Onnigrafo Magazine Volume 3, 15 agosto 2016

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Onnigrafo Magazine Volume 3, 15 agosto 2016
Volume 3 — 15 agosto 2016
crocevia culturali
la bellezza della diversità
la storia nella storia
chi racconta le storie?
letto dall'onnigrafo
tanti generi un solo obiettivo
in uscita a settembre
un futuro non troppo lontano
mensile culturale dal cuore antologico
a cura di
MIRKO BIAGIOTTI
revisione testi
Filippo Gliozzi
ONNIGRAFO MAGAZINE
Supplemento a MaremmaNews, quotidiano online.
MAREMMANEWS
Registrazione n° 939 del 12/06/2000
Iscrizione al registro della Stampa n° 1-2000, Tribunale di Grosseto.
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Mirko Biagiotti
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IMMAGINE DI COPERTINA
Carlo Settembrini
ILLUSTRAZIONI INTERNE
Mirko Corridori
Il racconto La Stella di Salem di
Alessio Serra, prende in parte
ispirazione da Le Cronache di
Sereth di Giorgia Lauricella.
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RINGRAZIAMENTI SPECIALI
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S O MMARIO
EDITORIALE
5
Crocevia Culturali
di Roberta Filippi
ANTOLOGICO
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8
Diario di bordo #1
La Storia nella Storia
di Mirko Biagiotti
La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
di Alessio Serra
Le Cronache di Oscailt
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Capitolo 3 — Rivelazioni
di Emanuele Benedetti
24
Fascicolo 03 — Neph e Gio’. Jack e Melk.
di Luca Moretti
32
Racconto Autoconclusivo
di Marta Pelle
38
Capitolo 3 — Circo
di Natascia Norcia
La Confraternita dell'Infinito
Ole Lukøje
La figlia di Caino
RECENSIONI
45
Vorrei camminare
come fanno i bambini
Crisis
46
di Francesco Salvini
48
di Mario Tremonti
di Giovanna Avignoni
47
49
Il cavaliere di Eron
di Laura Santella
Anteprima Volume 4
Mundus Furiosus
VOLUME 3
15 AGOSTO 2016
EDITORIALE
CROCEVIA
CULTURALI
di Roberta Filippi
Ho letto di popoli lontani, storie vere e leggende; ho conosciuto e scoperto usanze e
tradizioni; ho vissuto avventure e provato
esperienze emotive. Tutto questo grazie
alla lettura. Perché leggere significa conoscere, ed è attraverso la cultura della conoscenza che si sviluppa ogni forma di integrazione.
La scrittura è, per l'essere umano, forma
di espressione; scrivere significa confrontarsi con il mondo, raccontare la propria
esperienza che potrà essere condivisa attraverso la lettura, imparando a conoscere
e rispettare le differenze, accrescendo il nostro spirito critico grazie alla migliore comprensione di noi stessi e degli altri. E allora
scrittura e lettura diventeranno una sorta di
linguaggio universale, elemento di dialogo
tra i popoli, comune a ogni epoca, che darà
a ognuno di noi la possibilità di vivere in una
società conoscendola in tutti i suoi aspetti.
Le nuove tecnologie, l’accesso veloce
all’informazione ci permettono, oggi, di implementare le nostre conoscenze; ci mettono in relazione con culture diverse, con una
società multietnica, consentendoci di superare l’ignoranza e di apprezzare la bellezza
della differenza.
Onnigrafo riunisce in un unico progetto
scrittori e lettori pronti a condividere risorse
ed esperienze, pronti a confrontarsi per crescere insieme, pronti a imparare a conoscersi sfruttando l'integrazione culturale
come risorsa comune.
I viaggi di Onnigrafo, onirici o reali, ci faranno conoscere popoli lontani, ci racconteranno di società immaginifiche, e grazie alle
diverse personalità dei loro autori ci faranno scoprire culture sempre nuove, rendendoci sempre più cittadini del mondo, uniti
da quella comune e immensa passione che
è il piacere della lettura.
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ANTOLOGICO
DIARIO
DI BORDO #1
LA STORIA NELLA STORIA
di Mirko Biagiotti
Due mesi fa ragionavo su quale argomento trattare nelle successive introduzioni;
questo volume è il risultato di molti pensieri che, presi singolarmente, meriterebbero
lunghi approfondimenti da trattare in molteplici chiavi di lettura; l'integrazione culturale a cui stiamo assistendo nell'attualità
dei nostri tempi è un evento meraviglioso e
altrettanto disorientante. Quando due o più
popoli che possiedono un'eredità storica e
sociale radicata e che si muove in direzioni
differenti — a volte opposte tra loro — si incontrano, lo scontro è inevitabile. Lo è non
accorgersi dell'evento in sé ed è altrettanto
inevitabile impedire un cambiamento. Credo profondamente che il cambiamento sia
alla basa dell'evoluzione e dicendo così non
intendo solo quella di una specie nei termini di adattamento ai ritmi della natura, ma
anche un'evoluzione intrinseca degli aspetti
culturali e sociali, collettiva ed individuale.
Così tutto ciò che viene definito minaccia
si fregia anche del ruolo di mediatore del
cambiamento; acquisisce — spesso involontariamente — una funzione coadiuvante
e, filtrando opportunamente i soggetti in
base alla loro funzione primaria, genera una
coalizione di idee, di aspetti, di tradizioni e
di culture peculiari e fortemente innovative.
Uniche.
Leggete i racconti che vi proponiamo
mese per mese, ragionate sul perché delle
azioni che i singoli personaggi si ritrovano a
dover fare e scoprirete che, più o meno
marcatamente, tutti quanti si stanno scontrando con entità differenti da loro; tutti
quanti devono fare i conti con un cambiamento.
Le storie che raccontiamo sono inevitabilmente anche un riflesso delle nostre vite?
Sono un'ombra opaca di quelle idee che ci
martellano dentro tutti i giorni? I personaggi che le interpretano sono il nostro evolverci? Le difficoltà cosa rappresentano? E le
delusioni, contrapposte ai successi, cosa
sono?
Potrei proseguire con altre molteplici domande, senza attendere la risposta a nessuna di esse, perché in realtà queste non
hanno valore.
Il vero valore lo possiede il tempo che dedichiamo al viaggio che stiamo facendo.
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La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
Alessio Serra
Genere: Low Fantasy
«A Sereth tutti noi abbiamo bevuto conoscenza a sazietà, per così dire. Le rivelazioni più
importanti, però, riguardavano il modo di vedere noi stessi», e mostrò a Rios il suo lasciapassare. «Cosa pensi che siano questi?»
«Simboli che ci rappresentano, in qualche maniera»
«Simboli che mostrano ciò che sei e a cosa appartieni. Ho un’infarinatura di rune alchemiche» Evelyn tese la mano verso il ciondolo che Rios portava al collo insieme agli altri e si
avvicinò per osservarlo meglio. Egli divenne rosso fin alla punta delle orecchie: poteva
sentire il profumo della barda mezzelfa avvolgerlo, «e per quel poco che posso leggere dal
tuo simbolo sei un guaritore, senza alcun dubbio. Ma…» strizzò gli occhi e si avvicinò ulteriormente: «Terra? Strano. I curatori di solito sono Aqua»
«È una cosa brutta?»
«No. È solo differente dalla norma. Posso chiederti in che modo curi?»
«Certo che puoi. Ho scoperto di poterlo fare da ragazzo: tocco la persona da curare, mi
concentro e le ferite di quest’ultima, pian piano, si chiudono. Il mio maestro, Eidolon Melchisedek prima, e Alexis Eremon II poi, mi hanno guidato a comprendere il suo esatto funzionamento. L’energia necessaria a stimolare e accelerare il processo di guarigione viene
dall’ambiente che mi circonda, io mi limito a indirizzarla. Quando mi concentro posso percepire l’essenza, come viene chiamata su Lunaria, della persona che sto trattando. Vedo
colori e luce. Per curare concentro la luce dall’esterno verso le zone più in ombra, come
uno specchio o una lente»
Evelyn spalancò gli occhi e sorrise. «Sembra proprio una magia! E di tipo sacerdotale,
per giunta. Molto, molto interessante. Ecco spiegato il motivo, forse: non curi con impiastri
e bende, con tecnica e manualità. E c’è molto della tua emotività quando lo fai. Curioso
davvero!», agitò il dito indice nell’aria, guardando un punto non meglio identificato, come
a voler ricordare queste novità.
«Eve», chiamò il cocchiere del loro carro, «suonereste la mia canzone preferita? Così
anche il nuovo venuto si farà una cultura e il viaggio sembrerà più breve», e sorrise all’indirizzo di Rios.
«Ottima idea, Dent»
Prese dai suoi bagagli una piccola lira, si schiarì la voce e, accompagnata dai due bardi,
cominciò a cantare.
Dal nulla del buio, l’unione e la danza degli Elementi Primordiali creò l’Esistenza, viva e mutabile.
E gli Elementi Primordiali vollero far esperienza di ciò che mettevano in opera: crearono gli uomini
per poter vedere attraverso di loro. Attraverso i loro sensi avrebbero potuto vivere e sapere. Gli uomini, presa coscienza di ciò, si domandarono di quale Elemento Primordiale fossero figli, nell’eterna ricerca diretta a conoscersi. Da quella mutua ricerca nacque la curiosità dell'Uomo verso la propria
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La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
nascita, la propria vita, il proprio significato nel mondo di cui
faceva parte.
La canzone si spense sulle ultime note, lasciando il carro
in un silenzio sognante. Quella pausa sembrò durare un respiro prima che fosse dato l’alt alla carovana. Era giunto il
tempo della prima sosta lungo il viaggio. L’aria, fresca e
frizzante a dispetto del sole già alto, spinse molti a dare una
mano ad approntare la sosta per scaldarsi e sgranchirsi le
gambe. I carri vennero sistemati in semicerchio, i cavalli
slegati per essere liberi di brucare. Il bivacco venne approntato con notevole velocità e Bert poté mettersi subito dopo
alle pentole. Evelyn si mise comoda, suonando con la sua
lira una melodia tranquilla e molto suggestiva. Rios la guardò più e più volte: avrebbe giurato di aver visto quel suo
strumento musicale brillare debolmente.
I suoi pensieri vennero attirati altrove del vociare di
Bert che chiamò tutti per il pasto: pane abbrustolito, formaggio saltato in padella, strisce di carne salata accompagnate da uova, frutta secca. Il tutto innaffiato da un
robusto vino speziato e da acqua fresca.
«La tua colazione è ottima come sempre, Bert», esordì
uno dei viaggiatori, «potresti rivaleggiare con certe taverne del quartiere dell’Accademia. Ve ne sono alcune
che possono saziarti per mesi, coi loro pasti abbondanti!»
«Quelle del Quartiere Diamante sono le migliori, secondo me, oppure le bettole al Quartiere della Dogana.
Servono del pesce di fiume delizioso», aggiunse un secondo.
«Mai stati alla Locanda del Pugnale Rosso?», chiese
Evelyn. Tutti gli sguardi di chi aveva riconosciuto quel
nome si puntarono su di lei, quasi avesse nominato un
pericolo reale e immediato. Rios fu attirato dalla strana
reazione degli altri viaggiatori e si mise a seguire più attentamente, continuando a mangiare.
«Mia giovane amica», disse Bert, che evidentemente
non credeva che il conto degli anni rendesse saggia una
persona, «che io sappia, quella locanda è ancora chiusa.
Si dice che Lady Fenice non ne voglia neanche sentir parlare!»
Evelyn sorrise maliziosamente. Rios fu certo che il discorso stesse andando nella direzione che la mezzelfa voleva. E di certo a lei piaceva stare al centro dell’attenzione e raccontar storie più di quanto il suo lavoro lasciasse
già trasparire. «Ne sei sicuro?» aggiunse Evelyn, prendendo lentamente un sorso di vino.
«Certo, come sono certo che sto mangiando formaggio», rispose Bert, addentando la fetta appena tagliata
dalla forma.
Evelyn si limitò a scrollare lievemente le spalle, ma
guardò Rios con aria maliziosa. «E si sa nulla della Festa
d'Inverno?», aggiunse poco dopo.
«Si, ma è stata spostata a Borgo Malpasso. C’è la possibilità che partecipino tutti e quattro i Primogeniti»
«E Milady?», chiese insistente la mezzelfa.
Bert fece spallucce. «Forse sì, forse no. I progetti di
Milady sono segreti fino all’ultimo, come sempre» A sentire quella risposta Evelyn ammiccò complice all'indirizzo di Rios. Nel mentre, prese la parola il bardo con il liuto
che li accompagnava nel viaggio prese la parola: «Ho sentito dire che da quando è morta Lady Fiamma, Milady è
rimasta rinchiusa nella sua Torre Argentata, ricevendo
solo i Primogeniti, a causa dei sensi di colpa»
«Beh, vorrei ben vedere!» aggiunse il suo collega. Un
senso di imbarazzo sembrò calare sulla compagnia.
«Scusate, ma… I Primogeniti chi, o cosa, sono?», e a
Rios parve di aver chiesto dove fosse il sole in quel momento.
Mentre gli altri lo guardavano, esterrefatti, Evelyn
sorrise per la ghiotta occasione di poter mostrare le sue
conoscenze.
«Hai prestato attenzione alla canzone di prima, quella
sulla creazione del mondo? Gli Elementi Primordiali che,
dall’inizio del mondo, vagavano tra le creature senzienti
decisero di esplorare la loro creazione, piuttosto che fondersi con il mondo stesso, ma non possedevano un corpo
per poterlo fare. Decisero di chiedere ospitalità a dei volontari, persone dal corpo e dallo spirito puri, così da potersi manifestare liberamente. Da allora le quattro persone prescelte diventano Primogeniti, ovvero i quattro
Maestri Elementali: detengono i segreti del mondo e dei
diversi elementi naturali che aiutano coloro che vuole sapere di più su di sé, e sul mondo, nella loro ricerca»
«Per le sottane di Ishir! Credo di capire perché sono
giunto qui, allora!», e la colorita esclamazione, unita al
sincero entusiasmo di Rios, strappò diversi sorrisi tra i
viaggiatori.
Evelyn iniziò a decantare i nomi dei Primogeniti, ritmando le parole con l’indice della mano destra e puntando gli occhi in alto, cosa che Rios trovava affascinante.
«Lady Fenice è la Primogenita del Fuoco, e prima di lei
Lady Fiamma. Sir Turbine Bianco è il mio Maestro, nonché Primogenito dell’Aria. Lady Rosa Flora, la Primogenita più anziana di tutti, appartiene alla Terra. E infine il
giovane Melk, Nuovo Primogenito dell’Acqua: uno degli
Alchimisti dei Draghi, secondo nel comando della gilda
solo a Milady stessa. Ignis, Aere, Terra, Aqua» Evelyn si fer-
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La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
mò a prender fiato, poi puntò i suoi occhi azzurri dritti in
quelli di Rios. «E Milady… lei è l’unione. I figli uniti generano la perfezione, la madre e il padre, il Quinto Elemento che protegge tutti. Tutti e cinque custodiscono segreti
e poteri oltre l’immaginabile e solo pochi possono dire di
averli visti trasformati in ciò che sono veramente. Sei venuto in queste terre a cercare il loro potere, Rios?», gli
occhi di Evelyn scintillarono di curiosità.
«Il potere mi mette apprensione. Non sono il desiderio di subirlo o imporlo ad avermi portato qui, ne sono
certo. Sto solo cercando il modo di…», soppesò le parole
per cercare di spiegarsi al meglio «essere pienamente me
stesso. Specie dopo quel che mi è accaduto a Istica, non
più di tre giorni fa. Capire dove dirigere i miei passi, se
vogliamo dire così. Non credo di voler vedere la vera natura di un Primogenito: a Salem la reazione più blanda
verso la magia in ogni sua forma è una crisi di panico,
credimi. Per cultura aborriamo la magia», e la sua espressione mutò, facendosi seria. Evelyn credette di intuire
qualcosa, ma non lo diede a vedere.
«Eppure sei qui: combatti la tua stessa cultura?», chiese Evelyn. Rios scosse la testa, negando, e disse, con fare
più sereno: «Qualsiasi ragione mi abbia portato qui, non
mi dispiace affatto, però. Specie dopo questa fantastica
colazione con questa fantastica compagnia. Complimenti
ancora al cuoco!», e alzò il boccale all’indirizzo di Bert,
presto imitato dagli altri. Non voleva proseguire oltre
quel discorso. Non in quel momento.
Bert ringraziò alzando a sua volta il suo boccale. «Il
viaggio è ancora lungo e presto arriveremo nella Piana
del Ricordo, tra il Fiume della Regina e la catena montuosa di Duncan, dove soffiano venti freddi. Quindi bevete
vino senza preoccupazioni: vi servirà a scaldare anima e
ossa»
«Come si brinda, in queste terre? Credo ci starebbe
bene», chiese Rios.
Evelyn alzò il boccale assieme agli altri due bardi.
«Ode al Vento che ci rinfrescherà»; Bert ed altri viaggiatori alzarono a loro volta i boccali. «Ode alla Terra che ci
sazierà» «Ode al Fuoco che ci scalderà», proseguirono alcuni dei rimanenti. Rimasero fuori dal brindisi solo Rios
e un altro viaggiatore. Non portava armi con sé, tranne
una cintura con molte tasche di cuoio, un’ampolla semplice e resistente a tracolla, e una sacca che tintinnava
con rumore metallico ad ogni suo movimento. «Siamo
rimasti solo noi guaritori. Concedimi l'onore di brindare
assieme», disse a Rios. Poi, proseguì con vece ferma: «Ode
all’Acqua che ci purificherà!»
«Ode all’Acqua, che ci purificherà!», fece eco Rios.
Finita la sosta la carovana ripartì e, come aveva preannunciato Bert, un forte vento freddo iniziò a soffiare
sulla strada. Un’ampia valle di un verde acceso si allargò
dinnanzi agli occhi dei viaggiatori, mentre imponenti
montagne innevate coronavano, come gelidi signori invernali ammantati d’ermellino, ciò che i loro sguardi potevano abbracciare tutto intorno a loro. Una lingua argentata, un fiume largo e potente, scorreva alla sinistra
della carovana. La strada ben presto raggiungeva la sua
sponda e da lì proseguiva, accompagnandolo nel suo corso.
«Ecco il Fiume della Regina. È il solo fiume navigabile
in tutto il Territorio del Nord e dai monti Eterni corre
dritto all’oceano nel Territorio dell'Ovest», disse il cocchiere, indicando il maestoso fiume. Il rumore delle sue
acque sembrava una melodia che li accompagnava per
mano, in cerca del posto dove il Sole andava a dormire.
Il cocchiere proseguì. «Sereth si trova all’incrocio tra
il Fiume della Regina e uno dei suoi affluenti più impetuosi, il Fiume Mercurio. Nasce tra le rocce dei monti
Duncan, dove si trova il più grande e antico insediamento
di nani dei Territori»
Evelyn applaudì entusiasta. «Ci sono un sacco di fantastiche storie su quelle montagne e i luoghi meravigliosi
che esse celano! Dicono che il Piano delle Aquile abbia
una vista mozzafiato e che proprio in quel punto l’Ancella del Fuoco abbia preparato il grande Cerchio Alchemico
di Protezione per tutta la città di Sereth, usando l’ultimo
raggio del sole su Fenice ancora in fasce! La Primogenita
infante brillava d’oro e quando venne portata alla Festa
dell'Equinozio d’Autunno le spuntò addirittura una coda
di fenice dalle coperte in cui era avvolta. Oh, quanto avrei
voluto essere là!»
