Un ritratto delle donne senza figli - UniFI
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Un ritratto delle donne senza figli - UniFI
Un ritratto delle donne senza figli Maria Letizia Tanturri e Letizia Mencarini Dipartimento di Statistica di Firenze [email protected] [email protected] 1. I N T R O D U Z I O N E Negli ultimi anni l’infecondità è divenuta una componente importante del declino dei livelli di fecondità in molti Paesi europei, inclusa l’Italia, dove l’incidenza delle donne infeconde sta rapidamente aumentando. Non si tratta soltanto di una conseguenza del progressivo ritardo nei tempi della maternità, per cui si osservano quote maggiori di donne senza figli alle età più giovani, ma cresce anche l’infecondità definitiva, misurata al termine della vita riproduttiva delle generazioni, a partire dalle nate alla fine degli anni Cinquanta. Sebbene l’incidenza del fenomeno abbia segnato una marcata crescita, nel nostro Paese si hanno ancora poche informazioni sulle donne che terminano la vita riproduttiva senza aver generato: si sa poco sia delle loro caratteristiche sia dei fattori che hanno contribuito a determinare tale condizione. Ancora meno indagati restano gli aspetti che attengono alla dimensione più profonda e sfuggente dei processi decisionali, dei valori e degli atteggiamenti culturali che possono condurre all’infecondità. La demografia della bassa fecondità sembra aver trascurato la questione dell’infecondità per lungo tempo, considerando le donne senza figli come un gruppo residuale e di scarsa rilevanza per la comprensione del comportamento riproduttivo. In Italia1 la mancanza di studi mirati sul tema si deve, con ogni probabilitàal fatto che per lungo tempo, la maternità è stata considerata l’inevitabile conseguenza di ogni matrimonio e dunque il comportamento “normale”. La quota di donne infeconde - pertanto - sembrava del tutto “fisiologica”, dovuta in massima parte al mancato accesso al matrimonio o, per le donne in unione, alla sterilità. Il rapido aumento dell’infecondità nelle coorti più giovani, tuttavia, pone nuovi interrogativi sulle ragioni che determinano tale condizione. Ci si domanda se alle cause “tradizionali” d’infecondità si aggiungano cause “moderne” e se sia cresciuta la componente di infecondità volontaria. 1 La letteratura sulle determinanti dell’infecondità è invece abbondante nei Paesi anglosassoni - Stati Uniti in primis, ma anche Australia e Regno Unito - che vantano una più lunga tradizione in questo In questo lavoro ci proponiamo di riflettere sul fenomeno dell’infecondità, sia da un punto di vista teorico, sia attraverso l’esame dei risultati delle indagini quantitative e qualitative, condotte nell’ambito della ricerca “La bassa fecondità italiana tra costrizioni economiche e mutamento di valori”. Cercheremo di tracciare un ritratto delle donne senza figli, consapevoli però dell’eterogeneità dei soggetti che intendiamo ritrarre: ci troviamo di fronte, infatti, ad una varietà di profili e ad una pluralità di percorsi assai ricca, in cui accanto a somiglianze troviamo pronunciate difformità. I processi decisionali che portano all’infecondità sono assai complessi e gli elementi d’intenzionalità non sono sempre chiaramente distinguibili. Di questa descrizione costituirà una necessaria cornice, un esame preliminare, con l’ausilio di dati aggregati, dei livelli e delle tendenze della fecondità in Italia e in Europa in un’ottica comparativa. 2. L A C O R N I C E : L ’ I N C I D E N Z A D E L L ’ I N F E C O N D I T À A L I V E L L O A G G R E G A T O Al fine di comprendere meglio la peculiarità della situazione italiana e i suoi rapidi mutamenti è utile esaminare i livelli d’infecondità, in una prospettiva comparativa. In primo luogo, osserviamo la relazione tra livelli di fecondità completa per coorte e la quota di donne senza figli dei vari paesi europei, relativamente alle generazioni di nate nel 1940, 1950 e 1960 (Figura 1). Se una relazione nettamente negativa può essere notata per le donne nate nel 1940, essa appare sempre più affievolita nelle due coorti più giovani. Sembra, dunque, che, a livello macro, la quota d’infecondità diventi nel tempo meno legata al Tasso di Fecondità Totale: in altre parole, in paesi con livelli di fecondità molto simili si possono osservare proporzioni di donne senza figli molto diverse. Sembra pertanto opportuno uno studio approfondito delle determinanti dell’infecondità, come comportamento autonomo e non più solo residuale. Concentriamoci adesso sulla proporzione di donne senza figli nei principali paesi europei per la coorte di nate nel 1960, nell’ipotesi che esse in sostanza abbiano concluso la vita riproduttiva. L’Italia - sfiorando il 15% - presenta una proporzione di donne senza figli tutt’altro che trascurabile. Per questo particolare aspetto, si distacca dal “modello mediterraneo” - rappresentato dal Portogallo e dalla Spagna, così come dalla Francia - ove l’infecondità è ancora piuttosto rara, per collocarsi, invece, tra i Paesi del Nord Europa, con un livello di infecondità simile a quello irlandese e superiore a quello della Svezia, del Belgio e della Danimarca, che pure in passato avevano mostrato quote più consistenti di quelle italiane (Prioux 1993). ambito di ricerca (si cfr. ad es. Abma e Martinez 2002, Weston e Qu 2001, Bachu 1999, McAllister e Clark 1999, Kiernan 1989, Bloom e Pebley 1982). 2 Figura 1 Relazione tra la proporzione di donne senza figli e il Tasso di Fecondità Totale. Paesi europei. Coorti 1940, 1950 e 1960 (Fonte: Eurostat- New Chronos) A) COORTE 1940 3,8 3,6 3,4 TFT per coorte 3,2 3,0 2,8 2,6 2,4 2,2 2,0 1,8 1,6 1,4 1,2 1,0 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 20 22 24 20 22 24 26 28 30 % donne senza figli B) COORTE 1950 3,8 3,6 3,4 3,2 TFTper coorte 3,0 2,8 2,6 2,4 2,2 2,0 1,8 1,6 1,4 1,2 1,0 4 6 8 10 12 14 16 18 26 28 30 % donne senza figli C) COORTE 1960 3,8 3,6 3,4 3,2 TFT per coorte 3,0 2,8 2,6 2,4 2,2 2,0 1,8 1,6 1,4 1,2 1,0 4 6 8 10 12 14 16 18 % donne senza figli 3 26 28 30 In Italia, l’andamento dell’infecondità tra le coorti ha una forma ad “U” (Figura 2), simile a quello osservato nei principali paesi dell’Europa Occidentale, anche se ritardato di qualche anno (Frejka et al. 2001, Prioux 1993): si è passati dai livelli attorno al 17% delle nate negli anni Venti, a quote assai contenute per le nate nei primi anni Quaranta che hanno contribuito alla ripresa della fecondità degli Sessanta, fino alla crescita repentina e continua, osservata per le nate dalla metà degli anni Cinquanta. Se si considerano le stime della fecondità completa delle generazioni più giovani - elaborate dall’ISTAT, tenendo conto del processo di ritardo e del successivo recupero della fecondità2 - pare che rinuncerà alla maternità oltre un quinto delle donne nate alla metà degli anni Sessanta. Il fenomeno dell’infecondità definitiva, dunque, sta emergendo in modo drammatico nelle coorti più recenti. Figura 2 Tendenza delle quote di infecondità definitiva per generazione in Italia, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Toscana. Coorti 1920-1966 (Fonte: ISTAT). Dati stimati 320 300 Italia Toscana Friuli VG Sicilia 280 Quota di donne senza figli (000) 260 Friuli VG 240 220 Italia 200 180 160 140 120 100 80 Sicilia 60 Toscana 40 1966 1964 1962 1960 1958 1956 1954 1952 1950 1948 1946 1944 1942 1940 1938 1936 1934 1932 1930 1928 1926 1924 1922 1920 20 Generazioni Fonte : ISTAT L’andamento dei livelli d’infecondità complessivi nel nostro Paese è la composizione di tendenze assai disomogenee nei vari ambiti regionali. Nel passato rimanere senza figli era una condizione più comune tra le donne del Meridione - come alternativa ad una prole numerosa - che non tra le donne del Nord che, invece, optavano più frequentemente per il figlio unico (Santini, 1995). In tempi più recenti la situazione si è capovolta: i livelli di infecondità definitiva sono rimasti stabili nel Sud, mentre è nel Nord che ha avuto luogo una rapida crescita del fenomeno. E’ questo un ulteriore 2 Per una trattazione esauriente dei metodi di stima si rimanda al capitolo introduttivo della pubblicazione dell’ISTAT (1997). 