Le Cento Città, n. 45
Transcript
Le Cento Città, n. 45
1 Sommario Le Cento Città * Direttore Editoriale Mario Canti Comitato Editoriale Fabio Brisighelli Romano Folicaldi Natale G. Frega Giuseppe Oresti Giancarlo Polidori Direzione, redazione, amministrazione Associazione Le Cento Città [email protected] Direttore Responsabile Edoardo Danieli Prezzo a copia Euro 10,00 Abb. a tre numeri annui Euro 25,00 Spedizione in abb. post., 70%. - Filiale di Ancona Reg. del Tribunale di Ancona n. 20 del 10/7/1995 Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma 3Editoriale L’energia del cambiamento di Ettore Franca 5Il dibattito Green economy, questione morale e ambiente di Alberto Pellegrino 7Il focus La cultura per lo sviluppo di Mario Canti 10 Il territorio La forma della città e gli spazi urbani di Maria Luisa Polichetti 17 La letteratura La poesia di Alvaro Valentini tra lirismo e impegno sociale di Alfredo Luzi 20 La rassegna La Popsophia e la nottola di Minerva. La seconda edizione del Festival del contemporaneo di Lucrezia Ercoli 22 Musica Un convegno e un concerto per Bruno Mugellini. Potenza Picena ricorda il musicista nel centenario della morte di Paolo Peretti Periodico quadrimestrale de Le Cento Città, Associazione per le Marche Sede, Piazza del Senato 9, 60121 Ancona. Tel. 071/2070443, fax 071/205955 [email protected] www.lecentocitta.it * Hanno collaborato a questo numero: Francesco Adornato, Mario Canti, Maurizio Cinelli, Edoardo Danieli, Giovanni Danieli, Lucrezia Ercoli, Ettore Franca, Alfredo Luzi, Alberto Pellegrino, Paolo Peretti, Maria Luisa Polichetti In copertina Statua di Papa Clemente XII nella Piazza del Plebiscito in Ancona, opera di Agostino Cornacchini, 1737 25 La presentazione L’Angelus Novus vola su Macerata di Francesco Adornato 29 Ricordo Don Cesare Recanatini, una vita per la chiesa e la cultura di Mario Canti 32 Libri ed eventi di Alberto Pellegrino 40 Vita dell’Associazione Visite e convegni di Giovanni Danieli Freschi di stampa di Maurizio Cinelli Le Cento Città, n. 45 Editoriale 3 L’energia del cambiamento di Ettore Franca L’irrompere delle energie alternative, nella Regione e non solo, aveva aperto incognite non tanto sul loro futuro, tecnicamente promettente, quanto sui risvolti che, al di là dell’entusiasmo, nei più attenti aveva suscitato qualche perplessità. La mia annunciata presidenza de Le Cento Città, e il succedere alla vulcanica Maria Luisa, mi offriva la possibilità di mettere a fuoco qualche iniziativa che, senza emulare le precedenti, fosse gradita ai soci e in linea con gli scopi statutari. Ho puntato nel proseguire la scoperta delle eccellenze marchigiane, in particolare quanto offre la produzione agrolimentare, ma mi stuzzicava indagare anche il settore della green economy, allora al suo affacciarsi alla ribalta. In questi tre-quattro anni, altri hanno affrontato il tema mirando, sugli altri, agli aspetti tecnici ed ingegneristici, mentre nella Regione sorgevano aziende industriali o artigianali che rapidamente si convertivano alla produzione di strutture indirizzate sia al fotovoltaico che all’eolico, avvantaggiandosi anche di una politica nazionale o regionale che avrebbero erogato contributi per la realizzazione di impianti. Ad abbracciare la nuova fede, non so quanto convinti ma persuasi dal confronto fra la produttività della terra e i vantaggi economici dell’opera, sono stati molti agricoltori disposti a sacrificare le superfici coltivate coprendo i loro campi con pannelli fotovoltaici. Restii, invece, anche per il momento congiunturale sfavorevole, sono stati sia gli industriali, che avrebbero a disposizione le vaste coperture dei loro stabilimenti, sia la nuova edilizia che avrebbe potuto orientarsi ad integrare i tetti con la produzione di energia. Nel 2006 la Regione aveva stanziato somme per quanto è nel bando “Ottimizzazione del sistema energetico e sviluppo delle fonti rinnovabili”, e altre le aveva destinate ai Comuni più popolosi, per la redazione di piani energetici. In breve entrarono nel settore diverse grandi-medie aziende che, prima affittando, poi acquisendo il diritto di superficie, per 20 anni assicuravano agli agricoltori cifre che normalmente sognano e chi avesse chiesto l’accumulazione iniziale della somma verificava che quella superava spesso il valore di mercato della terra. Così, a macchia di leopardo sono comparsi vasti campi fotovoltaici che, nel frattempo, si facevano meno costosi di pari passo al crescere del rendimento e dello sconcerto di quanti vedevano modificarsi il paesaggio marchigiano tanto da aprire non pochi contenziosi derivati dalla diminuzione dei valori degli immobili prossimi a quelle strutture. Davanti all’evoluzione sono state emanate disposizioni che, con limiti contrattuali di competenza delle province, stabiliscono il rapporto fra la superficie agricola e quella copribile, mentre ai Comuni sono affidati gli aspetti tecnici per l’impiego delle coperture degli edifici. Molto meno rilevante è il settore legato all’eolico anche per il forte contrasto delle popolazioni dell’entroterra che rifiutano il cambiamento del dolce sky-line Le Cento Città, n. 45 delle loro montagne. Alcune sono le realizzazioni di impianti dedicati allo sfruttamento del gas delle biomasse generalmente collegate ad allevamenti zootecnici intensivi, poco presenti in Regione. C’è qualche esempio dell’uso di centrali elettriche che sfruttano l’acqua sbarrata con la diga, mentre del tutto insignificante è lo sfruttamento della geotermia. Nel tentativo di approfondire i problemi delle energie alternative, il 26 aprile presso il Rettorato, a partire dalle ore 16, Le Cento Città e la Facoltà di Economia della Università Politecnica delle Marche propongono un convegno nel quale, esperti del settore, da diverse angolature affrontereanno i temi che, spero, consentano di chiarire dubbi e incertezze sul sensibile argomento tutt’altro che risolto. In particolare sarà esaminato lo stato economico delle energie rinnovabili, nella Regione e in Italia, lo “stato dell’arte” negli aspetti tecnici dei vari settori (fotovoltaico, eolico, geotermico, biomasse, ecc.) e un esame sugli aspetti normativi. Seguirà una tavola rotonda sugli aspetti di ricaduta su ambiente e paesaggio; il Convegno si concludrà con le relazioni di alcuni industriali marchigiani che realizzano o usano impianti di energie alternative. Il dibattito 5 Green Economy, questione morale e ambiente di Alberto Pellegrino Da diverso tempo ormai la crisi morale investe in profondità la nostra vita sociale ad erodere i nostri valori fondanti a svuotarli dall’interno, a ostacolare la nascita di una nuova stagione per la società italiana: “E’ questa erosine di senso, di speranza e quindi coraggio e di fiducia, e quindi di slancio creativo e di felice dedizione all’opera…è questo respiro che ci manca a ridurre in cenere i nostri giorni” (Roberta De Monticelli). Il termine “valori” è talmente inflazionato che rischia di annegare in una paccottiglia insensata di significati che ognuno aggiusta secondo le proprie convenienze, mentre invece si dovrebbe promuovere un risveglio delle coscienze soprattutto per due valori che hanno in questa sede un particolare significato: la giustizia e la bellezza. La giustizia è un concetto continuamente in fieri, che si realizza conquista dopo conquista, ma che si realizza soprattutto nella consapevolezza che esso va continuamente perfezionato, che esso deve essere approfondito nel profondo della nostra coscienza, Infatti la giustizia non riguarda soltanto la politica o la vita dei partiti, ma anche dallo stretto collegamento fra mores, diritto, politica e religione, dalla continua domanda che abbiamo il dovere di porci a livello individuale “che fare?”. Ci sono momenti della nostra storia nei quali l’azione, la resistenza, persino la rivolta intesa come disobbedienza civile devono essere vissute come un’esigenza morale. Quando il sentimento dell’ingiustizia scende in profondità negli individui, quando si avverte che siamo vicini alla rottura del pactum societatis è giunto il momento di riscoprire il valore “giustizia”, quando per troppo tempo sono durate la nostra indifferenza e la nostra abulia morale di fronte allo spettacolo indecente di corruzione morale, Recanati - Colle dell’Infinito. politica e culturale che sta sommergendo il nostro paese. “L’Italia è sempre stata un paese tragico, nonostante che le nostre maschere, attraverso le quali siamo conosciuti dagli stranieri, siano maschere comiche: il servo contento e il padrone gabbato. Un paese tragico anche se la maggior parte degli italiani non lo sa o finge di non saperlo. O meglio, non vuole saperlo”. Queste parole, scritte da Norberto Bobbio nell’Autobiografia del 1997, hanno ancora una sconvolgente attualità, perché i padroni gabbati siamo noi come popolo sovrano privato della facoltà di esercitare il potere come dovrebbe accadere in una democrazia compita e soprattutto gabbate sono le generazioni future che si preparano a ricoprire il suolo di servi contenti. Nello stesso tempo i servi contenti siamo ancora noi sudditi di capi politici che si sono collocati al di sopra della legge, servi che partecipano indirettamente ai vantaggi di coloro che hanno occupato la pubblica amministrazione. Questa tragico rapporto tra padroni gabbati e servi contenti può essere benissimo applicato al problema dell’ambiente dove più che mai esiste una stretta relazione tra poteri pubblici e Le Cento Città, n. 45 interessi privati, quando si assiste a casi di dissipazione del territorio, all’aggiramento di vincoli e controlli ambientali, al condono di abusi fatti nei confronti di beni demaniali, di fiumi e litorali, alla facilitazione della speculazione edilizia in cambio di consenso elettorale o di vantaggi economici. Assistiamo abbastanza passivi a questa specie di “suicidio ambientale” senza tenere in debito conto anche se i governi centrali e locali passano, le devastazioni rimangono minacciando il futuro di quello che continuiamo a chiamare con una certa ironia il Bel Paese. Una volta che viene distrutta la bellezza di un paesaggio storico e naturale si innesta un processo irreversibile, senza tenere conto che il paesaggio italiano e, per noi, il paesaggio marchigiano è stato uno dei fondamenti della nostra storia, della nostra letteratura e pittura, rappresenta anche un bene economico e sociale legato all’agricoltura, al turismo alla qualità della vita. Assistiamo indifferenti all’assalto al nostro litorale che rischia di diventare un interrotto serpentone di cemento da Gabicce al Tronto con residenze e lottizzazioni spesso invendute; vediamo il profilo delle nostre Alberto Pellegrino colline profanato da costruzioni inguardabili; sopportiamo che la costruzione di autostrade e superstrade siano cantieri eternamente aperti che rappresentano continue minacce per gli ecosistemi; accettiamo l’inutile proliferare di porti turistici certamente superiori al fabbisogno, alle continue minacce rivolte ai parchi naturali e alle zone protette senza tenere conto che certe devastazioni sono destinate a rimanere per sempre. E’ vero che i paesaggi cosiddetti antropici, cioè soggetti all’intervento umano, sono destinati a cambiare nel tempo, altrimenti non si parlerebbe di paesaggi storici, tuttavia queste trasformazioni paesaggistiche dovrebbero in ogni caso preservare la bellezza naturale e culturale, proprio perché oggi siamo pienamente consapevoli che la bellezza del paesaggio è una sicura risorsa preziosa per il futuro della nostra economia. Il concetto di bellezza dovrebbe essere un valore aggiunto da non dissipare perché esso attiene al patrimonio costituito da paesaggi naturali e storici, dal patrimonio artistico e culturale. Non esiste nessun principio economico che impedisca di coniugare la bellezza e l’utile: si può procedere a una pianificazione urbanistica senza favorire la speculazione edilizia selvaggia; si può salvaguardare una città “patrimonio dell’umanità” o “semplice” patrimonio della civiltà marchigiana con una urbanizzazione civile e ordinata senza permettere una urbanizzazione selvaggia e casuale; si può procedere allo sviluppo delle zone collinari e montane con preciso calcolo di costi e benefici senza sconvolgere in modo irreversibile ambienti secolari e per certi versi di grande valore naturale e culturale. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte al fenomeno di una crisi estetica corrispondente alla 6 diffusione della bruttezza e, in qualche caso, della oscenità ambientale, non possiamo voltarci da un’altra parte di fronte alla possibile distruzione della bellezza in ogni sua forma, perché sarebbe un altro cedimento alla corruzione morale. Di fronte alla crisi del senso del bello e del decoroso, Albert Camus ha scritto ne L’uomo in rivolta: “La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni: ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”. Per questo occorre mettere a fuoco l’esatta relazione tra la bellezza e il modo di allontanare la catastrofe morale, civile ed estetica che investe anche il paesaggio e l’ambiente. Bisogna confrontarsi con la crescente ignoranza che non è frutto di una scarsa scolarizzazione, ma della perdita di contatto con una cultura popolare, con le tradizioni del mondo contadino, con il rispetto dei luoghi e degli oggetti naturali come una quercia che richiede secoli perché diventi un monumento della natura. Bisogna risvegliare le coscienze di quanti hanno goduto del privilegio di una istruzione superiore e di esercitare professioni intellettuali per risvegliare la coscienza morale e civile, evitando il pericolo dell’abitudine, della rassegnazione, della rimozione. Bisogna ritornare a una democrazia concepita come partecipazione e conflitto, dove le culture e le strategie politiche tornano a confrontarsi sulla base di programmi e di conseguenti decisioni e non secondo una prassi di scambi e compromessi nascosti dietro ridicoli salotti mediatici e inutili dibattiti televisivi. Bisogna opporsi agli abusi e ai condoni per evitare che sia distrutta quella parte della nostra identità che nel paesaggio e nell’ambiente affonda le sue radici più profonde. Bisogna opporsi la Bellezza alla banalità del male senza consegnare la Le Cento Città, n. 45 difesa dei nostri valori ai politici di professione, bisogna riscoprire sopratutto il valore della Giustizia collegato a quello della Bellezza, perché essi sono il fondamento della nostra esistenza associata. Facciamo ricorso al nostro Giacomo Leopardi, che nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica quasi due secoli indietro metteva in guardia contro i pericoli della stupidità e della violenza: “… ancora siamo più di qualunque altro popolo vicini a quel punto, che quando si oltrepassa, non è quella civiltà ma barbarie… Ma sovvenite alla madre vostra ricordandovi degli antenati e guardando ai futuri… secondando questa beata natura onde il cielo v’ha formati e circondati… considerando la barbarie che vi sovrasta; avendo pietà di questa bellissima terra, e de’ monumenti e delle ceneri de’ nostri padri; e finalmente non volendo che la povera patria nostra… si rimanga senz’aiuto, perché non può essere aiutata che da voi”. Sono parole che sembrano scritte oggi e che ci esortano a riscoprire il valore della indignazione morale e l’importanza di certi aspetti fondanti della nostra vita, in modo da poter fondare una “nuova civiltà”, altrimenti si rischierà di smarrire la nostra anima insieme alla nostra terra marchigiana. Un’autentica e forte partecipazione politica si basa sull’antagonismo e sulla contrapposizione di idee e di valori, la parola stessa suggerisce l’idea del “conflitto” democratico, mentre oggi la classe politica ha come obiettivo il superamento del conflitto e quindi la liquidazione dei fondamenti della partecipazione per trasformare lo scenario politico in un “mercato” soggetto alle regole della contrattazione ai fini del profitto sul piano del potere e dell’economia. Il focus 7 La cultura per lo sviluppo di Mario Canti Il Sole 24 ore nel numero del 19 febbraio ha proposto una “costituente per la cultura” e pubblicato il relativo manifesto di fondazione articolato nei cinque punti: 1 una costituente per la cultura, 2 strategie di lungo periodo, 3 cooperazione tra ministeri, 4 l’arte a scuola e la cultura scientifica, 5 merito, complementarietà pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale; l’assunto di fondo è che l’Italia stia da tempo abbandonando la cura di quella cultura, intesa nei termini più ampi, che per secoli l’aveva caratterizzata e qualificata, anche nei periodi più bui della sua storia, e che così facendo viene negando a se stessa possibili futuri sviluppi anche economici, poiché senza cultura non vi è sviluppo. Le adesioni al manifesto per la cultura hanno raggiunto in poche settimane migliaia di adesioni qualificate dimostrando che questa tesi è largamente condivisa. Lo stesso assunto senza cultura non vi è sviluppo, fatte salve le necessarie distinzioni di ruoli e di finalità, ha trovato precisi riscontri nella politica per la cultura che è stata sviluppata dalla Regione Marche a partire dal 2010 e che ha presentato significativi momenti di pubblicità e partecipazione: tra i molti vanno ricordati il forum di Ancona (aprile 2011), il seminario di Fano (novembre 2011), il convegno di Abbadia di Fiastra (gennaio 2012). La Regione ha cercato di concretizzare questo assunto in precisi indirizzi ed atti amministrativi, a partire dal settore della cultura, ma con l’intento di estenderne le implicazioni sulla intera attività amministrativa, tentativo maggiormente lodevole se si fa mente locale alle condizioni della finanza pubblica e di quella regionale in modo particolare. Atti che l’Assessore