Le Cento Città, n. 45

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Le Cento Città, n. 45
1
Sommario
Le Cento Città
*
Direttore Editoriale
Mario Canti
Comitato Editoriale
Fabio Brisighelli
Romano Folicaldi
Natale G. Frega
Giuseppe Oresti
Giancarlo Polidori
Direzione, redazione,
amministrazione
Associazione Le Cento Città
[email protected]
Direttore Responsabile
Edoardo Danieli
Prezzo a copia
Euro 10,00
Abb. a tre numeri annui
Euro 25,00
Spedizione in abb. post.,
70%. - Filiale di Ancona
Reg. del Tribunale di Ancona
n. 20 del 10/7/1995
Stampa
Errebi Grafiche Ripesi
Falconara M.ma
3Editoriale
L’energia del cambiamento
di Ettore Franca
5Il dibattito
Green economy, questione morale e ambiente
di Alberto Pellegrino
7Il focus
La cultura per lo sviluppo
di Mario Canti
10 Il territorio
La forma della città e gli spazi urbani
di Maria Luisa Polichetti
17 La letteratura
La poesia di Alvaro Valentini tra lirismo e impegno sociale
di Alfredo Luzi
20 La rassegna
La Popsophia e la nottola di Minerva. La seconda edizione del Festival del contemporaneo
di Lucrezia Ercoli
22 Musica
Un convegno e un concerto per Bruno Mugellini.
Potenza Picena ricorda il musicista nel centenario della
morte
di Paolo Peretti
Periodico quadrimestrale de
Le Cento Città,
Associa­zione per le Marche
Sede, Piazza del Senato 9,
60121 Ancona. Tel. 071/2070443,
fax 071/205955
[email protected]
www.lecentocitta.it
*
Hanno collaborato a questo numero:
Francesco Adornato, Mario Canti,
Maurizio Cinelli, Edoardo Danieli,
Giovanni Danieli, Lucrezia Ercoli,
Ettore Franca, Alfredo Luzi, Alberto
Pellegrino, Paolo Peretti, Maria
Luisa Polichetti
In copertina
Statua di Papa Clemente XII nella
Piazza del Plebiscito in Ancona, opera
di Agostino Cornacchini, 1737
25 La presentazione
L’Angelus Novus vola su Macerata
di Francesco Adornato
29 Ricordo
Don Cesare Recanatini, una vita per la chiesa
e la cultura
di Mario Canti
32 Libri ed eventi
di Alberto Pellegrino
40 Vita dell’Associazione
Visite e convegni
di Giovanni Danieli
Freschi di stampa
di Maurizio Cinelli
Le Cento Città, n. 45
Editoriale
3
L’energia del cambiamento
di Ettore Franca
L’irrompere delle energie
alternative, nella Regione e non
solo, aveva aperto incognite non
tanto sul loro futuro, tecnicamente promettente, quanto sui
risvolti che, al di là dell’entusiasmo, nei più attenti aveva suscitato qualche perplessità.
La mia annunciata presidenza
de Le Cento Città, e il succedere
alla vulcanica Maria Luisa, mi
offriva la possibilità di mettere
a fuoco qualche iniziativa che,
senza emulare le precedenti,
fosse gradita ai soci e in linea
con gli scopi statutari.
Ho puntato nel proseguire la
scoperta delle eccellenze marchigiane, in particolare quanto offre
la produzione agrolimentare, ma
mi stuzzicava indagare anche il
settore della green economy, allora al suo affacciarsi alla ribalta.
In questi tre-quattro anni, altri
hanno affrontato il tema mirando, sugli altri, agli aspetti tecnici
ed ingegneristici, mentre nella
Regione sorgevano aziende industriali o artigianali che rapidamente si convertivano alla produzione di strutture indirizzate
sia al fotovoltaico che all’eolico,
avvantaggiandosi anche di una
politica nazionale o regionale
che avrebbero erogato contributi
per la realizzazione di impianti.
Ad abbracciare la nuova fede,
non so quanto convinti ma persuasi dal confronto fra la produttività della terra e i vantaggi economici dell’opera, sono
stati molti agricoltori disposti a
sacrificare le superfici coltivate
coprendo i loro campi con pannelli fotovoltaici.
Restii, invece, anche per il
momento congiunturale sfavorevole, sono stati sia gli industriali,
che avrebbero a disposizione le
vaste coperture dei loro stabilimenti, sia la nuova edilizia che
avrebbe potuto orientarsi ad
integrare i tetti con la produzione di energia.
Nel 2006 la Regione aveva
stanziato somme per quanto è
nel bando “Ottimizzazione del
sistema energetico e sviluppo
delle fonti rinnovabili”, e altre
le aveva destinate ai Comuni più
popolosi, per la redazione di
piani energetici.
In breve entrarono nel settore diverse grandi-medie aziende
che, prima affittando, poi acquisendo il diritto di superficie,
per 20 anni assicuravano agli
agricoltori cifre che normalmente sognano e chi avesse chiesto
l’accumulazione iniziale della
somma verificava che quella
superava spesso il valore di mercato della terra.
Così, a macchia di leopardo
sono comparsi vasti campi fotovoltaici che, nel frattempo, si
facevano meno costosi di pari
passo al crescere del rendimento e dello sconcerto di quanti
vedevano modificarsi il paesaggio marchigiano tanto da aprire
non pochi contenziosi derivati dalla diminuzione dei valori
degli immobili prossimi a quelle
strutture.
Davanti all’evoluzione sono
state emanate disposizioni che,
con limiti contrattuali di competenza delle province, stabiliscono
il rapporto fra la superficie agricola e quella copribile, mentre ai
Comuni sono affidati gli aspetti
tecnici per l’impiego delle coperture degli edifici.
Molto meno rilevante è il settore legato all’eolico anche per il
forte contrasto delle popolazioni
dell’entroterra che rifiutano il
cambiamento del dolce sky-line
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delle loro montagne.
Alcune sono le realizzazioni
di impianti dedicati allo sfruttamento del gas delle biomasse
generalmente collegate ad allevamenti zootecnici intensivi, poco
presenti in Regione.
C’è qualche esempio dell’uso
di centrali elettriche che sfruttano l’acqua sbarrata con la diga,
mentre del tutto insignificante è
lo sfruttamento della geotermia.
Nel tentativo di approfondire
i problemi delle energie alternative, il 26 aprile presso il Rettorato, a partire dalle ore 16, Le
Cento Città e la Facoltà di Economia della Università Politecnica delle Marche propongono
un convegno nel quale, esperti
del settore, da diverse angolature
affrontereanno i temi che, spero,
consentano di chiarire dubbi e
incertezze sul sensibile argomento tutt’altro che risolto.
In particolare sarà esaminato
lo stato economico delle energie
rinnovabili, nella Regione e in
Italia, lo “stato dell’arte” negli
aspetti tecnici dei vari settori
(fotovoltaico, eolico, geotermico,
biomasse, ecc.) e un esame sugli
aspetti normativi.
Seguirà una tavola rotonda sugli aspetti di ricaduta su
ambiente e paesaggio; il Convegno si concludrà con le relazioni
di alcuni industriali marchigiani
che realizzano o usano impianti
di energie alternative.
Il dibattito
5
Green Economy, questione morale e ambiente
di Alberto Pellegrino
Da diverso tempo ormai la crisi morale investe in profondità la
nostra vita sociale ad erodere i
nostri valori fondanti a svuotarli
dall’interno, a ostacolare la nascita di una nuova stagione per
la società italiana: “E’ questa erosine di senso, di speranza e quindi
coraggio e di fiducia, e quindi di
slancio creativo e di felice dedizione all’opera…è questo respiro
che ci manca a ridurre in cenere i
nostri giorni” (Roberta De Monticelli). Il termine “valori” è talmente inflazionato che rischia di
annegare in una paccottiglia insensata di significati che ognuno
aggiusta secondo le proprie convenienze, mentre invece si dovrebbe promuovere un risveglio
delle coscienze soprattutto per
due valori che hanno in questa
sede un particolare significato:
la giustizia e la bellezza.
La giustizia è un concetto continuamente in fieri, che si realizza conquista dopo conquista,
ma che si realizza soprattutto
nella consapevolezza che esso
va continuamente perfezionato,
che esso deve essere approfondito nel profondo della nostra
coscienza, Infatti la giustizia non
riguarda soltanto la politica o la
vita dei partiti, ma anche dallo
stretto collegamento fra mores,
diritto, politica e religione, dalla
continua domanda che abbiamo
il dovere di porci a livello individuale “che fare?”. Ci sono
momenti della nostra storia nei
quali l’azione, la resistenza, persino la rivolta intesa come disobbedienza civile devono essere
vissute come un’esigenza morale. Quando il sentimento dell’ingiustizia scende in profondità
negli individui, quando si avverte che siamo vicini alla rottura
del pactum societatis è giunto il
momento di riscoprire il valore
“giustizia”, quando per troppo
tempo sono durate la nostra
indifferenza e la nostra abulia
morale di fronte allo spettacolo
indecente di corruzione morale,
Recanati - Colle dell’Infinito.
politica e culturale che sta sommergendo il nostro paese.
“L’Italia è sempre stata un paese tragico, nonostante che le nostre maschere, attraverso le quali
siamo conosciuti dagli stranieri,
siano maschere comiche: il servo
contento e il padrone gabbato.
Un paese tragico anche se la maggior parte degli italiani non lo sa
o finge di non saperlo. O meglio,
non vuole saperlo”. Queste parole, scritte da Norberto Bobbio
nell’Autobiografia del 1997, hanno ancora una sconvolgente attualità, perché i padroni gabbati
siamo noi come popolo sovrano
privato della facoltà di esercitare il potere come dovrebbe
accadere in una democrazia
compita e soprattutto gabbate
sono le generazioni future che
si preparano a ricoprire il suolo
di servi contenti. Nello stesso
tempo i servi contenti siamo ancora noi sudditi di capi politici
che si sono collocati al di sopra
della legge, servi che partecipano indirettamente ai vantaggi di
coloro che hanno occupato la
pubblica amministrazione.
Questa tragico rapporto tra
padroni gabbati e servi contenti
può essere benissimo applicato
al problema dell’ambiente dove
più che mai esiste una stretta
relazione tra poteri pubblici e
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interessi privati, quando si assiste a casi di dissipazione del
territorio, all’aggiramento di
vincoli e controlli ambientali, al
condono di abusi fatti nei confronti di beni demaniali, di fiumi
e litorali, alla facilitazione della
speculazione edilizia in cambio
di consenso elettorale o di vantaggi economici. Assistiamo abbastanza passivi a questa specie
di “suicidio ambientale” senza
tenere in debito conto anche se
i governi centrali e locali passano, le devastazioni rimangono
minacciando il futuro di quello
che continuiamo a chiamare con
una certa ironia il Bel Paese. Una
volta che viene distrutta la bellezza di un paesaggio storico e
naturale si innesta un processo
irreversibile, senza tenere conto
che il paesaggio italiano e, per
noi, il paesaggio marchigiano è
stato uno dei fondamenti della
nostra storia, della nostra letteratura e pittura, rappresenta anche un bene economico e sociale
legato all’agricoltura, al turismo
alla qualità della vita.
Assistiamo indifferenti all’assalto al nostro litorale che rischia di diventare un interrotto
serpentone di cemento da Gabicce al Tronto con residenze e
lottizzazioni spesso invendute;
vediamo il profilo delle nostre
Alberto Pellegrino
colline profanato da costruzioni
inguardabili; sopportiamo che
la costruzione di autostrade e
superstrade siano cantieri eternamente aperti che rappresentano continue minacce per gli
ecosistemi; accettiamo l’inutile
proliferare di porti turistici certamente superiori al fabbisogno,
alle continue minacce rivolte ai
parchi naturali e alle zone protette senza tenere conto che certe devastazioni sono destinate a
rimanere per sempre.
E’ vero che i paesaggi cosiddetti antropici, cioè soggetti
all’intervento umano, sono destinati a cambiare nel tempo,
altrimenti non si parlerebbe di
paesaggi storici, tuttavia queste
trasformazioni paesaggistiche
dovrebbero in ogni caso preservare la bellezza naturale e
culturale, proprio perché oggi
siamo pienamente consapevoli
che la bellezza del paesaggio è
una sicura risorsa preziosa per
il futuro della nostra economia.
Il concetto di bellezza dovrebbe essere un valore aggiunto da
non dissipare perché esso attiene al patrimonio costituito da
paesaggi naturali e storici, dal
patrimonio artistico e culturale. Non esiste nessun principio
economico che impedisca di
coniugare la bellezza e l’utile: si
può procedere a una pianificazione urbanistica senza favorire
la speculazione edilizia selvaggia; si può salvaguardare una
città “patrimonio dell’umanità”
o “semplice” patrimonio della
civiltà marchigiana con una urbanizzazione civile e ordinata
senza permettere una urbanizzazione selvaggia e casuale; si può
procedere allo sviluppo delle
zone collinari e montane con
preciso calcolo di costi e benefici senza sconvolgere in modo
irreversibile ambienti secolari e
per certi versi di grande valore
naturale e culturale. Non possiamo rimanere indifferenti di
fronte al fenomeno di una crisi estetica corrispondente alla
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diffusione della bruttezza e, in
qualche caso, della oscenità ambientale, non possiamo voltarci
da un’altra parte di fronte alla
possibile distruzione della bellezza in ogni sua forma, perché
sarebbe un altro cedimento alla
corruzione morale.
Di fronte alla crisi del senso
del bello e del decoroso, Albert
Camus ha scritto ne L’uomo in
rivolta: “La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni: ma
viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”. Per
questo occorre mettere a fuoco
l’esatta relazione tra la bellezza
e il modo di allontanare la catastrofe morale, civile ed estetica
che investe anche il paesaggio e
l’ambiente. Bisogna confrontarsi con la crescente ignoranza che
non è frutto di una scarsa scolarizzazione, ma della perdita di
contatto con una cultura popolare, con le tradizioni del mondo contadino, con il rispetto dei
luoghi e degli oggetti naturali
come una quercia che richiede
secoli perché diventi un monumento della natura.
Bisogna risvegliare le coscienze di quanti hanno goduto del
privilegio di una istruzione superiore e di esercitare professioni intellettuali per risvegliare la coscienza morale e civile,
evitando il pericolo dell’abitudine, della rassegnazione, della
rimozione. Bisogna ritornare a
una democrazia concepita come
partecipazione e conflitto, dove
le culture e le strategie politiche
tornano a confrontarsi sulla base
di programmi e di conseguenti decisioni e non secondo una
prassi di scambi e compromessi nascosti dietro ridicoli salotti
mediatici e inutili dibattiti televisivi. Bisogna opporsi agli abusi
e ai condoni per evitare che sia
distrutta quella parte della nostra identità che nel paesaggio
e nell’ambiente affonda le sue
radici più profonde. Bisogna
opporsi la Bellezza alla banalità del male senza consegnare la
Le Cento Città, n. 45
difesa dei nostri valori ai politici
di professione, bisogna riscoprire sopratutto il valore della
Giustizia collegato a quello della
Bellezza, perché essi sono il fondamento della nostra esistenza
associata.
Facciamo ricorso al nostro
Giacomo Leopardi, che nel
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica quasi
due secoli indietro metteva in
guardia contro i pericoli della
stupidità e della violenza: “…
ancora siamo più di qualunque
altro popolo vicini a quel punto,
che quando si oltrepassa, non
è quella civiltà ma barbarie…
Ma sovvenite alla madre vostra
ricordandovi degli antenati e
guardando ai futuri… secondando questa beata natura onde il
cielo v’ha formati e circondati…
considerando la barbarie che vi
sovrasta; avendo pietà di questa
bellissima terra, e de’ monumenti e delle ceneri de’ nostri padri;
e finalmente non volendo che la
povera patria nostra… si rimanga senz’aiuto, perché non può
essere aiutata che da voi”. Sono
parole che sembrano scritte
oggi e che ci esortano a riscoprire il valore della indignazione morale e l’importanza di certi aspetti fondanti della nostra
vita, in modo da poter fondare
una “nuova civiltà”, altrimenti
si rischierà di smarrire la nostra
anima insieme alla nostra terra
marchigiana. Un’autentica e
forte partecipazione politica si
basa sull’antagonismo e sulla
contrapposizione di idee e di
valori, la parola stessa suggerisce l’idea del “conflitto” democratico, mentre oggi la classe politica ha come obiettivo
il superamento del conflitto e
quindi la liquidazione dei fondamenti della partecipazione
per trasformare lo scenario politico in un “mercato” soggetto
alle regole della contrattazione
ai fini del profitto sul piano del
potere e dell’economia.
Il focus
7
La cultura per lo sviluppo
di Mario Canti
Il Sole 24 ore nel numero del 19
febbraio ha proposto una “costituente per la cultura” e pubblicato il relativo manifesto di fondazione articolato nei cinque punti:
1 una costituente per la cultura, 2
strategie di lungo periodo, 3 cooperazione tra ministeri, 4 l’arte a
scuola e la cultura scientifica, 5
merito, complementarietà pubblico-privato, sgravi ed equità
fiscale; l’assunto di fondo è che
l’Italia stia da tempo abbandonando la cura di quella cultura,
intesa nei termini più ampi, che
per secoli l’aveva caratterizzata e
qualificata, anche nei periodi più
bui della sua storia, e che così
facendo viene negando a se stessa possibili futuri sviluppi anche
economici, poiché senza cultura
non vi è sviluppo. Le adesioni al
manifesto per la cultura hanno
raggiunto in poche settimane
migliaia di adesioni qualificate
dimostrando che questa tesi è
largamente condivisa.
Lo stesso assunto senza cultura non vi è sviluppo, fatte salve
le necessarie distinzioni di ruoli
e di finalità, ha trovato precisi riscontri nella politica per la
cultura che è stata sviluppata
dalla Regione Marche a partire
dal 2010 e che ha presentato
significativi momenti di pubblicità e partecipazione: tra i
molti vanno ricordati il forum di
Ancona (aprile 2011), il seminario di Fano (novembre 2011), il
convegno di Abbadia di Fiastra
(gennaio 2012).
La Regione ha cercato di
concretizzare questo assunto in
precisi indirizzi ed atti amministrativi, a partire dal settore
della cultura, ma con l’intento di
estenderne le implicazioni sulla
intera attività amministrativa,
tentativo maggiormente lodevole
se si fa mente locale alle condizioni della finanza pubblica e di
quella regionale in modo particolare.
Atti che l’Assessore competente ha recentemente riepilogato in un incontro stampa e
che riguardano l’attuazione del
Piano triennale: progetti, piani
di riparto, normative per l’attuazione e, ovviamente, il bilancio
del settore.
Alla Regione Marche va senza
dubbio riconosciuto il merito di
aver, fin dall’anno passato,colto
il nesso inscindibile tra cultura
e sviluppo e, coerentemente, di
aver mantenuto la spesa per la
cultura ai livelli degli anni precedenti ed anzi di averla incrementata, pur in presenza dei noti tagli
del governo che hanno inciso
anche sulle sue risorse finanziarie.
