«Ehi, Einstein, cosa cazzo c`hai da guardare

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«Ehi, Einstein, cosa cazzo c`hai da guardare
Non era più lui
“Come posso io sapere se i morti non rimpiangono di avere amato la vita? Coloro che sognano un banchetto si
risvegliano in mezzo ai pianti e al dolore. Coloro che sognano dolore e pianti si risvegliano per partecipare alla festa.
Mentre essi sognano non sanno di sognare. Alcuni vogliono perfino interpretare i sogni che stanno sognando e solo al
risveglio capiscono di aver sognato. Gli stolti credono di essere svegli ora, e s’illudono di sapere se sono veramente
principi o servitori. E voi e Confucio siete entrambi dei sogni; ed io che ve lo dico non sono altro che sogno io stesso.
Un giorno io , Chuang Tzu, sognai di essere una farfalla, e svolazzavo qua e là, su ogni intento e proposito: una
farfalla. Ero conscio solo di seguire il mio capriccio di farfalla, e non ero cosciente della mia personalità di uomo. A
un tratto mi ridestai, ed ecco ritrovai me stesso. Ora io non so se fossi, in quel preciso momento, un uomo che sognava
di essere farfalla o se non sia piuttosto ora, una farfalla che sogna di essere uomo”.
Chuang Tzu.
Teorema di Gödel sulle proposizioni formalmente indecidibili:
“Ad ogni classe k di formule che sia ω-coerente e ricorsiva
corrispondono segni-di-classe ricorsivi r tali che né υ Gen r
né Neg (υ Gen r) appartengano a Flg (k)
(Dove υ è la variabile libera di r)”.
Ti ascolto, stai tranquilla. Ti ascolto anche se non ti guardo, per cui stai tranquilla e di’ quello che
devi dire. No, bella mia, il punto non è questo. Lo so perfettamente come ti senti, cosa credi? Credi
che sia facile per me? Be’, non lo è. Ogni giorno che campo mi domando se tutto questo abbia
senso, se valga la pena alzarsi la mattina e affrontarla, una nuova giornata. Non…non nasconderti
dietro “la depressione”, è soltanto una parola come un’altra. I tuoi sono i problemi di tutti, non
hanno nulla di speciale. Smettila. NON SEI QUEL GIARDINO SEGRETO CHE TI HANNO FATTO CREDERE
TUTTI QUEI FILM CHE HAI VISTO! Hai ragione, scusa. Ecco, sono calmo. Il fatto è però che tu t’ostini
a vedere tutto solo da un unico punto di vista. Prova, per una volta, a considerare le cose come se
fossero normali. Non ci sei solo tu, per una volta… come sarebbe a dire che è questo il punto, che ti
senti da sola perché non ti dico mai niente dei miei problemi? che c’entra adesso? Ah! oh, Gesù!
Non ho problemi così importanti, non ne ho che siano irrisolvibili. Come tutti ne hanno! Come
sarebbe a dire? Te l’ho già spiegato: è solo un fatto di prospettiva.
Al dente vero? Faccio io, tu intanto parla. E per quale motivo, scusa, scusa fammi
parlare…per quale motivo gli altri devono capirti, mentre tu non fai alcuno sforzo di asco…ah,
chiaro. Perché stai male… No, non piangere. Lo sai che non sopporto quando piangi.
Passato? Ora mangia se no s’incolla… è lì. Quello che voglio dire è che alle volte uno i
problemi se li crea da sé; certe volte uno si scoraggia, comincia a vedere tutto nero e le cose
perdono le loro proporzioni reali, tutto insieme. Mi passi il pepe per favore? Succede che uno
semplicemente ci pensi troppo alle cose che fa, il che non è sano. Com’è che si dice, pensare è una
condanna? Il giusto sarebbe pensare solo quel poco che basta; riuscire ad essere un poco stupidi.
Chiaro, non è una cosa che uno può decidere. Forse però basta rendersene conto. Va meglio? Forse
basta imporsi di vivere con più leggerezza, così, senza deciderlo. Farlo e basta.