4 elemento che induce ad ipotizzare l’emergere di cause d’infecondità differenti rispetto al passato. Nella figura 2, a titolo esemplificativo delle differenze regionali, abbiamo mostrato la tendenza dei livelli d’infecondità definitiva in tre delle cinque regioni dove sono situate le città in cui sono state svolte le indagini: Friuli Venezia Giulia, Toscana e Sicilia. La tendenza toscana, a partire dalle coorti nate negli anni Trenta fino a quelle degli anni Cinquanta, ha registrato livelli d’infecondità davvero esigui e molto al di sotto della media nazionale, mentre per le coorti più recenti l’aumento è stato repentino, tanto da raggiungere e superare i dati medi nazionali. In Friuli Venezia Giulia, l’andamento dell’infecondità è andato oscillando attorno ai valori nazionali, con un picco per le generazioni nate tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta. Le tendenze per le corti più giovani rivelano livelli più consistenti rispetto all’Italia nel suo insieme: secondo le stime, addirittura una donna su tre nata alla metà degli anni Sessanta terminerebbe la vita riproduttiva senza aver generato. Osservando la tendenza dell’infecondità in Sicilia, si nota una situazione di sostanziale stabilità su livelli di poco superiori a quelli medi per le coorti nate fino ai primi anni Cinquanta, cui fa seguito una riduzione della frequenza dell’infecondità, in controtendenza rispetto al Paese nel suo insieme. Le stime per le generazioni più giovani mostrano un lieve aumento delle quote di donne senza figli, che rimangono tuttavia più contenute (attorno al 13%) rispetto alla media italiana. 3. I L S O G G E T T O D A R I T R A R R E : U N G R U P P O D E F I N I T O D A U N “ N O N - E V E N T O ” La definizione d’infecondità denota semplicemente l’assenza di figli, ma è subito evidente che lo stesso concetto comprende un coacervo di situazioni che hanno implicazioni assai diverse per la comprensione delle strategie riproduttive (De Rose 1996, Housecknecht 1983). In primis, è opportuno distinguere le donne infeconde secondo le motivazioni che le hanno portate a tale condizione: una prima basilare distinzione è dunque tra coloro che volontariamente scelgono di non diventare madri e coloro che, invece, non riescono ad avere figli a causa d’impedimenti fisici (Bloom e Pebley 1982). Si deve tener presente, tuttavia, che anche questa distinzione – semplice in apparenza – è tutt’altro che agevole: si pensi, per esempio alle donne che rinviano continuamente la nascita del figlio fino poi a rinunciarvi definitivamente. In questo caso, un comportamento che era volontario in origine potrebbe poi finire col diventare involontario per via di sopraggiunti problemi di sterilità. Inoltre, la scelta consapevole di non avere figli, può essere desiderata ex ante - frutto di un’effettiva preferenza per una vita senza figli – o essere invece una risposta a costrizioni esterne che impediscono la realizzazione del desiderio di maternità: si pensi, solo per fare qualche esempio, ai problemi legati al rapporto di coppia, agli impedimenti economici, al precariato lavorativo, alle difficoltà di conciliazione tra lavoro e maternità. Ma il confine tra ciò che è scelta e ciò che è invece costrizione in molti casi può essere ancora più sfumato: ad esempio, non è facile stabilire se il mancato ingresso in unione3 sia 3 Nella letteratura, le donne non in unione, sono per lo più considerate come “volontariamente infeconde”. 5 effettivamente una scelta delle donne che hanno una scarsa propensione per la famiglia, o sia, invece, una conseguenza del fatto di non aver trovato il “partner giusto”. In secondo luogo, è utile tenere conto della prospettiva temporale, discriminando tra infecondità temporanea e definitiva. Si deve tener presente che, in genere, la fecondità realizzata è il frutto di un “processo decisionale condizionato” e, come tale, le scelte possono essere rinegoziate e riviste più volte al mutare delle circostanze, nelle diverse tappe del ciclo di vita. Questo processo, però, trova un limite temporale preciso nella fine del periodo fertile, oltre il quale le decisioni prese non possono essere più rimesse in discussione. Solo dopo questo termine si può parlare di infecondità permanente. Se invece si prendono in esame donne ancora in età riproduttiva, non possiamo che ritenere temporanea tale condizione, al massimo accertando le loro intenzioni riproduttive e il loro grado di convinzione nelle preferenze rivelate. La letteratura mostra che in genere solo un’esigua minoranza delle donne, nubili e in giovane età, prende ex ante la decisione di non aver figli (“early articulators”), mentre la maggior parte giunge a tale decisione solo dopo aver consolidato un certo stile di vita cui non intende più rinunciare (“permanent postponers”; McAllister e Clark 1999, Housecknecht 1983). Non mancano, tuttavia i casi in cui le donne continuano ad oscillare (“waverer”) senza mai prendere una posizione netta e definitiva riguardo alla maternità (McAllister e Clark 1999). L’esame delle intenzioni riproduttive ci fornisce qualche utile elemento per valutare la dimensione dell’infecondità voluta. Dai risultati della Seconda Indagine sulla Fecondità in Italia, sembra che l’infecondità, più che una precisa scelta ex ante, sia piuttosto una constatazione di fatto, dovuta al concatenarsi delle circostanze della vita: infatti, l’intenzione di rimanere senza figli, che ha una frequenza esigua (2%) tra le donne molto giovani, tende ad aumentare sensibilmente dai 40 anni in poi, in corrispondenza del limite fisiologico della vita fertile, fino a raggiungere il 7% (Sorvillo e Marsili 1999). Una parte di tali risposte, tuttavia, può essere influenzata dalla reticenza a rivelare le proprie preferenze per una vita senza figli, per non incorrere in un giudizio sociale negativo. O ancora, vi potrebbe essere una maggiore consapevolezza dei costi dei figli al crescere dell’età, mano a mano che si chiariscono le condizioni familiari e lavorative concrete in cui la maternità andrebbe ad inserirsi. I più recenti dati dell’Eurobarometro (2001) mostrano, invece, una quota sensibilmente più alta (6%) di giovani donne italiane (tra 20 e 34 anni), che considera ideale la famiglia senza figli (Goldstein, Lutz e Testa 2003): potrebbe essere un segno della maggiore diffusione – e quindi accettabilità sociale - della “cultura della piccola famiglia” (ibid). Seguendo lo schema interpretativo delle scelte razionali - tipico della teoria economica della fecondità - anche il processo che porta alla scelta d’infecondità può essere interpretato con un modello costi-benefici. E’ pertanto possibile ipotizzare che nella valutazione delle coppie i costi della rinuncia alla maternità si siano ridotti, mentre al contrario sia maggiore l’apprezzamento per i benefici legati al fatto di non avere figli. Seguendo questa linea di ragionamento, è possibile individuare una pluralità di fattori – legati sia al mutato quadro normativo sia a cambiamenti strutturali (Bloom e Pebley 1982) - che concorrono a 6 rendere l’infecondità una condizione desiderata (Huinink 2001). Molti elementi suggeriscono una riduzione dei costi dell’infecondità, per le donne così come per le coppie. In primo