Una scelta quella delle Marche
nettamente in contrasto con la
politica dei tagli indiscriminati
operata fino ad oggi a livello
nazionale, che si è, ripercossa
sulla spesa degli enti locali anche
e soprattutto per la quota destinata ai beni e alle attività culturali.
A livello nazionale è stato in
sostanza dato credito al concetto
della “superfluità” della cultura,,
esemplificato dall’espressione,
attribuita al ministro per l’economia del precedente governo,
Abbazia di Fiastra, sede del convegno “La cultura per ripartire” 27-28 gennaio 2012.
Le Cento Città, n. 45
Mario Canti
8
Holland House Library, dopo il bombardamento del 1940. Immagine scelta da Il Sole 24 ore come icona della nuova
Costituente per la cultura.
“con la cultura non si mangia”.
La cultura sarebbe in questa
logica un attività da prendere
in considerazione nei periodi
delle “vacche grasse”, non certo
nell’attuale momento di crisi e di
recessione.
Pure essendo del tutto in
accordo con la Regione nel rifiutare questo approccio che nega
alla cultura un qualsiasi ruolo
positivo per lo sviluppo dell’economia e per la qualità della
vita, dobbiamo essere consapevoli che “credere” nella cultura
comporta profonde trasformazioni nei modi di operare e negli
stessi strumenti operativi; alla
luce della scarsità delle risorse,
ma anche, e diremmo soprattutto, in considerazione del ruolo
che alla cultura, nelle sue diverse
espressioni, si intende attribuire.
Non si tratta solo di fare ogni
possibile economia, come i tempi
richiedono, ma anche di ricercare la maggiore efficacia possibile delle attività connesse con la
cultura proprio per il ruolo che
possono svolgere per lo sviluppo economico e per il benessere
sociale.
Come è stato posto in evidenza
negli incontri sopra ricordati la
possibilità che la cultura possa
esercitare una funzione positiva per l’economia e per la vita
sociale richiede che si intenda la
cultura come un sistema ampio e
complesso, che si riferisce contestualmente alla educazione come
alla istruzione, alla ricerca scientifica come alla conoscenza.
L’incuria nella quale sono state
abbandonate da molti anni le
istituzione e le attività culturali
richiede oggi, anche nella nostra
regione, l’attivazione di politiche
per la cultura nuove, con la consapevolezza che bisogna avviare
queste politiche fin da adesso,
anche se potranno avere risultati
definitivi nei tempi medi e lunghi,
senza attendere situazioni più
opportune che difficilmente si
presenteranno spontaneamente.
Nel caso delle Marche i caratteri dell’insediamento e la storia
del territorio richiedono anche
per la cultura, a nostro modo
di vedere, scelte e progetti in
qualche modo specifici, particolari, diversificati; che potranno
risultare solo in parte simili a
quelli che verranno adottati in
altre aree del Paese che presentano caratteristiche insediative ed
economiche analoghe.
La riduzione delle risorse
pubbliche disponibili comporta
infatti, in ogni caso, l’eliminazione delle spese non assolutamente necessarie e la scelta di
precise priorità anche attraverso
l’accorpamento di iniziative e la
collaborazione tra soggetti diversi; queste scelte si pongono in
maniera peculiare nella nostra
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regione a causa della dispersione
dell’insediamento, della ridotta
dimensione demografica della
maggiore parte dei centri urbani,
delle tradizioni di autonomia dei
diversi centri, medi, piccoli o
piccolissimi che siano.
Anche in questa prospettiva
va valutato l’elevato numero di
istituzioni ed associazioni culturali presenti nelle Marche: musei,
biblioteche, teatri, circoli, accademie, ecc., che rendono problematica la scelta eventuale di
“gerarchizzare” l’universo delle
istituzioni intorno a “poli” individuati in ragione della loro
dimensione o delle loro attività.
La scarsa “gerarchizzazione” dell’insediamento urbano
che caratterizza ancora oggi le
Marche deriva dalla persistenza
nel corso dei secoli di un’economia fondata quasi esclusivamente sull’agricoltura, che solo
nel secondo dopoguerra è stata
rapidamente sostituita da attività
di tipo industriale; la dimensione dell’organizzazione urbana è
stata di conseguenza determinata
dalla dimensione, modesta, dei
mercati agricoli, con poche eccezioni riferibili ai mercati marittimi, peraltro anch’essi modesti, e
alle sedi dei governatori; il polo
di riferimento culturale e politico, Roma, si trovava all’esterno
del territorio ed anche ad una
significativa distanza.
Cultura e sviluppo
Di qui la sostanziale omogeneità dei caratteri dell’insediamento urbano in tutta la regione
con poche varianti legate a fattori climatici e produttivi che,
ad esempio, motivano la rarefazione delle “case sparse” nelle
aree montane dove prevalgono i
piccolo centri nell’insediamento
ed il prato-pascolo e le colture
legnose nell’utilizzo dei suoli.
Del tutto naturalmente questi
modesti ambiti economici ricercarono una distinta autonomia
funzionale nei confronti di quelli
circostanti ripetendo le strutture
e la istituzioni che necessitavano
alla vita comunitaria, la chiesa,
l’ospedale ed il municipio in un
primo tempo e poi, a partire dal
diffondersi dei principi dell’illuminismo, il teatro, la biblioteca,
il circolo culturale.
L’omogeneità
sostanziale
dell’insediamento umano non è
stata sconvolta totalmente dalle
trasformazioni recenti che, con
il crollo dell’economia agricola,
hanno comportata la scomparsa delle “case sparse” connesse all’istituto della mezzadria, il
depauperamento demografico
delle aree interne , l’occupazione
dei fondi valle e delle aree litoranee da parte di nuovi insediamenti produttivi e residenziali,
senza peraltro che si verificassero
nuove significative polarizzazioni
urbane di livello territoriale.
Tutti gli studi condotti a partire dagli anni sessanta fino ad
oggi individuano un numero
limitato di polarizzazioni di livello urbano, così che non sembra
possibile ipotizzare una spontanea ulteriore gerarchizzazione
dell’insediamento regionale nel
suo complesso.
In queste condizioni, caratterizzate dalla diffusione dell’insediamento in centri urbani di
dimensioni contenute e dalla
necessità di contenere le spese
per la cultura, la soluzione che
coniuga il minimo della spesa
ed il massimo dell’efficienza non
può essere che quella della collaborazione tra i soggetti operanti
nell’ambito della regione, all’interno dei diversi settore e tra i
diversi settori,
Ciò significherebbe rinunciare
9
al ogni prospettiva di polarizzazione gerarchica ed insistere
sull’organizzazione a rete dei
sistemi esistenti che, tra l’altro,
troverebbe un riscontro operativo nell’ applicazione del principio di “sussidiarietà” ; sia a
carattere verticale: Regione, enti
locali, soggetti, sia a carattere
orizzontale: istituzioni culturali
associazioni, operatori.
In questa logica si dovrebbe
operare anche per l’integrazione tra i sistemi culturali esistenti, non più distinti per settori: musei, biblioteche e teatri,
ecc.,ma compresi, magari con
gradualità, in un solo comparto, quello appunto della cultura,
interagente con i settori economici e sociali attraverso le attività
di ricerca, formazione ed informazione
Una ipotesi, in sostanza, che
intende salvaguardare istituzioni
e professionalità espandendo il
ruolo della cultura come una
trama societaria comune, che
costituisca la base per l’ulteriore
sviluppo civile e economico, per
la qualificazione della ricerca,
per la conservazione dell’identità
delle comunità locali.
Una ipotesi che può apparire utopistica se non ci si rende
conto: da una parte della effettiva riduzione, in atto ed in prospettiva, delle risorse, e dall’altra
del ruolo che la cultura, nelle
sue diverse accezioni, può rivestire per la ripresa dello sviluppo
anche economico. Solo da un
sempre più accentuato e diffuso sviluppo culturale la nostra
comunità potrà garantirsi la
capacità di assicurare qualità ai
beni ed ai servizi prodotti, cioè
di essere realmente competitiva
a livello nazionale ed internazionale.
Una ipotesi che risulterebbe
condizionata da almeno due
fattori: la revisione dei criteri
di spesa secondo obiettivi generali condivisi ed una fortissima
partecipazione del volontariato;
quest’ultima condizione potrebbe divenire un vero e proprio
nuovo modo di gestire il tempo
libero, destinato al servizio sociale nell’ambito delle attività culturali, con la possibilità per chi
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vi si impegnasse di svolgere una
attività significativa e gratificante
nel medesimo tempo.
Un’esperienza peraltro che
consentirebbe di riscoprire tradizioni di solidarietà sociale, fortemente sentite dai marchigiani
che, nel tempo, le hanno sempre concretamente esercitate;
in antico nelle confraternite, e,
successivamente, nelle società
operaie di mutuo soccorso, nel
volontariato, nella protezione
civile.
Perché la rete della cultura
nelle Marche possa effettivamente prendere corpo ed affermarsi
occorre che la Regione se ne faccia carico, non tanto nel sostegno
economico che, come sappiamo,
nel breve periodo potrà al massimo mantenersi nei limiti attuali,
quanto nel definire le linee guida
per la realizzazione e la gestione
del nuovo modello organizzativo, nella sempre più alta qualificazione del personale, nella
formazione dei quadri del volontariato e, soprattutto, nella realizzazione della rete informatica
di sostegno; peraltro l’obiettivo
della disponibilità della banda
larga è ormai generalmente condiviso.
L’espansione della cultura in
una rete regionale fortemente
partecipata e, per certi aspetti, autogestita a livello di base,
potrebbe restituire alla nostra
comunità quella capacità di
perseguire nelle sue molteplici
espressioni quella bellezza che
riconosciamo nelle testimonianze del passato, artistiche, paesaggistiche, letterarie o artigianali e
che solo assai eccezionalmente
riusciamo ad individuare in atti
e oggetti dell’oggi, permeati più
che dalla bruttezza dalla mediocrità, dall’assenza della ricerca
di qualità; quella peraltro che
caratterizza ancora oggi l’Italia
agli occhi degli stranieri (vedi
la sua trasposizione in ambito
commerciale nell’Italian style).
Una bellezza diffusa nelle
città, nel paesaggio, nelle opere
d’arte, che, forse, traeva origina
dalla compresenza del sapere, la
cultura, e del saper fare, l’esperienza.
Il territorio
10
La forma della città e gli spazi urbani
di Maria Luisa Polichetti
L’origine della città è determinata da una serie di esigenze
e fattori di varia natura, sociale,
politica, culturale.
La forma della città è connessa alle modalità con cui la
collettività organizza la propria
vita e le attività connesse.
La configurazione degli spazi
urbani rappresenta la concretizzazione in forme reali dei
modi secondo i quali si articola
la convivenza delle comunità
dei cittadini: luoghi di incontro, di socializzazione, deputati allo svolgimento di funzioni
pubbliche.
Lo spazio urbano, sia che si
tratti di una piazza, di una via o
di uno slargo, sono congruenti
con l’impianto della città che
li contiene e al tempo stesso
costituiscono elementi fortemente caratterizzanti il tessuto
urbano. La loro origine può
essere contestuale alla formazione del primitivo impianto
della città, risentendo quindi,
al pari di questo, dei condizionamenti delle preesistenze
naturali o essere legati allo sviluppo della città, dove accanto
ai fattori naturali si determinano fattori di natura sociale,
economica e culturale.
L’origine della forma della
città, come luogo del vivere, è
in realtà molto antica: quando
l’uomo diventa stanziale crea i
primi insediamenti stabili e li
concepisce secondo un piano
dove indica la collocazione
delle abitazioni, definisce la
gradualità degli elementi organizzativi degli spazi, individua, razionalizzando funzioni
e gerarchie, gli spazi comuni
dove si organizza la vita della
comunità.
Gli scavi archeologici hanno
individuato le tracce delle
palificate su cui sorgevano le
capanne primitive: è spesso
ricorrente la loro distribuzione
su un impianto circolare, al cui
interno è riconoscibile lo spa-
Ancona, Piazza del Plebiscito.
zio comune riservato all’intera
collettività.
Le città greche hanno impianti diversi in relazione alla loro
specifica ubicazione ma in tutte
vengono creati spazi destinati
alla vita pubblica: l’acropoli,
con gli spazi sacri, i templi, le
vie processionali, il ginnasio,
dove si coltivava lo spirito e il
corpo, l’agorà, luogo di incontro e di scambio, il luogo del
governo del popolo. Intorno
a questi si articolava la residenza organizzata in insulae.
La distribuzione degli edifici
in relazione alla loro funzione
contribuisce alla determinazione gli spazi.
L’impianto ippodameo della
città romana che ripropone per
certi aspetti l’organizzazione
dei castra, i quartieri militari, si sviluppa secondo assi tra
loro perpendicolari: i princiLe Cento Città, n. 45
pali, cardo e decumano, al cui
incrocio viene a determinarsi lo
spazio del Foro, il luogo pubblico per eccellenza intorno al
quale si organizzavano gli edifici pubblici contribuendo alla
formazione di specifici spazi
urbani. In corrispondenza degli
assi minori si sviluppavano le
insulae, destinate alla residenza
e al commercio minore. Lungo
gli assi, maggiori e minori, si
sviluppavano le strade porticate, che talvolta, per le città
di mare, portavano al porto,
o a spazi, anch’essi luoghi di
incontro ma anche di delizia e
svago, come i ninfei, o il teatro.
L’ubicazione prescelta per la
realizzazione di nuove città, sia
per i greci come per i romani
era determinata da preesistenze. Una via di grande comunicazione, la confluenza di fiumi,
una posizione di difesa e/o di
Il territorio
11
Corridonia, Piazza Filippo Corridoni.
avvistamento. Naturalmente
tali preesistenze condizionavano lo sviluppo e il consolidarsi di specifiche forme urbane.
Lo spazio dedicato alla vita
sociale, religiosa, politica, economica delle comunità è sempre la “piazza”, che manterrà
nel tempo tale funzione primaria anche quando andranno
differenziandosi le specifiche
funzioni.
L’evoluzione nel tempo della
cultura urbana ed architettonica in particolare, in rapporto a
tali specifiche funzioni, continuerà a determinare le diverse
configurazioni: in epoca medioevale lo spazio urbano dedicato al mercato o al palazzo
pubblico viene a configurarsi
come “piazza” in senso moderno, avente la funzione di luogo
di incontro e di scambio fra i
cittadini, ma anche di amministrazione della cosa pubblica.
Nel Rinascimento la piazza,
espressione e luogo del potere pubblico e religioso, diventa teatro della politica del
Principe, grazie alla creazione
di edifici di importante valenza
architettonica.
In epoca barocca si trasformano i contenuti simbolici presenti nelle epoche precedenti, e
la piazza assume configurazioni
più simili a scenografie teatrali mediante l’introduzione di
elementi quali statue, fontane,
obelischi che costituiscono elementi di polarità visiva e si
rapportano con le facciate degli
edifici retrostanti creando una
nuova sensazione di profondità
attraverso la sequenza di diversi
piani prospettici.
La piazza neoclassica rappresenta uno spazio urbano la cui
configurazione viene determinata dallo sviluppo di architetture che ripropongono stilemi
propri dell’arte classica quali
porticati, propilei, statue. In
questo caso la piazza perde il
suo originario significato sociale per assumere un ruolo celebrativo e di rappresentanza,
dove la borghesia si pone in
mostra e celebra se stessa.
Nei primi decenni del secolo
scorso la forma delle nuove
Le Cento Città, n. 45
piazze risente dei movimenti
culturali del periodo (futurismo, razionalismo, metafisica),
ai quali gli architetti e gli urbanisti intendono corrispondere
con le loro realizzazioni.
Esempi significativi sono
le piazze delle città di fondazione dell’Agro Pontino,
piazza Augusto Imperatore e
il quartiere EUR a Roma; nelle
Marche l’esempio più rispondente è quello della piazza
Filippo Corridoni a Corridonia.
Gli strumenti guida per la
realizzazione dell’impianto
delle città sono stati prevalentemente gli statuti comunali
per le città medioevali, mentre per le città rinascimentali
è stato determinante il disegno
ispirato dalla volontà del principe che intendeva realizzare
nella forma urbana e soprattutto negli spazi pubblici, come
nell’architettura, gli ideali rinascimentali nei quali esso stesso
si identificava. Fondamentale è
stata in tal senso l’opera degli
architetti trattatisti. La piazza come espressione della cosa
Maria Luisa Polichetti
12
ziata, basti pensare alla piazza rinascimentale antistante il
Palazzo Ducale e alla piazza
neoclassica antistante il collegio
Raffaello a Urbino, o alla piazza medioevale di Sanseverino
Marche, originata dalla funzione mercantile e poi divenuta
piazza del potere pubblico, o
alla piazza di Fermo, il cui
impianto medioevale originario
assume una nuova configurazione in epoca tardo- rinascimentale soprattutto mediante
la creazione dei porticati e la
collocazione della statua del
Pontefice Sisto V che si staglia
sulla facciata del palazzo pubblico.
In questa sede ci limitiamo ad
esporre tre esempi di impianti urbani, in particolare quelli
basati sulla ortogonalità degli
assi viari.
Fano, Pianta storica della città, 1658.
“pubblica” ovverosia, quella
gestita dalla comunità per la
piazza medioevale, e quella del
“signore” per la piazza rinascimentale, rappresenta in forma
concreta la natura del governo
che la ispirata.
L’epoca barocca introduce
nuovi motivi: in Italia, in particolare, modifica quell’antico stretto legame tra forma di
governo e configurazione degli
spazi urbani che aveva prima
connotato le città.
In taluni casi l’effetto prospettico che vi si propone riveste un
alto significato simbolico, ad
esempio, a Roma, il berniniano
colonnato di San Pietro che
delimita la piazza sembra volere
abbracciare la comunità cristiana, creando al tempo stesso una
scenografia di grande magnificenza che esalta il fuoco visivo
ed emblematico rappresentato
dalla cupola michelangiolesca;
le due fontane poste all’interno
della piazza, segnando i centri
dell’ellisse, contribuiscono ad
una potenziamento dell’impatto percettivo.
Per altri versi la piazza del
Papa di Ancona può considerarsi significativa in relazione
alla ricerca di effetti scenografici potenti, rappresentati dal
suo particolare andamento lon-
gitudinale in salita che va a
concludersi, verso l’alto, con il
complesso architettonico costituito dalla scalinata e dalla chiesa di San Domenico, davanti
ai quali la statua del Pontefice
Clemente XII sembra quasi
volere rappresentare, sia sotto
il profilo simbolico, sia sotto
il profilo figurativo, l’elemento
di mediazione fra uno spazio
dedicato alla collettività urbana
e lo spazio sacro soprastante.
La casistica delle piazze nelle
Marche è assai vasta e differen-
Fano, Piazza XX Settembre.
Le Cento Città, n. 45
Fano – La città, creata sulla
sponda dell’Adriatico centrale,
rappresenta lo sbocco al mare
dell’antica via Flaminia. Il tessuto urbano di impianto romano
è racchiuso da una cinta muraria con andamento quadrangolare segnato da torri circolari, successivamente inglobata
nell’ampliamento malatestiano
che conserva l’arco di Augusto
come ingresso trionfale alla
città. Malgrado le successive
trasformazioni ed ampliamenti
il primitivo impianto ippodameo è ancora leggibile, infatti le
Il territorio
trasformazioni successive non
hanno introdotto modifiche
sostanziali.