competente ha recentemente riepilogato in un incontro stampa e che riguardano l’attuazione del Piano triennale: progetti, piani di riparto, normative per l’attuazione e, ovviamente, il bilancio del settore. Alla Regione Marche va senza dubbio riconosciuto il merito di aver, fin dall’anno passato,colto il nesso inscindibile tra cultura e sviluppo e, coerentemente, di aver mantenuto la spesa per la cultura ai livelli degli anni precedenti ed anzi di averla incrementata, pur in presenza dei noti tagli del governo che hanno inciso anche sulle sue risorse finanziarie. Una scelta quella delle Marche nettamente in contrasto con la politica dei tagli indiscriminati operata fino ad oggi a livello nazionale, che si è, ripercossa sulla spesa degli enti locali anche e soprattutto per la quota destinata ai beni e alle attività culturali. A livello nazionale è stato in sostanza dato credito al concetto della “superfluità” della cultura,, esemplificato dall’espressione, attribuita al ministro per l’economia del precedente governo, Abbazia di Fiastra, sede del convegno “La cultura per ripartire” 27-28 gennaio 2012. Le Cento Città, n. 45 Mario Canti 8 Holland House Library, dopo il bombardamento del 1940. Immagine scelta da Il Sole 24 ore come icona della nuova Costituente per la cultura. “con la cultura non si mangia”. La cultura sarebbe in questa logica un attività da prendere in considerazione nei periodi delle “vacche grasse”, non certo nell’attuale momento di crisi e di recessione. Pure essendo del tutto in accordo con la Regione nel rifiutare questo approccio che nega alla cultura un qualsiasi ruolo positivo per lo sviluppo dell’economia e per la qualità della vita, dobbiamo essere consapevoli che “credere” nella cultura comporta profonde trasformazioni nei modi di operare e negli stessi strumenti operativi; alla luce della scarsità delle risorse, ma anche, e diremmo soprattutto, in considerazione del ruolo che alla cultura, nelle sue diverse espressioni, si intende attribuire. Non si tratta solo di fare ogni possibile economia, come i tempi richiedono, ma anche di ricercare la maggiore efficacia possibile delle attività connesse con la cultura proprio per il ruolo che possono svolgere per lo sviluppo economico e per il benessere sociale. Come è stato posto in evidenza negli incontri sopra ricordati la possibilità che la cultura possa esercitare una funzione positiva per l’economia e per la vita sociale richiede che si intenda la cultura come un sistema ampio e complesso, che si riferisce contestualmente alla educazione come alla istruzione, alla ricerca scientifica come alla conoscenza. L’incuria nella quale sono state abbandonate da molti anni le istituzione e le attività culturali richiede oggi, anche nella nostra regione, l’attivazione di politiche per la cultura nuove, con la consapevolezza che bisogna avviare queste politiche fin da adesso, anche se potranno avere risultati definitivi nei tempi medi e lunghi, senza attendere situazioni più opportune che difficilmente si presenteranno spontaneamente. Nel caso delle Marche i caratteri dell’insediamento e la storia del territorio richiedono anche per la cultura, a nostro modo di vedere, scelte e progetti in qualche modo specifici, particolari, diversificati; che potranno risultare solo in parte simili a quelli che verranno adottati in altre aree del Paese che presentano caratteristiche insediative ed economiche analoghe. La riduzione delle risorse pubbliche disponibili comporta infatti, in ogni caso, l’eliminazione delle spese non assolutamente necessarie e la scelta di precise priorità anche attraverso l’accorpamento di iniziative e la collaborazione tra soggetti diversi; queste scelte si pongono in maniera peculiare nella nostra Le Cento Città, n. 45 regione a causa della dispersione dell’insediamento, della ridotta dimensione demografica della maggiore parte dei centri urbani, delle tradizioni di autonomia dei diversi centri, medi, piccoli o piccolissimi che siano. Anche in questa prospettiva va valutato l’elevato numero di istituzioni ed associazioni culturali presenti nelle Marche: musei, biblioteche, teatri, circoli, accademie, ecc., che rendono problematica la scelta eventuale di “gerarchizzare” l’universo delle istituzioni intorno a “poli” individuati in ragione della loro dimensione o delle loro attività. La scarsa “gerarchizzazione” dell’insediamento urbano che caratterizza ancora oggi le Marche deriva dalla persistenza nel corso dei secoli di un’economia fondata quasi esclusivamente sull’agricoltura, che solo nel secondo dopoguerra è stata rapidamente sostituita da attività di tipo industriale; la dimensione dell’organizzazione urbana è stata di conseguenza determinata dalla dimensione, modesta, dei mercati agricoli, con poche eccezioni riferibili ai mercati marittimi, peraltro anch’essi modesti, e alle sedi dei governatori; il polo di riferimento culturale e politico, Roma, si trovava all’esterno del territorio ed anche ad una significativa distanza. Cultura e sviluppo Di qui la sostanziale omogeneità dei caratteri dell’insediamento urbano in tutta la regione con poche varianti legate a fattori climatici e produttivi che, ad esempio, motivano la rarefazione delle “case sparse” nelle aree montane dove prevalgono i piccolo centri nell’insediamento ed il prato-pascolo e le colture legnose nell’utilizzo dei suoli. Del tutto naturalmente questi modesti ambiti economici ricercarono una distinta autonomia funzionale nei confronti di quelli circostanti ripetendo le strutture e la istituzioni che necessitavano alla vita comunitaria, la chiesa, l’ospedale ed il municipio in un primo tempo e poi, a partire dal diffondersi dei principi dell’illuminismo, il teatro, la biblioteca, il circolo culturale. L’omogeneità sostanziale dell’insediamento umano non è stata sconvolta totalmente dalle trasformazioni recenti che, con il crollo dell’economia agricola, hanno comportata la scomparsa delle “case sparse” connesse all’istituto della mezzadria, il depauperamento demografico delle aree interne , l’occupazione dei fondi valle e delle aree litoranee da parte di nuovi insediamenti produttivi e residenziali, senza peraltro che si verificassero nuove significative polarizzazioni urbane di livello territoriale. Tutti gli studi condotti a partire dagli anni sessanta fino ad oggi individuano un numero limitato di polarizzazioni di livello urbano, così che non sembra possibile ipotizzare una spontanea ulteriore gerarchizzazione dell’insediamento regionale nel suo complesso. In queste condizioni, caratterizzate dalla diffusione dell’insediamento in centri urbani di dimensioni contenute e dalla necessità di contenere le spese per la cultura, la soluzione che coniuga il minimo della spesa ed il massimo dell’efficienza non può essere che quella della collaborazione tra i soggetti operanti nell’ambito della regione, all’interno dei diversi settore e tra i diversi settori, Ciò significherebbe rinunciare 9 al ogni prospettiva di polarizzazione gerarchica ed insistere sull’organizzazione a rete dei sistemi esistenti che, tra l’altro, troverebbe un riscontro operativo nell’ applicazione del principio di “sussidiarietà” ; sia a carattere verticale: Regione, enti locali, soggetti, sia a carattere orizzontale: istituzioni culturali associazioni, operatori. In questa logica si dovrebbe operare anche per l’integrazione tra i sistemi culturali esistenti, non più distinti per settori: musei, biblioteche e teatri, ecc.,ma compresi, magari con gradualità, in un solo comparto, quello appunto della cultura, interagente con i settori economici e sociali attraverso le attività di ricerca, formazione ed informazione Una ipotesi, in sostanza, che intende salvaguardare istituzioni e professionalità espandendo il ruolo della cultura come una trama societaria comune, che costituisca la base per l’ulteriore sviluppo civile e economico, per la qualificazione della ricerca, per la conservazione dell’identità delle comunità locali. Una ipotesi che può apparire utopistica se non ci si rende conto: da una parte della effettiva riduzione, in atto ed in prospettiva, delle risorse, e dall’altra del ruolo che la cultura, nelle sue diverse accezioni, può rivestire per la ripresa dello sviluppo anche economico. Solo da un sempre più accentuato e diffuso sviluppo culturale la nostra comunità potrà garantirsi la capacità di assicurare qualità ai beni ed ai servizi prodotti, cioè di essere realmente competitiva a livello nazionale ed internazionale. Una ipotesi che risulterebbe condizionata da almeno due fattori: la revisione dei criteri di spesa secondo obiettivi generali condivisi ed una fortissima partecipazione del volontariato; quest’ultima condizione potrebbe divenire un vero e proprio nuovo modo di gestire il tempo libero, destinato al servizio sociale nell’ambito delle attività culturali, con la possibilità per chi Le Cento Città, n. 45 vi si impegnasse di svolgere una attività significativa e gratificante nel medesimo tempo. Un’esperienza peraltro che consentirebbe di riscoprire tradizioni di solidarietà sociale, fortemente sentite dai marchigiani che, nel tempo, le hanno sempre concretamente esercitate; in antico nelle confraternite, e, successivamente, nelle società operaie di mutuo soccorso, nel volontariato, nella protezione civile. Perché la rete della cultura nelle Marche possa effettivamente prendere corpo ed affermarsi occorre che la Regione se ne faccia carico, non tanto nel sostegno economico che, come sappiamo, nel breve periodo potrà al massimo mantenersi nei limiti attuali, quanto nel definire le linee guida per la realizzazione e la gestione del nuovo modello organizzativo, nella sempre più alta qualificazione del personale, nella formazione dei quadri del volontariato e, soprattutto, nella realizzazione della rete informatica di sostegno; peraltro l’obiettivo della disponibilità della banda larga è ormai generalmente condiviso. L’espansione della cultura in una rete regionale fortemente partecipata e, per certi aspetti, autogestita a livello di base, potrebbe restituire alla nostra comunità quella capacità di perseguire nelle sue molteplici espressioni quella bellezza che riconosciamo nelle testimonianze del passato, artistiche, paesaggistiche, letterarie o artigianali e che solo assai eccezionalmente riusciamo ad individuare in atti e oggetti dell’oggi, permeati più che dalla bruttezza dalla mediocrità, dall’assenza della ricerca di qualità; quella peraltro che caratterizza ancora oggi l’Italia agli occhi degli stranieri (vedi la sua trasposizione in ambito commerciale nell’Italian style). Una bellezza diffusa nelle città, nel paesaggio, nelle opere d’arte, che, forse, traeva origina dalla compresenza del sapere, la cultura, e del saper fare, l’esperienza. Il territorio 10 La forma della città e gli spazi urbani di Maria Luisa Polichetti L’origine della città è determinata da una serie di esigenze e fattori di varia natura, sociale, politica, culturale. La forma della città è connessa alle modalità con cui la collettività organizza la propria vita e le attività connesse. La configurazione degli spazi urbani rappresenta la concretizzazione in forme reali dei modi secondo i quali si articola la convivenza delle comunità dei cittadini: luoghi di incontro, di socializzazione, deputati allo svolgimento di funzioni pubbliche. Lo spazio urbano, sia che si tratti di una piazza, di una via o di uno slargo, sono congruenti con l’impianto della città che li contiene e al tempo stesso costituiscono elementi fortemente caratterizzanti il tessuto urbano. La loro origine può essere contestuale alla formazione del primitivo impianto della città, risentendo quindi, al pari di questo, dei condizionamenti delle preesistenze naturali o essere legati allo sviluppo della città, dove accanto ai fattori naturali si determinano fattori di natura sociale, economica e culturale. L’origine della forma della città, come luogo del vivere, è in realtà molto antica: quando l’uomo diventa stanziale crea i primi insediamenti stabili e li concepisce secondo un piano dove indica la collocazione delle abitazioni, definisce la gradualità degli elementi organizzativi degli spazi, individua, razionalizzando funzioni e gerarchie, gli spazi comuni dove si organizza la vita della comunità. Gli scavi archeologici hanno individuato le tracce delle palificate su cui sorgevano le capanne primitive: è spesso ricorrente la loro distribuzione su un impianto circolare, al cui interno è riconoscibile lo spa- Ancona, Piazza del Plebiscito. zio comune riservato all’intera collettività. Le città greche hanno impianti diversi in relazione alla loro specifica ubicazione ma in tutte vengono creati spazi destinati alla vita pubblica: l’acropoli, con gli spazi sacri, i templi, le vie processionali, il ginnasio, dove si coltivava lo spirito e il corpo, l’agorà, luogo di incontro e di scambio, il luogo del governo del popolo. Intorno a questi si articolava la residenza organizzata in insulae. La distribuzione degli edifici in relazione alla loro funzione contribuisce alla determinazione gli spazi. L’impianto ippodameo della città romana che ripropone per certi aspetti l’organizzazione dei castra, i quartieri militari, si sviluppa secondo assi tra loro perpendicolari: i princiLe Cento Città, n. 45 pali, cardo e decumano, al cui incrocio viene a determinarsi lo spazio del Foro, il luogo pubblico per eccellenza intorno al quale si organizzavano gli edifici pubblici contribuendo alla formazione di specifici spazi urbani. In corrispondenza degli assi minori si sviluppavano le insulae, destinate alla residenza e al commercio minore. Lungo gli assi, maggiori e minori, si sviluppavano le strade porticate, che talvolta, per le città di mare, portavano al porto, o a spazi, anch’essi luoghi di incontro ma anche di delizia e svago, come i ninfei, o il teatro. L’ubicazione prescelta per la realizzazione di nuove città, sia per i greci come per i romani era determinata da preesistenze. Una via di grande comunicazione, la confluenza di fiumi, una posizione di difesa e/o di Il territorio 11 Corridonia, Piazza Filippo Corridoni. avvistamento. Naturalmente tali preesistenze condizionavano lo sviluppo e il consolidarsi di specifiche forme urbane. Lo spazio dedicato alla vita sociale, religiosa, politica, economica delle comunità è sempre la “piazza”, che manterrà nel tempo tale funzione primaria anche quando andranno differenziandosi le specifiche funzioni. L’evoluzione nel tempo della cultura urbana ed architettonica in particolare, in rapporto a tali specifiche funzioni, continuerà a determinare le diverse configurazioni: in epoca medioevale lo spazio urbano dedicato al mercato o al palazzo pubblico viene a configurarsi come “piazza” in senso moderno, avente la funzione di luogo di incontro e di scambio fra i cittadini, ma anche di amministrazione della cosa pubblica. Nel Rinascimento la piazza, espressione e luogo del potere pubblico e religioso, diventa teatro della politica del Principe, grazie alla creazione di edifici di importante valenza architettonica. In epoca barocca si trasformano i contenuti simbolici presenti nelle epoche precedenti, e la piazza assume configurazioni più simili a scenografie teatrali mediante l’introduzione di elementi quali statue, fontane, obelischi che costituiscono elementi di polarità visiva e si rapportano con le facciate degli edifici retrostanti creando una nuova sensazione di profondità attraverso la sequenza di diversi piani prospettici. La piazza neoclassica rappresenta uno spazio urbano la cui configurazione viene determinata dallo sviluppo di architetture che ripropongono stilemi propri dell’arte classica quali porticati, propilei, statue. In questo caso la piazza perde il suo originario significato sociale per assumere un ruolo celebrativo e di rappresentanza, dove la borghesia si pone in mostra e celebra se stessa. Nei primi decenni del secolo scorso la forma delle nuove Le Cento Città, n. 45 piazze risente dei movimenti culturali del periodo (futurismo, razionalismo, metafisica), ai quali gli architetti e gli urbanisti intendono corrispondere con le loro realizzazioni. Esempi significativi sono le piazze delle città di fondazione dell’Agro Pontino, piazza Augusto Imperatore e il quartiere EUR a Roma; nelle Marche l’esempio più rispondente è quello della piazza Filippo Corridoni a Corridonia. Gli strumenti guida per la realizzazione dell’impianto delle città sono stati prevalentemente gli statuti comunali per le città medioevali, mentre per le città rinascimentali è stato determinante il disegno ispirato dalla volontà del principe che intendeva realizzare nella forma urbana e soprattutto negli spazi pubblici, come nell’architettura, gli ideali rinascimentali nei quali esso stesso si identificava. Fondamentale è stata in tal senso l’opera degli architetti trattatisti. La piazza come espressione della cosa Maria Luisa Polichetti 12 ziata, basti pensare alla piazza rinascimentale antistante il Palazzo Ducale e alla piazza neoclassica antistante il collegio Raffaello a Urbino, o alla piazza medioevale di Sanseverino Marche, originata dalla funzione mercantile e poi divenuta piazza del potere pubblico, o alla piazza di Fermo, il cui impianto medioevale originario assume una nuova configurazione in epoca tardo- rinascimentale soprattutto mediante la creazione dei porticati e la collocazione della statua del Pontefice Sisto V che si staglia sulla facciata del palazzo pubblico. In questa sede ci limitiamo ad esporre tre esempi di impianti urbani, in particolare quelli basati sulla ortogonalità degli assi viari. Fano, Pianta storica della città, 1658. “pubblica” ovverosia, quella gestita dalla comunità per la piazza medioevale, e quella del “signore” per la