luogo l’identità femminile è divenuta più composita e multidimensionale: un’identità “patchwork” – secondo la suggestiva immagine di Balbo (1995) - di cui la maternità non è che una tra le tante componenti (Piazza 2003). Non avere figli, pertanto, non implica più una perdita di status o d’identità, ma anzi in molti casi agevola l’affermazione femminile in altri campi (McDonald 2000). In modo analogo, anche la coppia non si definisce più inevitabilmente nel ruolo genitoriale, ma trova senso e compiutezza nel rapporto di partnership di per sé (Aries 1980), rendendo i figli un optional più che una vera e propria necessità. D’altra parte, le norme sociali pronataliste – che in ogni cultura sembrano sostenere la componente biologica ed istintiva della riproduzione - stanno perdendo forza (Hobcraft e Kiernan, 1995) e senza dubbio la maggiore diffusione del comportamento determina di per sé una maggiore accettabilità sociale del rifiuto della procreazione, riducendo le sanzioni e, quindi, rafforzando ulteriormente il fenomeno. Come già sosteneva Ryder (1979), dunque, il cambiamento nel quadro delle norme sociali ha reso la maternità una questione di preferenze più che di obblighi. Va ricordato, però, che anche i benefici legati al non avere figli possono essere apprezzati in misura maggiore. Non solo – come è immediatamente intuitivo – la scelta d’infecondità consente il risparmio delle spese per i figli (De Santis e Maltagliati 2002), ma anche di evitare gli ingenti costi della maternità che i profondi cambiamenti strutturali hanno accresciuto. Nel momento in cui le donne, più istruite, occupano ruoli di particolare responsabilità e hanno maggiori prospettive di carriera, il costo del loro allontanamento dal mercato del lavoro diviene sempre più oneroso – nel breve così come nel lungo termine (Davies and Joshi 1990). D’altra parte, anche il costo della conciliazione tra il lavoro retribuito e quello domestico rimane alto (Huinink 2001), specialmente in un contesto come quello italiano in cui il mercato del lavoro è molto rigido (Del Boca 1997), i servizi per facilitare la conciliazione sono tuttora inadeguati (Saraceno 1998) e il “contratto di genere” resta per lo più legato a schemi tradizionali (McDonald 2000, Mencarini e Tanturri 2003). Le donne, consapevoli dell’enorme carico di lavoro che i figli comportano, possono apprezzare maggiormente uno stile di vita più libero, meno vincolato, maggiormente centrato sul consumo di certi beni (“adult goods”) e sulla possibilità di svolgere nel tempo libero le attività preferite (Bloom e Pebley 1982). È interessante, in questo senso, il recente costituirsi di gruppi e associazioni a difesa della scelta di una vita senza figli, che diventa quasi un elemento distintivo di un nuovo stile di vita e di consumo, come evidenziato in modo assai chiaro in un recente saggio di Fiammetta Bonazzi (2001). L’opzione per l’infecondità, infine, riduce il rischio determinato dalla non reversibilità della scelta di avere un figlio. In effetti, in un contesto sociale sempre più costretto all’incertezza da fattori congiunturali e da cambiamenti repentini, una scelta di lungo periodo come quella della maternità da alcuni potrebbe essere considerata insostenibile, se non addirittura indesiderabile, proprio perché senza ritorno. 7 4. M A T I T E E T A V O L O Z Z A : L E I N D A G I N I Q U A N T I T A T I VE E Q U A L I T A T I VE L’esame dei dati aggregati mostra una chiara tendenza ad un rapido aumento dell’infecondità, ma non ci fornisce elementi per distinguere tra proporzione d’infecondità voluta o invece indesiderata. La necessità di disporre di dati individuali sulle donne che terminano la loro vita senza aver generato ha spinto alla realizzazione di un’indagine specifica su un campione di donne senza figli, residenti in cinque città capoluogo di provincia: Firenze, Messina, Padova, Pesaro e Udine. Si è scelto di privilegiare l’ambito urbano, perché solitamente proprio in questo contesto emergono stili di vita e comportamenti demografici nuovi, meno legati alla tradizione. Il campione di donne senza figli è stato scelto in una fascia di età che va da 40 a 44 anni, in quanto a questa età si può parlare con buona approssimazione di infecondità definitiva (Housecknecht 1983): di norma, infatti, solo il 2-3% della fecondità completa di una generazione viene messa in atto dopo i 40 anni (Freijka et al. 2001). Il campione è stato estratto in modo casuale dalle liste anagrafiche, così da rispecchiare la distribuzione per stato civile delle donne senza figli in ciascuna città. In questo modo è possibile tenere in considerazione la pluralità di percorsi che possono condurre alla rinuncia della maternità. L’indagine è stata condotta con modalità CATI somministrando un questionario informatizzato4 che ha consentito di realizzare 859 interviste, tra il mese di aprile e novembre del 2002. La struttura del questionario permette di distinguere tra diversi profili di donne senza figli: le donne che non hanno mai avuto esperienze di unione, quelle che hanno continuato a rinviare la maternità fino a rinunciarvi definitivamente, quelle che hanno subito la condizione a causa di costrizioni esterne di vario tipo (impedimenti fisici, difficoltà economiche, instabilità delle unioni, ecc.) e, infine, le donne che volontariamente rifiutano la maternità, pur essendo in unione. Le donne che vivono in unione, ma che non hanno figli costituiscono un gruppo di particolare interesse per lo studio delle possibili determinanti “moderne” della fecondità, poiché mostrano come al progetto di coppia non si accompagni più necessariamente un progetto di procreazione. E’ nata così l’esigenza di indagare più in profondità questo peculiare gruppo, con l’ausilio di un’indagine qualitativa, indispensabile per mettere in luce quelle zone che inevitabilmente restano in ombra dopo l’analisi dei soli dati quantitativi. Nelle stesse città in cui è stata condotta l’indagine Cati - ad eccezione di Padova5 - sono stati realizzati 9 Focus Group che hanno avuto come protagoniste 59 donne senza figli, di età diverse, in unione e attive. Le partecipanti sono state selezionate secondo alcune caratteristiche in modo da 4 Per i dettagli tecnici si rimanda a Mariani (2003). 5 Nell’ambito dello stesso progetto di ricerca sono stati realizzati alcuni Focus Group a cui hanno partecipato gruppi, omogenei per parità, di madri con uno o tre figli e di uomini senza figli, con un figlio o con tre. 8 rendere omogeneo il gruppo per il livello culturale6. In genere sono state scelte donne nella fase finale della vita riproduttiva7 - a partire dai trentacinque anni fino ai quarantacinque – in modo da cogliere più compiutamente il processo decisionale che le ha portate a non avere figli, potendo però anche verificare se avessero intenzione di averne nell’immediato8. Durante l’incontro, le partecipanti sono state invitate ad esprimersi su alcuni temi, introdotti brevemente dal moderatore, che aveva il compito di avviare la discussione, con opportuni stimoli, predisposti in un una traccia strutturata per tematiche9. 5. U N R I T R A T T O I N B I A N C O E N E R O C O N I D A T I Q U A N T I T A T I V I 5.1 I molti volti delle donne senza figli Dallo schema della figura 3, possiamo osservare la frequenza relativa dei profili emersi, nelle cinque città nel loro insieme. Le donne che non si sono mai sposate o che non hanno mai convissuto sono 310, pari al 37% delle intervistate. Per il 9% di queste, proprio la volontà di non avere figli è alla base della scelta di non entrare in unione. Le altre intervistate – pari a 547 - si dividono tra coloro che sono in unione al momento dell’intervista (402) e coloro che, invece, lo sono state in passato (145). Le unioni correnti sono costituite per tre quarti da matrimoni e per un quarto da convivenze. 