In prossimità dell’incrocio tra
il cardo e il decumano maggiore si sviluppava il Foro. Le
insulae, fin dall’origine destinate alla residenza e a piccole botteghe, si sono successivamente
allungate in corrispondenza del
Duomo e di alcuni palazzi rinascimentali davanti ai quali si
sono aperti spazi urbani privi
di una specifica configurazione architettonica. Quella che
possiamo identificare come la
vera piazza principale della
città è tuttora quella dell’antico Foro che ha mantenuto la
sua connotazione originaria di
luogo deputato allo svolgimento della vita cittadina, ed in esso
si collocano in epoca medioevale la Corte Malatestiana e il
Palazzo del Podestà, il quale,
non a caso, quando cessa la sua
originaria funzione di governo diventa il Teatro cittadino
continuando così a svolgere la
funzione di luogo pubblico e di
incontro.
13
Ascoli Piceno, veduta zenitale della città.
Ascoli – Il tessuto urbano
della città di Ascoli conserva tuttora testimonianze evidenti dell’originario impianto
romano. La città che sorge alla
confluenza dei fiumi Tronto
e Castellano si sviluppa lungo
assi viari tra loro ortogonali che
delimitano la dimensione delle
insulae. L’ossatura principale
Ascoli Piceno, Piazza del Popolo. Palazzo dei Capitani e porticati.
Le Cento Città, n. 45
dell’impianto urbano è costituita dal cardo e dal decumano
maggiore, al cui incrocio fu creato il Foro, luogo dove si amministrava la cosa pubblica: tale
funzione, che permane dall’epoca medioevale a tutt’oggi, è
confermata dalla realizzazione
fra i secoli XIII e XIV del
Palazzo dei Capitani. A tale
Maria Luisa Polichetti
funzione si aggiunse, sempre
in epoca medioevale, quella
di luogo del mercato e degli
incontri e non a caso in essa
si venne ad attestare nel XIII
secolo l’insediamento dell’Ordine dei Francescani costituito
dalla chiesa, dal convento e da
un chiostro dove ancora hanno
luogo le funzioni mercantili. La
piazza del Popolo, che costituisce il luogo di incontro privilegiato da parte della collettività
ascolana, presenta due lati porticati, con arcate ad interasse
variabile, costruiti in base a
specifiche norme contenute nei
medioevali statuti comunali che
imponevano ai proprietari delle
insulae, il cui lato minore si
attestava sulla piazza, di costruire in corrispondenza della loro
proprietà un elemento del portico. La funzione urbana originaria della piazza è oggi rafforzata dalla presenza si strutture
destinate al commercio e allo
svago.
La città di Ascoli tuttavia presenta un sistema di piazze collegate fra loro, oltre che dal sistema viario, da una correlazione
di funzioni: infatti in prossimità della piazza del Popolo,
che presenta una configurazione architettonica complessa
e di alto valore, sorge piazza
Arringo, in posizione decentrata rispetto al luogo dell’antico
Foro, ubicata in corrispondenza di uno degli assi viari romani
maggiori, sorta originariamente
in funzione del potere religioso. In essa il potere religioso
si fonde con quello civile grazie alla presenza del Duomo e
dell’antico Battistero, accanto
ai quali in epoca medioevale
sorse il Palazzo Comunale nato
dall’unione di due edifici precedenti, e trasformato in maniera significativa dal Giosafatti
nel XVI sec.
L’uso attuale delle due piazze
ha contribuito a marcarne in
maniera più precisa la configurazione urbana in rapporto
alla funzione: piazza Arringo si
presenta sostanzialmente come
un luogo di passaggio, quasi
fosse un ampliamento dell’originario asse viario, con conseguenze sull’uso e le attività che
14
Ascoli Piceno, Piazza Arringo. Cattedrale e Battistero.
in essa si svolgono. La piazza
del Popolo è il luogo, per antonomasia, del ritrovo, dell’incontro, del passeggio e delle
manifestazioni.
Servigliano – Servigliano
è una città anch’essa di fondazione, realizzata nel XVIII
secolo, che ripropone nel suo
impianto, secondo la cultura
del periodo, quegli elementi di
classicità ripresi dall’antichità
romana. Fu creata per volere
del pontefice Clemente XIV,
il quale con proprio chirografo
nel 1772, accogliendo le richieste degli abitanti del vecchio
abitato che era andato in rovina
a causa di frane e smottamenti
del terreno, ne stabilì la nuova
fondazione definendone modalità e tempi.
Nell’ambito del vasto programma di opere pubbliche
varato dal Governo Pontificio
nel secolo XVIII, per favorire
un nuovo sviluppo dello Stato
dopo la decadenza che aveva
caratterizzato il secolo precedente, la ricostruzione della
nuova città, che non a caso prese
il nome di Castel Clementino in
onore del Pontefice, veniva a
rappresentare un’ottima occasione per contribuire alla ripre-
Servigliano, veduta assonometrica della città.
Le Cento Città, n. 45
Il territorio
15
Servigliano, la piazza.
sa economica, in particolare nel
settore agricolo, che incominciava a manifestarsi nelle zone
dei territori maceratesi grazie
allo sviluppo della mezzadria.
Fu incaricato del progetto
Virginio Bracci, accademico di
San Luca, il quale, effettuata un’accurata indagine sullo
stato di consistenza dell’antico
paese, giunse alla conclusione
che l’ipotesi migliore per corrispondere alle richieste dei cittadini era quella di delocalizzare
completamente la città più a
valle e in un luogo pianeggiante. L’architetto, nel delineare la pianta della nuova città,
ripropone gli schemi mutuati
dall’urbanistica dell’antichità
classica, distaccandosi sostanzialmente dai principi elaborati
dai trattatisti del ‘400 e ‘500
per le città di nuovo impianto,
basati essenzialmente su criteri
di ordine, razionalità e gerarchia di funzioni. L’impianto
a maglia ortogonale genera la
formazione di insulae destinate alla residenza, differenziate
secondo diversi livelli di classi
sociali, e di uno spazio su cui si
attestano la chiesa e il palazzo
comunale, edifici non dotati di
particolare evidenze architettoniche. La città viene cinta di
mura che hanno essenzialmente
una funzione di delimitazione
e di differenziazione dell’impianto urbano dalla campagna
circostante; su di esse si aprono
le porte di accesso alla città
che segnano l’inizio degli assi
viari che confluiscono verso la
chiesa, vero fulcro del sistema, e verso la piazza, luogo di
incontro per la comunità, legata
funzionalmente e visivamente
alla chiesa.
La compattezza del tessuto
urbano è la caratteristica principale delle città di antica fondazione, intorno alle quali si
sono andate via via sviluppando, a partire dal secolo scorso,
Le Cento Città, n. 45
disordinate periferie urbane
che tuttavia, in qualche maniera, hanno mantenuto un legame
con il centro antico, soprattutto
in funzione di strutture viarie,
quali circonvallazioni, assi di
penetrazione, insediamenti con
funzioni specifiche.
Ora assistiamo alla fine della
città compatta con esplosione
di nuovi insediamenti diffusi in
forma spontanea che vanno ad
occupare grandi estensioni di
territorio: il cosiddetto “sprawl”
che comunque riesce ad assumere una sua specifica configurazione di tipo polimorfico,
ma non prevede la creazione
di spazi che siano configurabili come la piazza tradizionale,
bensì spazi dedicati a funzioni
di servizio privi di una identità
morfologica. Gli spazi sono correlati agli edifici che vi si affacciano (parcheggi, zone di verde
urbano); la loro configurazione è determinata dalla capacità
comunicativa delle architetture
di cui sono funzione, dalla fantasia negli arredi urbani, dai sistemi di illuminazione.
Siamo lontani dal concetto
novecentesco di pianificazione
definita in forma progettuale
in cui tutto veniva predefinito secondo una logica razionale, ora si va verso una nuova
“urbanistica”, fatta di confronti fra pubblico e privato, fra
soggetti di natura diversa, e
originata dalla interconnessione di esigenze contingenti che,
pur nascendo dall’interno delle
comunità, diventano oggetto di
confronto e scambio fra le autorità responsabili e i cittadini,
dove tuttavia spesso l’interesse
del privato finisce per prevalere
sul vero interesse pubblico.
16
Le Cento Città, n. 45
La letteratura
17
La poesia di Alvaro Valentini tra lirismo e impegno sociale
di Alfredo Luzi
Alvaro Valentini (Fermo
1924 – 1991) è stato allievo
di Ungaretti nell’Università La
Sapienza di Roma.
E’ stato docente nelle scuole
secondarie di Fermo.
E’ stato professore associato
di Letteratura Italiana Moderna
e Contemporanea nella Facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata, molto
amato dagli studenti e apprezzato dai colleghi.
Ma tutti sanno che Valentini
è stato anche poeta.
In lui la poesia è, foscolianamente, ribellione dai vincoli del
tempo e dello spazio, scoperta
del senso ultimo della storia
dell’uomo.
L’indagine sulla realtà acquista il valore di un tragitto compiuto in luoghi inospitali, tra
una folla di fantasmi sconosciuti, fino a quando non giunga
lo scatto della memoria a collegare gli opposti poli esistenziali dell’alfa e dell’omega e a
definirli. Così anche Una storia
d’amore (Bucciarelli, Ancona,
1966) è narrata teneramente
e impietosamente, seguendo
il filo temporale della vicenda, dalla scoperta dell’ “altra”,
momento di ritorno alla vita,
fino al trionfo di una solitudine
più disperata e forse inalienabile. Tra marzo e settembre
(con uno scambio simbolico
tra natura e sentimento: marzo
– amore – felicità // settembre – autunno – tristezza) l’incidere dei giorni, l’alternarsi
dei mesi, con luci ed emozioni
diverse, scandiscono il ritmo
dell’incontro sentimentale, dal
suo accendersi alle sue ceneri.
E intanto il discorso amoroso è tramato fitto sul rapporto analogico fra mondo visibile e stato psicologico (“…
Questo seme di marzo, nella
zolla / si sveglia, schianta e già
prorompe in fiore. // Questo
vento di marzo che t’incolla /
la veste addosso, fa scoppiare il
cuore…”), talvolta fino al limite della identificazione metaforica (“Sei primavera … O sei
l’estate … O se l’autunno….
E sei l’inverno…”), quando il
paesaggio si anima e si interiorizza per e attorno la presenza
d’amore (“Non lasciarmi: di te
tutto mi resta / chiuso dentro la
tua presenza breve. / Un’orma
sulla neve, una crisalide / che
muore, se si desta…”). Questa
apparizione, montaliana cellula
di miele, ricostituendo miracolosamente il rapporto interpersonale, salva il poeta dalla
emarginazione sociale e mette
luce in un paesaggio sfuocato,
fatto di nebbie, parvenze irreali, oggetti della consuetudine.
La solitudine e l’ombra torneranno solo nel momento in cui,
consunto dal tempo, l’amore si
farà ricordo e, perdendo la sua
carica di tensione verso l’altro,
muterà in residuo d’esperienza
tutta individuale. Il cerchio si
è chiuso, ognuno dei protagonisti rimane invischiato nella
inesausta ricerca del proprio
io: “Per rimanere simili a se
stessi gli uomini custodiscono
il passato”. Nella specularità
del sentimento s’insinua l’ombra della delusione, tanto più
amara quanto più dolci sono
state le illusioni, fino al presagio di morte (“Raccolgo in
questo aereo tempo i tuoi gesti
più lievi / per legarli alla fuga
dei miei gesti di allora. / Ma
è inutile. Io m’avvinghio a me
stesso. Tu ancora, / effimera ed
eterna, non esistevi…”).
E in Notizie del figlio
(Bucciarelli, Ancona, 1964)
è il costante riferimento alla
morte, dichiarato o inespresso,
accettato o temuto, ad offrire
alla poesia, costruita su di un
iniziale approccio descrittivo
ai dati della natura enunciati ed enumerati con secchezza
Le Cento Città, n. 45
ed umiltà, un tono drammatico
elevatissimo. Ancora una volta
Valentini perviene ad un’idea
di poesia sociale fondendo il
suo destino privato di orfano
che conosce l’angoscia di congiungersi al padre per dare un
senso alla vita (“… Certo è più
facile / scrollarsi giù dai vertici della speranza, che esistere
/ senza i morti. E s’impiega
più a morire che a vivere” –
Prima poesia a mio padre) con
il dramma collettivo vissuto dai
contemporanei e, in particolare, dai conterranei negli anni
della seconda guerra mondiale, quando il colloquio con la
morte, anziché essere esorcizzato dalle parole, era reso terribile dal crepitare del mitra
e dai rabbiosi ordini militari,
spietatamente eseguiti. Tutti gli
eventi di allora bruciano ancora nel sangue e nel cervello di
una intera generazione, il cui
simbolo è la follia di Eatherly,
il pilota di Hiroshima, reso
pazzo perché non può dimenticare (“Ma posso io ignorare
/ Hiroscima, i suoi fiori alle
finestre, / le lanterne, le stuoie
colorate / ed i bambini? / Sono
solo” – Il pilota Eatherly).
In un succedersi di atmosfere
che ricordano Montale, per il
gioco tra l’attesa e il tempo,
bruciato nella consumazione
dell’esistere, e Lucrezio, per il
mito della Natura-Madre che
Alfredo Luzi
18
La tua storia finisce quella sera
che sostammo al crocicchio luminoso.
Oggi che sei lontana, mi dispera
il tuo sorriso docile e pensieroso!
Disserrando un rammarico più sordo
m’inseguono rimpianti meditati.
Ma se raccolgo i tuoi gesti esiliati
quanta vita mi costa ogni ricordo.
Fu l’addio. Quel commiato
esitò come nebbia sui riflessi.
(Per rimanere simili a se stessi
gli uomini custodiscono il passato).
Da Una storia d’amore
Il pilota Eatherly
«Non importa chi va, purché uno vada
ad Hiroscima!».
Ma posso io ignorare
Hiroscima, i suoi fiori alle finestre,
le lanterne, le stuoie colorate
ed i bambini?
Sono solo.
Io braccato. Internato. Vigilato.
Mi dicono: «Hiroscima è lontanissima,
non è qui, non temere. E prova a credere
che al tuo posto poteva starci un altro …
Ma quell’altro dirà che ha avuto l’ordine
a cui obbedire: lui ha obbedito. Il fatto
non lo riguarda.
E’ un capo che decide!»
Quindi né tu, né tu, né tu sapete
niente. Quindi non toccano i rimorsi
né a voi né a me; ma al capo, al capo … E il capo
dirà che lui non è nessuno, è solo
la somma di noi tutti. Ed io vi chiedo:
«Anche tu mi hai mandato ad Hiroscima?»
Sì, ho compreso. «Era un atto indispensabile»,
mi ripetete. Allora mi hai mandato
anche tu a Hiroscima?
governa l’immobilità del mutamento (“Nel buio ove fermenta
la pietra e si fa molle / il frutto
e nel suo sonno l’animale si
culla, / ignari semi corrono le
vene delle zolle / e tutto si
matura nell’apparente nulla” –
Paesaggio), Valentini si salva
dall’elegia individuale attraverso una coralità sociale che fa da
controcanto alla voce del poeta,
peraltro mai isolato e sempre
interprete di una psicologia di
gruppo (penso alla Ballata delle
bare, a Coro dei morti, al Coro
dei muratori, La morte di un
bambino). Sembra addirittura
Ma voi dite
che di questo non vale più discutere…
E di che vuoi discutere? di vita
e di morte, di amore e di rancore,
di guerra e pace. Non c’è altro. Io sono
Eatherly perché sento dentro l’ossa
quel fuoco, ho nelle palpebre quel lampo.
E perché sono solo. Se quel lancio
fosse ancora da compiere, oseresti
dirmi «va!» o «non andare!»? Ma la voce
del capo giù per fili oscuri scende
da un microfono a noi; dice che occorre
colpire alberi cielo acque germogli,
mutare il sangue in fuoco, il pane in zolfo,
cancellare un paese … Voi tremate,
voi che non siete gli angeli insultati
a Sodoma e Gomorra, voi sperate
che sopra me ricada la missione.
C’è
qualcuno che mi dica «non andare!»?
Qualcuno, almeno che al ritorno chieda
perdono a me che vengo da Hiroscima
col suo teschio negli occhi, con la luce
che strugge la meteora d’Hiroscima?
Maledetto il sereno. Il capo non
mi conosce.
O non vuole.
Ed io chi sono?
che nell’alternarsi delle compresenze il poeta realizzi un suo
bisogno di spazialità e dinamica
teatrale entro cui si muovono
i personaggi storici o mitici,
assunti da Valentini a interpreti
dell’umana avventura. Ad esempio tutte le figure dei Carmina
docta in Notizie del figlio (Eva,
Niobe, Apollo, Orfeo) hanno in
comune la disperazione per la
vita e il lamento per la perdita,
una nostalgia dell’irrealizzato
che non s’acqueta con il canto,
come per il figlio del muratore non basta ricostruire la
cronaca per dimenticare. Ma,
Le Cento Città, n. 45
Da Una storia d’amore
almeno per l’uomo, resta lo
svincolo dalla caducità del reale
quotidiano con il recupero del
senso religioso (la comunione
di vivi e morti) dell’esistenza:
(“Non c’è metro di terra dove
non sia sepolto / un morto
nuovo o antico. Essi lastricano
il mondo. / E come non c’è
albero che non abbia radici, /
non c’è uomo che non cammini
sulle ossa dei predecessori. // Il
rispetto e il ricordo, il timore e
la consuetudine / c’intralciano
i passi o ci segnano la strada. /
Così, quando la vita non potrà
più contenere la morte / fini-
La letteratura
19
Seconda poesia a mio padre
Signore, non ho detto: Devi risuscitare
mio padre. L’hai fermato sui trent’anni di ferro.
E’ quasi mia coetanea quella sua tomba a sterro
e un simile miracolo io non posso implorare.
Ma se ancora dovessi vivere da invecchiare
per ritrovarlo, dopo, all’ombra del tuo trono,
come potrei chinare, Signore amato e buono,
la mia canizie al giovane che mi sta ad aspettare?
Mi rivedrò nel volto di lui, che in ogni tratto
dicono tutti, tutti ch’era identico al mio,
il giovane di un tempo che, attonito, mio Dio!
muove incontro a se stesso già cadente e disfatto.
Forse, per il mio logoro aspetto di vegliardo,
il giovane devoto mi bacerà le mani;
e, come per apprendere, ai segni ignoti e strani
delle profonde rughe intenderà lo sguardo.
Non proverò mai, dunque, lo stupore sognato
di sentirmi guidare, di gustare l’abbraccio
protettore, sospendermi al bronzo del suo braccio
chiamandolo col nome così a lungo negato?
Dei nuovi giorni, ognuno mi toglie la speranza
che si annulli il presagio, tarlo che mi divora.
ranno ambedue per coincidere.
Amen”).
