Lavoro e diseguaglianza nella società globale
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Lavoro e diseguaglianza nella società globale
Lavoro e diseguaglianza nella società globale (Rielaborazione dell’intervento svolto al convegno sui venti anni di “Lavoro e Diritto”) (Antonio Lettieri) “Gli ideali umani costituiscono una componente ineliminabile della personalità dello studioso e il suo necessario sforzo di obiettività consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo o reprimerli”. Federico Caffè, Lezioni di politica economica Sommario: 1. Le metamorfosi della flessibilità del lavoro- 2. Lavoro e diseguaglianze 3. La globalizzazione come processo politico – 4. Gli incerti rimedi contro la diseguaglianza: la formazione – 5. …e le clausole sociali – 6. La teoria della “responsabilità sociale” dell’impresa- 7. Il “Washington consensus” - 8. La crisi del processo di “adattamento” – 9. La ricerca delle cause interne del degrado del lavoro – 10. La riscoperta delle istituzioni - 11. Il caso americano e l’Europa – 12. L’asse Francoforte-Bruxelles - 13. L’ambigua politica del lavoro europea - 14. Le” due” Lisbona - 15. La” flexicurity” degli inganni - 16. Il fondamentalismo tecnocratico – 17. “Beware the U.S. Model” – 18. Uscire dall’apatia 1. Le metamorfosi della flessibilità del lavoro Nei suoi venti anni di vita Lavoro e Diritto e i suoi ideatori, con in testa Umberto Romagnoli, hanno avuto la fortuna di non annoiarsi, né il tempo per impigrirsi. Forse anche da questo dipende il successo della rivista. Il lavoro, infatti, non era mai cambiato così radicalmente in un tempo così rapido, mentre il diritto del lavoro veniva scosso alle radici, a volte per raccogliere nuovi frutti, altre volte deviando verso strade incerte e traguardi ambigui. Lavoro e Diritto è stata in questi frangenti una guida preziosa nell’esplorazione delle nuove frontiere del lavoro, dei diritti, della cittadinanza. Mi soffermerò su un punto che mi sembra particolarmente intrigante. Mi riferisco al rapporto fra cambiamento del lavoro e globalizzazione, assumendo come snodo il tema dell’eguaglianza, che è anche quello dove il diritto del lavoro incontra le dinamiche dei rapporti sociali. Per farlo concentrerò l’attenzione sul dibattito in corso negli Stati Uniti, il paese guida della globalizzazione in questo passaggio di secolo, per trarre infine qualche schematica osservazione, forse non sempre ortodossa, sul tema a noi più vicino dell’Unione europea. Se nell’ultimo quarto di secolo il lavoro ha subito cambiamenti radicali rispetto al modello che ci aveva consegnato l’era dell’industrializzazione, vorrei anche dire che, almeno inizialmente, il cambiamento non meritò alcun rimpianto. Il lavoro – almeno così sembrò, o così fu descritto il cambiamento – si liberava dalle catene di una rigidità asfissiante che svalorizzava il contributo umano al progresso industriale di grandi masse di lavoratori. L’organizzazione del lavoro fordista aveva frantumato, gerarchizzato e appiattito il lavoro. Ciò che si chiedeva era non l’iniziativa individuale ma la disciplina collettiva. Il segreto della produzione stava non nella flessibilità dell’organizzazione del lavoro ma nel rispetto rigido delle norme che lo regolavano. La nuova fase, alimentata dalla rivoluzione dei computer, imponeva, al contrario, un ordinamento della fabbrica rovesciato: conoscenza del processo, autonomia, capacità di analizzare i problemi e di risolverli. Bisognava interloquire con le nuove macchine animate da software sempre più sofisticati in grado in parte di sostituirsi al lavoro umano, in parte di guidarlo. In un famoso libro dei primi anni Novanta – The work of Nations - Robert Reich aveva definito “symbolic analyst” il nuovo modello di lavoratore, per indicare la dematerializzazione del processo lavorativo e insieme l’esigenza di applicarvi autonomia e intelligenza creativa. Insomma, il contrario della pratica e dell’ideologia del lavoro senza qualità teorizzato dal taylorismo all’inizio del secolo. L’idea dominante era che il passaggio non sarebbe stato né facile, né indolore, ma che ne sarebbe valsa la pena. La transizione ai nuovi modelli di lavoro era soprattutto una promessa rivolta ai giovani i quali, in effetti, avevano già mostrato negli anni ruggenti delle lotte operaie, a cavallo dei Sessanta e Settanta, di ripudiare l’organizzazione della vecchia fabbrica in tutto l’occidente avanzato, a Torino come a Detroit. Oggi dobbiamo prendere atto che quelle promesse non sono state mantenute. La delusione grava soprattutto sui giovani. La promessa di maggiore autonomia si è risolta in una condizione di incertezza, precarietà, ansia. Cosa è successo? Si trattava di una promessa ingannevole e menzognera? A me sembra di no: almeno, per molti aspetti, non lo era. L’informatizzazione dei processi produttivi, la rivoluzione dei computer, internet, l’articolazione della produzione di massa in direzione di nuovi bisogni, domande, gusti, effettivamente esigevano una maggiore flessibilità dell’organizzazione del lavoro. Flessibilità che avrebbe potuto intrecciarsi con una più grande autonomia e qualificazione della prestazione individuale e collettiva dei lavoratori e delle lavoratrici. 2 Il problema di cui oggi si discute con accenti diversi non è la flessibilità in sé, ma il suo uso arbitrario, non controllabile e non governabile dalle persone che sono chiamate a praticarla. La precarietà è il frutto di questa metamorfosi della flessibilità, della sua versione autoritaria, unilaterale, asimmetrica che privilegia una parte per sacrificare l’altra nella formulazione e nella gestione dei rapporti di lavoro. In questo scompenso si manifesta il peggioramento della condizione del lavoratore: la flessibilità che diventa non più estesa ma più ridotta autonomia, non maggiore ma minore controllo su quella parte non marginale della vita dedicata al lavoro, come ineliminabile connotazione dell’identità personale. 2. Lavoro e diseguaglianze L’ultimo quarto di secolo non ci ha riservato solo la delusione di questa mancata promessa di progresso nel rapporto personale col lavoro della grande maggioranza dei lavoratori. In un certo senso, la sorpresa più grande sta in una nuova forma di squilibrio sociale: l’esplosione della diseguaglianza, che, con tutti i suoi difetti, la seconda parte del secolo passato aveva fronteggiato con un apprezzabile successo. Negli ultimi tre decenni abbiamo assistito a un rovesciamento della tendenza. Il lavoro è diventato la fonte di una nuova, crescente diseguaglianza. La flessibilità, chiesta per accrescere l’efficienza del processo produttivo, non è stata ripagata da una più equa distribuzione dei benefici. E’ successo il contrario. Con la crescita della ricchezza sono cresciute nuove povertà. Le nuove tecnologie informatiche hanno accresciuto la produttività del lavoro, ma i guadagni di produttività sono stati requisiti da una ristretta élite che ha guidato il processo di cambiamento. Vi è tuttavia un fatto nuovo. La diseguaglianza è diventata un tema all’ordine del giorno nel dibattito accademico e politico degli Stati Uniti. E’ un dibattito che vale la pena di analizzare, in primo luogo perché si riferisce al declino dell’egemonia americana nella nuova fase dell’economia globalizzata. E poi perché contribuisce a illuminare, come vedremo più avanti, l’incerto destino dell’integrazione europea rispetto alle nuove sfide della globalizzazione. In un recente saggio su Foreign Affairs, il problema della diseguaglianza è affrontato con toni allarmati a tal punto da far suggerire la proposta di un nuovo New Deal per salvare l’egemonia americana nell’economia globale (Scheve K., Slaughter M. Foreign Affairs, July/August 2007). La sintesi a cui pervengono gli autori del saggio è la 3 seguente: <La globalizzazione ha portato in generale grandi benefici, ma sono diminuiti i guadagni per la maggior parte dei lavoratori americani – compresi quelli provenienti dai college; l’ineguaglianza è maggiore oggi di quanto non lo sia stata in qualsiasi altro periodo degli ultimi 70 anni. Quale che sia la causa, il risultato è una deriva protezionista. Per salvare la globalizzazione, i politici debbono distribuire più largamente i suoi benefici. La strada migliore per far questo è la redistribuzione dei guadagni>. E’ interessante notare che si tratta di due autori di diversa provenienza e orientamento. Scheve è uno scienziato politico di Yale, Slauhgter è un economista, già membro del Comitato dei consiglieri economici di George W. Bush. Sulla portata della diseguaglianza derivante dai nuovi modelli di mercato del lavoro non c’è disaccordo. Alan Greenspan nella sua autobiografia, che è anche uno smisurato panegirico del proprio lavoro come presidente della Federal Reserve sotto tre Presidenti degli Stati Uniti - non può fare a meno di lanciare un grido di allarme. <Nel ceto medio americano – scrive – ha preso piede la sensazione che, in anni recenti, i benefici della prosperità economica non siano stati distribuiti equamente. E, in effetti, benché il concetto di equità sia soggettivo, è pur vero che dal 1980, il fenomeno della concentrazione dei redditi è in costante ascesa… Non risulta particolarmente confortante, per l’operaio alla catena di montaggio, sapere che mentre il suo salario aumenta in modo risibile l’amministratore delegato riceve un bonus di qualche milione di dollari… Non c’è da stupirsi se prima o poi parte dell’elettorato cederà alle sirene di certo populismo che promette, per esempio, l’innalzamento di barriere tariffarie> (L’era della turbolenza 2007 pp. 435-437). La preoccupazione di Greenspan scaturisce, in verità, più dalla minaccia incombente sul processo di globalizzazione che non dal fenomeno della diseguaglianza in quanto tale che, non a caso, derubrica in parte a una “sensazione”, in parte a una reazione psicologica di fronte alla sproporzione dei guadagni tra la base e il vertice della scala sociale. Ma un’analisi ravvicinata ci avverte che non si tratta affatto di sensazioni o di reazioni di carattere psicologico. Richard Freeman, forse il più autorevole economista del lavoro americano, analizzando il guadagno medio orario dell’81 per cento dei lavoratori americani del settore privato addetti alla produzione, perviene al seguente risultato: <Questa misura della paga, che ha sempre tallonato da vicino la produttività, è declinata tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta e, non ostante alcuni modesti aumenti negli anni successivi del boom, rimane consistentemente al di sotto del livello 4 dei primi anni Settanta. I guadagni reali medi dei lavoratori della produzione erano dell’8 per cento più bassi nel 2005 rispetto al 1973, mentre il prodotto nazionale per