6 Alcuni incontri hanno avuto come protagoniste donne con livello di istruzione medio alto, mentre ad altri hanno partecipato donne con un livello di istruzione medio basso. 7 L’unica eccezione è rappresentata da Pesaro, dove hanno partecipato ai Focus Group anche donne più giovani. Ovviamente in questo caso si studiano più agevolmente i meccanismi che portano al ritardo della maternità e le intenzioni future, mentre si coglie meno chiaramente la definitività della scelta di non procreare. 8 Per cercare di far emergere le motivazioni che portano all'infecondità volontaria, durante le operazioni di screening, si sono escluse le donne con problemi di sterilità. Per evitare situazioni eccessivamente problematiche, inoltre, si è cercato di escludere anche le donne con una separazione in corso. 9 E’ opportuno precisare che le tracce di discussione utilizzate nelle varie città presentano talune differenze, sia per tener meglio conto del peculiare interesse di ciascuna unità di ricerca, sia per alcune modifiche volte a perfezionare la traccia in corso d’opera. I risultati dei Focus Group relativi ai temi trattati in questo lavoro restano comunque confrontabili. 9 Figura 3 I diversi profili delle donne senza figli intervistate nelle cinque città. DONNE SENZA FIGLI 859 100% In UNIONE attualmente (402) o in unione in passato (145) 547 (63%) Sempre SINGLE 310 (37%) Ha PROVATO ad avere figli MAI provato ad avere figli 251 (29%) 296 (34%) Subito dopo l'ingresso in unione Per problemi fisici Dopo un po' di tempo 92 (11%) 31 149 (18%) Presumibilmente ancora fecondi Sterili 86 (10%) 162 (19%) Stanno ancora PROVANDO NON PROVANO PIU' 64 (8%) 20 (2%) (4%) Per altre ragioni 265 (31%) Il 12% delle intervistate in unione ha avuto altre esperienze di matrimonio o coabitazione prima di quella attuale. In questo caso, tutte le domande sulla ricerca del figlio sono riferite alla prima unione: si sottintende, quindi, che proprio nella prima unione – quando i partner sono più giovani - le coppie prendano in considerazione la possibilità di diventare genitori10. Tra le donne in unione, più della metà (53%) non ha mai cercato di avere un figlio nel corso della prima convivenza. Nell’11% dei casi, questo comportamento è stato determinato da impedimenti fisici che avrebbero reso assai difficile una gravidanza. Tra le donne che hanno cercato di avere un bambino nel corso della prima unione, oltre la metà (59%) afferma di non aver provato subito dopo l’inizio della vita insieme, ma di aver aspettato un po’ di tempo. Solo poche donne, tuttavia, sono state in grado di ricordare la data precisa in cui hanno iniziato a provare a concepire un bambino. Potrebbe essere questo un segno della difficoltà di ricordare un momento della vita che appare più sfumato di altri (ad es. il matrimonio o la nascita di un figlio), o che è piuttosto frutto di un processo decisionale lungo e complesso, di cui resta difficile indicare in modo chiaro un momento risolutivo in cui i partner si sentono pronti a diventare genitori. Questo d’altra parte sembra confermato anche dai risultati dei FG, come vedremo in seguito. La maggior parte delle intervistate (64%) ha addotto come motivazione per il rinvio la necessità di vivere un periodo da sola con il partner. . 10 I limiti di tale impostazione sono stati messi in evidenza in Tanturri e Mencarini 2003. 10 Due terzi delle donne che hanno provato ad avere figli non si reputa più in grado di generare al momento dell’intervista, mentre delle 86 donne che ritengono di essere ancora fertili, tre quarti non hanno rinunciato definitivamente alla maternità, nonostante l’età. Quest’ultimo gruppo, dunque, potrebbe rientrare nella definizione data in letteratura delle temporaneamente infeconde.. 5.2 Le donne senza figli “per scelta” Osserviamo le caratteristiche e le motivazioni delle donne che, pur essendo in unione e non avendo particolari impedimenti fisici11, non hanno mai provato ad avere figli, con l’obbiettivo di comprendere meglio il fenomeno dell’infecondità volontaria12. Esaminiamo in primis le risposte alla batteria di domande volte ad indagare le motivazioni13 per non aver mai provato ad avere figli (Tabella 1). Si nota subito che vi sono cause più o meno importanti, ma nessuna capace di raccogliere consensi superiori al 36%. Le motivazioni indicate possono essere analizzate in relazione ai diversi ambiti cui attengono. Se si considera, infatti, la sfera dei costi, si nota come una quota più ampia di intervistate valuti i costi in termini di tempo (35%) o in termini di rinuncia alla carriera (28%), piuttosto che i costi in termini monetari (16%) o della rinuncia al lavoro per ragioni strettamente economiche (22%). Le difficoltà di conciliazione non risparmiano neppure i partner: anche la loro carriera sarebbe ostacolata dalla presenza di figli, tanto che il 15% delle donne lo considera un valido motivo per non averne. Sembra dunque che non sia solo la valutazione dei meri costi monetari a spingere le coppie a non volere figli, ma anche e soprattutto la percezione che i figli siano di ostacolo al raggiungimento di altri obiettivi della vita, impegnando del tempo che si vorrebbe destinare ad altri aspetti ritenuti prioritari. 11 Si ricorda che questo gruppo rappresenta l’11% delle donne in unione che non hanno mai provato ad avere figli. 12 Per una trattazione dettagliata delle caratteristiche e delle motivazioni delle donne che non sono mai entrate in unione, o delle donne in unione che hanno rinviato la maternità, si rimanda a Tanturri e Mencarini (2003). 13 E’ necessario precisare che le risposte non sono mutuamente esclusive e, dunque, in questo caso, non si vuole indagare la motivazione prevalente, bensì far emergere la pluralità di possibili cause che possono insieme determinare una scelta tanto delicata. 11 Tabella 1 Motivazioni per non aver mai provato ad avere figli. Percentuale e numero assoluto di risposte affermative Risposte affermative % N Le seguenti motivazioni sono state per lei importanti per decidere negli anni passati di non avere figli? Non avevate abbastanza tempo per seguire bene un bambino Per avere un figlio avrebbe dovuto rinunciare a troppe cose Era troppo costoso avere un figlio 35,1 30,2 16,2 93 80 43 Rinuncia a migliorare il suo lavoro, importante, non solo dal punto di vista economico Il suo lavoro serviva per tirare avanti, e con un figlio impossibile continuare a lavorare Con un figlio, suo marito/compagno avrebbe dovuto rinunciare a migliorare il suo lavoro 27,5 21,5 14,7 73 57 39 La vostra coppia non era così forte Lei e suo marito/compagno vivete spesso separati per motivi di lavoro o di studio La vostra coppia si e' divisa poco dopo il matrimonio/convivenza Lei avrebbe voluto un figlio, ma suo marito/compagno non se l'è sentita Suo marito/compagno avrebbe voluto un figlio ma Lei non se l'è sentita 34,3 17,7 17,7 17,0 14,7 91 47 47 45 37 Vi sentivate troppo giovani per avere un figlio Vi sentivate troppo vecchi per avere un figlio 17,7 12,8 47 34 Per lungo tempo avete dovuto seguire altri parenti con gravi problemi di salute I figli non sono venuti Lei e/o suo marito/compagno avete avuto gravi problemi di salute 13,2 9,1 4,9 35 24 13 Anche le motivazioni legate a problemi connessi ai rapporti di coppia appaiono rilevanti: un terzo delle intervistate ritiene i legami troppo deboli per poter pensare di dare alla luce un figlio. D’altra parte, una separazione avvenuta dopo poco l’inizio del matrimonio o della convivenza, nel 18% dei casi ha impedito ai partner di provare ad avere un figlio. La