«Quella sì che era una bella donna. Chissà perché l’elemento del Fuoco non ha mai scelto lei per reincarnarsi», commentò uno dei bardi.
A Evelyn non parve vero di poter mostrare il suo repertorio di storie così tante volte in un solo giorno. «L’ancella del Fuoco, la donna scelta per diventare Primogenita, aveva giurato fedeltà cieca a Lady Fiamma e fino
all’ultimo aveva sperato nella sua guarigione. Il sacrificio
estremo di Lady Fiamma durante la Battaglia della Piana
fu l’atto conclusivo che fece giurare all’Ancella del Fuoco
che l’unico suo conforto sarebbe consistito nel custodire
i suoi segreti e rivelarli al successivo Primogenito, nel
caso in cui esso fosse rinato» Il suo sguardo si fece malinconico nel ricordare quella storia lontana nel tempo. Pro-
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La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
seguì, poco dopo essersi ripresa. «Ma Ignis, l’elemento
del Fuoco, a causa dell’amore che ormai provava per
quell'anima straziata, decise di farla rinascere per darle
una seconda possibilità: chiese all’Ancella se sarebbe
stata disponibile a sacrificarsi per la nascitura e lei,
dopo il suo giuramento, acconsentì. Ignis abitò in lei
fino al giorno dell’Equinozio, per dargli il potere di attivare il Cerchio di Protezione e infondere nella piccola
tutti i segreti che l’Ancella aveva custodito nei suoi lunghi anni di servizio. Dopo quel rito, mentre nella piazza
si festeggiava l’Anno del Fuoco, nella Torre di Rubino
una bimba mezza fenice veniva messa a dormire, ignara
che quella donna che l’aveva sempre cullata e protetta
stava per svanire in lei. Nessuno sa di preciso cosa accadde in quel frangente, nessuno presenziò, o meglio»,
Evelyn prese fiato per riordinare le idee, «forse uno sì,
ma meglio non chiedergli mai nulla a riguardo. Si suppone che Ignis abbia fuso l’Ancella e la piccola insieme
e che quindi, in realtà, Fenice sia la stessa Lady Fiamma
rinata»
«Non è possibile!», sbottò uno dei due bardi. «Ho visto lady Fenice e non è assolutamente come Lady Fiamma! No no no… o Dea! Forse è meglio che non lo sia, per
certi versi: era una persona tutt’altro che raccomandabile, ma che sia la sua incarnazione? Non ci credo!»
«Mi dispiace, mio buon amico», disse Evelyn rivolgendosi a Rios e ignorando le illazioni del bardo, «ti
stiamo raccontando vicende su vicende, e chissà che
idea ti sarai fatto!»
«Mi sono di certo fatto un’idea più che concreta circa
la mia ignoranza riguardo cerchi alchemici e storia del
vostro mondo, ma è sempre un piacere ascoltare delle
belle storie. Sempre. Heiker potrebbe confermarvelo. È il
mio migliore amico, nonché un bardo sopraffino. Come
te, ama la musicalità della sua voce», la schernì Rios.
«Se lo elogi così spero, un giorno, di conoscerlo per
scambiarci materiale», rispose Evelyn, facendo finta di
non aver colto la frecciatina, e proseguì. «Vuoi che continui? Di storie Sereth ne ha da raccontare»
Fin troppe. Ho la testa che mi scoppia, Pensò tra sé Rios
«Vediamo se ne ricordo qualcuna su Milady. Credo ti
interesserà sapere qualcosa sulla persona per cui sei venuto, Rios»
«Cerca di raccontare quelle più equivoche prima di
arrivare in città», sottolineò uno dei bardi, «Laggiù, anche le mura hanno le orecchie»
«Va bene, va bene», sbuffò Evelyn. «Quello che so su
Milady è molto generico. Anche se è una persona che
non passa inosservata è riuscita a mantenere il più
stretti riserbo sulla sua vita. Si pensa che abbia quasi
cinquant’anni, ma si suppone anche che usi qualche elisir che aiuti la sua longevità elfica, consentendole di
mantenere l’aspetto e la prestanza fisica di una persona
di vent’anni. Poi, che altro dire…» Evelyn si picchiettò
l’indice sulle labbra strette, pensosa.
«Sì, questa la devi sapere», esordì qualche momento
dopo. «Nacque tra gli elfi oscuri nei lontani Reami Nascosti, il luogo dal quale provengo anche io. Questo popolo si divide tra due culti principali: quello della Dea
della Luna e quello della Dea delle Tenebre. I primi sono
favorevoli al confronto con le altre razze, mentre i secondi predicano un assoluto isolazionismo, arrivando
anche alle armi per difenderlo. Va da sé che tra i due
gruppi non scorre buon sangue, anzi. Milady Morgana
appartiene ai seguaci della Luna, e perfino la sua nascita fu un evento eccezionale, anche se ci volle del tempo
per scoprirlo. Innanzitutto la madre morì subito dopo il
parto, ma alle balie sembrò una cosa naturale. Nessuno,
neanche l’Alta sacerdotessa del suo clan intuì ciò che
era stato fatto alla piccola. In realtà, la Dea delle Tenebre aveva teso un bello scherzetto a sua sorella, la Dea
della Luna, e aveva messo mano sull’anima della piccola. Milady crebbe, e divenne presto chiaro che il sacerdozio non faceva per lei: adorava le piante e i minerali,
sapeva alla perfezione ogni ricetta erboristica, ma non
riuscì mai a memorizzare neanche una preghiera, come
invece ci si aspettava da lei. Fatto ancora più curioso:
quella bambina irrequieta, durante tutta la sua adolescenza, non si ferì mai. Neanche una sbucciatura alle
ginocchia, nonostante fosse sempre pronta ad azzuffarsi con gli altri, quelle rare volte che la si vedeva in gruppo con altri bambini. L’Alta Sacerdotessa della Luna decise di vaticinare il destino di questa giovane e
consultando la Dea, capì cosa era accaduto: la sua anima
era stata toccata dalla Tenebra. Nella visione, le mani di
Milady uccidevano con il solo tocco. Volle cercare una
conferma: chiamò a sé Morgana e la tagliò proprio qui»,
e indicò il palmo della mano sinistra, tracciando una
riga con l’indice lungo tutto il palmo. «Ebbene: il sangue che sgorgò dalla ferita era verde come il muschio.
Venne studiato immediatamente. La Dea delle Tenebre
aveva manipolato la piccola ancor prima di nascere,
trasformando il sangue in un veleno letale»
«Mi si gela il sangue nelle vene ogni volta che ci penso», disse uno dei bardi.
Evelyn annuì, dispiaciuta, per poi proseguire. «Milady, a quanto mi disse una delle guerriere della Dea della
Luna, non fece una piega, se non qualche smorfia di dolore perché la ferita non si rimarginava. Il resto delle
presenti cadde nel panico più totale. Più volte fu sussurrata la parola ‘eresia’. L'Alta Sacerdotessa decise, allora,
di proteggere la piccola Morgana, e la tenne con sé a
palazzo. Controllata notte e giorno, vegliata costantemente, ma mai prigioniera» Sentendo queste parole,
Rios si passò una mano sugli occhi varie volte. Milady
Morgana rappresentava un’eresia vivente, come lui lo
era agli occhi del suo popolo.
Evelyn sembrò l’unica ad accorgersi del disagio di
Rios. Riprese rapidamente le redini della storia, riportando l’attenzione su di sé, e allungò una mano, appoggiandola su quella di Rios. «Ma il peggio doveva ancora
venire, per Milady e il suo clan. Durante una cerimonia
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La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
in nome della Luna Milady fu rapita in seguito a un assalto mirato. Si sa solo di quel che accadde nei venti
anni seguenti a quella notte: Milady Morgana divenne
prima Lady della Casata Baenre, ottenendo il comando
delle otto Casate Cadette del Clan delle Tenebre. Comandò con pugno di ferro, guidando attacchi feroci
contro il Clan della Luna, contro i suoi stessi fratelli.
Come fosse avvenuto un cambio così importante della
sua personalità, non fu mai del tutto chiaro se non il
giorno in cui, a seguito delle insistenti richieste di Morgana stessa, la Madre del Clan delle Tenebre le permise
di continuare i suoi studi avanzati di alchimia a Sereth.
Appena Milady mise piede nel cerchio alchemico rappresentato dalle mura della città, cadde a terra boccheggiante: l’incanto che l’aveva stregata per venti lunghi anni e l’aveva spinta contro il suo clan si sciolse
come neve in estate. Morgana era di nuovo se stessa,
nel luogo in cui aveva sempre voluto essere: la Città
dell’Alchimia Superiore. Da quel giorno non fece più ritorno nei Reami Nascosti e si dedicò anima e corpo ad
appagare la sua sete di conoscenza. Ci vollero quasi cinque anni di studi intensi, ma alla fine i quattro Primogeniti, grazie a Rosa Flora, scelsero lei come Quinta Essenza, aprendole infine l’ultima porta che le si parava
davanti. Il resto, come si dice, è storia» Evelyn si strinse
nelle spalle e si accertò, con uno sguardo, che Rios si
fosse ripreso.
Il viaggio continuò tranquillo: le soste spezzavano il
placido incedere della carovana man mano che questa
si addentrava nella Pianura del Ricordo, tra le montagne Duncan. L’erba, di un verde brillante e vivo, accentuava il blu limpido del cielo del Nord. Le conifere tornavano a ricoprire parte del terreno e a diventare
foresta fitta che si inerpicava su per le montagne. Dopo
diverse ore, Evelyn esordì inaspettatamente con un «Ci
siamo quasi», si coprì la testa con il cappuccio e si sporse leggermente dal carro.
«Guarda, Rios: da qui si possono vedere le mura!»
Rios si sporse con lei. Ci mise un po’ per mettere a fuoco, e poi le vide: alte mura bianche si stagliavano all’orizzonte confondendosi nel paesaggio alpino. Immense,
abbacinanti, un cerchio perfetto. Rios fece una faccia
talmente stupita e incantata che Evelyn, guardandolo,
scoppiò a ridere e si dovette sedere. «Mia Dea, come sei
buffo! Lo stesso sguardo di un bambino!» Rios si imbronciò «Non è cosa di tutti i giorni vedere la città
dell’Alchimia Superiore, Evelyn. Avrei voluto vedere la
tua espressione la prima volta in cui hai assistito a questo spettacolo!»
«Scusami», rispose lei, asciugandosi le lacrime delle
troppe risate, «credo davvero di aver fatto una faccia
simile»
«Vedi? Avevo ragione», disse Rios
«Certo che ne hai: avrò avuto sì e no dodici estati», e
riprese a ridere.
«Sei crudele, Evelyn»
«Suvvia: sto giocando! Fammi spazio: è tempo per
una nuova lezione. Stavolta di geografia»
«Sì, maestra»
«Che bravo studente! Poi verificherò che tu sappia
tutto, quindi presta attenzione» Evelyn si sistemò al
fianco di Rios, il braccio teso fuori dal carro a indicare,
mentre spiegava. «Sereth è stata costruita su un punto
strategico, in modo da avere confini naturali invalicabili. Sulla punta più estrema della pianura del Ricordo, lì
a est; circondata dall’acqua a sud dal fiume della Regina, a ovest dalla foce del fiume Mercurio e al nord dal
corso del fiume Mercurio e dalle montagne Duncan. E
lassù», indicò con il dito verso le montagne prima del
fiume Mercurio, «la Rocca Alchemica! Guarda! Si vedono le guglie delle cinque torri. Nella torre più alta vive
Milady Morgana»
La carovana proseguì il suo lento incedere nella valle; il suo dondolio monotono e il silenzio sul carro ebbero la meglio e Rios si appisolò, avvolto nel mantello.
Un lampo, una scia di luce e di nuovo buio.
Il volto di una donna, sofferente ma sereno.
Un grido, un boato.
Rios si svegliò di soprassalto, cercando di mettere a
fuoco ciò che lo circondava. Evelyn gli prese la mano in
un gesto rassicurante. «Tranquillo. Accade a tutti la prima volta»
Ancora quella frase? Diamine: bisogna passare per molte
prime volte, qui a Sereth. Tutte spiacevoli, pensò Rios.
«Vieni», e lo tirò gentilmente per la mano fuori dal
carro, fermo in un punto che sembrava essere uno
spiazzo in aperta campagna, vicino alla strada.
Tutti, carovanieri e viaggiatori, erano scesi dalle
vetture per avvicinarsi a quello spiazzo brullo e nero al
cui centro sorgeva una statua di candido marmo opalescente. Rappresentava un uomo in fiamme e una donna
abbracciati, le cui vesti fluttuanti partivano dal piedistallo e salivano a sorreggere i soggetti principali in una
posizione peculiare: a Rios parve di capire che stessero
volando.
Evelyn lo accompagnò un poco in disparte dalla
compagnia stranamente silenziosa e iniziò a spiegare a
voce bassa. «Questo è il luogo dove si concluse la Battaglia della Piana, di cui ti ho parlato prima. Il Clan delle
Tenebre non dimenticò di certo di avere in Morgana
una Lady Baenre, e conosceva la sua ultima posizione
nota: Sereth. Le ricerche partirono quasi subito da qui.
Non fu facile, ma riuscirono a infiltrare spie, anche in
alti ruoli. Trovarono validi alleati in un gruppo di alchimisti i quali, tutt’ora, bramano il potere dell’Alchimia Superiore per i propri fini: con loro iniziarono a
tessere piani per la conquista di Sereth. Dal Primogenito, Sir Mark, non si ebbero avvisaglie di sorta fino al
giorno della battaglia: fu lui, infatti, il traditore che
guidò l’esercito nemico. Morgana, forse intuendo il pe-
13
La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
ricolo, si allontanò dalla città poco prima dell’attacco
con la scusa di studi in luoghi nascosti, sperando di creare un diversivo per confondere i nemici che bramavano la sua morte. Ma la Dea delle Tenebre voleva distruggere la città che le aveva portato via la figlia
prediletta. Il suo clan tentò innanzitutto di avvelenare
studenti e maestri: la prima fu Rosa Flora, poi fu il turno di Sir Mark, il Primogenito dell’Acqua, e infine toccò
a Lady Fiamma. Quest’ultima subì la sorte peggiore: il
veleno destabilizzò l’equilibrio che c’era tra il corpo
umano e quello elementale: un qualsiasi intenso stato
d’animo della donna avrebbe sovra-stimolato e nutrito
Ignis, ma avrebbe bruciato il corpo di Fiamma. Così il
corpo elementale si annullò, riducendosi a una piccola
fiammella. Sì, il corpo di Fiamma continuava a vivere,
ma al minimo delle forze. Destabilizzato un elemento,
il potere degli altri tre iniziò a scemare. E fu proprio in
quel momento che venne sferrato l’attacco alla città.
Bianco mi raccontò che Fiamma, avendo sentito rumori di battaglia, strisciò alla finestra e vide Sir Mark, suo
fratello, comandare il nemico; raccolse le sue ultime
forze e lo uccise con un incanto. Purtroppo, però, l’esercito era ormai alle porte e Sereth non era militarmente pronta. Fiamma supplicò il mio maestro, Turbine Bianco, di portarla in cielo proprio sopra l’esercito.
Il corpo di lei stava perdendo il controllo, e Ignis con
lei. Bianco pianse, e la pioggia cadde copiosamente
mentre la sollevava in cielo sopra l’esercito. Poi, a un
suo cenno, alimentò Ignis con aria fresca. L’elementale
divampò attorno al corpo della donna in un abbraccio
mortale. Caddero insieme in un’enorme palla di fuoco
che si abbatté sull’esercito nemico, disperdendolo e
salvando la città. La città ne uscì inespugnata, ma senza due Primogeniti e senza la Quinta Essenza, lontana e
ignara, forse, di tutto»
«Le storie di sacrifici non sono nuove, ovunque si
vada. Ma non ci si fa mai l’abitudine», disse Rios, congiungendo le mani davanti al viso. Rimase immobile per
qualche respiro, pregando Ishir. Fu sicuro di sentire la
familiare sensazione di calore, che era solito provare
usando il suo potere curativo, attraversargli il corpo. Si
passò una mano sugli occhi, commosso da quell’inaspettata carezza all’anima.
La carovana ripartì poco dopo nel più completo silenzio, in direzione delle mura della città, continuando
a fiancheggiare il Fiume della Regina. Su di esso, barche
grandi e piccole navigavano placide a vele spiegate,
ognuna con la propria rotta, ognuna con il proprio porto da raggiungere. Rios, non abituato a barche così
grandi, si affacciò per osservarle meglio. Quasi subito,
un enorme muro candido gli bloccò la vista: stavano entrando a Sereth. Rios seguì con lo sguardo la parete in
direzione dell’interno: l’ingresso era lungo non più di
dieci passi, e a metà due enormi porte di metallo scintillante, cesellato con incredibile maestria, si stavano
aprendo per lasciarli passare.
Appena la carovana ebbe oltrepassato le mura, le
porte si richiusero. Nello stesso istante, Rios sentì un’enorme pressione sul petto, come se le porte, chiudendosi, avessero compresso così tanta aria al loro interno
da poterlo schiacciare.
«Respira», ammonì Evelyn. «Respira con calma. Sei
dentro un Cerchio Alchemico, la concentrazione di potere qui è tremenda. Tieni stretto il tuo lasciapassare e
cerca di entrare a far parte del cerchio stesso. Lascia
che il potere degli elementi ti pervada e che il tuo elemento si unisca al suo Primogenito»
Rios non seguiva più ciò che la mezzelfa gli stava dicendo: la pressione gli annebbiava la vista, le orecchie gli
ronzavano come api impazzite e si sentì sprofondare.