C’è un componimento tratto
da Perlocuzioni, Edizioni della
Cometa, Roma 1983, che considero l’autoritratto più fedele,
più ironico e più amaro che
Alvaro abbia potuto dipinge-
A superare il limite basta soltanto un’ora
e poi sarò inghiottito da un’altra lontananza.
Il cammino che resta, varcato ormai quel ciglio,
più solo che in passato mi toccherà compire.
Padre, nel mio indurito cuore so che vuol dire
prepararmi ad amarti, come amerei mio figlio…
Da Notizie del figlio
Alibi
La mia più forte tentazione è questa:
scendere nel corso affollato
per potermi vedere alla finestra.
Ma la mia faccia in finestra non c’è più.
E’ inutile ch’io guardi in su,
per starci dovrei essere rientrato…
Il rompicapo è vecchio, la soluzione ho tentato:
sul muro di fronte ho applicato,
al posto giusto, uno specchio,
così se mi affaccio mi vedo
nella via dirimpetto.
Fuori di casa mi credo
ed in casa mi aspetto.
re, usando con perizia somma
quella materia incandescente
formata dalle parole che compongono una poesia.
Si intitola Alibi: in esso s’adombra il gioco del qui e altrove, della colpa e dell’innocenza,
della soggettività e dell’alterità,
Le Cento Città, n. 45
Da Perlocuzioni
della delega e della responsabilità.
Nell’aiutarci a dipanare l’intreccio contraddittorio dell’esistenza del nostro io per gli altri
e negli altri Alvaro ci è stato
davvero maestro.
La rassegna
20
La Popsophia e la nottola di Minerva
La seconda edizione del festival del contemporaneo
di Lucrezia Ercoli
“La filosofia – ammonisce Hegel – arriva sempre troppo tardi.”
È la nottola di Minerva. Inizia
il suo volo sul far del crepuscolo, appare dopo che la realtà ha
compiuto il suo processo di formazione.
Il presuntuoso proposito della
Popsophia è ribaltare questa lapidaria asserzione.
La fortunata formula hegeliana, distorta nei suoi originali
presupposti, è alla base del pregiudizio che grava sulla filosofia.
Siamo abituati a pensare che il
filosofo e i suoi sofismi entrino
in scena quando le cose sono
ormai bell’e fatte. Le sentenze
della filosofia sarebbero, cioè,
nient’altro che complicati ragionamenti utili a riflettere sui
massimi sistemi del passato, ma
profondamente inadatti ad affrontare i problemi e le esigenze
della vita presente.
Un ragionamento riassunto
bene dall’antica massima primum vivere deinde philosophari.
Oggi, con questo pregiudizio,
apriamo il Simposio di Platone
o la Metafisica di Aristotele. Ca-
polavori del pensiero che ci parlano di un mondo che è stato.
Non solo. I pochi che riescono
a decifrare le verità rivelate sono
destinati, come eremiti del pensiero, a vivere nascosti, lontani
dalla realtà quotidiana.
Un pregiudizio, letteralmente
un “giudizio che viene prima”,
che precede l’incontro con il reale e anticipa la prova dei fatti, non
è necessariamente negativo in sé.
I pregiudizi sono indispensabili per ogni comprensione.
Sono la nostra bussola: derivano dalle nostre esperienze personali, raccolgono la tradizione
culturale in cui ci siamo formati,
orientano le nostre scelte e ne
anticipano le conseguenze. Senza pregiudizi non si aprirebbe
nemmeno un orizzonte di senso
in cui sia necessario leggere un
libro di filosofia.
Di conseguenza, non è possibile (e nemmeno auspicabile!)
cancellare tutti i pregiudizi per
arrivare a una primigenia tabula
rasa, al grado zero di ogni esperienza filosofica. La filosofia è
anche la storia della filosofia che,
Giulio Giorello e Lucrezia Ercoli.
Le Cento Città, n. 45
per lungo tempo, si è svolta nelle aule universitarie, lontana dal
brusio sviante del mondo.
Attenzione, però! Come per
tutte le medicine, ci sono le
controindicazioni. I pregiudizi,
cioè, sono necessari, ma possono diventare pericolosi. Proprio
come i farmaci, che hanno un
duplice effetto, sono un rimedio
e, insieme, un potenziale veleno.
I pregiudizi crescono uno sopra
l’altro. All’inizio sono una lente
di ingrandimento che facilita la
lettura; alla fine diventano una
patina deformante che impedisce
l’atto stesso del vedere.
Questa filosofia crepuscolare
si è allontanata dal reale fino a
diventarne la parodia accademica. Una “filastrocca di opinioni”
lontana dalla sua origine autentica. Incapace non soltanto di
cogliere lo stupore e l’orrore (il
thauma di cui parla Aristotele)
che caratterizza l’atteggiamento
dell’uomo di fronte alla realtà,
ma perfino di confrontarsi fruttuosamente, come pretendeva
Hegel, con il suo immediato
passato.
La rassegna
21
Piazza di Civitanova Marche.
Che fare? – si sarebbe chiesto
qualcuno più attento alla praxis
che alla theoria. Se i pregiudizi
diventano una prigione che ci
rende recettori passivi, come liberarsene?
Di certo non basta la consapevolezza della malattia. Bisogna
trovare un rimedio alternativo
che ci liberi dagli effetti collaterali della cura precedente.
Soltanto a questo punto possiamo introdurre il termine intorno
al quale ci stiamo implicitamente
interrogando: “Popsophia”.
Questo strano neologismo è
il pharmakon, l’antidoto contro
l’avvelenamento della filosofia
che abbiamo appena descritto.
Certo, è anch’esso un medicinale, ha molte controindicazioni e
avvertenze, ma è utile e necessario per debellare (almeno temporaneamente) questa odiosa
malattia. La Popsophia è in grado, cioè, di rompere il paradigma, di rovesciare la forma mentis
che ci tiene chiusi in una gabbia
culturale asfittica.
Ma che cosa significa Popsophia? Letteralmente, è un ossimoro. L’ossimoro è una figura
retorica che accosta termini opposti; in greco vuol dire “acuto
ottuso”, “furbo stupido” o, se
ci concediamo una traduzione
libera, “acuta follia”.
La pop-filosofia, quindi, è
un’acuta follia, l’accostamento
di due parole che il pregiudizio
ha mantenuto separate. Un’unione spregiudicata che produ-
ce una novità, una tensione. Ed
è in questo scontro/incontro che
si rompe la consuetudine e si rovescia il paradigma. La relazione illecita tra il pop e la filosofia
rimette in discussione le definizioni, costringe il pregiudizio a
sporcarsi con la realtà.
La Popsophia è una calamita
gettata in un recipiente pieno di
aghi di ferro: nascono configurazioni insospettate e stimolanti.
Inizia così un viaggio rischioso
tra le meraviglie e i pericoli della
contemporaneità. Il percorso è
tutt’altro che lineare, è ricco di
insidie, anche per il timoniere
più esperto. Ma il filosofo che
non ha paura della contemporaneità si espone, esce in mare
aperto e tenta l’impresa con le
solide armi del pensiero. Se la
vecchia filosofia non ha più le
bussole che orientavano il suo
viaggio nel passato, deve creare
nuovi strumenti adatti per navigare in mare aperto.
A Civitanova Marche nel 2011
è nato il primo festival del contemporaneo interamente dedicato alla Popsophia. E quest’anno,
con la seconda edizione prevista
per luglio e agosto, continuerà a
farsi sostenitore di questa rivoluzione copernicana.
Nelle piazze, nei chiostri e nei
teatri della cittadina marchigiana il pop racconta la filosofia. La
moda, la pubblicità, il cinema, i
telefilm, i fumetti, la musica, il
calcio hanno la stessa dignità dei
classici del pensiero. I pregiudiLe Cento Città, n. 45
zi accademici li descrivono come
manifestazioni banali e superficiali, immeritevoli di attenzione.
Al contrario, sono il veicolo delle domande e dei problemi che
da sempre inquietano l’uomo.
Popsophia discerne, in mezzo
alle infinite sollecitazioni del
presente, le esperienze autentiche che attraversano, non viste,
la nostra vita quotidiana.
Interroga la contemporaneità e,
se necessario, scava nella memoria
catodica che costituisce l’odierno
immaginario mitopoietico.
La filosofia accademica, se
vuole entrare in quest’arena, è
costretta a trasformarsi. Deve
uscire dalle aule universitarie e
confrontarsi con il grande pubblico. Tornare a discutere nell’agorà, riscoprire il dialogo con
le urgenze del contemporaneo.
Non può più sottrarsi alle domande scottanti della normalità.
Con Popsophia, il pregiudizio
dal quale siamo partiti risulta irrimediabilmente sconfitto.
Lungi dal rimanere una forma astratta di sapere che si accapiglia sulle ceneri del reale, la
popfilosofia è un esercizio d’intelligenza critica che richiede
emulazione. Stimola la discussione e scuote le acque paludose
del dibattito culturale.
È questa la terapia che ci insegna a vigilare sul senso comune,
a verificare la consistenza delle nostre convinzioni, a lottare
contro la resistenza rocciosa
dell’ovvio e dell’abituale.
Musica
22
Un convegno e un concerto per Bruno Mugellini
Potenza Picena ricorda il musicista nel centenario della morte
di Paolo Peretti
Chiunque abbia studiato il pianoforte – anche solo per diletto
– non può non essersi imbattuto
nel nome di Bruno Mugellini,
autore di centinaia di revisioni di
opere per tastiera di compositori
classici (Bach, Mozart, Clementi,
Czerny ed altri) divenute veri e
propri capisaldi della letteratura
pianistica, nonché di metodi ed
esercizi tecnici per lo strumento.
Pochi però sanno che egli deve
ascriversi alle glorie musicali
marchigiane, perché nacque a
Potenza Picena il 24 dicembre
1871 e, più tardi, ebbe gli affetti
famigliari a Fossombrone: qui
riposano le sue spoglie, dopo
l’improvvisa e prematura scomparsa avvenuta a Bologna, città
eletta a dimora dal musicista per
i suoi impegni professionali ed
artistici, il 15 gennaio 1912.
A un anno dalla morte,
Fossombrone volle ricordare
l’illustre concittadino adottivo dedicandogli memorabili
manifestazioni nel locale teatro
“Petrucci” il 16 marzo 1913:
lo scoprimento di una lapide,
un discorso commemorativo
e, soprattutto, un applauditissimo concerto sinfonico-vocale
di musiche mugelliniane, sotto
la bacchetta dell’allora direttore del Liceo Musicale “Rossini”
di Pesaro, il noto compositore
Amilcare Zanella, alla testa di
un’orchestra di settanta elementi. Anche il Liceo musicale di
Bologna, dove Mugellini aveva
dapprima compiuto gli studi e
successivamente insegnato pianoforte, istituì sin dal 1913 in sua
memoria il “Premio Mugellini”,
una borsa in denaro assegnata
negli anni successivi ad alunni
delle classi di pianoforte particolarmente meritevoli ma privi
di mezzi. Neppure Potenza
Picena dimenticò il musicista
a cui aveva dato i natali, intitolandogli il teatro condominiale,
che, dal 28 ottobre 1933, porta
ancora il suo nome.
Tuttavia, nella seconda metà
del
Novecento,
la memoria di
Mugellini è venuta
fatalmente a scemare, rimanendo
legata solo alla sfera
didattica; ma questo
aspetto, per quanto
importante, non
renderebbe giustizia a un poliedrico
musicista, che fu
anche concertista di
fama internazionale, animatore della
vita musicale italiana e compositore di
originali opere, non
solo per pianoforte.
Per riappropriarsi
‘a tutto tondo’ della
figura di Mugellini,
in occasione del
primo centenario
della sua morte, il
comune di Potenza
Picena ha pensato Bruno Mugellini in una fotografia d’epoca (proprietà
bene di organiz- Rosa Mugellini, Roma).
zare un convegno
nazionale di studi
che si è svolto nel locale teatro to a studiare il pianoforte sin
“Mugellini” il 21 gennaio 2012, dall’età di sette anni e, appena
seguìto da un concerto di musi- undicenne, si era esibito per la
che di e sul celebrato. Di queste prima volta in pubblico; avrebiniziative si rende qui conto, be poi completato i suoi studi
premettendo qualche necessa- nel Liceo musicale “Rossini” di
ria notizia su Bruno Mugellini, Bologna, conseguendo in pochi
così da riproporre all’atten- anni il diploma di pianoforte
zione del più vasto pubblico (1891) nella classe di Gustavo
un importante musicista trop- Tofano e quello di composizione
po presto - e ingiustamente - (1892) con Alessandro Busi. Ma
a Bologna, l’incontro più signidimenticato.
Bruno Mugellini nacque a ficativo fu con il pianista, diretPotenza Picena dove il padre tore d’orchestra e compositore
di lui, Pio, proveniente da una napoletano Giuseppe Martucci,
famiglia di origini toscane, era allora direttore dell’istituto,
stato chiamato nel 1870 a eser- uno dei fautori della rinascita
citare la “condotta chirurgica”, della musica strumentale italiarimanendovi per quattro anni. na nell’ultimo Ottocento. Dopo
Ulteriori trasferimenti legati il diploma, Mugellini fu chiaall’esercizio della professione mato a insegnare pianoforte a
medica del capofamiglia por- Bologna; qui stabilì la sua resitarono finalmente i Mugellini, denza, divenendo anche diretdopo varie tappe intermedie, a tore incaricato del Liceo musiFossombrone nel 1884. Il pic- cale nell’ultimo anno della sua
colo Bruno aveva comincia- vita. Nel 1900 aveva sposato a
Le Cento Città, n. 45
Musica
Fossombrone Rosina Ceppetelli,
di famiglia benestante del luogo,
dalla quale ebbe due gemelli:
Catullo e Mario (il nome del
primo si ricollega all’omonima
opera lirica cui in quegli anni
Mugellini lavorava). La morte
prematura di Rosina, avvenuta
l’8 aprile 1904, lasciò nella prostrazione il giovane musicista,
per di più con due bambini da
accudire. Forse per questo, nel
1907, sposò in seconde nozze
la cognata Pasqualina (detta
Lina) Ceppetelli: da lei, due anni
dopo, gli nacque Carlo. Nessuno
dei tre figli, rimasti presto orfani
di padre, intraprese la carriera
musicale.
Al di là delle vicende familiari, la vita professionale di
Bruno si divideva tra l’attività didattica svolta a Bologna e
quella concertistica, che invece lo portava a girare l’Italia
e le maggiori capitali europee
(Londra, Parigi, Berlino, ecc.);
nel 1909, addirittura, fece una
tournée in tre stati dell’America
del Sud. Nei suoi concerti, si
produceva ora da solo al pianoforte ora in una formazione da
lui stesso creata, il “Quintetto
Mugellini” (violinisti Mario
Corti e Giuseppe Fantuzzi, viola
Ottorino Respighi, violoncello
Antonio Certani). Qui non si
possono ripercorrere le tappe
di quella che fu una mobilissima
e brillante attività concertistica internazionale; basti dire che
le sue esibizioni riscuotevano
ovunque consensi di critica e di
pubblico.
Come compositore Mugellini
ha lasciato musica sinfonica e da
camera. Alcune romanze giovanili per voce e piano, una decina
di pezzi caratteristici per pianoforte solo (tra cui “Impressioni”
Op. 5, quattro bozzetti poi trascritti anche per orchestra), una
sonata per violoncello e piano,
un Quintetto per pianoforte e archi (pare abbia scritto
anche un Quartetto). Per grande orchestra, compose “Idillio”
e “Preludio” quand’era ancora
studente a Bologna, e il più noto
poema sinfonico “Alle fonti
del Clitumno” Op. 2, ispirato
all’omonima “Ode barbara” del
Carducci, che fu premiato in
un paio di concorsi a Bruxelles
23
e a Milano (eseguito alla Scala
nel 1895); orchestrò anche
uno “Scherzo” per pianoforte
di Stefano Golinelli, che in tal
veste fu diretto da Toscanini a
Bologna nel 1905. Si cimentò
con la musica sacra nel “Prologo
e Salmo” per baritono coro e
orchestra, e con l’opera lirica,
musicando il libretto di Carlo
Zangarini “Catullo”, ispirato
alla vicenda del grande poeta
latino; ma sembra che il melodramma, a noi pervenuto nel
solo testo poetico, non sia mai
andato in scena (pure incompiuta restò l’opera “Berthalda”,
di cui un duetto fu eseguito,
nell’orchestrazione di Zanella,
nel concerto forsempronese del
1913).
Sull’imponente fronte delle
revisioni pianistiche, Mugellini
collaborò con il più noto
Ferruccio Busoni alla pubblicazione delle principali opere per
tastiera di J. S. Bach per la casa
editrice Breitkopf & Haertel di
Lipsia. L’elenco di tali pubblicazioni, curate anche per altri
editori (Ricordi, Carisch, ecc.),
in cui egli non si limitò alle sole
indicazioni tecniche illustrando
anche analiticamente – cosa mai
avvenuta prima – i singoli brani,
sarebbe lunghissimo: decine e
decine di volumi che furono ben
presto adottati nei conservatori
di tutto il mondo. Poco prima
della morte, diede alle stampe
quello che egli stesso chiamò
il suo “testamento pianistico”,
ovvero il grande “Metodo d’esercizi tecnici” in otto volumi,
che accompagna lo studente dai
princìpi più elementari ai vertici
della tecnica pianistica.
Il convegno nazionale di studi
su Bruno Mugellini, che si è
tenuto a Potenza Picena (teatro
“Mugellini”) sabato 21 gennaio 2012, si è articolato in due
sessioni. In quella del mattino,
dopo il saluto del sindaco Sergio
Paolucci e dell’assessore alla
cultura Andrea Bovari, hanno
preso il via i lavori, introdotti e
moderati da Alessandra Gattari,
coordinatrice del convegno. Ha
svolto la prima relazione (“La
società potentina negli anni
della dimora dei Mugellini nel
comune”) Roberto Domenichini
dell’Archivio di stato di Ancona,
Le Cento Città, n. 45
che, basandosi su dati sociostatistici desunti da fonti archivistiche, ha offerto un vivido
quadro della situazione socioeconomica della Potenza Picena
postunitaria. È stata poi la volta
di Paolo Peretti (Conservatorio
“Pergolesi” di Fermo): nel suo
contributo “Per una biografia di
Bruno Mugellini”, ha puntualizzato situazioni bio-bibliografiche ancora aperte e comunicato
recentissime acquisizioni, tra
cui l’individuazione di un fondo
musicale in gran parte autografo
e inedito di composizioni mugelliniane presso la Biblioteca
“Passionei” di Fossombrone.
L’ultimo intervento della mattinata è stato di Danilo Tarquini,
direttore della Corale potentina
“S. Stefano”, che è entrato nel
vivo della musica, presentando
con l’ausilio di esempi musicali
una sua singolare proposta di
rivisitazione in chiave moderna di una melodia mugelliniana:
“La musica in prestito: Mugellini
in un’ipotesi jazz”.