crescente instabilità delle unioni e la maggiore fragilità delle relazioni di coppia sono dunque interpretabili come “moderne” costrizioni che spingono alla rinuncia della maternità, considerata una scelta troppo rischiosa in una situazione di “incertezza affettiva”. La separazione fisica dei partner - dovuta ad impegni di lavoro o di studio in luoghi diversi - ha indotto il 18% delle coppie a non procreare. La diversità di opinione tra i coniugi (o conviventi) è un’altra motivazione non trascurabile per la rinuncia alla maternità, segnalata quasi da un terzo delle coppie. L’esame delle motivazioni legate al cambiamento di stile di vita mette in luce che un terzo delle donne non è voluta diventare madre per via delle eccessive rinunce che un figlio necessariamente implica. E’ possibile che questa risposta delinei una sorta di orientamento “individualistico”, per il quale la maternità entra in conflitto con altre aspirazioni reputate importanti: ad esempio, il bisogno di 12 libertà individuale, l’orientamento alla carriera, ma anche la volontà di mantenere un certo profilo di consumi. Va rimarcato, però, che tale risposta potrebbe derivare dalla constatazione che sono le donne a dover sopportare in toto il peso della cura dei figli, la cui presenza determina molto frequentemente un peggioramento di status e la perdita di diritti e posizioni all’interno della coppia, così come nella società14. Vale la pena riflettere, inoltre, sul fatto che quasi una donna su cinque afferma che, nel primo periodo di vita insieme, i due partner si sentivano troppo giovani per pensare di avere un figlio, contro il 13% di chi dichiara che, invece, si sentivano troppo vecchi. Se la seconda risposta è una motivazione plausibile e definitiva per la rinuncia alla maternità, nel primo caso pare invece una motivazione più adatta a spiegarne il rinvio, vista la sua necessaria transitorietà. Queste risposte, tuttavia, potrebbero essere lette come due effetti opposti - e per certi versi paradossali - della “sindrome del ritardo”: da una parte, infatti, l’allungamento del cammino formativo e di inserimento nel mercato del lavoro può portare ad entrare in unione ad età più avanzate, dall’altra la percezione psicologica dell’età anagrafica, non coincide più con quella biologica, facendo sentire le coppie non sufficientemente mature per acquisire il ruolo di genitori. Può essere indirettamente collegato al “ritardo” anche il fatto che il 13% delle intervistate sostiene di aver rinunciato ad avere figli, perché impegnate a seguire altri familiari con problemi di salute: infatti, quanto più la donna rinvia il momento di pensare alla maternità, tanto più frequentemente si troverà ad avere genitori anziani non autosufficienti. Esaminiamo, adesso, con l’ausilio di un modello logit, le caratteristiche delle donne in unione che non hanno mai cercato di avere figli - per motivi diversi da quelli legati a impedimenti fisici confrontandole con quelle di chi, invece, ha cercato di averne. Dai risultati del modello selezionato riportati nella tabella 2 – emerge in modo chiaro che la probabilità di non aver mai provato ad avere figli cresce proporzionalmente al livello d’istruzione della donna. Tale risultato conferma ciò che si evince dagli studi sull’infecondità volontaria, in una pluralità di contesti sociali. Non sorprende, infatti, che siano le donne più istruite ad adottare comportamenti meno tradizionali, sia perché in generale provengono da un ambiente familiare in cui si è data meno enfasi alla maternità, sia perché è più facile che siano permeabili a valori e orientamenti culturali alternativi. Il livello d’istruzione, inoltre, è anche collegato alle maggiori aspirazioni di carriera che possono indurre le donne più istruite alla rinuncia della maternità. La probabilità di non aver mai provato ad avere figli si riduce, come è ragionevole, al crescere della pratica religiosa: le donne senza figli che, all’età di 25 anni, frequentavano assiduamente o, anche solo occasionalmente, funzioni religiose, hanno una minore probabilità di trovarsi tra le volontariamente infeconde, rispetto a chi non vi ha mai partecipato. Le non praticanti, verosimilmente, saranno meno sensibili alle istanze pronataliste e alla concezione religiosa della riproduzione. 14 Si veda in tal senso McDonald (2001), Mencarini e Tanturri (2003). 13 Tabella 2 La probabilità di non aver mai provato ad avere figli per le donne in unione. Risultati di un modello di regressione logistica. Var Dipendente MODELLO LOGIT Infeconde per scelta Variabile Intercetta Città di residenza 224 Hanno provato ad avere figli Y = 0 204 Modalità Coefficienti -0,373 Odds Ratio Rif. Messina Firenze 0,229 Padova 0,379 Pesaro 0,687* Udine 0,076 Rif. Sc. Obbligo diploma 0,441* laurea 0,495* Rif. Mai occasionale -0,534* praticante -0,787** Rif. 3+ 1 -0,386* 2 0,491*** Rif. No sì 0,435*** Rif. No sì 0,886** Rif. Negativa o insufficiente buona 0,573* Rif. Mai occasionale -0,730** praticante -1,286*** Titolo di studio Partec. religiosa N° figli della madre Coabitazione Più esperienze di unione Situazione economica Partec. Religiosa Partner *** p <= .001 Y=1 ** .001< p <= .005 1,2572 1,4612 1,9875 1,0791 1,5545 1,6400 0,5862 0,4553 0,7546 1,8147 2,3871 2,4256 1,7735 0,4821 0,2765 * .005 < p <= .10 Queste due caratteristiche personali delle donne – ossia il livello d’istruzione e la pratica religiosa - distinguono in modo chiaro chi ha cercato o meno di aver figli e, con ogni probabilità assorbono parte della variabilità dovuta ad altri aspetti, come ad esempio le opinioni, gli atteggiamenti culturali e la partecipazione lavorativa15. Sorprende notare, inoltre, che tutte le variabili relative all’occupazione svolta dalla donna nel primo periodo dell’unione non hanno alcun effetto significativo per distinguere coloro che, rispetto alle altre, non hanno mai provato ad avere figli. E’ possibile, invece, che sia l’atteggiamento nei confronti del lavoro a discriminare, come vedremo dai risultati dei Focus Group. Tra le caratteristiche relative alla famiglia di origine delle donne, risulta significativa solo la fecondità della madre: le intervistate che hanno un solo fratello (o sorella), infatti, sono meno propense 15 Per maggiori approfondimenti si rimanda a Tanturri e Mencarini 2003. 14 alla maternità rispetto alle donne che provengono da famiglie più numerose. Le figlie uniche, invece, hanno provato più frequentemente ad avere figli, rispetto a chi aveva più fratelli. Tra le variabili che hanno maggior livello di significatività statistica e un effetto più rilevante, spiccano quelle relative alle caratteristiche delle unioni: a parità di altre condizioni, la preferenza per forme meno istituzionalizzate di vita di coppia o l’instabilità delle unioni de jure o de facto si rivelano due importanti cause di infecondità volontaria. Come già emerso nell’analisi delle motivazioni, la stabilità del rapporto di coppia è un elemento centrale per prendere la decisione di avere un figlio. In questo caso, la maggiore probabilità di trovare tra le conviventi, donne che non vogliono diventare madri, non dipende solo dalla maggiore fragilità di queste forme di unione, come sottolineato più volte dalla letteratura (De Sandre, Rettaroli e Salvini, 1997), ma anche da ciò che tale forma di unione rappresenta nel nostro Paese. E’ verosimile, infatti, che vi sia una minore propensione delle conviventi a scegliere un progetto familiare “completo” per via di una sorta di avversione per i vincoli definitivi, ma è anche possibile che questo sottogruppo sia selezionato per particolari valori di riferimento non tradizionali, per aspettative “poliedriche” e meno orientate alla famiglia, o per la preferenza per uno stile di vita più individualistico. La scelta di essere in unione, senza diventare genitori, è più diffusa ceteris paribus tra le coppie che giudicano buone le proprie condizioni economiche del primo periodo di vita insieme. Le migliori condizioni possono essere un effetto del doppio reddito familiare e, quindi, della partecipazione lavorativa femminile, che potrebbe essere interpretata come la vera determinante dell’infecondità volontaria. Tuttavia, la relazione potrebbe leggersi in un altro modo: le migliori possibilità economiche rendono accessibile il consumo di beni e servizi che entrerebbero in conflitto con un eventuale figlio (ad es. viaggi o certe forme di divertimento). Delle caratteristiche del partner solo la pratica religiosa ha un effetto significativo16. Tale effetto è ancora più importante rispetto alla pratica religiosa femminile, sia in termini di significatività sia in termini di entità dei coefficienti. E’ vero, d’altra parte che gli uomini praticanti sono molto pochi e dunque fortemente selezionati17. 