Scritto dal palco

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Scritto dal palco
Emmanuel Wallon
Professore all’Università Paris X – Nanterre
Scritto dal palco
Articolo pubblicato in Il teatro per la parola, la parola per il teatro, Pubblico e operatori della scena a
confronto, a cura di Antonia Lezza e Enzo Moscato, Quaderni/4, Centro studi sul teatro napolitano, meridionale ed
europeo, Forum Agorà (4 settembre 2007), Benevento, luglio 2008, p. 55-58.
« Faire théâtre de tout » (fare teatro di tutto), diceva Antoine Vitez1. In effetti, il regista
francese che ha messo in scena il Tartufo di Molière, la Scarpina di raso di Claudel e La Vita di
Galileo di Brecht, che ha tradotto e portato sul palco Goethe e Gogol, ha inoltre creato degli
spettacoli ispirati dai testi più diversi, che in origine non erano destinati all’interpretazione
drammatica. Per citarne qualcuno : Les Miracles, a partire dal Vangelo secondo San Giovanni, al
Théâtre national de Chaillot (1974), Catherine, théâtre-récit, estratto dal romanzo di Aragon Les
Cloches de Bâle (1975), La Rencontre de Georges Pompidou avec Mao Zedong (1979), Entretien avec M.
Saïd Hammadi, ouvrier algérien de Tahar Ben Jelloun (1982).
In verità Vitez non è stato il solo, durante gli anni 70 e 80, ad estrarre il materiale della
rappresentazione dai romanzi o dai saggi, dalla stampa quotidiana o dalla memoria dei
familiari. Questo movimento ha attraversato in tutte le direzioni il pianeta Teatro, dalla
Polonia di Tadeusz Kantor al Quebec di Robert Lepage, da New York con Richard Foreman
a Zurigo con Christof Marthaler, facendo tappa nell’ Inghilterra di Simon MacBurney ed il
Belgio di Alain Platel. Si è ancora rinforzato negli ultimi anni del novecento con degli autori
che lavorano senza parole, come in certi spettacoli di Romeo Castellucci in Italia, oppure che
riuniscono in un puzzle testi, musiche ed imagini, come nelle regie di François Tanguy in
Francia. Il ministero della Cultura francese aveva tirato le conclusioni nel suo inconfondibile
gergo, qualche anno fa, quando formo’ una « commissione di aiuto alle scritture non
esclusivamente drammatiche ». La composizione drammatica era già passata dal singolare al
plurale di « scritture contemporanee ». Al posto del brano attribuito ad un poeta o un
drammaturgo, si sono visti in questi ultimi anni molti spettacoli scritti direttamente dal palco,
che sono il risultato delle improvvisazioni degli stessi interpreti, elaborati collettivamente,
considerati come « work in progress », processi in corso più che opere compiute.
Ho cercato di analizzare in una raccolta2 le ragioni di questo cambiamento dei rapporti tra
l’atto e lo scritto, tra la creazione teatrale e le sue fonti attinte nella letteratura. Più che di un
motivo unico o dominante, sembra trattarsi di fattori che si combinano. Innanzitutto si puo’
intuire una certa stanchezza degli attori ma anche del pubblico, a forza di rileggere un
repertorio visitato molte volte, già ri-interpretato, scostruito e ricostruito, come accade con i
capolavori di Shakespeare, Goldoni, Chekhov. Il trionfo del regista, diventato durante il
secolo scorso il vero protagonista del mondo teatrale grazie alle invenzioni di Craig,
Stanislavski, Meyerhold, Reinhardt, Piscator, Copeau, Appia, aveva già permesso che il suo
nome apparisse sui programmi e le locandine allo stesso livello o addirittura al di sopra di
quello di Moliere o di Büchner. Ai nostri tempi succede spesso che il nome del regista si
sostituisca a quello degli autori per rimanere il solo deus ex machina del teatro. È vero che alcuni
osservatori hanno diagnosticato una crisi della scrittura. È forse iniziata con la rottura
" Faire théâtre non seulement de tout lieu, mais aussi de tout texte et de tout temps " : cf. Anne
Ubersfeld, Antoine Vitez, Nathan Université, Paris, 1999.
2 Théâtre en pièces, Le texte en éclats, a cura di Emmanuel Wallon, Etudes théâtrales n° 13, Louvain-laNeuve, 1998.
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dell’ordine del linguaggio classico, amplificata soprattutto da Beckett, ma anche da Ionesco,
Sarraute e qualche altro. I nuovi metodi della comunicazione attuale ne hanno scatenato gli
effetti, se si pensa per esempio alla diffusione dei messagi di tipo SMS. Gli orrori delle guerre
mondiali avevano marcato la rivincita della realtà sulla finzione. La favola fa parte delle
vittime di questo conflitto. Dopo gli scossoni del 68, Robert Abirached ha reso conto di un
altro crollo, quello del personaggio3. La sua identità e la sua integrità erano già indebolite dai
vari tentativi di fare del corpo dell’attore il veicolo di una nuova drammaturgia, da Antonin
Artaud a Jerzy Grotowski.