I lavori sono poi ripresi
nel primo pomeriggio con la
relazione di Carlo Lo Presti,
del Conservatorio “Verdi” di
Milano, che ha parlato di “Bruno
Mugellini e il suo tempo”, delineando efficacemente il panorama storico-musicale in cui
s’inquadra l’esperienza artistica
di Mugellini nell’Italia musicale
tra Otto e Novecento. Antonio
Caroccia, dell’Università di
Perugia, trattando “La formazione artistica di Bruno Mugellini”,
ha offerto precisi riferimenti alle
più significative presenze nella
Bologna musicale in cui si formò
il giovane Mugellini, a partire dalla personalità del compositore Giuseppe Martucci,
all’epoca direttore del Liceo
musicale bolognese, e di altri
insegnanti dell’istituzione. Nella
sua relazione “Metodo di esercizi tecnici: istruzioni per l’uso”,
Antonio Tarallo (Conservatorio
“Bonporti” di Riva del Garda)
ha affrontato l’arduo discorso
dell’innovativa tecnica pianistica
mugelliniana, aiutandosi con la
proiezione di molti esempi musicali e illustrando discorsivamente la complessa materia. Angela
Annese, del Conservatorio
“Piccinni” di Bari, ha svolto il
Paolo Peretti
24
Un momento del convegno di studi del 21 gennaio 2012 (teatro “Mugellini”, Potenza Picena); da sin.: Ciarlantini, Caroccia,
Lo Presti, Tarallo, Annese, Peretti.
tema “Per pianoforte. Bruno
Mugellini, revisore, trascrittore,
compositore”, concentrandosi
soprattutto sull’ultimo aspetto,
quello cioè del Mugellini compositore di pagine pianistiche,
alcune delle quali ha esemplificato ella stessa al pianoforte. A
chiusura degli interventi, Paola
Ciarlantini
(Conservatorio
“Piccinni” di Bari) ha parlato de “La produzione orchestrale e cameristica di Bruno
Mugellini”, commentando un
primo complessivo catalogo
ragionato delle composizioni
mugelliniane e scegliendo una
finora sconosciuta Sonata per
violino e pianoforte per illustrare, attraverso opportuni esempi
musicali, la tecnica compositiva
di Mugellini.
Tra il pubblico che ha seguito
con attenzione il convegno (in
mattina c’erano anche alcune
scolaresche), è stata particolarmente significativa la presenza
di discendenti del musicista: la
nipote del compositore Rosa
Mugellini con il figlio Bruno
Re, docente di viola da gamba
al Conservatorio “S. Cecilia”
di Roma, e la pronipote Laura
Mugellini, accompagnata dal
marito.
A degna conclusione dell’intensa giornata, la sera in teatro, si è tenuto il concerto “La
musica ritrovata”, in cui sono
state eseguite sia musiche pianistiche di Mugellini (“Quattro
Impressioni”,
“Sognando”,
“Intermezzo”: al pianoforte
Danilo Tarquini), sia, in prima
esecuzione assoluta, tre brani
d’autore composti per l’occasione e ispirati a temi musicali
mugelliniani: due di Tarquini,
“Laon Nice Music”, eseguito
dall’autore al pianoforte, e “Su
questa altura” (versi di Norberto
Mancini) per coro misto, cantato dalla Corale potentina diretta
dallo stesso Tarquini; il terzo
di Paola Ciarlantini: “Dammi
mille baci”, una Valse chantée
per soprano e pianoforte (interpretato da Alessandra Gattari e
Antonio Tarallo), sul celeberrimo testo catulliano nell’adattamento italiano di Zangarini (dal
libretto del “Catullo” ricordato
sopra). Il concerto ha riscosso
l’entusiastico apprezzamento
del pubblico che gremiva il bel
teatro storico.
Senza dubbio il profilo scientifico del convegno, di cui si
attende ora la pubblicazione
degli atti, è stato alto. Le varie
relazioni hanno consentito di
fare il punto sullo stato attuale
delle conoscenze e degli studi
su Mugellini (in verità finora
alquanto trascurati), e nel contempo hanno offerto ai potenLe Cento Città, n. 45
ziali interessati dati di prima
mano di notevole importanza,
prospettando nuovi scenari
per ulteriori auspicabili indagini. Dunque, oltre ai primi
innegabili risultati concreti già
ottenuti sul piano strettamente storico-musicologico, questo
convegno, lungi dall’essere un
mero momento celebrativo, ha
posto invece una solida base
metodologica da cui rilanciare per l’immediato futuro le
ricerche mugelliniane. Bisogna
infatti dire che anche il comune di Fossombrone, rappresentato dall’assessore alla cultura
Paride Prussiani, da Antonella
Cesarini,
direttrice
della
Biblioteca “Passionei”, e dallo
storico forsempronese Renzo
Savelli, presenti al convegno, ha
intenzione di raccogliere il testimone potentino organizzando a
sua volta a Fossombrone, nella
seconda parte dell’anno, alcune
manifestazioni ancora allo studio su Mugellini.
Così il 2012, proficuamente
inaugurato a Potenza Picena
in gennaio, potrà divenire – a
buon diritto – un vero e proprio
“anno mugelliniano”. E si spera
anche di poter coinvolgere la
“dotta” Bologna, particolarmente legata alla storia e alla
memoria di Bruno Mugellini:
hoc est in votis.
La presentazione
25
L’Angelus Novus vola su Macerata
di Francesco Adornato
La Biblioteca Statale di Macerata in collaborazione con il Comune di Macerata ha organizzato
la presentazione del libro di Renato Pasqualetti: “La clessidra
del tempo fermo”, edito da Affinità elettive. “La clessidra del
tempo fermo” tratta di un delitto
irrisolto. Un mistero indecifrabile. È lo scontroso e antiseduttivo
avvocato Luciani a condurre la
sua personale e meticolosa indagine, che si sviluppa nel cuore
delle Marche. Il libro contiene
non solo l’inchiesta, ma anche e
soprattutto i conflitti di una generazione investita dalle trasformazioni economiche e sociali della
provincia di Macerata destinate
ad alterare in modo brutale i riti
e i ritmi di una comunità normalmente ritenuta mite e pacificata.
Un giallo ricco di suspense, un
romanzo inaspettato e inquietante sul nuovo volto antropologico
delle Marche. Pubblichiamo l’intervento che per quella occasione
ha scritto il prof. Francesco Adornato, Preside della Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università
degli Studi di Macerata.
A dire il vero la sintetica nota
di Valentina Conti nella quarta
pagina di copertina riassume
con tocco felice tanto il contenuto, che il senso del libro. Tutte
le domande e le risposte sono lì.
Fortunatamente io non devo
parlare della componente “gialla” del libro, ma, parafrasando
Sciascia, del suo “contesto”. La
clessidra del tempo fermo, infatti, si rivela non solo e non tanto
una matrioska di indizi quanto
anche un caleidoscopio di situazioni, che si srotolano all’interno di un percorso evolutivo del
territorio maceratese attraversandone l’economia, la società,
la cultura, i modi ed i caratteri
individuali e collettivi.
Lo sfondo, il “contesto”, è
dato dal paesaggio fisico e da
quello antropico e, rispetto ad
esso, il thriller va letto in filigra-
na, in controluce.
Da questo controcampo emerge un quadro inimmaginato ed
inimmaginabile rispetto alle apparenze, alle quotidiane pratiche
del territorio e dei suoi abitanti.
Riguardo al paesaggio fisico,
va ricordato come i visitatori che
hanno viaggiato appositamente
nelle Marche (penso in particolare ad Alvaro e Piovene, ma il
discorso sarebbe più lungo) ne
abbiano sottolineato i profili
più luminosi, più rilassanti, più
esteriori (la laboriosità), pur non
trascurando quelli interiori (la
sobrietà, ad esempio).
Nel libro, pur sottolineandosi
come il legame con il paesaggio,
l’impegno nel lavoro, l’attaccamento alla terra costituiscano il
tratto distintivo delle Marche, si
va oltre.
Intanto, si sente innanzitutto
la fisicità del lavoro, la sua gravitas, che deforma i corpi, torcendoli come tronchi di ulivo e
forgia l’asprezza e la durezza dei
caratteri. La furbizia dei mezzadri, da un lato e l’acidità padronale, dall’altro, “codificano”
certo i comportamenti di classe,
ma rappresentano anche tratti
esemplificativi della più generale natura dei singoli. Sembra
di trovarsi in un quadro di Hieronymus Bosch o di stare in un
mondo di personaggi ritratti da
Van Gogh del periodo olandese.
La durezza originaria di quella società rurale si manifestava,
peraltro, già nelle pratiche dei
ragazzi, la cui cattiveria era sostenuta dagli stessi adulti nella
cattura degli uccelli, poi rivenduti ai cacciatori come richiamo
nelle battute di caccia.
È un paesaggio, come sottolineava Remo Pagnanelli in
un suo saggio su Leopardi e la
recente poesia marchigiana, che
condiziona chi vi abita e ne forma i tratti. Paesaggio che oggi
subisce le mutazioni indotte da
quelle stesse trasformazioni che
gli uomini hanno messo in atto:
Le Cento Città, n. 45
se i mezzadri hanno costruito
il paesaggio, i loro figli, trasformatisi nella prima generazione
di industriali, hanno contribuito a guastarlo, a devastarlo. Lavoro, fabbrica, casa, paesaggio
costituiscono un movimento
circolare di persone e cose che
attraversa visivamente il territorio e che il libro registra come
un sismografo.
Ma la vicenda generazionale
non si ferma ai padri e ai figli. La
terza generazione ha già l’età per
essere classe dirigente, eppure
presenta tratti di discontinuità
tanto esplicita, quanto preoccupante. Il giovane Bravi e il giovane Testa, ognuno distintamente, l’uno figlio dell’industriale e
l’altro di un “fedele” alla causa
della lotta di classe, contestano
i padri in modo duro, aspro, definendoli bulimici, nonostante il
loro passato giovanile “rivoluzionario”. Amara constatazione,
ma veritiera. Nelle loro riflessioni destra e sinistra non hanno
senso, contenuto. Si disarticolano. Da qui lo sgomento per il
futuro.
A proposito di generazioni, il
libro racconta, in particolare, la
storia di una generazione – non
solo maceratese – che la politica ha diviso in nome di ideologismi, allora assunti a valore, e
che oggi fa i conti con se stessa,
con il fallimento delle ideologie,
a partire da quelle sul cui altare
avevano sacrificato sentimenti,
amicizia, rapporti familiari.
Non si tratta di una narrazione
nostalgica, ma attraversata dalla nostalgia, e mi sia consentito
rinviare, per percepirne la differenza, ad una lontana autobiografia di Simone Signoret, “La
nostalgia non è più quella di un
tempo”. Non a caso mi sembra
che la “colonna sonora” del libro possa essere individuata in
una risalente canzone di Paul
Simon, Old Friends, eseguita
con Art Garfunkel: “… Long
ago / It must be / I have a photo-
Francesco Adornato
graph / Preserve your memories
/ They’re all that’s left you …”.
L’avv. Luciani e l’industriale
Bravi esemplificano i due poli
contrapposti e divisi dal percorso asimmetrico di politica ed
economia che il territorio maceratese ha conosciuto e dall’evoluzione della società verso un
atteso benessere.
Luciani è umano, troppo umano per essere vero, per poter
fare parte del nuovo paesaggio
antropico marchigiano. Esprime un altro timbro sonoro: è
seduttivo nella sua scontrosità,
nell’amore per il cibo, rimanda
a valori e modi di un tempo. E’,
insomma, il falsetto rispetto al
contesto.
Sesto Bravi, invece, prima generazione a lasciare la campagna,
sembra essere l’esemplificazione
dei tratti cittadini e del territorio
più in generale: sostanzialmente
un cinico, anzi soprattutto un
superficiale. Generoso e simpatico con chi gli andava a genio sì,
ma anche convinto che nessuno
credesse a niente e lui non credeva a nessuno.
Con il passaggio generazionale la brutalità dell’incultura
sembra avere sopravanzato nel
tempo l’armonia estetica, così
come la corsa all’arricchimento
rapido sembra aver annientato il
gusto del bello.
La naturalezza del cinismo e
il candore della brutalità sono
quasi diventati modi espressivi comuni, diffusi; condivisi al
punto tale da affondare la tensione conoscitiva dei sentimenti
in un indistinto gorgo.
La stessa sessualità, che si manifesta nel libro in relazioni le
più diverse, per età e per classe
sociale (e descritta con leggerezza e con riferimento più che ai
gesti, alle motivazioni, alle sue
ragioni), viene vissuta esclusivamente in sé medesima, come
dato doveroso e meccanico,
priva di affettività. Consumata
come merce che si usa, si scambia, si cede, si negozia, in una
logica post-moderna.
Il consumo sembra essere
l’elemento unificante che ha
sostituito il lavoro, il paesaggio,
l’armonia. Di qui la domanda:
Macerata è forse entrata, senza
26
che ce ne accorgessimo, in una
fase post-moderna? O, almeno,
ne è entrata un’avanguardia che
ci strappa ogni giorno un pezzo
di carne senza farci sentire il dolore e ci trascina verso l’assuefazione?
Si spiegherebbero così comportamenti esibizionistici, “esagerati”, di un impatto visivo sopra le righe, rispetto alla sobrietà
tradizionale di una terra schiva e
quasi incapace di mostrarsi?
Da dove arrivano tutte queste automobili così eccessive
e debordanti nella misura, aggressive nel design, dai colori
abbaglianti e dai vetri oscurati?
Ci interrogano sulla consistenza
del denaro usato e sulla sua provenienza, ma nell’attraversare il
centro storico in modo lento e
quasi spavaldo quelle macchine
sembrano inquietanti messaggeri di morte. Rallentati fotogrammi di una contemporanea
Apocalypse now. Quale oscurità,
quale cuore di tenebra si nascondono dietro questa vernice
così abbacinante?
L’apparire ed il consumare
stanno tarlando questa società,
da cui sembrano emergere, poco
alla volta, ma sempre più serialmente, figure cialtrone, chiassose e, talvolta, naturalmente volgari. L’estraneità sembra essere
il sentimento più diffuso. Tutto
avviene in modo apparentemente celato, ma niente è ignoto e
ignorato: realtà e paradosso, finzione e verità convivono senza
avvertire contraddizione o difficoltà.
L’impressione è che sotto la
coltre di un ordine accettato
conviva una “corda pazza” di pirandelliana memoria, i cui modi
affiorano con la leggerezza della
brina che penetra nelle ossa implacabilmente e senza possibilità
di scampo.
“Abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria,
la civile, la pazza”, fa dire, Pirandello, ad un personaggio, Ciampa, ne Il berretto a sonagli. “Corda pazza” esemplificata nel libro
qui presentato in Federica, la
quale si inventa un mondo tutto
suo per poter sopravvivere e vivere in un’ordinata schizofrenia.
La malattia come rassicurante
Le Cento Città, n. 45
allontanamento dal mondo, se il
mondo non si cura di te.
Più in generale, mi sembra sia
sostanzialmente riscontrabile un
quadro di fondo riconducibile,
nelle dovute differenze, a quello
descritto mirabilmente da Rilke
agli inizi del ‘900 in una lettera a
Lou Salomé:
“… E tutta questa gente, uomini e donne assorti in una qualche fase di passaggio, forse dalla
pazzia alla guarigione o forse in
transito verso la pazzia stessa; e
tutti hanno in volto qualcosa di
infinitamente delicato, un amore, un sapere, una gioia, come
una luce che brilla, lievemente
offuscata però, e un po’ inquieta, una luce che senza dubbio
tornerebbe a risplendere chiara
se solo qualcuno vedesse a aiutasse … Ma qui non c’è nessuno
che aiuti […]”.
E in questa progressiva individualizzazione dell’esistenza, in
questa fragilità del vivere collettivo che Macerata sta conoscendo, la stessa dimensione della
sicurezza assume profili impropriamente esasperati . Essa non
è solo un problema di polizia,
ma appartiene anche a noi cittadini, alla nostra dimensione
sociale: se la coesione cessa, la
nostra percezione dei fenomeni
subisce irragionevoli rifrazioni.
Il libro è pieno di richiami,
intrecci, rimandi, passaggi, che
imporrebbero diverse riflessioni, a partire dall’autobiografismo, individuabile in molteplici
figure e riferimenti, dal calcio
alla letteratura. Un verso di
Omero, in particolare, ritorna
a più riprese come un’eco di assenza (paterna): “divino Achille,
ti rammenta il padre, il padre tuo
da sua vecchiaia oppresso, quale
io sono”?
Un verso che riporta una suggestione cinematografica per me
molto evocativa. Nel film Troy
(di Wolfang Petersen, del 2004)
la scena più emozionante, che
riscatta l’intero film, è proprio
quella in cui, di notte, Priamo
entra avventurosamente nella
tenda di Achille a chiedere la restituzione del corpo di suo figlio
Ettore. E Peter O’ Toole, nella
parte di Priamo, con i suoi occhi
La presentazione
acquosi, verdi come l’oceano e
l’erba della sua Irlanda, mostra
non solo lo strazio di un padre
per il figlio morto ed oltraggiato,
ma anche la fragilità umana di
fronte all’oscuro disegno delle
divinità.
Pare a me, infine, e non a caso,
che il cuore palpitante del libro
risieda nel rapporto con la città
di Macerata, fondato su un doppio timbro musicale: da un lato,
l’insofferenza verso “l’incontrarsi sempre”, il “difficile non
incontrarsi”, nel fatto che “in
paese ci si conosce tutti”, ma,
dall’altro, la riottosità nell’allontanarsi, come una citata poesia
di Mario Luzi echeggia: “[...]
passa sotto casa nostra qualche
volta/ volgi un pensiero al tempo
ch’eravamo tutti”.
In questo senso, il libro è un
gesto di amore verso la propria
terra. Ma è anche un saluto ed
uno sguardo sgomento verso il
futuro, un gesto sospeso in aria
per un tempo indefinito, come
avviene per “il tuffatore” di Paestum. L’omicidio e la morte di
Bravi rappresentano una metaforica rottura degli schemi antropologici abituali, macerie su
cui sorvola l’ Angelus Novus del
27
quadro di Paul Klee.
Un angelo, ha scritto Walter
Benjamin,
“sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo
sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese
[…]. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola
catastrofe, che accumula senza
tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe
ben trattenersi, destare i morti e
ricomporre l’infranto. Ma una
tempesta spira dal paradiso, che
si è impigliata nelle sue ali, ed è
così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge
irresistibilmente nel futuro, a cui
volge le spalle, mentre il cumulo
delle rovine sale davanti a lui al
cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
Ecco, a me pare che Macerata
stia attraversando, nonostante
un’alacrità primaverile, un passaggio delicato della sua storia,
in bilico tra smarrimento e bisogno di orizzonte. Si muove con
passo esitante e gesti incerti
dentro un moto ondoso che avvolge vecchio e nuovo, senza
separarli del tutto e con ciò ri-
Le Cento Città, n. 45
schia di affondare in una palude
chiamata destino, ma che essa
stessa contribuisce a costruire.
Il “noir”, dunque, non è il racconto, non è nel racconto, ma
è Macerata, sta in Macerata. E’
quel drappo invisibile che avvolge la vita ed oscura l’anima
di molti suoi abitanti, facendoli
smarrire, talvolta, anche da se
stessi.