Non lo so. Però, si passa spesso da una vita assolutamente spensierata ad una del tutto
problematizzata, in un niente, perché dovrebbe essere difficile il passaggio inverso? No grazie, sono
pieno.
A dirla tutta, io uno che l’ha fatto ‘sto passaggio lo conosco. Se t’interessa… fa’ il caffè
mentre ti racconto com’è andata. Non lo fare troppo carico, mi raccomando.
Questo tizio…eh?! diciamo che era un mio amico. Questo amico mio se ne stava per i fatti
suoi in metropolitana, di notte. Tornava a casa. Lavorava in un call-center. Senti però se non mi fai
raccontare... Ok, niente. Insomma, questo qui aveva avuto un po’ di problemi. Gli era morta la
madre e l’aveva presa malissimo. Già, come la doveva prendere. Insomma era depresso, più o meno
come te. Ne è uscito proprio mentre stava in metropolitana. Sì.
Stava poggiato di schiena sulla porta dal lato che non s’apre, quando sono entrati nel vagone
tre che a malapena si reggevano in piedi e hanno cominciato a rollarsi una canna dentro al vagone
della metropolitana. Al momento fatidico, uno dei tre ha recitato il tono del presentatore tivù e ha
detto: «L’accendiamo?». Lui se ne stava là, depresso, assorto in quelli che credeva i suoi problemi
quando un altro di quei tre gli fa: «Ehi, Einstein, cosa cazzo c’hai da guardare?». Grazie, lo prendo
amaro.
A dire il vero non guardava. “Non pensava” con gli occhi aperti, gli capitava sin da
bambino. Non avrebbe saputo spiegare la sensazione se non con un giro di parole che poi ti lasciava
più confuso di prima: è come se tra me e le cose non ci fosse legame, ci nuoto semplicemente
dentro, o attorno. Le guardo come si guarda la televisione. La televisione poi per lui non era altro
che raster e righe in tricromia, luce più che altro. Insomma era sempre stato così. I professori. Il
Padre. Le ragazze con cui finiva a letto senza capire come: sempre la stessa domanda: «Genio, sei
dei nostri?»; «Campione, ci sei?»; «A cosa stai pensando?». E sempre la stessa era anche la
risposta: «Sì.»; «Sì.»; «A niente…». Oh, sì che è possibile non pensare a niente. È come essere
perfettamente centrati sulle sensazioni e solo su quelle. Essere come un animale o una pianta,
ammesso che ne abbia, una pianta, di sensazioni. Sentiva se stesso vivere a un livello più profondo
di quando aveva la coscienza attaccata e allora non faceva altro che staccarla. Ah, se è per quello,
gli riusciva piuttosto facilmente. In quei corsi New Age che frequenti li chiamano “illuminati”
quelli come lui. Sì, un Buddha, una specie di santo, almeno fino a che non gli morì la madre.
Sua madre era morta di tumore quando lui faceva il terzo anno d’università. Ricordo che la
tennero due giorni in camera sua prima di farle il funerale. Tutti piangevano tranne lui. La guardava
fisso. Se la stava studiando, praticamente. Scoppiò a piangere solo una volta tumulata. È strano,
sono assai più “reali” i cadaveri di persone che non conoscevi. Le spoglie di una persona che ti è
stata cara perdono in “cadavericità”. Quel corpo era e, allo stesso tempo, non era sua madre. Cioè, sì
che era lei, ma aveva perso con la morte tutta una serie di proprietà che la rendevano sua madre,
tipo il fatto che sua madre bestemmiava spesso, soprattutto durante la malattia, e anche cose più
ovvie tipo alzare e abbassare il torace ad ogni respiro o avere le mani calde e rosa. Le mani di
quella, di quella cosa, non solo erano fredde e inanimate, ma non ci azzeccavano un beneamato con
quelle di sua madre. Su quel letto ci riusciva a vedere solo settanta chilogrammi di carne che sua
madre non era mai stata, e di certo tutta quella carne, seppure infestata da attività microbiotica, non
bestemmiava. Eh? ce l’aveva coi preti. Diceva che era a forza di farla cantare da quando era
ragazzina che le era venuto il tumore alla laringe. A dire il vero fumava come un turco. Galoise.
