex bohemica Schreb.
Piemonte, Emilia-Romagna
Apium repens (Jacq.) Lag
Lombardia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Abruzzo
Lythrum thesioides M.Bieb.
Lombardia,Veneto, Emilia-Romagna
Sagina nodosa (L.) Fenzl
Trentino-Alto Adige
Scilla litardierei Breistr.
Friuli-Venezia Giulia
Peucedanum coriaceum Rchb. var. pospichalii Thell.
Friuli-Venezia Giulia
Astragalus scorpioides Pourr. ex Willd.
Toscana
Nepeta italica L.
Marche
Nonea obtusifolia (Willd.) DC.
Lazio
Trifolium latinum Sebast.
Lazio
Bellevalia ciliata (Cyr.) Nees
Puglia
Limonium peucetium Pignatti
Puglia
Pinus halepensis Mill. subsp. brutia (Ten.) Holmboe
Calabria
Salvia ceratophylloides Ardoino
Calabria
Allium permixtum Guss. s.s.
Sicilia
Limonium catanense (Tineo ex Lojac.) Brullo
Sicilia
Limonium intermedium (Guss.) Brœullo
Sicilia
Potamogeton siculus Tineo s.s.
Sicilia
Puccinellia gussonei Parl.
Sicilia
Rumex dentatus L.
Sicilia
Teucrium creticum L.
Sicilia
Entità indicate per errore
Regionie di provenienza delle ultime citazioni
Chrysosplenium oppositifolium L.
Laser trilobum ( L.) Borkh.
Utricularia ochroleuca R.V. Hartm.
Carex melanostachya M. Bieb. ex Willd.
Campanula marchesettii Witasek
Epipactis greuteri M. Baumann et Künkele
Limonium savianum Pignatti
Sesleria tuzsonii Ujhelyi
Umbilicus erectus DC. [= U. luteus (Huds.) Webb. et Berthel.]
Allium aethusanum Garbari
Anthemis urvilleana (DC.) Sommier et Car.-G.
Asparagus aetnensis Tornab.
Limonium exaristatum (Murb.) P. Fourn.
Spergula morisonii Boreau
Saxifraga carpetana Boiss. et Reut. subsp. carpetana
Iris todaroana Cif. et Giacom.
Piemonte, Lombardia
Trentino-Alto Adige
Trentino-Alto Adige
Trentino-Alto Adige, Veneto
Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia
Veneto, Emilia-Romagna, Toscana
Toscana
Toscana
Abruzzo, Puglia, Calabria
Sicilia
Sicilia
Sicilia
Sicilia
Sicilia
Sicilia
Sicilia, Sardegna
Tabella 4.7 - Prospetto delle entità oggi da escludere dalla Flora nazionale perchè non più osservate da tempo o segnalate per errore.
Nees., Limonium peucetium Pignatti, Puccinellia gussonei
Parl., Sagina nodosa (L.) Fenzl, che in CONTI et al. (1992,
1997) rientravano in altre categorie di rischio. Saxifraga
carpetana Boiss. et Reut. subsp. carpetana e Iris todaroana Cif. et Giacom., di cui in passato mancavano dati certi (DD) sono ora da escludere dalla nostra flora perché in
realtà segnalate per errore. Alcune di esse, infatti, già ora
non vengono più citate per il territorio italiano da importanti Flore quali la Med Checklist, Flora Europaea, ecc.
La tabella 4.8 riporta, invece, le entità che risultano
‘inquirenda’ nell’intero territorio nazionale, per le quali
le conoscenze rimangono insufficienti e appare indispen-
158 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
sabile una ulteriore verifica e l’aggiornamento dei dati. In
alcuni casi si tratta, ad esempio, di entità inconsistenti e
tuttora critiche dal punto di vista della loro esatta identità, pertanto poco osservate e di difficile identificazione.
Per confermare o smentire la reale scomparsa di entità floristiche non è dunque sufficiente una ricognizione
superficiale o saltuaria nei luoghi già noti ma è indispensabile avviare una seria attività di monitoraggio, in grado
di fornire nel tempo dati statisticamente validi (PIGNATTI et al., 2001); alcune delle presunte estinzioni in una o
più regioni in futuro forse potranno essere smentite proprio grazie al progresso delle conoscenze.
Asparagus pastorianus Webb et Berth.
Carex juncella (Fr.) Th. Fr.
Carthamus dentatus Vahl
Centaurea africana Lam.
Christella dentata (Forssk.) Brownsey et Jermy
Dactylorhiza praetermissa (Druce) Soó
Hieracium pavichi Heuff.
Iberis linifolia L. subsp. stricta (Jord.) P. Fourn.
Linum catanense Strobl.
Malcolmia africana (L.) R. Br.
Pedicularis sylvatica L.
Saxifraga hirculus L.
Silene turbinata Guss.
Spergularia tunetana (Maire) Jalas
Stachys brachyclada De Noé
Tabella 4.8 - Elenco delle entità ‘inquirenda’ a livello nazionale.
A tal fine un’approfondita ricognizione è stata effettuata sulle 77 entità dell’Allegato II della Direttiva 92/43
Habitat. La figura 4.13 mostra la loro ripartizione per
regione: di esse ben 32 sono prioritarie (tabella 4.9) e più
del 75% endemiche. Si nota la totale assenza di entità
nelle Marche, mentre è particolarmente indicativa la situazione delle grandi isole dove si concentrano numerose entità prioritarie per lo più endemiche e ad areale ristretto; ne sono un esempio Abies nebrodensis (Lojac.)
Mattei, Leontodon siculus (Guss.) R.A. Finch et P.D. Sell
o Aster sorrentini (Tod.) Lojac. in Sicilia, Astragalus maritimus Moris, Centaurea horrida Badarò o Anchusa crispa Viv. in Sardegna.
Molte di esse andrebbero ricercate in diverse regioni
perché non vi sono state ritrovate da tempo; due in particolare, Gypsophila papillosa Porta in Trentino-Alto Adige
(VU nelle Liste Rosse) e Saxifraga hirculus L in Valle d’Aosta (DD nelle Liste Rosse) andrebbero studiate più a fondo non essendo ancora ben nota la loro distribuzione.
Come suggerito dalla IUCN (IUCN, 1994; WALTER
Gimnosperme
Abies nebrodensis (Lojac.) Mattei
Angiosperme Dicotiledoni
Anchusa crispa Viv.
Armeria helodes Martini et Poldini
Aster sorrentinii (Tod.) Lojac.
Astragalus aquilanus Anzalone
Astragalus maritimus Moris
Astragalus verrucosus Moris
Bassia saxicola (Guss.) A.J. Schott
Brassica macrocarpa Guss.
Campanula sabatia De Not.
Centaurea horrida Badarò
Cytisus aeolicus Lindl.
Euphrasia genargentea (Feoli) Diana Corrias
Galium litorale Guss.
Gypsophila papillosa Porta
Herniaria litardierei (Gamisans) Greuter & Burdet
Lamyropsis microcephala (Moris) Dittrich et Greuter
Leontodon siculus (Guss.) R.A. Finch et P.D. Sell
Limonium insulare (Bég. et Landi) Arrigoni et Diana
Limonium pseudolaetum Arrigoni et Diana
Limonium strictissimum (Salzm.) Arrigoni
Linum muelleri Moris
Primula pedemontana Gaudin subsp. apennina (Widmer) Kress
Ribes sardoum Martelli
Salicornia veneta Pignatti et Lausi
Silene hicesiae Brullo et Signorello
Silene velutina Loisel.
Angiosperme Monocotiledoni
Carex panormitana Guss.
Muscari gussonei (Parl.) Tod.
Ophrys lunulata Parl.
Stipa austroitalica Martinovsky
Stipa veneta Moraldo
Tabella 4.9 - Specie prioritarie dell’Allegato II della Direttiva Habitat
presenti in Italia.
Fig. 4.13 - Ripartizione per regione delle entità (A) e delle entità
prioritarie (B) dell’Allegato II della Direttiva Habitat.
FLORA E VEGETAZIONE • 159
e GILLET, 1998) e in altre occasioni (RIZZOTTO, 1995; PIet al., 2001), a questo lavoro di aggiornamento
dei dati distributivi dovrebbe far seguito un riesame delle entità sulla base dei nuovi criteri di valutazione del grado di rischio e delle più recenti acquisizioni. Questo aggiornamento sarebbe importante sia per le entità inserite
nelle categorie ‘in pericolo’ (CR, EN, VU) che per quelle ‘a minor rischio’ (LR), come Lindernia procumbens
(Krock.) Philcox, Carex stenophylla Wahlenb., Schoenoplectus supinus (L.) Palla e altre, e anche per le entità minacciate la cui situazione è in progressivo peggioramento, come Caldesia parnassifolia (L.) Parl., Silene linicola
C.C. Gmel. e Aldrovanda vesiculosa L. Per l’Italia, un primo contributo in questo senso è dato dal lavoro di GIOVI et al. (2003), che hanno preso in considerazione lo status di 8 entità tratte da CONTI et al. (1997) (CR: Adonis
vernalis L., Iris setina Colasante; EN: Malcolmia littorea
(L.) R. Br.; VU: Isoëtes velata A. Braun subsp. velata, Astragalus aquilanus Anzalone, Vicia sativa L. subsp. incisa (M.
Bieb.) Arcang., Goniolinum italicum Tammaro, Frizzi et
Pignatti; LR: Acer cappadocicum Gled. subsp. lobelii (Ten.)
Murray) allo scopo di valutare l’applicabilità per la flora
italiana dei nuovi criteri stabiliti dall’IUCN.
Andrebbe rivalutato, inoltre, lo status di alcune entità
non considerate in passato ma che, alla luce di questo e
altri recenti studi (SBI, 2000; ABBATE et al., 2001; PIGNATTI et al., 2001; PROSSER, 2001; ecc.), meritano maggiore considerazione; è il caso di Dianthus ferrugineus Miller, Erinus alpinus L., Romulea requienii Parl., Crocus minimus DC. o di Polygala apiculata Porta e di molte altre
entità. A questo proposito un esempio, anche se limitato
a un troppo ristretto numero di entità, è fornito dal volume edito dall’ANPA (oggi APAT) sulle liste rosse e blu
della flora italiana (PIGNATTI et al., 2001).
Tra le entità da proporre per l’ampliamento dell’Allegato II della Direttiva Habitat, 165, in cui l’elemento endemico è nettamente prevalente (circa il 75%), sono ripartite nelle varie regioni secondo quanto mostrato nella
figura 4.14: anche in questo caso Sicilia e Sardegna risultano le regioni più ricche. Tuttavia, per 23 di esse, nonostante gli approfondimenti condotti in questi anni, ancora vi è qualche dubbio sulla reale presenza in una o l’altra
regione (tabella 4.10). Da segnalare fra queste entità più
critiche Pilularia minuta Durieu ex Braun (VU nel Libro
Rosso), ormai scomparsa da Lazio e quasi certamente dalla Sicilia e da quasi un secolo non più ritrovata in Sardegna o Wulfenia carinthiaca Jacq. (EN nel Libro Rosso) nota per il Friuli-Venezia Giulia dove però non è stata osservata da oltre 50 anni nonostante ripetute ricerche.
GNATTI
Fig. 4.14 - Proposta di
ampliamento della lista di
entità dell’Allegato II
della Direttiva Habitat:
consistenza dei dati per
regione.
Anagallis monelli L.
Anagallis tenella (L.) L.
Artemisia petrosa (Baumg.) Jan subsp. eriantha (Ten.)
Giacomini et Pignatti
Biscutella cichoriifolia Loisel.
Carex liparocarpos Gaudin subsp. liparocarpos
Centaurea centaurioides L.
Dactylorhiza traunsteineri (Saut. ex Rchb.) Soó
Euphorbia villosa Wald. et Kit.
Iberis semperflorens L.
Lycopodiella inundata (L.) Holub
Menyanthes trifoliata L.
Myosotis speluncicola (Boiss.) Rouy
Paeonia mascula ssp. russoi (Biv.) Cullen et Heyw.
Pilularia minuta Durieu ex A. Braun
Polygala exilis DC.
Potamogeton coloratus Vahl
Rhynchocoris elephas (L.) Griseb.
Senecio doria L.
Sesleria italica (Pamp.) Ujhelyi
Stachys maritima Gouan
Vicia barbazitae Ten. et Guss.
Viola aethnensis Parl. subsp. splendida (W. Becker)
Merxm. et Lippert
Wulfenia carinthiaca Jacq.
Tabella 4.10 - Stralcio dell’elenco proposto dalla SBI per l’ampliamento
dell’Allegato II della Direttiva Habitat con le entità di cui si hanno
ancora dati insufficienti.
I dati raccolti fino al 2003 grazie al sostegno dalla Direzione per la Protezione della Natura del MATT e successivamente aggiornati nell’ambito del programma del
Gruppo di Lavoro per la Floristica della SBI di redazione dell’Atlante delle specie a rischio di estinzione in Italia
relativo alle 1.011 entità della Lista Rossa nazionale, sono ormai disponibili su CD-Rom (SCOPPOLA e SPAMPINATO, a cura di, 2005). Essi costituiranno un importante riferimento per studiosi e amministratori, una base
160 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.15 - Esempio di mappe di distribuzione ottenibili dai dati
archiviati. (Modulo A2 - CCNB)
dati indispensabile per analisi sia sulla valenza floristica
del territorio italiano, che sulla bontà delle scelte effettuate nella stesura degli elenchi di entità delle liste rosse e dell’ampliamento dell’Allegato II della Direttiva
92/43 Habitat.
La documentazione prodotta ha, chiaramente, una
grande validità anche se necessita di aggiornamenti periodici. Come si è detto, infatti, questo non è stato né il
primo né il solo aggiornamento eseguito in tempi recenti sulle entità a rischio della nostra flora vascolare, ma certamente si distingue dalle esperienze precedenti perché
ha avuto come presupposto la volontà di risalire alla fonte originale del dato distributivo, considerando la sua veridicità e esatta datazione permettendo di colmare alcune delle lacune esistenti e di eliminare varie inesattezze
che da qualche tempo si tramandavano dall’una all’altra
trattazione (SCOPPOLA et al., 2003).
La diffusione di questi dati permetterà di dar vita a
sempre più numerosi programmi di conservazione in situ, troppo spesso ancora in embrione per la mancanza di
informazioni sulla esatta distribuzione e sulle caratteristiche autoecologiche delle entità.
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162 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
BRIOFITE
[Michele Aleffi]
Le Briofite, assieme alle Tracheofite, sono adattate primariamente alla vita terrestre. Ad eccezione dell’ambiente
marino, esse presentano una distribuzione cosmopolita. A
causa delle dimensioni microscopiche delle loro spore e della frequente presenza di una riproduzione vegetativa le Briofite sono, infatti, facilmente disperse nell’ambiente.
In esse la riproduzione sessuale avviene con alternanza di generazione, nella quale il gametofito autotrofo prevale sullo sporofito. Dopo la fecondazione, lo zigote si sviluppa in un embrione (Embryophyta) da cui si origina la
piantina corrispondente allo sporofito in cui si distinguono un cauloide, un filloide e dei rizoidi che fissano la pianta al substrato.
Le Briofite comprendono nel mondo circa 24.000 specie, che possono essere ripartite in tre gruppi (classi) nettamente separati filogeneticamente: Anthocerotopsida, Marchantiopsida, Bryopsida. Le Anthocerotopsida formano un
gruppo minore di circa 100 specie (di cui solo 6 sono presenti in Italia), da considerare quali relitti risalenti agli inizi della storia filogenetica delle piante e che vengono raggruppate nell’unico ordine delle Anthocerothales. La classe delle Marchantiopsida è rappresentata dalle Hepaticae,
ripartite in Marchantiidae e Jungermanniidae. La terza classe è rappresentata infine dalle Bryopsida o Musci, che costituiscono i Muschi propriamente detti, suddivisi in Sphagnidae (con l’unica famiglia delle Sphagnaceae), Andreaeidae (con la sola famiglia delle Andreaeaceae) e Bryidae, che
rappresentano il gruppo più numeroso con circa 15.000
specie, suddivise in numerosi ordini e famiglie.
La ricerca briologica in Italia
Notevoli sono stati i progressi che la ricerca briologica
ha compiuto in Italia dall’inizio del XVIII secolo fino ad
oggi. Tuttavia si deve rilevare che per molti anni la Flora
Italica Cryptogama di ZODDA del 1934 e il Syllabus Bryophytarum Italicarum di GIACOMINI del 1947 sono stati
gli unici riferimenti bibliografici fino alle due recenti checklist di CORTINI PEDROTTI (1992, 2001b) per i Muschi
e di ALEFFI e SCHUMACKER (1995) per le Epatiche.
Tali progressi hanno subìto un notevole incremento in
particolare negli ultimi anni: prendendo in considerazione le specie muscinali solo in quest’ultimo decennio, a partire cioè dalla pubblicazione della prima checklist dei muschi, il loro numero è passato da 818 a 851. Tale incremento è dovuto principalmente all’intensificarsi delle ricerche
in quelle zone del territorio italiano del tutto inesplorate o
solo parzialmente conosciute sotto il profilo briologico.
Nella tabella 4.11 è indicata la variazione del numero
delle specie muscinali nelle diverse regioni italiane dal
1992 al 2000. L’incremento notevole del numero di specie muscinali in Abruzzo è dovuto principalmente a due
fattori: una campagna di rilevamento condotta in diverse località montane della regione (MASTRACCI e DÜLL,
1991) e lo studio della flora briologica dei Monti della
Laga, che gravitano per la maggior parte in territorio abruzzese (ALEFFI et al., 1997b).
Regioni
Val d’Aosta
Piemonte
Lombardia
Trentino-Alto Adige
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Liguria
Emilia-Romagna
Toscana
Marche
Umbria
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sardegna
Sicilia
1992
341
578
658
670
470
461
323
388
480
244
155
369
195
153
283
187
148
231
343
372
2000
360
587
669
683
483
473
321
391
483
249
179
371
271
160
317
184
150
254
346
389
diff.
19
9
11
13
13
12
-2
3
3
5
24
2
76
7
34
-3
2
23
3
17
Tabella 4.11 - Consistenza e incremento del numero di specie muscinali
nelle regioni italiane.
La prima escursione briologica del Gruppo di Lavoro
per la Briologia della Società Botanica Italiana ha contributo a incrementare il numero di specie con la segnalazione di ben 34 entità (27 Muschi e 7 Epatiche) nuove
per la regione (CORTINI PEDROTTI et al., 1993).
Significativo è stato in Umbria il contributo apportato da due importanti lavori sui boschi planiziari acidofili del Lago Trasimeno (ALEFFI, 1992a) e del bacino lacustre di Gubbio (ALEFFI, 1992b).
Altrettanto notevoli sono state in Calabria, tra il 1994
e il 1996, alcune ricerche condotte nella parte meridionale dell’Aspromonte, che hanno portato alla segnalazione di numerose specie nuove per il territorio calabro (PU-
FLORA E VEGETAZIONE • 163
GLISI, 1994a, 1994b, 1995; PRIVITERA e PUGLISI, 1995a,
1995b, 1996), a dimostrazione della necessità di approfondire le analisi briologiche pure in territori già ripetutamente esplorati.
Anche in Val d’Aosta negli ultimi anni si sono avuti
importanti contributi per la Valle di Champorcher (MISERERE et al., 1995), per le zone umide del Parco Naturale Regionale del Mont Avic (MISERERE et al., 1996) e
per il Parco Nazionale del Gran Paradiso (SCHUMACKER
et al., 1999).
Per la Sicilia numerosi sono i contributi dei ricercatori delle Università di Catania e Palermo con la segnalazione di nuove specie non solo per la Sicilia, ma anche
per l’Italia (RAIMONDO e DIA, 1997; CARRATELLO e ALEFFI, 1998, 1999; PRIVITERA e PUGLISI, 1997, 1998, 1999).
Questo intensificarsi delle esplorazioni briologiche trova riscontro anche in un notevole incremento della produzione scientifica. Il primo aggiornamento alla Bibliografia Briologica d’Italia (CORTINI PEDROTTI, 1996a), che
si riferisce agli anni dal 1985 al 1994, consta di 292 voci bibliografiche e sta a dimostrare il continuo e sempre
crescente interesse per le ricerche di carattere briologico
da parte di un gruppo, ormai abbastanza consolidato, di
ricercatori italiani che hanno concentrato la loro attività
di ricerca in questo settore della Botanica.
Si tratta di cifre destinate in ogni caso a subire continue modifiche e aggiornamenti con l’acquisizione di nuove specie sia a livello nazionale che regionale, mano a mano che progrediscono le ricerche briologiche, soprattutto in quelle aree del territorio italiano ancora del tutto
inesplorate sotto questo profilo.
L’Italia deve questa elevata diversità floristica essenzialmente ad alcune sue caratteristiche geografiche: 1. la
presenza della catena alpina che, a causa della sua complessità geomorfologica e geologica e per la sua estensione, determina una grande varietà mesoclimatica; 2. la sua
particolare posizione centrale nel bacino del Mediterraneo; 3. la presenza della catena appenninica, orientata da
Nord a Sud, lungo tutta la penisola, a guisa di spina dorsale; 4. la presenza di grossi massicci montuosi anche nelle regioni meridionali della penisola, in piena regione
mediterranea.
Va infine rilevato come il ritrovamento di un così alto
numero di specie nuove, sia per il territorio italiano nel
suo complesso che per le diverse regioni italiane, oltre a
rappresentare un importante contributo sotto l’aspetto
floristico, consente di effettuare nuove e più approfondite considerazioni sull’ecologia e la corologia di queste specie e, più in generale, sugli aspetti biogeografici della flora briologica italiana.
La flora briologica italiana
La check-list e la red-list delle briofite d’Italia
Sulla base dei dati forniti dalle due checklist di CORTINI PEDROTTI (1992, 2001b) per i Muschi e ALEFFI e SCHU-
(1995) per le Epatiche, la consistenza della flora briologica italiana, senza prendere in considerazione le
sottospecie e le varietà, è di 1.130 specie così suddivise:
- Epatiche: 279 specie
(ripartite in 81 generi e 40 famiglie)
- Muschi: 851 specie
(ripartite in 210 generi e 55 famiglie)
L’Italia rappresenta sicuramente una delle più ricche
regioni europee dal punto di vista floristico, con circa i
2/3 della flora briolœogica europea, che risulta costituita
da 1.690 specie di briofite, di cui 1.084 sono muschi. La
flora briologica tedesca comprende infatti 1.051 specie
(247 epatiche e 804 muschi), mentre nella flora delle isole britanniche si contano complessivamente 1.000 specie
(716 specie di muschi e 284 epatiche). Passando ad esaminare alcuni paesi dell’area mediterranea si osservano
numeri progressivamente più bassi, con l’unica eccezione della Spagna che presenta una flora briologica di 1.020
specie (279 epatiche e 741 muschi).
MACKER
Nel corso della realizzazione della Check-list of the Mosses of Italy (CORTINI PEDROTTI, l.c.) e della Check-list and
red-list of the liverworts (Marchantiophyta) and liverworts
(Anthocerotophyta) of Italy (ALEFFI e SCHUMACKER, l.c.) è
stato possibile evidenziare alcuni problemi di carattere tassonomico e nomenclaturale, che solo di recente è stato possibile risolvere con la revisione di alcune famiglie e generi
critici. Fra le epatiche un esempio classico è rappresentato
da Calypogeia trichomanis auct. Sotto questo nome, soprattutto nelle vecchie collezioni di erbario e nelle citazioni bibliografiche spesso risalenti alla fine del 1800, possono essere rinvenute almeno 5 differenti specie: C. azurea, C. fissa, C. neesiana, C. integristipula, C. muelleriana. Identificando automaticamente Calypogeia trichomanis come C.
azurea, numerosi autori hanno ingenerato in letteratura
una confusione tassonomica e nomenclaturale che solo in
occasione della realizzazione della checklist delle epatiche,
attraverso la revisione dei campioni d’erbario, è stato possibile correggere (ALEFFI e SCHUMACKER, 1997).
Si possono fare numerosi altri esempi, sia fra le epatiche che fra i muschi: è il caso di generi come Anthoceros,
164 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Jungermannia, Lophozia, Plagiochila, Porella, Scapania
sect. Curtae e di Marchantia polymorpha complex fra le
epatiche. Fra i muschi vanno ricordati i generi Grimmia,
Orthotrichum, Schistidium, Hedwigia, Sphagnum, Tortula, la famiglia delle Mniaceae, le Bryaceae e in particolare
il Bryum bicolor complex e l’Hypnum cupressiforme complex, evidenziati soprattutto nel corso della realizzazione
della Flora dei Muschi d’Italia (CORTINI PEDROTTI, 2001a).
In tutti questi casi l’unica strada per verificare con esattezza la veridicità delle indicazioni bibliografiche è quella di una revisione dei campioni d’erbario. Il problema è
tuttavia molto più complesso di quanto si possa immaginare: la maggior parte dei campioni è stata raccolta, infatti, intorno alla metà del 1800, per cui spesso risulta
estremamente difficile poter effettuare una revisione su
campioni così vecchi, sempre che essi siano ancora rintracciabili nelle collezioni storiche. Infatti lo stato di conservazione di queste collezioni briologiche è in molti casi pessimo, soprattutto per la mancanza di specialisti briologi negli erbari che attendano con competenza alla loro
catalogazione e conservazione (figura 4.16).
Un altro problema di particolare attualità riguarda le
specie inserite in successive fasi nelle Liste Rosse nazionali e regionali e, finalmente, nell’Allegato II della Direttiva Habitat dell’Unione Europea della flora e della fauna selvatiche, finalizzata alla conservazione degli habitat
naturali e seminaturali. In particolare, nella Direttiva viene presentato un elenco di specie considerate a rischio di
estinzione e per la cui salvaguardia è indispensabile la designazione di zone speciali di conservazione. Questo elenco comprende anche 29 Briofite, di cui 11 sono presenti in Italia, e precisamente: Buxbaumia viridis, Dichelyma
capillaceum, Dicranum viride, Hamatocaulis vernicosus,
Mannia triandra, Meesia longiseta, Nothothylas orbicularis, Orthotrichum rogeri, Petalophyllum ralfsii, Riccia breidleri, Scapania massalongi.
Si tratta in genere di specie di cui si hanno segnalazioni molto antiche o puntiformi o che si sviluppano in habitat ad alto rischio di estinzione, come laghetti alpini,
ambienti umidi, dune sabbiose (figura 4.17). Tuttavia
molte altre sono le specie a rischio di estinzione che andrebbero inserite in liste rosse finalizzate alla protezione
degli ambienti in cui queste specie crescono. Basandosi
sui soli dati bibliografici, nella Lista Rossa delle Briofite
d’Italia (CORTINI PEDROTTI e ALEFFI, 1992b) ben 129
specie di epatiche e 367 specie di muschi sono considerate a rischio di estinzione o perché segnalate alla fine del
1800 - inizi del 1900 e non più ritrovate, o perché aventi una distribuzione puntiforme e frammentata, in ambienti spesso soggetti ad intenso sfruttamento a fini turistici (soprattutto dell’arco alpino e della costa). Un buon
esempio è rappresentato dalla Dumortiera hirsuta, una
epatica tallosa di origine tropicale considerata un relitto
del Terziario e rifugiatasi in alcune stazioni, anch’esse relitte, di Woodwardia radicans, rara felce anch’essa tropicale. Di quest’ultima specie si conoscono solo poche stazioni, alcune delle quali sono già scomparse in seguito all’opera di deforestazione e di sconvolgimento dell’habitat in cui le due piante vivono.
Considerazioni sulla biodiversità briologica in Italia
Fig. 4.16 - Due campioni provenienti dall’Erbario del Museo di Scienze
Naturali del Museo Arcivescovile di Perugia. Lo stato di conservazione
di queste collezioni briologiche è in molti casi pessimo, soprattutto
per la mancanza di specialisti briologi che attendano con competenza
alla loro conservazione.
Allo scopo di avere un quadro sintetico, ma allo stesso
tempo il più completo possibile della biodiversità briologica nella Penisola italiana è particolarmente interessante analizzare innanzitutto alcuni aspetti corologici che la caratterizzano. Per ogni taxon è stato preso in considerazione l’elemento corologico secondo la nomenclatura stabilita da DÜLL
(1983, 1984-1985); in figura 4.18 i diversi elementi sono
stati riuniti, tenendo conto delle loro affinità, in 12 gruppi
FLORA E VEGETAZIONE • 165
maggiori secondo SÉRGIO et al. (1994), con il numero e la
percentuale delle specie appartenenti a ciascuno di essi.
Dall’esame della suddetta figura che riporta gli spettri
corologici dei due gruppi riuniti in uno stesso istogramma, è evidente la preponderanza dell’elemento boreale,
sia fra i Muschi (24%) che, in misura minore, fra le Epatiche (20,9%). Si tratta di un gruppo di specie che si ritrovano, oltre che nella catena alpina, anche sulle cime
più alte dell’Appennino, in Sardegna sul Gennargentu e
in Sicilia sull’Etna e sulle Madonie. È ragionevole pensare che la percentuale dell’elemento boreale sia destinata
ad aumentare via via che progrediscono le ricerche in quelle aree dell’Appennino non ancora del tutto esplorate.
Notevole, soprattutto fra le Epatiche, è la presenza dell’elemento suboceanico (15,4%): si tratta di specie che, a
causa della loro grande esigenza di umidità, hanno l’areale nell’Europa atlantica dove prevale un clima temperato-umido e si spingono fino alle isole della Macaronesia.
Fig. 4.17 - I laghetti alpini e gli ambienti umidi in generale sono
particolarmente minacciati dall’inquinamento e dal crescente impatto
antropico. Essi ospitano tuttavia specie molto interessanti, come la
rara epatica Riccia breidleri, endemica dell’arco alpino, che si sviluppa
sulle rive di questi laghetti.
Fig. 4.18 - Spettro corologico delle
Briofite italiane (nelle barre
dell’istogramma sono riportati i valori
assoluti).
Estremamente significativa è pure la consistenza dell’elemento subartico-subalpino, sia fra i Muschi (15,3%)
sia fra le Epatiche (10,2%), che, insieme all’elemento artico-alpino, rappresenta circa il 20% dell’intera flora briologica italiana. La sua consistenza dipende principalmente dalla notevole estensione dell’ambiente alpino ed è legata anche al suo migliore stato di conservazione rispetto agli altri ambienti della Penisola italiana. Tale elemento include tuttavia anche numerose specie presenti lungo tutta la dorsale appenninica e anche in questo caso il
loro numero è destinato a crescere con il progredire delle ricerche in questi territori. L’elemento oceanico-mediterraneo è ben rappresentato sia fra le Epatiche (12,9%)
che fra i Muschi (10,4%): esso segna la transizione tra le
regioni a clima tipicamente mediterraneo e quelle sotto-
poste a influenza atlantica; rappresenta un elemento molto importante dal punto di vista briogeografico, in quanto comprende diverse specie ad areale disgiunto o che presentano carattere relittuale.
Prendendo in considerazione la carta di distribuzione
in Italia degli ordini Quercetalia ilicis e Pistacio lentisciRhamnetalia alaterni, elaborata da PEDROTTI (1996) secondo un criterio geobotanico, l’Italia risulta appartenere alle due regioni fitogeografiche eurosiberiana e mediterranea. La maggior parte della superficie appartiene alla regione eurosiberiana, mentre la regione mediterranea
è limitata alla fascia costiera che sul versante adriatico inizia a Sud di Pescara per prolungarsi quindi lungo il versante tirrenico fino al confine con la Francia, ad eccezione di uno iatus nella zona di Genova.
166 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Tuttavia si deve rilevare che in alcuni settori interni
dell’Italia centrale sono presenti, in stazioni edaficamente favorevoli, nuclei più o meno vasti di lecceta che pur
essendo considerati extrazonali sono indice di un certo
mediterraneismo, per quanto attenuato, anche nelle zone interne. Alcune vallate alpine con orientamento SudNord rappresentano una via di immigrazione per le specie mediterranee e submediterranee come è stato dimostrato mediante l’analisi bioclimatica condotta lungo un
tratto della Val d’Adige (ALEFFI et al., 1997a).
La presenza di condizioni ambientali estremamente variabili, accentuate anche dalla molteplicità di substrati, si
riflette inevitabilmente sulla ricchezza e diversità briologica nelle differenti regioni italiane.
La tabella 4.12 mostra la ricchezza e la diversità briologica di ciascuna regione italiana: in essa sono riportati
il numero dei taxa (epatiche più muschi), la percentuale
rispetto al totale della flora briologica italiana (1.130 taxa), la superficie in Kmq di ogni regione e il rapporto numero di taxa/Kmq. Le regioni sono state elencate in ordine decrescente per numero di taxa, indipendentemente dalla loro superficie.
Come si può osservare, le regioni che presentano una
maggiore ricchezza floristica sono il Trentino-Alto Adige,
la Lombardia e il Piemonte, i cui territori sono occupati
dalle cime più elevate della catena alpina e nello stesso
tempo presentano una grande varietà di substrati e sono
soggetti a differenti influenze climatiche, da quelle mediterranee a quelle continentali. Al contrario il Veneto e il
Friuli-Venezia Giulia, pur facendo parte anch’esse del dominio alpino, presentano un minor numero di taxa, probabilmente a causa della uniformità del substrato, che è
prevalentemente calcareo (CORTINI PEDROTTI, 1996b;
ALEFFI et al., l.c.).
La Toscana è, fra le regioni appenniniche, quella che
presenta una maggiore ricchezza floristica, a causa della
Regioni
N. Specie
Trentino-Alto Adige
Lombardia
Piemonte
Toscana
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Valle d’Aosta
Sicilia
Lazio
Emilia-Romagna
Sardegna
Campania
Liguria
Abruzzo
Calabria
Marche
Umbria
Puglia
Molise
Basilicata
904
853
785
660
632
607
521
506
480
472
425
407
391
356
336
312
233
221
181
169
%
80,5
75,9
69,9
58,8
56,3
54,0
46,4
45,0
42,7
42,0
37,8
36,2
34,8
31,7
29,9
27,8
20,7
19,7
16,1
15,0
Sup. (Kmq) n° taxa/Kmq
13.613
23.835
25.399
22.992
18.369
7.845
3.262
25.709
17.202
22.122
24.090
13.596
5.413
10.794
15.080
9.691
8.456
19.347
4.438
9.992
0,066
0,036
0,031
0,029
0,034
0,077
0,160
0,020
0,028
0,021
0,018
0,030
0,072
0,033
0,022
0,032
0,028
0,011
0,041
0,017
Tabella 4.12 - Ricchezza e diversità briologica nelle differenti regioni
italiane.
grande variabilità ambientale, dal punto di vista sia geologico che climatico, in confronto con le altre regioni
dell’Appennino centrale e meridionale dove, in presenza di una maggiore uniformità edafica, il numero dei taxa è sensibilmente ridotto. Un’eccezione è tuttavia rappresentata dalle due isole maggiori, la Sardegna e la Sicilia, dove invece il numero dei taxa è considerevole anche per la presenza di massicci montuosi notevoli, come
l’Etna e le Madonie in Sicilia (DIA e NOT, 1991), il Gennargentu e il Limbara in Sardegna (BISCHLER e JOVETAST, 1971-72; COGONI et al., 1999).
Fig. 4.19 – Ricchezza
(numero di taxa) e diversità
briologica (numero di
taxa/Kmq) di ciascuna
regione italiana.
FLORA E VEGETAZIONE • 167
Elemento corologico A
Va
33
Pi
32
Lo
37
Tr
47
Ve
15
Fr
23
Li
Em
4
To
5
Ma
Um
La
3
Ab
6
Mo
Ca
Pu
Ba
Cal
2
Si
1
Sa
4
Tot.
212
B
85
95
119
141
83
75
18
33
42
6
3
22
32
11
12
3
2
6
15
12
815
C
55
96
95
109
61
62
34
45
80
29
17
42
29
11
32
14
8
28
35
43
925
D
172
223
234
250
190
196
96
143
165
66
39
114
98
47
68
42
27
74
72
97
2.413
E
6
16
19
16
9
8
6
7
18
4
5
7
1
3
3
1
5
5
9
148
F
17
56
71
52
46
35
57
38
92
36
36
75
25
10
76
37
23
52
80
84
998
G
1
7
16
14
6
5
10
4
22
5
4
18
5
1
19
8
3
17
25
24
214
H
7
21
28
26
15
18
21
19
24
15
11
22
14
6
23
15
12
17
21
27
362
I
30
56
59
59
48
39
36
34
53
33
24
42
29
16
46
23
24
31
50
54
786
L
105
151
150
157
133
127
107
127
144
108
90
124
104
64
117
74
67
100
105
128
2.282
M
14
27
24
28
19
14
6
14
12
6
3
8
10
5
7
2
2
4
5
10
220
N
1
1
2
Tot.
525
780
852
899
625
602
391
468
657
308
232
477
353
174
404
219
168
336
414
493
Tabella 4.13 - Ripartizione degli elementi corologici nelle diverse regioni italiane. A: artico-alpino; B: subartico-subalpino; C: suboceanico;
D: boreale; E: oceanico; F: oceanico-mediterraneo; G: mediterraneo; H: submediterraneo-suboceanico; I: submediterraneo; L: temperato;
M: continentale; N: subtropicale.
Occorre naturalmente precisare che il numero di taxa
regionali dipende anche dallo stato delle conoscenze floristiche: in effetti il grado di esplorazione varia fortemente da una regione all’altra.
Prendendo in esame l’indice di diversità (rapporto numero di taxa per superficie), in figura 4.19 viene meglio
messa in evidenza la diversità briologica in particolare di
alcune regioni, indipendente dal numero di taxa presenti. Appare evidente come la Valle d’Aosta sia la regione
con maggiore biodiversità, mentre la regione più povera
è la Puglia proprio per le ragioni citate prima. Piuttosto
elevato è il valore di Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto
Adige e Liguria.
Nella tabella 4.13 i taxa sono stati invece raggruppati
per regione in base all’elemento corologico. Si può osservare come l’elemento artico-alpino (A) presenti i valori
più elevati in tutte le regioni dell’arco alpino; è presente
inoltre, anche se in percentuale ridotta, nelle regioni appenniniche, come l’Abruzzo e, in misura ancora minore,
in Emilia-Romagna, Toscana e Lazio. Anche l’elemento
subartico-subalpino (B) è ben rappresentato e con valori
abbastanza omogenei in tutte le regioni della catena alpina, in Abruzzo, Emilia-Romagna e Toscana.
Ad eccezione dell’elemento oceanico-mediterraneo (F),
particolarmente accentuato nelle regioni dell’Italia centro-meridionale con punte più alte in Campania, Sicilia
e Sardegna, gli altri elementi sono uniformemente rappresentati in tutte le regioni italiane.
Il peso degli elementi corologici più significativi nelle
varie regioni, che risultano l’artico-alpino e subartico-subalpino (A), il boreale (B), l’oceanico-suboceanico (C) e
il mediterraneo-submediterraneo (D), è stato rappresentato su carta in figura 4.20; a questo scopo sono state distinte quattro classi di frequenza con un’ampiezza del 10%.
Prendendo in considerazione tutti i taxa riferibili agli
elementi artico-alpino e subartico-subalpino si può osservare che i valori più elevati corrispondono alla Valle d’Aosta e al Trentino-Alto Adige, seguite dalle altre regioni dell’arco alpino. Per la maggior parte delle specie appartenenti a questi due elementi la catena alpina rappresenta il limite meridionale del loro areale in Europa; altre si sono,
invece, spinte più a Sud sulle cime più alte delle Alpi Apuane (Eremonotus myriocarpus) e della catena appenninica,
in particolare dell’Abruzzo. Qui negli ultimi anni sono state rinvenute diverse specie artico-alpine o subartico-alpine come Asterella gracilis, Calypogeia suecica, Lophozia ascen-
168 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.21 - Leucobryum glaucum è una specie oceanica, caratteristica
di suoli forestali acidi e preferibilmente umidi.
Fig. 4.20 - Ripartizione dei principali elementi corologici nelle diverse
regioni italiane, secondo classi di frequenza con incremento del 10%:
artico-alpino/subartico-subalpino (A); boreale (B); oceanico/suboceanico
(C); mediterraneo/submediterraneo (D).
dens, Tritomaria scitula, Encalypta alpina, Pohlia ludwigii,
Schistidium atrofuscum e Seligeria calcarea.
Per quanto riguarda l’elemento boreale, i valori massimi si hanno in Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Veneto ed Emilia-Romagna. A proposito del Molise è interessante osservare che nel lavoro sulla flora briologica
del Gruppo delle Mainarde, un sistema montuoso con
numerose cime comprese fra 1.800 e 2.200 m (CORTINI PEDROTTI e ALEFFI, 1992a), l’elemento boreale è risultato essere, dopo il temperato, quello maggiormente
rappresentato, con valori del 29,4%. Fra le specie più
rappresentative di questo elemento vanno ricordate Porella baueri, Scapania calcicola, Anomodon longifolius e
Blindia acuta.
L’elemento oceanico-suboceanico presenta i valori più
alti nelle regioni settentrionali, in particolare in Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Toscana.
In quest’ultima regione sono i venti dominanti provenienti da Sud-Ovest che, arrivando perpendicolarmente
sulle catene montuose dell’Appennino tosco-emiliano,
determinano forti precipitazioni che superano sulle cime più alte i 2.500 mm. Questa oceanicità è ancor più
marcata nelle Alpi Apuane dove, per effetto della forte
umidità, si sono venuti a creare numerosi microclimi in
cui trovano rifugio diverse specie euoceaniche come Dumortiera hirsuta, Harpalejeunea ovata, Lejeunea lamacerina, Marchesinia mackaii, Plagiochila exigua, P. killarniensis. Anche in Umbria è stata riscontrata una forte penetrazione di specie oceaniche nei boschi planiziari intorno al Trasimeno e nel bacino di Gubbio (ALEFFI, 1992a,
1992b) (figura 4.21).
Nella cartina che illustra le diverse classi di frequenza
dell’elemento mediterraneo-submediterraneo, si può infine osservare come le regioni con la percentuale relativamente più alta siano quelle meridionali e del versante tirrenico, in particolare Campania, Sardegna e Sicilia, mentre i valori più bassi si hanno nelle regioni dell’Italia settentrionale e in Abruzzo e Molise, per le considerazioni precedentemente fatte a proposito degli elementi artico-alpino e boreale. Un certo grado di mediterraneità è comunque presente in tutta la penisola italiana, per la sua posizione centrale nel bacino del Mediterraneo (figura 4.22). Fra
le specie tipiche dell’ambiente mediterraneo, per la sua particolare struttura e per la sua presenza negli ambienti sabbiosi retrodunali e di laguna, va citato Petalophyllum ralfsii, una specie molto rara, in grave rischio di estinzione.
Problematiche di conservazione
La ricchezza e la diversità briologiche che si riscontrano nel territorio italiano dipendono da vari fattori di ordine geografico ed ecologico: 1) in conseguenza della notevole estensione in latitudine del territorio italiano, la
flora briologica d’Italia è ricca di specie artico-alpine e boreali, mediterranee e oceaniche; 2) l’Italia, fatta eccezio-
FLORA E VEGETAZIONE • 169
Fig. 4.22 - Tortula revolvens è una rara specie mediterranea esclusiva
dei substrati gessosi fortemente soleggiati.
ne per la Pianura Padana, presenta un territorio prevalentemente montuoso con una grande varietà di substrati litologici e con molteplici aspetti geomorfologici (vulcani,
morene, torbiere, laghi, ecc.) e ciò determina, rispetto agli
altri Paesi del Mediterraneo, una ulteriore causa di grande diversità tassonomica.
È ormai appurato che la sopravvivenza di molte specie
di briofite dipende dalla conservazione del loro habitat
naturale. Tuttavia, la mancanza di serie misure di salvaguardia, soprattutto a carico delle foreste e degli ambienti umidi che costituiscono i due habitat preferenziali di
crescita per le briofite per la loro estrema diversità microclimatica e di substrato, è causa dell’estinzione di parecchie specie di briofite. Questo è particolarmente vero per
le specie saprolignicole che colonizzano i tronchi marce-
LE BRIOFITE COME BIOINDICATORI
[Michele Aleffi]
Il monitoraggio dell’inquinamento atmosferico è comunemente
effettuato impiegando apparecchiature spesso costose e complesse come le centraline elettroniche di rilevamento. Tali strumenti
forniscono, in tempo reale e con risultati precisi, l’andamento della concentrazione degli inquinanti. Si tratta di un rilevamento di
tipo puntiforme che richiede alti costi di gestione; è necessario cercare quindi nuovi strumenti che siano in grado di considerare la
dispersione, il trasporto e le ricadute degli elementi su vaste aree.
Solo i bioindicatori forniscono indicazioni sugli effetti biologici
di una determinata situazione di inquinamento, tenendo in considerazione in modo ‘naturale’ il sinergismo tra le varie sostanze
tossiche.
Il biomonitoraggio offre, inoltre, garanzie di buona attendibilità,
essendo possibile impiegare organismi diversi per vari inquinanti
e fornisce informazioni retroattive, poiché i sintomi possono essere riscontrati anche ad una certa distanza temporale e spaziale
dall’episodio di inquinamento.
L’utilizzo dei muschi come bioaccumulatori offre notevoli vantaggi nel monitoraggio di elementi in tracce, in quanto essi ricevono
prevalentemente le sostanze per il loro sostentamento direttamente dall’ambiente aeriforme che li circonda, riuscendo a vivere in
ambienti ad elevata contaminazione. Inoltre, i risultati ottenuti
con questa tecnica sono stati confermati da quelli acquisiti con le
centraline di monitoraggio convenzionale. Tuttavia affinché i dati acquisiti mediante i bioindicatori siano accettati a pieno titolo,
occorre che tutte le procedure, dal campionamento alla elaborazione dei risultati, seguano in modo scrupoloso norme con un protocollo uniformato.
Recentemente è stato realizzato uno studio che ha interessato il
territorio del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, con l’individuazione di 22 stazioni di rilevamento localizzate soprattutto in prossimità dei centri abitati e delle aree a più alto impatto antropico
(in particolare le aree turisticamente più frequentate). La ricerca
ha permesso di valutare l’accumulo di elementi in tracce derivanti da attività antropiche e/o crostali mediante campioni di suolo
e campioni del muschio Hypnum cupressiforme, prescelto in quanto presente su quasi tutto il territorio europeo.
I risultati della ricerca condotta su muschi e suoli del Parco Nazionale dei Monti Sibillini hanno confermato come i muschi possano essere impiegati con successo per valutare le ricadute al suolo di contaminanti persistenti quali i metalli pesanti.
Accanto a Hypnum cupressiforme esistono tuttavia diverse altre specie che possono essere utilizzate nel biomonitoraggio ambientale,
in quanto capaci di fornire una elevata bioindicazione. Fra esse
vanno senz’altro segnalati Bryum argenteum e Tortula muralis, due
muschi terricoli che formano piccoli cuscinetti densi e che rappresentano due fra le specie più resistenti anche ad alte concentrazioni di inquinanti. In conseguenza della loro tolleranza esse
vengono utilizzate nel monitoraggio di aree industriali a forte inquinamento atmosferico e per la valutazione delle ricadute al suolo di elementi in tracce. In ambiente acquatico Fontinalis antipyretica e Rhynchostegium riparioides sono le due specie che, in virtù della loro ubiquitarietà e resistenza agli inquinanti, vengono
maggiormente utilizzate negli studi di monitoraggio acquatico.
Tuttavia possiamo affermare che ogni specie presenta un diverso
grado di tolleranza rispetto agli inquinanti; questo consente la realizzazione di “scale di tolleranza” con le quali è possibile stimare il
grado di inquinamento di un determinato territorio a partire dalla sua flora briologica.
Recenti studi condotti in alcuni centri delle Marche e in alcune
città della Spagna, hanno potuto dimostrare come alcune specie
abbiano una diversa sensibilità alla SO2. In particolare, Orthotrichum diaphanum e Tortula papillosa, due specie epifite, si sono dimostrate mediamente tolleranti, mentre Tortula ruralis viene indicata come una specie tollerante in quanto, sebbene non risulti
particolarmente favorita dall’inquinamento, è capace di sopportare alte concentrazioni di SO2. Partendo da tali considerazioni è
possibile, già su base floristica, osservare come le specie che si ritrovano più frequentemente nei centri studiati siano le più resistenti all’inquinamento.
170 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.23 - Thamnobryum
alopecurum è una specie che si
sviluppa sulle rocce umide e
stillicidiose degli habitat forestali.
La deforestazione e il diradamento
del bosco in generale determinano
la scomparsa di questa e di altre
specie che si sviluppano in
condizioni
microclimatiche
particolari di umidità e ombrosità.
scenti e per le specie epifille. La deforestazione, le pratiche forestali, con la rimozione di vecchi tronchi e l’impianto di specie esotiche, sono solo gli aspetti più evidenti di distruzione di tali ambienti (figura 4.23).
L’inquinamento atmosferico rappresenta la maggiore
minaccia alle specie epifite, in particolare di quelle più
sensibili agli agenti inquinanti; determinando un forte incremento dell’acidità delle piogge e dello stesso substrato, ha l’effetto di provocare una considerevole diminuzione del numero delle specie.
Gli ambienti umidi e di torbiera rappresentano il secondo, importante habitat naturale fortemente minacciato a causa delle attività estrattive, del drenaggio, della forestazione e dell’inquinamento. Nell’area mediterranea, infine, gli incendi e la conseguente erosione del
suolo, accanto ad un’alta pressione antropica determinata dall’attività turistica, rappresentano una costante minaccia agli habitat costieri.
Va quindi ribadita la necessità che gli interventi per
una corretta ed efficace azione di salvaguardia siano indirizzati non semplicemente alla protezione delle singole specie minacciate di estinzione, bensì alla conservazione degli ambienti che ne garantiscono la sopravvivenza.
E in questa prospettiva può risultare notevole il contributo che i cataloghi e le liste rosse regionali e nazionali
possono dare per una migliore conoscenza della biologia
ed ecologia di tali specie.
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172 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
FUNGHI
[Silvano Onofri, Annarosa Bernicchia, Valeria Filipello Marchisio,
Claudia Perini, Giuseppe Venturella, Laura Zucconi, Caterina Ripa]
I funghi erano inclusi, insieme a batteri, licheni e alghe, nella divisione Thallophyta del Regno Plantae fino a pochi decenni fa. Soltanto nel 1969, infatti, WHITTAKER ha proposto un regno a parte, il Regno Fungi,
distinto dai Regni Animalia, Monera, Plantae e Protista. Da allora le delimitazioni del Regno Fungi hanno
subito vari cambiamenti. Oggi, grazie al sostegno di più
approfonditi studi ultrastrutturali, biochimici e anche
molecolari, sono propriamente inclusi in questo Regno
i quattro phyla Chytridiomycota, Zygomycota, Ascomycota e Basidiomycota (Figure 4.24 e 4.25) ai quali si deve
aggiungere il gruppo informale dei funghi anamorfici,
che si riproducono asessualmente. Invece, organismi
come i Myxomycetes, gli Hyphochytridiomycetes e gli Oomycetes, precedentemente inclusi nel Regno Fungi, sono oggi inclusi nel regno Protista i primi e nel regno
Chromista gli altri due (KIRK et al., 2001). Studi di biologia molecolare sulle sequenze di rRNA di funghi in
simbiosi micorrizica vescicolo-arbuscolare con le radici di piante hanno portato recentemente alla proposta
della loro inclusione in un nuovo phylum Glomeromycota, comprendente quattro ordini (Glomerales, Diversisporales, Paraglomerales ed Archaeosporales), separato
rispetto al phylum Zygomycota, in cui tali specie erano
precedentemente inquadrate. Dalle analisi filogenetiche è risultato che il phylum Glomeromycota condivide
probabilmente un progenitore comune con gli Ascomycota e i Basidiomycota (SCHÜßLER et al., 2001).
Fig. 4.24 - Amanita caesarea (Scop. : Fr.) Pers., noto ed apprezzato
Basidiomicete (foto di A. Cherubini).
I funghi sono considerati i più antichi organismi che
dall’ambiente acquatico hanno colonizzato l’ambiente terrestre e sembrano essere più vicini evolutivamente agli animali che alle piante. Soltanto da una ventina di anni gli studi di vari ricercatori e micologi hanno evidenziato quanto importante sia il ruolo dei funghi sulla Terra (HAWKSWORTH, 1991). Solo alla fine
del 1900 si è risvegliato l’interesse degli scienziati per
la protezione dei funghi. Ad esempio l’European Council for the Conservation of Fungi (ECCF), fondato ad
Oslo nel 1985 in occasione del IX Congresso dei Micologi Europei e delle Journées Européennes du Cortinaire (JEC), ha sottolineato il contributo fondamentale dei funghi nella conservazione della natura e dell’ambiente attraverso incontri, studi e ricerche mirate
(KOUNE, 1999). La conservazione dei funghi, come degli altri viventi, può essere realizzata attraverso due vie
complementari, in situ ed ex situ. La conservazione in
situ è ostacolata dalla mancanza di informazioni, come la presenza di specie in un determinato luogo, dalla durata e intensità del lavoro necessario per produrre le liste di specie fungine e di mappe della loro distribuzione per conoscere la rarità di ogni specie e, in
molti casi, dalla mancanza di informazioni sulle esatte caratteristiche ecologiche delle specie; la conservazione ex situ è rappresentata dalle micoteche, anche se
purtroppo solo il 7% delle specie fungine conosciute
e l’1% di quelle stimate viene conservato nelle collezioni di tutto il mondo (HAWKSWORTH, l.c.).
Fig. 4.25 - Boletus edulis Bull. : Fr., specie nota e ricercata (foto AMER).
FLORA E VEGETAZIONE • 173
Micodiversità globale
Anche dopo la sistemazione in un Regno a sé stante e
pur rappresentando probabilmente il secondo più consistente gruppo di organismi viventi al mondo dopo quello degli insetti, i funghi non hanno avuto la necessaria
considerazione scientifica (e delle istituzioni), per quanto riguarda sia la stima numerica che la loro importanza
ecologica nella biosfera. La scarsa attenzione dedicata ai
funghi nei dibattiti sulla biodiversità è dovuta soprattutto alla mancata consapevolezza tra i biologi stessi della loro importanza nell’evoluzione, negli ecosistemi, nel progresso umano e in Gaia (HAWKSWORTH, 1991), ma anche alle non trascurabili difficoltà intrinseche allo studio
micologico.
A oggi sono state descritte circa 64.000 specie fungine, per quanto riguarda i soli Chytridiomycota, Zygomycota, Ascomycota e Basidiomycota, i phyla propriamente
inclusi nel Regno Fungi; le specie valide descritte di funghi anamorfici (Fungi Imperfecti) sono attualmente circa
16.000, per un totale di circa 80.000 specie. In assenza
di una Checklist mondiale di specie fungine ritenute nomenclaturalmente valide (obiettivo questo del CABI/BPI
quale parte del progetto IUBS/IUMS SPECIES 2000),
la possibilità che i funghi siano 100.000, se non addirittura 150.000, non può essere esclusa (KIRK et al., 2001).
Nell’ultima edizione dell’Ainsworth & Bisby’s Dictionary of the Fungi (KIRK et al., l.c.) il valore totale di specie
riportato, pari a 80.060, è comprensivo di parte dei Protozoa e dei Chromista, i quali incidono con 960 e 889 specie rispettivamente, pari al 2,3% del totale (Tabella 4.14);
nell’ambito dei Fungi, la micoflora totale attuale ammonta a 78.211 specie, di cui 29.914 appartenenti ai Basidiomycota (20.391 alla classe Basidiomycetes) e 32.739 appartenenti agli Ascomycota.
Alcuni Autori hanno basato lo studio delle stime mondiali di specie fungine sul rapporto tra numero di piante
conosciute in un determinato luogo e numero di funghi
rinvenuti su tutti i substrati nello stesso luogo (non solo
su piante o residui vegetali); proprio questo è stato uno
degli elementi chiave per arrivare al totale di 1,5 milioni
di specie fungine (HAWKSWORTH, 1991, 2001). Lo studio è stato ripetuto a distanza di 10 anni considerando
dati aggiornati ma sempre confrontando i rapporti tra
piante e funghi in diverse località del Regno Unito: oggi
la media di questi rapporti, che nello studio precedente
era di 1:6, va da 1:5,4 (esclusi i microfunghi) a 1:8,4 (compresi i microfunghi); una semplice estrapolazione di quest’ultimo rapporto su scala mondiale, usando la stima di
Generi
Protozoa
Acrasiomycota
Myxomycota
Dictyosteliomycetes
Myxomycetes
Protosteliomycetes
Plasmodiophoromycota
4
62
14
Specie
1.037
195
119
55
124
Specie
6
80
12
879
15
162
47
960
6
13
92
117
23
48
808
889
3.409
1.353
32.739
29.914
123
181
914
1.090
2.887
15.945
78.211
80.060
46
798
35
Chromista
Hyphochytriomycota
Labyrinthulomycota
Oomycota
Fungi
Ascomycota
Basidiomycota
Basidiomycetes
Urediniomycetes
Ustilaginomycetes
Chytridiomycota
Zygomycota
Trichomycetes
Zygomycetes
Funghi anamorfici
Generi
20.391
8.057
1.464
218
870
Totale
Tabella 4.14 - I numeri dei funghi conosciuti al mondo
(KIRK et al., 2001).
270.000 specie di piante vascolari, porta ad un valore tra
circa 1.500.000 e 2.300.000 il numero di specie fungine
stimate sulla Terra (HAWKSWORTH, 2001).
Lo studio della biodiversità fungina in Italia
La micologia italiana vanta una solida e gloriosa tradizione, che può essere fatta risalire a PLINIO IL VECCHIO
(23-79 d.C.) e che riconosce i suoi più significativi rappresentanti in P.A. MICHELI (1679-1737), G. DE NOTARIS (1805-1877), P.A. SACCARDO (1845-1920) e G. BRESADOLA (1847-1929) (ONOFRI et al., 1999).
Molti autori hanno pubblicato flore locali o regionali
comprendenti numerose specie fungine, come la Flora
Ticinensis (Pavia, 1816-1826) di G.B. BALBIS e D. NOCCA, con 213 specie fungine lombarde, la Flora Veronensis
(Verona, 1822-1824) di C. POLLINI, con 400 specie fungine dell’Italia settentrionale, le due centurie dei Funghi
Siciliani (Palermo, 1865 e 1879) di G. INZENGA, i Funghi napolitani enumerati (Portici, 1878) di O. COMES (241
specie), i Fungi Tridentini novi vel nondum delineati (1881-
174 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
1892) di G. BRESADOLA, la Flora Veneta Cryptogamica (Padova, 1885) di G. BIZZOZERO e il Primo censimento dei
funghi della Liguria (Genova, 1886) di F. BAGLIETTO (LAZZARI, 1973).
L’opera di F. CAVARA merita di essere citata sia per la
pubblicazione di una collezione di exsiccata dal titolo Fungi Longobardiae exsiccati (Pavia, 1890-1896), sia soprattutto per aver proposto e sostenuto la realizzazione della
Flora Italica Cryptogama (1905-1943), pubblicata a cura
della Società Botanica Italiana. Quest’opera consta di cinque parti: Fungi, Algae, Lichenes, Bryophyta, Pteridophyta. La parte Fungi è la più estesa, è suddivisa in numerosi fascicoli, cui hanno collaborato sette importanti micologi. I fascicoli relativi ai Gasterales (1909) e Hymeniales
(1915 e 1916), che si occupano dello stesso contingente
tassonomico preso in considerazione nella recente Checklist dei funghi italiani, sono rispettivamente di L. PETRI e
P.A. SACCARDO. A titolo di esempio tra gli Hymeniales sono enumerate 2.331 specie e 263 varietà.
SACCARDO ha fornito un enorme contributo alla micologia descrittiva internazionale, che culmina nella Sylloge fungorum omnium hucusque cognitorum (Padova, 18821931). Oltre a contribuire alla Flora Italica Cryptogama
egli pubblica, tra il 1873 e il 1881, una poderosa flora
micologica del Veneto dal titolo Fungi veneti novi vel critici e, tra il 1877 e il 1886, Fungi italici autographice delineati, che include 1500 specie fungine, soprattutto microfunghi, magistralmente illustrate (LAZZARI, 1973).
A fronte di un fiorente periodo di attività che caratterizza la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, gli studi micologici in Italia hanno poi subìto dei cambiamenti di indirizzo e hanno preso piede studi di morfologia,
genetica e fisiologia a livello organismico; soltanto negli
ultimi decenni si assiste a una ripresa degli studi di micologia floristica.
Micodiversità italiana
Se applicassimo al minimo i rapporti stimati da HAWKSWORTH (1991, 2001) tra numero di specie di piante va-
scolari e di funghi, la micoflora italiana dovrebbe ammontare teoricamente a oltre 300.000 specie.
L’esigenza, sentita da numerosi micologi italiani, di
conoscere la distribuzione e la diversità delle specie fungine, ha fatto sì che siano state redatte liste e realizzate
mappature a carattere regionale e locale, tra le quali le
più significative sono quelle compilate per la Sicilia da
VENTURELLA (1991), per l’Alto Adige da BELLÙ (1992),
per la Toscana da PERINI et al. (1999) e per la Liguria da
ZOTTI e ORSINO (2001). Nel 2000 il Ministero dell’Ambiente ha stipulato una Convenzione con l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo per la realizzazione della Checklist nazionale dei Basidiomiceti (limitatamente
alla Classe Basidiomycetes), la Check-list dei funghi italiani, Parte I: Basidiomycota, Hymenomycetes (ONOFRI, 2001).
Questo censimento delle specie fungine italiane è il primo e più importante passo verso un’ampia e completa
conoscenza della micodiversità nel nostro Paese, che per
ora lascia fuori i basidiomiceti parassiti che comunemente vengono chiamati ruggini e carboni, gli ascomiceti, gli
zigomiceti e i funghi anamorfici (funghi di cui non si conosce la riproduzione sessuale). Molte difficoltà sono state incontrate nella realizzazione di questo progetto, soprattutto per quanto riguarda la scarsa omogeneità dei
dati riferiti al territorio nazionale e la quasi totale assenza di dati in alcune regioni. L’enorme varietà geografica,
climatica, geologica, pedologica e quindi biogeografica
e biologica che caratterizza il nostro paese e la non omogenea distribuzione dei micologi sul territorio nazionale possono in parte spiegare questa situazione. La varietà e la variabilità climatica e degli habitat rendono la nostra flora ricchissima e diversificata ed altrettanto diversificata è la micoflora (ONOFRI, 1994). Il numero di entità registrato finora in Italia per la classe Basidiomycetes
(phylum Basidiomycota) ammonta a 4.296 (di cui 3.973
specie, 6 sottospecie, 263 varietà, 54 forme), cioè circa
il 20% del numero totale di specie (20.391) a oggi conosciute nel mondo per questa classe; è questa una percentuale elevata, sicuramente destinata ad aumentare, in
considerazione dell’ampiezza del territorio attualmente
ancora inesplorato.
La micodiversità dei Basidiomycetes in ogni regione italiana è evidenziata in figura 4.26.
Elevata risulta essere la percentuale dei generi segnalati in Italia, che ammontano a 443, corrispondente al
43% dei generi noti al mondo (1.037) ad oggi inclusi
in questa classe: il gruppo più numeroso è quello dell’ordine (attualmente considerato raggruppamento artificiale e suddiviso in ordini diversi) Aphyllophorales con
233 generi (52,6%), seguito dalle Agaricales con 119 generi (27%). Pochi generi appartengono agli altri ordini.
Se per le Aphyllophorales non si dispone di una stima
mondiale del numero di generi e di specie, per le Agaricales sono riportati complessivamente in bibliografia
347 generi e 9.387 specie (KIRK et al., 2001); considerato il numero totale di generi per quest’ordine, in Italia risulta essere presente il 40% dei generi delle Agaricales conosciuti finora nel mondo.
FLORA E VEGETAZIONE • 175
Fig. 4.26 - Numero di
Basidiomiceti per ogni regione.
Per quanto riguarda la distribuzione delle specie negli ordini più rappresentati, il maggior numero di specie ed entità infraspecifiche, pari a 1.782, appartiene
alle Agaricales (41,5% delle entità italiane censite) che,
con 6.000 specie complessive, è il gruppo più ricco in
specie anche nella micoflora mondiale. Rispetto alla
consistenza mondiale del numero delle specie, in Italia
si è registrato circa il 30% delle specie delle Agaricales
note oggi a livello mondiale. Seguono poi le Aphyllophorales, con 1.047 entità (24% delle entità italiane censite), e le Cortinariales, con 817 entità (19% delle entità italiane censite); quest’ultimo valore è molto elevato perché rappresenta il 60% del numero totale di specie per quest’ordine, che è di 1.360. Questo dato conferma quanto già osservato a livello europeo dove, per
l’ordine Cortinariales, è stato registrato il maggior numero di specie rispetto alla consistenza globale del gruppo (KOUNE, 1999), il che indica che l’ordine include
soprattutto specie europee.
Le grandi diversità e distribuzione di generi e specie
fungine sono conseguenza, oltre che di peculiari fattori biotici, dei caratteri climatici e edafici del territorio
italiano. Proprio i fattori ambientali sono quelli che generalmente determinano la loro distribuzione spaziotemporale (PERINI et al., 1993). Bisogna infatti sottolineare che la segnalazione dei funghi è strettamente legata alla presenza di sporofori (corpi fruttiferi), ma come è ben noto non è detto che la mancanza di questi
ultimi corrisponda a una reale assenza del micelio vegetativo di quella specie.
Secondo uno studio condotto dopo la pubblicazione
della Flora Europaea (TUTIN et al., 1964-1980), l’Italia
risulta la nazione europea con il più alto numero di specie vegetali. Si potrebbe ipotizzare che all’alta diversità
floristica corrisponda un alto valore di diversità fungina.