Era in ginocchio sul terreno nudo. Piccoli sassi che rendevano doloroso mantenere la posizione, ma non si mosse comunque. Era lontano da casa, chiamato su quel mondo per
aiutare Onofrius. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, pagato qualsiasi prezzo, per essere utile al suo Guardiano, perché lui poteva
riportare la pace fino a Salem. Ed era quello che la figura in
ginocchio desiderava più di ogni altra cosa. Era già stato nel
cortile di quella rocca, un anno prima. Proprio lì aveva ricevuto quel marchio che lo spingeva a fare cose orribili alle persone a cui voleva bene, ai suoi compagni d’arme. E ora, un
anno dopo, era in ginocchio a raccogliere in sé altri nove di
quei marchi per una possibilità in più. Un azzardo che lo
avrebbe ucciso o che sarebbe divenuto speranza contro il Re e
contro il Nexus. Era certo della sua scelta, determinato a proseguire, ma poi il circolo rituale si chiuse, la magia si addensò
e la volontà vacillò per un istante. Volti amici, che avevano
tentato di dissuaderlo più e più volte, lo guardarono preoccupato. Luther Leviathan sembrava quasi voler correre dentro il
cerchio, rischiando di farlo implodere: la Fiera che risiedeva
in lui sembrava dimenarsi in gabbia. Boris Bjornesson, il suo
solito cipiglio serio dipinto in volto, osservava in silenzio. Lo
aveva ammonito più di tutti, chiamandolo anche con il suo
vero nome. San Liu Kahn, impassibile e ieratico, passava le
dita tra i semi rotondi della sua lunga collana, mentre si appoggiava alla sua lancia: aveva la stessa espressione quando,
poco prima, lo aveva apostrofato come uno sciocco, per quel
tentativo così pericoloso. Ebbe solo il tempo di pensare che
avrebbe dovuto ascoltare i loro consigli, quando il patronus
lo toccò: fu come esplodere in una miriade di schegge di dolore. Il corpo si paralizzò all’istante, la mente tentò di chiudersi
in sé aspettando che il dolore scemasse. Ma il patronus lo
toccò una seconda volta e il dolore ricominciò, più acuto di
prima. Urlò. Pianse. Chiese aiuto alle fenici, al suo Guardiano.
Nessuno si fece avanti. Non potevano. Lui stesso aveva chiesto
di non essere aiutato. Il terzo tocco arrivò, accendendo nella
mente dilaniata un nuovo tipo di dolore: l’attesa del prossimo
marchio. Il quarto sembrò spaccargli il cuore e strappargli
l’anima.
Smise di contare, smise di aspettare, smise di sperare: non
desiderava altro che la morte.
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Cronache di Oscailt
Capitolo 3 — Rivelazioni
Cronache di Oscailt
Capitolo 3 — Rivelazioni
Emanuele Benedetti
Genere: Epic Fantasy
Segui ciò che il cuore ti indica. Persegui ciò che
il vento ti sussurra. Insegui qualsiasi cosa ti dia
felicità. E quando tutto finirà, non piangere
perché esso è concluso, ma sorridi, dacché è
accaduto.
Detto Nord
Finalmente riuscì ad aprire gli occhi di nuovo. Si accorse di avere il respiro corto e si
mise seduto sul bordo del letto, cercando di allontanarsi dall'incubo appena trascorso.
Appoggiò i gomiti ai ginocchi e si mise il viso tra le mani callose, tentando di ricacciare
indietro le lacrime. «Perché tutte le notti?», sussurrava disperato tra un respiro e l'altro.
«Perché?»
Erano ormai due settimane che quelle visioni lo tormentavano; dapprima erano vaghe, come dei fugaci lampi durante la fase del sonno profondo, ma nelle ultime notti
erano diventate delle vere e proprie esperienze, come se le vivesse in prima persona, con
il suo corpo. Ma al risveglio non ricordava nulla di tutto ciò che aveva vissuto. Sollevò il
viso, guardò da dove era seduto verso le fessure della finestra chiusa e si accorse che era
ancora notte. Bisognoso di aria fresca, vi si diresse a grandi passi e le aprì con impeto,
facendo sbattere le imposte all’esterno dell'abitazione. Da quando era andato a dormire
era sorta la luna, ma non aveva fatto molto del suo percorso. Doveva aver dormito poco
più di una campana; eppure il sogno di quella notte sembrava eterno.
Sentì bussare alla porta della propria camera e senza aspettare risposta entrò suo figlio, in calzoni da notte, seguito a piccoli passi dal suo lupo.
«Padre, abbiamo sentito sbattere!», chiese preoccupato il bambino. «Stai bene?»
Lo sguardo fuori dalla finestra, si nettò il volto da quello che rimaneva delle lacrime,
trasse un profondo respiro e si volse verso il bimbo. «Stai tranquillo, Khylos», lo rassicurò, «il solito incubo. Si è presentato anche stanotte»
«Vuoi che io e Khyler rimaniamo qui con te?», insistette il piccolo, che intanto aveva
preso in braccio il piccolo lupo. In un moto di affetto, con pochi passi si avvicinò al suo
unico figlio, che gli ricordava così tanto Mhyssa, la sua defunta moglie; passandogli una
mano sopra la testa, gli arruffò i capelli.
«Non preoccuparti, giovanotto!», rispose il padre mentre si avvicinava con un sorriso
tra le labbra, cercando di dargli delle certezze che dentro di sé non trovava. «Ci vuole ben
altro per spaventare il tuo vecchio»
Gli appoggiò un braccio sulla schiena e lo spinse fuori dalla stanza, accompagnandolo
verso la sua camera.
«Non preoccuparti, figlio mio», disse con voce calda e calma, «i sogni rimangono sempre dove stanno, nei nostri pensieri; questo vale anche per gli incubi. Presto passeranno»
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Cronache di Oscailt
Capitolo 3 — Rivelazioni
Il bimbo, rincuorato dalle parole del padre, si avviò
nel corridoio facendo un enorme sbadiglio e, una volta
entrato nella sua stanza, ne fece un altro alla vista del
letto. Quella appena trascorsa nel maneggio era stata
una giornata pesante nel e il suo corpicino da dodicenne non aveva ancora la forza necessaria per quelle sveglie forzate nel cuore della notte.
Mentre Khylos si allungava per scivolare di nuovo
velocemente tra le braccia della Dea dei Sogni, Khyler
fuggì alla sua presa, scese velocemente dal letto e si
mise a fianco del padre, fissandolo con insistenza. Intanto, l’uomo rabboccò le coperte al figlio e si sedette
sul bordo del letto, finché non sentì il respiro regolare
del sonno del bimbo. Rimase ancora un attimo a coccolare il suo unico figlio, pensando che un giorno avrebbe
sicuramente lasciato la casa paterna per cercare avventura; più di una volta, a ogni loro visita al villaggio, aveva dimostrato interesse nei confronti delle Lame Scarlatte, tanto che si fermava a parlare col reclutatore e
sergente maggiore Sigmund Tanuder per farsi raccontare le grandi avventure passate delle truppe, le disposizioni degli eserciti, le possibilità di carriera, gli appartamenti dei cadetti, e tante altre curiosità che avevano
affascinato sempre più il piccolo Khylos. Come ogni
buon padre, era preoccupato per il futuro che lo aspettava, ma al contempo non poteva tarpargli le ali. Inoltre
doveva pensare anche al suo maneggio. Alla sua morte,
l’avrebbe sicuramente lasciato in eredità al figlio, ma
questo significava anche darlo in gestione a qualcuno di
fiducia; merce rara, in quei tempi pazzi.
Dopo un’ultima carezza al figlio, gli sistemò meglio
le coperte e si alzò; controllò che la finestra fosse ben
chiusa, tirò la tenda di lana grezza in modo che né la
luce della luna quella notte, né il sole il giorno seguente
potessero svegliarlo e se ne andò piano dalla stanza,
chiudendo la porta senza far rumore.
«Bene», sussurrò quindi al lupo, inginocchiandosi ad
accarezzargli il garrese, «sembra che siamo rimasti io e
te» La creaturina scodinzolò leggermente, leccò la mano
dell’uomo e corse lungo il corridoio. Qui, con gli occhi
ormai abituati al buio della casa, lo vide fermarsi in
cima alle scale che portavano al piano sottostante, ovvero alla cucina; lo fissò con aspettativa, la lingua penzoloni, e corse di sotto. Sorridendo sotto i baffi, Tholos
seguì il famiglio del figlio; scese le scale e trovò l’animale proprio dove si aspettava: oltre una porta che dava a
un ulteriore piano interrato c’erano formaggi e prosciutti a stagionare, per di più a portata di grinfie del
lupo. C’erano anche gli avanzi sotto sale della pernice
che avevano mangiato a cena sopra il tavolo dove di solito consumavano i pasti; ma il piccolo animale, che ormai era in famiglia da quattro mesi, era seduto di fronte
alla porta d’uscita, in attesa di uscire con il padrone.
Tholos rise brevemente e si avvicinò alla porta, mentre l’animale si girava, gli occhi, uno differente dall’altro, fissi sulla maniglia, nella speranza di vederla abbassata, di aprire la porta col muso e di correre subito fuori
in esplorazione. «Non è ancora l’ora della nostra passeggiata mattutina, piccoletto!», sussurrò divertito
l’uomo, «manca ancora molto all'aurora e tu hai bisogno di riposo»
Quindi lo prese in braccio, grattandogli la pancia, e
lo mise davanti alla sua ciotola. Il cucciolo dimenticò in
fretta la possibilità di un’uscita notturna appena vide il
suo padrone mettere mano a uno spicchio di formaggio
di fossa, una forma di pane e l’osso della parte finale di
un prosciutto stagionato. Poggiato il tutto sopra il tavolo, prese un coltello seghettato per il pane e uno a filo
liscio per quel che rimaneva del cosciotto. Controllò velocemente la lama, un’affilata veloce per levare le intaccature dovute all’incontro tra cartilagine e ferro e si
sedette, come al solito, a capotavola.
Si mise all’opera, scartando velocemente gli ultimi
resti di cotenna attaccati all’esterno, tagliò quello che
poté di quel fine prosciutto e spezzò l’osso in due con un
colpo secco, infilando la parte più grande direttamente
tra le piccole zanne del lupo, che se lo portò subito alla
sua ciotola, cominciando ad addentarlo come meglio
poteva. Quel lavoro di mandibole avrebbe sicuramente
prosciugato le ultime forze della creatura che, anche se
cresceva a vista d’occhio, era comunque giovane; finito
il pasto, sicuramente sarebbe crollato per risvegliarsi la
mattina seguente insieme al “fratello”, secondo il codice stabilito tra lui e il figlio.
Mentre sbocconcellava distrattamente pane, carne e
formaggio, Tholos ripensò di nuovo alle visioni di quella
notte. Cercò di ricordarle e di metterle a fuoco nella sua
memoria, ma come al solito si accorse che solo alcuni
particolari risultavano vividi, mentre lo sguardo d’insieme era troppo nebbioso perché potesse avere un senso. Gli amici a cui aveva raccontato di questi sogni agitati e dei risvegli altrettanto bruschi gli avevano
consigliato di andare da una fattucchiera che viveva
alle pendici del monte Qostiid, che nella lingua antica
dei Nordici voleva dire “profeta”. Si diceva che, nel corso della storia, molti asceti avessero cercato la saggezza
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Cronache di Oscailt
Capitolo 3 — Rivelazioni
tra le sue alture, e quei pochi che l’avevano trovata erano diventati dei divinatori incredibili. Tholos era sempre rimasto scettico riguardo la veridicità delle loro parole; di contro, però, sapeva che alcuni sogni volevano
dire qualcosa.
Al pensiero sbuffò sommessamente e spostò la sua
attenzione di nuovo a Khyler. Il lupo stava ancora cercando di strappare pezzi di grasso attaccati all’osso del
prosciutto e sembrava che quest’ultimo stesse avendo
la meglio. Dai tentativi goffi e forzati messi in atto, si
poteva notare la stanchezza della piccola creatura. Difatti, dopo qualche altro tentativo, ringhiò piano in direzione dell’osso, lo riprese tra le mandibole e lo mise
nella sua ciotola, sicuro che l’indomani avrebbe potuto
continuare a spolparlo. Dopo essersi leccato grasso e
sale dai corti baffi bianchi, Khyler fece un grosso sbadiglio, si stiracchiò stanco le zampe anteriori e posteriori
e si diresse verso il focolare attaccato al muro, dove solitamente la famiglia cuoceva le pietanze; c’erano ancora dei carboni ardenti, e solo allora Tholos notò che era
ancora vestito da notte e che l’aria notturna era ancora
fredda, nonostante la primavera fosse ormai cominciata
da un mese.
Vicino al camino vi era anche una piccola legnaia
con qualche ciocco e della legna più piccola e secca che
fungeva da esca; Tholos prese una manciata di quest’ultima e la buttò sopra i tizzoni ancora accesi, che fecero
divampare di nuovo il fuoco. Poco dopo aggiunse uno
dei ceppi di tasso che aveva tagliato qualche giorno prima, abbastanza secco da poter prendere velocemente.
Il lupo quindi, dopo aver fatto qualche giro sul posto,
si accoccolò in prossimità del fuoco nuovamente acceso
e chiuse gli occhi, soddisfatto della mangiata e di aver
fatto compagnia al suo padrone.
Nel mentre, Tholos era andato a prendere la pipa con
la sacca contenente fumerba nanica, una sedia e uno
stoppino. Posizionò la seduta vicino al focolare, si mise
seduto vicino al lupo che, sentendo il rumore prodotto
da quei movimenti, alzò le orecchie e un occhio, per poi
riabbassare la palpebra e riprendere sonno, e infine accese la fumata. Dopo un paio di boccate, l’erba bruciò,
rilasciando un gradevole odore misto tra silvestre e affumicato. Tholos si godette quel momento di pace, ebbro della fumerba e della quiete notturna. Man mano
che le fiamme divoravano il ciocco, il freddo della notte
se ne andò.
Osservando la legna ardere, Tholos ebbe un’improvvisa visione, come se fosse all’interno delle fiam-
me; vide, attraverso di esse, quello che doveva essere
un uomo incappucciato che si abbassava ad accarezzare un animale, sussurrandogli qualcosa alle orecchie.
L’animale quindi cominciò a correre e l’uomo gli diede
subito appresso. Allora serrò forte le palpebre, cercando di scacciare quella sensazione. Preso da un’ondata
di nausea, si passò una mano sul viso e si riscoprì a
sudare freddo; si deterse subito con la manica dei vestiti da notte e cercò di fare un’altra boccata di fumerba, per cercare di ritrovare la pace che aveva provato
poco prima.
Nel guardare il tabacco che ardeva, venne di nuovo
gettato da un’altra parte: ora si trovava in prossimità di
una fonte di luce immensa che emanava un fascio rivolto verso il cielo. Guardando in alto si ritrovò spinto verso il firmamento, dove brillava la luna piena. Improvvisamente vide l’uomo di prima che osservava con gli
occhi pieni di sfida la fonte di luce, spada alla mano; poi
cambiò visione, e vide tre elfi abbarbicati su un albero-montagna che, sbigottiti, osservavano, grazie ai loro
sensi sovrumani, la colonna di luce a migliaia di miglia
di distanza; la visione si spostò di nuovo, nei pressi di
una montagna, ma non riuscì a mantenere il contatto
con le apparizioni perché aveva avvertito di nuovo la
sensazione di nausea.
Cercando di combattere il voltastomaco, Tholos si
accorse che quello che aveva appena vissuto erano gli
incubi che lo perseguivano da dozzine di notti; in tutta
sincerità, non voleva viverli di nuovo.
Svuotò la pipa nel fuoco con qualche colpetto e la
posò sul ripiano sopra al camino, vicino alla sacca con la
fumerba dentro. Si alzò e si diresse verso l’uscita, in cerca di aria. Prese uno dei mantelli attaccati alla porta, se
lo infilò e uscì, cercando di fare meno rumore possibile;
l’aria notturna lo investì immediatamente e subito
chiuse la porta alle sue spalle.
Stette un momento lì, in piedi sull’uscio di casa, assaporando quella notte primaverile; ma non si gustò troppo a lungo quell’istante, timoroso della ricomparsa delle apparizioni. Si diresse invece verso la stalla dove
teneva i cavalli di famiglia. Nel maneggio dietro casa
teneva gli altri cavalli, quelli destinati al baratto o alla
vendita. Da generazioni, la famiglia di Tholos allevava
quelle bestie, così presenti un tempo nei dintorni del
villaggio; mentre prima i suoi avi cacciavano e soggiogavano i cavalli selvatici, ora si cercava di incrociare i
destrieri che più si adattavano alle incombenze che
avrebbero dovuto svolgere da adulti. Una cosa accomu-
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Cronache di Oscailt
Capitolo 3 — Rivelazioni
nava tutti i palafreni: erano della fiera razza nordica,
col pelo più spesso e le gambe più corte e tozze rispetto ai loro parenti, ma con una resistenza da far invidia
a qualsiasi destriero da guerra degli imperiali, giù al
sud. Questa caratteristica li rendeva adatti a qualsiasi
necessità, che fosse il traino, l’aratro o il semplice spostamento.
Tholos aprì piano le porte della stalla. All'entrata vi
erano tutti gli attrezzi per accudire al meglio i quattro
cavalli a uso privato dell’uomo e del figlio, due a uso
condiviso per i pochi campi in loro possesso, che di
solito venivano dati ai vassalli che li lavoravano, e uno
a testa a uso esclusivo. Il cavallo di Tholos era uno stallone di otto anni a cui aveva dato il nome di Nonvul:
nero, il pelo più lungo che gli cresceva subito sopra gli
zoccoli, la criniera leggermente castana e tagliata corta, fiero e fedele, era una cavalcatura davvero affidabile e instancabile, ottimo per le lunghe cavalcate per i
possedimenti della famiglia, per le uscite di caccia o
solo per le passeggiate nei dintorni.
Il Nord si avviò verso lo stanziamento del suo animale, aprì il separé ed entrò. Trovò il fedele cavallo
vigile, probabilmente svegliato dai cigolii del portone d’entrata della stalla; l'uomo allungò una mano
verso il muso del compagno e glielo strofinò amorevolmente.
«Scusa se ti ho svegliato, mio buon amico», gli sussurrò, mentre lo accarezzava. «Questa è un’altra
notte insonne per me. Hai voglia di farmi compagnia?» Per tutta risposta, il cavallo scosse la testa in
alto e in basso con un leggero brontolio, come era solito fare quando vedeva il suo padrone guardarlo negli
occhi, capendo sempre che aspettava una risposta.
Tholos gli regalò un sorriso e una pacca sul robusto
collo, si girò e prese un coperta di cuoio spesso non
conciato, la piccola sella che usava di solito, le briglie
con il morso e montò tutto in pochi movimenti. Diede
un ultimo controllo alle cinghie e guidò il cavallo fuori
dalla stalla.
Chiusa la porta alle sue spalle, Tholos mise un piede
sulla staffa e salì agilmente in sella alla sua cavalcatura,
regolò velocemente le briglie e si chinò verso le orecchie di Nonvul, dicendogli: «Oggi comandi te, amico
mio. Vai dove meglio credi!», quindi diede due colpi di
tallone all’altezza delle reni, accompagnati da un leggero schiocco della lingua per metterlo al trotto, lasciando le redini il più lente possibile. Si diresse, sul
vialetto di casa, in direzione del basso cancello d’uscita, che scavalcò abilmente. Dapprima Nonvul si diresse
verso il centro abitato, poco distante dalla casa Tholos,
poi, a un tratto, fece una svolta stretta e condusse il suo
padrone verso il bosco alle pendici del monte Joor:
nome infelice, in verità, giacché voleva dire “mortale”,
ma nessuno ricordava il perché di quella parola; in
compenso, era un ottimo terreno di caccia al tasso e
agli stambecchi. Tholos pensò che sarebbe stato saggio
portarsi dietro un arco corto e qualche freccia, ma probabilmente avrebbe avuto i sensi vigili per poco, prima
che il sonno lo riprendesse per riportarlo a casa, e scartò l’idea di tornare indietro e prendere l'arma. In compenso, nella bisaccia sempre attaccata alla sella portava un piccolo coltello con cui incideva e scuoiava gli
animali cacciati: magari avrebbe potuto prendere
qualcosa con quello, ma ne dubitava.
