Lavoro e diseguaglianza nella società globale

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Lavoro e diseguaglianza nella società globale
Lavoro e diseguaglianza nella società globale
(Rielaborazione dell’intervento svolto al convegno sui venti anni di “Lavoro e Diritto”)
(Antonio Lettieri)
“Gli ideali umani costituiscono una componente ineliminabile
della personalità dello studioso e il suo necessario
sforzo di obiettività consiste nel dichiararli in modo esplicito,
anziché introdurli in modo subdolo o reprimerli”.
Federico Caffè, Lezioni di politica economica
Sommario: 1. Le metamorfosi della flessibilità del lavoro- 2. Lavoro e diseguaglianze 3. La globalizzazione come processo politico – 4. Gli incerti rimedi contro la
diseguaglianza: la formazione – 5. …e le clausole sociali – 6. La teoria della
“responsabilità sociale” dell’impresa- 7. Il “Washington consensus” - 8. La crisi del
processo di “adattamento” – 9. La ricerca delle cause interne del degrado del lavoro –
10. La riscoperta delle istituzioni - 11. Il caso americano e l’Europa – 12. L’asse
Francoforte-Bruxelles - 13. L’ambigua politica del lavoro europea - 14. Le” due”
Lisbona - 15. La” flexicurity” degli inganni - 16. Il fondamentalismo tecnocratico –
17. “Beware the U.S. Model” – 18. Uscire dall’apatia
1. Le metamorfosi della flessibilità del lavoro
Nei suoi venti anni di vita Lavoro e Diritto e i suoi ideatori, con in testa Umberto
Romagnoli, hanno avuto la fortuna di non annoiarsi, né il tempo per impigrirsi. Forse
anche da questo dipende il successo della rivista. Il lavoro, infatti, non era mai cambiato
così radicalmente in un tempo così rapido, mentre il diritto del lavoro veniva scosso alle
radici, a volte per raccogliere nuovi frutti, altre volte deviando verso strade incerte e
traguardi ambigui. Lavoro e Diritto è stata in questi frangenti una guida preziosa
nell’esplorazione delle nuove frontiere del lavoro, dei diritti, della cittadinanza.
Mi soffermerò su un punto che mi sembra particolarmente intrigante. Mi riferisco al
rapporto fra cambiamento del lavoro e globalizzazione, assumendo come snodo il tema
dell’eguaglianza, che è anche quello dove il diritto del lavoro incontra le dinamiche dei
rapporti sociali. Per farlo concentrerò l’attenzione sul dibattito in corso negli Stati Uniti,
il paese guida della globalizzazione in questo passaggio di secolo, per trarre infine
qualche schematica osservazione, forse non sempre ortodossa, sul tema a noi più vicino
dell’Unione europea.
Se nell’ultimo quarto di secolo il lavoro ha subito cambiamenti radicali rispetto al
modello che ci aveva consegnato l’era dell’industrializzazione, vorrei anche dire che,
almeno inizialmente, il cambiamento non meritò alcun rimpianto. Il lavoro – almeno
così sembrò, o così fu descritto il cambiamento – si liberava dalle catene di una rigidità
asfissiante che svalorizzava il contributo umano al progresso industriale di grandi masse
di lavoratori. L’organizzazione del lavoro fordista aveva frantumato, gerarchizzato e
appiattito il lavoro. Ciò che si chiedeva era non l’iniziativa individuale ma la disciplina
collettiva. Il segreto della produzione stava non nella flessibilità dell’organizzazione del
lavoro ma nel rispetto rigido delle norme che lo regolavano.
La nuova fase, alimentata dalla rivoluzione dei computer, imponeva, al contrario, un
ordinamento della fabbrica rovesciato: conoscenza del processo, autonomia, capacità di
analizzare i problemi e di risolverli. Bisognava interloquire con le nuove macchine
animate da software sempre più sofisticati in grado in parte di sostituirsi al lavoro
umano, in parte di guidarlo. In un famoso libro dei primi anni Novanta – The work of
Nations - Robert Reich aveva definito “symbolic analyst” il nuovo modello di
lavoratore, per indicare la dematerializzazione del processo lavorativo e insieme
l’esigenza di applicarvi autonomia e intelligenza creativa. Insomma, il contrario della
pratica e dell’ideologia del lavoro senza qualità teorizzato dal taylorismo all’inizio del
secolo.