Purtroppo nei paesi dell’area mediterranea non sono stati effettuati molti studi che descrivano dettagliatamente
la reale consistenza della micoflora sul territorio. Un primo passo verso una ricerca più accurata sulla diversità
fungina è stato fatto in Grecia da ZERVAKIS et al. (1998);
questo studio ha portato alla compilazione di una Checklist di 811 specie fungine, del phylum Basidiomycota, appartenenti a 10 ordini e 214 generi. Tali valori lasciano
intendere quanto provvisoria sia la Checklist greca; ciò è
stato affermato anche dagli autori che sottolineano il carattere preliminare del lavoro, legato al fatto che i dati
pubblicati sono pochi e riguardano quasi esclusivamente le regioni settentrionali. Facendo un confronto con la
Checklist italiana si è potuto notare come l’andamento
della distribuzione dei generi e delle specie, negli ordini
più rappresentati, ricalchi la situazione italiana; è questo
un risultato che ben si accorda con le somiglianze floristiche e climatiche esistenti tra questi due paesi che appartengono entrambi alla fascia mediterranea.
Attualmente sono disponibili anche dati del tutto preliminari relativi agli Ascomiceti, risultato di un lavoro
locale effettuato nel Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università della Tuscia. Tale lavoro ha consentito
di realizzare un Thesaurus di 532 nomi di Ascomiceti e
di 380 sinonimi; sarà questo uno strumento utile per i
successivi lavori di ampliamento e aggiornamento dei dati riguardanti il phylum Ascomycota.
176 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Specie endemiche, esotiche, rare e minacciate in Italia
Le informazioni contenute nella Checklist dei funghi
italiani riguardano anche dati di ecologia delle specie e
delle loro condizioni di endemicità, esoticità e rarità nel
nostro paese. Sulla base di questi dati preliminari, risultano così segnalate 56 specie con possibili caratteristiche
di endemicità (Tabella 4.15; Figure 4.27 e 4.28), 12 specie esotiche (Tabella 4.16), mentre 87 potrebbero essere
le specie rare, minacciate e/o a rischio d’estinzione (Tabella 4.17; Figura 4.29). Tutte le notizie sull’endemicità,
l’esoticità e la rarità delle specie suddette sono state ricavate dai lavori bibliografici e dalle valutazioni personali
dei revisori della Checklist, i quali hanno anche indicato
la criticità tassonomica di 406 specie di Basidiomycetes.
Comunque queste informazioni, basandosi su dati che
spesso sono incompleti o preliminari, dovranno essere verificate caso per caso.
Fig. 4.27 - Antrodia macrospora
Bernicchia & De Dominicis,
specie con possibili caratteristiche
di endemicità (foto di C. Perini).
Fig. 4.28 - Pleurotus nebrodensis
(Inzenga) Quél., specie con
caratteristiche di rarità (foto di
G. Venturella).
Fig. 4.29 - Cortinarius praestans (Cordier) Gillet, specie con possibili
caratteristiche di rarità in alcune regioni italiane (foto di C. Perini).
Albatrellus syringae (Parmasto) Pouzar
Aleurodiscus ilexicola Bernicchia & Ryvarden
Alnicola sphagneti (P.D. Orton) Romagn.
Amaurodon viridis (Alb. & Schwein. : Fr.) J. Schröt.
Amphinema diadema K.H. Larss. & Hjortstam
Antrodia alpina (Litsch.) Gilb. & Ryvarden
A. macrospora Bernicchia & De Dominicis
Ceriporia sulphuricolor Bernicchia & Niemelä
Cortinarius anthracinus (Fr.) Fr.
C. aurilicis Chevassut & Trescol
C. cavipes J. Favre
C. emunctus Fr.
C. favrei M.M. Moser
C. gentilis (Fr.) Fr.
C. helvelloides (Fr.) Fr.
C. ionochlorus Maire
C. ionophyllus M.M. Moser
C. ionosmus M.M. Moser, Nespiak & Schwöbel
C. pholideuns (Fr. : Fr.) Fr.
C. porphyropus (Alb. & Schwein.) Fr.
C. subtorvus Lamoure
Dendrothele incrustans (P.A. Lemke) P.A. Lemke
D. nivosa (Höhn. & Litsch.) P.A. Lemke
Dentipellis fragilis (Pers. : Fr.) Donk
Duportella malençonii (Boidin & Lanq.) Hjortstam
Echinodontium ryvardenii Bernicchia & Piga
Entoloma ritae Noorde. & Wölfel
Filobasidiella lutea P. Roberts
Fomitopsis labyrinthica Bernicchia & Ryvarden
Hebeloma ammophylum Bohus
H. bruchetii Bon
H. cistophilum Maire
H. kuehneri Bruchet
H. marinatulum (J. Favre) Bruchet
Hyphoderma orphanellum (Bourdot & Galzin) Donk
Inocybe arenicola (R. Heim) Bon
I. coelestium Kuyper
I. egenula J. Favre
I. geraniodora J. Favre
I. glabrescens Velen.
I. guttulifera Kühner
I. heimii Bon
I. leptophylla G.F. Atk.
I. leucoloma Kühner
I. monochroa J. Favre
I. napipes J.E. Lange
I. ochroalba Bruyl.
I. oreina J. Favre
I. pseudohiulca Kühner
I. salicis Kühner
I. taxocystis (J. Favre) Singer
I. tetragonospora Kühner
I. umbrinodisca Kühner
Piloporia sajanensis (Parmasto) Niemelä
Pleurotus nebrodensis (Inzenga) Quél.
Russula citrinochlora Singer
Tabella 4.15 - Le 56 specie con possibili caratteristiche di endemicità
della classe Basidiomycetes.
FLORA E VEGETAZIONE • 177
Boletus caucasicus (Singer) Singer
B. dryophilus Thiers
B. frostii J.L. Russell
B. mamorensis Redeuilh
B. speciosus Frost
Conocybe intrusa (Peck) Singer
Cortinarius albocinctus M.M. Moser
C. herculeus Malençon
Entoloma vezzenaense Noordel. & Hauskn.
Favolaschia calocera R. Heim
Suillus amabilis (Peck) Singer
Tricholoma tridentinum Singer var. cedretorum Bon
Aleurodiscus botryosus Burt
A. cerussatus (Bres.) Höhn. & Litsch.
A. dextrinoideocerussatus G. Moreno, M.N. Blanco & Manjon
Alnicola sphagneti (P.D. Orton) Romagn.
A. tantilla (J. Favre) Romagn.
Amphinema diadema K.H. Larss. & Hjortstam
Amyloathelia amylacea (Bourdot & Galzin) Hjortstam & Ryvarden
Amylocorticium subincarnatum (Peck) Pouzar
A. subsulphureum (P. Karst.) Pouzar
Antrodia radiculosa (Peck) Gilb. & Ryvarden
Botryobasidium botryoideum (Overh.) Parmasto
B. candicans J. Erikss.
B. conspersum J. Erikss.
Brevicellicium exile (H.S. Jacks.) K.H. Larss. & Hjortstam
Bulbillomyces farinosus (Bres.) Jülick
Ceraceomyces borealis (Romell) J. Erikss. & Ryvarden
C. sulphurinus (P. Karst.) J. Erikss. & Ryvarden
Cerinomyces crustulinus (Bourdot & Galzin) Martin
Ceriporia excelsa (S. Lundell) Parmasto
Ceriporiopsis pannocincta (Romell) Gilb. & Ryvarden
Clavulicium delectabile (H.S. Jacks.) Hjortstam
C. macounii (Burt) J. Erikss. & Boidin
Cortinarius aurantiomarginatus Jul. Schäff.
C. badiovinaceus M.M. Moser
C. bibulus Quél.
C. caesiocinctus Kühner
C. calopus P. Karst.
C. canabarba M.M. Moser
C. colus Fr.
C. croceoconus Fr.
C. fuscoperonatus Kühner
C. gentilis (Fr.) Fr.
C. helobius Romagn.
C. hillieri Rob. Henry
C. ionosmus M.M. Moser, Nespiak & Schwöbel
C. latobalteatus (Schaeff. apud M.M. Moser) M.M. Moser
C. leochrous Schaeff.
C. magicus Eichhirn
C. orellanoides Rob. Henry
C. papulosus Fr.
C. paracephalixus Bohus
C. parvannulatus Kühner
C. patibilis Brandud & Melot
C. pluvius (Fr. : Fr.) Fr.
Tabella 4.16 - Le 12 specie e varietà esotiche della classe Basidiomycetes.
Tabella 4.17 - Le 87 specie e varietà con possibili caratteristiche di
rarità, almeno in alcune zone d’Italia. Alcune di queste specie dovrebbero
essere considerate minacciate e/o a rischio di estinzione in Italia.
C. porphyropus (Alb. & Schwein.) Fr.
C. praestans (Cordier) Gillet
C. psammocephalus (Bull.) Fr.
C. pulchripes J. Favre
C. pygmaeus (Velen.) M.M. Moser
C. scaurotraganoides Rob. Henry
C. subporphyropus Pilát
C. terpsichores Melot var. calosporus Melot
C. uliginosus Berk.
Cristinia gallica (Pilát) Jülich
C. rhenana Grosse-Brauckm.
Crustoderma dryinum (Berk. & M.A. Curtis) Parmasto
Crustomyces expallens (Bres.) Hjortstam
C. subabruptum (Bourdot & Galzin) Jülich
Cyphellostereum laeve (Fr. : Fr.) D.A. Reid
Cystostereum murraii (Berk. & M.A. Curtis) Pouzar
Dentipellis fragilis (Pers. : Fr.) Donk
Erythricium hypnophilum (P. Karst.) J. Erikss. & Hjortstam
Fibricium rude (P. Karst.) Jülich
F. subceraceum (Hallenb.) Bernicchia
Fomitopsis cajanderi (P. Karst.) Kotl. & Pouzar
Gloecystidiellum karstenii (Bourdot & Galzin) Donk
Hebeloma funariophilum M.M. Moser
H. pyrophilum G. Moreno & M.M. Moser
Hyphoderma litschaueri (Burt) J. Erikss. & Å. Strid
Hypochnicium polonense (Bres.) Å. Strid
Inocybe albomarginata Velen.
I. albovelutipes Stangl
I. amblyspora Kühner
I. fuscescentipes Kühner
I. geraniodora J. Favre
I. glabrescens Velen.
I. huijsmannii Kuyper
I. leptophylla G.F. Atk.
I. oreina J. Favre
I. piceae Stangl & Schwöbel
I. tricolor Kühner
Inonotus dryophilus (Berk.) Murrill
Mucronella flava Corner
Oxyporus corticola (Fr. : Fr.) Ryvarden
Phanerochaete aff. avellanea (Bres.) J.Erikss. & Ryvarden
Phlebia chrysocreas (Berk. & M.A. Curtis) Burds.
Pleurotus nebrodensis (Inzenga) Quél.
178 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Negli allegati della Convenzione di Berna del Consiglio d’Europa (1979) sono presenti riferimenti piuttosto
generici per quanto riguarda i funghi.
A livello europeo, nel 1993 ING propose un primo elenco di specie da includere in una lista rossa che non comprendeva dati riguardanti i paesi dell’area mediterranea,
quali Albania, Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna. In questa lista erano elencati 278 macrofunghi minacciati di estinzione o estinti e in particolare ING (l.c.)
ripartì le specie minacciate in 4 gruppi indicati con le sigle A, B, C, D. Nel gruppo A sono incluse le specie che
avevano subito significative regressioni, rapido declino
nelle popolazioni, molte estinzioni a livello nazionale; nel
gruppo B sono incluse specie in evidente stato di declino, alcune specie in via di estinzione a livello nazionale;
nel gruppo C sono comprese specie afferenti a popolazioni fungine ampiamente distribuite, ma sparse sul territorio, caratterizzate da limitati casi di estinzione; nel gruppo D sono incluse le specie fungine che mostrano decrementi a livello locale ed alcune estinzioni, ma principalmente localizzate ai limiti del loro areale geografico.
Nel 1997 VENTURELLA et al. hanno proposto un elenco provvisorio di 23 specie di macrofunghi minacciati in
Italia (Tabella 4.18), attribuendole tutte alla categoria K
dell’IUCN (successivamente trasformata in DD - Data
Deficient), comprendente ‘taxa che si suppone possano
Amanita eliae Quél.
Antrodiella onychoides (Egeland) Niemelä
Battarrea phalloides Dicks.: Pers.
Boletus junquilleus (Quél.) Boud.
Cortinarius herculeus Malençon
Cortinarius orellanus (Fr.) Fr.
Dendrothele incrustans (P.A. Lemke) P.A. Lemke
Entoloma madidum (Fr.) Gillet
Gyrodontium sacchari (Spreng.) Hjortstam
Hebeloma hiemale Bres.
Hebeloma remyi Bruchet
Hygrocybe calyptriformis (Berk. & Broome) Fayod
Hygrocybe spadicea (Scop.: Fr.) P. Karst.
Inocybe tricolor Kühner
Junghuhnia semisupiniformis (Murr.) Ryvarden
Leucopaxillus lepistoides (Maire) Singer
Lycoperdon mammeiforme Pers.
Melanophyllum eyrei (Massal.) Singer
Panaeolus dunensis Bon & Courtec.
Rhodotus palmatus (Bull. Fr.) Maire
Russula seperina Dupain
Torrendia pulchella Bres.
Trametes ljubarskyi Pilát
Tabella 4.18 - Specie di macrofunghi minacciati in Italia
essere inclusi in una delle categorie di rischio’ ma per i
quali mancano ancora informazioni sufficienti a giustificare una loro collocazione in una delle altre categorie
IUCN. Allo stato attuale delle conoscenze solamente Inocybe tricolor risulta confermare il suo stato di specie minacciata. Dall’integrazione e dal confronto di dati attualmente esistenti e da acquisire potrà scaturire una Lista
Rossa delle specie fungine italiane e degli habitat che le
comprendono.
Fig. 4.30 - Trametes versicolor (L. : Fr.) Pilát (foto di S. Onofri).
Fig. 4.31 - Ganoderma lucidum (Curtis : Fr.) P. Karst. (foto di S. Onofri).
Fig. 4.32 - Suillus granulatus (L. : Fr.) Roussel (foto di S. Onofri).
FLORA E VEGETAZIONE • 179
Fig. 4.33 - Gyroporus castaneus (Bull. : Fr.) Quél. (foto di S. Onofri).
Problematiche di conservazione
L’Italia presenta una micoflora estremamente diversificata in specie, varietà e forme. I raggruppamenti considerati comprendono soprattutto specie con sporofori di dimensioni considerevoli, cui si riferiscono la maggior parte dei dati di rilevamento sul territorio nazionale: ciò sia per la maggior facilità di rinvenimento e
identificazione tassonomica, sia, spesso, per il loro interesse economico e commerciale. I dati a disposizione
sono in parte influenzati dalla presenza non omogenea
dei micologi sul territorio ed evidenziano la necessità
di ricerche approfondite nelle regioni finora meno esplorate. Il disporre di liste aggiornate delle specie fungine
italiane, di mappe della loro distribuzione e di dati sulla loro ecologia, nonchè di liste rosse delle specie fungine potrà costituire anche un valido strumento per la
valutazione del valore naturalistico complessivo degli
habitat. I funghi spesso costituiscono un elemento della biocenosi particolarmente sensibile alle modificazioni ambientali. Ad esempio la scomparsa di specie fungine micorrizogene in ambienti forestali, dovuta a modificazioni dell’acidità o del contenuto in cationi tossici del suolo, può essere predittiva di gravi deperimenti
del bosco, anche come conseguenza diretta del danneggiamento del fungo simbionte stesso. Tale uso delle conoscenze micologiche si basa, però, sull’esistenza di dati numerosi e verificati sulla presenza e sul ruolo di specie in ambienti di comparazione in buono stato di conservazione; occorre far presto ad acquisire tali dati. È
stato già proposto l’uso dei dati sulle comunità naturali di funghi per il biomonitoraggio dell’inquinamento
atmosferico e della contaminazione da metalli pesanti
(ONOFRI e ZUCCONI, 1999).
Sebbene esistano dati bibliografici sulle capacità di ac-
cumulo di metalli pesanti da parte di diverse specie micorrizogene e non, gli autori sembrano escludere la possibilità di individuare singole specie come validi indicatori (MICHELOT et al., 1998). Più realistica e applicativa,
sebbene manchino protocolli standardizzati, potrebbe essere l’analisi del decremento della micodiversità associata all’inquinamento ambientale, che si manifesta con 510 anni di anticipo rispetto al declino delle comunità forestali; questa maggiore sensibilità conferisce alle comunità fungine significative prospettive di applicazione.
Alcuni ricercatori europei hanno suggerito l’uso del
rapporto di micorrizazione (rapporto tra la percentuale
di funghi micorrizogeni rispetto a tutti i macromiceti)
come indicatore del livello di inquinamento dei boschi,
poiché risulta molto più basso in aree contaminate (FELLNER, 1993). Tale indice sembra non essere però applicabile all’area Mediterranea, dove il numero di specie micorrizogene è significativamente correlato anche ad altri
parametri ambientali, quali altitudine, numero di specie
vegetali e copertura arborea (LAGANÀ et al., 1999).
Il cambiamento climatico in atto, almeno in parte
imputabile alle attività umane, influisce sulle comunità
fungine, sia indirettamente, modificando l’ambiente vegetale, sia direttamente, favorendo la sostituzione di specie autoctone con specie maggiormente termofile. Il monitoraggio delle modifiche degli areali di distribuzione
delle specie fungine e dell’ingressione di specie esotiche,
fornisce dati che potrebbero costituire un valido riferimento per lo studio e il monitoraggio degli effetti dei
cambiamenti climatici, come è stato proposto da VAN
HERK et al. (2002) per i licheni.
È in ogni caso chiaro che la distruzione degli habitat
è causa primaria del declino delle specie fungine, quindi la conservazione delle specie rare o minacciate passa
necessariamente attraverso la protezione dei loro habitat caratteristici. Tale ovvia considerazione si scontra
spesso con la scarsa conoscenza sui reali habitat di tali
specie. In questo caso la banca dati micologica, che riporta anche gli habitat in cui le specie sono rilevate, diventa strumento indispensabile di conservazione.
La costituzione di riserve micologiche costituisce una
valida iniziativa per la conservazione delle specie fungine, non fosse altro perché consente di preservare gli habitat in cui vivono tali specie (COURTECUISSE, 2001).
Non deve essere trascurata poi la coltivazione dei funghi che, come nel caso di Pleurotus nebrodensis (Inzenga) Quél. in Sicilia, porta a una conservazione della specie commestibile, molto ricercata, rara e a rischio di estinzione, conservandola ex situ, ma soprattutto diminuen-
180 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
do la pressione di raccolta (VENTURELLA e FERRI, 2001;
ZERVAKIS e VENTURELLA, 2002).
A tale proposito non si deve dimenticare che spesso i
funghi spontanei costituiscono una fonte di reddito e
frequentemente fanno anche parte delle tradizioni culturali di alcune popolazioni. In tali casi bisogna programmare un uso sostenibile della risorsa fungo, sia cercando alternative alla raccolta, come nel caso citato di
P. nebrodensis, sia regolandone la raccolta stessa. In ogni
caso, pur nel rispetto di usi, costumi, tradizioni e attività economiche, è necessario ricordare che:
la raccolta degli sporofori di ogni singola specie influisce sulla riproduzione di quella specie;
la semplice pressione antropica dovuta ai raccoglitori
influisce negativamente su tutte le specie fungine presenti nell’habitat, comprese quelle di cui è vietata la raccolta. La valutazione dei quantitativi consentiti di prelievo
deve essere quindi effettuata caso per caso, per le singole specie e le singole zone, tenendo nel dovuto conto l’effetto a breve, medio e lungo termine. A tale scopo si può
ipotizzare l’individuazione di zone a tutela integrale come siti di conservazione e di comparazione.
Fig. 4.34 - Amanita vaginata (Bull. : Fr.) Vittad. (foto AMER).
Fig. 4.35 - Amanita phalloides (Fr.) Link. (foto AMER).
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182 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
LICHENI
[Pier Luigi Nimis, Stefano Martellos]
I licheni (Tavola 4.1) sono funghi (Ascomiceti, più raramente Basidiomiceti) che vivono in simbiosi con organismi fotosintetizzanti (cianobatteri e/o alghe verdi). Dal
punto di vista sistematico, essi appartengono al Regno
Fungi e per questo vengono spesso chiamati ‘funghi lichenizzati’. A livello planetario si stima che le specie sinora
descritte ammontino a ca. 16.000 (HAWKSWORTH, 1991).
I licheni sono in grado di insediarsi su una grande varietà di substrati: sulle rocce, sulle cortecce degli alberi, sul
legno, sul terreno, sulle foglie. Essi sono gli ultimi rappresentanti della vita vegetale nelle regioni polari e la resistenza ai climi più estremi è possibile esclusivamente alla simbiosi lichenica: il fungo o l’alga separatamente non
sarebbero in grado di sopravvivere. I licheni sono ottimi
indicatori biologici: sensibilissimi a certi tipi di inquinamento atmosferico, sono in grado di accumulare metalli
in traccia; alcune specie fungono da indicatori di lunga
continuità ecologica delle foreste. Importante è anche il
ruolo che i licheni hanno nel biodeterioramento dei monumenti in pietra, un problema particolarmente sentito
nel nostro Paese. Molti associano la parola “lichene” agli
ecosistemi boreale e artico, ove i licheni sono spesso gli
elementi dominanti del paesaggio. Potrà quindi stupire
che l’Italia, con più di 2300 specie (14,4% della flora lichenica mondiale), sia uno dei paesi europei con la più
alta diversità lichenica.
La lichenologia in Italia: cenni storici
In Italia gli studi sui funghi lichenizzati vantano una
tradizione che risale al fondatore della lichenologia come
scienza: P.A. MICHELI (1679-1737), che nel Nova Plantarum Genera del 1729 per la prima volta propose un sistema classificatorio per i licheni. Alla metà dell XIX secolo, per un breve ma intenso periodo, l’Italia divenne la
sede della principale scuola lichenologica europea. Le figure dominanti del ‘periodo d’oro’ della lichenologia italiana (NIMIS e BARTOLI, 1992) furono G. DE NOTARIS
(1805-1877), V. TREVISAN (1818-1897), A. MASSALONGO (1824-1860), M. ANZI (1812-1883) e F. BAGLIETTO
(1826-1916). Soprattutto gli ultimi due produssero alcuni dei migliori studi floristici mai effettuati in Italia (Liguria, Sardegna, Toscana, Alpi centro-occidentali). Il ‘periodo d’oro’ durò pochi anni, dal 1846 al 1880, cui seguì
un rapido declino che culminò nella quasi estinzione della scuola lichenologica italiana agli inizi del ‘900. Gli ul-
timi anni del secolo sono dominati dalla figura di A. JAT(1852-1912), che intraprese l’esplorazione sistematica del meridione e che al principio del secolo pubblicò la
prima e unica flora lichenologica d’Italia (JATTA, 190911). Quest’opera era certamente un buon lavoro di sintesi, che necessitava però di essere emendato e integrato
da una nuova generazione di lichenologi. Purtroppo la
scuola lichenologica italiana stava ormai per estinguersi e
oggi la flora di Jatta appare come una pesante lapide che
giace sul ‘periodo d’oro’ della lichenologia italiana.
Nella prima metà del XX secolo la lichenologia italiana fu rappresentata da pochi nomi: C. SBARBARO (18881967), M. CENGIA-SAMBO (1888-1939) e R. TOMASELLI (1920-1982). Nel secondo dopoguerra gli studi sui licheni divennero una delle branche più dinamiche e interessanti della botanica a livello internazionale. Nel 1987
alcuni ricercatori italiani decisero di dare vita alla Società Lichenologica Italiana (SLI), che ebbe un inaspettato
successo, superando rapidamente i 300 iscritti. Oggi si
assiste a una vera e propria rinascita della lichenologia italiana e il numero di pubblicazioni floristiche ed ecologiche, sia di base che applicative (bioindicazione, bioalterazione di monumenti), è in continua crescita.
TA
La diversità lichenica d’Italia
La prima sintesi moderna sui licheni d’Italia fu la checklist annotata di NIMIS (1993) che riportava 2145 taxa infragenerici, specificandone la distribuzione regionale sulla
base di uno screening della letteratura dal 1800 al 1992.
La checklist di NIMIS (1993) è stata trasformata in un complesso database consultabile in rete (ITALIC) a partire dal
1999. I dati ivi contenuti, tuttavia, non sono stati aggiornati né rispetto alle intense ricerche lichenologiche svolte
in Italia negli ultimi dieci anni, né rispetto ai progressi della sistematica a livello internazionale. Le cifre che seguono
si riferiscono all’ultimo aggiornamento effettuato da NIMIS e TRETIACH (1999) e a dati inediti non ancora inseriti in ITALIC. Alla fine del 2002 il numero totale di specie
note per l’Italia ha raggiunto i 2323 taxa. I licheni crostosi, con il 69,2%, rappresentano la grande maggioranza di
quelli presenti in Italia, seguiti da quelli foliosi (13,8%),
fruticosi (10,9%), squamulosi (5%) e leprosi (1,1%). Per
quel che riguarda i fotobionti, il 79% dei licheni italiani è
in simbiosi con alghe verdi clorococcali, il 9% con alghe
verdi del genere Trentepholia e il 12% con cianobatteri. La
cifra di circa 2300-2400 specie è probabilmente una stima
corretta della diversità lichenologica del Paese. Molte specie descritte nel secolo scorso e non criticamente riviste ar-
FLORA E VEGETAZIONE • 183
Tavola 4.1a
Tavola 4.1b
Tavola 4.1c
Tavola 4.1d
Tavola 4.1e
Tavola 4.1f
Tavola 4.1 a. Chaenotheca gracilenta, un rappresentante dei “licheni a spillo” (Caliciales), spesso utilizzati come indicatori di lunga continuità
ecologica delle foreste; b. Ochrolechia balcanica, un tipico lichene crostoso delle foreste di faggio dell’Italia centro-settentrionale; c. Solorinella
asteriscus, un rarissimo lichene terricolo ad affinità steppico-continentali, ristretto a poche vallate alpine a clima secco; d. Xanthoria fallax, un
comune lichene folioso che cresce su alberi isolati in ambienti moderatamente antropizzati; e. Anaptychia ciliaris, un lichene epifita ancora
comune sugli Appennini, in rapido declino nell’Italia settentrionale; f. Caloplaca ferruginea, un lichene crostoso comune su vecchie querce in
ambienti non inquinati.
ricchiranno la lista dei sinonimi, ma numerose specie presenti nei paesi limitrofi verranno ritrovate anche in Italia.
L’alta biodiversità lichenica d’Italia riflette la sua estensione attraverso due biomi, quello temperato e quello mediterraneo, con i relativi orobiomi e con un’alta varietà di
substrati litici e di tipi climatici diversi.
L’esplorazione lichenologica del Paese non è stata omogenea: le regioni meglio studiate sono il Trentino-Alto Adige, la Lombardia, il Piemonte e la Sardegna, con più di
1000 specie, le meno studiate sono quelle del versante
adriatico della penisola. La figura 4.36 indica i rapidi progressi nell’esplorazione lichenologica dell’ Italia dal 1992
al 1999. L’Italia settentrionale è oggi una delle aree meglio
esplorate al mondo, mentre molto rimane ancora da fare
per l’Italia centrale e soprattutto per quella meridionale.
La struttura fitogeografìca della flora lichenica italiana
è stata analizzata da NIMIS e TRETIACH (1995). I licheni,
in contrasto con altri organismi, hanno areali assai ampi,
che spesso si estendono su più continenti. È quindi difficile individuare degli elementi fitogeografìci definiti sul-
la base della loro distribuzione totale, anche perché molte parti del globo sono ancora inesplorate. Più fattibile è
invece una suddivisione basata sull’estensione in latitudine e in longitudine: la prima riflette essenzialmente le esigenze termiche, la seconda quelle igriche. Secondo NIMIS
e TRETIACH (1995) la flora italiana è composta dai seguenti elementi fitoclimatici principali:
a) un elemento temperato senza affinità per climi di tipo
suboceanico, che è ben rappresentato in tutto il Paese
(38% del totale),
b) un elemento ad affinità subtropicali, legato a climi di
tipo (sub)oceanico, più frequente lungo i litorali tirrenici e sulle isole (ca. 20% del totale),
c) un elemento settentrionale, ristretto alle montagne più
alte, che tende a depauperarsi dalle Alpi alle montagne
meridionali (ca. 25%),
d) un gruppo di specie con areali ristretti alle montagne
dell’Europa meridionale, specialmente alle Alpi (7%),
e) un gruppo di specie che si estendono dalle isole Canarie al Mediterraneo e a volte alle coste atlantiche euro-
184 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
pee, che in Italia ha areali di tipo prevalentemente tirrenico ed è confinato ad aree planiziali o collinari (7%),
f ) un altro piccolo gruppo di specie a vasta distribuzione
in ambienti aridi di vari continenti, che in Italia è più
frequente nelle parti maggiormente aride del meridione e nelle valli alpine a clima subcontinentale (2%).
Potrà stupire la mancanza, in contrasto con la flora vascolare, di un elemento propriamente mediterraneo. Il
mediterraneo-macaronesico (e) è quello che più gli si avvicina, ma esso è di diffìcile delimitazione rispetto a quello mediterraneo-atlantico o suboceanico in genere.
Il quadro generale riflette bene la diversità climatica
del Paese, con climi che vanno da quello freddo-alpino
a quello caldo-suboceanico, con una netta prevalenza di
un clima temperato-caldo e moderatamente umido, con
una scarsità di tipi climatici veramente aridi, nonostante un periodo di deficit idrico estivo in alcune regioni
meridionali.
La ripartizione territoriale dei gruppi fitoclimatici
non è omogenea. La prevalenza dell’elemento nordico
nelle regioni del settentrione è ovvia, meno ovvia la suddivisione in senso Est-Ovest della penisola: le regioni
tirreniche, esposte a correnti umide occidentali, ospitano un’alta percentuale di specie di tipo subtropicalesuboceanico, che sono molto meno frequenti lungo il
versante adriatico. I licheni, il cui metabolismo dipende fortemente dall’umidità atmosferica, riflettono bene le differenze climatiche tra i due versanti della penisola. Un esempio di distribuzione ‘tirrenica’ è mostrato in figura 4.37
La vegetazione lichenica in Italia
Se la flora lichenica italiana è abbastanza ben studiata, lo stesso non si può dire degli aspetti vegetazionali.
I licheni formano comunità facilmente caratterizzabili,
che spesso offrono interessanti informazioni di tipo ecologico o fìtoclimatico. Gli studi vegetazionali sul territorio italiano sono però molto scarsi.
Comunità terricole: I licheni prevalentemente terricoli o muscicoli costituiscono il 16% della flora italiana.
Su suolo acido prevalgono specie settentrionali: tra le
specie artico-alpine il 26,1% cresce su substrati acidi, il
15,9% su substrati basici. Le specie temperato-meridionali e quelle ad ampia distribuzione in aree semidesertiche sono invece più abbondanti su substrato calcareo
ove, rispettivamente, raggiungono il 10,8% e il 26,3%
del totale (acidofile sono, rispettivamente, il 4,3 e 5,3%).
In Italia le comunità terricole sono solitamente frammentarie e spesso dominate da licheni crostosi o squamulosi, per cui non si presentano quasi mai in aspetti
così spettacolari come nelle tundre artiche. I licheni terricoli hanno crescita lenta e sono quindi sensibili al disturbo. La vegetazione lichenica terricola è ancora ben
preservata nella fascia alpina delle Alpi, mentre lungo
gli Appennini e nell’Italia mediterranea è difficile incontrare comunità ben sviluppate a causa dell’intenso calpestio, derivante sia dal pascolamento che dalla pressione antropica, specialmente lungo le coste.
Comunità epifite: Le specie prevalentemente epifite
costituiscono circa un terzo della flora lichenica italia-
Fig. 4.36 - Progressi
nell’esplorazione lichenologica
d’Italia dal 1992 (A) al 1999
(B).
FLORA E VEGETAZIONE • 185
Fig. 4.37 - Carta di distribuzione di un tipico lichene ‘Tirrenico’:
Parmotrema chinense (Osbeck) Hale & Ahti. I punti rossi si riferiscono
a dati di letteratura, quelli gialli a campioni dell’erbario di Trieste
(TSB), le diverse sfumature di azzurro indicano la frequenza del
lichene in diverse regioni bioclimatiche d’Italia calcolate
automaticamente dal database ITALIC. Carte del genere sono
disponibili in rete per tutte le specie della flora italiana e possono
venire aggiornate in tempo reale.
na (33,4%). Anche in questo caso si ha una differenziazione fitogeografica a seconda del substrato; i licheni di scorza neutro-basica sono solo il 5,3% di quelli
epifiti e la maggior parte ha areali di tipo meridionale.
Su scorza acida cresce invece il 37% delle specie boreal-montane e il 40% delle specie temperate che raggiungono la zona boreale, mentre molto minore è l’incidenza di specie strettamente meridionali. La vegetazione
epifita è estremamente diversificata: molte comunità legate a foreste con lunga continuità ecologica sono in
forte regresso, mentre altre legate all’attività antropica
sono state l’oggetto di numerosi studi sul monitoraggio della qualità dell’aria.
Comunità epilitiche: I licheni che colonizzano substrati litici sono la netta maggioranza nella flora italiana
(50,6% del totale, 31,1% su rocce silicee, 19,5% su rocce calcaree). Anche in questo caso su substrati acidi prevalgono specie settentrionali, su quelli basici specie me-
ridionali: il 42,9% dei licheni artico-alpini della flora italiana colonizza rocce silicee, solo il 13,2% rocce calcaree; al contrario, il 52% delle specie submediterranee è
calcicolo e solo il 18,6% silicicolo; lo stesso vale per le
specie temperate a distribuzione meridionale (45,2% su
roccia calcarea, 11,8% su roccia silicea). La vegetazione
epilitica è senza dubbio la meno studiata, non solo in Italia, in quanto essa ospita numerose specie crostose di piccole dimensioni, appartenenti spesso a gruppi critici. Essa assume però un’importanza notevole nella bioalterazione dei monumenti in pietra (Figura 4.38).
Molte specie di licheni sono in forte regresso in tutta
Europa. La vegetazione lichenica delle Alpi e degli Appennini è però ancora in buone condizioni e non sembra risentire in maniera particolarmente forte delle precipitazioni acide che hanno distrutto la flora lichenica di
altri paesi europei, soprattutto dell’Europa orientale. Maggiormente minacciate sono tre categorie di specie (NIMIS, 1992):
1) Licheni epifiti suboceanici, con optimum in vegetazione forestale di tipo seminaturale. Sono i più sensibili
all’inquinamento atmosferico, cui si aggiunge la sparizione degli habitat ottimali in conseguenza di misure di tipo silvocolturale.
2) Licheni terricoli della zona mediterranea. Questi risultano fortemente minacciati dall’intenso sfruttamento
turistico, dalla pastorizia nelle aree interne e dagli incendi.
3) Licheni di ambienti costieri: particolarmente minacciati a causa della crescente antropizzazione delle coste
italiane a fini turistici.
Fig. 4.38 - Alterazione cromatica prodotta da un denso popolamento
di licheni su un monumento in pietra (foto di M. Tretiach).
186 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
I LICHENI COME BIOINDICATORI
[Pier Luigi Nimis, Stefano Martellos]
I licheni vengono largamente utilizzati per stimare la qualità
dell’aria: come bioindicatori forniscono informazioni sulle
concentrazioni di gas fitotossici, come bioaccumulatori permettono di rivelare i pattern di deposizione di metalli in traccia (NIMIS et al., 2002). In Italia gli studi di biomonitoraggio
basati sui licheni sono stati molto numerosi (LOPPI, 1999;
PIERVITTORI, 1999) e hanno mostrato come su vaste aree (a
esempio la pianura Padano-Veneta) l’inquinamento atmosferico abbia fortemente depauperato la flora originaria (Fig.1).
I problemi posti dalla crescita dei licheni su opere d’arte in
pietra hanno cominciato a essere affrontati in modo esauriente solo in tempi recenti (NIMIS et al., 1992). Le ricerche hanno sviluppato diversi aspetti, di cui i principali sono: a) il degrado chimico-fisico connesso sia alla produzione di acidi che
di composti ad azione chelante; b) il confronto tra l’azione
delle singole specie in diverse situazioni ambientali; c) lo studio ecologico della vegetazione lichenica per comprendere le
cause dell’insorgenza di un certo tipo di colonizzazione; d)
l’applicazione di biocidi allo scopo di controllare e/o eliminare la crescita lichenica (NIMIS, 2001).
LOPPI S., 1999 – Licheni come bioaccumulatori di elementi in tracce:
stato dell’arte in Italia. In: PICCINI C., SALVATI S. (eds.), Proc. Workshop ‘Biomonitoraggio della qualità dell’aria sul territorio Nazionale’, ANPA, Roma: 123-143.
NIMIS P.L., MARTELLOS S., 2002 – ITALIC - the information system
on Italian lichens. Bibliotheca Lichenologica, 82: 271-283.
NIMIS P.L., PINNA D., SALVADORI O., 1992 – Licheni e Monumenti.
Clueb, Bologna. 164 pp.
Bibliografia
JATTA, 1909-1911 – Flora Italica Cryptogama, pars III. Lichenes. Cappelli. Rocca di S. Casciano, 958 pp.
HAWKSWORTH D.L., 1991 – The fungal dimension of biodiversity: magnitude, significance and conservation. Mycological Research 95:
641–655.
NIMIS P.L., 1992 – Lista rossa dei Licheni d’Italia. In: Libro rosso delle Piante d’Italia. WWF. Roma: 501-556.
NIMIS P.L., 1993 – The Lichens of Italy. An Annotated Catalogue. Mus.
Reg. Sc. Nat. Torino, Monogr. 12, 897 pp.
NIMIS P.L., 2000 – Checklist of the Lichens of Italy 2.0. University of
Trieste, Dept. of Biology, IN2.0/2.
NIMIS P.L., 2001 – Artistic and Historical Monuments: Threatened Ecosystems. In: Frontiers of Life, Part 2.
Fig. 1 - Carta della diversità lichenica dell' intera regione Veneto,
riferita all'anno 1989 (NIMIS et al., 1991). Valori bassi di diversità
indicano una bassa qualità dell'aria.
PIERVITTORI R., 1999 – Licheni come bioindicatori della qualità dell’aria: stato dell’arte in Italia. In: PICCINI C., SALVATI S. (eds.), Proc.
Workshop ‘Biomonitoraggio della qualità dell’aria sul territorio Nazionale’, ANPA, Roma: 97-122.
NIMIS P.L., 2001 – Artistic and Historical Monuments: Threatened
Ecosystems. In: Frontiers of Life, Part 2: Discovery and Spoliation of the Biosphere, sect. 2: Man and the Environment, Academic Press, S. Diego Ca, pp. 557-569.
NIMIS P.L., BARTOLI A., 1992 – Il ruolo di G. de Notaris nella storia
della Lichenologia. In: A. GRANITI (ed.), La figura e l’Opera di de
Notaris. Acc. Naz. Scienze, Pallanza: 123-133.
NIMIS P.L., MARTELLOS S., 2002 – ITALIC - the information system
on Italian lichens. Bibliotheca Lichenologica, 82: 271-283.
NIMIS P.L., TRETIACH M., 1995 – The lichens of Italy. A phytoclimatic
outline Cryptogamic Botany, 5: 199-208.
NIMIS P.L., TRETIACH M., 1999 – Itinera Adriatica. Lichens from the
eastern part of the Italian peninsula. Studia Geobotanica, 18: 51106.
NIMIS P.L., LAZZARIN A.G., GASPARO D., 1991 – Lichens as bioindicators of SO2 pollution in the Veneto Region (NE Italy). Studia Geobotanica, 11: 3-76.
NIMIS P.L., SCHEIDEGGER CH., WOLSELEY P.A. (eds.), 2002 – Monitoring with Lichens - Monitoring Lichens. Kluwer, NATO Science
Series 7, 408 pp.
FLORA E VEGETAZIONE • 187
ALGHE D’ACQUA DOLCE
Le alghe d’acqua dolce in Italia
[Nadia Abdelahad, Giorgio Bazzichelli]
Il nome italiano alga deriva dal latino “alga” il cui significato è quello di pianta acquatica in senso lato. Nel
sistema di LINNEO (1754), le alghe figurano come una
delle quattro classi comprese nella divisione Cryptogamia (Algae, Fungi, Musci, Filices). Il termine figura ancora nell’inquadramento tassonomico di EICHLER (1883)
come una delle tre classi (Algae, Fungi e Lichenes) della
divisione Tallophyta. Nel 1903, essendo stata compresa
la eterogeneità e la complessità degli organismi indicati con questo termine, le “Algae” vengono smembrate in
9 divisioni diverse (ENGLER, 1903). Da allora, numerosi sistemi di classificazione sono stati proposti per questi organismi. Un recente inquadramento (VAN DEN HOEK et al., 1995) prevede ancora l’esistenza di una decina di divisioni diverse. Importanti criteri per la distinzione delle alghe sono il tipo di pigmento fotosintetico
[in base al quale vengono distinte alghe “azzurre” (Cianobatteri), “rosse” (Rodoficee), “dorate” (Crisoficee),
“brune” (Feoficee), “verdi” (Cloroficee)], il citoscheletro (radici flagellari e tipo di mitosi), la presenza o l’assenza di membrane del reticolo endoplasmatico attorno al cloroplasto e le modalità della riproduzione. Le alghe differiscono tra loro enormemente, non solo per le
caratteristiche sopra indicate (biochimiche, ultrastrutturali ecc.), ma anche per la morfologia, l’organizzazione e le dimensioni del tallo. Queste variano da pochi
millesimi di millimetro (come ad esempio nelle alghe fitoplanctoniche) fino a molte decine di metri (come nelle grandi alghe brune dei mari freddi).
Le alghe possono colonizzare svariatissimi tipi di ambienti (mare, laghi, stagni, pozze, torbiere, fiumi, acque
termali, neve, terreno, rupi...). Un esempio di specie caratteristiche che vivono in alcuni di questi ambienti (rupi calcaree e pozze d’alpeggio) viene riportato nelle tavole 4.2 e 4.3.
Le alghe intervengono in molti tipi di simbiosi, sia
con i funghi nei licheni, sia con diversi animali e anche
con alcune piante. Grande importanza ecologica hanno
le alghe quali produttori primari e per la produzione di
ossigeno nel mare e nei laghi. Un interesse particolare
hanno quelle specie che possono dar luogo a “fioriture”
e quelle che originano tossine. Interesse economico presentano molte specie nel campo alimentare, farmaceutico e cosmetico e recentemente anche come possibile
fonte di energia alternativa.
I lavori finora pubblicati in Italia (a partire dalla metà
dell’800) nel campo dell’Algologia d’acqua dolce sono circa un migliaio. I primi contributi importanti sono quelli di DE NOTARIS (1867) e DELPONTE (1877) per le Desmidiacee e i lavori di FORTI per le Diatomee [a titolo di
esempio, citiamo le contribuzioni diatomologiche per i
laghi del Canavese (FORTI, 1900-1901)]. Gli ambienti
più studiati sono quelli lacustri. Seguono poi i fiumi, le
acque termali, le torbiere, le pozze, le risaie e le rupi. Ampie sintesi sulla ricerca limnologica in Italia sono riportate in CORDELLA e PAGANELLI (1988) e in GUILIZZONI et
al. (1992).
Per le alghe d’acqua dolce d’Italia non esiste ancora
un censimento completo. I primi elenchi, limitati ad alcune regioni, compaiono nella seconda metà del XIX secolo, quale parte di cataloghi estesi a tutte le CrittoN° taxa
game [ZANARDINI (1857),
Cosmarium
339
H OHENBÜHEL -H EUFLER
Staurastrum
149
Closterium
74
(1871), PICCONE (1878),
Euastrum
46
BIZZOZERO (1885) e altri].
Actinotaenium
20
I dati in essi contenuti venXanthidium
19
nero in seguito utilizzati da
Staurodesmus
18
DE TONI per la compilazioMicrasterias
17
ne della sua monumentale
Pleurotaenium
11
Desmidium
9
Sylloge (1889-1924). Per tutNetrium
7
to il secolo successivo, nesPenium
6
sun censimento delle specie
Spondylosium
6
algali di acqua dolce segnaSphaerozosma
5
late in Italia è stato oggetto
Cylindrocystis
4
di pubblicazioni.
Gonatozygon
4
Recentemente sono staHyalotheca
4
Mesotaenium
4
te pubblicate due liste di
Tetmemorus
4
Desmidiacee (Chlorophyta).
Teilingia
3
La prima, relativa al TrenArthrodesmus
2
tino-Alto Adige, riporta 407
Docidium
2
taxa appartenenti a 22 geHaplotaenium
2
neri diversi (DELL’UOMO,
Polytaenia
2
Roya
2
1991). La seconda, relativa
Bambusina
1
all’intera penisola, riporta
Euastridium
1
764 taxa appartenenti a 30
Genicularia
1
generi diversi (Tabella
Heimansia
1
4.19), con l’indicazione del
Spirotaenia
1
numero delle specie e delle
Totale
764
segnalazioni per regione Tabella 4.19 - Numero di taxa
(Tabella 4.20) (ABDELAHAD di Desmidiacee segnalati in Italia
et al., 2003).
dal 1837 a oggi.
188 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Tavola 4.2 - Grotta dell’Inferniglio (Ienne, Lazio). 1. Patina di Cianobatteri (“Tintenstriche” degli autori tedeschi) su parete calcarea.
2-4. Scytonema myochrous (Dillw.) Ag. emend. Jaag nelle ecoforme su substrato secco (status typicus, fig. 2) e umido (status petalonema, figg. 3-4).
5. Gloeocapsa kuetzingiana Näg. emend. Jaag. 6. G. sanguinea Näg. emend. Jaag (ecoforma con guaina rossa). 7. G. sanguinea (ecoforma
con guaina interna blu). 8. G. compacta Kütz. emend. Golubic (status perdurans). 9. Stigonema turfaceum Cooke. 10. Calothrix parietina
Thuret. 11. Tolypothrix sp. Bar = 20 µm.
FLORA E VEGETAZIONE • 189
Tavola 4.3 - Pantani di Forca Canapine (Monti Sibillini, 1588 m). 1. Aspetto estivo di una pozza con arrossamento delle acque causato da
Euglena sanguinea Ehr. 2. Individui incistati e in fase vegetativa di E. sanguinea. 3. Dinobryon sertularia Ehr. (Crisoficee). 4. Botrydium granulatum
Grev. (Xantoficee). 5. Polytaenia alpina (Schmidle) Brook (Mesotaeniacee). 6. Spirotaenia condensata Bréb. ex Ralfs (Mesotaeniacee). 7. Closterium
intermedium Ralfs (Desmidiacee). 8. Micrasterias americana (Ehr.) ex Ralfs f. lewisiana West (Desmidiacee). 9. Xanthidium brebissonii Ralfs
(Desmidiacee). 2-3, 5-6, 8-9 bar = 20 µm; 4 bar = 1 mm; 7 bar = 50 µm.
190 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Piemonte
Trentino - Alto Adige
Lombardia
Umbria
Lazio
Emilia-Romagna
Veneto
Toscana
Abruzzo
Campania
Basilicata
Marche
Liguria
Sardegna
Sicilia
Valle D’Aosta
Friuli - Venezia Giulia
Calabria
Molise
Puglia
Totale segnalazioni
N° taxa
439
414
240
124
122
90
74
42
41
37
25
25
19
19
12
2
1
N° segnalazioni
1.043
1.171
656
196
244
103
109
47
69
46
37
34
22
20
38
2
1
3.838
Tabella 4.20 - Numeri dei taxa e delle segnalazioni per regione delle
Desmidiacee italiane
Un primo tentativo di realizzare uno schedario delle
alghe di acqua dolce segnalate in Italia dalla fine dell’800
alla fine degli anni 1950 è stato effettuato dalla Sig.ra
IRMA MISELLI PIGNATTI. Lo schedario, gentilmente messo a nostra disposizione dal Prof. SANDRO PIGNATTI, è
attualmente disponibile anche come archivio elettronico presso gli autori. Lo schedario riporta i binomi di
2.295 specie algali, segnalati in 48 lavori, alcuni dei quali relativi al territorio svizzero.
Un secondo tentativo di realizzare uno schedario delle alghe planctoniche italiane, limitato tuttavia ai soli ambienti lacustri, è stato l’obiettivo di tre tesi di laurea proposte e seguite da uno degli autori (G. BAZZICHELLI) negli anni 1974-77. Per queste tesi, sono stati consultati più
di 670 lavori pubblicati nel periodo 1833-1977. Il numero complessivo delle specie censite per i laghi italiani,
nelle tre tesi, è di oltre 1.900 specie, distribuite nelle diverse classi algali come risulta dalla figura 4.39. Dai dati
provvisori riportati nelle tesi, il numero delle specie segnalate per l’Italia Settentrionale (Piemonte, Lombardia,
Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Veneto, Emilia-Romagna) ammonta a oltre
1.600, quello delle specie segnalate per l’Italia Centrale e
Meridionale, complessivamente, a più di 500. Questi dati devono ritenersi largamente incompleti sia perchè ancora non aggiornati, sia perché riferibili prevalentemente ai soli ambienti lacustri.
Dare un giudizio complessivo sulla ricchezza floristica
dell’Italia, per quanto riguarda le alghe d’acqua dolce, è
dunque per il momento impossibile, mancando un censimento floristico completo. Per lo stesso motivo non è
neppure possibile stimare la biodiversità confrontando il
numero delle specie italiane appartenenti ai vari generi
con quello totale pertinente ai generi stessi. La ricchezza
in specie di una data regione deve porsi, poi, in relazione
anche con il numero e con l’attività degli specialisti operanti in quella regione. La maggiore ricchezza floristica
riscontrata nell’Italia settentrionale può così dipendere
dal maggior numero di specialisti qui presenti, specialmente in passato, oltre che dal maggiore numero e dalla
maggiore varietà degli ambienti umidi in questa zona.
Fig. 4.39 - Numero dei taxa algali segnalati nei laghi italiani dal 1833 al 1977 (dati provvisori, inediti).
FLORA E VEGETAZIONE • 191
LE ALGHE D’ACQUA DOLCE COME BIOINDICATORI
[Nadia Abdelahad, Giorgio Bazzichelli]
Da diversi anni, le alghe d’acqua dolce sono utilizzate come bioindicatori della qualità delle acque interne.
Nei laghi, le alghe fitoplanctoniche sono state utilizzate con una duplice finalità: da un lato, soprattutto in passato, allo scopo
di poter giungere a una classificazione tipologica dei laghi stessi in base al tipo di fitoplancton presente (NAUMAN, 1927) [vedi anche per l’Italia FORTI, TROTTER (1909), MARCHESONI (1940)], dall’altro, in base a indici fitoplanctonici specifici (THUNMARK, 1945; NYGAARD, 1949), allo scopo di definire il livello di trofia (HUTCHINSON, 1967).
Nei fiumi, metodiche basate sull’uso delle alghe per il controllo della qualità delle acque sono state proposte a partire dagli anni 1950 (per una breve rassegna storica vedi PRYGIEL, COSTE, BUKOWSKA, 1999). Negli ultimi dieci anni, contrariamente a
quanto avvenuto per i laghi, questo settore di ricerca ha avuto un grande sviluppo in tutta Europa. Diversi indici biologici sono stati messi a punto in diversi paesi europei (vedi contributi in: PRYGIEL, WHITTON, BUKOWSKA, 1999), anche su richiesta
delle imprese pubbliche e private adibite al controllo della qualità delle acque superficiali. Tali indici sono basati prevalentemente sulle diatomee. Le diatomee sono alghe unicellulari presenti, con un gran numero di specie, nel plancton e nel benthos
delle acque interne. Il valore bioindicatore delle diatomee è espresso sia dalla loro biodiversità che dal modo di associarsi in un
rilievo. In Italia, due indici, proposti negli anni 1990 (DELL’UOMO, 1996) e recentemente modificati, sono stati saggiati su alcuni fiumi dell’Appennino Centrale e sembrano corrispondere bene allo scopo di esprimere il grado di eutrofizzazione e di inquinamento organico dei corsi d’acqua italiani (DELL’UOMO, 1999).
Il numero delle specie di diatomee presenti nelle acque interne è dell’ordine di alcune migliaia e diverse specie nuove sono descritte ogni anno. La corretta identificazione delle specie, soprattutto di quelle (alcune centinaia) che sono utilizzate nel calcolo degli indici, richiede un livello di competenza tassonomica che pone il problema non indifferente della formazione del personale addetto al controllo delle acque. Questo problema è stato preso in considerazione specialmente in Francia (LECOINTE
et al., 1993) e in Gran Bretagna (v. KELLY, 1999).
Bibliografia
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192 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
La conservazione delle alghe d’acqua dolce
Bibliografia
Le alghe d’acqua dolce minacciate di scomparsa sono
soprattutto quelle che colonizzano biotopi caratterizzati
da particolari condizioni fisico-chimiche delle acque (torbiere, pozze d’alpeggio, “piscine”, “pantani”,...). Essendo
impossibile proteggere le singole specie algali, la loro conservazione è obbligatoriamente legata a quella dei biotopi stessi che vengono così ad assumere il significato di veri e propri “serbatoi genetici” per numerosi taxa algali
(MOLLENHAUER, 1998).
Le specie maggiormente in pericolo sono sopratutto
quelle riferibili alle Desmidiacee, alle Crisoficee, ad alcune Vaucheriacee e anche ad alcune rare Feoficee e Rodoficee d’acqua dolce. Per questo motivo, le prime Liste Rosse relative ad alghe d’acqua dolce, comparse in Austria e
in Germania, riguardano le Desmidiali (LENZENWEGER,
1986: 91 taxa; GUTOWSKI e MOLLENHAUER, 1996: 501
taxa) e le Vaucheriacee (MOLLENHAUER e CHRISTENSEN,
1996: 16 taxa).
In l’Italia non è stata finora pubblicata nessuna Lista
Rossa per le alghe di acqua dolce. Si deve tuttavia segnalare che, per quanto riguarda le 764 specie di Desmidiali
censite per l’Italia (ABDELAHAD et al., 2003), più della metà possono già considerarsi candidate a una Lista Rossa.
Alcune di queste sono raffigurate nella tavola 4.3 (5-9).
Una raccomandazione realistica per la conservazione
dei biotopi è quella di MOLLENHAUER (1998) che propone di selezionare un numero adeguato di biotopi acquatici nei quali la vegetazione algale sia ancora ben conservata e di seguirli attraverso un programma di monitoraggio costante negli anni.
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FLORA E VEGETAZIONE • 193
Settore 5
39
470
2
169
130
4
814
24
340
33
444
1
148
110
5
741
124
113
4
605
18
314
93
84
4
513
La diversità della flora bentonica marina in Italia
Sulla base del recente Catalogo del Macrofitobenthos
redatto da FURNARI et al. (2003b)1, per la cui realizzazione sono stati censiti 533 lavori pubblicati dal 1950 al
2000, [l’anno 1950 è stato scelto quale data di partenza
dei lavori presi in considerazione, al fine di fornire un
quadro quanto più vicino alla realtà attuale e di avere una
flora confrontabile con le checklist, ottenute con la stessa
metodologia, delle Fucophyceae, Chlorophyceae e Ceramiales del Mediterraneo pubblicate rispettivamente da RIBERA et al. (1992), GALLARDO et al. (1993) e GÓMEZ GARRETA et al. (2001)], la flora bentonica delle coste italiane
consta di 924 taxa a livello specifico e infraspecifico accertati, ripartiti come mostrato nella tabella 4.21; a questi si aggiungono 96 taxa inquirenda, 36 taxa excludenda
e 7 nomina nuda.
In tabella è riportata anche la ricchezza floristica dei
tratti di costa italiani ricadenti nei settori di pesca come
definiti dalla FAO: settore 3 (Mar Tirreno e bacini adiacenti), settore 4 (Adriatico) e settore 5 (Ionio). La flora
del settore 3 è la più ricca con 814 taxa presenti, l’88,1%
dell’intera flora, seguita da quella del settore 5 (Ionio)
con 741 taxa (88,2%) e da quella del settore 4 che è risultata la più povera con 605 taxa (65,5%). 513 taxa, pari al 55,5%, sono risultati comuni ai tre settori, mentre
1
Il Catalogo è stato realizzato nell’ambito della convenzione tra il Ministero dell’Ambiente e il Dipartimento di Botanica dell’Università
di Catania.
Specie esclusive
del settore 5
Settore 4
46
509
2
208
154
5
924
Specie comuni
a tutti i settori
Settore 3
Cyanophyta
Rhodophyta
Chrysophyta
Phaeophyta
Chlorophyta
Spermatophyta
Totali
Italia
Le prime conoscenze floristiche sul fitobenthos delle
coste italiane derivano essenzialmente da studi di Autori
che lavorarono nella seconda metà del XIX secolo, quali
C. AGARDH, J. AGARDH, ARDISSONE, KÜTZING, MENEGHINI, HAUCK, NACCARI, SCHIFFNER, ZANARDINI, MAZZA, DELLE CHIAJE, BERTHOLD, VALIANTE, FALKENBERG,
TORNABENE, BORZÌ, PICCONE. L’insieme delle specie citate nelle pubblicazioni dei suddetti Autori, si può tra l’altro riscontrare nella monumentale ‘Sylloge algarum omnium huqusque cognitarum’ di DE TONI (1889-1924), che
rappresenta il compendio delle conoscenze floristiche algali fino al 1924. Dal 1925 al 1962 solo pochi lavori, riguardanti il macrofitobenthos delle coste italiane, sono
stati pubblicati: da SCHIFFNER e VATOVA (1937) sulle alghe della Laguna veneta; da LEVRING (1942) su alcune
alghe dell’Adriatico, della Sicilia e del Golfo di Napoli;
da FUNK (1955) sul fitobenthos del Golfo di Napoli; da
CAVALIERE (1959) su alcune alghe dello stretto di Messina. Al contrario, numerosi sono stati i lavori prodotti a
partire dal 1962. Tranne quello di PIGNATTI (1962) sulla Laguna di Venezia, tali lavori, effettuati dalla presente
generazione di studiosi italiani, hanno riguardato dapprima solo la Sicilia e in particolare le coste settentrionali e
meridionali dell’isola quindi, dal 1970 a oggi, le coste
orientali della Sicilia e le aree adiacenti, le coste della Toscana, la Sardegna, il Mar Ligure, il Mar Adriatico, l’alto
Ionio, l’isola di Lampedusa.
Tuttavia, nonostante il notevole numero di ricerche
floristiche effettuate, le conoscenze della flora bentonica
delle coste italiane sono ancora irregolari e non complete. Infatti, mentre alcune aree risultano particolarmente
ben studiate, quali il Golfo di Napoli, la Sicilia e le sue
isole minori, l’alto Adriatico, le isole Tremiti, il Golfo di
Taranto, ampie aree non sono state ancora sufficientemente analizzate (per esempio il Mar Ligure, le coste laziali, la Calabria, la Sardegna).
del settore 4
[Mario Cormaci, Giovanni Furnari, Giuseppe Giaccone]
del settore 3
ALGHE E LE PIANTE VASCOLARI MARINE
13
44
1
26
20
4
4
3
32
21
14
15
5
104
43
55
Tabella 4.21 - Macrofitobenthos
delle coste italiane: composizione
e consistenza dell’intera flora, di
quella di ciascun settore FAO (settore 3: Mar Tirreno e bacini adiacenti; settore 4: Mar Adriatico;
settore 5: Mare Ionio), delle specie comuni a tutti i settori e delle specie esclusive di ciascun settore (FURNARI et al., 2003a)
5
16
5
50
1
1
64
87
16
3
72
29
11
9
113
119
88
171
97
77
79
18
26
52
20
9
8
91
104
42
132
69
4
4
2
1
3
1
3
4
5
3
Totale
Spermatophyta
11
7
Chlorophyta
190
260
83
12
269
77
82
36
347
377
202
501
279
Chrysophyta
17
18
Phaeophyta
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Liguria
Emilia-Romagna
Toscana
Marche
Lazio
Molise
Campania
Puglia
Calabria
Sicilia
Sardegna
Rhodophyta
Regione
Cyanophyta
194 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
352
448
119
42
408
133
103
53
559
620
337
860
448
Tabella 4.22 - Macrofitobenthos
delle coste italiane: composizione e consistenza floristica (inclusi i taxa inquirenda) nell’ambito
di ciascuna Regione (FURNARI et
al., 2003b)
Fig. 4.40 – Macrofito-benthos
delle coste italiane: composizione
e consistenza nelle regioni italiane
(inclusi i taxa inquirenda).
104 taxa (11,26%) sono risultati esclusivi del settore 3,43
(4,65%) del settore 4 e 55 (5,95%) del settore 5.
La ricchezza floristica di ciascuna Regione espressa in
valori assoluti è riportata invece nella tabella 4.22 e sintetizzata graficamente nell’istogramma di figura 4.40, in
esso i gruppi di taxa meno numerosi sono stati riuniti sotto la voce ‘altri gruppi’.
Da un confronto tra le flore dei tre settori definiti dalla FAO, finalizzato a stabilire il grado di affinità floristica
(come espresso dall’indice di similarità di Jaccard), è risultato che esiste una notevole similarità tra le flore del Tirreno (settore 3) e dello Ionio (settore 5), mentre la flora
dell’Adriatico (settore 4) si differenzia maggiormente (Figura 4.41). La flora dell’Adriatico si discosta dalle altre anche per il più basso numero totale di specie (605). Ciò è
probabilmente dovuto al fatto che lungo le coste italiane
di quel mare i substrati rocciosi, che ospitano il maggior
numero di alghe, sono poco estesi e, ove presenti, si spin-
gono raramente oltre i 30 m di profondità, determinando così una scarsa presenza di specie circalitorali.
Non esistendo flore di altre aree del Mediterraneo ottenute con lo stesso criterio col quale si è ottenuta la flora dell’Italia, non è possibile valutare appieno l’eventuale originalità della nostra flora rispetto a quella di altre
aree mediterranee. Tuttavia, poiché, come sopra detto,
Fig. 4.41 – Dendrogramma mostrante le mutue similarità floristiche
tra le flore dei tre settori FAO (da FURNARI et al., 2003a).
negli ultimi anni sono state compilate le checklist delle
Fucophyceae, delle Chlorophyceae e delle Ceramiales del
Mediterraneo redatte, come la flora algale italiana, sulla
base dei lavori pubblicati a partire dal 1950, queste sono
state utilizzate per ricavare l’elenco delle Fucophyceae, delle Chlorophyceae e delle Ceramiales di sei aree del Mediterraneo così delimitate: Italia (ITA), Spagna (SPA), Francia (FRA), Grecia-Turchia-Coste adriatiche non italiane
(GTR), Marocco-Algeria-Tunisia (MAT), Libia-EgittoStati Levantini (Siria, Libano e Israele) (LEL).
Su questa base è stato quindi possibile effettuare un
confronto tra le tre componenti della flora delle coste italiane (ITA) con quelle delle altre cinque aree mediterranee sopra riportate. Nella figura 4.42 è possibile osservare il numero di specie censite nelle varie aree: in tutto il
Mediterraneo sono state censite 260 Ceramiales (Rhodophyta), 243 Fucophyceae e 178 Chlorophyceae per un totale di 681 specie, ripartite in modo alquanto diverso nelle varie aree. Italia (ITA) e Francia (FRA) sono risultate
le aree più ricche di specie: in FRA vi è ad esempio l’82%
delle Ceramiales presenti nel Mediterraneo. Le coste di
Libia, Egitto e degli Stati Levantini (LEL) risultano invece le più povere di specie, con un contingente di Fucophyceae pari a solo il 30% delle specie del Mediterraneo
(probabilmente perché le meno studiate).
Le specie comuni a tutte le aree (Tabella 4.23), sono
piuttosto poche: 90 Ceramiales (pari al 34,6%), 54 Fucophyceae (22,2%) e 48 Chlorophyceae (27%), ma, come si
nota nella stessa tabella, ancora meno numerose sono le
specie esclusive delle singole aree. Le esclusive delle coste
italiane (ITA, 12 Ceramiales, 22 Fucophyceae e 19 Chlorophyceae) sono elencate nelle tabelle 4.24, 4.25 e 4.26.
Infine, sulla base delle relative flore, le sei aree sono state confrontate al fine di stabilire il grado di similarità floristica tra ciascuna coppia di esse, come espresso dall’in-
Specie comuni
a tutte le aree
FLORA E VEGETAZIONE • 195
Ceramiales
Fucophyceae
Chlorophyceae
Totali
90
54
48
192
Specie esclusive
ITA
SPA
FRA
GTR
12
21
19
52
3
4
2
9
5
11
6
22
2
2
2
6
LEL MAT
4
3
5
12
1
3
2
6
Tabella 4.23 - Ceramiales, Fucophyceae e Chlorophyceae comuni a tutte le aree ed esclusive di ciascuna area. Per le sigle adottate vedi testo
(FURNARI et al., 2003a)
* Antithamnionella elegans (Berthold) J. H. Price et D. M. John
v. decussata Cormaci et G. Furnari
* Ceramium incospicuum Zanardini
Ceramium strobiliforme G.W. Lawson et D.M. John
Chondria pygmaea Garbary et Vandermeulen
* Crouania ischiana (Funk) Boudouresque et M. Perret
Laurencia caduciramulosa Masuda et Kawaguchi (1)
Laurencia glandulifera (Kützing) Kützing
* Osmundea maggsiana Serio, Cormaci et G. Furnari
* Osmundea pelagiensis G. Furnari
Polysiphonia harveyi Bailey
Polysiphonia orthocarpa Rosenvinge
* Polysiphonia perforans Cormaci, G. Furnari, Pizzuto et Serio
Taenioma perpusillum (J. Agardh) J. Agardh
(1) Recentemente segnalata da FURNARI et al. (2001).