Mentre pensava a una possibile battuta notturna,
Nonvul si era già addentrato nel fitto della foresta di
faggi, abeti e cipressi; sembrava seguisse una strada
che solo lui vedeva. La luna rischiarava il cielo e riusciva a penetrare nel fitto groviglio di fronde sopra la testa di Tholos, permettendogli una visione abbastanza
chiara di quello che lo circondava. Ritrovata finalmente un po’ di pace, l’uomo fece un respiro profondo, rilassandosi e sentendosi felice per quella passeggiata: il
contatto con la natura lo ristorava sempre e la presenza del suo fedele cavallo non gli faceva temere nulla.
Arrivarono in una piccola radura dove non vi erano
alberi, solo erba alta; questa veniva, di solito, utilizzata come punto di ritrovo dai cacciatori, o come primo
bivacco per cominciare la battuta del giorno. Tholos
tirò le redini, facendo fermare il cavallo e si guardò un
po’ intorno, cercando di vedere se qualche cacciatore
distratto si fosse dimenticato qualcosa nei dintorni.
Infatti, un luccichio in un punto dove l’erba era meno
alta attirò la sua attenzione. Scese da Nonvul e si avvicinò con cautela. Si chinò per raccogliere l’oggetto e
vide che era una punta di freccia, di buona qualità, per
giunta. Sorrise del ritrovamento, sapendo che i più superstiziosi lo ritenevano di buon auspicio. Ne saggiò il
filo, estremamente tagliente, e si ferì a una mano. Subito portò il dito ferito alla bocca e la punta gli cadde
di mano. Guardando il punto dove era atterrata, notò
che, nonostante fosse in ombra, il luccichio che lo aveva attirato continuava. Girandosi verso la luna, che
aveva alle spalle, non poté che trovare strano questo
fatto. Tirato fuori il dito dalla bocca, vide il taglio che
si era fatto... e tutto si offuscò. Si passò la mano con la
ferita sul viso e, riaprendo gli occhi, si accorse di trovarsi in mezzo a un campo di battaglia, apparentemente a guerra conclusa. C’erano corpi mutilati ovunque di esseri che sembravano uomini, elfi, nani e altre
razze che non riuscì a distinguere, perché il senso di
nausea provata in casa riapparve impetuoso e un velo
rosso gli ricoprì la vista, come se stesse sanguinando
da un taglio alla fronte. Si strofinò forte gli occhi per
far sparire quella sensazione. Improvvisamente si sentì tirare da una spalla e, riaprendo gli occhi, si ritrovò
di nuovo nella radura in cui Nonvul lo aveva portato:
era stato proprio il cavallo a strattonarlo poco prima,
riportandolo alla realtà. Toccando le sopracciglia, si
accorse di essersi sporcato con il sangue del taglio al
dito e un po’ si riebbe dallo sgomento dovuto alla visione improvvisa.
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Cronache di Oscailt
Capitolo 3 — Rivelazioni
Si volse verso Nonvul e lo ringraziò con una pacca
sul collo, dicendogli: «A volte il cervello umano gioca
dei brutti tiri, amico mio»
Mentre si rimetteva in sella, sentì una voce femminile indistinta, che parlava nell’antica lingua del Nord,
una lingua morta, che in pochissimi ricordavano ancora. Lui la conosceva perché il padre di suo padre
gliel’aveva insegnata. Diceva sempre che «Per comprendere dove si sta andando, bisogna prima sapere
da dove si viene» Tra i sussurri, Tholos riuscì solo a
capire «Kiibor», che significa “seguire”, e «Ronaaz»,
che significa “freccia”. Da sopra il cavallo, Tholos
guardò in basso, dove aveva lasciato la punta trovata
poco prima, e si accorse che essa fluttuava nell’aria,
sopra l’erba piegata dal suo passaggio. Seguì con lo
sguardo la direzione che indicava e vide un punto alla
fine della radura, dove c’erano degli alberi. Improvvisamente, alberi, arbusti ed erba si spostarono, come
scansati da una mano divina, scoprendo un percorso
tutto svolte e tornanti verso un lato della montagna.
«Ru! Nel!», sentì dire di nuovo dalla voce femminile.
Cercò di guardarsi intorno, nella speranza di riuscire a
scorgere chi avesse lanciato quegli ordini, ma non fece
in tempo, perché Nonvul si tirò su impennando con le
zampe posteriori, scalciando ferocemente con quelle
anteriori, lanciò un nitrito potente e, una volta riatterrato sui quattro arti, partì con un lieve balzo in un galoppo sfrenato sul sentiero che si era appena venuto a
creare. Il comportamento del cavallo spaventò non
poco l’uomo, dato che l’animale solo in giovane età
aveva compiuto questi atti irruenti. Ora invece si ritrovava attaccato spasmodicamente al collo di uno stallone più che adulto in preda all’isteria, che correva in un
sentiero venuto fuori non si sa da dove. Cercò di tranquillizzarlo, urlando sopra alla corrente che cominciava a fischiare e dandogli vigorose pacche per farlo tornare in sé; mentre faceva questo, si accorse che gli
occhi del cavallo... non erano i suoi. Essi brillavano ed
erano concentrati sulla strada davanti a sé. Tholos sapeva che niente poteva distrarlo dal suo compito; quale che fosse, lo avrebbe scoperto di lì a breve.
Non potendo fare nulla per la sua cavalcatura, l’uomo cercò di rimanere in sella come poteva, gli alberi
che continuavano ad aprirsi improvvisamente davanti
alle zampe dell’animale, creando nuovo spazio per la
corsa sfrenata. Tentò di abbassarsi e di scansare i rami
bassi che gli ferivano la faccia e, mentre faceva questo,
si ritrovò di nuovo sul campo di battaglia che gli era
apparso in visione poco prima, stavolta nel pieno svolgimento della schermaglia. Tronchi e rami si erano
trasformati, d’un tratto, in avversari armati di spade,
asce e frecce da dover evitare. E lui non aveva altro
che la sua agilità e la prontezza di riflessi del cavallo,
che avanzava veloce e stregato.
Corsero come se avessero la fine del mondo alle
calcagna per un tempo interminabile, tanto che quan-
do il cavallo si fermò, Tholos si ritrovò col fiato corto.
Si stupì del proprio sangue freddo quando finalmente
riaprì gli occhi e non si trovò in mezzo a nemici e armi
affilate, ma in un posto che aveva visto solo da piccolo:
il monte Qostiid.
«Dannazione!» esclamò l'uomo a voce alta, «abbiamo fatto centinaia di miglia per arrivare sul monte dei
fattucchieri?»
«Stiild hi, Bromhuv», sentì dietro di sé Tholos dalla
voce femminile invisibile, ora molto vicina. Si girò di
scatto e vide una donna vestita di un mantello verde
scuro, sbiadito e logoro, il volto in ombra da un cappuccio dal quale uscivano solo alcune ciocche di capelli rosso fuoco. Era slanciata, le forme del corpo nascoste dall’ampio manto, le mani pallide e curate
incrociate sul ventre. Dal tono della voce, Tholos dedusse che doveva essere giovane, forse più di lui, ma
con la magia non si poteva mai sapere, giacché molti
maghi e fattucchieri potevano anche vivere in eterno
se lo desideravano, dimostrandosi sempre giovani.
«Calmarmi?», disse quasi urlando, allora, l’uomo,
«Mi hai fatto uscire dalla sicurezza della mia casa per
farmi venire in questa terra dimenticata dagli dèi e dal
Fato! Chi sei tu, donna? Cosa vuoi da me?»
Con una lieve scrollata di spalle, Tholos sentì la piccola risata gioviale della strega che aveva di fronte,
che rispose: «Rah ahrk dez? Dèi e Fato non c’entrano,
mio buon Tholos. Giacché, se i primi sono sordi alle
voci di chi vive in questo mondo, il secondo esiste, oppure non esiste»
«Come tutte le fattucchiere cominci a parlare per
enigmi?», disse spazientito l’uomo. «Parla chiaro,
strega. Chi sei tu? Perché sono qui? Come fai a conoscere il mio nome? Quale bestia sacra ho ucciso per
meritarmi quella corsa a perdifiato?»
«Yu laan. Troppe domande a cui rispondere. E abbiamo poco tempo» Mentre diceva questo, la donna si
sfilò piano piano il cappuccio, rivelando il viso di una
ventenne o poco più, il naso delicato e coperto di lentiggini, gli occhi di un verde chiaro che potevano scrutare l’anima di qualsiasi uomo, le labbra carnose e rosee. Da sotto le pieghe del cappuccio, sul collo, si
intravedeva un gioiello stretto alla gola con incastrato
uno zaffiro dello stesso colore degli occhi della maga.
«Ho molti nomi, Bromhuv, Uomo del Nord. Vengo chiamata “Sibilla”, ma non in questo regno. In un altro
mondo mi conoscono con il nome di “Lamia”. Qui, i
tuoi avi mi chiamavano “Nahgahzii”, l’oracolo»
Incantato dalla bellezza della creatura che aveva
davanti, Tholos non aveva ascoltato una sola parola.
Scosse la testa, cercando di ritrovare la lucidità e concentrandosi su quello che aveva da dire, ma lei non gli
diede il tempo di ragionare e continuò: «Sei stato chiamato a me perché hai una missione importante da
portare a termine. E solo tu, Tholos di Ahrolsekey,
puoi assolverla. Il tuo nome, come quello degli altri
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Cronache di Oscailt
Capitolo 3 — Rivelazioni
Krifiik Do Dez, i Condottieri del Destino, è conosciuto da
eoni. Solo gli appartenenti a questa casta possono sperare di sconfiggere l'eterno susseguirsi della Ruota del
Fato.
«Ti sono state mandate visioni di un futuro possibile. La Ruota del Fato ha decretato che la Lot Kein, la
Grande Guerra, quella da cui sei fuggito con il tuo destriero, sarà l’unica soluzione accettabile. E questo significherà la totale estinzione della maggior parte delle razze che abitano questo Lein, il mondo in cui vivi.
Ebbene, come ho detto prima, il Fato esiste e al contempo non esiste. Alcuni individui, pochi per ogni generazione, hanno il potere di proseguire non visti dalla Ruota del Fato; questi sono i Krifiik Do Dez,
personaggi che fuggono dalle grinfie del Dez, del Destino. Paradossalmente, costoro sono destinati a combattere il destino se decidessero di abbracciare la loro
missione, salvando così migliaia di vite, spesso con un
sacrificio... o più di uno.
«Tu sei stato già messo alla prova, Bromhuv. Hai
perso la tua amata moglie, morta per parto con il tuo
secondogenito. E questo non è passato inosservato. Ti
è stato inviato uno Stahdim Grohiik, un Lupo con le capacità di poter vedere oltre il visibile. E il fatto che il
tuo primogenito gli abbia dato il nome del figlio che
non hai mai avuto è tutt’altro che un caso»
Tholos si preparò per fare altre domande, ma la
donna alzò una mano, anticipandolo e zittendolo, e
continuò: «Sì, Tholos di Ahrolsekey, tuo figlio Khylos è
un Krifiik Do Dez come te. Ed è proprio lui la tua missione. Ti è stato fatto vedere ciò che succederà, ciò che lui
vedrà, ma ciò che lui farà o non farà starà solo ed
esclusivamente al suo arbitrio. Io e gli altri Nahgahzii
confidiamo che tu lo sappia addestrare alla sua missione come hai fatto fino ad adesso, per quanto inconsapevolmente»
Mentre ascoltava titubante la donna, l’uomo si sentì osservato, ma da una presenza amica. Infatti, dietro
di lui, vicino al Nonvul che stava brucando l’erba, gli
occhi di nuovo normali, vide Khyler che osservava la
situazione, gli occhi illuminati di una strana luce can-
giante, come quelli di un lupo di un racconto della sua
infanzia. Ed era una presenza beneaccetta, perché, nonostante all’inizio l’animale gli avesse ispirato qualche reticenza, col passare delle settimane questo si era
rivelato un elemento non solo utile nelle faccende di
casa e di lavoro, ma anche un utile compagno di vita
per il figlio, giacché spesso gli evitava dei guai anche
seri. Tholos guardò quegli occhi così luminescenti e, in
un gesto d’affetto, aprì la mano e la rivolse verso l'animale, che subito si avvicinò e la leccò.
L’uomo si sporse verso il lupo, affondò il viso nella
pelliccia e mentre gli accarezzava il garrese si ritrovò
a versare lacrime calde; non riusciva a capire a cosa
fossero dovute, ma era come se le trattenesse da tanto,
troppo tempo.
Allora alzò lo sguardo e lo fissò sulla maga, gli occhi
rossi e gonfi, ed ella disse benevola: «Bromhuv, Uomo
del Nord, questo Grohiik non solo è un animale sacro,
ma è anche infuso dello spirito di quel figlio che non
hai mai potuto abbracciare. Quando tu non ci sarai, il
tuo primogenito sarà in buone mani».
Ancora con il viso rigato e con voce tremante per le
così tante emozioni vissute quella notte, Tholos si alzò
in piedi e cercò di ricomporsi, raccolse tutta la forza di
volontà che aveva e guardò negli occhi la donna che
aveva di fronte: «Non ho mai creduto nel Destino. Mi
sono sempre fatto strada con le mie mani e sono sempre stato sicuro che quello che ho deciso nella mia vita
è successo perché è sempre stata una mia scelta. E voglio che mio figlio, anzi, i miei figli crescano con lo
stesso spirito!» Fece una pausa e prese un lembo del
mantello per tergersi le lacrime, poi guardò in basso,
verso Khyler. Il lupo aveva di nuovo i suoi occhi, uno
diverso dall’altro, che lo fissavano come in attesa; solo
allora notò che uno dei due ricordava così tanto lo
sguardo della sua amata Mhyssa. Lo accarezzò di nuovo sopra la testa, trattenendo a stento nuove lacrime e
sentendolo vicino come non gli era mai capitato. Infine si rivolse di nuovo alla maga, la voce decisa, e chiese: «Che devo fare?»
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ann.
La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 03 — Neph e Gio’. Jack e Melk.
La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 03 — Neph e Gio’. Jack e Melk.
Luca Moretti
Genere: Fantascienza
Quella lettera mi mise in uno stato di forte agitazione. Ero confuso, smarrito. Fra’ Giacomo
era convinto di quello che aveva visto, ma ancor di più era convinto che fossero segni divini.
Mi sentivo di tutt’altro avviso. Se quel che aveva visto quella notte fosse stato vero, come
poteva Nostro Signore mandarci dei segni attraverso la progenie del male? Ero spaventato,
ma lo ero ancor di più ammettendo il contrario. Se fossero stati dei segni diabolici, perché mi
erano apparsi in sogno in tempi non sospetti? Perché li avevo scambiati per segni divini? E
se fossero stati veramente mandati dall’empireo, allora quelle bestie non potevano rappresentare davvero il male che avevamo combattuto per secoli. Non sapevo più cosa pensare.
Che fosse il dubbio la vera natura delle tentazioni diaboliche? Mi convinsi che l’unica risposta
poteva venire dalla preghiera. Mi inginocchiai e mi persi nell’incanto dei Salmi.
Trascrizione della comunicazione radio tra Padre Giovanni, pilota della macchina
angelica multifunzione Neo-Malleus (che verrà abbreviato con la sigla NM), e il
Centro Comandi III (che verrà abbreviato con la sigla CC) di Monte Marte dopo l’attacco all’Apis I, pilotato da Padre Isacco.
[Si prega di prendere visione del Fascicolo 01 o del rapporto nel Fascicolo 02 in riferimento all’attacco in questione. Sole Nero]
NM: «Ivi, N-M. Disimbarco dalla Domus Lunae eseguito. Mi appresto ad affrontare
l’orbita. Arrivo previsto in 1.5 fasi. Attendo coordinate obiettivo ostile. Laudetur»
CC: «Ivi, C.C. III. Obiettivo in VI quadranta, II gradu. Sollecitiamo celerità in fase
orbitale. Arrivo richiesto in 0.5 fasi. Ci serve qui subito, padre Giovanni»
NM: «Eseguire rimozione primo diaframma turbine»
[…]: «A questa velocità, Giovanni, non ti garantisco un viaggio in prima classe; a un
atterraggio morbido, poi, non pensarci proprio»
Dal precedente messaggio in poi si aggiunge alla comunicazione un terzo soggetto:
l’Unità Senziente Integrata del Neo-Malleus. Ciò comporterà il cambiamento della
legenda per distinguere questo soggetto (N) dal suo pilota, Padre Giovanni (G).
G: «Ego te absolvo, Nephilim Major. Concediamoci questo ballo in grazia di Dio. C.C. III,
sbaglio o ci sono ancora truppe di terra nei paraggi? Vi prego di sgomberare il campo.
Laudetur»
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La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 03 — Neph e Gio’. Jack e Melk.
CC: «Ivi, C.C. III. Non riusciamo a comunicare con
fra’ Girolamo. C’è una strana interferenza nella
zona. Stiamo provando a bypassarla. Laudetur»
G: «Dovrai fare gli straordinari, Neph. Non
friggermi quelle povere pecorelle»
N: «Non vorrei sbagliarmi, ma un certo Giovanni,
qui presente, mi confidò che avrebbe volentieri
strappato a morsi la barba di fra’ Girolamo
all’ultima adunanza»
G: «Mio adorato Neph, ho specificato “pecorelle”.
Che Dio mi perdoni, ma a quel vecchio caprone
puoi fare quello che vuoi»
N: «Diabolico»
G: «Ivi, N-M. Rientro nell’atmosfera. Arrivo
previsto in 0.1 fasi. Inizio fase di atterraggio.
Laudetur. Questo rollio è mostruoso! Mi si stanno
staccando i denti. Ti avevo invitato a un valzer,
Neph, non a una rumba!»
N: «Non sovraccaricare i miei circuiti di calcolo.
Faccio finta di non averti sentito, Gio’. Guarda,
guarda che bella piantina. Andiamo a darle un po’
di diserbante.»
G: «Ivi, N-M. Contatto visivo. Atterraggio
immediato. Laudetur»
N: «Volo in assetto calibrato. Over-ride degli
smorzatori inerziali. Salterà qualche timpano, qua
sotto. Bentornato sulla Terra, Giovanni!»
G: «Ivi, N-M. Atterraggio effettuato. Obiettivo
agganciato. Operativo e pronto all'epurazione.
Laudetur. Neph, passami i comandi»
N: «Controllo manuale dell’esoarmatura attivato.
Sincronia ottimale. Siamo un’anima indivisibile.
Sia fatta la tua volontà, Gio’!»
G: «Basta scherzare, Neph. Armare maglio a
positroni. C. C. III, vorrei un rapporto immediato
sui picchi isotopici del Mantas e sulla frequenza di
rotazione del Gladius»
CC: «Rileviamo ciclicità di carica e scarica del
Mantas. Secondo i nostri calcoli sarà di nuovo
pronto a un’emissione tra 0.7 fasi. Impossibile
determinare la frequenza del Gladius. Il soggetto
sta diminuendo drasticamente la rotazione.
