n.55 clicca - Fausta Genziana Le Piane

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n.55 clicca - Fausta Genziana Le Piane
ifioridelmale
quaderno quadrimestrale
POESIA
CULTURA LETTERARIA E ARTE
anno VIII n. 55
maggio-agosto 2013
I FIORI DEL MALE
QUADERNO QUADRIMESTRALE DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE
Con il Patrocinio della FUIS Federazione Unitaria Italiana Scrittori
I fiori del male è una rivista libera rivolta ai poeti, emarginati o
affermati, che con la forza segreta e profonda della poesia hanno
sostanziato ricerca esistenziale ed espressiva. Una rivista che sia
testimonianza preziosa della nostra tradizione poetica e sia anche
percorso significativo nella ricchezza della poesia e della cultura
contemporanea, espressa nei suoi tracciati differenziati.
Direttore Responsabile: Antonio Coppola
Vice Direttore: Francesco Dell’Apa
Redattori: Paolo Carlucci, Melo Freni, Marzia Spinelli,
Daniela Quieti, Monica Martinelli, Roberto Piperno
Critico d’Arte: Robertomaria Siena
I Fiori del male anno VIII n. 55 supplemento al n. 16 di SR, autorizzazione del
Tribunale di Roma n. 488/89
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per gli articoli ed una per le recensioni.
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prima concordate con la direzione della rivista.
SOMMARIO
I FIORI DEL MALE QUADERNO QUADRIMESTRALE
DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE
N. 55, MAGGIO-AGOSTO 2013
LETTERATURE
Robertomaria Siena
Plinio Perilli
Merys Rizzo
Francesco Dell’Apa
Antonio Coppola
Daniele Quieti
Sabino Caronia
Paolo Carlucci
Ninni Di Stefano Busà
Domenico Cara
Fausta G. Le Piane
Roberto Piperno
Melo Freni
Roberto Pagan
Luciana Vasile
Franca Bacchiega
Giuliana Lucchini
Pina Majone Mauro
Intervista impossibile a G. Marino
pag. 5
L’obesità di Manganelli
7
Appunti
12
Lirici greci: Salvatore Quasimodo
16
Genesi di un grande artista
19
Wystan Hugh Auden
23
Santucci: Un dolente canzoniere alla madre 26
Cristina Sparagana: Fuoco lustrale
29
La desertificazione della cultura
31
Ordine e levità dell’effimero in Rescigno
33
Romain Gary: coraggio e ironia
35
Poesia migrante
40
Verga: Tre romanzi di esordio
42
Pedalando con gli Dei: Diario di un grecista
46
La metamorfosi del buio di S. Martino
52
La poesia di Sauro Albisani
55
“Moiras” di Francesca Lo Bue
58
Il Sud dell’esilio in Cesare Pavese
63
P O E S I E
Leopoldo Attolico
Carlo Villa
66
70
SOMMARIO
POESIE
Giovanni Chiellino
Ivan Pozzoni
Massimo Pacetti
Renato Greco
Lorenzo Poggi
Rosaria Di Donato
pag. 72
75
77
80
82
85
LO S C A F FA L E
pp.
87-109
Abbiamo recensito libri di: Hamza Zirem, Alfredo Bajocco, Nunzia Binetti,
Franco Campegiani, Giacomo Cerrai, Andrea Costantin, Giovanna Gargano,
Luca Giordano, Maria Lenti, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Giuliana
Lucchini, Luigi Marinò, Mario Mastrangelo, Nazario Pardini, Laura
Pierdicchi, Luigi Fontanella, Carla Zancanaro, G. Ribaldo, G. Dino,
Robertomaruia Siena, Roberto Pagan, Raffaele Urraro, Giuseppe Vetromile,
A. Zagaroli, M. Rasi, Marzia Spinelli,
Tavole fuori testo: Claudio Sciascia, Felice Pedretti, Silvana Baroni,
Isabella Collodi, Marilla Battilana
In questo numero hanno collaborato: Robertomaria Siena, Plinio Perilli,
Merys Rizzo, Francesco Dell’Apa, Antonio Coppola, Daniela Quieti, Sabino
Caronia, Paolo Carlucci, Ninnj Di Stefano Busà, Domenico Cara, Fausta
Genziana Le Piane, Roberto Piperno, Melo Freni, Roberto Pagan, Luciana
Vasile, Franca Bacchiega, Giulina Lucchini, Pina Majone Mauro
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’InTeRVISTA
Intervista impossibile
a Giambattista Marino
di Robertomaria Siena
Robertomaria Siena: Colendissimo maestro, lei è stato sdoganato; lo sa?
Giambattista Marino: Sdoganato dal grande Giorgio Manganelli, ma chi se
ne è accorto?
R.S.: Non può pensare di uscire completamente dalla nicchia dorata nella
quale è avvolto; recentemente però è apparsa un’edizione completa
dell’Adone.
G.M.: Lo so e mi fa sommamente piacere.
R.S.: Veniamo alle cose serie; la sua è una decisa “filosofia del piacere”;
recentemente, in Italia, il piacere ha subito qualche batosta e ha creato qualche problema.
G.M.: Non confonda il fango con il cibo degli dei; io sto dalla parte dell’ambrosia.
R.S.: Le hanno rivolto l’accusa di leggerezza e di superficialità.
G.M.: Si è superficiali quando si è felici; è il dolore che fa pensare; lo dice
assai bene il mio amico Eschilo quando afferma che Zeus ha stabilito che
attraverso il dolore il sapere acquista potenza. Detto questo, lei avrà notato
che sono un artista modernissimo.
R.S.: È vero; in piena Controriforma lei se ne frega della sessuofobia cattolica
ed innalza, con l’Adone, uno straordinario monumento ad eros e al piacere.
G.M.: Non basta; voi pensate di aver inventato lo spogliarello maschile; non
è vero, sono io che ne ho parlato per primo. Ricorda Adone? «Ma da più
ninfe è circondato e chiuso, / che non voglion soffrir ch’innanzi passi. / Qual
dal bel fianco la faretra scioglie, / qual gli trae la cintura e qual lo spoglie. /
… e salvo un lento vel, che ’l copre a pena, / nudo si trova da la testa al
piede».
R.S.: Rammento poi l’esaltazione sconsiderata e scandalosa del carpe diem.
G.M.: Non esiste “filosofia del piacere” che non trovi il suo meraviglioso
culmine nel carpe diem. Ora però pensiamo all’opera che si presenta nella
seconda di copertina in questo numero de I Fiori del Male. Chiamiamo in
causa, infatti, Felice Pedretti.
5
I Fiori del Male
R.S.: Lei mi sta rubando il mestiere; in genere è il sottoscritto che presenta
gli artisti. Vada comunque avanti.
G.M.: Pedretti mi attira proprio perché è il mio antipodo. Leggiamo Hortus
conclusus (il silenzio); dove siamo? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai;
ce lo dice benissimo la statua al centro del giardino che medita su ciò che non
ha risposta. La carne è abolita; il libro, a destra, è stato lasciato da qualcuno
che non tornerà mai più a prenderlo; a sinistra un’ombra. In realtà un’altra
figura dell’Interrogante. Fatti di materie diverse, costoro si schierano dalla
stessa parte, dalla parte dell’enigma che non conosce soluzione.
R.S.: Forse la soluzione esiste.
G.M.: È vero, è la soluzione che riconosce nel non-essere e nella non-relazione
la verità. Questa verità è la saggezza dell’arte la quale non partecipa, sostiene
Felice Pedretti, all’universo delle spiegazioni e quindi è irriducibile al mondo.
R.S.: Torniamo alla poesia. Eravamo rimasti al carpe diem.
G.M.: Infatti; ora però affrontiamo ancora e meglio la questione della
“superficialità”. Di che stiamo parlando? Stiamo parlando del nulla che ci
circonda da ogni parte.
R.S.: Non la sapevo filosofo.
G.M.: Infatti non lo ero; lo sono diventato qui nell’Ade in compagnia del
mio amico Giacomo Leopardi. Le cose sono nulla perché escono dal nulla e
rientrano nel nulla; è inutile che Emanuele Severino sbraiti; Parmenide non
può replicare perché è così. Detto questo, la soluzione è semplice; o noi,
come i metafisici e i mistici, ci sganciamo dal mondo e ci affidiamo
all’Assoluto, oppure ci sganciamo dall’Ipostasi Suprema e ci lanciamo fra le
braccia dei mille colori del mondo.
R.S.: E della carne.
G.M.: Esatto, della carne. In tutte le mie opere la carne la fa da padrona;
quella carne che non può non accompagnarsi alla meraviglia per poter continuare a stare nel mondo. Da qui l’addensarsi ed il complicarsi delle metafore e degli ossimori. Che tristezza un’arte povera e spoglia! Povera e spoglia sarà la morte; mi permetta di concludere con il mio amico Ciro di Pers.
R.S.: Senz’altro.
G.M.: È grande il mio amico quando affronta la nostra organica fragilità. «È
la vita mortale / vana un’ombra che passa, / lieve un’aura che fugge». Un
orologio a polvere gli suggerisce questi versi: «Poca polve inquieta, a l’onda, ai venti / tolta nel lido ’n vetro imprigionata, / della vita il cammin, breve
giornata». Approfittiamo dunque e riempiamo questo spazio tra due nulla di
carne, di luce, di effetti speciali; insomma di vita vitale, di vita lussuosamente trionfante.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’obesità di Manganelli*
di Plinio Perilli
obesità di Manganelli, diciamolo subito, fu, è e sempre sarà
una virtù, un immenso merito – giammai vizio, debolezza o
qualcosa di simile. Un’obesità, certo, fisica, ma al contempo
stilistica, intellettuale, sinestetica, in qualche modo: antropologico-culturale…Giorgio Manganelli (Milano, 1922 – Roma, 1990) è, e
rischia di perpetrarsi obeso già dalla lunga, pletorica perifrasi intellettuale
necessaria per definirlo… Fu uno scrittore tout court, ovviamente: ma più
nello specifico, fu un narratore, un anti, o meglio, contro-romanziere, perfino un poeta (nel 2006 Daniele Piccini, per Crocetti, ce ne ha donato un’eccellente, baluginante silloge postuma); e aggiungiamo: saggista, notista di
costume, anglista (sua prima virtù), traduttore, consulente editoriale, nonché
un filosofo outsider (categoria che cela e protegge quelli migliori)…I provvidi compilatori dei repertori correnti, cominciano a dondolarsi sull’altalena
pluriespressiva, a computare e spiegare il suo brillante rendez-vous poliedrico: “È autore di opere la cui prosa, di ardua tensione mentale e di elaborata
e complessa struttura sintattica,” – stila Graziella Pulce nel dizionario
Einaudi diretto da Asor Rosa – “spesso oscilla fra il racconto-visione e il trattato”… Ma non basta… Ed ecco, ad iuvandum, l’elencazione dei racconti
fantastici Agli dèi ulteriori, i dialoghi A e B… Ecco le riscritture dei classici
(Otello, Pinocchio), ma anche le note di viaggio in Oriente; i Salons di critica d’arte e gli Improvvisi per macchina da scrivere (bilanciatamente banali e
sublimi, anzi distillati di ovvietà).
E una sequela di titoli capaci già da soli di farsi giostra di stili e stilemi,
nonché beffa d’ogni menzogna… Hilarotragoedia, nuovo commento,
Sconclusione, La letteratura come menzogna, Laboriose inezie, Angosce di
stile… Apriamo a caso una pagina di Rumori o voci, e in un’interminabile,
scrosciante dichiarazione di poetica veniamo quasi investiti dalla fluvialità
visionaria ed elucubrata del suo lussureggiante costrutto gnomico: “Non
potrai tu forse progettare uno spazio mentale, una geometria dell’anima su
cui indicare le sedi delle voci che giudichi irose, dei gemiti, dei rantoli, delle
inquisizioni sonore, delle repliche scandite, dei rintocchi rancorosi, dei
metallofoni animosi, delle perorazioni argomentate e minatorie. Dunque, ciò
che vocia è uno spazio che ipotizza una folla di bocche, orifizi, gole, lingue,
becchi, denti, ugole; e sia chiaro che questa, della carta geografica canora, è
non più che una fantasia, che finge di dar ragione del fragore che s’è descrit-
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I Fiori del Male
to demente. ”Giuseppe Pontiggia, che amava invece la scrittura a togliere, ne
stila e gli dedica una pur ammirata diagnosi in punta di penna: “Si direbbe
che Manganelli sia dominato da una coazione a ripetere i modi e le figure di
una rettorica manieristica, l’unica che, per la sua inattendibilità, può diventare, alla rovescia, attuale.”Ma insomma, Manganelli non si discute – capace come egli sempre è di trasformare ogni scoria o dettaglio, ogni chiosa
della chiosa in carne viva, asciutta e pulsante: trasparente, (dis)sacrata transustanziazione fra l’anima e il corpo stesso della Scrittura. Non ci ha forse
insegnato, uno studioso del calibro di Eugenio D’Ors, a sdoganare in positivo – come dono o flusso astorico, prezioso – perfino la secolare, famigerata
e fuorviante accezione di barocco?… “Sulla scena manganelliana” – rilevava Italo Calvino – “il linguaggio dà spettacolo di se stesso, è esso stesso scenografia, macchina scenica, gioco d’acqua, fuoco d’artificio, prestidigitazione, acrobazia capriola sberleffo”… Struggenti e complici, poi, i versi con cui
Alda Merini – placate le ansie impennate del loro vecchio amore – ne ritraeva appunto, nell’85, una pinguedine eletta a categoria gnoseologica, a inopinata virtù insieme cardinale e teologale:
Mi sembravi una foca, Manganelli,
bonaria giocherellona
che invitava i bambini nello zoo,
eri grasso e facondo,
ma quella buffoneria animalesca
nascondeva sapientemente l’ingegno dell’io,
maestro di un’epoca intera.
Eccolo, il Giorgio fine anni ’40, raccontato e immortalato dai ricordi
affettuosi della Maria Corti, testimone e sodale di quegli amori ebbri d’irrealtà eppure purificati, temprati dalla passione. Era successo che Giacinto
Spagnoletti, a Milano in quegli anni eroici del secondo dopoguerra, aveva
clamorosamente scoperto Alda Merini, e l’incandescente, sorgiva profluvie
dei suoi primissimi versi: “Quest’ultimo abitava allora in via del Torchio
dove la giovanissima poetessa, snella e dagli occhi lucidi, frequentò nel 1947
Giorgio Manganelli, Luciano Erba, Davide Turoldo e altri tra cui me stessa.
Fu proprio in quel 1947 che la Merini incontrò le prime ombre nella sua
mente e venne internata per un mesetto a Villa Turro. All’uscita alcuni amici
le furono molto vicini: Manganelli la portò in esame da Fornari e da Musatti,
io da Clivio. Allora ogni sabato pomeriggio lei e Manganelli salivano le lunghe scale senza ascensore del mio pied-à-terre in via Sardegna e io li guar-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
davo dalla tromba della scala: solo Dio poteva sapere che cosa sarebbe stato
di loro”… Immaginiamo tutto come un regista sapido e anch’egli obeso,
insieme, di realtà e d’Irrealtà quotidiana (imminente titolo di Ottiero Ottieri
che Manganelli e l’allor sua Musa Merini davvero e quasi incarnavano): la
fuga a Roma in lambretta, come dicono gli aneddoti ormai sconfinati in area
mitica… Il numinoso e beffardo sottrarsi a un grande, drammatico amore che
avrebbe liricamente finito per distruggerlo…
Stupisce che a Pasolini non stesse granché simpatico, ma forse tutto ciò
restava frutto di una superiore logica d’arditezza e (in fondo) di sperimentalismo… Che Pasolini praticava e, per l’appunto, odiava al contempo… Fatto
sta che recensendogli nel ’73 il Lunario dell’orfano sannita, Pier Paolo picchiò duro contro il peritissimo manierismo di quella pinguedine insieme
etica e culturale: “Egli fa gli elogi (ricattatori, perché condannano implicitamente chi vive diversamente) della vita sedentaria, contemplativa con umorismo e scetticismo, ora ‘depressa ora fatuamente euforica’, dedicata al lepido insegnamento e insieme alle severe ricerche filologiche, armata di doppiopetto e occhiali, amante (in tal caso con teppismo dichiarato) della buona
tavola e del buon vino, riduttiva da una parte, dilatoria dall’altra (riduttiva
quando si tratta di grandi problemi, dilatoria fino al delirio metafisico, quando si tratta di ‘particulari’).” Ma attenzione: manierismo e pinguedine erano
entrambi, dal Nostro, perfettamente perseguiti e voluti, quasi a fini, diremmo, esorcistici… Ne è pienamente reoconfesso in un passaggio del suo manifesto esemplare, La letteratura come menzogna (1967): “L’oggetto letterario
è oscuro, denso, direi pingue, opaco, fitto di pieghe casuali, muta costantemente linee di frattura, è una taciturna trama di sonore parole. Totalmente
ambiguo, percorribile in tutte le direzioni, è inesauribile e insensato.
”Recensendogli nel ’72 il nuovo commento e Agli dèi ulteriori, sarà proprio Spagnoletti il giudice più lucido e imparziale di questo grande pasticheur del linguaggio: “Manganelli alterna la regola del trattato di ascendenza secentesca allo sproloquio di tipo gaddiano, la lucida esecuzione di un
‘tema’ nell’altrettanto pervivace difesa della prosa d’arte (ma non nell’accezione novecentesca); variazioni che tuttavia hanno per soggetto un io magniloquente, egemonico…”. L’ultima scena è nel ricordo di Pietro Citati – lui
pure, talvolta, magniloquente, farcito e accanito di sublimità e fierezza enfatica, ma giammai obeso – spesso suo gradito commensale a Roma, in un
ristorante toscano presso Porta Pia: “Manganelli parlava superbamente. Non
ho mai ascoltato nessuno parlare così. Come un grande padre predicatore o
un papa rinascimentale o un diplomatico secentesco, ostentava gerundi, participi presenti, parole rare, proposizioni subordinate dentro altre proposizio-
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I Fiori del Male
ni subordinate, piuccheperfetti, con una esattissima consecutio temporum,
nutrendosi avidamente di parole – sanguinanti arrosti di sostantivi, colorati
contorni di aggettivi, folleggianti salse di verbi e di avverbi.”…Perché
insomma, pingue – anzi obeso – Manganelli lo è addirittura sempre stato! E
basterebbero a dimostrarlo i citati versi giovanili, carchi di una retorica che
smaglia realtà e la riassoda in linguaggio come la più inopinata e orgogliosa
delle liposuzioni intellettuali, degli apotropaici messaggi (e massaggi)
espressivi…
Fino a che muoia
porterò attorno
il mio corpo approssimativo:
mi abituerò al mio peso,
ai miei gesti inesatti;
alle conclusioni che maturano
nella mia forma frettolosa:
ma nello sghembo insistere
dei miei gesti malati
trovo un’ilarità domestica, un’allegria.
L’obesità, allora, come Menzogna e Palude definitiva?… Da parte di uno
scrittore che fu (o sognò di essere) insieme un po’ Flaubert un po’ Bouvard
et Pécuchet… Attentissimo e stoico esteta – almeno in questo – nel non voler
e potersi mai distinguere in una o nell’altra delle sue sfaccettate, reboanti (e
rabdomanti) funzioni/finzioni espressive. E con una buona dose, questo sì, di
sfrontata autoironia: Discorso dell’ombra e dello stemma o del lettore e dello
scrittore considerati come dementi… encomio del tiranno scritto all’unico
scopo di fare dei soldi…Categoria aspra e severa, quella dei neodanteschi
obesi in letteratura. Pochi campioni sono degni e calati in quel delizioso, fantasmagorico girone, sempre divertito, stranito di terribilità. In uno splendido,
delizioso Inferno di cartapesta o scenografico Purgatorio tutto teatrale,
immaginiamo Manganelli vagare ora compunto in compagnia di Felici Pochi
come Gadda e Rabelais, Proust e Musil, Thomas Wolfe e Riccardo Bacchelli,
Pizzuto e certo un giorno Arbasino… Altro che l’Alighieri in “goloso” dialogo con Ciacco o Forese Donati… Ci sembra d’intravedere perfino dei celebri registi: parlottano a braccetto Von Stroheim ed Ejzenstejn, facitori di film
interminabili… La pena, per sapiente e doveroso contrappasso, è quella di
riscrivere in eterno le proprie stesse opere – ma questa volta, sempre più
asciugandole, rastremandole… Presiede un Contini/Cèrbero, che ogni volta,
incalzandoli a severissimo Critico obeso dell’Obesità, sottolinea, addita gli
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
stilemi da togliere, le metafore da cassare, la mixtura verborum da impedire
(ma Manganelli ribalterebbe invece: le Angoscie di stile da aggiungere, glassare, candire…). Ridurre insomma ogni “centuria” sarcastica a un distico di
Penna, a un aforisma di Wilde o Kraus, a un prosciugato lacerto lirico dell’ultimo Caproni… Come condannare Botero a scolpire alla Giacometti, o
costringere un Diego Rivera, nella sua nuova vita, a dipingere assieme a
Morandi solo grigie bottiglie… Tutti insieme soffrono e giocano, intonando,
cadenzando ad libitum una parodiata litania ungarettiana: Si sta / come d’inverno / bei cachi maturi / su rami scheletriti…
*Da “Attorno a questo mio corpo”- Ritratti e autoritratti degli
scrittori della letteratura italiana – (a cura di Laura Pacelli,
Maria Francesca Papi e Fabio Pietrangeli, edizioni Hacca,
Matelica, Macerata, 2010.)
Giorgio Manganelli
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I Fiori del Male
RU B R I C A
Appunti
(a cura) di Merys Rizzo
na delle qualità più potenti e coinvolgenti della poetica di
alcuni autori di poesia è l’intreccio di elementi e di immagini
così vivo da provocare movimento emotivo e trasmettere al
lettore il senso profondo di un forte messaggio di libertà, attirando nella prospettiva radente ed appassionata del riscatto e della redenzione. La poesia in questi casi pare ritrovare il suo originario compito di storia
e di veggenza. Nel tempo vorticante e arso delle guerre e delle oppressioni,
sullo sfondo bruciante del predominio e della violenza, delle masse manipolate e sfruttate, dell’ideologia della superiorità sull’altro, essa si eleva come
da un abisso di nonsenso e diviene sfida all’indicibile, grido sommesso di
protesta e di ribellione. Proprio dalle viscere roventi della disperazione, della
solitudine, dell’ingiustizia, dalla luce nera , sigillata nell’orrore e nell’abominio delle tirannie, la poesia trova accordi inediti, facendosi voce di tanti, soffio di umana condivisione, veicolo privilegiato di libertà. I reticoli del simbolico, dalla lingua ai gesti e alla percezione, appaiono tragico inveramento
dell’eclissi di ogni valore legato all’uomo, di ogni significato accettabile e
dell’aspetto più degradato dell’essere.
La poesia finisce, cosi, con l’incarnare un forte principio di resistenza e
di eternità. La parola aperta, ma non arresa al tragico ontologico, transita
sicura lungo il discrimine tra guizzo luminoso e buio profondo, tra bagliori
di vita e ombre incombenti di morte. Nello scorrere di visioni intensamente
vissute, di pensieri rotti, di tenebre inestricabili si toccano il dolore umile,
vibrato e il sublime con il suo puro avanzare. Il canto della poesia non muore
davanti allo spazio desolato e asfittico del male; si conferma, invece, strumento affilato e consapevole, quasi lama di fuoco, purificata dalle scorie
della vendetta e dell’odio. Il poeta denuncia le violenze, le deportazioni, le
ignominie, grida la propria estraneità al potere senza cadute disperanti, senza
raggelanti sentimenti d’angoscia. Lo fa con la certezza che le parole, posandosi sul foglio, diverranno scrittura del mondo, dell’uomo, della morte, ma,
soprattutto, della speranza. Al lettore giunge, così, un sentimento vivo e vero
dell’umano, che dal gorgo del dolore, dal pozzo del disincanto prende il volo
verso la luce di un nuovo, più maturo umanesimo. Tra suono e senso il
nucleo tragico e fatale della storia nella lingua polisemica della poesia cerca
la fuga verso altri orizzonti, convogliando altra realtà, convocando altro
mondo. La parola poetica dice l’orrore, sottraendosi, però, al tempo dell’or-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
rore, dilaniato e feroce, racconta la luce sghemba, che brucia nel fondo inerte del disumano, scavando, però, un sepolcro d’amore e di com-passione per
tutti quelli, che hanno subito la brutalità e la crudeltà di una vita scarnificata
o negata. Le parole della storia, talvolta, sembrano insufficienti a far rivivere il grigio ostile, l’ombra lunga e pesante delle nefandezze del potere. Le
esperienze tragiche delle deportazioni, le ferite inguaribili, provocate dalla
perdita di un familiare negli orrori rovinosi delle guerre o negli spazi soffocanti e uncinati dei totalitarismi, oscurano le parole, rendendole impronunciabili. Solo la poesia, forse, può dare a quelle esperienze, nella limpidezza
del suo linguaggio, forma memorabile, vibrante di partecipazione.Le donne,
che condividevano con lei le attese strazianti davanti alle carceri staliniane,
chiesero ad Anna Achmatova:” Potrebbe descrivere tutto questo? ”Lei rispose affermativamente e trasformò il profondo ammutolire di fronte alla grande tragedia nazionale del regime staliniano nella pienezza di parola di “
Requiem “: le montagne si piegano dinanzi a questa ambascia,/non scorre
l’ampio fiume,/Ma del carcere son saldi i chiavistelli,/Le <tane della catorga> al di là di quelli/e mortale angoscia./Per qualcuno aleggia fresco il
vento,/Per qualcuno è diletto il tramonto -/ noi non sappiamo, siamo ovunque le stesse,/solo sentiamo delle chiavi l’odioso cigolìo/e dei soldati i
pesanti passi./Ci levavamo come per la prima messa,[...] - da “ Dedica”
(marzo 1940). E, ancora,: [...]All’alba ti hanno portato via,/Dietro di te,
come a un funerale, andavo,/nella camera buia piangevano i bambini,/Il
cero sgocciolava sull’altarino./Sulle tue labbra il freddo dell’icona.[...] - da
“Introduzione” (autunno 1935).
I versi, intrisi di carica umana, morale e intellettuale, sollevano il materiale linguistico al livello di una espressività, che restituisce connessioni,
relazioni, contesti in transito verso il senso della verità. Essi liberano la voce
prigioniera nella cavità del dolore (“Io sono la vostra voce“ ha scritto Anna)
e aspirano a contrastare l’angoscia di interrogativi irrisolti: Diciassette anni
a gridare,/A chiamarti a casa,/Ai piedi del carnefice gettata,/Figlio mio e
mio terrore./Tutto si è sovvertito per sempre/e non capisco ora/Chi sia la
belva, chi l’umana creatura/e se lunga per l’esecuzione sarà l’attesa./e solo
rigogliosi fiori/e del turibolo il tinnire, e in qualche dove/Orme verso nessun dove./e di morte imminente minaccia/enorme stella. - ancora da
“Introduzione” (estate 1939). (I versi riportati sono tradotti da Evelina
Pascucci). Orme verso nessun dove del linguaggio, che David Grossman,
uno dei massimi scrittori contemporanei, segue nella sua prima, recente
opera in poesia”Caduto fuori dal tempo”, scritta tra aprile 2009 e maggio
2011 e tradotta in Italia da Alessandra Shomroni. Il figlio strappato all’esi-
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I Fiori del Male
stenza durante l’ultimo conflitto tra Israele e Palestina, la distesa uniforme
del dolore e della cancellazione, che chiude sulle labbra la parola, la necessità di restituire alla vita ciò, che la morte ha sottratto, sono sfondo e sostanza dell’opera. Un uomo improvvisamente si alza e si dirige “ laggiù”, dove
il luogo-non luogo reclama presenza. Tra sparsi residui memoriali si uniscono a lui nel cammino verso l’inconosciuto vari personaggi, finchè: L’alba
sale. In cielo/vagano nubi rossastre/e sottili./Usciamo lentamente dalle
fosse, siamo/nudi/di fronte al muro./Ancora una volta ci sembra percorso
da/un fremito che lo scuote ripetutamente/in lungo/e in largo,/un fremito
d’onda trasparente./e non possiamo parlare, tratteniamo/il respiro:una
parete/di pietra, ma così/brulicante di vita. Nella pietra di quella parete sconosciuta volti, voci, gesti, fuori da qualsiasi scansione del tempo, si staccano
dai nodi dell’invisibile e per un attimo si avvera ciò, che è stato vagheggiato: Talvolta, quando siamo/insieme, la tua angoscia/si aggrappa alla mia,/il
mio dolore si riversa/nel tuo sangue/e all’improvviso, dentro di noi, sale/il
vapore del suo corpo intero,/intatto/e per un istante possiamo immaginare /è qui. Il lettore, profondamente coinvolto nello sconvolgente andare “laggiù” condivide l’intero movimento immaginativo dell’opera e medita sulla
nuda verità degli ultimi versi del libro: e’ solo che il cuore/mi si spezza,/tesoro mio,/al pensiero/che io.../abbia potuto.../trovare/per tutto questo/parole.
La lingua raggelata dal dolore si è sciolta, oggettivandosi nella forma concreta della poesia e rivelando il suo cuore sacro.
Rintocchi di meditazione con altro timbro e altro vigore risuonano anche
nel cantore cileno della resistenza, Pablo Neruda, che pare sia stato addirittura ucciso dal regime di Pinochet. Egli, dando voce ad un continente intero
- l’America del Sud -, è divenuto il simbolo delle rivendicazioni e delle lotte
contro le forze reazionarie. Innumerevoli venature di passione politica e sorprendenti accostamenti di immagini plastiche intarsiano la sua poesia, che va
oltre le macerie disseminate dalla follia del potere e si fa canto di rinascita:
Sotto le mie ali bagnate, figli, dormite/amara popolazione della terra instabile,/cileni perduti nel terrore, senza nome,/senza scarpe, senza padre, né
madre, né sapienza:/ora sotto la pioggia distenderemo/il poncio e a piena
morte, sotto le mie ali,/a piena notte dormiremo per risvegliarci:/è nostro
dovere eterno la terra nemica,/nostro dovere è aprir la mani e gli occhi/e
uscire a contare ciò che muore e ciò che nasce./ [...] ora siamo una volta di
più:esisteremo,/mettiamoci sulla faccia l’unico sorriso che galleggiò sopra
l’acqua,/raccogliamo il cappello bruciato e il cognome morto,/vestiamoci di
nuovo da uomo e da donna nudi:/costruiamo il muro, la porta, la città:/incominciamo di nuovo l’amore e l’acciaio:/fondiamo un’altra vota la patria tre-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
mante. Il tempo forte della speranza accoglie lo scorrere lento dell’assenza
bruciante di nomi cari, di frantumi spenti, di sguardi scomparsi, di ombre
moltiplicate, di pensieri incompiuti. Nell’orizzonte sereno della poesia si
ricompone lo iato tra l’io e il mondo; lì si riaccende il sogno lungo la traccia
della parola.
Anna Achmatova, poeta russa (1889-1966 );
David Grossman, scrittore israeliano (1954);
Pablo Neruda, scrittore cileno (1904-1973 ).