lavoratore era del 55 per cento più alto nel 2005 rispetto al 1973> (America works, 2007, pp.35-36). Per apprezzare in termini concreti questo salto indietro dell’80 per cento dei lavoratori americani, Freeman calcola che un aumento parallelo dei salari e della produttività avrebbe portato il salario medio orario di un lavoratore della produzione a 25 dollari invece dei 16 correnti. Il risultato è stupefacente, scrive Freeman: “La gran parte della crescita della produttività dei passati venti-trenta anni è finita nelle tasche di un ristretto numero di super-ricchi americani” (corsivo nel testo ib. p.38). Tradotto in cifre, questo significa che metà dell’aumento totale dei redditi di lavoro è stato appannaggio del 10 per cento dei percettori di reddito al vertice della scala retributiva e il 18 per cento è andato alla superclasse di ricchi che corrisponde allo 0,1 per cento della popolazione americana. Questa brutale redistribuzione della ricchezza ha riportato la diseguaglianza al livello degli anni Venti, quando il Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald rappresentava il simbolo dello sfarzo e, in trasparenza, delle miserie della società americana. Questo salto indietro di 80 anni, dal punto di vista dell’equità e delle conquiste sociali, non ha colpito solo i ceti più deboli, ma ha infierito sulla middle class, la struttura portante della società americana, che Robert Reich definisce la “classe ansiosa”, che vede svanire il sogno americano di un destino di ininterrotta ascesa sociale. Insomma, quella che un tempo era la divisione fra il Nord e il Sud del mondo ora è entrata prepotentemente nelle società del nord superricco. E la domanda che si pone è semplice quanto di difficile soluzione: perché è successo? Quali sono le cause di questo rovesciamento degli equilibri sociali? La globalizzazione non doveva essere un’era di successo per tutti? Su questi interrogativi il dibattito americano ha visto intrecciarsi diverse posizioni, spesso fortemente contrastanti. La tesi prevalente negli anni Novanta può essere rappresentata in questi termini. La rivoluzione dei computer, delle telecomunicazioni, di internet, dei trasporti ha mutato la geografia economica del mondo. I cambiamenti nell’economia e nei rapporti sociali hanno un corso oggettivo al quale non ci si può opporre: il successo o l’insuccesso dipendono dalla capacità di adeguamento a questo nuovo corso. E’ quella che potremmo definire la teoria dell’adattamento, basata su 5 un’interpretazione deterministica del progresso tecnologico, indipendente dai contesti storici e dagli assetti politici. In poche parole, la globalizzazione che si è intrecciata con la rivoluzione tecnologica ci chiede un duro processo di adattamento delle politiche e delle istituzioni, oltre che delle attese individuali e collettive. Dobbiamo allora trattare la globalizzazione come un dato di fatto per così dire oggettivo che esige risposte univoche e obbligate, alle quali non ci si può sottrarre senza pagare un duro prezzo di emarginazione? 3. La globalizzazione come processo politico Per tentare di rispondere a questo interrogativo vale la pena di fare una breve digressione sulle caratteristiche della nuova fase della globalizzazione. Dobbiamo partire dalla considerazione che la globalizzazione non è un fenomeno nuovo nella storia del capitalismo. Si tratta di una tendenza congeniale all’economia di mercato, sin dalle prime forme del capitalismo moderno nell’epoca rinascimentale. Poi, gli ultimi tre decenni del XIX secolo furono segnati da un’espansione continua e imponente del commercio internazionale e degli investimenti di capitali all’estero, sotto l’egemonia britannica. Coloro che trascurano la storicità del processo e le sue componenti politiche per mettere un accento determinante sulla rivoluzione tecnologica precostituiscono, in effetti, uno schema interpretativo di carattere ideologico, dal quale poi fanno scaturire un complesso di conseguenze “obiettive” e di soluzioni obbligate. In un libro che ripercorre la storia delle diverse fasi della globalizzazione, il prof. Jeffry Frieden di Harvard scrive, come premessa, che la globalizzazione è sempre stata una scelta, ed <è ancora una scelta, non un fatto. E’ una scelta compiuta dai governi che coscientemente decidono di ridurre le barriere che frenano il commercio e gli investimenti… Gli affari economici internazionali dipendono dal sostegno di paesi potenti e dai gruppi più influenti all’interno di questi paesi>. (Global Capitalism”, pag.XVI-XVII). Gérard Lyon-Caen, eminente giurista del lavoro, avanza una analoga premessa: <Si parla innanzitutto di mondializzazione o globalizzazione. Solo il termine è nuovo. Il commercio si estende su scala planetaria da molti secoli; l’instaurazione di un capitalismo monopolista nelle colonie era orientato a questo esito fin dal XVI secolo> (Lavoro e Diritto 2/2004, p. 262). La globalizzazione, dunque, come processo storico e politico non come accadimento che si sottrae per la sua pretesa natura oggettiva al dibattito e, conseguentemente, alle scelte politiche dei governi. 6 L’importanza della politica nella teorizzazione e nella pratica della globalizzazione, intesa come apertura delle frontiere nazionali, era chiara sin da quando Davide Ricardo all’inizio del XIX secolo, in aperto contrasto con le politiche protezionistiche dominanti, teorizzava e raccomandava al governo britannico la superiorità della divisione internazionale del lavoro, attraverso l’apertura delle frontiere commerciali. Il teorema ricardiano era geniale nella sua semplicità. Se ogni paese si specializza nella produzione dei beni che è in grado di produrre con maggiore efficienza (o “vantaggio comparato” rispetto ad altre produzioni possibili), la divisione del lavoro accrescerà la produttività e la ricchezza di ciascun paese e dell’insieme del mondo che vi partecipa. Il teorema costituisce ancora oggi, all’alba del XXI secolo, l’argomento più resistente e suggestivo portato a difesa della globalizzazione dei mercati, intesa come intensificazione degli scambi (cfr. J. Bhagwati, Elogio della globalizzazione 2005). Ma l’interpretazione della globalizzazione come pura intensificazione degli scambi commerciali e degli investimenti finanziari oscura la caratteristica fondamentale della sua nuova fase. Nello schema classico, gli stati scambiano beni sulla base della loro maggiore convenienza nel produrli. Nella nuova fase della globalizzazione la maggior parte degli scambi avviene all’interno delle stesse imprese. La divisione internazionale del lavoro diventa divisione funzionale del lavoro all’interno del sistema produttivo. E’ questo il mutamento che sconvolge gli assetti tradizionali della domanda e dell’offerta di lavoro, che il secolo scorso basava sulla dimensione nazionale. Entrando in un mercato del lavoro tendenzialmente globale, la domanda di lavoro delle imprese multinazionali, per definizione delimitata, incontra un’offerta di lavoro tendenzialmente illimitata. L’asimmetria fra una domanda circoscritta e un’offerta tendenzialmente illimitata mette il lavoro nelle mani delle imprese multinazionali e abbatte i confini entro i quali erano nati e si erano affermati il diritto del lavoro, la legislazione sociale, il welfare state, il potere dei sindacati e la contrattazione collettiva. La vecchia globalizzazione riconosceva la funzione dello Stato sia nella determinazione del processo di liberalizzazione dei mercati che nella definizione dei suoi limiti. Non a caso, in Germania rimaneva vivo il filone di politica economica risalente a Friedrich List, d’ispirazione chiaramente protezionista, che lo stato tedesco praticava a protezione della propria industria nascente. E, del resto, un orientamento federale non meno protezionista ispirava la politica commerciale degli Stati Uniti nella fase decisiva del 7 proprio sviluppo. La nuova globalizzazione tende, al contrario, ad abbattere le funzioni dello Stato che non siano quelle deputate a garantire la liberalizzazione dei mercati non solo nei rapporti internazionali ma anche in quelli interni, in modo da renderli deregolati e permeabili. Il lavoro occupa in questa nuova prospettiva della globalizzazione un posto assolutamente centrale. Quasi sempre si fa riferimento al vantaggio di pagare nei paesi emergenti salari smisuratamente più bassi come molla della delocalizzazione industriale. Ma non si tratta solo del salario. Il dato altrettanto se non forse ancora più rilevante è nell’assoluta libertà nell’uso della forza lavoro dei paesi poveri. I quali non oppongono (non possono opporre) regole limitative nel suo uso. I paesi emergenti non possono imporre clausole selettive in quanto la forza lavoro offerta corrisponde a una materia prima sovrabbondante, al contrario di quanto avviene per i prodotti energetici, minerari e alcuni agricoli. Richard Freeman calcola che, dopo l’ apertura della Cina al mercato mondiale e il collasso dell’impero sovietico, il mercato del lavoro dei paesi poveri ha un’offerta potenziale di lavoro che corrisponde a tre miliardi di uomini e donne. La novità della nuova fase della globalizzazione sta nel fatto che questo sterminato “esercito di riserva” sconvolge anche gli equilibri del mercato del lavoro dei paesi di vecchia industrializzazione. I sindacati perdono potere contrattuale. La delocalizzazione, o la sua potenziale minaccia, fa ristagnare i salari. Negli Stati Uniti si inaugura la fase del “give back”, della restituzione di una parte dei vantaggi e dei benefit che i sindacati avevano acquisito nell’epoca aurea della contrattazione. Questa nuova condizione del lavoro si riflette in un nuovo tipo di diseguaglianza. La globalizzazione crea nuova ricchezza e insieme una profonda divisione fra “winners” e “losers” in una società nella quale chi vince prende tutto - The Winner-Take-All Society, secondo Robert Frank e Philip Cook. 4. Gli incerti rimedi contro la diseguaglianza: la formazione Come uscire da questa contraddizione sociale che, come abbiamo visto, ormai mina lo stesso processo di globalizzazione? Il dibattito americano si è concentrato su due vie possibili. La prima è quella di sottrarsi alla concorrenza dei mercati del lavoro del terzo mondo, elevando la qualità del lavoro al livello più alto delle nuove tecnologie e della produttività. E’ la via della formazione come strumento principe per difendere il mondo 8 del lavoro dei paesi ricchi dalla concorrenza delle masse lavoratrici dei paesi emergenti. Questa ricetta ha trovato una vasta schiera di sostenitori sia tra gli studiosi che ai vertici della politica: Clinton e Blair ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia nella conciliazione tra globalizzazione e difesa delle condizioni di