Prevediamo lo stallo tra 0.3 fasi»
N: «Dovrai ballare il twist questa volta, padre Gio’.
Vuoi che ti attivi gli attenuatori spinali?»
G: «Magari, Neph. Facciamo un po’ di ginnastica
schivando questo asparago troppo cresciuto. C. C.
III, avete già notizie delle condizioni di padre
Isacco? Ci tengo a quell’orso marsicano»
CC: «Incolume. Ma non possiamo dire lo stesso del
novizio che era con lui. Pare che sia caduto in uno
stato catatonico dopo la scarica. Non sappiamo
altro»
G: «Che Dio abbia pietà di lui. Neph, non voglio
ricevere lo stesso trattamento. Facciamo
assaggiare il martello divino a questo abominio»
N: «Ci sei tu alla guida. Bobina positronica carica»
G: «Ritornatene nell’abisso!»
CC: «Ivi, C. C. III. Traccia isotopica nulla. Rapporto
danni?»
G: «Nessun danno, ma il Gladius non ha fatto una
piega. Preso! Ora facciamo un po’ di vivisezione
alla vecchia maniera. La spremuta è servita. Per la
barba di fra’ Girolamo, e questo cos’è?»
N: «Cos’è cosa, Giovanni?»
CC: «Ivi, C. C. III. Rileviamo cessazione di ogni
attività. Rapporto»
G: «…»
N: «Che succede, Gio’? Giovanni, stai bene?»
G: «Ivi, N-M. Vi prego di comprendere il mio
stupore, ma è la prima volta che trovo una cosa
simile qua dentro. Rilevato soggetto non
identificato tra i resti del Gladius. Il soggetto
presenta le fattezze di un essere umano nei primi
mesi di vita. È un neonato in tutto e per tutto. Il
soggetto è circondato da una nube non identificata
di colore verde e non presenta tracce di
radioattività. Laudetur»
CC: «Ivi, C. C. III. Procedere all'annientamento
totale del soggetto»
G: «Il soggetto non mostra atteggiamento ostile e
io prendo ordini solo dall’abate o dai suoi
superiori. Stai al tuo posto, fratello»
CC: «Con tutto il rispetto, Padre, ma dato il
tracciato nullo dai nostri rilevatori esobiologici, è
molto probabile che sia soltanto un’allucinazione o
una tentazione diabolica e in quanto tale il
protocollo prevede l’annientamento»
G: «Neph, vedi anche tu quello che vedo io?»
N: «Rilevo una forma di vita, se è questo quello che
volevi sapere e se la mia può essere considerata
vista»
G: «Disturbi di fase?»
N: «Neanche l’ombra»
G: «Sta bene. C. C. III, esclusa l’ipotesi di
allucinazione o tentazione. Soggetto ostile
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La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 03 — Neph e Gio’. Jack e Melk.
terminato. Ritengo la mia missione conclusa.
Procedo all’acquisizione del soggetto non
identificato e al suo trasporto immediato su
Domus Lunae»
CC: «In quanto acquisito nell’area di nostra
competenza, ci appelliamo al diritto di rivalsa sul
soggetto non identificato»
G: «Scordatelo. Consideralo come un gentile
omaggio per la mia cortese disponibilità. Riprendi
i comandi, Neph, torniamo alla base»
N: «Vorrei ricordarti che stando a quanto affermi,
tra l’altro cosa della quale non ho mai dubitato,
per quanto io possa essere delicato, quel corpicino
non durerà a lungo nel palmo della mia mano in
piena assenza di gravità. Ritengo, tuttavia, che
forse sarà più infastidito dall’assenza di ossigeno,
cosa ne pensi?»
G: «Credo che riceverà il colpo di grazia dal tuo
sarcasmo. Attivare apertura Sacro Cuore. Lo terrò
in cabina con me. Cos’è questo odore?»
N: «Spero tu non stia facendo questa domanda
veramente a me. Come ben sai, per qualche oscura
ragione i miei costruttori non hanno pensato a
dotarmi degli essenziali rilevatori di profumi ed
essenze. Credo sia un bene, conoscendo le tue
abitudini igieniche»
G: «Che Dio mi assista, non posso crederci. Il bimbo
è ancora assopito ed emana un gradevolissimo
odore di menta. Gli infirmaria impazziranno per
venire a capo di questo mistero. Attivare chiusura
Sacro Cuore. Decollo immediato»
CC: «Ivi, C. C. III. Mi duole informarla, padre
Giovanni, che dovrò fare rapporto su quanto
accaduto»
G: «Lo leggeremo scrupolosamente, fratello, non si
preoccupi. Che la pace sia con te. Semper»
G: «Non posso credere che dorma così beatamente
mentre sei alla guida, Neph»
N: «Ti stai già affezionando, Gio’? Hai già pensato
al nome da dargli, magari.»
G: «Potrebbe ereditare questa cabina per quanto
mi riguarda. Sempre se riuscisse a sopportare la
tua ironia. Aspetta! Sta aprendo gli occhi! Salvaci,
o Signore. Non ci crederai, ma ha due pozzi neri
come l’inferno e mi sta fissando. Non riesco a
sostenere il suo sguardo. Eseguire rimozione
primo, secondo e terzo diaframma turbine. Vai alla
massima velocità, Neph!»
N: «Ricevuto»
G: «Quanto manca ancora? È troppo inquietante
stare chiuso qui dentro insieme a questo esserino.
Si muove a malapena, eppure emana un’aura
sinistra»
N: «Ci siamo quasi. Avviate procedure di
ancoraggio. Resisti, padre Giovanni, eccoci di
ritorno a casa. Perlomeno, la mia»
Lettera del Concilio dell'Oltrempireo Datata xx/
xx/xxxx, CAα1
Le sfumature dorate dei pomeriggi di primavera a
Roma avevano qualcosa di unico. Lo avvertivi nell’aria,
quasi sempre per caso, mentre camminavi tra le viuzze laterali del centro. Mentre passeggiavi sui sanpietrini un po’
sconnessi evitando le rotte dei turisti per goderti la bella
Capitale, la Roma dei romani. Lo sguardo basso, quasi a
controllare i passi tra l’acciottolato, veniva calamitato in
alto. Con gli occhi passavi in rassegna i portoni austeri ma
sempre un po’ scrostati, le persiane sbilenche, i balconcini
improbabili dalle balaustre arrugginite, ma sempre carichi
di vasi colorati. Dal verde vivido, le rampicanti sembravano cercare una via di fuga su quelle grondaie pericolanti.
Muri che erano stati ricoperti di intonaco, o ne sognavano
uno da anni. Sui muri alcuni gechi, che chiamavamo salamandre. Sui tetti i mal tollerati piccioni. Sconnesse tegole
rosse, quasi a riflesso del manto stradale. Poi si apriva un
cielo blu. Terso, la quintessenza del limpido. Inspiravi. Un
respiro profondo che riempiva l’anima. Tutto cambiava
colore sotto quella luce, quella luce che non abbaglia, che
scalda l’anima e libera dagli affanni. Quei riflessi che ti facevano socchiudere gli occhi e spalancavano i sensi. Il tepore sul volto e sulle mani che arrivava alla porta accostata del cuore e la brezza mite che gentilmente la
dischiudeva. Cambiavi prospettive, scoprivi recessi, fuori e
dentro di te, tra le rughe delle signore che salutavi con un
cenno del capo, tra le pieghe dell’animo che ascoltavi di
rado. E ti scoprivi diverso, ma pur sempre lo stesso. Ti ritrovavi a chinarti e ad accarezzare quel gatto che, per una
sua oscura ragione, ti aveva scelto come compagno di viaggio, regalandoti fusa, magari per sempre o per soli due passi. Qualcosa di unico. Lo avvertivi nell’aria, quasi sempre
per caso, nei pomeriggi di primavera a Roma.
Le sfumature dorate di questo austero riparo mi portano alla mente quei ricordi di uomo. Lungi dall’essere un
simulacro di Roma, quest’angolo di niente mi ricorda che
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La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 03 — Neph e Gio’. Jack e Melk.
ogni uomo nasce libero. Seppur intrappolato in quei
meccanismi oscuri, in quelle ridondanti trappole mentali, in quella mimetica schiavitù, io ero vivo e avevo ogni
mezzo per liberarmi. Questi racconti servano da lezione
agli scettici, diano forza ai timorosi. Non esistono gabbie
che non si possano spezzare, non esistono lacci che non
si possano sciogliere. Ma esistono porti sicuri che puzzano di marcio e uomini ottusi che ignorano l’olfatto. Esistono gioielli che rivestono lo sterco e esistono uomini
che ignorano il tatto. Non ignorate il richiamo della verità. Non temete le ombre del dubbio. Siate sempre pronti
alla rivelazione. Il passo sarà malfermo, ma deve essere
fatto in avanti. La sicumera del passato attenterà alla vostra ragione. L’immobilità prenderà il sopravvento. Combattete, se ce ne sarà bisogno. Aprite il vostro cuore alla
libertà. Il premio, quel qualcosa di unico dei pomeriggi
primaverili romani, vi ripagherà di ogni sforzo. L’unicità
di ogni individuo sarà la sua libertà, che nasce dalla verità. E il momento della verità è giunto.
Mi accingo all’adunanza, mi preparo a visionare i
rapporti e a confrontarmi con i fratelli dell’eremo. I
discorsi rubati tra le trame del monastero sono finalmente arrivati sin qui:
Il Sogno si è fatto carne.
Qualora non riuscissi a mettervi le mani sopra, spero almeno di poter vedere il soggetto non identificato
che viene custodito così gelosamente. Potrebbe essere
la rivelazione che tanto aspettavamo, quel qualcosa di
unico che ci ripagherà di ogni sforzo compiuto sinora.
Siate forti e senza paura.
Semper vostrum,
Marte Cremisi
Dall’anamnesi non risultano casi di traumi pregressi o stati comportamentali di rilevanza psicologica tali da prescrivere trattamenti specifici
in aggiunta alla profilassi solitamente applicata
contro primo contatto con entità esterne.
[Sull’occultamento di informazioni. Nel prendere
visione dei documenti contenuti nei fascicoli, avrete senz’altro notato la presenza di parole occultate. Tengo a precisare che le cancellazioni non sono
state effettuate dal sottoscritto, essendo precedenti al loro ritrovamento. Alcune parole occultate potranno comunque essere dedotte dalla lettura del
diario manoscritto. Per le informazioni non riconducibili a dati certi non ho approfondito la ricerca
perché di nessun interesse ai fini del presente rapporto. Sole Nero]
A fronte delle indagini svolte e dopo attenta analisi, ritengo che lo stato catatonico del paziente sia dovuto alla forte suggestionabilità dello
stesso e allo stress a cui è stato sottoposto.
Pur avendo subito un incontro ravvicinato con
entità esterne, la sua Fede non è stata in alcun
modo intaccata; pertanto, può tornare alle normali attività monastiche e continuare il percorso
di addestramento intrapreso.
Segue relazione degli incontri nel dettaglio:
1° Incontro. Come da referto medico, il soggetto
si presenta in ottimo stato psicofisico e risponde
positivamente agli stimoli.
2° Incontro. Il paziente ostenta sicurezza parlando dell’incidente. Forse mi nasconde qualcosa,
a ogni modo la sua Fede è incrollabile e fa ben
sperare.
3° Incontro. Niente di rilevante nell’analisi sul
passato del paziente, unico dubbio sulla scarsa
attività onirica, nonostante la profonda emotività dello stesso. Negli anni la sua Fede sembra non aver mai vacillato, nota positiva per il
superamento del noviziato e premessa di ottime
possibilità per la candidatura al miglioramento
delle carni.
4° Incontro. Il paziente rompe ogni indugio e
finalmente svela il suo sogno ricorrente, che risulta essere il seguente: «Mi sveglio infante tra
le braccia della Vergine Maria, che mi accudisce
con materna cura». Interpretazione: sogno ricorrente nei soggetti che non hanno mai conosciuto la
propria madre come nel caso del paziente in esame.
Padre Marco, infirmario psicologico
Oggi è stata una lunga giornata.
Dopo meritata clausura nell’eremo della mia cella
con solo questo soffitto e le mie meditazioni come
miei compagni, e gli incontri con Padre Marco come
mie uniche divagazioni, finalmente sono tornato alla
Regola sine clave.
Mi sono sentito molto in imbarazzo quando Giacomo è entrato nella mia cella, dopo aver bussato beninteso, ma senza aspettare il mio permesso.
Consulto e diagnosi sul paziente Giosuè da Xxxx,
novizio.
In data xx/xx/xxxx prendo in analisi il paziente
Fra’ Giosuè da Xxxx e suo relativo referto medico
n.xxxx stilato da Padre Gualdino, mastro infirmario.
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La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 03 — Neph e Gio’. Jack e Melk.
Il sole che portava col suo sorriso si sarebbe fatto
perdonare peccati ben peggiori; il suo entusiasmo fugava ogni ombra di quell’accusa di cui avrei ingiustamente abusato di lì a poco. Eppure, sapevo bene come tale
accusa fosse un ben scarso riparo alla mia timidezza.
Il motivo della mia vergogna è presto spiegato: mi
ero fatto trovare in piedi, al centro della stanza, con il
mio casco da pilota nella mano destra.
«Essere o non essere. Questo è il…»
«Teatro?»
È andata più o meno così.
Cosa avrà mai pensato quando mi ha sorpreso a
scimmiottare il principe Amleto nel suo blasonato monologo? Ero definitivamente uscito di senno e quella
ne era la prova schiacciante.
Per un attimo avevo ceduto alle velleità, godendone le leggerezze, e subito ne ricevevo la giusta punizione.
Tuttora non saprei spiegare quale involuzione
mentale mi avesse portato a una tale messinscena solitaria. Potrei provare a districarne i nodi mentali, potrei provare a risalire quelle cateratte, potrei provare
a dragare l’alveo di quel fiume riottoso che era diventata la mia mente. Potrei semplicemente interpretare
quell’inspiegabile melodramma improvvisato come
l’eccentrica rivisitazione degli incontri con Padre
Marco.
Ero il riflesso tangibile della negazione. La diffidenza dei primi incontri si era oscenamente trasformata
in menzogna, nell’occultamento della verità. Non ero
ancora pronto a rivelare quel Sogno e tutto ciò che
portava con sé. Invece di cercare risposte e conforto
nella preghiera, ero diventato una rozza parodia, personificazione del dilemma.
Perché questo comportamento? Dove era finito
quel ragazzo diligente e sincero che aveva accolto con
cuore puro la Chiamata e, con piede sicuro, aveva varcato la soglia del noviziato?
Mi ero ripromesso di aspettare, avevo peccato seguendo l’inarrestabile istinto di sospettare di Padre
Marco, e come conseguenza mi rimanevano solo un
pugno di dubbi, simili a mosche frementi in cerca
dell’aria, e una bocca asciutta, vacuo deserto di saliva
e parole.
Ero di sasso: non sapevo cosa rispondere a quella
domanda che, fortunatamente, trovava facile risoluzione nel prosieguo del mio curioso amico.
«È un po’ tardi per cambiare mestiere!», ruppe il
silenzio Giacomo, «Senza dubbio ti vedrei meglio nella
parte del protagonista del capolavoro di Beckett. Ti
abbiamo aspettato così tanto in refettorio che Melchiorre e io siamo diventati la versione monastica di
Vladimiro ed Estragone in “Aspettando Giosuè”»
«Ti prego: non dirlo a nessuno, Jack!», la Regola di
Monte Marte non era così tenera per questo genere di
cose.
«Non dire cosa? Non ti preoccupare, Giosuè, ma non
ti approfittare neanche troppo della mia indulgenza!»,
disse con ironia. «Sto custodendo un po’ troppi segreti
a questo novizio impenitente!». La sua gioia di vivere
era il pregio che più amavo di lui e mi investiva come un
vento caldo. Quello zefiro si faceva perdonare anche le
frecce più venefiche della sua faretra, ma non rimasi a
fare da bersaglio immobile.
«La complicità con un peccatore non è dissimile dalla colpa, dice sempre Fra’ Teodoro!», dovevo controbattere, ben sapendo quale gragnuola di colpi si sarebbe
abbattuta su di me se gli avessi lasciato campo libero.
«Vittoria a tavolino per fratello Giosuè! Come si può
rispondere a una citazione da Fra’ Teodoro in persona,
capo-squadra degli addetti alla pulizia?» Si era arreso
subito. Forse per la mia recente degenza. Ad ogni modo,
gradii quell’armistizio e ritrassi subito le unghie.
«Non pensare di essere esonerato dal raccontarmi
cosa ti è preso; ora, comunque, riponiamo le armi e fatti abbracciare, fratello mio, mi sei mancato tantissimo!», e con uno slancio mi cinse le braccia strette intorno al collo, e il casco mi cadde dalle mani, rotolando
sotto il giaciglio. Giacomo era così: candida dolcezza
alternata a caustica ironia. Dotato di un notevole scilinguagnolo, come una folgore passava dalle carezze alle
stoccate verbali con una facilità senza pari, ma sempre
dietro quel grande sorriso incorniciato da una rada lanugine paglierina, che si ostinava a chiamare barba, e
dietro quelle vivaci fessure grigie che aveva al posto degli occhi e rimanevano tali anche quando un ghigno di
scherno si sostituiva al sorriso.
Questi cambi repentini nel suo contegno erano mal
digeriti dagli altri novizi, che tendevano frettolosamente a giudicare Giacomo come una persona tronfia, da
evitare, o perlomeno con cui aver a che fare il meno
possibile. Stringere amicizia con lui fu, in effetti, un mio
atto di fede; non so come ci riuscii. Come guidato dalla
mano infallibile di Nostro Signore, sapevo che quel ragazzo era molto più di quel che ostentava superficialmente, e la perseveranza mi diede ragione: dietro quelle lame affilate trovai una sensibilità e un affetto
infiniti.
«Mi sei mancato anche tu, fratello mio! E Melk dove
l’hai lasciato? Non dirmi che avete discusso anche stavolta!»
«Nient’affatto, anche se ne avrei ben donde. Lo sai
come è fatto. Il “signor” Fra’ Melchiorre da “Nonsidiscute” ha una lectio di meccanica alla quale, a suo dire,
non poteva assolutamente mancare. Ha detto che ci
raggiungerà in refettorio appena avrà finito»
Melchiorre chiudeva questo terzetto mal assortito.
Anche lui aveva legato inspiegabilmente con Giacomo,
e anche lui aveva un carattere molto singolare. Melk
ragionava, si comportava e viveva secondo i suoi propri dettami, ma sarebbe meglio chiamarli aut-aut. Fermo come una macigno nelle sue posizioni, non c’era
29
La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 03 — Neph e Gio’. Jack e Melk.
modo (o trucco verbale di Giacomo) di fargli cambiare
idea. Ma la sua bontà d’animo e il suo altruismo valevano ogni briciolo di smussatura delle nostre concessioni e dei nostri assensi. Tra i princìpi di quel gigante
completamente glabro (dato che anche radersi rientrava tra le sue singolari norme), eravamo curiosamente riusciti a ritagliarci un angolino e, tra una discussione animata con Giacomo e i miei sforzi per
cercare soluzioni che andassero bene a entrambi, questa nostra bizzarra amicizia riusciva a consolidarsi e
andare avanti quotidianamente come in uno strano
gioco d’equilibrismo fatto di incastri polimorfi, carrucole sghembe e ingranaggi sdentati.