Tabella 4.24 - Ceramiales (Rhodophyta) esclusive della flora italiana (le
specie precedute da un asterisco sono endemiche).
dice di similarità di Jaccard. I risultati sono espressi nei
dendrogrammi della figura 4.43. Per quanto riguarda le
Ceramiales la similarità floristica tra le sei aree è in generale notevole tranne per l’area LEL. Il dendrogramma re-
Fig. 4.42 - Consistenza delle
Ceramiales, Fucophyceae e
Chlorophyceae presenti nel
Mediterraneo e in ciascuna
delle sei aree considerate. Per
le sigle adottate vedi testo.
196 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
*
*
*
*
Acrochaete geniculata (N.L. Gardner) O’Kelly
Acrosiphonia arcta (Dillwyn) J. Agardh
Blidingia ramifera (Bliding) Garbary et Barkhouse
Blidingia subsalsa (Kjellman) Kornmann et Sahling ex Scagel et al.
Bryopsidella ostreobiformis Calderón-Sáenz et Schnetter
Bryopsis dichotoma De Notaris
Capsosiphon fulvescens (C. Agardh) Setchell et N.L. Gardner
Chaetomorpha gracilis Kützing
Chaetomorpha litorea Harvey
Derbesia corallicola Funk
Enteromorpha flexuosa (Wulfen) J. Agardh ssp. biflagellata
(Bliding) Bliding
Enteromorpha intestinalis (Linnaeus) Nees v. asexualis Bliding
Enteromorpha ralfsii Harvey
Entocladia perforans (Huber) Levring
Microdictyon umbilicatum (Velley) Zanardini
Monostroma grevillei (Thuret) Wittrock
Rosenvingiella polyrhiza (Rosenvinge) P.C. Silva
Ulva neapolitana Bliding
Ulva scandinavica Bliding
Tabella 4.25 - Chlorophyceae esclusive della flora italiana (le specie precedute da un asterisco sono endemiche).
*
*
*
*
*
*
Cladosiphon chordariaeformis P. et H. Crouan
Cystoseira hyblaea Giaccone
Desmarestia dresnayi J.V. Lamouroux ex Leman
Ectocarpus fasciculatus Harvey v. abbreviatus (Kützing) Sauvageau
Ectocarpus fasciculatus Harvey v. pycnocarpus (Rosenvinge) Cardinal
Ectocarpus siliculosus (Dillwyn) Lyngbye v. subulatus (Kützing)
Gallardo
Ectocarpus siliculosus (Dillwyn) Lyngbye v. venetus (Kützing)
Gallardo
Elachista flaccida (Dillwyn) Fries
Elachista fucicola (Velley) Areschoug
Herponema velutinum (Greville) J. Agardh
Leptonematella neapolitana (Schussnig) Cormaci et G. Furnari
Microcoryne ocellata Strömfelt
Myriogloea sciurus (Harvey) Kuckuck ex Oltmanns
Petalonia zosterifolia (Reinke) Kuntze
Petrospongium berkeleyi (Greville) Nägeli
Phaeostroma bertholdii Kuckuck
Scytosiphon dotyi M.J. Wynne
Sphacelaria nana Nägeli ex Kützing
Stilopsis lejolisii (Thuret) Kuckuck ex Hamel
Streblonema parasiticum (Sauvageau) De Toni
Taonia lacheana Cormaci, G. Furnari et Pizzuto
Tabella 4.26 - Fucophyceae esclusive della flora italiana (le specie precedute da un asterisco sono endemiche).
Fig. 4.43 – Dendrogramma mostrante le similarità floristiche tra le
Ceramiales, Chlorophyceae e Fucophyceae presenti nelle sei aree
mediterranee considerate (FURNARI et al., 2003a).
lativo alle Chlorophyceae è risultato abbastanza simile al
precedente, anche in questo caso con l’individuazione dei
due gruppi: SPA, FRA e ITA da una parte e GTR e MAT
dall’altra, mentre più isolata rimane sempre l’area LEL.
Una minore affinità floristica tra i primi 5 gruppi si riscontra a livello delle Fucophyceae dove si individuano discrete analogie solo fra SPA e FRA. L’area LEL risulta ancora la meno affine. La sua scarsa affinità legata al basso
numero di specie in ciascun gruppo sistematico potrebbe dipendere oltre che dalla insufficiente conoscenza floristica dell’area anche dalle caratteristiche geomorfologiche delle coste (prevalentemente sabbiose) e da eventi paleoclimatici quali le crisi di sapropel che l’hanno interessata (GIACCONE e DI MARTINO, 1997).
In conclusione, la flora bentonica dell’Italia, almeno
per quanto riguarda le Fucophyceae (alghe brune), le Chlorophyceae (alghe verdi) e le Ceramiales (alghe rosse p.p.),
è la più ricca di specie fra quelle delle altre aree mediterranee considerate, forse anche perché quella più ampiamente studiata in questi ultimi anni. Inoltre, da un punto di vista corologico, essa presenta una elevata consisten-
FLORA E VEGETAZIONE • 197
Fig. 4.44 - Spettro corologico della flora
bentonica delle coste italiane.
A = Atlantico s.l.;
Ab = Atlantico boreale;
Abt = Atlantico boreo-temperato;
At = Atlantico tropicale;
AP = Atlanto-Pacifico;
APtf = Atlanto-Pacifico temperato freddo;
IA = Indo-Atlantico; IP = Indo-Pacifico;
P = Pantropicale; C = Cosmopolita;
SC = Subcosmopolita; M = Mediterraneo.
za dell’elemento endemico mediterraneo (Figura 4.44)
che testimonia l’alto valore naturalistico del territorio marino italiano. Tuttavia essa non presenta una particolare
originalità in assoluto anche se, insieme alle flore delle
aree occidentali e in particolare con quelle della Spagna e
della Francia con le quali è risultata notevolmente affine,
si differenzia dalla flora delle coste di Libia, Egitto e degli Stati Levantini, ma ciò rispecchia la nota diversità floristica che esiste tra il bacino occidentale e quello orientale del Mediterraneo (GIACCONE, DI MARTINO, 2001).
È infine da notare che il numero relativamente alto di specie esclusive dell’Italia, più che a particolari habitat o fattori biogeografici, è più probabilmente dovuto agli accurati studi condotti recentemente lungo le sue coste.
Numerose sono le specie della flora italiana che si possono definire ‘critiche’: quelle endemiche, riportate nelle
tabelle 4.24, 4.25 e 4.26 e quelle proposte dall’UNEP (2000)
per la scelta dei siti naturali di interesse per la conservazione, riportate nella tabella 4.27 (Figure 4.45-4.58). Nella
suddetta tabella sono riportate anche alcune specie caratteristiche di associazioni vegetali di ambienti in equilibrio
che rappresentano dei bioindicatori di naturalità dei siti,
quando formano popolamenti ben strutturati. In particolare ricordiamo alcune specie di Cystoseira (Fucales, Fucophyceae) che caratterizzano le associazioni “climax” sui substrati duri alle varie profondità [C. amentacea (nella frangia infralitorale), C. crinita (nell’infralitorale superiore), C.
sauvageauana (nell’infralitorale medio), C. spinosa (nell’infralitorale inferiore), C. zosteroides e C. dubia (nel circalitorale, rispettivamente in biotopi soggetti a correnti e in
biotopi calmi con sedimentazione)] e la Spermatofita Posidonia oceanica che caratterizza l’associazione “climax” dei
substrati mobili infralitorali con sabbie grossolane. Pertanto si rende necessario un’indagine conoscitiva della distribuzione delle suddette specie nelle coste italiane che andrebbero monitorate laddove queste specie formino popolamenti ben strutturati al fine di rilevare eventuali degradazioni degli stessi. Tenuto conto che queste specie sono
particolarmente sensibili alle variazioni ambientali, la loro
conservazione e la protezione dei popolamenti da esse caratterizzati, richiedono un’attenta gestione della fascia costiera. I principali fattori di impatto e/o minacce sia per le
specie critiche che per i loro habitat sono: il calpestio, la cementificazione, gli scarichi di acque reflue, nel piano mesolitorale; gli scarichi di acque reflue con condotte di smaltimento, lo scarico di materiali di risulta che alterano i substrati rocciosi e riducono la trasparenza delle acque costiere, gli impianti di acquacoltura con gabbie sospese e l’eccessiva erbivoria e/o la competizione di specie aliene invasive, nel piano infralitorale e, nel piano circalitorale, oltre
a quelli elencati per l’infralitorale, anche la pesca a strascico. Tutti i suddetti fattori di impatto e/o minacce possono
provocare la scomparsa delle specie critiche determinando
profondi cambiamenti nella struttura delle comunità vegetali di cui fanno parte e notevole alterazione sia della biodiversità che del paesaggio vegetale con gravi conseguenze
sulle risorse biologiche collegate.
Fig. 4.45 - Lithophyllum byssoides: esemplare in exsiccata
(foto di M. Cormaci).
198 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
RHODOPHYTA
* Lithophyllum byssoides (Lamarck) Foslie 2 (riportato come Lithophyllum lichenoides)
Habitat: Lithophylletum byssoidis Giaccone 1993
* L. trochanter (Bory) H. Huvé ex Woelkerling 2 (riportato come Goniolithon byssoides)
Habitat: Lithophylletum byssoidis Subass. Lithophylletosum trochanteris Marino, Di Martino, Giaccone 1998
Nemalion helminthoides (Velley) Batters 4
Rissoella verruculosa (A. Bertoloni) J. Agardh 4
Habitat: Nemalio-Rissoelletum verruculosae Boudouresque 1971
* Schimmelmannia schousboei (J. Agardh) J. Agardh 1
Habitat: Rhodymenietum ardissonei Pignatti 1962
PHAEOPHYTA
* Cystoseira amentacea (C. Agardh) Bory 3 [incl. v. stricta Montagne e v. spicata (Ercegocić) Giaccone]
Habitat: Cystoseiretum strictae Molinier 1958
C. crinita Duby 3
Habitat: Cystoseiretum crinitae Molinier 1958
C. dubia Valiante 2
Habitat: Cystoseiretum dubiae Furnari et al. 1977
C. foeniculacea (Linnaeus) Greville v. latiramosa (Ercegocić) Gómez Garreta et al. 3
Habitat: Cystoseiretum spinosae Giaccone 1973
C. foeniculacea (Linnaeus) Greville f. tenuiramosa (Ercegocić) Gómez Garreta et al. 3
Habitat: Cystoseiretum sauvageauanae Giaccone 1994
* C. mediterranea Sauvageau 2
Habitat: Cystoseiretum strictae Molinier 1958
C. sauvageauana Hamel 2
Habitat: Cystoseiretum sauvageauanae Giaccone 1994
* C. sedoides (Desfontaines) C. Agardh 3
Habitat: Cystoseiretum crinitae Molinier 1958
* C. spinosa Sauvageau 3
Habitat: Cystoseiretum spinosae Giaccone 1973
C. tamariscifolia (Hudson) Papenfuss 1
Habitat: Cystoseiretum strictae Subass. Cystoseiretosum tamariscifoliae Giaccone 1972
C. usneoides (Linnaeus) M. Roberts 2
Habitat: Cystoseiretum usneoidis Giaccone 1972
* C. zosteroides C. Agardh 3
Habitat: Cystoseiretum zosteroidis Ciaccone 1973
Fucus virsoides J. Agardh 2
Habitat: Fucetum virsoidis Pignatti 1962
Laminaria ochroleuca De La Pylaie 2
Habitat: Cystoseiretum usneoidis Giaccone 1972
* L. rodriguezii Bornet 4
Habitat: Cystoseiretum zosteroidis Subass: Laminarietosum rodriguezii Giaccone 1973
Phyllariopsis purpurascens (C Agardh) E.C. Henry et South 4
Habitat: Cystoseiretum usneoidis Giaccone 1972
SPERMATOPHYTA
* Posidonia oceanica (Linnaeus) Delile 3
Habitat: Posidonietum oceanicae Molinier 1958
* Nanozostera noltii (Hornemann) Tomlinson et Posluzny 4
Habitat: Nanozosteretum noltii Harmsen 1936
* Zostera marina Linnaeus 1
Habitat: Zosteretum marinae (Van Goor 1921) Harmsen 1936
Tabella 4.27 - Elenco delle specie ‘critiche’ del macrofitobenthos delle coste italiane. Gli habitat sono individuati dal syntaxon fitosociologico
di appartenenza. Le specie da proteggere proposte dall’UNEP sono precedute da un asterisco. Il numero in neretto dopo ciascuna specie indica lo status di conservazione secondo la seguente scala: 1= cattivo; 2= scarso; 3= sufficiente; 4= buono; 5= elevato.
FLORA E VEGETAZIONE • 199
Fig. 4.47 Nemalion helminthoides
nel suo habitat
(foto di M. Cormaci).
Fig. 4.46 - Lithophyllum trochanter: esemplare in exsiccata
(foto di M. Cormaci).
Fig. 4.48 - Schimmelmannia schousboei: esemplare in exsiccata
(foto di M. Cormaci).
Fig. 4.49 - Cystoseira amentacea v. stricta nel suo habitat
(foto di G. Giaccone).
Fig. 4.50 - Cystoseira crinita nel suo habitat (foto di G. Giaccone).
Fig. 4.51 - Cystoseira dubia nel suo habitat (foto di B. Scammacca).
200 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.52 - Cystoseira foeniculacea f. tenuiramosa: esemplare d’erbario
conservato in glicerina (foto di M. Cormaci).
Fig. 4.54 - Cystoseira sedoides nel suo habitat (foto di G. Giaccone).
Fig. 4.53 - Cystoseira sauvageauana: esemplari d’erbario conservati in
glicerina. A sinistra esemplare raccolto in primavera; a destra esemplare
raccolto in inverno (foto di M. Cormaci).
Fig.4.56 - Cystoseira zosteroides: esemplare d’erbario conservato in
glicerina (foto di M. Cormaci).
FLORA E VEGETAZIONE • 201
Bibliografia
Fig. 4.55 - Cystoseira spinosa: esemplari d’erbario conservati in glicerina.
A sinistra esemplare raccolto in primavera; a destra esemplare raccolto
in inverno (foto di M. Cormaci).
Fig. 4.57 - Fucus virsoides nel suo habitat (foto di G. Giaccone).
Fig. 4.58 - Posidonia oceanica nel suo habitat (foto di V. Di Martino).
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202 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
VEGETAZIONE E HABITAT PRIORITARI
[Edoardo Biondi]
La vegetazione è la copertura vegetale della terra, il risultato della distribuzione e della combinazione delle piante nei diversi luoghi determinata dai fattori ecologici, biotici e abiotici e dall’azione antropica. La vegetazione costituisce l’aspetto più rilevante della fitocenosi, in quanto definita dall’insieme delle piante che popolano il biotopo, nel quale le singole specie trovano il necessario “spazio” vitale, la propria nicchia ecologica. La competizione
tra specie è quindi alla base della costituzione della vegetazione come la qualità e la quantità delle risorse disponibili presenti nel sito.
La scienza della vegetazione studia le comunità vegetali analizzandole principalmente per quanto concerne:
- la composizione floristica e la struttura,
- le condizioni ecologiche che ne consentono la sopravvivenza e lo sviluppo,
- le modalità con le quali partecipano alla costruzione
del paesaggio vegetale.
Il cammino percorso dalla scienza della vegetazione per
la sua definitiva affermazione è stato lungo e fortemente
contrastato. Nel XVIII secolo la Botanica sistematica si
sviluppa notevolmente grazie all’attività di illustri naturalisti che realizzano i sistemi classificatori (tra questi basta ricordare lo svedese Carlo Linneo) nei quali inseriscono le enormi varietà di piante che rinvengono nei grandi
viaggi di esplorazione del pianeta. A questo aspetto prevalentemente sistematico dello studio delle piante nel XIX
secolo fa seguito la ricerca sulle condizioni ambientali che
si correlano con la distribuzione delle specie vegetali, e in
particolare con il clima. A HUMBOLDT si deve il Saggio
sulla geografia delle piante nel quale viene fondata la scienza che considera i vegetali in rapporto con le loro capacità associative locali che risultano essere fortemente condizionate dai diversi climi. Viene così espresso per la prima volta il concetto di vegetazione, anche se con una visione piuttosto riduttiva rispetto ai fattori che agiscono
sulle comunità, visto che il clima viene considerato come
determinante nella distribuzione dei vegetali.
Lo studio della vegetazione seguirà quindi due principali linee di pensiero di cui una fisionomico-strutturale e
l’altra floristico-ecologica. Secondo la prima, della quale
GRISEBACH (1838) può essere considerato il precursore,
la vegetazione di un territorio è data dall’insieme di formazioni di vegetazione, cioè di comunità che si definiscono attraverso la “forma di crescita” delle specie dominanti e non in relazione alla loro composizione specifica.
In base alla seconda concezione, la floristico-ecologica,
detta fitosociologica o sociologico vegetale, vengono indagati gli aspetti associativi delle piante, con l’individuazione di comunità vegetali, le associazioni appunto, che
sono alla base di un sistema gerarchico di classificazione.
Secondo il fondatore della fitosociologia, BRAUN-BLANQUET (1915), «l’associazione è un aggruppamento vegetale più o meno stabile e in equilibrio con l’ambiente, caratterizzato da una composizione floristica determinata,
nel quale alcuni elementi esclusivi o quasi (specie caratteristiche) rivelano con la loro presenza un’ecologia particolare e autonoma».
Nella fitosociologia attuale vengono riconosciuti tre
principali livelli di analisi:
- quello della Fitosociologia classica, floristica ed ecologica, detta anche sigmatista o meglio braun-blanquettista, mediante il quale si definiscono le associazioni, i
livelli gerarchici ad esse collegati (sintaxa) e la loro ecologia (sinecologia);
- quello della Sinfitosociologia o Fitosociologia seriale,
rivolto allo studio dei rapporti dinamici che legano le
associazioni tra loro permettendo di definire le serie dinamiche di vegetazione o sigmeta;
- quello della Geosinfitosociologia o Fitosociologia catenale, che, interpretando i rapporti catenali o geografici intercorrenti tra più serie di vegetazione, consente
l’individuazione di unità fitogeografiche di paesaggio
o geosigmeta.
Tra le associazioni si possono instaurare rapporti diversi, che sono di tipo dinamico o catenale. Il primo caso si
ha quando rappresentano tappe successive di uno stesso
processo evolutivo o regressivo, definito dalla serie di vegetazione o sigmetum. Ad esempio un’associazione di vegetazione pascoliva che per abbandono si trasforma in una
di arbusti, che a sua volta evolverà in una forestale. La serie di vegetazione è costituita dall’insieme di tutte le associazioni (comunità) legate da rapporti dinamici, le quali si rinvengono in un territorio con le stesse potenzialità
vegetazionali. Questa porzione di territorio, detta tessera,
rappresenta quindi l’unità biogeografico-ambientale di
base del mosaico che costituisce il paesaggio vegetale. Secondo questa concezione il paesaggio, inteso come sistema di ecosistemi, è dato dall’integrazione delle serie di vegetazione che definiscono le unità di paesaggio vegetale,
denominate geosigmeta o geoserie, che si ripetono in settori di territorio con le stesse caratteristiche edafiche e climatiche, quali possono essere una vallata o una montagna o un tratto di costa (BIONDI, 1994). Serie e geoserie
di vegetazione sono pertanto modelli ambientali con i
FLORA E VEGETAZIONE • 203
quali è possibile integrare aspetti diversi, in prima analisi quelli fisiografici (caratteristiche geomorfologiche, natura delle rocce, esposizione, inclinazione e altitudine), le
condizioni climatiche e le caratteristiche dei suoli (Figura 4.59). Lo studio dinamico e integrato della vegetazione è particolarmente idoneo per analizzare le condizioni
attuali dei nostri territori in quanto negli ultimi decenni
la loro ridotta utilizzazione in termini agro-pastorali ha
innescato naturali processi di recupero per cui si trovano
in aspetti diversi, caratterizzati dalla copertura vegetale.
Utilizzando queste concezioni, un elevato numero di
fitosociologi è attualmente impegnato nella realizzazione
di una cartografia di base della vegetazione d’Italia alla
scala 1:250.000, in cui vengono rappresentati, oltre alla
situazione attuale, anche gli ambiti di pertinenza delle diverse serie di vegetazione (BLASI et al., 2000).
Risulta evidente da quanto presentato, seppure in forma notevolmente semplificata, che lo sviluppo della Fitosociologia è stato particolarmente ampio, in quanto si
è passati dalla individuazione delle comunità alla loro caratterizzazione in chiave ecologica, dinamica e paesaggistica (BIONDI e ZUCCARELLO, 2000).
L’associazione possiede più anime, a quelle floristica,
ecologica e sindinamica si è già accennato, resta da indi-
care la fitogeografica, che con le altre concorre a dare una
visione vasta e articolata della copertura vegetale. Uno
dei criteri tradizionalmente utilizzati per la tipificazione
delle unità biogeografiche è il riconoscimento e la cartografia dei taxa (famiglia, genere, specie, sottospecie) che
hanno una distribuzione territoriale limitata ad un’area
geografica. Per la delimitazione delle unità biogeografiche maggiori (Regno e Regione) si considerano principalmente i fatti storici e genetici che hanno portato alla
costituzione delle diverse flore e alla presenza dei cosiddetti macroendemismi, cioè famiglie e generi endemici.
Per la delimitazione delle altre unità fitogeografiche si
considera invece principalmente i taxa endemici a livello specifico o subspecifico e i rapporti tra questi e quindi le vicarianze geografiche. Recentemente, in virtù delle notevoli acquisizioni realizzate nel campo della fitosociologia è stato possibile integrare, nel riconoscimento
dei territori fitogeografici, le tradizionali considerazioni
di tipo corologico con le sincorologiche, riguardanti la
distribuzione dei sintaxa e soprattutto di serie di vegetazione (sigmeta) e di geoserie (geosigmeta). In base a queste concezioni è stata recentemente realizzata la Carta
biogeografica d’Europa alla scala 1:16.000.000 (RIVASMARTINEZ et al., 2001).
Fig. 4.59 - Il paesaggio vegetale di una
vallecola, presente nelle formazioni
marnoso-arenacee delle coste prossime al
Monte Conero, viene rappresentato dal
geosigmeto costituito dalla distribuzione
delle serie di vegetazioni (sigmeta) che si
distribuiscono sui versanti e sul fondo della
stessa. Si evidenzia come a ogni serie di
vegetazione corrisponda una precisa
tipologia di suolo (BIONDI et al., 2002).
204 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
LA VEGETAZIONE NELLA DIRETTIVA 92/43/EEC
Il concetto della conservazione di habitat, esplicitamente evidenziato nella direttiva, assume un elevato significato in quanto viene riconosciuto per la prima volta il valore del livello di organizzazione fitocenotica della biodiversità, rilevabile mediante analisi fitosociologiche e quindi indicato con la specifica terminologia (allegato I della Direttiva). Viene così resa realmente operativa la salvaguardia delle specie vegetali e animali realizzata sia direttamente, sia mediante la protezione degli
ecosistemi in cui vivono e che vengono individuati e proposti per la conservazione. Di questi la vegetazione, oltre che indicare la parte direttamente e immediatamente percepibile, ci fornisce anche le caratteristiche ecologiche in base al ricordato postulato scientifico della scienza della vegetazione, per il quale a ogni associazione corrisponde una particolare condizione ecologica. L’uso del-
la terminologia fitosociologica in una direttiva dell’Unione europea assume un importante significato, poiché per
la prima volta in un documento di rilevanza internazionale viene riconosciuto il ruolo della fitosociologia quale scienza di base per la gestione delle biodiversità. Si tratta di vera “sinecologia vegetale”, capace di integrare aspetti diversi della vita associativa vegetale, dal livello di comunità a quello di paesaggio, in relazione con le caratteristiche ambientali.
Gli habitat indicati nell’allegato I della Direttiva sono
stati attribuiti a una regione biogeografica secondo un’interpretazione della biogeografia dei territori dell’Ue che,
seppure estremamente semplificata, risulta funzionale alla direttiva stessa in quanto permette di differenziare le
tipologie di habitat in rapporto ai territori biogeografici
di pertinenza. In base a questa interpretazione il territorio italiano è stato assegnato alle regioni Alpina, Continentale e Mediterranea (Figura 4.60).
Fig. 4.60 - Carta delle regioni biogeografiche d’Europa, aggiornamento 2002 (<http://dataservice.eea.eu.int/atlas>, modificata).
FLORA E VEGETAZIONE • 205
Nell’applicazione della Direttiva le conoscenze degli
ecosistemi e delle condizioni socio-economiche che li
hanno determinati costituiscono la base irrinunciabile
del sapere per definire le scelte più opportune da attuare. La fitosociologia non ha pertanto solo il compito, già
assunto, di riferimento per la denominazione e individuazione della biodiversità, ma anche quello, sicuramente non meno importante, di concorrere a definire i modelli gestionali più idonei, in quanto compatibili con la
conservazione dei siti individuati, e di consentirne il monitoraggio nel tempo tenendo conto che anche la biodiversità indotta dall’opera millenaria dell’uomo, agricoltore e allevatore di piante e animali, è da considerare non meno importante di quella propriamente naturale. Le condizioni economiche e sociali hanno infatti
determinato tradizionali gestioni agro-silvo-pastorali che
hanno generato una straordinaria varietà di ambienti
modellati dalle attività umane con la conseguente forte
espansione della nicchia ecologica di molte comunità e
di numerose specie. La direttiva habitat tiene conto di
questo processo di “umanizzazione” che ha pervaso pressochè completamente il territorio comunitario e in particolare quello italiano, per la straordinaria storia e l’elevata densità abitativa che l’ha caratterizzato, indicando
molti habitat secondari o seminaturali quali lande, praterie e boschi che sono il frutto di questa plurisecolare
utilizzazione.
In aiuto a ciò la Direttiva Habitat, all’Art. 10, prevede che la coerenza ecologica della Rete Natura 2000 possa essere incrementata dagli Stati attraverso l’individuazione di corridoi ecologici. È il tema, attualmente molto dibattuto, dei corridoi ecologici che debbono consentire lo spostamento delle specie animali e vegetali,
superando le barriere interposte dall’urbanizzazione del
territorio.
La dinamica dei principali aspetti vegetazionali in
Italia in rapporto agli habitat della Direttiva
Nel presente capitolo, superando il necessario schematismo del manuale di interpretazione degli habitat della direttiva (EUROPEAN COMMISSION DG ENVIRONMENT,
NATURE AND BIODIVERSITY, 2003 - Interpretation Manual of European Union Habitats - EUR25), vengono descritti in modo unitario e sistemico i diversi aspetti vegetazionali (con molti riferimenti di dettaglio a scala di
associazione vegetale) relativi agli “ambienti marini e costieri”, a quelli “forestali, boschivi e di macchia” e quindi agli ambienti “prativi naturali e seminaturali”.
Vegetazione marina e costiera
Gli ambienti marini e costieri rivestono notevole importanza in una nazione prevalentemente peninsulare e
insulare come l’Italia, che vanta ben oltre 7.500 km di coste. Circa il 60% di queste sono coste basse, di tipo sedimentario, mentre la parte restante è data da coste alte,
rocciose. L’analisi macrobioclimatica condotta in base agli
indici proposti da RIVAS-MARTINEZ (1995) e alla recente “Carta del fitoclima d’Italia” realizzata nell’ambito del
programma “Completamento delle conoscenze naturalistiche” (BLASI et al., 2004) permette di verificare come
lungo la penisola le coste siano prevalentemente interessate dal bioclima mediterraneo nel settore tirrenico e ionico, fatta eccezione per una parte dell’arco ligure, mentre quello adriatico è per lo più sottoposto al clima temperato di tipo continentale, tranne che nella parte settentrionale del bacino nella quale predomina il bioclima temperato a influenza atlantica (BIONDI e BALDONI, 1995).
L’elevata biodiversità delle coste italiane è principalmente determinata dalla posizione geografica della penisola, posta al centro del Mare Mediterraneo a dividere i
bacini occidentale e orientale e, nel contempo, a collegare Nord e Sud dello stesso bacino quale ponte, seppure
incompleto, tra l’Africa e l’Europa. A questa peculiare
condizione geografica si legano le condizioni bioclimatiche indicate e una non minore variabilità geologica, geomorfologica e sedimentologica. Nel complesso si determina una diverstà ambientale eccezionale, spesso relegata in siti estremamente limitati, nei quali si realizzano micro-habitat, di straordinaria rilevanza per la presenza di
piante e animali. Purtroppo la fascia costiera è anche la
parte del territorio nazionale che è stata maggiormente
alterata e che risulta essere, per la sua naturale fragilità, la
più gravemente minacciata dallo sviluppo socio-economico a causa dell’elevata pressione di tipo urbanistico-infrastrutturale, industriale e turistico-balneare.
Per comprendere le caratteristiche ecologiche dei sistemi costieri è necessario interpretare i fenomeni biologici e i gradienti ecologici su tutta la costa, evitando la
separazione artificiosa tra ambiente sommerso ed emerso. Moltissimi dei fattori che riguardano la stabilità geomorfologica o la diffusione di comunità nel tratto emerso della spiaggia dipendono da fenomeni che trovano la
loro origine in mare. La parte sommersa delle spiagge del
Mediterraneo è caratterizzata da praterie di fanerogame
marine, purtroppo in grave rarefazione, che svolgono un
ruolo di primaria importanza nella stabilizzazione dei
fondali. Tali comunità hanno infatti il compito di ridurre l’intensità degli effetti dovuti al moto ondoso attra-
206 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.61 - Prateria di Posidonia (Posidonia
oceanica): habitat particolarmente
complesso, che produce grande quantità
di materia organica e di ossigeno ed è inoltre
capace di salvaguardare efficacemente il
fondale marino dall’erosione (foto di C.
Orestano).
verso la massa costituita dal fitto fogliame, attenuando
l’erosione e favorendo l’accumulo della sabbia per mezzo di uno sviluppato apparato ipogeo. Ad esempio la Posidonia oceanica, che a dispetto del suo nome è specie endemica del Mediterraneo, accrescendo il proprio rizoma
in direzione sia orizzontale sia verticale contrasta il progressivo insabbiamento e dà origine a una formazione a
“terrazzo”, detta in francese matte, che si oppone ai processi di erosione del fondale. La prateria a posidonia (Figura 4.61) costituisce inoltre un ecosistema particolarmente complesso, che produce grande quantità di materia organica e di ossigeno, habitat ideale per la vita di
moltissimi animali acquatici, dai più semplici gruppi zoologici fino ai pesci. Le foglie della posidonia quando vengono spiaggiate dalle onde formano dei corpi sferici detti “palle di mare” o egagropile, che si rinvengono sulle
spiagge. Altre fanerogame che danno origine a praterie
sottomarine sono Cymodocea nodosa, che si rinviene sino a circa 20 m di profondità, Zostera noltii, dell’Atlantico e del Mediterraneo dove colonizza i primi 5 m di
profondità e Zostera marina, la specie più comune e più
importante nelle coste Nord-atlantiche e Nord-pacifiche, che nel Mediterraneo si rinviene alla foce dei grandi fiumi come ad esempio nel Nord Adriatico. La tipificazione fitosociologica delle praterie sottomarine porta
al riconoscimento di associazioni diverse che vengono
inquadrate nella classe Zosteretea marinae.
Le praterie di Posidonia oceanica, in particolare, sono
estremamente vulnerabili alla variazione e alle alterazio-
ni dei parametri ambientali in quanto la loro formazione, struttura e dinamica sono strettamente legate a fattori edafici e climatici quali: natura del substrato, forza e
direzione delle correnti, temperatura e altre qualità delle
acque, penetrazione della luce, flussi sedimentari, ecc.
Considerando le caratteristiche biologiche della pianta
(lenti ritmi di accrescimento) e la dinamica delle praterie
stesse (lentissimo recupero da disturbi esterni) molteplici cause, soprattutto di origine antropica hanno determinato la regressione della prateria a Posidonia oceanica in
ampie zone del Mediterraneo, malgrado l’importanza che
questo ecosistema riveste nell’equilibrio delle coste.
La parte emersa della spiaggia con le sue dune rappresenta un insieme di microambienti particolarmente inospitali per la vita vegetale. Il vento rende mobile la sabbia, causa 1’erosione, nebulizza l’acqua marina e agisce
inoltre sull’economia idrica interferendo sulla disponibilità di acqua per le piante. Le specie che colonizzano questi luoghi costieri sono pertanto notevolmente specializzate, adattate per occupare precise nicchie ecologiche,
spesso estremamente limitate in quanto i gradienti dei più
importanti fattori ecologici subiscono significative variazioni nello spazio di pochi metri.
Nei litorali sabbiosi emersi il substrato della zona regolarmente raggiunta dalle onde, sia in caso di calma che
durante le mareggiate, risulta costantemente rimosso e
caratterizzato da una tessitura troppo grossolana per permettere una coesione tra le sue particelle e il materiale trasportato sulla costa dal mare. In tali condizioni ambien-
FLORA E VEGETAZIONE • 207
Fig. 4.62 - Duna mobile soggetta
a venti forti e costanti. Lo sparto
pungente (Ammophila arenaria
subsp. arundinacea) e poche altre
piante psammofile riescono a
contrastare il trasporto della sabbia
determinando la formazione di
alte dune (foto di E. Biondi).
tali non è possibile lo sviluppo di forme di vita vegetale
superiore (zona afitoica). Il materiale organico portato
dalle onde si deposita sulla spiaggia laddove il mare non
arriva per qualche mese all’anno e qui si decompone liberando le sostanze che andranno ad arricchire il substrato sabbioso. È questa la zona di sviluppo per la vegetazione annuale, alo-nitrofila, occupata in tutto il mediterraneo dall’associazione Salsolo kali-Cakiletum maritimae
con: il ravastrello (Cakile maritima), la salso erbacali (Salsola kali), la portulaca marina (Euphorbia peplis) e il poligono marittimo (Polygonum maritimum).
Più internamente compaiono i primi accumuli di sabbia, le cosiddette dune embrionali, ancora soggette al rimaneggiamento causato dall’azione del vento e occasionalmente raggiunte dagli spruzzi dell’acqua marina. La
duna embrionale si forma per la presenza di una pianta,
la gramigna delle spiagge (Agropyron junceum subsp. mediterraneum = Elytrigia juncea subsp. juncea), dotata di
particolari adattamenti che le consentono di sopportare,
o meglio, di opporsi all’accumulo della sabbia trasportata dal vento. La parte aerea di questa pianta risulta poco
voluminosa rispetto a quella ipogea che ha rizomi notevolmente ramificati, tanto da creare un groviglio fittissimo, dal quale si dipartono numerose radici capaci di trattenere fortemente la sabbia. L’associazione vegetale presente sulle dune embrionali di quasi tutte le spiagge italiane è l’associazione Echinophoro spinosae-Elymetum farcti, costituita dal finocchio litorale spinoso (Echinophora
spinosa) e dalle due gramigne delle spiagge: Sporobolus
pungens e Agropyron junceum subsp. mediterraneum, oltre
alla santolina delle spiagge (Otanthus maritimum), all’erba medica marina (Medicago marina), alla soldanella di
mare (Calystegia soldanella) e al cardo delle spiagge (Eryngium maritimum).
Sulle ben più elevate dune mobili che seguono le embrionali, dominandole, la vegetazione è costituita dallo
sparto pungente (Ammophila arenaria subsp. arundinacea), alta graminacea dall’infiorescenza piumosa, particolarmente adattata per contrastare efficacemente l’azione
del vento e l’insabbiamento grazie a rizomi molto resistenti che si sviluppano con meccanismi simili a quelli
della gramigna delle spiagge (Figura 4.62). L’associazione a cui dà origine consolidandosi la duna è l’Echinophoro spinosae-Ammophiletun arundinaceae (appartenente alla classe Ammophiletea) alla cui costituzione partecipano:
il cardo delle spiagge (Eryngium maritimum), l’euforbia
marittima (Euphorbia paralias) e il giglio delle spiagge
(Pancratium maritimum).
Nel versante continentale della duna le condizioni di
vita cambiano notevolmente, si realizzano infatti microambienti protetti dai venti salsi e quindi più favorevoli
per le piante, sebbene risultino ancora con substrato povero di acqua e di humus. È questa la zona della così detta “duna grigia” in cui le dune iniziano a stabilizzarsi a
opera di piccoli arbusti (camefite) che nelle aree a bioclima mediterraneo danno origine a garighe basse e discontinue dominate dalla crucianella di mare (Crucianella maritima) che viene per l’appunto riferita all’alle-
208 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.63 - La vegetazione costituita
dallo spillone delle sabbie (Armeria
pungens) e dal perpetuino d’Italia a
foglie piccole (Helichrysum italicum
subsp. microphyllum) colonizza il
settore interno delle dune della
Sardegna settentrionale (foto di E.
Biondi).
anza Crucianellion maritimae, nella quale si rinvengono
anche il perpetuino d’Italia (Helichrysum italicum) o il
perpetuino profumato (H. stoechas), il ginestrino delle
spiagge (Lotus cytisoides) o il timo arbustivo (Coridothymus capitatus). In Sardegna in questa vegetazione sono
presenti inoltre la scrofularia delle spiaggie (Scrophu1aria
ramosissima) o lo spillone delle spiagge (Armeria pungens)
mentre il perpetuino d’Italia è ivi presente nella sottospecie sardo-corsa (Helichrysum italicum subsp. microphyllum) (Figura 4.63).
Aspetti di vegetazione terofitica notevolmente diversificati si insinuano tra quelli tipicamente psammofili perenni, dando origine a un eccezionale mosaico. Questa
fugace vegetazione costituita da minuscole piante rientra,
unitamente a quella che colonizza le radure delle macchie
e delle garighe, nella classe Tuberiaretea, nell’ambito della quale la vegetazione effimera dunale viene riferita all’ordine Malcolmietalia. La zona della “duna grigia” in Italia e in quasi tutto il Mediterraneo è stata maggiormente
compromessa dalle attività antropiche, principalmente
con il rimodellamento meccanico della duna e assai spesso con l’impianto assolutamente improprio e quanto mai
inopportuno di specie esotiche arbustive e arboree.
L’ulteriore consolidamento della sabbia porta alla costituzione di macchie a ginepri costieri tra i quali il più
diffuso è il ginepro coccolone (Juniperus oxycedrus subsp.
macrocarpa), dai grossi galbuli sferici rosso-aranciati detti “coccole”, che colonizza il versante a mare delle dune.
Questa vegetazione viene riferita all’associazione Asparago acutifolii-Juniperetum macrocarpae, presente, seppure
in forma molto frammentaria e gravemente degradata, in
Sardegna e in Sicilia oltre che in diversi siti della penisola italiana. Nel settore settentrionale della costa tirrenica,
a Nord dell’Arno, alla transizione tra il bioclima mediterraneo e quello temperato, questa vegetazione viene vicariata dall’associazione Spartio juncei-Juniperetum macrocarpae, decisamente più mesofila della precedente (VAGGE e BIONDI, 1999). In Sicilia, lungo il litorale Sud-orientale dell’isola, si rinviene invece l’associazione Ephedro fragilis-Juniperetum macrocarpae, più prossima alle formazioni Nord-africane. Sul versante interno delle dune mediterranee il ginepro coccolone viene più o meno completamente sostituito dal ginepro turbinato (Juniperus
phoenicia subsp. turbinata), un ginepro fenicio con galbuli più grandi e ovoidali. Questa macchia in Sardegna
viene riferita all’associazione Oleo-Juniperetum turbinatae
che nelle stazioni più interne e distanti dal mare, come
nel campo dunoso di Buggerru-Portixeddu, viene sostituita da un altro tipo di macchia più evoluta e notevolmente rara a quercia di Palestina (Quercus calliprinos) dell’associazione Rusco aculeati-Quercetum calliprini che in
Sicilia, nel settore Sud-orientale, è vicariata dall’associazione Junipero-Quercetum calliprini. In tutte queste formazioni si rinvengono altre piante mediterranee quali il
lentisco (Pistacia lentiscus), l’ilatro sottile (Phillyrea angustifolia), lo stracciabrache (Smilax aspera), la clematide
FLORA E VEGETAZIONE • 209
flammola (Clematis flammula), la robbia (Rubia peregrina var. longifolia) e il pungitopo (Ruscus aculeatus). Nelle coste Nord-adriatiche soggette al bioclima temperato
la vegetazione in oggetto è rappresentata dalla macchia a
ginepro comune (Juniperus communis) e a olivella spinosa (Hippophaë rhamnoides subsp. fluviatilis) che dà origine alla rara associazione Junipero communis-Hippophaetum fluviatilis, la quale si installa sul versante continentale dei cordoni dunali o nelle depressioni interdunali più
distanti dal mare, nel litorale compreso tra Grado e Ravenna. Dal punto di vista sintassonomico le associazioni
mediterranee vengono riferite alla classe Quercetea ilicis,
ordine Pistacio-Rhamnetalia alaterni e alleanza Juniperion
turbinatae, mentre l’associazione Nord-adriatica alla classe Rhamno-Prunetea, ordine Prunetalia spinosae e alleanza Pruno-Rubion ulmifolii. A causa della rarità di questi
tipi di vegetazione e del pericolo a cui sono soggetti su
tutti i litorali mediterranei, la direttiva habitat li ha giustamente indicati come prioritari.
In molti litorali sabbiosi italiani si rinvengono attualmente anche pinete artificiali, in quanto sono molto rare le pinete che possono essere considerate autoctone. In
Sardegna, in limitate zone, si trovano formazioni naturali a pino d’Aleppo (Pinus halepensis), per esempio sull’isola di S. Pietro e nel Golfo di Porto Pino, nella parte Sudoccidentale dell’isola, dove la pineta viene riferita all’associazione Pistacio-Pinetum halepensis, nella subass. juniperetosum. Sulle dune marittime di Portixeddu-Buggerru
si rinviene invece un bosco a pino domestico (Pinus pinea) spontaneo con esemplari anche secolari. La pineta a
pino si colloca in rapporto con il bosco a Quercus calliprinos dell’associazione Rusco aculeati-Quercetum calliprini e si afferma quando si determina il forte degrado di tale foresta a cui fanno seguito fenomeni di deflazione eolica o di erosione dei versanti dunali. La direttiva habitat
considera importante la salvaguardia della vegetazione autoctona a pini mediterranei su dune costiere e quella di
origine antropica realizzata nell’ambito della lecceta (habitat 22701). In effetti i rimboschimenti a prevalenza di
pino d’Aleppo o di pino domestico sono molto diffusi
lungo le coste basse e sabbiose italiane.
Nelle zone costiere sono frequenti anche aree lagunari di estensione variabile che costituiscono ambienti assolutamente straordinari nei quali si sviluppano notevoli varietà di vita animale e vegetale. Gli habitat presenti
in questi ecosistemi sono fortemente condizionati nelle
1
Vedi tabella 4.28 per la numerazione e denominazione ufficiale
degli habitat.
loro caratteristiche biocenotiche dalle variazioni dei gradienti ecologici di salinità, temperatura e profondità delle acque oltre che dalle caratteristiche del substrato. La
Direttiva interpreta la necessità di salvaguardare la biodiversità delle lagune riconoscendo uno specifico habitat
(1150) che prende in considerazione le “distese di acque
salate costiere, poco profonde, di salinità e di volume d’acqua variabile, separate dal mare da un cordone di sabbia
e ghiaia o più raramente da una barriera rocciosa. La salinità può variare, andando dall’acqua salmastra all’ipersalina secondo la piovosità, l’evaporazione e gli apporti
d’acqua marina fresca durante le tempeste o per invasioni temporanee da parte del mare in inverno. Possono ospitare una vegetazione riferibile alle classi: Ruppietea maritimae, Potametea, Zosteretea e Charetea o esserne completamente prive”. Le associazioni vegetali presenti negli ambienti lagunari italiani consentono di riconoscere due principali ambiti biogeografici: quello dell’area bioclimatica
temperata, in parte a impronta oceanica, del settore Nordadriatico compreso tra i lidi ravennati e il Golfo di Trieste e l’altro riguardante il resto delle lagune italiane che si
rinvengono in zone con bioclima mediterraneo. Tra le associazioni che costituiscono l’habitat in Italia, lo Zosteretum marinae si ritrova principalmente nella regione temperata mentre in quella mediterranea prevale lo Zosteretum noltii. L’associazione Ruppietum spiralis è ampiamente diffusa in tutta la regione mediterranea mentre più marcatamente termofila risulta essere l’associazione Ruppietum drepanensis, principalmente distribuita negli stagni
del Sud della Sardegna e della Sicilia occidentale.
Un habitat prioritario che assume contatti con quello
lagunare è quello delle “steppe salate mediterranee”, costituito da associazioni costiere mediterranee proprie delle depressioni caratterizzate da elevata salinità, ricche in
piante perenni che si sviluppano su suoli temporaneamente invasi dall’acqua salata ed esposti all’estrema aridità estiva, che comporta la formazione di affioramenti
di sale. In tali ambienti si sviluppano tipi di vegetazione
attribuibili ai sintaxa: Limonietalia, Arthrocnemetalia (=
Sarcocornietalia fruticosae), Thero-Salicornietalia e Saginetalia maritimae. Nel Nord Adriatico, nell’ambito della
regione bioclimatica temperata, la vegetazione di questo
habitat presenta alcune associazioni che evidenziano questo tipo di macroclima mentre altre per contro rappresentano l’estrema espansione settentrionale di tipologie che
sono prettamente mediterranee e addirittura termomediterranee come l’associazione Arthrocnemo macrostachyiHalocnemetum strobilacei. Tra le associazioni a distribuzione tipicamente temperata e soprattutto atlantica me-
210 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
rita una particolare menzione la presenza dell’associazione Limonio serotini-Spartinetum maritimae, in quanto in
questa parte dell’Adriatico settentrionale Spartina maritima trova le uniche stazioni di distribuzione in Mediterraneo. Dal punto di vista biogeografico particolarmente
significativa è la vegetazione a Salicornia veneta, ritenuta
endemica di questo limitato settore anche se recenti segnalazioni la indicano per la località di S’Ena Arrubia,
nella Sardegna centro-occidentale (FILIGHEDDU et al.,
2000). Nelle regioni a bioclima mediterraneo le successioni e i tipi di comunità presenti negli ambienti lagunari risultano abbastanza uniformi. Per le aree costiere con
macroclima termomediterraneo si può far riferimento alla vegetazione degli stagni di Cagliari e più in generale a
tutte le aree costiere della Sardegna meridionale. In queste l’associazione più diffusa è il Puccinellio festuciformisSarcocornietum fruticosae, mentre abbondante risulta anche la presenza dell’associazione Arthrocnemo macrostachyi-Halocnemetum strobilacei. Nei settori con substrato
più elevato si rinviene per contro la vegetazione ad Halimione portulacoides qui riferibile all’associazione Cynomorio coccinei-Halimionetum portulacoidis. Tra le praterie salate retrodunali sono riscontrabili formazioni dominate
da piante del genere Limonium che vengono riferite alla
classe Salicornietea fruticosae e all’ordine Limonietalia. Si
tratta di comunità molto rare che solitamente occupano
habitat estremamente ridotti.
La vegetazione terofitica annuale è data prevalentemente dal Salicornietum emerici, nelle vasche piatte spesso risultate dall’abbandono dell’attività di saline, o dall’associazione Suaedo maritimae-Salicornietum patulae particolarmente diffusa nelle radure del Puccinellio festuciformisSarcocornietum fruticosae.
Per completare la rassegna della vegetazione costiera è
necessario accennare, seppure brevemente, a quella che
colonizza i difficilissimi ambienti delle coste rocciose, a
falesia. Sono insiemi di microhabitat variamente subordinati ai fattori ecologici che permettono l’impianto di
comunità vegetali diverse, condizionate dalla natura litologica e geomorfologica del substrato, dalla micromorfologia che determina possibilità di accumulo di detriti e di
suolo favorendo le comunità aeroaline e diversamente alotolleranti, dalle formazioni terofitiche simili a quelle di
gariga e di macchia. La più tipica vegetazione di falesia è
però quella che viene raggiunta direttamente dall’aerosol
marino e che si sviluppa nelle fessure delle rocce assumendo pertanto il vero carattere di vegetazione alo-rupicola,
inquadrata nella classe Crithmo-Staticetea. Tale vegetazione è essenzialmente dominata dal finocchio di mare (Cri-
thmum maritimum) e da numerose specie del genere Limonium (= Statice) che differenziano numerosissime associazioni endemiche diffuse lungo le coste della penisola e delle isole italiane.
Vegetazione forestale, boschiva e di macchia
Alle nostre latitudini il paesaggio vegetale interno, rispetto alla linea di costa, è potenzialmente rappresentato
dalla foresta che senza soluzione di continuità occuperebbe il territorio situato al di sotto del limite altitudinale superiore del bosco. In realtà il territorio italiano è ricoperto da boschi per circa 10 milioni di ha, pari al 30% dell’intera superficie nazionale. Nel corso dei secoli le foreste sono state infatti distrutte o fortemente modificate
tanto che attualmente a questo termine in senso stretto,
inteso come formazione primigenia, non è assegnabile
nessun sistema forestale italiano. Preferiamo pertanto parlare di bosco e, ancor più spesso, di strutture meno evolute quali il prebosco o la macchia.
I boschi nel nostro paese sono comunque aumentati
progressivamente, a partire dal 1940, a causa della perdita d’interesse economico che ha riguardato sia i boschi sia
le praterie determinando il loro abbandono, con conseguente recupero spontaneo della vegetazione, che affermandosi ha sviluppato le associazioni previste nelle serie
di vegetazione.
Le diverse formazioni forestali si differenziano in termini floristici principalmente in base alla distribuzione
in senso altitudinale, quindi in rapporto alle variazioni
climatiche, a parità di zona fitogeografica e di natura del
substrato.
La vegetazione boschiva e di macchia mediterranea è
rappresentata in Italia dalle formazioni che vengono attribuite alla classe Quercetea ilicis che interessano sia le zone calde e aride del bioclima mediterraneo (infra e termo-mediterraneo) sia le più fresche e umide (meso-mediterraneo). Nelle prime zone bioclimatiche prevalgono
le formazioni di macchia costituita da specie termofile,
dell’ordine Pistacio-Rhamnetalia alterni, in cui si rinvengono la palma nana (Chamaerops humilis), l’euforbia arborescente (Euphorbia dendroides), il lentisco (Pistacia lentiscus), il the siciliano (Prasium majus), l’asparago bianco
(Asparagus albus). Sulle dune sono presenti le formazioni
a ginepri coccolone o turbinato, già ricordate, che appartengono all’alleanza Juniperion turbinatae, mentre solo
nelle Isole Pelagie e nel settore meridionale dell’Isola di
Pantelleria e nel canale di Sicilia si trovano le macchie attribuibili all’alleanza Periplocion angustifoliae, a prevalente distribuzione Nord-africana, macchie che ospitano ra-
FLORA E VEGETAZIONE • 211
Fig. 4.64 - La periploca minore (Periploca laevigata subsp. angustifolia)
partecipa alla costituzione di rarissimi lembi di macchia che in Italia
si rinvengono solo nelle isole del canale di Sicilia (foto di E. Biondi).
re specie quali la periploca minore (Periploca laevigata
subsp. angustifolia) (Figura 4.64) e la spina santa insulare (Lycium intricatum) con le associazioni Periploco angustifoliae-Juniperetum turbinatae e Periploco-Euphorbietum
dendroidis. Questa vegetazione è legata al piano inframediterraneo e ha quindi una distribuzione estremamente
limitata nel nostro paese mentre più diffuse sono le macchie del piano bioclimatico termomediterraneo, attribuibili principalmente all’alleanza Oleo-Ceratonion che prende il proprio nome dall’olivastro (Olea europaea var. sylvestris) e dal carrubo (Ceratonia siliqua). La direttiva habitat non indica per le macchie termofile e aridofile nessun tipo di habitat prioritario determinando una grave
lacuna, soprattutto per le formazioni dell’alleanza Periplocion angustifoliae che sono molto rare ed estremamente localizzate nel nostro paese. I boschi del piano bioclimatico meso-mediterraneo sono per lo più costituiti da
leccete e da sugherete. Le prime si localizzano indifferen-
temente sui substrati calcarei mentre le seconde sono esclusive delle rocce cristalline. I boschi attribuiti a questa alleanza contengono una consistente varietà di arbusti sempreverdi quali le filliree (Phillyrea media, P. latifolia, P. angustifolia), il laurotino (Viburnum tinus), il terebinto (Pistacia therebintus), il mirto (Myrtus communis), ecc. Diffuse sono pure le liane quali lo stracciabraghe (Smilax
aspera), la robbia (Rubia peregrina var. longifolia), le clematidi (Clematis flammula e C. cirrhosa), ecc. Tra le principali associazioni di lecceta in Italia si hanno il Viburno
tini-Quercetum ilicis, a distribuzione provenzale, che lambisce appena la riviera di ponente, il Cyclamino repandiQuercetum ilicis dell’area tirrenica della penisola, l’EricoQuercetum ilicis dei substrati cristallini dell’Italia meridionale. Sono inoltre presenti nel territorio italiano associazioni miste di sclerofille sempreverdi e caducifoglie, a prevalente distribuzione adriatica: Fraxino orni-Quercetum
ilicis, Ostryo-Quercetum ilicis e Cephalanthero longifoliaeQuercetum ilicis.
Nelle zone submediterranee e temperate, che ricoprono vaste superfici della penisola italiana, la vegetazione
forestale risulta mista di caducifoglie e viene attribuita alla classe Querco-Fagetea, ordine Quercetalia pubescentis e
alleanza Carpinion orientalis, a prevalente diffusione balcanica. Nell’Appennino questa vegetazione comprende
boschi a dominanza di carpino nero (Ostrya carpinifolia)
e di roverella, spesso con carpinella (Carpinus orientalis)
e acero d’Ungheria (Acer obtusatum).
Sui suoli acidi dell’Italia centro-meridionale si rintracciano le associazioni forestali dell’alleanza Teucrio siculiQuercion cerridis che comprende i boschi a cerro (Quercus cerris) e a farnetto (Q. frainetto).
Il piano di vegetazione montano è dominato dalla potenzialità per i boschi di faggio (Fagus sylvatica) che nell’Appennino centro-settentrionale si fanno riferire all’alleanza balcanica Aremonio-Fagion della quale si individua
la suballeanza Cardamino kitaibelii-Fagenion sylvaticae,
mentre nell’Appennino centro-meridionale è presente l’alleanza endemica Geranio versicoloris-Fagion sylvaticae.
I boschi della suballeanza Cardamino kitaibelii-Fagenion a Sud dell’Appennino emiliano perdono buona parte della componente floristica differenziale e si collocano, in forma relittuale, nelle porzioni sommitali dei rilievi dell’Appennino umbro-marchigiano e abruzzese. È
in questi tratti dell’Appennino che si determina la zona
di tensione tra le faggete meridionali dell’alleanza Geranio versicoloris-Fagion e quelle dell’Aremonio-Fagion. Il
contatto con le prime si individua per la presenza delle
specie caratteristiche: Lathyrus venetus, Cyclamen hederi-
212 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.65 - Il bosco di faggio con abete
bianco che si rinviene sui Monti della
Laga rappresenta uno dei rari esempi
dell’habitat prioritario 9220 presente
nell’Appennino centrale (foto di E.
Orsomando).
folium, Helleborus bocconei, Daphne laureola, Acer obtusatum, Pulmonaria apennina, Ranunculus lanuginosus. Di
questa alleanza nell’Appennino centrale si rinvengono,
alle quote più basse del piano montano, le associazioni:
Lathyro veneti-Fagetum sylvaticae, dei rilievi calcarei, e
Staphyleo pinnatae-Fagetum sylvaticae, dei substrati flischyoidi (BIONDI et al., 2002).
Per l’Appennino meridionale e la Sicilia l’alleanza Geranio versicoloris-Fagion presenta numerose associazioni
quali: Geranium versicolor (= G. striatum), Anemono apenninae-Fagetum, Acer lobelii-Fagetum, Campanulo trichocalycinae-Fagetum e Doronico columnae-Fagetum. Nell’ambito dei boschi appenninici di questi tipi la direttiva ha
individuato due habitat prioritari: “Faggete appenniniche con Taxus e Ilex” e “Faggete appenniniche con Abies
alba e faggete con Abies nebrodensis” che rivestono un notevole rilievo fitogeografico ed ecologico. Le formazioni
a faggio con tasso e agrifoglio sono faggete microterme,
pressoché pure, schiettamente montane o faggete termofile miste, con varie latifoglie submediterranee. Per quanto concerne l’altro habitat “Faggete appenniniche con
Abies alba e faggete con Abies nebrodensis” si deve precisare che l’endemico abete dei Nebrodi è attualmente ridotto a una sola popolazione, costituita da appena 29 individui, localizzata nel Vallone degli Angeli sulle Madonie, e che l’abete bianco appenninico presenta non pochi
caratteri morfologici differenziali rispetto alla specie, per
cui è stato recentemente attribuito ad Abies alba subsp.
apennina Brullo, Scelsi e Spampinato. I nuclei più importanti sono in Abruzzo (Gran Sasso e Monti della Laga –
figura 4.65), nell’Appennino molisano e in quello lucano centro-settentrionale, al Gargano e quindi al Pollino,
alla Sila, alle Serre Calabresi e all’Aspromonte.
Sulle Alpi i boschi di caducifoglie occupano solitamente le stazioni meno elevate, prealpine con bioclima
di tipo oceanico mentre le conifere tendono a svilupparsi alle quote superiori a partire dal piano montano dove
si registrano le abetine di abete bianco. Le faggete delle
Alpi Nord-orientali (POLDINI e VIDALI, 1995) e in parte quelle delle Alpi centrali manifestano, ancor più di
quelle dell’Appennino centro-settentrionale, il legame di
alleanza Aremonio-Fagion con le analoghe formazioni
FLORA E VEGETAZIONE • 213
orientali rispetto alle quali si collocano nella suballeanza Lamio orvalae-Fagenion, che riunisce le associazioni di
faggete mesofile delle montagne centrali della regione illirica. Per il resto delle Alpi le faggete vanno inquadrate
nell’alleanza Galio odorate-Fagion che include sia i boschi
alpini sia i centro-europei. Nell’ambito di questa alleanza si riconoscono le suballeanze: Galio odorati-Fagenion
sylvaticae e Cephalanthero-Fagenion sylvaticae, rispettivamente per le formazioni microterme e xeroterme. La maggiore specificità della vegetazione forestale alpina è però
data dai boschi di conifere della classe Vaccinio-Picetea,
tra i quali si annoverano le peccate, formazioni compatte di abete rosso (Picea abies) che nel Trentino-Alto Adige rappresentano la vegetazione forestale maggiormente
diffusa. Rilevanti sono anche le formazioni a Pino silvestre (Pinus sylvestris) che sempre nel territorio trentino si
raggruppano in associazioni che fanno riferimento a condizioni climatiche di tipo continentale (Ononido-Pinion)
e suboceanico (Erico-Pinion). Alle quote più elevate del
piano subalpino si rinvengono ancora alcune peccate (dette appunto peccate subalpine) che mano mano si fanno
più aperte per lasciare il passo alle formazioni arbustive
con alcune specie arboree quali il larice (Larix decidua)
e il pino cembro (Pinus cembra) con le associazioni Rhododendro-Laricetum e Rhododendro-Pinetum cembrae, entrambe caratterizzate da un denso tappeto di rododendro rosso (Rhododendron ferrugineum) nel quale si riscontrano sia il mirtillo nero (Vaccinium myrtillus) sia il mirtillo rosso (V. vitis-idaea). Più in alto, nel cosiddetto orizzonte degli arbusti contorti, questa vegetazione si trasforma nell’associazione Rhododendretum ferruginei che perde completamente la presenza delle specie arboree, nello stesso orizzonte si rinviene anche la vegetazione a ginepro nano (Juniperus alpina) e uva orsina (Arctostaphylos uva-ursi) dell’associazione Junipero-Arctostaphyletum.
Da ultimo, nella zona degli arbusteti primari vanno ricordati per la loro diffusione sulle Alpi e per la loro presenza anche in alcune stazioni appenniniche le pinete
prostrate a pino mugo (Pinus mugo) che, con l’associazione Mugo-Rhododendretum hirsuti, vengono considerate habitat prioritario (4070).
Nelle forre e nei valloni delle aree con bioclima temperato delle Alpi e in parte anche sugli Appennini si sviluppano i boschi dell’alleanza Tilio-Acerion, che sono formazioni miste di latifoglie nobili con aceri, tigli e frassini. L’habitat prioritario “Foreste dei valloni del Tilio-Acerion” (9180) in Italia presenta il maggior sviluppo nei territori dell’arco alpino mentre sulla catena appenninica si
rinviene in situazioni relittuali (TAFFETANI, 2000).
Notevolissima importanza riveste inoltre il gruppo di
habitat definiti dalla direttiva come “Foreste di conifere
montane mediterranee e macaronesiche”, all’interno del
quale si rinvengono gli habitat prioritari: “Foreste Sudappenniniche di Abies alba” (9510), “Foreste sub-mediterranee di pini neri endemici” (9530), “Foreste mediterranee endemiche con Juniperus spp.” (9560) e “Boschi
mediterranei di Taxus baccata” (9580).
Per le foreste Sud-appenniniche di abete bianco, la
nuova definizione fa perdere di significatività all’habitat
stesso, rispetto alla precedente versione che riuniva le
“Foreste appenniniche di Abies alba e Picea excelsa”. Essa rende più coerente l’habitat con la regione biogeografica mediterranea di appartenenza ma esclude le foreste
appenniniche a Picea excelsa che perdono così d’importanza in quanto vengono inserite in un habitat non prioritario, mentre sarebbe stato opportuno considerarle tali per l’eccezionalità di questi boschi che sono presenti
in un’area estremamente limitata del settore tosco-emiliano dell’Appennino settentrionale: la valle del torrente
Sestaione, presso l’Alpe delle Tre Potenze, dove costituiscono un esempio di vegetazione relitta di estremo interesse fitogeografico.
Con l’habitat “Foreste mediterranee endemiche di Juniperus spp.” (9560) vengono considerate per l’Italia le
formazioni relitte a ginepro turifero (Juniperus thurifera), con areale Ovest-mediterraneo (Nord-Africano-Ibero-Provenzale), che trovano il limite orientale di distribuzione in Italia sulle Alpi piemontesi. Si tratta di due
stazioni situate in località Valdieri, in Val Gesso e in località Moiola, nella Valle Stura. L’insediamento dei popolamenti a Juniperus thurifera (Figura 4.66) sembra essere antico, almeno pre-wurmiano, come testimonia anche la presenza di numerose specie endemiche rupicole
che si rinvengono nella vegetazione e nelle altre comunità che fanno parte della serie di vegetazione di questa
importante fitocenosi. In entrambe le stazioni italiane il
ginepro turifero è presente in ambiti di rifugio, dove si
localizza in settori rupestri, in condizioni edafo-xerofile.
Si tratta di comunità spiccatamente mediterranee, come
dimostra anche la presenza di ginepro feniceo (Juniperus
phoenicea) a Valdieri e ginepro emisferico (J. emisphaerica) in entrambe le stazioni, che si collegano dinamicamente a garighe camefitiche mediterranee con specie quali Lavandula vera, Satureja montana, Artemisia alba e Fumana procumbens.
L’habitat “Boschi mediterranei di Taxus baccata” (9580)
considera alcune importanti formazioni forestali relitte
della Sardegna, che si rintracciano in forre e in canaloni
214 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.66 - Rari esemplari di ginepro
turifero abbarbicati insieme a
individui di ginepro fenicio in Val di
Gesso (foto di E. Biondi).
delimitati da rilievi costituiti da litologie acide, a quote
comprese tra 500 m e 900 m. Tali formazioni danno luogo a una serie mesofila che si inserisce in ambiti in cui la
vegetazione climatica è data da leccete. Una variante a
questa vegetazione si sviluppa su substrati basici o neutri-basifile, alle quote comprese tra 900 m e 1.500 m, dove prende contatto con formazioni climaciche dell’ordine Quercetalia pubescentis o dell’alleanza Quercion ilicis.
L’habitat “Pinete mediterranee di pini neri endemici
(incl. P. heldreichii)” comprende le “foreste del piano
mediterraneo montano, su substrato dolomitico, dominate da pini del gruppo del Pinus nigra, spesso con una
struttura densa”. I pini mediterranei endemici presenti
sulle montagne italiane sono: il pino nero (Pinus nigra
subsp. nigra), il pino laricio (P. nigra subsp. laricio) e il
pino loricato (Pinus heldreichii). Il pino nero nella penisola italiana è presente con popolazioni ritenute autoctone in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata e Calabria. In Abruzzo Pinus
nigra subsp. nigra è noto con una forma intermedia tra
le subsp. nigra e laricio denominata pino di Villetta Barrea, nel Parco Nazionale d’Abruzzo. Il pino nero costituisce per lo più boschi rupestri che in Friuli Venezia
Giulia vengono riferiti all’associazione Fraxino orni-Pinetum nigrae, dell’alleanza Fraxino orni-Ostryon carpinifoliae (POLDINI, 1969), mentre nell’Appennino centro-meridionale si inserisce in differenti tipologie vegetazionali: in Basilicata l’associazione Genisto sericeae-Pinetum nigrae dinamicamente collegata all’orno-ostrieto,
in Calabria occupa oltre all’orizzonte delle querce caducifoglie anche quello delle faggete. Il pino laricio è noto per la Corsica e per l’Italia, dove si localizza principalmente in Calabria (Sila e Aspromonte) e in Sicilia
(Etna). In Calabria le popolazioni si distinguerebbero
dalle analoghe della Corsica costituendo una varietà descritta come Pinus nigra subsp. calabrica. Sia in Calabria
sia in Sicilia il pino laricio forma pinete anche molto
estese interessando generalmente la fascia che va da 1000
m fino a 1800-1900 m sull’Etna, ai limiti della vegetazione arborea, dove si comporta come specie pioniera e
frugale colonizzando le lave e insediandosi su suoli poveri o pendii assolati ove difficilmente possono crescere
altre essenze arboree. Le pinete calabresi vengono riferite all’associazione Hypochaerido-Pinetum laricionis. Il
pino loricato è specie distribuita sui gruppi montuosi
del settore Nord-orientale del Mediterraneo che in Italia è localizzato esclusivamente in Basilicata e Calabria:
nella prima regione Pinus heldreichii si rinviene principalmente sul Massiccio del Pollino mentre in Calabria
sui Monti di Orsomarso e Montea. Il pino loricato si localizza da un’altitudine compresa tra 800-2000 m di
quota fin oltre il limite della vegetazione arborea dove
costituisce boschi riferibili alla classe Pino-Juniperetea e
all’associazione Pino leucodermis-Juniperetum alpinae delle fitocenosi più mature presenti sul Monte Pollino e dove risulta collegata dinamicamente a praterie dell’associazione Carici-Seslerietum nitidae e a stadi pionieri a Juniperus alpina (STANISCI, 1997).