6. U N R I T R A T T O A C O L O R I C O N I D A T I Q U A L I T A T I V I 6.1 L’identità “childfree” Alle donne senza figli che hanno partecipato ai Focus Group sembra calzare particolarmente bene la definizione d’identità patchwork (Balbo 1995). 16 Si noti che tale variabile ha assorbito l’effetto del livello di istruzione maschile, inserito in un modello precedente. 17 Dalle tabelle di frequenza notiamo che tre partner su quattro delle donne volontariamente infeconde non hanno mai partecipato ad una funzione religiosa, contro il 43% dei partner delle donne che hanno provato ad avere figli. 15 La maggior parte delle partecipanti ritiene che l’investimento lavorativo sia di fondamentale importanza: il lavoro è considerato una fonte primaria di gratificazione e di soddisfazione, indipendentemente dalla posizione raggiunta. Non si riferiscono tanto al lavoro come fonte di sostentamento o di sicurezza, ma come mezzo irrinunciabile per l’affermazione della propria autonomia e per il dispiegamento della propria personalità. Molte partecipanti si definiscono “drogate di lavoro”, tanto che addirittura svolgono più di un’occupazione e spesso considerano il lavoro come il più avvincente degli hobby. “E poi ho altri lavori, il mio hobby è fare altri lavori” (Ilaria, 38 anni , Firenze) “Sono un’innamorata del mio lavoro: quindi lavoro tanto, ma perché mi piace (Dalia, 42 anni, Firenze) Anche se sulla realizzazione lavorativa pongono tutte grande enfasi, parecchie partecipanti si discostano dallo stereotipo della “donna in carriera”, consapevoli che la loro identità si esplica in una grande varietà di ambiti. Le donne senza figli, infatti, non sembrano considerare marginale la famiglia e più in particolare il rapporto di coppia. Pur sottolineando, in generale, l’importanza dell’autonomia di ciascun partner, insistono sul valore della condivisione, dell’affiatamento e del senso di complicità nella coppia. Diverse partecipanti ritengono che il rapporto non sarebbe così soddisfacente se ci fosse la presenza dei figli, visti da molte come un possibile elemento disgregatore della relazione. Anche il tempo libero viene descritto come un momento importante della vita delle intervistate, sovente trascorso in coinvolgenti attività ludiche, sportive, in viaggi, con mille interessi culturali, , che spesso rappresentano altresì un punto di unione con il partner. Le relazioni di amicizia sono un ulteriore aspetto rilevante nella vita di alcune donne. In sintesi, possiamo affermare che, nella maggior parte dei casi, la vita delle donne senza figli, che hanno partecipato ai Focus Group, pare assai ricca e piena, tanto che in certi casi la potremmo definire addirittura “satura” di impegni, relazioni e hobby. Una minoranza delle partecipanti presenta, all’opposto, uno stile di vita molto meno frenetico e rivela una passione per la tranquillità e l’inattività: si definiscono estremamente “pigre” e desiderose di godere di momenti di relax. 6.2 La pressione sociale per la maternità e la difesa della scelta di non aver figli Le donne partecipanti hanno mostrato un forte senso di appartenenza e d’identitificazione quando nel corso dell’incontro hanno scoperto di essere tutte senza figli, tanto che spontaneamente hanno iniziato a confrontarsi proprio su tale scelta. Non di rado è emerso addirittura un senso di vero e 16 proprio orgoglio di “categoria”, cui si è accompagnata una vivace difesa delle proprie scelte, acuita probabilmente dai giudizi sociali negativi18. Alcune donne indicano molto chiaramente la presenza di una forte pressione sociale ad aver figli. Si sentono giudicate e frequentemente è stato loro domandato dopo il matrimonio: “allora i figli, a quando?”. Più spesso sono state persone più anziane a porre queste domande, appartenenti alla famiglia, ma talvolta anche i colleghi o i vicini di casa. Alcune delle partecipanti dicono di essere infastidite, non solo quando le domande poste fanno velato riferimento ad eventuali problemi di sterilità, ma anche perché sentono tali pressioni come indebite interferenze e rivendicano il diritto di decidere se e quando avere figli nella più piena autonomia. Altre donne reagiscono in modo vivace o con ironia a difesa dello stile di vita che hanno fortemente voluto e desiderato. Un altro atteggiamento considerato irritante da alcune donne è legato al fatto che viene loro negata la possibilità di esprimere le proprie opinioni su bambini e stili educativi, dal momento che non ne hanno esperienza diretta. Si sentono solitamente escluse dal mondo delle madri, che non fanno che parlare sempre e solo dei propri figli. Molte hanno narrato l’esperienza spiacevole di aver sperimentato un senso di distanza – talvolta incolmabile - di fronte alle più care amiche, una volta che queste hanno avuto un bambino. 6.3 Il processo decisionale tra consapevolezza e irrazionalità. Le donne che hanno partecipato ai Focus Group hanno indicato alcuni prerequisiti per poter decidere di avere un figlio. “Sicurezza” sembra la parola chiave per riassumere tutte le varie condizioni indicate come necessarie: sicurezza personale prima di tutto, nel senso della maturità psicologica per esercitare il ruolo genitoriale; sicurezza affettiva, perché i legami di coppia devono essere forti e consolidati; ma anche sicurezza economica e dunque una casa, un reddito sufficiente, un lavoro sicuro. Questi elementi elencati con chiarezza durante la discussione di gruppo, sono tutti considerati necessari, ma non sufficienti: per fare un figlio deve “scattare” qualcosa all’interno, il “desiderio”, la “voglia di maternità”, una “scintilla”. E’ interessante notare che in distinti gruppi di donne in diverse città è stata pronunciata la frase “I figli? Se ci pensi non li fai”. Pare dunque che – nel conteso attuale dove il controllo dei concepimenti è massimo e dunque è necessaria una scelta consapevole per avere un figlio – essa sia vista come una decisione da prendere seguendo più l’istinto più che non la ragione, il “cuore” più che la “testa”; “una scelta irrazionale” - dicono tante donne - che contrasta però con la razionalità necessaria per interrompere il controllo dei concepimenti. 18 Si tenga presente, tuttavia, che le donne che hanno vissuto con dolore il fatto di non avere avuto figli potrebbero essere meno rappresentate tra le partecipanti ai Focus Group. 