«Eppure, ragionandoci, chi se ne importa di quel
testardo! Non puoi capire quanto io sia stato in apprensione per te, e quanto ora io sia felice di rivederti!», e mantenendo lo stesso tono e lo stesso sorriso
proseguì: «Allora, cos’era tutto quel teatrino?». A Giacomo non la si fa.
«Niente di che, Jack. Mi sono ritrovato con il casco
in mano e per gioco ho ripetuto ad alta voce quella
frase» Iniziavo a preoccuparmi della facilità con la
quale mentivo con mezze verità. Non era da me, ma
cosa mi stava succedendo? Non mi sarei mai aspettato
di essere in grado di mentire anche a Giacomo, ma avvertii la strana sensazione che lo stavo facendo per il
suo bene. «Tra l’altro, dove sarà andato a finire?», e mi
chinai per raccogliere il casco da sotto il letto.
Conoscevo troppo bene Giacomo. Anche da quella
posizione, senza doverlo guardare in volto, avvertivo i
suoi sensi fiutare qualcosa di strano e mi sentivo addosso lo sguardo accusatorio di quelle fessure che aveva al posto degli occhi.
Andai avanti a parlare a briglia sciolta mentre facevo finta di cercare il casco, ma non ce la facevo ad affrontare il suo sguardo. «Sai bene quanto qui, all’eremo, le regole contro queste trasgressioni siano severe;
severe ma giuste, certo, che Dio mi perdoni, ma ti garantisco che è stato solo un attimo di dimenticanza,
forse dovuto alla stanchezza. Per questo sono già pentito e sarò penitente, te lo prometto, appena sarò di
ritorno dal refettorio. Ti chiedevo semplicemente di
non farne parola con nessuno per non incappare in
una punizione eccessiva, come sovente accade con i
novizi tutt’altro che pentiti, a differenza mia. In nome
della nostra amicizia» Non l’avevo convinto per niente, ne sono sicuro.
Comunque, lo sentii dire: «No, forse non ci siamo
capiti. Cos’è quel teatrino che hai fatto da Padre Marco? Perché non gli hai raccontato il Sogno completo?».
Improvvisamente non sentivo più scorrere il sangue nelle vene. Lentamente tirai fuori la testa da sotto
il letto e lo guardai in quelle fessure grigie che aveva al
posto degli occhi. Come faceva a saperlo?
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due racconti nei quali il mistero è
al centro della scena.
Intrighi, indizi confusi e misteriosi personaggi si muovono tra le ombre, in contrasto con lo stoico Commissario
Lombardi e del suo fidato Bonomi.
Un giallo all'italiana un po' fuori dalle righe, che prende e si
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un lampo di infinità.
Che non mi fa dormire e non mi fa vegliare:
ora è per sempre ora»
Marlene Kuntz
La stazione è immersa in una luce bluastra da American Movie di quart’ordine. È l’alba o
l’imbrunire? Fasci di neon, il lento precipitare della scala mobile, il deserto del mattino.
È l’alba.
Quattro giorni che sono sveglio senza saperlo.
Succede questo: sento sonno piuttosto presto, ma è sonno e quindi lo assecondo. Mi
godo le lenzuola pulite sulla pelle, la perfetta morbidezza del cuscino, le curve della mia
donna; dormo. E poi, senza nemmeno essermene accorto, sono sveglio. Gli occhi spalancati sul soffitto, su lei che dorme, sulla danza sensuale del pulviscolo, nel cono di luna che
mi regala la finestra. Sono perdutamente sveglio, eppure non sento il bisogno di alzarmi
o accendere la luce, sento solo di essere sveglio ed immobile, troppo vivo per spegnermi
e troppo morto per accendermi. E resto lì fino al mattino, come se stessi dormendo, ma
senza dormire.
Ma adesso mi trovo alla stazione. Fatico a crederlo, devo essermi mosso in una sorta
di trance post-apocalittica. Scivolo verso il binario 23, il solito treno scrostato marcia
stancamente verso la banchina. Manca qualcosa a questa mattina sonnolenta. Sto pensando proprio questo mentre mi sveglio. La faccia mi si dev’essere appiccicata al finestrino e non riesco a distinguere le ombre dalla luce.
***
A fine giornata, il ritorno ha sempre l’odore del ferro. Oggi no. Siamo nel buio di una
galleria − qualcuno o qualcosa mi si muove accanto −, ma vedo la lucciola bianca dell’uscita scoppiare di luce, come aprendo un varco fra quello che c’era prima e tutto il resto
della storia. Un attimo prima di tornare nel sole, una valanga di terra mi riempie le narici.
Non avevo mai visto o annusato niente del genere. La costa invasa da cirro-cumuli di
montagna che hanno preso la via del mare. Squadre di uomini in assetto da calamità si
avvicendano sulla spiaggia portando secchi, vanghe, picconi. Il piccolo paese che affaccia
su quello sfacelo di terra è immobile, soffocato. I detriti ammucchiati davanti, sopra,
dentro le case. Le strade indistinguibili l’una dall’altra: tutte, senza eccezione, protette
33
Ole Lukoje
Racconto Autoconclusivo
da un soffice strato di fango e fogna. Qua e là, a cercare
un filo logico, mangiatori di patate in galosce verdi. Su
tutti incombe il cielo plumbeo degli smottamenti, come
se il dio della terra si stesse ribellando, vomitando se
stesso sulle brutture degli uomini. Non mi sono mai più
sentito sepolto come allora.
***
È mattina, ancora. Stanotte lei mi ha guardato con
gli occhi del terrore. Mi ha soffiato sulla bocca che le
facevo paura, con quei miei occhi spalancati sulla notte.
Poi mi ha permesso di fare l’amore. Ho dormito qualche
ora, credo. Non lo so, sono sempre qui senza sapere
come ci sono arrivato. Lungo la strada l’odore di terra
mi si strozza sempre in gola, quando il treno sbuca dalla
galleria e si affaccia sull’alluvione. Il paese sta tornando
alla sua vita quotidiana, solo un po’ più infangato. Io sto
cercando di rimanere all’interno della mia vita quotidiana, ma il fango mi riempie la testa e mi mangia il
sonno.
Sono sette giorni che sono sveglio senza saperlo. O
sono otto?
So che devo muovermi verso nord, so che devo prendere il treno, ma non so perché. Lei mi ha versato il sonnifero nell’acqua, mi ha implorato di provare a dormire,
mi ha tenuto stretto tutto il tempo e io ho tenuto gli
occhi chiusi. Diceva che le sembravo un fantasma, un
guscio vuoto, un non-morto. Oggi la luce mi fa male agli
occhi e, ogni volta che mi muovo troppo velocemente,
la realtà si scioglie in scie colorate. Lampi di rumore mi
attraversano le tempie. Credo che i ricordi si stiano confondendo con le sensazioni. E piove. Gocce pesanti si
abbattono sui vetri in una dolcissima ninnananna.
Mi sveglia il tamburellare del controllore sul finestrino. Leggo nelle rughe sulla sua fronte che mi sbatterebbe giù dal treno, se i miei vestiti non fossero puliti e
curati. Non posso biasimarlo, ho occhiaie profonde, la
barba sfatta e l’aria perduta. Ma ho fatto un sogno:
Un vortice fluorescente mi avvolgeva, acceso di lucciole e
polvere cosmica. Intorno a me roteavano galassie, io orbitavo
sulla linea di satelliti sconosciuti. Abitavo un buco nero e rifiorivo per millenni sul suo orizzonte degli eventi. Assistevo
all’esplosione di una supernova e ne scagliavo i frantumi ancora fiammeggianti sulla Via Lattea perché non la dimenticassero. Mi muovevo nel vuoto siderale, lontano anni luce dal
sistema solare, verso una nebulosa che chiamavo casa. Nella
stanzetta dipinta c’era lui che mi guardava di traverso,
dall’alto dei suoi ottanta centimetri di coraggio. Aveva messo
il pigiama con i pianeti, quello azzurro che fa il paio con i suoi
occhioni spalancati sulla mia anima. Gli facevo segno di fare
silenzio, poi con un soffio lo investivo di polvere stellare. Ecco
a voi l’astronauta dell’anno! Nel suo sogno un razzo si staccava dalla Terra e si librava nel nero, mentre lui sentiva il sedile
vibrare. La gravità smetteva di essere un problema e lui cominciava a far capriole, mangiava i cereali che gli volteggiavano intorno come farfalle croccanti. Vedeva la Terra da un
oblò e rideva a crepapelle.
***
Lei mi ha baciato a lungo e mi si è addormentata addosso. Sembra meno turbata, come se avesse deciso che
può combattere la mia insonnia per me. La tengo stretta
e le ascolto il respiro regolare, seguo il gioco dell’aria
nei suoi polmoni, ritmico e morbido, e le guardo i fremiti impercettibili delle ciglia. Anche se non sono sveglio e
non dormo, mi sento più lucido adesso di quanto non lo
sia di giorno.
Sono dieci giorni che non dormo e non lo so.
Comincio a chiedermi come faccia il mio corpo a sopportarlo. Dicono che il sonno ristori, come una camera
iperbarica, che rigeneri. Io sono ancora qui, lungo questo viaggio ciclico, come un giorno che si ripete ogni
giorno. La ragazza che mi siede di fronte mi guarda accendermi e spegnermi, con un certo imbarazzo dovuto
alla testa che ciondola sempre più spesso, crollando sotto il peso della veglia. L’odore di terra mi colpisce sempre come un pugno ben assestato. Sulla spiaggia i lavori
sembrano fermi, sul villaggio incombe una gru morente. Mi chiedo quanta terra si possa respirare senza che
si mischi agli umori del corpo fino a infangare i polmoni. Ma ho sognato ancora, ho sognato questo:
Un vento di neve mi trasportava. Risalivo pendii gelati e
sorvolavo ghiacciai perenni, mi lasciavo cullare degli spruzzi
delle balene, soffiando l’acqua a mia volta in mille particelle
d’anima. Respiravo ghiaccioli e affondavo le dita lunghissime
in metri di cristalli bianchi e polverosi che poi scagliavo, in
onde di gelo, sul mondo. L’aria era secca e pungente e lei aveva spalancato la finestra per fumare di nascosto. Quindici
anni di musica alternativa, letture alternative, film alternativi, vestiti alternativi, occhi alternativi. Mi vedeva appena,
mentre correva a mettersi a letto, la porta che si apriva piano
e qualcuno che entrava a chiudere quell’inverno spalancato
34
Ole Lukoje
Racconto Autoconclusivo
di finestra e a poggiarle un bacio in fronte. Le piaceva ancora.
Poi si voltava e mi vedeva. Rimaneva impietrita mentre allungavo le mie dita chilometriche sui suoi occhi e li impastavo di
polvere. Sognava di fare un lungo viaggio in un paese lontano,
dove le case erano arredate al rovescio, con i mobili sul soffitto e innumerevoli scale per raggiungerli. Sognava di un treno
che la proteggeva dal deserto, di un Orient Express carico di
avventure e uomini d’ogni parte del mondo. Sentiva il morso
del viaggio stringerle lo stomaco e spalancarle gli occhi. Sfogliava le alternative che la vita le avrebbe sputato in faccia e
sospirava.
***
Il mondo può essere un fascio di nervi che si sfilaccia. Vedo i capi dei fili annodati agli occhi dei passanti,
mentre guardano i loro pensieri dissolversi in altri pensieri. La realtà mi sembra scomposta in frammenti d’osso che si rimescolano nelle mani di un’indovina: in base
a come li lancerà sul tavolo verrà composto un mondo
diverso. Questo treno non è più o meno reale di una giraffa a strisce e continua a scavare un solco fra le pieghe
della mia mente, facendosi strada fra le fitte che mi
stringono le tempie.
Undici giorni di veglia-non-veglia.
Lei dice che i miei sogni sono un luogo della mente.
Sembra il sultano che si perde nei racconti di Shahrazād,
o Kublai Khan in quelli di Marco Polo. Mi ascolta e mi
chiede i particolari, rimane sveglia con me fino a quando le palpebre non le serrano la vista ed il sonno la
prende. Il sonno. Forse non ne sento nemmeno la mancanza, forse non ho bisogno di dormire. Il corpo soffre e
si ribella, ma la mente si affina e si schiarisce fino a considerare ipotesi che prima non avrebbe nemmeno preso
in esame. Non le ho raccontato l’ultimo sogno, si sarebbe spaventata. Non le ho raccontato questo:
Mi spingevo fino ai confini del continente, in un deserto
rosso disseminato di giganti di arenaria. Ero la pioggia e il
vento improvvisi che fanno fiorire la sabbia. Ero una tempesta rossa che sconvolgeva le dune e si abbatteva sulle facciate
di pietra, plasmandone la superficie. Ero il pianto millenario
che aveva scolpito i volti a guardia di quella valle di luna. Lui
aveva occhiaie profonde e un sorriso obliquo, occhi scuri e torbidi e sopracciglia corrucciate. Se ne stava seduto in mezzo al
letto come un capo indiano, lunghi capelli neri gli correvano
sulle spalle. Mi guardava e sorrideva beffardo.
«Come osi, umano, guardarmi come una civetta?»
Parlai con una voce di Stige, che non mi apparteneva e mai
mi sarebbe appartenuta, ma lui non rispose. Rimaneva fermo
a fissarmi, coi contorni dei viso che tremolavano e quel sorriso
insolente. In un lampo ero in piedi sul suo letto, gli impastavo
di fango gli occhi e lo spingevo indietro, alle origini della sua
esistenza, in un sonno da limbo. Correva sulla sua 883 fiammante, alle spalle un sole beffardo, davanti a lui nuvole nere
montavano e si gonfiavano d’acqua e fulmini. Non poteva tornare indietro e quindi avanzava verso la tempesta, rombando.
Prima era il vento. Una raffica lo prendeva e lo spostava sulla
corsia di destra, un’altra se lo litigava per spingerlo su quella
di sinistra, un’altra ancora lo trascinava indietro. Lui lottava
per mantenere il controllo, un’ansia gli cresceva in gola e raschiava per uscire. Fulmini d’argento, intanto, gli si scagliavano addosso dalle profonde vastità del cielo. Per uno che ne
schivava due lo sfioravano pizzicandogli gli alluci. Poi fu la
pioggia. Aghi puntuti che lo infilzavano come una bambola
voodoo, spilloni che lo passavano da parte a parte, pugnali nel
petto. E secchi d’acqua salata nel casco. Correva, non respirava più. Quell’ansia in gola grattava per uscire, gli scorticava
l’ugola e moriva affogata con lui: aveva la bocca saldata al
casco
***
Questa stazione non esiste. Questo treno non esiste.
Queste persone, che non mi vedono, che passano e mi
evitano senza saperlo, a cui vedo dentro e che potrei
trapassare con uno guardo, nemmeno. Non esistono.
Qualcosa freme sotto il velo di questa non-esistenza insonne che mi porto sul cuore. Un tremito gentile d’orrore, qualcosa che non posso vedere ma di cui distinguo i
contorni.
Quindici giorni insonni di lucidità.
Lei mi stringe le gambe intorno alla vita, mi tocca i
pensieri con le dita e mangia gli incubi che sogno. È più
viva che mai, più bella. Mi mormora qualcosa di confuso
e meraviglioso, prima di crollare per i pochi minuti di
sonno che si concede fra un agguato e l’altro. Mi soffoca
col profumo dei suoi capelli. E m’ipnotizza la sequenza
di molecole che le compongono la pelle, mi scioglie il
senno quel continuo mutare nei cristalli bruni dei suoi
occhi, mi annienta il sonno la ragnatela che tesse con le
dita sulla mia bocca. Sono sveglio, sveglio come chi non
dormirà mai, ma sogno.
Sogno il grande ulivo sotto cui giocavo da bambino, nell’orto della casa al mare. Sto dormendo sotto sette metri di terra,
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Ole Lukoje
Racconto Autoconclusivo
lampioni, di campagne assonnate e di nuvole basse, di
buio.
«Con chi altri pensavi di poter andare a letto, Morfeo? Con chi, se non con la Notte in persona?»
un misto di argilla e sabbia e cose umide. Mi sento correre a
braccia spalancate, immaginando di volare. Il sole trafigge
l’ombra della chioma argentata e disegna una volta stellata
sul tronco e sul terreno. Adesso che ho gli occhi pieni di terra
posso vederla, questa meraviglia di buio e luce. Sento la risacca molle che ripiega pigramente su sé stessa, le reti trascinate a riva che scompongono i disegni del bagnasciuga.
Ora che ho le orecchie piene di terra ci sento benissimo. Qui
non si dorme mai, nei giorni che strisciano appiccicosi e pacifici verso l’autunno. Sento mia madre che prepara la tavola e ricordo ogni sbeccatura delle stoviglie. Ricordo il ricciolo che le ricadeva sulla fronte, quello che la infastidiva come
una mosca da scacciare. Ricordo che ero sotto quest’albero,
sdraiato a fingere di dormire col cappello sugli occhi, quando Ole mi visitò, con le sue dita lunghe ed il sacchetto di
fango. Ricordo che a sognare eravamo stati in due: lui mi
aveva soffiato quella sua polvere sugli occhi e subito le palpebre si erano fatte pesanti. Per quanti sforzi facessi, non
riuscivo a tenere gli occhi aperti.
«Basta, bambino, adesso dormi»
Parlava con una voce di Stige, dai tratti metallici e profondi, che sembrava non appartenergli e risuonare dalle vastità dell’universo. Improvvisamente, mentre parlava, un
secondo prima che mi lasciassi andare al sonno, lo vidi cadere addormentato ai miei piedi. Sognavamo lo stesso baratro
pieno di stelle, io cercavo di volare con le braccia aperte,
facendo il suono dell’aereo con la bocca. Lui si muoveva
meccanico, seguendomi e studiando le mie evoluzioni. Era
come se i suoi occhi fiammeggianti, neri come un pozzo dei
desideri, mi rimanessero impressi nella memoria, dietro le
palpebre, dentro i bulbi oculari. Era come se un’energia elettrica mi corresse sotto la pelle. Volavamo e sognavamo. E poi
lui diceva una cosa ed il sogno finiva.
«Non sei di questo mondo, bambino. Tu sei Ole»
***
Mr. Sandman, bring me a dream
Make him the cutest that I've ever seen
Give him the word that I'm not a rover
Then tell him that his lonesome nights are over
Sandman, I'm so alone
Don't have nobody to call my own
Please turn on your magic beam
Mr. Sandman, bring me a dream1
***
Sono su questo treno, che ogni mattina si muove fra
le vite degli umani, intrecciandole e spingendole verso
le loro notti sognanti. Ogni mille anni cambio volto,
ogni mille anni nasce un nuovo Ole che mi addormenta
e prende il mio posto. Amo la Notte e dormo con lei ogni
giorno. Ho dita sottili per poter passare in rassegna le
pagine oscure del subconscio e per insinuarmi nel cervello, per toccare i nervi e le sinapsi, per smovere ricordi soffocati dalla sabbia, nascosti sott’acqua e dimenticati. Ho occhi infiniti per vedere più lontano di voi che
sognate, per farvi sognare più lontano dell’orizzonte
che vedete. Ho occhiaie brune, la barba sfatta. Non dormo che su questo treno, prima di raggiungere il posto
fangoso che alimenta i vostri sogni. Potreste incontrarmi, guardare la testa che ciondola, la camicia spiegazzata dalle braccia conserte e l’impermeabile blu sulle
gambe, e pensare a quanto possa essere triste un uomo.