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I Fiori del Male
Salvatore Quasimodo: Lirici greci
di Francesco Dell’ Apa
a pubblicazione della raccolta Lirici greci tradotti da Salvatore
Quasimodo nel 1940 suscitò negli accademici e nei filologi italiani una notevole reazione. Essi consideravano la filologia una
scienza a cui lo studioso doveva attenersi e quindi non corrompere con una libera interpretazione dei testi greci. Il poeta stesso era consapevole che avrebbe rotto schemi consolidati dalla tradizione e avrebbe rivoluzionato il linguaggio nel solco di una nuova poetica. Come afferma Luciano
Anceschi nella prefazione, “riuscì a piegare per la prima volta la parola poetica contemporanea all’interpretazione dei classici.” Quasimodo nel 1950
chiarisce il suo impegno di studio e scrive in Una poetica: “Anni di lente letture per giungere, mediante la filologia, a rompere lo spessore della filologia:
a passare, cioè, dalla prima approssimazione laterale linguistica della parola
al suo intenso valore poetico.” Non quindi una traduzione letteraria e pedissequa bensì prevale il sentimento profondo di calare, pur in una situazione
diacronica, il mondo greco nella dimensione dell’universo siciliano. Il prefatore fa sapere dell’assiduo e duro lavoro del poeta: “Non certo archeologica,
né accademica la poesia di Quasimodo, in un assoluto impegno di novità del
linguaggio, ha […] accenti di una chiarezza e levità, di “aerea plasticità”
degni dei Greci; e “la poetica della parola”, portando un comando di responsabilità su ogni elemento della sintassi poetica, offre, poi, uno strumento
rigoroso per la resa efficace di una spiritualità lirica non mai approssimativa.” D’altra parte si definiva un “siculogreco” e quindi giungevano a lui la
bellezza e l’armonia dei versi dei poeti e li traduceva con la nuova sensibilità poetica e moderna suscitando forti emozioni.
Evita “la terminologia classicheggiante” (opimo, rigoglio, pampineo) e si
affida alla lingua della contemporaneità scegliendo il vocabolo che meglio
può rendere il significato della lingua del suo tempo oppure che lui avverte
più consono al suo mondo poetico. Esempio di tale libertà di interpretazione
è il dibattito che suscitò la parola mainòlai nel verso 18 della lirica di Saffo
nella preghiera Ad Afrodite tradotta dal poeta con l’aggettivo “inquieta”. La
traduzione sembrava renderla “stemperata” perché il significato corrente
nelle traduzioni era quello di “folle” nel Pascoli, di “esagitata” in Fraccaroli
e di “in delirio” di Valgimigli. Altro punto fermo del poeta è quello di non
riprodurre lo schema metrico dei Lirici; “Queste mie traduzioni non sono
rapportate a possibili schemi metrici d’origine, ma tentano l’approssimazio-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
ne più specifica d’un testo: quella poetica. “Quasimodo attraverso la traduzione
dei poeti greci con un linguaggio nuovo
riesce in modo mirabile a fare conoscere
l’uomo nelle sua dimensione umana con
i suoi desideri e le sue passioni, con
la sua fragilità e limitatezza, con il senso
profondo della vita arata da piaceri e dolori. I versi di Saffo, Alceo,
Mimnermo, Anacreonte, Alcmane sono
di una bellezza e profondità di sentimento che sembrano composti nel nostro
tempo. Saffo fu considerata da Platone la decima musa, leggiamo in un frammento del conterraneo Alceo “O coronata di viole, divina/ dolce ridente (mellichòmeide) Saffo”. Il poeta di Modica nell’inquieta anima della poetessa di
Lesbo coglie Eros, dolce, amara, indomabile belva, che lei manifesta con un
senso d’intimità e di complicità con Afrodite alla quale chiede di alleviare il
suo tormento. “O mia Afrodite dal simulacro/ colmo di fiori, tu che non hai
morte,/ figlia di Zeus, tu che intrecci inganni,/ o dominatrice ti supplico,/non
forzare l’anima mia/ con affanni né con dolore;/ ma qui vieni. Altra volta la
mia voce/ udendo di lontano la preghiera/ ascoltasti, e lasciata la casa del
padre/ sul carro d’oro venisti./Leggiadri veloci uccelli/sulla nera terra ti
portarono,/ dense agitando le ali nell’aere celeste./ e subito giunsero. e tu,
o beata,/ sorridendo nell’immortale volto/ chiedesti del mio nuovo patire,/e
che cosa un’altra volta invocavo,/ e che più desideravo/ nell’inquieta anima
mia./Chi vuoi che Péito spinga al tuo amore,o Saffo?Chi ti offende?/ Chi ora
ti fugge,presto t’inseguirà,/ chi non accetta doni, ne offrirà;/chi non ti ama,
pure contro voglia,/ presto ti amerà.” Vieni a me anche ora;/liberami dai tormenti,/avvenga ciò che l’anima mia vuole:/aiutami, Afrodite. Alceo, conterraneo di Saffo, rivela molti punti di contatto con la poetessa per i Canti
d’amore (erotikà méle) e secondo la testimonianza di Orazio “fra una battaglia e l’altra[…] celebrava Bacco e le Muse e Venere”. “ebro, il più bello dei
fiumi…e lì molte fanciulle muovono / molli sulle anche con l’acqua chiara/
nel palmo delle mani, come con l’olio/ addolciscono la pelle. In Mimnermo
emerge la vena intimista; canta l’amore, la fugacità della giovinezza e il
disgusto della vecchiaia e quindi l’invito a ricercare una vita “molle e raffinata” perché Siamo come le foglie nate alla stagione florida,/ godiamo per
breve tempo i fiori dell’età. In un’altra lirica: Quale vita, che dolcezza senza
Afrodite d’oro?/Meglio morire quando non avrò più cari/ gli amori segreti e
il letto e le dolcissime offerte,/che di giovinezza sono i fiori effimeri/ per gli
17
I Fiori del Male
uomini e le donne. Anacreonte ebbe imitatori nel Seicento e nel Settecento,
nei suoi componimenti sono presenti temi di Alceo e Saffo: Voglio cantare il
molle eros/ pieno di ghirlande ricche di fiori,/ eros che domina gli uomini,
signore degli dei. Alcmane, poeta della Lirica corale, canta l’amore. Famoso
è il notturno, imitato da molti poeti antichi e moderni tra cui Virgilio e
Goethe. Dormono le cime dei monti/ e le vallate intorno,/ i declivi e i burroni; dormono i rettili quanti nella specie/ la nera terra alleva,/ le fiere di
selva, le varie forme di api,/ i mostri del fondo cupo del mare;/ dormono le
generazioni/ degli uccelli dalle lunghe ali. I Lirici greci rappresentarono un
passaggio determinante nell’evoluzione artistica di Salvatore Quasimodo e
furono considerati la sua opera migliore. Edoardo Sanguineti scrisse nel
volume Parnaso italiano (1969): “Il suo più vero contributo originale alla
poesia del nostro secolo non è da ricercarsi nella poesia creativa, ma nelle
traduzioni dei Lirici greci, che sono uno dei documenti più significativi dell’intera stagione ermetica.”
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Nicola Schiavone
GENESI DI UN GRANDE ARTISTA
di Antonio Coppola
n’opera del tutto nuova
e poderosa scritta da
Lucia Schiavone per il
suo avo, nonno Nicola
Schiavone (1907-1967)
spentosi nel pieno della creazione
artistica. Il percorso, l’iter di un artista poliedrico è stato attentamente
perlustrato da un saggio risolutivo
scritto dalla nipote Lucia, nota
restauratrice di Bari che dirige un
Laboratorio per l’Arte e il Restauro
“Villa Luisa” Clinica della Scultura.
Abbiamo sottoposto all’esame dello
storico dell’Arte Prof. Robertomaria
Siena il catalogo dell’opera di Nicola
Schiavone, (L’Arte di nicola Schiavone, Edizioni Helicon, Arezzo 2012)
artista che lo studioso già conosceva.
Secondo Siena “ci troviamo dinnanzi ad un altro rappresentante del
Ritorno all’’Ordine; fenomeno che
recentemente è stato riscoperto e
rivalutato. Nell’opera di Schiavone
ritroviamo gli elementi essenziali di
un tale evento artistico.
Allontanamento dello sperimentalismo radicale dell’avanguardia
storica e riscoperta del corpo attraverso la plasticità e la monumentalità. Il tutto all’interno di un recupero
del Museo e della tradizione dell’arte italiana del Trecento e del
Nicola Schiavone, 24 ottobre 1926,
Torino
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I Fiori del Male
Graziella: terracotta tuttotondo firmato, montata su base di legno cm. 29x15x26, collezione privata, è stata esposta alla VI Quadriennale di Roma del 1951 repertata con
il num. 312.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Fanciulla del Sud: carboncino, firmato, cm. 44x32 collezione privata
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I Fiori del Male
Quattrocento. Anche Schiavone rimane affascinato dalla classicità che legge in
chiave moderna”. A corollario del libro troviamo un Appendice documentaria,
la bibliografia generale e una emerografia. Nutrita è la collezione di manoscritti, corrispondenza varia che rispecchia, quasi nella totalità, il nucleo omogeneo della carriera artistica e biografica tramandata ai posteri. Parte della sua
creazione è datata nel periodo del fascismo, il secondo periodo, forse più intenso, si trascina fino alla data della scomparsa dell’artista. Insegnante di discipline artistiche e, successivamente, Ispettore per le Opere di Antichità e d’Arte
nel Comune di Torremaggiore. Nel 1962 viene nominato Ispettore Onorario
dalla Soprintendenza ai Monumenti e alle Gallerie della Puglia e della Lucania.
Tutto un crescendo di traguardi e riconoscimenti in campo Nazionale. Da
ricordare che Nicola Schiavone è padre di Edio Felice, noto e presentissimo
poeta nel circuito dei “poeti che contano”, evidentemente l’arte si è trasmessa
nel genoma, per ultimo, la figlia Lucia interprete fedele di quest’arte tramandata. Nicola Schiavone è un prosecutore della figura umana, da giovane si trasferisce a Torino indirizzato da Bistolfi presso un altro artista Arturo Stagliano
anche lui del Sud. Ben presto Nicola Schiavone s’impossessa della tecnica
della figura umana e rimarrà sempre vicino al suo razionalismo prospettico
sostanzialmente naturalistico.
Nella fase più matura il suo modo di raccontare si sviluppa nei limiti ben
definiti di una controllatissima graduazione di forme. Il colore fermo, zonato
pare intenerirsi in una intimità dolce e sensuale. Nelle terracotta e nelle argille
ci sorprende il rigore classico e la potenza espressiva dei volti nelle linee soavi
e appena ondulate. Molti sono i bozzetti creati dall’artista. Per tutti ricordiamo
il monumento a Umberto Giordano compositore celeberrimo di Foggia.
Schiavone ha nel suo “repertorio” un’infinità di progetti finiti e realizzati per
tombe ed edicole funerarie di accurata fattura neoclassica e dai richiami
Mitteleuropei. L’Arte funeraria è lineare con andamento rituale, rigoroso, che
emerge per lo più nelle opere tarde. Una variante in chiave sentimentale la troviamo negli studi su nudi di donna sempre pervasi da un realismo tautologico
espresso in più varianti. Confluisce migliore dignità la scultura in terracotta
Gisella o le fanciulle che rappresentano “Giovinette del Sud” una datazione
precisa nella semplicità unifica, una poesia della figura tutta oggettivata con
derivazioni a Cagli e Manzù. L’opera “Gisella” è stata acquistata dal Duce che
la ammirò nella visita all’esposizione nel Castello Svevo di Bari nel 1938.
Dunque Nicola Schiavone fa ancora pensare; indispensabile è stato questo
lavoro per inquadrare con attenta regia le vicissitudine dell’artista nella comparazione iconografica che ha portato felicemente a termine Lucia Schiavone
in questo ricchissimo, documentato manuale storico-biografico.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Wystan Hugh Auden: l’ansia al Musée
des Beaux Arts
di Daniela Quieti
i fronte a un dipinto che cattura l’occhio si può vivere un’espe
rienza forte di riflessioni profonde, di quelle che sembran
generare un senso di nuova epifania in grado di cambiare il
mondo. Questo è ciò che Auden forse inizia a pensare mentre
guarda “La caduta di Icaro”, opera di Pieter Brueghel esposta al Museo delle
Belle Arti di Bruxelles. Quando egli vide il quadro nel 1938, lo considerò
altamente poetico ed emblematico dell’indifferenza con la quale gli esseri
umani percepiscono l’altrui dolore. E scrisse “Musée des Beaux Arts”. La
scena descritta raffigura una bella mattina di primavera in riva al mare, nel
quale però un individuo annaspa in acqua. È Icaro precipitato dal cielo nelle
acque a ovest di Samo, con la sua lunga storia di miti e simboli, archetipo di
grandi progetti mai abbastanza decollati. La lirica è significativa della tematica di fondo di Auden: l’apatia dell’ uomo che non interrompe né muta il
ritmo esistenziale al cospetto del dramma di un singolo individuo: “Sulla sofferenza non si sbagliavano mai,/ i grandi pittori: come capivano il posto che
occupa/ fra gli uomini, e il suo prodursi mentre c’è qualcun altro/ che mangia
“La caduta di Icaro”, opera di Pieter Brueghel
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I Fiori del Male
o apre una finestra o passa di lì sbadato”. E si osserva che quando fatti dolorosi accadono a qualcuno, coloro che sono vicino solitamente guardano altrove. Auden attira il lettore nel mondo fisico ed emotivo del componimento.
L’azione avviene in tempo reale, si vede e si sente quello che sta accadendo
in quel microcosmo intanto che tutto scorre, nonostante eventi straordinari e
giustapposti si stiano verificando, come una nascita miracolosa o un supplizio, ma anche il disastro di Icaro: “Mentre riverenti gli anziani aspettano fervidi/ la nascita prodigiosa, ci saranno sempre/ dei bambini che non tengono
al compiersi dell’evento/ e pattinano sullo stagno ai bordi del bosco”. La
suggestiva descrizione, congiunta a un annegamento, induce a considerare
quanto le cose negative tendano a essere smorzate da quelle positive: “Mai
dimenticarono, i maestri,/ che anche il martirio più tremendo deve aver
corso/ comunque in un angolo, un luogo dimesso…”. Infatti tra splendidi
alberi e figure arcadiche, chi noterà la tragedia che si sta compiendo a pochi
metri di distanza?
La sofferenza viene inghiottita dal caos e dalla frenesia della vita quotidiana e gli eroi diventeranno tali solo dopo morti: “nell’Icaro di Brueghel,
per esempio: ogni cosa si distoglie/ tranquillamente dal disastro; l’aratore/ può aver udito il tonfo, il grido desolato,/ ma per lui non è una grave iattura; il sole/ splende come deve sulle bianche gambe lì lì per sparire/ nell’acqua verde”. In questo tableau, come in un pomeriggio nel parco o in
mezzo al traffico, il centro della scena è catturato da gente disinteressata a
ciò che agli altri succede. Ci sono tante altre persone impegnate in esistenze
importanti quanto e più della nostra. Ma è proprio questo il punto. Nel
momento in cui si eseguono le azioni più abituali, gli sconosciuti che vivono
dall’altra parte della strada potrebbero essere felici per un evento eccezionale oppure in gramaglie per un episodio funesto. Tuttavia il fatto non importa
a nessuno. Nel panorama delineato da Auden, oltre all’aratore e al pastore,
anche le pecore restano completamente ignare del dramma come persino una
nave che “ha la sua destinazione e calma continua a veleggiare”: tutti, dunque, sembrano volersi allontanare incuranti dalla disgrazia in atto.
Qualunque sia il motivo della disattenzione a questa particolare caduta, se
deliberato o per stanchezza fisica e mentale, la vita continua alienata, rendendo ancora più straziante “il fatto sconvolgente, un ragazzo a capofitto giù dal
cielo”. Particolarmente se approfondito nel dettato poetico inglese denso di
stilistiche risorse non sempre di piana lettura, l’elegia evidenzia come
l’Autore sia capace di raggiungere livelli d’intensità lirica in una forma talmente classica da evitare il classicismo, poiché egli resta legato alla materialità contemporanea e ne esprime, con vigore intellettuale, la protesta contro
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
il disorientamento etico, politico e psicologico. I versi sembrano suggerire
una possibile via d’uscita alla disperazione che segna le nostre esistenze nell’accettazione – religiosa forse – dell’esperienza del dolore a cui è soggetto
l’essere umano fin dalla nascita e lungo tutto l’arco della sua esistenza.
Mentre tratta l’argomento in relazione a un’opera pittorica di un’altra epoca,
Auden procede nel tempo reale con il suo spleen idilliaco, satirico, iconico,
portavoce di un messaggio d’amore non romanticamente egocentrico ma
teso alla ricerca di una coscienza sociale desiderosa di sopravvivere all’angoscia, allo sdegno, alle catastrofi di un’intera età: “l’età dell’ansia”.
Wystan Hugh Auden - Nato a York, in Inghilterra (1907 - 1973), è stato uno dei grandi poeti
britannici del XX secolo. L’aver vissuto il cruciale passaggio d’epoca dal 1936 al 1945 fra la
guerra civile spagnola e la seconda guerra mondiale, con tutti le conseguenti trasformazioni storiche e letterarie in bilico fra due metà di secolo, lo rende un maestro ancora da riscoprire. Auden
esordì negli anni Trenta come scrittore sarcastico e demistificatore della cultura borghese, leader di un gruppo di giovani autori studenti a Oxford. Nel 1937 partecipò brevemente come autista del soccorso medico alla guerra civile spagnola. L’anno prima aveva sposato la figlia di
Thomas Mann, Erika, allo scopo di farle ottenere il passaporto inglese per uscire dalla Germania
nazista. La produzione letteraria di Auden è molto ricca e spazia dalla poesia alla drammaturgia
e alla critica letteraria. Le sue principali opere sono: Poems (1930), The Orators (1932), The
dance of death (1933), Look, stranger (1936), Another time (1940), For the time beeing (1944),
nones (1951), About the house (1966). Nel 1947 pubblicò L’età dell’ansia da cui prese il nome
quella parte della storia della letteratura inglese del ‘900 che parte dal dopoguerra e che comprende gli anni cinquanta.
Brueghel il Vecchio (Breda 1525/1530 circa - Bruxelles 1569) è stato un famoso pittore
fiammingo.
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I Fiori del Male
LUIGI SANTUCCI
TRA I CONFINI di un infinito distacco:
UN DOLENTE CONZONIERE ALLA MADRE
di Sabino Caronia
schaton. Traguardo di un’anima1 si intitola significativamente
l’ultimo libro di Luigi Santucci. E’ una sorta di itinerario dantesco attraverso l’inferno del nulla, il purgatorio dei rimorsi in
cospetto del proprio egoismo, il paradiso della propria infanzia
immortale. Il Virgilio di questo viaggio è Funditus, ossia quell’io profondo
con cui, nei momenti decisivi della vita, ciascuno di noi è chiamato necessariamente a fare i conti. All’inizio e alla fine, come in Orfeo in paradiso il
suono della sirena dell’ambulanza, qui è la visione familiare e rassicurante
del tiglio nel giardino di casa, che si offre come indispensabile appiglio. Ecco
dunque: «Un istinto di ribellione e di fuga mi diede le forze per sollevarmi
qualche attimo dal mio giacere. Riuscii a puntare lo sguardo sui ritratti dei
miei cari morti appesi alla parete, poi verso la finestra oltre la quale si affacciava il tiglio che avevo piantato in anni lontani e mi faceva giungere il suo
molle profumo. Tracciavo nell’aria confusi gesti come volessi abbracciare
cose che mi sfuggissero, e potessero proteggermi dall’intruso»2. E poi alla
fine: «Valeva ancora la pena di vivere. A ciò del resto mi convincevano i
fedeli rintocchi della pendola e dalla finestra l’albero del tiglio con la fragranza dei suoi primaverili fiori»3. Vien fatto di ricordare in proposito quanto si legge in non sparate sui narcisi: «Ai Giardini, riconosco a colpo sicuro solo i tigli, anche a occhi chiusi quelli, nelle sere di giugno, quando esa
lano quel dolciastro ubriacante profumo degli
ultimi giorni di lezione come ad annunciare
che la scuola putrefa in una sua attesisssima
morte e sta per far luogo a grilli e cicale, la
cara estate delle vacanze»4. E si pensa ancora
a quanto è scritto in L’almanacco di Adamo:
«Ma io quando voglio andare indietro indietro, ringiovanire fino a ricominciare dall’infanzia; quando insomma voglio ritrovar la
felicità non come una fandonia di filosofi
illuministi o di crapuloni pagani ma come
Luigi Santucci
una realtà destinata all’uomo sulla terra…
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Allora dicevo vado di Giugno, di notte, nei giardini della mia città a risentire l’odore dei tigli. Sì, la scuola è proprio finita: me lo dicono loro attraverso l’olfatto, e mi dicono che il mondo è per me, una beata lunghissima vacanza, perché ho soltanto dieci anni e si riprende tutto daccapo»5. Contro la
paura del nulla e più ancora contro la tentazione del nulla ecco dunque il
richiamo significativo al tiglio che svolge la stessa funzione del lampione
verde in Manalive di Chesterton, non a caso richiamato in Il cuore dell’inverno: «Dio m’ordinò di amare un determinato luogo e servirlo, me lo fece
onorare come potevo, e anche con le mie eccentricità, affinché codesto luogo
potesse essermi di testimonianza contro tutti gli infiniti e le sofisticherie.
Intendo che il Paradiso è in un certo luogo e non dappertutto; è qualche cosa
di preciso, non già qualsiasi cosa.
E in fin dei conti, non sarei troppo stupito se ci fosse davvero un lampione verde davanti alla mia casa, su in cielo»6. Vien fatto di ricordare San
Luigi, una poesia dove ancora una volta per via di odori e di profumi si arriva ad un ricordo: «… A giorni è san Luigi e io so quale / semente tu spargi
per la casa: i tiepidi gigli / l’odore / che svela per un attimo tutti i segreti /
che i confini rompe tra vita e morte…». E’ il motivo più vero di Santucci per
cui con Prometeo mi piace richiamare anche un’altra poesia che è forse la più
bella del canzoniere dedicato alla madre morta, Hortus conclusus, con quell’accenno alla casa, al giardino, all’orto perduti e non sostituibili nemmeno
dagli infiniti tesori celesti: «Anche se nuova terra e nuovi cieli / troveremo al
risveglio / irrepetibile è la nostra storia / - quel tuo aprire il ventaglio / quel
mio tornare a casa da soldato - / unica fu e resta. Cancellato / è il giardino
d’ortensie in viale Piave / col canaletto d’acqua piovana: / orto concluso e i
fiori suoi sommersi. / Concluso: non più nostro, anche se a noi / galassie di
giardini / offrissero pietosi gli universi»7. Nello stesso anno di Orfeo in paradiso esce Se io mi scorderò, quel canzoniere alla madre morta il cui titolo riecheggia il salmo 136 e il cui scopo è una lotta contro la morte, un accanito
tentativo di restituzione, come detto nel componimento Un senso ancora:
«Ch’io scriva scriva scriva / fino che al mondo avrò restituito / quello che ci
fu rapito».Sono liriche che in buona parte precedono o accompagnano la stesura di Orfeo in paradiso.Già nel componimento che apre la raccolta,
Cacciata dall’eden, come poi in Stop sul Lete, è il motivo del paradiso perduto e un implicito riferimento al mito di Orfeo. Soprattutto significativo è
Tu sei i novissimi: «A porto di salvazione / condurmi ormai puoi tu sola. /
Credere-non credere: questa fola / oscillante come / lumi su un costone /
troppo lontano più non mi lusinga. / Vade retro pensiero / meglio il mazzetto nero / dei tuoi capelli fra le dita / che decifrare la vita / (questa? l’altra
vita?...). / E l’anima vecchia farfalla / spaurita / che si dibatte nella buia stanza. // Oh fa’ che solo questa mia speranza / sia immortale / a te approdare con
estremo volo / nel cavo d’ombra del tuo seno / e là giacer senza colori / senz’altri amori / tu paradiso solo». Come detto, le liriche raccolte in Se io mi
27
I Fiori del Male
scorderò precedono o sono contemporanee alla stesura del romanzo Orfeo in
paradiso e prima del romanzo Santucci pubblica l’antologia Poesie alla
madre ove cerca un riscontro dei propri sentimenti nella parola di altri poeti8.
In questa antologia è soprattutto significativo il riferimento alla poesia di
Caproni Preghiera, dal momento che la redazione dell’antologia si colloca
proprio nel momento preparatorio del grande romanzo Orfeo in paradiso,
dove è evidente la consonanza del tema trattato. Il presente scritto vuole
essere un omaggio a Santucci e a Caproni e nello stesso tempo un ricordo di
mia madre, nata esattamente cento anni fa, il 28 gennaio 1913. In occasione
della sua morte ho dedicato a mia madre una sorta di riscrittura della poesia
Preghiera, un componimento che a sua volta riprende esplicitamente la
Ballata dell’esilio del Cavalcanti. Preghiera fa parte della sezione Versi
livornesi de Il seme del piangere (Garzanti, 1959), la sezione, per usare le
parole dello stesso Caproni, «dedicata a mia madre, Anna Picchi».Il Il
mestiere del poeta si legge «Anna Picchi non è presente come madre, ma
come ragazza da me vagheggiata e vezzeggiata».Il motivo del figlio come
fidanzato si ritrova già nel componimento L’ascensore («fidanzati»), come
poi in Ultima preghiera («suo figlio, il suo fidanzato»).
In un dattiloscritto nelle carte del poeta con l’indicazione: Giorgio
Caproni, questionario, risposte, è detto «Preghiera la scrissi dopo un viaggio
a Livorno, la mia città natale lasciata per sempre quando avevo nove anni.
Rivedendo certe strade il mio pensiero corse spontaneo a mia madre, Anna
Picchi, che ingenuamente mi misi a cercare in quelle vie dov’era nata e vissuta. Tornato deluso a Roma pregai “la mia anima” d’andarla a cercare lei.
Nacque così Il seme del piangere, che appunto tenta di ritrarre Anna Picchi
prima che si sposasse e oltre». E’ significativo il riferimento a questa poesia
di Caproni nella citata antologia di Poesie alla madre curata da Luigi
Santucci, la cui redazione si colloca proprio nel momento preparatorio del
grande romanzo Orfeo in paradiso, dove è evidente la consonanza del tema
trattato. Preghiera è il componimento più antico de Il seme del piangere, nata
a margine della lunga elaborazione che condusse alla redazione definitiva
della poesia eponima. Nella seconda parte è peraltro chiaro lo stretto rapporto con gli abbozzi preparatori de Il seme del piangere. Ho voluto dunque
‘riscrivere’ questi versi, che ho sentito miei, dedicandoli a mia madre.
1
L. Santucci, eschaton. Traguardo di un’anima, Novara, Interlinea, 1999. - 2 Ivi, p.15.
Idem, p.44. - 4 L. Santucci, non sparate sui narcisi, Milano, Mondadori, 1977, p.56.
5 L. Santucci, L’almanacco di Adamo, Roma, Edizioni Paoline, 1985, p.70. - 6 L. Santucci, Il
lampione verde, in Il cuore dell’inverno, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1992, pp.206210. Per il brano citato si veda G.K. Chesterton, Le avventure di un uomo vivo, in Opere scelte,
a c. di Emilio Cecchi, Firenze-Roma, Casini, 1956, p.485. - 7 L. Santucci, Se io mi scorderò,
Milano, Mondadori, 1969, p.84. Sul canzoniere alla madre come cartone preparatorio di Orfeo
in paradiso si veda quanto osserva giustamente G. Cristini in Se io mi scorderò-la cacciata
dall’eden, «Il Ragguaglio Librario», aprile 1970. - 8 L. Santucci, Poesie alla madre, Milano,
Mursia, 1967, ora col titolo Come una volta mi darai la mano, Milano, Mursia, 1990.
3
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Cristina sparagana: FUOCO LUSTRALE
di Paolo Carlucci
a parola è stupore periglioso che alla selva del verbo conduce.
Il molteplice del groviglio sonoro diviene Uno in vertebra di
natura, accesa di fuoco che sustanzia. E nel crepitio si tace cenere stellata d’infinito, occhio che risuona di mistero antichissimo
la terra, che rinasce nell’arsura, acqua al cielo divelta. Inferno che purifica e
il corpo che tutto racconta, si metaforizza in un lugubre e metropolitano gracchiare, Ah, la cornacchia sull’antenna, il graffio d’una musica stanca, eppure suono, duro, benché diverso.
Entro queste ardite architetture bruniane si colloca la nuova densissima
scrittura poetica di Cristina Sparagana, dedicata sì al rogo del Nolano in
Campo de’Fiori, nel febbraio del 1600, (Giordano al rogo e altri versi) ma è
pure tutta attraversata da echi simbolici di un vasto e dissonante Novecento,
crepuscolo di modernità. Basta a saggiarla l’analisi fonica di alcuni termini
sin dagli inizi del poemetto. La durezza del problema filosofico si risolve in
poesia vibrante e nottilucente della dissoluzione delle cose e del loro rinascere, grazie proprio alla selezione di suoni aspri, gutturali, con termini come
fuoco, geco, falco, l’occorrenza di sibilanti, con lessemi quali sale, sangue, assenza, spinge, per antichi rimorsi …. al nulla
dei mai penetrati, e la danza delle liquide
– nasali, l’estate è un funerale rosso
fuoco, rosso come la gioia, come il foco e
la morte per flamma. E la filologia ricca
di umori e sensibilità sinestetiche regala
squarci d’inaudita poesia, resa con tocchi
di efferato realismo biologico ed anatomico, venne il turno dell’inguine, nel seme si
sbriciolò sostanza maledetta, ciò che incise la femina, lo consumò dove colei s’immerse …. Allora il corpo serpeggiò. Da
allora fu serpente di vertebre. Ultimo il
mento si sfasciò al carminio.. l’homo ritto
ala pelle , l’homo chiuso su una spada di
fiaccole, veniva a divino universo.
Risultano chiari da questi squarci di
29
I Fiori del Male
analisi testuale gli intenti dell’autrice di costruire, pur attraverso un serrato
confronto con la tradizione letteraria, un originale percorso di poesia in quanto tutti siamo chiamati a condividere un passionato metastorico, che si realizza certo nel panteismo naturale caro al filosofo, ma esso si vertebra appunto di una sequela di immagini potenti della Roma caravaggesca dei borderlines di ieri e di sempre e qui ritroviamo il fiume della modernità, il Tevere, le
luci di una ribalta barocca resa teatro del disagio contemporaneo, nella poesia della desolazione che splende dell’estate odori e fetori di morte e nel carnevale della carne che discende dantescamente agli inferi, ma le son compagni di ventura, anche Rilke, Eliot, Pound, Montale e Pasolini, oltre ai grandi
poeti spagnoli, cui ella sempre guarda, come carsico fiume di ispirazione. E
in questo delta di metafore non sfugge il fatto che il Giordano filosofo trascolora nell’immagine del fiume dove Giovanni è Battista d’acqua, ma verrà
qualcuno che, più grande, nel fuoco battezzerà. Cristologia che pulsa di natura e nel fuoco si aurora di speranza! E al faro supremo, Garcia Lorca, la
Sparagana dedica, in altri versi. un oratorio pagano, in cui anti frasticamente attraversa uno dei più celebri testi del poeta andaluso, il Lamento per
Ignacio Sanchez, qui viene ribaltato nel Lamento per il toro Ignacio Sanchez,
splendido abbinamento ed incastro con l’orizzonte morale tragico simbolico
del Bruno, autore de lo Spaccio de la bestia trionfante. In questo oratorio la
Sparagana, dando spazio al fluire del suo occhio sonoro di inferni pieni di
altissima meditazione,recupera, attraverso immagini folgoranti, come in Fu
il momento del sangue coltivato a margherite e lampade d’avena… l’orologio del sangue palpitò, la dimensione orfico-visionaria che più e meglio la
caratterizza nel panorama della poesia, una capacità di dire, attraverso una
rete di immagini e suoni guizzanti e barocchi l’oracolo di vertebre della parola in moderno fondersi in singolarissima e preziosa preghiera di stile e di
animo.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
LA DESERTIFICAZIONE
DELLA CULTURA DI OGGI
di Ninnj Di Stefano Busà
a contemporaneità corre il rischio di una desertificazione di
massa. Chi non ha punti di riferimento, volontà propria e idee
chiare asseconda un vento che disperde i semi della cultura, o li
orienta debolmente verso quelli che sono i valori cognitivi e
prioritari dell’intelligenza e del sapere. Ogni uomo è dotato per sua natura di
un quoziente intellettivo almeno di media entità, ma se si lascia inaridire
senza apportarvi un minimo di alimento, la cultura, l’intelletto, la sensibilità
e con essi lo sviluppo cognitivo di ogni individuo tendono ad un deterioramento che può portare alla necrosi del pensiero, alla stasi intellettiva, quanto meno si può assistere ad una desertificazione e ad un allontanamento dallo
sviluppo delle idee, dei pensieri e delle memorie, che sono il sale della vita.