17 Nei gruppi di discussione si concorda che proprio l’iper-razionalizzazione - o semplicemente la constatazione che sia diventata una scelta tra le tante possibili - rende più arduo e faticoso giungere al momento risolutivo del processo decisionale di scelta della maternità. Si tratta di donne che in genere esprimono con lucida consapevolezza le difficoltà insite nel “gravoso mestiere di genitori” e la pesante responsabilità di allevare una persona che assorbe tutte le energie e tutto il tempo della madre. Le partecipanti sono convinte che se a questa consapevolezza non segue un momento di “lucida follia”, si finisce con il rinunciare alla maternità. Molte riscontrano quasi un senso di responsabilità eccessivo che, oltretutto, si amplifica al crescere dell’età: dunque, più si aspetta, più diventa difficile decidere. Si potrebbe dire, quindi, che – se la teoria economica prevede che si faccia un figlio quando i benefici stimati superano i costi – le donne, invece, sentono che si giunge alla decisione di avere un figlio, solo nel momento in cui si abbandona questo tipo di logica , quando prevale quello che chiamano il “desiderio di maternità” e quel “briciolo di incoscienza” che diventa più forte dei razionalissimi dubbi (Dalla Zuanna e Righi 1999). Altre fanno riferimento al segnale dell’inesorabile “orologio biologico”, in prossimità dei limiti del periodo fertile. D’altra parte ci sono anche donne che non si sono poste il problema in modo serio e vedono l’ipotesi del figlio come una scelta fattibile, ma ancora lontana nel tempo, e comunque al momento non prioritaria, nonostante l’età non più giovanissima. Dai racconti dalle partecipanti sembra che molte siano rimaste imprigionate in quella che potremmo definire la “trappola della sicurezza”. Le giovani donne percepiscono – da un punto di vista normativo, prima ancora che economico – che devono raggiungere primariamente certi standard di sicurezza, fondamentali per poter pensare alla maternità. Durante questo periodo, dicono di non aver neppure preso in considerazione l’idea di avere un figlio, dedicando tutte le energie alla realizzazione professionale, così come al consolidamento del rapporto di coppia. Ma quando finalmente gli obiettivi sono stati conseguiti e la scelta di diventare madri potrebbe essere agevole, la sicurezza faticosamente raggiunta diventa paradossalmente un ostacolo al cambiamento. E’ come se la situazione che prima appariva magmatica e instabile – e dunque inadatta per pensare alla maternità – una volta consolidata, le invischiasse. Molte donne riferiscono della paura di rompere i fragili equilibri raggiunti a prezzo di grandi sacrifici. Così un po’ alla volta si abituano ad un certo modus vivendi e decidono di rinunciare ai figli, sia perché si sentono pienamente “realizzate” e soddisfatte per lo stile di vita che conducono, sia perché non accettano il rischio che un figlio possa scompaginare la loro vita personale e di coppia (“e se dopo ci stufiamo?”). Un certo numero di donne racconta, invece, che al rinvio ha fatto seguito il tentativo di avere figli, senza però che riuscisse a concepire o a portare a termine una gravidanza. E’ come se l’effetto della “sindrome del ritardo” (Livi Bacci e Salvini 2000) si sommasse a quello della “trappola della sicurezza”, e portasse a maturare la scelta della maternità in ritardo rispetto ai limiti biologici. Molte donne restano - per così dire – vittime dell’”illusione dell’eterna fertilità”. Alcune partecipanti, infatti, hanno espresso rammarico per aver creduto che la scelta di avere figli, fosse completamente 18 programmabile, senza pensare che il rinvio, oltre una certa età, può rendere difficoltosa la realizzazione delle proprie aspettative di fecondità. Altre, invece, hanno riferito di aver accettato senza però accusare particolare sofferenza - il fatto di averci pensato troppo tardi. 6.4 Certe da sempre: senza figli per vocazione I processi decisionali appena descritti mostrano percorsi piuttosto travagliati e non lineari, assai diffusi tra partecipanti ai Focus Group. Ad essi, tuttavia, si contrappone la risoluta fermezza delle donne che – al contrario – rivelano esplicitamente che un figlio non rientra nei loro progetti di vita. “(…)Ci sono delle priorità, personalmente penso a tutto il contorno più che ad un figlio”(Anita, 37 anni, Messina) “ Io preferivo fare un'altra cosa e il figlio proprio non ci incastrava ” (Beatrice, 43 anni, Firenze) La loro preferenza va ad un tipo di vita estremamente libero, senza vincoli né costrizioni, senza obblighi di orari, con “molta improvvisazione”, che non ritengono ovviamente compatibile con le esigenze di un bambino. Alcune dicono di non amare i bambini e soprattutto l’idea di avere qualcuno che dipende interamente da loro e a cui dover sacrificare tutto. Sostengono di non avere istinto materno, né alcun desiderio di maternità. Solo pochissime donne asseriscono di non voler procreare per via di una visione pessimista del futuro e della società in cui vivono. Qualcuna è segnata da un’esperienza negativa vissuta durante l’infanzia e, per evitare che altri debbano vivere le stesse situazioni spiacevoli, rifiuta la maternità. Un buon numero di donne, certe di non volere figli, ritiene troppo impegnativo il “mestiere di genitore” e ha un alto standard del modello genitoriale: il figlio andrebbe seguito costantemente e in prima persona, tanto che, se non si ha tempo sufficiente per seguirlo nel migliore dei modi, averlo è frutto di uno “spaventoso egoismo”. 6.5 La rappresentazione della maternità: molti costi, qualche paura e pochi benefici Durante la discussione, le donne senza figli mostrano di essere sicure e pronte ad elencare gli innumerevoli “costi” che i figli comportano, mentre sembrano più titubanti e confuse ad esprimersi sui benefici e sulle gratificazioni della maternità. Le donne pongono la massima attenzione sui costi personali, intravedendo come cambierebbe la loro vita se avessero un figlio. La prima sicura difficoltà espressa è quella della conciliazione con l’attività lavorativa cui tengono molto, ma cui devono dedicare tanto tempo. Alcune volte le difficoltà espresse riguardano gli orari poco compatibili con l’attività di cura, mentre altre sono connesse alla preoccupazione di non poter svolgere il proprio lavoro con lo stesso grado di coinvolgimento “mentale”. Alcune partecipanti menzionano le esperienze negative vissute da colleghe che – diventate 19 madri – sono state “messe da parte” nel proprio ambiente lavorativo, senza avere più incarichi di responsabilità. Molte fanno riferimento anche a costi per la vita della donna in termini più ampi. La “rivoluzione” portata dal figlio non incide, infatti, solo sulla sfera lavorativa, ma segna pesantemente tutte le altre. I figli sono descritti come “spugne” che assorbono completamente le energie fisiche e mentali delle madri e non lasciano spazio per nient’altro. “ un figlio ti prende tutto il tempo che hai” (Pesaro) “non hai più la serenità mentale per parlare un attimo” (Pesaro) “Beh! Sai, i bambini nascono e sono… chiamiamo, delle “spugne”, sono esseri che non hanno niente, devi dargli…” (45 anni, Udine) Per la vita della coppia, sovente, il figlio non è visto come coronamento dell’unione o crescita del rapporto, ma piuttosto come occasione di scontro e di divergenze, come una presenza che spezza l’idillio tra i partner, tanto che qualche partecipante arriva a definirla “un’esperienza devastante”. Molte donne che hanno amici con figli, asseriscono che mai scambierebbero la propria vita con la loro. Va rimarcato che spesso le stesse donne senza figli hanno standard di maternità molto elevati, per cui nel corso della discussione emerge la consapevolezza che le esigenze dei figli sono molteplici e che hanno bisogno della costante presenza dei genitori, che non vanno delegate le funzioni educative, che i figli vanno seguiti e rispettati nelle loro esigenze più profonde. Non è raro che, durante gli incontri, le donne