Potreste notare che cerco di appigliarmi al dondolio del
treno, condannato come sono all’insonnia, per essere
cullato solo altri cinque minuti.
Ma mi vedrete sicuramente, ogni notte della vostra
vita, ai piedi del vostro letto o in fondo alla stanza,
seduto sul vostro petto o immobile in lontananza. E
ogni notte vi distribuirò sogni paradisiaci o incubi orrendi o niente. Deciderò se mi piacete, se mi avete
guardato con sufficienza o se non mi avete guardato
affatto, se nella vostra vita c’è più dolore o più gioia, se
siete malvagi o superficiali o belli, se mi piacciono le
vostre ciglia o se mi fa ribrezzo la perfezione delle vostre orecchie. Deciderò se punirvi o premiarvi o strapparvi l’anima a morsi e sarà solo una mia scelta. E non
vi ricorderete, al mattino, d’aver incontrato l’Uomo
del Sonno.
Mr Sandman, bring us, please, please, please
Mr Sandman, bring us a dream2
***
Sono io Ole Lukøje, Ole Chiudigliocchi. Sono Moș
Ene l’Anziano. Sono io l’Uomo della Sabbia. Sono l’Uomo del Sonno, sono Sandman, Morfeo, Oniro. Sono fatto di fango e polveri stellari, di nebbia e grandine, di
ghiaccio e fuoco, di carne e ossa. Sono condannato a
viaggiare senza una meta, a riempirmi i polmoni di
fango, a smettere di dormire fino a quando un nuovo
Ole non mi addormenterà, inconsapevole della condanna che gli porto.
Lei mi stringe, mentre le confesso cosa sono. Mi sta
amando piano, non so nemmeno come sono entrato
dentro di lei. Intorno a noi c’è il buio pesto delle mie
parole. Su di noi le nostre mani che toccano, stringono, graffiano, accompagnano, si ubriacano del corpo
che stanno tenendo vivo. Mi morde le orecchie e le
labbra ed apre gli occhi. Due squarci di cielo notturno
stipati di stelle: in uno le galassie e nell’altro la Via
Lattea. Spalanca la bocca e ride: è piena di vicoli bui, di
1, 2 Mr. Sandman, The Chordettes
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La figlia di Caino
Capitolo 3 — Circo
La figlia di Caino
Capitolo 3 — Circo
Natascia Norcia
Genere: Gotico Contemporaneo
Justine ascolta. Resta immobile e composta sulla sua scomoda sedia senza battere ciglio.
La sua attenzione è tutta alle parole, rozze, volgari e concitate, del direttore d’orchestra,
il Medico. Bastano poche battute e la sua espressione attenta diventa prima basita, poi
qualcosa di indefinibile con un unico aggettivo. Questi qui sono tutti pazzi. Questi qui sono
tutti completamente pazzi… questi qui sono assolutamente pazzi! Le chiacchiere portano subito a galla le varie problematiche della Conca. Una sorta di strana creatura, o demone,
pare si vada impossessando delle persone, Cainiti e mortali, spingendoli a una frenetica
violenza: i morti si contano a decine nelle ultime settimane e non si riesce a trovare una
causa. Lo definiscono come un Golem, forse perché richiama qualcosa di molto antico.
Justine non ne sa nulla, e a dire il vero capisce poco anche di quello che dicono. Anzi, è
sempre più convinta che si tratti di una gabbia di matti.
Lascio la civiltà e mi ritrovo in pieno Medio Evo. I demoni? Non bastiamo forse noi? Non siamo
già abbastanza bizzarri e pieni di problemi quotidiani noi vampiri? E tutta questa accozzaglia di
gente poi, di che diamine si tratta? O dovrei dire, che demoni sono?
Il Medico spiega come dei presunti maghi siano riusciti a penetrare nel territorio forzando un antico rituale che impediva loro l’accesso.
Maghi? Questi pensano ancora di vivere nell'anno Mille…
Qui, la Rosa sente parlare, per la prima volta, di un antico rituale detto interamna magis; tuttavia, non è ancora il momento giusto per soddisfare la propria curiosità. Shankar,
accanto a lei, ascolta, restando sorridente; ogni tanto si gira verso la sua nuova ospite e,
in risposta a questi racconti, farfuglia tra i denti parole prive di senso: «Stasera bella serata, sì?». Justine non può fare a meno di pensare che magari non capisce cosa stiano
dicendo. «Magia, fanno magia qui. Tutti muore. Io no. Io Guru Shankar. Io no muore, sì?».
Probabilmente capisce, ma è idiota.
Il Medico fa entrare una coppia di scagnozzi che portano sotto braccio una donna, pare
sia una maga, o meglio, una donna ormai non più in vita, della cui mente si è impossessata una particolare entità, che però fisicamente si trova in un altro posto. Cose contorte.
Justine osserva la scena in modo piuttosto distaccato. L’hanno catturata nei giorni
precedenti, l’hanno interrogata in maniera tutt’altro che gentile, a giudicare dai segni
che ha addosso e sul viso, per poter venire a sapere qualcosa di più, e continuano ancora
a fare pressione su di lei. Sarebbe quasi necessario mettersi una spalmatina di mentolo
sotto il naso per tollerarne la vicinanza. Perché quel corpo ansimante e fetido rotola vicino ai suoi piedi. Che creatura insofferente Justine. Non poggia nemmeno un piede sul
corpo per allontanarla. Si ritrae appoggiandosi più che può alla spalliera della sedia, arricciando il naso e non riuscendo a trattenere una smorfia di disgusto.
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La figlia di Caino
Capitolo 3 — Circo
«Donna, mi sa, sta male. Anche tu, mi sa. Tu ha fastidio di odore o tu ha paura di sangue, sì?». Uno sguardo,
forse patetico, sul volto di quella novizia riesce a mettere a tacere il Guru.
Dal nuovo interrogatorio non emerge nulla, sono in
due a continuare a colpirla, tra calci e bastonate; verrebbe da chiedersi come quella donna potrebbe mai rispondere alle domande incalzanti del Medico. È un personaggio inutile, lì sul pavimento; la uccidono. Così,
come se niente fosse. Se Justine non avesse parlato, il
corpo sarebbe rimasto lì per ore, ma il suo buon gusto la
porta a rivolgersi a una sconosciuta, armata fino ai denti: «Per favore… non pensate che sarebbe meglio portare il corpo via da qui? La decomposizione di un corpo in
queste condizioni è piuttosto rapida… e maleodorante…». Come potrebbe restare zitta di fronte a qualcosa
che la disturba? Nemmeno il fatto di mettersi in cattiva
luce davanti quegli sconosciuti la fa desistere. Poi però
torna a defilarsi accanto alla parete, quasi per timore di
essere sfiorata da qualcuno.
Eppure, un tempo, l’odore della morte la inebriava.
Prima ancora che la morte stessa le appartenesse.
All’età di 12 anni Justine era ancora ingenua. Nel
1902, sua madre si era sposata con un ricco vedovo e si
era trasferita a Tivoli; da quel momento, la ragazzina di
campagna, cresciuta fino ad allora con modi piuttosto
semplici, aveva cominciato a frequentare l’ambiente
colto, sofisticato e al tempo stesso corrotto della Roma
in piena Belle Époque. Era finalmente giunto il momento della riscossa di sua madre: trovato un ottimo partito, ora la sua più alta vocazione era quella di erigere un
tempio attorno alla figura di sua figlia, e quindi era ora
di preparare un bozzolo degno di una farfalla mai vista
prima. Justine frequentò scuole di danza, di dizione, di
recitazione, imparò a suonare il pianoforte e l’arpa. Al
ginnasio era un’appassionata di storia dell’arte e di filosofia, ma quello che la attirava di più, come era successo
anche a sua madre prima, era il teatro. Non era solo Justine adesso, ma Justine Orsini del Ferrante, poiché il
suo patrigno, mosso da morboso affetto nei confronti di
quella versatile ragazzina, volle adottarla e quindi farla
sua erede. A soli 12 anni, Justine aveva capito che il
nome che sua madre, con tanta dovizia di intenti, aveva
scelto per lei non aveva sortito l’effetto voluto. Il suo
nome, Justine, quella poco innocente giovane madre lo
aveva trovato sulle pagine di un libro alquanto poco per
bene, che chissà come aveva letto: «Justine, le sventure
della virtù» del marchese De Sade. Raccontava di due so-
relle, una devota e perbene, Justine appunto, l’altra
sconsiderata e libertina, Juliette. A dodici anni appena,
Justine aveva capito che forse era più appropriato il
nome Juliette, ma la situazione creatasi all’epoca richiedeva intelligenza, scaltrezza e una ingente dose di discrezione per mantenere l’innocenza tipica dei suoi
anni. Un amico del suo patrigno era regista e proprietario di un piccolo teatro nel centro di Roma: fu lui che
dette, per la prima volta, la possibilità di calcare le scene a un’esile creatura dagli occhi fin troppo profondi, e
fu con una bellissima tragedia di Sofocle che venne notata e quindi scelta per interpretare ruoli piuttosto tragici, e anche complicati, data la sua giovane età. Ma, in
fondo, non era il palcoscenico il posto più adatto a recitare per Justine, proprio come era stato per sua madre.
A 14 anni era già diventata l’amante del suo patrigno e
di un paio dei suoi più cari amici, garantendosi dei vitalizi e delle eredità piuttosto importanti.
Nonostante le insistenze della madre e le continue
presentazioni a giovani della Roma bene, la ragazza si
rifiutò di sposarsi. Al suo fianco avrebbe voluto qualcuno che, perlomeno, fosse incline come lei alla dissolutezza morale e fisica. Non trovai un uomo degno di portarmi a fare una vita banale. E continuò a vivere tra il lusso,
i salotti e una buona cerchia di amanti. Questo le comportò notevoli problemi e inimicizie nella Capitale. E
più sembrava attirare l’ira dei perbenisti, più riusciva
ad accostarsi a cose sempre più losche. L’ambiente esoterico e lascivo della Roma più decadente la spinse verso ambienti sempre più oscuri, fino a entrare in contatto diretto con personaggi che adorava frequentare, ma
la cui vera natura le era ignota. Erano anni strani, fatti
di traffici di anime un po’ dimenticate da Dio. Justine
era abile a trovare giovani donne come dame di compagnia; le cercava nelle campagne, provenivano da famiglie numerose. Non aspettava nemmeno che loro le si
affezionassero, tanto meno che si fidassero di lei: il denaro e il prestigio andavano ben oltre il senso morale
che avrebbe dovuto guidare una donna. E quando, al
termine del loro meschino utilizzo, le vedeva prive di
vita o agonizzanti, non provava alcun disgusto, rammarico o senso di pietà.
La sua crudeltà e freddezza erano ormai note in
quella che era definita la Setta Rossa. Arrivata da poco
tempo, grazie alle sue ottime relazioni, godeva di particolari favori. Tra le svariate conoscenze di quegli anni,
Justine strinse un legame forte con la Marchesa Ludovica Landi Pamphili. Si frequentarono per un periodo
40
La figlia di Caino
Capitolo 3 — Circo
piuttosto lungo, un periodo intenso e pieno di orribili
misfatti ai quali prendeva parte, talvolta anche attivamente. Ma l’eccessiva crudeltà di Justine nei confronti
di chi capitava a tiro, e soprattutto il suo interesse per
l’esoterismo, determinò una frattura insanabile tra lei e
la Marchesa, che, dati i suoi legami con la Santa Sede,
non voleva avere a che fare con gente troppo esposta a
“eresie”, come diceva lei. Nonostante l’affetto e l’amicizia che le aveva legate per diverso tempo, Ludovica
esortò gentilmente la sua vecchia amica ad allontanarsi
da Roma e da quell’ambiente; le consigliava, in pratica,
di redimersi, probabilmente mossa non da devoto pentimento, ma piuttosto da una forte invidia, causata da
un manifesto interesse da parte di un uomo che lei non
era riuscita ad irretire. Justine fece il gesto di andar via,
ma non si allontanò di molto. In quegli anni rimase imbrigliata in uno strano giro di case di piacere, che poi di
ʽpiacereʼ avevano ben poco. Si trattava, per lo più, di
adescare, con la promessa di un lavoro o di denaro, giovani ragazze e ragazzi per poter sfamare gli appetiti, di
qualunque natura essi fossero, di individui assolutamente senza scrupoli. Ecco, questo era il suo ruolo. Dapprima solo di adescare, poi di collaborare negli atti stessi, infine di aiutare in qualche modo con l’occultamento
di ciò che restava del malcapitato. Lo chiamavano “il
gregge di agnelli”, una strana congrega di nobili altolocati e bizzarri artisti. Si riunivano in una splendida villa
sul Gianicolo, dove si consumava ogni sorta di piacere e
crimine. Justine guardava, osservava, studiava, qualche
volta era stata avvicinata un po’ di più da qualche membro più anziano. In quelle stanze la morte aleggiava senza freni. E spesso era presa lei stessa da quella strana
frenesia. Non le faceva impressione. Era incosciente e
non aveva paura. Era talmente sicura di sé e del fatto
che a lei non avrebbero fatto mai nulla, che vedere i caduti aumentava la sua certezza e ingigantiva il suo ego.
Tuttavia, un giorno, anzi, una notte, Justine si congedò
dal gregge di agnelli, con la motivazione di essersi spinta troppo avanti. A un certo punto l’orrore aveva preso
il sopravvento sulla follia. Solo molti anni dopo riuscì a
dare un nome preciso a quel genere di congregazione e
a quelle pratiche. Le aveva ammirate, la inebriavano,
poi le avevano improvvisamente dato disgusto.
Ora le appartenevano come l’aria per respirare.
Justine è inorridita da quella strana riunione. La
Conca sembra non un’oasi di pace, come aveva voluto
farle credere Edoardo. Lentamente si avvicina a lei
quell’enorme uomo con le bende insanguinate, guar-
dandola senza dire una sola parola. «Lo chiamano il Silente, perché non parla…», riferisce il compagno con
tonaca e maschera. È così piccola Justine accanto al Silente… a dire il vero lei è proprio piccola, minuta, quasi
infantile nei suoi abiti da donna di mondo. Lui le resta
accanto per diversi minuti e la guarda. Un occhio è coperto dalle bende, l’altro è limpido, dall’espressione intensa e quasi buona. Ma quello sguardo che la scruta la
mette in imbarazzo, e Justine si allontana, andando verso la porta del locale.
Nessuno dei personaggi fa cenno di salutare Justine,
e questo fa aumentare il suo disagio, la sua sensazione
di sentirsi fuori luogo. Esce e va verso la sua auto; André
accende il motore, scende per aprirle lo sportello. Justine si sente prendere un braccio da dietro. Trasale. È il
Guru. Che gli sorride gioviale. «Signora Justine, già via?
Senza saluto, sì?» Shankar attende una risposta restando in momentanea paresi, pare faccia sempre così.
«Devo andare, vi ringrazio per il… sostegno di stasera,
un viso sorridente conforta sempre». Ma nulla, la Rosa
non riesce a sorridere nemmeno se si sforza. «Avete già
pronta la casa, Justine? Edoardo è mio caro amico, ha
chiesto personalmente a Shankar tappeti belli per casa»
Che sorpresa, Edoardo amico di costui. «No. La casa non è
pronta, sono arrivata ieri e ho alloggiato in albergo, ma
non mi piacciono gli alberghi, troppo impersonali. Edoardo mi ha proposto una sistemazione temporanea alla
maison da Agnes, mentre finiscono di sistemare l'appartamento». Aveva solo riferito come stavano le cose, senza nessuna emozione. «E a Justine no piace maison, sì?
Posto non buono per una Rosa. Lì solo fiori finti, sì?».
Shankar aveva colpito nel segno. Alla fine era pur sempre un santone, un mistico forse, aveva visto oltre. «No,
non è proprio il luogo ideale dove stare, avete ragione»,
borbotta Justine. Il Guru allarga le braccia e la bocca
quasi fino alle orecchie in una manifestazione di giubilo, ed esclama: «Allora Justine viene a Ashram! Casa di
Shankar sempre aperta per amici buoni. E Justine buona, sì?».
Che gran bella domanda. Justine buona? Considerando la sua natura, come poteva dire di essere buona?
Come si poteva, in quella innaturale condizione di
non-vita, parlare di bontà? Non ricordava che qualcuno
l’avesse mai definita “buona”; se proprio, “brava”, molte volte.
È sempre stata una brava bambina, non ha mai dato un
fastidio.
È una brava ragazzina, assennata, così intelligente.
41
La figlia di Caino
Capitolo 3 — Circo
Brava, brava Justine, non diciamo nulla a tua madre e
sarà tutto perfetto.
Brava Justine, tienila ferma, così, brava.
Non aveva scelto forse lei stessa di essere ciò che
era? Nessuno le aveva imposto di essere brava in un
modo o nell’altro. E se Justine cercava solo approvazione per se stessa dalle persone che aveva attorno,
quella approvazione bastava che arrivasse. Alla fine
voleva solo sentirsi dire che era brava lei, non chiedeva poi così tanto. E se gli altri erano felici per
qualcosa che lei faceva, lei era felice. Anche se si
trattava di qualcosa che era tutt’altro che buona.
Forse “brava” non era proprio un sinonimo di “buona”. Ma Justine era sempre stata “brava” a rigirarsi
le cose nel verso che meglio le faceva comodo. Anche ora, la potenza di una famelica tigre sotto la
pelliccia di un gatto persiano. Le donne della sua
specie, normalmente, erano di un pallore mortale e
avevano gusto nell’acconciarsi secondo una moda
rigorosamente gotica e vintage. A Justine non piacevano certo i colori pastello, ma non disdegnava
abiti a fiori e gote rosate. Mentre le sue “colleghe”
sottolineavano le occhiaie con colori notturni, lei
passava ore a ridare vita al suo viso, a esaltare il suo
sguardo intenso, a rendere più polpose le sue labbra. Appariva sempre fresca, giovane; l’ampia cascata di riccioli neri sempre un po’ scomposti che le
ricadevano sulle spalle, tenuti raccolti da qualche
spillone, gli occhi verdi come il muschio incorniciati da lunghe ciglia nere come la pece, la bocca spesso appena colorata, e un sorriso genuino e aperto,
su una perfetta fila di denti bianchissimi. Non riusciva proprio a rinunciare al suo aspetto mortale. Le
forme erano rimaste morbide, piuttosto percettibili
data la sua bassa statura, ma aggraziate e sensuali,
come il suo modo di camminare, lentamente e con
eleganza; era impossibile non guardarla quando entrava in un luogo affollato, sapeva distinguersi.