FLORA E VEGETAZIONE • 215
Vegetazione prativa naturale e semi-naturale
Le praterie sono costitute da piante erbacee perenni la
cui forma biologica corrisponde all’habitus emicriptofitico, cioè di piante che superano la stagione avversa, quella invernale, con le gemme poste a livello del terreno, protette dalle foglie secche dell’anno precedente. Le praterie
si distinguono in primarie, se poste alle quote superiori
al limite altitudinale potenziale del bosco e secondarie, se
ottenute successivamente alla distruzione del bosco stesso. Le praterie, primarie o secondarie, rappresentando
l’aspetto strutturale più importante della copertura vegetale insieme a quello forestale, hanno costituito l’oggetto
di indagini fitosociologiche sin dalle origini di questa
scienza e continuano ancor oggi a suscitare notevole interesse nei ricercatori.
Le praterie secondarie vengono mantenute con la gestione agro-pastorale del cotico erboso che impedisce al
bosco di recuperare sui terreni che gli sono stati “violentemente” sottratti, al pari di quanto realizzato con la pratica del debbio, attuata per ridurre a coltura i terreni ottenuti dopo l’incendio forestale. Molte praterie secondarie sono spesso stabili e capaci di conservare il suolo dall’erosione idrica, spesso ancor meglio della vegetazione
forestale, e hanno una composizione floristica particolarmente ricca, tanto da essere ritenuta ambiti importanti
per la conservazione della biodiversità.
Le diverse formazioni fisionomiche di prateria, legate
alle utilizzazioni agronomiche e zootecniche di prato, prato-pascolo e pascolo, sono state inquadrate in classi fitosociologiche diverse. Di queste le più interessanti, anche
a fini applicativi, sono la Carici rupestris-Kobresietea bellardii, la Elyno myosuroidis-Seslerietea coeruleae e la Nardetea strictae per le praterie prevalentemente primarie mentre la Molinio caeruleae-Arrhenatheretea elatioris e la Festuco-Brometea riguardano le formazioni secondarie, rispettivamente negli aspetti mesofili e mesoigrofili dei prati falciabili e da semiaridi a mesofili dei pascoli collinari
e montani. Per le zone mediterranee dell’Ue la direttiva
indica l’habitat prioritario “Percorsi substeppici di graminacee e piante annue” (6220) che si riferisce alla classe
Thero-Brachypodietea pur volendovi comprendere sia le
praterie perenni con abbondanza di terofite sia le formazioni di sole piante annuali. Con tale classe in effetti venivano riunite comunità di composizione floristica, struttura e dinamica differenti, per cui recentemente si è preferito sostituirla con classi specifiche che inquadrano formazioni tra loro più omogenee come la Lygeo-Stipetea,
delle praterie aperte di grandi graminacee perenni con fisionomia di pseudo-steppa, e la Tuberarietea guttatae, dei
pratelli effimeri, terofitici, di carattere xerico e pioniero,
che si sviluppano all’interno delle precedenti e con le quali risultano legate da processi successionali. Particolare importanza, per le zone del mediterraneo occidentale, riveste inoltre la classe Poetea bulbosae, diffusa in Italia principalmente in aree silicicole della Sardegna (LADERO et
al.,1992) dove si praticano forme colturali e di allevamento simili a quelle che portano alla costituzione del paesaggio della dehesa, proprio della Penisola Iberica.
Le praterie della classe Lygeo-Stipetea sono date prevalentemente da formazioni dominate da Ampelodesmos
mauritanicus, Hyparrhenia hirta o Lygeum spartum. La
graminacea cespitosa di grossa taglia, Ampelodesmos mauritanicus, detta in italiano tagliamani, costituisce fitocenosi di aspetto savanoide, che svolgono un ruolo di primaria importanza nella stabilizzazione dei substrati mobili.
Hyparrhenia hirta è specie ad ampia distribuzione diffusa oltre che nel Mediterraneo anche in territori dell’Africa, dell’Asia occidentale e della Macaronesia. In Italia la
vegetazione a barboncino mediterraneo trova la sua migliore espressione in alcune zone della Calabria e della Sicilia per le quali sono state descritte le associazioni Heteropogono contorti-Hyparrhenietum hirtae, alla quale partecipano anche le specie Heteropogon contortus e Aristida
caerulescens, e Aristido caerulescens-Hyparrhenietum hirtae, caratterizzata dalle graminacee Stipa parviflora e Stipagrostis sahelica.
La vegetazione a Lygeum spartum si trova sui terreni argillosi dell’Italia meridionale, che spesso sono interessati
da fenomeni di erosione rapida di tipo calanchivo (Figura 4.67). In queste condizioni lo sparto prevale sulle altre
specie grazie al suo apparato radicale molto sviluppato,
con il quale difende il substrato dell’azione erosiva delle
acque di scorrimento superficiale.
Per quanto riguarda la vegetazione terofitica mediterranea, questa raggiunge nelle zone più calde della penisola italiana e nelle isole la maggiore biodiversità con una
serie notevolissima di associazioni le quali si raggruppano negli ordini Malcolmietalia, presenti sulle formazioni
sabbiose, e Trachynetalia distachyae, dei substrati calcarei.
Sulle dune adriatiche italiane sono diffuse le associazioni
Sileno coloratae-Vulpietum membranaceae e Maresio nanae-Ononidetum variegatae, mentre sulle coste tirreniche
e joniche si rinvengono le associazioni Sileno colorataeOnonidetum variegatae, Sileno nicaensis-Ononidetum variegatae, Sileno nicaensis-Cutandietum maritimae e Senecioni leucanthemifolii-Matthioletum tricuspidatae. Le principali associazioni dell’ordine Trachynetalia distachyae de-
216 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.67 - Prateria a Lygeum
spartum sui terreni argillosi e salati
prossimi alla città di Taranto (foto
di E. Biondi).
scritte al di fuori dei sistemi dunali per il settore centroadriatico della penisola sono il Saxifrago tridactilites-Hypochoeridetm achyrophori e il Trifoglio scabri-Hypochoeridetm achyrophori, rispettivamente con fenologia tardo-invernale e primaverile, mentre per quelli tirrenico e meridionale adriatico è stata individuata l’associazione Crucianello latifoliae-Hypochoeridetm achyrophori, decisamente più termofila della precedente. Sulle isole maggiori si
rinvengono altre associazioni tra cui: Thero-Sedetum cerulei, Vulpio-Trisetarietum aureae, Lophochloo cristataePlantaginetum lagopi e Valantio muralis-Sedetum cerulei.
La classe Festuco-Brometea in Italia presenta tre ordini:
Festucetalia vallesiacae che si rinviene soprattutto nelle valli interne, continentali, delle Alpi, Scorzoneretalia villosae
a influenza orientale presente nel Friuli-Venezia Giulia
(POLDINI, 1995) e nell’Appennino meridionale e Brometalia erecti diffuso sull’Appennino e presente sporadicamente anche in Sicilia (BIONDI et al., 1995). Nell’Appennino l’ordine Brometalia erecti si presenta nei due subordini Artemisio albae-Bromenalia erecti e Leucanthemo vulgaris-Bromenalia erecti. Il primo riunisce le alleanze xerofile e semimesofile, prevalentemente calcicole: Phleo ambigui-Bromion erecti e Xerobromion e si differenzia dal subordine Leucanthemo vulgaris-Bromenalia erecti per la presenza di specie mediterranee caratteristiche delle classi Rosmarinetea officinalis e Cisto-Micromerietea. Il subordine
Leucanthemo vulgaris-Bromenalia erecti, con l’unica alleanza Bromion erecti, si riferisce invece alle praterie meso-
file non calcicole e si differenzia per il contingente di specie boreali per lo più caratteristiche delle classi MolinioArrhenatheretea e Artemisietea vulgaris, ordine Agropyretalia repentis. L’alleanza endemica dell’Appennino Phleo
ambigui-Bromion erecti riunisce i pascoli xerofili e semimesofili presenti nel piano altomontano, montano e collinare dell’Appennino calcareo e di un limitato settore
della Sicilia con l’optimum nel piano bioclimatico collinare. Nell’ambito dell’alleanza appenninica vengono riconosciute due suballeanze: Brachypodenion genuensis per
il piano altomontano dell’Appennino calcareo centro-settentrionale, Sideridenion italicae (= Sideridenion syriacae
corretto) per i piani bioclimatici montano e altomontano dell’Appennino centro-meridionale con carattere marcatamente mediterraneo. Infine c’è l’alleanza Xerobromion
che comprende i pascoli pionieri essenzialmente camefitici che si sviluppano su substrati calcareo-marnosi e marnoso-arenacei (BIONDI et al., 1995). La ridotta utilizzazione delle praterie secondarie su vaste aree delle Alpi e
degli Appennini ha permesso l’avvio di spontanei processi di recupero della vegetazione che porterà al ritorno del
bosco, attraverso la costituzione di arbusteti e di formazioni preforestali. Si perderà così un patrimonio di biodiversità determinato dall’uomo e che la stessa direttiva
habitat intende salvaguardare quando individua tra i prioritari l’habitat “Praterie semi-naturali aride e facies arbustive su substrati calcarei (Festuco-Brometea) (*siti importanti di orchidee)” (6210). L’evoluzione naturale di tali
FLORA E VEGETAZIONE • 217
Fig. 4.68 - Esempio di prateria
secondaria
polifitica
con
importante presenza di orchidee.
Si evidenziano le vistose fioriture
di Gymnadenia conopsea e di
asfodelo bianco (Asphodelus albus)
(foto di M. Baldoni).
praterie, quando non vengono più effettuate le attività
agro-pastorali, comporta lo sviluppo di arbusteti termofili ed eliofili della classe Rhamno-Prunetea, preceduti nella loro diffusione da formazioni erbacee anch’esse termofile della classe Trifolio-Geranietea. Con il termine di siti
importanti per le orchidee, si intendono le stazioni di prateria che ospitano un ricco corteggio di orchidacee o anche una sola popolazione di una certa rilevanza di queste, considerata poco comune sul territorio nazionale. Tale habitat in Italia si riscontra su grandi estensioni soprattutto sull’Appennino, nel bioclima temperato, piani submediterraneo e collinare nei quali si concentrano le popolazioni di orchidee (Figura 4.68). Le principali orchidee che si rinvengono in questi ambienti sono: Aceras anthropophorum, Anacamptis pyramidalis, Coeloglossum viride, Dactylorhiza latifolia, Epipactis atrorubens, Gymnadenia conopsea, G. widderi, Neotinea maculata, Ophrys
apifera, O. bertolonii, O. fuciflora, O. fusca, O. holoserica,
O. sphegodes, O. tenthredinifera, Orchis coriophora, O. italica, O. mascula, O. morio, O. papilionacea, O. pauciflora, O. provincialis, O. purpurea, O. sambucina, O. tridentata, O. ustulata, O. x colemanii, Pseudorchis albida, Serapias lingua, S. parviflora, Spiranthes spiralis e Traunsteinera globosa. Queste piante possono vivere in ambienti molto diversi, riuscendo a colonizzare i terreni più poveri e
difficili grazie all’elevato grado di specializzazione raggiunto che si basa sulla simbiosi con funghi micorrizici e
sull’intensa collaborazione con insetti impollinatori. La
conservazione delle praterie in oggetto e quindi dei popolamenti di orchidee richiede un’accurata gestione del
territorio che preveda interventi volti a contrastare i processi di naturale recupero della vegetazione sulle praterie
non più utilizzate. Ciò è realizzabile mediante il mantenimento delle tradizionali pratiche agro-pastorali, che
comporta il pascolamento e la fienagione, in equilibrio
con le caratteristiche geomorfologiche e biologiche dei siti (Figura 4.69). Tali forme di gestione sono quindi legate all’economia agricola e non c’è alcun dubbio che la perdita d’interesse economico dell’allevamento del bestiame
allo stato brado abbia di fatto determinato il decisivo abbandono su ampi territori, storicamente usati per questi
scopi.
Anche le praterie a nardo (Nardus stricta), graminacea
cespitosa con spighe unilaterali molto caratteristiche e di
colore violaceo scuro, si sviluppano sui substrati silicei delle zone montane e submontane e più raramente su quelli
calcarei e sono state considerate come habitat prioritario
dalla direttiva. Si tratta di formazioni che nelle migliori
condizioni sono a cotico erboso chiuso e risultano ricche
di specie quali: Arnica montana, Avenula versicolor, Campanula barbata, Gentiana kochiana, G. punctata, Geum
montanum, Leontodon helveticus, Nigritella nigra, Polygonum bistorta, Potentilla aurea, Pseudorchis albida, Trollius
europaeus, ecc. In Italia i pascoli a nardo sono localizzati
principalmente sulle Alpi, dove occupano estensioni talora cospicue nei piani bioclimatici subalpino e montano,
218 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Fig. 4.69 - La conservazione delle
praterie in oggetto e quindi dei
popolamenti di orchidee richiede
l’accurata gestione del territorio
che deve comprendere il
mantenimento delle tradizionali
pratiche agro-pastorali, implicanti
il pascolamento e la fienagione
(foto di E. Biondi).
con presenze anche nel piano alpino. Lungo la catena appenninica, i nardeti sono relativamente diffusi nell’alto
Appennino tosco-emiliano, mentre nell’Appennino centrale e meridionale risultano frequenti e talora anche estesi principalmente laddove ricorrono condizioni geolitologiche e geomorfologiche favorevoli (soprattutto nei Monti della Laga). Sui rilievi calcarei del Gran Sasso d’Italia e
del Velino la loro distribuzione è legata a particolari condizioni geomorfologiche come il fondo di doline o altre
zone pianeggianti con suolo profondo (BIONDI et al, 1999).
Negli altri sistemi montuosi dell’Appennino centrale, e
ancor più in quelli dell’Appennino meridionale, le formazioni erbacee a nardo sono poco frequenti. Nelle Alpi e
nell’Appennino settentrionale i nardeti alto-montani e subalpini appaiono chiaramente riferibili all’alleanza Nardion strictae, mentre nell’Appennino centrale e meridionale le diverse associazioni descritte vengono inquadrate
nell’alleanza Ranunculo-Nardion. La direttiva indica l’habitat prioritario quale “Formazioni erbose di nardo, ricche di specie, su substrato siliceo delle zone montane (e
delle zone submontane dell’Europa continentale)” (6230)
per la cui conservazione valgono in massima parte le indicazioni date per le praterie dell’ordine Brometalia erecti,
da ciò la necessità di una tradizionale gestione, ovviamente senza eccedere con il carico di bestiame pascolante.
Anche le praterie dell’ordine Festucetalia vallesiacae sono state considerate nella direttiva, seppure più recentemente con l’ingresso nell’Ue dell’Austria che ha richiesto
l’inserimento dell’habitat prioritario “Steppe subpannini-
che “ (6240). Tale habitat è presente anche in Italia, nelle
valli interne del Trentino Alto Adige (PEDROTTI, 1965-68).
Le praterie primarie si distinguono in termini floristici in rapporto al substrato e alla regione biogeografia. Sulle Alpi i terreni silicicoli, sopra il limite potenziale del bosco, sono interessati dalla presenza di praterie dominate
dalla carice ricurva (Carex curvula) o dal nardo (Nardus
stricta), mentre sui suoli basici si sviluppano formazioni
dominate dalla sesleria comune (Sesleria varia), orofita
medio-europea che non scende agli Appennini, o dall’elina (Elyna myosuroides), ciperacea atico-alpina che è presente in condizioni relittuali anche su poche cime dell’Appennino centrale (Figura 4.70). La continuità delle
praterie primarie è spesso interrotta dalle cosiddette “vallette nivali”, depressioni più o meno profonde che in virtù della loro conformazione mantengono la neve più a
lungo, spesso sino all’inizio dell’estate, e sono interessate
dalla presenza di tipi di vegetazione particolarmente mesofili come quelli a salici prostrati (Salix herbacea e S. retusa). Questi risultano ben rappresentati sulle Alpi mentre sono particolarmente rari negli Appennini. In particolare la vegetazione a salice erbaceo dell’Appennino (Figura 4.71) si rinviene in poche stazioni che trovano il limite meridionale di distribuzione nel Gran Sasso d’Italia, dove il salice è presente con l’associazione endemica
Armerio majellensis-Salicetum herbaceae, estremamente rara, che merita pertanto la massima attenzione (BIONDI et
al., 2000). La conservazione delle stazioni relitte di questa vegetazione dovrebbe di fatto essere garantita in quan-
FLORA E VEGETAZIONE • 219
Fig. 4.70 - Paesaggio del piano
bioclimatico alpino sul Gran Sasso
d’Italia (foto di E. Biondi)
to esse sono situate nella zona a riserva integrale del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Con questo esempio si ritiene comunque necessario sottolineare
il problema della salvaguardia di aspetti di diversità fitocenotica spesso non adeguatamente considerati dalla Direttiva e legati ad associazioni locali che si determinano
nelle stazioni al limite di distribuzione delle specie con
particolare significato fitogeografico. In tali casi risulta
pertanto fondamentale diversificare il grado di conservazione accentuandolo per le associazioni con forte significato locale, in analogia con quanto viene proposto per le
specie. Infatti lo stesso salice erbaceo nelle “Liste Rosse
Regionali delle Piante d’Italia” (CONTI et al., 1997) viene considerato come gravemente minacciato (CR) per
l’Emilia-Romagna e a minore rischio (LR) per Marche,
Lazio e Abruzzo, mentre non viene ritenuto in pericolo
per le regioni alpine dove la specie presenta la maggiore
diffusione nel nostro paese.
Fig. 4.71 - Aspetto di vegetazione a salice erbaceo (Salix herbacea)
dell’associazione endemica Armerio majellensis-Salicetum herbaceae
nelle “vallette nivali” del Gran Sasso d’Italia (foto di E. Biondi).
220 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
GLI HABITAT DELLA DIRETTIVA EUROPEA IN ITALIA
[Emanuela Giovi]
Al fine di evidenziare l’eccezionale valenza ecologica
del territorio italiano tanto in termini di flora, vegetazione e fauna che come rete ecologica, si è ritenuto opportuno riprendere la struttura delle macrocategorie di habitat presente nel manuale di interpretazione, con particolare riferimento al nostro Paese1 per quanto riguarda
la distribuzione degli habitat prioritari (evidenziati con
un asterisco).
Le apposite commissioni in seno alla rete “Natura 2000”
hanno individuato 218 tipologie di habitat rappresentative nel loro complesso della variabilità ambientale di tutta Europa. 68 di tali habitat, pari a circa il 31% del totale, sono stati giudicati prioritari. Solo in Italia sono rappresentati 124 habitat (Tabella 4.28) pari a circa il 57%
di tutti quelli europei; di questi 124 habitat 27 risultano
prioritari, pari a circa il 40% di tutti quelli presenti in Italia. In un territorio che copre meno del 10% dell’estensione dell’Europa, quindi, è rappresentata oltre la metà
di tutti gli habitat comunitari.
Come spesso accade anche quando si parla di biodiversità tassonomica, anche in questo caso la concentrazione di tali e tanti habitat diversi in un territorio così
limitato è da ricondurre senza dubbio all’odierna conformazione così discontinua del territorio italiano, dovuta alle complesse vicende paleoclimatiche che hanno
interessato nel tempo la penisola. Realtà tanto diverse
possono oggi coesistere in un mosaico ricchissimo grazie alla variabilità fisiografica e climatica dell’Italia. Un
paese privo di larghi tratti disabitati, a differenza di alcune nazioni Nord-europee, e proprio per questo maggiormente prezioso: le popolazioni che hanno abitato
l’Italia, pur esercitando un’interferenza culturale millenaria nei confronti dell’ambiente, hanno saputo stabilire con esso un rapporto equilibrato che ha avuto come effetto la conservazione di tante realtà ambientali
differenti, alcune delle quali sono il frutto stesso di questa interazione.
Viene di seguito riportata una prima sintesi delle tipologie di habitat comunitari presenti in Italia, così come raggruppate dalla stessa Unione Europea in un ordinamento gerarchico da ritenersi valido per tutti gli stati membri. In Italia sono rappresentate tutte le macrocategorie previste e la maggior parte dei raggruppamenti intermedi. L’aderenza di un tale apparato classificatorio con le realtà paesaggistiche italiane non è sempre perfetta e spesso si intuisce, nelle stesse definizioni, una dif-
ferente influenza di alcuni stati membri rispetto agli altri. L’Italia, pur avendo rappresentata sul proprio territorio tanta parte di questi habitat, è stata talvolta penalizzata dal punto di vista decisionale e si può dire che
non tutto il mosaico di habitat che si snoda nel nostro
paese sia descritto nel dettaglio; allo stesso modo, seppure sporadicamente, alcune definizioni stentano ad
adattarsi perfettamente a quanto presente in Italia. Per
le future riunioni si auspica un ruolo più incisivo da parte della delegazione italiana; questo sarà sicuramente realizzabile grazie ai grandi progetti di raccolta di informazioni naturalistiche di recente portate a compimento,
che renderanno l’Italia più sicura anche di fronte a nazioni che da sempre vantano una conoscenza capillare
del proprio territorio.
Nelle descrizioni e nei commenti che seguono, ciò che
dovrebbe maggiormente stupire è non solo la rappresentatività dell’Italia rispetto al complesso degli habitat descritti per l’Europa, ma soprattutto il fatto che nella maggior parte dei casi tali habitat sono presenti in un numero elevato di siti e che quasi sempre in ogni sito è rappresentato più di un habitat.
1 Habitat costieri e vegetazioni alofitiche2
L’Italia, con la sua particolare conformazione peninsulare, riveste una notevole importanza nella rappresentazione e nella conservazione degli habitat legati al mare e agli ambienti salmastri. Rispetto all’Europa ha una
posizione centrale nel bacino del Mediterraneo; si potrebbe dire che è posta al centro di un grande crocevia di
biodiversità. Non mancano tuttavia aspetti più continentali o atlantici, vive testimonianze di antiche influenze o
attivi centri di scambio con aree diverse del continente.
Tutte queste tipologie ambientali, seppur largamente presenti in Italia, non hanno finora ricevuto una soddisfacente attenzione in termini di ricerca specialistica nel settore botanico. Molto resta infatti da conoscere, specialmente su alcuni ambienti di natura estrema, come quelli salmastri, che ospitano habitat particolarissimi ed organismi altamente specializzati.
1
I dati sulla presenza degli habitat nei SIC provengono dalla Banca
dati Natura 2000 presente presso il Ministero dell’Ambiente e della
Tutela del Territorio.
2 Nomi e codici delle classi di habitat come nell’Allegato I della Direttiva
92/43/EEC “Direttiva Habitat”:
<http://europa.eu.int/comm/environment/nature/nature_conservation
/eu_nature_legislation/habitats_directive/index_en.htm>.
FLORA E VEGETAZIONE • 221
A
1
11
1110
1120
1130
1140
1150
1160
1170
12
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13
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14
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15
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2
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23
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3
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3150
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3170 *
32
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3230
3240
3250
3260
HABITAT COSTIERI E VEGETAZIONI ALOFITICHE
Acque marine e ambienti a marea
Banchi di sabbia a debole copertura permanente di acqua marina
Praterie di Posidonie (Posidonion oceanicae)
Estuari
Distese fangose o sabbiose emergenti durante la bassa marea
Lagune costiere
Grandi cale e baie poco profonde
Scogliere
Scogliere marine e spiagge ghiaiose
Vegetazione annua delle linee di deposito marine
Scogliere con vegetazione delle coste mediterranee con Limonium spp. endemici
Paludi e pascoli inondati atlantici e continentali
Vegetazione annua pioniera a Salicornia e altre specie delle zone fangose e sabbiose
Prati di Spartina (Spartinion maritimae)
Paludi e pascoli inondati mediterranei e termo-atlantici
Pascoli inondati mediterranei (Juncetalia maritimi)
Praterie e fruticeti mediterranee e termo-atlantici (Sarcocornetea fruticosi)
Praterie e fruticeti alonitrofili (Pegano-Salsoletea)
Steppe interne alofile e gipsofile
Steppe salate mediterranee (Limonietalia)
DUNE MARITTIME E INTERNE
Dune marittime delle coste atlantiche, del Mare del Nord e del Baltico
Dune mobili embrionali
Dune mobili del cordone litorale con presenza di Ammophila arenaria (“dune bianche”)
Dune costiere fisse a vegetazione erbacea (“dune grigie”)
Dune con presenza di Hippophae rhamnoides
Depressioni umide interdunari
Dune marittime delle coste mediterranee
Dune fisse del litorale del Crucianellion maritimae
Dune con prati dei Malcolmietalia
Dune con prati dei Brachypodietaliae vegetazione annua
Dune costiere con Juniperus spp.
Dune con vegetazione di sclerofille dei Cisto-Lavenduletalia
Dune con foreste di Pinus pinea e/o Pinus pinaster
Dune dell’entroterra, antiche e decalcificate
Dune dell’entroterra con prati aperti a Coirynephoruse Agrostis
HABITAT D’ACQUA DOLCE
Acque stagnanti
Acque oligotrofe a bassissimo contenuto minerale delle pianure sabbiose (Littorelletalia uniflorae)
Acque oligotrofe a bassissimo contenuto minerale su terreni generalmente sabbiosi
del Mediterraneo occidentale con Isoetes spp.
Acque stagnanti, da oligotrofe a mesotrofe, con vegetazione dei Littorelletea uniflorae e/o degli Isoeto-Nanojuncetea
Acque oligomesotrofe calcaree con vegetazione bentica di Chara spp.
Laghi eutrofici naturali con vegetazione del Magnopotamion o Hydrocharition
Laghi e stagni distrofici naturali
Stagni temporanei mediterranei
Acque correnti
Fiumi alpini con vegetazione riparia erbacea
Fiumi alpini con vegetazione riparia legnosa a Myricaria germanica
Fiumi alpini con vegetazione riparia legnosa a Salix elaeagnos
Fiumi mediterranei a flusso permanente con Glaucium flavum
Fiumi delle pianure e montani con vegetazione del Ranunculion fluitantis e Callitricho-Batrachion
C
M
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x
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x
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x
x
222 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
3270
3280
3290
4
4030
4060
4070
4090
5
51
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52
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53
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5320
5330
54
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5420
5430
6
61
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6150
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62
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6230 *
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7220
7230
7240
*
*
*
*
Fiumi con argini melmosi con vegetazione del Chenopodion rubri p.p. e Bidention p.p.
Fiumi mediterranei a flusso permanente con il Paspalo-Agrostidion e con filari ripari di Salix e Populus alba
Fiumi mediterranei a flusso intermittente con il Paspalo-Agrostidion
LANDE E ARBUSTETI TEMPERATI
Lande secche europee
Lande alpine e boreali
Boscaglie di Pinus mugo e Rhododendron hirsutum (Mugo-Rhododendretum hirsuti)
Lande oro-mediterranee endemiche a ginestre spinose
MACCHIE E BOSCAGLIE SCLEROFILLE (MATORRAL)
Arbusteti submediterranei e temperati
Formazioni stabili xerotermofile a Buxus sempervirens sui pendii rocciosi (Berberidion p.p.)
Formazioni a Juniperus communis su lande o prati calcicoli
Matorral arborescenti mediterranei
Matorral arborescenti di Juniperus spp.
Matorral arborescenti di Zyziphus
Matorral arborescenti di Laurus nobilis
Boscaglie termo-mediterranee e pre-steppiche
Boscaglia fitta di Laurus nobilis
Formazioni basse di euforbie vicino alle scogliere
Arbusteti termo-mediterranei e pre-steppici
Phrygane
Phrygane del Mediterraneo occidentale sulla sonmmità di scogliere (Astragalo-Plantaginetum subulatae)
Phrygane di Sarcopoterium spinosum
Phrygane endemiche dell’Euphorbio-Verbascion
FORMAZIONI ERBOSE NATURALI E SEMINATURALI
Formazioni erbose naturali
Formazioni erbose rupicole calcicole o basofile dell’Alysso-Sedion albi
Formazioni erbose calaminari dei Violetalia calaminariae
Formazioni erbose boreo-alpine silicicole
Formazioni erbose calcicole alpine e subalpine
Formazioni erbose secche seminaturali e facies coperte da cespugli
Formazioni erbose secche seminaturali e facies coperte da cespugli su substrato calcareo
(Festuco-Brometalia) (*stupenda fioritura di orchidee)
Percorsi substeppici di graminacee e piante annue dei Thero-Brachypodietea
Formazioni erbose a Nardus, ricche di specie, su substrato siliceo delle zone montane
(e delle zone submontane dell’Europa continentale)
Boschi di sclerofille utilizzati come terreni di pascolo (dehesas)
Dehesas con Quercus spp. sempreverde
Praterie umide seminaturali con piante erbacee alte
Praterie con Molinia su terreni calcarei, torbosi o argilloso-limosi (Molinion caeruleae)
Praterie umide mediterranee con piante erbacee alte del Molinio-Holoschoenion
Bordure planiziali, montane e alpine di megaforbie idrofile
Formazioni erbose mesofile
Praterie magre da fieno a bassa altitudine Alopecurus pratensis, Sanguisorba officinalis)
Praterie montane da fieno
TORBIERE ALTE, TORBIERE BASSE E PALUDI BASSE
Torbiere acide di sfagni
Torbiere alte attive
Torbiere alte degradate ancora suscettibili di rigenerazione naturale
Torbiere di transizione e instabili
Depressioni su substrati torbosi del Rhyncosporion
Paludi basse calcaree
Paludi calcaree con Cladium mariscus e specie del Caricion davallianae
Sorgenti petrificanti con fornmazione di travertino (Cratoneurion)
Torbiere basse alcaline
Formazioni pioniere alpine del Caricion bicoloris-atrofuscae
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HABITAT ROCCIOSI E GROTTE
Ghiaioni
Ghiaioni silicei dei piani montano fino a nivale (Androsacetalia alpinae e Galeopsietalia ladani)
Ghiaioni calcarei e scisto-calcarei montani e alpini (Thlaspietea rotundifolii)
Ghiaioni del Mediterraneo occidentale e termofili
Ghiaioni dell’Europa centrale calcarei di collina e montagna
Pareti rocciose con vegetazione casmofitica
Pareti rocciose calcaree con vegetazione casmofitica
Pareti rocciose silicee con vegetazione casmofitica
Rocce silicee con vegetazione pioniera del Sedo-Scleranthion o del Sedo albi-Veronicion dillenii
Pavimenti calcarei
Altri habitat rocciosi
Grotte non ancora sfruttate a livello turistico
Campi di lava e cavità naturali
Grotte marine sommerse o semisommerse
Ghiacciai permanenti
FORESTE
Foreste dell’Europa temperata
Faggeti del Luzulo-Fagetum
Faggeti dell’Asperulo-Fagetum
Faggeti subalpini dell’Europa Centrale con Acer e Rumex arofolius
Faggeti calcicoli dell’Europa Centrale del Cephalanthero-Fagion
Querceti di farnia o rovere subatlantici e dell’Europa Centrale del Carpinion betuli
Querceti di rovere del Galio-Carpinetum
Foreste di versanti, ghiaioni e valloni del Tilio-Acerion
Vecchi querceti acidofili delle pianure sabbiose con Quercus robur
Frassineti termofili a Fraxinus angustifolia
Torbiere boscose
Foreste alluvionali di Alnus glutinosa e Fraxinus excelsior (Alno-Padion, Alnion incanae, Salicion albae)
Foreste miste riparie di grandi fiumi a Quercus robur, Ulmus laevis e Ulmus minor,
Fraxinus excelsior o Fraxinus angustifolia (Ulmenion minoris)
Boschi pannonici di Quercus pubescens
Foreste mediterranee caducifoglie
Faggeti degli Appennini con Taxus e Ilex
Faggeti degli Appennini con Abies alba e faggeti con Abies nebrodensis
Querceti a Quercus trojana
Foreste di Castanea sativa
Boschi di Quercus frainetto
Foreste a galleria di Salix alba e Populus alba
Foreste di Platanus orientalis e Liquidambar orientalis (Platanion orientalis)
Gallerie e forteti ripari meridionali (Nerio-Tamaricetea e Securinegion tinctoriae)
Foreste sclerofille mediterranee
Foreste di Olea e Ceratonia
Foreste di Quercus suber
Foreste di Quercus ilex e Quercus rotundifolia
Foreste di Quercus macrolepis
Foreste di Ilex aquifolium
Foreste di conifere delle montagne temperate
Foreste acidofile montane e alpine di Picea (Vaccinio-Piceetea)
Foreste alpine di Larix decidua e/o Pinus cembra
Foreste montane e subalpine di Pinus uncinata (* su substrato gessoso o calcareo)
Foreste di conifere delle montagne mediterranee e macaronesiche
Foreste sud-appenniniche di Abies alba
Pinete (sub-) mediterranee di pini neri endemici
Pinete mediterranee di pini mesogeni endemici
Foreste endemiche di Juniperus spp.
Boschi mediterranei di Taxus baccata
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Tabella 4.28 - Distribuzione degli habitat citati per l’Italia nelle tre regioni biogeografiche: alpina (A), continentale (C) e mediterranea (M).
224 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
11 Acque marine e ambienti a marea
Il mare aperto e le zone soggette alle maree sono tra gli
ambienti in cui l’Italia gioca un ruolo cruciale nell’economia del continente. Le ampie distese di Posidonia oceanica e le lagune costiere di molti settori peninsulari ne sono un vivo esempio. Si tratta, come in pochi altri ambienti, di luoghi in cui entra in gioco la sopravvivenza di un
gran numero di organismi, appartenenti a gruppi tassonomici molto variegati. La presenza di spermatofite acquatiche è quindi legata alla riproduzione di molti micro
e macroinvertebrati di acque salate, così come all’instaurarsi e al permanere di complesse comunità algali di enorme interesse tassonomico.
Tra gli habitat riuniti in questa categoria si ritrovano
in Italia le aree litoranee sotto il livello del mare (1110),
importanti per le loro comunità di angiosperme acquatiche e come aree di nidificazione di uccelli marini; gli estuari (1130) più rari in Italia, in cui si generano quegli ambiti di confine tra l’acqua dolce e quella salata così essenziali nella sopravvivenza di comunità di spermatofite acquatiche così come di microambiti bentonici tanto algali che a invertebrati; le aree soggette a marea (1140), ricche in microalghe e soprattutto in diatomee; le baie costiere soggette al movimento ondoso (1160), ricche in comunità bentoniche ad invertebrati e ricchissime in sedimenti utili a comunità vegetali acquatiche, barriere marine di origine biogenetica, ricchissime in alghe (1170).
Due habitat prioritari appartenenti a questa categoria
si rinvengono in Italia: le praterie di Posidonia oceanica,
esclusive del Mediterraneo, in cui Posidonia, angiosperma di rango prioritario, ospita a sua volta diversi taxa
prioritari tra gli invertebrati e tra i pesci marini (1120*
- 159 SIC); le lagune costiere, sistemi complessi a bilancio salino variabile, che ospitano ricchissime comunità
di micro e macrofite e permettono la vita e la riproduzione di animali appartenenti a diversi gruppi tassonomici (1150* - 78 SIC).
12 Scogliere marine e spiagge ghiaiose
Non sono molte le tipologie di habitat rappresentate
in Italia in questa mesocategoria; tuttavia esse sono riccamente presenti in termini quantitativi; questo è un
buon segno, se si considera che gli ambienti costieri, in
generale, finiscono prima di altri preda di invasione e urbanizzazione, a vocazione tanto di sfruttamento quanto
turistica.
La linea di battigia (1210), unitamente alla fascia ad
essa immediatamente retrostante, costituisce un ambiente ad uno stesso tempo ricchissimo in depositi di mate-
riale organico e sottoposto a intense sollecitazioni meccaniche e microclimatiche. È un ambiente limite, in cui
solo particolari comunità vegetali annuali riescono ad insediarsi, con notevoli fluttuazioni strutturali derivanti dalle dinamiche stagionali. L’Italia, nonostante l’impatto antropico che insiste su molte delle sue aree costiere, conserva ancora molti di tali habitat, specialmente sul versante tirrenico e lungo la costa adriatica meridionale, estremamente a rischio per la continua frammentazione causata dal turismo e dalla pressione residenziale.
Anche relativamente alle coste rocciose l’Italia vanta la
presenza di ampie scogliere ricche in specie spesso endemiche (1240). In questi ambienti, oltre alle condizioni
estreme di vita (aerosol marino, venti battenti, insolazione intensa), la vegetazione deve essere adattata anche alle limitazioni spaziali naturalmente imposte. Solo in minuscole tasche di suolo, infatti, piante dall’ecologia particolarissima riescono a sopravvivere realizzando una frammentazione ed una biodiversità che si articola anche nello spazio di pochi metri. In questi ambienti il genere che
ha sperimentato ai massimi livelli le proprie potenzialità
evolutive in termini tassonomici e geografici è Limonium.
Tale evoluzione è tuttora pienamente in corso: sulle nostre coste sono avvenute e avvengono continue speciazioni che hanno oggi come risultato un elevato numero di
endemiti italiani che ricalcano tutta la microvariabilità
geografica ed ecologica delle scogliere.
13 Paludi e pascoli inondati atlantici e continentali
Questi ambienti sono stati finora insufficientemente
studiati. Ciò deriva spesso dalle difficoltà tassonomiche
nel riconoscimento delle specie presenti. Essi meritano
invece maggiore attenzione e costituiscono particolarissimi mondi ancora tutti da valorizzare. In passato gli ambienti salmastri inondati hanno subito pesanti interventi di bonifica. Oggi questa tendenza è stata in gran parte invertita e il valore di serbatoio vivente di biodiversità di questi ambienti comincia finalmente ad essere riconosciuto.
Le aree salmastre inondate possono ospitare specie
con adattamenti specializzati all’elevato tenore salino del
substrato e dell’intorno fisico (1310). La famiglia delle
Chenopodiaceae, in particolare, con il genere Salicornia
ed alcuni generi affini ha sviluppato raffinatissimi sistemi di specializzazione non solo funzionale ma anche
morfologica. Si realizzano allora strutture estremamente compatte, ad elevato accumulo idrico e con sistemi
riproduttivi a loro volta specializzati. Proprio la particolarità di queste strutture rende questi generi dei veri
FLORA E VEGETAZIONE • 225
e propri gruppi critici dal punto di vista sistematico; lo
studio di tali taxa pertanto è in passato risultato discontinuo e frammentario.
Anche alcune graminacee riescono a raggiungere livelli di specializzazione simili, tanto da tollerare ambienti
iperalini. Il genere Spartina forma infatti estesi cordoni
legati agli ambienti di barene e più in generale questo habitat coincide con situazioni più stabili fungendo da agente di consolidamento grazie all’apporto fornito dalle lunghe strutture radicali sommerse (1320).
14 Paludi e pascoli inondati mediterranei e termoatlantici
Là dove le condizioni climatiche e la posizione geografica determinano una situazione maggiormente mitigata,
in luogo delle formazioni descritte nel precedente paragrafo si trovano comunità funzionalmente affini alle precedenti ma strutturalmente più articolate. Le restrizioni
imposte dall’iperalinità persistono, ma è possibile rinvenire, oltre a specie annuali, anche comunità vegetali di
natura persistente.
Esistono quindi giuncheti a composizione variabile,
caratterizzati comunque dalla presenza di numerose specie prioritarie di natura stenoecia e quindi di elevato interesse conservazionistico (1410).
A questi ambienti, che hanno comunque i tratti fisionomici di distese a piante erbacee di taglia media e grande, si aggiungono comunità legnose a frutici di dimensioni variabili (1420). Nelle condizioni di maggiore aridità edafica data dalla concentrazione di cloruro di sodio
si insediano comunità alofile a Chenopodiaceae perenni
con elementi a gravitazione mediterraneo-atlantica. Anche qui si hanno tutti i problemi tassonomici di cui si parlava per le comunità a Salicornia ma sono in via di risoluzione i rapporti evolutivi all’interno dei generi e le dinamiche ecologiche che legano le specie all’ambiente e alle altre specie.
Quando il contenuto in nitrati si fa più elevato, in
luogo delle piante più strettamente alofile si rinvengono comunità con un maggiore grado di articolazione
strutturale (1430). Questi ambienti si trovano, in Italia, tanto in ambiti pianeggianti che in tipiche formazioni calanchive. L’aridità determinata dal contenuto in
sale resta molto elevata, tuttavia il substrato non contrae legami diretti con l’acqua salata e trovano spazio,
oltre ad alcune Chenopodiaceae, dei generi Salsola, Atriplex e Suaeda, anche alcune rappresentanti di altre famiglie che non mostrano tratti di alofilia ma solo di
alo-tolleranza e nitrofilia.
1.5 Steppe interne alofile e gipsofile
In Italia è presente, con un significativo numero di siti,
un importante habitat prioritario appartenente a questo
raggruppamento (1510* - 63 SIC). Le steppe salse mediterranee rappresentano infatti una forma di habitat che offre numerosi spunti di affinità con altri ambiti mediterranei europei, in special modo spagnoli. Anche la rappresentatività a livello ecologico e geografico è notevole: le distese di numerose specie di Limonium, genere che abbiamo
già visto essere ben adattato a condizioni di estrema aridità, qui sopportano condizioni che vanno dalle escursioni
di marea, con innalzamenti del contenuto salino del substrato, a inaridimenti estremi durante la stagione estiva.
Queste caratteristiche si ritrovano in molti punti della nostra penisola: dall’area del Basso Po ai laghi costieri del Gargano, dagli “stagni” sardi ai bacini delle saline sicule.
2. Dune marittime e interne
Dove la costa è priva di tratti rocciosi, le sabbie litoranee possono costituire complessi sistemi di dune più o
meno continue ed evolute. La struttura di tali accumuli
sabbiosi è determinata da diversi fattori: tra quelli naturali hanno un ruolo primario il regime ondoso, i venti e
la granulometria delle sabbie. Ma sono i fattori umani
quelli che possono determinarne le più significative alterazioni strutturali, fino ad arrivare anche alla completa
disgregazione.
In un paese ricco di coste quale è l’Italia, le dune, dalle fragili dinamiche strutturali, hanno spesso subito intense alterazioni soprattutto in corrispondenza delle ondate di espansione turistica che hanno interessato i nostri litorali nel secolo scorso. Nonostante ciò esistono in
Italia tratti di costa ancora molto ben conservati in cui
le dune continuano a svolgere il loro ruolo tampone nei
confronti del mare attraverso comunità vegetali ad elevata biodiversità.
21 Dune marittime delle coste atlantiche, del Mare
del Nord e del Baltico
Le dune europee maggiormente strutturate si collocano in questa categoria. Esse sono tipiche delle coste oceaniche o di mari molto aperti e grandi, tuttavia non mancano in Italia in particolari condizioni geografiche e di conservazione. Tutte le fasi temporali della formazione della
duna e tutte le fasce più o meno strutturate hanno un’importanza nella persistenza e nella solidità della duna stessa. Ogni fascia contrae legami con le adiacenti e prelude
alla loro stabilità: le piante che le compongono, con i lo-
226 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
ro apparati radicali, esercitano un’attività di trasformazione non chimica ma fisica del substrato che risulta in un
consolidamento delle sabbie altrimenti impossibile. La descrizione che segue fa riferimento alla struttura tipica delle dune poco disturbate; si tenga presente che tale arrangiamento spaziale spesso subisce compenetrazioni e inversioni in caso di interferenze di vario tipo.
Nella fascia prospiciente la battigia vivono e agiscono
le specie che permettono per prime l’evoluzione della duna (2110). Questa zona è ancora soggetta all’influenza diretta del mare, sia in termini di contatto occasionale con
l’acqua salata che, soprattutto, in termini di aerosol marino; solo piante annuali e con speciali adattamenti possono qui insediarsi. Si tratta soprattutto di graminacee,
con tenaci cordoni radicali, e, spesso, di piante con pelosità molto fitte e irrigidimenti dei tessuti esterni.
Posteriormente a tale fascia, dove l’acqua di mare normalmente non arriva, si collocano le dune mobili, costituite soprattutto da una grande graminacea con un vigoroso
apparato sotterraneo, Ammophila arenaria (2120). Le dune mobili sono soggette, a causa dei venti, ad un continuo
rimaneggiamento; ma proprio in tale plasticità risiede il loro ruolo di tampone nei confronti della duna consolidata.
Le dune fisse riferibili a questo raggruppamento, le cosiddette “dune grigie”, sono colonizzate da comunità che,
pur non possedendo uno spiccato carattere pioniero, sono tuttavia ben adattate ad un elevato tenore in cloruro
di sodio unito ad un substrato poco evoluto e con scarsissime capacità di trattenere le acque meteoriche. Questa fascia è caratterizzata da piante erbacee perenni con
buone capacità di trattenere il suolo sciolto. In Italia purtroppo la fase matura di tali sistemi dunali è divenuta molto rara (2130* - 21 SIC): tipica di molti settori dell’Adriatico, essa risulta oggi fortemente sacrificata, soprattutto a
causa dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione del versante Nord-Adriatico.
Il sistema dunale non si ferma alla duna fissa: esso comprende, in senso più ampio, anche il complesso di depressioni poste tra duna e duna. Tali depressioni possono avere caratteri di aridità oppure consentire un certo accumulo d’acqua. In alcune, rarissime, depressioni interdunali
può insediarsi una comunità dove prevale Hippophaë rhamnoides, un cespuglio che talvolta si presenta in forma di
arbusto prostrato. Tale habitat (2160) è rappresentato in
Italia da un solo SIC dislocato nella zona del delta del Po,
benché la specie abbia una diffusione maggiore sul territorio italiano. Più frequente, pur sempre in relazione allo stato di conservazione e alla continentalità del nostro
paese, è la condizione di interdune umide con vegetazio-
ne più articolata (2190). In relazione all’abbondanza d’acqua possono essere presenti anche complesse comunità
algali di acque dolci o a basso tenore salino, comunità ad
alte erbe e a salici.
22 Dune marittime delle coste mediterranee
Lungo le coste mediterranee la duna si articola in modo più diversificato in aree spazialmente meno estese. Unitamente alle comunità di spiaggia e di duna vera e propria, in virtù delle particolari condizioni climatiche e morfologiche, si insediano forme di vegetazione legnosa sempreverde con particolari adattamenti sia all’aridità stagionale che all’aridità legata alla concentrazione in sali. Anche in questo caso la sopravvivenza di un tale complesso
di ambienti è stata spesso messa in discussione dall’espansione urbanistica e turistica.
Rispettando una gerarchia strutturale analoga a quella della precedente categoria, anche qui le diverse fasce
corrispondono a differenti potenzialità di consolidamento del substrato e a diversi livelli di pionierismo. A causa
delle interferenze di tipo antropogenico, in molti casi si
assiste ad una perdita di tale strutturazione e ad una compenetrazione caotica tra i vari ambiti.
Caratteristiche delle dune propriamente dette sono le
comunità con Crucianella maritima ricche in specie di elevato valore biogeografico e conservazionistico quale ad
esempio Pancratium maritimum e di specie perenni adattate agli ambienti costieri (2210). Si tratta di ambienti abbastanza frequenti in Italia, soprattutto lungo le coste tirreniche, ioniche e in parte adriatiche e molto ben rappresentati, ad esempio, nelle coste del basso Lazio. Talora possono insediarsi anche piccoli frutici, come alcuni rappresentanti dei generi Euphorbia ed Ephedra (2220). Tra una
duna e l’altra vivono comunità a prevalenza di terofite effimere, che sfruttano i brevi periodi in cui le acque meteoriche sono più abbondanti per svolgere il loro ciclo vitale,
spesso con vivaci fioriture policrome. Le situazioni più stabilmente aride vengono in genere colonizzate da estese formazioni erbacee a piante perenni con spiccato carattere
termo-xerofilo con abbondanti ingressioni di elementi annuali. Tali comunità, che si articolano in contesti pianeggianti e nei tipici “tumuleti” che ancora sopravvivono in
Italia, sono dominate da taxa appartenenti al genere Brachypodium in ambiti pseudo-steppici su suoli oligotrofici,
spesso a carattere basico (2240).
I contesti a specie legnose, più evoluti e riparati, costituiscono, ad esempio, gli habitat articolati con prevalenza di ginepri (2250*). Essi sono rappresentati in Italia da
95 SIC molti dei quali dislocati nelle isole, dove forma-
FLORA E VEGETAZIONE • 227
no caratteristici paesaggi funzionalmente importanti tanto quanto esteticamente rilevanti. I venti battenti deformano naturalmente i ginepri in contorte forme che staccano in modo evidente rispetto al resto della vegetazione. Nelle zone più riparate possono crescere cespugli di
cisti e lavanda (2260), mentre nelle aree trasformate dall’uomo si trovano formazioni arboree a Pinus pinea e P.
pinaster (2270*). Queste zone, benché risultato di una
forma di paesaggio per lo più insediata storicamente ad
opera dell’uomo, rientrano comunque in una prospettiva di tutela dei contesti semi-naturali, come nello spirito
della rete “Natura 2000”. Si tratta infatti di un habitat
prioritario, rappresentato in Italia da 68 SIC, che svolge
anche un ruolo significativo per la conservazione di alcuni uccelli e per la sua funzione frangivento.
23 Dune dell’entroterra, antiche e decalcificate
Queste formazioni, più tipiche delle aree baltiche e di
pertinenza del Mare del Nord, sono rappresentate in Italia
da un solo SIC (2230) che tutela il basso corso del Ticino.
Esse sono caratterizzate da dune di origine glaciale con suoli silicei aridi, molto ricche in comunità di licheni. Tra le
piante vascolari prevalgono invece piante erbacee acidofile che formano estese praterie a forte dominio di annuali.
3. Habitat d’acqua dolce
Le acque interne offrono uno dei maggiori contributi
alla biodiversità tassonomica tanto vegetale che animale.
Gli ambienti umidi in generale hanno da alcuni decenni
ricevuto l’attenzione che meritano attraverso l’istituzione
di commissioni a livello internazionale e l’emanazione di
convenzioni e accordi. Come per gli ambienti salmastri,
anche in questo caso gli studi dedicati non sono stati finora molti; l’emergenza di conservazione che tutti gli ambienti umidi corrono richiede tuttavia ancora un’attenzione particolare, in quanto essi sono quelli più immediatamente
sottoposti ai rischi delle bonifiche a scopo economico e
agrario. Le acque interne possono essere convenzionalmente suddivise in acque lentiche e acque lotiche; entrambe le
tipologie presentano forme di vegetazione peculiari sia nelle composizioni floristiche che nei ruoli ecologici e negli
adattamenti delle piante che le compongono.
31 Acque stagnanti
A seconda dello stato trofico delle acque e della natura dei substrati, le acque ferme possono essere caratterizzate da differenti forme di vegetazione. Su substrati sabbiosi, spesso derivanti da duna fossile, si rinvengo-
no in Italia delle rare forme superstiti di fisionomie vegetali. Si tratta di aree inondate temporanee a dinamica per lo più invernale con acque oligotrofe caratterizzate da piante spesso visibili solo in brevi periodi dell’anno (3110). In particolare, in ambiti mediterranei,
qualche esempio di tali paesaggi è ancora visibile in alcuni settori tirrenici, in aree non sacrificate alle bonifiche: piante caratteristiche di tali ambienti sono alcune
pteridofite relitte a ciclo vitale anfibio appartenenti al
genere Isoëtes (3120). Esse sono legate alla presenza dell’acqua soprattutto durante la fase riproduttiva, in cui
vengono rilasciate le microspore.
Con un certo aumento della sostenza organica nel substrato, spesso nelle vicinanze di veri e propri bacini d’acqua, o addirittura nell’ambito della loro area di esondazione, aumenta anche il periodo di permanenza dell’acqua in superficie; qui possono insediarsi comunità vegetali composte da piante di taglia molto ridotta (3130). Si
tratta per lo più di piccole Juncaceae e Cyperaceae spiccatamente pioniere a ciclo vitale molto breve strettamente
legate all’andamento stagionale delle precipitazioni. Accanto a queste raccolte d’acqua temporanee a pH prevalentemente acido, esistono alcune situazioni analoghe
quanto a dinamica stagionale, ma con elevati contenuti
in basi disciolte. In queste acque a basso contenuto trofico, prevalentemente dislocate nel Nord Italia ma non
infrequenti anche più a Sud lungo la penisola, vivono comunità algali bentoniche che formano estesi tappetini
sommersi (3140).
Relativamente ai veri e propri bacini lacustri, ricchi di
tipologie di vegetazione complesse e articolate, in Italia
sono presenti due principali forme di laghi naturali. Anche qui la distinzione è data dal contenuto trofico dell’acqua. La gran parte dei laghi o stagni italiani è riferibile ad
una tipologia di bacini ad acque eutrofiche con pH superiore a 7. In tali siti si possono ammirare le splendide
comunità ad elofite e pleustofite tanto tra le spermatofite che tra le felci acquatiche e le epatiche (3150). Nel Nord
Italia esistono invece laghi ad elevata acidità in cui si articolano comunità ricche in sfagni legate alla dinamica
delle torbiere (3160).
Un caso a parte è costituito dagli stagni temporanei
del Mediterraneo, in passato pesantemente alterati dalle
attività di bonifica (3170* - 75 SIC). Si tratta di un habitat prioritario costituito da pozze di modesta profondità che in Estate arrivano a prosciugarsi completamente. Esse sono occupate da vegetazione di piccola taglia e
costituiscono ambienti di riproduzione per molti invertebrati acquatici.
228 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
32 Acque correnti - tratti di corsi d’acqua a dinamica
naturale o seminaturale (letti minori, medi e maggiori)
in cui la qualità dell’acqua non presenta alterazioni
significative
Le acque correnti presentano alcuni condizionamenti
di ordine fisico tali da determinare particolari forme di vegetazione. I principali fattori che influenzano la vegetazione sono la profondità, la natura del fondo e il regime idrico. La corrente d’acqua rappresenta un ostacolo meccanico all’insediamento della vegetazione; le piante, in relazione al regime idrico e alla velocità del flusso d’acqua, presentano adattamenti e composizioni floristiche particolari. Dove il flusso è eccessivamente rapido e turbolento, le
macrofite acquatiche non riescono a sopravvivere; con un
flusso sostenuto sono comunque possibili forme di vita
con adattamenti particolari di tipo idrodinamico. Le piante mostrano spesso fenomeni di dimorfismo per cui la porzione immersa presenta fusti allungati e assottigliati e foglie laciniate o filiformi mentre la parte galleggiante sfrutta la radiazione solare con lamine fogliari espanse e attrae
gli impollinatori con fiori portati a pelo d’acqua.
I fiumi di tipo alpino (3220), che includono anche diversi bacini appenninici, ricevono apporto idrico soprattutto dallo scioglimento dei ghiacciai e pertanto hanno
un massimo di portata idrica che coincide con la stagione estiva. Le sponde di questi fiumi sono colonizzate da
alte erbe e suffrutici a corotipi prevalentemente boreale o
artico, con frequenti ingressioni di elementi esotici là dove si depositano i sedimenti. Tali fisionomie sono intervallate da formazioni legnose caratterizzate da cespugli
quali Myricaria germanica e Salix sp. pl. (3230) e, nelle
forme maggiormente evolute e lungo meandri a flusso rallentato, da arbusti e alberi appartenenti ai generi Salix,
Alnus, Betula (3240).
I fiumi di ambito mediterraneo hanno regimi idrici
maggiormente influenzati dalla stagionalità legata prevalentemente alle acque meteoriche e di falda; il minimo della portata coincide con la stagione estiva, con non rari fenomeni di totale o parziale prosciugamento. I corsi d’acqua a fondo ghiaioso trasportano e depositano ciottoli anche lungo le sponde, dove si insediano comunità erbacee
e frutici a prevalenza di Glaucium flavum e Myricaria germanica (3250). La vegetazione propriamente acquatica è
invece caratterizzata da quelle forme adattate di cui si parlava sopra. Il genere Ranunculus, in particolare, ha raggiunto eccezionali forme di dimorfismo soprattutto con
R. fluitans, R. aquatilis, R. trichophyllus. Anche altri generi, quali Myriophyllum, Callitriche, Potamogeton, rappresentano forme perfette di adattamento dell’organismo al-
l’ambiente. In casi di bassi livelli di inquinamento è inoltre possibile incontrare Fontinalis antipyretica, indicatore
di un discreto stato di salute delle acque (3260). Lungo le
sponde melmose, via via sempre più rare a causa dell’irregimentazione di diversi corsi d’acqua, si insediano comunità estremamente sensibili all’andamento stagionale, caratterizzate da Chenopodium rubrum e Bidens frondosa
(3270). Questi habitat sono molto ben rappresentati soprattutto nell’Italia centrale ma presentano dinamiche irregolari che ne rendono sempre più a rischio la sopravvivenza. Lungo le sponde più consolidate si articolano paesaggi caratterizzati da paesaggi arborei spesso favoriti dall’uomo per i propri usi. Sempre a causa della cementificazione degli argini, sono tutelati gli habitat con praterie nitrofile annuali e perenni che crescono sui sedimenti dell’alveo di esondazione e che spesso si presentano associati
alle formazioni legnose riparie con Salix sp. pl. e Populus
alba (3280). Alcuni corsi d’acqua presentano un regime
molto discontinuo, con periodi anche lunghi in cui il flusso d’acqua diventa molto scarso, quando non assente. In
questi casi, all’interno del letto del fiume, possono permanere alcune aree inondate che perdono però la fisionomia
di acque correnti per somigliare in modo significativo alle acque ferme. Tali ambiti sono allora colonizzati da taxa quali Polygonum amphibium e Poteamogeton sp. pl., più
tipici delle acque stagnanti (3290).
4 Lande e arbusteti temperati
In ambiti temperati e su suoli acidi si sviluppano forme di vegetazione simili ad alcuni tipici paesaggi centro
e Nord-europei. In Italia esse sono abbastanza diffuse, più
di quanto non si pensi, rappresentate da un elevato numero di SIC (171 in tutto). Tali forme di paesaggio, a carattere più o meno arido a seconda dei contesti e delle latitudini, si ritrovano in buona parte del territorio italiano, con alcune varianti.
Le forme più aride, dei contesti peninsulari o comunque influenzati dal clima mediterraneo, presentano una
vegetazione mesofilo-xerofila (4030), sono presenti in 99
SIC e sono caratterizzate dalla presenza di molte rappresentanti delle famiglie Ericaceae e Vacciniaceae, con frequenti elementi delle Fabaceae e Cistaceae. Vaccinium,
Erica, Calluna, sono generi spiccatamente acidofili, che
strutturano un paesaggio tipico a cespuglieti bassi, specialmente nel Nord Italia, e che intervallano altre forme
di vegetazione via via che si scende nella penisola.
Nei contesti dell’Italia del Nord si esprime la forma più
tipica di brughiera bassa di tipo centro-europeo (4060), con
FLORA E VEGETAZIONE • 229
183 SIC. Le famiglie dominanti sono di nuovo Vacciniaceae ed Ericaceae, ma i generi più rappresentati sono quelli
con specie di piccola taglia, piante molto ben adattate sia
nella morfologia che nell’ecologia ad un ambiente freddoarido con fattori climatici cogenti. Loiseleuria procumbens,
Vaccinium sp. pl., Arctostaphylos uva-ursi, il prezioso relitto
Dryas octopetala, ma anche gimnosperme come Juniperus
nana e, non ultime, ricchissime comunità di licheni. Tutte
queste spermatofite condividono il portamento assai prostrato e una serie di adattamenti che interessano la superficie fogliare, come pelosità abbondante, stomi riparati, spessi strati di cere, a difesa dall’irradiazione solare intensa e dall’inaridimento causato dai forti venti.
I settori di alta quota delle Alpi e, in piccola parte, degli Appennini, sono occupati da cespuglieti, talvolta boscaglie pioniere a Pinus mugo e Rhododendron sp. pl..
(4070*). Si tratta di un habitat prioritario posto in grande rischio dall’alzarsi progressivo del limite del bosco e
tuttavia necessario in quanto unica forma di consolidamento delle pendici delle montagne più elevate. In Italia
è rappresentato da 92 SIC per la maggior parte dislocati
nel settore alpino.
Esiste infine in Italia un’ultima forma con cespugli e
bassi arbusti a prevalenza di Fabaceae per lo più spinose, presenti in numerose varianti in diversi paesi europeo-mediterranei (4090). Questo habitat è rappresentato in Italia da 57 SIC, molti dei quali localizzati in Sicilia e in Sardegna. Queste formazioni sono strettamente correlate, nella composizione floristica, alla morfologia montana e al suolo su cui crescono. Questo ha generato numerosi endemiti esclusivi della Sardegna e della Corsica ed altri dell’Etna e delle catene peninsulari
del Sud-Italia.
Come succede in tutte queste forme caratterizzate da
specie legnose a portamento più o meno prostrato, tali
cespugli costituiscono una forma di protezione nei confronti di altre specie che, nelle stesse condizioni climatiche, non potrebbero sopravvivere. Questi habitat, quindi, oltre a tutelare specie che direttamente partecipano all’architettura della vegetazione, vanno indirettamente ad
incrementare il livello di biodiversità in contesti altrimenti proibitivi.
5 Macchie e boscaglie di sclerofille (matorral)
Nel mondo mediterraneo e sub-mediterraneo trovano posto formazioni a macchia o boscaglia che talvolta
possono essere interpretate come fasi di degradazione di
successioni forestali ma più spesso, in equilibrio con con-
dizioni climatiche ed edafiche particolarmente stressanti, esse rappresentano una fase matura e persistente. In
relazione con le latitudini e con il clima, è possibile riconoscere diverse tipologie di macchie o boscaglie, molte delle quali assumono in Italia carattere relittuale e richiedono particolari attenzioni in termini conservazionistici, anche perché in passato spesso oggetto di trasformazioni da parte dell’uomo.
51 Arbusteti submediterranei e temperati
Nell’orizzonte collinare e basso-montano è possibile
incontrare lungo pendii rocciosi delle caratteristiche formazioni a macchia dominate da Buxus sempervirens
(5110). Queste comunità si esprimono su suoli calcarei
e rappresentano una fase transizionale tra le praterie calcaree e i boschi termofili misti caducifogli. Per questi ultimi talvolta tali macchie costituiscono una vegetazione
di mantello e mostrano frequenti ingressioni dagli ambienti forestali. In Italia tale habitat è soprattutto rappresentato in ambito peninsulare centrale, con 33 SIC.
Più frequentemente, dal piano basale a quello montano, si insediano in contesti simili delle comunità aperte con predominanza di Juniperus communis, legate dinamicamente alle praterie mesofile o xerofile su calcare
(5130). Molto ben rappresentato in tutta Italia con 174
SIC, questo habitat comprende diversi cespugli e arbusti, in particolare tra le Rosaceae (Rosa sp. pl., Prunus spinosa, Crataegus sp. pl.).
52 Matorral arborescenti mediterranei
In molti casi Juniperus communis, così come altri ginepri, assume un habitus di tipo arborescente ed è accompagnato da formazioni a macchia di sclerofille sempreverdi (5210). Naturalmente tale habitat trova il suo
optimum nei piani basale e collinare; non mancano tuttavia casi in cui questo particolare tipo di macchia si esprime anche a quote più elevate: in Abruzzo, in più di un
SIC, essa è presente anche fino a 1500 m. s.l.m. Se questo habitat è rappresentato in Italia da ben 142 SIC, ben
più raro è l’habitat prioritario con Zyziphus lotus a portamento arborescente (5220*). Tipico, e quasi esclusivo,
dell’aridissimo settore Sud-occidentale della penisola Iberica, in Italia è rappresentato solo in Sicilia nel SIC Monte Pellegrino (PA). In condizioni di maggiore umidità,
sia in pianura che in ambienti di forra, si esprime, seppur raramente, una formazione vegetale di grande pregio e soprattutto di profondo significato paleoclimatico.
In 28 SIC è infatti segnalata la presenza dell’habitat prioritario formato da boscaglie a Laurus nobilis (5230*), una
230 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
sclerofilla che allo stato spontaneo rappresenta non solo
una rarità ma un vero e proprio relitto. Essa testimonia
di quando l’Italia, durante il terziario e occasionalmente anche in seguito, era interessata da un clima caldoumido che permetteva lo sviluppo di lussureggianti selve. Oggi i resti di tali selve si possono ammirare, ad esempio, in diverse località del Lazio, in Campania, in Sicilia
e, più raramente, in altre regioni.