senza figli critichino i genitori o perché impongono ritmi eccessivamente frenetici ai figli, o, al contrario, perché non dedicano loro abbastanza tempo, o ancora perché li “parcheggiano” da nonni e baby sitter, non essendo disposti a sacrificarsi per il loro benessere. Le critiche, però, non sono risparmiate neppure ai genitori troppo apprensivi, la cui vita ruota esclusivamente attorno ai figli, che non parlano che dei loro bambini, non coltivando più alcun altro interesse. Alcune donne esprimono altresì un senso di paura per l’esperienza della maternità. Alcune paure sono connesse alla gravidanza e al parto, mentre altre sono invece legate alla possibilità che il figlio non sia sano. Vi è però anche un'altra serie di timori, più sottili, espressi da diverse donne: la paura di non farcela, di non riuscire a badare al figlio e a dargli ciò di cui ha bisogno. E’ possibile che tale “senso di inadeguatezza” derivi dal fatto che le donne si sentono sempre meno preparate al ruolo di madri, anche perché in una società dove i bambini sono “rari” è più difficile avere qualche esperienza diretta di cura, magari di un nipote o di figli di amici. Tra le paure c’è anche quella che il partner non sia all’altezza, che si defili e che tutte le responsabilità finiscano per ricadere sulla donna. E’, infine, presente anche il timore per l’irreversibilità della maternità, quale “scelta senza ritorno”. 20 7. L E I M P L I C A Z I O N I P E R L E P O L I T I C H E I risultati delle indagini mostrano che, almeno negli ambiti urbani considerati, esiste una quota non irrilevante di donne che, pur essendo in unione e senza particolari impedimenti fisici, di fatto rinuncia alla maternità. Non è sempre facile stabilire se si tratti di una scelta di volontaria, vista la complessità dei percorsi che portano le donne a non avere figli. In alcuni casi, effettivamente, quelli che vengono percepiti dalle donne come benefici legati alla maternità sono considerati insufficienti a compensare gli alti costi che i figli comportano, certamente in termini monetari, ma soprattutto in termini di tempo e di rinunce. Accanto però ad una quota d’infecondità desiderata, vi sono molti casi in cui essa è il prodotto di circostanze della vita, tra cui appare di particolare rilevanza l’instabilità del rapporto di coppia: una causa “moderna” di infecondità che, tuttavia, non denota un’intenzionalità del comportamento. Si è messo in luce anche come il meccanismo di continuo rinvio della procreazione, possa portare le donne - a volte per scelta consapevole, a volte per forza - alla rinuncia della maternità. In questo quadro c’è spazio per le politiche? E quali misure pubbliche potrebbero avere un ruolo per modificare le scelte delle donne volontariamente infeconde? In sostanza, ci chiediamo se tali donne manifestino, anche implicitamente, una qualche domanda insoddisfatta di interventi pubblici, che una volta attuati porterebbero indurle ad avere almeno il primo figlio. Con il questionario CATI, alle intervistate che non hanno mai cercato di avere figli si è chiesto se avrebbero riconsiderato tale scelta nel caso in cui vi fossero state opportune misure pubbliche a tutela della maternità. Dalle risposte fornite (Figura 4), sembra che gli interventi proposti - pur molto generosi - avrebbero fatto cambiare idea solo ad un’esigua minoranza di intervistate. Le misure dotate di una maggiore efficacia “teorica” relativa sono i congedi parentali a reddito pieno per tre anni dalla nascita, e l’offerta di asili e scuole a tempo pieno e flessibile, a costi contenuti. Meno efficaci – almeno teoricamente - si rivelano gli assegni familiari, sia quelli alti garantiti per i primi tre anni di vita del bambino, sia quelli più bassi, ma elargiti per più tempo, fino alla maggiore età del figlio. La percentuale molto alta di donne certe di non cambiare idea (dal 60 al 70%) impone una valutazione più attenta. Si rileva, infatti, una sorta di incoerenza: se molte donne hanno rinunciato ad avere figli per la mancanza di tempo o per la difficoltà di conciliare maternità e lavoro, solo poche avrebbero cambiato idea in presenza di misure tese ad allentare tali vincoli. Le spiegazioni possono essere molteplici. Da una parte, va tenuto presente che il quesito è stato posto a donne ormai al termine della vita riproduttiva che di fatto hanno rinunciato alla maternità; si può ipotizzare, pertanto, che una parte più consistente delle intervistate avrebbe reagito alle politiche proposte in modo positivo, se la domanda fosse stata posta nel primo periodo della vita di coppia. D’altra parte è possibile che, in Italia, manchi l’abitudine e la mentalità per delegare la cura dei figli o che vi sia una generale sfiducia nei confronti delle politiche pubbliche: alcune ricerche, in effetti, mettono in luce che è l’offerta stessa di servizi ad accrescerne la domanda. Ma forse possiamo indicare un motivo ancora più importante per giustificare la limitata efficacia delle politiche: per la maggior parte delle coppie, la scelta di divenire genitori è 21 una sorta di “passaggio cruciale”, una decisione legata più a complessi meccanismi interiori che non a costrizioni esterne. Sembra, dunque, che anche rimuovendo certi ostacoli esterni per mezzo di politiche molto generose, le scelte individuali non sarebbero mutate perché dovute a motivazioni più profonde19. D’altra parte, dal punto di vista etico, sarebbero inaccettabili politiche che andassero ad influenzare la mentalità corrente o i valori, perché troppo invasive di una sfera ritenuta strettamente privata. Dall’esame dei Focus Group, si ottengono risultati simili per quanto riguarda il tipo d’interventi desiderati: l’enfasi, infatti, è posta sulle necessità delle madri lavoratrici e dunque si richiedono essenzialmente servizi, non solo in quantità maggiore, ma anche di migliore “qualità” per consentire un’efficace conciliazione dei tempi di vita. Le partecipanti sembrano scettiche nei confronti di quegli interventi che “monetizzano” la maternità e pagano la donna per restare a casa. Molte si rendono conto che più che i mancati introiti è una prolungata assenza dal mercato del lavoro che può essere dannosa, specialmente nel caso dei lavori atipici o precari. Al tempo stesso, però, le donne chiedono una maggiore flessibilità negli orari di lavoro e nella possibilità di ottener permessi per tener conto delle esigenze dei figli. In tutte le città, le partecipanti hanno menzionato gli asili aziendali, come ottima soluzione per facilitare il rientro al lavoro e al tempo stesso aver la possibilità di avere il figlio “a portata di mano”. Ovviamente anche una maggiore disponibilità di asili pubblici è molto richiesta a patto, però, che nell’organizzazione degli orari si tenga realisticamente conto dei tempi di lavoro delle donne e degli uomini. 19 Si tenga presente, invece, che dall’indagine sulle madri – svolta nell’ambito dello stesso progetto di ricerca sulla bassa fecondità - è stato rilevato che se fossero previste misure più incisive a tutela della maternità, una quota maggiore di madri che hanno già uno o due figli avrebbe riconsiderato la decisione di averne un altro. 22 Figura 4 Reazioni ad alcuni possibili interventi di politiche a favore della maternità Avrebbe avuto un figlio se lo Stato le avesse dato… 80 ASSEGNO FAMILIARE molto alto, dalla nascita fino al terzo compleanno ASSEGNO FAMILIARE alto, dalla nascita fino al 18° compleanno CONGEDI PARENTALI per tre anni a reddito pieno ASILI E SCUOLE a costi molti bassi, a tempo pieno e flessibile 70 60 50 40 30 20 10 0 1 Certamente no 2 Penso di no 3 Penso di sì Certamente sì 4 BIBLIOGRAFIA J. 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