lavoro. Ma il rimedio affidato all’elevazione dei livelli di istruzione e formazione si è rivelato debole, se non inconsistente. A dispetto della predizione di Jeremy Rifkin di metà degli anni Novanta sulla “fine del lavoro”, l’occupazione totale ha raggiunto negli stati Uniti – e anche in Europa – livelli storici senza precedenti, e senza accusare alcuna scarsità dei livelli di formazione. Al contrario, alcuni economisti ritengono che vi sia in generale una sovrabbondanza di giovani con livelli di istruzione e di formazione più elevati di quelle ordinariamente richiesti sul mercato del lavoro, per cui si assiste a una dequalificazione della professionalità. Questo divario trova conferma in un altro dato. Le differenze di reddito di lavoro si manifestano, secondo le indagini americane, non solo fra diverse fasce di lavoratori, ma anche all’interno della fascia dotata di più alti livelli di istruzione. Tra i giovani lavoratori americani che hanno frequentato il college, i salari oscillavano nel 2003 da dieci a circa quaranta dollari l’ora ( EPI, The State of Working America 2004-2005, p. 162). La differenza nei guadagni appare fondamentalmente legata alla provenienza sociale dalla quale dipende la qualità dei college frequentati e i settori economici di approdo. Le élite si riproducono in larga misura per partenogenesi. Anche perché possono spendere per mandare i figli ai college di eccellenza, somme che sono equivalenti, quando non più alte, del reddito annuo di una famiglia tipica americana. E, non a caso, si assiste a una riduzione della mobilità sociale intergenerazionale che vede, secondo i calcoli dell’OCSE, gli Stati Uniti al di sotto di paesi come il Canada, la Svezia, la Finlandia e la Germania (ib. p. 404). In discussione non è, ovviamente, la rilevanza dei livelli di istruzione nell’elevazione della qualità del lavoro e come potenziale strumento di eguaglianza e mobilità sociale. In Italia fu sviluppata nei primi anni Settanta una grande esperienza in questo campo con l’introduzione a livello di massa dell’istituto contrattuale delle “150 ore”, come modello che precorreva l’odierno paradigma – nella realtà scarsamente praticato - del diritto alla formazione continua. Il punto è che la formazione, al di là della retorica di cui è stata circondata, non è in grado di contrastare i complessi processi che producono ed esasperano la diseguaglianza. Di qui la più recente tendenza in America a indirizzare 9 l’analisi delle cause del degrado del lavoro e della crescente diseguaglianza in direzione delle conseguenze sociali della globalizzazione. 5…e le clausole sociali Secondo alcuni sondaggi d’opinione, il 58 per cento degli americani è convinto che la globalizzazione ha peggiorato le condizioni di vita negli Stati Uniti (Finacial Times, 2.1.2008). Ma non si tratta solo di un rovesciamento dell’orientamento a livello dell’opinione pubblica. Una nuova linea di analisi si fa strada nel mondo accademico. Paul Krugman, dopo essere stato negli anni Novanta fra i più autorevoli assertori della tesi che vedeva il gap retributivo nel salto tecnologico e il rimedio nell’elevazione dei livelli formazione (cfr. Pop Internationalism, 1996), sposta il discorso sugli effetti sociali della globalizzazione. <La globalizzazione – scrive - ha contribuito ad accrescere la ricchezza dei paesi ricchi ma ha anche creato a fianco dei ceti vincenti larghe masse di perdenti… I lavoratori altamente istruiti che certamente beneficiano del commercio con le economie del terzo mondo sono una minoranza, fortemente sovrastata da coloro che con ogni probabilità perdono>. Significa questo che la soluzione possa essere trovata nell’innalzare nuove barriere protezionistiche? Sarebbe una soluzione sbagliata: l’unica alternativa – sostiene l’economista di Princeton - è “il rafforzamento della rete di sicurezza sociale” (“The truble with trade”, www. iht.com, 29-30 dicembre 2007). I candidati democratici alle elezioni presidenziali del 2008, da Hillary Clinton a Barack Obama, si spingono oltre e si impegnano a promuovere una politica di “fair trade” al posto del “free trade”. Un modo elegante di porre dei vincoli alla globalizzazione dei mercati, condizionando i trattati commerciali con i paesi poveri all’inserimento di rigorose clausole sociali: dal diritto alla libera formazione dei sindacati, alla contrattazione collettiva, al divieto del lavoro minorile e alla non discriminazione di genere. Sono, in teoria, le condizioni minime a cui si possa aspirare per migliorare la condizione di milioni di lavoratori del terzo mondo. Ma la probabilità che possano funzionare è scarsissima, se non del tutto illusoria. La delocalizzazione è una scelta operata non dai governi ma dalle grandi multinazionali che selezionano i mercati del lavoro nei quali delocalizzare quote della produzione sulla base della convenienza in termini di salari e di pieno controllo delle condizioni di lavoro. I paesi poveri, dal canto loro, hanno un bisogno disperato di ottenere investimenti, attraverso il trasferimento di segmenti produttivi delle filiere industriali dei paesi ricchi, 10 e questo li sottopone alle scelte delle multinazionali. Cercare di dettare regole in un mondo nel quale proprio i paesi ricchi hanno imposto una spietata deregolazione come condizione per gli investimenti e l’apertura dei mercati è una pura ipocrisia. Quando il governo cinese decise di aumentare il salario minimo legale (portandolo a 0,55 dollari l’ora) sulla costa orientale, dove il lavoro comincia a diventare scarso e la protesta dei lavoratori più minacciosa per il regime, la Camera di commercio americana fece sentire la sua vibrata protesta, ammonendo che le multinazionali si sarebbero spostate in altri paesi, come il Bangladesh. E una reazione ancora più negativa ha ricevuto la nuova legge sulle relazioni industriali varata dal governo cinese che obbliga le imprese a comunicare alle rappresentanze sindacali i mutamenti negli assetti produttivi, le innovazioni tecnologiche e organizzative – paradossalmente, diritti che non esistono negli Stati Uniti, dove oltre il 90 per cento dei lavoratori del settore privato è privo di rappresentanza sindacale. In un mercato del lavoro globale, dove le multinazionali dispongono di un illimitata offerta di lavoro, la pretesa di trasferire nei paesi emergenti, in nome del “fair trade”, regole del lavoro che sono state acquisite nei paesi ricchi del nord nel corso di un secolo di lotte sindacali e di riforme sociali non differisce granché dal progetto rivelatosi tanto velleitario quanto devastante di esportare la democrazia in Iraq o in Afghanistan. 6. La teoria della “responsabilità sociale” dell’impresa In questo quadro di stridenti contraddizioni tra affermazioni di principio e realtà, ha acquistato un crescente consenso la tesi che il miglioramento delle condizioni di lavoro nei paesi poveri possa essere affidato alla responsabilità “sociale delle imprese”. Ma, per quanto ben intenzionato, si tratta di un atto di ingenuità o di ipocrisia. Nel suo ultimo libro, Supercapitalism, Robert Reich si diffonde ampiamente su questo punto. <Da molti anni – scrive – ho predicato che la responsabilità sociale e la profittabilità nel lungo periodo siano convergenti… Ma dal punto di vista dell’impresa attuale, il lungo termine può essere irrilevante. Al tempo del supercapitalismo il “lungo termine” è il valore attuale dei guadagni futuri. E non c’è migliore misura che la quotazione della borsa>. Del resto, <la competizione è così intensa che le imprese in generale non possono assumere obiettivi di carattere sociale, senza imporre un costo ai loro clienti e agli investitori – i quali cercherebbero e troverebbero altrove condizioni più vantaggiose… Il loro legittimo obiettivo è soddisfare i consumatori in modo da 11 realizzare i profitti che si attendono gli investitori>. Ciò non toglie che alcune grandi imprese multinazionali siano sollecitate a mostrare il loro interesse per le questioni sociali e ambientali sotto la pressione di alcuni settori dell’opinione pubblica, e per migliorare la loro immagine abbiano elaborato codici di condotta volontari. Ma <i codici – osserva Reich - sono in larga misura violati… Il messaggio che le imprese siano enti morali con responsabilità sociali svia l’attenzione pubblica dal compito di stabilire prima d’ogni altra cosa leggi e regole adeguate> (Supercapitalism, 2007, pp.171-.207). Lo scetticismo di Reich trova ampie conferme. Con riferimento alla Cina, scrive il New York Times: <Le aziende che forniscono imprese multinazionali, comprendenti WallMart, Disney e Dell sono state accusate di pratiche del lavoro inique come lo sfruttamento del lavoro infantile, il pagamento di salari al di sotto de minimo legale, l’imposizione di una durata del lavoro giornaliero di 16 ore su catene di montaggio con ritmi accelerati”. (Labor abuse plagues China despite corporate crusades, www.nyt.com 5-6/1/2008). Un’organizzazione americana che indaga sulla violazione dei diritti umani riferiva in un recente rapporto che un’azienda che fabbrica utensili domestici per Wal-Mart impone (pena il licenziamento) alle maestranze, per l’80 composte da donne, orari di lavoro di 70-80 ore settimanali e oltre, violando i limiti di straordinario stabiliti legalmente, per una paga oraria di 54 cents (National Labor Committee, Rapporto,dicembre 2007). Ma non si tratta di comportamenti riservati alla Cina. Il lavoro costa ancora meno in altri paesi del terzo mondo, per cui le multinazionali operano dal loro punto di vista scelte economicamente razionali in un mercato globale altamente competitivo. E non ci sarebbe nulla da eccepire se oggetto della competizione al ribasso fosse il petrolio, il rame, il ferro o il carbone, ma la concorrenza al ribasso riguarda il lavoro umano, che a differenza dei minerali, è oggi il bene più abbondante sulla terra. E questa sovrabbondanza rispetto alla domanda lo rende vulnerabile, tendendo ad abbassarne il prezzo al livello della sussistenza. D’altra parte, i diritti dei lavoratori, le tutele sindacali, la sicurezza sociale sono conquiste che hanno impiegato un secolo per affermarsi nei paesi di vecchia industrializzazione. Chi sta più avanti deve adoperarsi con tutti i mezzi più opportuni per trasmettere – come osserva Lyon-Caen - ai lavoratori dei paesi emergenti <il senso del progresso sociale e la pratica delle lotte> (ib. p.263). Ma non basta un articolo di un trattato commerciale per farli nascere e crescere in 12 condizioni pregiudizialmente ostili. Del resto, quando, a metà degli anni Novanta, l’Organizzazione internazionale del lavoro si impegnò in questa direzione, si trovò di fronte a un muro di gomma, e le sue raccomandazioni, anche le più modeste, non ricevettero alcuna considerazione nelle sedi, come l’Organizzazione mondiale del commercio, dove si decidevano le scelte strategiche che dovevano presiedere all’apertura dei mercati commerciali e finanziari nella nuova fase della globalizzazione. 