La tecnologia dall’Ottocento in avanti, fino ai nostri giorni, ha fatto passi da
gigante, ma ha lasciato indietro le qualità sublimanti dell’umanità che sono
nell’ordine la definizione del suo criterio discernitivo, lo sviluppo e la promozione/sollecitazione delle sue cellule cerebrali attraverso l’uso della parola -il linguismo- (o linguaggio) che caratterizzano la condivisione delle idee
e lo scambio del patrimonio genetico-intellettivo fra i propri simili. Senza
questi elementi l’uomo vive la sua necrosi intellettuale e decade nella scala
dei valori, desertificando l’intero patrimonio di conoscenza che, con molte
probabilità, ha pure segnato il suo percorso.
Ma come avviene l’elaborazione intellettiva dell’individuo? egli attinge
certamente al suo patrimonio genetico/cognitivo, ma sviluppa nel tempo le
caratteristiche piene di una (ri)elaborazione culturale che lo porta a crescere.
Siamo circondati dal sapere ad oltranza, da migliaia di libri, da milioni di
mezzi interdisciplinari: informatica, internet, rampe satellitari, digitali terrestri etc. che ci portano dritti ad una conoscenza enigmatica, tenebrosa, colma
di effetti speciali, di lampadine che si accendono, di input, di videoclip, ma
coi tempi che corrono, (accade assai spesso), anche si spengono. Le turbe di
oggi stanno in questo defilarsi della coscienza e della intelligenza, il non
saper o voler più progettare uno sviluppo -a posteriore- progredire dall’istruzione primaria, non fermarsi ad un presente che non garantisce lo sviluppo
individuale, poiché le facoltà dell’intero sistema e l’apprendimento dell’uomo si arrestano ad uno stadio che vanifica il processo cognitivo del genere
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I Fiori del Male
umano. È come se tutto il sistema si atrofizzasse senza capacità di recuperi.
Si vive stentatamente nell’oggi, senza uno spiraglio di luce ulteriore. Del
supporto della cultura non si dovrebbe essere sufficientemente sazi, come del
cibo lo stomaco per vivere, per star bene, progredire. In realtà le librerie sono
stracolme di libri invenduti; vanno al macero tonnellate di volumi obsoleti di
tanti autori più o meno validi, che si arenano nella sabbia mobili di una desertificazione senza fine. Ma altri sono oggi i motivi dell’abbandono della cultura. Anche intellettuali di primo piano amano esporsi in TV a caricature dell’intelligenza, i programmi colti o almeno culturalmente preparati sono
pochissimi, si tende a inquinare e contaminare l’intelligenza con aggressivi
scenari televisivi, con talk show, con palcoscenici mediatici che rasentano
l’illiceità, l’indecenza, il malcostume. La massa tende alla schizofrenia fra
l’individualismo materialistico e privatistico, il guadagno facile e immediato
e la coscienza dell’essere, da cui rimane emarginata quasi sempre la vera
cultura che non prevede lauti guadagni. Il dramma della nostra cultura è oggi
un ripiegamento su se stessa, un pericolo assai fondato dovuto alla mancanza di criteri, di equilibri, di saggezza, ma anche e soprattutto alla diffusione
di un modello di vita che origina dall’eccesso di maggior materialismo che
da spiritualità: più successo alla ribalta, garanzie di risorse immediate, piuttosto che istanze di scienza e di intelletto. La sapienza spirituale è divenuta
un optional.
La contemporaneità offre prodotti di più immediata presa, prodotti luccicanti che aspirano a criteri di valutazione egoistici e meschini, piuttosto che
aspettare la fruttuosa eredità del dopo, conviene cogliere l’immediatezza e
l’apparenza delle immagini, del presente. La ricchezza è una scatola chiusa
che tutti vogliono scardinare per appropriarsene: la trasformazione interiore
dell’uomo è divenuta una lotta continua contro la coscienza e il tempo che si
fanno avari e ci depredano dei significati valoriali. La distanza dall’essere a
favore dell’avere si accorcia ogni giorno di più e porta le creature del mondo
ad appropriarsi dell’attimo fuggente, a proporre come sfida di vita il richiamo materiale in grado di corrispondere alle aspettative privatistiche dell’utile ad ogni costo. In questo deserto della Cultura, noi guazziamo come pesci
fuor dell’acqua, ma quanto possiamo resistere prima di estinguerci? o almeno, le domande più impellenti sono: sapremo impostare la bussola verso un
rieducazione delle coscienze? sapremo rispondere alle attese di domani programmando e promuovendo le risorse, le aspettative, i programmi del futuro, senza incorrere nel sistema nichilista che ci sta facendo smarrire tutte o
quasi le coordinate degli umani sentimenti, del buon senso e dei valori che
attengono alla palingenesi del processo rigenerativo della specie?
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
GIANNI RESCIGNO:
ORDINE E LEVITA’
DELL’EFFIMERO
di Domenico Cara
el tutto spontaneamente, Gianni
Rescigno insegue in questa
nuova e più recente silloge di
poesie, (nessuno può restare,
Genesi Ed. Torino, 2013) le vie di una realtà emozionale continuamente disegnata per intenzioni e soluzioni a tessitura e tensioni religiose. E’un’esigenza
spirituale, un respirare le fissità solenni dell’Assoluto in toni semplici, ascoltando il cuore della privata sensibilità interiore su cui riflettono la mente e il
senso di un’estasi singolare, non del tutto calma, né soltanto iridata, ma particolare per un’aspirazione(anche poetica) della paura di “non restare” come
ogni altra immagine della “terra e del mare”(d’altra parte risaputa, da Adamo
in poi). Il soggetto è spettatore della vita tra noi, osserva il mondo, ascolta i
silenzi, fonda continuamente icastici monologhi e, passo dopo passo, continua ad abitare l’estetica e la prassi di ogni contingenza esistenziale, tra odio,
e crudeltà, imitazioni di esistenza, ostacoli di eventi, formule di falsa gloria,
destini agonici e fortune inutili ed esemplari. Il suono dei versi in cui la sua
esperienza si muove è storia al “termine della notte” e del giorno in cui la
persona si adatta per attrazioni, necessità metafisiche dell’indifeso che sogna
la verità. Indubbiamente teme i terrori, l’ordine e la levità dell’effimero,
secondo punti di vista definitivi che la critica gli ha suggerito dinanzi alle
molteplici e diffuse testualità di scritture in versi e comunicazioni di varia
entità. Egli dissemina, da par suo, trasparenze brevi e irripetibili, effetti
visuali ansiosi, manifestazioni icastiche dentro un attivo desiderio di capirsi,
incapace di risolvere i segni di un’umanità debole che non accetta il limite
della sopravvivenza, in consonanza con il morire possibile. La voce si fa nitida e amara; costantemente rende funzionale la partecipazione alla Natura tutt’altro che sfuggente, che però non si fida di se stessa dovendo accogliere in
toto quel fragile aspetto della propria limitabilità al fiat voluntas Tua, da cui
qualsiasi determinazione non può sfuggire. Così il poeta assolve con un
lamento la sua disponibilità alla fine di se stesso, e forse in mobilità astratta
e ineluttabile. Lo fa “l’anima con le lacrime” vivendo in una società senza
problemi di situarsi nella dipendenza divina, il farsi di un libero arbitrio mai
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I Fiori del Male
fuori quadro laico, e mai verificando mentalmente la sontuosità dell’immateriale che diventa variabile e perentorio al giudizio finale. Gianni Rescigno
gode la vastità della bellezza nella sua complessità espositiva e, insieme
prega sullo sfondo di una tristezza che rinnova gli effetti di un enigma, che
presiede la nostra stessa riconoscibilità di persone, sia pur edificata sulla sabbia di troppe comuni illusioni e di tesi incompiute e deboli. Oltre il dubbio
c’è sempre l’Oltre che ferma i sottesi azzardi di coloro che soffrono irrinunciabilmente e, questo movente concettuale chiarisce il collettivo status di
ogni sogno evanescente sulla terra. L’uomo è creatura di Dio fino alla fine e
le lamentazioni su ciò che può essere inconcepibile non avrà mai postumità
concreta. C’è inoltre in tale assillo, l’insidia dell’Eternità di cui tanti non
abbiamo capito quel Sempre che mai non s’assottiglia, e ci coglie selvaggi
nella foresta del Male. La lingua dell’autore è stretta tra l’effetto aforistico
limitabile e solerte e la pietosa forza dei suoi interrogativi inclementi. E questo secolo li usa in forme inesauribili e perentorie. Senza altra traccia un tema
di esilio, messo in risalto dal tepore adulto e sereno di una morbidità tutt’altro che celata allo spirito quando rivela le sue estasi, che “se non raggiungono l’infinito” per umano dire e materia che da Leopardi porta a Ungaretti, a
più disperse purezze di attualità, convoca le elezioni di un poeta meridionale ritratto libero da artifici, raccontando un calcolo di fedeltà a se stesso senza
deragliamenti d’opera e cifra mediterranea, analizzando una rinascita tutta
disposta a farsi essenziale come Dio che, nella morte, si appropria di fato
eterno e categorico, aldilà di quell’infecondo “restare” che cattura la solennità del quotidiano, ma non il tarlo tormentoso che disfa l’ordito di ogni esistenza a- progressiva, o increspata e fuori le mura!
NOTIZIA
Gli Autori che desiderano collaborare possono inviare gli articoli
ai redattori (max 3 cartelle A/4), le recensioni (max 1 cartella A/4)
e le poesie per un massimo di cinque. I lavori devono pervenire
esclusivamente in formato Word, entro il 5 febbraio; 5 maggio; 5
ottobre. Si possono inviare indifferentemente ai redattori della
rivista qui di seguito segnati:
[email protected] - [email protected]
[email protected] - [email protected]
[email protected] - [email protected] - [email protected]
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
“Ho sete di purezza”
Romain Gary: coraggio, eroismo
e ironia pungente
di Fausta Genziana Le Piane
a vita di Romain Gary è un vero romanzo. Nato in Lituania a
Vilnius nel 1914 figlio naturale di un’attrice, ebrea russa fuggita
dalla rivoluzione, e di Ivan Mosjoukine, la più celebre vedette,
insieme a Rodolfo Valentino, del cinema muto, venuto in Francia
all’età di quattordici anni, Romain Gary (in realtà Romain Kacew) ha frequentato le scuole superiori a Nizza e l’Università a Parigi (diritto): “In russo
gari significa “brucia!”... Un comando al quale non mi sono mai sottratto,
nella mia opera come nella vita. Voglio dunque fare qui la parte del fuoco
perché, come si suol dire, in queste pagine il mio “io” vada in fiamme,
bruci”. Impegnato nell’aviazione nel 1938, è istruttore di tiro alla scuola dell’aria di Salon. Nel giugno del 1940, raggiunge la Francia libera. Capitano
alla squadriglia Lorena, prende parte alla battaglia d’Inghilterra e alle campagne d’Africa, d’Abissinia, di Libia e di Normandia dal 1940 al 1944. E’
comandante della Legione d’onore e Compagno della Liberazione. Entra al
Ministero degli Affari Esteri nel 1945 come segretario e consigliere d’ambasciata a Sofia, a Berna, poi alla Direzione d’Europa al Quai d’Orsay.
Portavoce all’O.N.U, dal 1952 al 1956, è in seguito nominato incaricato degli
affari in Bolivia e console generale a Los Angeles. Lasciata la carriera diplo-
Romain Gary
35
I Fiori del Male
matica nel 1961, percorre il mondo per dieci anni per alcune pubblicazioni
americane e gira come auto regista due films, “Les oiseaux vont mourir au
Pérou”, “Gli uccelli vanno a morire in Perù” (1968) e “Kill” (1972). E’
stato sposato dal 1962 al 1970 con l’attrice Jean Seberg, l’attrice americana
di “Bonjour tristesse”, “Buongiorno tristezza” l’interprete di “A bout de
soufflé”, “Fino all’ultimo respiro”di Louis Malle. Fin dall’adolescenza, la
letteratura occupa il primo posto nella vita di Romain Gary. Durante la guerra, fra due missioni, scriveva l’“education européenne”, l’“educazione
europea” (ritenuto da Sartre il miglior libro mai scritto sulla resistenza) che
fu tradotto in ventisette lingue e ottenne il premio delle Critiche nel 1945.
“Les racines du ciel”, “Le radici del cielo” ricevono il premio Goncourt nel
1956. Romain Gary si suicidò il 3 dicembre 1980. La sua scomparsa fece
scalpore ma il vero colpo di scena arrivò quando, pochi mesi dopo la morte,
si scoprì che Gary ed Emile Ajar, autore del romanzo “La vie devant soi”,
“La vita davanti a sé“, erano in realtà la stessa persona. Il libro, che narra le
vicende del sensibile Momò, vinse il Goncourt inaugurando uno stile gergale da banlieue e da emigrazione, cantore di quella Francia multietnica che
cominciava a cambiare il volto di Parigi: “Venti anni prima di Pennac e degli
scrittori dell’immigrazione araba, ecco la storia di Momo, ragazzino arabo
nella banlieue di Belleville, figli di nessuno, accudito da una vecchia prostituta ebrea, Madame Rosa (interpretata al cinema dalla splendida Simone
Signoret)“ (Stenio Solinas).
Libro premonitore, ricco di sfumature e vena poetica: “Quando era ancora con noi il signor Hamil mi diceva sempre che erano i poeti che assicuravano l’altro mondo e improvvisamente ho sorriso, mi sono ricordato che mi
aveva chiamato Victor, forse era Dio che mi predestinava” (p. 126).Tutto il
romanzo si basa sul rapporto affettivo tra Momò, bisognoso d’affetto, e
Madame Rosa, rapporto intriso di tenerezza e premure: “All’improvviso l’ho
baciata, le ho tenuto la mano nella mia e le ho passato un braccio attorno
alle spalle come se fosse una donna. Poi è venuta Madame Lola col maggiore degli Zaoum e l’abbiamo sollevata, l’abbiamo spogliata, l’abbiamo stesa
sul pavimento e l’abbiamo lavata. Madame Lola le ha versato del profumo
dappertutto, le ha messo la parrucca e il kimono, e l’abbiamo stesa sul letto
tutto pulito che era un piacere vederla” (p. 179). Tra gli altri, è affrontato un
tema che diverrà in seguito oggetto di accesi dibattiti, quello dell’eutanasia,
nel momento in cui Madame Rosa è gravemente ammalata e Momò si rivolge al dottore perché se ne occupi perché non la faccia continuare a vivere
come un vegetale: “Altro che lo so. Sono algerino, lo so cosa dico. Laggiù
loro ci hanno il sacro diritto dei popoli a disporre di se stessi” (p. 184). Gary
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
era un sostenitore convinto dell’importanza della parola: “e poi non mi piace
molto uccidere, anzi il contrario. no, quello che vorrei è essere un ragazzo
come come Victor Hugo. Il signor Hamil dice che si può fare tutto con le
parole ma senza ammazzare la gente e quando avrò tempo vedrò. Il signor
Hamil dice che è la cosa più forte che c’è. Se volete sapere la mia opinione,
se i ragazzi a mano armata sono così è perché non li avevano scoperti quando erano bambini e sono rimasti né visti né conosciuti” (p. 98). Non è forse
vero? Non è in questo senso che dovrebbe agire la scuola? Nella bellissima
raccolta di racconti intitolata “Les oiseaux vont mourir au Pérou” troviamo
tutti i temi cari allo scrittore - un po’ poeta, un po’ sognatore -, e la sua vasta
esperienza di viaggiatore per il mondo. Gary dimostra, con una ironia pungente, che l’uomo è ancora un pioniere per se stesso e che l’aspetta una
mutazione senza precedenti (Elle). Il suo stile fluido, piacevole, musicale,
asciutto è stato paragonato a quello di Hemingway. E non solo lo stile lo
accomuna allo scrittore americano, anche i personaggi: “Gary scrive in una
lingua, chiara, aerea, energica, come in certe pagine di Hemingway…”
(Jérôme Garcin, Dictionnaire de la littérature française du 20ème siècle). Il
racconto che dà il titolo alla raccolta è un inno poetico all’uomo, alla sua
capacità di credere, anzi di continuare a credere, nonostante le delusioni, i
tradimenti e le amarezze.
Di avere fiducia di nuovo nell’amore che incenerisce la solitudine, nonostante tutto, perché l’amore è una forza travolgente alla quale è impossibile
resistere. Il testo è dominato dall’ossessiva domanda - che non trova risposta
- del perché gli uccelli vadano a morire in Perù: “Appoggiò i gomiti alla
balaustra e fumò la sua prima sigaretta guardando gli uccelli cadere sulla
sabbia: ce n’erano che ancora palpitavano. nessuno aveva potuto spiegargli perché lasciassero le isole al largo per venire a spirare su questa spiaggia, a dieci chilometri a nord di Lima” (p. 13). La domanda evidentemente
ha un altro respiro e l’Oceano diventa l’immagine della vita eterna, la promessa di un’altra vita. Un uomo ha un caffè sulla costa del Perù e intravede
sulla spiaggia una donna e teme che questo incontro sia arrivato troppo tardi:
“la sola tentazione che nessuno è mai giunto a vincere: quella della speranza”. Ma un’amara sorpresa aspetta il protagonista… Nel mondo di Gary non
c’è posto per la falsità e la menzogna, c’è posto solo per la Bellezza: un altro
tema caro allo scrittore è quello dell’estetismo estremo presente nei racconti
intitolati Le faux (Il falso) e Luth (Liuto). Nel primo racconto il protagonista
è un critico d’arte, che non desidera autenticare un falso Van Gogh: “non mi
renderò complice di una frode (…) non transigo sulle questioni di autenticità. In un mondo in cui il trucco e i falsi valori trionfano dappertutto, la sola
37
I Fiori del Male
certezza che ci resta è quella dei capolavori (…)” (p. 105). E un capolavoro
è anche la moglie di S. Alfiera, è il capolavoro dei capolavori: “c’era nel
cuore di questo amatore d’arte una gioia un po’ meno pura: quella di aver
tolto agli altri un capolavoro più perfetto e più prezioso di tutti i suoi
Velasquez e i suoi Greco (p. 113). Ma la coerenza del suo essere lo costringerà a lasciare la moglie allorché scoprirà che la sua bellezza è falsa. Nel
secondo racconto, il protagonista è un ambasciatore (Gary stesso?): “Alto,
magro, di quella eleganza che va così d’accordo con mani lunghe e delicate, dalle dita che sembrano sempre suggerire tutta una vita d’intimità con le
pagine d’una edizione rara o la tastiera di una piano” (p. 37).Passa il suo
tempo dagli antiquari d’Istanbul senza fare il minimo acquisto. Perché?
Perché trova sempre da ridire, accarezza con aria sognante statuette di varie
epoche ma è nello stesso tempo affascinato triste. E’ troppo artista per non
mettersi alla prova, per non tentare, non basta la contemplazione, occorre la
creazione che si realizzerà attraverso le corde di un liuto. Per Gary spesso il
male si presenta con le sembianze seduttrici del bene: ne “Le mur”, “Il
muro”, un giovane studente si uccide perché sente attraverso il muro che
confina con la camera vicina mormorii rantolanti di piacere e rumori di letto
scosso e sobbalzato.
Ma in realtà il giovane si era totalmente sbagliato: i lamenti e i sospiri
erano dovuti alla sua agonia lunga e agitata. Suicidata per solitudine e lo studente vicino di stanza, timido, innamorato di lei, non aveva osato confessarle i suoi sentimenti. E’ proprio vero: l’uomo è ancora un pioniere per se stesso e l’aspetta un trasformazione senza precedenti. Ma forse ne siamo ancora
lontani. Un altro racconto – “J’ai soif d’innocence”, “Ho sete d’innocenza”
- mostra come il desiderio di innocenza possa portare ad essere ingannati da
chi è più furbo di noi: “Quando decisi infine di lasciare la civiltà e i suoi falsi
valori e ritirarmi in un’isola del Pacifico, su uno scoglio di corallo, in riva
ad una laguna blu, il più lontano possibile da un mondo mercantile interamente rivolto ai beni materiali, lo feci per ragioni che sorprenderanno le
nature veramente indurite. Avevo sete d’innocenza: Provavo il bisogno di
evadere dall’atmosfera di competizione frenetica e di lotta per il profitto in
cui l’assenza di ogni scrupolo era diventata la regola e dove, per una natura un po’ delicata e un’anima d’artista come la mia, diventava sempre più
difficile procurarsi quelle poche facilità materiali indispensabili alla pace
dello spirito” (p. 227). Non abbiamo fatto molti passi avanti da quando è
stato scritto il racconto. Però il protagonista non sfugge purtroppo alla legge
del profitto: pensa infatti di aver trovato degli autentici Gauguin, ma in realtà sono sei falsi. Falsità e verità nelle parole di Gary si confondono spesso.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Sulla scia di Maestri e modelli quali Malraux, Saint-Exupéry, Richard
Hillary, tra la teoria e la pratica, l’azione c’è sempre coerenza per il N.
(“noblesse et grandeur”, “nobiltà e grandezza”, “Je parle de l’héroisme”,
“Parlo dell’eroismo”): Il pericolo, il coraggio, lo spirito di sacrificio non
avevano per così dire più segreti per me e quando arrivai a Port-au-Prince
(dove è stato invitato per una conferenza sull’eroismo), ero veramente pronto a dare il meglio di me stesso” (p. 199). Infatti, eroismo, coraggio, grandezza e nobiltà coincidono con il bel gesto e, forse, la bella morte, lo stesso
ideale che lo spinse a uscire il pomeriggio del 3 dicembre 1980, a recarsi da
Charver, in Place Vendôme a Parigi per acquistare una vestaglia di seta rossa.
Aveva deciso di ammazzarsi con un colpo di pistola alla testa e, per delicatezza verso il prossimo, aveva pensato di indossare una vestaglia di quel
colore perché il sangue non si notasse troppo.
Romain Gary, La vita davanti a sé, Neri Pozza,
Romain Gary, Les oiseaux vont mourir au Pérou, Gallimard, 1962,
traduzioni di Fausta Le Piane
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I Fiori del Male
Poesia Migrante
(ParaskeVa, Bazu, Ciobanu, Zuhra Lukanic, Dzieduszycka, Olina.)
di Roberto Piperno
a tempo si è compreso che alcuni elementi specifici si manifestano
nella poesia di autori che si sono trasferiti in un paese diverso da quello dove sono nati e sono vissuti la prima parte della propria vita e che
successivamente hanno scritto nella lingua che ormai parlano quotidianamente. Così è stato coniato il termine “poesia migrante” e sono state fatte
ricerche e pubblicati saggi su questa poesia da parte di insigni critici letterari e, in
primo luogo, da Armando Gnisci, già professore di “Letteratura comparata”
all’Università La Sapienza. Su questa strada si è verificato che la poesia dei poeti
migranti supera le divisioni e le discriminazioni non nei contenuti, ma proprio nel
suo essere poesia. Questa poesia, spesso centrata anche sulla ricerca di una rinnovata identità, fa delle diversità una ricchezza e spinge ad accettare con più serena
lucidità un profondo cambiamento ed anche a fare una risorsa della memoria di un
passato diversificato. Proprio in questo quadro Mia Lecomte, di origine francese, ha
costituito da alcuni anni “La compagnia delle poete”, che comprende anche “poete
migranti”: così le poete s’incontrano e si manifestano in incontri di pubblica lettura poetica dove si manifesta il presente vissuto in combinazione con la nostalgia, la
solitudine, la passione civile. Così la lingua adottata diventa per le migranti uno
strumento prezioso della messa in discussione e della definizione del presente e del
passato. In questo contesto si colloca una “Rassegna di poesia migrante”, con sei
poete che vivono a Roma: sono le voci e i versi di Helene Paraskeva, Livia Bazu,
Tatiana Ciobanu, Sara Zuhra Lukanic, Edith Dzieduszycka, Olga Olina, rispettivamente migrate da diversi paesi: Grecia, Romania, Moldavia, Croazia, Francia,
Ucraina. Sono tutte poete che hanno pubblicato libri in Italia e che sono accomunate
da una doppia vena: dal loro essere donne e dalla origine in Paesi diversi. Per questo
motivo ogni incontro con le poete si conclude con una breve intervista sulla loro condizione di essere donne e migranti. La “Rassegna di poesia migrante” si svolge nel
corso del “Festival Internazionale d’Arte/Tu sei il mio volto”, realizzato nella sede
del Parco del’Appia Antica, a cura della Associazione Immagine pensiero. Le poesie
della Rassegna sono anche pubblicate in un volumetto dal titolo “Tu sei il mio volto”
che raccoglie i testi letti dalle sei poete all’Appia Antica. Nell’introduzione si specifica: ”A ben vedere, in questo nostro tempo fintamente monodimensionale nelle
coordinate spazio-temporali, le loro dichiarate “diversità” sono evolute attraverso il
senso della loro specificità agito da ciascuna di esse, che ha trovato conversione in
un monito che è contemporaneamente speranza: monito per non dimenticare e per
non temere di difendere le specificità; speranza nella capacità di fondere le diversità,
che appartengono a ciascuno individuo prima ed oltre la sua provenienza geografica,
in un gradiente poetico ed etico di spessore e ricchezza collettiva tale da fungere da
fertile contesto per la crescita personale ed artistica di chi acceda al loro Canto”.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Edith Dzieduszycka
Livia Bazu
Helene Paraskeva
Sarah Zuhra Lukanic
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I Fiori del Male
Sul giovanissimo Giovanni Verga autore
di romanzi storici.
Una ristampa dei tre romanzi di esordio
(a cura di) Lia Fava Guzzetta.
di Melo Freni
arlando di Giovanni Verga e delle opere che lo hanno configurato
per l’eccellenza dei suoi interessi socio-letterari, generalmente la
critica ha escluso ogni suo interesse nei riguardi della storia, della
grande storia, ed in parte si è pure scritto di “rifiuto della storia”.
Il che, alla luce dei racconti rusticani e dei romanzi, trova un obbiettivo
riscontro, ma non è tutto, perché a leggere (o rileggere ) tutto di Verga, sin
dai giovanili esordi, si viene a conoscere che proprio sulla storia lui costruì
il suo futuro di romanziere. Ce lo ricorda una recente ristampa (Metauro
Editore) dei tre primi romanzi che Verga scrisse appena più che fanciullo, che
sono introdotti da un bel saggio di Lia Fava Guzzetta, la quale del tema si era
già occupata in un convegno tenuto dall’Università di Varsavia sul
Risorgimento italiano e la letteratura. Si tratta di tre romanzi i cui titoli sono
“Amore e patria”, “I carbonari della montagna” e “Sulle lagune”.Giovanni
Verga aveva appena 16 anni quando si dedicò al suo primo romanzo, vi lavorò per circa nove mesi e lo intitolò “Amore e Patria”, ben 672 pagine di quaderni scolastici, che sottopose al vaglio del suo professore Antonino Abate,
fervente maestro di storia delle rivoluzioni, antiche e moderne, che ne rimase entusiasta. Ma il romanzo riscontrò pure delle riserve altrettanto autorevoli che indussero il giovane a non pubblicarlo, sicché ne rimangono dei brani
autografi, autentico tesoro per la critica militante.
“Amore e patria” aveva profumo di oltre oceano, il suo argomento verteva sulla rivoluzione degli Stati Uniti d’America, sulla difesa che fecero della
loro patria i nord americani comandati dal generale Washington, 1776, contro l’assalto delle truppe anglo asburgiche sui versanti del continente nuovo.
Verga sull’argomento aveva letto tutto, ne conosceva addirittura i dettagli,
sapeva dei luoghi dove si erano svolte le battaglie, le loro caratteristiche,
persino la fauna e la flora, e fu entusiasta di imbastirvi sopra il suo romanzo. Ma nel contempo raccoglieva la realtà della miseria in cui, al di là e al
di qua della guerra, erano lasciate le classi popolari ed in questo evidenziava
di già quelle che sarebbero state le sue definitive scelte narrative. Nel numero monografico dedicato a Verga nell’aprile del 1965 dalla prestigiosa rivista
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
“Galleria”che fu dell’editore Salvatore Sciascia (diretta da Mario Petrucciani, Leonardo Sciascia e Iole Tognelli), Inisero Cremaschi puntualizzava
cosa fra le pagine di “Amore e Patria” si intravedeva del futuro romanziere:
l’intervento del brigante che libera dalla prigionia il colonnello protagonista
del romanzo, è quello del bandito “efferato ed a suo modo gentiluomo” che
si batte per un mondo di giustizia, come potrebbe essere contro la società dei
baroni e dei proprietari terrieri. L’aristocrazia viene descritta nei suoi aspetti retrivi, nel proprio egoismo, nella sfrenata difesa di ricchezze, negli amori
brucianti quanto vuoti, nei duelli d’onore che costellano “Amore e patria”
“come per un libretto d’opera” scrive Cremaschi. Come non pensare, infatti,
restando sempre in ambiente siciliano e catanese in particolare, a “Il pirata”
di Vicenzo Bellini?
Oppure alla storia del brigante Bruno che venne raccolta a Baùso, presso
Messina, da Alexandre Dumas per lo stesso Bellini, ma inutilmente perché
frattanto il musicista era venuto a mancare a Parigi? Diciamo Dumas e nel
contempo ricordiamo il ruolo che i suoi romanzi esercitarono nelle scelte del
giovanottino catanese, che non soltanto ne leggeva le opere ma addirittura ne
percepiva le influenze di carattere popolare, sia nella forma che nella sostanza, per l’intreccio del tema politico con quello sociale e sentimentale-amoroso, che creava la suggestione del feuilleton, del romanzo d’appendice, sulle
tracce, ad esempio, di “Il conte di Montecristo”. Gli altri due romanzi giovanili, che invece furono pubblicati, sono, come detto sopra,“I carbonari della
montagna” e “Sulle lagune”, dove l’interesse storico si sposta dal tentato
colonialismo americano su pagine risorgimentali italiane. Il giovanissimo
Verga ambienta sulle impervie montagne della Calabria le gesta dei suoi
“carbonari” che si battono contro il despotismo di Gioacchino Murat, spinti
dal sentimento patriottico di una Italia unita, ma sullo sfondo, anche se non
dichiarato, il clima è quello dei moti siciliani del ‘48 e della loro cruenta
repressione nel ‘49. Scritto fra il 1859 ed il ‘60, ossia in piena bagarre dell’impresa garibaldina, “I carbonari della montagna” fu pubblicato a Catania
dall’Editore Galatola in quattro volumi, a spese dell’autore, con l’utilizzo
della somma che la famiglia Verga aveva destinato per il conseguimento
della mai avvenuta laurea in legge del ragazzo. Per “Sulle lagune” Lia Fava
nota che probabilmente è il feuilleton per eccellenza in virtù dell’intreccio
della sua storia d’amore con i sentimenti risorgimentali, nello scenario di una
Venezia ancora sotto il giogo austriaco ma speranzosa di una gloriosa rivincita della patria, grazie alla guerra di liberazione mossa da Vittorio Emanuele
II e da Napoleone III agli Asburgo non meno esecrati dei Borboni. Questo
terzo romanzo venne pubblicato a puntate sulla rivista fiorentina “La nuova
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I Fiori del Male
Europa” nel 1863. Verga aveva 23 anni ed aveva già colto l’illusione della
storia: “giorno di lutto nazionale quello della pace di Villafranca, contro le
ferventi speranze dell’Italia, allo slancio prodigioso di 25 milioni di italiani”,
si legge in un saggio (Vita e pensiero) di C. Annoni. Su “Verga e il rifiuto
della storia” Gian Paolo Marchi (Sellerio,1987) riporta anche il bozzetto del
racconto “L’africano” , dove un contadino che ritorna dalla battaglia di Adua
segnato nel fisico e nell’anima si ritrova “nella immobile comunità dei villani di Sicilia, in cui la guerra è piaga aperta.” La bibliografia sull’argomento
è assai vasta e Lia Fava Guzzetta opportunamente se ne sofferma: da
Federico De Roberto, che di Verga fu consigliere ed interlocutore privilegiato, all’altrettanto amico Luigi Capuana, ed inoltre, a passo con la critica,
Carmelo Musumarra, Nicolò Mineo, Lina Perroni, Gaetano Mariani, Lina
Jannuzzi, Giacomo Debenedetti, Piero Mazzamuto, Carlo Annoni, Rita
Verdirame, Luigi Frasca e Francesco Nicolosi: contributi notevoli per l’interesse della critica verso il giovane Verga non ancora folgorato dalla “semplice gente” delle Novelle Rusticane, dalle vicende di Mastro don Gesualdo e
dei pescatori di Trezza.