piazza rinascimentale, rappresenta in forma concreta la natura del governo che la ispirata. L’epoca barocca introduce nuovi motivi: in Italia, in particolare, modifica quell’antico stretto legame tra forma di governo e configurazione degli spazi urbani che aveva prima connotato le città. In taluni casi l’effetto prospettico che vi si propone riveste un alto significato simbolico, ad esempio, a Roma, il berniniano colonnato di San Pietro che delimita la piazza sembra volere abbracciare la comunità cristiana, creando al tempo stesso una scenografia di grande magnificenza che esalta il fuoco visivo ed emblematico rappresentato dalla cupola michelangiolesca; le due fontane poste all’interno della piazza, segnando i centri dell’ellisse, contribuiscono ad una potenziamento dell’impatto percettivo. Per altri versi la piazza del Papa di Ancona può considerarsi significativa in relazione alla ricerca di effetti scenografici potenti, rappresentati dal suo particolare andamento lon- gitudinale in salita che va a concludersi, verso l’alto, con il complesso architettonico costituito dalla scalinata e dalla chiesa di San Domenico, davanti ai quali la statua del Pontefice Clemente XII sembra quasi volere rappresentare, sia sotto il profilo simbolico, sia sotto il profilo figurativo, l’elemento di mediazione fra uno spazio dedicato alla collettività urbana e lo spazio sacro soprastante. La casistica delle piazze nelle Marche è assai vasta e differen- Fano, Piazza XX Settembre. Le Cento Città, n. 45 Fano – La città, creata sulla sponda dell’Adriatico centrale, rappresenta lo sbocco al mare dell’antica via Flaminia. Il tessuto urbano di impianto romano è racchiuso da una cinta muraria con andamento quadrangolare segnato da torri circolari, successivamente inglobata nell’ampliamento malatestiano che conserva l’arco di Augusto come ingresso trionfale alla città. Malgrado le successive trasformazioni ed ampliamenti il primitivo impianto ippodameo è ancora leggibile, infatti le Il territorio trasformazioni successive non hanno introdotto modifiche sostanziali. In prossimità dell’incrocio tra il cardo e il decumano maggiore si sviluppava il Foro. Le insulae, fin dall’origine destinate alla residenza e a piccole botteghe, si sono successivamente allungate in corrispondenza del Duomo e di alcuni palazzi rinascimentali davanti ai quali si sono aperti spazi urbani privi di una specifica configurazione architettonica. Quella che possiamo identificare come la vera piazza principale della città è tuttora quella dell’antico Foro che ha mantenuto la sua connotazione originaria di luogo deputato allo svolgimento della vita cittadina, ed in esso si collocano in epoca medioevale la Corte Malatestiana e il Palazzo del Podestà, il quale, non a caso, quando cessa la sua originaria funzione di governo diventa il Teatro cittadino continuando così a svolgere la funzione di luogo pubblico e di incontro. 13 Ascoli Piceno, veduta zenitale della città. Ascoli – Il tessuto urbano della città di Ascoli conserva tuttora testimonianze evidenti dell’originario impianto romano. La città che sorge alla confluenza dei fiumi Tronto e Castellano si sviluppa lungo assi viari tra loro ortogonali che delimitano la dimensione delle insulae. L’ossatura principale Ascoli Piceno, Piazza del Popolo. Palazzo dei Capitani e porticati. Le Cento Città, n. 45 dell’impianto urbano è costituita dal cardo e dal decumano maggiore, al cui incrocio fu creato il Foro, luogo dove si amministrava la cosa pubblica: tale funzione, che permane dall’epoca medioevale a tutt’oggi, è confermata dalla realizzazione fra i secoli XIII e XIV del Palazzo dei Capitani. A tale Maria Luisa Polichetti funzione si aggiunse, sempre in epoca medioevale, quella di luogo del mercato e degli incontri e non a caso in essa si venne ad attestare nel XIII secolo l’insediamento dell’Ordine dei Francescani costituito dalla chiesa, dal convento e da un chiostro dove ancora hanno luogo le funzioni mercantili. La piazza del Popolo, che costituisce il luogo di incontro privilegiato da parte della collettività ascolana, presenta due lati porticati, con arcate ad interasse variabile, costruiti in base a specifiche norme contenute nei medioevali statuti comunali che imponevano ai proprietari delle insulae, il cui lato minore si attestava sulla piazza, di costruire in corrispondenza della loro proprietà un elemento del portico. La funzione urbana originaria della piazza è oggi rafforzata dalla presenza si strutture destinate al commercio e allo svago. La città di Ascoli tuttavia presenta un sistema di piazze collegate fra loro, oltre che dal sistema viario, da una correlazione di funzioni: infatti in prossimità della piazza del Popolo, che presenta una configurazione architettonica complessa e di alto valore, sorge piazza Arringo, in posizione decentrata rispetto al luogo dell’antico Foro, ubicata in corrispondenza di uno degli assi viari romani maggiori, sorta originariamente in funzione del potere religioso. In essa il potere religioso si fonde con quello civile grazie alla presenza del Duomo e dell’antico Battistero, accanto ai quali in epoca medioevale sorse il Palazzo Comunale nato dall’unione di due edifici precedenti, e trasformato in maniera significativa dal Giosafatti nel XVI sec. L’uso attuale delle due piazze ha contribuito a marcarne in maniera più precisa la configurazione urbana in rapporto alla funzione: piazza Arringo si presenta sostanzialmente come un luogo di passaggio, quasi fosse un ampliamento dell’originario asse viario, con conseguenze sull’uso e le attività che 14 Ascoli Piceno, Piazza Arringo. Cattedrale e Battistero. in essa si svolgono. La piazza del Popolo è il luogo, per antonomasia, del ritrovo, dell’incontro, del passeggio e delle manifestazioni. Servigliano – Servigliano è una città anch’essa di fondazione, realizzata nel XVIII secolo, che ripropone nel suo impianto, secondo la cultura del periodo, quegli elementi di classicità ripresi dall’antichità romana. Fu creata per volere del pontefice Clemente XIV, il quale con proprio chirografo nel 1772, accogliendo le richieste degli abitanti del vecchio abitato che era andato in rovina a causa di frane e smottamenti del terreno, ne stabilì la nuova fondazione definendone modalità e tempi. Nell’ambito del vasto programma di opere pubbliche varato dal Governo Pontificio nel secolo XVIII, per favorire un nuovo sviluppo dello Stato dopo la decadenza che aveva caratterizzato il secolo precedente, la ricostruzione della nuova città, che non a caso prese il nome di Castel Clementino in onore del Pontefice, veniva a rappresentare un’ottima occasione per contribuire alla ripre- Servigliano, veduta assonometrica della città. Le Cento Città, n. 45 Il territorio 15 Servigliano, la piazza. sa economica, in particolare nel settore agricolo, che incominciava a manifestarsi nelle zone dei territori maceratesi grazie allo sviluppo della mezzadria. Fu incaricato del progetto Virginio Bracci, accademico di San Luca, il quale, effettuata un’accurata indagine sullo stato di consistenza dell’antico paese, giunse alla conclusione che l’ipotesi migliore per corrispondere alle richieste dei cittadini era quella di delocalizzare completamente la città più a valle e in un luogo pianeggiante. L’architetto, nel delineare la pianta della nuova città, ripropone gli schemi mutuati dall’urbanistica dell’antichità classica, distaccandosi sostanzialmente dai principi elaborati dai trattatisti del ‘400 e ‘500 per le città di nuovo impianto, basati essenzialmente su criteri di ordine, razionalità e gerarchia di funzioni. L’impianto a maglia ortogonale genera la formazione di insulae destinate alla residenza, differenziate secondo diversi livelli di classi sociali, e di uno spazio su cui si attestano la chiesa e il palazzo comunale, edifici non dotati di particolare evidenze architettoniche. La città viene cinta di mura che hanno essenzialmente una funzione di delimitazione e di differenziazione dell’impianto urbano dalla campagna circostante; su di esse si aprono le porte di accesso alla città che segnano l’inizio degli assi viari che confluiscono verso la chiesa, vero fulcro del sistema, e verso la piazza, luogo di incontro per la comunità, legata funzionalmente e visivamente alla chiesa. La compattezza del tessuto urbano è la caratteristica principale delle città di antica fondazione, intorno alle quali si sono andate via via sviluppando, a partire dal secolo scorso, Le Cento Città, n. 45 disordinate periferie urbane che tuttavia, in qualche maniera, hanno mantenuto un legame con il centro antico, soprattutto in funzione di strutture viarie, quali circonvallazioni, assi di penetrazione, insediamenti con funzioni specifiche. Ora assistiamo alla fine della città compatta con esplosione di nuovi insediamenti diffusi in forma spontanea che vanno ad occupare grandi estensioni di territorio: il cosiddetto “sprawl” che comunque riesce ad assumere una sua specifica configurazione di tipo polimorfico, ma non prevede la creazione di spazi che siano configurabili come la piazza tradizionale, bensì spazi dedicati a funzioni di servizio privi di una identità morfologica. Gli spazi sono correlati agli edifici che vi si affacciano (parcheggi, zone di verde urbano); la loro configurazione è determinata dalla capacità comunicativa delle architetture di cui sono funzione, dalla fantasia negli arredi urbani, dai sistemi di illuminazione. Siamo lontani dal concetto novecentesco di pianificazione definita in forma progettuale in cui tutto veniva predefinito secondo una logica razionale, ora si va verso una nuova “urbanistica”, fatta di confronti fra pubblico e privato, fra soggetti di natura diversa, e originata dalla interconnessione di esigenze contingenti che, pur nascendo dall’interno delle comunità, diventano oggetto di confronto e scambio fra le autorità responsabili e i cittadini, dove tuttavia spesso l’interesse del privato finisce per prevalere sul vero interesse pubblico. 16 Le Cento Città, n. 45 La letteratura 17 La poesia di Alvaro Valentini tra lirismo e impegno sociale di Alfredo Luzi Alvaro Valentini (Fermo 1924 – 1991) è stato allievo di Ungaretti nell’Università La Sapienza di Roma. E’ stato docente nelle scuole secondarie di Fermo. E’ stato professore associato di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata, molto amato dagli studenti e apprezzato dai colleghi. Ma tutti sanno che Valentini è stato anche poeta. In lui la poesia è, foscolianamente, ribellione dai vincoli del tempo e dello spazio, scoperta del senso ultimo della storia dell’uomo. L’indagine sulla realtà acquista il valore di un tragitto compiuto in luoghi inospitali, tra una folla di fantasmi sconosciuti, fino a quando non giunga lo scatto della memoria a collegare gli opposti poli esistenziali dell’alfa e dell’omega e a definirli. Così anche Una storia d’amore (Bucciarelli, Ancona, 1966) è narrata teneramente e impietosamente, seguendo il filo temporale della vicenda, dalla scoperta dell’ “altra”, momento di ritorno alla vita, fino al trionfo di una solitudine più disperata e forse inalienabile. Tra marzo e settembre (con uno scambio simbolico tra natura e sentimento: marzo – amore – felicità // settembre – autunno – tristezza) l’incidere dei giorni, l’alternarsi dei mesi, con luci ed emozioni diverse, scandiscono il ritmo dell’incontro sentimentale, dal suo accendersi alle sue ceneri. E intanto il discorso amoroso è tramato fitto sul rapporto analogico fra mondo visibile e stato psicologico (“… Questo seme di marzo, nella zolla / si sveglia, schianta e già prorompe in fiore. // Questo vento di marzo che t’incolla / la veste addosso, fa scoppiare il cuore…”), talvolta fino al limite della identificazione metaforica (“Sei primavera … O sei l’estate … O se l’autunno…. E sei l’inverno…”), quando il paesaggio si anima e si interiorizza per e attorno la presenza d’amore (“Non lasciarmi: di te tutto mi resta / chiuso dentro la tua presenza breve. / Un’orma sulla neve, una crisalide / che muore, se si desta…”). Questa apparizione, montaliana cellula di miele, ricostituendo miracolosamente il rapporto interpersonale, salva il poeta dalla emarginazione sociale e mette luce in un paesaggio sfuocato, fatto di nebbie, parvenze irreali, oggetti della consuetudine. La solitudine e l’ombra torneranno solo nel momento in cui, consunto dal tempo, l’amore si farà ricordo e, perdendo la sua carica di tensione verso l’altro, muterà in residuo d’esperienza tutta individuale. Il cerchio si è chiuso, ognuno dei protagonisti rimane invischiato nella inesausta ricerca del proprio io: “Per rimanere simili a se stessi gli uomini custodiscono il passato”. Nella specularità del sentimento s’insinua l’ombra della delusione, tanto più amara quanto più dolci sono state le illusioni, fino al presagio di morte (“Raccolgo in questo aereo tempo i tuoi gesti più lievi / per legarli alla fuga dei miei gesti di allora. / Ma è inutile. Io m’avvinghio a me stesso. Tu ancora, / effimera ed eterna, non esistevi…”). E in Notizie del figlio (Bucciarelli, Ancona, 1964) è il costante riferimento alla morte, dichiarato o inespresso, accettato o temuto, ad offrire alla poesia, costruita su di un iniziale approccio descrittivo ai dati della natura enunciati ed enumerati con secchezza Le Cento Città, n. 45 ed umiltà, un tono drammatico elevatissimo. Ancora una volta Valentini perviene ad un’idea di poesia sociale fondendo il suo destino privato di orfano che conosce l’angoscia di congiungersi al padre per dare un senso alla vita (“… Certo è più facile / scrollarsi giù dai vertici della speranza, che esistere / senza i morti. E s’impiega più a morire che a vivere” – Prima poesia a mio padre) con il dramma collettivo vissuto dai contemporanei e, in particolare, dai conterranei negli anni della seconda guerra mondiale, quando il colloquio con la morte, anziché essere esorcizzato dalle parole, era reso terribile dal crepitare del mitra e dai rabbiosi ordini militari, spietatamente eseguiti. Tutti gli eventi di allora bruciano ancora nel sangue e nel cervello di una intera generazione, il cui simbolo è la follia di Eatherly, il pilota di Hiroshima, reso pazzo perché non può dimenticare (“Ma posso io ignorare / Hiroscima, i suoi fiori alle finestre, / le lanterne, le stuoie colorate / ed i bambini? / Sono solo” – Il pilota Eatherly). In un succedersi di atmosfere che ricordano Montale, per il gioco tra l’attesa e il tempo, bruciato nella consumazione dell’esistere, e Lucrezio, per il mito della Natura-Madre che Alfredo Luzi 18 La tua storia finisce quella sera che sostammo al crocicchio luminoso. Oggi che sei lontana, mi dispera il tuo sorriso docile e pensieroso! Disserrando un rammarico più sordo m’inseguono rimpianti meditati. Ma se raccolgo i tuoi gesti esiliati quanta vita mi costa ogni ricordo. Fu l’addio. Quel commiato esitò come nebbia sui riflessi. (Per rimanere simili a se stessi gli uomini custodiscono il passato). Da Una storia d’amore Il pilota Eatherly «Non importa chi va, purché uno vada ad Hiroscima!». Ma posso io ignorare Hiroscima, i suoi fiori alle finestre, le lanterne, le stuoie colorate ed i bambini? Sono solo. Io braccato. Internato. Vigilato. Mi dicono: «Hiroscima è lontanissima, non è qui, non temere. E prova a credere che al tuo posto poteva starci un altro … Ma quell’altro dirà che ha avuto l’ordine a cui obbedire: lui ha obbedito. Il fatto non lo riguarda. E’ un capo che decide!» Quindi né tu, né tu, né tu sapete niente. Quindi non toccano i rimorsi né a voi né a me; ma al capo, al capo … E il capo dirà che lui non è nessuno, è solo la somma di noi tutti. Ed io vi chiedo: «Anche tu mi hai mandato ad Hiroscima?» Sì, ho compreso. «Era un atto indispensabile», mi ripetete. Allora mi hai mandato anche tu a Hiroscima? governa l’immobilità del mutamento (“Nel buio ove fermenta la pietra e si fa molle / il frutto e nel suo sonno l’animale si culla, / ignari semi corrono le vene delle zolle / e tutto si matura nell’apparente nulla” – Paesaggio), Valentini si salva dall’elegia individuale attraverso una coralità sociale che fa da controcanto alla voce del poeta, peraltro mai isolato e sempre interprete di una psicologia di gruppo (penso alla Ballata delle bare, a Coro dei morti, al Coro dei muratori, La morte di un bambino). Sembra addirittura Ma voi dite che di questo non vale più discutere… E di che vuoi discutere? di vita e di morte, di amore e di rancore, di guerra e pace. Non c’è altro. Io sono Eatherly perché sento dentro l’ossa quel fuoco, ho nelle palpebre quel lampo. E perché sono solo. Se quel lancio fosse ancora da compiere, oseresti dirmi «va!» o «non andare!»? Ma la voce del capo giù per fili oscuri scende da un microfono a noi; dice che occorre colpire alberi cielo acque germogli, mutare il sangue in fuoco, il pane in zolfo, cancellare un paese … Voi tremate, voi che non siete gli angeli insultati a Sodoma e Gomorra, voi sperate che sopra me ricada la missione. C’è qualcuno che mi dica «non andare!»