53 Boscaglie termo-mediterranee e pre-steppiche
Quando le condizioni edafiche e climatiche non ne
consentono il pieno sviluppo in forma di boscaglie aperte e polispecifiche, le formazioni con alloro possono occupare zone fresche ed umide nell’ambito di situazioni
più spiccatamente aride. L’alloro forma allora densissimi boschetti pressoché monospecifici (5310), molto rari e rappresentati da soli 8 SIC in Italia centrale. A questo mondo decisamente termo-meditterraneo appartengono quegli ambienti che si trovano compresi tra le vere e proprie scogliere e le garighe che ad esse sono spazialmente e dinamicamente collegate. Si tratta di formazioni fortemente esposte a venti marini, composte di
piante di piccola taglia o di taglia ridotta rispetto al normale modello di accrescimento (5320). In questi habitat sono frequenti Euphorbia sp. pl., Pistacia lentiscus,
Helichrysum sp. pl., Thymelaea sp. pl. I SIC in cui risulta rappresentato questo habitat sono esclusivi di isole e
coste rocciose, molte delle quali appartenenti al versante tirrenico.
A causa della particolare abbondanza e molteplicità
di varianti con cui si trovano in Italia, un discorso a parte meritano i cespuglieti ed arbusteti termo-mediterranei con tendenza pre-desertica (5330). Essi sono infatti rappresentati in oltre 300 SIC, in larga parte dislocati sulle fasce costiere e sulle isole ma non rari anche in
siti posti nell’entroterra, dove spesso testimoniano di antiche vegetazioni terziarie. Questa categoria comprende
infatti sia le formazioni ad Euphorbia dendroides, tipiche delle nostre isole maggiori, che le garighe ad Ampelodesmos mauritanica, largamente presenti in tutta l’Italia centro-meridionale e nelle isole. Ma qui sono anche
inclusi gli splendidi aggruppamenti spontanei a Chamaerops humilis presenti in modo discontinuo lungo la
costa tirrenica e più abbondantemente nelle isole, in particolare in Sardegna. In molti di questi siti la palma nana tradisce il suo nome per svettare con individui di notevoli dimensioni; più spesso forma fitti aggruppamenti simili a cespugli che spiccano lungo i versanti più caldi delle coste.
54 Phrygane
Sotto questa denominazione vengono incluse alcune
tipologie di vegetazione composte da sclerofille, spesso
provviste di spine, che assumono tipiche forme a cuscinetto, estremamente raccolte e approssimate al substrato. Si tratta di formazioni non molto comuni in Italia,
dove si trovano spesso al loro limite occidentale di distribuzione e dove sono esclusive di ambienti aridissimi per
lo più insulari.
Molte di queste formazioni occupano le aree sommitali delle scogliere a mare, dove, oltre alla radiazione solare e ad un suolo sottile e fortemente drenante, devono
sopravvivere ai venti intrisi di salsedine. Questo è il caso
di una rara tipologia, presente solo in 7 SIC, a predominanza di Helichrysum italicum, Thymelaea hirsuta, Plantago subulata e alcune piccole Fabaceae (5410). Addirittura rarissimi sono invece i bassi cespuglieti spinosi a Sarcopoterium spinosum, tipici del Mediterraneo Sud-orientale e in Italia presenti solo in 3 SIC (5420). Una terza tipologia di habitat riferibile a questo raggruppamento è la
Phrygana endemica dell’Euphorbio-Verbascion (5430), che
si presenta in varie zone dell’Italia mediterranea con numerose varianti geografiche. I tratti in comune a tutte le
varianti sono la tendenza a formare aggruppamenti bassi
e a cuscinetto e la sclerofillia spesso unita alla presenza di
spine. Sono qui incluse le rarissime comunità con Helichrysum aegyptiacum delle rocce della Sardegna e di Lampedusa, le formazioni sarde e pugliesi a Sarcopoterium spinosum, quelle a Genista sp. pl. che la Sardegna condivide
con la vicina Corsica.
6. Formazioni erbose naturali e seminaturali
I paesaggi con formazioni erbose, che si tratti di praterie o di pascoli, costituiscono uno dei più importanti esempi di convivenza ed equilibrio tra le attività umane e la natura. Molti dei contesti tra quelli a più elevata biodiversità
vegetale hanno avuto infatti origine in seguito alle attività
agropastorali; se tali attività cessassero, questi habitat andrebbero progressivamente ad evolvere verso i loro attuali
climax e cesserebbero di esistere. Similmente, quando si
parla della prospettiva di possibili variazioni delle condizioni climatiche verso un riscaldamento della Terra, le formazioni erbose, specialmente quelle dell’alta fascia montana, sarebbero tra le prime a trovarsi sotto una minaccia immediata di contrazione e scomparsa. L’innalzarsi del limite attuale della vegetazione arborea porterebbe infatti ad
un confinamento delle praterie di quota ad aree sempre più
ristrette. Tra questi habitat ce ne sono quindi alcuni che si
FLORA E VEGETAZIONE • 231
presentano più “fragili” di altri proprio perché la loro sopravvivenza dipende da un’azione di mantenimento costante da parte dell’uomo.
61 Formazioni erbose naturali
Tra le formazioni erbacee primarie, particolare importanza rivestono quelle che, sia su calcare che su altri substrati basici, procedono alla colonizzazione di suoli sottili o di recente deposito (6110*). A causa della scarsa disponibilità di acqua, tali substrati possono essere occupati solo da piante annuali a spiccato carattere pioniero, oppure da alcune Crassulaceae, quali Sedum sp. pl. e Sempervivum sp. pl., che possono contare su speciali accorgimenti volti all’ottimizzazione dell’uso dell’acqua. Si tratta di un habitat prioritario rappresentato da 144 SIC su
tutto il territorio nazionale a quote che vanno dal livello
del mare fino a circa 2000 m. s.l.m., come nel massiccio
del Pollino.
Un caso molto particolare, in Italia, è quello delle formazioni pioniere su suoli ricchi in metalli pesanti (6130).
La vita qui è concessa solo a specie che tollerano un elevato tenore in metalli, come Viola calaminaria, e a razze
locali di altri taxa più comuni. L’habitat è rappresentato
da soli 6 SIC liguri, a quote comprese tra i 500 e i 1300
m s.l.m.
Molto più frequenti sono le praterie alpine e subalpine
tanto su substrati acidi che su calcare. Le formazioni erbose acidofile (6150) appartengono ai settori sommitali delle Alpi e sono ricche in specie ad areali di tipo boreale ed
alpino. Un’importante funzione di questo habitat, rappresentato da 43 SIC, è anche quella di permettere l’espressione di un’eccezionale biodiversità in termini di flora briofitica e lichenica. Sui substrati calcarei si esprime, in 209
SIC localizzati sulle montagne italiane tanto alpine quanto appenniniche, uno tra i più suggestivi habitat in assoluto (6170). A quote notevoli, ma spesso anche nelle radure
a quote inferiori, si articola una vegetazione fatta soprattutto di piccole emicriptofite e geofite dalle fioriture sgargianti. Alle condizioni di vita difficili sia in inverno, per il
gelo e la scarsa disponibilità di acqua in forma liquida, che
in estate, per l’elevata incidenza in quota della radiazione
solare e del vento, le piante che abitano queste praterie oppongono una resistenza fatta di precisi adattamenti morfofisiologici e di ritmi vitali in perfetta sincronia con le stagioni. Molte di queste praterie di alta quota sono tuttora
sfruttate dall’uomo come pascoli; in questi casi la composizione floristica, in relazione alle sollecitazioni meccaniche
operate dal bestiame e all’aumento di sostanza organica,
possono subire anche forti banalizzazioni.
62 Formazioni erbose secche seminaturali e facies
coperte da cespugli
Come già detto, alcuni paesaggi hanno avuto bisogno
dell’azione dell’uomo per potersi esprimere e ne hanno ancora bisogno per continuare ad esistere. È questo il caso
delle formazioni erbacee secondarie che generalmente si
trovano nella fascia sub-montana e basso-montana, ma
che in alcuni casi si localizzano anche a quote inferiori. Un
habitat estremamente importante in questa categoria è
quello che fa riferimento alle formazioni erbacee e a cespugli su calcare (6210*). In queste fitte formazioni ricchissime in specie, con varianti più o meno mesofile riconducibili ai Festuco-Brometea, si realizza un vero sistema integrato di conservazione della biodiversità, con elementi provenienti sia dal mondo sub-mediterraneo che da
quello sub-continentale. Ma l’importanza di questi 575
SIC, dislocati su tutto il territorio nazionale, sta, più di
ogni altra ragione, nel fatto che costituiscono gli habitat
ottimali per moltissime orchidee. Popolazioni numericamente consistenti e ben strutturate garantiscono infatti un
buon livello di scambio di materiale genico all’interno della specie, requisito essenziale affinché il taxon mantenga
un’elevata variabilità interna e quindi un’elevata resistenza a fattori perturbanti. Allo stesso tempo tali praterie rivestono anche una significativa importanza nella conservazione di diversi lepidotteri (tra cui il macaone, Papilio
machaon) e neurotteri (tra cui la mantide religiosa).
Una forma abbastanza simile di vegetazione, ma con
caratteri più termofili, ha una diffusione più meridionale e costituisce, con 507 SIC, l’habitat prioritario della
pseudo-steppa con graminacee e piante annuali dei Thero-Brachypodietea (6220*). Su suoli poveri, per lo più calcarei, si sviluppano formazioni erbose a diverse varianti
locali ma tutte con una elevata componente in terofite.
Anche queste aree sono spesso sfruttate come pascoli, e,
similmente alle precedenti, in assenza di un regime di pascolo ben organizzato, possono facilmente andare incontro ad impoverimento e banalizzazione.
Sui substrati acidi si può sviluppare un ulteriore habitat prioritario, rappresentato in Italia in 173 SIC (6230*).
In ambiti montani e, in aree più continentali, anche submontani, si insediano praterie a dominanza di Nardus
stricta che in condizioni normali si presentano estremamente diversificate. Spesso, tuttavia, tali espressioni di
biodiversità sono depresse e semplificate dall’eccesso di
pascolamento. Il nardo diventa allora assolutamente predominante, in quanto non appetito dal bestiame. Per questi habitat, come per altre forme di praterie, è quanto mai
necessaria una regolamentazione del regime di pascolo;
232 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
oggi, dato che molte montagne sono ormai spopolate, è
necessario evitare l’invasione indiscriminata e caotica di
tali ambienti da parte del bestiame.
63 Boschi di sclerofille utilizzati come terreni di pascolo
(dehesas)
Si tratta di paesaggi tipici della penisola iberica, da noi
rappresentati in 55 SIC distribuiti in prevalenza nell’Italia del Sud e nelle isole maggiori (6310). L’habitat è costituito da aree pascolate o coltivate in cui la vegetazione
erbacea si sviluppa sotto le chiome di lassi aggruppamenti di querce sempreverdi. Per la presenza di piccoli mammiferi e di molti insetti, tali ambienti sono considerati
importanti per la vita e la riproduzione di rapaci.
mesofile da sfalcio, tanto quelle delle basse quote che quelle montane, offrono sempre spettacoli indimenticabili di
sgargianti fioriture. Le regolari attività di taglio per ricavare fieno, anziché interferire con la vegetazione, creano
una ciclicità che permette di manifestarsi anche a quelle
specie che, sotto erbe tanto più grandi, non avrebbero mai
potuto beneficiare della luce del sole. Tutte le praterie mesofile sono inoltre ambienti fondamentali per la vita e la
riproduzione di un gran numero di artropodi. Le praterie mesofile di bassa quota (6510) sono rappresentate da
111 SIC distribuiti in tutta Italia, mentre le praterie mesofile montane e sub-alpine (6520) si ritrovano in 73 SIC,
molti dei quali localizzati nell’Italia settentrionale.
7 Torbiere alte, torbiere basse e paludi basse
64 Praterie umide seminaturali con piante erbacee alte
In contesti meno aridi, spesso in relazione spaziale con
specchi o corsi d’acqua, il suolo riesce a permanere umido
per un tempo più o meno lungo e si sviluppano praterie
con erbe di grandi dimensioni. Questi paesaggi si ritrovano, più frequenti al Nord, dal piano basale fino a quello
montano e presentano alcune varianti correlate al substrato, al clima e alla disponibilità di sostanza organica.
Sui substrati poveri si insediano comunità a Molinia
coerulea (6410) che, in particolare su suoli neutri o basici, manifestano elevati livelli di biodiversità ed una spiccata dinamica stagionale. Tale habitat è presente in 101
SIC distribuiti nel Nord-Italia. Le condizioni climatiche
mediterranee del settore centrale e meridionale generano
invece un ambiente caldo-umido che favorisce lo sviluppo di comunità ad alte erbe, tra cui molte Poaceae e Juncaceae, che in taluni casi si spingono fino alle depressioni interdunali (6420).
Una maggiore disponibilità d’acqua, spesso legata alla
presenza di laghi o fiumi, permette l’instaurarsi di formazioni a margine di raccolte d’acqua o di boschi (6430).
377 SIC, distribuiti in tutta Italia, ospitano questo habitat formato da piante erbacee di grossa taglia o striscianti. In condizioni normali si tratta di comunità molto ricche in specie e di grande importanza nel consolidamento di suoli umidi; in casi estremi tuttavia può subentrare
una situazione di distrofia per cui avviene accumulo eccessivo di sostanza organica con ingressioni, e talvolta predominanza, di specie nitrofile.
65 Formazioni erbose mesofile
Come spesso accade, il paesaggio culturale generato
dall’uomo può offrire occasioni inedite per la conservazione della biodiversità vegetale ed animale. Le praterie
Gli ambienti a permanente apporto d’acqua possiedono dinamiche molto delicate in cui ad interferenze anche
minime corrispondono quasi sempre deterioramenti irreversibili. Tra i casi più esemplari vi sono gli ambienti di
torbiera e di paludi e sorgenti. Da una parte l’equilibrio
delicato che sostiene questi habitat, dall’altra la loro progressiva eliminazione per scopi economici, li rende tra
quelli a più elevato rischio di sopravvivenza in Italia.
71 Torbiere acide di sfagni
Le torbiere sono complesse forme di vegetazione in cui
un delicato equilibrio consente l’accumulo di lignina in virtù di un’imperfetta decomposizione della materia organica. L’anossia che si genera nel suolo permanentemente inondato, infatti, consente solo ai microrganismi anaerobi di
svolgere le normali attività di decomposizione; essi sono
però in grado di degradare solo la componente cellulosica
dei tessuti vegetali. Ciò che risulta è un accumulo di strati
di lignina denominato torba. Le torbiere, in relazione al
substrato, agli organismi e alle dinamiche idriche, si distinguono in torbiere acide e alcaline. Le torbiere acide, alte o
di transizione, ricevono un apporto d’acqua di natura meteorica e di falda, mentre in quelle alcaline, basse, confluiscono acque di superficie con i relativi detriti.
Le torbiere alte attive (7110*), tipiche dell’Italia settentrionale, sono rari e affascinanti ambienti dominati
dagli sfagni in cui possono crescere diverse spermatofite
acidofile, quali le Ericaceae e le Vacciniaceae insieme con
diverse piante carnivore (generi Drosera, Utricularia). Ciò
che ne fa un habitat prioritario, rappresentato in Italia in
30 SIC, è la fragilità e allo stesso tempo l’importanza di
tale ambiente nella conservazione di molti artropodi, tra
cui aracnidi, odonati, lepidotteri, ortotteri. La canalizza-
FLORA E VEGETAZIONE • 233
zione delle acque e l’irregimentazione dei fiumi ha eliminato in passato molte torbiere, utilizzate oggi come pascoli. La torbiera alta può sopportare solo brevissimi periodi di inattività, dovuti ad esempio ad incendi o a stagioni particolarmente aride. In Italia è noto solo un caso,
il SIC Paluaccio di Oga presso Bormio in Lombardia, in
cui una torbiera alta in passato alterata è oggi considerata ancora suscettibile di ripresa di attività (7120).
Sempre nel Nord Italia è possibile incontrare in oltre
100 SIC le torbiere di transizione (7140), a dinamica intermedia tra quelle alte e quelle basse. L’apporto idrico di
duplice origine, tanto meteorico che superficiale, fa aumentare il contenuto in sostanza organica e permette la
colonizzazione anche da parte di spermatofite acquatiche
tipiche degli specchi d’acqua. Con esse convivono ricche
comunità di sfagni e muschi i cui resti vengono solo in
parte trasformati in torba. Le piccole depressioni che non
formano un sistema continuo con le aree permanentemente inondate sono colonizzate da una vegetazione pioniera a Rhynchospora sp. pl., Drosera sp. pl., Lycopodiella
inundata (7150). Tali habitat sono solo sporadicamente
osservabili nell’Italia settentrionale in 32 SIC.
72 Paludi basse calcaree
In ambienti basici le aree inondate possono costituire
particolari ambienti di raccolte d’acqua e talvolta di veri e
propri laghi con presenza di Cladium mariscus e vegetazione acquatica riferibile al Caricion davallianae (7210*). In
64 SIC tale habitat prioritario è rappresentato in Italia settentrionale e centrale, in siti a quote anche molto diverse.
Quando il contenuto in calcio si fa elevato, le sorgenti d’acqua possono dare origine a fenomeni di deposito
di calcare in forma di travertini (7220*). Questi ambienti sono rappresentati in 66 SIC distribuiti al Nord e in
quasi tutta l’Italia peninsulare. Sono habitat prioritari
molto importanti per la conservazione di comunità briofitiche e spesso si trovano in rapporto diretto con ambienti di grotta e vegetazione casmofitica.
Anche le torbiere basse, con il loro apporto esterno,
ricevono calcio disciolto nelle acque che vi confluiscono. Il calcio può essere allora depositato in forma di travertino e una modesta attività di deposito di torba può
essere possibile. A causa dei rapporti che queste aree inondate contraggono con gli ambienti circostanti, la vegetazione risultante è molto variabile a seconda delle aree
geografiche in cui si sviluppa (7230). In soli 11 SIC è infine rappresentata una forma di vegetazione pioniera di
tipo alpino ad elevata componente di piccole Cyperaceae e Juncaceae (7240*).
8 Habitat rocciosi e grotte
Le piante mostrano incredibili forme di adattamento alle condizioni di vita più proibitive in termini di
temperatura, disponibilità d’acqua, luce. Tra le più particolari forme di vegetazione vi sono quelle che si esprimono là dove il suolo è quasi inesistente, dove le strutture vegetali devono opporre, sospese nel vuoto, resistenza alla forza di gravità e dove la luce non arriva praticamente mai.
81 Ghiaioni
I detriti montani ospitano forme di vegetazione altamente specializzate a sopravvivere con ridottissime quantità di suolo a disposizione. In Italia sono praticamente
esclusivi delle Alpi i ghiaioni naturali di natura silicea
delle alte quote e dei ghiacciai (8110); la stessa tipologia
di vegetazione che qui si esprime, ricca di piccole spermatofite ma anche di felci, briofite e licheni, si può ritrovare anche a quote inferiori in detriti di origine antropogenica, quali quelli dovuti a sbancamenti o a creazione di cave. I ghiaioni calcarei (8120), analoghi a quelli silicei quanto ad aspetto generale della vegetazione, differiscono da essi per composizione floristica e per distribuzione geografica. Essi si trovano infatti abbondanti sulle Alpi, ma anche nelle aree sommitali delle montagne
appenniniche.
I versanti caldi montani e i macereti delle quote più
basse ospitano forme di vegetazione comunque adattate a suoli sottilissimi (8130), grazie a vigorosi apparati
radicali e rizomi, ma possono raggiungere anche dimensioni notevoli, in quanto molto meno condizionate dall’azione dei venti di vetta (es. Achnatherum calamagrostis). Un caso particolare è rappresentato dai detriti calcarei e calcareo-marnosi medio-europei dei piani collinare e montano (8160*), habitat prioritario che si ritrova in 78 SIC.
82 Pareti rocciose con vegetazione casmofitica
Gli ambienti rupestri presentano forme di vegetazione
con adattamenti simili a quelli dei ghiaioni e, se possibile,
ancora più estremi. Oltre all’esiguità di suolo e alla scarsissima disponibilità d’acqua, le piante qui devono superare
anche notevoli forze meccaniche generate tanto dagli episodi franosi che dalla semplice forza di gravità. Le rupi, costiere o interne, possono avere natura calcarea o silicea. Entrambe le tipologie sono rappresentate da un gran numero di varianti di tipo geografico, con notevoli contingenti
di specie endemiche; le rupi calcaree (8210) si rinvengono
234 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
in modo abbastanza costante dal piano basale a quello alto-montano e sono rappresentate da 461 SIC distribuiti in
tutta Italia. Le rupi silicee (8220) hanno invece, in Italia,
carattere interno e sono prevalentemente localizzate lungo
l’arco alpino ma presenti anche in alcuni ambienti insulari, con 158 SIC. Particolarmente interessanti sono le prime fasi di colonizzazione delle rupi silicee. Questi ambienti, che costituiscono un habitat a sé stante (8230) con 154
SIC dell’Italia settentrionale e centrale, sono costituiti da
pochi gruppi di piante a carattere pioniero, soprattutto briofite, licheni e, tra le piante vascolari, alcune Crassulaceae
(Sedum sp. pl., Sempervivum sp. pl.).
Una particolare formazione, che rappresenta un habitat prioritario segnalato per 84 SIC, è costituita dai cosiddetti pavimenti calcarei (8240*). Si tratta di tipologie
più caratteristiche dell’Europa settentrionale che delle nostre latitudini. Esse sono costituite da grossi blocchi calcarei disposti in modo abbastanza regolare e altrettanto
regolarmente intervallati da fessure in cui la vegetazione
può trovare un suolo profondo e creare microambienti
anche a vegetazione arborea (generi Fagus, Sorbus, Acer
etc.) a clima umido, in contrasto con il suolo sottile o assente che si può trovare sui blocchi calcarei.
83 Altri habitat rocciosi
Gli ambienti rocciosi sono tutti difficili da colonizzare stabilmente. Ce ne sono alcuni, però, in cui la natura
viene davvero messa alla prova e in cui la vita risulta quasi impossibile e riservata solo ad organismi specializzatissimi. Un esempio sono gli ambienti di grotta. Un habitat comunitario, rappresentato peraltro da 131 SIC distribuiti in tutta Italia, è proprio quello delle grotte non
aperte al pubblico, esplorate, quindi, solo per motivi di
studio (8310). In tali ambienti possono vivere solo muschi e alghe, per la componente vegetale; per quella animale le caverne sono ambienti ad elevatissimo valore conservazionistico: nelle grotte numerosi endemiti si incontrano tra gli invertebrati (crostacei, coleotteri, ortotteri,
molluschi) così come tra i vertebrati, specialmente tra gli
anfibi (genere Proteus). Oltre a ciò, le grotte costituiscono ambiente di letargo per i chirotteri.
Anche i campi di lava e le cavità vulcaniche naturali,
di cui l’Italia è particolarmente ricca, offrono alcuni esempi di vita estrema (8320): con 16 SIC questo habitat descrive ridottissime comunità vulcaniche sommitali ricche
soprattutto in licheni.
In questo raggruppamento vengono incluse anche le
grotte marine (8330), favorevoli solo alla vita algale e presenti con 21 SIC, e i ghiacciai (8340), presenti in 34 SIC.
9 Foreste
Foreste (sub)naturali di specie indigene di impianto
più o meno antico (fustaia), comprese le macchie
sottostanti con tipico sottobosco, rispondenti ai
seguenti criteri : rare o residue, e/o caratterizzate dalla
presenza di specie d’interesse comunitario
Durante il periodo interglaciale in cui viviamo, le foreste costituiscono la vegetazione potenziale matura cui
tendono spontaneamente molte zone d’Italia. L’uomo,
tuttavia, nel suo cammino sulla Terra, ha presto intuito
sia come sfruttare direttamente i materiali che dalle foreste provenivano, che, soprattutto, come impiegare diversamente e a proprio vantaggio i territori dove le foreste crescevano. Ha quindi cominciato a procacciarsi
pascoli per il proprio bestiame prima a spese delle foreste planiziarie e di quote basse, non risparmiando successivamente anche quelle montane. Quest’azione è stata talmente prolungata e profonda, che oggi si può affermare che non esistano foreste primigenie. Tuttavia
l’uomo, così come ha distrutto, ha saputo anche, forse
involontariamente, consentire che alcune aree siano tornate ad una struttura e ad una composizione floristica
che possono in gran parte ricordare quelle originarie.
L’Italia ha quindi oggi, nonostante tutto, splendide foreste che non solo costituiscono una fonte di biodiversità a tutti i livelli, ma svolgono una imprescindibile funzione protettiva nei confronti dei versanti montuosi.
91 Foreste dell’Europa temperata
Le foreste dell’Europa temperata descritte tra gli habitat comunitari sono per la maggior parte rappresentate sul territorio italiano. Faggete, querceti, foreste ricche
di aceri e tigli, tutte ad elevata ricchezza floristica, sono
distribuite, con poche eccezioni, su tutto il territorio italiano con un gran numero di SIC.
Un posto privilegiato è senza dubbio quello del faggio. Fagus sylvatica è infatti un albero decisamente mesofilo, con precise esigenze riguardo all’umidità e alle
temperature, ma allo stesso tempo abbastanza indifferente al substrato, purché questo riesca a concedergli una
buona disponibilità idrica. Se il suolo è fertile e ricco di
humus, il faggio diventa tanto competitivo da avere la
tendenza a formare popolamenti puri, concedendo un
vantaggio alle altre essenze solo in aree ad esso sfavorevoli. Per la versatilità del faggio, in Italia si trovano quindi faggete tra loro molto differenti quanto a composizione floristica. In Italia settentrionale, su suoli acidi, si sviluppano foreste di faggio con conifere (Abies alba, Picea
FLORA E VEGETAZIONE • 235
abies) con sottobosco acidofilo, tipiche dell’Europa centrale (9110). Molto diffuse al Nord, ma con alcuni SIC
nel centro Italia ed altri al Sud, si trovano le faggete su
suoli neutri, ricchissime in specie, in particolare di geofite rizomatose, come Cardamine subg. dentaria, Lamium
galeobdolon, Anemone nemorosa etc (9130). Alcune faggete subalpine sono invece esclusive dell’Italia settentrionale (9140), dove sono rappresentate in 9 SIC. Sono ricche in Acer pseudoplatanus e in specie erbacee delle vicine praterie altitudinali. Abbastanza diffuse anche al Centro-Sud e a carattere più termofilo sono invece le faggete su calcare, con sottobosco ricco in Poaceae, Cyperaceae e Orchidaceae (9150).
A quote modeste si trovano su suoli ad elevata impermeabilità formazioni a farnia (Quercus robur) talora mescolate con altre essenze quali Carpinus betulus, Acer campestre, Tilia cordata, a carattere sub-atlantico (9160 - 51
SIC) o a rovere (Quercus petraea) a carattere sub-continentale (9170 - 8 SIC).
Lungo scarpate, ghaioni o valloni, dove l’accumulo di
humus è parzialmente ostacolato, gli alberi con elevate
esigenze idriche non possono crescere. In questi ambienti si articola uno splendido habitat prioritario a prevalenza di Acer pseudoplatanus in ambiti più freschi e umidi o
di Tilia platyphyllos o T. cordata su morfologie più accidentate e contesti più aridi (9180*). In 119 SIC diffusi
dal Nord al Sud, questi boschi misti e luminosi colonizzano con successo versanti ripidi con un corteggio floristico estremamente ricco e pregiato, con la partecipazione di molte essenze arboree (tra cui, in alcuni contesti,
Taxus baccata) e un lussureggiante sottobosco.
Sulle pianure sabbiose tanto dell’Italia settentrionale
che di alcune zone dell’Italia centrale, è possibile ancora
oggi osservare frammenti delle antiche foreste planiziarie
che dovevano dominare gli ambienti acquitrinosi sub-costieri e legati ai fiumi (9190). Rappresentati solo da 10
SIC, questi boschi acidofili a Q. robur si possono oggi
ammirare, ad esempio, nella foresta demaniale interna al
Parco Nazionale del Circeo, dove costituiscono un habitat fondamentale anche per la vita e la riproduzione di insetti, macroinvertebrati delle acque dolci e anfibi.
Caratteristiche della Sicilia ma presenti anche altrove
lungo la penisola, sono le formazioni termofile a Fraxinus angustifolia con partecipazione di querce termofile
(91B0), presenti complessivamente in 26 SIC.
In ambiti molto umidi o inondati, si trovano in Italia
settentrionale, rappresentati in 28 SIC, formazioni forestali strettamente legate agli ambienti di torbiera (91D0*).
Si tratta di ambiti dominati da conifere e ricchi in specie
acidofile e sfagni. Il rapporto funzionale con le torbiere
rende queste formazioni estremamente importanti, tanto da essere state configurate come habitat prioritari.
Le formazioni arboree ripariali hanno subito nel tempo pesanti alterazioni in seguito all’irregimentazione di
molti corsi d’acqua e alla cementificazione delle sponde. La vegetazione forestale naturale assume invece un
ruolo importantissimo sia nel consolidamento degli argini che nel bilancio idrico delle valli fluviali. Le più belle foreste ad Alnus glutinosa e Fraxinus excelsior (91E0*)
sono rappresentate in ben 280 SIC situati in Italia settentrionale. In esse si articolano fitte gallerie con Salix
sp.pl. e comunità erbacee di grande taglia con Carex sp.
pl. e molte Umbelliferae, così come molte geofite comuni anche alle faggete. Nell’Italia peninsulare, specialmente lungo i fiumi di media e grande portata, prevale invece una tipologia più aperta ad altre essenze arboree,
con presenza di farnia, Ulmus sp. pl., Fraxinus excelsior
e F. angustifolia, Populus sp. pl. e un ricco sottobosco di
geofite e liane (91F0* - 79 SIC).
Un caso limite della foresta temperata è quello rappresentato dalle foreste a roverella (Quercus pubescens),
rappresentate in varie zone d’Italia ma caratteristiche
delle regioni centrali (91H0*). Questo habitat prioritario, presente in 77 SIC, si sviluppa, con ritmi di accrescimento anche molto lenti, su suoli calcarei sottili e su
versanti meridionali. Un ricco contingente di arbusti e
cespugli accompagna queste formazioni, che spesso sono raggiunte anche dalle specie erbacee xerofile delle
praterie o delle radure.
92 Foreste mediterranee caducifoglie
Alcune faggete possono avere un carattere particolarmente termofilo e svilupparsi in contesti mediterranei.
Ne sono un esempio i due habitat prioritari che descrivono le faggete appenniniche con Taxus baccata e Ilex
aquifolium (9210*), presenti in 194 SIC, e le faggete appenniniche con Abies alba o, nelle varianti sicule, A. nebrodensis (9220*), presenti in 66 SIC. A causa della distruzione che in passato sia il tasso che l’abete bianco hanno subito, queste foreste sono divenute una vera rarità:
esse testimoniano oggi delle tipologie forestali ad elevatissima biodiversità che un tempo dovevano estendersi in
molte sub-montane e basso-montane della penisola.
Una forma di vegetazione molto rara per motivi invece unicamente biogeografici è la foresta a Quercus trojana (9250), quercia semidecidua tipica dei Balcani e,
in Italia, di limitati settori della Puglia. Qui, rappresentata da soli 6 SIC, forma boschi talvolta puri o, più spes-
236 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
so, con elementi delle quercete caducifoglie a roverella
o delle leccete.
Ben più rappresentati, invece, con 246 SIC, sono i
boschi di castagno (9260), sicuramente avvantaggiati
dalle attività di coltivazione, sia da legno che da frutto,
di cui il castagno è da sempre stato oggetto. L’interesse
dei castagneti non risiede tanto nella presenza del castagno in sé, quanto piuttosto di tutte quelle forme di vegetazione relittuale, a carattere per lo più orientale, che
ai castagneti sono legate e che spesso non sono state completamente cancellate dalle pratiche colturali.
Ben più rari sono invece i boschi con Quercus frainetto (9280), segnalati in Italia centrale per 20 SIC e, in
particolare, superbamente rappresentati nel Lazio in diverse località sia interne che sub-costiere; queste ultime
sono direttamente correlate a quei preziosissimi ambienti sottratti alle bonifiche di cui si è parlato anche per altre tipologie di habitat. Restando in tema di zone umide, relativamente ai corsi d’acqua di ambito mediterraneo, sono caratteristiche le formazioni a galleria a Salix
alba e Populus alba (92A0), rappresentate da ben 244
SIC. Si tratta di formazioni ripariali arboree e arbustive multistratificate dall’aspetto di vere e proprie selve,
con la partecipazione di Acer sp. pl., Ulmus sp. pl., Alnus sp. pl., Tamarix sp. pl. e notevoli contingenti di liane. Sempre legate ai fiumi, ma estremamente rare (12
SIC esclusivi della Sicilia) sono le formazioni relitte a
Platanus orientalis (92C0) che ben più ampia diffusione dovevano avere in passato, anche nell’Italia continentale. I corsi d’acqua del Sud Italia e della Sardegna, come le fiumare, presentano una forma di vegetazione a
galleria dominata da tamerici e oleandro con presenza
di molti arbusti e liane (92D0). Questa tipologia di habitat è presente in 66 SIC.
93 Foreste sclerofille mediterranee
Le foreste sempreverdi a sclerofille sono l’impronta
più tipica degli ambienti mediterranei, anche se purtroppo in passato sono state quasi del tutto cancellate
dall’uomo. Ne sono un esempio tanto le formazioni a
Olea europaea e a Ceratonia siliqua (9320), presenti tanto lungo le coste che all’interno in 79 SIC, che le formazioni a querce sempreverdi. Le sugherete tirreniche
(9330 - 47 SIC), che un tempo si spingevano abitualmente nell’entroterra, oggi vi sopravvivono solo in casi
sporadici. Il leccio non è certamente pianta rara in Italia (9340 - 392 SIC), soprattutto grazie ad una plasticità ecologica che gli permette di vegetare anche in zone
molto scoscese; eppure molto rare sono diventate le lec-
cete planiziarie che un tempo dovevano essere diffusissime negli entroterra pianeggianti del mediterraneo, dove rappresenterebbero tuttora, in molti casi, la forma di
vegetazione climax.
Altro è il discorso relativo a specie quali Quercus macrolepis (9350), esclusiva in Italia di alcune zone della Puglia (3 SIC) o Ilex aquifolium, che assume portamento
arborescente tanto da formare piccole foreste relitte con
presenza di Taxus baccata esclusive della Sardegna e della Sicilia (9380 - 9 SIC). Questi sono infatti casi di rarità biogeografica e paleoclimatica pressoché indipendenti dall’uomo.
94 Foreste di conifere delle montagne temperate
Così come i boschi a sclerofille sempreverdi caratterizzano le formazioni forestali del mediterraneo, allo stesso
modo le formazioni a conifere costituiscono l’impronta
inconfondibile delle foreste delle Alpi. Per sopravvivere al
gelo e all’aridità edafica causata dal clima alto-montano
delle Alpi non basta più perdere le foglie in autunno come può fare il faggio: solo le gimnosperme, con i loro rigidi brachiblasti, sono sufficientemente adattate.
Negli orizzonti montano e alpino si realizzano le tipiche peccete, in cui Picea abies è accompagnato dall’usuale corteggio di specie altrettanto acidofile (es. Vaccinium sp. pl.) (9410 - 132 SIC). Lariceti e cembrete sono invece i boschi che più in alto si spingono sulle Alpi. Sia Larix decidua, quasi esclusivo delle Alpi, che Pinus cembra, che sulle Alpi trova il limite occidentale di
un areale oggi fortemente contratto e disgiunto fino all’Asia, sono due interessantissimi casi biogeografici ed
ecologici che meritano di essere tutelati nei 121 SIC presenti in Italia (9420). Piuttosto rare sono invece le comunità a Pinus uncinata (9430*), rappresentate da soli
15 SIC: si tratta di foreste, spesso ridotte a boscaglia,
molto aperte e luminose, spesso compenetrate da formazioni a P. sylvestris o da lariceti e cembrete, ricchissime in specie acidofile del sottobosco.
95 Foreste di conifere delle montagne mediterranee e
macaronesiche
Formazioni forestali con prevalenza di gimnosperme
si incontrano anche in contesti non alpini, lungo la penisola. Si tratta quasi sempre di formazioni a carattere
relittuale tanto in termini biogeografici che perché sopravvissute all’azione dell’uomo.
Le splendide abetine ad Abies alba (9510*), segnalate in 16 SIC, costituiscono un chiaro esempio di una
foresta un tempo molto diffusa lungo tutta la dorsale
FLORA E VEGETAZIONE • 237
appenninica ed oggi relegate a sparuti nuclei soprattutto nell’Italia centro-meridionale.
Le foreste spontanee con pino nero (Pinus nigra) e
specie affini (9530*), come Pinus laricio in Calabria, dei
substrati dolomitici sono rappresentate da 38 SIC tanto alpini che appenninici.
Le pinete di antico impianto a Pinus pinea caratterizzano molto del paesaggio italiano suburbano e sono tutelate, in una sola tipologia di habitat (9540 - 90 SIC
in tutto), insieme con le pinete litoranee a P. pinaster e
a P. halepensis e alle rarissime formazioni a P. leucodermis caratteristiche del massiccio del Pollino.
Estremamente rare sono infine le formazioni forestali
relitte a ginepri (9560* - 9 SIC) e quelle a Taxus baccata
con Ilex aquifolium che si trovano in Sardegna (9580* 8 SIC).
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FAUNA
FAUNA TERRESTRE
STATO DELLE CONOSCENZE
[Alessandro Minelli]
Aspetti tassonomici e faunistici
La realizzazione della Checklist delle specie della fauna italiana (MINELLI et al., 1993-95) ha permesso una prima valutazione del livello delle attuali conoscenze sulla composizione specifica e la distribuzione delle specie animali presenti sul nostro territorio nazionale. Il quadro è stato meglio precisato negli anni successivi, sia attraverso lavori scientifici che hanno apportato aggiunte e correzioni alla Checklist stessa, sia attraverso il progetto CK Map (vedi Scheda
Dalla checklist a CKmap: l’informatizzazione della fauna
italiana), voluto anch’esso dal Ministero dell’Ambiente e
della Tutela del Territorio, che è stato indirizzato a un approfondimento della distribuzione geografica in Italia di
circa diecimila specie animali, con particolare riguardo ai
macroinvertebrati d’acqua dolce e a numerosi gruppi ricchi di specie ad areale limitato, spesso esclusive di parti del
territorio nazionale. Il progetto si è concluso con la realizzazione di un data base informatizzato, la cui fruizione avviene principalmente attraverso mappe che utilizzano una
cartografia con reticolo UTM a maglie di 10 km di lato, e
che viene reso pubblico con l’accompagnamento di un volume di commento critico sui singoli gruppi e sull’intera
fauna italiana (RUFFO e STOCH, in stampa).
Allo stato attuale delle conoscenze, la fauna terrestre italiana risulta essere la più ricca fra quelle dei paesi europei.
Siamo però ancora molto lontani dal possederne un inventario completo. Nel caso di alcune famiglie di ditteri e
di imenotteri, ad esempio, è ragionevole attendersi che le
future scoperte portino quanto meno a un raddoppio del-
le liste attuali. Per citare un caso, ricerche portate a termine negli ultimi anni nell’ambito di un progetto Life Natura in una singola località (Bosco Fontana presso Mantova, che è un lembo forestale di pianura, ben conservato
ma di soli 233 ettari), hanno condotto al ritrovamento di
oltre 200 specie di ditteri che non erano note in precedenza per il nostro paese (MASON et al., 2002).
Le lacune conoscitive più ampie riguardano, oltre ai due
ordini di insetti ora citati, anche la maggior parte degli invertebrati della fauna del suolo (ad esempio acari, collemboli, nematodi, ma anche miriapodi, ragni, lombrichi) e
tutti i gruppi di elminti parassiti, la cui conoscenza sarebbe
estremamente preziosa ai fini di una gestione delle popolazioni delle specie ospiti, vertebrati o invertebrati che siano.
Non è da credere, peraltro, che la lista dei vertebrati terrestri italiani debba considerarsi definitiva e ciò non tanto
a motivo delle occasionali introduzioni di elementi alloctoni, quanto per il continuo evolversi dei criteri (morfologici, genetici, molecolari) che portano al riconoscimento
dei confini tra una specie e l’altra. Valgano in proposito
l’esempio del toporagno della Selva di Arvonchi (Sorex
arunchi) nell’Italia Nord-orientale, che è stato descritto appena nel 1998, o quello del toporagno di Antinori (Sorex
antinorii), descritto nel 1840 ma rivalutato come specie indipendente (con areale italo-svizzero) solo nel 2002. Analogo discorso vale per le non poche specie di rane, raganelle, salamandre e geotritoni, la cui caratterizzazione o identificazione è avvenuta negli ultimi due decenni.
Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle singole specie, un notevole sforzo è stato compiuto con i recenti progetti di cartografia informatizzata, a cui si è accennato più sopra, ma questo sforzo rischia di isterilirsi se non
verrà progressivamente integrato (1) da un’estensione del
progetto ai gruppi non ancora considerati, (2) da un continuo aggiornamento della base di dati così realizzata e, so-
240 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
prattutto, (3) da una capillare indagine sul terreno, soprattutto nelle aree più ricche di biodiversità e con particolare
attenzione verso i vastissimi gruppi zoologici per i quali
l’inserimento nella Checklist di molte specie, non necessariamente rare o localizzate, è giustificato da pochissimi reperti (spesso da uno solo), magari di antica data.
Aspetti biologici
Gli elenchi faunistici, peraltro, sono la semplice ossatura sulla base della quale organizzare le nostre conoscenze sulla biologia delle singole specie e sullo stato delle loro popolazioni. Va osservato, a questo proposito, che per
una larga frazione degli invertebrati terrestri italiani non
si conosce praticamente nulla dal punto di vista del ciclo
biologico, del regime alimentare e, più in generale, dei
rapporti con l’ambiente fisico e biotico. In altri casi sono
disponibili conoscenze acquisite su popolazioni extraitaliane, che non possono essere applicate acriticamente alle nostre. Ad esempio, le popolazioni dell’Europa centrale possono compiere un numero di generazioni per anno
inferiore a quello delle popolazioni italiane o possono utilizzare fonti alimentari differenti.
Pertanto, lo sforzo lodevolmente applicato negli ultimi decenni allo studio della biologia e dei costumi di molte popolazioni italiane di vertebrati, nonché di alcuni invertebrati di interesse agrario, forestale, medico e veterinario, deve essere tempestivamente esteso ai gruppi finora trascurati, con ovvie priorità verso le specie di maggiore interesse conservazionistico.
L’endemismo
Delle circa 42.000 specie di animali terrestri (Tabella
5.1) finora rinvenute sul territorio nazionale, di particolare rilevanza sono le oltre 4.000 specie, pari a circa il 10%
del totale, che si possono considerare endemiche del nostro paese: specie, cioè, che allo stato attuale delle nostre
conoscenze non risultano essere presenti al di fuori dei conTabella 5.1 - Composizione tassonomica della fauna terrestre italiana, secondo MINELLI et al. (1993-95). Per gli elminti parassiti (Cestodi, Digenei, Monogenei, Nematodi) sono state qui conteggiate le specie il cui ospite definitivo è terrestre. Sono stati esclusi (attribuendoli
alle acque dolci) gli insetti con stadi preimmaginali acquatici. Per gli
Uccelli sono stati esclusi, attribuendoli agli ambienti acquatici, Procellariiformi, la sula, Stercorariidi, Laridi, Sternidi, Alcidi, Gaviiformi, Podicipediformi, i cormorani e i pellicani, Ciconiiformi, fenicottero, Anseriformi, Gruiformi tranne Turnix; per i Mammiferi, oltre
alla foca e ai Cetacei, i due Neomys, la lontra e la nutria
‘Turbellari’
Digenei
Cestodi
Nematodi
Acantocefali
Gasteropodi
Policheti
Clitellati
Scorpioni
Palpigradi
Solifugi
Opilioni
Pseudoscorpioni
Ragni
Acari
Pentastomidi
Isopodi
Chilopodi
Diplopodi
Pauropodi
Sinfili
Collemboli
Proturi
Dipluri
Archeognati
Zigentomi
Mantodei
Ortotteri
Isotteri
Blattari
Fasmodei
Embiidini
Dermatteri
Psocotteri
Ftiratteri
Tisanotteri
Eterotteri
Omotteri
Coleotteri
Rafidioidei
Planipenni
Mecotteri
Sifonatteri
Strepsitteri
Ditteri
Lepidotteri
Imenotteri
Tardigradi
Anfibi
‘Rettili’
Uccelli
Mammiferi
Totale
specie totali
6
188
217
776
7
482
1
139
4
9
2
120
207
1.405
2.516
2
356
155
473
43
19
417
31
76
47
19
12
333
2
40
8
5
22
102
267
213
1.292
2.147
11.458
20
147
10
81
21
4.864
5.058
7.525
148
26
49
326
98
specie endemiche
2
%
33
166
34
18
13
4
2
37
120
211
28
44
100
31
58
15
1
210
47
277
4
3
62
3
36
14
59
30
59
9
16
15
10
47
30
90
27
21
1
2
7
52
12
40
32
1
34
103
2.007
3
2
1
0,5
2,6
4,8
17,5
15
1,4
10
3
253
188
71
31
12
3
14
5
3,7
0,9
21
46
6
4
4
41.991
3.918
9,33
FAUNA • 241
fini italiani. Naturalmente, all’interno del nostro stesso paese la distribuzione di ciascuna di queste specie risulta in genere circoscritta ad aree ristrette, ad esempio a singoli distretti alpini o appenninici, o all’una o all’altra delle nostre
isole maggiori. Ai gruppi zoologici di maggior rilievo (Molluschi terrestri, Coleotteri, Lepidotteri e Vertebrati) sono
dedicati, più avanti, altrettanti capitoli, in cui la componente endemica viene messa in adeguato rilievo. Per gli altri gruppi, la situazione è riassunta nelle righe seguenti.
Tra gli Anellidi, le regioni italiane più interessanti sono
l’area tirrenica, su cui gravitano i robusti lombrichi del genere Hormogaster, fra cui l’endemica Hormogaster praetiosa
di Sardegna, e la fascia prealpina dell’Italia nordorientale,
dove sono endemici il gigantesco lombrico Eophila tellinii
(che può superare la lunghezza di 60 cm) e una sanguisuga
terrestre (Xerobdella praealpina) descritta solo nel 1973.
Nell’ambito degli Aracnidi, il gruppo che meglio caratterizza la fauna italiana è quello degli Pseudoscorpioni, con
un tasso di endemismo elevatissimo (58%) nel complesso
delle 207 specie presenti, molte delle quali sono cavernicole e ad areale molto ristretto. Cavernicole sono anche numerose tra le 211 specie endemiche di Ragni (il 15% del totale), che risultano concentrate in poche famiglie, soprattutto fra i Disderidi (41 specie su 61 specie italiane), i Leptonetidi (6 su 8), i Nesticidi (4 su 7), nonché i generi Lepthyphantes (17 su 62) e soprattutto Troglohyphantes (25 su 32
specie) tra i Linifiidi e Tegenaria tra gli Agelenidi (14 su 33).
Notevolissimo è il tasso di endemismo in due gruppi
di invertebrati che rappresentano una componente fondamentale tra i macroartropodi degradatori della lettiera,
soprattutto negli ambienti forestali, ma che si spingono
nell’ambiente cavernicolo con molte specie (e anche generi) ad areale molto ristretto: le specie endemiche sono
rispettivamente 210 e 277 negli Isopodi (terrestri) e nei
Diplopodi, rappresentando in entrambi i casi il 59% del
popolamento italiano. Più basso è il tasso di endemismo
nei Chilopodi, più mobili e predatori, con 47 specie (il
30% della fauna italiana). Va segnalata peraltro, in questo
gruppo, una straordinaria specie relitta descritta solo nel
1982: Acanthogeophilus dentifer, nota in Liguria e in Puglia e affine a una specie dell’Algeria e della Tunisia.
Fra gli altri gruppi di artropodi non alati che frequentano il suolo, il tasso di endemismo è piuttosto elevato
nei Dipluri (36 specie, 47%), soprattutto negli Japigidi,
e negli Archeognati (14 specie, 30%), più basso in Proturi, Collemboli, Sinfili e Pauropodi e nullo nei Zigentomi. È da ricordare peraltro che proprio su materiale italiano vennero descritte la prima specie conosciuta dei Proturi (Acerentomon doderoi, descritto nel 1907) e anche, fra
gli Aracnidi, la prima specie conosciuta dei Palpigradi
(Eukoenenia mirabilis, descritta nel 1885).
Nell’ambito degli insetti alati il tasso di endemismo,
molto diverso nei vari ordini, è specificato nelle tabelle
5.1-5.4.
Limoniidi
Pediciidi
Tipulidi
Blefariceridi
Psicodidi
Taumaleidi
Simuliidi
Ragionidi
Tabanidi
Acroceridi
Bombiliidi
Asilidi
Dolicopodidi
Sirfidi
Foridi
9
4
27
5
45
5
17
11
1
1
6
15
11
21
8
Otitidi
Lauxaniidi
Agromizidi
Opomizidi
Cloropodi
Eleomizidi
Sferoceridi
Milichiidi
Efidridi
Scatofagidi
Muscidi
Calliforidi
Sarcofagidi
Tachinidi
Totale
4
5
12
1
4
1
3
1
17
3
7
5
3
1
253
Tabella 5.2 - Numero di specie di Ditteri endemiche della fauna italiana, secondo MINELLI et al. (1993-95). Sono elencate solo le famiglie che includono almeno una specie endemica.
È da notare l’assenza di specie endemiche negli ordini
che comprendono ectoparassiti di mammiferi o di uccelli (Ftiratteri, Afanitteri), ricalcando una situazione che si
riscontra anche presso gli elminti parassiti. Non dissimile è peraltro il caso dei numerosissimi ditteri (Tachinidi)
e soprattutto degli imenotteri (Calcidoidei, Proctotrupoidei, Icneumonoidei) che allo stato larvale sono parassiti
di altri insetti.
A prescindere dal regime alimentare o dagli ambienti
di elezione, in ogni caso, il tasso di endemismo si fa generalmente elevato ogniqualvolta si riduca l’attitudine agli
spostamenti, il che significa, per gli insetti, quando le ali
si riducono o scompaiono. Ciò è evidente, ad esempio,
negli Ortotteri, il cui tasso di endemismo è un significativo 27%, con notevoli contingenti di specie ad areale ristretto – spesso relitti glaciali - accantonati in quota sulle Alpi e sugli Appennini.
Nell’ambito dei grandi ordini di insetti, i Coleotteri si
segnalano (ma con enormi differenze fra le diverse famiglie) per l’abbondanza di specie endemiche, mentre queste
sono relativamente scarse negli altri casi (vedi Tabella 5.2
e Tabella 5.4 rispettivamente per Ditteri e Lepidotteri).
Per gli Emitteri, la Checklist elenca 137 specie endemiche italiane, ma non pochi nomi in questa lista sono destinati ad esserne cancellati in seguito a ricerche tassonomi-
242 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Famiglia
Italia endemiche endemiche
%
Acanthocnemidae
1
Aderidae
17
2
12
Agyrtidae
4
Alexiidae
15
7
47
Anobiidae (incl. Ptinidae)
189
10
5
Anthicidae
106
13
12
Anthribidae
22
Aphodiidae
137
5
4
Apionidae
203
7
3
Attelabidae
38
Biphyllidae
3
Bostrychidae
29
Bothrideridae (incl. Anommatidae) 33
8
24
Brachyceridae (incl. Rhyncophoridae) 19
Brentidae
1
Buprestidae
234
13
6
Byrrhidae
38
4
11
Byturidae
2
Cantharidae
207
64
31
Carabidae
1.277
342
27
Cebrionidae
12
5
42
Cerambycidae
274
14
5
Cerophytidae
1
Cerylonidae
9
Cetonidae
28
2
7
Chironidae
1
Cholevidae
237
145
61
Chrysomelidae (incl. Bruchidae,
883
56
6
Orsodacnidae, Megalopodidae)
Ciidae
48
Clambidae
15
Cleridae (incl. Thanerocleridae)
35
2
6
Coccinellidae
126
2
2
Colonidae
25
3
12
Corylophidae
37
2
5
Crowsoniellidae
1
1
100
Cryptophagidae (incl. Hypocopridae) 121
3
2
Cucujidae (incl. Laemophloeidae)
35
Curculionidae
1.664
415
25
Cybocephalidae
15
Dascillidae
4
Dermestidae (incl. Thorictidae)
81
3
4
Derodontidae
3
1
33
Drilidae
4
Dryopidae
17
1
6
Dynastidae
6
1
17
Dytiscidae (incl. Noteridae)
194
17
9
Elateridae
235
25
11
Elmidae
27
2
7
Endecatomidae
1
Endomychidae (incl. Merophysiidae) 40
5
13
Erotylidae
20
Eucinetidae
3
Eucnemidae
21
Georissidae
5
Geotrupidae
21
1
5
Glaphyridae
Gyrinidae
Haliplidae
Helophoridae
Heteroceridae
Histeridae
Hybosoridae
Hydraenidae
Hydrochidae
Hydrophilidae
Hydroscaphidae
Hygrobiidae
Kateretidae (= Brachypteridae)
Lampyridae
Languriidae
Latridiidae
Leiodidae (incl. Platypsyllidae)
Limnichidae
Lucanidae
Lycidae
Lyctidae
Lymexylidae
Melandryidae
Meloidae
Melolonthidae
Melyridae (incl. Malachidae,
Gietellidae, Dasytidae)
Monotomidae (= Rhizophagidae)
Mordellidae
Mycetophagidae
Mycteridae
Nemonychidae
Nitidulidae
Nosodendridae
Ochodaeidae
Oedemeridae
Omalisidae
Orphnidae
Pachypodidae
Passandridae
Pedilidae
Phalacridae
Phloeostichidae
Phloiophilidae
Platypodidae
Prostomidae
Psephenidae
Ptiliidae
Pyrochroidae
Pythidae
Rhipiphoridae
Rutelidae
Salpingidae (incl. Othniidae)
Scarabaeidae
Scirtidae
Scolytidae
Scraptidae
Scydmaenidae
2
12
21
25
18
158
1
151
7
47
2
1
17
21
3
85
105
9
9
6
10
2
33
63
85
225
26
89
19
3
3
180
1
2
43
8
4
2
1
1
35
1
1
2
1
1
74
3
1
9
15
17
50
42
129
47
185
1
50
1
5
9
6
35
23
4
19
4
7
5
7
1
17
3
36
46
5
42
20
10
11
2
1
1
4
50
9
1
1
25
50
1
3
1
1
2
2
22
13
1
14
2
33
9
59
19
32
FAUNA • 243
Silphidae
Silvanidae
Spercheidae
Sphaeridiidae
Sphaeritidae
Sphaeriusidae (= Microsporidae)
Sphindidae
Staphylinidae
(incl. Dasyceridae, Pselaphidae,
Micropeplidae, Scaphidiidae)
Tenebrionidae
(incl. Alleculidae, Lagriidae)
Tetratomidae
Throscidae
Trogidae
Trogossitidae
Urodontidae
Zopheridae (= Colydiidae)
Totale specie
Totale famiglie
28
35
1
36
1
2
3
2.567
1
3
647
25
319
70
22
8
11
10
11
8
38
12.014
130
1
13
che e faunistiche già in corso, anche se per una famiglia di
Eterotteri (Miridi) e un gruppo di Omotteri Sternorrinchi
(le psille) c’è invece da attendersi un futuro allungamento
della lista con recenti scoperte di specie italiane inedite.
Per i Vertebrati, la Checklist elenca 12 specie di Anfibi,
3 specie di Rettili e 4 specie di Mammiferi endemiche per
il territorio italiano, ma questa lista, pur con le incertezze
e le disparità di opinione che si accompagnano a queste
valutazioni tassonomiche, tende ad allungarsi, come si è
già detto a proposito dei toporagni (Tabella 5.5).
Stato di conservazione
8
2.163
Per quanto riguarda i vertebrati terrestri (e d’acqua dolce) della fauna italiana, ben due terzi delle specie ha trovato posto nel Libro rosso degli animali d’Italia redatto dal
WWF Italia (BULGARINI et al., 1998).
21
18
Italia:
numero di specie presenti in Italia.
endemiche:
numero di specie endemiche dell’Italia politica.
endemiche %: percentuale di specie endemiche dell’Italia
politica rispetto al totale delle specie presenti.
superfamiglia
Micropterigoidea
Eriocranioidea
Hepialoidea
Nepticuloidea
Incurvarioidea
Tischerioidea
Tineoidea
Gelechioidea
Cossoidea
Sesioidea
Choreutoidea
Zygaenoidea
Tortricoidea
Urodoidea
Schreckensteinioidea
Epermenioidea
Alucitoidea
Pterophoroidea
Copromorphoidea
Pyraloidea
Papilionoidea
Thyridoidea
Lasiocampoidea
Bombycoidea
Drepanoidea
Axioidea
Geometroidea
Noctuoidea
Totale
famiglie
generi
specie totali
1
1
1
2
4
1
18
18
1
2
1
3
1
1
1
1
1
1
1
2
9
1
2
5
2
1
1
5
88
1
3
6
15
12
2
126
178
8
9
5
8
117
1
1
3
2
29
1
181
80
1
14
22
14
1
190
406
1.436
29
5
10
142
57
7
527
1.048
9
58
11
45
605
1
1
17
14
92
1
530
278
2
28
34
17
1
618
940
5.127
Tabella 5.3 - Elenco delle famiglie di Coleotteri della fauna italiana
(MINELLI et al., 1993-1995, aggiornata al 2002 solo per una parte delle famiglie). Segue da pagina precedente.
specie endemiche
numero
%
12
41,4
specie minacciate
numero
%
3
1
2
30
0,7
3,5
7
45
1
1,3
4,3
11,1
4
16
8,9
2,6
4
4,3
7
50
2,1
18
21
7,5
1
2,9
1
2,9
21
18
192
3,4
1,9
3,8
4
26
0,43
0,5
Tabella 5.4 - I Lepidotteri italiani secondo MINELLI et al.
(1993-95). Per ogni superfamiglia presente in Italia sono
riportati il numero complessivo di famiglie, generi, specie, specie endemiche e specie
minacciate.
244 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
ANFIBI
Euproctus platycephalus (GRAVENHORST, 1829)
Salamandra atra aurorae TREVISAN, 1982
Salamandra salamandra gigliolii EISELT e LANZA, 1956
Salamandrina terdigitata (LACÉPÈDE, 1788)
Triturus alpestris apuanus (BONAPARTE, 1839)
Triturus alpestris inexpectatus DUBOIS e BREUIL, 1983
Triturus italicus (PERACCA, 1898)
Speleomantes ambrosii (LAUZA, 1955)
Speleomantes flavus (STEFANI, 1969)
Speleomantes genei (TEMMINCK e SCHLEGEL, 1838)
Speleomantes imperialis (STEFANI, 1969)
Speleomantes italicus (DUNN, 1923)
Speleomantes supramontis (LAUZA, NASCETTI e BULLINI, 1986)
Bombina pachypus (BONAPARTE, 1838)
Discoglossus pictus pictus OTTH, 1837
Pelobates fuscus insubricus CORNALIA, 1873
Hyla sp. inquirenda
Rana italica DUBOIS, 1987
Rana latastei BOULANGER, 1879
Rana lessonae, 2 ssp. inquirendae
RETTILI
Algyroides fitzingeri (WIEGMANN, 1834)
Archaeolacerta bedriagae paessleri (MERTENS, 1927)
Archaeolacerta bedriagae sardoa (PERACCA, 1903)
Podarcis filfolensis laurentiimuelleri (FEJÉRVÁRY. 1924)
Podarcis tiliguerta ranzii (LANZA, 1967)
Podarcis tiliguerta toro (MERTENS, 1932)
Podarcis wagleriana GISTEL, 1868
Chalcides chalcides (LINNAEUS, 1758)
Elaphe longissima romana (SUCKOW, 1798)
Natrix natrix calabra VANNI e LANZA, in LANZA, 1983
Natrix natrix sicula (CUVIER, 1829)
MAMMIFERI
Sorex samniticus ALTOBELLO. 1926
Sorex arunchi LAPINI e TESTONE, 1998
Crocidura russula ichnusae FESTA, 1912
Crocidura russula cossyrensis CONTOLI, in CONTOLI et al., 1989
Crocidura sicula MILLER, 1901
Talpa romana THOMAS, 1902
Lepus europaeus corsicanus DE WINTON, 1898
Lepus capensis mediterraneus WAGNER, 1841
Eliomys quercinus liparensis KAHMAMM, 1960
Eliomys quercinus sardus BARRETT-HAMILTON, 1901
Microtus savii (DE SÉLYS-LONGCHAMPS, 1838)
Ursus arctos marsicanus ALTOBELLO, 1921
Sus scrofa meridionalis FORSYTH MAJOR, 1882
Cervus elaphus corsicanus ERXLEBEN, 1777
Capreolus capreolus italicus FESTA, 1925
Ovis orientalis musimon (PALLAS, 1811)
Capra ibex ibex LINNACUS, 1738
Tabella 5.5 - Specie e sottospecie di Vertebrati endemiche del territorio
italiano, secondo MINELLI et al. (1993-95).
Assai male documentato è però lo stato di conservazione degli invertebrati: per gli insetti, ad esempio, la
Checklist segnala soltanto due centinaia di specie minacciate. Tuttavia, se si tengono in adeguata considerazione
le specie legate alle spiagge sabbiose e alle dune, quelle
che vivono nel legno morto e quelle che si nutrono in maniera esclusiva di specie vegetali dalla distribuzione limitata, appare chiaro come tale numero rappresenti una notevole sottostima della situazione reale. Indicazioni utili
stanno emergendo dalla lettura critica dei dati di distribuzione raccolti nell’ambito dei progetti di cartografia informatizzata di cui si è detto all’inizio di questo capitolo,
ma notevoli sforzi ulteriori sono necessari e urgenti.
Ambienti maggiormente minacciati
Gli ambienti più profondamente alterati dall’azione antropica negli ultimi decenni sono quelli dei litorali sabbiosi, dei quali sopravvivono solo minuscoli frammenti. Questi ospitano popolazioni animali la cui sopravvivenza non è
messa in pericolo solo dalla sempre incombente minaccia
di una trasformazione in arenili per balneazione, ma altresì, e più seriamente, dalla loro estrema frammentazione e
discontinuità, che rendono oltremodo precaria la sopravvivenza di molte popolazioni, anche di specie il cui areale di
distribuzione è ormai ridotto a un punto sulla carta geografica. Tra gli invertebrati propri della fascia che va dalla zona
di battigia al complesso dunale, molti sono scomparsi da
quasi tutti i tratti di litorale dove erano in precedenza diffusi e ciò vale sia per la fauna di crostacei e di ditteri legata
alle posidonie spiaggiate, sia per i coleotteri predatori, coprofagi o detritivori legati alle spiagge, compreso Scarabaeus sacer, lo scarabeo sacro degli Egizi. Quattro o cinque specie di cicindele (coleotteri) sono localmente quasi estinte e
allo stesso destino sembrano avviarsi anche alcuni scarabeidi coprofagi come Ceratophyus rossii e Heptaulacus rasettii,
due specie esclusive della fauna d’Italia, dove peraltro risultano confinate a pochissime località delle coste toscane.
Altrettanto profonda è stata l’alterazione dei sistemi retrodunali, dove la bonifica delle paludi e dei boschi igrofili
ha determinato la quasi totale cancellazione di caratteristiche formazioni vegetali e della fauna associata, che sopravvive solo in lembi corrispondenti a zone militari o ad antichi latifondi nobiliari. La frammentazione di questi habitat,
poco grave per l’avifauna che è in grado di spostarsi da un’”isola” all’altra, è stata invece deleteria per la fauna minore, in
particolare per gli anfibi, nonché per gli invertebrati (insetti, crostacei) legati alle paludi e alle acque stagnanti dei retroduna. La realizzazione di opportuni corridoi faunistici
potrebbe ovviare, in parte, a questa gravissima situazione.
Un altro problema riguarda la conduzione dei boschi,
soprattutto quelli di latifoglie, dove la regolare pulizia con
rimozione del legno morto ha diffusamente cancellato le
FAUNA • 245
condizioni di esistenza di una ricca fauna invertebrata specializzata, fra cui numerose specie subcorticicole di coleotteri appartenenti alle famiglie degli Zoferidi, dei Botrideridi e dei Cucujidi. Questa stessa gestione forestale ha
avuto ripercussioni anche sulla fauna ornitica. Una fauna entomologica xilofaga di pregio (fra cui diversi coleotteri scarabeoidei dei generi Osmoderma, Gnorimus e Potosia, i Cerambyx e altri grossi Cerambicidi, i Prionini) è
invece vittima degli abbattimenti di alberi secolari malati, spesso tagliati dai forestali o, su suggerimento dei consulenti forestali, dai servizi preposti alla gestione dei giardini pubblici delle amministrazioni locali.
Un saggio molto significativo di questa situazione è offerto dal recente “Libro Rosso degli insetti della Toscana”
(SFORZI e BARTOLOZZI, 2001), in cui sono comprese, accanto a 38 specie di insetti acquatici, ben 256 specie di insetti terrestri, la maggior parte dei quali risulta in effetti
legata agli ambienti costieri oppure ai boschi di bassa quota. Anche questa lista regionale, peraltro, è tutt’altro che
completa, essendo in pratica limitata ai gruppi meglio studiati, in particolare ai Coleotteri e ai Macrolepidotteri.
Faune particolarmente a rischio sono poi quelle cavernicole, in un paese come l’Italia, in cui il fenomeno carsico è esteso praticamente a tutte le regioni e ospita un popolamento fra i più notevoli, non solo a livello europeo.
Oltre che alle consuete cause di distruzione o di disturbo,
diretto o indiretto, gli animali cavernicoli continuano in
molte aree ad essere soggetti a un esorbitante prelievo da
parte dei collezionisti, incapaci di valutare il danno che la
raccolta indiscriminata porta a popolazioni numericamente esigue, come sono spesso quelle cavernicole.