Argomenti dei tre romanzi.“Amore e patria”: sullo sfondo della rivoluzione americana del 1776, il colonnello Eduardo di Watter, ottimo soldato, è
innamorato della bellissima Eugenia e respinge in varie riprese le offerte dell’aristocratica Clary, altro giglio dell’aristocrazia americana, che, a sua volta,
è innamorata di lui. Preso prigioniero in battaglia, Eduardo viene liberato da
un brigante in tempo per partecipare alla vittoria finale dell’esercito di
Washington che viene suggellata dalla Convenzione di Filadelfia. Fra intrecci d’armi e di amori, di grandi ideali e palpiti sentimentali, di gelosie e vendette, il romanzo di appendice è perfetto. Merita, però, un’attenzione particolare il paesaggio, dove lo scrittore in erba ha già trovato, a 16 anni, la chiave delle descrizioni che saranno congeniali alle ambientazioni delle sue grandi opere: “... si fermarono all’entrata di una meschina casupola. Le sue mura
umide, diroccate e cadenti erano qua e là grossolanamente ristorate da rami
di querce e pietre muscose senza cemento e senza ordine; qua e là enormi
fenditure facevano travedere una luce grigiastra attraverso alcune macchie di
felci cresciutevi”. “I carbonari della montagna”: nel clima della rivolta carbonara e della repressione francese in Calabria nasce un grande amore fra
Corrado, gran maestro dei carbonari, e Giustina che, però, è promessa sposa
ad un suo cugino l’amore è quello di Corrado e Giustina. Corrado è reduce
da una infelice esperienza amorosa. Innamorato di una volubile Carolina, le
aveva risparmiato una condanna accusandosi di un omicidio che lui non
aveva commesso e del quale la ragazza era ingiustamente sospettata. Evaso
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
dalla prigione, Corrado affronta in duello il colpevole che frattanto aveva
pure tentato di rapire Giustina. Corrado sarà catturato e messo a morte,
Giustina che per una serie di equivoci aveva sposato il cugino ritenendo
Corrado morto sotto i francesi, raggiungerà il suo amore nella sepoltura,
lasciando il marito a rimpiangerla. “Sulla laguna”: un giovane ufficiale
ungherese, Stefano, s’invaghisce di una ragazza veneziana, Giulia, nel quadro di una Venezia irredenta e ancora sotto il dominio austriaco. La ragazza
ha uno spietato persecutore (suo e della sua infelice famiglia) che sfida il giovane ungherese a duello e lo ferisce in modo grave. I due innamorati fuggono e se ne perdono le tracce, anche se “altri infine dissero che i due giovani
erano stati rinvenuti in un fiumicello vicino ad Oderzo e che la spada dell’ufficiale ungherese si era trovata sulla sponda, confitta a terra, con una corona
di rose intrecciata all’elsa.” Ma il persecutore venne ucciso da una bomba
lanciatagli contro dal fratello di Giulia.
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I Fiori del Male
Cronache dal Nord-Est
Pedalando con gli dei:
diario di un grecista in bicicletta
di Roberto Pagan
on sarà proprio la trasvolata di Lindberg né l’ultima transoceanica di Soldini. Ma non è nemmeno cosa di ordinaria amministrazione che un professore di greco, giovane sì ma nemmeno
tanto, pedali per 25 giorni in bicicletta per coprire i 2345 km.
che separano Travesio del Friuli da Atene. Attraversando Istria, Slovenia,
Croazia, Bosnia, Montenegro, Albania e un buon tratto di Grecia per poi
cavarne un diario: svelto, spiritoso, in uno stile un po’ minimalista.
Accattivante come la silhouette di copertina, con un Icaro di profilo alato ma
in bicicletta, quasi uscito da un vaso antico, in ocra con sopra tre nuvolette
bianche e a fianco un delfino che gli strizza l’occhio dal lido; ma anche ricco
di riflessioni giudiziose, benché stringate come richiedono la familiarità con
la telematica e l’onnivora curiosità. Da solo, senza bagaglio, a parte una tendina da campo agganciata al telaio e due borse piene dell’armamentario meccanico, questo sì, per riparare i guasti del suo velocipede chiamato Aurora.
L’ho aggiustata in qualsiasi condizione, in tutti i modi, intrufolandomi in
officine e garage per chiedere una morsa o un bullone. Dipendevo dalla mia
Aurora come il cavaliere dal suo cavallo. Così dice l’autore, che, in una paginetta di note tecniche, si premura di precisare, a scanso di equivoci: non sono
un ciclista né un cicloturista né un cicloamatore.
Paolo Venti
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
E già nell’Introduzione premetteva: non ho né l’allenamento né il fisico del
ciclista e… il resto dell’anno la bicicletta la tocco poco. In realtà, Paolo
Venti, autore di questo Pedalando con gli dei (edicicloeditore, Portogruaro
2011), il resto dell’anno, come abbiamo detto, fa il professore, beneamato dai
suoi alunni, grecista provetto, esperto di poesia friulana, poeta lui stesso: e,
tanto per dire, ha tradotto in friulano Le opere e i giorni di Esiodo e ha all’attivo due simpatiche guide divulgative, A zonzo per le vie dell’antica Atene e
A zonzo per le vie dell’antica Roma. Quale dunque il senso di queste sue solitarie imprese? (Lo diciamo al plurale perché l’anno precedente si è fatto
un’analoga sgroppata dal Friuli fino a san Jacopo di Compostela; con la differenza che allora non ha scritto una riga, e questa volta si è portato dietro il
suo computerino per abbozzare, in itinere, questo diario). Lui dice di correre
perché ha una rabbia dentro e, in un altro luogo, di correre per disperazione. Comunque, a leggerlo, non si ha certo l’impressione di un Jacopo Ortis.
Dice anche: viaggio da solo perché con me è difficile viaggiare. Ma non è un
eremita, tutt’altro: nel suo viaggio si mostra aperto a chiunque e pronto a
chiacchierare con tutti. Con altri ciclisti (meglio ancora se di genere femminile), con osti, benzinai, donnine del popolo, campeggiatori di passaggio.
Non è nemmeno un contestatore politico, ha le sue idee ma non ideologie
precostituite.
La rabbia e la disperazione – si scopre subito – gli vengono da rovesci
sentimentali tutti privati che continua a pagare con le malinconie e i sensi di
colpa che si sforza di smaltire pedalando con la sua Aurora. Vecchiotta eppure fedele. Insomma un eautontymorúmenos, per dirlo con i suoi classici, un
“punitore di se stesso” (che è titolo greco di una commedia latina). Ma, pur
seguendo da stakanovista il ruolino di marcia che si è imposto giorno per
giorno, tra una pedalata e l’altra si guarda intorno, e ha modo di distrarsi –
grazie a Dio – in un’infinità di occasioni: la natura, il vento, le nuvole, il
mare magnifico che costeggia per almeno 2000 dei 2345 chilometri del suo
percorso, ogni tanto (perché no) facendosi un tuffo in qualche piccola rada
irresistibile (giusto dieci minuti, quanto ci vuole a ricuperare gli slip in fondo
a una delle sacche); e poi gli olivi e i pini e i lentischi che gli corrono incontro e coi loro profumi attenuano la fatica, gli mettono nei polmoni l’energia
che gli serve per affrontare le salite improvvise, gli impervi tornanti di strade malagevoli sotto il sole a picco o l’acquazzone imminente. E poi paesi,
villaggi, rovine, castelli, cascate, con nomi strani, difficili, che mettano a
prova il cervello del filologo, cose che non sono nemmeno segnate nelle
mappe, che il normale turista di solito non vede, chiuso com’è dentro una
macchina o un pullman. Il ciclista ha un passo beneficamente lentissimo, che
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I Fiori del Male
apre prospettive diverse, alla vista come al pensiero. Tante fatiche compensate però da un’estrema libertà di assaporare le proprie impressioni; tante
solitudini che ti fanno però lo spirito più agile e pronto, più aperto agli incontri con uomini e cose. Ogni tanto scende e si dà al turismo armato di baedeker – i siti archeologici e i monumenti più disparati – sempre un po’ col fiatone sia per non perdere di vista la bicicletta, sia perché il tempo incalza
rispetto al ruolino di marcia. Anche le sieste sembrano contingentate e ridotte all’osso: un panino, una birra e magari due fichi e quattro more rubacchiate qua e là a madre natura. Ma non esita però a rispondere a un saluto e a
scambiare due parole, in inglese, o in uno slavo improbabile, o in un greco
più vicino a quello di Omero che all’idioma dei contemporanei. Se la cava
comunque bene coi compagni di viaggio che incrocia: una matta come lui
che arranca in mountain bike a sette all’ora, mentre lui col suo peso sarà sui
sei e mezzo. Lei però fa più bella figura, anche se non c’è nessuno a guardare. Ci salutiamo ma la ritrovo sulla cima, ferma con un telefonino in mano.
Incontro questo, fugace come la maggior parte, senza conseguenze. Ma,
subito dopo. ecco un’altra coppia di cicliste …tedesche biondissime. Sono
giovani giovani e mi salutano garbate alle sei e mezzo di mattina come fosse
la cosa più naturale del mondo con un “Guten Tag” allegro. Ogni pensiero
lubrico è ancora addormentato ma le due teutoniche ciclizzate hanno il potere di risvegliare il can che dorme.
Non passa una pagina che compaiono due tizie olandesi sui cinquanta.
Fanno un tratto di strada insieme, si scambiano foto sul belvedere. Questo
professore di greco sembra più che altro uno studentello in vacanza. Ridere
un po’ mi ha rimesso in sesto e mi sento pieno di energie. Si salutano, sicuri
di non rivedersi più. E invece, per quel gioco del caso e delle coincidenze che
spesso accompagna i viaggiatori, son destinati a ritrovarsi tra le viuzze di
Rab. Ne seguirà una conversazione fiume. Scopre, il nostro ciclista, che sono
più o meno sue coetanee e fanno un lavoro simile al suo. Anche all’estero –
osserva – fra insegnanti ci attiriamo come calamite. E sulla pagina del diario rimane stavolta – anche sul piano della scrittura – una traccia assai disinvolta e piena di verve. Ma la lunga strada risucchia l’ostinato pedalatore. Si
succedono bizzarri incontri, momenti immancabili di spaesamento (ma di
che cosa parla uno quando va solitario in bicicletta?). Come non ricordare
Chatwin: Qui, che ci sto a fare? E l’angoscia di quando cala la notte e non
trova nemmeno un buco in cui piantare la tendina cinese. Una volta deve
rifugiarsi sul cassone di un vecchio camion dalle ruote bucate: tanto da
impietosire persino un omaccione di benzinaio, un orco dal cuore d’oro, che
lo ospita in un suo sgabuzzino, e il mattino dopo gli offre colazione e amici-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
zia. Un altro giorno si affaccia la disperazione della fatica: Misuri la tua
disperazione quando qualcuno, magari in Mercedes, ti suona allegro e affettuoso, perché no. Eppure succede anche, in cima a una salita, di voltarsi
indietro e di considerare con orgoglio: Ma tutte quelle montagne, le ho fatte
io? Con queste gambe e questa bici? Entrando in Bosnia, impressioni e considerazioni arrivano a grappoli. Una sola paginetta (p. 69) riassume in flash
vorticosi situazione economica, storia e costumi, contrasti religiosi più efficacemente di un intero reportage: una donna anziana attraversa la strada e
butta un sacco d’immondizia in mezzo al prato …al primo incrocio scritte in
cirillico cancellate con lo spray: la politica, le secessioni, le annessioni se la
prendono sempre per prima cosa con gli alfabeti… ecco una moschea
davanti a me con il suo bel minareto … sento la campana di una chiesa,
neanche un chilometro dopo. Più in là c’è un parco naturale dove nidificano
le cicogne …e vedo una ragazza biondissima e bellissima a onore delle
bosniache …Una famigliola gli concede di piantare la tenda sotto un noce
del loro giardino. E ancora torna fuori il buon cuore della gente semplice: lei
arriva con una terrina di pomodori e peperoni e una tazzina di sale. Philip
mi dice in un italiano essenziale: Tu bizikleta tu vitamina. Poi, lui che è cristiano, gli racconta degli stanziamenti a fondo perduto che l’Arabia Saudita
passa sottobanco ai musulmani della Bosnia … mentre lui deve continuare
a rompersi la schiena…
Conclusione: Magari per secoli hanno convissuto l’ortodosso e il musulmano, affratellati dalla stessa difficoltà di sopravvivere, dal problema dell’acqua che manca per i peperoni, poi all’improvviso dall’esterno arrivano
soldi solo per uno dei due, ingiusti, imprevisti, maledetti, e l’invidia genera
l’odio. Capita anche un piccolo giallo imbarazzante. Dalla bicicletta vede un
oggetto lasciato al bordo della strada. Un piccolo computer dimenticato. Che
farne? A chi restituirlo? E se lo tengo? Se mi beccano al confine? Il thriller
si scioglierà dopo una ventina di pagine, entrando in Montenegro. Il poliziotto verbalizza a modo suo su un taccuino, e non mi rilascia nulla, pazienza.
Si porta via il portatile che scotta, mi libera di un peso e mi dà anche
dell’”honest man”. Poteva andar peggio. Messa così, vado più leggero, di
coscienza e di zavorra.Il tratto del viaggio più emozionante coincide col
paese più misterioso. L’odierna Albania è in fondo inesplorata e imprevedibile. Due o tre particolari lo colpiscono: il numero impressionante di bunker
costruiti in anni di fatiche meticolose quanto inutili; l’orrendo spettacolo di
macelli all’aria aperta con gli animali squartati appesi ai ganci, mentre le
altre vittime designate pascolano ignare nei dintorni; tutto ciò in contrasto
con la bonarietà all’antica di un popolo che appare tanto più civile quanto più
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I Fiori del Male
è rimasto primitivo nei costumi. Ma la trasformazione della società è rapida
e quasi convulsa. E se ne vedono i segni nel caos del traffico, nelle file di
orribili palazzoni che sorgono dappertutto a soffocare i vecchi villaggi, nello
squallore tutto “moderno” degli autolavaggi.Ci soffermeremo solo su una
scena particolarmente suggestiva. A Tirana il nostro viaggiatore è approdato
a un ostello funzionale e pulito, frequentato da giovani di tutte le parti del
mondo. Si concede una serata nella piazza principale dove sorgeva l’immenso mausoleo di Enver Hoxa, ora ridotto a un’immensa rovina. Di fronte, un
chiosco di bibite assai animato. Nella totale allegra indifferenza della gente
torme di ragazzini giocano ad arrampicarsi su quella piramide di cocci: ne
viene il senso della fine completa di un sistema, che nessuno naturalmente
rimpiangerà.Il ritmo si fa più pacificato e quasi solenne a mano a mano che
ci approssima a lidi più conosciuti. In Grecia il nostro professore si sente un
po’ a casa sua: ci è tornato più volte da solo o in compagnia, magari a guidare scolaresche e colleghi in viaggio di istruzione. In bicicletta, naturalmente,
è una sensazione nuova. Ma l’atmosfera gli è familiare. La lingua, i costumi,
gli echi di un’antica civiltà, la saggezza e il fatalismo di una gente fiera,
capace di fronteggiare con dignità anche l’attuale crisi economica. Ad Atene
avrà ancora un incontro femminile: una tedeschina di Stoccarda di nome
Helena: bionda, il viso bruciato dal sole, sui ventiquattro o giù di lì. Ha una
bicicletta che fa un casino bestiale, un crock crock ai pedali che mette il
panico. Assolutamente disorganizzata e sprovveduta. Questa volta in lui prevarrà l’animo dell’insegnante, quasi del padre: in tutti i modi le raccomanderà la prudenza, come un vecchio moralista. La scorterà nell’unico affollatissimo campeggio di Atene. Cercherà di sistemarle la bicicletta.
L’accompagnerà fino all’ultimo traghetto, perché anche lei deve andare
in Italia, dove l’aspetta un amico. Di cose antiche, ne sa abbastanza, e ormai
si avvicina il tempo del ritorno. Solo due mete si è proposto come essenziali: Itaca, sulle orme di Ulisse, e Maratona, per il tumulo dei caduti. A Itaca ci
arriverà passando per un tunnel sottomarino (un palombaro in bicicletta!) e
approdando all’isola di Lefkada. Qui s’incanta davanti alla famosa rupe di
Leucade, quella di Saffo. Ma che hanno da spartirsi tra loro Saffo ed Ulisse?
Così rischia di perdere il traghetto per Itaca. In fondo – insegna Kavafis –
“non è importante Itaca, è importante il viaggio”. Itaca la vede di corsa, al
tramonto. Certo di non poter trovarvi nessuna traccia concreta che gli parli
dell’eroe, si affida a un altro traghetto. Del resto qualcuno gli ha suggerito
che Ulisse poteva essere albanese; e qualcun altro che la vera Itaca sarebbe
stata proprio Lefkada. Salvo poi ad apprendere, qualche giorno dopo, che gli
archeologi a Itaca hanno trovato i resti di un palazzo simile a quelli di
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Micene. A Maratona, il “campo del finocchio selvatico” come dice il nome,
sa che non potrà trovare nulla oltre al tumulo antico e alla moderna statua di
Temistocle: cosa può restare su un prato dopo una battaglia? Per una volta,
ci è andato con l’autobus, il velocipede nel bagagliaio. Si prenderà giusto la
soddisfazione di rifare in bicicletta i 42 chilometri del sentiero di Fidippide.
Ho fatto Maratona-Atene nello stesso tempo dell’autobus…All’autore che, in
una dedica privata – non so se più consolato o perplesso – concludeva: “Pur
di scappare si farebbe di tutto… ma poi si torna, la vita è qui”, direi che un
libro (soprattutto se pensato in bicicletta) vale sempre una fuga. Si ricordi
che un libro così – per dirla ancora in greco – è comunque un “ktèma es aeì”,
un acquisto per sempre. Per lui e per noi.
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I Fiori del Male
La metamorfosi del buio
di Salvatore Martino
Riflessioni di chi ha
ascoltato e letto
di Luciana Vasile
“Le cose nascondono una intenzione e
attendono un significato”
(Edmund Husserl).
uesto è stato il pensiero che mi ha pervaso quando, finito di legere, ho chiuso le pagine di La metamorfosi del buio di
Salvatore Martino. Pronta e con l’impulso di riaprirlo di nuovo,
di ricominciare dall’inizio. Chiudere per aprire, per disvelare
ancora fra i fogli. Ho cominciato a rigirare fra le mani il contenitore, l’avanti e il dietro, a toccare con i polpastrelli l’immagine della copertina: geografia del bianco foglio solcato dal disegno dei neri caratteri, con i
quali l’autore promette un nuovo viaggio nel mondo lirico dichiarando, così,
di soccombere alla tirannia della poesia che credevo di averla confinata/in
una stanza priva di finestre/senza il sospetto/di una impossibile sortita. Dal
tatto sono passata alla vista. In quarta di copertina uno straordinario, inquietante quadro Autoritratto di Johannes Gumpp. La data del 1646 dimostra, a
conclusione del testo, che gli interrogativi dell’uomo non sono cambiati
attraverso i secoli, a dispetto della scienza e della tecnica che sembrerebbero travolgerci con la loro accelerazione ma che mai sono riuscite, e riusciranno, a sondare i misteri dell’anima, sugli inizi e la fine/degli uomini e del
cosmo. Circoscritto in una bolla di buio e nella sua circolarità l’Uomo, l’uno
che diventa trino, dipingendo se stesso (come lui si vede) e specchiandosi
(come la realtà e gli altri lo vedono). Una ricerca dell’Io che si sposta continuamente, e non senza angoscia, fra il dentro e il fuori per incontrare l’Altro.
L’Altro sé in continuo mutamento e rinnovamento, e l’Altro da sé che può
essere non solo il fratello, l’amico, anche il diverso, il contrario, perfino il
nemico, ma colui del quale abbiamo comunque bisogno per completarci e
superare le solitudini dei corpi e degli animi. Che fossero i sensi, e le emozioni da essi suscitati, ad implicare la lettura di questa silloge, me ne ero
accorta partecipando, pochi giorni fa, alla sua presentazione in una libreria
romana. Un piccolo soppalco con soffitto basso, una quarantina di seggiole
l’una accanto all’altra, persone sedute anche per terra sui gradini di accesso,
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
posti in piedi. Calore, un’atmosfera intima, piena di concentrate energie della
mente e del cuore. La voce bella profonda suadente dell’autore, che recitava
da esperto attore, metteva in coinvolgente movimento l’udito sul metronomo
della sistole e della diastole. L’ascolto era impreziosito dalla musicalità e dal
ritmo dei versi. Entrava a far parte della scena interiore anche lo stimolo
all’olfatto, quando dagli anfratti della memoria giungeva intatto l’abbandono dentro la natura… la quercia a picco sopra la mia casa/la bianca solitudine del mare/quell’albero conosciuto in Amazzonia/la tolda spaventosa di
una nave… L’odore di salmastro, di verde, di fiori venivano alla luce partoriti dalle parole. E ancora il gusto, sapore dolce-amaro di melanconia, a volte
di depressione ed ansia tuttavia non prive di speranza, saliva allora alla
bocca. Sì, mi sono detta, questa è poesia. Sfiora tocca penetra. Non mi sono
quindi meravigliata quando è stato fatto il nome di Giorgio Caproni - che
ammiro, oserei dire adoro -, e quando Salvatore Martino ha raccontato di
averlo incontrato. Le assonanze della loro poetica sono chiare. Caproni aveva
studiato violino e composizione al Conservatorio, interesse che ha regalato
ai suoi versi una singolare perizia metrico-stilistica accompagnata dall’immediatezza e chiarezza dei sentimenti. Partire da un particolare della realtà,
dalla concretezza delle cose semplici per cercare l’universale, è altra somiglianza fra i due poeti.
Da un basso generalmente individuabile, volare alto, fa sentire vicino chi
legge e chi scrive, impagabile unione in un mondo separato dove impera
l’andare contro e non verso per con. Allontana, invece, la superbia di chi si
pone al vertice di una supposta verità, e da lì discetta. Sì, mi sono ri-conosciuta e, come un piccolo miracolo, mi sono ri-trovata… accanto. I vari argomenti, veramente tanti, delle liriche, a mio avviso, si riassumono e conducono a un unico tema principale, quello del viaggio dell’uomo e in questo caso
del poeta: la scrittura automatica come abbandono profondo. Che non sia
proprio questa resa incondizionata a stabilire il contatto con la verità? Ma
molte le contraddizioni che lo stesso autore denuncia, compagna l’intelligente umiltà. L’animo del poeta alle prese con una realtà sfuggente, impossibile
da fissare con il linguaggio che si rivela come strumento insufficiente e
ingannevole. Ma è incontrovertibile che il dubbio si trasformi in vero cammino di ricerca. La curiosità del viaggio alla scoperta del mondo, dei diversi idiomi inseriti nelle liriche come punti di vista e suoni differenti, di nuovi
paesaggi, il viaggio per una conoscenza degli altri non più stranieri. Il coraggio del viaggio attraverso la malattia e il dolore fisico. Il viaggio per una consapevolezza di se stessi. L’immersione nella sofferenza interiore, sfidandola.
Viaggio nel proprio abisso, dove non si percepisce il buio ma la luce della
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I Fiori del Male
conoscenza. La gioia del viaggio nell’unione dei corpi, nel linguaggio della
fisicità. Nell’eros l’annullamento del proprio perimetro, della finitezza del sé
nell’altro, per divenire Uno e perdersi. Un attimo - perché poi tutto è destinato a fuggire, dileguarsi, sciogliersi fra le dita che non riescono a trattenere, tutto per noi è caduco - . Un apice nel quale si tocca il mistero della mortevita. Interessante e motivo di profonda riflessione è stata la risposta dell’autore alla domanda venuta da una signora dell’attento pubblico: - Dobbiamo
pensare che ci sia relazione, che il buio conduca all’abisso? -. - No, dice il
poeta, il buio è orizzontale, l’abisso è verticale -.Il buio dell’avvenire, del
futuro, si presenta sull’asse orizzontale delle ascisse e si coniuga con la luce,
sempre verticale sull’asse delle ordinate della discesa e dell’ascesa, del tormento e della speranza, dalla caverna dell’Io dove si accende l’intelletto al
chiaror dell’infinito cielo. L’essere umano punto nel piano cartesiano, che si
muove fra buio e luce; esplosione nello spazio, in terza dimensione, se si proietta sul piano laterale. Ruotando il quadro la prospettiva cambia, si modificano i rapporti. E’ forse questa, mi chiedo, la metamorfosi del buio?
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
La Poesia di Sauro Albisani “La valle delle
visioni”
di Franca Bacchiega
na sorta di forza sorridente, di vento saturnino, ordinato e
autoritario, è la linea portante di tutto il libro: dalla musica delle
parole, al dialogo ironia-dolore, rimprovero-sofisma, alla ricerca, al dubbio. Si presenta così la poesia di Sauro Albisani (La
valle delle visioni, Passigli) fin dalla prima lettura. Qualche giorno fa al telefono, ringraziandolo del dono della sua raccolta di versi, gli parlai della
prima impressione avuta dalla immediata veloce lettura: «leggerezza e profondità». Due parentesi dentro le quali si snoda la sua scrittura. Sobria, precisa, gentile, serena, sulla soglia dell’ironia nel narrare l’amarezza, la delusione del vivere, la fatica dei giorni. I curatori del libro hanno scelto degli
splendidi versi da collocare in copertina: “Ci hai dato questo lenzuolo/ tappezzato di fiori di luce./ Noi li chiamiamo stelle,/ ne calcoliamo la distanza/
e più ci addentriamo con lo sguardo/ più ciò che è piatto diventa profondo./
Noi lo chiamiamo mondo/ Ci hai dato la valle delle visioni/ in cambio della
tua lontananza./”.Uomo di buona volontà, Sauro prova anche ad avere fede
ma nell’animo gli rimane qualcosa che chiamiamo perplessità e incertezza.
Inoltrandoci nella lettura un gigantesco mah! domina la raccolta. Un mah!
che diventa perché e che percorre tutto il volume, lo pervade con lo stupore
di chi non ci si vede dentro in questa vita, ma nemmeno dentro i panni che
indossa, dentro il suo stesso corpo, da cui sembra sempre pronto a fuoriuscire perché non trova le motivazioni per abitarlo. Dice in “INVASIONI”: “E corriamo, corriamo/ verso ciò da cui stiamo fuggendo./ […] E corriamo, corriamo, ma ignari/ se la nostra è una fuga,/ se non sia un inganno,/ se un tiranno
ci porti/ per taighe e per dune/ verso torride lune,/ già morti./”Oppure in
“Vita quotidiana”: “Tu lasci acceso ma togli il volume./ È non sentirsi a casa/
mai, sempre in procinto di./ Già, un po’ come in un set. Ma allora/ perché
questo senso di fallimento,/ perché quella faccia estranea/ che si ostina a
indagarsi allo specchio?/”Eccolo, sempre disponibile ad andare altrove, succube della non appartenenza, della realtà che non convince, degli accadimenti che non gli appartengono. È come se rifiutasse o fuggisse il contatto con il
suo profondo, cioè il suo doppio, cioè la sua ombra o volesse liberarsene.
Parlo dell’ombra senza la quale non si è vivi, non si è umani, non si è terreni. Quella - scrive Jung in “Psicologia e Alchimia” - che sta dietro e che
accompagna ogni immagine ad ogni azione, che assume a volte il sapore di
55
I Fiori del Male
un peso, di un castigo ma la cui integrazione procura arricchimento e maturazione al soggetto e dignità alla parte oscura integrata. Lo ricordiamo “Il
pescatore e la sua ombra” di Oscar Wilde? Dove una Nonna, costretta a insegnare al pescatore come tagliarsi l’ombra dalle piante dei piedi, gli dice: “Ciò
che chiami ombra è il corpo della tua anima.”? E la domanda del messaggero, dal nome carico di significato, Dodicesimo, nel romanzo di Hugo von
Hofmannsthal “La donna senz’ombra”? “Sei un uomo? Sei un giusto?”
intendendo per giusto colui che può gettare ombra sulla terra, perché solo
questo lo distingue dagli spiriti, perché solo così può portare alla coscienza
il suo lato nascosto (o non cresciuto, o non accettato). “Una discesa - scrive
Claudio Magris nel “Il mito asburgico nella letteratura asburgica moderna”nell’invisibile abisso ctonio per ritrovare la purezza originaria”. L’ombra che
provoca il poeta, che ammicca a incontri, fra l’umano e l’inumano, fra la
ragione e la non ragione, con la poesia: “Ora in quella che non era più una
discesa/ ma una caduta, lui, diciamo lui, se/ era sempre lui a farlo, non so, si
aggrappò/ al suo respiro, al suo stesso respiro,/ […]. Sì,/ cominciò a pensare
all’aria/ che entrava dentro i suoi polmoni/ e alla medesima aria che usciva,
non più la stessa:/ […] Si aggrappò al suo respiro/ e i suoi occhi si spalancarono di meraviglia/ perché si accorse che non cadeva./”Anche se a volte è
solo una suggestione di intesa, è quella che dà spazio al pensiero superiore,
alla vertigine; è quella che dà un senso all’uomo, alle sue fatiche, che gli permette di capire il perché delle sue scommesse incoerenti.