L’idea dominante era che il passaggio non sarebbe stato né facile, né indolore, ma che
ne sarebbe valsa la pena. La transizione ai nuovi modelli di lavoro era soprattutto una
promessa rivolta ai giovani i quali, in effetti, avevano già mostrato negli anni ruggenti
delle lotte operaie, a cavallo dei Sessanta e Settanta, di ripudiare l’organizzazione della
vecchia fabbrica in tutto l’occidente avanzato, a Torino come a Detroit. Oggi dobbiamo
prendere atto che quelle promesse non sono state mantenute. La delusione grava
soprattutto sui giovani. La promessa di maggiore autonomia si è risolta in una
condizione di incertezza, precarietà, ansia. Cosa è successo? Si trattava di una promessa
ingannevole e menzognera? A me sembra di no: almeno, per molti aspetti, non lo era.
L’informatizzazione dei processi produttivi, la rivoluzione dei computer, internet,
l’articolazione della produzione di massa in direzione di nuovi bisogni, domande, gusti,
effettivamente esigevano una maggiore flessibilità dell’organizzazione del lavoro.
Flessibilità che avrebbe potuto intrecciarsi con una più grande autonomia e
qualificazione della prestazione individuale e collettiva dei lavoratori e delle lavoratrici.
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Il problema di cui oggi si discute con accenti diversi non è la flessibilità in sé, ma il suo
uso arbitrario, non controllabile e non governabile dalle persone che sono chiamate a
praticarla. La precarietà è il frutto di questa metamorfosi della flessibilità, della sua
versione autoritaria, unilaterale, asimmetrica che privilegia una parte per sacrificare
l’altra nella formulazione e nella gestione dei rapporti di lavoro. In questo scompenso si
manifesta il peggioramento della condizione del lavoratore: la flessibilità che diventa
non più estesa ma più ridotta autonomia, non maggiore ma minore controllo su quella
parte non marginale della vita dedicata al lavoro, come ineliminabile connotazione
dell’identità personale.
2. Lavoro e diseguaglianze
L’ultimo quarto di secolo non ci ha riservato solo la delusione di questa mancata
promessa di progresso nel rapporto personale col lavoro della grande maggioranza dei
lavoratori. In un certo senso, la sorpresa più grande sta in una nuova forma di squilibrio
sociale: l’esplosione della diseguaglianza, che, con tutti i suoi difetti, la seconda parte
del secolo passato aveva fronteggiato con un apprezzabile successo. Negli ultimi tre
decenni abbiamo assistito a un rovesciamento della tendenza. Il lavoro è diventato la
fonte di una nuova, crescente diseguaglianza. La flessibilità, chiesta per accrescere
l’efficienza del processo produttivo, non è stata ripagata da una più equa distribuzione
dei benefici. E’ successo il contrario. Con la crescita della ricchezza sono cresciute
nuove povertà. Le nuove tecnologie informatiche hanno accresciuto la produttività del
lavoro, ma i guadagni di produttività sono stati requisiti da una ristretta élite che ha
guidato il processo di cambiamento.
Vi è tuttavia un fatto nuovo. La diseguaglianza è diventata un tema all’ordine del giorno
nel dibattito accademico e politico degli Stati Uniti. E’ un dibattito che vale la pena di
analizzare, in primo luogo perché si riferisce al declino dell’egemonia americana nella
nuova fase dell’economia globalizzata. E poi perché contribuisce a illuminare, come
vedremo più avanti, l’incerto destino dell’integrazione europea rispetto alle nuove sfide
della globalizzazione.