7. Il “Washington consensus” In effetti, la globalizzazione non è affatto un mondo, come spesso si ritiene, privo di regole. Le regole sono imposte dalle istituzioni finanziarie multinazionali, come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il WTO. Regole basate sulla libertà di funzionamento dei mercati, per garantire le quali – secondo la sintesi di Peter Shutland, ex direttore del GATT: <i governi debbono interferire nella condotta dell’economia il meno possibile› (Faux, J. The global class war, p.160). E questo significa tra l’altro: una politica di riduzione delle imposte e della spesa pubblica, di privatizzazione dei servizi, di piena apertura agli investimenti esteri senza differenze rispetto al trattamento concesso alle imprese nazionali. ‹Questa concezione fondamentalista del mercato - ha scritto Stiglitz - fu assunta nella strategia di base per lo sviluppo (e per la gestione della transizione dal comunismo al mercato) sin dagli anni Ottanta dal FMI, della Banca mondiale e del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, una strategia variamente definita come “neo-liberismo” o, essendo tutti a Washington i suoi maggiori attori e pianificatori, il Washington consensus› (The Roaring Nineties 2003, p.229). Senza l’osservanza di questa strategia e delle sue severe prescrizioni i paesi poveri sono esclusi - o minacciati di esclusione – dalla globalizzazione. Scrive Chalmers Johnson, professore emerito dell’Università della California: <La cosa da tenere ben presente è che sia l’FMI sia la Banca mondiale sono, in realtà, dei surrogati del dipartimento del tesoro americano… I loro regolamenti in materia di delibere assicurano che essi non possano far nulla senza l’approvazione del segretario al Tesoro>.(Le lacrime dell’impero 2005, p.312). E’ in questo quadro che prendono corpo le misure di “aggiustamento strutturale” e le terapie d’urto che le due organizzazioni hanno normalmente imposto prima ai paesi del Terzo mondo poi a quelli dell’est che hanno intrapreso la transizione dall’economia di stampo sovietico all’economia di mercato. 13 Ma, per essere più precisi, dobbiamo aggiungere che questa è stata la norma vigente sotto l’egemonia americana, e fino a quando il dipartimento del Tesoro era in grado di manovrare a sua discrezione le istituzioni finanziarie multinazionali. Oggi la situazione è in rapida evoluzione. L’egemonia americana perde colpi di fronte all’emergenza di nuovi grandi attori della globalizzazione – la Cina, l’India, la Russia, il Brasile - e le istituzioni finanziarie multinazionali, dopo aver manomesso il mandato che, sotto la spinta di J.M. Keynes, gli era stato affidato a Bretton Woods, come garanti degli equilibri finanziari internazionali, attraversano una fase di rapido e sempre più diffuso discredito. E’ su queste basi che si delinea una svolta nell’analisi e nei rimedi proposti rispetto alle conseguenze sociali della globalizzazione. Poiché né la formazione, né l’esportazione dei diritti sociali nei paesi emergenti si dimostrano in grado di fronteggiare il problema della diseguaglianza legato al peggioramento delle condizioni di lavoro, si fa strada la convinzione che ci sia qualcosa che non funziona all’interno dei paesi ricchi, che pure finora hanno guidato e tratto vantaggi dal processo di globalizzazione. La riflessione si concentra sul fatto che la strada dell’”adattamento”, entrando in contrasto e aggredendo le istituzioni che nel secolo passato hanno presieduto al progresso civile nel campo del lavoro e dello stato sociale, si è dimostrata fallimentare. 8. La crisi del processo di “adattamento” Gli Stati Uniti, ancora più dell’Europa, sulla quale torneremo, sono un terreno di eccellenza per studiare sperimentalmente i guasti derivanti dal processo di adattamento alla deregolazione economica e sociale derivante dalla versione neoliberista della globalizzazione. L’attacco al sindacato, il declino della contrattazione collettiva, lo schiacciamento dei salari e la riduzione dei benefici sociali (dalla sanità alle pensioni) non sono la conseguenza naturale della globalizzazione dei mercati, anche se essa contribuisce a favorirne le condizioni. La destrutturazione dei vecchi equilibri era stata avviata già prima. Il capitalismo americano degli anni Settanta, sottoposto alla crisi petrolifera e alla concorrenza delle nuove realtà industriali emerse in Europa e in Giappone, non era più in grado di onorare il patto sociale che per antonomasia era stato definito il “Patto di Detroit” con allusione agli accordi nel settore automobilistico fra l’UAW, il più autorevole sindacato americano, e i tre big dell’auto. Inizia allora il 14 processo di delocalizzazione della grande impresa nelle terre vergini del sud dove non esistevano sindacati, né contrattazione, né rigorosi vincoli sociali e ambientali. La globalizzazione nella nuova forma è ancora lontana. Ma il processo di delocalizzazione avanza a ritmo serrato. Al patto di Detroit si sostituisce quella che potremmo definire la “fuga da Detroit”. Comincia allora la lunga marcia verso la segmentazione del processo industriale e l’outsourcing che, nei primi anni Ottanta, Bluestone e Harrison descrivono come l’avvio della deindustrializzazione dell’America (The deindustrialization of America,1982). Le nuove tecnologie informatiche non hanno ancora raggiunto il loro pieno sviluppo, mancano ancora una decina d’anni alla “new economy” che connoterà gli ultimi anni del secolo, quando il cambiamento radicale del mercato del lavoro e delle condizioni di lavoro ha già percorso un consistente tratto di strada. Ma gli Ottanta sono anche il decennio di Ronald Reagan, e la politica dà il suo aggressivo contributo alla ridefinizione dei rapporti di lavoro. Reagan indica la strada del ripudio del sindacato, rifiutando di ricevere durante tutto il suo mandato i capi dell’AFL-CIO alla Casa Bianca. E dà un esempio concreto di come ci si comporta, licenziando in tronco i 12.000 controllori di volo che scioperano. Le imprese afferrano la lezione e interpretano la vecchia legislazione sullo sciopero, che risale alla legge TaftHartley degli anni Cinquanta, nel senso che i lavoratori in sciopero possono essere sostituiti permanentemente, in pratica licenziati. Intanto, non ostante la crescita del tasso d’inflazione, il salario minimo legale rimarrà fermo per tutti gli Ottanta con la perdita del 30 per cento del potere d’acquisto (The State of Working America cit. p..377). Insomma, la globalizzazione non ha ancora dispiegato i suoi effetti, quando il mondo del lavoro ha già cambiato segno in direzione di una controrivoluzione neoconservatrice che alimenta l’esplosione della diseguaglianza. Alla globalizzazione sarà affidato il compito di consolidare, esaltandola, la svolta già in atto. 9. La ricerca delle cause interne del degrado del lavoro La libertà di licenziare e l’imponente abbattimento dei salari è stato praticato in America con la giustificazione dei cambiamenti indotti dalla globalizzazione e dal dispiegarsi della concorrenza a livello planetario. Ma cosa c’entrano con la concorrenza dei paesi emergenti, la precarietà del lavoro, i bassi salari, il diniego dei contributi per 15 l’assistenza sanitaria e per la pensione integrativa di Wal-Mart? La più grande impresa commerciale a livello planetario con oltre un milione e mezzo di dipendenti e 3.500 supermercati negli stati Uniti, con il suo mostruoso gigantismo, non può subire la minaccia di concorrenti, ma è piuttosto in grado di sbaragliare la concorrenza di piccoli come di grandi imprese commerciali. E’ del tutto evidente che la formazione e la globalizzazione non hanno niente a che vedere con le miserabili condizioni di lavoro di Wal-Mart. Mentre hanno molto più a che fare con la deregolazione del mercato del lavoro, con le regole che impediscono di fatto al sindacato di entrare nell’azienda, con l’impossibilità di negoziare un contratto collettivo, con l’inconsistenza del salario minimo legale e con il mancato obbligo di garantire l’assistenza sanitaria e una pensione integrativa, di cui gode una parte più fortunata dei lavoratori americani. La formazione impartita ai nuovi assunti – rigorosamente definiti “associati” – non occupa più di mezza giornata, durante la quale si ripercorre la storia gloriosa di Sam Walton, il fondatore dell’impresa, e si spiega quanto sarebbe pernicioso per tutti se i sindacati riuscissero a metter piede nell’azienda (Ehrenreich B., Nickel and Dimed 2002, pp.142-143). Ma Wal-Mart è solo il caso più clamoroso e discusso (su di esso sono stati scritti volumi e girati documentari), ma non è affatto un’eccezione. Il più forte sciopero degli anni Novanta si ebbe alla UPS, la più grande società privata a livello mondiale di spedizione e consegne con circa mezzo milione di dipendenti. All’origine vi era il fatto che circa 100.000 lavoratori assunti part time, ma con le stesse mansioni di tutti gli altri, erano pagati con una tariffa oraria di 9 dollari contro circa il doppio dei vecchi lavoratori a tempo pieno. Un tipico caso dove non può essere invocata la concorrenza dei paesi poveri ma, al massimo quella di un altro colosso americano del settore, la FedEx con circa 250.000 dipendenti e una gigantesca flotta aerea – un impresa che a sua volta è sotto processo per l’inquadramento di 15.000 autisti addetti alle consegne come lavoratori autonomi. Due imprese gigantesche che ugualmente si avvalgono della deregolazione del mercato del lavoro e dell’assenza di un contratto collettivo di settore che fissi le tariffe minime orarie a parità di inquadramento professionale. Ha certamente ragione l’economista del lavoro di Harvard, Richard Freeman, quando nel suo ultimo libro America Works, guardando direttamente all’interno del modello neoliberista americano afferma che la deregolazione, la debolezza e più spesso l’assenza del sindacato, la mancanza di una contrattazione nazionale, l’impoverimento del welfare 16 si rivelano come la principale causa del degrado della condizione di lavoro e della diseguaglianza dei redditi. La stragrande maggioranza di lavoratori americani è impiegata nei settori terziari dove la concorrenza del mercato globale non può essere invocata perché si tratta di lavori non delocalizzabili, se si esclude una certa quantità di lavoro informatico che può essere eseguito a distanza, com’è tipicamente il caso di Bangalore in India. Nei servizi vi è un’élite altamente privilegiata che lavora nella direzione delle banche e delle grandi imprese, negli studi legali, nelle agenzie di consulenza, nel mondo della finanza, nella medicina, nei media – un’oligarchia che è al di sopra della concorrenza perché fa parte di una superclasse globale che occupa i posti di comando nelle metropoli dell’economia mondiale da New York a Londra, a Tokio, a San Paolo, a Nuova Delhi e a Shangai: una élite – scrive Saskia Sassen – sostanzialmente indifferente alle sorti del proprio paese se non per garantirsi la piena libertà di gestione dei propri affari a livello globale.