Va segnalata anche la spontanea ripresa delle popolazioni di altri animali, a seguito del modificarsi della pressione antropica sugli ambienti di loro elezione, come è il
caso del picchio nero, dell’aquila reale, del camoscio alpino, della marmotta.
Fig. 5.1 - Marmota marmota, Parco Nazionale del Gran Paradiso (foto di A.Carni).
In molti casi, le cause di rarefazione delle specie sono
multiple, soprattutto nel caso di animali a vita anfibia,
come la lontra, che ha ovviamente risentito delle alterazioni dell’ambiente d’acqua dolce da cui trae il proprio
nutrimento (come conseguenza della regimazione delle
acque e, in maniera subordinata, dell’aumento del loro
carico inquinante, oltre che di una persecuzione diretta
contro la specie), ma anche di quelle del circostante ambiente terrestre, in particolare con la distruzione dei boschi ripariali, perché la lontra abbisogna di alberi maturi
alla cui base possa scavare le proprie tane.
Rarefazione e ripresa numerica di popolazioni
Legislazione
Le cause di variazione degli areali e della consistenza numerica delle popolazioni animali sono in larga prevalenza
da imputarsi all’intervento umano, ma è sempre necessario, anche ai fini di una efficace politica di conservazione,
identificare e separare dalle precedenti le cause di variazione dovute invece a fattori naturali. Ad esempio, la tendenza a un aumento delle temperature medie verificatosi nel
nostro paese nel secolo XX, e non solo per cause antropiche, se da un lato ha favorito l’espansione di specie mediterranee o subtropicali, come lo sciacallo fra i mammiferi,
il gruccione fra gli uccelli e la farfalla monarca fra gli invertebrati, dall’altro lato si è resa responsabile della rarefazione o anche della scomparsa dall’Italia di specie legate ad
ambienti più freschi, come la farfalla Araschnia levana, non
più osservata nel nostro paese da più di un secolo.
La recente normativa internazionale e nazionale sta dando i suoi frutti. Per quanto riguarda gli uccelli, l’applicazione della Direttiva Uccelli ha portato all’individuazione
nel nostro paese di 503 ZPS, per una superficie di quasi
2.500.000 ettari. Ricadono in questo ambito, ad esempio,
l’intera area di nidificazione del grillaio (Falco naumanni)
e il 60% delle coppie nidificanti dell’airone rosso.
Con il recepimento della Direttiva Habitat, sul territorio italiano sono stati individuati ben 2.256 SIC, per una
superficie totale pari a circa il 14,6% del territorio nazionale (vedi § Conservazione in situ). Il completamento dell’istruttoria, fino alla creazione della Rete Natura 2000 e
la successiva gestione di questa sono altri impegni prioritari della nostra politica di conservazione della fauna.
246 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
MOLLUSCHI
[Folco Giusti, Giuseppe Manganelli, Simone Cianfanelli]
Stato delle conoscenze
Le conoscenze relative ai molluschi terrestri italiani (circa 500 specie) sono alquanto eterogenee: l’inquadramento tassonomico di numerosi gruppi di specie rimane ancora decisamente inadeguato, i dati corologici sono ancora scarsi e frammentari e, soprattutto, mancano quasi del
tutto dati sull’ecologia, la biologia e la consistenza delle
popolazioni per le singole specie. Nonostante ciò, è evidente come la malacofauna terrestre italiana mostri una
notevole diversità e una particolare ricchezza, all’origine
delle quali si collocano la posizione geografica, la diversità climatica e ambientale e la complessa storia geologica e
paleogeografica del nostro paese. A ciò corrisponde un elevato grado di endemismo, con numerosi endemiti addirittura a livello di genere (Toffolettia, Lampedusa, Muticaria, Leucostigma, Ichnusotricha, Nienhuisiella, Ichnusomunda, Cernuellopsis, Helicotricha, Ciliellopsis, Tyrrheniellina,
Falkneria, Tyrrheniberus, Tacheocampylaea). Alcuni di questi sono presenti anche in Corsica e nelle Isole Maltesi,
aree faunisticamente pertinenti al nostro paese.
Molte specie hanno una distribuzione fortemente ridotta e sono molto rare. Tuttavia, spesso non esiste una
precisa evidenza che la loro rarità o la limitatezza del loro areale siano da porre in relazione con un recente declino. Pur mancando, infatti, informazioni dettagliate sulla consistenza e sulla distribuzione delle popolazioni, sull’ecologia delle singole specie e sugli eventuali fattori di
rischio che le riguardano, non si può escludere che tale
rarità abbia soltanto cause naturali. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, quindi, queste entità possono essere, più opportunamente, classificate come a minor rischio
(quasi minacciate) (Low Risk (near threatened); IUCN,
1994). Ciò non esclude che debbano essere tenute sotto
osservazione e costante monitoraggio. Solo poche entità
risultano effettivamente o potenzialmente minacciate per
cause non naturali riconducibili all’alterazione, alla frammentazione e/o distruzione dei loro habitat e alla raccolta indiscriminata a fini alimentari e collezionistici.
Stato di conservazione
I biotopi terrestri più a rischio di compromissione antropica per i molluschi terrestri includono gli ambienti
insulari, le dune costiere, i complessi calcarei, le aree forestali e le aree umide.
Gli ambienti insulari, per loro natura limitati nello spazio, spesso soggetti a pesante pressione antropica (sviluppo edilizio, rimboschimento con essenze arboree estranee,
pascolo di ungulati domestici, immissione di specie animali non originarie, incendi, sfruttamento massiccio delle
risorse idriche, discariche, ecc.), sono da sempre soggetti a
profonde alterazioni. Tra le molte specie endemiche di molluschi presenti nelle numerose isole minori italiane (vedi
Tabella 5.6), si possono ricordare sei entità: Oxychilus oglasicola, Oxychilus denatale, Ciliellopsis oglasae, Schileykiella
bodoni, Tyrrheniellina josephi e Tacheocampylaea tacheoides.
specie
Hypnophila emiliana
Hypnophila incerta
Oxychilus alicurensis
Oxychilus denatale
Oxychilus diductus
Oxychilus egadiensis
Oxychilus lagrecai
Oxychilus majori
Oxychilus nortoni
Oxychilus pilula
Oxychilus oglasicola
Fig. 5.2 - Chilostoma cingulatum è una specie subendemica italiana (al
di fuori del nostro paese è presente solo nei dintorni di Lugano), tra le
più importanti fra quelle che vivono sui complessi calcarei. I gruppi di
molluschi rupicoli (Cochlostoma, Chondrina, Medora, Marmorana, ecc.)
sono spesso frammentati in numerose popolazioni isolate, spesso morfologicamente differenziate fra di loro (foto di S. Cianfanelli).
Limax aeolianus
Lampedusa lopadusae
Cernuella usticensis
Ciliellopsis oglasae
Schileykiella bodonii
Tyrrheniellina josephi
Tacheocampylaea tacheoides
distribuzione
Marettimo (Egadi)
Eolie
Alicudi (Eolie)
Marettimo (Egadi)
Lampedusa (Pelagie)
Favignana e Levanzo (Egadi)
Filicudi (Eolie)
Giannutri (Arcipelago Toscano),
Monte Argentario e Ansedonia
Ustica
Capraia (Arcipelago Toscano)
Montecristo e Pianosa (Arcipelago
Toscano)
Eolie
Lampedusa e Lampione (Pelagie)
Ustica
Montecristo (Arcipelago Toscano)
Marettimo (Egadi)
Capraia (Arcipelago Toscano)
e Sardegna
Capraia (Arcipelago Toscano)
Tabella 5.6 - Molluschi terrestri endemici delle piccole isole italiane.
FAUNA • 247
Le dune costiere sono un altro ambiente sottoposto a
forte pressione antropica, conseguente allo sviluppo del
turismo. Tra le specie viventi in questo ambiente, alcune
hanno una distribuzione ridotta, come Ichnusomunda sacchii, una specie recentemente descritta, propria delle dune sabbiose di una ristretta area costiera della Sardegna
occidentale.
I complessi calcarei rappresentano un habitat molto favorevole per molte specie di gasteropodi adattate a vivere tra la vegetazione xerofila e/o sulle nude pareti ricoperte solo da licheni. A causa della loro distribuzione spesso
frammentaria, i rilievi calcarei annoverano, nel loro insieme, una fauna ad elevato connotato endemico. Molte
specie calcifile sono rappresentate da ricche popolazioni
e non corrono alcun pericolo di estinzione. Altre, soprattutto se con ridotta distribuzione, come Cochlostoma canestrinii, Renea bourguignatiana, Platyla sardoa, Xerosecta giustii e Cantareus mazzullii, possono invece essere a
rischio. Altre ancora possono risentire negativamente delle attività umane, in particolare di quelle estrattive. Quest’ultimo sembra sia il caso di Chondrina oligodonta.
Venendo alle malacofaune legate ad ambienti forestali, si deve rilevare che sia il disboscamento, sia pratiche
colturali meno distruttive, come la ceduazione o il rimboschimento con conifere, hanno effetti negativi. Anche
gli incendi, che tanto frequentemente colpiscono vaste
aree della penisola, sono estremanente distruttivi per le
specie nemorali. Molti molluschi terrestri necessitano di
ambienti maturi, inalterati e caratterizzati da suoli basici
e, quindi, mal sopravvivono nei suoli acidificati dalle co-
Fig. 5.3 - Daudebardia rufa, una specie vivente nella lettiera, sotto il
legno marcescente o sotto pietre, in biotopi sia forestali sia più o meno aperti, è presente in Italia solo nelle regioni centromeridionali, in
Sicilia e in Sardegna (foto di S. Cianfanelli).
Fig. 5.4 - Due specie del genere Oxychilus: Oxychilus meridionalis (destra) è un’entità epigea abbastanza diffusa in tutta la Toscana e Oxychilus paulucciae (sinistra) è un’entità troglobia, endemica delle Alpi
Apuane e della Garfagnana. Le specie di questo genere, importanti
predatori di fauna edafica, presentano un elevato grado di endemismo
e hanno, quindi, un notevole interesse conservazionistico (foto di S.
Cianfanelli).
nifere. È infine verosimile che la riduzione di alcune foreste, con piante ad alto fusto, sia la causa del declino di
specie come Balea perversa.
Tra le entità più a rischio per l’alterazione e/o la distruzione dell’habitat si devono includere anche specie igrofile, come quelle viventi in prossimità degli ambienti umidi. Alcune di queste, come Vertigo moulinsiana, sembrano aver subito una recente marcata riduzione del loro areale italiano.
Per quanto riguarda le minacce dirette alle singole entità, si possono individuare due diverse situazioni: prelievo a fini alimentari e prelievo a fini collezionistici. Nel
primo caso, occorre rilevare che solo poche specie hanno, a tutt’oggi, in Italia, un interesse alimentare. In questa categoria rientrano le specie più grandi degli Igromiidi (Cernuella virgata) e degli Elicidi (Theba pisana, Eobania vermiculata, Cantareus apertus, Cantareus aspersus,
248 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Helix spp.), in genere abbastanza comuni sul territorio
italiano. Solo talune popolazioni naturali di Helix pomatia hanno subito un certo declino come conseguenza dell’eccessiva raccolta.
Per le specie di interesse alimentare oltre al prelievo, esiste un altro fattore di rischio: la traslocazione di individui
da una località all’altra, al fine di realizzare allevamenti
commerciali. Ciò, oltre a compromettere l’individualità
genetica delle popolazioni autoctone, può anche causare
l’introduzione di entità estranee in località non comprese
nell’areale originario (vedi l’avventiziato di Helix lucorum
in Sardegna, Piemonte e Friuli Venezia Giulia). Nel secondo caso, occorre sottolineare come il collezionismo naturalistico potrebbe rivelarsi una pratica non dannosa qualora ci si limitasse alla raccolta delle sole conchiglie, ma
pesantemente negativa per le specie più rare, quando l’interesse, sostenuto da motivi di scambio o di commercio,
portasse alla ricerca di conchiglie perfettamente conservate, ottenibili solo tramite sacrificio di esemplari viventi.
Misure specifiche, mirate alla conservazione di molluschi terrestri (e di acqua dolce), sono particolarmente difficili da proporre. La strategia più ovvia è quella di garantire protezione a ciascuna specie, tramite la salvaguardia
del relativo habitat. Ma questa strategia può risultare perseguibile solo per le specie ad ampia distribuzione e buona capacità dispersiva, legate ad ambienti di un certo interesse faunistico, ad esempio quelli palustri, facilmente
delimitabili e spesso già oggetto di numerose azioni di tutela. È, invece, molto più difficile proporre strategie di
conservazione per le specie con distribuzione molto ridotta. La protezione di singoli siti, a meno che questi non
siano inseriti all’interno di aree protette, è realisticamente poco attuabile per difficoltà sia amministrativo-politiche che logistiche (gestione e vigilanza del sito).
FAUNA • 249
COLEOTTERI
[Paolo Audisio, Augusto Vigna Taglianti]
Stato delle conoscenze
All’interno del regno animale, i Coleotteri sono l’ordine che comprende il maggior numero di specie note: si
può calcolare che a livello mondiale circa 400.000 siano
le specie attualmente descritte e di credibile validità tassonomica. Più complessa è la stima delle specie ancora
non descritte, soprattutto nelle aree tropicali e subtropicali; le diverse valutazioni proposte, utilizzando diversi
modelli predittivi, oscillano tra poche altre centinaia di
migliaia e diversi milioni di specie.
I Coleotteri rappresentano in ogni caso una frazione rilevantissima dell’intera biodiversità animale, valutabile su
scala mondiale intorno al 25% del numero totale di specie animali riconosciute; nelle aree tropicali e subtropicali la percentuale tende ad aumentare (intorno al 30%),
mentre scende con una certa regolarità nelle aree temperate (intorno al 20% o poco più). In Italia i Coleotteri costituiscono in effetti il 21,5% della fauna totale. In questa sede verrà trattato l’intero ordine, per ovvie ragioni di
completezza e di unitarietà nell’affrontare temi generali di
diversità e zooogeografia del gruppo, sebbene una piccola percentuale di specie (circa il 4%) e di famiglie siano
strettamente o almeno parzialmente acquatiche (alcuni
cenni sui Coleotteri acquatici verranno dunque fatti anche nella sezione dedicata alla entomofauna acquatica).
Nell’ambito dell’intero ordine si riconoscono circa 170
differenti famiglie su scala mondiale (secondo altre classificazioni se ne possono riconoscere fino a circa 190, ma
comunque almeno 150). Di queste famiglie, i tre quarti
(circa 130) sono rappresentati nella fauna italiana.
In Europa, e in particolare in Italia, il livello delle conoscenze complessive sull’intero ordine è ormai da considerare da medio-alto ad alto per la maggior parte delle
famiglie. Si ritiene che in Europa, intesa nell’estensione
geografica recentemente adottata dal progetto dell’Unione europea “Fauna Europaea” (escludendo dunque le aree
asiatiche anatoliche della Turchia e quelle euro-asiatiche
circum-caucasiche, ricchissime di endemismi, ma comprendendo la parte politicamente europea della Macaronesia), le specie di Coleotteri siano nell’ordine di 28.00030.000 (l’inventario aggiornato e attendibile, rivisto dai
migliori specialisti delle differenti famiglie, è disponibile
nel sito <http://www.faunaeur.org>). Per l’Italia esistono
i dati piuttosto accurati desumibili dalle checklist nazionali recentemente pubblicate (MINELLI et al., 1993-1995),
che indicano in poco meno di 12.000 (11.989 comprese alcune decine di taxa dubbi) le specie presenti nel nostro Paese.
Le percentuali delle specie italiane, rispetto a quelle europee, sono peraltro molto variabili per le diverse famiglie, essendo sostanzialmente differenti i tassi di endemizzazione. In sintesi (vedi Tabella 5.3), la fauna italiana comprende, rispetto al totale europeo, una frazione prossima
o inferiore al 30% nelle famiglie con tasso elevato di endemismo (come molti gruppi di predatori, microfagi o
saprofagi a bassa vagilità legati al suolo o all’ambiente sotterraneo, come Carabidi, Colevidi, Tenebrionidi e alcune sottofamiglie di Stafilinidi o gruppi dulcacquicoli associati prevalentemente al rhytral di media quota (come
gli Idrenidi) o in gruppi maggiormente rappresentati in
aree con caratteristiche bioclimatiche particolari (come i
Meloidi, particolarmente abbondanti nelle aree steppiche). Percentuali che superano invece il 60% sono rilevabili in molti gruppi con prevalenza di fitofagi, coprofagi
o saprofagi, caratterizzati da capacità dispersive medie più
elevate e dalla presenza di molte specie con areale più ampio (es. Nitidulidi, Afodiidi, Aliplidi e molti altri). Una
percentuale media intorno al 40% (28.000/12.000 = 42%)
sembra essere comunque attendibile.
La percentuale delle specie italiane rispetto a quelle note su scala mondiale varia in modo molto drastico in funzione delle esigenze ecologiche delle diverse famiglie; ad
esempio (vedi Tabella 5.7) si passa da percentuali significative come quelle dei Carabidi (circa il 4%), dei Nitidulidi (circa il 5%) e soprattutto degli Idrenidi (ben oltre il
10%) ad altre quasi irrisorie, come quelle dei Cerambicidi (meno dell’1%). Queste divergenze si spiegano bene
considerando come i Cerambicidi siano prevalentemente xilofagi associati ad ambienti forestali; le stratocenosi
e la diversità vegetale in ambito forestale dei paesi tropicali e subtropicali sono però notoriamente di almeno un
ordine di grandezza superiore, rispetto a quello delle aree
temperate. Al contrario, la forte diversificazione presentata nelle aree temperate da alcuni gruppi prevalentemente orofili, come i Carabidi, gli Idrenidi, alcune sottofamiglie di Curculionidi e di Stafilinidi, consente loro di essere rappresentati in numero proporzionalmente più rilevante, da attribuire alle marcate variazioni paleoclimatiche e paleogeografiche che hanno coinvolto le aree temperate dell’Emisfero Settentrionale nel corso delle ultime
decine di milioni di anni e ai conseguenti fenomeni di
speciazione.
Una media del 3% di rappresentatività su scala mondiale sembra comunque attendibile per l’insieme dei Co-
250 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
famiglia
Italia
variazione
totale 2002
Carabidae
1.245 +32 (23n, 6ni, 3r)
1.277
Cerambycidae 272 +5 (1n, 3ni, 3r, -2e)
277
Cetonidae
27
+1 (1n (+1?))
28
Dytiscidae
193
+1 (3ni, -2d)
194
Elmidae
27
0
27
Hydraenidae
145 +6 (1n, 3ni, 3r, -1s)
151
Meloidae
63
0
63
Melyridae
227
-2 (2n, 1ni, -5s)
225
Nitidulidae
174
+6 (2n, 3ni, 1r)
180
Tenebrionidae 317 +2 (1n, 4ni, -3e, )
319
%
+3%
+2%
+4%
+1%
0%
+4%
0%
-1%
+3%
+1%
endemiche
342
14
2
17
2
35
3
46
2
70
%endemiche
27%
5%
7%
9%
7%
23%
5%
20%
1%
22%
Europa
3.530
673
38
381
44
397
175
684
232
1.361
Mondo
32.600
36.000
3.600
3.200
750
1.150
3.000
5.500
3.300
19.000
% I/E
36%
41%
74%
51%
61%
38%
36%
33%
78%
23%
% I/M
4%
1%
1%
6%
4%
13%
2%
4%
5%
2%
Italia: numero di specie presenti in Italia fino al 1993-1995.
Variazione: variazione del numero di specie presenti in Italia, tra il 1993-1995 e il 2002 (d= specie ritenute di presenza dubbia; n = specie nuove per la Scienza; ni = specie nuove per l’Italia; r = taxa rivalutati al rango specifico; s = specie poste in sinonimia con
altre già incluse nella fauna italiana).
totale 2002: numero di specie presenti in Italia, aggiornato al 2002.
%: incremento o decremento percentuale delle specie presenti in Italia nell’ultimo decennio.
endemiche: numero di specie endemiche dell’Italia politica, aggiornate al 2002.
% endemiche: percentuale di specie endemiche dell’Italia politica rispetto al totale delle specie presenti in Italia nell’ambito della famiglia
considerata.
Europa: numero di specie presenti in Europa (a Est fino agli Urali; Turchia Asiatica e aree caucasiche escluse; Isole Canarie, Azzorre
e Madeira incluse); dati provvisori dal progetto “Fauna Europaea”.
Mondo: numero stimato e aggiornato di specie note a livello mondiale.
%I/E: percentuale di specie presenti nell’Italia politica rispetto al totale delle specie presenti in Europa.
%I/M: percentuale di specie presenti nell’Italia politica rispetto al totale delle specie note a livello mondiale
Tabella 5.7 - Andamento di alcuni parametri relativi a famiglie-campione di Coleotteri della fauna italiana (MINELLI et al., 1993-1995, aggiornata al 2002).
leotteri italiani. Se tale percentuale può apparire bassa a
confronto con la diversità dei biomi forestali equatoriali
e intertropicali che ospitano un numero elevatissimo di
specie fitofaghe, xilofaghe e fitosaprofaghe specializzate,
essa è tuttavia altamente significativa per la fascia temperata dell’emisfero settentrionale. Nella regione Paleartica
occidentale, sulla base dei dati attualmente disponibili,
l’Italia rappresenta in effetti (insieme con la Turchia) il
paese a diversità specifica più elevata e può rivestire il ruolo di maggiore hot spot della biodiversità dell’intera area
mediterranea (vedi Scheda Dall’identificazione delle cause all’individuazione dei punti sensibili).
Per quanto concerne il livello di endemismo, la situazione è estremamente variabile da famiglia a famiglia e spesso
anche tra le differenti sottofamiglie e tribù (Tabella 5.8), e
sono riscontrabili sia valori di poco superiori allo zero in
gruppi come Nitidulidi, Monotomidi, Coccinellidi, Scolitidi e molti altri (comprendenti perlopiù specie fitofaghe o
saprofaghe a elevata vagilità), sia valori intorno al 25-30%
o più in gruppi come Carabidi, Colevidi, Idrenidi, Tenebrionidi e altri (comprendenti in massima parte specie predatrici, microfaghe, rizofaghe o saprofaghe a bassa vagilità).
Nel complesso, approssimativamente il 18% delle spe-
cie di Coleotteri italiani è endemico: oltre 2.100 su 12.000,
almeno in riferimento ai confini politici dell’Italia; le specie endemiche del complesso sardo-corso oppure quelle
ilvano-corse non sono quindi comprese in tale conteggio,
al pari degli endemiti alpino-appenninici presenti anche
in Svizzera nel Canton Ticino o di quelli SW-alpini presenti anche in Francia nella valle della Roja. Tenendo quindi conto di questo endemismo biogeografico, e non politico, si possono raggiungere valori significativamente più
elevati, dell’ordine del 20-25%.
Dopo la pubblicazione delle checklist nazionali sono state naturalmente scoperte in Italia e descritte molte specie
nuove per la Scienza; altre, che per vari motivi erano sfuggite al “censimento”, sono state reintrodotte nelle liste nazionali; alcune, erroneamente ritenute sinonimi, sono state rivalutate al rango specifico; altre, studiate più approfonditamente, si sono invece rivelate sinonimi privi di valore
tassonomico o sono state declassate a ranghi sottospecifici; molte, note in aree limitrofe, sono state per la prima volta rinvenute e segnalate anche nell’ambito del territorio nazionale; non poche, appartenenti soprattutto a gruppi tassonomici più facilmente coinvolti nei traffici commerciali
internazionali di derrate alimentari o di altri materiali, so-
FAUNA • 251
Cicindelinae
Cicindelini
Paussinae
Paussini
Brachininae
Brachinini
Omophroninae
Omophronini
Carabinae
Carabini
Cychrini
Nebriinae
Nebriini
Notiophilini
Loricerinae
Loricerini
Elaphrinae
Elaphrini
Siagoninae
Siagonini
Scaritinae
Scaritini
Clivinini
Rhysodinae
Rhysodini
Broscinae
Broscini
Apotominae
Apotomini
Trechinae
Trechini
Bembidiini
Pogonini
Psydrinae
Psydrini
Patrobinae
Patrobini
Pterostichinae
Abacetini
Stomini
Pterostichini
Zabrini
Panagaeinae
Panagaeini
Chlaeniinae
Chlaeniini
Callistini
Oodinae
Oodini
Licininae
Licinini
Harpalinae
Anisodactylini
Stenolophini
Harpalini
Platyninae
N° specie
17
17
1
1
18
18
2
2
68
59
9
58
48
10
1
1
5
5
1
1
76
5
71
3
3
5
5
3
3
417
211
195
11
1
1
3
3
195
1
5
119
70
2
2
17
16
1
2
2
16
16
176
11
46
119
101
?
endemiche
1
1
% endemiche
5
1
1
5
2
14
1
10
9
1
10
10
34
44
17
1
1
2
6
7
2
6
1
7
51
50
1
1
1
1
3
3
76
2
14
13
30
3
1
12
1
8
2
6
1.277
1
2
19
3
5
2
2
1
1
4
43
684
6
27
Tabella 5.8 - Specie di Carabidi italiani, suddivisi nelle differenti sottofamiglie (in grassetto) e tribù (in tondo), con numero di specie, numero di specie endemiche e percentuali di endemismo. ? = specie di
presenza dubbia
34
2
2
40
203
165
38
48
1
1
47
33
24
2
36
9
1
1
5
2
2
3
12
1
2
22
Sphodrini
Platynini
Perigoninae
Perigonini
Odacanthinae
Odacanthini
Cyclosominae
Masoreini
Lebiinae
Apenini
Cymindidini
Lionychini
Dromiini
Demetriadini
Somotrichini
Lebiini
Calleidini
Dryptinae
Dryptini
Zuphiini
Totali
1
21
no state infine introdotte accidentalmente in Italia nel corso degli ultimi anni e sembrano già essersi stabilmente acclimatate. Riunendo i dati disponibili per alcune famigliecampione (Tabella 5.7), abbiamo potuto valutare, lungo
un arco temporale di circa un decennio, un incremento
medio del 2-3%, suddiviso variamente e algebricamente
tra le cinque diverse tipologie di “novità” sopra descritte.
Alla fine del 2002 siamo quindi in grado di stimare intorno a 12.300 le specie di Coleotteri effettivamente note per
l’Italia. Un trend di incremento sostanzialmente simile, o
appena inferiore, può essere previsto anche per il prossimo
decennio; tale trend corrisponde in effetti a un aumento
medio di circa 30 specie all’anno, lo stesso che (tra picchi
e avvallamenti numerici associati alla pubblicazione di grosse revisioni o cataloghi regionali da un lato, o a periodi di
stasi dovuti agli eventi bellici o al casuale calo delle pubblicazioni dall’altro) sembra essersi sostanzialmente mantenuto dalla pubblicazione del catalogo di LUIGIONI (1929),
con 9.979 specie citate a tutt’oggi.
I Coleotteri comprendono 4 sottordini di diversa consistenza numerica, tutti presenti in Italia (Tabella 5.9).
Il più primitivo, gli Arcostemati, è rappresentato dalla sola Crowsoniella relicta, unico membro della famiglia
Crowsoniellidi: scoperta nel 1975, nel suolo di una località del Preappenino laziale (Monti Lepini), è l’unica specie europea autoctona del sottordine.
252 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
SOTTORDINE e
Superfamiglia
ARCOSTEMATI
famiglie presenti in Italia
biologia
specie in Italia
Crowsoniellidi
endogei, forse rizosaproxilofagi
1
Aliplidi, Igrobiidi, Girinidi, Ditiscidi
acquatici predatori o, in minor
misura, fitofagi
prevalentemente predatori
229
ADEFAGI
Carabidi
1.277
MIXOFAGI
POLIFAGI
Idrofiloidei
Stafilinoidei
Scarabeoidei
Scirtoidei
Dascilloidei
Buprestoidei
Birroidei
Elateroidei
Derodontoidei
Bostricoidei
Limexiloidei
Cleroidei
Cucuioidei
(=Clavicorni)
Tenebrionoidei
Crisomeloidei
Curculionoidei
Idroscafidi e Sferiusidi (=Microsporidi)
perlopiù associati ad ambienti
igropetrici, anche termali
Idrofilidi, Idrochidi, Georissidi, Spercheidi,
Sferididi, Isteridi, Sferitidi
Idrenidi, Ptiliidi, Agirtidi, Silfidi, Colevidi,
Leiodidi, Scidmenidi, Stafilinidi
Lucanidi, Trogidi, Geotrupidi, Ocodeidi, Ibosoridi, ,
ScarabeidiAfodiidi, Orfnidi, Glafiridi, Melolontidi,
Rutelidi, Cetoniidi, Dinastidi, Pachipodidi
Scirtidi, Eucinetidi, Clambidi
Dascillidi
prevalentemente acquatici e/o coprofagi
Buprestidi
Elmidi, Driopidi, Limnichidi, Eteroceridi, Psefenidi, Birridi
Cerofitidi, Eucnemidi, Troscidi, Elateridi, Cebrionidi,
Drilidi,Omalisidi, Licidi, Lampiridi, Cantaridi
Derodontidi
Nosodendridi, Dermestidi, Endecatomidi,
Lictidi, Bostrichidi, Anobiidi
Limexilidi
Fleofilidi, Trogossitidi, Cleridi,
Acantocnemidi, Meliridi
Sfindidi, Cateretidi, Nitidulidi, Monotomidi, Fleostichidi,
Silvanidi, Passandridi, Cucuiidi, Falacridi,
Criptofagidi, Languriidi,Erotilidi, Bituridi,Bifillidi,
Botrideridi, Cerilonidi, Alexiidi,
Endomichidi, Coccinellidi, Corilofidi, Latridiidi
Micetofagidi, Ciidi, Tetratomidi, Melandriidi, Mordellidi,
Ripiforidi, Zoferidi, Tenebrionidi, Prostomidi, Edemeridi,
Meloidi, Micteridi, Pitidi, Pirocroidi, Salpingidi, Anticidi,
Aderidi, Scraptidi
Cerambicidi, Crisomelidi
Nemonichidi, Antribidi, Attelabidi, Brentidi,
Curculionidi, Apionidi, Scolitidi, Platipodidi
prevalentemente saprofagi,
o microfagi acquatici
prevalentemente fitofagi
in senso lato o coprofagi
spesso acquatici almeno allo stadio larvale
prevalentemente rizofagi e microfagi
nel suolo, almeno allo stadio larvale
xilofagi o fitofagi
prevalentemente acquatici o igrofili
perlopiù fitofagi in senso lato o predatori
Micetofagi
in prevalenza xilofagi o zoosaprofagi;
spesso di interesse economico
saproxilofagi
prevalentemente predatori
di altri insetti o antofagi
prevalentemente saprofagi
o fitofagi in senso lato
prevalentemente saprofagi o fitofagi
xilofagi e fitofagi
xilofagi e fitofagi
4
255
3.351
372
60
4
234
110
526
3
311
2
273
827
864
1.157
2.062
Tabella 5.9 - Sottordini, superfamiglie e famiglie di Coleotteri rappresentate nella fauna italiana.
Il sottordine Adefagi, oltre a 4 famiglie di predatori
o, in minor misura, fitofagi acquatici, comprende i Carabidi, la più numerosa famiglia di predatori terrestri e
una delle più numerose di Coleotteri: 32.561 specie descritte nel mondo, raggruppate in 1859 generi (LORENZ,
1998). In Italia, le specie di Carabidi sono attualmente
1.277. Nella checklist di VIGNA TAGLIANTI (1993) erano riportate per l’Italia 1.245 specie (oltre a 42 dubbie):
in soli 10 anni questo numero è aumentato di 32 unità
di livello specie, di cui 23 nuove per la Scienza. Questo
fatto può essere messo in rapporto con l’attenzione dedicata a questo gruppo tassonomico, di sicuro interesse
ecologico e biogeografico, ma soprattutto al ruolo di
predatori terrestri specializzati svolto dalla maggioranza delle specie, caratterizzate perlopiù da marcata fedeltà al substrato, scarsa vagilità e tendenza alla endemizzazione (THIELE, 1977).
Il sottordine Mixofagi riunisce un modestissimo grup-
FAUNA • 253
po di oscure famiglie di microscopici ed elusivi Coleotteri acquatici.
Il sottordine dei Polifagi, infine, comprende circa il
95% delle famiglie presenti in Italia e poco meno del 90%
(circa 10.500) delle specie note. Si tratta del sottordine
che ha avuto il maggior successo evolutivo e la più spettacolare radiazione adattativa: le numerosissime famiglie
sono infatti caratterizzate da uno spettro trofico straordinariamente variato, che va dalla predazione al parassitismo, dalla stretta e specializzata fillofagia, antofagia, rizofagia o micetofagia alla microfagia.
e Sardegna, il parametro più rilevante è invece rappresentato dall’elevato tasso di endemismo.
A livello di macrounità ambientali, gli habitat più ricchi di Coleotteri sembrano soprattutto quelli forestali
mesofili montani e submontani, quelli umidi e acquatici sia planiziari che montani, quelli rupestri xerici e infine quelli steppici. Le maggiori percentuali di endemismo sono invece riscontrabili soprattutto negli habitat
cavernicoli e delle microfessure del suolo, in quelli altomontani, in quelli bentonici dulcacquicoli e in quelli
dunali costieri.
Distribuzione
Stato di conservazione
Passando a un’analisi del popolamento coleotterologico
dell’Italia a livello di alcune famiglie o gruppi omogenei
opportunamente selezionati, si possono trarre almeno delle grossolane ma significative indicazioni sulla ripartizione
delle specie italiane per regioni e per macrounità ambientali, a livello dell’intero ordine. Alcuni progetti di banche
dati avviate dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio in collaborazione con diversi gruppi di ricerca e
istituzioni scientifiche pubbliche sono ormai in grado di
fornirci una “fotografia” molto dettagliata e dinamica dello stato delle conoscenze sulla distribuzione di alcune migliaia di specie di invertebrati terrestri e dulcacquicoli; saranno però necessari ancora alcuni anni di sforzi congiunti di specialisti e di gestori ambientali prima che l’intera
biodiversità degli Insetti e dei Coleotteri italiani sia completamente cartografata e aggiornabile on-line da una rete
di esperti autorizzati. Per il momento abbiamo comunque
selezionato quattro gruppi di Coleotteri a ecologia diversissima come i Carabidi Carabini (predatori del suolo), gli
Idrenidi Idrenini (microfagi bentonici sublapidicoli di acque correnti), i Nitidulidi Meligetini (antofagi specializzati) ed Epureini (fitosaprofagi forestali specializzati), su cui
disponiamo già dati aggiornati e dettagliati da utilizzare come base per delle indicazioni di massima.
A livello regionale, in un’analisi di scala già abbastanza raffinata e condotta non su base amministrativa, possiamo subito osservare (Figure 5.5-5.8) come le punte della biodiversità spesso coincidano nei quattro gruppi, individuando una piccola serie di hot spot a livello delle aree
Nord-orientali del Friuli-Venezia Giulia, delle aree alpine e prealpine del Trentino-Alto Adige, delle Alpi Liguri, Marittime e Cozie tra Piemonte e Liguria, dell’alta Toscana tra Toscana ed Emilia-Romagna, dell’Appennino
laziale-abruzzese e infine dell’Appennino calabro-lucano,
tra Calabria e Basilicata; nelle due maggiori isole, Sicilia
Per quanto riguarda lo stato di conservazione della
coleotterofauna italiana, ci limitiamo a ricordare che le
poche specie di Coleotteri compresi nella Direttiva Habitat, meritevoli di tutela a livello comunitario (Tabella 5.10), rappresentano una frazione irrisoria rispetto alle centinaia di specie endemiche o relitte presenti in Italia, in molti casi effettivamente minacciate di locale o
totale estinzione, la cui lista è oggetto di un mirato progetto di studio in corso di realizzazione. Questa lista
comprenderà infatti almeno 500 specie, molte delle quali endemiche italiane, o ad areale fortemente frammentato, o comunque di particolare significato naturalistico come bioindicatori di ecosistemi a loro volta relitti e
minacciati.
Sulla base dei dati disponibili, le aree e le macrounità
ambientali maggiormente a rischio, con un elevato numero di specie endemiche o relitte, sono probabilmente:
- le zone costiere meridionali e orientali della Sicilia,
- le aree meridionali della Sardegna,
- la bassa Toscana e il Lazio,
- la Basilicata e la Calabria jonica,
- la laguna Veneta.
Globalmente, sono da ritenersi a rischio soprattutto le
specie più strettamente associate alle aree planiziarie relitte forestali, quelle legate alle zone umide di tutto il Paese, e infine quelle delle sorgenti e dei piccoli corsi d’acqua nelle principali isole, che sono frequentemente soggetti a distruzione o captazione e talvolta ospitano endemiti con distribuzione anche a carattere puntiforme.
Salvo casi eccezionali, non è invece da considerare realmente a rischio la maggior parte delle numerose specie di Coleotteri endemiche di aree altomontane e cacuminali o di particolari sistemi carsici, che sono solo raramente coinvolte in attività antropiche a carattere distruttivo o invasivo.
254 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
1
2
3
4
FAUNA • 255
Carabidae
*E Carabus olympiae SELLA, 1855
Dityscidae
Graphoderus bilineatus (DE GEER, 1774)
Dytiscus latissimus LINNAEUS, 1758°
Lucanidae
Lucanus cervus (LINNAEUS, 1758)
Cetonidae
[*E Osmoderma cristinae (SPARACIO, 1994) ]
*Osmoderma eremita (SCOPOLI, 1763)
Buprestidae
Buprestis splendens FABRICIUS, 1774
Bostrychidae
Stephanopachys linearis (KUGELANN, 1792)
Stephanopachys substriatus (PAYKULL, 1800)
Cucujidae
Cucujus cinnaberinus (SCOPOLI, 1763)
Cerambycidae
Cerambyx cerdo LINNAEUS, 1758
*Rosalia alpina (LINNAEUS, 1758)
Morimus funereus (MULSANT, 1863)
44.031.0.002.0
N
45.054.0.002.0
45.057.0.005.0
N
N
S
50.006.0.001.0
N
S
50.135.0.001.0
50.135.0.002.0
N
S
52.111.0.001.0
N
S
54.008.0.001.0
54.008.0.003.0
N?
N
Si
55.031.0. 001.0
59.071.0.001.0
59.074.0.001.0
59.100.0.002.0
Sa?
Codici numerici dai fascicoli delle “Checklist
delle specie della Fauna Italiana” (MINELLI,
RUFFO e LA POSTA. 1993-1995)
* = specie prioritaria
E = specie endemica italiana
N: presente in Italia settentrionale; S:
presente in Italia peninsulare;
Si: presente in Sicilia; Sa: presente in
Sardegna.
? = presenza dubbia;
[ ] = specie separata dopo il 1992 da
popolazioni precedentemente
attribuite a Osmoderma eremita,
taxon incluso in Direttiva Habitat.
S
N
N
S
S
Si, Sa
Si
Tabella 5.10 - Specie di Coleotteri d’interesse comunitario presenti in Italia la cui conservazione richiede la designazione di Zone Speciali di
Conservazone (Direttiva Habitat 1992/43, Allegato II).
Fig. 5.5-5.8 - Mappe illustranti l’andamento della ricchezza in specie
della fauna italiana, in alcuni gruppi-campione di Coleotteri. Carabidae Carabini (1); Hydraenidae Hydraenini (2); Nitidulidae Epuraeini (3); Nitidulidae Meligethini (4) (Fonte: MATT – Progetto Checklist e distribuzione della fauna italiana).
256 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
LEPIDOTTERI
non riflette il vero, ma fornisce solo una misura dell’importanza dell’umana soggettività al momento di scegliere
quale gruppo studiare.
[Emilio Balletto]
Stato delle conoscenze
Stato di conservazione
In Italia sono rappresentate tutte le superfamiglie presenti nell’intera Regione Oloartica, vale a dire il 71% di
quelle esistenti. Secondo MINELLI et al. (1995), la fauna
italiana di Lepidotteri comprende 5.127 specie, pari ai
due terzi dell’intera fauna europea. Anche nel caso delle
farfalle diurne la fauna italiana rappresenta i due terzi di
quella europea (BALLETTO e KUDRNA, 1985).
Oltre metà delle specie italiane di Lepidotteri, in genere quelle che fanno parte delle prime 19 superfamiglie
elencate in tabella 5.4 (ad eccezione degli Epialoidei, Sesioidei, Cossoidei e Zigenoidei) hanno adulti di piccole
o piccolissime dimensioni e sono globalmente conosciute col termine descrittivo di “microlepidotteri” (PARENTI, 2000). Il loro numero raggiunge 3.087 specie (60%
del totale) se ai precedenti si sommano i Piraloidei, alcune specie dei quali hanno dimensioni intermedie. Solo le
ultime nove superfamiglie (oltre i già citati Epialoidei, Sesioidei, Cossoidei e Zigenoidei) comprendono quindi specie di dimensioni in genere piuttosto grandi e sono note
nel loro complesso come “macrolepidotteri” o “farfalle”.
A livello tassonomico, le attuali conoscenze sulla lepidotterofauna italiana sono abbastanza buone. Tuttavia, per
molti gruppi manca ancora quell’analisi capillare che sarebbe necessaria per valutare in modo scientifico la distribuzione delle specie sul territorio e il loro effettivo stato
di conservazione. Come si può osservare in tabella 5.4, la
presenza di specie minacciate sembra essere prerogativa dei
gruppi le cui specie sono più appariscenti (Papilionoidei,
Bombicoidei, Noctuoidei). Con ogni probabilità, questo
Specie
Ecologia
Livello
globale
M Acanthobrahmaea europaea
M Cardepia hartigi
M Diachrysia zosimi
(2) Eriogaster catax
(2) Euplagia quadripunctaria
M Euxoa (Euxoa) segnilis
M Hydraecia osseola
(4) Hyles hippophaes
(4) Proserpinus proserpinus
di minaccia
bosco mesofilo e radure
EN
alofila: su chenopodiacee
EN
igrofila: su Sanguisorba
NT
xerofila e sub-nemorale
DD
bosco mesofilo e radure
NT
psammoalofila retrodunale NT
igrofila planiziale
EN
xerofila: su Hippophaë
DD
xerofila: su Epilobium
DD
In ambito europeo, la prima Convenzione Internazionale a occuparsi, fra l’altro, della conservazione dei Lepidotteri fu la Convenzione di Berna (1979), che include nell’Appendice 2 (Specie zoologiche strettamente protette) 26
specie di Lepidotteri europei. Ciò segnò un considerevole
cambiamento rispetto al primo Red Data Book pubblicato
dalla IUCN (WELLS et al., 1983), dove non comparivano
che 5 specie europee (di cui 4 italiane: Parnassius apollo e
3 licenidi del genere Maculinea: M. alcon, M. arion, M. teleius). La Direttiva 92/43/CEE del 21.05.1992, o “Direttiva Habitat”, ha interamente accolto l’elenco riportato in
Convenzione di Berna (App. 2), ripartendolo fra l’Allegato II (specie animali e vegetali d’interesse comunitario la
cui conservazione richiede la designazione di zone speciali di conservazione) e l’Allegato IV (specie animali e vegetali d’interesse comunitario che richiedono protezione rigorosa), come indicato nelle tabelle 5.11 e 5.12.
Specie “bandiera”
Fin dall’inizio, e per ragioni evidenti, al momento di
redigere le prime liste di specie d’invertebrati da proteggere si sono privilegiate le specie appariscenti. L’inclusione di Parnassius apollo fra le specie minacciate, secondo WELLS et al. (1983), riflette certo il precario stato di conservazione di questa specie in molti paesi del
Nord e Centro Europa, ma anche l’obiettiva bellezza e
vistosità di questa farfalla e, forse non ultimo, il “carisma” del suo nome. Considerazioni analoghe si possono
Distribuzione
Status
attuale in Europa in Europa
(classe %)
<1%
<1%
1-%
20-40%
>60%
5-15%
5-15%
5-15%
15-25%
EN
EN
EN
VU
NT
VU
VU
VU
NT
Percentuale italiana
Status
del popolamento
in Italia
europeo
100%
50%
1-5%
5-15%
5-15%
1-5%
20-40%
5-15%
5-15%
CR
CR
VU
NT
NT
VU
VU
NT
NT
Tabella 5.11 - Lepidotteri Bombicoidei e Noctuoidei (falene) segnalati come minacciati in Europa ed elencati nelle appendici 2 e 4 della Direttiva Habitat (numeri fra parentesi a sinistra) o nella Checklist della fauna italiana (MINELLI et al., 1995) [colonna a sinistra: M=”minacciata”]. I dati rappresentano stime “informate” della situazione corrente, secondo Alberto Zilli (in verbis).
FAUNA • 257
Livello di
minaccia
globale
Pyrgus cirsii
VU
Thymelicus actaeon
Parnassius phoebus
(4) Parnassius apollo
Anthocharis damone
Euchloe simplonia
Scolitantides orion
Glaucopsyche alexis
(4) Maculinea arion
(2) Maculinea teleius
Maculinea alcon
Maculinea rebeli
VU
Plebejus trappi
VU
(*) Polyommatus galloi
EN
(*) Polyommatus humedasae
EN
Polyommatus exuberans
CR
Boloria titania
Boloria thore
Euphydryas intermedia
(2) Euphydryas aurinia
Melitaea aetherie
Melitaea aurelia
Melitaea britomartis
(4) Lopinga achine
Melanargia pherusa
EN
Coenonympha tullia
(2) Coenonympha oedippus
(2) Erebia christi
VU
Erebia medusa
Altri papilionoidei citati in Direttiva Habitat
(4) Zerynthia polyxena
NT
(4) Parnassius mnemosyne
NT
(2) Papilio hospiton
NT
(4) Papilio alexanor
NT
(2) Lycaena dispar
NT
(4) Argynnis elisa
NT
(2) Erebia calcaria
NT
(2) Melanargia arge
NT
Livello di
minaccia
in Europa
Trend in Europa
(Classe)
Paesi europei
in cui la specie
è presente
Paesi europei
in cui la specie
è estinta
- 20-50%
- 20-50%
- 15-20%
- 20-50%
- 15-20%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
- 50-80%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
ignoto
ignoto
ignoto
ignoto
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
- 20-50%
-80-100%
- 20-50%
- 20-50%
10
31
7
28
5
3
28
36
37
20
27
17
2
1
1
1
19
12
7
38
3
25
16
29
1
28
14
2
26
1
1
VU
Distribuzione
attuale in
Europa
(classe %)
1-5%
5-10%
<1%
5-15%
<1%
<1%
>15%
>15%
5-15%
5-15%
5-15%
1-5%
<1%
<1%
<1%
<1%
1-5%
5-15%
<1%
5-15%
<1%
5-15%
5-15%
>15
<1
5-15%
1-5%
<1
5-15%
NT
NT
NT
NT
NT
NT
NT
NT
1-5%
5-15%
<1
1-5%
>15
<1
<1
<1
stabile
stabile
stabile
stabile
stabile
stabile
stabile
stabile
22
32
2
9
32
2
3
1
VU
VU
VU
VU
EN
VU
VU
EN
VU
VU
VU
VU
EN
EN
CR
VU
VU
EN
VU
EN
VU
VU
VU
EN
VU
CR
fare a proposito di Papilio hospiton, P. alexanor, Zerynthia polyxena, Parnassius mnemosyne, Lycaena dispar, Argynnis elisa e Melanargia arge. Fra i Bombicoidei fanno
parte di questa categoria Acanthobrahmaea europaea
(Brahmeidi), Hyles hippophaes e Proserpinus proserpinus
(Sfingidi) ed Euplagia quadripunctaria (Noctuoidei Arctiidi). Il caso di quest’ultima specie è particolare, poiché
non è minimamente minacciata in alcuna parte del suo
areale e deve la sua inclusione in Direttiva Habitat al
fatto di essere il simbolo di Rodi e della sua Valle delle
Farfalle (“ssp. rhodosiensis”: cfr. VAN DER MADE e WYNHOFF, 1995; BALLETTO, 1996).
3
1
1
1
1
1
2
1
1
3
2
3
2
2
3
1
Tabella 5.12 - Specie di Papilionoidei (farfalle diurne) minacciate in
Europa (VAN SWAAY e WARREN, 1999). Melanargia pherusa e Polyommatus galloi non sono stati presi in considerazione da questi autori. Il
numero fra parentesi a sinistra, ove presente, indica l’appendice in cui
la specie appare in Direttiva Habitat. Le specie contrassegnate a sinistra con un asterisco sono elencate nell’Appendice 2 della Convenzione di Berna, ma non ancora in Direttiva Habitat. La classe di distribuzione attuale in Europa è espressa in termini di percentuale di quadrati di 10x10 Km in cui ne è nota la presenza.
258 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Specie “ombrello”
Fra i Lepidotteri può trovare sistemazione in questa categoria ancora Parnassius apollo, specie legata, per la sua
riproduzione, a vari tipi di macereti montani la cui conservazione trova in genere scarsa motivazione là dove questo lepidottero non sia presente.
Specie “chiave”
Scorrendo le appendici delle varie Convenzioni di cui
l’Italia è parte contraente o Paese membro, non si ha
l’impressione che al momento della loro stesura ci si sia
molto preoccupati di quest’aspetto della conservazione
biologica, peraltro molto importante. Manca ad esempio qualunque accenno ai Coleotteri coprofagi, che tanto ruolo giocano nel mantenimento e nella gestione dei
pascoli e dei prati-pascolo. Per quanto riguarda le farfalle tuttavia, alcune specie, soprattutto quelle del genere Maculinea, possono ben trovare sistemazione in questa categoria.
Il carattere biologico più importante di queste farfalle riguarda i rapporti di parassitismo obbligatorio esistenti fra le loro larve e diversi Imenotteri Formicidi,
quasi tutti appartenenti al genere Myrmica. Tale rapporto è spesso specie-specifico, con frequente variabilità interpopolazionale, ma in ogni caso le larve della farfalla,
per terminare lo sviluppo, devono essere attivamente trasportate all’interno dei formicai. Qui giunte, potranno
divorare le uova, le larve e le preninfe delle formiche
(Maculinea teleius, M. arion) o, almeno tardivamente,
essere nutrite dalle formiche per trofallassi (M. alcon, M.
rebeli). Fra le specie presenti in Italia, due - M. alcon e
M. teleius - sono igrofile, legate ai molinieti, mentre le
altre due - M. arion e M. rebeli - sono xerofile e si rinvengono in vari tipi di formazioni erbacee montane, da
quelle del Festucion valesiacae nelle Prealpi allo Xerobromion dell’Appennino, ecc. Nella mancanza, che ormai
si verifica quasi ovunque, di una vera struttura di metapopolazione, la sopravvivenza delle popolazioni di Maculinea dipende quindi dalla pianta nutrice delle larve,
ma soprattutto dalla densità dei formicai della specie
ospite nei singoli biotopi, mentre quella delle formiche
è determinata dalla temperatura e dal grado d’umidità
del suolo, quindi sia da fattori dinamici, tra cui l’altezza e densità della copertura erbacea, sia da fattori statici, come il substrato geologico o l’esposizione dei versanti. In ogni caso, il raggiungimento di un adeguato
stato di conservazione per ognuna di queste specie avrà
grande influenza sulla conservazione dell’intero ecosistema circostante.
Specie minacciate
Il grado di minaccia è generalmente valutato in base ai
criteri pubblicati dalla IUCN-SSC (1994), vale a dire in
base all’eventuale bassissima numerosità (effettiva) o alla
diminuzione più o meno accentuata o ancora alle forti
fluttuazioni nel numero d’individui, infine all’areale ristretto della specie e/o della sua area di occupazione (occupancy) all’interno dell’areale stesso. Una discussione sulle singole specie di Lepidotteri citate nelle tabelle 5.115.13 è qui impossibile. Notizie dettagliate su quelle elencate in Convenzione di Berna o in Direttiva Habitat sono disponibili in BALLETTO (1996). Un discorso a parte
meriterebbero poi le specie giudicate minacciate da VAN
SWAAY e WARREN (1999) e dalla checklist italiana. Ci si limita qui a fare riferimento alle tabelle 5.11-5.14, nelle
quali è riportato lo stato di conservazione in Italia di ognuna di esse, valutato in base agli stessi criteri impiegati da
questi autori (Tabella 5.13), oltre ai principali habitat (con
le relative codifiche CORINE land cover, ecc.) in cui esse vivono.
Gestione
A parte 46 specie diffuse soltanto, o in prevalenza, al
di sopra del limite della vegetazione arborea, le farfalle
diurne italiane sono tutte legate ad habitat non climacici. Ad eccezione di Parnassius phoebus, di Euchloe simplonia e di Erebia christi, tutte le specie italiane di farfalle
diurne considerate minacciate (Tabella 5.13) rientrano in
quest’ultima categoria. È quindi evidente che se si desidera assicurarne la conservazione all’interno di piccole
aree protette destinate a questo scopo, si dovranno prevedere ciclici interventi di management, destinati ad esempio al controllo della vegetazione arborea.
Esempi di forme d’intervento
Sfalcio
Molti prati planiziali e montani, ma anche alcune formazioni erbacee mediterranee, per mantenersi necessitano di falciature periodiche. Nei casi in cui l’habitat sia
già particolarmente compromesso, si usano a volte bruciature controllate, da effettuare durante l’inverno. In
ogni caso occorre tenere conto del fatto che, allo scopo
di evitare di uccidere le uova o i bruchi, qualunque intervento deve precedere e/o seguire il periodo in cui sono deposte le uova e in cui si sviluppano le larve. Le specie a volo tardo estivo, come quelle del genere Maculinea, possono sopportare una o due fienagioni primaverili e una autunnale. Se però, ad esempio, nello stesso
FAUNA • 259
biotopo convive Euphydryas aurinia (la forma padana,
nota a volte come ssp. aurinia; cfr. BALLETTO, 1996), lo
sfalcio primaverile non potrà essere troppo radicale. L’ulteriore presenza di Coenonympha oedippus, che frequentemente coabita con le precedenti, può causare ulteriori
problemi, avendo essa adulti che volano all’inizio dell’estate (giugno-luglio) e larve che si alimentano in luglio-settembre. Queste ultime, peraltro, come in molti
altri Satiridi, hanno attività notturna.
Pascolamento
Il pascolamento ovino, equino o vaccino, secondo i
casi, è considerato in molti Paesi del Nord e Centro
specie
(4)
(4)
(4)
(2)
(4)
(2)
(4)
(2)
(*)
(*)
(4)
(2)
(4)
(2)
(2)
(2)
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
distribuzione attuale
in Europa(classe %)
Pyrgus cirsii
Thymelicus actaeon
Zerynthia polyxena
Parnassius apollo
Parnassius phoebus
Parnassius mnemosyne
Papilio hospiton
Papilio alexanor
Anthocharis damone
Euchloe simplonia
Lycaena dispar
Pseudophilotes vicrama
Scolitantides orion
Glaucopsyche alexis
Maculinea arion
Maculinea teleius
Maculinea alcon
Maculinea rebeli
Plebejus trappi
Polyommatus galloi
Polyommatus humedasae
Argynnis elisa
Boloria titania
Boloria thore
Euphydryas aurinia
Euphydryas intermedia
Melitaea aetherie
Melitaea aurelia
Melitaea britomartis
Lopinga achine
Coenonympha oedippus
Coenonympha tullia
Erebia christi
Erebia medusa
Erebia calcaria
Melanargia arge
Melanargia pherusa
Polyommatus exuberans
<1%
>15%
5-15%
>15%
1-5%
5-15%
1-5%
<1
<1%
1-5%
1-5%
<1%
1-5%
>15
5-15%
<1%
<1%
1-5%
<1%
<1%
<1%
<1%
5-15%
1-5%
1-5%
1-5%
<1%
1-5%
<1%
1-5%
1-5%
<1%
<1%
1-5%
<1%
1-5%
<1%
<1%
Europa come un mezzo a costo contenuto per mantenere una cotica erbosa sufficientemente bassa nei prati-pascolo. Nel caso dell’Italia, il pascolamento ha dato prova di essere particolarmente dannoso, probabilmente a causa della elevata temperatura e dell’eccesso
di perdita d’acqua da parte del substrato. Persino al disopra del limite della vegetazione arborea le comunità
di farfalle diurne hanno dimostrato di essere severamente depauperate nelle praterie non solo appenniniche, dove questo era più prevedibile, ma anche alpine.
Il sovrapascolamento vi causa infatti cadute dell’ordine del 55% in termini sia di ricchezza specifica, sia di
trend
percentuale
(in Italia) del popolamento
europeo (stima)
+ 10-25
vedi testo
- 15-25
- 5-15%
- 15-25%
- 15-25%
- 25-50%
- 25-50%
- 15-25%
- 15-25%
+ 125-200%
- 20-50%
- 60%
<1%
1-5%
5-15%
1-5%
1-5%
5-15%
40-60%
1-5%
1-5%
1-5%
1-5%
<1%
<1%
1-5%
1-5%
<1%
<1%
<1%
40-60%
100%
100%
20-40%
1-5%
<1%
1-5%
<1%
15-25%
<1%
<1%
<1%
5-15%
<1%
25-50%
<1%
<1
100%
100%
100%
status in Italia
non minacciata
non minacciata
non minacciata
localmente minacciata
localmente minacciata
localmente minacciata
non minacciata
VU
non minacciata
non minacciata
non minacciata
non minacciata
non minacciata
non minacciata
VU
CR
CR
VU
VU
CR
CR
VU
non minacciata
non minacciata
VU
VU
EN
non minacciata
CR
VU
VU
VU
VU
non minacciata
non minacciata
VU
EN
CR
Tabella 5.13 - Distribuzione attuale, trend osservato e livello di minaccia
in Italia delle specie di farfalle diurne elencate da
VAN S WAAY e WARREN
(1999). Melanargia pherusa e Polyommatus galloi non sono stati presi in
considerazione da questi
autori. La percentuale del
popolamento europeo è
ritenuta indicativa dell’importanza che ha l’Italia per la conservazione
della specie a livello europeo.
260 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
HABITAT
Brughiere submontane
a Vaccinium e Calluna
Formazione ad arbusti nani
della regione paleartica meridionale
Boscaglia montana ad Alnus
Brughiere alpine and subalpine
Brughiere sardo-corse
Brughiera endemica
oromediterranea a
ginestra spinosa
Macchia bassa ad ericacee
Macchia alta a Cistus
Macchia bassa a Cistus
Prati aridi seminaturali: Festuco-Brometalia
Prati aridi seminaturali:
Festuco-Brometalia
Pseudosteppa a graminacee
ed erbe annuali
Steppe centroeuropee
Prati alpini e boreali su suolo siliceo
Prati alpini e subalpini
su suolo calcareo
Pascoli subalpini a Trisetum flavescens
Pascoli a Molinia su terreni
calcarei e argillosi
Pascoli di bassa quota
Faggete boreali (Luzulo-Fagetum)
Faggete appenniniche
con Taxus e Ilex
Faggete appenniniche
con Abies alba
Querco carpineti sudalpini
Foreste (Tilio-Acerion)
su pendici rocciose e in forre
Boschi a carpino nero
Boschi a Quercus trojana
Foreste acidofile ad abete rosso
Foreste acidofile ad abete rosso
Foreste a Pinus halepensis
Leccete
Leccete con Ostrya
Canneti
Paludi a Eriophorum scheuchzeri
Paludi a Carex fusca
Pendici rocciose su
calcare o calcescisto
Pendici rocciose termofile dell’area
Mediterraneo Occidentale
Pendici rocciose calcaree
di tipo medio-Europeo
Pendici rocciose termofile dell’area
Mediterraneo Occidentale
Altre indicazioni
Codice
CORINE
3.2.2.
Codice
paleartico
31.21
Codice
EUNIS
F4.21
Specie minacciate
presenti
12
Numero
di specie
1
Juniperus nana
3.2.2.
31.43
F2.23
26,35
2
Alnetum viridis
Rhododendro-Vaccinion
Astragalus
Brughiere a ginestra
spinosa di Madonie
e Appennini
3.2.2.
3.2.2.
3.2.3.
3.2.3.
31.61
31.42
31.75
31.77
F2.31
F2.22
F7.45
F7.47
25,35
25,35
7
4
2
2
1
1
Mesobromion
Xerobromion
3.2.2.
3.2.3.
3.2.3.
3.2.1.
3.2.1.
32.32
32.33
32.34
34.32
34.33
F5.22
F5.23
F5.24
E1.26
E1.27
22,36
7,14
2,7,9
3,14
2,3,15,18,20,25,36
2
2
3
2
7
Thero-Bracypodietea
3.2.1.
34.5
E1.3
1,2,7,9,13,22,25,27,36
9
Festucion valesiacae
Caricetea curvulae
Elyno-Seslerietea
3.2.1.
3.2.1.
3.2.1.
34.2131
36.3
36.41
Arrhenatheretalia
Eu-Molinion
3.2.1.
3.2.1.
Alopecurus, Sanguisorba
officinalis
Luzulo Fagetum
(Italia sett.)
Appennini e Sicilia
E1.22 8,12,13,14,15,19,21,26,28,38
E4.34
5,10,33
E4.41
10
9
3
1
36.51
37.31
E4.51
E3.51
3,18,28,29,34
11,32
5
2
3.2.1.
38.2
E2.2
11,14,16,17,25,31
6
3.1.1.
41.11
G1.61
6,23
2
3.1.1.
41.181
G1.68
6, 14
2
Appennini e Sicilia
3.1.1.
41.184
G3.15
6,34
2
Querco-Carpinion
3.1.1.
3.1.1.
41.28
41.4
G1.A18
G1.A45
23,30,32
13
3
1
Ostrya carpinifolia
3.1.1.
3.1.1.
3.1.2.
3.1.2.
3.1.2.
3.1.1.
3.1.1.
41.81
41.85
42.21
42.22
42.847
45.3
45.32
G1.7C1
G1.78
G3.1B
G3.1C
G3.747
G2.121
G2.122
34
36
6,23,24,25,34
6
36
14
1
1
1
5
1
1
1
1
4.1.1.
4.1.1.
4.1.1.
3.3.2.
53.11
54.41
54.42
61.2
C3.21
D2.21
D2.22
H2.42
5
5,31
5
4
1
2
1
1
Pendici rocciose 3.3.2.
61.3B
della penisola italiana etc.
Livello montano
3.3.2.
H2.6
4
1
61.31
H2.67
4
1
61.33
H2.51
4
1
Piceetum subalpinum
Piceetum montanum
Querco-carpineti
supra-mediterraneanei
Phragmites australis
Thlaspietea rotundifolii
Pendici rocciose termofile 3.3.2.
su suolo siliceo di tipo alpino
FAUNA • 261
densità di popolamento e, in modo indipendente, dal
tipo di substrato (calcareo o siliceo) e dall’altitudine
(CASTELLANO et al., 2002). Per quanto studi a lungo
termine abbiano indicato che il trend negativo può, almeno a volte, essere invertito, ciò dipenderà dalla struttura di metapopolazione delle varie specie, ove sia ancora presente.
Urgenze operative
Grandissima parte delle aree idonee per assicurare la
conservazione dei Lepidotteri elencati in Direttiva Habitat rappresenta oggi altrettanti pSIC. Fra questi, molto
numerosi, ne sono stati ulteriormente selezionati alcuni,
Tabella 5.14 - Principali habitat rappresentati nei SIC (PBA) italiani
e rispettivi codici CORINE, Paleartici e EUNIS. La colonna “altre
indicazioni” fa riferimento alla situazione italiana. I numeri nella
colonna “specie minacciate presenti” si riferiscono a quelli riportati
prima del nome della specie in Tabella 5.13.
denominati PBAs (Prime Butterfly Areas: cfr. SWAAY e WAR2002; BALLETTO et al., 2002).
Un primo passo potrebbe quindi consistere nel selezionare fra questi ultimi un piccolo numero di zone di adeguata
estensione, volte alla salvaguardia delle 7 specie di Lepidotteri indicati nelle tabelle 5.10 e 5.12 come CR, facendo anche riferimento alla tabella 5.14. In queste Riserve dovrebbero essere previsti seri programmi di management, sufficientemente flessibili da consentire i necessari aggiustamenti legati, di anno in anno, al ciclo stagionale. Queste Riserve dovrebbero quindi avere dotazione sufficiente per il raggiungimento degli scopi che si prefiggono e potrebbero essere impiegate come laboratori in natura per lo studio delle caratteristiche biologiche di queste specie nel nostro Paese.
REN,
262 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
ANFIBI
[Marco Alberto Bologna, Giuseppe Maria Carpaneto]
Stato delle conoscenze
La fauna italiana comprende 40 specie di anfibi (17 urodeli, 23 anuri) di cui 2 introdotte. Il particolare ciclo biologico di questi animali rende difficile il loro collocamento tra la fauna terrestre o fra quella delle acque dolci. Le
specie più legate all’acqua (anche nella vita adulta) sono
state trattate nel capitolo sulla fauna delle acque dolci,
mentre qui verranno ricordate le forme più terricole. Si
vedano le tabelle 5.15-5.17 per un quadro complessivo.
Stato di conservazione
Urodeli
La salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata; Figura 5.9) è uno degli elementi più importanti della
fauna italiana poiché si tratta dell’unico rappresentante di
un genere endemico dell’Italia appenninica. Questa specie,
ancora comune e diffusa, vive presso ruscelli puliti, protetti dalla vegetazione arborea, nei quali si riproduce. La salamandra pezzata (Salamandra salamandra) è comune nella
regione alpina, ma piuttosto rara e localizzata nell’Italia centrale; nell’Appennino Calabro è presente con una sottospecie endemica (S. s. gigliolii). Per proteggere queste popolazioni, bisognerebbe evitare sia il disboscamento lungo i fiumi dove le salamandre si riproducono, sia l’introduzione
di pesci alloctoni, come la trota iridea, che ne predano le
larve. Sull’arco alpino troviamo anche la salamandra alpina (Salamandra atra) e la salamandra di Lanza (Salamandra lanzai). La prima vive nelle Alpi centrali e orientali,
mentre la seconda è endemica delle Alpi Cozie, a cavallo
del confine italo-francese. Infine, la salamandra alpina di
Aurora (S. atra aurorae) è una sottospecie endemica dell’alFamiglie
ANFIBI
URODELI
Salamandridae
Plethodontidae
Proteidae
ANURI
Discoglossidae
Pelobatidae
Pelodytidae
Bufonidae
Hylidae
Ranidae
generi
13
6
4
1
1
7
2
1
1
1
1
1
specie
specie
autoctone alloctone
38
2
17
9
7
1
21
2
4
1
1
2
4
9
2
topiano di Asiago, nel Veneto, e ha un’insolita colorazione
a macchie gialle, simile a quella della salamandra pezzata.