? Qualcuno, almeno che al ritorno chieda perdono a me che vengo da Hiroscima col suo teschio negli occhi, con la luce che strugge la meteora d’Hiroscima? Maledetto il sereno. Il capo non mi conosce. O non vuole. Ed io chi sono? che nell’alternarsi delle compresenze il poeta realizzi un suo bisogno di spazialità e dinamica teatrale entro cui si muovono i personaggi storici o mitici, assunti da Valentini a interpreti dell’umana avventura. Ad esempio tutte le figure dei Carmina docta in Notizie del figlio (Eva, Niobe, Apollo, Orfeo) hanno in comune la disperazione per la vita e il lamento per la perdita, una nostalgia dell’irrealizzato che non s’acqueta con il canto, come per il figlio del muratore non basta ricostruire la cronaca per dimenticare. Ma, Le Cento Città, n. 45 Da Una storia d’amore almeno per l’uomo, resta lo svincolo dalla caducità del reale quotidiano con il recupero del senso religioso (la comunione di vivi e morti) dell’esistenza: (“Non c’è metro di terra dove non sia sepolto / un morto nuovo o antico. Essi lastricano il mondo. / E come non c’è albero che non abbia radici, / non c’è uomo che non cammini sulle ossa dei predecessori. // Il rispetto e il ricordo, il timore e la consuetudine / c’intralciano i passi o ci segnano la strada. / Così, quando la vita non potrà più contenere la morte / fini- La letteratura 19 Seconda poesia a mio padre Signore, non ho detto: Devi risuscitare mio padre. L’hai fermato sui trent’anni di ferro. E’ quasi mia coetanea quella sua tomba a sterro e un simile miracolo io non posso implorare. Ma se ancora dovessi vivere da invecchiare per ritrovarlo, dopo, all’ombra del tuo trono, come potrei chinare, Signore amato e buono, la mia canizie al giovane che mi sta ad aspettare? Mi rivedrò nel volto di lui, che in ogni tratto dicono tutti, tutti ch’era identico al mio, il giovane di un tempo che, attonito, mio Dio! muove incontro a se stesso già cadente e disfatto. Forse, per il mio logoro aspetto di vegliardo, il giovane devoto mi bacerà le mani; e, come per apprendere, ai segni ignoti e strani delle profonde rughe intenderà lo sguardo. Non proverò mai, dunque, lo stupore sognato di sentirmi guidare, di gustare l’abbraccio protettore, sospendermi al bronzo del suo braccio chiamandolo col nome così a lungo negato? Dei nuovi giorni, ognuno mi toglie la speranza che si annulli il presagio, tarlo che mi divora. ranno ambedue per coincidere. Amen”). C’è un componimento tratto da Perlocuzioni, Edizioni della Cometa, Roma 1983, che considero l’autoritratto più fedele, più ironico e più amaro che Alvaro abbia potuto dipinge- A superare il limite basta soltanto un’ora e poi sarò inghiottito da un’altra lontananza. Il cammino che resta, varcato ormai quel ciglio, più solo che in passato mi toccherà compire. Padre, nel mio indurito cuore so che vuol dire prepararmi ad amarti, come amerei mio figlio… Da Notizie del figlio Alibi La mia più forte tentazione è questa: scendere nel corso affollato per potermi vedere alla finestra. Ma la mia faccia in finestra non c’è più. E’ inutile ch’io guardi in su, per starci dovrei essere rientrato… Il rompicapo è vecchio, la soluzione ho tentato: sul muro di fronte ho applicato, al posto giusto, uno specchio, così se mi affaccio mi vedo nella via dirimpetto. Fuori di casa mi credo ed in casa mi aspetto. re, usando con perizia somma quella materia incandescente formata dalle parole che compongono una poesia. Si intitola Alibi: in esso s’adombra il gioco del qui e altrove, della colpa e dell’innocenza, della soggettività e dell’alterità, Le Cento Città, n. 45 Da Perlocuzioni della delega e della responsabilità. Nell’aiutarci a dipanare l’intreccio contraddittorio dell’esistenza del nostro io per gli altri e negli altri Alvaro ci è stato davvero maestro. La rassegna 20 La Popsophia e la nottola di Minerva La seconda edizione del festival del contemporaneo di Lucrezia Ercoli “La filosofia – ammonisce Hegel – arriva sempre troppo tardi.” È la nottola di Minerva. Inizia il suo volo sul far del crepuscolo, appare dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione. Il presuntuoso proposito della Popsophia è ribaltare questa lapidaria asserzione. La fortunata formula hegeliana, distorta nei suoi originali presupposti, è alla base del pregiudizio che grava sulla filosofia. Siamo abituati a pensare che il filosofo e i suoi sofismi entrino in scena quando le cose sono ormai bell’e fatte. Le sentenze della filosofia sarebbero, cioè, nient’altro che complicati ragionamenti utili a riflettere sui massimi sistemi del passato, ma profondamente inadatti ad affrontare i problemi e le esigenze della vita presente. Un ragionamento riassunto bene dall’antica massima primum vivere deinde philosophari. Oggi, con questo pregiudizio, apriamo il Simposio di Platone o la Metafisica di Aristotele. Ca- polavori del pensiero che ci parlano di un mondo che è stato. Non solo. I pochi che riescono a decifrare le verità rivelate sono destinati, come eremiti del pensiero, a vivere nascosti, lontani dalla realtà quotidiana. Un pregiudizio, letteralmente un “giudizio che viene prima”, che precede l’incontro con il reale e anticipa la prova dei fatti, non è necessariamente negativo in sé. I pregiudizi sono indispensabili per ogni comprensione. Sono la nostra bussola: derivano dalle nostre esperienze personali, raccolgono la tradizione culturale in cui ci siamo formati, orientano le nostre scelte e ne anticipano le conseguenze. Senza pregiudizi non si aprirebbe nemmeno un orizzonte di senso in cui sia necessario leggere un libro di filosofia. Di conseguenza, non è possibile (e nemmeno auspicabile!) cancellare tutti i pregiudizi per arrivare a una primigenia tabula rasa, al grado zero di ogni esperienza filosofica. La filosofia è anche la storia della filosofia che, Giulio Giorello e Lucrezia Ercoli. Le Cento Città, n. 45 per lungo tempo, si è svolta nelle aule universitarie, lontana dal brusio sviante del mondo. Attenzione, però! Come per tutte le medicine, ci sono le controindicazioni. I pregiudizi, cioè, sono necessari, ma possono diventare pericolosi. Proprio come i farmaci, che hanno un duplice effetto, sono un rimedio e, insieme, un potenziale veleno. I pregiudizi crescono uno sopra l’altro. All’inizio sono una lente di ingrandimento che facilita la lettura; alla fine diventano una patina deformante che impedisce l’atto stesso del vedere. Questa filosofia crepuscolare si è allontanata dal reale fino a diventarne la parodia accademica. Una “filastrocca di opinioni” lontana dalla sua origine autentica. Incapace non soltanto di cogliere lo stupore e l’orrore (il thauma di cui parla Aristotele) che caratterizza l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla realtà, ma perfino di confrontarsi fruttuosamente, come pretendeva Hegel, con il suo immediato passato. La rassegna 21 Piazza di Civitanova Marche. Che fare? – si sarebbe chiesto qualcuno più attento alla praxis che alla theoria. Se i pregiudizi diventano una prigione che ci rende recettori passivi, come liberarsene? Di certo non basta la consapevolezza della malattia. Bisogna trovare un rimedio alternativo che ci liberi dagli effetti collaterali della cura precedente. Soltanto a questo punto possiamo introdurre il termine intorno al quale ci stiamo implicitamente interrogando: “Popsophia”. Questo strano neologismo è il pharmakon, l’antidoto contro l’avvelenamento della filosofia che abbiamo appena descritto. Certo, è anch’esso un medicinale, ha molte controindicazioni e avvertenze, ma è utile e necessario per debellare (almeno temporaneamente) questa odiosa malattia. La Popsophia è in grado, cioè, di rompere il paradigma, di rovesciare la forma mentis che ci tiene chiusi in una gabbia culturale asfittica. Ma che cosa significa Popsophia? Letteralmente, è un ossimoro. L’ossimoro è una figura retorica che accosta termini opposti; in greco vuol dire “acuto ottuso”, “furbo stupido” o, se ci concediamo una traduzione libera, “acuta follia”. La pop-filosofia, quindi, è un’acuta follia, l’accostamento di due parole che il pregiudizio ha mantenuto separate. Un’unione spregiudicata che produ- ce una novità, una tensione. Ed è in questo scontro/incontro che si rompe la consuetudine e si rovescia il paradigma. La relazione illecita tra il pop e la filosofia rimette in discussione le definizioni, costringe il pregiudizio a sporcarsi con la realtà. La Popsophia è una calamita gettata in un recipiente pieno di aghi di ferro: nascono configurazioni insospettate e stimolanti. Inizia così un viaggio rischioso tra le meraviglie e i pericoli della contemporaneità. Il percorso è tutt’altro che lineare, è ricco di insidie, anche per il timoniere più esperto. Ma il filosofo che non ha paura della contemporaneità si espone, esce in mare aperto e tenta l’impresa con le solide armi del pensiero. Se la vecchia filosofia non ha più le bussole che orientavano il suo viaggio nel passato, deve creare nuovi strumenti adatti per navigare in mare aperto. A Civitanova Marche nel 2011 è nato il primo festival del contemporaneo interamente dedicato alla Popsophia. E quest’anno, con la seconda edizione prevista per luglio e agosto, continuerà a farsi sostenitore di questa rivoluzione copernicana. Nelle piazze, nei chiostri e nei teatri della cittadina marchigiana il pop racconta la filosofia. La moda, la pubblicità, il cinema, i telefilm, i fumetti, la musica, il calcio hanno la stessa dignità dei classici del pensiero. I pregiudiLe Cento Città, n. 45 zi accademici li descrivono come manifestazioni banali e superficiali, immeritevoli di attenzione. Al contrario, sono il veicolo delle domande e dei problemi che da sempre inquietano l’uomo. Popsophia discerne, in mezzo alle infinite sollecitazioni del presente, le esperienze autentiche che attraversano, non viste, la nostra vita quotidiana. Interroga la contemporaneità e, se necessario, scava nella memoria catodica che costituisce l’odierno immaginario mitopoietico. La filosofia accademica, se vuole entrare in quest’arena, è costretta a trasformarsi. Deve uscire dalle aule universitarie e confrontarsi con il grande pubblico. Tornare a discutere nell’agorà, riscoprire il dialogo con le urgenze del contemporaneo. Non può più sottrarsi alle domande scottanti della normalità. Con Popsophia, il pregiudizio dal quale siamo partiti risulta irrimediabilmente sconfitto. Lungi dal rimanere una forma astratta di sapere che si accapiglia sulle ceneri del reale, la popfilosofia è un esercizio d’intelligenza critica che richiede emulazione. Stimola la discussione e scuote le acque paludose del dibattito culturale. È questa la terapia che ci insegna a vigilare sul senso comune, a verificare la consistenza delle nostre convinzioni, a lottare contro la resistenza rocciosa dell’ovvio e dell’abituale. Musica 22 Un convegno e un concerto per Bruno Mugellini Potenza Picena ricorda il musicista nel centenario della morte di Paolo Peretti Chiunque abbia studiato il pianoforte – anche solo per diletto – non può non essersi imbattuto nel nome di Bruno Mugellini, autore di centinaia di revisioni di opere per tastiera di compositori classici (Bach, Mozart, Clementi, Czerny ed altri) divenute veri e propri capisaldi della letteratura pianistica, nonché di metodi ed esercizi tecnici per lo strumento. Pochi però sanno che egli deve ascriversi alle glorie musicali marchigiane, perché nacque a Potenza Picena il 24 dicembre 1871 e, più tardi, ebbe gli affetti famigliari a Fossombrone: qui riposano le sue spoglie, dopo l’improvvisa e prematura scomparsa avvenuta a Bologna, città eletta a dimora dal musicista per i suoi impegni professionali ed artistici, il 15 gennaio 1912. A un anno dalla morte, Fossombrone volle ricordare l’illustre concittadino adottivo dedicandogli memorabili manifestazioni nel locale teatro “Petrucci” il 16 marzo 1913: lo scoprimento di una lapide, un discorso commemorativo e, soprattutto, un applauditissimo concerto sinfonico-vocale di musiche mugelliniane, sotto la bacchetta dell’allora direttore del Liceo Musicale “Rossini” di Pesaro, il noto compositore Amilcare Zanella, alla testa di un’orchestra di settanta elementi. Anche il Liceo musicale di Bologna, dove Mugellini aveva dapprima compiuto gli studi e successivamente insegnato pianoforte, istituì sin dal 1913 in sua memoria il “Premio Mugellini”, una borsa in denaro assegnata negli anni successivi ad alunni delle classi di pianoforte particolarmente meritevoli ma privi di mezzi. Neppure Potenza Picena dimenticò il musicista a cui aveva dato i natali, intitolandogli il teatro condominiale, che, dal 28 ottobre 1933, porta ancora il suo nome. Tuttavia, nella seconda metà del Novecento, la memoria di Mugellini è venuta fatalmente a scemare, rimanendo legata solo alla sfera didattica; ma questo aspetto, per quanto importante, non renderebbe giustizia a un poliedrico musicista, che fu anche concertista di fama internazionale, animatore della vita musicale italiana e compositore di originali opere, non solo per pianoforte. Per riappropriarsi ‘a tutto tondo’ della figura di Mugellini, in occasione del primo centenario della sua morte, il comune di Potenza Picena ha pensato Bruno Mugellini in una fotografia d’epoca (proprietà bene di organiz- Rosa Mugellini, Roma). zare un convegno nazionale di studi che si è svolto nel locale teatro to a studiare il pianoforte sin “Mugellini” il 21 gennaio 2012, dall’età di sette anni e, appena seguìto da un concerto di musi- undicenne, si era esibito per la che di e sul celebrato. Di queste prima volta in pubblico; avrebiniziative si rende qui conto, be poi completato i suoi studi premettendo qualche necessa- nel Liceo musicale “Rossini” di ria notizia su Bruno Mugellini, Bologna, conseguendo in pochi così da riproporre all’atten- anni il diploma di pianoforte zione del più vasto pubblico (1891) nella classe di Gustavo un importante musicista trop- Tofano e quello di composizione po presto - e ingiustamente - (1892) con Alessandro Busi. Ma a Bologna, l’incontro più signidimenticato. Bruno Mugellini nacque a ficativo fu con il pianista, diretPotenza Picena dove il padre tore d’orchestra e compositore di lui, Pio, proveniente da una napoletano Giuseppe Martucci, famiglia di origini toscane, era allora direttore dell’istituto, stato chiamato nel 1870 a eser- uno dei fautori della rinascita citare la “condotta chirurgica”, della musica strumentale italiarimanendovi per quattro anni. na nell’ultimo Ottocento. Dopo Ulteriori trasferimenti legati il diploma, Mugellini fu chiaall’esercizio della professione mato a insegnare pianoforte a medica del capofamiglia por- Bologna; qui stabilì la sua resitarono finalmente i Mugellini, denza, divenendo anche diretdopo varie tappe intermedie, a tore incaricato del Liceo musiFossombrone nel 1884. Il pic- cale nell’ultimo anno della sua colo Bruno aveva comincia- vita. Nel 1900 aveva sposato a Le Cento Città, n. 45 Musica Fossombrone Rosina Ceppetelli, di famiglia benestante del luogo, dalla quale ebbe due gemelli: Catullo e Mario (il nome del primo si ricollega all’omonima opera lirica cui in quegli anni Mugellini lavorava). La morte prematura di Rosina, avvenuta l’8 aprile 1904, lasciò nella prostrazione il giovane musicista, per di più con due bambini da accudire. Forse per questo, nel 1907, sposò in seconde nozze la cognata Pasqualina (detta Lina) Ceppetelli: da lei, due anni dopo, gli nacque Carlo. Nessuno dei tre figli, rimasti presto orfani di padre, intraprese la carriera musicale. Al di là delle vicende familiari, la vita professionale di Bruno si divideva tra l’attività didattica svolta a Bologna e quella concertistica, che invece lo portava a girare l’Italia e le maggiori capitali europee (Londra, Parigi, Berlino, ecc.); nel 1909, addirittura, fece una tournée in tre stati dell’America del Sud. Nei suoi concerti, si produceva ora da solo al pianoforte ora in una formazione da lui stesso creata, il “Quintetto Mugellini” (violinisti Mario Corti e Giuseppe Fantuzzi, viola Ottorino Respighi, violoncello Antonio Certani). Qui non si possono ripercorrere le tappe di quella che fu una mobilissima e brillante attività concertistica internazionale; basti dire che le sue esibizioni riscuotevano ovunque consensi di critica e di pubblico. Come compositore Mugellini ha lasciato musica sinfonica e da camera. Alcune romanze giovanili per voce e piano, una decina di pezzi caratteristici per pianoforte solo (tra cui “Impressioni” Op. 5, quattro bozzetti poi trascritti anche per orchestra), una sonata per violoncello e piano, un Quintetto per pianoforte e archi (pare abbia scritto anche un Quartetto). Per grande orchestra, compose “Idillio” e “Preludio” quand’era ancora studente a Bologna, e il più noto poema sinfonico “Alle fonti del Clitumno” Op. 2, ispirato all’omonima “Ode barbara” del Carducci, che fu premiato in un paio di concorsi a Bruxelles 23 e a Milano (eseguito alla Scala nel 1895); orchestrò anche uno “Scherzo” per pianoforte di Stefano Golinelli, che in tal veste fu diretto da Toscanini a Bologna nel 1905. Si cimentò con la musica sacra nel “Prologo e Salmo” per baritono coro e orchestra, e con l’opera lirica, musicando il libretto di Carlo Zangarini “Catullo”, ispirato alla vicenda del grande poeta latino; ma sembra che il melodramma, a noi pervenuto nel solo testo poetico, non sia mai andato in scena (pure incompiuta restò l’opera “Berthalda”, di cui un duetto fu eseguito, nell’orchestrazione di Zanella, nel concerto forsempronese del 1913). Sull’imponente fronte delle revisioni pianistiche, Mugellini collaborò con il più noto Ferruccio Busoni alla pubblicazione delle principali opere per tastiera di J. S. Bach per la casa editrice Breitkopf & Haertel di Lipsia. L’elenco di tali pubblicazioni, curate anche per altri editori (Ricordi, Carisch, ecc.), in cui egli non si limitò alle sole indicazioni tecniche illustrando anche analiticamente – cosa mai avvenuta prima – i singoli brani, sarebbe lunghissimo: decine e decine di volumi che furono ben presto adottati nei conservatori di tutto il mondo. Poco prima della morte, diede alle stampe quello che egli stesso chiamò il suo “testamento pianistico”, ovvero il grande “Metodo d’esercizi tecnici” in otto volumi, che accompagna lo studente dai princìpi più elementari ai vertici della tecnica pianistica. Il convegno nazionale di studi su Bruno Mugellini, che si è tenuto a Potenza Picena (teatro “Mugellini”) sabato 21 gennaio 2012, si è articolato in due sessioni. In quella del mattino, dopo il saluto del