In un recente saggio su Foreign Affairs, il problema della diseguaglianza è affrontato
con toni allarmati a tal punto da far suggerire la proposta di un nuovo New Deal per
salvare l’egemonia americana nell’economia globale (Scheve K., Slaughter M. Foreign
Affairs, July/August 2007). La sintesi a cui pervengono gli autori del saggio è la
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seguente: <La globalizzazione ha portato in generale grandi benefici, ma sono diminuiti
i guadagni per la maggior parte dei lavoratori americani – compresi quelli provenienti
dai college; l’ineguaglianza è maggiore oggi di quanto non lo sia stata in qualsiasi altro
periodo degli ultimi 70 anni. Quale che sia la causa, il risultato è una deriva
protezionista. Per salvare la globalizzazione, i politici debbono distribuire più
largamente i suoi benefici. La strada migliore per far questo è la redistribuzione dei
guadagni>. E’ interessante notare che si tratta di due autori di diversa provenienza e
orientamento. Scheve è uno scienziato politico di Yale, Slauhgter è un economista, già
membro del Comitato dei consiglieri economici di George W. Bush.
Sulla portata della diseguaglianza derivante dai nuovi modelli di mercato del lavoro non
c’è disaccordo. Alan Greenspan nella sua autobiografia, che è anche uno smisurato
panegirico del proprio lavoro come presidente della Federal Reserve sotto tre Presidenti
degli Stati Uniti - non può fare a meno di lanciare un grido di allarme. <Nel ceto medio
americano – scrive – ha preso piede la sensazione che, in anni recenti, i benefici della
prosperità economica non siano stati distribuiti equamente. E, in effetti, benché il
concetto di equità sia soggettivo, è pur vero che dal 1980, il fenomeno della
concentrazione dei redditi è in costante ascesa… Non risulta particolarmente
confortante, per l’operaio alla catena di montaggio, sapere che mentre il suo salario
aumenta in modo risibile l’amministratore delegato riceve un bonus di qualche milione
di dollari… Non c’è da stupirsi se prima o poi parte dell’elettorato cederà alle sirene di
certo populismo che promette, per esempio, l’innalzamento di barriere tariffarie> (L’era
della turbolenza 2007 pp. 435-437).
La preoccupazione di Greenspan scaturisce, in verità, più dalla minaccia incombente sul
processo di globalizzazione che non dal fenomeno della diseguaglianza in quanto tale
che, non a caso, derubrica in parte a una “sensazione”, in parte a una reazione
psicologica di fronte alla sproporzione dei guadagni tra la base e il vertice della scala
sociale. Ma un’analisi ravvicinata ci avverte che non si tratta affatto di sensazioni o di
reazioni di carattere psicologico. Richard Freeman, forse il più autorevole economista
del lavoro americano, analizzando il guadagno medio orario dell’81 per cento dei
lavoratori americani del settore privato addetti alla produzione, perviene al seguente
risultato: <Questa misura della paga, che ha sempre tallonato da vicino la produttività, è
declinata tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta e, non ostante alcuni modesti
aumenti negli anni successivi del boom, rimane consistentemente al di sotto del livello
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dei primi anni Settanta. I guadagni reali medi dei lavoratori della produzione erano
dell’8 per cento più bassi nel 2005 rispetto al 1973, mentre il prodotto nazionale per
lavoratore era del 55 per cento più alto nel 2005 rispetto al 1973> (America works,
2007, pp.35-36). Per apprezzare in termini concreti questo salto indietro dell’80 per
cento dei lavoratori americani, Freeman calcola che un aumento parallelo dei salari e
della produttività avrebbe portato il salario medio orario di un lavoratore della
produzione a 25 dollari invece dei 16 correnti. Il risultato è stupefacente, scrive
Freeman: “La gran parte della crescita della produttività dei passati venti-trenta anni è
finita nelle tasche di un ristretto numero di super-ricchi americani” (corsivo nel testo
ib. p.38).