Mentre la salamandra alpina non corre alcun rischio a causa dell’integrità del suo habitat alpino, la salamandra di
Lanza e la salamandra alpina di Aurora meritano un’attività di monitoraggio e tutela per via del loro areale ristretto.
I pletodontidi presentano un solo genere europeo (Speleomantes) con 7 specie, chiamate geotritoni, quasi tutte
endemiche italiane. Quattro di esse sono endemiche di
Sardegna. I geotritoni necessitano di un elevato tasso di
umidità e trascorrono le ore diurne in cavità rocciose (anche grotte). Il disboscamento potrebbe impoverire le zoocenosi di invertebrati di cui essi si nutrono e alterare le
condizioni microclimatiche favorevoli alla loro attività
notturna. Anche l’areale ristretto di questi endemiti induce a tenere il loro status sotto controllo. Si tratta di specie assai interessanti dal punto di vista zoogeografico e filogenetico, essendo dei veri relitti terziari imparentati con
generi della fauna del Nordamerica.
Fig. 5.9 - Salamandrina terdigitata (foto di M. Bologna).
specie
% su specie totali
specie
specie
totali
40
17
9
7
1
23
4
1
1
2
4
11
fauna europea
44,44
29,03
40,90
100
100
56,10
40,00
33,33
50,00
66,66
100
57,89
endemiche
14
9
3
6
subendemiche
5
2
1
1
5
1
3
1
1
1
3
1
Tabella 5.15 - Ordini e
famiglie di anfibi della
fauna italiana: numero di
generi e di specie indigene (autoctone) e introdotte dall’uomo (alloctone);
valori percentuali del numero di specie rispetto all’erpetofauna europea; numero di specie endemiche
(esclusive del territorio politico italiano) e subendemiche (presenti quasi
esclusivamente in territorio politico italiano).
FAUNA • 263
ANFIBI URODELI m s.l.m.
Ao
SALAMANDRIDAE
Euproctus
50-1.800
platycephalus
Salamandra atra
800-2.800
Salamandra lanzai
1.300-2.800
Salamandra
0-1.800
L
salamandra
Salamandrina
50-1.900
terdigitata
Triturus alpestris
50-3.000 L
Triturus carnifex
0-1.800
L
Triturus italicus
0-1.600
Triturus vulgaris
0-1.600
L
PLETHODONTIDAE
Spelomantes ambrosii 0-2.290
Speleomantes flavus
50-1.040
Speleomantes genei
0-600
Speleomantes
0-1.170
imperialis
Speleomantes italicus
50-1.600
Speleomantes
0-2.430
strinatii
Speleomantes
100-1.360
supramontis
PROTEIDAE
Proteus anguinus
Pi
Lo TA Ve FV Li
Em To Ma Um La Ab Mo Cp Pu Ba Cl Si
Sa E
L
L
D
D
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L
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L
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L
L
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L
D
E
L
D
D
E
L
L
L
L
L
L
D
L
L
L
E
E
E
E
E
S
D
L
E
L
L = Localizzata al massimo in un terzo del territorio, D = Diffusa, ? = Presenza dubbia. L’intervallo altimetrico è approssimativo, si riferisce
alle popolazioni italiane e può variare con la latitudine. Le sigle delle colonne corrispondono alle regioni amministrative, tranne l’ultima che
indica se la specie è endemica (E) o subendemica (S).
Tabella 5.16 - Distribuzione regionale e altimetrica degli anfibi anuri in Italia.
Anuri
Gli anuri della fauna italiana appartengono a sei famiglie: Discoglossidi, Pelobatidi, Peloditidi, Bufonidi,
Ilidi, Ranidi. I Discoglossidi vengono trattati nel capitolo sulla fauna delle acque dolci, essendo legati ai corpi
idrici anche durante la fase adulta.
La famiglia Pelobatidi è rappresentata soltanto da una
sottospecie endemica del pelobate fosco (Pelobates fuscus
insubricus), che sopravvive esclusivamente in alcune aree
della Pianura Padana, laddove sono presenti stagni all’interno di zone boschive a latifoglie decidue, torbiere pedemontane e risaie. La famiglia Peloditidi include solo il
pelodite punteggiato (Pelodytes punctatus), specie dell’Europa occidentale che, in Italia, si trova solo in una ventina di siti della Liguria occidentale e del Piemonte. Il
pelobate e il pelodite sono gli anfibi più minacciati della nostra fauna e necessitano di un monitoraggio accurato e della tutela di tutti i siti riproduttivi.
Tra i Bufonidi figurano due specie: il rospo comune
(Bufo bufo) e il rospo smeraldino (Bufo viridis), entram-
be comuni e diffuse. Tuttavia, è opportuno segnalare la
rarefazione di molte popolazioni di rospo smeraldino e
la loro scomparsa da certe località in cui prima era abbondante.
Alla famiglia Ilidi appartiene la raganella italiana (Hyla intermedia), comune e diffusa in tutte le regioni esclusa la Sardegna. Più localizzate sono la raganella tirrenica (H. sarda; Figura 5.10), la raganella mediterranea
(H. meridionalis) e la raganella centroeuropea (H. arborea). La prima si trova in Sardegna, in Corsica e nell’Arcipelago Toscano (Elba e Capraia); la seconda, detta anche raganella baritono, è una specie mediterranea
occidentale che in Italia è presente soltanto in Liguria;
la terza specie sembra essere limitata alla parte orientale del Friuli-Venezia Giulia (Tarvisiano e provincia di
Trieste). Attualmente, la principale minaccia che incombe su questi anfibi è la distruzione degli stagni in
cui si riproducono.
Oltre alle rane verdi (trattate nel capitolo sulla fauna delle acque dolci), la famiglia Ranidi comprende
264 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
ANFIBI ANURI
m s.l.m.
DISCOGLOSSIDAE
Bombina variegata
0-1.900
Bombina pachypus
0-1.650
Discoglossus pictus
0-1.600
Discoglossus sardus
0-1.750
PELOBATIDAE
Pelobates fuscus
0-400
PELODYTIDAE
Pelodytes punctatus
0-600?
BUFONIDAE
Bufo bufo
0-2.200
Bufo viridis
0-1.200
HYLIDAE
Hyla arborea
0-1.400
Hyla intermedia
0-1.550
Hyla meridionalis
0-600
Hyla sarda
0-1.400
RANIDAE
Rana catesbeiana
0-300
Rana lessonae
0-1600
Rana kl. esculenta
0-1.600
Rana bergeri
0-1.600
Rana kl. hispanica
0-1.600
Rana ridibunda
0-350
Rana kurtmuelleri
0-500
Rana dalmatina
0-1.500
Rana italica
0-1.500
Rana latastei
0-450
Rana temporaria
200-3.000
Ao Pi
Lo TA Ve FV Li
L
D
D
Em To Ma Um La Ab Mo Cp Pu Ba Cl Si
D
L
L
L
L
L?
L
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L
L
L
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L
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D
S
E
E
L
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D
?
?
?
?
D
D
L
L
L
L
L
D
L
D
L
L
L
D
L
L
L
L
D
D
L
?
L
D
L
D
L
L
D
D
D
D
L
D
L
D
D
D
D
D
D
D
L
L
L
L
L
E
S
L
L = Localizzata al massimo in un terzo del territorio, D = Diffusa, ? = Presenza dubbia. L’intervallo altimetrico è approssimativo, si riferisce
alle popolazioni italiane e può variare con la latitudine. Le sigle delle colonne corrispondono alle regioni amministrative, tranne l’ultima che
indica se la specie è endemica (E) o subendemica (S).
quattro specie indigene che vengono collettivamente
definite rane brune o rane rosse. La rana agile (R. dalmatina) è principalmente legata agli ambienti forestali
decidui, dove si riproduce in pieno inverno nelle pozze temporanee. La rana di Lataste (R. latastei) è una specie subendemica che vive nelle formazioni boschive residue di latifoglie igrofile del bacino Padano-Veneto (fino all’Istria). Entrambe le specie sono minacciate dalla deforestazione e dall’abbassamento della falda freatica. La rana temporaria (Rana temporaria) è comune e
diffusa in tutto l’arco alpino e nell’Appennino ToscoEmiliano. Inoltre presenta una popolazione relitta nell’Appennino Centrale, sui Monti della Laga, nella stessa località in cui è presente quella ugualmente relitta di
tritone alpestre, quasi a documentare la presenza di una
comunità sopravvissuta dall’ultimo glaciale. Infine, la
rana appenninica (R. italica) è un endemita dell’Italia
peninsulare, comune e diffuso in ambienti forestali di
collina e montagna.
Tabella 5.17 - Distribuzione regionale ed altimetrica degli anfibi
urodeli in Italia.
Fig. 5.10 - Hyla sarda (foto di G. Carpaneto).
FAUNA • 265
RETTILI
[Marco Alberto Bologna, Giuseppe Maria Carpaneto]
Stato delle conoscenze
La fauna italiana annovera 55 specie di Rettili, di cui
3 sicuramente introdotte (alloctone). In generale, i rettili mostrano un grado di vulnerabilità minore rispetto agli
anfibi poiché, non essendo legati agli ambienti acquatici, sono distribuiti più uniformemente sul territorio e resistono meglio alla trasformazione ambientale operata dall’uomo. Inoltre, diverse specie vengono favorite dal processo di ecotonizzazione indotto dall’uomo, come la creazione di radure nel paesaggio forestale. Infine, alcune specie di sauri sono diventate decisamente sinantropiche e
vivono in gran numero nei centri abitati. Tuttavia, esistono numerose specie endemiche, localizzate o maggiormente vulnerabili che hanno risentito fortemente delle
alterazioni ambientali indotte dall’uomo.
Stato di conservazione
Cheloni
Le testuggini d’acqua dolce vengono trattate nel capitolo dedicato a questi ambienti. Analogamente, al capitolo sulla fauna del mare si rinvia per le tartarughe marine che tuttavia, pur non facendo parte degli ambienti terrestri, meritano qui un accenno poiché la tutela dei siti
di nidificazione (situati su pochissime spiagge) rientra nella gestione degli ambienti terrestri costieri.
I Testudinidi presentano una sola specie indigena, la testuggine di Hermann, rappresentata dalla sottospecie nominale (Testudo hermanni hermanni), il cui areale primario comprendeva gran parte dell’Italia peninsulare, la SiciFamiglie
generi
RETTILI
30
CHELONI
7
Emydidae
1
Testudinidae
1
Cheloniidae
4
Dermochelyidae 1
SQUAMATI 23
Gekkonidae
4
Chamaeleonidae 1
Anguidae
1
Lacertidae
8
Scincidae
1
Colubridae
7
Viperidae
1
specie
specie
autoctone alloctone
52
3
7
2
1
1
2
4
1
45
1
4
1
1
17
3
16
4
lia e la Sardegna. Oggi, le principali popolazioni autoctone si trovano in alcune aree costiere e subcostiere protette
del Lazio e della Toscana. Questa specie è ovunque in declino per cause antropiche, come gli incendi dolosi, il prelievo di individui a scopo commerciale e amatoriale, nonché il rilascio in natura di individui portatori di malattie
virali. Un’altra minaccia è rappresentata dall’introduzione
della testuggine moresca (T. graeca) di cui sono stati immessi in natura numerosi individui provenienti dalla cattività: ciò da luogo ad accoppiamenti interspecifici che producono ibridi, riducendo così il tasso di natalità della specie indigena. Un’altra specie alloctona è la testuggine marginata (T. marginata), endemica della Grecia meridionale,
presente soprattutto in Sardegna con popolazioni che risalgono a introduzioni assai antiche. Poiché alcuni autori
evidenziano differenze morfologiche tra la popolazione sarda e quelle greche, sarebbe opportuno tutelare questa specie in Sardegna per l’interesse zoogeografico ed evoluzionistico che rivestono i casi di introduzione storica.
Squamati
L’ordine degli squamati comprende i sauri (lucertole)
e i serpenti. Nella fauna italiana figurano 26 specie di Sauri e 20 di Serpenti. I Sauri italiani appartengono a quattro famiglie: Geconidi, Anguidi, Lacertidi e Scincidi.
La famiglia Geconidi comprende 4 specie italiane più
o meno notturne, adattate ad arrampicarsi su rocce e alberi. Il tarantolino (Euleptes europaea) è un elemento tirrenico (presente soprattutto in Sardegna e nell’Arcipelago Toscano), interessante dal punto di vista zoogeografico, anche se non endemico del nostro paese. Il gimnodattilo dell’Egeo (Cyrtopodion kotschyi) è una specie EMediterranea che forse ha colonizzato il litorale pugliese
per dispersione passiva. Qualunque siano le loro origini,
specie totali % su specie totali
55
9
1
3
4
1
46
4
1
1
17
3
16
4
fauna europea
44,71
75,00
100
100
80,00
100
39,64
57,14
100
33,33
33,33
42,86
61,54
33,33
Tabella 5.18 - Ordini e famiglie
di rettili della fauna italiana: nuendemiche subendemiche mero di generi e di specie indi3
5
gene (autoctone) e introdotte
dall’uomo (alloctone); valori percentuali del numero di specie rispetto all’erpetofauna europea;
numero di specie endemiche
(esclusive del territorio politico
3
5
italiano) e subendemiche (pre1
senti quasi esclusivamente in territorio politico italiano). Esistono anche segnalazioni occasio2
4
nali di altre specie di rettili (Bataguridae, Agamidae, ecc.), di
1
non sicura naturalizzazione, non
considerati nell’analisi.
specie
specie
266 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
RETTILI CHELONI m s.l.m. Ao Pi Lo TA Ve FV Li Em To Ma Um La Ab Mo Cp Pu Ba Cl Si Sa
EMYDIDAE
Emys orbicularis
0-1.500
L L
D D L D L L
L L L L L L L D D
Trachemys scripta
0-500
L L
L L L L L
? L L L L L
L L?
TESTUDINIDAE
Testudo hermanni
0-600
L
L L
L L L L L L L L L
Testudo graeca
0-200
L
L
L
L L
Testudo marginata
0-800
L
L
L
CHELONIIDAE
Caretta caretta
L L L L L
Chelonia mydas
Eretmochelys imbricata
Lepidochelys kempii
DERMOCHELYIDAE
Dermochelys coriacea
E
L = Localizzata al massimo in un terzo del territorio, D = Diffusa, ? = Presenza dubbia. L’intervallo altimetrico è approssimativo, si riferisce
alle popolazioni italiane e può variare con la latitudine. Le sigle delle colonne corrispondono alle regioni amministrative, tranne l’ultima che
indica se la specie è endemica (E) o subendemica (S). Per le 5 specie di tartarughe marine, le indicazioni regionali si riferiscono ai siti di nidificazione accertati su spiagge italiane.
Tabella 5.19 - Distribuzione regionale e altimetrica dei rettili cheloni (testuggini e tartarughe) in Italia.
queste popolazioni pugliesi andrebbero comunque protette poiché rappresentano un caso discusso della zoogeografia mediterranea.
La famiglia Anguidi è rappresentata in Italia da una sola specie: l’orbettino (Anguis fragilis), largamente diffuso
sia in pianura che in montagna. Non sembra correre rischi particolari, a parte l’uso dei pesticidi che può ingerire attraverso gli invertebrati di cui si nutre.
Secondo gli studi tassonomici più recenti, nella fauna
italiana figurano 17 specie di Lacertidi ripartite in 8 generi. Alcune di queste specie hanno una distribuzione estesa a quasi tutte le regioni italiane, altre sono endemiche di
regioni insulari, altre ancora sono presenti in aree di confine, essendo elementi W-mediterranei o balcanici.
Le specie più comuni e diffuse sono il ramarro occidentale (Lacerta bilineata), la lucertola muraiola (Podarcis muralis) e la lucertola campestre (P. sicula).
Di particolare interesse sono gli endemiti sardi o sardo-corsi: la lucertola tiliguerta (P. tiliguerta); una sottospecie della lucertola campestre (P. sicula cettii); la lucertola di Bedriaga (Archaeolacerta bedriagae), piuttosto localizzata; l’algiroide tirrenico (Algyroides fitzingeri). In Sicilia, troviamo la lucertola siciliana o di Wagler (Podarcis
wagleriana). Pur essendo endemiche, queste specie di Sardegna e Sicilia non sembrano essere minacciate da particolari fattori e non mostrano sintomi di declino.
Un discorso a parte va fatto per gli endemiti delle piccole isole mediterranee, sia a livello specifico che sottospecifico. La lucertola delle Eolie (P. raffonei; Figura 5.11),
la cui validità specifica è stata riconosciuta recentemente, non figura ancora nella Checklist della fauna italiana,
ma merita la massima attenzione, essendo il rettile più
minacciato della nostra fauna. La lucertola maltese (P. filfolensis) è endemica delle Isole Maltesi e delle Pelagie (Linosa e Lampione), dove forse è stata introdotta in epoca
storica. Tutti gli endemiti microinsulari possono essere
messi in pericolo dall’invasione di competitori o predatori accidentalmente trasportati nelle isole: è ciò che sta
avvenendo per la lucertola delle Eolie, ormai confinata su
due scogli e una parte dell’Isola di Vulcano. Inoltre vanno tenute presenti le numerose sottospecie P. muralis e di
P. sicula che vivono su piccole isole e isolotti rocciosi, con
popolazioni spesso ridottissime. Una delle più interessanti è la lucertola azzurra dei faraglioni di Capri (Podarcis
sicula coerulea) dalla caratteristica colorazione.
Fig. 5.11 - Podarcis raffonei (foto di M. Capula).
FAUNA • 267
Altre specie di interesse zoogeografico sono quelle mediterranee occidentali, nordafricane o balcaniche che figurano nel territorio italiano limitatamente ad alcune zone di confine più o meno ristrette. Alle prime due categorie appartengono la lucertola ocellata (Timon lepidus;
Figura 5.12), presente in Liguria, e lo psammodromo algerino (Psammodromus algirus), che si trova soltanto nell’Isolotto dei Conigli, presso Lampedusa. Infine, gli elementi più orientali raggiungono l’Italia dalla Slovenia e
dalla Croazia, trovandosi soprattutto nelle province di
Trieste e Gorizia. Essi sono la lucertola di Horvath (Iberolacerta horvathi), la lucertola adriatica (Podarcis melisellensis) e l’algiroide magnifico (Algyroides nigropunctatus).
Nelle torbiere, nei prati umidi e nei pascoli di altitudine dell’Italia settentrionale vive la lucertola vivipara
Fig. 5.12 – Timon lepidus (foto di A. Loy).
(Zootoca vivipara) mentre, ai due estremi dell’arco alpino
(Alpi Marittime e Tarvisiano), in ambienti prativi sassosi, è presente la lucertola agile (Lacerta agilis), specie steppica, diffusa nell’Europa centrale.
Alla famiglia degli Scincidi appartengono la comune
luscengola (Chalcides chalcides) e altre due specie più localizzate: il gongilo (Chalcides ocellatus), diffuso in Sardegna, Sicilia, Isole Pelagie e Pantelleria, e la luscengola striata (Ch. striatus), specie W-Mediterranea che dal confine
francese si spinge fino in Liguria occidentale. Nessuna di
queste specie corre rischi particolari.
Nella fauna italiana figurano due famiglie di Serpenti:
Colubridi e Viperidi.
I Colubridi più largamente diffusi sono il biacco (Coluber viridiflavus), il saettone comune (Elaphe longissima),
il saettone meridionale (E. lineata; Figura 5.13), il cervone (E. quatuorlineata) e il colubro liscio (Coronella austriaca). Più raro e localizzato è il colubro di Riccioli (C.
Fig. 5.13 - Elaphe lineata (foto di A. Venchi).
girondica). Le bisce o natrici vengono trattate nel capitolo sulle acque dolci, poiché predano soprattutto pesci e
anfibi. Tuttavia, le grosse femmine adulte di Natrix natrix si allontanano dall’acqua e si nutrono principalmente di rospi.
Tra i colubridi più localizzati o presenti solo in zone
periferiche del paese, ricordiamo: il colubro leopardino
(Elaphe situla), elemento E-Mediterraneo che in Italia
si trova prevalentemente in Puglia e Sicilia; il colubro
ferro di cavallo (Coluber hippocrepis), elemento W-Mediterraneo presente in Sardegna e a Pantelleria; il colubro lacertino (Malpolon monspessulanus), specie mediterranea che in Italia si rinviene soltanto in Liguria occidentale (dove è comune) e a Lampedusa; il colubro dal
cappuccio (Macroprotodon cucullatus), specie W-Mediterranea, anch’essa presente solo a Lampedusa. Le popolazioni di queste specie, soprattutto il colubro leopardino, andrebbero tutelate e necessitano di monitoraggio continuo.
Tra i Viperidi, l’unica specie comune e diffusa è la vipera comune (Vipera aspis). Le popolazioni più meridionali (Calabria, Sicilia) sono state descritte come una sottospecie a sé (V. a. hugyi), recentemente proposta a rango specifico. A questa forma sembrano appartenere anche gli individui presenti nell’Isola di Montecristo, che
pertanto discenderebbero da esemplari introdotti dall’Italia meridionale in tempi antichi. Il marasso (V. berus) è
limitato all’arco alpino, dove predilige gli ambienti di
montagna e le zone umide, mentre la vipera dal corno (V.
ammodytes) si trova sulle Alpi Nord-orientali e nel Carso
Triestino. Infine, nei pascoli d’alta montagna dell’Appennino Centrale (dai Monti Sibillini al P.N. d’Abruzzo), è
presente la vipera dell’Orsini (V. ursinii), interessante specie a distribuzione relitta.
RETTILI SQUAMATI m s.l.m.
GEKKONIDAE
Cyrtopodion kotschyi
0-450
Euleptes europaea
0-1.350
Hemidactylus turcicus
0-800
Tarentola mauritanica
0-800
CHAMAELEONIDAE
Chamaeleo chamaeleon
ANGUIDAE
Anguis fragilis
0-2.400
LACERTIDAE
Algyroides fitzingeri
0-1.800
Algyroides nigropunctatus 0-400
Archaeolacerta bedriagae 0-1.800
Iberolacerta horvathi
600-1.750
Lacerta agilis
1.700-2.300
Lacerta bilineata
0-2100
Lacerta viridis
0-1.100
Podarcis filfolensis
0-100
Podarcis melisellensis
0-550
Podarcis muralis
0-2.300
Podarcis raffonei
0-100
Podarcis sicula
0-2.000
Podarcis tiliguerta
0-1.800
Podarcis wagleriana
0-1.200
Timon lepidus
0-650
Psammodromus algirus
0-20
Zootoca vivipara
200-3.000
SCINCIDAE
Chalcides chalcides
0-1.600
Chalcides ocellatus
0-1.500
Chalcides striatus
0-600
COLUBRIDAE
Coluber hippocrepis
0-500
Coluber gemonensis
0-400
Coluber viridiflavus
0-2.000
Coronella austriaca
0-2.250
Coronella girondica
0-900
Elaphe lineata
0-1.600
Elaphe longissima
0-2.000
Elaphe quatuorlineata
0-1.000
Elaphe scalaris
0-400
Elaphe situla
0-1.260
Macroprotodon cucullatus 0-50
Malpolon monspessulanum 0-700
Natrix maura
0-1.000
Natrix natrix
0-2.300
Natrix tessellata
0-1.000
Telescopus fallax
0-250
VIPERIDAE
Vipera ammodytes
0-1700
Vipera aspis
0-2800
Vipera berus
600-2500
Vipera ursinii
1500-2400
Ao Pi
Lo TA Ve FV Li
Em To Ma Um La Ab Mo Cp Pu Ba Cl Si
D
L
L
L
L
D
L
L
L
L
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D
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D
D
D
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D
D
D
D
D
L
L
L
L
D
L
L = Localizzata al massimo in un terzo del territorio, D = Diffusa, ? = Presenza dubbia. L’intervallo altimetrico è approssimativo, si riferisce
alle popolazioni italiane e può variare con la latitudine. Le sigle delle colonne corrispondono alle regioni amministrative, tranne l’ultima che
indica se la specie è endemica (E) o subendemica (S).
Tabella 5.20 - Distribuzione regionale ed altimetrica dei rettili squamati (sauri e serpenti) in Italia.
FAUNA • 269
UCCELLI
[Francesco Pinchera]
Stato delle conoscenze e di conservazione
Gli Uccelli, in analogia con diversi altri gruppi faunistici, stanno vivendo una fase di forte dinamismo, con
trasformazioni consistenti rilevabili a livello corologico
e di densità, nonché nella composizione dei popolamenti locali.
Le popolazioni di diverse specie hanno subito e stanno subendo diffusi fenomeni di decremento numerico.
Altre presentano sintomi di recupero parziale, talvolta
in controtendenza demografica rispetto al trend degli
ultimi decenni. Una quota più ridotta di specie si è avvantaggiata delle varie forme di antropizzazione del territorio, raggiungendo assetti demografici particolarmente favorevoli.
Contrastante è l’interpretazione che si può dare dei dinamismi osservabili nelle specie forestali. Il grande incremento delle superfici boscate e il progressivo invecchiamento dei soprassuoli si sono accompagnati a un repentino abbandono di forme di governo tradizionali, che
mantenevano elevati livelli di eterogeneità strutturale. Le
attuali pratiche di esbosco sono ormai riconducibili a poche tipologie e, generalmente, interessano estese aree di
intervento. Diverse specie di uccelli legate agli stadi finali delle successioni ecologiche mantengono popolazioni
limitate e talvolta apparentemente in regresso.
Le trasformazioni degli usi agropastorali, con un forte
incremento delle superfici assoggettate a regime arativo,
hanno portato a un drammatico declino delle superfici a
pascolo, soprattutto nei settori vallivi e di media collina.
L’agricoltura meccanizzata ha a sua volta subito una progressiva intensificazione, con continua perdita di ambienti di margine, mentre nell’orizzonte montano l’agricoltura è pressoché scomparsa. Le forme di allevamento con
conduzione del bestiame sul pascolo sono sopravvissute
in montagna e nelle isole maggiori, ma hanno subito riduzioni nelle superfici coinvolte e semplificazioni nella
composizione degli stock di bestiame allevato.
Oltre alle citate trasformazioni nelle zone umide e negli
usi agro-silvo-pastorali, la grande varietà di specie ornitiche
evidenzia situazioni di elevata sensibilità verso specifici fattori di criticità di natura antropogena, talvolta rilevabili quali fattori decisivi nell’orientare il bilancio tra natalità e mortalità. Eccone un elenco necessariamente parziale:
1. abbattimento di specie non cacciabili (difficoltà nel
contrastare il fenomeno in maniera efficace);
2. inadeguata programmazione nel prelievo di specie
cacciabili;
3. elettrodotti a media tensione non isolati (eventi di elettrocuzione) ed elettrodotti ad alta tensione non segnalati (eventi di collisione);
4. bocconi e carcasse avvelenate;
5. traffico veicolare (collisione, di cui sono vittime soprattutto gli strigiformi);
6. pale eoliche (attualmente relativamente poco diffuse);
7. sorgenti luminose a elevata dispersione lungo le rotte
migratorie (in determinate condizioni atmosferiche:
disorientamento in stormi di passeriformi a migrazione notturna).
L’Italia presenta un ruolo particolarmente importante quale territorio di sosta e di transito di specie migratorie. Un’analisi degli effetti su queste ultime di trasformazioni ambientali o di forme di prelievo eccessivo, condotte in maniera legale o meno, è particolarmente difficile. In tal senso sarebbe opportuno modulare l’intensità del prelievo legale delle specie migratrici in rapporto a un monitoraggio delle consistenze. Inoltre si segnalano alcuni casi di stretta rassomiglianza tra specie cacciabili e specie protette, tali da rendere complessa l’identificazione degli esemplari prima dell’abbattimento.
Per quanto concerne il prelievo non legale di migratori e in generale la persecuzione diretta di specie ornitiche,
è necessario un rafforzamento della sorveglianza di vaste
aree (soprattutto montane) che oggi appaiono non sufficientemente controllate.
In termini di conoscenze di base, sui principali parametri descrittivi di consistenza, distribuzione e tendenza delle popolazioni di uccelli, la copertura delle
specie e del territorio nazionale è da considerarsi insufficiente e disomogenea nel tempo e nello spazio. Vi
è senz’altro l’esigenza di un potenziamento dei programmi di monitoraggio nazionali, che prevedano forme permanenti di controllo e valutazioni di carattere
quantitativo, nonché criteri di omogeneità con gli altri Paesi europei.
Nella seconda metà del XX secolo, il saldo tra le estinzioni e le nuove specie nidificanti in Italia è stato largamente favorevole (Tabelle 5.21 e 5.22), con sette specie
estinte sul territorio nazionale a fronte di 34 nuovi nidificanti, prevalentemente rappresentati da specie immigrate spontaneamente (5 sono le specie alloctone introdotte e naturalizzate, ma altre specie potranno aggiungersi nel prossimo futuro).
Una valutazione del popolamento ornitico del territorio italiano presenta peculiari elementi di complessità, sia
270 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
decennio
Gipeto
Avvoltoio monaco
Albanella reale
Monachella nera
Gypaetus barbatus
Aegypius monachus
Circus cyaneus
Oenanthe leucura
1960
1960
1950
1960
ultime località
di presenza
Sardegna
Sardegna
Pianura Padana
Liguria, Toscana
e Sicilia (Egadi)
decennio e origine
Gipeto
Falco cuculo
Colino della Virginia
Pavoncella
Parrocchetto dal collare
Parrocchetto monaco
Cuculo dal ciuffo
Allocco degli Urali
Rondine rossiccia
Cesena
Bengalino comune
Gypaetus barbatus
Falco vespertinus
Colinus virginianus
Vanellus vanellus
Psittacula krameri
Myiopsitta monachus
Clamator glandarius
Strix uralensis
Hirundo daurica
Turdus pilaris
Amandava amandava
Tabella 5.21 - Specie
non acquatiche di uccelli estinte in Italia
reintrodotto con successo sulle Alpi
nella seconda metà del
progetto di reintroduzione in Sardegna XX secolo
note
località
1990- reintroduzione
1990 - immigrazione
1980 - introduzione
1950 - immigrazione
1970 – introduzione
1980 – introduzione
1960 - immigrazione
1990 - immigrazione
1960 - immigrazione
1960 - immigrazione
1990 – introduzione
coppie
(status anno 2000)
P.N. Stelvio (versante lombardo)
2?
provincia di Parma
20 ca.
Lombardia, Piemonte
4.000-6.000
provincia di Venezia
600-1.000
Genova (Liguria)
30-80
Genova (Liguria)
30-70
Toscana, Sardegna
meno di 10
provincia di Udine
meno di 10
Gargano (Puglia)
15-25
Trentino-Alto Adige
5.000-10.000
Molise, Lazio, Veneto ecc.
100-500
Tabella 5.22 - Nuove specie di uccelli nidificanti in Italia (specie non acquatiche immigrate, introdotte o reintrodotte nella seconda metà del
XX secolo).
per l’elevato numero di specie, sia per le diverse fenologie,
che comportano differenti tipologie di presenza nel territorio nazionale, dalle specie stanziali fino alle accidentali.
Per esigenze di sintesi vengono di seguito citati solo alcuni dei taxa più interessanti per il territorio italiano, soffermandosi su alcuni elementi critici. Per la valutazione
di consistenze, trend e distribuzioni si è fatto riferimento
alle seguenti fonti: BRICHETTI et al. (1992), AMORI et al.
(1993), MESCHINI e FRUGIS (1993), TUCKER e HEATH
(1994), HEGEMEIJER et al. (1997), PINCHERA et al. (1997),
BULGARINI et al. (1998), BRICHETTI e GARIBOLDI (1999),
CALVARIO et al. (1999).
Gli uccelli italiani: specie significative e dinamismo
delle popolazioni
Accipitridi
La famiglia Accipitridi costituisce un gruppo numeroso, con oltre 200 specie di cui 27 interessano l’Italia e solo 13 o 14 sono considerate nidificanti; alcune specie presentano popolazioni distinte a livello sottospecifico nell’area sardo-corsa (Tabella 5.23).
Sul territorio nazionale tutte le specie di Accipitridi
hanno subito decrementi in termini di densità e di areale. Le trasformazioni ambientali hanno senz’altro posto
le condizioni di base per i vasti e repentini decrementi
osservati, ma la persecuzione diretta, spesso rappresen-
tata dall’abbattimento illegale, e la diffusione di bocconi avvelenati hanno costituito e continuano a rappresentare un’importante causa di mortalità, mantenendo diverse popolazioni in equilibrio precario, talvolta impedendone la riespansione anche laddove persistono idonei requisiti ambientali. Alcune specie di Accipitridi presentano una vulnerabilità elevata verso particolari elementi di antropizzazione del territorio, con particolare
riferimento agli elettrodotti a media tensione non isolati (ma anche elettrodotti ad alta tensione non opportunamente segnalati con elementi visibili e le pale eoliche).
Questi manufatti possono rendere addirittura fatali alcuni territori idonei alla presenza delle specie, avviando
catene di episodi di morte che coinvolgono dapprima i
residenti e poi, progressivamente, gli erratici, costituendo una sorta di “buco nero” nei pattern distributivi.
Le quattro specie italiane di avvoltoi presentano uno
status particolarmente problematico (Tabella 5.24). Gli
avvoltoi ancora presenti nel territorio nazionale sono il
capovaccaio (Neophron percnopterus), il grifone (Gyps
fulvus) e il gipeto (Gypaetus barbatus), mentre l’avvoltoio monaco (Aegypius monachus) è estinto (Tabella 5.21).
Tutte le specie hanno subito decrementi, anche repentini, fino all’estinzione per il gipeto e l’avvoltoio monaco. Un programma di reintroduzione del gipeto è stato
avviato nel 1987 sulle Alpi, mentre è in progetto la reintroduzione dell’avvoltoio monaco in Sardegna. Piccoli
FAUNA • 271
Astore sardo
Accipiter gentilis arrigonii
Sparviere di Sardegna Accipiter nisus wolterstorffi
Poiana di Sardegna
Buteo buteo arrigonii
60-80
200
250-350
Sulcis-Inglesiente, Sarrabus-Gerrei,
Monte Arci, Gennargentu Supramonte,
Monti Ferru, Margine-Goceano,
Limbara e Planargia
diffuso in tutte le aree boscate
diffuso in gran parte dell’Isola
riduzione degli habitat
riduzione degli habitat
abbattimenti illegali
Tabella 5.23 - Sottospecie endemiche sardo-corse di Accipitridi: numero di coppie stimate, distribuzione in Sardegna e problemi di conservazione.
contingenti nidificanti di grifone e capovaccaio sopravvivono in aree ristrette, ultime porzioni superstiti di areali originariamente ben più vasti. Il grifone sopravvive in
Sardegna (poche decine di coppie), mentre sono estinte le popolazioni residenti in Sicilia e nell’Italia continentale (sono in corso importanti interventi di reinserimento in natura: Alpi Orientali, Appennino Centrale
e Sicilia, in alcuni casi con il reinsediamento di colonie
nidificanti). Il capovaccaio è ancora presente nell’Italia
meridionale e in Sicilia con un numero esiguo di coppie (in Toscana è in corso un progetto di captive breeding finalizzato alla reintroduzione). Gli avvoltoi sono
vulnerabili verso l’uso illegale di bocconi e, soprattutto,
di carcasse avvelenate. Singoli eventi di intossicazione
possono coinvolgere un numero relativamente elevato
di individui, mettendo a rischio la sopravvivenza delle
specie in intere aree geografiche. In determinate situazioni, la fornitura alimentare artificiale può essere desiderabile, in quanto permette di ridurre la ricerca alimentare sul territorio e quindi il rischio di avvelenamento.
Ulteriori iniziative di immissione in aree idonee alla presenza delle specie potranno forse permettere un’espansione dei siti di presenza nel nostro Paese.
L’areale dell’aquila reale (Aquila chrysaetos) non è limitato all’Europa: la specie presenta una distribuzione
oloartica, che abbraccia gran parte dell’emisfero settentrionale. Essa non viene segnalata come specie a rischio
a livello globale, ma lo status europeo è considerato mediamente sfavorevole. Escludendo la Russia, il nostro
Paese, con 350-400 coppie, ospita il quinto contingente più numeroso in Europa (preceduta da Spagna, Norvegia, Svezia e Inghilterra). Lo status nazionale rivela
una popolazione tendenzialmente stabile e forse in lieve recupero. Ma i decrementi consistenti del passato hanno livellato i contingenti su densità relativamente basse. L’aquila reale presenta una particolare vulnerabilità
verso le carcasse avvelenate e significativo è il rinvenimento di individui morti per l’ingestione di bocconi avvelenati. La specie, e ciò vale in particolare per i giovani del primo anno, presenta una vulnerabilità elevata
verso gli abbattimenti diretti. Le grandi dimensioni del
rapace rendono inoltre possibile la folgorazione sui cavi elettrici della media tensione, nonché la collisione sui
cavi dell’alta tensione. Una possibile nuova causa di mortalità antropogena potrebbe essere rappresentata dalla
recente diffusione di impianti eolici per la produzione
di energia elettrica, in quanto osservazioni in Nordamerica hanno evidenziato elevati tassi di mortalità a carico
di alcune specie di aquila.
L’aquila del Bonelli (Hieraaetus fasciatus), specie a distribuzione geografica paleartico-paleotropicale, con
diffusione sia continentale che insulare, mantiene nel
Mediterraneo una presenza limitata. Nell’Europa mediterranea sono state stimate circa 1000 coppie e la tendenza dominante è verso un’ulteriore progressiva diminuzione. Le aree di presenza in Italia sono soprattutto
Sardegna e Sicilia. Il contingente sardo si è ridotto a pochissime coppie, mentre la Sicilia, roccaforte nazionale per la specie, ospita 10-20 coppie. Il reclutamento
dei giovani nei territori riproduttivi è probabilmente
insufficiente, in quanto gli erratici sono esposti ad elevati tassi di mortalità, sostanzialmente incrementati da
cause antropiche (abbattimento diretto, bocconi avvelenati ed elettrodotti).
Capovaccaio
Neophron percnopterus
meno di 10
Sicilia e Italia meridionale
Grifone
Gyps fulvus
alcune decine
Sardegna, Alpi orientali
e Appennino centrale
Alpi
Gipeto
Gypaetus barbatus
Avvoltoio monaco Aegypius monachus
2?
estinto
programmi di reintroduzione in progetto Ͽ
(Toscana)
programmi di reintroduzione in corso
(Alpi orientali, Appennino centrale, Sicilia)
programmi di reintroduzione in corso (Alpi)
programmi di reintroduzione in progetto
(Sardegna)
Tabella 5.24 - Gli avvoltoi italiani: numero di coppie stimate, aree di presenza in Italia e progetti di reintroduzione.
272 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Falconiformi
Gruppo di uccelli rapaci diurni di dimensioni mediopiccole, diffuso in tutto il mondo. L’ordine comprende
circa 60 specie. Nella regione paleartica occidentale sono
segnalate 12 specie nidificanti del genere Falco, delle quali 7 nidificano anche in Italia. Tra queste il lanario (Falco
biarmicus), il falco della regina (F. eleonorae) e il grillaio (F.
naumanni) (Tabella 5.25) costituiscono importanti priorità di conservazione, anche a livello internazionale.
L’areale del lanario, mediterraneo-afrotropicale, è prevalentemente concentrato nel Continente Africano, mentre le popolazioni dell’Europa meridionale costituiscono
il margine settentrionale. L’areale mediterraneo è limitato a Grecia, Croazia, Turchia e Italia; quest’ultima ospita
la maggior parte della popolazione europea (160-170 coppie stimate, su un totale di 200-330 coppie europee). Il
contingente italiano viene indicato in lento decremento;
mentre in Spagna e in Francia la specie si è estinta in tempi storici. A causa della sua rarità la specie è relativamente esposta ad attività di prelievo illegale di nidiacei.
Il falco della regina presenta una popolazione globale
stimata in circa 4500 coppie e concentrata nel Mediterraneo. L’Italia, con 400-500 coppie stimate (intorno al
10% della popolazione globale) svolge un ruolo molto
importante per la conservazione della specie. Specie sociale, a nidificazione coloniale, è concentrata in pochi siti di nidificazione, prevalentemente ubicati su isole del
Mediterraneo. In territorio italiano, nel Tirreno e nel Canale di Sicilia sono segnalati 10 siti coloniali. Il trend generale è volto alla stabilità, con locali moderati incrementi, mentre nelle Baleari si rilevano consistenti incrementi. La specie è fortemente esposta al prelievo di nidiacei e
adulti nelle colonie. Il prelievo, attualmente meno intenso rispetto al passato, continua a costituire un importante fattore demografico negativo. Non è nota la rilevanza
di eventuali abbattimenti illegali nel periodo autunnale,
prima delle migrazioni verso i quartieri di svernamento.
Il grillaio è l’unica specie di uccelli con un cospicuo contingente nidificante in territorio italiano fra quelle considerate a rischio di estinzione a livello globale nella Lista Rossa dell’IUCN (categoria Vulnerable). Questo rapace ha subito un decremento drammatico nell’Europa occidentale,
mentre l’areale di svernamento in Sud Africa si è ridotto di
Lanario
Falco della regina
Grillaio
Falco biarmicus
Falco eleonorae
Falco naumanni
più della metà in meno di 40 anni. Il decremento stimato
per l’intero areale di nidificazione a corologia eurocentroasiatico-mediterraneo è stato superiore al 20% negli ultimi
10 anni; analoga velocità di declino è attesa per il prossimo
decennio. In Italia il contingente nidificante viene stimato
di 500-1000 coppie, distribuite in Sardegna (in declino), in
Sicilia (stabile) e in Puglia-Basilicata (localmente in aumento). L’incremento in controtendenza segnalato in alcune aree
dell’Italia peninsulare presenta un’importanza strategica per
un eventuale consolidamento della specie nel Mediterraneo
centrale. La specie è legata alla presenza di formazioni steppico-cerealicole utilizzate in maniera estensiva. La sua nidificazione è coloniale, avviene in parete e, in quota rilevante
per l’Italia, anche all’interno di aree urbane (numericamente importante la nidificazione nel centro storico di Matera).
Un programma di conservazione della specie dovrebbe prevedere stretto monitoraggio delle nidificazioni e tutela dei
loro siti e delle aree di caccia.
Tetraonidi
I Tetraonidi sono galliformi di dimensioni medio-grandi, a distribuzione oloartica-circumpolare, con popolazioni relitte di origine postglaciale localizzate sui maggiori rilievi montuosi dell’Eurasia, Alpi comprese. Sui rilievi alpini sono presenti quattro specie: francolino di monte (Bonasa bonasia), pernice bianca (Lagopus mutus), fagiano di
monte (Tetrao tetrix) e gallo cedrone (T. urogallus).
Tutte le specie hanno subito o stanno subendo decrementi in diversi settori dell’areale europeo. Il francolino
di monte presenta una distribuzione relativamente omogenea lungo l’arco alpino, ma mostra una tendenza al decremento estesa alla maggior parte dell’Europa. La pernice bianca evidenzia una generale tendenza alla stabilità, mentre aree di riduzione vengono segnalate sul versante italiano delle Alpi. Il fagiano di monte apparentemente decresce su gran parte dell’areale europeo, con la
sola eccezione della Svezia; in Svizzera e in Italia la specie è considerata fluttuante, mentre in Austria la si reputa in declino. Il numero degli individui di gallo cedrone
si è fortemente ridotto in tutta Europa, con le importanti eccezioni di Svezia e Romania: la popolazione dell’area
alpina (Italia, Francia, Svizzera, Austria e Slovenia) è reputata in lenta e progressiva diminuzione. Tra le cause
Italia peninsulare e Sicilia
Isole del Tirreno e del Canale di Sicilia
Italia meridionale, Sicilia e Sardegna
160-170
400-500
500-1.000
in lento decremento
stabile
stabile
Tabella 5.25 - Le tre specie di Falconidi a priorità di conservazione in Italia: aree in cui sono presenti, consistenza stimata (coppie) e trend delle popolazioni italiane.
FAUNA • 273
dei declini osservati si segnalano la pressione venatoria,
non sempre basata su criteri di adeguata sostenibilità, e
le trasformazioni della selvicoltura moderna, che tende
a ridurre la diversità strutturale e di composizione nelle
aree montane.
Fasianidi
L’Italia mantiene un ruolo primario nella conservazione della coturnice (Alectoris graeca), il cui contingente nidificante, stimato intorno alle 14.000 coppie, rappresenta quasi un terzo del totale globale, distribuito tra la nostra penisola e quella balcanica. Le specie autoctone dei
generi Alectoris e Perdix presentano popolazioni limitate
dalle trasformazioni ambientali e da una gestione venatoria talvolta inadeguata (Tabella 5.26).
Otitidi
Famiglia di uccelli terrestri di dimensioni medio-grandi, presente in Italia con una specie, la gallina prataiola
(Tetrax tetrax), classificata dall’IUCN come “near threatened”, ovvero prossima a qualificarsi nelle categorie a rischio di estinzione della Lista Rossa. Si ha ragione di temere che questo ingresso possa avvenire in tempi relativamente brevi. Il contingente italiano, stimato in 200-500
coppie distribuite tra la Sardegna e la Puglia, è interessato
da un moderato depauperamento. La specie è stata presente in Sicilia fino agli anni ’50; nell’Isola potrebbero ancora sussistere condizioni ambientali idonee alla presenza
della specie. Le cause del regresso sono individuabili nel
prelievo illegale e nell’intensificazione degli usi agricoli e
conseguente arretramento delle aree di pascolo.
Strigiformi
I rapaci notturni comprendono due famiglie (Titonidi e Strigidi), entrambe rappresentate in Italia: i Titonidi
con Tyto alba, specie cosmopolita, e gli Strigidi con i generi Otus, Bubo, Glaucidium, Athene, Strix, Asio ed Aegolius. Gli strigifomi hanno generalmente areali estesi, ma
due delle specie italiane, assiolo (O. scops) e allocco (S.
aluco) presentano una distribuzione prevalentemente europea (eurocentroasiatico-mediterranea). Quasi tutte le
specie si trovano oggi in condizioni sfavorevoli, con estesi decrementi espressi sia da riduzione delle densità sia da
contrazioni di areale.
Importanti decrementi, presumibilmente dovuti in larga misura a una mortalità per elettrocuzione sugli elettrodotti a media tensione, hanno seriamente ridotto il contingente di gufo reale (Bubo bubo), nidificante in Italia,
confermando un trend osservabile in altri Paesi dell’Europa meridionale e orientale. Diversamente la specie è in
sviluppo, talora anche rapido, in diverse nazioni dell’Europa centro-settentrionale, con estesi recuperi anche in
settori fortemente antropizzati (aree urbane, nuclei industriali, discariche), talora spinti da efficaci interventi di
reintroduzione e da estesi programmi di messa in sicurezza delle linee a media tensione.
Caprimulgiformi
L’unica specie regolarmente presente in Italia e nidificante è il succiacapre (Caprimulgus europaeus). Si stima
che poco più della metà dell’areale globale della specie ricada nel continente europeo, ove si osservano fenomeni
di progressivo decremento in gran parte delle nazioni. La
popolazione nidificante in Italia è attualmente stimata in
5.000-15.000 coppie, rappresentanti meno del 5% della
popolazione europea.
Coraciiformi
Ordine relativamente eterogeneo, rappresentato in Italia da quattro famiglie (Alcedinidi, Meropidi, Coraciidi
e Upupidi) con altrettante specie nidificanti, lo status delle quali è considerato sfavorevole a livello europeo (Tabella 5.27).
Particolarmente serio è il decremento della ghiandaia
marina (Coracias garrulus), specie a distribuzione prevalentemente europea (euroturanico-mediterranea); il ritmo del regresso della specie sembra rallentare nei paesi
dell’Europa occidentale e mediterranea, mentre sta accelerando rapidamente nei paesi dell’est. La popolazione nidificante in Italia è fluttuante tra le 300-500 coppie, che
rappresentano ca. il 2% della popolazione europea (con
il crollo dei contingenti orientali questa quota potrebbe
Pernice sarda Alectoris barbara
Coturnice
Alectoris graeca
Sardegna
Alpi, Appennino e Sicilia
5.000-10.000
14.000 ca.
Pernice rossa Alectoris rufa
Rilievi collinari dell’Italia
nord-occidentale
Ambiti di presenza
residuale
alcune migliaia
Starna
Perdix perdix
? (ripopolata)
3 sottospecie: saxatilis (Alpi),
orlandoi (Appennino)
e whitakeri (Sicilia)
ssp. italica presumibilmente estinta
nella sua connotazione originaria
Tabella 5.26 - Fasianidi autoctoni: aree
in cui sono presenti, consistenza stimata (coppie) e sottospecie italiane.
274 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Martin pescatore
Gruccione
Ghiandaia marina
Upupa
Alcedo atthis
Merops apiaster
Coracias garrulus
Upupa epops
5.000
2.000-4.000
300-500
alcune migliaia
aumentare). La specie sverna in Africa ed è presente su
territorio italiano tra marzo e settembre. La ghiandaia marina è legata ad ambienti con elevata disponibilità di insetti, in particolare coleotteri e ortotteri, che raggiungono buone densità nei comprensori con sufficienti superfici mantenute a regime sodivo, mentre tendono a scarseggiare nei comprensori interessati prevalentemente da
superfici a regime arativo. La diffusione di forme di agricoltura intensiva potrebbe avere influito negativamente
anche nei quartieri di svernamento nell’Africa sub-sahariana.
Piciformi
I picchi sono presenti in Italia con 4 generi (Jynx, Picus, Dryocopus e Picoides), comprendenti 9 specie nidificanti. Questi uccelli svolgono un ruolo importante nelle
comunità forestali, contribuendo, con l’intensa attività di
scavo di cavità, alla creazione di siti di nidificazione-rifugio utilizzati anche da molte altre specie forestali (Chirotteri, Passeriformi, Strigiformi, Columbiformi, etc.), che
risultano a volte legate ai picchi da un rapporto di stretta dipendenza. Il picchio nero (D. martius), specie limitata alla zona alpina e a un’area disgiunta nell’Appennino Meridionale (con status ignoto), produce cavità di dimensioni relativamente grandi, ampiamente disperse nel
suo territorio, tanto da essere considerata una delle più
importanti keystone species delle foreste europee. Il suo
trend a scala europea è attualmente dominato da fenomeni di espansione. Un incremento della specie in Italia
sarebbe auspicabile per gli effetti favorevoli sulla distribuzione di altri taxa.
La maggior parte dei picchi–torcicollo (J. torquilla),
picchio verde (Picus viridis), picchio cenerino (P. canus),
picchio rosso mezzano (Picoides medius), picchio dorsobianco (P. leucotos), picchio rosso minore (P. minor) e picchio tridattilo (P. tridactylus) presenta fenomeni di riduzione a livello europeo e per l’Italia è segnalato un analogo trend moderatamente sfavorevole oppure con contingenti tendenzialmente stabili. Fattori di spinta dei decrementi osservati vanno ricercati nelle pratiche selvicolturali moderne, che tendono a ridurre la diversità strutturale e la frequenza di alberi deperenti, mentre gli effetti
dell’incremento della superficie boschiva nazionale non
sembra avere avuto effetti sulle specie sopra citate.
in decremento
fluttuante
in decremento
in decremento
Tabella 5.27 - Status dei Coraciiformi in Italia: coppie
stimate e trend delle popolazioni italiane.
La distribuzione geografica del picchio verde e del picchio rosso mezzano è prevalentemente concentrata in Europa: il picchio verde, in particolare, presenta un contingente nidificante in Italia stimato prudenzialmente in alcune migliaia di coppie, mentre il mezzano mantiene una
presenza localizzata in pochi ambiti forestali del meridione (la consistenza viene stimata in poche centinaia di coppie). Il picchio dorsobianco, scoperto negli anni ’50 nelle faggete dell’Appennino Centrale e nel Gargano, mantiene una piccola e isolata popolazione di poche centinaia di coppie. Anche il picchio tridattilo è stato segnalato
per l’Italia in tempi recenti (anni ’70, nella Provincia di
Bolzano) e mantiene un contingente relativamente contenuto (50-100 coppie) ma in continuità con più ampie
popolazioni transalpine. Il picchio rosso maggiore, la specie più comune a livello nazionale, è presente in Sardegna con una sottospecie endemica (harterti) di consistenza poco nota e presumibilmente valutabile in alcune migliaia di coppie.
Passeriformi
Di questo ordine, che da solo comprende ben oltre la
metà delle specie di uccelli viventi, sono presenti in Italia, come stanziali o di passo regolare, circa 150 specie,
alle quali si aggiungono oltre trenta specie accidentali o
di passo irregolare.
Le specie in decremento sono legate in prevalenza ad
ambienti di pascolo xerico, aree agricole tradizionali non
alterate da trasformazioni agronomiche, formazioni erbacee tipiche di zone umide e boschi maturi con elevata diversità strutturale. La tutela di questi uccelli è prevalentemente legata ad una adeguata gestione degli ambienti da essi frequentati, ovvero a eventuali interventi
finalizzati all’ampliamento di superficie di ecosistemi
oggi limitati ad ambiti residuali. Importante è la conservazione delle popolazioni ridotte e/o insulari, per le
quali è generalmente necessario avviare programmi di
monitoraggio mirato (Tabella 5.28). La tutela delle specie migratorie assume un rilievo particolare, evidenziando esigenze di ulteriore potenziamento delle attività di
monitoraggio; da estendersi sono però anche eventuali
interventi mirati a interferenze di origine antropico, consistenti in trasformazioni ambientali in siti a carattere
strategico e al controllo delle forme di pressione vena-
FAUNA • 275
toria. Limitiamo qui il nostro cenno a rappresentanti di
due famiglie.
Tutte le averle, specie del Genere Lanius (Laniidae),
presentano uno status sfavorevole, inquadrabile nel generale regresso delle specie legate agli ambienti di pascolo. L’averla cenerina (L. minor) e l’averla capirossa (L. senator) presentano areali concentrati in Europa, ove si registrano ampie diminuzioni di areale e di densità. L’averla capirossa è presente in Sardegna e Isole Toscane con la
Codibugnolo di Sicilia
Cincia bigia di Sicilia
Venturone corso
Averla capirossa
della Sardegna
Aegithalos caudatos siculus
Parus palustris siculus
Serinus citrinella corsicana
Lanius senator badius
sottospecie L. s. badius. Tra i Corvidi, famiglia che comprende diverse specie con trend visibilmente orientati verso l’espansione, il gracchio corallino (Pyrrhocorax pyrrhocorax) si segnala per il suo trend negativo, tale da essere
considerato in forte regresso a livello nazionale (la consistenza viene stimata in poche centinaia di coppie), presumibilmente a causa delle trasformazioni negli usi agropastorali delle aree montane.
Sicilia
Sicilia
Sardegna e Arcipelago Toscano
Sardegna e Arcipelago Toscano
consistenza limitata (informazioni scarse)
consistenza limitata (informazioni scarse)
consistenza limitata (informazioni scarse)
consistenza limitata (presumibilmente
in decremento)
Tabella 5.28 - Sottospecie insulari endemiche o subendemiche di Passeriformi, aree italiane in cui sono presenti e note sulla loro vulnerabilità.
276 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
MAMMIFERI
[Francesco Pinchera]
Stato delle conoscenze e di conservazione
I mammiferi italiani, in analogia con molte altre componenti della fauna, stanno vivendo una fase di forte dinamismo, sovente sostenuto da manipolazioni dirette delle popolazioni, con trasformazioni consistenti dei loro
areali geografici e della densità delle loro popolazioni. Non
poche specie, soprattutto fra i Chirotteri, stanno subendo diffusi fenomeni di decremento. Altri, ad esempio gli
artiodattili, presentano importanti dinamiche di recupero, rioccupando ampi settori di areali abbandonati nei secoli scorsi. Diverse specie, con particolare riferimento a
quelle introdotte, hanno conosciuto rapidi incrementi,
raggiungendo assetti demografici particolarmente favorevoli ed evidenziando talvolta effetti negativi a carico di
specie autoctone.
Il vasto fenomeno dell’abbandono progressivo degli usi
agropastorali negli orizzonti montani, con conseguente recupero di superfici boscate, ha favorito non poche specie.
Per contro, l’abbandono di forme di governo tradizionali, che mantenevano elevati livelli di eterogeneità strutturale e di composizione, hanno causato decrementi in altri
gruppi (ad esempio i gliridi). Fattori di spinta nei trend
regressivi di molte specie legate ad ambienti acquatici sono stati gli estesi interventi di bonifica di zone umide, le
captazioni per usi diversi, nonché la diffusa contaminazione delle acque con composti tossici bioaccumulabili.
L’intensificazione degli usi agricoli nei comprensori di
pianura, con un forte incremento delle superfici assoggettate a regime arativo e la progressiva rarefazione degli
ambienti di margine, ha fortemente ridotto la diversità
dei popolamenti, aprendo ampie discontinuità nella distribuzione geografica di molte specie. In numerosi casi,
la continuità distributiva su aree vaste viene assicurata dalle connessioni fornite dai rilievi alpini e appenninici, mentre nei settori planiziari si evidenziano talvolta popolazioni parzialmente o completamente isolate.
La rete delle infrastrutture viarie del Paese interferisce
con la mobilità, contribuendo in maniera sostanziale al
mantenimento di elevati tassi di mortalità di alcune specie particolarmente vulnerabili; mentre nei settori collinari e montani la rete infrastrutturale presenta un discreto
livello di “permeabilità” in corrispondenza di viadotti e
gallerie, nei settori di pianura essa costituisce barriere difficilmente attraversabili, spesso inserite in contesti ambientali fortemente antropizzati, al punto da risultare conge-
stionati. La gestione delle interazioni tra mammalofauna
e infrastrutture viarie dovrebbe prevedere la chiusura completa, con recinzioni adeguate, dei tratti non valicabili per
presenza di traffico intenso e barriera centrale con muro
di cemento, la minimizzazione dei rischi su viabilità alternativa tramite individuazione delle tratte a maggior rischio
e la predisposizione di misure a carattere specifico.
Per diverse specie si rileva una gestione venatoria inadeguata, con insufficiente diffusione di forme di caccia
programmata sulla base di piani di abbattimento commisurati a obiettivi chiaramente definiti. L’organizzazione
della caccia nei Comprensori Alpini, previsti dalla normativa venatoria, presenta vantaggi gestionali che potrebbero essere estesi all’Appennino, con l’istituzione di corrispondenti Comprensori. La progressiva diffusione degli ungulati richiede un progressivo adeguamento nella
cultura venatoria di alcune aree, possibilmente sostenuto
anche da corsi formativi a carattere obbligatorio, già previsti in alcune provincie.
In diverse aree geografiche il bracconaggio a carico degli ungulati è aumentato con l’aumento delle popolazioni. L’insufficiente vigilanza venatoria in alcuni territori e
il valore economico dei capi abbattuti hanno talvolta permesso il consolidarsi di attività illecite di prelievo, probabilmente articolate in contesti organizzativi che vanno oltre la singola persona. In dette aree è auspicabile un rapido potenziamento della sorveglianza, anche nelle ore notturne, sulla base di piani di controllo con periodicità non
prevedibile e l’impiego di personale numericamente adeguato, nonché munito di attrezzature e preparazione sufficienti a contrastare il fenomeno. Il diffuso utilizzo di
bocconi e carcasse avvelenate è una realtà ancora ben radicata in alcuni ambiti, soprattutto montani.
Lo stato delle conoscenze dei principali parametri descrittivi quali la consistenza delle popolazioni, la loro distribuzione e la tendenza alle variazioni è da considerarsi
insufficiente e disomogeneo nel tempo e nello spazio per
alcuni gruppi, primi fra tutti i Chirotteri. Vi è senz’altro
l’esigenza di un programma di monitoraggio esteso e permanente, che preveda anche valutazioni di carattere quantitativo secondo criteri di omogeneità con altri paesi europei. Particolare attenzione dovrebbe essere dedicata al
monitoraggio delle popolazioni insulari con status insufficientemente noto.
Per esigenze di sintesi, maggior enfasi viene data ad alcuni taxa, soffermandosi su alcuni elementi critici, segnalando talvolta le implicazioni gestionali per la conservazione e/o il contenimento di eventuali effetti su altre componenti delle biocenosi. Per valutazioni sulle consisten-
FAUNA • 277
ze, i trend e le distribuzioni si è fatto riferimento alle seguenti fonti: AMORI et al. (1993), FORNASARI et al. (1997),
PINCHERA et al. (1997), BULGARINI et al. (1998), MITCHELL et al. (1999), SPAGNESI e DE MARINIS (2002).
I mammiferi italiani: specie significative e dinamismo
delle popolazioni
Insettivori
Questo ordine di mammiferi di piccole dimensioni,
prevalentemente predatori, è presente in Italia con tre famiglie: Erinaceidi (i ricci, con due specie), Soricidi (i toporagni, con circa 12 specie) e Talpidi (le talpe, con tre
specie). Più di altri gruppi di mammiferi, i Soricidi italiani presentano situazioni di particolare interesse (con
specie endemiche e popolazioni insulari differenziate –
Tabella 5.29) ed elementi che suggeriscono l’esistenza di
specie finora non identificate come Sorex arunchi, da poco descritto, dell’area padana orientale).
Chirotteri
I Chirotteri o Pipistrelli costituiscono un Ordine particolarmente numeroso. In Italia sono presenti tutte le
specie europee (escludendo le accidentali e quelle che interessano solo Canarie, Azzorre ed Egeo orientale), ovvero 30 specie ripartite in quattro famiglie: Rinolofidi, Vespertilionidi, Miniopteridi e Molossidi.
Molti chirotteri sono interessati da consistenti fenomeni di regresso, costituendo il gruppo di mammiferi italiani più rappresentato nella Lista Rossa globale dell’IUCN
(Tabella 5.30) ed essendo tutti inseriti negli allegati II e
IV della Direttiva Habitat. Anche tra le specie rimanenti, però, si rilevano in generale tendenze verso il decremento numerico delle popolazioni con poche eccezioni.
Toporagno appenninico
Crocidura siciliana
Sorex samniticus
Crocidura sicula
Crocidura di Pantelleria
Crocidura cossyrensis
Crocidura rossiccia
della Sardegna
Crocidura russula ichnusae
Mustiolo di Sardegna
Suncus etruscus pachyurus
A livello nazionale, lo stato delle conoscenze su questo
gruppo, interessato da una così elevata quota di specie a
rischio, è attualmente insufficiente.
Il basso tasso riproduttivo, i lunghi tempi di gestazione e svezzamento, la tendenza delle femmine ad aggregarsi in colonie per il parto e l’allevamento costituiscono
elementi di vulnerabilità tipici di questo gruppo, esponendo i chirotteri di intere aree geografiche a eventi di disturbo nei siti frequentati dalle loro colonie. Inoltre, l’alimentazione prevalentemente insettivora e la longevità degli individui li espone a fenomeni di bioaccumulo di composti organoclorurati, metalli pesanti e policlorobifenili,
in misura sufficiente a determinarne la scomparsa di intere colonie.
Lagomorfi
I Lagomorfi sono presenti in Italia con 6 specie della
famiglia dei Leporidi (Tabella 5.31). La validità a livello
di specie della lepre italica (Lepus corsicanus) è stata confermata in tempi recenti, grazie a tecniche di analisi del
DNA mitocondriale, anche se la sua prima descrizione
scientifica risale al 1898. La distribuzione della specie è
apparentemente frammentaria nella Penisola, ove generalmente coesiste con la lepre europea (L. europaeus), mentre in Sicilia, nonostante consistenti immissioni di quest’ultima, è probabilmente presente soltanto la specie endemica italiana. L’areale della specie è regredito rispetto
alle distribuzioni storiche, ma è auspicabile una migliore
definizione della distribuzione nel settore continentale
dell’areale. Le cause di regresso sono riferibili all’intensa
pressione venatoria, alle trasformazioni negli ecosistemi
agro-silvo-pastorali e all’immissione di elevati numeri di
lepri europee, con potenziali effetti di competizione e trasmissione di patologie. Una adeguata gestione venatoria
specie endemica dell’Italia peninsulare
descritta come specie a sé stante nel 1901,
utilizzando un nome introdotto
– senza descrizione - nel 1879, si ritiene
attualmente che non sia diversaa livello
specifico da C. canariensis
specie a distribuzione maghrebina, presente in
alcune isole mediterranee tra le quali Pantelleria,
dove la suaconsistenza numerica è molto limitata
la specie è rappresentata in Italia dalla sola
popolazione sarda, correntemente considerata
sottospecie distinta; ma potrebbe essere frutto
di antica introduzione
presente in Sardegna e Asinara, forse di antica
introduzione accidentale da parte dell’uomo
Tabella 5.29 - Toporagni:
specie e sottospecie endemiche italiane e popolazioni insulari.