sindaco Sergio Paolucci e dell’assessore alla cultura Andrea Bovari, hanno preso il via i lavori, introdotti e moderati da Alessandra Gattari, coordinatrice del convegno. Ha svolto la prima relazione (“La società potentina negli anni della dimora dei Mugellini nel comune”) Roberto Domenichini dell’Archivio di stato di Ancona, Le Cento Città, n. 45 che, basandosi su dati sociostatistici desunti da fonti archivistiche, ha offerto un vivido quadro della situazione socioeconomica della Potenza Picena postunitaria. È stata poi la volta di Paolo Peretti (Conservatorio “Pergolesi” di Fermo): nel suo contributo “Per una biografia di Bruno Mugellini”, ha puntualizzato situazioni bio-bibliografiche ancora aperte e comunicato recentissime acquisizioni, tra cui l’individuazione di un fondo musicale in gran parte autografo e inedito di composizioni mugelliniane presso la Biblioteca “Passionei” di Fossombrone. L’ultimo intervento della mattinata è stato di Danilo Tarquini, direttore della Corale potentina “S. Stefano”, che è entrato nel vivo della musica, presentando con l’ausilio di esempi musicali una sua singolare proposta di rivisitazione in chiave moderna di una melodia mugelliniana: “La musica in prestito: Mugellini in un’ipotesi jazz”. I lavori sono poi ripresi nel primo pomeriggio con la relazione di Carlo Lo Presti, del Conservatorio “Verdi” di Milano, che ha parlato di “Bruno Mugellini e il suo tempo”, delineando efficacemente il panorama storico-musicale in cui s’inquadra l’esperienza artistica di Mugellini nell’Italia musicale tra Otto e Novecento. Antonio Caroccia, dell’Università di Perugia, trattando “La formazione artistica di Bruno Mugellini”, ha offerto precisi riferimenti alle più significative presenze nella Bologna musicale in cui si formò il giovane Mugellini, a partire dalla personalità del compositore Giuseppe Martucci, all’epoca direttore del Liceo musicale bolognese, e di altri insegnanti dell’istituzione. Nella sua relazione “Metodo di esercizi tecnici: istruzioni per l’uso”, Antonio Tarallo (Conservatorio “Bonporti” di Riva del Garda) ha affrontato l’arduo discorso dell’innovativa tecnica pianistica mugelliniana, aiutandosi con la proiezione di molti esempi musicali e illustrando discorsivamente la complessa materia. Angela Annese, del Conservatorio “Piccinni” di Bari, ha svolto il Paolo Peretti 24 Un momento del convegno di studi del 21 gennaio 2012 (teatro “Mugellini”, Potenza Picena); da sin.: Ciarlantini, Caroccia, Lo Presti, Tarallo, Annese, Peretti. tema “Per pianoforte. Bruno Mugellini, revisore, trascrittore, compositore”, concentrandosi soprattutto sull’ultimo aspetto, quello cioè del Mugellini compositore di pagine pianistiche, alcune delle quali ha esemplificato ella stessa al pianoforte. A chiusura degli interventi, Paola Ciarlantini (Conservatorio “Piccinni” di Bari) ha parlato de “La produzione orchestrale e cameristica di Bruno Mugellini”, commentando un primo complessivo catalogo ragionato delle composizioni mugelliniane e scegliendo una finora sconosciuta Sonata per violino e pianoforte per illustrare, attraverso opportuni esempi musicali, la tecnica compositiva di Mugellini. Tra il pubblico che ha seguito con attenzione il convegno (in mattina c’erano anche alcune scolaresche), è stata particolarmente significativa la presenza di discendenti del musicista: la nipote del compositore Rosa Mugellini con il figlio Bruno Re, docente di viola da gamba al Conservatorio “S. Cecilia” di Roma, e la pronipote Laura Mugellini, accompagnata dal marito. A degna conclusione dell’intensa giornata, la sera in teatro, si è tenuto il concerto “La musica ritrovata”, in cui sono state eseguite sia musiche pianistiche di Mugellini (“Quattro Impressioni”, “Sognando”, “Intermezzo”: al pianoforte Danilo Tarquini), sia, in prima esecuzione assoluta, tre brani d’autore composti per l’occasione e ispirati a temi musicali mugelliniani: due di Tarquini, “Laon Nice Music”, eseguito dall’autore al pianoforte, e “Su questa altura” (versi di Norberto Mancini) per coro misto, cantato dalla Corale potentina diretta dallo stesso Tarquini; il terzo di Paola Ciarlantini: “Dammi mille baci”, una Valse chantée per soprano e pianoforte (interpretato da Alessandra Gattari e Antonio Tarallo), sul celeberrimo testo catulliano nell’adattamento italiano di Zangarini (dal libretto del “Catullo” ricordato sopra). Il concerto ha riscosso l’entusiastico apprezzamento del pubblico che gremiva il bel teatro storico. Senza dubbio il profilo scientifico del convegno, di cui si attende ora la pubblicazione degli atti, è stato alto. Le varie relazioni hanno consentito di fare il punto sullo stato attuale delle conoscenze e degli studi su Mugellini (in verità finora alquanto trascurati), e nel contempo hanno offerto ai potenLe Cento Città, n. 45 ziali interessati dati di prima mano di notevole importanza, prospettando nuovi scenari per ulteriori auspicabili indagini. Dunque, oltre ai primi innegabili risultati concreti già ottenuti sul piano strettamente storico-musicologico, questo convegno, lungi dall’essere un mero momento celebrativo, ha posto invece una solida base metodologica da cui rilanciare per l’immediato futuro le ricerche mugelliniane. Bisogna infatti dire che anche il comune di Fossombrone, rappresentato dall’assessore alla cultura Paride Prussiani, da Antonella Cesarini, direttrice della Biblioteca “Passionei”, e dallo storico forsempronese Renzo Savelli, presenti al convegno, ha intenzione di raccogliere il testimone potentino organizzando a sua volta a Fossombrone, nella seconda parte dell’anno, alcune manifestazioni ancora allo studio su Mugellini. Così il 2012, proficuamente inaugurato a Potenza Picena in gennaio, potrà divenire – a buon diritto – un vero e proprio “anno mugelliniano”. E si spera anche di poter coinvolgere la “dotta” Bologna, particolarmente legata alla storia e alla memoria di Bruno Mugellini: hoc est in votis. La presentazione 25 L’Angelus Novus vola su Macerata di Francesco Adornato La Biblioteca Statale di Macerata in collaborazione con il Comune di Macerata ha organizzato la presentazione del libro di Renato Pasqualetti: “La clessidra del tempo fermo”, edito da Affinità elettive. “La clessidra del tempo fermo” tratta di un delitto irrisolto. Un mistero indecifrabile. È lo scontroso e antiseduttivo avvocato Luciani a condurre la sua personale e meticolosa indagine, che si sviluppa nel cuore delle Marche. Il libro contiene non solo l’inchiesta, ma anche e soprattutto i conflitti di una generazione investita dalle trasformazioni economiche e sociali della provincia di Macerata destinate ad alterare in modo brutale i riti e i ritmi di una comunità normalmente ritenuta mite e pacificata. Un giallo ricco di suspense, un romanzo inaspettato e inquietante sul nuovo volto antropologico delle Marche. Pubblichiamo l’intervento che per quella occasione ha scritto il prof. Francesco Adornato, Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Macerata. A dire il vero la sintetica nota di Valentina Conti nella quarta pagina di copertina riassume con tocco felice tanto il contenuto, che il senso del libro. Tutte le domande e le risposte sono lì. Fortunatamente io non devo parlare della componente “gialla” del libro, ma, parafrasando Sciascia, del suo “contesto”. La clessidra del tempo fermo, infatti, si rivela non solo e non tanto una matrioska di indizi quanto anche un caleidoscopio di situazioni, che si srotolano all’interno di un percorso evolutivo del territorio maceratese attraversandone l’economia, la società, la cultura, i modi ed i caratteri individuali e collettivi. Lo sfondo, il “contesto”, è dato dal paesaggio fisico e da quello antropico e, rispetto ad esso, il thriller va letto in filigra- na, in controluce. Da questo controcampo emerge un quadro inimmaginato ed inimmaginabile rispetto alle apparenze, alle quotidiane pratiche del territorio e dei suoi abitanti. Riguardo al paesaggio fisico, va ricordato come i visitatori che hanno viaggiato appositamente nelle Marche (penso in particolare ad Alvaro e Piovene, ma il discorso sarebbe più lungo) ne abbiano sottolineato i profili più luminosi, più rilassanti, più esteriori (la laboriosità), pur non trascurando quelli interiori (la sobrietà, ad esempio). Nel libro, pur sottolineandosi come il legame con il paesaggio, l’impegno nel lavoro, l’attaccamento alla terra costituiscano il tratto distintivo delle Marche, si va oltre. Intanto, si sente innanzitutto la fisicità del lavoro, la sua gravitas, che deforma i corpi, torcendoli come tronchi di ulivo e forgia l’asprezza e la durezza dei caratteri. La furbizia dei mezzadri, da un lato e l’acidità padronale, dall’altro, “codificano” certo i comportamenti di classe, ma rappresentano anche tratti esemplificativi della più generale natura dei singoli. Sembra di trovarsi in un quadro di Hieronymus Bosch o di stare in un mondo di personaggi ritratti da Van Gogh del periodo olandese. La durezza originaria di quella società rurale si manifestava, peraltro, già nelle pratiche dei ragazzi, la cui cattiveria era sostenuta dagli stessi adulti nella cattura degli uccelli, poi rivenduti ai cacciatori come richiamo nelle battute di caccia. È un paesaggio, come sottolineava Remo Pagnanelli in un suo saggio su Leopardi e la recente poesia marchigiana, che condiziona chi vi abita e ne forma i tratti. Paesaggio che oggi subisce le mutazioni indotte da quelle stesse trasformazioni che gli uomini hanno messo in atto: Le Cento Città, n. 45 se i mezzadri hanno costruito il paesaggio, i loro figli, trasformatisi nella prima generazione di industriali, hanno contribuito a guastarlo, a devastarlo. Lavoro, fabbrica, casa, paesaggio costituiscono un movimento circolare di persone e cose che attraversa visivamente il territorio e che il libro registra come un sismografo. Ma la vicenda generazionale non si ferma ai padri e ai figli. La terza generazione ha già l’età per essere classe dirigente, eppure presenta tratti di discontinuità tanto esplicita, quanto preoccupante. Il giovane Bravi e il giovane Testa, ognuno distintamente, l’uno figlio dell’industriale e l’altro di un “fedele” alla causa della lotta di classe, contestano i padri in modo duro, aspro, definendoli bulimici, nonostante il loro passato giovanile “rivoluzionario”. Amara constatazione, ma veritiera. Nelle loro riflessioni destra e sinistra non hanno senso, contenuto. Si disarticolano. Da qui lo sgomento per il futuro. A proposito di generazioni, il libro racconta, in particolare, la storia di una generazione – non solo maceratese – che la politica ha diviso in nome di ideologismi, allora assunti a valore, e che oggi fa i conti con se stessa, con il fallimento delle ideologie, a partire da quelle sul cui altare avevano sacrificato sentimenti, amicizia, rapporti familiari. Non si tratta di una narrazione nostalgica, ma attraversata dalla nostalgia, e mi sia consentito rinviare, per percepirne la differenza, ad una lontana autobiografia di Simone Signoret, “La nostalgia non è più quella di un tempo”. Non a caso mi sembra che la “colonna sonora” del libro possa essere individuata in una risalente canzone di Paul Simon, Old Friends, eseguita con Art Garfunkel: “… Long ago / It must be / I have a photo- Francesco Adornato graph / Preserve your memories / They’re all that’s left you …”. L’avv. Luciani e l’industriale Bravi esemplificano i due poli contrapposti e divisi dal percorso asimmetrico di politica ed economia che il territorio maceratese ha conosciuto e dall’evoluzione della società verso un atteso benessere. Luciani è umano, troppo umano per essere vero, per poter fare parte del nuovo paesaggio antropico marchigiano. Esprime un altro timbro sonoro: è seduttivo nella sua scontrosità, nell’amore per il cibo, rimanda a valori e modi di un tempo. E’, insomma, il falsetto rispetto al contesto. Sesto Bravi, invece, prima generazione a lasciare la campagna, sembra essere l’esemplificazione dei tratti cittadini e del territorio più in generale: sostanzialmente un cinico, anzi soprattutto un superficiale. Generoso e simpatico con chi gli andava a genio sì, ma anche convinto che nessuno credesse a niente e lui non credeva a nessuno. Con il passaggio generazionale la brutalità dell’incultura sembra avere sopravanzato nel tempo l’armonia estetica, così come la corsa all’arricchimento rapido sembra aver annientato il gusto del bello. La naturalezza del cinismo e il candore della brutalità sono quasi diventati modi espressivi comuni, diffusi; condivisi al punto tale da affondare la tensione conoscitiva dei sentimenti in un indistinto gorgo. La stessa sessualità, che si manifesta nel libro in relazioni le più diverse, per età e per classe sociale (e descritta con leggerezza e con riferimento più che ai gesti, alle motivazioni, alle sue ragioni), viene vissuta esclusivamente in sé medesima, come dato doveroso e meccanico, priva di affettività. Consumata come merce che si usa, si scambia, si cede, si negozia, in una logica post-moderna. Il consumo sembra essere l’elemento unificante che ha sostituito il lavoro, il paesaggio, l’armonia. Di qui la domanda: Macerata è forse entrata, senza 26 che ce ne accorgessimo, in una fase post-moderna? O, almeno, ne è entrata un’avanguardia che ci strappa ogni giorno un pezzo di carne senza farci sentire il dolore e ci trascina verso l’assuefazione? Si spiegherebbero così comportamenti esibizionistici, “esagerati”, di un impatto visivo sopra le righe, rispetto alla sobrietà tradizionale di una terra schiva e quasi incapace di mostrarsi? Da dove arrivano tutte queste automobili così eccessive e debordanti nella misura, aggressive nel design, dai colori abbaglianti e dai vetri oscurati? Ci interrogano sulla consistenza del denaro usato e sulla sua provenienza, ma nell’attraversare il centro storico in modo lento e quasi spavaldo quelle macchine sembrano inquietanti messaggeri di morte. Rallentati fotogrammi di una contemporanea Apocalypse now. Quale oscurità, quale cuore di tenebra si nascondono dietro questa vernice così abbacinante? L’apparire ed il consumare stanno tarlando questa società, da cui sembrano emergere, poco alla volta, ma sempre più serialmente, figure cialtrone, chiassose e, talvolta, naturalmente volgari. L’estraneità sembra essere il sentimento più diffuso. Tutto avviene in modo apparentemente celato, ma niente è ignoto e ignorato: realtà e paradosso, finzione e verità convivono senza avvertire contraddizione o difficoltà. L’impressione è che sotto la coltre di un ordine accettato conviva una “corda pazza” di pirandelliana memoria, i cui modi affiorano con la leggerezza della brina che penetra nelle ossa implacabilmente e senza possibilità di scampo. “Abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza”, fa dire, Pirandello, ad un personaggio, Ciampa, ne Il berretto a sonagli. “Corda pazza” esemplificata nel libro qui presentato in Federica, la quale si inventa un mondo tutto suo per poter sopravvivere e vivere in un’ordinata schizofrenia. La malattia come rassicurante Le Cento Città, n. 45 allontanamento dal mondo, se il mondo non si cura di te. Più in generale, mi sembra sia sostanzialmente riscontrabile un quadro di fondo riconducibile, nelle dovute differenze, a quello descritto mirabilmente da Rilke agli inizi del ‘900 in una lettera a Lou Salomé: “… E tutta questa gente, uomini e donne assorti in una qualche fase di passaggio, forse dalla pazzia alla guarigione o forse in transito verso la pazzia stessa; e tutti hanno in volto qualcosa di infinitamente delicato, un amore, un sapere, una gioia, come una luce che brilla, lievemente offuscata però, e un po’ inquieta, una luce che senza dubbio tornerebbe a risplendere chiara se solo qualcuno vedesse a aiutasse … Ma qui non c’è nessuno che aiuti […]”. E in questa progressiva individualizzazione dell’esistenza, in questa fragilità del vivere collettivo che Macerata sta conoscendo, la stessa dimensione della sicurezza assume profili impropriamente esasperati . Essa non è solo un problema di polizia, ma appartiene anche a noi cittadini, alla nostra dimensione sociale: se la coesione cessa, la nostra percezione dei fenomeni subisce irragionevoli rifrazioni. Il libro è pieno di richiami, intrecci, rimandi, passaggi, che imporrebbero diverse riflessioni, a partire dall’autobiografismo, individuabile in molteplici figure e riferimenti, dal calcio alla letteratura. Un verso di Omero, in particolare, ritorna a più riprese come un’eco di assenza (paterna): “divino Achille, ti rammenta il padre, il padre tuo da sua vecchiaia oppresso, quale io sono”? Un verso che riporta una suggestione cinematografica per me molto evocativa. Nel film Troy (di Wolfang Petersen, del 2004) la scena più emozionante, che riscatta l’intero film, è proprio quella in cui, di notte, Priamo entra avventurosamente nella tenda di Achille a chiedere la restituzione del corpo di suo figlio Ettore. E Peter O’ Toole, nella parte di Priamo, con i suoi occhi La presentazione acquosi, verdi come l’oceano e l’erba della sua Irlanda, mostra non solo lo strazio di un padre per il figlio morto ed oltraggiato, ma anche la fragilità umana di fronte all’oscuro disegno delle divinità. Pare a me, infine, e non a caso, che il cuore palpitante del libro risieda nel rapporto con la città di Macerata, fondato su un doppio timbro musicale: da un lato, l’insofferenza verso “l’incontrarsi sempre”, il “difficile non incontrarsi”, nel fatto che “in paese ci si conosce tutti”, ma, dall’altro, la riottosità nell’allontanarsi, come una citata poesia di Mario Luzi echeggia: “[...] passa sotto casa nostra qualche volta/ volgi un pensiero al tempo ch’eravamo tutti”. In questo senso, il libro è un gesto di amore verso la propria terra. Ma è anche un saluto ed uno sguardo sgomento verso il futuro, un gesto sospeso in aria per un tempo indefinito, come avviene per “il tuffatore” di Paestum. L’omicidio e la morte di Bravi rappresentano una metaforica rottura degli schemi antropologici abituali, macerie su cui sorvola l’ Angelus Novus del 27 quadro di Paul Klee. Un angelo, ha scritto Walter Benjamin, “sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese […]. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. Ecco, a me pare che Macerata stia attraversando, nonostante un’alacrità primaverile, un passaggio delicato della sua storia, in bilico tra smarrimento e bisogno di orizzonte. Si muove con passo esitante e gesti incerti dentro un moto ondoso che avvolge vecchio e nuovo, senza separarli del tutto e con ciò ri- Le Cento Città, n. 45 schia di affondare in una palude chiamata destino, ma che essa stessa contribuisce a costruire. Il “noir”, dunque, non è il racconto, non è nel racconto, ma è Macerata, sta in Macerata. E’ quel drappo invisibile che avvolge la vita ed oscura l’anima di molti suoi abitanti, facendoli smarrire, talvolta, anche da se stessi. In conclusione non posso non fare un’ammissione e non chiedere, al tempo stesso, una comprensione. Probabilmente avrò capito poco del “giallo”, ma spero di averne capito il contesto. E spero, soprattutto, di avervene parlato con la grazia che si deve quando si è ospiti o con la leggerezza di chi involontariamente infligge una ferita inaspettata. Macerata rappresenta per me un laboratorio dove costruire nuove dimensioni dello stare insieme. Un luogo fondamentale ed emblematico di quello che potrà avvenire nel futuro cammino della condizione umana. Macerata è oggi un grande respiro palpitante, con le sue fragilità, le sue ansie, le sue speranze. Ricordo 29 Don Cesare Recanatini, una vita per la chiesa e la cultura di Mario Canti Il 14 aprile si è spento don Cesare Recanatini, un uomo di cui vogliamo ricordare anche noi le eccezionali qualità umane, la capacità di offrire amicizia e comprensione, la bonomia con la quale riusciva ad esprimersi anche nei momenti di maggiore tensione, l’interesse che sempre manifestava per le persona ed i pensieri di quanti incontrava, qualità che a maggior ragione sicuramente esprimeva anche nella sua attività pastorale che non tocca a noi ricordare, In questa sede vogliamo porre in evidenza la sua lunga e feconda opera di operatore culturale svolta in qualità di responsabile dei beni culturali della Diocesi di Ancona nel corso della quale ha costantemente agito per la conservazione del patrimonio culturale ecclesiastico che a suo avviso costituiva testimonianza del mutare delle espressioni culturali nel tempo, ma anche e soprattutto come espressione della vitalità e continuità della comunità ecclesiale di Ancona e della sua Diocesi. Il suo interesse si è rivolto a tutte le testimonianze della cultura religiosa che nel tempo si erano venute a depositare sul territorio della Diocesi: documenti archivistici e librari, opere d’arte, strumenti musicali ed architetture, molte volte poste in pericolo dall’incuria e da eventi bellici o calamitosi quali i terremoti del 1972 e del 1997 per il cui recupero Don Recanatini si prodigò con grande impegno e generosità. Ricordare tutta la sua opera Le Cento Città, n. 45 di conservatore attento e appassionato è per noi impossibile vogliamo però citare alcune realizzazioni che riteniamo esemplari della sua cultura, della sua tenacia, delle sue capacità operative. Il restauro degli arazzi del Duomo di Ancona; per recuperare queste preziosissime opere di manifattura fiamminga realizzate su disegno di Rubens don Cesare non solo si impegnò a trovare le non esigue risorse finanziarie necessarie, ma finì con il creare nell’ambito dei locali della Cattedrale stessa una sorta di laboratorio di restauro specializzato che consentì nel contempo il recupero delle opere e la formazione di operatori altamente specializzati. Mario Canti 30 Fig. 1 - Reliquario di Santo Stefano, Museo Diocesano, Ancona. Fig. 2 - Lunetta del portale della chieda di San Pietro, Museo Diocesano, Ancona. 3 - L’istituzione della eucarestia, arazzo di manifattura fiamminga su disegno di Rubens, Museo Diocesano, Ancona. 1 2 Le Cento Città, n. 45 Ricordo 31 3 Le Cento Città, n. 45 Libri ed eventi 32 di Alberto Pellegrino LIBRI Un saggio sulla Fuga in Egitto Fileni (Jesi), Fortunato Frontoni (Montappone), Amedeo Gubinelli (San Severino Marche), Marino Scalabroni (Porto Recanati), Duilio Scandali (Ancona), Giovanni Tonucci (Fano). I Templari a San Ginesio Lo studioso falconarese Manlio Baleani ha condotto una interessante ricerca sul tema della Fuga in Egitto. Il racconto di Matteo in quaranta idiomi parlati in Italia (Controvento Editrice, Loreto, 2001). L’episodio della fuga in Egitto è raccontato soltanto nel Vangelo di Matteo e in due Vangeli apocrifi, quello Armeno dell’infanzia e Pseudo Matteo, ma fin dal Medioevo la pittura è stata affascinata da questa “avventura”, per cui Baleani, oltre ha raccogliere le principali testimonianze pittoriche, ha avvertito l’opportunità di riunire i testi poetici che gli autori dialettali italiani hanno dedicato a questo avvenimento dalla metà dell’Ottocento fino ai nostri giorni, dal Nord Italia fino alla Sicilia. E’ nata in questo modo una mappa poetica molto particolare e interessante, che vede naturalmente la presenza di diversi poeti marchigiani: Pietro Angelucci (Cupramontana), Rolanda Brugiarelli (Senigallia), Antonio De Angelis (Ripatransone), Giordano De Angelis (Macerata), Maurizio Lo studioso ginesino Giovanni Cardarelli ha condotto una serie di approfondite ricerche e ha raccolto un’interessante documentazione iconografica nel volume Il mistero dei Templari a San Ginesio, partendo dalla convinzione che bisognava dare “la parola alle pietre”, perché in esse era possibile rinvenire le inconfutabili tracce di una presenza ginesina di questo particolare ordine cavalleresco. Di fronte al silenzio delle fonti storiche Cardarelli ha sentito la necessità di approfondire le conoscenze generali sulla storia dei Templari, confrontandosi con precedenti ricerche che segnalavano la presenza templare in tutta la Marca centrale, dalla costa fino agli Appennini, nell’Ascolano e lungo la Via Francigena lungo la quale i Templari avevano assunto la missione di proteggere la vita e i beni dei pellegrini. La seconda parte dello studio, che rappresenta certamente l’apporto più originale, riguarda l’analisi dettagliata degli ornamenti dei Le Cento Città, n. 45 capitelli della Pieve Collegiata di San Ginesio, che costituiscono nel loro insieme un “archivio iconografico” che nessuno aveva fino ad oggi analizzato in modo così dettagliato. Ecco allora che sulle colonne è possibile rinvenire una estesa simbologia templare costituita dalle seguenti sculture: la mandorla e il verme, il fiore della vita o esapetalo, le croci templari di diversa foggia, le pigne, le sfere, la rosa, la palma, l’uccello che becca il pesce, il serpente, La Croce del Tau e le conchiglie, l’uccello rapace, il giglio, l’aquila con il forziere, il leone con il forziere, alcuni simboli sessuali. Tutte queste immagini vengono dettagliatamente analizzate e riportate alla classica iconografia templare, a cui si aggiungono i segni templari nel centro storico ginesino, per cui si comincia a intravvedere lo scioglimento di alcuni “misteri” della Collegiata e si può avanzare l’idea che la città di San Ginesio possa essere stata una eminente sede templare, ipotesi che andrà ulteriormente approfondita e vagliata anche alla luce di ulteriori scoperte documentarie. La storia del Teatro di Treia Lo storico locale Gabriele Cameranesi ha pubblicato il volume Il Teatro di Treia e il suo Alberto Pellegrino archivio, colmando una lacuna esistente negli studi dei teatri marchigiani e aggiungendo nuove e preziose informazioni sulla progettazione e la costruzione dell’edificio, grazie alla consultazione del Carteggio Fabiano Valenti, esistente presso l’Archivio storico dell’Accademia Georgica di Treia. Nel 1715 le autorità comunali decidono di costruire una struttura teatrale in legno nella Sala Maggiore del Municipio, alla quale accedevano i ceti più elevati della città. A causa della fatiscenza della costruzione lignea, nel 1794 viene costituita una Congregazione teatrale per la costrizione di un teatro in pietra su progetto dell’architetto treiese Carlo Rusca, i lavori di costruzione procedono con alterne fortune dal 1801 al 1817, quando vengono completati i lavori in muratura, mentre la facciata viene completata nel 1821, anno in cui si tenne la prima rappresentazione pubblica, anche se non era stata completata la decorazione interna. Nel 1820 lo scenografo maceratese Scipione Mattei esegue cinque scenari, nel 1828 il pittore Francesco Falconi dipinge il plafone e la decorazione dei palchi e il treiese Pacifico Lausdei la doratura delle paraste e il completamento, nel 1865, della decorazione del soffitto. Intanto alcune sostanziali modifiche architettoniche erano state apportate da due illustri architetti. Nel 1801 viene affidata a Giuseppe Lucatelli la revisione del progetto Rusca; ad Ireneo Aleandri nel 1862 viene dato l’incarico dell’ampliamento dell’impianto con la realizzazione dei palchi di proscenio, l’allargamento del boccascena e l’aggiunta del quanto ordine come loggione aperto. Infine nel 1865 il pittore romano Silverio Copparoni, allievo del Podesti, realizza il sipario storico, nel quale viene riprodotto il quadro di Tommaso Minardi Corrado d’Antiochia all’assedio di Montecchio. Mentre non si conosce lo spettacolo d’inaugurazione, vengono riportate le rappresentazioni a partire dal 34 1844, gli statuti e regolamento dal 1822 al 1950, una documentazione fotografica sulle stagioni di prosa allestite dopo il restauro e la riapertura del teatro nel 2002. La storia di un medico partigiano La Riserva naturale regionale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito e l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Hanno pubblicato il volume Mosè Di Segni medico partigiano. Memorie di un protagonista della Guerra di Liberazione (1943-1944) a cura Luca Maria Cristini, colmando una lacuna storica per quanto riguarda il movimento di liberazione nelle Marche. Mosè Di Segni (1903-1969) nasce a Roma da una famiglia ebrea, si laurea in medicina e si specializza in pediatria a Firenze dove conosce la futura moglie Pina Pascali Roth. Inizia a lavorare presso l’ospedale “Lazzaro Spellanzani” di Roma, ma nel 1936 viene inviato in Spagna come tenente medico della CRI e vi rimane fino al 1938, quando per le leggi razziali fasciste viene espulso dal corpo sanitario militare e dal posto di lavoro. Nel 1943 la famiglia Di Segni fugge da Roma e si rifugia a San Severino Marche, presso l’amico farmacista Giulio Strampelli nella frazione di Serripola. Quando nella città nasce il movimento partigiano Di Segni si arruola nel Battaglione Mario e ne diventa il responsabile del serLe Cento Città, n. 45 vizio sanitario agli ordini del comandante Mario Depangher. Oltre a svolgere la sua funzione di medico presso la popolazione civile, Di Segni partecipa anche ai vari combattimenti, meritando la medaglia d’argento al valor militare. Quindi ritorna a Roma riprendendo la sua professione di pediatra. Il volume è importante perché oltre a tracciare la biografia di Di Segni, attribuisce a lui, in base all’originale manoscritto, la stesura del memoriale di guerra del Battaglione finora attribuita a Depangher. L’opera si arricchisce anche per le testimonianze dei figli: Frida Di Segni Russi, personaggio molto noto in Ancona; Elio Di Segni, medico e docente presso l’Università di Tel Aviv; Riccardo Di Segni, medico e rabbino della Comunità ebraica di Roma. Un contributo alla conoscenza del teatro del secondo Novecento a Macerata E’ uscito per le Edizioni Ephemeria il volumetto L’atleta del cuore. Contributi di ricerca nel teatro del secondo Novecento, curato da Allì Caracciolo e dedicato alla memoria dello scenografo e costumista maceratese Maurizio Agasucci, artista dotato di grande sensibilità e gusto estetico di cui si sono occupati Enrico Pulsoni, Matteo Cioci, Aida Ginaldi Giachini, Rubina Giorgi e Maria Novella Gobbi. L’opera contiene inoltre i contributi sulla teoria dell’attore di Pierfrancesco Giannageli, alcune riflessioni sul teatro della storica e regista Allì Caracciolo, una riflessione del rapporto tra canzone popolare e spettacolo dell’etnomusicologo Gastone Pietrucci. Uno studio di Marco Severini sul Risorgimento Marco Severini, che insegna Storia della storiografia nell’Università di Macerata e presiede l’Associazione di Storia Contemporanea, ha pubblicato diversi studi sul Risorgimento ed esce ora presso l’editore Liberlibri con il volume Piccolo, profondo Risorgimento, nel Libri ed eventi 35 Lorenzo in Campo, il pesarese Terenzio Mamiani, Filippo Ugolini di Urbania e il poeta Luigi Mercantini. Un saggio sulla letteratura dell’emigrazione quale si traccia il profilo di figure spesso ignorate dai libri di storia e che hanno invece avuto un ruolo non secondario nella formazione della nostra nazione. Dopo un approfondimento sul pensiero mazziniano nello scritto L’etica del dovere, il primo personaggio è il lombardo Antonio Bellati che partecipa alla Cinque Giornate per poi rifugiarsi in Piemonte e diventare un collaboratore di Cavour. Andrea Ferrari nel febbraio 1849, con l’apertura dell’Assemblea Costituente, scopre con i suoi 79 anni di essere il decano di quel parlamento. Faustina Bracci, moglie del triumviro repubblicano Carlo Armellini, è stata una delle protagoniste del movimento risorgimentale romano tra rivoluzioni, restaurazione fino alla liberazione di Roma. Il funzionario sabaudo Lorenzo Valerio è personaggio per noi particolarmente noto per essere stato il Commissario regio dopo l’annessione delle Marche al Regno sabaudo. Alle soglie della nostra regione, nella fortezza di Civitella del Tronto, si consuma l’ultima resistenza del regno borbonico con una lunga serie di scontri che si concludono con la conquista e la semidistruzione del forte da parte dell’esercito piemontese. Altri personaggi presi in esame sono Cristina Trivulzio di Belgioioso e alcuni protagonisti marchigiani del Risorgimento come Lorenzo Bettini di San L’Università di Macerata ha pubblicato il volume Scrittura, migrazione, identità in Italia: voci a confronto a cura di Michela Meschini e Carla Carotenuto, in cui sono contenuti gli atti della Tavola Rotonda tenutasi a Macerata del 2007. Alfredo Luzi introduce il tema della letteratura italiana d’immigrazione prodotta da quei connazionali costretti ad emigrare in Europa, Australia e nelle Americhe; Michela Meschini traccia un rapido profilo storico sulla migrazione italiana, mentre Carla Carotenuto introduce motivazioni e contenuti del convegno di studi maceratese. Con Armando Gnisci si entra nel vivo del problema in quanto analizza la nuova letteratura del mediterraneo, mentre Carla Capesciotti studia le difficoltà che si incontrano nello scrivere in una lingua diversa dalla lingua nativa. Particolarmente interessanti sono i contributi di Rona Kibati sul problema dell’identità e di Ribka Sibhatu che mette in evidenza le contraddizioni della cultura occidentale divisa tra eurocentrismo e globalizzazione; infine Salh Methani prende in esame l’itinerario esistenziale dell’immigrato diviso tra speranze e delusioni. L’ultima parte del volume è dedicata al poeta albanese Gezim Hajdari con uno scritto dell’autore sul rapporto tra poesia ed etica, seguono i contributi critici di Massimo Fabrizi e Andrea Gazzoni ed infine una breve antologia poetica dell’autore. Uno studioso marchigiano e la storia della fotografia in Cina Marco Meccarelli è un giovane studioso marchigiano della storia dell’arte e della lingua cinese che ha pubblicato un’opera intitolata Storia della fotografia in Cina. Le opere di artisti cinesi e occidentali (Novalogos Editrice, Aprilia, 2001), nella Le Cento Città, n. 45 quale viene analizzato a fondo un settore finora quasi inesplorato della cultura cinese. Si parte dall’arrivo della fotografia in Cina attraverso alcuni fotografi occidentali, per poi analizzare il rapporto tra fotografia e pittura. La fotografia cinese inizia quindi un suo percorso con Zou Boqi (1837-1901), che scrive il primo manuale tecnico Meraviglie della fotografia; il più celebre fotografo di paesaggi è Lai Afong (attivo tra il 1859 e il 1900) legato alla scuola pittorialista; Liang Shitai e Kung Tai sono invece due autori di ritratti che hanno operato sempre nella seconda metà dell’Ottocento. Nel Novecento si sviluppa il discorso sul linguaggio e la tecnica della fotografia come arte autonoma e in questo campo è fondamentale il contributo dato da Liu Bannong (18911934) che non solo è stato un raffinato fotografo, ma anche un fondamentale teorizzatore con l’opera Discorsi sulla fotografia (1927), nella quale la fotografia cinese è messa a confronto con i parametri estetici della fotografia occidentale. Il vero padre della fotografia deve essere però considerato Long Chin-san (1892-1995), che ha fondato insieme ad altri artisti l’Associazione di fotografi cinesi ed è stato il “divulgatore” della fotografia in tutta la Cina. Contemporaneamente nasce e si sviluppa con l’avvento della Repubblica Popolare Cinese, la fotografia etnografica che ha una rilevante importanza dato che in Cina sono stati censiti 56 gruppi etnici e in questo campo il più grande fotografo antropologo è stato Zhuang Xueben (1909-1984). Negli anni Trenta nasce anche la fotografia di guerra che ha il suo maggiore rappresentante nel fotografo Sha Fei (1912-1950). Con l’ascesa al potere di Mao e del Partito comunista si sviluppa la fotografia di