(Le città nell’economia globale, 1997). Ma nel mondo dei servizi, dove sono impiegati i tre quarti dei lavoratori americani – all’incirca 100 milioni - questa élite è solo una parte privilegiata quanto minoritaria. La grande maggioranza dei lavori terziari ha un carattere complementare o subalterno nei confronti delle imprese e delle famiglie, presente in particolare nell’edilizia, nel commercio, nei settori finanziari, nella scuola, nella sanità, e così via: tutte attività che non sono delocalizzabili. Appare evidente che prima ancora che dalla globalizzazione, la precarietà, i bassi salari, il declino dell’assistenza pubblica sono originate dalla rottura del patto sociale che mirava a ridistribuire, con accettabili misure di equità, l’aumento della produttività generale e del reddito nazionale. Si è sostenuto, scrive Robert Frank della Cornell University che ‹la crescente diseguaglianza è in larga misura la conseguenza del fatto che i salari dei lavoratori comuni è trascinato in basso dalla competizione del lavoro straniero. Ovviamente questo è stato importante per alcune occupazioni. Ma noi assistiamo allo stesso percorso di ineguaglianza quando guardiamo alle occupazioni che sono largamente immuni dalla competizione straniera› (Falling Behind 2007, p.98). In altri termini, la globalizzazione insieme con la rivoluzione tecnologica, accrescendo la ricchezza dei paesi che vi partecipano, avrebbero dovuto agire in direzione di un patto sociale rinnovato e non meno equo che nel passato. Ma, in effetti, si è verificato il contrario. 17 10. La riscoperta delle istituzioni Negli anni più recenti, dimostratosi, da un lato, inconsistente il tentativo di rimettere equilibrio nei rapporti sociali ricorrendo alla leva della formazione; dall’altro, illusoria la pretesa di esportare la democrazia del lavoro nei paesi poveri, prende corpo un nuovo orientamento per uscire dal binomio: degrado delle condizioni di lavoro-esplosione della diseguaglianza. Si torna a puntare sulle istituzioni come strumento di contrasto e di rimedio alle conseguenze sociali della globalizzazione, abbandonando la linea della genuflessione delle istituzioni e della politica dinanzi all’incalzare dell’ortodossia neoliberista. Alcuni esempi di questa svolta sono particolarmente significativi. Dopo una lunga opposizione dell’amministrazione Bush, il Congresso ha approvato, a decorrere dal 2009, l’aumento del salario minimo legale a 7,25 dollari l’ora, dopo essere stato bloccato per dieci anni a 5,25 dollari, corrispondenti al più basso livello reale degli ultimi 50 anni. Il Congresso ha anche bloccato il tentativo, che faceva parte della piattaforma repubblicana sin dal primo mandato di George W. Bush, di privatizzare una quota della “social security”, il sistema pensionistico pubblico che eroga la pensione al 95 per cento dei lavoratori americani. E un posto assolutamente centrale occupa nel dibattito politico la riforma del sistema sanitario per estenderne la tutela a livello universale, superando lo scandalo di quasi 50 milioni di americani che ne sono privi, non ostante il costo complessivo della sanità sia il doppio della media europea. Ma l’aspetto per molti versi più sorprendente è il rilancio del dibattito sul ruolo dei sindacati. Dopo alcuni decenni di declino (con una rappresentanza sindacale nel settore privato ridotta al 7,4 per cento dei lavoratori) in un clima di indifferenza, quando non di ostilità dell’opinione pubblica, i sondaggi rivelano che i due terzi degli elettori democratici e quasi la metà degli elettori repubblicani lamentano il declino del sindacato, e ne vorrebbero il rafforzamento. Andy Stern, presidente del SEIU, attualmente il più grande sindacato americano con 1.900.000 iscritti, si batte per una riforma delle leggi sindacali che ne avvicinino il modello a quello europeo, un’ipotesi che sarebbe apparsa del tutto stravagante nei decenni passati. E’ una svolta destinata ad avere successo? La previsione non può che essere incerta. Le forze che mirano a conservare la condizione di privilegio acquisita nel corso dell’ultimo quarto di secolo sono potenti, e hanno dato prova della capacità di dirottare in direzione dei loro interessi il processo politico. La riforma della legge Taft-Hartley che dovrebbe 18 ridare fiato al sindacato è stata approvata nella primavera del 2007 dalla Camera dei Rappresentanti, ma rischia di essere bloccata al Senato. La riforma sanitaria è tornata a essere la questione centrale, prima ancora dell’Iraq, nella campagna elettorale dei candidati democratici, ma l’esito è tutt’altro che scontato. Nel campo delle pensioni, le imprese non si assumono più la responsabilità di garantire una pensione integrativa predeterminata (defined benefit), ma trasferiscono sul lavoratore il rischio connesso ai fondi pensione a capitalizzazione (defined contribution). Il tentativo di riformare il modello sociale americano nella versione neoliberista consolidatosi, a partire dall’avvento di Reagan, nell’ultimo quarto di secolo, incontra ostacoli formidabili nell’oligarchia imprenditoriale e finanziaria. Siamo in ogni caso a una svolta. La teologia del mercato e dell’autoriduzione delle funzioni statali, in definitiva delle istituzioni e della politica, ha perduto credibilità. I suoi sacerdoti sono duri a morire, ma la loro predicazione si fa sempre più sbiadita. 11. Il caso americano e l’Europa Ho detto all’inizio che il caso americano e i nuovi versanti del dibattito sulla globalizzazione sono utili per verificare, in trasparenza, a che punto siamo in Europa. Credo che si possano fare a questo proposito tre osservazioni. La prima riguarda il fatto che nell’Unione europea l’analisi dei cambiamenti nel mondo del lavoro è fondamentalmente ferma all’idea dell’adattamento al paradigma neoliberista della globalizzazione, mentre in America si discute ormai del fallimento delle risposte neoliberiste, affidate agli automatismi di mercato. In Europa – come del resto in Italia – rimane forte e aggressiva la posizione dei sostenitori della liberalizzazione del mercato del lavoro e della privatizzazione di una parte del welfare, dalle pensioni alla sanità. Un esempio di scuola, apprezzabile per la dichiarata scelta neoliberista, si può scorgere nel saggio di Alesina e Giavazzi (Goodby Europa, 2006) che intreccia il dibattito italiano con quello europeo. Gli autori attribuiscono le difficoltà di crescita che incontra l’Unione europea ai sistemi di rigidità del mercato del lavoro e di protezione dell’occupazione che trovano il loro sostegno nella legislazione sociale, nei sindacati, nella contrattazione, nella concertazione, nella dimensione della spesa sociale, e così via biasimando. E’ il modello di critica e di alternativa che in America è stato proposto nel corso degli ultimi due decenni dai grandi centri di ricerca neo-conservatori, 19 dall’Heritage Foundation al Cato Institute; ma, come abbiamo visto, la loro teologia neoliberista attraversa una fase di declino e discredito. In Italia avviene il contrario. I due autori citati sono editorialisti di punta del maggiore giornale del paese con al seguito una schiera, forse meno illustre ma non meno determinata, di adepti che propagandano lo stesso credo. La seconda osservazione riguarda un metodo di analisi che invece di basarsi sui fatti, tende a oscurarli. E’ diventato di moda guardare con un certo rispetto a quello che viene definito il modello scandinavo, elogiandone – come nel caso danese – la libertà di licenziare (libertà, peraltro, più formale che praticata, essendovi una situazione di sovraoccupazione con carenza di mano d’opera, e un sindacato che copre sostanzialmente l’intera forza lavoro). Quasi sempre dimenticando (o fingendo di dimenticare) che si tratta dei paesi con la più alta incidenza di imposte sul reddito al mondo e con la più elevata spesa sociale a tutela del reddito dei lavoratori. Poi, come contrappunto all’elogio scandinavo, non privo di una vena di ipocrisia, la linea di pensiero neoliberista getta discredito sui sistemi di protezione presenti nei grandi paesi continentali dell’Unione europea - Germania, Francia, Italia. Ognuno dei quali, peraltro, presenta problemi diversi. Ma l’esempio più classico della contraddizione dell’analisi neoliberista si può individuare in relazione alla Germania. Qui sono presenti, più che in Francia e in Italia, gli elementi di struttura che più disturbano il pensiero ortodosso: un sindacalismo forte, un elevato potere contrattuale a livello nazionale e aziendale che non ripudia la flessibilità, ma ne negozia le forme e le contropartite in termini di controllo dei livelli di occupazione. Un sindacato che per di più esercita attraverso quella specifica forma di codeterminazione a livello delle grandi imprese che è la Mitbestimmung, un potere di intervento sulle scelte strategiche aziendali. Un paese dove i trasferimenti sociali, al netto delle imposte, come dimostra un recente studio dell’OCSE, sono comparabili a quelli garantiti dalla spesa sociale scandinava (R. Paladini, www.eguaglianzaelibertà.it, gennaio 2008) Questo quadro così testardamente improntato al vecchio modello di “capitalismo renano” dovrebbe essere la vittima designata della globalizzazione. Si dà il caso che sia vero il contrario. La Germania è il paese con il più alto avanzo commerciale al mondo. Non ostante l’elevatezza dei salari e del costo del lavoro, la sua competitività regge anche di fronte alla supervalutazione dell’euro che ha registrato negli ultimi anni un apprezzamento del 40 per cento sul dollaro. Mantiene una forte struttura industriale che, 20 peraltro, il governo difende dall’assalto dei capitali finanziari speculativi. La sua industria automobilistica è, insieme con quella giapponese, la più efficiente e redditizia a livello mondiale, mentre i colossi simbolo dell’industria americana del secolo scorso, General Motors e Ford, non riescono a uscire da una condizione fallimentare e la Chrysler è finita nelle mani di un hedge fund. Questo non significa che la Germania sia immune da problemi. Le regioni orientali continuano a registrare un livello doppio o triplo della disoccupazione presente nelle regioni della vecchia Repubblica federale, innalzandone il tasso medio. Ma i problemi regionali, come ben ci ricorda l’esperienza del Mezzogiorno, non si risolvono riducendo la spesa sociale, liberalizzando i licenziamenti e svendendo l’industria nazionale agli hedge fund americani, come pretende il fondamentalismo neoliberista. 