In conclusione non posso non
fare un’ammissione e non chiedere, al tempo stesso, una comprensione. Probabilmente avrò
capito poco del “giallo”, ma spero di averne capito il contesto. E
spero, soprattutto, di avervene
parlato con la grazia che si deve
quando si è ospiti o con la leggerezza di chi involontariamente
infligge una ferita inaspettata.
Macerata rappresenta per me
un laboratorio dove costruire
nuove dimensioni dello stare insieme. Un luogo fondamentale
ed emblematico di quello che
potrà avvenire nel futuro cammino della condizione umana.
Macerata è oggi un grande respiro palpitante, con le sue fragilità, le sue ansie, le sue speranze.
Ricordo
29
Don Cesare Recanatini, una vita per la chiesa e la cultura
di Mario Canti
Il 14 aprile si è spento don Cesare Recanatini, un uomo di cui
vogliamo ricordare anche noi
le eccezionali qualità umane,
la capacità di offrire amicizia e
comprensione, la bonomia con
la quale riusciva ad esprimersi
anche nei momenti di maggiore
tensione, l’interesse che sempre
manifestava per le persona ed
i pensieri di quanti incontrava,
qualità che a maggior ragione
sicuramente esprimeva anche
nella sua attività pastorale che
non tocca a noi ricordare,
In questa sede vogliamo porre
in evidenza la sua lunga e feconda opera di operatore culturale
svolta in qualità di responsabile
dei beni culturali della Diocesi
di Ancona nel corso della quale
ha costantemente agito per la
conservazione del patrimonio
culturale ecclesiastico che a suo
avviso costituiva testimonianza del mutare delle espressioni
culturali nel tempo, ma anche
e soprattutto come espressione
della vitalità e continuità della
comunità ecclesiale di Ancona e
della sua Diocesi.
Il suo interesse si è rivolto a
tutte le testimonianze della cultura religiosa che nel tempo si
erano venute a depositare sul
territorio della Diocesi: documenti archivistici e librari, opere d’arte, strumenti musicali ed
architetture, molte volte poste
in pericolo dall’incuria e da
eventi bellici o calamitosi quali
i terremoti del 1972 e del 1997
per il cui recupero Don Recanatini si prodigò con grande
impegno e generosità.
Ricordare tutta la sua opera
Le Cento Città, n. 45
di conservatore attento e appassionato è per noi impossibile
vogliamo però citare alcune realizzazioni che riteniamo esemplari della sua cultura, della sua
tenacia, delle sue capacità operative.
Il restauro degli arazzi del
Duomo di Ancona; per recuperare queste preziosissime
opere di manifattura fiamminga
realizzate su disegno di Rubens
don Cesare non solo si impegnò
a trovare le non esigue risorse
finanziarie necessarie, ma finì
con il creare nell’ambito dei locali della Cattedrale stessa una
sorta di laboratorio di restauro
specializzato che consentì nel
contempo il recupero delle opere e la formazione di operatori
altamente specializzati.
Mario Canti
30
Fig. 1 - Reliquario di Santo Stefano, Museo Diocesano, Ancona.
Fig. 2 - Lunetta del portale della chieda di San
Pietro, Museo Diocesano, Ancona.
3 - L’istituzione della eucarestia, arazzo di manifattura fiamminga su disegno di Rubens, Museo
Diocesano, Ancona.
1
2
Le Cento Città, n. 45
Ricordo
31
3
Le Cento Città, n. 45
Libri ed eventi
32
di Alberto Pellegrino
LIBRI
Un saggio sulla Fuga in Egitto
Fileni (Jesi), Fortunato Frontoni (Montappone), Amedeo Gubinelli (San Severino Marche),
Marino Scalabroni (Porto Recanati), Duilio Scandali (Ancona),
Giovanni Tonucci (Fano).
I Templari a San Ginesio
Lo
studioso
falconarese
Manlio Baleani ha condotto una
interessante ricerca sul tema della Fuga in Egitto. Il racconto di
Matteo in quaranta idiomi parlati
in Italia (Controvento Editrice,
Loreto, 2001). L’episodio della
fuga in Egitto è raccontato soltanto nel Vangelo di Matteo e
in due Vangeli apocrifi, quello
Armeno dell’infanzia e Pseudo
Matteo, ma fin dal Medioevo
la pittura è stata affascinata da
questa “avventura”, per cui
Baleani, oltre ha raccogliere le
principali testimonianze pittoriche, ha avvertito l’opportunità
di riunire i testi poetici che gli
autori dialettali italiani hanno
dedicato a questo avvenimento
dalla metà dell’Ottocento fino
ai nostri giorni, dal Nord Italia
fino alla Sicilia. E’ nata in questo
modo una mappa poetica molto particolare e interessante, che
vede naturalmente la presenza
di diversi poeti marchigiani:
Pietro Angelucci (Cupramontana), Rolanda Brugiarelli (Senigallia), Antonio De Angelis
(Ripatransone), Giordano De
Angelis (Macerata), Maurizio
Lo studioso ginesino Giovanni Cardarelli ha condotto una
serie di approfondite ricerche e
ha raccolto un’interessante documentazione iconografica nel
volume Il mistero dei Templari
a San Ginesio, partendo dalla
convinzione che bisognava dare
“la parola alle pietre”, perché in
esse era possibile rinvenire le inconfutabili tracce di una presenza ginesina di questo particolare
ordine cavalleresco. Di fronte
al silenzio delle fonti storiche
Cardarelli ha sentito la necessità
di approfondire le conoscenze
generali sulla storia dei Templari, confrontandosi con precedenti ricerche che segnalavano
la presenza templare in tutta la
Marca centrale, dalla costa fino
agli Appennini, nell’Ascolano e
lungo la Via Francigena lungo
la quale i Templari avevano assunto la missione di proteggere
la vita e i beni dei pellegrini. La
seconda parte dello studio, che
rappresenta certamente l’apporto più originale, riguarda l’analisi dettagliata degli ornamenti dei
Le Cento Città, n. 45
capitelli della Pieve Collegiata di
San Ginesio, che costituiscono
nel loro insieme un “archivio
iconografico” che nessuno aveva
fino ad oggi analizzato in modo
così dettagliato. Ecco allora che
sulle colonne è possibile rinvenire una estesa simbologia templare costituita dalle seguenti
sculture: la mandorla e il verme,
il fiore della vita o esapetalo, le
croci templari di diversa foggia,
le pigne, le sfere, la rosa, la palma, l’uccello che becca il pesce,
il serpente, La Croce del Tau e
le conchiglie, l’uccello rapace, il
giglio, l’aquila con il forziere, il
leone con il forziere, alcuni simboli sessuali. Tutte queste immagini vengono dettagliatamente
analizzate e riportate alla classica iconografia templare, a cui
si aggiungono i segni templari
nel centro storico ginesino, per
cui si comincia a intravvedere lo
scioglimento di alcuni “misteri”
della Collegiata e si può avanzare l’idea che la città di San Ginesio possa essere stata una eminente sede templare, ipotesi che
andrà ulteriormente approfondita e vagliata anche alla luce di
ulteriori scoperte documentarie.
La storia del Teatro di Treia
Lo storico locale Gabriele
Cameranesi ha pubblicato il volume Il Teatro di Treia e il suo
Alberto Pellegrino
archivio, colmando una lacuna
esistente negli studi dei teatri
marchigiani e aggiungendo nuove e preziose informazioni sulla
progettazione e la costruzione
dell’edificio, grazie alla consultazione del Carteggio Fabiano
Valenti, esistente presso l’Archivio storico dell’Accademia
Georgica di Treia. Nel 1715 le
autorità comunali decidono di
costruire una struttura teatrale
in legno nella Sala Maggiore del
Municipio, alla quale accedevano i ceti più elevati della città. A
causa della fatiscenza della costruzione lignea, nel 1794 viene
costituita una Congregazione
teatrale per la costrizione di
un teatro in pietra su progetto
dell’architetto treiese Carlo Rusca, i lavori di costruzione procedono con alterne fortune dal
1801 al 1817, quando vengono
completati i lavori in muratura,
mentre la facciata viene completata nel 1821, anno in cui si
tenne la prima rappresentazione pubblica, anche se non era
stata completata la decorazione
interna. Nel 1820 lo scenografo maceratese Scipione Mattei
esegue cinque scenari, nel 1828
il pittore Francesco Falconi
dipinge il plafone e la decorazione dei palchi e il treiese Pacifico Lausdei la doratura delle
paraste e il completamento, nel
1865, della decorazione del soffitto. Intanto alcune sostanziali
modifiche architettoniche erano state
apportate da due illustri architetti. Nel 1801 viene affidata
a Giuseppe Lucatelli la revisione del progetto Rusca; ad
Ireneo Aleandri nel 1862 viene
dato l’incarico dell’ampliamento dell’impianto con la realizzazione dei palchi di proscenio,
l’allargamento del boccascena
e l’aggiunta del quanto ordine
come loggione aperto. Infine
nel 1865 il pittore romano Silverio Copparoni, allievo del
Podesti, realizza il sipario storico, nel quale viene riprodotto
il quadro di Tommaso Minardi
Corrado d’Antiochia all’assedio
di Montecchio. Mentre non si
conosce lo spettacolo d’inaugurazione, vengono riportate le
rappresentazioni a partire dal
34
1844, gli statuti e regolamento
dal 1822 al 1950, una documentazione fotografica sulle stagioni di prosa allestite dopo il restauro e la riapertura del teatro
nel 2002.
La storia di un medico partigiano
La Riserva naturale regionale del Monte San Vicino e del
Monte Canfaito e l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Hanno pubblicato il volume
Mosè Di Segni medico partigiano. Memorie di un protagonista della Guerra di Liberazione
(1943-1944) a cura Luca Maria
Cristini, colmando una lacuna storica per quanto riguarda
il movimento di liberazione
nelle Marche. Mosè Di Segni
(1903-1969) nasce a Roma da
una famiglia ebrea, si laurea in
medicina e si specializza in pediatria a Firenze dove conosce
la futura moglie Pina Pascali
Roth. Inizia a lavorare presso
l’ospedale “Lazzaro Spellanzani” di Roma, ma nel 1936 viene
inviato in Spagna come tenente
medico della CRI e vi rimane
fino al 1938, quando per le leggi razziali fasciste viene espulso
dal corpo sanitario militare e
dal posto di lavoro. Nel 1943
la famiglia Di Segni fugge da
Roma e si rifugia a San Severino Marche, presso l’amico farmacista Giulio Strampelli nella
frazione di Serripola. Quando
nella città nasce il movimento
partigiano Di Segni si arruola
nel Battaglione Mario e ne diventa il responsabile del serLe Cento Città, n. 45
vizio sanitario agli ordini del
comandante Mario Depangher.
Oltre a svolgere la sua funzione
di medico presso la popolazione civile, Di Segni partecipa anche ai vari combattimenti, meritando la medaglia d’argento al
valor militare. Quindi ritorna a
Roma riprendendo la sua professione di pediatra.
Il volume è importante perché oltre a tracciare la biografia
di Di Segni, attribuisce a lui,
in base all’originale manoscritto, la stesura del memoriale di
guerra del Battaglione finora
attribuita a Depangher. L’opera
si arricchisce anche per le testimonianze dei figli: Frida Di
Segni Russi, personaggio molto
noto in Ancona; Elio Di Segni,
medico e docente presso l’Università di Tel Aviv; Riccardo Di
Segni, medico e rabbino della
Comunità ebraica di Roma.
Un contributo alla conoscenza
del teatro del secondo Novecento a Macerata
E’ uscito per le Edizioni
Ephemeria il volumetto L’atleta
del cuore. Contributi di ricerca
nel teatro del secondo Novecento, curato da Allì Caracciolo e
dedicato alla memoria dello
scenografo e costumista maceratese Maurizio Agasucci, artista dotato di grande sensibilità
e gusto estetico di cui si sono
occupati Enrico Pulsoni, Matteo Cioci, Aida Ginaldi Giachini, Rubina Giorgi e Maria
Novella Gobbi. L’opera contiene inoltre i contributi sulla teoria dell’attore di Pierfrancesco
Giannageli, alcune riflessioni
sul teatro della storica e regista
Allì Caracciolo, una riflessione
del rapporto tra canzone popolare e spettacolo dell’etnomusicologo Gastone Pietrucci.
Uno studio di Marco Severini
sul Risorgimento
Marco Severini, che insegna
Storia della storiografia nell’Università di Macerata e presiede l’Associazione di Storia
Contemporanea, ha pubblicato
diversi studi sul Risorgimento ed esce ora presso l’editore
Liberlibri con il volume Piccolo, profondo Risorgimento, nel
Libri ed eventi
35
Lorenzo in Campo, il pesarese Terenzio Mamiani, Filippo
Ugolini di Urbania e il poeta
Luigi Mercantini.
Un saggio sulla letteratura
dell’emigrazione
quale si traccia il profilo di figure spesso ignorate dai libri di
storia e che hanno invece avuto
un ruolo non secondario nella
formazione della nostra nazione. Dopo un approfondimento
sul pensiero mazziniano nello
scritto L’etica del dovere, il primo personaggio è il lombardo
Antonio Bellati che partecipa
alla Cinque Giornate per poi rifugiarsi in Piemonte e diventare
un collaboratore di Cavour. Andrea Ferrari nel febbraio 1849,
con l’apertura dell’Assemblea
Costituente, scopre con i suoi
79 anni di essere il decano
di quel parlamento. Faustina
Bracci, moglie del triumviro
repubblicano Carlo Armellini,
è stata una delle protagoniste
del movimento risorgimentale
romano tra rivoluzioni, restaurazione fino alla liberazione di
Roma. Il funzionario sabaudo
Lorenzo Valerio è personaggio
per noi particolarmente noto
per essere stato il Commissario
regio dopo l’annessione delle
Marche al Regno sabaudo. Alle
soglie della nostra regione, nella
fortezza di Civitella del Tronto,
si consuma l’ultima resistenza
del regno borbonico con una
lunga serie di scontri che si
concludono con la conquista e
la semidistruzione del forte da
parte dell’esercito piemontese.
Altri personaggi presi in esame
sono Cristina Trivulzio di Belgioioso e alcuni protagonisti
marchigiani del Risorgimento
come Lorenzo Bettini di San
L’Università di Macerata ha
pubblicato il volume Scrittura,
migrazione, identità in Italia:
voci a confronto a cura di Michela Meschini e Carla Carotenuto, in cui sono contenuti gli
atti della Tavola Rotonda tenutasi a Macerata del 2007. Alfredo Luzi introduce il tema della
letteratura italiana d’immigrazione prodotta da quei connazionali costretti ad emigrare
in Europa, Australia e nelle
Americhe; Michela Meschini
traccia un rapido profilo storico
sulla migrazione italiana, mentre Carla Carotenuto introduce motivazioni e contenuti del
convegno di studi maceratese.
Con Armando Gnisci si entra
nel vivo del problema in quanto
analizza la nuova letteratura del
mediterraneo, mentre Carla Capesciotti studia le difficoltà che
si incontrano nello scrivere in
una lingua diversa dalla lingua
nativa. Particolarmente interessanti sono i contributi di Rona
Kibati sul problema dell’identità e di Ribka Sibhatu che mette
in evidenza le contraddizioni
della cultura occidentale divisa
tra eurocentrismo e globalizzazione; infine Salh Methani
prende in esame l’itinerario esistenziale dell’immigrato diviso
tra speranze e delusioni. L’ultima parte del volume è dedicata
al poeta albanese Gezim Hajdari con uno scritto dell’autore
sul rapporto tra poesia ed etica,
seguono i contributi critici di
Massimo Fabrizi e Andrea Gazzoni ed infine una breve antologia poetica dell’autore.
Uno studioso marchigiano e la
storia della fotografia in Cina
Marco Meccarelli è un giovane studioso marchigiano della
storia dell’arte e della lingua
cinese che ha pubblicato un’opera intitolata Storia della fotografia in Cina. Le opere di artisti
cinesi e occidentali (Novalogos
Editrice, Aprilia, 2001), nella
Le Cento Città, n. 45
quale viene analizzato a fondo
un settore finora quasi inesplorato della cultura cinese. Si parte dall’arrivo della fotografia in
Cina attraverso alcuni fotografi
occidentali, per poi analizzare il rapporto tra fotografia e
pittura. La fotografia cinese
inizia quindi un suo percorso
con Zou Boqi (1837-1901), che
scrive il primo manuale tecnico
Meraviglie della fotografia; il più
celebre fotografo di paesaggi è
Lai Afong (attivo tra il 1859 e
il 1900) legato alla scuola pittorialista; Liang Shitai e Kung Tai
sono invece due autori di ritratti che hanno operato sempre
nella seconda metà dell’Ottocento. Nel Novecento si sviluppa il discorso sul linguaggio e
la tecnica della fotografia come
arte autonoma e in questo campo è fondamentale il contributo
dato da Liu Bannong (18911934) che non solo è stato un
raffinato fotografo, ma anche
un fondamentale teorizzatore
con l’opera Discorsi sulla fotografia (1927), nella quale la
fotografia cinese è messa a confronto con i parametri estetici
della fotografia occidentale. Il
vero padre della fotografia deve
essere però considerato Long
Chin-san (1892-1995), che ha
fondato insieme ad altri artisti
l’Associazione di fotografi cinesi
ed è stato il “divulgatore” della fotografia in tutta la Cina.
Contemporaneamente nasce e
si sviluppa con l’avvento della
Repubblica Popolare Cinese,
la fotografia etnografica che ha
una rilevante importanza dato
che in Cina sono stati censiti 56
gruppi etnici e in questo campo
il più grande fotografo antropologo è stato Zhuang Xueben
(1909-1984). Negli anni Trenta nasce anche la fotografia di
guerra che ha il suo maggiore
rappresentante nel fotografo
Sha Fei (1912-1950). Con l’ascesa al potere di Mao e del
Partito comunista si sviluppa
la fotografia di propaganda che
si caratterizza per uno spiccato
culto della personalità e per un
forte simbolismo ideologico;
in questo genere si affermano
Weng Naiqiang (1932) e Hou
Bo, fotografa personale di Mao.
Alberto Pellegrino
Un fotografo importante è stato
Fu Bingchang, uno dei creatori
del mito iconografico prima di
Chiang Kai-Shek e poi di Mao;
diplomatico di professione, egli
ha soggiornato a lungo in Occidente, gettando un ponte tra
la cultura fotografica cinese e
quella europea. A partire dagli
anni Settanta la fotografia diventa più libera e creativa, per
cui i nuovi autori si occupano
di ogni genere fotografico con
la raffinata eleganza del mondo
culturale cinese. Nella seconda parte del volume la storica
dell’arte Antonella Flammini
ha analizzato la presenza e gli
influssi della fotografia occidentale in Cina con particolare
riferimento ad autori particolarmente importanti come Felice Beato, William Sauders,
John
Thompson,
William
Armstrong, Fosco Maraini e
Henri Cartier-Bresson.