propaganda che si caratterizza per uno spiccato culto della personalità e per un forte simbolismo ideologico; in questo genere si affermano Weng Naiqiang (1932) e Hou Bo, fotografa personale di Mao. Alberto Pellegrino Un fotografo importante è stato Fu Bingchang, uno dei creatori del mito iconografico prima di Chiang Kai-Shek e poi di Mao; diplomatico di professione, egli ha soggiornato a lungo in Occidente, gettando un ponte tra la cultura fotografica cinese e quella europea. A partire dagli anni Settanta la fotografia diventa più libera e creativa, per cui i nuovi autori si occupano di ogni genere fotografico con la raffinata eleganza del mondo culturale cinese. Nella seconda parte del volume la storica dell’arte Antonella Flammini ha analizzato la presenza e gli influssi della fotografia occidentale in Cina con particolare riferimento ad autori particolarmente importanti come Felice Beato, William Sauders, John Thompson, William Armstrong, Fosco Maraini e Henri Cartier-Bresson. L’omaggio della Città di San Ginesio a Febo Allevi Per onorare la memoria dello scrittore e storico Febo Allevi il comune di San Ginesio ha pubblicato il volume Letteratura e Storia (Greco Editore, Napoli), in cui sono raccolti alcuni degli studi più importanti di questo autorevole intellettuale marchigiano che ha spaziato nel corso della sua esistenza in vari campi della cultura. Il volume in questione riflette appunto l’ampio spettro di interessi di Allevi, in quanto si apre con i suoi contributi su gli Actus Beati Francisci et sociorum eius, il Ritmo laurenziano e la Canzone 36 del Castra; segue un saggio sul rapporto tra S. Pier Damiani e la Divina Commedia. Particolarmente interessanti sono i saggi che analizzano il rapporto tra il Medioevo e la nostra cultura contemporanea: il Medioevo foscoliano, gli influssi della civiltà medioevale sulla poesia di Arturo Graf, il peso del Medioevo nell’opera di Guido Vitaletti e nei romanzi di Umberto Eco. Altrettanto importanti sono i due saggi sul rapporto tra letteratura e teologia e sulla crisi religiosa del nostro tempo così come viene analizzata dalla letteratura contemporanea. Vilnius rende omaggio al drammaturgo Virgilio Puccitelli Il Museo Nazionale del palazzo dei granduchi di Lituania ha pubblicato un bellissimo volume in lingua italiana, inglese e lituana, intitolato L’opera nel Palazzo dei Granduchi di Lituania (Vilnius, 2010), in cui si rende omaggio al drammaturgo Virgilio Puccitelli (San Severino Marche 1599-1654), considerato il fondatore del teatro lirico nella capitale granducale lituana. Nella prima parte dell’opera è presa in esame la nascita e lo sviluppo del dramma per musica barocco in Italia e in Lituania; quindi viene analizzata l’opera drammaturgica di Virgilio Puccitelli, anche sulla base degli studi condotti in Italia da Alberto Pellegrino; gli altri due personaggi presi in considerazione sono l’architetto-scenografo Agostino Locci, progettista insieme a Puccitelli del teatro granducale di Vilnius, e il compositore Marco Scacchi che si ritiene sia stato l’autore di quasi tutte le musiche dei drammi di Puccitelli. Questi artisti sono stati gli autori del dramma per musica Il ratto di Elena con il quale si è inaugurato il teatro granducale nel 1636. La seconda parte del volume offre un’importante contributo alla conoscenza del drammaturgo sanseverinate con la pubblicazione anastatica dei tre libretti stampati a Vilnius: Il Ratto di Elena, L’Andromaca, Circe delusa. Puccitelli arriva a Varsavia nel 1628 e vi rimane fino al 1648, presso la corte di Ladislao IV con l’incarico di poeta di corte e direttore del Teatro Reale, progettato con Locci nel 1637. Puccitelli, che è considerato il fondatore del teatro polacco moderno, ha scritto nove drammi per musica e tre libretti per balletto, che sono stati accuratamente analizzati da Alberto Pellegrino nel saggio Virgilio Puccitelli e il dramma per musica (Centro Studi Storici Maceratesi, n. 45, Macerata, 2011, pp. 683-774), nel quale la figura di questo poeta viene inquadrata nella storia del melodramma italiano ed europeo, assegnandoli la collocazione che merita nel panorama del teatro barocco. Farmaci e Farmacie Nella collana di Scienze umane della Facoltà di Medicina e Le Cento Città, n. 45 Libri ed eventi Chirurgia, curata da Giovanni Danieli, è uscito in questi giorni il decimo volume dedicato a Farmaci e Farmacie, industrie farmaceutiche e farmacie di tradizione delle Marche. Mediante ricerche di archivio ed interviste con testimoni dell’epoca, sono state ricostruite le tappe fondamentali, dalle origini sino all’attuale espansione internazionale, della ditta nata come Angelini - Ferranti, oggi Angelini, dopo la preferenza del dottor Ferranti per la distribuzione dei farmaci, divenuta marchio mondiale dell’industria farmaceutica. La ricerca è stata condotta da Stefania Fortuna, professore di Storia della Medicina nell’Università Politecnica delle Marche, mentre il Dottor Walter Scotucci, pediatra firmano nonché storico della medicina e dell’arte, ha ricostruito le vicende della ditta Russi, nata nella seconda metà dell’ottocento, tra le prime industrie italiane e che ha conosciuto enormi notorietà ed espansione nel periodo tra le due grandi guerre. Tra le farmacie di tradizione illustrate, la Farmacia dell’Ospedale Santa Croce di Fano (autore Marco Belogi), la Farmacia Giuseppucci di Fabriano (Francesca Nucera), la Filipponi di Macerata (Luciano Capodaglio e Alessia Filipponi); da Maria Luisa Polichetti è stata infine descritta la collezione di vasi di farmacia presente nel Museo di Loreto. Importanti contributi alla storia della farmacia sono stati forniti da Walter Grassi (Antichi rimedi della gotta), Alberto Pellegrino (Farmacia e medicina nel teatro), Italo D’Angelo (Giacinto Cestoni, uno speziale molto “speciale”) e da Pasquale D’Avella (Farmacie e Risorgimento). La realizzazione del volume rientra nell’impegno di valorizzare le radici della scienza medica nella nostra regione, portato avanti dalla Facoltà di Medicina. EVENTI Le Nozze di Figaro alle Muse Una sola opera è andata in 37 scena quest’anno al Teatro delle Muse per la Stagione lirica di Ancona. Con scelta intelligente è stata completata la trilogia mozartiana, per cui dopo Don Giovanni (2010) e Così fan tutte (2011) è stata allestita l’opera Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart con regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi. Tutti i componenti del cast hanno fornito una valida interpretazione con una particolare citazione per Carmela Remigio (Rosina) e Riccardo Novaro (Figaro). L’Orchestra Filarmonica Marchigiana è stata diretta con brio dal Maestro Guillaume Tourniaire. Pier Luigi Pizzi, alle prese con un’opera particolarmente difficile, è riuscito a conferire alle Nozze di Figaro (1786) le giuste atmosfere, i ritmi e le sensazioni proprie del dramma giocoso settecentesco, illuminato però dal genio di Mozart e dall’ingegno teatrale di Lorenzo Da Ponte, facendo rivivere la rara perfezione di questo capolavoro caratterizzato da un particolare approfondimento psicologico dei personaggi che si riflettono nello specchio di una realtà umana (non ha caso il secondo atto si svolge in un grande salone degli specchi) fatta di aspetti più o meno nobili, tanto che tutta la vicenda risulta un intreccio di finzioni e di travestimenti. Pizzi ha voluto inoltre mettere in evidenza l’erotismo che circola nell’opera e che Mozart considera una condizione patologica dell’uomo determinata dalla supremazia dei sensi sulla ragione, per cui l’amore può assumere la leggerezza di un capriccio, ma può anche incidere drammaticamente sul destino degli individui. Non è pertanto casuale che l’opera si apra con le effusioni erotiche tra Figaro e Susanna, per passare poi alle smanie puberali di Cherubino, alla matura passionalità del Conte che insegue un sogno di giovinezza, al desiderio della contessa Rosina che vuole ancora essere amata, ma teme di aver perduto il fascino della giovane età e della bellezza. La regia di Pizzi si basa su un progetto che Le Cento Città, n. 45 esalta i ritmi serrati e incalzanti, la sensualità, il gioco dei sentimenti e delle gelosie, il divertissement degli intrighi per confluire, infine, nell’ultimo atto venato da strane malinconie e da sottili ironie, dal ritorno agli amori primitivi e dalla virtù del perdono. Pizzi colloca l’azione conclusiva all’interno di un magico giardino dalle eleganti atmosfere cromatiche, dove la notte passa dal verde intenso e dall’azzurro cupo al progressivo avanzare del giallo e dell’arancio man mano che la luce del giorno sconfigge le tenebre, scioglie le magie notturne e con esse ogni intrigo, facendo sfiorire le illusioni e riportando ognuno dei personaggi alla realtà della vita quotidiana. Anniversario della nascita di Girolamo Crescentini Ricorre quest’anno il 250° anniversario della nascita di Girolamo Crescentini (Urbania 1762- Napoli 1846), che viene considerato uno dei più grandi sopranisti del Settecento e che inizia la sua carriera nel Teatri di Fano, Recanati, Senigallia e Ancona per poi raccogliere una lunga serie di successi nei teatri di Roma, Perugia, Padova, Firenze, Venezia, Torino, Milano, Modena, Napoli, Verona, Genova e Bologna; egli canta inoltre in diverse capitali euro- Alberto Pellegrino 38 Le Nozze di Figaro. I soprani Remigio, Kucerova e Belfiore. Le Nozze di Figaro. La scena del quarto atto. Le Nozze di Figaro. Il soprano Carmela Remigio. Le Cento Città, n. 45 Libri ed eventi pee fra cui Londra, Vienna, Lisbona (dove soggiorna dal 1798 al 1802) e Parigi (1809 e 1812). Crescentini è stato un acclamato interprete di opere di grandi compositori come Anfossi, Cherubini, Cimarosa, Giordaniello, Paisiello, Salieri, Sarti, Tritto, Zingarelli (soprattutto nella Giulietta e Romeo), nonché di numerosi oratori compresa La morte di Semiramide del compositore marchigiano Giovanni Battista Borghi. Crescentini non è stato un talento naturale “improvvisato”, perché deve la sua prestigiosa carriera artistica, secondo quanto è affermato dalle fonti, non solo alle spiccate qualità vocali, ma all’accurata formazione musicale e alla intelligenza di attore, doti che gli consentivano di fornire interpretazioni di rara raffinatezza e sensibilità musicale nell’arco di una carriera internazionale durata circa trent’anni. Dopo il 1814 egli passa alla direzione delle istituzioni musicali di Bologna e dal 1816 fino all’anno della morte si dedica all’attività didattica, avendo l’incarico di maestro di canto presso il Real Collegio di Napoli. Adulati, amati, applauditi in tutta l’Europa, i “castrati” sono stati un fenomeno soprattutto italiano, perché in diverse regioni i bambini più promettenti nel canto, prima di essere avviati nei conservatori, venivano sottoposti alla castrazione tra i sette e i dodici anni, su richiesta formale ed “ipocrita” dei fanciulli, ma in realtà fatta dai loro genitori che speravano di avere per i loro figli un futuro di gloria e di lauti guadagni. I centri medici specializzati erano Roma, Napoli, Milano, Venezia, Firenze e soprattutto Bologna, dove operavano chirurghi altamente spe- 39 cializzati, che riuscivano spesso ad evitare la impotentia coeundi, per cui le dame del Settecento non disdegnavano di avere come amanti questi uomini particolari dalla voce e dall’incarnato femminei. Del resto il loro successo sulle scene era determinato dall’avere una voce che era diversa da quella maschile per leggerezza e flessibilità, ma anche da quella femminile per limpidezza e potenza, costituendo un ibrido asessuato giudicato sublime e sensuale dai testimoni dell’epoca. L’impiego dei “castrati” era frequente in tutta l’Italia, ma era particolarmente diffuso negli Stati Pontifici, dove essi erano impiegati sia negli spettacoli teatrali, sia nelle corali di cappella, anche perché in questi stati vigeva la proibizione per le cantanti donne di calcare le scene introdotta da Innocenzo XI e ripresa da altri pontefici e giustiziata da un passo di S. Paolo “Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso di parlare” (Corinzi, I, XIV, 34). L’operazione della castrazione, ufficialmente condannata dalla Chiesa, ebbe una grande diffusione dagli inizi del Seicento, quando i primi sopranisti vennero ammessi nel Coro pontificio e Clemente VIII autorizzò la castrazione “unicamente” ad honorem Dei. Nel Settecento sono stati catalogati almeno quaranta grandi sopranisti, la maggioranza dei quali proveniva dagli Stati Pontifici (42%), mentre il resto proveniva dal Regno di Napoli, dalla Toscana e dalla Lombardia. Nelle Marche ci sono stati, oltre a Giuseppe Crescentini, almeno altri cinque grandi sopranisti: Giovanni Carestini (Filottrano 1705-1760); Gianbattista Man- cini (Ascoli Piceno 1714-1800); Gaspare Pacchiarotti (Fabriano 1740-1821); Venanzio Rauzzini (Camerino 1746-1810), particolarmente apprezzato da Mozart; Giovanni Battista Velluti (Pausola 1780-1861), uno degli interpreti preferiti da Rossini. Omaggio a Simone Cantarini A quattrocento anni dalla nascita di Simone Cantarini, si apriranno piccole mostre tra la fine di giugno e la metà di luglio a Fano, Pesaro, Rimini, che avranno per titolo “1612-2012 omaggio a Simone Cantarini genio ribelle”. A Fano la sede sarà San Domenico, a Pesaro i Musei Civici, così come a Rimini . L’immagine sopra riportata, raffigurante la Madonna in gloria con Santa Barbara e San Terenzio, non sarà in nessuna delle tre esposizioni, perché si trovava a Pesaro, nella chiesa di San Cassiano, ma è stata requisita dai generali napoleonici e trasferita da allora ad Aicurzio (Milano), chiesa di Sant’Andrea. La pubblicazione de Le Cento Città avviene grazie al generoso contributo di Banca dell’Adriatico, Banca Marche, Carifano, Carisap, Co.Fer.M., Fox Petroli, Gruppo Pieralisi, Santoni, TVS, Umani Ronchi Le Cento Città, n. 45 Vita dell’Associazione 40 Visite e convegni di Giovanni Danieli Jesi, 18 dicembre 2011 Assemblea dei Soci Domenica 18 dicembre, nella tradizionale e confortevole sede dell’Hotel Federico II di Iesi, si è svolta l’annuale assemblea decembrina dei Soci. In apertura il Presidente Ettore Franca ha ricordato il programma realizzato negli ultimi cinque mesi, la visita nell’alta Valle del Foglia (Carpegna e Sassocorvaro) e quella nella Valle del Cesano (Villanova di Montemaggiore, Corinaldo, San Lorenzo in Campo) nelle quali sono stati visitati due importanti stabilimenti, prototipi dell’industria marchigiana affermati nel mondo, la Carpegna Prosciutti e il Caseificio Val Metauro-Fattorie marchigiane, cui si devono due prodotti dop, rispettivamente il prosciutto di Carpegna e la casciotta di Urbino. Ha quindi presentato gli eventi previsti per il primo semestre dell’anno e che comprendono la visita alle Aziende Migliori e Meletti di Ascoli Piceno, la terza edizione di Freschi di stampa e due Convegni, Green Economy in collaborazione con la Facoltà di Economia e Santi in Medicina in collaborazione con la Facoltà di Medicina, entrambe dell’Università Politecnica delle Marche. Vi saranno due domeniche riservate rispettivamente alle visite nelle Valli del Metauro e del Chienti ed il viaggio sociale, quest’anno in Croazia. E’ stata illustrata la situazione Soci, oggi caratterizzata da 119 Soci effettivi, 14 d’Onore, 9 Sostenitori e 25 Corrispondenti, è stato presentato ed approvato all’unanimità il bilancio annuale ed è stato fatto il punto sul programma editoriale; si è infine dato corso alle elezioni per il rinnovo del Consiglio Direttivo. E’ stato eletto per acclamazione Presidente per l’anno 1° agosto 2012 - 31 luglio 2013 il Professor Giuseppe Natale Frega, che avrà come suoi collaboratori nel direttivo, Roberto D’Errico (Pesaro), Emilio D’Alessio (Ancona), Cinzia Maroni (Macerata), Cecilia Romani Adami (Fermo), Gian Luca Gregori (Ascoli Piceno). E’ stato cooptato anche Mario Arezzini per il programma di sviluppo dell’associazione nel Piceno. Il Presidente incoming ha confermato nelle cariche sociali Giovanni Danieli, Segretario generale, Anna Maria Zallocco, Tesoriere, Edoardo Danieli, Direttore responsabile della rivista, Mario Canti, Direttore editoriale; quest’ultimo ha proposto quali collaboratori nel Comitato di redazione Claudia Rondolini (Pesaro), Glauco Nori (Ancona), Maurizio Cinelli (Macerata), Ugo Gironacci (Fermo), Mario Arezzini (Ascoli Piceno). Ascoli Piceno, 29 gennaio 2012 Visita delle Aziende Migliori e Meletti e della Pinacoteca Accompagnati dal Prof. Leonardo Seghetti, grande cultore della produzione di olio e di olive ascolane e dalla Dott.ssa Simona Sestili, esperta conoscitrice di prodotti della gastronomia non solo ascolana, i Soci hanno visitato gli stabilimenti di Nazareno Migliori e di Silvio Meletti, ricevuti dai rispettivi proprietari. Nel primo Nazareno Migliori ha fatto gli onori di casa, mentre Leonardo Seghetti ha illustrato, durante la visita, le caratteristiche e le fasi di produzione dell’oliva ascolana, riconosciuta DOP; si è concluso con la degustazione della stessa. Le Cento Città, n. 45 Nel secondo stabilimento, a ricevere i Soci è stato Silvio Meletti che, sulla scia dell’impostazione paterna, ha rinnovato il processo produttivo dell’Anisetta Meletti, oggi nota in tutto il mondo. Nel pomeriggio, dopo l’aperitivo nel tradizionale Caffè Meletti nella splendida Piazza dell’Arringo di Ascoli e dopo un ottimo pranzo nel Ristorante Kursaal rispettoso delle tradizioni locali, i Soci hanno visitato la Pinacoteca, nello spirito di queste iniziative che intendono far conoscere e valorizzare nello stesso tempo gli aspetti industriali e paesaggistici non meno di quelli artistici della nostra Regione. Alcuni momenti della visita sono riprodotti nelle immagini di Roberto D’Errico. Macerata, 30 marzo 2012 Freschi di stampa Nella