12. L’asse Francoforte-Bruxelles La terza osservazione riguarda le ambiguità del modello economico-sociale dell’Unione europea. Jacques Delors aveva immaginato, nel corso del decennio che lo vide alla testa della Commissione europea, lo sviluppo di un modello sociale fondato su un sistema di check and balance, di equilibri fra la libertà dei mercati, l’intervento dei poteri pubblici, sia a livello comunitario che dei singoli stati, un forte potere d’intervento dei partner sociali, con un esplicito sostegno al sindacalismo europeo. A quell’epoca, nel decennio a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, si trattava di un’impostazione che rovesciava i termini della controrivoluzione sociale operata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Il dopo Delors ci ha consegnato un processo ininterrotto di svuotamento di questo modello. La politica della BCE è unicamente diretta alla stabilità dei prezzi con una dichiarata indifferenza ai problemi della crescita economica. In ossequio alla politica antinflazionistica di Francoforte, la Commissione europea, operando una rigida e burocratica interpretazione del trattato di Maastricht, impone (o prova a imporre) agli stati membri una politica fiscale che ha come obiettivo il pareggio del bilancio o il suo avanzo. Jean-Claude Trichet, presidente della BCE ha uno sguardo severamente vigile sulle regole del mercato del lavoro, i sistemi pensionistici e rivendicazioni salariali, contribuendo a comporre un mosaico teoricamente compiuto di stampo monetarista. Si tratta di politiche che non mancano di sollevare dubbi e critiche sia dalla parte di una folta schiera di economisti di diversi orientamenti, sia da parte dei governi. In molti, considerano la politica macroeconomica sostenuta dall’asse Francoforte-Bruxelles una 21 politica deflazionista che frena le potenzialità di sviluppo di quella che è ormai la più grande area economica integrata del pianeta. Bisogna tuttavia considerare che non si tratta di scelte arbitrarie, ma basate su precise basi dottrinali che collimano con una determinata visione e gerarchia degli interessi economici e finanziari. Il problema è, secondo Stiglitz che <L’Europa ha chinato il capo di fronte a queste dottrine>. E non si tratta solo di scelte tecniche: <La Banca centrale europea continua a perseguire una politica monetaria fantastica dal punto di vista dei mercati obbligazionari, visto che l’inflazione resta bassa e i prezzi delle obbligazioni si mantengono alti, ma disastrosa per tutto ciò che attiene alla crescita e all’occupazione>. Del resto: <la depoliticizzazione delle decisioni spiana la strada a decisioni che non tengono contro degli interessi sociali generali> (La globalizzazione che funziona, 2007, pag.321). Dobbiamo, in ogni caso, riconoscere che siamo al cospetto di una politica a suo modo coerente, perfettamente corrispondente a un’impostazione teorico-ideologica chiaramente dominante tra gli anni Ottanta e Novanta, in primo luogo nelle grandi istituzioni finanziarie multinazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. Una linea criticabile, ma con il merito di essere esposta e difesa in modo chiaro e senza infingimenti dalle autorità di Francoforte e Bruxelles. 13. L’ambigua politica del lavoro europea Se l’asse Francoforte-Bruxelles si presenta con una linea chiara e trasparente, non altrettanto si può affermare della politica del lavoro. Nelle dichiarazioni di principio, la Commissione europea esibisce l’obiettivo della salvaguardia e dello sviluppo del modello sociale europeo, con tutte le sue distinzioni ma anche con i suoi fondamentali principi di tutela del mondo del lavoro. Ma negli orientamenti concreti non vi potrebbe essere politica più ambigua. Dietro la sterminato quantità di documenti, che instancabilmente promettono la lotta alla disoccupazione, possiamo intravedere una concezione dell’occupazione perfettamente corrispondente al quadro teorico che gli economisti definiscono come “politica dell’offerta”. Di cosa si tratta? Sostanzialmente della politica dell’employability: vale a dire, misure destinate ad accrescere l’occupabilità attraverso la flessibilità, la formazione, lo spirito imprenditoriale. E se, non ostante tutto, permane una condizione di disoccupazione? Il quesito non è contemplato. Infatti, secondo la teoria dell’offerta, c’è sempre una domanda di lavoro disponibile, se l’offerta è sufficientemente flessibile. Non è invece 22 prevista la circostanza che la disoccupazione dipenda da un’insufficienza della domanda di lavoro, da una crescita economica troppo bassa, da un vuoto di investimenti, da condizioni storiche di insufficienze strutturali e così via. Il famoso Libro Bianco di Delors aveva raccomandato una politica attiva del lavoro dai due lati: dell’offerta e della domanda; ma, dopo molti cerimoniosi inchini, è stato in breve tempo collocato nell’archeologia delle politiche “volontariste”, francesizzanti, di ispirazione cattolicosocialista, in definitiva di vecchio stampo keynesiano, incompatibili con il principio della sovranità e autoregolazione dei mercati. Dobbiamo ripetere che non si tratta di teorie e convinzioni campate in aria. La scelta del mercato come supremo regolatore della vita economica fu trionfante fino alla soglia degli anni Trenta del secolo passato, per essere poi riportata in auge negli ultimi due decenni. Il richiamo alla razionalità del mercato si fonda su una tautologia. <In un certo senso - osservava Polanyi - tutti i mercati sono sempre autoregolati poiché tendono a produrre un prezzo che consenta di vendere quanto è disponibile sul mercato>. Ma aggiungeva significativamente che: <il funzionamento di mercati di questo tipo tende a distruggere la società> per cui <l’azione autoconservatrice della comunità era intesa a prevenire la loro istituzione o a interferire nel loro libero funzionamento> (La grande trasformazione, 1974 p.256). Questo è quello che si è verificato, con alti e bassi, nel XX secolo: l’affermarsi di istituzioni di carattere sociale non concepite per adattarsi ai paradigmi dell’autoregolazione dei mercati, ma precisamente tendenti a prevenirli e a interferire nel loro funzionamento per scongiurarne o stemperarne gli effetti negativi. Ma la maggioranza delle nuove élite tecnocratiche europee si sono dimostrate più inclini a seguire le dottrine neoliberiste delle Business School americane che non il pensiero critico elaborato nella vecchia Europa. 14. Le” due” Lisbona All’inizio del 2000 ebbi l’occasione, come consigliere del Ministro del lavoro, di prendere parte direttamente all’elaborazione dei documenti per il Vertice straordinario dell’Unione europea di Lisbona dedicato alle politiche dell’occupazione. Ricordo che il lavoro svolto a livello intergovernativo in uno stretto rapporto con i governi francese, tedesco, svedese aveva portato a un documento che per la prima volta tornava a intrecciare esplicitamente l’obiettivo della piena occupazione con quello della crescita economica. La flessibilità del lavoro, concordata nel rapporto fra le parti sociali, 23 avrebbe trovato una sponda in una politica di crescita sostenuta e duratura a livello comunitario in una misura che mirava a un aumento medio del PIL del tre per cento l’anno. Gli uffici della Commissione europea proiettarono questa impostazione in un arco di tempo decennale, tracciando la traiettoria di una sostanziale piena occupazione. Non si trattava di obiettivi e proiezioni astratte. Tra il 1998 e il 2000 la crescita media dell’Unione europea raggiunse la media del tre per cento annuo, la disoccupazione calò verticalmente e l’occupazione aumentò di circa cinque milioni di unità con una media annua di oltre l’1,5 per cento. Ma gli obiettivi di Lisbona furono rapidamente deviati verso un’interpretazione che oscurò l’obiettivo di una politica economica comunitaria indirizzata allo sviluppo, per tornare ai paradigmi neoliberisti della crescita fondata su una politica macroeconomica antinflazionistica (pur essendo l’inflazione ai livelli più bassi da 40 anni) e sulle famose “riforme di struttura”, intese come: liberalizzazione dei mercati nei settori dei servizi, concorrenza, flessibilità illimitata del mercato del lavoro, contenimento della spesa sociale, privatizzazione dei servizi e di quote crescenti dello stato sociale. Gli anni successivi a Lisbona, non ostante la nascita dell’euro che oggettivamente rafforzava l’Unione riducendo i rischi di shock monetari esterni, furono miseramente deludenti, segnati da una lunga fase di sostanziale stagnazione economica e di ripresa della disoccupazione. Alle promesse di Lisbona sopravvisse solo la retorica dell’Unione europea che sarebbe diventata “la società della conoscenza più avanzata e competitiva del mondo”, naturalmente come esito di una politica ortodossamente neoliberista. L’asse Francoforte-Bruxelles trovò l’appoggio di una parte dei governi europei e, in particolare della Gran Bretagna, peraltro fuori dall’euro, ma non di tutti e non in tutte le circostanze. Vi sono dissensi anche all’interno della Commissione europea - famoso è il marchio di stupidità attribuito da Romano Prodi alla gestione del trattato di Maastricht quando era presidente della Commissione europea. Ma l’ortodossia neoliberista rimane il punto di riferimento ideologico e tecnico dell’euroburocrazia addetta alle questioni monetarie, finanziarie e della concorrenza. L’esito in parte esplicito, più spesso latente, è la tensione e talvolta il conflitto che si manifestano nella critica alle politiche della Banca centrale, nella continua diatriba sull’applicazione dei parametri di Maastricht, nella tacita, quando non esplicita, resistenza ad assumere nel campo del lavoro le riforme di struttura, intese come progressiva liberalizzazione del mercato del lavoro e riduzione della spesa sociale. 24 Paradossalmente, la tecnocrazia europea ha riscosso un maggiore successo nei nuovi paesi dell’est che, usciti dalla paralisi dei regimi comunisti, hanno con perfetto spirito subalterno adottato le misure economiche e sociali tipicamente raccomandate dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale. Non a caso, le istituzioni finanziarie multinazionali sono riuscite, col pieno appoggio delle istituzioni europee, a far passare nei nuovi stati membri politiche di privatizzazione del welfare (pensioni, sanità, istruzione) che stentano a trovare un terreno altrettanto disponibile nei paesi della vecchia Europa (cfr. Social Watch Report 2007). 