Anche da malata. Ecco, lo vedi? anche per questo! Dopo che era morta avevano fatto sparire le
sigarette, come non avesse mai fumato. Ma per carità… Insomma la pianse dopo tutti gli altri,
quando il non vederla tra loro divenne una prova più convincente che vederla morta. Il fatto è, che
per uno che le cose le vive osservandole senza mai vederle, queste assumono un senso che vada più
in là della loro semplice superficie epifenomenica, solo quando quelle stesse cose non ce le ha più
sotto gli occhi. Ecco, giusto. L’esatto contrario di “occhio non vede cuore non duole”. Era qualcosa
di fisico e reale. Troppo. Diceva di sentire un dolore proprio in mezzo al petto, diceva che se fosse
stato cardiopatico sarebbe morto pure lui.
Tutto quel dolore finì per consumargli la buddità, non ci riusciva più a staccare la spina, si
sentiva semplicemente finito. Sempre presente a sé stesso eppure non vivo. Certo neppure morto,
ovvio. Tanti, quando vivono un lutto grave, dicono di sentirsi da un’altra parte, questo li salva, dico
sul serio.
Abbandonò gli studi definitivamente l’anno successivo. Matematica. Per interessarsi alla
matematica occorre passione mista a distacco, li perse entrambi, il che ovviamente finì per
intristirlo ancora di più. Io te l’ho raccontata così, in due parole, ma la scelta se abbandonare o
meno l’università gli prese tutto l’anno seguente alla morte della madre. «Hai deciso?» gli faceva il
padre un giorno sì e uno no, ma lui niente. Poi finì per fare una cosa strana. Quell’anno alcuni
vandali entrarono nel Verano e deturparono alcune tombe. La sua? Non proprio, era intonsa tranne
che per una scritta che chiaramente venne attribuita ai vandali. No, non poteva essere opera loro.
Come faccio ad esserne sicuro, mi domandi…
Lo sai chi era Kurt Gödel? era un matematico che stava di fuori col cervello; s’è lasciato
morire d’inedia perché era convinto gli avvelenassero i pasti. C’entra perché, a pennarello, c’era
proprio un teorema di Gödel scritto sulla lapide di sua madre. Be’…più o meno… dice che
all’interno di un sistema rigidamente logico è possibile formulare delle asserzioni ben precise che
non possono essere né dimostrate né invalidate. Praticamente la matematica che dice che la certezza
matematica non esiste; a scuola t’insegnano che date certe premesse, una cosa è vera oppure non è
vera, invece esiste la possibilità che sia indecidibile. Lo so, sembra assurdo anche a me. Secondo
te? Anche per me, del resto non ci vuole molto a capire che se te ne vai al cimitero a scrivere i
teoremi di un matematico pazzo sulla tomba di tua madre sei diventato un po’ pazzo pure te. Sta di
fatto che dopo aver scritto quel teorema sulla tomba di sua madre lasciò definitivamente gli studi.
No, non migliorò. Te l’ho detto che tornò in sé solo da quella sera in metropolitana. Sono
sicurissimo, perché ero con lui quella sera, e anche al funerale. No. Non ti sto raccontando la mia
storia col trucchetto della terza persona, come dici tu. Ok. Quella che è morta era mia madre, anche
mia; lui, mio fratello. Contenta? Mi stai a sentire adesso? Perché non te l’ho mai presentato? Ma
senti tu… è morto ammazzato quella sera in metropolitana. No, tranquilla. È una cosa strana a dirsi
ma sto bene. Sereno. È quello che cerco di spiegarti dall’inizio. Il fatto è che quella sera mio fratello
decise una cosa e a distanza di tempo io credo d’aver capito quel che aveva deciso.