Come quando andava a teatro, come quando andava
a teatro a Trieste, quando…
Ivan.
Non era il momento giusto per questi pensieri: a
volte duravano davvero troppo e si perdeva. Non era il
momento, stava pensando ad altro. Si parlava della
sua bontà.
Justine buona. Sì.
Sale in macchina salutando con gentilezza il Guru.
Chiuso lo sportello, André mette in tasca un biglietto
che il santone gli ha dato dopo averlo abbracciato con
calore. Che tipo strano. Almeno, però, è piacevole, non
annusa gli sconosciuti, sorride. E quel suo sorriso ebete la mette di buon umore, o meglio, sembra che le dia
serenità. Bastano pochi minuti dentro la macchina,
nel buio della strada, per ritrovare lo stesso disagio di
prima.
Il sentimento che passa nella testa di Justine è solo
uno: rabbia. Si sente abbandonata e tradita.
Che cosa ci faccio io in questo posto? E perché mi hanno
lasciata sola così allo sbaraglio? Edoardo che affari si è messo
a fare qui in pieno Medio Evo? Che diavolo è questo Golem?
La via del ritorno è fatta di silenzio. André legge sul
volto della sua padrona lo sconforto e la tensione.
«Andiamo in albergo Justine?» Ma Justine vuole spiegazioni. Forse è ora di mettere da parte l’orgoglio e di
entrare in quel bordello.
Le tre di notte. C’è una calma apparente davanti alla
maison. L’auto di Edoardo parcheggiata fuori. È qui.
Ad aprire la porta della maison e a squadrare Justine assieme al suo accompagnatore, è una ragazza
piuttosto giovane, un visetto grazioso accompagnato
da un’espressione piuttosto sfrontata, in fondo è una
prostituta, non una maestrina dell’asilo.
«Sarebbe un po’ tardi. Cosa volete?» La ragazza ha
la voce bassa, probabilmente ha sonno.
«Chiedo scusa per l’ora tarda. Sono Justine Orsini,
dovrei vedere il signor Edoardo dal Pra. Posso entrare?»
«Ah, sì… beh… entrate… ma il signore non c’è in
questo momento, credo sia fuori…» Di certo, non un’esperta nell’arte di mentire, e Justine lo capisce immediatamente; entra con la stessa irruenza di un esercito
di cosacchi. «Vada a chiamarlo per cortesia, lo aspetterò qui, la sua macchina è fuori, difficilmente esce a
piedi…» In pochi secondi passa dalla mesta gentilezza
a un tono imperioso. L’ingresso della maison è delicatamente illuminato, molto accogliente con i suoi divani barocchi e gli arazzi bucolici alle pareti. Incalza,
guardando la ragazza: «Va’ a chiamarlo subito». Questa alza i tacchi e sale frettolosa le scale, senza dire
una parola, chiudendosi un paio di porte alle spalle.
André si siede davanti alla sua padrona. Tira fuori
una sigaretta dalla giacca e fa per accenderla. «Non ti
permettere», ordina Justine. André la guarda e rimette la sigaretta nel pacchetto. «Adesso però non te la
prendere con me, sono anni che te lo dico che è un
imbecille Edoardo. Adesso va pure a troie. Pazzesco».
Si strofina la barba incolta scuotendo la testa. Justine
lo guarda appena e bisbiglia: «Non cominciare ora…».
Dopo un quarto d’ora, finalmente, si riapre una
porta. Edoardo scende le scale con lo stesso stile di una
gran diva di Hollywood, i capelli rossi appena pettinati con la riga da una parte, una giacca da camera, un
foulard di seta al collo. Sarà più di un mese che non si
vedono. L’uomo elegante le viene incontro a braccia
aperte, una finta, lieta sorpresa sul volto. Justine risponde rigida al suo abbraccio e inalbera immediatamente la sua tipica espressione tra la donna isterica e
la bambina capricciosa. Al sorriso di Edoardo risponde
con le labbra serrate, ancora più a fare il broncio, ma
gli occhi brillano complici a quello sguardo beffardo
che conoscono bene. Normalmente Justine, quando
parla con lui, lo guarda sollevando il mento verso l’alto; quando è arrabbiata invece aggrotta la fronte leggermente e lo osserva da sotto le sopracciglia. Tipica
aria da ragazzina. Ma lui adora quell'espressione, per-
42
La figlia di Caino
Capitolo 3 — Circo
mette a Justine di chiedere, e ottenere, qualunque
cosa, e stavolta Edoardo è perfettamente consapevole
di averla esposta a tutto ciò che lei più detesta. Ho di
fronte una donna arrabbiata, pensa. Maneggiare con cura,
potrebbe esplodere.
«Carissima… Hai fatto un buon viaggio? Ti attendevo qui alla maison di Agnes già ieri notte, non immaginavo che te ne saresti subito andata a quell’incontro
semi-cospiratorio!». Edoardo sfoggia un irresistibile
sorriso. «Lasciamo stare il viaggio che ho fatto, viaggiare tutta la notte in macchina è stato particolarmente noioso. Almeno, ho avuto la compagnia di André,
che è stato molto gentile a trovare un albergo per riposare. Questo posto non mi attira troppo, lo sai, ma
per il resto, Edoardo caro, stavolta hai esagerato». Justine riesce a essere particolarmente secca. Ci riesce
sempre quando si nasconde dietro le spalle del suo
André, e sa anche quanto questa presenza disturbi il
suo mentore. «Devo proprio chiederti scusa, tesoro
Edoardo era abituato a sentire i deliri di una donna
isterica. Justine aveva immediatamente alzato il tono
della voce e dilatava le narici mentre gesticolava con
le mani al cielo. Ma riusciva a ignorarla, e a mantenere
un controllo e un distacco incredibile. «Allora, Justine.
Prima cosa: da queste parti non esistono presentazioni di alcun genere. È usanza, in queste terre, rispondere con la propria persona a tutte le istanze che il Fato
concede, tanto per essere introdotti in società, quanto
per le conseguenze delle proprie azioni»
Eccolo; Edoardo l’enciclopedico. Un Cainita capace
di essere totalmente privo di emozioni quando doveva
istruire qualcuno. Nessuna enfasi, solo nozioni.
«Ma non preoccuparti: non si tratta certo di mancanza di rispetto o di grettezza nei modi, anzi: è una
forma di riconoscimento che viene attribuita a tutti
coloro che vogliono far parte della comunità. Allo
stesso modo, la riservatezza di questi bizzarri Fratelli
è da considerarsi una forma di alta considerazione. Se
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alle tue idee
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mio: attirarti in territorio straniero senza spiegarti le
strane usanze di questa gente è stato imperdonabile.
Conosco le tue difficoltà e le tue opinioni, ma stare in
albergo, Justine, no, dài: vorrei averti vicina».
Justine si toglie gli spilloni dalla testa, liberando i
riccioli neri, e il cappotto. Si siede sullo stesso divano
dove si è sistemato Edoardo, si volta verso il suo amico
fidato e gli fa cenno di allontanarsi. André tira fuori la
sigaretta di prima e si allontana verso una finestra.
Vorrebbe parlare, ma Edoardo la precede. Ignorando l’espressione tipica di chi sta per dare inizio a un
ben noto lamento. E inizia a parlare, pacatamente.
«Adesso, brevemente, vorrei spiegarti alcune cose sulle Libere Terre dell’Umbria, affinché anche tu possa
goderne il selvatico fascino»
«Ma cosa vuoi spiegare?», Justine esplode. «Mi hai
fatto fare tutta questa strada per buttarmi in una gabbia di matti! Ti rendi conto che sono entrata lì dentro
e c’era una cosa mostruosa che mi annusava? Non ho
sentito un solo saluto, non un solo nome. Mi chiedevano “cosa sei?”! Ma ti rendi conto? È oltraggioso! Non
sono mai stata trattata così prima d’ora! E la cosa peggiore è come mi stai trattando tu!»
nessuno ti parla significa che nessuno ha da ridire sul
tuo operato e, pertanto, che sei rispettata da tutti». La
Rosa ascolta con lo sguardo torvo; sommessamente, si
risiede. «Ma ero sola, mi hai lasciata lì da sola»
«Ma certo Justine, sei una donna forte, ti hanno vista così, piccina, ma avranno di certo sentito quanto
sa ruggire questa belva. Accompagnarti sarebbe stato
come cucirti addosso l’etichetta dell’agnellino da
scannare, tesoro mio». Viscido, stucchevole, il ritratto
della falsità e dell’ipocrisia; ogni volta che usciva fuori
questo lato di Edoardo, a Justine montava una profonda rabbia non solo verso se stessa, ma anche verso la
sua incapacità di fare a meno di lui, quando poi alla
fine stava meglio quando non le stava accanto. «Queste cose non sono così ovvie, mia cara, lo capisco, ma
confido nella tua intelligenza. E comunque sono sicuro che imparerai ad apprezzarle, quando comprenderai quanto è ben strutturato, in fondo, questo Dominio. Meno ovvia è la suddivisione in famiglie di
appartenenza, questa non è Torino, e nemmeno la tua
Trieste, Justine»
43
RECENSIONI
DALL
LETTO
'ONNIGRAFO
44
Vorrei camminare come
fanno i bambini
di Giovanna Avignoni
Ci sono madri-matrigne e figlie-Cenerentola.
Non c’erano solo una volta: ci sono ancora,
in famiglie che si truccano alla perfezione occhi gonfi di pianto, che indossano scarpette di
cristallo con incrinature che fendono le carni,
che nessun cacciatore ha salvato dal lupo e
nessun sassolino ha riportato a casa incolumi
dopo l’incontro con l’orco.
Lo stile di Giovanna Avignoni, ormai al suo terzo romanzo, è inconfondibile: le sue storie rispolverano fiabe dal sapore antico, non edulcorate da fatine dal cappello a punta, ma iter
di formazione che contemplano una infinita
successione di antagonisti fino a ripristinare
lo status quo, da tempo perduto, con l’intervento salvifico non di un principe, ma della
propria anima, capace di uccidere i draghi del
passato e scrivere il lieto fine con il proprio
sangue di guerriera.
La tematica fondamentale di Vorrei camminare come fanno i bambini è la maternità: quella
fiabesca in senso originario, dunque pervasa
da lati oscuri, da torri che sono prigioni, da
fusi che pungono sottraendo l’innocenza, da
cappucci color scarlatto che, pur celando le
forme di una bambina, la rendono preda sessuale del mostro.
Ma non si tratta di una fiaba. Il tempo in cui
gli eventi si svolgono è il nostro, e i simboli
si svestono di broccato per appellarsi con il
proprio vero nome: schizofrenia, ossessione
compulsiva, frigidità, panico, trauma, pedofilia e depressione post-partum. L’abilità della
scrittrice si palesa nel saper affrontare una
storia così intensa e dura con delicatezza,
senza scadere nel truce e nel morboso, inserendo descrizioni di maternità dolce e simbiotica che si manifesta nell’allattamento, ossia
nel nutrimento, la forma più sublime di amore, da cui il bacio ha origine.
La Avignoni mantiene viva l’attenzione del
lettore impegnandolo in un puzzle di ricordi
da comporre capitolo dopo capitolo, fino all’epilogo inaspettato. Il titolo, Vorrei camminare
come fanno i bambini, all’apparenza fuorviante, contiene, come l’incisione su uno scrigno
magico, la mappa del romanzo, consentendo
di coglierne appieno il messaggio. Non è mai
troppo tardi per rimettersi in comunicazione
con i bambini che si è stati, liberi e privi di
ruoli claustrofobici, per compiere i primi passi verso se stessi e infine, con sicuro cipiglio,
una corsa lungo il mondo.
Una particolarità dei romanzi della scrittrice romana sono i quadri inseriti in copertina:
tele non da museo, ma tratte dalla galleria di
famiglia, che, con pudore, si insinuano fra le
pagine, regalando immagini alle parole.
45
Recensione di Emma Fenu
Crisis
di Francesco Salvini
«È del tutto singolare la figura di Francesco
Salvini nel panorama della letteratura contemporanea, come singolare è la sua straordinaria impresa poetica, tale da poter dire
di lui che non si tratta solo di un'avventura,
di un peccato di gioventù, ma molto di più.
All’interno delle sue pagine, sia in Crisis sia
nel più recente Canto Rotto, il poeta, nonostante la giovane età, pare già avere le
idee chiare su quello che farà da grande:
da grande, ma dico una cosa ovvia, se non
proprio scontata, farà il poeta. E sì, perché
le carte del poeta sono tutte presenti, stese sul tavolo della maestria come tarocchi o
sibille, e il futuro che vi leggiamo è sicuramente promettente.
Iniziamo, infatti, col sostenere — e questo
è ben percepibile, percorrendo il suo labirinto poetico −, che la sua opera è già un
cantiere aperto, vale a dire si presenta mediante una dinamica evolutiva che solo ai
professionisti della parola è dato di avere.
Un cantiere che se inizialmente — due sono
gli archetipi della mia lettura: Canto Rotto
e Crisis − presenta sfumature, glissati, registri vocalici e di metrica che ricordano la
sua giovane età, così come il suo modo di
esprimersi, intendo certi chiaroscuri, certi
quadretti esistenziali appunto tipici dei giovani, successivamente acquista un passo
del tutto adulto e deciso.
Fenomeno rintracciabile nella musicalità del
verso, che ci ricorda di come Salvini, oltre
a un letterato, è anche un musicista. Musicalità che si perfeziona, talvolta, al di fuori
del verso tradizionale, e che nella massima
libertà espressiva, con l’ausilio di certi vocaboli, diventa un vero e proprio canto. A
giustificazione di ciò, volendo tentare una
biografia spicciola dell’autore da “cucciolo”, possiamo dire che Francesco Salvini è
ligure, e quindi, volendo o non volendo, forse per istinto e per buona dose di cultura e
preparazione, ha certo subito il fascino del
pentagramma, del verso-nota, in poche parole, del verso musicale di Camillo Sbarbaro
(ligure come lui).
E la Liguria è molto presente nei suoi versi, nelle sue parole, tanto da utilizzare un
linguaggio testuale che ricorda da vicino il
Montale degli Ossi di seppia (ossia il Montale giovane). Lezione montaliana presente in
tutto il percorso del giovane poeta, a cominciare dagli attacchi decisi tipici di una certa
poesia, per proseguire con forzature verbali, violenze di accenti, sino a chiuse tipicamente montaliane, del Montale genovese»
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Estratto della Prefazione di Iuri Lombardi
Il cavaliere di Eron
di Laura Santella
Amo il genere fantasy, ma amo soprattutto le storie di vampiri, streghe, fantasmi... in questo libro non c'è niente di
tutto ciò, eppure ne sono rimasta talmente affascinata che non vedo l'ora di
iniziare la seconda lettura.
Simile alle saghe di Eragon e del Mondo
Emerso, Il cavaliere di Eron si distingue
per una scrittura più immediata, che
colpisce, una narrazione semplice che
entusiasma e che non lascia il tempo di
staccare gli occhi dalle pagine neanche
per un attimo.
La trama si srotola su un altro mondo,
nel regno di Eron, dove Jade, catapultata lì dal richiamo della magia di un
mago, verrà a sapere di essere il tanto
atteso cavaliere di Eron, cavaliere che
già in passato salvò quel mondo, senza
però mantenerne memoria.
Le sorprese si susseguono le une dietro
le altre, dalla scoperta della sua identità, all'addestramento, al ritorno dei
suoi poteri, alle battaglie, ai chiranti, a
decisioni difficili, fino all'amore... Perché in questo romanzo non manca proprio niente, e potevamo lasciarci sfuggire un sentimento così profondo?
Ho amato in particolar modo il personaggio di Sir Robert (diciamo pure che
ci ho perso la testa), ma eccezionali
sono anche tutti gli altri, dal mago Leaf,
al principe Phin, re Iron, Rosalie, Rufus,
Bork e ovviamente la coraggiosa Jade,
con la quale ho precepito un'affinità di
carattere, soprattutto per le scele che
compie durante la storia.
Il finale è decisamente sorprendente e
lascerebbe a bocca aperta chiunque,
ma non voglio andare troppo oltre, altrimenti rischierei di raccontarvi tutto.
Voglio fare i miei complimenti all'autrice che oltre a saper narrare e scrivere
molto bene è stata capace di regalarmi emozioni molto intense, dalla rabbia
fino alle lacrime. Consiglio questo libro
a tutti gli amanti del fantasy perché
non potrete non innamorarvene!
47
Recensione di Valentina Bellucci
Mundus Furiosus
di Giulio Tremonti
Un titolo che preoccupa e spaventa: viene
da pensare a un mondo arrabbiato e che
sta per esplodere. In un certo senso è così,
ma la lettura del nuovo libro di Giulio Tremonti ha bisogno di una chiave più profonda e complessa. L’ex ministro, il professore
esperto di diritto che ama le citazioni latine,
che pragmaticamente fa della storia colei
che può aiutarci a collocarci nel presente e
a fare delle scelte, ci guida in un mondo che
si è evoluto tanto rapidamente da non lasciare, spesso e volentieri, segni temporali
nella nostra memoria. Valgano due esempi:
nel 2008 è nato l’I-Phone, e nel 2004 nasceva Facebook. Due realtà che hanno cambiato radicalmente la nostra vita. Abbiamo
bisogno del racconto di questi ultimi venti anni, o poco più, nei quali la tecnologia
ci è apparsa come il motore principale dei
cambiamenti? Ritrovarci nel «Mundus Furiosus» di oggi è, secondo l’autore, il frutto di
profondi processi e mutazioni economiche e
politiche, nei principi e nei valori. Il mondo è
reso furente dalla velocità dei cambiamenti. Era accaduto anche in passato, ai tempi
della scoperta delle Americhe. È nel Cinquecento che l’Europa inizia a chiamarsi così,
furente, tra nuove frontiere, nuove religioni,
nuovi Stati che sorgono al posto dei feudi, e
si materializza quel «fantasma della povertà» di cui Tremonti aveva già parlato in un
libro del 1995. Preveggenza o… previsioni iettatrici? Un libro, quindi, che analizza,
ma soprattutto ricorda, il suo «ve lo avevo
detto». «Non dimentichiamo − scrive in una
sua nota Gianluigi Paragone − che l’autore
è lo stesso che, per esempio, creò Equitalia,
che definì il pareggio di bilancio “la regola
aurea”, che mise tal Milanese nella stanza accanto al suo Ministero, già presidiato
dall’amico Calderoli, e altro ancora». Leggere Mundus Furiosus può servire a chi ama
le analisi sociopolitiche. Basta non lasciarsi
fuorviare e affascinare dalle teorie del professore dalla erre moscia; una erre che, per
un breve periodo, fu, per noi, ammaliante e
convincente.
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Recensione di Mirella Rossi
…e nel prossimo numero,
in uscita a settembre…
La stella di Salem
Capitolo 4 — La Stella di Salem: Sereth la Bianca
Cronache di Oscailt
Capitolo 4 — Gund-Kheled
La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 04 — L'ascesa di Ubertino
Racconto Autoconclusivo
di Marta Pelle
La figlia di Caino
Capitolo 4 — Trieste
Ci saranno inoltre recensioni,
interviste, approfondimenti,
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