Ma c’è una forza luminosa, appassionata che attraversa il libro e ci offre
una ulteriore lettura con l’energia determinata di invisibili neutrini. L’energia
con cui potrebbe esplodere un’anima ascoltando una canzone dei Beatles
alla radio (Let it be) - scrive Sauro ricordando un amico (o uno qualsiasi):
“e/ tutto un tratto:/ m’ha fatto quasi paura, perdio!/ s’è messo a
piangere/”.Quando questa energia gli manca, è il sogno che subentra gli permette di sparire: “ci allontaniamo così tanto nel tempo/ […]/ che non oso
allungare la mano.../ e sotto questo corpo immobile/ non c’è più terra/ ma
solo un sogno/”.Ecco cosa sembra essere allora la poesia di Sauro: una terra
nuova (da dove partono i neutrini) dove nascita, vita e dipartita sono un tutt’uno senza separazioni, senza virgole dove quello che accade coincide col
sogno e con qualcosa che precede il sogno e lo annuncia, quando avverte che
qualcosa di quella natura incorporea (molto vicina al cuore del pensiero
induista) sta per arrivare. Ma il poeta non l’accoglie, non se ne avvolge, nemmeno l’assorbe; lui si trova ad essere un “intruso”. “Ben più di lui - maggiolino che cammina sulla vecchia Olivetti - nel mondo io sono un intruso: glielo dico./ Tranquillo: smetto di scrivere, amico/.”Oppure, in un’altra compo-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
sizione: “Scusate se non ho saputo accasarmi./ Ma anche adesso su questa
sedia/ […] tendo ad assumere una posizione in bilico/ perché diversamente
non riesco a sedermi./ È come se usurpassi il posto/ non so a chi/ […]/ Da
bambino/ mi ci accoccolavo. Oggi/ questa via di mezzo/ fra l’eretto e il supino/ m’impaurisce e mi tenta: so/ che dovrei decidermi ad alzarmi/ e trovar
casa/ ma continuo a rimandare/ come vedete,/ cerco di far conversazione./”I
pensieri contrapposti, gli ossimori dell’anima che nutrono il suo ritmo, porterebbero uno al cielo, l’altro nel profondo. Ma ci sono porte sbarrate, percorsi introvabili. C’è spazio lì per la salvezza? Troppe sconfitte? Eppure non
mancano mai i sogni, i loro fili luminosi che legano con attenzione l’incanto
per la vita che, come un basso continuo, accompagna il poeta fino all’ultimo
verso. Quell’amore umano, che fa respirare questa scrittura poetica anche nei
momenti in cui sembra più minimal e che invece dà spazio e vibrazione alla
sua forza, dona profondità da abisso anche quando i versi sembrano più lievi
anche dentro i fermo-immagine del più consunto quotidiano. Certo l’amore,
gli affetti ne sono il leit-motiv; e le figure femminili sono varie immagini per
una stessa anima, una sorta di fontana assoluta. Ma il poeta fugge spesso i
punti dove sembra trovare il dunque, la risposta e sembra fedele solo ad un
saggio realismo investigatorio dove mette in gioco anche se stesso, soprattutto le sue certezze. Ma nei punti più solidi e più netti si scopre che i contrari
diventano intesa, gli affetti mutano in conoscenza dentro i giochi della parola che diventa forte, esplosiva, di un ragionare profondo ma asciutto, colto e
scarno. E i sentimenti si affiancano anarchicamente intensi.
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I Fiori del Male
FRANCESCA LO BUE, “Moiras”,
Lirica ‘soggettiva’ di gusto neo-latino,
scrittura moderna.
di Giuliana Lucchini
n una bella ‘Premessa’ di prosa e poesia, Francesca Lo Bue dichiara
apertamente il suo amore per Roma:
“Chi sogna il sogno di Dio vive a Roma, è scelto da Roma”‘
espero surge’ (Virgilio, Egloga X).
Monumento virtuale alla città, questo libro corposo come una stele inscritta
di poesia su entrambi i lati, esprime in doppia lingua, matrice neo-latina, il
legame che esiste fra tempo antico e tempo moderno. Spagnolo/Italiano –
Italiano/Spagnolo: coppia d’amore duraturo, con quale direzione di precedenza di pensiero, di luogo?
“ Pietra ci sei?
Ci sei, e permani
con la tua voce ferma e il tuo rostro straziato.”
“Piedra ¿estas?
estás y permaneces,
con tu voz detenida y tu rostro despedazado.”
“Ci sei, ci sono ...
ci aspettavamo.”
“estás, estoy …
nos esperábamos.”
Appena due spicchi di lingue nell’arancia globale, il frutto della Torre di
Babele significativo del mondo. Aprono porte chiuse le chiavi del cuore. La
poetessa vi gioca il ruolo di sentirsi ubiqua. Da continenti opposti, Italia e
Argentina parlano per bocca di poeta una sola lingua d’anima, Patria, cosmo,
natura, viaggio, essenza umana. Un linguaggio che si sente risuonare sui
sampietrini di Roma, pavimentazione romana per piedi venuti da lontano,
che portano lontano, in un geometrico e sempre in bilico necessario andare
di corpo fisico e virtuale: il tacco della scarpa guida ai pericoli da affrontare.
Quadrato per quadrato, ciò che si lascia salvo, ciò che si arrischia. Il passato
di un giorno è il passato di secoli, le rovine si assembrano alla mente, felicità perdute, bellezze funeree di un tempo trovato/da ritrovare.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
“Desenterar un cielo de palabras/”
“Disotterrare un cielo di parole”
Parole-calamita (..”salvami, Calamita, con la parola prima ..”). Da poli
opposti, versi ricchi di figure retoriche amplificano le visioni. Il poeta insegna poesia mentre la muove nell’onda del suono, tacita voce-alta vibra
all’orecchio interiore, per ossimori, antitesi, contraddizioni, parole che aprono e chiudono logiche di pensiero dal fondo segreto della sua anima. La voce
arriva da dietro le quinte della mente in un teatro dell’assurdo che nella parola chiarifica l’emozione. ‘Lirica ‘soggettiva’: impasta un quadro a colori
tempestato di pietre d’artista. L’io afferma la propria identità mentale, circondata di solitudini. L’inventiva soccorre il verso che quasi da solo si crea. La
parola sposta immagini impensabili a mezzo di paragoni e accostamenti
imprevisti, a sorpresa. Così si cattura l’ascoltatore in una musica fuggitiva.
“quiero escribir tu libro”/ “voglio scrivere il tuo libro” (“La Ciudad ideal”/
“La Città ideale”, v.11).
Sul primo risvolto di copertina si legge in doppia lingua questo bel testo:
“nella Roma dei Santuari della meraviglia celeste
l’Invisibile scorre.
È l’invisibile morte che sogna catena di vivi
che non morranno mai,
sono la scia smeraldina del pensiero di Dio.
e’ il sogno del Padre che semina la vita
in un nido di papaveri,
il canto poliglotta della notte insonne,
un canto d’acqua di cisterne
e di odorose stelle viventi.”
—————————————————————————————————
“en Roma, en los Santuarios de la Maravilla celeste
el Invisible se desliza.
es la invisible muerte que sueña eslabones de vivos
che nunca màs moriràn.
Son la estela esmeraldina del pensamiento de Dios.
es el sueño del Padre que siembra la vida en un nido de amapolas,
el canto poliglota de la noches despiertas,
un canto de aguas de acequias
y de perfumadas estrellas vivientes.”
°
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I Fiori del Male
ove sta dunque la poesia? Si trova nell’insieme del testo, nel risultato globale che la tecnica poetica conduce, oppure appare in ogni singolo verso? “Il
verso è tutto”, scriveva D’Annunzio riassumendo entrambi i punti di vista.
Se fosse ogni singolo verso ad essere portatore di poesia, come ogni singola
battuta di uno spartito musicale, finirebbe per diventare stucchevole, privo
dell’interesse del bello che posa sul sempre nuovo, sull’eccezionale.
Sentimento e concetto zittiscono.
E’ nell’insieme delle regole del movimento che si articola l’armonia,
quando pensiero ed azione progrediscono per il piacere dell’orecchio sensibile, che viene a coinvolgere tutti gli altri sensi della percezione. In
Francesca Lo Bue si trova poesia in entrambi i punti di vista, nel verso singolo, nell’insieme del testo. Nel verso singolo, bene articolate parole-scelte
danno la forma dell’oggetto artistico. Si possono citare versi a caso, presi
variamente in testi diversi come esempio; ad apertura di libro. Ogni testo ne
è portatore. Alcuni versi qua e là :
“..sempre rimane qualcosa di te, vecchia eternità sottile”;
“Il libro delle calligrafie scorre nella sera vergine delle stelle”;
“Scrivo al cuore di Lui, l’essere al mio risveglio..”;
“Sempre qualcosa si spezza e secca/ sempre qualcosa singhiozza, si ferma e passa”;
“Come trapasso il peso della mia soggettività?”
(si avverte un pensiero filosofico che scorre dentro tutto il testo).
Se all’interno di un testo compiuto, lungo o breve, a più livelli di interpretazione si muovono i concetti, gli artifizi sono la procedura di cui si serve la
tecnica poetica. Le figure retoriche formano il materiale oggettivo da cui esce
il pensiero spontaneamente, adeguando una scrittura scolara a diventare
maestra di poesia.
Molti sarebbero i testi da citare in questo libro. Fra essi il seguente, preso a
caso:
Un albero di parole
Balugina il minuto,
aspettando un albero fiammeggiante.
Ci sei Tu,
aperto mondo antico irto di distanze, di voci ..
Dissotterare un cielo di parole fra colline in ombra.
Una mano si alza,
un albero si sbriciola nel grigiore della luce di tutti.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
non c’è fretta,
l’emozione delle essenze
arriverà nel maggio delle ghirlande
con stille di braci nel cuore.
_________________________________
Árbol de palabras
Centellea el minuto,
esperando un árbol flameante.
estás Tú,
¡abierto mundo antiguo espinado de distancias y de voces.
Desenterrar un cielo de palabras entre colinas en sombras.
Una mano se levanta,
un árbol se desmigaja en la grisura de la luz de todos.
no hay apuro,
la emoción de las esencias
llegará cuando abril florece,
con rocío de brasas en el corazón.
La bellezza di articolare due lingue contemporaneamente. Il pensiero si
sovrappone a se stesso con parole uguali e diverse.Quale parola arriva per
prima? Mistero della mente mescolatrice del flusso della coscienza, indefinita sostanza d’informazione. Il monumento sentimentale che F.L.B. erige
sulla pagina per Roma, si fonda su un verso di affermazione: “Salvezza è
ritrovarsi, /abbracci in giardini addormentati,/fragranze significative che si
adagiano in urne trasparenti./ (‘Incontarsi’, vv.1-3, pag.95).
Nella sezione “Appendici”di fine libro, la poetessa, a chiusura, traduce in
spagnolo da vari poeti testi in dialetto romano, di gustosa ironia.
°
“MOIRAS”: il titolo intraducibile sottende l’implacabile Destino. L’Amore
che si divide. Non comune raccolta di poesia. La consistenza dei testi trasporta i mezzi del discorso in innumeri prove di retorica. C’è di tutto: per il
tono, assonanze, consonanze, allitterazioni, amplificazioni, antistrofe; per il
pensiero, parole d’accostamento paradossale, polisindeto ed asindeto, chiasmo, circolo; ed ancora, sinestesia, metonimia, metafora, inversione sintattica; ed ‘enjambement’, ossimoro (di cui è straricca). Chi più ne ha, più ne
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I Fiori del Male
metta. Altrettanto il ritmo si adegua, lento o veloce, meditativo o solenne,
spezzato … Poesia completa. Bisogna leggere tutto questo libro. Il timbro
della voce poetica, nel gusto di cultura spagnola fin troppo denso di aggettivazioni e di sollecitazioni emotive, conduce i versi in un ben definito carattere solare, amplificatore dell’abbondanza. Accattivante in questo senso la
copertina del libro, di forte impatto a causa del quadro che la poetessa ha
scelto, “Carità romana” di Niccolò Tornioli, dalla ‘Galleria Palazzo Spada’
di Roma (ivi si trova nella prima Sala). L’artista illumina l’Amore generoso,
che nutre, bivalente, il presente e il passato, il bimbo e il vecchio: nutrimento del Padre e del Figlio in grembo alla Donna, la sempre Madre misericordiosa, elargitrice di vita e di bellezza anche sul limite dell’estremo.
Felice Pedretti, Il racconto della Pittura, olio su tela, 42x42, 2011
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Il Sud dell’esilio
nella poesia di Cesare Pavese
di Pina Majone Mauro)
“… le ragazze al crepuscolo scendono in acqua
quando il mare svanisce, disteso. nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva…
…alghe sepolte…afferrano le gambe
e le spalle: quant’è nudo del corpo…”
l poeta sta scontando l’esilio politico a Brancaleone di Calabria, dove
è arrivato da poco, il 13 agosto del ’35 in piena estate, quando qui la
Natura esplode nei mille parametri della Bellezza. Assorto e stupito
da tanto splendore, dolorosamente incredulo per la povertà della
gente del luogo, così diverso da quello delle sue Langhe, guarda al mare,
annega nella sua immensità, ne ascolta la voce e i silenzi e metaforicamente
lo accosta all’idea di Libertà. Perso in questa muta estatica contemplazione
Egli costruisce immagini poetiche di straordinaria forza e intensità: il prato
senza fine che per Lui è il mare, la pioggia che non fa rumore sull’acqua,
specchio sanguigno di albe e tramonti che lo accendono, la nudità delle
ragazze che come veneri dimesse escono dalle candide spume…hanno per il
Poeta il sapore amaro della libertà perduta. Più tardi, quando sarà ritornato
alle sue colline ricorderà quei momenti di estatica solitudine…
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I Fiori del Male
“… c’è un giardino chiaro fra mura basse/ di erba secca e di luce…/ è una
luce che sa di mare/ tu respiri quell’erba. tocchi i capelli e ne senti il ricordo / hai nel viso calmo un pensiero chiaro/ che ti finge alle spalle la luce
del mare / con un tonfo e ne stilla una pena antica…”
Muto pensoso sconfitto in quella bolla d’aria che è la solitudine ( e la solitudine dell’esule è la più triste delle solitudini) il Poeta si guarda intorno e scrive: la poesia sgorga come da una fonte vergine e inesauribile col suo verso
scabro e lungo, alla maniera di Whitman, il poeta statunitense a cui Pavese si
avvicina per stile e modernità. Il vuoto intorno a Lui non è assoluto i suoi
lunghi silenzi sono pieni di voci, il suo animo trabocca di profumi mentre i
suoi occhi percepiscono le sagome forti e dolci di quei giovani corpi fluttuanti, maliziosamente puri e veri, inconsapevolmente provocanti, carichi di
innocente erotismo. Il grande Esule estatico davanti al paesaggio, nuovo per
chi ha negli occhi e nel cuore le sue colline, trascorre gran parte del suo
tempo, che nell’inattività si è fatto immisurabile e senza scansioni, ad ammirarlo estasiato e incredulo per tanta forza per tanta primordiale bellezza. E
non sa mai dove finisce la pietra e comincia l’acqua. Dove finisce la castità
e incomincia la malizia. E viceversa. Ma è soprattutto il mare che ipnotizza
la sua attenzione, il Mare Greco che al suo animo triste e inquieto ancora racconta di antichi miti e di avventura. Sono questi i miti che più tardi, nel 1947,
gli ispireranno i “Dialoghi con Leucò”? La visione edenica di questo paesaggio che pare collocarsi come un diaframma inamovibile tra la sua condizione di esule e l’animo assetato di poesia e di giustizia, lo accompagnerà per
tutto l’arco della sua breve vita segnata da una sorta di titanismo autolesivo,
che non lo salverà ma forse renderà più dolce la morte da tempo accarezzata e liberatrice. Negli anni quaranta egli scrive di quel Sud vissuto nel dolore che lo aveva tagliato fuori dal mondo e da se stesso e lo ricorda come una
morgana che gli fa vedere capovolta la sua e l’altrui realtà.
“…al di là delle gialle colline c’è il mare/ al di là delle nubi…/ e si leva
la luna. Il mattino è disteso in un campo/ col cranio spaccato dal sole…/ e
si leva la luna” In tutte le poesie dell’esilio calabrese il Poeta e il paesaggio
sono un’anima sola inscindibile: al mare alle sabbie ai venti si inciela la sua
vita di esule e la rende meno penosa se non proprio accettabile. Ogni limite
che la violenza pone alla libertà è inaccettabile. Ma la poesia può fare il miracolo… una sorta di magia, forse breve e illusoria che per una frazione millesimale del tempo agisce come un balsamo sull’animo del Poeta e sulla sua
condizione di esule costruita su un’ingiustizia aberrante che solo la Storia più
tardi si incaricherà di condannare. Di tanto dolore di tanta bellezza restano le
poche ma stupefacenti “poesie brancaleonesi” dalle quali scaturisce una
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
visione sognante e realistica insieme di una Calabria essenziale quasi fino
alla primordialità, una terra dove, al contrario degli uomini e delle sue feroci ragioni, la Natura non è stata avara di doni. Quando la Bellezza si traduce
in Poesia diventa Musa Consolatrice dell’umano dolore: sulle rovine di un
mondo, sulla infelicità dell’uomo, sulle sue sconfitte, foscolianamente rimane
“…e pianto ed inni e delle Parche il canto”.
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I Fiori del Male
POeSIe
Leopoldo Attolico
Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci… (Tre inediti 2012-2013)
A Guido Ceronetti che non trova pace
(…) accade così di fare confusione
per tutta la vita
fra Erba Gramigna e Malerba,
e quando , in questa compulsione vegetale
riusciamo finalmente a intravedere un valore infinito,
il riverbero dell’essenza, dell’assoluto,
ecco scendere dalla soglia di uno di quegli usci in erba
e venirci incontro
la botanica del sociologo della devianza
a dirci che la poesia è morta
che è stata sepolta dalla Linea lombarda
e che anche da viva, al più
ha sempre lasciato soltanto la buona impressione e i tre punti
come nel gioco del pallone
Antelucana
1977 L’ironia nelle risate dei gabbiani sul Lungotevere
raggiunge il poeta rampante
in attesa sotto casa del critico famoso
che porta a spasso il cane
alle cinque di mattina
Alle cinque di mattina
è facile assegnare all’intraprendenza
un decoro, una plusvalenza
ma il solfeggio di gabbiani impertinenti
può rovinare la festa
Poveri noi
1977 Sembrava una grande invenzione
una protesi per chi avesse difficoltà motorie
una strenna per i pigri
e come tale l’abbiamo considerato, per anni .
Invece il telecomando è uno strumento di tortura :
ci consente sì di sfuggire a Manuela
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
ma solo per farci imbattere in Amici, De Filippi
Milly Carlucci & Co. :
il degrado agghindato a festa
dalle vestali dell’idiozia.
Accordo
A Sandro Penna
Al ragazzetto stretto stretto all’altro
nel cortile dei baci
si fa corta la sera :
c’è la mamma che chiama
con voce greve
lontano dalla vista …
Nell’oro di un sorriso
di vela bianca che si stacca in dirittura
scabra purezza lancinante soffia
oltre un sembiante molle di sventura
Da Piccolo spacciatore , Il Ventaglio , 1987 , poesie 1964-1966
Le parole per dirlo
Occhio alla penna .
Se s’impenna
( per la pena di non saper gestire
la reticenza e il fervore del suo acceleratore )
è questione, soltanto, di pazienza
di serena acquiescenza a un fervido torpore .
L’ispirazione
è inflorescenza naturale; vive di attese .
La sua carne viva
sa di scommessa umbratile;
accende una promessa e subito la nasconde;
si nutre del bisogno di aspettarne il culmine.
Quindi, mai fagocitarla
o chiamarla per nome.
Sarebbe come dire alla Gioconda
di togliersi dall’onda di quel fluido sospeso,
indescrivibile,
per tradurla in approccio esplicito e smagato;
l’amarezza e l’incanto
di un bacio sulla fronte
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I Fiori del Male
Da Il parolaio , Campanotto , 1994
Pref. di Luigi Fontanella , con due gouaches originali di Ernesto Treccani
Sbadiglianze/Concomitanze
La gente è stanca
la gente è stanca di essere stanca
cosa ancora più grave
La stanchezza stessa ha perso baldanza, autonomia
non ha ritegno di dichiararsi dimissionaria
e di ripetere alla gente
quello che non vorrebbe mai sentirsi dire, tipo
questa tivù ci esalta
fatti una flebo
datti all’ippica …
Les jeux sont fait
Quando sorprendiamo qualcuno
con la mano della decenza tra bocca e naso
a coprire il solecismo di uno sbadiglio,
sempre più spesso ci accade di percepire
in concomitanza
uno sbadiglio interiore così sgangherato
così tonsillare, così senza vergogna
che automaticamente ci segnamo come di regola
inducendo chi ci sta di fronte a pensare
mamma mia come devo essere ridotto male
Da Siamo alle solite , Fermenti , 2001
Pref. di Giorgio Patrizi , con due tavole originali di Giuseppe Pedota
La tua poesia taciuta
coi suoi cieli
e i suoi percorsi sottotraccia
mi fa pensare all’ubiquità – un poco spaventata di un coro a bocca chiusa
Non ha nido di terra
né suono di vento su corde d’acqua;
men che meno
la pausa senza peso - luminosa – di preghiera...
Io la assimilo a un altrove
di primavera intempestiva
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
ogni volta disattesa
fuggitiva
che ti cerca sulle labbra
Da I colori dell’oro , Poesie d’amore , Caramanica , Marina di Minturno , 2004
Introduzione di Giuliano Manacorda
Colloquio preliminare
Ero giovane, volonteroso, referenziato
timoroso di Dio; una perla rara:
proprio come desiderava l’annuncio di Famiglia Cristiana .
Mi presentai come domestico .
Ma tutto avevo di domestico fuorché lo sguardo
che sapeva di rapina e guardava in fondo al cuore
atterrando in percussione
con la delicatezza di una perforatrice .
La padrona di casa se ne accorse
e si sentì aggredita, indagata
letta tra le righe
e da ultimo privata della biancheria (dell’anima).
Per dissimulare, maldestra
appoggiò le terga ad una tenda e andò a tappeto
con la tenda a rovinarle in testa un sipario
curiosamente trasformato, nel mio cuore
in saracinesca inibitrice delle mie velleità di domestico
e dei buoni uffici di Famiglia Cristiana
(che dio l’abbia in gloria)
1977
Da La realtà sofferta del comico, Aìsara , Cagliari , 2009
Pref. di Giorgio Patrizi, post.ne di Gio Ferri
Leopoldo Attolico (Roma , 5-3-1946), ha esordito nel 1987 con una raccolta antologica di versi
giovanili, Piccolo spacciatore,Il Ventaglio, premiata l’anno successivo con il Mecenate da una
giuria presieduta da Giorgio Bassani. Sono seguiti altri cinque titoli di poesia e quattro plaquettes in edizioni d’arte . Ha collaborato e collabora con le principali riviste letterarie . Una scelta
significativa del suo lavoro è apparsa negli USA presso Chelsea , New York, per la traduzione
di Emanuel di Pasquale. E’ stato tra i redattori di Poiesis e lo è attualmente di Capoverso . Il suo
libro più recente, La realtà sofferta del comico, Aìsara, 2009, è prefato da Giorgio Patrizi, con
postfazione di Gio Ferri. [email protected] - www.attolico.it
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I Fiori del Male
Carlo Villa
Ofelia
Per quelle tue ciglia che muoiono
dalla voglia di annuire,
varrebbe la pena domandarsi di Ofelia
nei rami sotterranei
che si sfanno in acquitrini;
ammesso che una risposta
a una qualunque vestigia di lei
sia ancora possibile,
considerata la fragile carenatura
e il basso punto di galleggiamento
del tuo corpo; oltretutto
sospinto da un leggero vento di follia
Sempre
Devo a te felici tempi intensi
e mai provati prima,
nella coscienza d’averli ricevuti
si direbbe in modo interminabile;
e devo a te quel “t’amo” adolescente
che pronuncio ancora oggi
non sapendo dire se
soltanto per l’ebbrezza d’averti avuta a raso,
sapendoti nel resto inadempiente.
Offrendomi biscotti da stazione,
m’hai tolto ogni gioia pasticciera,
e infima carne della più bassa macelleria,
se sono offeso d’averti ancora in mente,
è per questo sentimento mio, invece per sempre.
Strumento solista
Sei ciò che il pianoforte è in un’orchestra
nello sbaragliare qualsiasi altro strumento
con la sua voracissima tastiera,
e quand’anche sembri soffocata,
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
risorgi sempre nell’enfasi
vociosa del melodramma ad effetto,
fatto di recitativi ininterrotti
e di accordi strappalacrime.
Negli scoppi degli ottoni
liberi clamori che non sanno
più quale chiave manovrare
per mantenere il tono più drammatico,
ma una volta all’aria
“ebben me ne andrò lontana”,
perché non ti decidi a farlo,
preferendo darmi le vertigini
con il preludio de “La goccia d’acqua”,
capace di scavare anche i sassi?
Carlo Villa esordisce in poesia con l’avallo di Sinisgalli e Pasolini ed è nei Coralli Einaudi coi
romanzi La nausea media, Deposito celeste, I sensi lunghi, l’isola in battaglia. Con gli editori
riuniti pubblica il romanzo Muore il padrone, con Feltrinelli Pan di patata, mentre Guanda pubblica La maestà delle finte, e Scheiwiller L’ora di Mefistofele accolgono le sue ultime raccolte
poetiche. Altri romanzi e raccolte di poesie sono state pubblicati da altri editori. Per la Rai e la
Radiotelevisione Svizzera a collaborato a lungo con originali radiofonici e televisivi.
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I Fiori del Male
Giovanni Chiellino
Il giardiniere impazzito
(Da tela di parole, cam, Genesi, Torino 2007)
Sradicare le ortensie e il rosaio,
eliminare i bulbi dalla terra,
tagliare il calicantus:
fredda inflorescenza nel cuore dell’inverno.
Bruciare la tuia,
atto sacrificale,
abbattere l’agrifoglio,
non posso vedere le sue rosse bacche
brillare tra le foglie;
sacrificare l’oleandro e il melograno,
purpureo fiore in forma di corona.
Bisogna fare spazio a cose
più importanti:
mine anti uomo, missili, mitraglie,
un’infinita varietà di armi.
Reticolati,
campi di concentramento,
fosse comuni.
Le salme già occupano
il centro del giardino:
uomini e donne,
i giovani figli uccisi
prima che cantasse il gallo
quando l’alba sfiorava i loro volti.
Dappertutto scorreranno
rigagnoli
di sangue per innaffiare
i filari delle croci.
In tutti gli angoli germoglieranno
lacrime e lamenti e io
spingerò l’altalena della morte
verso l’Angelo pietrificato nel dolore.
Gli amici ritrovati
Rughe profonde e dure
maschere spesse
72
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
per sovrapporsi d’anni.
La memoria umiliata
geme sui giovani corpi fermi
in fissità di morte.
Voci roche frantumano
gli allegri suoni
cancellano i canti della vita
sulle tenere labbra di fanciulle.
Dalle canne del vento
un fremere viene di silenzio
un soffio costante di caduta.
Occhi opachi fissano ombre
su muri di ricordi.
Siamo, forse, all’ultimo tornante
della pesante notte
prima che l’occhio si apra
sulle alte dimore luminose
dove il nome si annoda
al suono inimitabile
e la maschera si scioglie
nella luce.
Il vento dei deserti
Il vento che batte le colline
e smuove gli aghi della mia memoria
è il vento dei deserti
che sale i muri
gonfia l’onda
e conquista l’arco della terra.
E’ il vento che ingravida la zolla
dà profumo alle piante
e solleva il cerchio della luce
sulle cime dei monti.
E’ il vento negli uliveti
aperti alla marina
il vento che scuote il pino
e porta l’elitra vibrante dell’aprile,
la voce dei vivi nel cavo dell’orecchio.
E’ il vento che scompiglia le tue vesti
73
I Fiori del Male
passa nel biondo opaco dei capelli
scopre il roseo perlato del tuo seno
e poi si piega come in un pensiero,
soffia sul freddo delle ossa
lungo il sentiero ripido dei morti
spezza parole su pietra di silenzio.
Giovanni Chiellino, è nato a Carlopoli, (CZ), risiede a Torino. Poeta conosciuto e apprezzato, ha
pubblicato numerosi libri di poesia. E’ presente in ottime Storie della letteratura italiana, come
p.es. Storia della Civiltà Letteraria Italiana, diretta da Barberi Squarotti. Pubblicista e collaboratore di riviste di letteratura, è redattore di Vernice. Ha vinto premi importanti di poesia.
74
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Ivan Pozzoni
Braccato
Ma che mi viene in tasca, a rottamarmi
tra uffici aziendali stanchi come statue di marmo,
non contaminati dai virus della creatività,
dai virus dell’urgenza d’un cambiamento umano?
Ma che mi viene in mente, nel continuare a bivaccare
in anticamere senz’anima, senza chiavi
che tutelino i miei desideri intimi, o in aeroporti,
dove nessun blocco di partenza arranchi
i ritmi delle mie corse matte verso i cieli?
Niente coraggio d’un salto nel vuoto,
senza reti che attutiscano le mie cadute,
tra le numerose reti che addormentano
i miei ansiti di libertà.
Donec Ad Metam
Cammino svelto, in solitudine, sulle strade deserte
intinte nell’asfalto, lastricate dai bollori della carne, e dell’Inferno,
incontrando, di tanto in tanto, i miei lineamenti,
seduti, a meditare, lungo i bordi di una pietra ollare,
incontrando, in rare occasioni, i vostri valori,
sdraiati, volatili come locuste,
lungo i bordi acuminati d’una sdraio di Procuste.
E, vado di corsa, senza fermarmi,
senza voltarmi, ad ascoltare
i vostri urli da naufragio in alto mare,
coll’espressione attonita d’un bambino senza divieti di sosta,
con l’arroganza d’un magro vaglia ritirato in Posta;
e, vado di corsa, in questi giorni di luna piena,
aspettandomi pernacchie, lacrime sadiche, e pugnali nella schiena.
Donatore Sano
Non sono nessuno, niente, nell’ansia anoressica
d’aver accesso, cesso malmesso all’anestesia beffarda
dei vostri ardori, donatore di cuori,
tra sterili camici, clisteri e dottori.
Niente elmi, niente corazze,
contro colori violenti di sorrisi da attrici,
nessuno scudo, niente schinieri,
bellezza sconfitta di mille e più cicatrici.
75
I Fiori del Male
Canta, solitudine, d’un’anima irriverente,
trovata morta nell’anticamera dell’esistenza,
tra conati di vomito, vestiti trendy, e
mari madidi d’indifferenza.
Alata Morente
C’era una volta, 1995, 1996, 1997, anni di miserere
tra centri clinici e centri estetici, senza mai far centro, nella vita.
C’era una volta, 1998, 1999, 2000, millennium back,
corsi, e ricorsi, anni trascorsi a vendermi,
nella vita a due, nella vita a tre, in cambio di sesso,
e cadute di stile, in cambio dei tuoi baci mai dati.
C’era una volta, 2002, 2003, 2004,
- senza 2001, odissea nello straziosui confini illuminati a notte della mia anima,
in attesa d’un futuro inarrivabile, senza nessuna intuizione
che, di futuri, non ne sarebbero arrivati mai.
C’era una volta, 2005, 2006, 2007,
nell’attesa infame di non arrendermi,
a resistere col coltello tra i denti,
lame nella schiena, tra le mani,
radendo a secco i miei propositi
da Galata morente.
E ora, un 2008, ancora a dirti “ti amo”,
mentre, tu, assorta, sdraiata nel tuo letto
di boccioli di rosa a domandarti
dove sono andati a nascondersi i sorrisi degli uomini veri,
non ti degni di cercarmi, di stanarmi.
Ti amo, e sono un uomo vero, muro,
in attesa d’altri anni, molti ancora, ancora duri.