Tradotto in cifre, questo significa che metà dell’aumento totale dei redditi di lavoro è
stato appannaggio del 10 per cento dei percettori di reddito al vertice della scala
retributiva e il 18 per cento è andato alla superclasse di ricchi che corrisponde allo 0,1
per cento della popolazione americana. Questa brutale redistribuzione della ricchezza ha
riportato la diseguaglianza al livello degli anni Venti, quando il Grande Gatsby di F.
Scott Fitzgerald rappresentava il simbolo dello sfarzo e, in trasparenza, delle miserie
della società americana.
Questo salto indietro di 80 anni, dal punto di vista dell’equità e delle conquiste sociali,
non ha colpito solo i ceti più deboli, ma ha infierito sulla middle class, la struttura
portante della società americana, che Robert Reich definisce la “classe ansiosa”, che
vede svanire il sogno americano di un destino di ininterrotta ascesa sociale. Insomma,
quella che un tempo era la divisione fra il Nord e il Sud del mondo ora è entrata
prepotentemente nelle società del nord superricco. E la domanda che si pone è semplice
quanto di difficile soluzione: perché è successo? Quali sono le cause di questo
rovesciamento degli equilibri sociali? La globalizzazione non doveva essere un’era di
successo per tutti?
Su questi interrogativi il dibattito americano ha visto intrecciarsi diverse posizioni,
spesso fortemente contrastanti. La tesi prevalente negli anni Novanta può essere
rappresentata in questi termini. La rivoluzione dei computer, delle telecomunicazioni, di
internet, dei trasporti ha mutato la geografia economica del mondo. I cambiamenti
nell’economia e nei rapporti sociali hanno un corso oggettivo al quale non ci si può
opporre: il successo o l’insuccesso dipendono dalla capacità di adeguamento a questo
nuovo corso. E’ quella che potremmo definire la teoria dell’adattamento, basata su
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un’interpretazione deterministica del progresso tecnologico, indipendente dai contesti
storici e dagli assetti politici. In poche parole, la globalizzazione che si è intrecciata con
la rivoluzione tecnologica ci chiede un duro processo di adattamento delle politiche e
delle istituzioni, oltre che delle attese individuali e collettive. Dobbiamo allora trattare la
globalizzazione come un dato di fatto per così dire oggettivo che esige risposte
univoche e obbligate, alle quali non ci si può sottrarre senza pagare un duro prezzo di
emarginazione?
3. La globalizzazione come processo politico
Per tentare di rispondere a questo interrogativo vale la pena di fare una breve
digressione sulle caratteristiche della nuova fase della globalizzazione. Dobbiamo
partire dalla considerazione che la globalizzazione non è un fenomeno nuovo nella
storia del capitalismo. Si tratta di una tendenza congeniale all’economia di mercato, sin
dalle prime forme del capitalismo moderno nell’epoca rinascimentale. Poi, gli ultimi tre
decenni del XIX secolo furono segnati da un’espansione continua e imponente del
commercio internazionale e degli investimenti di capitali all’estero, sotto l’egemonia
britannica. Coloro che trascurano la storicità del processo e le sue componenti politiche
per mettere un accento determinante sulla rivoluzione tecnologica precostituiscono, in
effetti, uno schema interpretativo di carattere ideologico, dal quale poi fanno scaturire
un complesso di conseguenze “obiettive” e di soluzioni obbligate.
In un libro che ripercorre la storia delle diverse fasi della globalizzazione, il prof. Jeffry
Frieden di Harvard scrive, come premessa, che la globalizzazione è sempre stata una
scelta, ed <è ancora una scelta, non un fatto. E’ una scelta compiuta dai governi che
coscientemente decidono di ridurre le barriere che frenano il commercio e gli
investimenti… Gli affari economici internazionali dipendono dal sostegno di paesi
potenti e dai gruppi più influenti all’interno di questi paesi>. (Global Capitalism”,
pag.XVI-XVII). Gérard Lyon-Caen, eminente giurista del lavoro, avanza una analoga
premessa: <Si parla innanzitutto di mondializzazione o globalizzazione. Solo il termine
è nuovo. Il commercio si estende su scala planetaria da molti secoli; l’instaurazione di
un capitalismo monopolista nelle colonie era orientato a questo esito fin dal XVI
secolo> (Lavoro e Diritto 2/2004, p. 262). La globalizzazione, dunque, come processo
storico e politico non come accadimento che si sottrae per la sua pretesa natura
oggettiva al dibattito e, conseguentemente, alle scelte politiche dei governi.