L’omaggio della Città di San
Ginesio a Febo Allevi
Per onorare la memoria dello
scrittore e storico Febo Allevi il
comune di San Ginesio ha pubblicato il volume Letteratura e
Storia (Greco Editore, Napoli), in cui sono raccolti alcuni
degli studi più importanti di
questo autorevole intellettuale
marchigiano che ha spaziato nel
corso della sua esistenza in vari
campi della cultura. Il volume
in questione riflette appunto
l’ampio spettro di interessi di
Allevi, in quanto si apre con i
suoi contributi su gli Actus Beati Francisci et sociorum eius, il
Ritmo laurenziano e la Canzone
36
del Castra; segue un saggio sul
rapporto tra S. Pier Damiani
e la Divina Commedia. Particolarmente interessanti sono i
saggi che analizzano il rapporto
tra il Medioevo e la nostra cultura contemporanea: il Medioevo foscoliano, gli influssi della
civiltà medioevale sulla poesia
di Arturo Graf, il peso del Medioevo nell’opera di Guido Vitaletti e nei romanzi di Umberto Eco. Altrettanto importanti
sono i due saggi sul rapporto
tra letteratura e teologia e sulla
crisi religiosa del nostro tempo
così come viene analizzata dalla
letteratura contemporanea.
Vilnius rende omaggio al drammaturgo Virgilio Puccitelli
Il Museo Nazionale del palazzo dei granduchi di Lituania
ha pubblicato un bellissimo volume in lingua italiana, inglese
e lituana, intitolato L’opera nel
Palazzo dei Granduchi di Lituania (Vilnius, 2010), in cui si
rende omaggio al drammaturgo
Virgilio Puccitelli (San Severino
Marche 1599-1654), considerato il fondatore del teatro lirico
nella capitale granducale lituana. Nella prima parte dell’opera è presa in esame la nascita
e lo sviluppo del dramma per
musica barocco in Italia e in
Lituania; quindi viene analizzata l’opera drammaturgica di
Virgilio Puccitelli, anche sulla base degli studi condotti in
Italia da Alberto Pellegrino;
gli altri due personaggi presi in
considerazione sono l’architetto-scenografo Agostino Locci,
progettista insieme a Puccitelli
del teatro granducale di Vilnius, e il compositore Marco
Scacchi che si ritiene sia stato
l’autore di quasi tutte le musiche dei drammi di Puccitelli.
Questi artisti sono stati gli autori del dramma per musica Il
ratto di Elena con il quale si è
inaugurato il teatro granducale nel 1636. La seconda parte
del volume offre un’importante contributo alla conoscenza
del drammaturgo sanseverinate
con la pubblicazione anastatica
dei tre libretti stampati a Vilnius: Il Ratto di Elena, L’Andromaca, Circe delusa. Puccitelli
arriva a Varsavia nel 1628 e vi
rimane fino al 1648, presso la
corte di Ladislao IV con l’incarico di poeta di corte e direttore del Teatro Reale, progettato
con Locci nel 1637. Puccitelli,
che è considerato il fondatore
del teatro polacco moderno, ha
scritto nove drammi per musica e tre libretti per balletto,
che sono stati accuratamente
analizzati da Alberto Pellegrino nel saggio Virgilio Puccitelli
e il dramma per musica (Centro
Studi Storici Maceratesi, n. 45,
Macerata, 2011, pp. 683-774),
nel quale la figura di questo poeta viene inquadrata nella storia
del melodramma italiano ed europeo, assegnandoli la collocazione che merita nel panorama
del teatro barocco.
Farmaci e Farmacie
Nella collana di Scienze umane della Facoltà di Medicina e
Le Cento Città, n. 45
Libri ed eventi
Chirurgia, curata da Giovanni
Danieli, è uscito in questi giorni il decimo volume dedicato a
Farmaci e Farmacie, industrie
farmaceutiche e farmacie di tradizione delle Marche.
Mediante ricerche di archivio ed interviste con testimoni
dell’epoca, sono state ricostruite le tappe fondamentali, dalle
origini sino all’attuale espansione internazionale, della ditta
nata come Angelini - Ferranti,
oggi Angelini, dopo la preferenza del dottor Ferranti per la
distribuzione dei farmaci, divenuta marchio mondiale dell’industria farmaceutica.
La ricerca è stata condotta da
Stefania Fortuna, professore di
Storia della Medicina nell’Università Politecnica delle Marche, mentre il Dottor Walter
Scotucci, pediatra firmano nonché storico della medicina e
dell’arte, ha ricostruito le vicende della ditta Russi, nata nella
seconda metà dell’ottocento,
tra le prime industrie italiane e
che ha conosciuto enormi notorietà ed espansione nel periodo
tra le due grandi guerre.
Tra le farmacie di tradizione
illustrate, la Farmacia dell’Ospedale Santa Croce di Fano
(autore Marco Belogi), la Farmacia Giuseppucci di Fabriano
(Francesca Nucera), la Filipponi di Macerata (Luciano Capodaglio e Alessia Filipponi); da
Maria Luisa Polichetti è stata
infine descritta la collezione di
vasi di farmacia presente nel
Museo di Loreto.
Importanti contributi alla
storia della farmacia sono stati
forniti da Walter Grassi (Antichi rimedi della gotta), Alberto
Pellegrino (Farmacia e medicina
nel teatro), Italo D’Angelo (Giacinto Cestoni, uno speziale molto
“speciale”) e da Pasquale D’Avella (Farmacie e Risorgimento).
La realizzazione del volume rientra nell’impegno di valorizzare
le radici della scienza medica nella nostra regione, portato avanti
dalla Facoltà di Medicina.
EVENTI
Le Nozze di Figaro alle Muse
Una sola opera è andata in
37
scena quest’anno al Teatro delle
Muse per la Stagione lirica di
Ancona. Con scelta intelligente è stata completata la trilogia
mozartiana, per cui dopo Don
Giovanni (2010) e Così fan tutte
(2011) è stata allestita l’opera
Le nozze di Figaro di Wolfgang
Amadeus Mozart con regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi. Tutti i componenti del cast
hanno fornito una valida interpretazione con una particolare
citazione per Carmela Remigio
(Rosina) e Riccardo Novaro
(Figaro). L’Orchestra Filarmonica Marchigiana è stata diretta
con brio dal Maestro Guillaume Tourniaire. Pier Luigi Pizzi,
alle prese con un’opera particolarmente difficile, è riuscito
a conferire alle Nozze di Figaro (1786) le giuste atmosfere, i
ritmi e le sensazioni proprie del
dramma giocoso settecentesco,
illuminato però dal genio di
Mozart e dall’ingegno teatrale
di Lorenzo Da Ponte, facendo
rivivere la rara perfezione di
questo capolavoro caratterizzato da un particolare approfondimento psicologico dei personaggi che si riflettono nello
specchio di una realtà umana
(non ha caso il secondo atto si
svolge in un grande salone degli specchi) fatta di aspetti più
o meno nobili, tanto che tutta
la vicenda risulta un intreccio
di finzioni e di travestimenti.
Pizzi ha voluto inoltre mettere
in evidenza l’erotismo che circola nell’opera e che Mozart
considera una condizione patologica dell’uomo determinata
dalla supremazia dei sensi sulla
ragione, per cui l’amore può assumere la leggerezza di un capriccio, ma può anche incidere
drammaticamente sul destino
degli individui. Non è pertanto
casuale che l’opera si apra con
le effusioni erotiche tra Figaro
e Susanna, per passare poi alle
smanie puberali di Cherubino,
alla matura passionalità del
Conte che insegue un sogno di
giovinezza, al desiderio della
contessa Rosina che vuole ancora essere amata, ma teme di aver
perduto il fascino della giovane
età e della bellezza. La regia di
Pizzi si basa su un progetto che
Le Cento Città, n. 45
esalta i ritmi serrati e incalzanti,
la sensualità, il gioco dei sentimenti e delle gelosie, il divertissement degli intrighi per confluire, infine, nell’ultimo atto
venato da strane malinconie e
da sottili ironie, dal ritorno agli
amori primitivi e dalla virtù del
perdono. Pizzi colloca l’azione conclusiva all’interno di un
magico giardino dalle eleganti
atmosfere cromatiche, dove la
notte passa dal verde intenso e
dall’azzurro cupo al progressivo avanzare del giallo e dell’arancio man mano che la luce
del giorno sconfigge le tenebre,
scioglie le magie notturne e con
esse ogni intrigo, facendo sfiorire le illusioni e riportando
ognuno dei personaggi alla realtà della vita quotidiana.
Anniversario della nascita di
Girolamo Crescentini
Ricorre quest’anno il 250°
anniversario della nascita di
Girolamo Crescentini (Urbania
1762- Napoli 1846), che viene
considerato uno dei più grandi
sopranisti del Settecento e che
inizia la sua carriera nel Teatri
di Fano, Recanati, Senigallia e
Ancona per poi raccogliere una
lunga serie di successi nei teatri di Roma, Perugia, Padova,
Firenze, Venezia, Torino, Milano, Modena, Napoli, Verona,
Genova e Bologna; egli canta
inoltre in diverse capitali euro-
Alberto Pellegrino
38
Le Nozze di Figaro. I soprani Remigio, Kucerova e Belfiore.
Le Nozze di Figaro. La scena del quarto atto.
Le Nozze di Figaro. Il soprano Carmela Remigio.
Le Cento Città, n. 45
Libri ed eventi
pee fra cui Londra, Vienna, Lisbona (dove soggiorna dal 1798
al 1802) e Parigi (1809 e 1812).
Crescentini è stato un acclamato interprete di opere di grandi
compositori come Anfossi, Cherubini, Cimarosa, Giordaniello,
Paisiello, Salieri, Sarti, Tritto,
Zingarelli (soprattutto nella
Giulietta e Romeo), nonché di
numerosi oratori compresa La
morte di Semiramide del compositore marchigiano Giovanni Battista Borghi. Crescentini
non è stato un talento naturale
“improvvisato”, perché deve la
sua prestigiosa carriera artistica, secondo quanto è affermato
dalle fonti, non solo alle spiccate qualità vocali, ma all’accurata formazione musicale e alla intelligenza di attore, doti che gli
consentivano di fornire interpretazioni di rara raffinatezza
e sensibilità musicale nell’arco
di una carriera internazionale
durata circa trent’anni. Dopo
il 1814 egli passa alla direzione
delle istituzioni musicali di Bologna e dal 1816 fino all’anno
della morte si dedica all’attività
didattica, avendo l’incarico di
maestro di canto presso il Real
Collegio di Napoli.
Adulati, amati, applauditi in
tutta l’Europa, i “castrati” sono
stati un fenomeno soprattutto
italiano, perché in diverse regioni i bambini più promettenti
nel canto, prima di essere avviati
nei conservatori, venivano sottoposti alla castrazione tra i sette
e i dodici anni, su richiesta formale ed “ipocrita” dei fanciulli,
ma in realtà fatta dai loro genitori che speravano di avere per
i loro figli un futuro di gloria e
di lauti guadagni. I centri medici
specializzati erano Roma, Napoli, Milano, Venezia, Firenze e
soprattutto Bologna, dove operavano chirurghi altamente spe-
39
cializzati, che riuscivano spesso
ad evitare la impotentia coeundi,
per cui le dame del Settecento non disdegnavano di avere
come amanti questi uomini particolari dalla voce e dall’incarnato femminei. Del resto il loro
successo sulle scene era determinato dall’avere una voce che
era diversa da quella maschile
per leggerezza e flessibilità, ma
anche da quella femminile per
limpidezza e potenza, costituendo un ibrido asessuato giudicato
sublime e sensuale dai testimoni dell’epoca. L’impiego dei
“castrati” era frequente in tutta
l’Italia, ma era particolarmente
diffuso negli Stati Pontifici, dove
essi erano impiegati sia negli
spettacoli teatrali, sia nelle corali di cappella, anche perché in
questi stati vigeva la proibizione
per le cantanti donne di calcare
le scene introdotta da Innocenzo XI e ripresa da altri pontefici
e giustiziata da un passo di S.
Paolo “Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle
assemblee tacciano perché non
è loro permesso di parlare” (Corinzi, I, XIV, 34). L’operazione
della castrazione, ufficialmente
condannata dalla Chiesa, ebbe
una grande diffusione dagli inizi del Seicento, quando i primi
sopranisti vennero ammessi nel
Coro pontificio e Clemente VIII
autorizzò la castrazione “unicamente” ad honorem Dei.
Nel Settecento sono stati catalogati almeno quaranta grandi
sopranisti, la maggioranza dei
quali proveniva dagli Stati Pontifici (42%), mentre il resto proveniva dal Regno di Napoli, dalla Toscana e dalla Lombardia.
Nelle Marche ci sono stati, oltre
a Giuseppe Crescentini, almeno
altri cinque grandi sopranisti:
Giovanni Carestini (Filottrano
1705-1760); Gianbattista Man-
cini (Ascoli Piceno 1714-1800);
Gaspare Pacchiarotti (Fabriano
1740-1821); Venanzio Rauzzini
(Camerino 1746-1810), particolarmente apprezzato da Mozart;
Giovanni Battista Velluti (Pausola 1780-1861), uno degli interpreti preferiti da Rossini.
Omaggio a Simone Cantarini
A quattrocento anni dalla
nascita di Simone Cantarini, si
apriranno piccole mostre tra la
fine di giugno e la metà di luglio a Fano, Pesaro, Rimini, che
avranno per titolo “1612-2012
omaggio a Simone Cantarini genio ribelle”.
A Fano la sede sarà San Domenico, a Pesaro i Musei Civici,
così come a Rimini .
L’immagine sopra riportata,
raffigurante la Madonna in gloria
con Santa Barbara e San Terenzio, non sarà in nessuna delle tre
esposizioni, perché si trovava a
Pesaro, nella chiesa di San Cassiano, ma è stata requisita dai
generali napoleonici e trasferita
da allora ad Aicurzio (Milano),
chiesa di Sant’Andrea.
La pubblicazione de Le Cento Città avviene grazie al generoso contributo di
Banca dell’Adriatico, Banca Marche, Carifano,
Carisap, Co.Fer.M., Fox Petroli, Gruppo Pieralisi,
Santoni, TVS, Umani Ronchi
Le Cento Città, n. 45
Vita dell’Associazione
40
Visite e convegni
di Giovanni Danieli
Jesi, 18 dicembre 2011
Assemblea dei Soci
Domenica 18 dicembre, nella
tradizionale e confortevole sede
dell’Hotel Federico II di Iesi, si
è svolta l’annuale assemblea decembrina dei Soci.
In apertura il Presidente Ettore
Franca ha ricordato il programma realizzato negli ultimi cinque
mesi, la visita nell’alta Valle del
Foglia (Carpegna e Sassocorvaro) e quella nella Valle del Cesano (Villanova di Montemaggiore, Corinaldo, San Lorenzo
in Campo) nelle quali sono stati
visitati due importanti stabilimenti, prototipi dell’industria
marchigiana affermati nel mondo, la Carpegna Prosciutti e il
Caseificio Val Metauro-Fattorie
marchigiane, cui si devono due
prodotti dop, rispettivamente il
prosciutto di Carpegna e la casciotta di Urbino.
Ha quindi presentato gli eventi previsti per il primo semestre
dell’anno e che comprendono
la visita alle Aziende Migliori e
Meletti di Ascoli Piceno, la terza edizione di Freschi di stampa
e due Convegni, Green Economy
in collaborazione con la Facoltà
di Economia e Santi in Medicina
in collaborazione con la Facoltà
di Medicina, entrambe dell’Università Politecnica delle Marche.
Vi saranno due domeniche riservate rispettivamente alle visite nelle Valli del Metauro e
del Chienti ed il viaggio sociale,
quest’anno in Croazia.
E’ stata illustrata la situazione
Soci, oggi caratterizzata da 119
Soci effettivi, 14 d’Onore, 9 Sostenitori e 25 Corrispondenti, è
stato presentato ed approvato
all’unanimità il bilancio annuale
ed è stato fatto il punto sul programma editoriale; si è infine
dato corso alle elezioni per il rinnovo del Consiglio Direttivo.
E’ stato eletto per acclamazione
Presidente per l’anno 1° agosto
2012 - 31 luglio 2013 il Professor Giuseppe Natale Frega, che
avrà come suoi collaboratori nel
direttivo, Roberto D’Errico (Pesaro), Emilio D’Alessio (Ancona), Cinzia Maroni (Macerata),
Cecilia Romani Adami (Fermo),
Gian Luca Gregori (Ascoli Piceno). E’ stato cooptato anche
Mario Arezzini per il programma
di sviluppo dell’associazione nel
Piceno.
Il Presidente incoming ha confermato nelle cariche sociali
Giovanni Danieli, Segretario
generale, Anna Maria Zallocco,
Tesoriere, Edoardo Danieli, Direttore responsabile della rivista,
Mario Canti, Direttore editoriale; quest’ultimo ha proposto
quali collaboratori nel Comitato
di redazione Claudia Rondolini
(Pesaro), Glauco Nori (Ancona),
Maurizio Cinelli (Macerata), Ugo
Gironacci (Fermo), Mario Arezzini (Ascoli Piceno).
Ascoli Piceno, 29 gennaio 2012
Visita delle Aziende Migliori e
Meletti e della Pinacoteca
Accompagnati dal Prof. Leonardo Seghetti, grande cultore della produzione di olio e di olive
ascolane e dalla Dott.ssa Simona
Sestili, esperta conoscitrice di
prodotti della gastronomia non
solo ascolana, i Soci hanno visitato gli stabilimenti di Nazareno
Migliori e di Silvio Meletti, ricevuti dai rispettivi proprietari.
Nel primo Nazareno Migliori ha
fatto gli onori di casa, mentre Leonardo Seghetti ha illustrato, durante la visita, le caratteristiche
e le fasi di produzione dell’oliva
ascolana, riconosciuta DOP; si
è concluso con la degustazione
della stessa.
Le Cento Città, n. 45
Nel secondo stabilimento, a ricevere i Soci è stato Silvio Meletti
che, sulla scia dell’impostazione
paterna, ha rinnovato il processo
produttivo dell’Anisetta Meletti,
oggi nota in tutto il mondo.
Nel pomeriggio, dopo l’aperitivo nel tradizionale Caffè Meletti
nella splendida Piazza dell’Arringo di Ascoli e dopo un ottimo
pranzo nel Ristorante Kursaal rispettoso delle tradizioni locali, i
Soci hanno visitato la Pinacoteca,
nello spirito di queste iniziative
che intendono far conoscere e
valorizzare nello stesso tempo gli
aspetti industriali e paesaggistici
non meno di quelli artistici della
nostra Regione.
Alcuni momenti della visita sono
riprodotti nelle immagini di Roberto D’Errico.
Macerata, 30 marzo 2012
Freschi di stampa
Nella prestigiosa sede della Biblioteca statale di Macerata, accolti dalla direttrice Prof.ssa Angiola Napolioni si è svolta, con il
coordinamento di Maurizio Cinelli la terza edizione di Freschi di
stampa, iniziativa dell’Associazione che ha lo scopo di segnalare le
opere più pregevoli di Autori ed
Editori marchigiani pubblicate
nel corso dell’anno.
Sono stati selezionati sette volumi
e tre cataloghi, come indicato nel
manifesto allegato del Convegno.
Sono state citate anche opere di
Soci dell’Associazione, Marco
Belogi, Rodolfo Colarizi, Giovanni Danieli, Fabio Mariano,
Enrico Paciaroni e Giacomo
Vettori.