prestigiosa sede della Biblioteca statale di Macerata, accolti dalla direttrice Prof.ssa Angiola Napolioni si è svolta, con il coordinamento di Maurizio Cinelli la terza edizione di Freschi di stampa, iniziativa dell’Associazione che ha lo scopo di segnalare le opere più pregevoli di Autori ed Editori marchigiani pubblicate nel corso dell’anno. Sono stati selezionati sette volumi e tre cataloghi, come indicato nel manifesto allegato del Convegno. Sono state citate anche opere di Soci dell’Associazione, Marco Belogi, Rodolfo Colarizi, Giovanni Danieli, Fabio Mariano, Enrico Paciaroni e Giacomo Vettori. Ha concluso la serata Walter Scotucci, ideatore di questa iniziativa nell’anno della sua presidenza. Su Freschi di stampa pubblichiamo di seguito il resoconto di Maurizio Cinelli. Album di Roberto D’Errico 1 41 2 3 4 5 6 7 Le Cento Città, n. 45 Vita dell’Associazione 42 Freschi di stampa Macerata, 30 marzo 2012 di Maurizio Cinelli Le Cento Città Associazione per le Marche Presidente, Dott. Ettore Franca Freschi di stampa Presentazione di opere di Autori e di Editori marchigiani edite nel 2010-2011 Macerata, 30 marzo 2012 - ore 17,00 Biblioteca Statale di Macerata, via Garibaldi, 20 Le Cento Città, grafica originale di Valeriano Trubbiani Nella sua terza edizione, Freschi di stampa presenta una selezione di volumi e cataloghi di Autori o di Editori marchigiani, contributo originale della nostra Regione al patrimonio culturale italiano errebi grafiche ripesi • falconara 1. Per il terzo appuntamento con i libri “Freschi di stampa”, l’Associazione “Le Centocittà”, per il terzo anno consecutivo, ha scelto Macerata. Si è trattato di una scelta che ha onorato ancora una volta la Città; e l’affollamento della Sala della prestigiosa Biblioteca statale – che la sua Direttrice, Angiola Napolioni, con grande sensibilità, ha generosamente messo a disposizione per l’iniziativa – ne ha dimostrato la validità. Numerosissimi e attentissimi, infatti, coloro che, per l’intero pomeriggio del 30 marzo scorso, hanno gremito la Sala, per ascoltare – dopo gli indirizzi di saluto del Presidente, Ettore Franca, della professoressa Angiola Napolioni nella suddetta qualità e della professoressa Marisa Borraccini, che, in qualità di Prorettore, ha voluto testimoniare la partecipazione ideale all’iniziativa dell’Università degli Studi di Macerata – le presentazioni dei volumi selezionati per l’occasione, come da programma. Sono stati ovviamente prescelti libri che ci parlano delle Marche. Ne parlano, per così dire, dal “di dentro”: innanzitutto, per quanto riguarda sia gli Autori – tangibile espressione della vivacità culturale di chi vive ed opera in questa nostra meravigliosa, amatissima Regione –, sia (in buona parte) gli Editori; ma delle Marche parlano, sopratutto, i relativi contenuti. Sono state selezionate, infatti, opere che potessero rappresentare, nei vari campi, occasioni di approfondimento della conoscenza, e di rafforzamento della consapevolezza, dei beni e valori profondi dei quali la Regione è, insieme, espressione e custode: Ugo Bellesi, Ettore Franca, Tommaso Lucchetti, Storia dell’alimentazione, della cultura gastronomica e dell’arte conviviale nelle Marche, Il lavoro editoriale Nando Cecini, Le parole e la città. Guida letteraria delle Marche, Il lavoro editoriale Luca M. Cristini (a cura di), Mosè di Segni, medico partigiano, Ed. S. Severino Marche Claudio Giovalè, Giacomo Emiliani. Musica e nobiltà, Andrea Livi Editore Alfredo Luzi, La siepe e il viaggio. Studi sulla poesia italiana contemporanea, Ed. Corbo Ivan Rainini, Antiqua spolia. Reimpieghi di epoca romana dell’architettura sacra medioevale nel maceratese, Editore Fondazione CARIMA Marco Severini (a cura di), Le Marche e l’Unità d’Italia, Editore Codex *** Nel segno dell’Eucaristia (a cura di Maria Luisa Polichetti), U. Allemandi Editore Marco Del Re, La Cenerentola, le Cenerentole (a cura di Franca Mancini), Il Teatro degli Artisti Editore L’ultima avventura romantica (a cura di Paola Ballesi), Editore Biennale Internazionale dell’umorismo nell’arte, S. Severino Marche Presiede Ettore Franca Presentano Giuseppina Capodaglio, Carla Carotenuto, Hermas Ercoli Mauro Magagnini, Alberto Pellegrino, Nino Ricci, Nicola Sbano, Lucia Tancredi Coordina Maurizio Cinelli Le Cento Città, Associazione per le Marche Segreteria: Piazza del Senato, 9 - 60121 Ancona - Tel. 0712070443 - 3386533761, Fax 071205955 trovando conferma, così, la scelta dell’Associazione di proseguire – sia pure, questa volta, “da ferma”, al chiuso delle severe pareti della Biblioteca statale di Macerata – il percorso di disvelamento e valorizzazione del “locale”. Non può sfuggire, tuttavia, come detto percorso di valorizzazione – e le opere selezionate ne hanno dato conferma – non si riduca nei confini del “localismo”; si tratta di valorizzazione destinata a rap- presentare, piuttosto, occasione e, insieme, metafora di un impegno alla promozione e sviluppo di conoscenze e coscienze, che muove, sì, dal “particolare”, ma ambisce a trascenderlo ampiamente. Non è stato difficile individuare chi, per scienza, competenze specifiche, qualità di eloquio, potesse svolgere al meglio, per ciascun singolo volume, il compito di Presentatore: il “serbatoio” al quale poter attingere allo scopo è molto Nella pagina precedente, momenti della visita ad Ascoli Piceno: Stabilimento di Silvio Meletti (Fig. 1); ritratto a olio di Aristide Meletti ideatore della Anisetta (Fig. 2); Leonardo Seghetti illustra le caratteristiche dell’oliva ascolana dop nello stabilimento di Nazareno Migliori (Fig. 3); l’ingresso del ristorante Kursaal (Fig. 4) ed il Caffè Meletti ad Ascoli (Fig. 5); visita alla Pinacoteca, Domenico Morelli (1826-1901); Torquato Tasso che legge la Gerusalemme liberata ad Eleonora D’Este (Fig. 6), e Cesare Reduzzi (1857-1912): Fior di vita (Fig. 7). Le Cento Città, n. 45 Vita dell’Associazione ben fornito, e l’Associazione ne va giustamente orgogliosa. Forse, più complicato è stato assicurarsi che a dette qualità si accompagnasse sempre la dote della sintesi espositiva: dote essenziale, a fronte del veramente breve spazio di tempo a disposizione di ciascuno (8-10 minuti al massimo), per svolgere un compito sicuramente grato, ma altrettanto sicuramente oneroso. Anche qui, tuttavia, con la collaborazione di tutti, i fatti hanno dimostrato che la scelta è stata vincente, senza riserva alcuna: i lavori si sono compiutamente svolti entro i limiti di orario programmato, con una tempistica encomiabile. 2. Quanto ai singoli volumi, inutile dire che l’operazione di selezione è risultata, anche stavolta, assai ardua. Numerose le opere di soci che sono entrate in lizza; tra queste: “Santa Croce. Un ospedale nella storia”, un curatissimo volume di Marco Belogi, sulla storia e il ruolo di tale importante struttura sanitaria, corredato da un ricco apparato iconografico e fotografico; “La longevità attiva”, un “De senectute” di Enrico Paciaroni, che, con il sottotitolo de “Il piacere di saper invecchiare. La persona anziana come valore”, si colloca nell’ambito prezioso della interdisciplinarietà, tra medicina, etica e politica sociale, per suggerire stili di vita atti a mantenere, se non migliorare, il primato di longevità (in soddisfacenti condizioni di salute) che caratterizza le Marche rispetto alle altre regioni d’Europa; “O rima o morte”, di Giacomo Vettori, una gustosissima, raffinata raccolta di calambour in rima, corredata da tavole pittoriche di Carlo Cecchi; “Fanesi brava gente” e “La rivincita di Virginia”, due recentissimi romanzi di Rodolfo Colarizi, pubblicista di divulgazione scientifica, ormai irrevocabilmente convertito alla narrativa; “Giacinto Cestoni e Francesco Redi a confronto”, di Italo d’An- 43 gelo D’Apropione, che, ricordando le scoperte sulle cause della scabbia di uno sconosciuto farmacista del ‘600, il Cestoni, di fatto usurpate dal Redi, famosissimo medico dell’epoca, offre un’illuminante, originale spaccato sulla nascita della medicina scientifica moderna. Ma, si sa, è fatto scontato: ogni selezione, specie in casi come quello che caratterizza “Freschi di stampa”, implica una percentuale, grossa o meno grossa, di arbitrio. Tuttavia, due opere ancora, oltre a quelle suelencate, hanno meritato particolare menzione (anche se – va detto –, essendo state edite entrambe soltanto pochi mesi fa, avrebbero titolo per partecipare alla prossima edizione di “Freschi di stampa”). Si tratta di “Giuseppe Sacconi: il Vittoriano 1911-2011”, di Fabio Mariano, edita da “Andrea Livi Editore”, e di “Farmaci e farmacie. Industrie farmaceutiche e farmacie di tradizione nelle Marche”, a cura di Giovanni Danieli. L’opera di Fabio Mariano, edita in occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia e del centenario del Vittoriano, a sua volta simbolo architettonico dell’Unità, è una importante monografia, corredata da ampio materiale iconografico e fotografico, sull’opera di quel grande architetto, nato a Montalto Marche, che fu Giuseppe Sacconi e che pienamente, non solo per natali, appartiene alla nostra terra, se non altro perché ebbe la sua prima formazione nel Convitto nazionale di Fermo e in quella scuola di arti e mestieri, che poi sarebbe divenuta il prestigioso Istituto tecnico industriale Montani. Il volume sulle farmacie, curato da Giovanni Danieli, decimo della collana Scienze Umane della Facoltà di Medicina di Ancona è importante anche perché ripercorre, tra l’altro, la storia di due importanti industrie farmaceutiche che hanno avuto origini e primo sviluppo nell’anconetano: la Russi e l’Angelini. A quest’ultimo volume ha collaborato (tra gli altri) Walter Scotucci, il quale ha tanti meriti, uno dei quali è quello di aver ideato tre anni fa – l’anno della sua presidenza dell’Associazione – “Freschi di stampa”; ed è per questo motivo che, prima di dare avvio alle presentazioni delle opere selezionate, gli è stato tributato un particolare saluto, come segno di riconoscimento e apprezzamento per la lungimirante iniziativa, e insieme auspicio di prosecuzione di essa anche dopo la presente edizione. Maurizio Cinelli che ha curato per il terzo anno consecutivo Freschi di stampa. Le Cento Città, n. 45 Vita dell’Associazione 3. L’opera, presentata per prima, a cura di Nicola Sbano, è stata “Le Marche e l’Unità d’Italia”. Il volume, edito da “Codex” e curato da un gruppo di studiosi, diretti e coordinati da Marco Severini, e pubblicato in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ricostruisce sul piano politico, civile e sociologico la trama degli avvenimenti – ancora poco conosciuti, e, dunque, tanto più meritevoli di approfondimento – che hanno portato le Marche all’interno della compagine nazionale. A seguire, Alberto Pellegino ha presentato “Mosè Di Segni, medico partigiano, memorie di un protagonista della guerra di Liberazione” opera curata da Luca Cristini, la quale unitamente alla trascrizione di un manoscritto del Di Segni, resoconto drammatico e illuminante delle vicende dell’ultimo e cruciale periodo di lotta partigiana sui monti intorno a San Severino, reca i contributi, oltre che del curatore e di altri studiosi, dei familiari del Di Segni – la figlia, signora Frida, era presente in Sala –, e rappresenta una intensa pagina di storia della partecipazione ebraica alla Resistenza. 44 “Antiqua spolia. Reimpieghi di epoca romana nell’architettura sacra medievale del maceratese”, di Ivan Rainini, ordinario di Archeologia classica nell’Università Ambrosiana di Milano, edito dalla Fondazione Carima, tratta del reimpiego di materiali antichi (generalmente di età romana) in edifici medievali o anche di età successive, che, come ben sappiamo, è pratica dettata da esigenze e logiche che vanno dal mero utilizzo come materiale di costruzione, al recupero a fini di abbellimento di nuovi manufatti; il territorio delle Marche, anche in ragione al numero notevole, rispetto ad altre regioni, di municipi colonie romane, offre, al proposito, una documentazione notevole, ma assai poco conosciuta e l’indagine della quale il volume è frutto, è rivolta a varie località del maceratese, dove si trovano monumenti di grande fascino, spesso sconosciuti ai più, ed anche per questo meritevoli di rientrare al più presto nel programma di visite della nostra Associazione. Giuseppina Capodaglio ne ha curato la presentazione. “Giacomo Emiliani. Musica e No- biltà”, di Claudio Giovalè, edita da “Andrea Livi Editore”, è dedicata al musicista ottocentesco, cui nel 2011 è stato intitolato il Teatro municipale di Rapagnano, sua città natale. “Indagare sul musicista Giacomo Emiliani (1805-1889) significa addentrarsi nella vicenda artistica e personale di un aristocratico fermano oggi totalmente dimenticato. Molto, ancora in vita, egli fece per non farsi ricordare, distruggendo la quasi totalità delle sue composizioni. Altrettanto fecero i suoi diretti discendenti disperdendo gran parte della documentazione che lo riguardava, quasi in una sorta di damnatio memoriae, certamente non intenzionale; ma di fatto verificatosi”: tale è l’incipit del volume, che potrebbe anche collocarsi in apertura di un thriller, ma che, in realtà, apre una rigorosa, curatissima biografia e insieme approfondita analisi storica della società del tempo. Alla presentazione ha provveduto, con la verve che lo caratterizza, Evio Hermas Ercoli. “Le parole e la città. Guida letteraria delle Marche”, di Nando Cecini, edito dal “Il lavoro editoriale”, è un libro che contiene le descrizioni delle Marche e di Sopra, la Direttrice della Biblioteca statale, Prof.ssa Angiola Napolioni, il coordinatore dell’evento Prof. Avv. Maurizio Cinelli, il Presidente de Le Cento Città, Dott. Ettore Franca e il Pro Rettore dell’Università di Macerata, Prof.ssa Rosa Marisa Borraccini Verducci al tavolo della presidenza. Accanto, Mauro Magagnini, Carla Carotenuto, Nicola Sbano, Alberto Pellegrino, Hermas Ercoli, Lucia Tancredi, Giuseppina Capodaglio e Nino Ricci che hanno presentato le opere e i cataloghi selezionati. Le Cento Città, n. 45 Album di Mario Canti 45 Le Cento Città, n. 45 Vita dell’Associazione 46 Le Cento Città, n. 45 Vita dell’Associazione una quarantina di città marchigiane, tramandate nel tempo da scrittori e poeti, che l’Autore ha pazientemente selezionato e raggruppato in tanti quadri di insieme: una sorta di racconto su luoghi fisici, che, apparentemente immutabili nel tempo, in realtà vivono e si modificano a seconda dei sentimenti e degli sguardi di chi ad essi si accosta; ed è anche su questo che si intrattiene l’introduzione al libro, scritta da Giorgio Mangani, una sorta di breve, ma intenso saggio sul tema del rapporto tra paesaggio e retorica. Il volume è stato presentato da Lucia Tancredi, maceratese d’adozione, e autrice, tra l’altro – è giusto ricordarlo –, di un acuto e poeticissimo libro sulle cittadine del maceratese, edito nel 2003 da “Quodlibet”, intitolato “Racconti di viaggio Le città d’arte della marca maceratese”. “La siepe e il viaggio”, di Alfredo Luzi, edito da “Corbo Editore”, è una raccolta di saggi dedicati a Leopardi e alla sua “presenza” nella poesia marchigiana contemporanea: dove l’immagine della “siepe”, che l’Autore impiega, è emblema e metafora di quello spazio, così protettivo e rassicurante, che i confini regionali racchiudono, e, anche per questo, talvolta così difficile da 47 valicare da parte di chi voglia affrontare il “viaggio”, e, dunque, l’“ignoto” al di là della “siepe”. La presentazione è stata svolta da Carla Carotenuto. Nell’anno 2012 “Freschi di stampa” ha posto il proprio focus anche sui cataloghi; ne sono stati selezionati tre: “Segni dell’eucaristia”, a cura di Maria Luisa Polichetti, che, attingendo al patrimonio storicoartistico delle diocesi marchigiane, illustra, tramite gli “oggetti”, lo svolgimento della celebrazione eucaristica come punto centrale della comunità ecclesiale, e rende percepibile il significato degli apparati, espressione della religiosità popolare e, insieme, segno della magnificenza della Chiesa nel rapporto con il territorio; “Marco del Re. La cenerentola e le cenerentole”, a cura di Franca Mancini, documenta e analizza, attraverso i saggi che vi figurano e le riproduzioni delle opere ispirate alla Cenerentola di Rossini, il percorso culturale e l’esperienza artistica del pittore al quale la mostra, che ha dato occasione al catalogo, è stata dedicata; “L’ultima avventura romantica. Poetica ed eredità futuriste”, a cura di Paola Ballesi, che, accompagnato da un saggio della curatrice, è dedicato all’avventu- Le Cento Città, n. 45 ra del futurismo, con particolare riferimento a quell’importante esponente del movimento, che è Ivo Pannaggi, cui Macerata ha dato i natali e l’ospitalità negli ultimi anni di vita, e del quale la Città ha ricordato lo scorso anno, con l’apposizione di una targa sulla casa natale, il centenario della nascita. I tre cataloghi sono stati presentati da Nino Ricci. Da ultimo, dulcis in fundo, ed anche come viatico all’incontro conviviale che di lì a poco si sarebbe svolto presso il foyer della Società Filarmonico-Drammatica di Macerata, Mauro Magagnini ha presentato “Storia dell’alimentazione e cultura gastronomica e dell’arte conviviale nelle Marche”, di Ugo Bellesi, Ettore Franca e Tommaso Lucchetti, edito da “Il lavoro editoriale”. Il volume – diremo, metaforicamente, di “alta cucina” – ha ottenuto riconoscimenti anche a livello internazionale, per la rigorosa, ampia ricostruzione storica della civiltà enogastronomica e conviviale delle Marche, tanto nella sua dimensione popolare e contadina, quanto in quella aristocratica e borghese. L’incontro si è chiuso con un corale, benaugurale e gioioso arrivederci con “Freschi di stampa”, quarta edizione, il prossimo anno, se così vorrà essere.