Ivan Pozzoni “…A me la non-poesia di Ivan Pozzoni non dispiace, anzi, direi che mi diverte e mi
piace, per alcune caratteristiche: che getta al macero la “neon-avanguardia” (dizione di Pozzoni) che
rigetta la poesia “metrica” optando per la “ametrica”; getta tutto nella spazzatura adottando in proprio e in toto tutta la spazzatura, introiettandola in un sistema tipo Beaubourg, un sistema di reversibilità, di reversione degli ordini linguistici, metrici, tematici, sottotematici; ricuce i sotto circuiti
sematici e discuce i sotto circuiti ideologici e significazionisti. Pozzoni si pone un problema molto
semplice e molto serio: che la poesia contemporanea è rimasta senza un referente e senza un pubblico. E questo è un fenomeno nuovo che la neoavanguardia non si era posta perché il problema a quel
tempo non si profilava all’orizzonte con la chiarezza con cui invece si pone oggi…”
Giorgio Linguaglossa
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Massimo Pacetti
Parole mai scritte
Parole bianche
come un blocco di marmo
fra righe incompiute
vuoti bianchi dove il pensiero
costruisce le sue parole
destinate a chi legge
fra le righe
e colma lo spazio bianco
parole bianche ignote
dove s’incontrano i silenzi
pagine bianche dove
lo sguardo indugia
alla ricerca di
interiori speranze
di parole mai scritte.
Foto stinte
A un passo dalla fine
le illusioni sono scomparse
l’infanzia s’è estinta
nell’altro secolo
il tempo della fanciullezza
si è smarrito sui
campi di battaglia
nell’illusione della pace
statue di cera si
sono sciolte nel
rogo di Dei fasulli
non c’è più nulla
da bruciare
fra la cenere
di cemento
braccia stanche
77
I Fiori del Male
rimescolano resti
carbonizzati di
foto stinte
sembra un secolo
ed è trascorso
un giorno
Pietre nere
Nella notte sperduta
e lontana l’oscurità
della creazione ci accoglie
senza profumi, immobile.
Il silenzio agghiacciante
del deserto nasconde una
tenda sperduta e fra
la solitudine dolorosa
quasi impossibile, un invisibile
zampillo d’acqua è la vita
che nella notte del Maghreb
si perde tra le pietre nere
e il raro scheletrico
albero dei tramonti.
Ciminiere
Lenzuoli bianchi, stesi
fra terrazze scalcinate
scomposte attaccate a
facciate annerite dalla
polvere opaca delle ciminiere
dal triste ululato delle
sirene delle fabbriche.
Lenzuoli bianchi trafitti
di lacrime dei corpi doloranti
alla fine della notte
fra i forni incandescenti
di acciaio fuso
mattoni rossi si appoggiano
mani screpolate che faticano
ad aprire la porta di casa
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
prima di cadere nel
sonno incosciente che
allontana l’odore nauseante
della fatica.
Lenzuoli bianchi come
le parole dei bambini
dietro le tende
delle finestre
nel vicolo senza luce
senza voci.
Lenzuoli bianchi come
vele di un veliero in
disarmo che guarda il
mare con nostalgia.
Massimo Pacetti è di Sesto Fiorentino, vive a Roma. Giornalista è stato direttore e fondatore
della rivista della CIA Toscana “Dimensione Agricoltura” e direttore della rivista della CIA
Nazionale “Humus” e della rivista della CIA Nazionale “Nuovo Diritto Agrario”. Dirigente anche
del giornale dell’Associazione Olivicoltori Chietini. E’ stato Consigliere Provinciale per la
Provincia di Firenze, Presidente Nazionale della CIA del CNO, e Consigliere del CNEL. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: “Cammineremo tenendoci per mano” (Roma 2002), “Sogni
e segreti” con prefazione di Walter Veltroni (Roma 2005), “La risalita” (Roma 2007), “Lo spirito del tempo tra musical e manga” (Roma 2009), “La danza della notte” (Milano 2010), “Tempo
massimo” (Roma 2011); la silloge poetica “Estremità strappate” (Roma 2010); “Nomade” (Roma
2013); la raccolta di racconti: “Saltando sopra gli steccati” (Roma 2006); il romanzo “Fuga da
Firenze “ (Roma 2012). Nel 2012 ha vinto il premio di poesia “Città di Livorno.”
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I FIori del Male
Renato Greco
Balugini da Pieve di Soligo
Ad Andrea Zanzotto
Altro vertiginoso dì di festa
con che in “Sovrimpressioni” si ridesta
e rompe senza indugi e defenestra
dal percorso di tutti, ciò che resta
fermo alle false idee fisse in testa
e vorticante obnubila e s’innesta
nel gioco imperituro dell’idea
che ora e per sempre porta al cielo Andrea,
mirabile vegliardo – culpa meae visibilio e verbo di marea
verso il principio dell’inverno, in questa
sommossa lingua e parte che ne resta,
di uno scherzoso, infine, dì di festa.
Omaggio a Dino Campana
Le notti. Le luci. Gli sprazzi
di Dino. I misteri e le glorie.
Le matrone. Le ancelle flessuose
che prestino il giovane corpo.
Le stesse, alla carne e all’amore,
durante il viaggio notturno
conducono in profondi abissi
e ascendono i cieli più alti.
Più fulgido, il seme lasciato
agli uomini venuti dopo,
che hanno visto, ad un tratto, aprirsi
un varco nell’oltre del buio
e svelarsi, nel suo splendore,
il mondo abitato dal sogno
che, fine alla fine dei secoli,
sarà grata riva d’approdo.
Sospiri e oblio canteremo,
alla luce segreta di Dino,
i fiori nascenti di notte,
le schegge impazzite di luna.
80
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
In passato, qui abitarono
Dante, Giovanni, Francesco
e Guido, Lorenzo, una folla
di celebrati maestri.
Prima ancora, Virgilio e Catullo
sedettero sui preziose bianchissimi marmi.
Ora a noi tocca, di raccogliere
la loro eredità pesante,
e indegnamente riproporre,
con le nostre rotte parole,
il grande sogno degli antichi
nell’alba livida di questo
3 marzo del 2001.
Valligiani
A Giorgio Orelli
Uomini con cipigli formidabili
e dai conversari indispensabili,
camiciotti che si sono ristretti
dopo la prima volta ad indossarli.
Uomini abituati alla montagna
che vivono sul lago, avvezzi ai remi,
autorevoli abbattitori di alberi
ed esperti di ogni selvaggina.
Dissodatori folli di terreni
che tendono a precipitare a valle
e, dunque, assuefatti alle fatiche.
Che quando gli rivolgi la parola,
e anche allora è per un no o un non so.
Renato Greco, prolifico autore di raccolte di poesie. Ha pubblicato ben 43 raccolte. Conosciuto
poeta, vive a Bari. Fa parte del comitato di Redazione della rivista La Vallisa. A nostro avviso una delle più memorabili raccolte di poesie è Dediche. Lettore di Poesia del Novecento in
varie Università popolari. Alcuni libri di poesia sono state tradotte in serbo, albanese, francese,
inglese e spagnolo.
81
I Fiori del Male
Lorenzo Poggi
Giocare a campare
Questa autostrada che non va da nessuna parte,
questo faro del porto senza navi all’ormeggio,
quest’aereo dei sogni fermo nell’hangar,
questo vissuto non vissuto su schermo gigante,
la disperazione d’un uomo come uno straccio
senza attesa sul ciglio della strada.
Avviluppato nelle vesti sinuose di tende di fumo,
mi sono qualche volta distratto dal chiedere un fine
salvo poi strappare le volute impalpabili
e ritrovare il vetro freddo della finestra
con niente all’esterno come un panno freddo
su tempie pulsanti.
Ho iniziato scalzo il cammino
ma tutte le scarpe che ho consumato
mi hanno solo insegnato
a giocare a campana
tra un perché e l’altro.
Inconcludenze
Siamo vere e fragili immagini
appena perse in una piazza di città
con lunghe ombre da tramonto
che s’affastellano in fila indiana
alla mensa dei poveri.
Abbiamo contato le foglie dei platani
a terra e lunghe vestigia di traffico antico
separato dai colli addomesticati
dal nodo scorsoio che separa città e campagna.
Adesso che è tempo d’andare sottili nel vento
senza remore per catturare pidocchi,
adesso che è tempo di morire sfiancati
senza sguardi alti nel cielo,
ci fermiamo un solo momento
per indicare l’unica strada che porta al macello.
82
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
E’ stretta tra due mura private non concede niente alla vista.
E’ il paradiso dei poveri ricchi, sempre più soli
per invitar la gente (che nega l’approccio)
per non sentirsi in credito vista l’offerta
sempre più massiccia di futili totem
ormai sorpassati.
Si vive una volta sola, ma i parametri usati
non servono più. Insolvenze
Ci sono promesse non mantenute oggi nell’aria
e insolvenze foderate di scetticismo.
Ci sono passaggi a livello inutilmente oziosi
e grappoli umani sul davanzale che salutano
improbabili telecamere ovunque.
Ci sono fantasmi in cerca d’autore
e voci isolate in attesa del coro.
Ci sono vecchie scatole di ricordi
e altalene invitanti all’oblio.
Affastellati come un sol uomo
ci siamo clonati da soli,
ridotto a sgangherati sorrisi
il fastidio di vivere uguali.
E’ rimasto solo il presente
la foto di quello che siamo:
piccole monadi aggregate
nella catena d’un DNA
che più non ricorda la strada.
Sogni e realtà
Ci siamo messi a inseguire bambole,
volti di ceramica e corpi di pezza,
lacrime truccate e ciglia finte,
broccati impolverati da anni di solitudine.
Abbiamo stretto nel pugno speranze
e sogni d’infanzia, avidità animalesche
83
I Fiori del Male
e bagliori d’idee, lontani orizzonti,
tramonti impassibili e aurore grigiastre.
Ci siamo ritrovati nudi su un prato
a cercare le cose assaporando il sapore,
il sentore di terra ed il profumo di storia
che viene dal campo, dai solchi lasciati
marcire nel fango le tracce scomposte
di tanti racconti al fuoco d’inverno,
di parole ghiacciate sul vetro del fiato,
di favole uscite dal tronco d’ulivo.
Abbiamo raccolto i panni,
preparato il fagotto e chiuso la stanza,
la torre d’avorio ingiallita dal tempo,
il solito film senza una trama.
Sulla banchina
Singhiozzi lunghi come maree
s’affollano sulla banchina,
frangiflutti amari
di occhi senza lacrime,
fredda pietra a contenere
tutto il dolore del mondo.
Come coro di vedove
s’alza sconnesso un pianto
dai riflussi argentati
d’un mare che nasconde
così bene i suoi morti.
Lorenzo Poggi, Roma1943, laureato in scienze politiche, è stato per oltre venti anni capo redattore e responsabile di produzione della “Guida delle Regioni d’Italia”, annuario di informazioni anagrafiche sulle principali strutture regionali in tre volumi e oltre 4000 pagine e per dieci
anni è stato direttore responsabile della “Guida ai Governi Locali” pubblicazione tutta incentrata sugli organigrammi politici e amministrativi di regioni, province e comuni. L’attività poetica
è ripresa nel 2009 e si è concretizzata nella produzione di oltre 900 poesie pubblicate su vari
siti (Poetare, Poetry & Literature, Cantiere poesia e, da ultimo, con un’assidua presenza su face
book nei siti e gruppi poetici. Tra il 2012 e il 2012 ha dato alle stampe quattro raccolte: “Sassi
sparsi”, “Sussurri e grida”, “Il cielo che aspetta e “La luna nel pozzo” e sono in corso di preparazione e pubblicazione altre raccolte in pieno “fai da te”, quale libera offerta di poesia sia in
modalità elettronica che cartacea.
84
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Rosaria Di Donato
A Maurizio Donati
(nel giorno che indossai i suoi occhiali da orafo)
orafo che fai
ceselli er monno
dura te sei trovata
occupazione
eppuro tra le pietre
che ‘ncastoni
ce ne so’ de durissime
bizzarre
difficirmente
je dai conformazzione
ma ‘rmonno
car’ amico
nun è pietra
è sasso
e nun lo poi
fermà como te pare
nun lo ‘ncastoni
manco pe’ traverso
pe’ dritto pe’ storto
è disuguale
nun poi bloccallo
né rennelo più bello
è quello ch’ è
‘ na cosa ‘nfame.
Stella a Fontana de’ Trevi
prodiggio
‘ na stella è cascata
ner granne vascone
se cheta er penziero
e sboccia ner core d’ ignuno
‘ na grann’ emozzione
85
I FIori del Male
è come ‘ n filo d’ arianna
che ‘ nsegna a chi persa
ha la via
a trovanne ‘ na nova
‘ na strada ‘ nfinita
tra tutte ste viuzze der monno
che gireno gireno ‘ ntorno
ma mai nun ariveno
indove ce sta
‘ na raggione
Scherzo
‘ Na regazzina ruzza accosto a ‘ na funtana
er sole ce se specchia e tutto è d’oro
noteno li pesci piano piano
e lei appozza le manine
p’acchiappalli
quelli sguizzeno via sott’a li sassi
pe’ mettese a riparo da le mano
debbotto
li vede comparì ‘ndove la luce
ruzza coll’acqua er sole
e s’arifrette
che luccichio che festa
a più nun posso
la senti sbatte le manine
sott’a quer sole
che ner frattempo
è addiventato rosso
Rosaria Di Donato è nata a Roma dove vive. Laureata in filosofia (quadriennale e specialistica), insegna in un liceo classico statale. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia: Immagini,
Roma 1991; Sensazioni Cosmiche, Roma, 1993; Frequenze D’Arcobaleno, Roma 1999;
Lustrante D’ Acqua, Torino 2008. Collabora a riviste di varia cultura ed i suoi volumi si sono
affermati sia in Italia che all’estero, con giudizi critici di Giorgio Barberi Squarotti, per esempio, e traduzioni di Paul Courget e Claude Le Roy (riviste Annales e noreal). Partecipa al blog
“Neobar” di Abele Longo ed altri siti letterari sul web. Vincitrice di alcuni premi di poesia si
interessa di arte, cinema, letteratura.
86
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
LO SCAFFALe
Hamza Zirem, Visioni variopinte, Arduino Sacco editore, Roma 2013
Ho letto con attenzione la nuova silloge di Hamza Zirem Visioni variopinte, e sia
il titolo, che il bel dipinto di stile caravaggesco, riprodotto sulla copertina, comunicano una nuova chiave di lettura rispetto alle poesie precedenti, infatti ho notato un rinnovamento, una poesia che nonostante tutto, induce ad amare la vita. Ora i suoi versi
sono più pacati, si aprono alla natura dove l’anima trova riposanti approdi, come oasi
di appagamento e di gratificazione, si aprono alla speranza, attraverso una ricerca del
proprio vissuto, sforzandosi di esaltare il valore della vita e desiderare di sentire sopra
ogni cosa, sulla propria pelle il profumo della libertà. Man mano che i ricordi affiorano, emerge un’eco di angoscia, il poeta ascolta la voce del tempo, della sua fuga
veloce riemergono frammenti di giorni lontani, velati di malinconia, che suscitano
paragoni e riflessioni: …”I ritmi labili scambiavano le visioni/ la notte titubava in un
riso indefinito/ che rassomiglia al delirio ed all’oblio…” Oltre ai temi autobiografici, che rispecchiano gli ideali, i desideri e le battaglie dell’autore, sono affrontati
anche problemi esistenziali attuali che dovrebbero far riflettere le coscienze come sottolineano questi versi : “Capendo i segni che causano storie/ non voglio più disegnare la menzogna/fatta attendibile malgrado la falsità/non voglio più crollare nell’indignazione/ come timbro di una tomba senza nome…”/. La poesia rispecchia la vita
stessa, infatti come possiamo notare, non mancano i toni dell’indignazione, dell’amarezza, dell’amore, dell’amore per la verità e per la vita. Una tale visione poetica esistenziale, permette al Nostro di filtrare non solo la propria realtà, ma varie realtà che
spaziano nel mondo e nello stesso tempo ci accomunano.
Isabella Filardi
Alfredo Bajocco, Il gatto Moretto e altri racconti, Edilet, Roma 2012
Il gatto Moretto e altri racconti è pregevole opera narrativa per l’infanzia di
Alfredo Bajocco. Essa non rappresenta solo la particolare sensibilità pedagogica del
maestro abruzzese del primo Novecento, espressione di un potente rinnovamento
didattico e di approccio all’universo emozionale ed estetico del fanciullo, come evidenzia ampiamente la curatrice, Giovanna Alatri, ma permette di cogliere appieno la
valenza poliedrica della parola come immagine che, pur nello stupore del racconto, stimola, educa e forma, tramite l’esperienza e la natura, la coscienza alla vita. Attraverso
storie esemplari e letture belle, queste favole in prosa e ricche di vissuto affinano certo
la sensibilità del bambino, attore del futuro, ma veicolano in lui modelli, stili di vita ed
atteggiamenti sociali e psicologici, volti ad educare all’attesa, spesso al dolore,
alla morte come sacrificio che permette la nascita. Il vivere insomma nelle sue tappe
è reso abilmente con metafore naturali, quali ad esempio, in racconti come La nascita del ruscello o La mamma del balanino, mentre in Perchè i grilli sono buoni
si rappresenta, con lo stupore spietato delle favole, il dato scientifico del darwinismo naturale, che favorisce nella specie più deboli una sorta di oblio del male.
87
I Fiori del Male
Essere solo via,via consapevoli dell’ineluttabile rischio che comporta l’aprirsi innocentemente al mondo, l’allontanamento genera peripezie e stati di cambiamento
emblematici, formativi di ogni percorso di crescita, si vedano le drammatiche storie
de La vita della montagna, La fiducia dell’acero, La tela del ragno ed altri ancora,
mentre ne La cagnetta di Berto Masi,il beltramismo patriottico si sposa ad echi deamicisiani, nel comune mito della fides canina. Bajocco artista dell’immagine e fine
narratore, palesa così, storia dopo storia, i valori pedagogici di un sentimento di istruire nell’esperienza e nel farsi pronti alla vita, al seguire i ritmi delle stagioni, millenaria osmosi simbolica col divenire di cose, uomini e animali, propri di una civiltà contadina e preindustriale, qual’era l’Italia e non solo di circa un secolo fa. L’estrema
attenzione a formare e a curare la scelta di valide letture per l’infanzia è notevole
anche sul piano metodologico nell’appendice in calce al volume,
Come si scelgono i libri per l’infanzia, estratto da I diritti della Scuola, 20 dicembre 1914, p.42, ove, con tocco di cronista, l’autore allarga l’avventura di una conversazione d’occasione, nella libreria Treves, nell’imminenza del Natale, l’ultimo di
pace per l’ Italia alle soglie della Grande Guerra, a valutazioni ancor oggi attualissime circa la società frettolosa che s’accontenta dell’apparenza e della forma, riflessioni sul valore del giocattolo e della dimensione ludica dell’infanzia, il fare giocando è
certo un apprendere, ma è altresì un inesauribile scrigno di emozioni per le mani e la
mente del bambino che poi passerà alle astrazioni, ai velieri di parole e ai mari dell’avventura dei libri, ad esempio di Salgari o delle avventure di Pinocchio, autentica
”bibbia” di ogni romanzo di formazione dell’adolescenza non solo italiana. In conclusione non può non sottolinearsi il valore pregnante dei diminutivi, presenti in
molte storie,appare evidente, inoltre, il messaggio vichiano della forza della poesia
come stimolo alla mente e al cuore. Colorano le favole del Nostro, anche immagini
poetiche, che rinviano al Pascoli, il tema del nido e del dolore dell’esistenza; al
D’Annunzio, attento alle sonorità della Natura, ma nel vivere come foglie d’autunno
di tanti animali avvertiamo l’affratellamento con favolisti, da Fedro a Trilussa, e
soprattutto con poeti antichi e moderni, da Lucrezio a Leopardi, da Ungaretti a Saba,a
Lorca, educatori dell’animo, diversi formatori del ritmo che connota il rosario all’imperfetto delle cose.
Paolo Carlucci
NUNZIA BINETTI: QUANDO SI AMA IN SOLITUDINE,
QUANDO SI E’ SOLI CON LA POESIA
Un serrato colloquio, le venti poesie di Nunzia Binetti cui le Edizioni CFR, di
Gianmario Lucini, danno meritevole evidenza e, sotto il titolo di In ampia solitudine,
a scrittrice raccoglie in silloge. Ma, se di dialogo si tratta - viene subito da chiedersi
- da chi è rappresentato il suo interlocutore?In sede di presentazione si parla di “un tu
maschile sfuggente e a volte evanescente”: osservazione che, senz’altro, condividiamo (“Tienimi in un pugno, come ti piace fare / sarò minuta come una mosca. / Mi
nutrirò di foglie e di radici; / perderò peso. . . peso / sarò. . . sarai. . .”) e tuttavia
88
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
vorremmo - come dire? - illimitatamente amplificare perché si possa avvertire più che
la concretezza, l’astrazione; più che la presenza, l’assenza di un’entità, comunque
indecifrabile e inafferrabile (“Che tu non sia fiore / (però sai ancora di campagna a
primavera) / ormai è assodato / e quando lo sei stato io non c’ero”). Ecco, i versi
riportati fanno sorgere un affascinante sospetto: siamo sicuri che questa fantomatica
figura sia esistita o esista realmente? E, in ogni modo, sia questo il fatto che, più di
altri, interessa?Dobbiamo confessare - è un nostro punto di vista, s’intende, ma è ciò
che ci attrae di questa poesia - che la peculiarità di una scrittura, come quella contenuta nella breve raccolta che stiamo esaminando, risiede in una visione decisamente
inedita del quotidiano, una visione romantica completamente avulsa dai manierismi
del sentimentalismo perché estremamente concentrata a mettere in risalto ciò che il
sentito comunica ad un’anima, ad una coscienza ossimoricamente inconsapevole.
Non c’è, nella Binetti, nessuna esigenza di ostentazione dell’amore: “Non scorgi
azzurri se dimori ombrosi sempreverdi” - dichiara, tutto d’un fiato, in Tendenze quasi a ribadire, anche sotto l’aspetto metrico-formale, che non occorrono ridondanze; non solo, che la ricchezza, gli agi, le superfluità ostacolano il cammino, riducono
- per restare in tema - il campo visivo: “A me basta un cielo di vetro / o di carta, su
cui poggiare il viso / purché sia cielo / e mi basta una secca di rami. . . / . . . dove fissare. . ., il nido di passero / che sono.”.
Non crediamo di cadere in errore se consideriamo l’incipit (appena citato) dell’intera silloge un vero e proprio manifesto di poetica, guardandoci bene, nel sostenerlo,
dal voler intrappolare in fuorvianti schematismi un modo tanto originale d’intendere
il versificare. Già: sono un nido di passero tra i rami spogli, una “scheggia di luce
radiante” o “soltanto un dilatarsi di pupilla” lei e la sua poesia; e non desiderano essere altro che questo. C’è, è innegabile - e ne è la naturale conseguenza - un forte senso
di fragilità (“Ed io sono vetro; tintinno.”), di precarietà, di offesa per la ricerca continua di un fiore fra distese di ortiche; ma è proprio questo girare intorno al mondo, alle
terrene vicissitudini, al suo stesso interlocutore, a se medesima, infine, che rende
autenticamente nuova la proposta portata avanti, in ampia solitudine, da Nunzia
Binetti. Ben oltre le apparenze, allora, è giusto parlare “di un approccio esistenziale
comunque ottimistico”, sorretto - sul piano dei contenuti - da una tematica che privilegia i sentimenti senza farsene fagocitare e li esprime, stilisticamente, attraverso il
lirismo di un verso libero e moderno ma sempre attento al ritmico distendersi del
canto. Segni, questi, a nostro avviso, di una già matura capacità espressiva e, dunque,
di un promettente futuro.
Sandro Angelucci
Ver sacrum di Franco Campegiani, Edizioni Tracce, Pescara, collana “Magister” Poesia 2012
Quale ruolo ricopre la poesia all’interno della visione filosofica di Franco
Campegiani della condizione umana? Nella realtà storica segmentata da immolazioni e ideali, essa compie un rito verbale che tenta di restituire sacralità all’esistente. Ver
sacrum, dunque: che una nuova “Primavera Sacra” possa essere ancora celebrata in
questo difficile momento storico per trarne fausti auspici ed esatte direzioni in grado
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I Fiori del Male
di restituire un approdo di senso a “un impervio cammino”. Nell’inquietante contemporaneità l’uomo, “pallido selvaggio” metropolitano, è spesso prigioniero di una
“civiltà pirata” che rimanda ad antiche catastrofi e bibliche migrazioni. L’Autore
compie quasi un pellegrinaggio spirituale che plachi lo sdegno della Madre Terra, il
suo e quello di tutta una mitica civiltà agreste in un rapporto di rispetto e offerta alla
divinità dell’anima mundi. Fanciulli e diritti calpestati da un’aggressiva modernità
“tra clacson impazziti / nel nero smog…” sembrano invocare un “vento degli angeli”,
una transumanza dell’anima sul cui percorso s’intrecciano vetuste e attuali culture.
Negli echi di millenarie tradizioni legate a un mondo bucolico, nel divenire dominato da elementi contrapposti, il bene e il male, la vita e la morte, Campegiani riconosce l’autentico significato della vita, il flusso misterioso dello sbocciare e del morire
nel tempo immortale: “rinasce primavera tra le crepe / di queste tombe / che l’inverno ha demolito…” e “nei boschi dell’anima” sorgeranno future “gemme e radici”.
Nella “legge suprema dei contrari” l’amore farà risorgere tutto dalle brume invernali perché “c’è un male che fa bene”, perché “gridi di dolore” esplodono “all’alba in
battiti d’ali”, perché “tutto è immutabile / e tutto è in mutazione. / Giunge l’essere al
tempo / e torna all’assoluto il relativo”. La società è cambiata nel tempo, ma resta
immutata in questi versi la sintesi della sacralità primigenia di una cultura agreste
legata alla natura, alle incerte prospettive del domani, però anche capace di assimilare con gioia i frutti del lavoro dei campi che, in altre epoche, rappresentavano gli unici
introiti familiari. Nonostante il progresso tecnologico con i suoi fasti e nefasti, ci sarà
sempre l’uomo alla guida di ogni scoperta scientifica e tecnologica e il passato rurale resisterà come prima risorsa intimamente legata all’impegno personale, con tutte le
implicazioni della cultura tradizionale di cui ognuno di noi reca traccia nelle proprie
origini ancestrali. Attraverso un tempo liturgico volto ad ascoltare l’eco dell’originaria armonia nell’universo, il poeta ricongiunge liricamente fratture esistenziali e terrene: “Puntuale e copiosa, mia terra, / nell’ossequio sacrale elargisci / le tue messi a
me… umile figlio”.
Daniela Quieti
Giacomo Cerrai Camera di condizionamento operante, L’Arca Felice,
Salerno 2009
Camera di condizionamento operante richiama subito alla memoria uno dei capisaldi della scienza comportamentistica secondo cui le relazioni umane (ma che qui
possiamo estendere ad intrapsichiche) avvengono non senza speculari condizionamenti, dovuti ai riscontri che esse ricevono. Chi è agito ovvero condizionato non può
a sua volta non agire e non essere condizionato. Necessaria questa premessa, e in
parte già dichiarata nel colophon del libretto, se si vuole cogliere l’essenza della breve
silloge di Giacomo Cerrai e al contempo penetrarne l’ardua quanto insolita materia.
Campo osservativo, o piuttosto perlustrativo dell’Io, è l’interno di una casa o di una
stanza che, seppure angusta e dagli «angoli acuti» (al pari d’una scatola di Skinner) proiezione simbolica della propria personalità nell’accezione generica del termine annovera sparuti oggetti, custodisce ricordi, voci recondite che emergono da un pro-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
fondo mai rimosso, testimoniale «esperienza - scrive Fresa - di una perdita irreparabile, il cui spettro si mostra dietro ogni passaggio, come un’interna e incancellabile
ossessione». Tuttavia, il poeta avverte la precarietà dello scavo e si limita a registrare, con lucidità, l’indistinto, «la quiete, terreno incolto […] deserto/ che il vento delle
promesse/ spazza», giustappunto consapevole che quel profondo è connaturato alle
ragioni del suo canto, della sua poesia e che la poesia, come «metamorfosi della luce»
che solo può «percorrere i muri», non può recuperare il perché degli eventi, colmare
il vuoto delle domande sempre irrisolte, cancellare «un’impronta/ sui rimpianti». Di
qui il default di una pretesa di tangibilità, di un approdo certo e risolutivo; vedi l’uso
dei punti sospensivi in alcune chiuse di testo, ma anche quanto scrive l’autore stesso
in incipit di libro: «Parola pulsante […] l’esito a volte è il silenzio o il vuoto, a volte
il dubbio di un errore non ascrivibile ad altri»).
Di qui, dunque, la sola incursione in territori di confine, «nella memoria breve/
d’un pomeriggio indistinto», e il presto risalire o piuttosto planare («L’io agisce, si
alza, sbuffa,/ attraversa il proscenio/ d’un moto incontrollato,/ poi plana»). Coerente
col piano tematico è il livello formale di questa poesia. Lo stile è prevalentemente
oggettivo, asciutto e predilige la paratassi per asindeto, funzionale alla descrizione
distaccata di questo sommerso che avviene per enumerazione di ricordi e cose; non
mancano tuttavia squarci lirici, consegnati a immagini delicate (beninteso, niente
affatto anodine e/o consolatorie), quali indizi della coscienza, del «contegno d’uomo»
che non sa impedire la traccia delle emozioni, la «costante anomia/ del cuore» («lacrime allargano cerchi senza eco», «il vento che girava foglie morte»). Infine, l’uso
parco dell’aggettivazione, anch’essa neutra e impersonale, e la predilezione per un
verso, il più delle volte, lungo e accentato su monemi proparossitoni («enumerabili»,
«imperscrutabili») traducono proprio questo scandaglio lento, sommesso ed assorto
del poeta oltre la «soglia» dell’inconscio, oltre il quale l’affondo irrinunciabile della
parola poetica è votato allo smacco, all’incapacità di esprimersi, se non per balbuzie
o interiezioni («ah e oh»), a mo’ di «gorgoglio acquoreo» perché già «il buio accade»
e «la quiete» fa del dire «un deserto».
Daniele Santoro
Andrea Costantin, Il silenzio delle stelle Youcanprint 2012
Inde irae, dice Giovenale nella prima satira, inde irae et lacrimae, da ciò le ire e
le lacrime. La locuzione latina è il titolo della prima sezione e del racconto iniziale
del libro “Il silenzio delle stelle”, l’ultima pubblicazione di Andrea Costantin, il quale
di vicende di quotidiana umanità e disumanità con sentimento, ritmo narrativo, fluidità e trepidazione racconta. Nelle implicanti circostanze descritte si muove ancora il
commissario Leonardo Savelli, detective d’anima e di vita – già ben delineato nella
precedente raccolta dell’autore Luna nera – intorno al quale si dipanano episodi che
suscitano sdegno e sofferenza.Egli indaga con maggiore consapevolezza scenari
metropolitani di una contemporaneità sempre più afflitta dal declino sociale ed economico. E continuano a essere sempre le categorie svantaggiate a subirne i negativi
effetti che si configurano spesso in criminale iniquità. L’opera si suddivide in tre
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I Fiori del Male
sezioni, due di narrativa (la già citata Inde irae, seguita da Viaggi organizzati) alle
quali lo scrittore accosta, a chiusura, come nella formula già sperimentata in precedenti lavori, la sezione di poesie Il silenzio delle stelle, che dà il titolo alla raccolta.