15. La” flexicurity” degli inganni E’ questo lo scenario nel quale, nell’autunno del 2007, la Commissione europea si è impegnata a proporre la politica della “flexicurity”, presentata come la prodigiosa soluzione dei problemi connessi alla precarietà del lavoro. Non sappiamo se riuscirà ad affermarsi, ma un successo l’ha già ottenuto a livello mediatico. E’ una formula lessicale ibrida ma, nonostante (o proprio per) questo, suggestiva. Cosa ci può essere di meglio che coniugare la flessibilità con la sicurezza? Ma cosa si deve intendere esattamente per flessibilità? Quella che già esiste e che in molti, giuristi e economisti e sociologi del lavoro, come Luciano Gallino, considerano eccessiva e causa di un crescente disagio sociale? E’ questa flessibilità che si vuole controbilanciare con una maggiore garanzia di sicurezza e di tutele, in modo da attenuarne le conseguenze negative? La risposta a questi interrogativi è semplicemente: no. La flessibilità, così come la conosciamo, è considerata dai sostenitori della flexicurity insufficiente, ancora frenata se non bloccata dai vecchi schemi garantisti cresciuti con il diritto del lavoro del secolo scorso, con la contrattazione collettiva e con una legislazione sociale reputata eccessivamente protettiva. Trattandosi di una formula che evoca il concetto di sicurezza, ci si aspetterebbe che la flessibilità sia circoscritta, sottoposta a regole, confinata entro limiti trasparenti e riconoscibili, insomma il più possibile immune dalla discrezionalità incondizionata di una sola delle due parti in gioco. E’ vero il contrario. La flessibilità richiamata dalla flexicurity sconfina al di là dell’ultimo tabù costituito dai limiti alla licenziabilità senza giustificato motivo. In ultima analisi, la vera essenza della flessibilità è collocata nella libertà di assumere e licenziare, l’invidiato “hire and fire” di cui, in linea generale, dispongono le imprese 25 americane, la possibilità di interrompere il rapporto di lavoro “at will”, raffinata versione inglese del vecchio e greve “ad nutum” - evenienza in linea di principio confutata dalla Carta sociale europea. Finora i giuristi del lavoro inclini al modello neoliberista si sono sforzati di ottenere quella che si definisce flessibilità in uscita con l’adozione di un’ampia e immaginifica manipolazione della flessibilità in entrata, vale a dire moltiplicando i rapporti di lavoro a termine che implicano per la loro stessa essenza la libertà di licenziare, senza esplicitamente nominarla. Ora la Commissione europea, assistita da una schiera di volenterosi esperti del lavoro, punta a compiere il passo conclusivo verso il pieno adattamento del mercato del lavoro alle regole della domanda e dell’offerta, facendo venir meno quella specifica funzione dialettica, di contrasto e di bilanciamento, che Karl Polanyi attribuiva alle istituzioni di carattere sociale. Ma tutto questo riguarda solo la prima parte della formula della flexicurity, essendo la seconda dedicata alla sicurezza, vale a dire alla tutela del reddito, una volta perduto il lavoro. E qui la doppiezza della formula diventa ancora più sconcertante. Infatti, essa non evoca un allargamento delle tutele rispetto a quelle mediamente praticate nei vecchi paesi dell’Unione. Bensì una tutela ben circoscritta e limitata nelle quantità e nella durata in modo da incentivare la (obbligare alla) ricerca e l’accettazione di un qualsiasi posto di lavoro alle condizioni offerte dal mercato. Si tratta, in sostanza, del compimento della teoria che fa discendere la disoccupazione dalla rigidità del mercato del lavoro, e la conferma della tesi secondo la quale l’offerta di lavoro, come di ogni altra merce, trova una domanda solvibile se il salario e le condizioni della prestazione sono sufficientemente (illimitatamente) flessibili. In sostanza, la disoccupazione involontaria deve essere attribuita ai vincoli del diritto del lavoro e alle norme contrattuali maturate nel corso del secolo scorso, oggi considerate conservatrici e fonte di privilegi per quei lavoratori che possono ancora disporne. Paradossalmente, le forme di protezione sociali diventano fonte di diseguaglianza. La protezione del lavoro diventa il peggior nemico dei disoccupati secondo la bibbia diffusa dall’OCSE a metà degli anni Novanta col famoso rapporto sulle origini della disoccupazione (Jobs Study, 1994), successivamente criticato all’interno della stessa organizzazione, ma rimasto come criterio guida della superiore razionalità della deregolazione del lavoro. Che, nella formula più accattivante, è presentata come una politica diretta alla tutela del lavoratore disoccupato, non nel suo posto di lavoro. E l’accento torna sulla formazione come panacea universale: <E’ un fatto della vita – 26 sostiene Barroso, – che le persone possano sperimentare lo stress della disoccupazione, ma arricchendo le proprie competenze si metteranno in condizione di trovare un nuovo lavoro il più presto possibile>. Ma per quanto queste tesi siano criticabili e perfino paradossali, esse assumono una sorta di coerenza teorica e ideologica, se ci si colloca dal punto di vista del mercato come il migliore regolatore dei rapporti sociali. Ma allora bisogna rendere chiaro il punto di partenza. Come scriveva Federico Caffè, richiamando Myrdal, nell’introduzione alle Lezioni di politica economica: l’analisi sociale riflette sempre una certa visione del mondo, premesse ideali e preferenze politiche dello studioso, non vi è una scienza sociale immune da giudizi di valori: <il suo necessario sforzo di obiettività consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo o reprimerli> ( 1978 pp. 13-14). In effetti, assistiamo a una diffusa operazione di mascheramento. Vediamo in Europa Barroso, presidente della Commissione europea, di chiara inclinazione neoliberista, voluto in quell’incarico da Blair, Aznar e Berlusconi, presentare la flexicurity come la più autentica ed equa politica del lavoro, in perfetta continuità con la tradizione europea. Così come tanti zelanti sostenitori delle politiche neoliberiste si dichiarano in Italia i veri paladini di una politica progressista suggerita alle forze di centrosinistra. 16. Il fondamentalismo tecnocratico Concludendo, possiamo provare a riassumere. Le politiche pubbliche non sono state in grado di far fronte alle conseguenze che scaturivano dai mutamenti in corso, indipendentemente dal dosaggio delle loro cause. Vi è di più. Si è arrivati a concludere che le politiche pubbliche nulla possano per intervenire sui processi in corso per contrastarne o mitigarne gli effetti collaterali. La reazione è stata quella dell’adattamento inteso come sottomissione alle tendenze dominanti.. In questo scenario, i sindacati, la legislazione sociale, la contrattazione nazionale, i vincoli del diritto del lavoro, che presidiano la certezza dei rapporti di lavoro, sono considerati un impedimento al libero funzionamento del mercato del lavoro e per ciò stesso causa di distorsione, indebiti privilegi, diseguaglianza. Gli Stati Uniti, che sono stati la frontiera più avanzata lungo questo percorso, hanno pagato un prezzo sociale alto che oggi rischia di risolversi in una crisi di rigetto del processo stesso di globalizzazione, di cui sono stati i maggiori protagonisti nell’ultimo quarto di secolo. 27 Questo malessere sociale interno incrocia una più generale perdita di egemonia dei paesi ricchi del Nord al cospetto di un profondo cambiamento della mappa della globalizzazione, che era nata all’insegna della triade Stati Uniti, Unione europea, Giappone sotto la guida americana. La globalizzazione è ormai un processo policentrico dove operano con una crescente dose di autonomia nuovi grandi attori regionali come la Cina, l’India, la Russia, il Brasile. La novità, come abbiamo visto, è che gli Stati Uniti sembrano finalmente coglierete la natura interna della crisi. S’interrogano sulle sue origini, riscoprendo l’importanza dei problemi sociali, del lavoro e della diseguaglianza, e in misura crescente si orientano verso nuove soluzioni al cui centro vi è la riabilitazione delle istituzioni e delle funzioni della politica. L’esito di questa partita rimane incerto. L’ala progressista conta sulla vittoria nelle elezioni dell’autunno del 2008 nella convinzione di poter conquistare insieme la Casa Bianca e la maggioranza nei due rami del Congresso. In nessun caso il cambiamento politico sarà facile. Ma il “laissez faire” è ormai discreditato, avendo concorso a una profonda rottura interna alla società americana. Mentre s’incrinavano i fondamenti di quello che negli anni Novanta fu definito il”pensiero unico”. Diversa è la situazione in Europa. Il dibattito sulla globalizzazione è oscurato, o utilizzato per sostenere la necessità di consolidare le linee neo-conservatrici della tecnocrazia che regge l’asse Francoforte-Bruxelles in accordo con le oligarchie finanziarie europee. Non esiste un dibattito aperto, e sembra di essere tornati alla metà degli anni Novanta, quando Jean-Paul Fitoussi agitò le acque col suo saggio Le débat interdit. In effetti, pur in assenza di un dibattito aperto, i governi si muovono lungo strade più o meno esplicitamente divergenti rispetto alle linee di condotta dettate dalle istituzioni europee in materia economica e sociale. Il risultato di questo scenario precario e contraddittorio è che i governi fanno ricadere sull’Unione le responsabilità delle politiche che frenano la crescita e aggravano le condizioni di disagio sociale, mentre le tecnocrazie europee accusano i governi di infedeltà ai principi dell’Unione. Complessivamente, ne risulta un quadro schizofrenico. Da un lato, la tradizione di un modello sociale – non importa se unitario o plurale - teso a ridurre la diseguaglianza sociale e a rafforzare il valore del lavoro come un fattore essenziale della libertà personale e della cittadinanza. Dall’altro, la tendenza a scardinare queste conquiste di 28 civiltà per l’assunzione di un modello neoliberista che ha dimostrato di dare una pessima prova proprio in America che è stata la sua patria originaria. Come negli Stati Uniti l’esito imprevisto è un diffuso spirito di rivolta contro la globalizzazione, così in Europa cresce il disincanto verso il processo di integrazione. Il ripudio del Trattato costituzionale in Francia e Olanda fu letto come il risultato di una crisi interna ai due paesi, piuttosto che un chiaro segnale di allarme per il futuro dell’Unione. Ma alla fine del 2007, dopo l’approvazione del minitrattato di Lisbona, i governi si sono trovati d’accordo nell’escludere il ricorso ai referendum popolari per il timore, non infondato, di incorrere in nuovi e forse questa volta irreparabili incidenti di percorso. Ma la fuga dal giudizio e dalla ricerca del consenso popolari è alla lunga una prova di miopia. 