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L’importanza della politica nella teorizzazione e nella pratica della globalizzazione,
intesa come apertura delle frontiere nazionali, era chiara sin da quando Davide Ricardo
all’inizio del XIX secolo, in aperto contrasto con le politiche protezionistiche
dominanti, teorizzava e raccomandava al governo britannico la superiorità della
divisione internazionale del lavoro, attraverso l’apertura delle frontiere commerciali. Il
teorema ricardiano era geniale nella sua semplicità. Se ogni paese si specializza nella
produzione dei beni che è in grado di produrre con maggiore efficienza (o “vantaggio
comparato” rispetto ad altre produzioni possibili), la divisione del lavoro accrescerà la
produttività e la ricchezza di ciascun paese e dell’insieme del mondo che vi partecipa. Il
teorema costituisce ancora oggi, all’alba del XXI secolo, l’argomento più resistente e
suggestivo portato a difesa della globalizzazione dei mercati, intesa come
intensificazione degli scambi (cfr. J. Bhagwati, Elogio della globalizzazione 2005).
Ma l’interpretazione della globalizzazione come pura intensificazione degli scambi
commerciali e degli investimenti finanziari oscura la caratteristica fondamentale della
sua nuova fase. Nello schema classico, gli stati scambiano beni sulla base della loro
maggiore convenienza nel produrli. Nella nuova fase della globalizzazione la maggior
parte degli scambi avviene all’interno delle stesse imprese. La divisione internazionale
del lavoro diventa divisione funzionale del lavoro all’interno del sistema produttivo. E’
questo il mutamento che sconvolge gli assetti tradizionali della domanda e dell’offerta
di lavoro, che il secolo scorso basava sulla dimensione nazionale. Entrando in un
mercato del lavoro tendenzialmente globale, la domanda di lavoro delle imprese
multinazionali, per definizione delimitata, incontra un’offerta di lavoro tendenzialmente
illimitata.
L’asimmetria fra una domanda circoscritta e un’offerta tendenzialmente illimitata mette
il lavoro nelle mani delle imprese multinazionali e abbatte i confini entro i quali erano
nati e si erano affermati il diritto del lavoro, la legislazione sociale, il welfare state, il
potere dei sindacati e la contrattazione collettiva. La vecchia globalizzazione
riconosceva la funzione dello Stato sia nella determinazione del processo di
liberalizzazione dei mercati che nella definizione dei suoi limiti. Non a caso, in
Germania rimaneva vivo il filone di politica economica risalente a Friedrich List,
d’ispirazione chiaramente protezionista, che lo stato tedesco praticava a protezione della
propria industria nascente. E, del resto, un orientamento federale non meno
protezionista ispirava la politica commerciale degli Stati Uniti nella fase decisiva del
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proprio sviluppo. La nuova globalizzazione tende, al contrario, ad abbattere le funzioni
dello Stato che non siano quelle deputate a garantire la liberalizzazione dei mercati non
solo nei rapporti internazionali ma anche in quelli interni, in modo da renderli deregolati
e permeabili.
Il lavoro occupa in questa nuova prospettiva della globalizzazione un posto
assolutamente centrale. Quasi sempre si fa riferimento al vantaggio di pagare nei paesi
emergenti salari smisuratamente più bassi come molla della delocalizzazione
industriale. Ma non si tratta solo del salario. Il dato altrettanto se non forse ancora più
rilevante è nell’assoluta libertà nell’uso della forza lavoro dei paesi poveri. I quali non
oppongono (non possono opporre) regole limitative nel suo uso. I paesi emergenti non
possono imporre clausole selettive in quanto la forza lavoro offerta corrisponde a una
materia prima sovrabbondante, al contrario di quanto avviene per i prodotti energetici,
minerari e alcuni agricoli. Richard Freeman calcola che, dopo l’ apertura della Cina al
mercato mondiale e il collasso dell’impero sovietico, il mercato del lavoro dei paesi
poveri ha un’offerta potenziale di lavoro che corrisponde a tre miliardi di uomini e
donne.