Ha concluso la serata Walter Scotucci, ideatore di questa iniziativa
nell’anno della sua presidenza.
Su Freschi di stampa pubblichiamo di seguito il resoconto di
Maurizio Cinelli.
Album di Roberto D’Errico
1
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Le Cento Città, n. 45
Vita dell’Associazione
42
Freschi di stampa
Macerata, 30 marzo 2012
di Maurizio Cinelli
Le Cento Città
Associazione per le Marche
Presidente, Dott. Ettore Franca
Freschi di stampa
Presentazione di opere di Autori e di Editori marchigiani edite nel 2010-2011
Macerata, 30 marzo 2012 - ore 17,00
Biblioteca Statale di Macerata, via Garibaldi, 20
Le Cento Città, grafica originale di Valeriano Trubbiani
Nella sua terza edizione, Freschi di stampa presenta una selezione di volumi e cataloghi
di Autori o di Editori marchigiani, contributo originale della nostra Regione
al patrimonio culturale italiano
errebi grafiche ripesi • falconara
1. Per il terzo appuntamento con
i libri “Freschi di stampa”, l’Associazione “Le Centocittà”, per il
terzo anno consecutivo, ha scelto
Macerata.
Si è trattato di una scelta che ha
onorato ancora una volta la Città; e l’affollamento della Sala della prestigiosa Biblioteca statale
– che la sua Direttrice, Angiola
Napolioni, con grande sensibilità,
ha generosamente messo a disposizione per l’iniziativa – ne ha dimostrato la validità.
Numerosissimi e attentissimi,
infatti, coloro che, per l’intero
pomeriggio del 30 marzo scorso,
hanno gremito la Sala, per ascoltare – dopo gli indirizzi di saluto
del Presidente, Ettore Franca,
della professoressa Angiola Napolioni nella suddetta qualità e
della professoressa Marisa Borraccini, che, in qualità di Prorettore, ha voluto testimoniare la
partecipazione ideale all’iniziativa dell’Università degli Studi di
Macerata – le presentazioni dei
volumi selezionati per l’occasione, come da programma.
Sono stati ovviamente prescelti
libri che ci parlano delle Marche.
Ne parlano, per così dire, dal “di
dentro”: innanzitutto, per quanto
riguarda sia gli Autori – tangibile
espressione della vivacità culturale di chi vive ed opera in questa
nostra meravigliosa, amatissima
Regione –, sia (in buona parte) gli
Editori; ma delle Marche parlano,
sopratutto, i relativi contenuti.
Sono state selezionate, infatti,
opere che potessero rappresentare, nei vari campi, occasioni
di approfondimento della conoscenza, e di rafforzamento della
consapevolezza, dei beni e valori
profondi dei quali la Regione è,
insieme, espressione e custode:
Ugo Bellesi, Ettore Franca, Tommaso Lucchetti, Storia dell’alimentazione, della
cultura gastronomica e dell’arte conviviale nelle Marche, Il lavoro editoriale
Nando Cecini, Le parole e la città. Guida letteraria delle Marche, Il lavoro editoriale
Luca M. Cristini (a cura di), Mosè di Segni, medico partigiano, Ed. S. Severino Marche
Claudio Giovalè, Giacomo Emiliani. Musica e nobiltà, Andrea Livi Editore
Alfredo Luzi, La siepe e il viaggio. Studi sulla poesia italiana contemporanea, Ed. Corbo
Ivan Rainini, Antiqua spolia. Reimpieghi di epoca romana dell’architettura sacra medioevale nel maceratese, Editore Fondazione CARIMA
Marco Severini (a cura di), Le Marche e l’Unità d’Italia, Editore Codex
***
Nel segno dell’Eucaristia (a cura di Maria Luisa Polichetti), U. Allemandi Editore
Marco Del Re, La Cenerentola, le Cenerentole (a cura di Franca Mancini), Il Teatro degli
Artisti Editore
L’ultima avventura romantica (a cura di Paola Ballesi), Editore Biennale Internazionale
dell’umorismo nell’arte, S. Severino Marche
Presiede Ettore Franca
Presentano Giuseppina Capodaglio, Carla Carotenuto, Hermas Ercoli
Mauro Magagnini, Alberto Pellegrino, Nino Ricci, Nicola Sbano, Lucia Tancredi
Coordina Maurizio Cinelli
Le Cento Città, Associazione per le Marche
Segreteria: Piazza del Senato, 9 - 60121 Ancona - Tel. 0712070443 - 3386533761, Fax 071205955
trovando conferma, così, la scelta
dell’Associazione di proseguire –
sia pure, questa volta, “da ferma”,
al chiuso delle severe pareti della
Biblioteca statale di Macerata – il
percorso di disvelamento e valorizzazione del “locale”.
Non può sfuggire, tuttavia, come
detto percorso di valorizzazione
– e le opere selezionate ne hanno
dato conferma – non si riduca nei
confini del “localismo”; si tratta
di valorizzazione destinata a rap-
presentare, piuttosto, occasione
e, insieme, metafora di un impegno alla promozione e sviluppo di
conoscenze e coscienze, che muove, sì, dal “particolare”, ma ambisce a trascenderlo ampiamente.
Non è stato difficile individuare
chi, per scienza, competenze specifiche, qualità di eloquio, potesse svolgere al meglio, per ciascun
singolo volume, il compito di Presentatore: il “serbatoio” al quale
poter attingere allo scopo è molto
Nella pagina precedente, momenti della visita ad Ascoli Piceno: Stabilimento di Silvio Meletti (Fig. 1); ritratto a olio di
Aristide Meletti ideatore della Anisetta (Fig. 2); Leonardo Seghetti illustra le caratteristiche dell’oliva ascolana dop nello
stabilimento di Nazareno Migliori (Fig. 3); l’ingresso del ristorante Kursaal (Fig. 4) ed il Caffè Meletti ad Ascoli (Fig. 5);
visita alla Pinacoteca, Domenico Morelli (1826-1901); Torquato Tasso che legge la Gerusalemme liberata ad Eleonora
D’Este (Fig. 6), e Cesare Reduzzi (1857-1912): Fior di vita (Fig. 7).
Le Cento Città, n. 45
Vita dell’Associazione
ben fornito, e l’Associazione ne
va giustamente orgogliosa.
Forse, più complicato è stato
assicurarsi che a dette qualità si
accompagnasse sempre la dote
della sintesi espositiva: dote essenziale, a fronte del veramente
breve spazio di tempo a disposizione di ciascuno (8-10 minuti al massimo), per svolgere un
compito sicuramente grato, ma
altrettanto sicuramente oneroso.
Anche qui, tuttavia, con la collaborazione di tutti, i fatti hanno
dimostrato che la scelta è stata
vincente, senza riserva alcuna:
i lavori si sono compiutamente
svolti entro i limiti di orario programmato, con una tempistica
encomiabile.
2. Quanto ai singoli volumi, inutile dire che l’operazione di selezione è risultata, anche stavolta,
assai ardua. Numerose le opere
di soci che sono entrate in lizza;
tra queste:
“Santa Croce. Un ospedale nella
storia”, un curatissimo volume
di Marco Belogi, sulla storia e
il ruolo di tale importante struttura sanitaria, corredato da un
ricco apparato iconografico e
fotografico;
“La longevità attiva”, un “De senectute” di Enrico Paciaroni, che,
con il sottotitolo de “Il piacere
di saper invecchiare. La persona
anziana come valore”, si colloca
nell’ambito prezioso della interdisciplinarietà, tra medicina,
etica e politica sociale, per suggerire stili di vita atti a mantenere,
se non migliorare, il primato di
longevità (in soddisfacenti condizioni di salute) che caratterizza le
Marche rispetto alle altre regioni
d’Europa;
“O rima o morte”, di Giacomo
Vettori, una gustosissima, raffinata raccolta di calambour in rima,
corredata da tavole pittoriche di
Carlo Cecchi;
“Fanesi brava gente” e “La rivincita di Virginia”, due recentissimi romanzi di Rodolfo Colarizi,
pubblicista di divulgazione scientifica, ormai irrevocabilmente
convertito alla narrativa;
“Giacinto Cestoni e Francesco
Redi a confronto”, di Italo d’An-
43
gelo D’Apropione, che, ricordando le scoperte sulle cause
della scabbia di uno sconosciuto
farmacista del ‘600, il Cestoni, di
fatto usurpate dal Redi, famosissimo medico dell’epoca, offre
un’illuminante, originale spaccato sulla nascita della medicina
scientifica moderna.
Ma, si sa, è fatto scontato: ogni
selezione, specie in casi come
quello che caratterizza “Freschi
di stampa”, implica una percentuale, grossa o meno grossa,
di arbitrio. Tuttavia, due opere
ancora, oltre a quelle suelencate, hanno meritato particolare
menzione (anche se – va detto –,
essendo state edite entrambe soltanto pochi mesi fa, avrebbero titolo per partecipare alla prossima
edizione di “Freschi di stampa”).
Si tratta di “Giuseppe Sacconi: il
Vittoriano 1911-2011”, di Fabio
Mariano, edita da “Andrea Livi
Editore”, e di “Farmaci e farmacie. Industrie farmaceutiche e farmacie di tradizione nelle Marche”,
a cura di Giovanni Danieli.
L’opera di Fabio Mariano, edita
in occasione delle celebrazioni
del 150° anniversario dell’Unità
d’Italia e del centenario del Vittoriano, a sua volta simbolo architettonico dell’Unità, è una importante monografia, corredata
da ampio materiale iconografico
e fotografico, sull’opera di quel
grande architetto, nato a Montalto Marche, che fu Giuseppe
Sacconi e che pienamente, non
solo per natali, appartiene alla
nostra terra, se non altro perché
ebbe la sua prima formazione nel
Convitto nazionale di Fermo e
in quella scuola di arti e mestieri, che poi sarebbe divenuta il
prestigioso Istituto tecnico industriale Montani.
Il volume sulle farmacie, curato da Giovanni Danieli, decimo
della collana Scienze Umane della
Facoltà di Medicina di Ancona è
importante anche perché ripercorre, tra l’altro, la storia di due
importanti industrie farmaceutiche che hanno avuto origini e
primo sviluppo nell’anconetano:
la Russi e l’Angelini.
A quest’ultimo volume ha collaborato (tra gli altri) Walter Scotucci, il quale ha tanti meriti, uno
dei quali è quello di aver ideato
tre anni fa – l’anno della sua presidenza dell’Associazione – “Freschi di stampa”; ed è per questo
motivo che, prima di dare avvio
alle presentazioni delle opere selezionate, gli è stato tributato un
particolare saluto, come segno di
riconoscimento e apprezzamento
per la lungimirante iniziativa, e
insieme auspicio di prosecuzione
di essa anche dopo la presente
edizione.
Maurizio Cinelli che ha curato per il terzo anno consecutivo Freschi di stampa.
Le Cento Città, n. 45
Vita dell’Associazione
3. L’opera, presentata per prima,
a cura di Nicola Sbano, è stata
“Le Marche e l’Unità d’Italia”. Il
volume, edito da “Codex” e curato da un gruppo di studiosi,
diretti e coordinati da Marco Severini, e pubblicato in occasione
del 150° anniversario dell’Unità
d’Italia, ricostruisce sul piano politico, civile e sociologico la trama
degli avvenimenti – ancora poco
conosciuti, e, dunque, tanto più
meritevoli di approfondimento
– che hanno portato le Marche
all’interno della compagine nazionale.
A seguire, Alberto Pellegino ha
presentato “Mosè Di Segni, medico partigiano, memorie di un
protagonista della guerra di Liberazione” opera curata da Luca
Cristini, la quale unitamente alla
trascrizione di un manoscritto del
Di Segni, resoconto drammatico e
illuminante delle vicende dell’ultimo e cruciale periodo di lotta
partigiana sui monti intorno a San
Severino, reca i contributi, oltre
che del curatore e di altri studiosi,
dei familiari del Di Segni – la figlia, signora Frida, era presente in
Sala –, e rappresenta una intensa
pagina di storia della partecipazione ebraica alla Resistenza.
44
“Antiqua spolia. Reimpieghi di
epoca romana nell’architettura
sacra medievale del maceratese”,
di Ivan Rainini, ordinario di Archeologia classica nell’Università Ambrosiana di Milano, edito
dalla Fondazione Carima, tratta
del reimpiego di materiali antichi
(generalmente di età romana) in
edifici medievali o anche di età
successive, che, come ben sappiamo, è pratica dettata da esigenze e logiche che vanno dal
mero utilizzo come materiale di
costruzione, al recupero a fini di
abbellimento di nuovi manufatti; il territorio delle Marche, anche in ragione al numero notevole, rispetto ad altre regioni, di
municipi colonie romane, offre,
al proposito, una documentazione notevole, ma assai poco conosciuta e l’indagine della quale
il volume è frutto, è rivolta a varie località del maceratese, dove
si trovano monumenti di grande
fascino, spesso sconosciuti ai
più, ed anche per questo meritevoli di rientrare al più presto
nel programma di visite della
nostra Associazione. Giuseppina Capodaglio ne ha curato la
presentazione.
“Giacomo Emiliani. Musica e No-
biltà”, di Claudio Giovalè, edita
da “Andrea Livi Editore”, è dedicata al musicista ottocentesco,
cui nel 2011 è stato intitolato il
Teatro municipale di Rapagnano, sua città natale. “Indagare
sul musicista Giacomo Emiliani
(1805-1889) significa addentrarsi
nella vicenda artistica e personale
di un aristocratico fermano oggi
totalmente dimenticato. Molto,
ancora in vita, egli fece per non
farsi ricordare, distruggendo la
quasi totalità delle sue composizioni. Altrettanto fecero i suoi
diretti discendenti disperdendo
gran parte della documentazione
che lo riguardava, quasi in una
sorta di damnatio memoriae, certamente non intenzionale; ma di
fatto verificatosi”: tale è l’incipit
del volume, che potrebbe anche
collocarsi in apertura di un thriller, ma che, in realtà, apre una
rigorosa, curatissima biografia e
insieme approfondita analisi storica della società del tempo. Alla
presentazione ha provveduto,
con la verve che lo caratterizza,
Evio Hermas Ercoli.
“Le parole e la città. Guida letteraria delle Marche”, di Nando
Cecini, edito dal “Il lavoro editoriale”, è un libro che contiene
le descrizioni delle Marche e di
Sopra, la Direttrice della Biblioteca statale, Prof.ssa Angiola Napolioni, il coordinatore dell’evento Prof. Avv. Maurizio
Cinelli, il Presidente de Le Cento Città, Dott. Ettore Franca e il Pro Rettore dell’Università di Macerata, Prof.ssa Rosa
Marisa Borraccini Verducci al tavolo della presidenza.
Accanto, Mauro Magagnini, Carla Carotenuto, Nicola Sbano, Alberto Pellegrino, Hermas Ercoli, Lucia Tancredi, Giuseppina Capodaglio e Nino Ricci che hanno presentato le opere e i cataloghi selezionati.
Le Cento Città, n. 45
Album di Mario Canti
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Le Cento Città, n. 45
Vita dell’Associazione
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Le Cento Città, n. 45
Vita dell’Associazione
una quarantina di città marchigiane, tramandate nel tempo da
scrittori e poeti, che l’Autore
ha pazientemente selezionato e
raggruppato in tanti quadri di
insieme: una sorta di racconto
su luoghi fisici, che, apparentemente immutabili nel tempo, in
realtà vivono e si modificano a
seconda dei sentimenti e degli
sguardi di chi ad essi si accosta;
ed è anche su questo che si intrattiene l’introduzione al libro,
scritta da Giorgio Mangani, una
sorta di breve, ma intenso saggio sul tema del rapporto tra
paesaggio e retorica. Il volume
è stato presentato da Lucia Tancredi, maceratese d’adozione,
e autrice, tra l’altro – è giusto
ricordarlo –, di un acuto e poeticissimo libro sulle cittadine
del maceratese, edito nel 2003
da “Quodlibet”, intitolato “Racconti di viaggio Le città d’arte
della marca maceratese”.
“La siepe e il viaggio”, di Alfredo
Luzi, edito da “Corbo Editore”,
è una raccolta di saggi dedicati
a Leopardi e alla sua “presenza”
nella poesia marchigiana contemporanea: dove l’immagine
della “siepe”, che l’Autore impiega, è emblema e metafora di
quello spazio, così protettivo e
rassicurante, che i confini regionali racchiudono, e, anche per
questo, talvolta così difficile da
47
valicare da parte di chi voglia affrontare il “viaggio”, e, dunque,
l’“ignoto” al di là della “siepe”.
La presentazione è stata svolta
da Carla Carotenuto.
Nell’anno 2012 “Freschi di
stampa” ha posto il proprio focus anche sui cataloghi; ne sono
stati selezionati tre:
“Segni dell’eucaristia”, a cura di
Maria Luisa Polichetti, che, attingendo al patrimonio storicoartistico delle diocesi marchigiane, illustra, tramite gli “oggetti”,
lo svolgimento della celebrazione eucaristica come punto centrale della comunità ecclesiale,
e rende percepibile il significato
degli apparati, espressione della
religiosità popolare e, insieme,
segno della magnificenza della
Chiesa nel rapporto con il territorio;
“Marco del Re. La cenerentola e
le cenerentole”, a cura di Franca
Mancini, documenta e analizza,
attraverso i saggi che vi figurano
e le riproduzioni delle opere ispirate alla Cenerentola di Rossini,
il percorso culturale e l’esperienza artistica del pittore al quale la
mostra, che ha dato occasione al
catalogo, è stata dedicata;
“L’ultima avventura romantica.
Poetica ed eredità futuriste”, a
cura di Paola Ballesi, che, accompagnato da un saggio della
curatrice, è dedicato all’avventu-
Le Cento Città, n. 45
ra del futurismo, con particolare
riferimento a quell’importante
esponente del movimento, che
è Ivo Pannaggi, cui Macerata ha
dato i natali e l’ospitalità negli
ultimi anni di vita, e del quale
la Città ha ricordato lo scorso
anno, con l’apposizione di una
targa sulla casa natale, il centenario della nascita.
I tre cataloghi sono stati presentati da Nino Ricci.
Da ultimo, dulcis in fundo, ed
anche come viatico all’incontro
conviviale che di lì a poco si sarebbe svolto presso il foyer della
Società Filarmonico-Drammatica di Macerata, Mauro Magagnini ha presentato “Storia
dell’alimentazione e cultura gastronomica e dell’arte conviviale
nelle Marche”, di Ugo Bellesi,
Ettore Franca e Tommaso Lucchetti, edito da “Il lavoro editoriale”. Il volume – diremo, metaforicamente, di “alta cucina”
– ha ottenuto riconoscimenti anche a livello internazionale, per
la rigorosa, ampia ricostruzione
storica della civiltà enogastronomica e conviviale delle Marche, tanto nella sua dimensione
popolare e contadina, quanto in
quella aristocratica e borghese.
L’incontro si è chiuso con un
corale, benaugurale e gioioso arrivederci con “Freschi di stampa”, quarta edizione, il prossimo
anno, se così vorrà essere.