Costantin trae ispirazione da un’attenta analisi del mondo, senza tuttavia abbandonare la sensibilità del poeta e la lucidità, anche umoristica, del giornalista: “… le cose
del giorno prima… per quanto negative, perdono molto della loro forza e spesso si
dissolvono completamente la mattina seguente…”. Ma la solitudine non spaventa chi
non è “vittima delle convenzioni sociali… non è la società stessa, quella che ha creato questa fitta rete di necessità che sono la famiglia, le ideologie e le religioni…?”. I
racconti riverberano i variegati destini dei personaggi modellati con occhio attento a
una vita “uguale a quella degli altri, fatta dalle solite cose che caratterizzano un’esistenza, dal lavoro alla famiglia, agli amori e ai dolori”. Ogni storia è avvincente e
ricca di particolari descrittivi che donano autenticità e suspense ai risvolti noir e
sociali. Non entro nel merito specifico dei percorsi narrativi perché toglierei ogni sorpresa e coinvolgimento emotivo al lettore. Il silenzio delle stelle, invece, la sezione
di poesie che chiude l’opera, sembra voler risarcire “qualsiasi cuore stanco” di ogni
oscurità e menzogna, strappare un ricordo, aprire il cielo sotto le stelle di una notte
fredda, lontano dalle “rovine / Avvolta nella nuova luce / Protetta sulla nuova via”,
nel luogo in cui “La tempesta si dissolve lenta” per spingere le tristezze esistenziali
“lontano, verso l’orizzonte / Dove il mare è più azzurro”, e, pur tra sogni inquieti,
dimenticare tutto il dolore.
Daniela Quieti
Giovanna Gargano, I fiori blu nel deserto, Lepisma, Roma 2010
nell’andare dei giorni, mi seduce la vita,/il fiorire di acqua/ che non ristagna/si
intreccia tra le pietre ricolme di sole. Basterebbero questi versi, ad esemplificare la
cifra più vera della Gargano. Stela, come luce risorta, la parola, sorgiva in una nudità di pietre. Il deserto, che è sfida di silenzio, pietrame, certo, scintilla di orme di una
zitta normalità, che si sacra nella letizia di una ricerca di un quadrifoglio/ tra i ritmi
incalzanti della gioia. C’è nella sua poesia un mistero fecondo che cattura raggi di
sole e genera lillà, malvoni fioriti nel gelo dell’inverno, inaspettati nasturzi. Si disserra insomma il blu di uno spirituale dell’anima che s’arrende al colore della rosa
bianca, al rigore dei pioppi, alla terra propizia dove sassi fioriscono al sole. Le parole, spesso intese come assoli di luce, suggeriscono orme di padri nobili, ascendenze
che dicono come la poeta abbia attraversato Ungaretti, fabbro di stupore, di cui si
ravvisa, abilmente modulato e risolto nel Presagio dell’ ascolto/. Dove germoglia
Dio?/ l’inesausto vitalismo di un nomade che, nel cielo della parola s’illumina d’immenso e s’infuria di memoria; pure s’accentua la deriva esistenziale, in questo lembo
di terra/ dove non mi so collocare/ vivo confinata nel sogno/ che mi distrae alla vita,
parabola tutta novecentesca, che qui disegna una geografia dell’anima che cerca
umile, eremita in un’alchimia di silenzi, la sorpresa della parola che barluma, come
offerta di un’ininterrotta liturgia, nell’ombra domestica di un orto, mirabilmente reso,
con tocco alla Sinisgalli, Luce segreta che s’è fatta immagine, e spoglio- ormai –
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
l’orto- paletti di ginepro nelle viti/ tonfi di ghiande. In questo deserto, dal forte valore simbolico, che pare chiudersi alla canzone della pioggia, non consola il rumore
dell’acqua piovana,sembra che gocce di luce diano ristoro e forse una più intensa
speranza, si perdono nell’agape/ delle vostre resurrezioni. Un contagio dell’acqua
carsico pare dunque scorrere e dar forza al miracolo, ponendo talora questi fiori blu
nel deserto in poetico contrappunto con l’incipit de La Terra desolata, Aprile è il
mese più crudele, genera lillà da terra morta, confondendo/ memoria e desiderio,
risvegliando/ le radici sopite con la pioggia della primavera.
Paolo Carlucci
Luca Giordano, Passa dal corpo il cielo, Gazebo libri, Firenze 2012
Nella sua parsimoniosa obiettività Luca Giordano cesella le cose, le fenditure
della terra in una sua comprensibile natura. Questa plaquette è concisa come il suo
autore, la brevità, la secchezza del verso si modella, di volta in volta, nel diradarsi
dentro un’umanità sofferente. Giordano ha fatto una scelta coerente, saggia e non trasversale, ha dato una partecipazione a un mondo “declinato” ma non spento per aver
lavorato nella benemerita Comunità di Sant’Egidio. Tra la sofferenza gioca la sua partita, spesso difficile, cupa, dove ci vuole anima e caparbia per dare agli altri un sussidio in più di vita, per coloro che la vita è stata in difetto. Luca Giordano ha la fondatezza di un pensiero in cui il corpo non è il solo che parla, dentro c’è l’anima con i
suoi aneliti e i sentimenti; quando la distonia del corpo si fa atroce allora il poeta
giunge con la parola a lenire l’altrui ferita, un segno che è ripartenza, forza del sé,
comunque significanza basilare e peculiare. Sono poesie anche dedicate per ogni persona incontrata, amata, sostenuta; Giordano epifanizza, entra col cuore nei meandri
dello spirito con una palmare e dolcissima visione, ascoltiamolo in questa poesia: “Mi
fermai disteso sulla sabbia,/mi sfiorò leggero sul viso il vento/ e fu presenza come di
un dio/segreto,epifania del tutto/in un corpo, in un cuore solo./Restò nel mio sguardo un’icona,/il grande pino e i gigli di mare,/il sale, il vento, l’acqua rimestata/da
confuse onde, la voce di lei./Su me solo alzò il capo un gatto,/sensitivo spettatore
distratto.”(Epifania) .Questo è Giordano un occhio nel mondo che non sa darsi pace
delle stoltezze umane
Antonio Coppola
Maria Lenti, Effetto giorno. Scritti diversi (1993-2012), Ediland, San
Benedetto del T. 2012
L’ultimo libro di Maria Lenti è una raccolta di brevi articoli, interventi in occasione di convegni, incontri culturali, scritti nell’arco di venti anni: un’opera di organizzazione del proprio lavoro e di memoria per salvare dall’oblio l’operato e le iniziative di persone intelligenti, attive, sensibili - soprattutto donne - che, in ambiti defilati e fuori dalle accademie e dai luoghi del potere, agiscono per migliorare la società. Dunque questo libro è anche un dono, un omaggio a chi in prima persona ha messo
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I FIORI DEL MALE
tempo, fatica nelle cose. Sono testi brevi, che si succedono in ordine cronologico, ma
li lega l’atmosfera raccolta, limpida, creata da uno stile raffinato, reso semplice dalla
volontà di aderire al pensiero e alla sensibilità e da una lunga, ormai, e amorosa pratica di scrittura. Li lega l’atteggiamento meditativo con cui la scrittrice si pone di
fronte a ogni evento non fermandosi al motivo occasionale, sempre interessante, ma
indagandone il senso profondo e i segni di un possibile futuro migliore. E’ un’operazione di scavo graduale in una zona in penombra, inevitabilmente un po’ inquieta dato
il tempo in cui viviamo, della coscienza attraverso interrogazioni sempre più precise
e osservazioni da differenti punti di vista; e via via, poi, con lo stesso metodo, di risalita alla luce positiva di una fondata ragione e della speranza. E’ questa la nostra interpretazione dell’effetto giorno indicato dal titolo. Titolo suggestivo, come altri di
Maria Lenti - Cambio di luci (2009), Giardini d’aria (2011) - che hanno in comune
proprio la luce: bianca, delicata, venata di grigio, senza colori, una luce interiore, non
fisica. La scrittura di Maria Lenti presuppone il silenzio, avverso al frastuono della
comunicazione massmediale rumorosa e vuota, e la solitudine appartata e vigile, non
relegata né astiosa, condizioni della parola che vuol farsi ascoltare, che non vuol essere urlo. «Questa solitudine io desidero riempirla di speranza…». «Questa solitudine,
mai confinante con la disperazione, con l’oscurità, anzi chiara - benché tagliente spesso -, io amerei abitarla con le tentabilità proprie della chiarezza agita.» Le due citazioni dal primo dei testi “e se dicessimo gli inizi, non i ritorni”, che parte da Marina
Cvetaeva - dove agita esprime la volontà di muovere dalla solitudine per andare
incontro agli altri, cui fa riscontro “nulla è in regalo”, l’ultimo brano di effetto giorno -, illustrano bene il punto di partenza e lo svolgersi del discorso sotteso ai testi e
proposto ai lettori. Percorso in verità non facile, per un lettore che sappia seguirlo di
parola in parola, di virgola in virgola, il quale, fatto a sua volta dentro di sé il silenzio, sappia apprezzarne ogni passaggio, ogni sfumatura, ogni spazio bianco. Le parole di Maria Lenti sono spesso rare o utilizzate in modo inusuale, poetiche, attinte da
un repertorio vastissimo, amate, cercate con lungo amore, adatte a rendere le mezze
luci e i mezzi toni, a delineare situazioni interiori, eventi che, divenuti ricordi, devono essere trattati come cose preziose, frammenti che restano di un irripetibile momento della propria vita e della vita altrui. Così «…la parola scaverà nell’oggi per aprire
chiavi del passato e lasciare varchi su un domani in finzione (secondo l’etimo), non
prefigurato, non delineato, non pre-determinato.» (da Sopra la poesia).
Maria Laura ercolani
Letizia Leone, Confetti sporchi Lepisma, Roma, 2013
L’érothesis in Platone indica l’inclinazione «erotica» alla vita: l’esercizio delle
virtù, dell’areté ; la virtù è erotica per eccellenza; per i greci l’érothesis è applicazione dei principi dell’eros: dottrina e virtù, sapienza e arte. Per gli antichi greci l’eros
era un tutt’uno con le opere e i giorni, con il quotidiano e la politica: per quegli antichi il mondo era indiscutibilmente erotico, una unità erotica; non era ancora stata
inventata la libido perché gli oggetti del mondo erano erotici nel loro fondamento, nel
loro sostrato. Per noi uomini e donne dell’Occidente parlare di «erotica» e di eros
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
come un tutt’uno con l’areté, è inimmaginabile. L’eros si è visto ridotto alla circoscrizione del corpo. Sotto l’influenza di duemila anni di cristianesimo noi non possiamo
considerare l’eros che come il prodotto di una ossessione: l’ossessione del corpo,
l’ossessione dell’istinto ingovernabile. La società borghese dell’epoca cristiana ha
bisogno di governare gli stimoli erotici. Anche il governo delle democrazie ha bisogno del governo della libido. Il corpo è stato ridotto ad oggetto di un soggetto scisso
e alienato, che andava dis-possessato e de-territorializzato; la pulsione erotica non è
altro che il desiderio del fantasma dell’Altro, è diventata un significante, è diventata
una immaginazione, è entrata a buon diritto a far parte dell’immaginario, di un immaginario contrapposto al reale. Quindi, scrivere una poesia erotica ha a che fare direttamente con la questione della democrazia, cioè del governo dei molti sui pochi. Sono
i molti che dettano ai pochi le regole del gioco, e le istituzioni che rappresentano i
molti, e le ideologie che rappresentano i molti. Scrivere un libro di poesie erotiche,
per di più da parte di una donna, è un modo per misurare il termometro della febbre
del nostro tempo, per andare a vedere di che stoffa è fatto il nostro tempo. Letizia
Leone ha dei momenti di grande lucidità quando scrive: «Usarono il giardiniere / le
gran dame degli atti impuri», o quando ironicamente ci informa che «Afrodite (ha) il
catalogo delle mele» e, poco più avanti, scrive: «Libera il cane della bellezza / cioè il
pensiero che ha ricevuto il seme». Ecco: il pensiero che riceve il seme libera il cane
della bellezza!, rovescia così i luoghi comuni che vogliono relegare il pensiero nella
sfera del pensiero, il desiderio nella sfera della libido e la libido nella sfera della
repressione; e invece qui il pensiero è fertile soltanto quando riceve il «seme»
maschile. L’eros è diventato una guerra tra i sessi:
Tacchi a spillo da guerra
per comprarti al mercato degli schiavi
e poi la corda cruda per tenerti legato,
gioiello povero
come può esserlo il diamante.
Comincerò a corrompere il tuo orgoglio
dai piedi
nudi per scorticarli sulle scaglie
di sale che ti piazzerò davanti.
Sarà poi un decostruirti
smontarti pezzo a pezzo
nelle parti segrete fino adesso latenti
con la forza di un insetto da miele.
L’eros della società borghese amministrata dal mercato è diventata una competizione
che si svolge con le regole del mercato. La democrazia amministrata dal mercato è
l’unica forma possibile di civile convivenza tra gli uomini e le donne, ergo: la democrazia esige che le conflittualità vengano portate all’interno della libido, e quest’ultima resa liquida, gassosa, aeriforme, ridotta ad abreazione; Per Freud «il rimosso, la
rappresentazione peccaminosa… è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli
interessi», e l’eros abita quell’«inferno dell’inconscio» come un dannato della
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I Fiori del Male
Commedia dantesca. L’eros è strettamente aggiogato al capitale, e quest’ultimo agli
interessi:
Tutta la sera
ti ho barcollato al collo
sulla spilla di un tacco dodici
sulla suola che mi arpionava il pollice
“sono ubriaca
o sono una balena? E tu Achab
mio capitano!
Cretina vieni a casa
sono quindici anni che ci amiamo.
*
Cercansi
amori osceni, ripugnanti, insinceri
per i reami di luce blu
streghe e nane da peep show e il principe
delle allucinazioni
Fare poesia erotica ci informa Letizia Leone ha a che fare con l’uso proprio e improprio del denaro, i frutti dell’eros sono i «confetti sporchi», così come il denaro è sporco pecunia non olet ma non puzza. E non può essere diverso agli occhi di una donna
occidentale di un paese cristianizzato, così come agli occhi di un uomo. Tutto ciò che
l’eros tocca diventa, come per magia, sporco, il gioco dei sessi è una vicenda sporca
(i «giochi barbari», «plastica barbarica», «lotta di fuoco con ghiaccio»), che deve
essere mascherata, depurata, oscenizzata. Ecco l’origine della maschera e della spersonalizzazione, l’attrazione per il ripugnante, l’osceno. Letizia Leone in questo libro
arriva a toccare questi temi con leggerezza e puntualità e, direi, anche con eleganza.
Ars Amandi
direbbe Ovidio: c’è fiamma
dentro fiamma, un piacere furtivo
che ti può squassare
così, sepolto nella carne
dai inizio ai giochi barbari
sapessi come si aprono ferite intrise
di vino,
per scherzo mi hai legato al carro
del trionfo, tua preda rarissima.
Ma questo demone della passione è l’ultimo
dono di Venere?
Giorgio Linguaglossa
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Giorgio Linguaglossa, Blumenbilder, Passigli, Bagno a Ripoli, (FI) 2013
Non poteva mancare che un vivo-morto si reincarna su un autore dalla tempra di
Giorgio Linguaglossa che pubblica un’opera passata in giudicato insieme al suo artefice, eppure queste versi tombali ci appaiono stupendamente vivi e frustranti. Se non
sapessimo chi è Linguaglossa, un finto baro dello stile, allora sapremmo a chi rivolgerci. Non ci sembra proprio che l’autore scambi il pigiama con lo gessato, tanto è
dentro e affusolato nei pantaloni e giacche attillate che lo si riconosce da un chilometro e passa. Intanto ci sembra, forse ci sbagliamo di grosso, che il prefatore Andrej
Silkin è lui stesso, altrimenti avrebbe un estimatore che lo plagia nella vita e nella
semantica. Linguaglossa ha voluto scrivere una poesia corale e spaziante, riuscendoci. La Russia, la dacia lungo il fiume, sono archetipi del suo orizzonte raffinato; ha
voluto apparire re tra i re nei suoi risvegli e nei suoi letarghi.
Linguaglossa un Linguita estremo che è capace con la parola a trascinarci nel
circo della vita con estrema facilità, ci ha prima tramortiti di mandragora e poi fatti
precipitare nel suo inferno. Ha risvegliato Faraoni e il giorno dopo cancellati, per suo
valere, dalla faccia della terra. Dalla catalessi alla doppia vita, trasformista e compiacente nei suoi venticinque anni passati a poltrire nella tomba. Catarsi forse iniziata a
Istanbul e in Resurrezione a Roma, dalla Bisanzio con la sua Moschea blu alla Roma
anfibologica. Giorgio Linguaglossa viaggia in uno sgangherato Carro di Tespi, un
circo di Clown, di saltimbanchi, di istrioni e buffoni, i suoi versi lo seguono, sono
incendi, devastazioni della parola, musica alla bacchetta del requiem di Mozart ai notturni di Chopin. Una buffoneria stregonesca e magistrale degna de La fortezza
d’Alvernia di Angelo Maria Ripellino. A noi piace Linguaglossa per il suoi incubi, per
le sue “amadriadi callipige”; eppure ha editato con Passigli, un editore moderato e
passatista, che sicuramente questa sua uscita gli ha messo una spina nel fianco. Una
poesia di uno gnostico con motivi logici e spesso tautologici, ha depauperato così
facendo l’anima, un socio serpentino con i suoi “vocaboli da fiuto”.
Antonio Coppola
Giuliana Lucchini - Non morire mai, LC Poesia 2012
non morire mai già dal suo nome, dal suo titolo, conferma di avere nella sua radice, nel suo etimo, un forte anelito verso l’inverarsi di una vita felice sotto specie
umana, per dirla con Mario Luzi, una vita in versi che giunga alla liberazione da ogni
elemento della quotidianità, del contingente, del provvisorio e addirittura da ogni parvenza delle cose immanenti. La prima sezione del libro è intitolata Invocazione; qui
si nota una natura diversificata dei versi, che sono irregolari, tutti di diversa lunghezza e ottima è la tenuta dei versi lunghi. A volte si ritrovano versi composti solo da due
parole e l’autrice utilizza non raramente il procedimento del verso interrotto e spezzato con l’a capo. Si assiste nella pagina al realizzarsi di un forte misticismo naturalistico e l’io – poetante è sempre alla ricerca di una forte fusione con la natura. La
poeta è sempre alla ricerca di una sintonia tra se stessa e l’alterità che la circonda. In
uno dei componimenti più riusciti della sezione (senza titolo), viene detto un tempio
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I FIori del Male
antico descritto con ricchezza di particolari (l’ossatura delle crociere gotiche, le volte
costruite su costoloni, la fiamma alterna delle finestre, le candele accese e sembra,
leggendo questi versi, di essere in una delle chiese più belle del gotico francese).C’è
un interanimarsi tra il corpo della poeta e la chiesa descritta (nel tempio antico del
mio corpo), verso isolato veramente di grande levigatezza, bellezza, leggerezza ed
icasticità. Il tessuto linguistico è improntato ad una grande bellezza formale e tutti i
componimenti sono sapientemente strutturati, nervosi, scattanti con le loro efficacissime analogie, metafore e sinestesie. Tutta la raccolta, che per la sua unità strutturale
è molto coesa e compatta, assume, vagamente, le sembianze di un poemetto, anche
perché la maggior parte delle poesia sono senza titolo (fattore che porta ad un’organicità che tende all’unitarietà). Sono presenti sospensione ed una certa magia nei versi
dai quali si effonde un fascino arcano, il senso di un passato, di una provenienza, che
restano indeterminati. Alta la composizione Astro/ labio, poesia cosmica, nella quale
la Lucchini mette in scena l’immagine, la costruzione di parole, di una stanza surreale piena di stelle, quasi che la suddetta camera possa confinare con l’immensità delle
galassie e della Via Lattea. In questa poesia si riscontra un afflato cosmico o metafisico e la stessa composizione diviene un volo per un virtuale viaggio ultraterreno, il
balzare oltre la siepe leopardiana, pur, paradossalmente, rimanendo nella propria
casa. Fluisce nelle pagine un forte senso di spaesamento e c’è la ricerca che consiste
nell’entrare in contatto con l’infinito, oltre il limite dei sensi, di entrare in sintonia con
l’indefinito e divenirne (se mai fosse possibile) una sua estensione. Il dettato è chiaro, veloce e luminoso. Vengono dette tonalità affettive differenti tra loro e la poetica
espressa dall’autrice è sempre in bilico tra gioia e dolore. Il testo si articola in maniera mirabile e sublime a livello architettonico. In sede critica ci si è sempre interrogati sulla natura metafisica della poesia e in molti pensano che la poesia nella sua essenza sia sempre metafisica. Non condividendo chi scrive questo assunto, penso che si
possa affermare che la poesia di Giuliana Lucchini sia sempre metafisica tout-court
per il suo accentuato carattere mistico e incorporeo, etereo e leggerissimo, come un
foglio di carta velina trasparente e resistentissimo. Se c’è un referente al quale la
poeta può essere accomunata è il grande John Donne, per il suo accentuato carattere
trascendente e trascendentale dei versi. In Interni, seconda sezione del libro, e nel suo
proseguire, la dizione si fa più complessa e articolata e c’è un aumento del livello di
scarto poetico dalla lingua standard.. I versi divengono più criptici e c’è un intensificarsi del fascino connaturato a questa poesia.La Lucchini con non morire mai, produce un’opera veramente originale che, tra l’altro, ha venature neo orfiche.
Raffaeele Piazza
Luigi Marinò Testimonianza dell’Opera Campi…Aloysii (in unico volume)
Zibaldoncello semiserio in prose e versi - Scorpione Editrice, (TA) - 2013
Ho letto con profonda attenzione il volume dal titolo:“Campi Aloysii alternato tra
prosa e poesia, oltre ai numerosi interventi che testimoniano il lungo percorso creati
vo del Professor Luigi Marinò. Questa particolare raccolta variegata e ricca di contenuti, è tale da esortare alla lettura, in quanto suscita la sensazione di calore non solo
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
per legami affettivi ma, anche stimolanti ed utili per le importanti rivelazione, riportate nel testo. Mi ha colpito, il ricordo dell’Autore, del suo “dolce rimembrare” a
ritroso nel tempo, di quelle figure pulsanesi che hanno dato lustro ed onore. Un riferimento dovuto, per conservarlo immutabile, nel cerchio celestiale delle loro anime,
affidate alla memoria. Un salto nel passato e nel presente per restare sempre vivi nel
pensiero che unisce e mai si disperde, pur nel distacco. Prova essenziale, per quelle
nuove generazioni che, per necessità, lasciano la propria terra nel bisogno costrittivo
per una flebile speranza di accedere nel mondo lavorativo, nella sottile convinzione
di farcela a causa della crisi del nostro tempo. Vivere nel paese, sarebbe la via migliore per gioire della propria terra, pensiero costante dell’emigrato per sentirsi partecipe
e vigile di ogni iniziativa. Una sorta di ‘dono’ recato al Paese, così come si è profondamente impegnato il nostro caro Professor Gino Marinò, il quale ha colto in varie
forme, ogni possibile impegno per dare al volto della cittadina pulsanese, quanto più
di possibile. Oltre alla Sua Opera ed altre iniziative letterarie, è fondatore
dell’Associazione Culturale “La ‘ngegna”.
Fra le tante liriche, mi ha particolarmente:
“Progetto embrionale di scrittura”
Sì,
devo far presto,
prima che sia troppo tardi
e non ne valga più la pena,
prima che la memoria si sfochi
e se ne vadano gli ultimi pochi
ostinati
che ancora imbiancano
di calce la casa.
Devo affrettarmi
a sciogliere in canto
questo nodo impigliato
nel pettine dell’anima mia:
Pulsano
Un libro così coinvolgente che, per impostazione e per insegnamento, resta e resterà
importante nel suo riferimento, vivo nelle sue parole preziose e riflessive.
Graziano Giudetti
Mario Mastrangelo, Nessuna voce, Raffaelli Editore, Rimini 2011
nessuna voce è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Mario Mastrangelo; un
libro bifronte, se l’idioma materno (nella fattispecie, il dialetto salernitano) si accompagna con la traduzione in lingua; una resa, certo, necessaria alla comprensione dell’opera fuori dai confini ‘municipali’, ma che tuttavia non mira a essere semplice traduzione dal vernacolo, a detrimento della forma originaria, quanto piuttosto riscrittu-
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I Fiori del Male
ra – come pure annota l’autore – «aderente il più possibile al testo dialettale, ma guardando pure alla scorrevolezza, al ritmo». «La poesia è musica di parole, sequenza
sonora che freme d’emozioni, di pensieri, di sensazioni» – si apre così la prefazione
di Franco Loi – e tale incipit bene si adatta alla poesia dell’autore salernitano; una
poesia pregna di vive emozioni e di palpiti sinceri la cui macrotematica di fondo, già
ampiamente esperita nei precedenti libri, è quella dell’amore; un amore dalle molte
sfumature che non è solo forza salvificante che libera da «la paura del mondo e […]
dissolve / la pena che ci danno le giornate», ma occasione per inneggiare la bellezza
del creato, per affermare lo stupore del mondo e insieme «il miracolo antico del dire».
Di qui, i grandi e universali temi, affrontati dalla poesia di Mastrangelo, della precarietà dell’uomo; dell’inevitabile scorrere del tempo; del senso recondito delle cose,
del loro «profumo»; del Dio che alberga in esse e che l’Io orante del poeta invoca con
accenti liricamente partecipi («le mani di Dio son calde di creazione / vi son rimaste
ancora sulle dita / molliche di luce»).
Un inno alla vita e ai suoi misteri. Un inno alla bellezza del mondo, quale pure
traspare nei testi dalla sensuale e soave eleganza di certe immagini: «ragazze dalle
cosce bianche di madreperla e avorio», «la magia di un bacio» che «è un fiato di
corallo / che bagno di letizia il mondo intero» o ancora «la macina della notte / sfarini in cielo l’immenso delle stelle». Perderemmo tuttavia di vista il senso della raccolta se passassimo sopra l’atteggiamento dell’autore che qui, più che nelle precedenti raccolte, sembra attraversato da una maggiore mestizia – esito probabilmente di
un’acquisita e consapevole maturità, anche etica – sia per l’inevitabile sfiorire delle
cose («quando la vita al ricordo ci inchioda») sia per un mondo che è talora crudele
e spietato, «stretto nel suo mantello di realtà»; una mestizia che non sfocia però in
cupa rassegnazione, se forte e partecipato si leva ogni volta l’invito, l’appello del
poeta al cuore degli uomini nel «cercare i grani d’immenso / quando nelle mani vi
passano le cose», nell’inventarsi «una terra dove far scorrere / ruscelli di fantasia
tutti da bere», nell’affidarsi al «calore / ch’è antico» di un abbraccio «dove c’è tutta
l’essenza / e il segreto delle cose, e i respiri / sono cuciti al bello del creato».
Daniele Santoro
Nazario Pardini, Dicotomie The Writer Editore Milano 2013
Nel profondo coinvolgimento emotivo e nel piacere intellettuale che la lettura dei
versi di Nazario Pardini raccolti nel volume “Dicotomie” mi ha procurato, desidero
aggiungere, alle tante prestigiose note critiche, le mie amichevoli parole a commento. Il dettato poetico rivela uno spirito vibrante di passione, dolore, sentimento.
L’Autore attinge dall’unica fonte in grado di far sgorgare il vero canto: il cuore. La
dedica in esergo “A mio padre e a mia madre che hanno immolato la loro vita sull’altare dell’amore” permea tutto il volume di sublime pietas, incancellabili memorie,
speranze, umana civiltà e inciviltà che, pur fra le stridenti ambiguità contemporanee,
restano incancellabili nell’anima. Una Musa, quella di Pardini che freme, soffre,
sboccia nei giardini del reale per decollare verso arditi approdi dove convertire, forse
in gaudio, le lacrime. Non saprei dire quale dei componimenti sia il migliore: tutti
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
possiedono una nobile orma di purezza, schietta ispirazione, liricità, raffinato labor
limae, impronta che sanno dare alla proprie opere soltanto i grandi scrittori e gli spiriti capaci di risalire dal crudo materialismo verso gli alti cieli degli ideali. E che siano
ricordi di guerra sulla strada, in trincea, miti oppure fragranti giornate di luce in una
rinascente campagna, o ancora piane azzannate vicino al mare, ombrelli di carta, barche di fuscello salpate da “coste opposte” verso il sogno di una “terra di pane e lavoro”, tuttavia un “raggio scampato alla sera” non si piegherà “agli artigli dell’ora”.
Sono immagini che sottendono inquietudini e raccontano l’ansia del proprio e dell’altrui diverso destino con densa spiritualità, libertà ed eroica meditazione: solitario privilegio dei poeti, semmai “in uno spazio vasto in mezzo ai platani” di una campagna
profumata di terra e mare “tra il chiarore di lame / che vanno all’infinito” e respirano “aria d’eterno”. La caducità dell’essere nel dualismo del “cemento che guasta la
collina” fra i “detriti dell’ingordigia umana” e “quei giochi del tramonto sopra il
campo” s’incarna nella materialità di parole dense di pathos, raffinatezza intellettuale ed esperienza etica. Il poeta condivide luci e ombre dell’umana sorte e dei suoi
misteri nel vasto universo senza mai perdere la percezione di un originario, incontaminato stupore. Se, come afferma Eraclito, “l’armonia delle cose sta proprio nel
perenne mutamento generato dal polemos tra gli opposti, così le “Dicotomie” di
Nazario Pardini celebrano la meraviglia di un’empatia emotiva che illumina ogni
opacità del cuore. E nell’intimo tormento di un consapevole tragitto terreno, quando
più forte si fa il bisogno di confortarsi dai colpi improvvisi dell’esistenza e di proteggersi dal freddo delle bare, “in qualche luogo… l’alba nasce… là dove il gelo non
arriva mai”.
Daniela Quieti
Laura Pierdicchi, Voci tra le pieghe dei passi, Edizioni del leone, Spinea
(VE) 2013
L’esperimento che ha interessato il lavoro di Laura Pierdicchi è quantomeno
nuovo e ha un suo comune denominatore. Esperimento a più voci in un altalenarsi
cangiante mosso su tutto l’arco inventivo nel libro Voci tra le pieghe dei passi. Per
fare ciò la Pierdicchi ha messo in campo la sua collaudata capacità di talento nei passaggi tra più destinatari; un ottimo libro del sé e di un “tu” dove molti punti di contatto regolano questi “travasi” d’anima. Il taglio è lirico e narrante, procede per vie
maestre toccando l’esoterica vitalità dell’artista, il suo mondo interiore ed enigmatico. Quasi una perfezione formale da più passaggi, elisioni, chiose; c’è in tutto il lavoro una coscienza aperta messa a frutto dalle sue azioni temporali e spaziali. Libro “a
tempo” che costituisce un vaso di Pandora, un alambicco di voci sempre interiorizzati e frementi. Pierdicchi ha una sua identità metaforica e poetica che la formula attraverso l’oggetto-soggetto con più soluzioni di continuità ma anche di contrasto e, spesso, le immagini evocate sono tentazioni, squilibrio e trasfigurazione. Anche le repentine mutazioni del carattere tipografico sentenziano in nuce una figura, un movimento, un ellissi. Sono percorsi “non piani” che richiedono un approfondimento psicologico, per noi rimane sottaciuta una sofferenza, un “dove” che non si ferma e agghiaccia nella frase, si espande e rutila in mille fermenti e contraddizioni. Come non assor-
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I Fiori del Male
bire Venezia nel suo andare disordinato con i tanti segni di inquietudini, sentiamo
questo passaggio:“… Piano la barca/ con i pochi beni da portare/ per l’ultimo transito in Canal Grande./enorme il peso del distacco-/ un vagone di lacrime frenate.”
Laura Pierdicchi timoniere dal grande occhio ha creato “3 Tempi” non di reale certezze ma di probabili vergenze che sono la voce che va e non apparenze vane “per
coltivare miraggi”.