Se vedi le cose sotto una certa luce, compiere delle scelte diventa né più né meno che un
fatto congiunturale: la circostanza “D” è stata provocata da “C”, e “C” da “B” che a sua volta era
stata provocata da “A”. Una volta posta di fronte alla circostanza A, finirai per forza di cose
invischiata in D, e tu non potrai far altro che comportarti in modo da dare inizio alla E. Mi stai
seguendo? Capisci che voglio dire? Le contingenze influenzano le tue scelte, anzi le forzano.
Continuando in questo modo, restando per sempre intrappolata a livello dell’immanenza,
prigioniera ancora una volta nel recinto delle cause e degli effetti non sarai mai del tutto in grado di
scegliere. Prima o poi ti si presenterà davanti un qualche evento congiunturale che non riuscirai ad
affrontare, un’asserzione indecidibile appunto. Finché vedi le cose da questo punto di vista, la
questione del Libero Arbitrio non si pone. Semplicemente il libero arbitrio non esiste. Non sei tu
che scegli, sono le cose che ti succedono, e tu non puoi farci nulla. Tutto, tutte le cose, non hanno
alcun significato, sono solo input ai quali tu non puoi che offrire in risposta output prefissati. Ma se
a quegli stessi output sei tu che gli dai un significato, se vi associ un valore simbolico, allora sì che
una scelta diventa possibile. Il libero arbitrio entra in scena solo ad un livello più alto di astrazione,
in un livello in cui vengono usati simboli per fare un modello della situazione e per influenzare
delle decisioni. Evidentemente questa cosa l’aveva già intuita quando aveva scritto quel teorema
sulla lapide di nostra madre, ma non lo fece stare meglio perché semplicemente non poteva. Appena
cambi prospettiva, disponi di un libero arbitrio, ma non puoi decidere di cambiare prospettiva
perché fino a quel momento non disponi – ancora – di un libero arbitrio. Per cui non puoi deciderlo,
l’unica cosa che puoi fare è farlo e basta.
Quella sera, nel metro’, mio fratello riuscì dopo tanto tempo a fare di nuovo quella cosa, a
staccare la coscienza. Non pensò, il ché lo pose immediatamente su un piano più alto di quello
decisionale. Di conseguenza, smise di decidere se quella cosa era o non era. Scelse, semplicemente.
Quelli là erano strafatti di coca oltre che di canne e stavano talmente su di giri che
mollavano calci a destra e manca, spaventando tutti quelli che stavano sul vagone. Le vecchie si
alzavano e cambiavano di posto per mettersi più lontano possibile da quei tre, e a dire il vero volevo
fare altrettanto, ma non facemmo a tempo.
Sto bene. Dico sul serio...
La sai una cosa buffa? Una di quelle vecchie incartapecorite trovò il coraggio di dire a quei tre
tossici che dentro il vagone era vietato fumare. I tre si misero a ridere, e quella? Gli ha detto
vaffanculo. Vaffanculo, ti rendi conto? Una signora anziana che manda affanculo tre delinquenti.
Sarà stato per quello che mio fratello sorrideva, mentre li guardava. Ed è stato lì che quello gli ha
fatto: «Ehi, Einstein, cosa cazzo c’hai da guardare?». Mio fratello? Non s’è degnato neanche di
rispondere, quel figlio di puttana. Li guardava solamente e continuava a ridere. Al che, quello stesso
che gli aveva fatto la domanda s’incazzò di brutto e tirò fuori un coltello. È così che andò. Non ho
avuto neanche il tempo di capire cosa stava succedendo…
…scusa…
Hai presente la scena di un film? Mio fratello è morto ammazzato come in un film. E rideva.
Già…glielo ha chiesto pure quello col coltello in mano: «Cosa cazzo ridi, stronzo». E sai
cosa ha risposto mio fratello? «Ho deciso che io sono vivo e voi siete morti». Be’, riesci a capire
ora? È sul serio un fatto di prospettiva; e io ti posso giurare che quello morto non era lui.