278 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
RINOLOFIDI
Rinolofo di Blasius
Rinolofo Euriale
Rinolofo maggiore
Rinolofo minore
Rinolofo di Méhely
VESPERTILIONIDI
Barbastello comune
Vespertilio maggiore
Vespertilio di Bechstein
Vespertilio di Capaccini
Vespertilio Dasicneme
Vespertilio smarginato
Nottola gigante
Nottola di Leisler
MINIOPTERIDI
Miniottero di Schreiber
Rhinolophus blasii
Rhinolophus euryale
Rhinolophus ferrumequinum
Rhinolophus hipposideros
Rhinolophus mehelyi
LR
V
LR
V
V
Barbatella barbastellus
Myotis myotis
Myotis bechsteinii
Myotis capaccinii
Myotis dasycneme
Myotis emarginatus
Nyctalus lasiopterus
Nyctalus leisleri
V
LR
V
V
V
V
LR
LR
Miniopterus schreibersii
LR
Coniglio selvaticoOryctolagus cuniculus probabilmente
introdotta in epoca
storica
Silvilago
Sylvilagus floridanus specie americana
introdotta negli
anni ’60
Lepre sarda
Lepus capensis
sottospecie endemica,
mediterraneus
probabilmente originata
da una introduzione
avvenuta in tempi storici
Lepre italica
Lepus corsicanus
specie endemica
Lepre europea Lepus europaeus
sottospecie autoctona
meridiei
indistinguibile a seguito
di ripopolamenti con
individui di altre
popolazioni
Lepre bianca
Lepus timidus
specie boreoalpina
Tabella 5.30 - Chirotteri italiani inclusi nella Lista Rossa globale dell’IUCN e loro status.
Tabella 5.31 - Lagomorfi presenti in Italia e loro origine.
costituisce senz’altro un obiettivo preminente nella conservazione di questa specie. Le immissioni di lepre europea dovrebbero essere sospese almeno nelle aree in cui è
accertata la presenza L. corsicanus.
le, in Veneto, Lombardia e, soprattutto, in Liguria, ove
sono disponibili aree con caratteristiche ambientali idonee per un ulteriore consolidamento della presenza dell’istrice verso Nord-Ovest.
Roditori
L’ordine dei Roditori, di gran lunga il più ricco di specie nell’ambito dei Mammiferi, è presente in Italia con
circa 30 specie, fra le autoctone e le esotiche naturalizzate con popolazioni consolidate sul territorio nazionale
(Tabella 5.32), passibili di ulteriori incrementi a seguito
di nuovi fenomeni di naturalizzazione. Diverse specie di
Roditori incluse nella Lista Rossa IUCN interessano la
fauna italiana (Tabella 5.33).
La presenza dell’istrice (Hystrix cristata) caratterizza in
maniera particolare la fauna italiana: la distribuzione europea dell’intera famiglia degli Istricidi, le cui 8 specie sono distribuite in Asia e Africa, è limitata alla sola Italia.
Sull’origine di questa presenza è stata più volte avanzata
un’ipotesi di introduzione in tempi storici, ma il ritrovamento di resti fossili testimonia che l’istrice è in Italia già
nel tardo Pleistocene. La specie ha tratto vantaggio dai fenomeni di abbandono degli usi agro-pastorali nei settori
collinari e pedemontani. Nonostante il regime di tutela,
la specie è oggetto di prelievo illegale, mentre la più frequente causa di mortalità di origine antropica è probabilmente l’uccisione accidentale su strada. La popolazione
peninsulare italiana mostra un’evidente tendenza all’espansione: fenomeni di incremento di densità sono stati rilevati in diverse aree, ma quelli che destano maggiore interesse sono le espansioni sul limite settentrionale dell’area-
Canidi
I Canidi sono rappresentati in Italia da due specie del
genere Canis - il lupo (C. lupus) e lo sciacallo dorato (C.
aureus) - e dalla volpe (Vulpes vulpes). Il lupo è l’unico
carnivoro italiano incluso nella Lista Rossa dell’IUCN
(categoria Vulnerable). Nei primi anni ‘70 la popolazione italiana, costituita da circa 100 individui, era distribuita su un areale frammentato in due aree di presenza
stabile: una essenzialmente abruzzese e un’altra compresa tra Calabria, Basilicata e Campania. Nei decenni successivi si è registrata un’inversione di tendenza, con progressivo incremento demografico della specie. L’areale
di distribuzione si è progressivamente esteso a partire
dai nuclei superstiti, determinando una maggiore continuità nella diffusione della specie nell’Italia meridionale, mentre lungo l’Appennino Tosco-Emiliano si è osservata un’ulteriore estensione dell’areale in direzione
Nord-Ovest fino a raggiungere l’arco alpino, quindi la
Francia e, negli ultimi anni, la Svizzera. Le cause di mortalità del lupo in Italia sono essenzialmente attribuibili
all’azione umana (persecuzione diretta e indiretta, secondariamente: mortalità accidentale sulle strade), interessando una quota intorno al 10% della popolazione. In Svizzera, già nelle prime fasi di colonizzazione, le
autorità hanno rilasciato autorizzazioni per l’abbattimento. I conflitti con gli allevatori sono particolarmen-
FAUNA • 279
SCIURIDI
Scoiattolo grigio
Scoiattolo variabile
Tamia siberiano
Sciurus carolinensis
introdotto dagli Stati Uniti già alla metà del secolo scorso,
la popolazione piemontese è in fase di rapida espansione
Callosciurus finlaysonii specie asiatica introdotta negli anni ’80 presso Acqui Terme
Tamia sibiricus
specie asiatica introdotta in diverse aree del nord Italia, una
popolazione lungo il tratto bellunese del Piave presenta
maggiori potenzialità di ampliamento
MICROTIDI
Ondatra o Topo muschiato Ondatra zibethicus
MIOCASTORIDI
Nutria
introdotto in Europa nella prima metà del XX secolo,
attualmente in espansione
Myocastor corpus
la naturalizzazione è avvenuta nella seconda metà del secolo
scorso e ha portato a una rapida colonizzazione dei bacini
idrografici di gran parte dell’Italia
te accesi laddove sono andate perdute le capacità di prevenire la predazione a carico del bestiame domestico,
ovvero nelle aree di recente ricolonizzazione. La persecuzione illegale del lupo comporta un diffuso utilizzo di
bocconi e carcasse avvelenate, con effetti verosimilmente drammatici su diverse specie di vertebrati: un adeguato monitoraggio del fenomeno è quanto mai auspicabile. Lo sciacallo dorato è presente nel Nord-Est italiano
con un numero relativamente scarso di individui provenienti dalla popolazione dalmata, interessata già nella
seconda metà del secolo scorso da un costante trend di
espansione verso Nord.
Ursidi
L’orso bruno (Ursus arctos) è presente in Italia in due
aree disgiunte: un settore alpino centrale e orientale,
dove è presente la sottospecie nominale U. a. arctos, e
un settore centro appenninico, dove l’orso è rappresentato dalla sottospecie U. a. marsicanus. Nell’area alpina si segnala la presenza di un nucleo storico in TrenGLIRIDI
Quercino
Eliomys quercinus
V
Driomio
Dryomys nitedula
LR
Ghiro
Glis glis
LR
Moscardino
MICROTIDI
Arvicola delle nevi
Muscardinus avellanarius LR
MURIDI
Topolino delle risaie
Topo selvatico alpino
ISTRICIDI
Istrice
Tabella 5.32 - Roditori:
taxa alloctoni introdotti in Italia o in immigrazione spontanea da altre
aree di introduzione europee.
tino (Adamello-Brenta) giunto sostanzialmente all’estinzione (rimanevano tre esemplari non riproduttivi) sul
finire del secolo scorso e quindi oggetto di interventi
di ripopolamento con esemplari sloveni (prima riproduzione documentata nella primavera 2002). Nelle Alpi friulane e venete si ha un’altra area di presenza alpina, con individui in diffusione spontanea dai territori
sloveni e presumibilmente in progressivo consolidamento; il mantenimento della specie in quest’area dovrebbe essere assicurato da una estesa continuità di areale
con i versanti sloveni e austriaci. In Appennino la specie è presente con una piccola popolazione probabilmente in regresso, presumibilmente composta da una
cinquantina di esemplari o forse meno. Le conoscenze
sulle dinamiche di questa piccola popolazione isolata
sono insufficienti. Le cause di mortalità sono verosimilmente dovute a prevalenti cause antropiche: abbattimento diretto o indiretto, talvolta accidentale, durante le attività di prelievo legale o illegale di cinghiali (durante le cacce eseguite con ausilio di cani oppure con i
E. q. pallidus in Italia peninsulare e Sicilia; E. q. sardus in Sardegna;
E. q. liparensis a Lipari
nel Nord-est (D. n. intermedius) e in Calabria-Lucania con una popolazione
isolata (D. n. aspromontis)
G. g. glis in Italia nord-orientale; G. g. italicus nel resto della Penisola e in
Sicilia; G. g. melonii in Sardegna
M. a. peciosus nell’Italia peninsulare e Sicilia
Chionomys nivalis
LR
Ch. n. nivalis in gran parte delle Alpi, dal Piemonte alle Alpi Giulie;
Ch. n. leucurus nelle Alpi Liguri e Ch. n. lebrunii nelle Alpi occidentali
Micromys minutus
Apodemus alpicola
LR
DD
M. m. soricinus (forma endemica dell’area padana e Toscana)
originariamente descritto come sottospecie di Apodemus flavicollis
Hystrix cristata
LR
H. c. cristata (Italia peninsulare e Sicilia)
Tabella 5.33 - Roditori italiani inclusi nella Lista Rossa globale dell’IUCN e loro sottospecie presenti sul territorio nazionale.
280 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
lacci); avvelenamento delle carcasse trattate per la lotta illegale ai carnivori; investimenti sulle linee ferroviarie (particolarmente a rischio la linea ferroviaria tra Sulmona e Castel di Sangro) e sulle strade. L’improvvisa e
rapida diffusione del cinghiale in Appennino, causata
da massicce immissioni, può aver avuto effetti sulla disponibilità di risorse alimentari, con eventuali effetti
sulla dislocazione spaziale degli esemplari di orso. Per
la tutela di questa specie nell’Appennino è auspicabile
l’adozione di un programma di monitoraggio esteso a
tutte le aree di presenza, sia all’esterno che all’interno
delle Aree Naturali Protette. In attesa di una diagnosi
precisa dello stato della popolazione, sono auspicabili
interventi di tutela immediata, finalizzati al contenimento delle cause di mortalità di origine antropica: adozione di un regolamento di caccia al cinghiale specifico per i territori potenzialmente interessati dalla presenza dell’orso; incremento dello sforzo di sorveglianza finalizzato alla repressione del fenomeno dei bocconi e delle carcasse avvelenate; perimetrazione adeguata
delle linee infrastrutturali a rischio.
Mustelidi
I Mustelidi costituiscono la famiglia di Carnivori meglio rappresentata nella fauna italiana, con 8 specie. Una
delle specie presenti, il visone americano (Mustela vison), ha origine alloctona: la sua naturalizzazione non
è ancora accertata, ma sembra verosimile. Tra le specie
interessate da fenomeni di decremento prolungati ed
estesi anche in altri Paesi europei si segnalano la puz-
zola (Mustela putorius), la lontra (Lutra lutra) e la martora (Martes martes). Negli anni ’60 e ’70 la lontra ha
subito repentini decrementi in gran parte dell’areale europeo; la distribuzione italiana è soprattutto concentrata in settori centro-meridionali della penisola. Le cause del regresso sono state prevalentemente individuate
nella dispersione di sostanze tossico-nocive bioaccumulabili nelle acque.
Felidi
I Felidi sono presenti in Italia con due specie, il gatto selvatico (Felis silvestris) e la lince (Linx linx). Il gatto selvatico è distribuito in Europa meridionale e a Nord
fino ai Carpazi e alla Scozia ed è presente in Italia con
due sottospecie, il gatto selvatico europeo (F. s. silvestris)
e il gatto selvatico sardo (F. s. libyca), con distribuzione
italiana circoscritta alla Sardegna, oltre al gatto domestico (F. s. catus) che non di rado rinselvatichisce. Le popolazioni selvatiche hanno presumibilmente subito fenomeni di introgressione a seguito di ibridazioni con la
forma domestica e la stessa origine della popolazione
sarda è forse dovuta al rinselvatichimento in tempi storici di forme già domesticate. La lince ha una presenza
limitata ad alcuni settori alpini, ove è in fase di reinsediamento per espansione delle popolazioni transalpine
(in particolare da Svizzera, Austria e Slovenia), nelle quali la specie è stata reintrodotta con il rilascio di esemplari provenienti dai Carpazi; più di recente è stata accertata la sua ricomparsa nell’Appennino centrale, conseguenza di introduzioni illegali.
SUIDI
Cinghiale
Sus scrofa
la divergenza genetica tra la pretesa sottospecie maremmana originaria (S. s. majori) e quella europea (S. s.
scrofa) introdotta è ridotta; la popolazione sarda sembrerebbe aver avuto origine da forme domesticate
CERVIDI
Cervo
Daino
Cervus elaphus
Dama dama
Capriolo
Capreolus capreolus
popolazioni autoctone nel Bosco della Mesola (Ferrara) (C. e. elaphus) e in Sardegna (C. e. corsicanus)
introdotta già nel Neolitico, ma vi sono ipotesi di presenza della specie in Italia durante già sul finire
dell’ultima glaciazione
popolazioni autoctone della ssp. C. c. italicus sono sopravvissute in ambiti geografici isolati (Castel
porziano, Gargano e Orsomarso in Calabria)
BOVIDI
Muflone
Ovis
derivato probabilmente da pecore in fase iniziale di domesticazione, il muflone sardo è
[orientalis] musimon oggi considerato da diversi autori una sottospecie di O. orientalis
Capra
Capra aegagrus
popolazione derivata da una antica introduzione di forme semidomestiche di
di Montecristo
egagro asiatico, successivamente interessata da ulteriori immissioni di capre domestiche
Stambecco
Capra ibex
la distanza genetica con la C. pyrenaica potrebbe suggerire una distinzione a livello sotto
delle Alpi
specifico tra le due forme
Camoscio
Rupicapra
R. pyrenaica ornata è una delle tre sottospecie di camoscio meridio
appenninico pyrenaica ornata
nale, altrimenti presente sui Pirenei e nel nord-ovest della Spagna
Camoscio
Rupicapra rupicapra specie diffusasi nell’ultimo periodo glaciale, successivamente a R. pyrenaica, sulle Alpi e nell’Appenni
alpino
no settentrionale
Tabella 5.34 - Gli ungulati italiani.
FAUNA • 281
Fig. 5.14 – Capra ibex, Parco Nazionale del Gran Paradiso (foto di A. Carni)
Artiodattili
Gli Artiodattili sono presenti in Italia con tre famiglie
e 9 specie (Tabella 5.34). Alla fine dell’800, il cervo sopravviveva in Italia solo con una piccola popolazione nel
Bosco della Mesola (Ferrara) e in Sardegna, con una popolazione descritta a livello di sottospecie distinta (Cervus elaphus corsicanus). Nel secondo dopoguerra è iniziata una nuova fase espansiva, con ingresso di esemplari dai
versanti alpini di Svizzera, Slovenia e Austria. Reintroduzioni sono state effettuate nelle Alpi occidentali e nell’Appennino settentrionale, centrale e - solo recentemente meridionale. La consistenza della specie, che è ancora in
fase espansiva, viene attualmente stimata in 44.000 capi
circa (34.000 sulle Alpi, 7.000 in Appennino e meno di
3.000 in Sardegna). I contingenti presenti nei comprensori alpini sono sottoposti a prelievo venatorio (nel 199899, circa 3.800 capi), mentre le altre popolazioni non vengono cacciate. I vasti fenomeni di abbandono degli ecosistemi agro-pastorali degli orizzonti montani hanno reso disponibili ampie aree di espansione per la specie. Ulteriori interventi di reintroduzione sono auspicabili, soprattutto in Sardegna settentrionale e nell’Appennino cen-
tro-meridionale. Il divieto di caccia alle popolazioni appenniniche dovrebbe essere mantenuto ancora per diversi anni. Per la popolazione sarda è da prevedere un potenziamento degli interventi di reintroduzione nei settori isolani ove la specie è estinta.
Un analogo fenomeno di recupero delle distribuzioni
storiche è in corso anche per il capriolo. La fase espansiva è stata spinta da diverse reintroduzioni e da immigrazione spontanea di esemplari di provenienza europea (sottospecie capreolus). Popolazioni autoctone sono rimaste
in aree isolate (Castelporziano, Gargano e Orsomarso in
Calabria). Gli incrementi numerici interessano soprattutto popolazioni della forma europea o derivate da un probabile incrocio tra le due forme (Maremma). La sopravvivenza del capriolo italico potrà avvenire soltanto in ambiti isolati e separati dalle grandi popolazioni alpina e appenninica; i nuclei di Castelporziano e del Gargano sono
in ambiti sufficientemente isolati, mentre il nucleo di Orsomarso è passibile di incrocio con la forma europea, già
reintrodotta in Sila. La specie è ancora scarsa o assente in
molti contesti potenzialmente idonei della Penisola centro-meridionale, mentre in Appennino centrale essa è in
282 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
fase di espansione a partire da nuclei reintrodotti all’interno di Aree Protette: una saldatura tra gli areali dell’Appennino settentrionale e centrale è attesa nei prossimi anni, con la progressiva colonizzazione delle aree ancora vuote nelle Province dell’Aquila, di Rieti e di Terni. La specie è cacciata nei comprensori alpini e in alcune province dell’Appennino settentrionale e della Maremma (30.000
capi circa nel 1998-99).
Lo stambecco delle Alpi (Capra ibex) è una specie endemica europea, distinta dal altre forme di stambecco presenti in Asia e Africa (C. nubiana, C. sibirica e C. walie).
La sua distanza genetica nei confronti della C. pyrenaica,
diffusa nella Penisola Iberica, potrebbe suggerire invece
una distinzione a livello sottospecifico tra le due forme.
Le vicissitudini demografiche dello stambecco alpino hanno conosciuto una fase di grave diminuzione, con estinzione diffusa a gran parte dell’areale e sopravvivenza di
un piccolo nucleo nell’area dell’attuale Parco del Gran Paradiso (meno di 100 capi nel 1821). La protezione, prima nella Riserva reale di caccia e poi nel Parco Nazionale, ha permesso il recupero della popolazione. Numerosi
interventi di reintroduzione hanno favorito il nuovo insediamento della specie in diverse aree alpine. Considerata la scarsa capacità di diffusione spontanea della specie e la presenza di ulteriori aree idonee, sono auspicabili altri interventi di reintroduzione sulle Alpi. Lo stambecco è oggetto di abbattimenti selettivi in Svizzera, Austria e Slovenia, mentre è completamente protetto in Francia, Germania e Italia. Il contingente italiano, in incremento numerico, viene stimato in più di 13.000 capi,
prevalentemente concentrati nelle Alpi occidentali e costituisce il secondo popolamento europeo, dopo la Svizzera, in ordine di importanza.
Il camoscio appenninico (Rupicapra pyrenaica ornata) è una delle tre sottospecie del camoscio meridionale, una specie presente anche sui Pirenei con la sottospecie R. p. pyrenaica e nel Nord-Ovest della Spagna con la
sottospecie R. p. parva. La popolazione appenninica è
presente su un areale ristretto e probabilmente isolato
da lungo tempo, forse a causa della diffusione di R. rupicapra sulle Alpi e nell’Appennino settentrionale nell’ultimo periodo glaciale. Nella prima metà del secolo
scorso la sottospecie era ridotta a poche decine di esemplari; successive fasi di incremento, favorite dall’istituzione del Parco d’Abruzzo, hanno permesso un lento ma
progressivo recupero della popolazione. Il passaggio attraverso il collo di bottiglia demografico del secolo scorso ha lasciato il segno nel patrimonio genetico della popolazione, ora caratterizzato da elevati tassi di omozigosi. La popolazione attuale, prevalentemente concentrata nel Parco d’Abruzzo, viene stimata in più di 800 capi in lento incremento (circa il 2% annuo). Due interventi di reintroduzione hanno portato alla costituzione
di piccole popolazioni in crescita sul Gran Sasso e sulla
Maiella; altri sono previsti sui Sibillini e sul Velino-Sirente. La popolazione appenninica è inclusa nella Lista
Rossa dell’IUCN, nella categoria Endangered: l’esecuzione dei nuovi progetti potrebbe permettere una diminuzione del livello di rischio attuale. L’incidenza del bracconaggio non è nota.
Fauna terrestre • 283
FAUNA DELLE ACQUE DOLCI
STATO DELLE CONOSCENZE
[Roberto Argano]
Pur trattandosi di una porzione molto piccola, meno dello 0,01%, della quantità d’acqua presente sulla
Terra, le acque dolci sono la sede di ecosistemi di enorme valore, dalla stabilità biologica (oltre che fisico-chimica) dei quali dipende, tra l’altro, la qualità dell’insostituibile risorsa che esse rappresentano.
Una presentazione, per quanto schematica, sullo stato delle conoscenze della diversità animale nel contesto
degli ambienti dulcacquicoli italiani non può prescindere da una rapida analisi della varietà di situazioni in
cui questi ambienti si presentano nel nostro Paese. Cominciamo col dire che vengono convenzionalmente definite “dolci” le acque, presenti sulle (e nelle) masse continentali, con una salinità che non arriva a un grammo
per litro e in cui predominano i sali di calcio.
Le acque dolci superficiali (che distinguiamo dalla
eterogenea varietà e ricchezza delle acque sotterranee,
preziosa risorsa fortemente a rischio) scorrono in alvei
(acque correnti, lotiche, o reiche) o si raccolgono in
bacini (acque ferme o lentiche) distribuendosi in compartimenti più o meno isolati l’uno dall’altro. Ognuna di queste isole d’acqua presenta caratteristiche chimico-fisiche particolari in relazione alla piovosità e al
clima generale dell’area, alla peculiare struttura dei suoli e delle rocce, alla copertura vegetale, alle caratteristiche orografiche.
Ogni fiume, ruscello, lago, palude costituisce quindi un ambiente con una sua individualità morfologica e strutturale (e quindi faunistica) praticamente irripetibile. In ogni singolo ambiente d’acqua dolce, in
relazione alle caratteristiche morfologiche e fisico-chimiche, vive un certo numero di organismi vegetali e
animali che intessono, tra loro, una complicatissima
rete di rapporti (biocenosi). Non bisogna pensare solo alle ovvie differenze tra un torrente alpino e un fiume meridionale che, in magra estiva, si presenta praticamente secco, o tra un grande lago terminale insediato in un solco vallivo abbandonato da un ghiacciaio e un laghetto racchiuso nel cratere di un vulcano
spento. Due fiumi che scorrono dagli stessi monti della stessa regione hanno infatti tra loro una dinamica
biologica diversa, ben apprezzabile dagli strumenti conoscitivi del limnologo.
La limnologia si è occupata, a partire dai primi an-
ni del secolo passato, soprattutto delle acque ferme (lentiche), cioè dei laghi, degli stagni, delle pozze temporanee. Le acque correnti vennero invece “scoperte” circa cinquant’anni dopo e solo di recente sono state oggetto di studi analitici e comparativi.
Un fiume costituisce un sistema morfologicamente
definito e con una sua tipica dinamicità: nasce da una
sorgente, alimentata da riserve d’acqua sotterranee, da
nevai o da ghiacciai, scorre in un alveo delimitato dalle sue rive, arricchendosi dell’apporto di affluenti e matura una sua peculiare struttura chimica lungo il percorso, fino a confluire in un altro fiume o in un lago
o a confondersi con le acque marine nella foce. Dal
punto di vista della sua dinamica trofico funzionale è
un sistema sostanzialmente aperto in quanto dipende
in massima parte dagli apporti energetici degli ambienti circostanti, apporti che variano lungo il corso e dai
quali dipende la strutturazione delle biocenosi che si
susseguono.
La caratteristica fisica più rilevante di un sistema di
acque lotiche è ovviamente l’unidirezionalità della corrente, con la quale deve fare inevitabilmente i conti la
componente biologica, ossia il complesso degli organismi che conducono la loro esistenza nel fiume.
Negli ambienti di acque correnti manca quindi praticamente il plancton, cioè tutta quella congerie di organismi, o di fasi di sviluppo di organismi (larve), che,
pur disponendo di strutture che permettono loro di
muoversi attivamente nel corpo idrico, non sono in grado di opporsi alla forza delle correnti. In mare, o nei
laghi, il movimento delle masse idriche trascina in punti diversi l’intera comunità planctonica, ma nei fiumi
l’unico punto di arrivo sarebbe la foce. Per cui, per fare un esempio, solo gli organismi di origine marina che
hanno perduto o profondamente modificato la fase larvale planctonica hanno potuto insediarsi nei fiumi.
Qualche elemento planctonico può, ovviamente, insediarsi nei tratti di pianura a lento scorrimento, ma si
tratta di situazioni che non rientrano nello schema generale che stiamo cercando di mettere a fuoco.
Gli invertebrati che popolano l’ambiente reico, oltre 3.000 specie in Italia, appartengono, quindi, quasi
esclusivamente al benthos, vivono cioè in contatto con
il fondo. L’acqua meteorica viene in buona parte assorbita, con varie modalità a seconda della struttura geologica, nel corpo dei sistemi montuosi dando origine al
vasto ambiente delle acque sotterranee che, nel momento in cui si riversano in superficie, formano l’ambiente delle sorgenti (crenal).
284 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
È spesso nelle sorgenti che la fauna estremamente
specializzata delle acque sotterranee viene sorprendentemente a trovarsi a portata di mano. Capita di poter
trovare, nell’acqua che percola tra i muschi o le erbe
proprio alla bocca della sorgente, una serie di elementi (come turbellari e crostacei di diverse classi e ordini),
adattatisi in tempi lunghissimi all’ambiente delle acque
sotterranee (stigobi), che vengono risospinti in superficie dove però non hanno più la possibilità di reinsediarsi in modo permanente.
A parte questi elementi, la fauna che popola il crenal (crenon) non è in genere una fauna antica; anzi si
tratta spesso di specie pioniere di superficie, che, in
quota, riconquistano l’ambiente sorgivo praticamente ogni anno, alla fine degli inverni, risalendo dalla
zona più a valle.
Troviamo comunque molte specie particolarmente
adattate (crenobionti) alle condizioni di acque limpide e fortemente ossigenate, caratterizzate da una sostanziale stabilità sia termica che chimica (il fiume ha
appena iniziato la sua attività di dilavamento). Manca ancora una ricca vegetazione di alghe e muschi e
gli apporti alimentari primari derivano dalla vegetazione riparia.
Rhithral è il termine con cui i limnologi definiscono
quel tratto di fiume, successivo alla zona di sorgente,
che scorre con vivacità variabile in funzione della pendenza tra rive ricche di vegetazione, su un fondo di rocce e pietre che la corrente stessa mantiene pulite dal sedimento. La sostanziale costanza termica, la forte ossigenazione, l’arricchirsi di Sali dovuto al dilavamento di
rocce e terreni, l’aumento di materiale organico esogeno, cioè proveniente dalla vegetazione delle rive, lo sviluppo del periphyton, della vegetazione epilitica sulle
pietre sommerse e di muschi sulle sponde sono tutti
fattori che vanno a determinare la complessa struttura
chimica e biologica di queste acque e la peculiarità di
questi ambienti acquatici. Ogni fiume è diverso da qualsiasi altro, ma è diverso anche da se stesso nel mutare
delle stagioni, ogni tratto di fiume è diverso dal precedente e dal successivo e ogni punto dello stesso tratto,
dato che, ad esempio, la velocità della corrente diminuisce progressivamente dal centro verso le rive, è diverso dagli altri. Le biocenosi plasmano la loro complessità su questo mutevole contenitore.
E finalmente, attraverso fasi intermedie che variano
a seconda della geografia dei luoghi (e quindi in Italia
variano molto) si arriva al tratto “maturo” del fiume, al
potamal. Il fiume si stende lungo la pianura, l’acqua
perde la sua tumultuosa vivacità e il particolato solido
eroso a monte si deposita lentamente, dando origine a
fondi con sabbia fine o limo. Aumenta anche la quantità di materiale organico trasportato dall’acqua, che
consentirà un grande sviluppo degli organismi filtratori. Diminuisce l’ossigeno disciolto e la temperatura perde la sua sostanziale costanza e si porta comunque su
livelli superiori rispetto al tratto di fiume precedente.
Naturalmente la fauna è del tutto diversa, le specie sono meno esigenti (euriecie), anche se i gruppi zoologici che troviamo sono sostanzialmente gli stessi.
Gli effetti della presenza umana sono qui più incisivi e troppo spesso drammatici. A parte le canalizzazioni irrigue, che creeranno ambienti artificiali con caratteristiche intermedie tra fiume e ambiente di acque ferme (vi troveremo quindi plancton, come nelle anse),
l’agricoltura intensiva, l’urbanizzazione e l’industrializzazione delle aree di pianura hanno preso il posto, non
solo paesaggisticamente, delle grandi foreste.
Se si considerano aspetti più generali di tipo biologico, innescati dalla disponibilità di nutrienti in grado
di sostenere le reti trofiche, una distinzione può essere
fatta tra acque oligotrofiche, meno produttive, e acque
eutrofiche, più produttive. Ad esempio, nel fiume troviamo condizioni di trofia crescente dal crenal al rithral
e questa progressiva variazione determina l’insediamento di comunità gradualmente più ricche di specie, anche se possono intervenire fattori, come la monotonia
ambientale dei fondi, che interferiscono con questa condizione teorica.
Gli ambienti più noti di acque ferme sono i laghi,
caratterizzati da specchi d’acqua libera più o meno ampi. Ambienti lentici sono però anche i vari momenti
successivi della morte progressiva dei laghi, cioè gli stagni, le paludi, le torbiere, che si formano quando la vegetazione invade il bacino fino a che non ci sono più
acque libere. Lo sono anche le pozze temporanee, un
tempo vaste come intere regioni, che d’estate sono del
tutto asciutte, per non parlare degli ambienti artificiali come gli invasi idroelettrici o da irrigazione, i canali, le risaie. Anche le fontane dei giardini e delle piazze, monumentali o no, sono ambienti lentici che ospitano una ricca fauna.
Per la necessaria sintesi possiamo dire che, mentre
le acque correnti sono caratterizzate da un dinamismo
in senso orizzontale (la corrente), nelle acque ferme
dobbiamo tener conto soprattutto di un dinamismo,
meno ovvio, in senso verticale. Oltre alla complessa serie di fattori che, interagendo, creano le condizioni pe-
FAUNA • 285
culiari di ciascun bacino, è opportuno tener presente
che si realizza, sotto l’influsso dei ritmi stagionali, un
lento sommovimento in senso verticale della massa
d’acqua. Per quanto riguarda i parametri fisico-chimici c’è quindi un differenziamento dinamico dei vari
strati, dalla superficie al fondo, in funzione dell’estensione dei bacini, della loro profondità, della situazione climatica generale. Dalla superficie possiamo solo
apprezzare il moto ondoso, occasionalmente di una
certa intensità, il lento serpeggiare delle correnti, le
eventuali oscillazioni delle masse d’acqua (sesse). La
composizione delle comunità animali degli ambienti
lacustri dipende, in modo più o meno diretto, dall’interagire di tutti questi fattori.
Infine, per chiudere questo breve discorso sulle caratteristiche, e quindi sul popolamento animale, delle acque lentiche, un brevissimo cenno al plancton. A
parte il gran numero di protozoi sarcodini, ciliati e
flagellati, lo zooplancton lacustre ospita ricche popolazioni di alcune specie di rotiferi e di crostacei cladoceri e copepodi.
Almeno due parole vanno dedicate alle acque astatiche. Questi ambienti effimeri o con ampie variazioni
di livello, che un tempo invadevano le grandi foreste
planiziali costiere della penisola, successivamente bonificate, ora sopravvivono in pozze localizzate e sempre
meno numerose. Sono ambienti sconosciuti al grosso
pubblico, che tendono a sparire. Le specie che li popolano, e sono sorprendentemente numerose, hanno meccanismi di resistenza per sopravvivere ai periodi di secca, per lo più le loro uova sono durature, come succede nelle varie specie di crostacei. Va tenuto presente che
si possono considerare in questo stesso complesso di
ambienti anche alcuni laghetti d’alta quota che in inverno si trasformano in lamine di ghiaccio: Chirocephalus marchesonii, per fare un solo esempio, vive nel Lago di Pilato sui monti Sibillini, a circa duemila metri,
con uova durature in fase invernale.
Esistono infine ambienti di acque temporanee artificiali, come le risaie, dove, ad esempio, vive comunissimo il notostraco Triops cancriformis, oppure ambienti meno strutturati, dove da qualche anno riesce a insediarsi la larva di Aedes albopictus, la zanzara tigre, nuovo acquisto indesiderato per la nostra fauna.
Discorso a parte merita l’immenso complesso di acque sotterranee, costituite dai sistemi di falda, dalle acque di grotta e dalle acque interstiziali. L’enorme lavoro ancora da fare per raggiungere una buona conoscenza della fauna specializzata che popola questi ambienti è facilmente immaginabile, stante l’ovvia difficoltà di
accesso a questi ambienti. Non si tratta di un’esigenza
puramente accademica o di completezza formale: gli
organismi adattati agli ambienti sotterranei (stigobi)
sono in grandissima parte endemici, quindi in uno sta-
Fig. 5.15- La megabiodiversità nelle acque dolci
italiane.
286 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
to di precarietà universalmente riconosciuta, costituiscono la testimonianza vivente di antiche condizioni
geografiche e ambientali (indicatori paleogeografici e
paleoecologici) e, in quanto forme altamente adattate
(stenoecie) sono validissimi indicatori, anche con la loro semplice presenza, dello stato di qualità di questa risorsa idrica insostituibile.
Inoltre è necessario tener conto del fatto che sia gli
ambienti lentici che quelli lotici proseguono nei sistemi sotterranei ai quali si passa, in un continuum ecologico, attraverso l’interfaccia acque superficiali/acque
sotterranee con complesse interazioni fra i due tipi di
ambienti. In questo contesto va ricordato che queste
acque di percolazione (vadose) ospitano comunità particolarmente specializzate e diversificate in cui è presente un elevato numero di specie endemiche.
Va infine menzionato il delicatissimo complesso degli ambienti anchialini, corpi idrici sotterranei a salinità variabile per influenze marine e continentali. Un esempio per tutti: la Grotta Zinzulusa che è inserita dal Karst
Water Institute nella top ten list dei World Endagered Karst
Ecosystems (1999). In questa grotta vivono, tra le 60 spe-
cie rinvenute (per lo più stigobionti endemici), specie
di eccezionale interesse come il decapode Typhlocaris salentina e la spugna stigobia Higginsia ciccaresei.
Gli animali viventi nelle acque dolci costituiscono
una componente importante della fauna in rapporto al
numero di specie. Vi sono rappresentati quasi tutti i
gruppi sistematici attualmente viventi sulle terre emerse e non mancano, con i dovuti adattamenti, rappresentanti di phyla caratteristici dell’ambiente marino come Poriferi, Cnidari, Nemertini, Briozoi.
In base all’ultimo censimento della Limnofauna Europea le specie animali note delle acque dolci europee
sono circa 15.000. In Italia le specie dell’intero comparto limnico sono (escludendo i Protozoi) circa 5.500,
il 10% dell’intera fauna italiana.
Vengono elencati di seguito, in modo inevitabilmente sintetico, i principali gruppi zoologici (esclusi i protozoi e le fasi acquatiche degli organismi parassiti) presenti negli ambienti dulcacquicoli italiani con brevi cenni sullo stato delle conoscenze e sul grado di precarietà di alcune specie (nei limiti del possibile vengono considerate le specie bandiera di ogni gruppo).
FAUNA • 287
PORIFERI, CNIDARI, TURBELLARI, NEMATODI,
TARDIGRADI, GASTROTRICHI, ROTIFERI, IRUDINEI,
OLIGOCHETI
[Romolo Fochetti]
Poriferi
I Poriferi, o spugne, sono un phylum di animali tipicamente marini, ma sono presenti con tre famiglie anche nella acque dolci. La famiglia Spongillidi è presente
solo nelle acque dolci italiane. Le spugne d’acqua dolce
assumono forme a cuscino o digitate nelle acque lentiche, mentre hanno uno sviluppo incrostante nelle acque
correnti. Delle 479 specie note per la fauna italiana (su
6.000 specie conosciute) sono presenti nelle acque interne solo sei specie, appartenenti a quattro generi. Spongilla lacustris e Ephydatia fluviatilis (Linnaeus) sono le
più conosciute.
Poco note in Italia sono la distribuzione e l’ecologia
delle spugne dulcacquicole, così come lo stato di conservazione. Trochospongilla horrida, Heteromeyenia stepanowii, Spongilla alba e S. fragilis si conoscono solo per il
Nord Italia. Della spugna stigobia Higginsia ciccaresei si è
accennato in precedenza.
Cnidari
Anche gli Cnidari sono un gruppo prevalentemente
marino e la loro presenza nelle acque dolci è limitata e
marginale. La nostra fauna dulcacquicola annovera infatti solo cinque specie, appartenenti a due generi, sulle 463 note in Italia e su circa 15.000 specie conosciute. I due generi, entrambi della classe Idrozoi, sono di
tipo polipoide (Hydra) o presentano la classica alternanza polipo-medusa (Craspedacusta). Hydra viridissima preferisce corpi d’acqua stagnante, H. oligactis e H.
vulgaris abitano preferenzialmente le acque correnti.
Craspedacusta sowerbyi (il cui stato di specie introdotta, dal Brasile o dalla Cina, è in discussione) è nota in
pochissime località dell’Italia continentale, peninsulare e della Sardegna ed è ritenuta (PAVAN, 1992) specie
a rischio nel nostro Paese.
Turbellari
Tra i Turbellari, vermi piatti del phylum Platelminti, le
sole informazioni riguardo specie minacciate si hanno per
l’ordine Tricladi o planarie. Questo gruppo racchiude molte forme dulcacquicole. Il corpo è appiattito e ha struttura compatta. Le planarie presentano un sistema digerente a fondo cieco e sono ermafroditi, a sviluppo diretto nelle acque dolci. Molte specie si riproducono per frammen-
tazione, mentre nella riproduzione sessuale si assiste alla
deposizione di uova in bozzoli fissati al substrato. Sono
predatrici ma occasionalmente si nutrono di invertebrati morti. Esse vivono sia nelle acque correnti che stagnanti. Delle 501 specie note per la fauna italiana 181 occupano le acque interne.
Mentre la sistematica del gruppo è discretamente conosciuta in Italia, poco si sa in merito al loro stato di conservazione. Tra le specie troglobie sono considerate rarissime Dendrocoelum collini, D. italicum, D. benazzii, Atrioplanaria morisii e Polycelis benazzii.
Nematodi
Le specie dulcacquicole del phylum Nematodi abitano
i sedimenti e sono tutti di dimensioni ridotte, da meno
di un mm a qualche mm. La loro alimentazione è microfagica e include batteri, alghe, funghi. Di regola presentano sessi separati ma anche comune è l’ermafroditismo,
così come la partenogenesi. La sistematica del gruppo è
lacunosa e poco stabile. A causa delle ridotte dimensioni
e delle scarse conoscenze sistematiche e tassonomiche, la
biologia e l’ecologia del gruppo sono poco note.
Riguardo allo stato di conservazione delle 207 specie
di acque dolci italiane (su 1.357 conosciute in Italia) sette specie sono considerate rarissime: Trobilus longicaudatus, Eudorylaimus rhopalocercus, Oxydirus oxycephaloides,
Thornia steatopyga, Plectus acuminatus, P. armatus, P. elongatus. Altre sei sono ritenute rare, tra le quali Mylonchulus cavensis e Odontolaimus aquaticus.
Tardigradi
I Tardigradi sono un phylum di piccoli organismi che
popola le acque marine e le acque dolci o gli interstizi
di muschi e licheni o la lettiera di bosco. Raramente superiori al mm, sono a sessi separati anche se può presentarsi l’ermafroditismo ed essere comune la partenogenesi. Si nutrono principalmente di alghe verdi unicellulari. Le specie dulcacquicole, 44 sulle 244 che compongono la fauna italiana, vivono sul fondo dei laghi o
dei corsi d’acqua; spesso abitano i muschi sommersi, o
comunque coperti da un velo d’acqua, le alghe o le fanerogame.
Date le dimensioni è difficile stabilire con precisione
l’habitat delle singole specie. Ne consegue che non molto è noto circa il loro stato di conservazione. È considerata rarissima Isohypsibius baldii, mentre minacciate, oltreché endemiche di Sicilia, Pseudobiotus matici e Carphania fluviatilis. Sono infine reputate rare Macrobiotus
nocentiniae e Isohypsibius marii.
288 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
Gastrotrichi
Il phylum comprende 90 specie dulcacquicole (su 232
che compongono la fauna italiana), inquadrate nell’ordine Chaetonotida. Le conoscenze su questo gruppo sono
ancora incomplete, nonostante un deciso miglioramento negli ultimi decenni: la sistematica è poco definita e
numerose sono le carenze di conoscenze sulla distribuzione di dettaglio delle specie. Cinque specie del genere Chaetonotus (C. pentacanthus, C. brachyurus, C. lunatospinosus, C. minimus, C. mutinensis) sono rare oltreché endemiche, così come Heterolepidoderma multiseriatum e H.
pineisquamatum.
Rotiferi
Il phylum è costituito da microrganismi acquatici, semiacquatici, endo ed ectoparassiti. Le conoscenze in merito alla sistematica e alla distribuzione geografica sono
ancora lacunose: ne consegue una carenza conoscitiva anche in merito allo stato di conservazione del gruppo. Sulle 257 specie che compongono la fauna italiana 250 appartengono al comparto acque dolci. A ogni modo lo stesso riconoscimento di unità specifiche naturali è reso difficile dalla presenza, più o meno obbligata, di partenogenesi nei loro cicli vitali.
PAVAN (1992) cita 25 specie di Rotiferi come rare, tra di
esse 7 specie del genere Lecane. Molte specie inoltre sono
considerate rare e hanno una distribuzione limitata a piccole aree geografiche del nostro paese. Tra di esse Brachionus dimidiatus, Cephalodella delicata, Ploesoma truncatum.
Irudinei
Gli Irudinei, meglio noti come sanguisughe, sono
dei vermi segmentati ermafroditi facilmente ricono-
scibili dalla cospicua metameria esterna e dalla presenza di due ventose, una boccale e una caudale. Alcune specie sono ectoparassite di invertebrati o vertebrati, altre sono predatrici e si nutrono di larve di insetti o di altri invertebrati. Le sanguisughe dulcacquicole abitano le acque correnti e stagnanti. Tra gli Irudinei Batracobdella algira, Placobdella costata e Cystobrachus respirans sono considerate rare.
Hirudo medicinalis è presente nella lista rossa degli
animali minacciati come specie a basso rischio (LR),
nella lista rossa degli animali europei minacciati (1989),
nell’appendice della Convenzione di Berna (Consiglio
d’Europa, 1992) e nell’allegato II della Direttiva Habitat. Questo avviene a causa della scomparsa degli
ambienti paludosi e del forte declino delle popolazioni di anuri, che sono tra i vertebrati che parassitizza.
La raccolta per l’utilizzazione a scopi medici gioca anche, localmente, un suo ruolo negativo.
Oligocheti
Gli Oligocheti sono vermi cilindrici metamerici ermafroditi che colonizzano un po’ tutti gli ambienti di
acque dolci, anche se le diverse famiglie presentano
adattamenti particolari ai diversi habitat (fondi molli, vegetazione sommersa, fondi duri). Lo status tassonomico degli Oligocheti è poco noto nel nostro paese, poiché la loro determinazione non è mai agevole,
rendendo difficile spesso anche l’identificazione dei
livelli sovraspecifici.
Poco è noto sul loro status di conservazione. Oligocheti e Irudinei (Clitellati) contano complessivamente 161 specie di acque dolci sulle 338 conosciute
in Italia.
FAUNA • 289
MOLLUSCHI
[Folco Giusti, Marco Bodon, Giuseppe Manganelli]
Stato delle conoscenze
I Molluschi d’acqua dolce italiani comprendono circa
170 specie per lo più appartenenti ai Gasteropodi e solo
in piccola parte ai Bivalvi.
Gasteropodi
I Gasteropodi includono circa 140 specie assegnate a 14
famiglie: Neritidi, Viviparidi, Tiaridi, Melanopsidi, Bitiniidi, Idrobiidi s.l., Pirgulidi, Emmericiidi (Prosobranchi),
Valvatidi (Etrobranchi, Eterostrofi), Fisidi, Limneidi, Planorbidi, Acroloxidi e Ancilidi (Eterobranchi Basommatofori). Il livello di conoscenza tassonomica è buono solo in
alcuni casi, restando scarso in molti altri. In particolare negli Idrobiidi s.l., sia l’inquadramento sopraspecifico, sia la
validità di molti taxa descritti nel passato necessitano di
un’attenta riconsiderazione. Inoltre, molte entità, soprattutto di piccole dimensioni e confinate nelle acque sotterranee, sono ancora in fase di studio o in corso di descrizione (Figura 5.16). Il numero delle specie italiane è, quindi,
approssimativo e probabilmente destinato a salire. Tra l’altro, solo di recente sono stati intrapresi studi genetici che
hanno prodotto dati capaci di pesanti riflessi sull’assetto
speciografico di un certo numero di taxa. Anche nel caso
delle due famiglie più importanti dei Basommatofori, Limneidi e Planorbidi, i dati faunistici dovranno essere rivisti
alla luce di alcune revisioni recentemente pubblicate e di
altre ancora in corso, le quali potrebbero alterare significativamente il quadro delle specie ritenute valide.
Fig. 5.16 – Molte specie di gasteropodi acquidulcicoli di piccole dimensioni e viventi nelle acque sorgive o sotterranee appartenenti agli
Idrobiidi s.l. sono state descritte negli ultimi venti anni, come Sardopaladilhia plagigeyerica, “Alzoniella” lunensis, “Alzoniella” macrostoma,
“Alzoniella” manganellii, Sardohoratia sulcata e Sardohoratia islamioides (da sinistra verso destra) (foto di S. Cianfanelli).
Bivalvi
I Bivalvi d’acqua dolce comprendono, invece, solo una
trentina di specie assegnate a cinque famiglie (Margaritiferidi, Unionidi, Dreissenidi, Sferiidi e Corbiculidi) tutte con una o poche specie, eccetto gli Sferiidi (17 specie,
di cui 15 assegnate al genere Pisidium). Il livello di conoscenza tassonomica è, generalmente, ritenuto buono, eccetto che per le Anodonta, gli Unio e gli Sphaerium.
Stato di conservazione
Molte entità di acque superficiali presentano un’ampia valenza ecologica e sono diffuse e ben rappresentate
su vaste aree, ma ve ne sono alcune, più stenoecie, viventi negli ambienti lentici, a rischio per l’alterazione o la distruzione dell’habitat. Alcune specie sono andate incontro a una significativa riduzione del loro areale italiano in
seguito alle imponenti opere di bonifica che, durante l’800
e il 900, hanno interessato vaste aree dell’Italia peninsulare. I dati faunistici (sia di letteratura, sia di collezione)
evidenziano, infatti, un drastico declino e una considerevole riduzione della distribuzione in Italia sia per specie
ancora comuni e diffuse, come Lymnaea stagnalis e Planorbarius corneus, sia per specie ormai divenute rare, come Aplexa hypnorum, Physa fontinalis, Anisus vorticulus e
Segmentina nitida.
Particolarmente a rischio sono le numerose entità endemiche presenti in ambienti di sorgente e/o di acque sotterranee, in gran parte riferibili agli Idrobiidi s.l. (Tabella 5.35) Soprattutto lo sfruttamento di acque sorgive può
essere un notevole fattore di rischio per specie di prosobranchi acquidulcicoli, come Pseudamnicola lucensis, Orientalina callosa e Melanopsis etrusca.
Alcuni grandi bivalvi di acqua dolce, peraltro già inseriti negli allegati della Direttiva Habitat (all. II, IV, V),
sono particolarmente minacciati. A causa del loro complesso ciclo vitale, questi organismi sono vulnerabili anche per la stretta dipendenza dai pesci, sui quali le loro
larve (glochidi) svolgono una fase di vita parassitaria. Probabilmente, però, il maggiore fattore di rischio per questi bivalvi proviene dalla pessima gestione del nostro patrimonio ittico, che ha comportato il frequente ricorso a
immissioni di pesci prelevati in altri bacini italiani ed europei. I pesci, infatti, possono veicolare glochidi di specie di bivalvi diverse e/o di diverse popolazioni di una stessa specie, avviando rispettivamente processi di concorrenza interspecifica o di introgressione, minacciando, in quest’ultimo caso, l’originalità genetica delle popolazioni.
Un discorso a parte merita Margaritifera auricularia, l’uni-
290 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
specie
Alzoniella cornucopia
Alzoniella feneriensis
Alzoniella lunensis
Alzoniella macrostoma
Alzoniella microstoma
Alzoniella sigestra
Belgrandia bonelliana
Bythiospeum vallei
Heleobia aponensis
Iglica giustii
Iglica pezzoli
Islamia cianensis
Islamia gaiteri
Orientalina callosa
Pezzolia radapalladis
Pseudamnicola lucensis
Plagigeyeria stochi
Sardohoratia islamioides
Sardohoratia sulcata
Sardopaladilhia plagigeyerica
distribuzione
Acque freatiche del Torrente Arbia (Toscana)
Acque sotterranee carsiche del Monte Fenera (Piemonte)
Acque freatiche del bacino del Fiume Magra (Toscana-Liguria)
Acque freatiche del bacino del Fiume Magra (Toscana-Liguria)
Acque freatiche del bacino del Fiume Magra (Toscana-Liguria)
Acque sotterranee a ponente di Genova (Liguria)
Acque termali presso Sarteano (Toscana)
Acque sotterranee carsiche presso Bergamo (Lombardia)
Acque termali dei Colli Berici ed Euganei (Veneto)
Acque sotterranee lungo il Fiume Isonzo (Friuli-Venezia Giulia)
Acque sotterranee carsiche del Monte Fenera (Piemonte)
Acque sorgive presso Siracusa (Sicilia)
Acque sotterranee dell’Isola d’Elba (Toscana)
Acque sorgive in provincia di Pescara e l’Aquila (Abruzzo)
Acque sotterranee presso Recco e Rapallo (Liguria)
Acque termali di Bagni di Lucca (Toscana)
Acque sotterranee carsiche del Fiume Timavo (Friuli-Venezia Giulia)
Acque sotterranee presso Dorgali (Sardegna)
Acque sotterranee presso Dorgali (Sardegna)
Acque sotterranee carsiche presso Dorgali (Sardegna)
ca specie dei Molluschi italiani la cui estinzione è ormai praticamente certa (Figura 5.17). Questo bivalve, uno dei più
grandi tra quelli delle acque dolci europee, viveva infossato
nei sedimenti ghiaioso-sabbiosi, preferibilmente nei tratti
poco profondi con corrente rapida, talvolta anche in acque
profonde di grandi complessi fluviali, ma, attualmente, risulta scomparsa quasi ovunque. Segnalazioni recenti si hanno solo per i bacini dell’Ebro in Spagna e della Loira in Francia, però solo in Spagna sono stati trovati esemplari viventi. Le segnalazioni per l’Italia, tutte del secolo scorso, sono
relative alla Lombardia e al Veneto, nei fiumi e canali dei
bacini del Chiese e del Mincio e nei canali del Padovano.
Benché diverse possano essere state le cause del declino (prelievo per la ricerca delle perle e per l’utilizzo della madreperla delle valve, inquinamento delle acque, alterazione degli
alvei e dei sedimenti fluviali), la drammatica scomparsa in
Fig. 5.17 – Margaritifera auricularia, uno dei più grandi bivalvi delle acque dolci europee, è l’unica specie dei Molluschi italiani la cui
estinzione è ormai praticamente certa. In tempi storici, Margaritifera auricularia era ancora diffusa in numerosi corsi d’acqua dell’Europa occidentale, ma attualmente è presente solo nei bacini dell’Ebro
in Spagna, della Loira e della Charente in Francia (foto di S. Bambi).
Tabella 5.35 - Hybrobiidae s.l.
endemici con distribuzione
molto ridotta.
quasi tutto l’areale originario potrebbe essere dovuta al parallelo declino dello storione comune (Acipenser sturio) che
si presume fosse il pesce ospite delle larve.
Un’altra seria minaccia alla nostra malacofauna deriva
dall’introduzione di specie alloctone. Sia ripopolamenti
ittici, sia l’acquaristica hanno contribuito, mediante il rilascio intenzionale o occasionale di specie esotiche, all’inquinamento faunistico dei nostri ambienti acquatici. Così, negli ultimi anni, in Italia, come in altri paesi europei,
si è assistito non solo alla diffusione negli ambienti naturali di diverse specie estranee, sia di gasteropodi (Potamopyrgus antipodarum, Physa acuta, Helisoma duryi, ecc.),
che di bivalvi (Anodonta woodiana, Dreisseina polymorpha, ecc.), ma anche alla transfaunazione di alcune specie autoctone (Viviparus ater, Emmericia patula, ecc.) da
un distretto geografico all’altro.
FAUNA • 291
GRUPPI VARI
[Romolo Fochetti]
Alcuni gruppi sono presenti solo marginalmente nelle
acque dolci, con un numero ridotto o ridottissimo di specie in questo ambiente. È il caso ad esempio degli Araneidi, che mostrano una sola specie, Argyroneta aquatica
che popola soprattutto stagni e canali a lento scorrimento, dove respira ossigeno atmosferico immagazzinato in
una bolla d’aria sott’acqua. In Italia è nota solo al Nord;
per la sua peculiare biologia è specie che andrebbe soggetta a misure di protezione. Anche i Nemertini, animali
vermiformi tipicamente marini, presentano una sola specie dulcacquicola nel nostro paese, Prostoma graecense, la
quale, anche se non appare minacciata e cosmopolita, è
ritenuta specie a stretta valenza ecologica e andrebbe comunque soggetta a misure di protezione per la sua particolare biologia. Due specie sono segnalate per i Policheti,
gruppo molto ben diversificato nell’ambiente marino,
Marifugia cavatica, specie troglobia nota in Italia solo al
Nord-Est (solo nella Venezia Giulia), a ristretta valenza
ecologica come tutte le specie stigobie, e Troglochaetus berenecki, specie stigobia di Archianellide segnalata recentemente in Trentino e Veneto.
292 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
CROSTACEI
[Roberto Argano]
I Crostacei sono un gruppo ben rappresentato (circa
700 specie note) e diversificato nelle acque dolci italiane.
Essi popolano un po’ tutti gli ambienti, dalle acque sotterranee alle pozze temporanee, dai corsi d’acqua alle acque stagnanti. Proprio nell’ambiente lentico costituiscono un elemento importante delle catene trofiche contribuendo in gran parte alla biomassa planctonica con i Cladoceri e i Copepodi. I casi relativi ai decapodi delle acque correnti, Austropotamobius pallipes (gambero, citato
nell’allegato B della Direttiva Habitat) e Potamon fluviatile (granchio) sono purtroppo emblematici delle modificazioni che l’impatto antropico ha indotto negli ambienti reici e della conseguente rarefazione e quindi della minaccia della sopravvivenza delle popolazioni italiane
di queste specie.
Lunghissima sarebbe la lista dei crostacei stigobi (Decapodi, Misidacei, Termosbenacei, Isopodi, Anfipodi,
Ostracodi, Copepodi, Mistacocaridi) fortemente minacciati: tanto per fare un esempio nella grotta Zinzulusa e
comunque nelle acque sotterranee del Salento è presente
una ricca taxocenosi composta da elementi endemici stigobi paleomediterranei (Spelaeomysis bottazzii, Typhlocaris salentina, Hadzia minuta, Monodella stygicola, Mixtacandona stammeri, Nitocrella stammeri, Psyllocamptus mo-
nacus, Metacyclops subdolus, M. stammeri, Microcharon arganoi). Anche nelle altre regioni italiane abbiamo situazioni analoghe. Per citare qualche caso rilevante si può accennare al decapode Troglocaris anophthalmus dei sistemi
sotterranei del Carso, i Termosbenacei come Tethysbaena
argentarii (Grotta degli Stretti) e T. siracusae in Sicilia, gli
Isopodi Stenasellidi di Toscana e Sardegna (Figura 5.18).
Ancora per fare qualche esempio, anche se datato,
PAVAN (1992) elenca più di trenta specie di Cladoceri,
tra cui Sida cristallina, ritenuta minacciata, 38 specie
di Ostracodi, 15 specie di Copepodi, 10 di Isopodi (tra
cui specie di Proasellus, Monolistra, Typhlocirolana, Microcerberus) e 38 specie di Anfipodi, tra i quali molte
specie endemiche di generi come Niphargus, Bogidiella, Ilvanella, Metaingolfiella e altri.
La trattazione sarebbe comunque incompleta se non
fossero citate le specie endemiche e minacciate di Crostacei di acque astatiche, alcune delle quali assurte a vero e
proprio emblema dello status di precarietà. Possiamo citare tra gli Anostraci Chirocephalus marchesonii e C. sibillae, endemiche di laghetti di quota dei Monti Sibillini,
C. ruffoi dell’Appennino calabro, Tanymastix stellae, endemica della Sardegna.
Infine ricordiamo che esistono vari casi di introduzione di specie aliene come i decapodi Procambarus clarkii
e Orconectes limosus che incidono pesantemente nelle biocenosi in cui si sono insediate.
Fig. 5.18 - Un isopode stigobio (Stenasellus) delle acque sotterranee di Sardegna e Toscana di grande interesse paleobiogeografico.
FAUNA • 293
INSETTI
[Romolo Fochetti]
Efemerotteri
Gli Efemerotteri sono un ordine di insetti emimetaboli, con adulti sub-aerei e larve acquatiche. Le larve colonizzano un po’ tutte le acque dolci, siano esse stagnanti o
correnti, dove costituiscono una componente importante
delle biocenosi per numero di specie, di individui e per
biomassa. Tra gli Efemerotteri sono annoverate specie considerate indicatrici di buona qualità dell’acqua (alcuni Eptagenidi) insieme a specie ad ampia valenza ecologica (specie dei generi Baetis ed Ephemerella) (Figure 5.19 e 5.20).
Fig. 5.20 - Ninfa di un Efemerottero del genere Epeorus. Le larve delle specie di Epeorus abitano le acque fredde dei tratti superiori dei corsi d’acqua non inquinati.
Fig. 5.19 - I maschi adulti del genere Baetis si distinguono per gli occhi fortemente sviluppati. Sono note in Italia circa quindici specie appartenenti a questo genere.
La tassonomia del gruppo è ben conosciuta in Italia
(94 specie segnalate) mentre la distribuzione di dettaglio
è ancora poco nota in alcune aree della penisola. Tra le
specie rare (una decina circa) ricordiamo: Potamanthus
luteus segnalata solo in alcuni siti dell’Appennino ligure,
Brachycercus harrisella finora raccolta solo nel F. Po presso Piacenza, Ephemerella ikonomovi ed E. mucronata limitate all’Italia meridionale la prima e al Friuli-Venezia Giulia la seconda. Anche rare risultano Torleya major, segnalata in poche località dell’Italia centro-settentrionale, e
Thraulus bellus, segnalata solo nell’Appennino ligure. Tutte le specie sopra citate devono essere considerate a rischio
dato il perdurante e crescente stato di compromissione
delle acque interne. Secondo PAVAN (1992) Ephoron virgo è decisamente minacciata.
Odonati
Gli Odonati, o libellule, sono insetti eterometaboli,
cioè con un ciclo privo della fase pupale e quindi di me-
tamorfosi, con larve acquatiche (detti perciò anfibiotici).
Gli adulti sono invece abili volatori e presentano colori
vivaci. Le larve sono attive predatrici di altri invertebrati
acquatici e popolano un po’ tutte le acque interne, dai laghi agli stagni, dai canali alle pozze temporanee, dai fontanili alle acque correnti. Alcune specie colonizzano anche habitat salmastri. L’ordine è ben conosciuto dal punto di vista sistematico e biogeografico. Delle 88 specie note in Italia solo una è endemica (Cordulegaster trinacriae):
questo è comprensibile data la loro forte attitudine al volo e alla dispersione.
Circa la metà tra specie e sottospecie è ritenuta a vario
titolo minacciata o vulnerabile. Per fare qualche esempio
Nehalennia speciosa è citata in Italia per due sole stazioni
pedemontane in Lombardia e Friuli, mentre Ischnura fountainei è segnalata solo nell’isola di Pantelleria. Lyndenia
tetraphylla è considerata rarissima in Italia con poche segnalazioni relative alla costa tirrenica e alla Sardegna, dove vive nei laghi costieri. Anche per Epitheca bimaculata
esistono solo due antiche citazioni per il Veneto e il Trentino, mentre Brachytemis leucosticta è nota in poche stazioni della Sicilia meridionale. Dai dati reperibili in letteratura gli Odonati sono da ritenersi sicuramente uno
dei gruppi più minacciati dall’inquinamento e dalle modificazioni ambientali relativi alle acque dolci. Coenagrion
ornatum e Epitheca bimaculata sono probabilmente estinte sul territorio italiano.
Plecotteri
I Plecotteri sono un ordine di insetti eterometaboli con
larve acquatiche e adulti terrestri o subaerei. Le larve necessitano di acque fredde e ben ossigenate: esse vivono sul
294 • STATO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA
fondo dei corsi d’acqua e hanno costumi alimentari vari,
da predatori a detritivori. La loro particolare ecologia li
rende uno dei principali gruppi bioindicatori di buona
qualità ambientale (Figura 5.21).
Il loro caso è emblematico riguardo allo stato di conservazione delle acque correnti. Nell’ultimo secolo si sono estinte nel nostro paese almeno quattro specie (Isogenus nubecola, Brachyptera rifasciata, Isoperla obscura, Taeniopteryx nebulosa), e oltre venti sono gravemente minacciate di estinzione, essendo ridotte a pochissime popolazioni puntiformi. Tra queste ultime la situazione è particolarmente grave
per Perla bipunctata, P. burmeisteriana, Xanthoperla apicalis, ridotte a due o tre nuclei e, ovviamente, per tutte le specie endemiche minacciate. È da notare che alla fine dell’800
Brachyptera rifasciata, dato l’enorme numero di individui,
era considerata dannosa per le siepi e per l’illuminazione
stradale perché oscurava i lampioni. Delle 144 specie riportate per la fauna italiana (su 426 che compongono la fauna
europea) sono scomparse quasi tutte le specie fluviali, dato
l’inquinamento che grava soprattutto sul tratto terminale
dei nostri corsi d’acqua. Se si considera che 44 delle 144
specie note sono endemiche di aree spesso ristrette della regione italiana si ha un quadro desolante in merito allo stato di salute di questo gruppo e al pericolo di scomparsa di
intere taxocenosi oltreché di entità in natura.
Eterotteri
Gli Eterotteri sono un ordine di insetti eterometaboli,
noti col nome volgare di cimici. La maggior parte delle
specie dulcacquicole è predatrice e si ciba di invertebrati
ma anche di girini o piccoli pesci. Si possono trovare Eterotteri in tutti gli ambienti di acque dolci, anche se gli
stagni e le paludi sono gli ambienti di elezione. Delle
1.405 specie segnalate per la fauna italiana meno di cento (88 per la precisione) sono confinate nelle acque interne. Le conoscenze sistematiche sono soddisfacenti solo
per i Corixidi e per i Gerromorfi.
La mancanza di conoscenze sugli aspetti della loro ecologia impedisce una valutazione di quali specie siano vulnerabili, quali minacciate, ecc. Molte delle specie segnalate in Italia sono endemiche di aree ristrette. Sigara servadei, Nepa sardiniensis e Velia sarda ad esempio sono endemismi sardi o sardo-corsi. Tra gli Eterotteri dulcacquicoli più significativi c’è sicuramente Aphelocheirus aestivalis, che predilige il tratto potamale a flusso laminare dei
corsi d’acqua. A causa della sua peculiare respirazione necessita di acqua con un alto tenore di ossigeno disciolto.
Poiché il tratto potamale dei nostri corsi d’acqua è quello più minacciato dai fenomeni inquinanti, A. aestivalis
è fortemente a rischio nel nostro paese. È nota in pochi
siti dell’Italia peninsulare.
Fig. 5.21 - I Plecotteri sono tra i più efficaci indicatori di buona qualità delle acque correnti, dove vivono le loro larve (nella foto un nemuroideo).
FAUNA • 295
Coleotteri
I Coleotteri sono un ordine estremamente diversificato
nelle acque dolci, che colonizzano con un alto numero di
famiglie. Sono insetti olometaboli, quindi con un ciclo che
prevede la fase di pupa in cui si realizza la metamorfosi completa, che hanno come carattere unificante la trasformazione del primo paio di ali in elitre, strutture sclerificate a protezione del secondo paio di ali, membranose. Sono secondi solo ai Ditteri (v. sopra) come radiazione nelle acque dolci, dove contano 580 specie sulle quasi 12.000 che compongono la fauna italiana; diversificato è anche il loro spettro trofico, essendo predatori come detritivori. Abitano tutti gli ambienti lotici e lentici, dalla pianura alla montagna.
È forse il taxon meglio conosciuto dal punto di vista sistematico, lo status di conservazione non è però altrettanto noto. Solo per fare alcuni esempi, tra gli Aliplidi Haliplus (Liaphlus) rubidus è considerata rarissima e minacciata; tra gli Idrenidi Ochtebius gestori è rarissima e Hydraena
bonionensis è rara; tra i Driopidi Dryops italicus è rarissima,
D. striatellus rara; tra gli Elmidi (Elmintidi) rare sono ritenute Elmis oscura, Oulimnius troglodytes, Potamophilus acuminatus, Riolus apfelbecki e Stenelmis consobrina. Tra i Coleotteri acquatici più conosciuti ci sono i Ditiscidi: Dytiscus lapponicus è vulnerabile mentre sono minacciate le specie Coelambus pallidulus, Graphoderus bilineatus, Herophydrus guineensis e Metronectes aubei, Cybister vulneratus. La
situazione più delicata però riguarda Dytiscus latissimus:
questa specie è