Antonio Coppola
Luigi Fontanella, Disunita ombra, Archinto, Milano 2013
Luigi Fontanella divide il suo tempo tra New York e Firenze. Ordinario di Lingua
e letteratura italiana è direttore del programma d’Italiano presso la State University di
N.Y.; è poeta, critico, narratore e drammaturgo. Disunita ombra, pur nella sua chiarezza e nitidezza espressiva, presenta una poetica che tende all’inconscio, allo scavo
nell’interiorità di una memoria che si concretizza in evocazioni di situazioni quotidiane, che hanno per oggetto soprattutto i viaggi in aereo e treno del poeta, attraverso
una tematica, quella della viandanza, già presente nella raccolta Azul. Il titolo del
libro mette in luce l’aspetto di una psiche del poeta che è da chiarire, da portare alla
luce, da far emergere dal fondo, appunto quello di un’ombra disunita che tende a trovare la sua coesione e la sua armonia, attraverso la scrittura poetica. Il testo è scandito in sei sezioni e presenta una struttura architettonica efficace e compatta; la prima scansione è intitolata Luoghi e persone; seguono Racconti Disunita ombra,
Variazioni sul vento, Animali e Bertrang. Come scrive Sebastiano Aglieco nella prefazione “la poesia di Fontanella è attraversata da una misteriosa malinconia della perdita che spesso si realizza nella dimensione di un temporaneo distacco, uno sdoppiamento ad occhi aperti”.
I testi, a volte di prosa poetica, sono spesso affabulanti e presentano una forte
densità metaforica, sinestesica e simbolica, nella notevole icasticità del dettato.
Spesso le poesie sono senza titolo e alla fine di esse sono scritti il luogo, la data e
anche l’ora della loro stesura; la loro forma è leggerissima e rarefatta, connotata da
eleganza di stile. I versi procedono attraverso un ritmo cadenzato e sincopato e sono
irregolari tra loro per lunghezza e questo elemento ne accresce la musicalità e ogni
strofa è risolta senza punteggiatura, nella maggioranza dei casi. Frequente è l’aggettivazione ed è presente una vena mistica, soprattutto quando vengono detti gli angeli. Tutti i componimenti sono alti e sorvegliatissimi. L’io-poetante è molto autocentrato, pur nel suo rivolgersi spesso ad interlocutrici delle quali ogni riferimento resta
in gran parte taciuto e si avverte spesso il senso di una temporalità che passa inesorabilmente. Le poesie presentano un tessuto denso e rarefatto e sono spesso verticali;
in esse, il poeta riesce a creare atmosfere di vaga bellezza. Lo stesso pensiero si connota come entità volante, come nella poesia scritta alla Stazione di Padova, nella
quale il poeta è in attesa del treno. Bisogna mettere in rilievo che la poesia del nostro
è fortemente caratterizzata da accensioni ed epifanie sempre ben calibrate. In Le
nostre numerazioni, scritta a Roma, poesia tratta dalle prima scansione, è detta la trepidazione del poeta per un amico malato: in questo componimento i libri sono detti
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
come farmaci, quasi come se l’effetto della scrittura, poetica in particolare, potesse
garantire la guarigione. Si riscontra nel testo anche un forte senso del sacro, come in
L’Angelo della neve; in questa poesia predomina la tinta bianca ed è detta una natura
rarefatta; qui viene nominata una ragazza tutta vestita di bianco, ferma davanti al
Nelson; si assiste qui ad una fusione della fanciulla con la neve, con la quale diviene
una sola cosa nel suo cappottino bianco; la ragazza ha un candido sorriso: i versi
hanno un tono sognante e scattante e spesso le composizioni sono risolte in un unico
respiro. Molto efficaci le poesie ambientate in America, Praga e Vienna, come
Volksgarten, nella quale è espressa la ricerca dell’anima sognante di Emma e dell’antica essenza di Vienna.Nel libro sono presenti brani di prosa poetica e un continuo
interrogarsi sul senso dei luoghi.
Si incontra il sintagma disunita ombra, nel bel brano (per Anna Maria Ortese),
scritto in prosa. Nel libro ritroviamo paesaggi interiori, che si rispecchiano in paesaggi dell’anima ed è notevole l’eleganza formale e le descrizioni naturalistiche sono rarefatte. Nel testo è presente il poema narrativo Bertgang, che l’autore, data la sua particolare tematica, ha ritenuto opportuno inserire in questa raccolta, apportandovi alcune lievi modifiche; come scrive lo stesso Fontanella in una nota, continua a ritenere
questo testo un “esperimento”, anche linguistico: riprodurre in poesia, con un proprio
ritmo, l’aura magica e remota del racconto Gradiva Fantasia Pompeiana di Wilhelm
Jensen del 1903, che tanto piacque a Jung e a Freud; nel denominarlo poema non c’è
da parte dell’autore nessuna pretenziosità, ma soltanto, appunto, la sua volontà di indicare la sua specifica natura metatestuale e, al contempo, il suo carattere di narrazione
lirica..Testo composito, Disunita ombra, che si può considerare un esercizio di conoscenza tout-court, nella sua esplorazione dei meandri della psicologia umana, attraverso una scrittura dalle tante tematiche e variazioni, anche sullo stesso tema.
Raffaele Piazza
Carla Zancanaro, Metropoli Tana, Rupe Mutevole, Parma 2012
Tramite una stesura che non lascia spazio a nessuna divagazione e che incide nel
profondo, Carla Zancanaro racconta nel suo nuovo volume Metropoli Tana delle storie estreme. Chi si accostasse alla lettura senza conoscere il nome dell’autore penserebbe di trovarsi di fronte ad una scrittura maschile, poiché certe espressioni rasentano una crudezza impressionante che si discosta dal comune sentire femminile, come
del resto certi punti di forte erotismo. La Zancanaro dunque si distingue per il suo raccontare privo di romanticismo. Già il titolo Metropoli Tana identifica un luogo e una
condizione in netto contrasto. Mentre nella metropoli vi è una moltitudine di persone, la tana denota un isolamento, un rifugio, come succede appunto a Odisseo (che
raffigura forse la stessa Zancanaro e che apre e chiude il libro) costretto a fuggire per
la sola colpa di essere padrone della “parola” e che ritrova la sua dimensione in una
caverna nella quale può realizzare la sua immaginazione. Se nei racconti non si trova
del romanticismo, non significa che l’autrice manchi di sensibilità, anzi, vi si trova la
capacità di rilevare situazioni dolorose e scavare sempre più nel profondo sino ad arrivare a risultanze scabrose. I suoi personaggi hanno dentro un’angoscia che li devasta e
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I Fiori del Male
che li unisce nel buio sotterraneo della metropolitana, annullando le loro vite: “non
esiste il tempo nel regno delle ombre, l’oscurità rende tutto opaco, incolore e chi vi
sosta è solo un ectoplasma, la proiezione di una mente malata.”. Le loro esistenze
sono state spezzate da avvenimenti tragici, e solo in quella tana rifugio possono accomunare qualche attimo d’umanità. Anche per la protagonista dell’ultimo racconto il
destino delinea un evento traumatizzante, che le cambierà la vita in un momento.
Basta, infatti, un tocco sbagliato per trovarsi nell’abisso della “bestia”:
“Inavvertitamente la mano urtò contro il seno sinistro, incontrando una protuberanza dura come un sassolino …”. In questo mondo segnato dall’egoismo e dalla corruzione, gli emarginati non potranno mai uscire dalla condizione di “ombre”, perciò
Carla Zancanaro ha il merito di aver denunciato questa piaga sociale rivelando il loro
estremo malessere fisico e psicologico: un grido che purtroppo si perde nel nulla.
Laura Pierdicchi
Nuovi Salmi (a cura di) G. Ribaldo e G. Dino- Copygraphic, Palermo 2012
L’antologia nuovi Salmi è un’opera di straordinario amore religioso e poetico di
riscrittura di tutti i salmi in cui ciascun autore ha potuto scegliere l’argomento traendo ispirazione da uno solo dell’Antico Testamento. Hanno partecipato al progetto
antologico 150 autori contemporanei, credenti e laici, che, a seconda della loro formazione culturale, religiosa e filosofica, ricca di sensibilità, di sapere, di animo disposto al vero e al bello hanno composto una poesia di ampio e sacro respiro. Dalla lettura dei componimenti emerge una profonda spiritualità e una adesione sincera dell’io che evade dalla sua solitudine metafisica e si fa testimone della problematicità del
reale mettendosi in comunione con Dio. Nel corso dei secoli i salmi tradotti in italiano mostrano in modo chiaro i canoni poetici del loro tempo e un sentire adatto
all’epoca. I salmisti d’oggi in questa originale reinvenzione poetica usano nella scia
della tradizione del Novecento il verso libero e quindi con più possibilità di espressione e non costretti nella gabbia dell’endecasillabo o degli altri metri, pertanto come
scrive Bàrberi Squarotti nella prefazione al testo, “il salmista attuale ha potuto privilegiare non soltanto l’argomento specifico del singolo salmo, ma ha potuto in questo
modo attualizzare spesso all’estremo il messaggio religioso e spirituale e sacrale di
esso.” Il linguaggio stesso liricamente alto e pervaso di sentimento religioso sprigiona una eufonica bellezza musicale che diventa un inno di lode al Signore. I poeti, pur
in una fusione di stili da quello sublime e simbolico a quello concreto e umile, attingono con maestria alle figure di pensiero e talora ad espressioni di crudo realismo
muovendosi in ampi spazi tra il cosmo, l’uomo e il nostro tempo. Affiora una immagine esemplare del poeta che con voce ora supplichevole ora dolente ora veemente
innalza lode e invocazione a Dio come rimedio al male della storia e al relativismo
dell’oggi. La lettura di questi salmi reinventati induce a riflettere e a considerare il
vario universo spirituale e l’umanesimo degli autori nel rappresentare, tra l’altro, il
dramma degli emarginati e dei derelitti, nello stigmatizzare la maschera della politica insensibile ai bisogni della gente, nel levare il grido di dolore e la preghiera al
Signore salvatore. Risaltano nella composizione differenze di emotività e di storia
personale, sono presenti gli interrogativi, le ansie e gli umori di ciascuno; perciò si
può affermare che il libro dei nuovi Salmi, colmo di suggestioni poetiche e spirituali, raffigura il palcoscenico poematico tra l’uomo e Dio.
Francesco Dell’Apa
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Robertomaria Siena: De Minimo- Marte Editrice- Colonnella (TE) 2013
Il titolo De Minimo di questa deliziosa plaquette fa supporre al primo impatto un
contenuto leggero di varia cultura; leggendo, però, con attenzione il sottotitolo
(Pittura, Letteratura, Filosofia) appare subito con evidenza che la materia trattata
comporta profondità, acume, originalità di scrittura. La copertina, impreziosita dal
ritratto Il turno dell’attesa dell’eclettica Silvana Baroni in cui “un personaggio contiene un paesaggio,” bene si armonizza con i testi. Sono in tutto trenta medaglioni
divisi in parte uguale in tre sezioni. Robertomaria Siena esprime in modo apodittico
verità soggettive che esulano perlopiù dai canali storicizzati e divulgati dalla tradizione. Colpisce dalla loro lettura la capacità di sintesi dell’autore nell’esprimere un concetto; per attenermi alle parole di Anneo Seneca “pressa sunt omnia et rei aptata;
loqueris quantum vis et plus significas quam loqueris (ti esprimi in modo stringato e
adatto all’argomento, dici ciò che vuoi e riesci a fare intendere più di quanto dici”(
Ep.ad Lucilium LIX ,5). Risulta un logos maturo e macerato da uno studio meditativo e dalla dialettica nel confrontarsi tra sé e l’altro. Il sentimento del bello e del diverso attraverso il ragionamento maieutico offre perle di saggezza sui vari campi del
sapere. Quindi nessuna “rivelazione” che viene ontologicamente e in modo dogmatico bensì una visione “laica” per giungere al verum. Destrutturare per affermare l’essenza della “cosa” rivela, quindi, un confronto socratico perché il pensiero viene a
svilupparsi attraverso tesi e antitesi. Il merito di Siena è quello di non ripetere giaculatorie per una sorta di pigrizia mentale o per convenienza, di tenersi lontano da vuote
affabulazioni ma di esprimere giudizi motivati addentrandosi negli aspri e difficili territori dell’arte, della letteratura e della filosofia con un linguaggio alto, concreto, chiaro. Ne deriva una rete molto fitta di temi, di contenuti, di figure, di definizioni, di
distinguo, che motivano il suo impegno di scrittura, e la cui ricchezza mostra il valore del libro.
Francesco Dell’Apa
Roberto Pagan, Le belle ore del Duca, Edizioni Cofine, Roma, 2012
Ore di vera Poesia quelle che ci offre Roberto Pagan con questo piccolo grande
libro dove i versi accompagnano le dodici raffinate miniature medievali tratte da le
Très riches heures del duca di Berry, opera dei fiamminghi fratelli Limbourg, morti
di peste nel 1416. Calendario poetico che si apre con una scherzosa ballata, già
dichiarazione d’intenti nell’invito rivolto dalla gentile dama al menestrello, affinché
canti per lei il Tempo. Si presentano dunque i mesi, ciascuno con il proprio segreto e
la propria verità che solo il verso può rivelare. La serie dei mesi racconta le illustrazioni di un’ epoca antica, giostra di dame, cavalieri e contadini, di paesaggi e stagioni, di viti e di grano. Mondo non troppo distante, perché è sempre dell’uomo che si
tratta, dei suoi vizi e dei suoi sogni condensati in una sorta di Medioevo contemporaneo. Ecco allora Gennaio con la festa in onore del Duca, potente signore :. “così
vani/l’orgoglio l’opulenza/terrena …” e l’ora è dunque/ un’ora, amico,/di stolida
superbia”. Febbraio è l’illusione di un sogno, l’attesa di un risveglio “Forse fuoristagione la bianca/ virtù della neve. Tu guardi da lato/ dentro e fuori la scena, aderi-
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I Fiori del Male
sci/solo al presente ….”che giungerà forse a Marzo”Potare nel chiuso recinto la vigna
dei vecchi pensieri: chi sa quali germogli verranno/ sul tralcio sfibrato …” E poi
L’amore scontroso di Aprile Verrà inaspettato/se ne andrà senza saluti/non sa di etichetta/ scortese/ e senza memoria/”. e Maggio cavalca senza stagioni .. è andare via
nella luce … è il nostro mattino immutabile … Giugno, sesto dell’anno, fa da spartiacque; la favola si fa seria, incalza l’attesa verso qualcosa che dopo accadrà e suscita un
brivido, se pensiamo al momento in cui il libro è stato concepito e dato alla luce alla
vigilia del millennio, un dettaglio non di poco conto, lo accogliamo come investiti da
una visione profetica di cui la poesia a volte è messaggera: … gemelle le torri/dal tetto
di fiamma, gemelle/ come le anime quanto/ma raramente lo sono/Durerà quanto quest’opera/assidua dei campi?e questo ripetersi/ dei nostri gesti e delle stagioni?. Vola
l’estate e con lei volano i versi che l’accompagnano: “ Mieteremo, girasole del tempo,/
le spighe del nostro domani/chiederemo alle pecore il vello/per inverni futuri: è speranza/ in attendere. Ma è chiuso da un muro/invalicabile questo orizzonte/… Giunge poi
L’austera bilancia a settembre, quando tutto vendemmia, ma quale equilibrio … su un
mondo precario/malato di instabili umori, è un ebbro/ principio che sceglie tra il bianco/e il nero che regola e taglia/e sancisce che il falso è contrario/del vero/ che l’angelo è biondo/e bruno il demonio che il vizio/soggiace al virtuoso che vince…” E poi è
Ottobre che passa:Chi è mai che conosca/del bene e del male/l’ondosa vicenda/le cento
varianti?...e anche Novembre quando “Minaccia dal buio del cielo/ora l’infido scorpione/non più insidioso dell’uomo: è la gola … ora qui ci conduce/a bere insieme col
bruto/al rivo scarlatto natura/che regola il gioco.
Infine la chiusa di Dicembre è il richiamo etico, l’ammonimento severo subito
stemperato dall’ariosità azzurra di una indomita speranza: “non valgono i nostri
castelli/ i nostri obelischi più alti del cielo/a farci diversi dai cani/… è l’ora di chiudere/ i conti con questa ferocia/dei vecchi millenni:domani/apriamo finestre
d’azzurro/che circoli l’aria/di un secolo nuovo”. Si legge questa preziosa plaquette e se
ne ascolta la voce, quella autorevole ed energica di Pagan nel cd correlato, come soggetti ad incantamento - non soltanto l’eco di Boiardo, Berni, Ariosto - trasportati dalla
musicalità e dal suono uniti al rigore del verso: autentica magia di un poeta che sa come
far combaciare la circolarità del tema, il cerchio misterioso dello Zodiaco e della vita,
con quella della poesia, perché solo così tornano i conti, stilistici e formali, a prescindere dallo stato di grazia di cui Pagan ironicamente ci ha messo a parte attribuendolo
all’eccezionalità di una visita - quasi una possessione! - dello spirito di Baudelaire, al
quale l’autore rende omaggio nell’esergo.
Marzia Spinelli
Raffaele Urraro, ero il ragazzo scalzo nel cortile, Marcus Edizioni, Napoli 2011
Le cose di cui Raffaele Urraro ci parla, quelle cose come le chiama in premessa,
sono quello che sono come indicano i versi di Franco Marcoaldi in esergo, in ottima
compagnia con il brano di Leopardi e la frase di Saramago, i quali, tutti insieme
vanno nella stessa direzione, quella della parola giusta, che va dritta dove deve andare, seguendo la voce unica e vera della poesia. Di poesia della memoria sembra trat-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
tarsi a prima vista, poiché l’autore, poeta e studioso affermato, torna alle proprie radici, alla propria storia di bambino e ragazzo in quel Sud travagliato da un perenne
destino di fatica:”quando mi fermo a navigare nei ricordi/mi si stringe il cuore/ “era
il tempo felice nella miseria”/quando il ragno tesseva la sua rete/per catturare i
sogni/. Ma l’originalità di questo attraversamento nella memoria consiste proprio nel
dar voce al bambino e/o al ragazzo, grazie alla scelta di una purezza di linguaggio, di
una semplicità, nel senso migliore, dichiarata in premessa, che sola può rendere la
complessità di un vissuto emozionale privato. Così quel passato si fa presente, a
sostegno di un messaggio essenziale e vitale nella sua attualità: la speranza dettata
dall’amore: “solo le mani di mio padre/sentivano il respiro/lamentoso della rugiada/e
il fremito fecondo/del solco pronto a covare/il seme della speranza/”.Speranza investita in un futuro migliore, tutta incentrata su quel bimbo, quasi a farne un predestinato : “come sembra bello/con la boccuccia aperta”scrisse mio padre a casa//avevo
tre mesi/e mio padre mi vide per la prima volta/in una foto spedita in Albania//la
guerra l’aveva portato lontano/dal mio primo vagito/dal mio primo sorriso//seduto
su una pietra masticava/rabbia e amore”/. La poesia viene da là, da quell’amore e da
quel sogno di riscatto cui l’autore è rimasto fedele, come fosse stata una promessa
muta, fatta ai genitori e agli amici importanti cui il libro è dedicato, perché il vero
segreto delle voci/che parlano anche parole più mute del silenzio/ma parlanti più
d’ogni parola/. È la voce di quel bambino che sentiamo, la sua innocenza e il suo sgomento e insieme a lui possiamo “gustare”lo strano sapore delle cose/ di una
volta//cose brusche e crespose/come figlie di natura/aspre e dure/… lo strano sapore di quelle cose, che non sostano ferme “nella stanza della memoria” ma inducono
a una riflessione sulle cose dell’oggi, di cui non sappiamo più forse né il nome né il
valore.
Marzia Spinelli
Giuseppe Vetromile Percorsi alternativi, Marcus edizioni 2013
Narrare del tempo infinito, quasi viaggio nell’inimmaginabile creato che ci circonda, seminascosto allo sguardo impreparato, è un improvviso ruotare intorno al
mistero della quotidianità, ammesso che essa quotidianità possa essere di volta in
volta stravolgente e fantasmagorica. Vetromile cerca, con arguzia ed ottima preparazione, di indicarci dei “percorsi alternativi” adatti a ritrovare qualche via nel sottobosco, per raggiungere qualche meta inaspettata, per scegliere il bivio più propizio, per
riuscire a decifrare la mappa, per venir facilmente fuori dalla nebbia, per non franare
in miseri passi, ed infine per lasciarsi trasportare nel regno delle favole. Ogni testo è
una tappa del viaggio, un percorso dell’umano affanno per sottrarsi alle insidie della
sopravvivenza, del caos e di Thanatos, e per riuscire a focalizzare quei valori spirituali che troppo spesso vanno abbandonati ad ogni passo fallace. Nel “prefazio” egli
scrive semplicemente: “I miei percorsi alternativi sono ricerche di possibili strade
d’essere, nella disperata speranza che l’ultima stazione non ci sia, o che rimanga così
asintoticamente lontana, da essere praticamente irraggiungibile…” – Una vera e propria illusione che soltanto la poesia riesce a immaginare.“Una via di fuga per sempre/
oltre i ricircoli e i ritorni/ se il punto non è più qui in mezzo/ mai ci troverà la fine del
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cammino/ spezzettati di qua e di là o incerti/ richiusi e stabiliti/ fissi ormai nella
terra.” Una corsa senza affanni, nella quale il verso si dilata in lunghissimi ritmi, per
realizzare alcune sequenze di un film estremamente coerente, in un crescendo di tensioni, che costituiscono la cornice emotiva della cronaca narrativa. Trama sofisticata
ed essenziale, che conferisce concretezza ad alcuni accenti meta teatrali, scivolati
verso la sorpresa o verso la comprensione e la conoscenza della misteriosa geometria
sociale.
Antonio Spagnuolo
A. Zagaroli- M. Rasi: Trasparenze in vista di forme- Libraria Padovana
Editrice / Chelsea Editions 2011
Questo esile volumetto ha il merito di proporci il linguaggio letterario e quello
delle immagini in stretta e ammiccante liaison il cui impegno di scrittura agisce attraverso l’introspezione di sé e la rappresentazione oggettiva di figure concrete, di
oggetti, di personaggi. Lo stretto rapporto tra poesia e immagine lo troviamo non solo
nel modo greco con Teocrito nel calligramma la Zampogna, dove l’oggetto viene
riprodotto graficamente, e in altri autori ma pure nella famosa massima del venosino
Orazio ut pictura poesis riproponendosi dopo secoli ai nostri tempi. Sono numerosi i
testi pubblicati in questo connubio. Non si tratta di un accostamento in chiave soltanto sensoriale bensì la trascrizione del dato visivo in eco sentimentale che si traduce
nella bellezza eufonica della musicalità del verso che entra in sintonia con il flusso
naturale dello stato d’animo dell’artista e del poeta. La chiave semantica e musicale
di queste liriche trova la sua bellezza nella rima –assonanza che riflette il linguaggio
delle immagini. In Mariangela Rasi l’artista con le foto designa un mondo vario, geometrico, tinto dal rosso che bene si integra con l’espressione poetica dove si può
cogliere nell’immobilità dell’immagine un sentimento di smarrimento e di solitudine
e quel quid di mistero dell’uomo seminascosto senza alcuna identità. La poetica di
Antonella Zagaroli evade da confini definiti di etichettatura e la poesia diviene l’habitat dove il linguaggio si deforma e scava con passaggi inquieti e corrosivi sulla problematicità e la storia dell’uomo: Similformiche/ cascami d’uomini/ disperdono passi/
nelle pliche sanguinanti storia di soprusi,/ unguenti dall’arte e dalla natura permessi/ hanno perso gli ingegni/ perdono, carezze abbracci/ a volte sopravvivono in una
giornata di sole. L’orditura appare frantumata volutamente da una inquietudine esasperata e dalla forte tensione di andare oltre perché Una veste stracciata in cerca di
mammelle/ è l’incubo/ di chi intuisce il cosmo spento degli umani. L’artista e il poeta,
pur partendo da esperienze e linguaggi diversi si confrontano e dialogano tra realtà e
immaginazione mettendo al centro del loro universo l’uomo, essere transeunte, nel
quale talora predomina l’irrazionale e la follia e come nei drammi antichi indossa la
maschera per assumere altri ruoli nella vita.
Francesco Dell’Apa
Marzia Spinelli, Nelle tue stanze, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2012
Memoria come mosto di vita e di emozioni, dove il rito di passaggio è... lutto
scandagliato da gesti infilati in un’assenza/ di attrazione. Marzia Spinelli, nel suo
secondo libro di versi, Nelle tue stanze, dedicato al ricordo vigoroso e struggente
della madre, ritrova il sogno di restituire dall’ombra una colla d’affetti che da priva-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
ti si fanno colloquiali, chiuse come urna nella tua stanza/ le nostre verità, coltivavano tutte/ spighe di grano,ciliegie che divoravi. Segreti confusi con scaglie di quotidianità, di storia comune ed umanissima, resa pubblica nella sua forza di correlativi
oggettivi in cui il Tempo si fa minuto di cose in una fatica storica d’ amore, non a
caso il cibo, la convivialità tornano frequenti nella poetica della Spinelli, abile a risolvere nel quotidiano che la fa ricca, la metafisica delle maiuscole, il Tempo, la Morte,
l’Assoluto. Sembra avere un manzoniano culto della storia, corale per organo di cose,
che vibrano la Storia, la Spinelli, che si fa regista corale e lirico di un film denso di
suoni, odori e fatti, zoommati con maestria. Siede il novecento/ su la tua schiena
curva/ di superstite/ air bag di bombe e rese/ era cibo la Storia nel guscio/ chiaro dei
più limpidi ricordi/ la guerra, il matrimonio, la mia nascita/ il diario comune di
ragazza … l’arco minuscolo, la parabola, il perimetro del mio secolo. Risponde alla
morte un corpo che formicola, che, di stanza in stanza, nella tana dell’infanzia mi rintraccia la memoria … è corda pendula, il gancio su un’attesa da riempire/ pestando
a terra come fosse uva.
Nel percorso di queste stanze dove frastorna la memoria trova spazio anche la
voce del padre che Tuona dolce/ Svegliati figlia, / tengo il tuo respiro nell’incavo
della mano. Immagine bellissima in cui si dona un calore ed un’intensa forza d’amore, di cui anche il lettore è discreto fruitore del gioco d’amorosi sensi che s’intesse nel
nido fisico e storico di una famiglia nella gran vendemmia del Tempo. E davvero,
strofa dopo strofa, addentrandoci in questo canzoniere minimo e sonoro di acuti lirici, ci dissetiamo al suono di luce del quotidiano, ricamato con dolcezza e modernità
espressiva, la sete di questi versi è il tuo ricordo/ bevo gocce di vitamina/ come la
spremuta che offrivi … Anche la natura si veste di questo ventilare della storia le
foglie rosse nella tua stanza … inutile l’acqua e l’aria/ le più frantumate s’insinuano agli angoli/ del parquet divelto,/ non avvertono, non lasciano traccia,/ le più leggere che volano via. E nella radura dell’infanzia piccolo l’angelo di pietra, il viaggio
ai lari familiari, il cimitero sembrava un giardino di pace/un posto dove curiosare i
nomi/ dei vecchi , delle mamme,/ di altri bambini. Anche qui il tema letterario di
ascendenza pascoliana e non solo, si fa storia di un gioco d’occhi, regalandoci lo stupore curioso tipico dei bimbi. Si ricollegano a questo filo d’infanzia le prime stanze
in particolare la breve, ma prodigiosa rievocazione lirica del mare e della prima raccolta di conchiglie. Capolavori assoluti sono infine, negozio di pietre, dove il dialogo s’infittisce di oggetti che danno il senso dell’orologio del tempo e degli affetti, e
di echi di voci contemporanee rese poetiche- guarda la figlia darmi il bancomat- digito il pin con dita d’onice- l’occasione commerciale dei saldi è viatico prezioso che
gemma ricordi in un qualunque mattino caldo / d’anniversario. Fortissimo, in conclusione, il “testamento” della la stanza XI, ove in maniera epigrafica risuona l’acerbità indicibile di un distacco, reso senza retorica, intimo e vero, anche nell’ equilibrio
dei termini. L’ultima stanza è l’ultimo giorno, /il più lungo, poi ti portano via.
Paolo Carlucci
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I Fiori del Male
Libri Ricevuti
Roberto Pagan, Le belle ore del Duca, Edizioni Cofine, Angri(SA) 2012
pp.32 € 8,00
Giorgio Linguaglossa, Blumenbilder, Passigli, Bagno a Ripoli (FI) 2013
pp.88 € 12,00
Giovanni Caso, Trilogia di possibili eventi, Genesi Editrice, Torino 2013
pp.144 € 12,50
Renato Greco, Un brusio d’anime, Giuliano landolfi Editore, Borgomanero
(NO) 2012 €12,00
Renato Greco, Colloqui e amabili fraseggi, L’arte dei versi, Bitonto (BA)
2013 s.i.p.
Luca Giordano, Passa dal corpo il cielo, Gazebo, Firenze 2012 s.i.p.
Gianni Rescigno, Cielo alla finestra, Genesi Editrice, Torino 2012 pp.144 €
16,00
Gianni Rescigno, Sulla bocca del vento, Il Convivio, Catania 2013 pp.136
€ 14,00
Gianfranco Palmery, Corpo di scena, Passigli, Bagno a Ripoli (FI) pp.88 €
12, 00
Aldo Forbice, La vita, nonostante, Passigli, Bagno a Ripoli (FI) pp.110 €
14,50
Roberto Mosi, Concerto, Gazebo, Firenze 2013 pp.80 s.i.p.
Biagio Luparella, Memorie di un superstite, Heliopolis Edizioni, Pesaro
2012 pp.304 s.i.p
Riviste
La Vallisa, quadrimestrale di letteratura ed altro, Bari, nn. 92-93 agostodicembre 2012
Calabria Sconosciuta, Rivista trimestrale di cultura e turismo, Reggio
Calabria n. 136 ottobre-dicembre. 2012
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I Fiori del Male
Prima di copertina: S. Maria novella e giostra di cavalieri di Claudio Sciascia.
L’artista è nato a Roma nel 1958. Diplomatosi in Pittura all’Accademia di Belle Arti
di Roma, si muove (con ricca e sottile creatività) fra Metafisica, Realismo magico e
Surrealismo.
Seconda di copertina: Hortus Conclusus (Il silenzio) - Terza di copertina: La musa
d’oltremare di Felice Pedretti. Il pittore nasce nel 1961 a Cape Town, un sobborgo
di città del Capo. Nel 1977 approda a Roma. Difensore ad oltranza della pittura, porta
avanti una linea neometafisica personale ed originale.
Isabella Collodi è nata a Roma il 19 ottobre 1957. Dopo gli studi classici si è laureata in Psicologia nel 1982. Nel 1988 ha esposto per la prima volta nell’ambito di una
rassegna di giovani artisti organizzata dal Comune di Roma. Nel 1994 ha vinto il premio per l’incisione nell’ambito della XVIII Biennale di Alessandria d’Egitto. Hanno
scritto del suo lavoro diversi storici e critici d’arte, tra cui F. Di Castro, A. Gerbino,
G.Giuffré, M. Pisani, S. Severi, G. Simongini, L. Trucchi. Vive e lavora a Roma.
All’interno disegni di Silvana Baroni - china e carboncino su carta - 2012. Poeta e
pittrice, in queste tavole usa il segno primario quale filo di una traccia univoca, atto
creativo minimale tra sogno e visione che si attornia di luminosità variabili, proprio
a decodificare il senso della scrittura che palpita nel profondo.
Progetto grafico di Copertina: Pino Masci
Finito di stampare in Roma - Luglio 2013
Stampa: Arti Grafiche De Martino snc
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