In Italia, il lavori di artisti che si distinguono da Luca Ronconi e Carmelo Bene, senza
dimenticare Dario Fo e Franca Rame, hanno segnato uno stacco rispetto alle sottili e luminose
letture del monologo tragico e del dialogo comico dovute a Giorgio Strehler. Aggiungiamo a
questo quadro le modificazioni intervenute nel modo di fabbricare uno spettacolo, con lo
sviluppo della scenografia, il ritorno della musica dal vivo, oppure, sempre più spesso,
l’intervento del video. Davanti a tante trasformazioni, Hans-Thies Lehmann non esita a
dichiarare aperta l’era del teatro « post-drammatico »4, malgrado il recente rinnovo del
repertorio grazie a Pier Paolo Pasolini, Harold Pinter, Thomas Bernhardt, Bernard-Marie
Koltès, Jon Fosse, Lars Noren et molti altri.
C’è senza dubbio una voglia di sperimentare, di ricercare quello che il teatro puo’ regalare
senza il sostegno o la cauzione della letteratura. Si manifesta in questo modo la tentazione di
usare la propria fragilità come un’arma contro i mezzi potentissimi delle reti e degli schermi,
nell’intenzione di dare più potere critico allo spettatore. Si tratta insomma della richiesta di
una maggiore teatralità, cioé di una « emancipazione della rappresentazione », per citare
Bernard Dort5. La drammaturgia nata e cresciuta sul palco, in presa diretta con l’epicentro
della fabbrica teatrale, mette in dubbio ma anche in movimento tutti i componenti della
materia scenica : lo spazio, la luce, la lingua, la parola – con il suo valore sovente ambiguo, la
sua sostanza flessibile, il suo significato talvolta vano -, il racconto e la sua struttura temporale
volata a pezzi. Tutto questo entra in relazione con il corpo sensibile, di cui le energie ma
anche le ferite sono state chiaramente mostrate da Pina Bausch e il Tanztheater di Wuppertal.
Come il danzatore, l’attore, considerato come un artista professionista ma anche come « atleta
affettivo » dai più grandi maestri, esplora le sue facoltà espressive, dai tempi di Konstantin
Stanislavski a quelli di Carmelo Bene. È su questo materiale vivente del gesto e della voce – e
non solo con la parola – che continuano a faticare sia Romeo Castellucci e la Societas
Raffaello Sanzio che Annalisa Bianco e Virginio Liberti di Egum Teatro, sia Emma Dante
che Pippo Delbono che contano sull’intensa presenza degli « istrioni ».
I confini tra il teatro e la musica, la danza, il crico, il cinema e la video si muovono in
continuazione. Le solite frontiere tra il documento storico e la finzione, tra l’archivio e il
poema, il dialogo e le didascalie, il testo e la margine sono state spostate anche loro. Il sistema
della produzione privileggia il regista rispetto all’autore e quindi cambia la repartizione dei
ruoli fra gli artisti ed i destinatari dell’opera, che diventano più assistenti che utenti.
La parola d’autore non è più regina quando deve condividere il suo dominio con l’accordo
del musicista, il passo del ballerino, il salto dell’acrobata, l’effetto del pirotecnico, il gesto muto
dei burattini. Le convenzioni del dramma o della commedia, da lungo tempo messe in
Cf. Robert Abirached, La crise du personnage dans le théâtre moderne, Grasset, Paris, 1978.
Cf. Hans-Thies Lehmann, Postramatisches Theater, Verlag den Autoren, Frankfurt am Main, 1999.
5 Cf. Bernard Dort, La Représentation émancipee, Actes Sud, Arles-Paris,1998.
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questione all’interno del testo, da Pirandello fino a Genet, sono oggi turbate nello spazio
scenico. La sua coerenza come luogo dell’illusione è stata contestata dai nuovi scenografi e
dagli artisti della strada. La durata della rappresentazione, sospesa da Bob Wilson nel suo Lo
sguardo del sordo, allargata da Peter Brook per il suo Mahâbharâta, sembra flessibile. La
separazione semiotica tra il palco e la platea, ancora sacrosanta ventiquatro secoli dopo la
morte di Aristotele, oggi si rivela trasgressata, rovesciata, minata o addiritura cancellata dalle
varie intervenzioni degli attori in direzione degli spettatori. Il rapporto con il pubblico,
sollecitato, provocato, invaso, magari invitato a partecipare dai commedianti, ha distrutturato
il precedimento dell’opera. Questa appare ne chiusa ne finita, ma sempre più relativa.
Possiamo chiederci se questa perdita di referimenti rischia di disorientare lo spettatore. Si
puo in effetti temere che questo tipo di teatro si accontenti di attualizzare la sregolatezza
generale, o peggio : di riscoprire le invenzione in termini di miscugli e scambi già sperimentati
dal Living Theater, dal Bread and Puppet, dal Grand Magic Circus o dal Théâtre du Soleil…
Il pericolo sarebbe pero’ ancora più grande di imprigionare il teatro – come l’arte in generale
– nelle forme e nelle scatole di un tempo scomparso. Il teatro deve rimanere l’arte del
presente, ovvero dei presenti.
Emmanuel Wallon