17. “Beware the U.S. Model” La crisi europea sta in questa tendenza autolesionista a uscire dalla propria storia per clonare un modello che è estraneo alla sua esperienza. Un modello ispirato a dottrine neoliberiste che, sotto l’allure modernizzante, riecheggiano teorie non del secolo scorso ma di quelle che si consolidarono alla fine del XIX secolo e che primeggiarono, non senza arrecare enormi danni, fino alla Grande Depressione degli anni Trenta e alla radicale critica keynesiana. A metà degli anni Novanta i ricercatori dell’Economic Policy Institute di Washington intitolarono un libro sui rischi che correva la società americana Beware U.S. Model – Jobs and Wages in a Deregulated Economy: l’ammonimento (“Attenti al modello americano!”) si è rivelato previgente. Sia pure con molto ritardo la discussione in America è aperta. Al contrario, l’Europa soffre di uno stato di apatia. Le teorie neoconservatrici degli anni Ottanta e Novanta, non ostante i visibili insuccessi, vi si aggirano abbastanza indisturbate. Riferendosi a un recente discorso al College of Europe di Bruges del Ministro degli esteri di Gordon Brown, scriveva recentemente il Financial Times: <La visione di Mr. Miliband di un’Unione che estende i suoi confini alla Turchia e il mercato unico ai paesi del Medio Oriente e dell’Africa combacia esattamente con la visione della signora Thatcher di un’Europa più larga non più profonda› (16.11.2007). Era stato Jacques Delors ad ammonire che l’Unione doveva provvedere al suo “approfondissement”, il rafforzamento dell’integrazione, prima di dilatare i suoi confini 29 nel processo di allargamento. Le cose sono andate diversamente, e l’Europa come grande mercato ha prevalso su quella del rafforzamento delle istituzioni. Alla politica di cooperazione economica fra gli stati membri è stata sostituita quella della competizione. Per cui assistiamo all’esaltazione delle flat tax nei paesi di nuova adesione dell’Europa centro-orientale, e alla conseguente restrizione della spesa sociale, come esempi di modernizzazione e di adattamento alle esigenze della competizione dentro e fuori l’Unione. Come abbiamo visto, osservando il dibattito negli stati Uniti, il problema del degrado delle condizioni di lavoro e della diseguaglianza non deriva, come prevalentemente si è ritenuto negli anni Novanta, dalla rivoluzione tecnologica, né dalla globalizzazione in quanto tale, pur avendo l’una e l’altra un impatto profondo sui vecchi modelli di lavoro. Entrambe invece hanno assunto un carattere incontrollabile e dirompente, quando si è formata una miscela esplosiva con la politica del laissez faire, di asservimento delle istituzioni e della politica, alle quali è stato attribuito un ruolo subalterno di sostanziale supporto alla deregolazione. Strumenti potenti di cambiamento come la rivoluzione dei computer e l’apertura dei mercati globali esigono, invece, strumenti altrettanto robusti di bilanciamento e riequilibrio sociale. In un libro di circa dieci anni or sono Dani Rodrik, docente di economia internazionale a Harvard e per quanto lo riguarda convinto sostenitore della globalizzazione, aveva ammonito che <la sfida più seria per l’economia mondiale nei prossimi anni sta nel rendere compatibile la globalizzazione con la stabilità sociale e politica a livello nazionale – o per dirla in termini più diretti, nel garantire che l’integrazione economica internazionale non contribuisca alla disintegrazione sociale nazionale>. (Has globalization gone too far? 1996, p.2). Si tratta di affermazioni forti sulle quali vale la pena di riflettere. Il dilemma sta nel fatto che lo sviluppo dell’integrazione economica globale tende a ridurre, fino ad annullare, la capacità degli stati nazionali di esercitare il loro tradizionale ruolo di intervento per evitare o mitigare gli squilibri. Ma, a sua volta, il mancato intervento di riequilibrio interno apre la strada al ripudio sociale e politico della globalizzazione. Lo scioglimento di questo dilemma è un compito che spetta alla politica e alla capacità di adeguamento delle istituzioni nella loro funzione di riequilibrio. 30 Abbiamo visto nella classica analisi di Karl Polanyi, che scriveva nei primi anni necessità di istituzioni sociali in grado di promuovere il consenso nelle fasi delle grandi trasformazioni per non rischiare il loro rigetto insieme con la crisi della democrazia. In epoca più recente, Albert Hirshman ha ricordato come il pensiero conservatore si è sempre opposto con motivazioni diverse nel corso degli ultimi due secoli all’estensione delle politiche pubbliche nel campo economico e sociale. Ricorda lo scienziato sociale di Princeton come, in particolare, lo stato sociale fosse considerato da Hayek una minaccia alla libertà e alla democrazia, mentre in realtà ne è stato un indiscutibile punto di forza. E ricorda, non senza una dose di raffinata ironia, come l’oggetto della minaccia sia di volta in volta mutato, come quando il politologo Huntington accusava lo stato sociale di minaccia alla governabilità e, da questo punto di vista, allo stato democratico. (The Rhetoric of Reaction 1991). Potremmo dire che, negli anni successivi, l’intervento dello stato nell’economia e le politiche pubbliche sono diventate nel pensiero neoconservatore, cambiando ancora bersaglio, una minaccia per il processo di integrazione dell’economia globale e prima ancora dell’integrazione europea. 18. Uscire dall’apatia L’aspetto straordinario del capovolgimento del pensiero sociale progressista ha trovato un terreno ricettivo anche a sinistra, nel senso di una minaccia portata dallo stato sociale non alla libertà e alla democrazia, ma alla crescita economica e perfino all’eguaglianza. Si ritiene, in altri termini, che la salvaguardia di talune residue tutele per alcune fasce di lavoratori penalizzi gli altri che subiscono più direttamente gli effetti della deregolazione selvaggia del mercato del lavoro. Con la paradossale, anche se non sempre esplicita, deduzione che una situazione di precarietà per tutti ristabilirebbe una maggiore equità sociale. In sostanza, siamo di fronte a una logica capovolta che la “retorica reazionaria” evocata da Hirshman rende sorprendentemente plausibile, come quando si teorizza il conflitto intergenerazionale a proposito dei sistemi pensionistici pubblici. L’abiura, rispetto alla tesi di T.H. Marshall che aveva consacrato <il welfare state come la conquista suprema della civiltà occidentale, grazie alla quale le libertà individuali e la partecipazione democratica erano completate da una serie di diritti sociali ed economici> (Hirshman, ib. p.115), può così essere considerata compiuta. 31 Ma il discorso, come abbiamo visto, si è riaperto sia a livello scientifico che politico. Le questioni sociali sono tornate al centro del dibattito, talvolta per il rischio che il loro degrado fa correre ai processi di integrazione economica, altre volte per le rotture che introduce nel tessuto sociale con spinte di carattere populista e isolazionista. E il dibattito americano sulle origini del degrado delle condizioni di lavoro e sulla dilatazione della diseguaglianza può esserci di stimolo nell’analisi dei problemi che ci pone la crisi, più o meno latente, del processo d’integrazione europea. Bisognerà convincersi che la ricorrente domanda di una maggiore integrazione politica, come sembrava concretizzarsi nel fallito progetto costituzionale, è destinata a essere disattesa in mancanza di un disegno in grado di produrre una solida legittimazione sociale. Dovrebbe anche essere chiaro che non basta la rituale affermazione di una “dimensione sociale” del processo d integrazione europea, se poi rimane avulsa dal processo politico complessivo. Le politiche sociali si intrecciano necessariamente con le politiche economiche. La politica monetaria non può essere gestita a prescindere dai suoi impatti sulla crescita e l’occupazione. Perfino Greenspan e Bernanke, il vecchio e il nuovo presidente della FED attentissimi ai bisogni di Wall Street e dei mercati finanziari, considererebbero eccentrica e controproducente questa linea di condotta. D’altro canto, le politiche di bilancio non possono essere dirette al pareggio o al surplus, a prescindere dalle esigenze di intervento pubblico in tutti quei settori che non possono essere affidati alla “spontaneità” del mercato: dalla ricerca, agli investimenti nelle infrastrutture, al riequilibrio regionale, alla difesa di settori essenziali dell’industria dall’attacco dei capitali speculativi vaganti, che ne minacciano lo svuotamento o la frantumazione. In questo quadro, la tutela del lavoro e della sicurezza sociale sono strumenti vitali della legittimazione sociale dei diversi gradi di integrazione. Questo non significa che i dilemmi e le contraddizioni fra equilibri interni e pressioni di carattere globale possano essere sciolti facilmente o con ricette prodigiose. Ma è appunto questo il compito degli economisti, dei giuristi, degli scienziati sociali, dei politici: l’individuazione degli strumenti istituzionali e delle politiche in grado di stabilire nuovi livelli di compatibilità tra rivoluzione tecnologica, integrazione sovranazionale e globalizzazione, da un parte, e progresso sociale, dall’altro. Le teorie dell’adattamento propugnate – come scelta consapevole o talvolta per subalternità intellettuale o opportunismo – nel campo della ricerca economica, giuridica e sociale, si sono rilevate sbagliate e rischiose per la 32 gestione del processo di globalizzazione dal punto di vista americano, così come lo sono per il processo di integrazione regionale rappresentato dall’Unione europea. La via maestra per salvare e rilanciare l’Unione è aprire il dibattito in termini espliciti e trasparenti per analizzare gli errori politici e le pregiudiziali ideologiche che rischiano di minare il processo di integrazione europea. Non sarebbe infatti fuori luogo immaginare che l’Unione per le sue dimensioni economiche ha, o potrebbe avere, un ruolo guida nella nuova mappa della globalizzazione regionale, una volta affrancata dai vincoli ideologici, dagli interessi oligarchici e dal governo tecnocratico che ne hanno frenato e sviato il percorso. (dicembre 2007 - gennaio2008) 33 Riferimenti bibliografici Alesina A., Giavazzi F., Goodby Europa 2006 Bhagwati J., Elogio della globalizzazione 2005 Bluestone B., Harrison B., The deindustrialization of America,1982 Caffè F., Lezioni di politica economica 1978 Ehrenreich B., Nickel and Dimed 2001 Economic Policy Institute (Washington), The State of Working America 2004-2005 Economic Policy Institute (Washington), Beware U.S. model 1995 Faux, J. 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