La novità della nuova fase della globalizzazione sta nel fatto che questo sterminato
“esercito di riserva” sconvolge anche gli equilibri del mercato del lavoro dei paesi di
vecchia
industrializzazione.
I
sindacati
perdono
potere
contrattuale.
La
delocalizzazione, o la sua potenziale minaccia, fa ristagnare i salari. Negli Stati Uniti si
inaugura la fase del “give back”, della restituzione di una parte dei vantaggi e dei
benefit che i sindacati avevano acquisito nell’epoca aurea della contrattazione. Questa
nuova condizione del lavoro si riflette in un nuovo tipo di diseguaglianza. La
globalizzazione crea nuova ricchezza e insieme una profonda divisione fra “winners” e
“losers” in
una società nella quale chi vince prende tutto - The Winner-Take-All
Society, secondo Robert Frank e Philip Cook.
4. Gli incerti rimedi contro la diseguaglianza: la formazione
Come uscire da questa contraddizione sociale che, come abbiamo visto, ormai mina lo
stesso processo di globalizzazione? Il dibattito americano si è concentrato su due vie
possibili. La prima è quella di sottrarsi alla concorrenza dei mercati del lavoro del terzo
mondo, elevando la qualità del lavoro al livello più alto delle nuove tecnologie e della
produttività. E’ la via della formazione come strumento principe per difendere il mondo
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del lavoro dei paesi ricchi dalla concorrenza delle masse lavoratrici dei paesi emergenti.
Questa ricetta ha trovato una vasta schiera di sostenitori sia tra gli studiosi che ai vertici
della politica: Clinton e Blair ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia nella
conciliazione tra globalizzazione e difesa delle condizioni di lavoro. Ma il rimedio
affidato all’elevazione dei livelli di istruzione e formazione si è rivelato debole, se non
inconsistente.
A dispetto della predizione di Jeremy Rifkin di metà degli anni Novanta sulla “fine del
lavoro”, l’occupazione totale ha raggiunto negli stati Uniti – e anche in Europa – livelli
storici senza precedenti, e senza accusare alcuna scarsità dei livelli di formazione. Al
contrario, alcuni economisti ritengono che vi sia in generale una sovrabbondanza di
giovani con livelli di istruzione e di formazione più elevati di quelle ordinariamente
richiesti sul mercato del lavoro, per cui si assiste a una dequalificazione della
professionalità. Questo divario trova conferma in un altro dato. Le differenze di reddito
di lavoro si manifestano, secondo le indagini americane, non solo fra diverse fasce di
lavoratori, ma anche all’interno della fascia dotata di più alti livelli di istruzione.
Tra i giovani lavoratori americani che hanno frequentato il college, i salari oscillavano
nel 2003 da dieci a circa quaranta dollari l’ora ( EPI, The State of Working America
2004-2005, p. 162). La differenza nei guadagni appare fondamentalmente legata alla
provenienza sociale dalla quale dipende la qualità dei college frequentati e i settori
economici di approdo. Le élite si riproducono in larga misura per partenogenesi. Anche
perché possono spendere per mandare i figli ai college di eccellenza, somme che sono
equivalenti, quando non più alte, del reddito annuo di una famiglia tipica americana. E,
non a caso, si assiste a una riduzione della mobilità sociale intergenerazionale che vede,
secondo i calcoli dell’OCSE, gli Stati Uniti al di sotto di paesi come il Canada, la
Svezia, la Finlandia e la Germania (ib. p. 404).
In discussione non è, ovviamente, la rilevanza dei livelli di istruzione nell’elevazione
della qualità del lavoro e come potenziale strumento di eguaglianza e mobilità sociale.
In Italia fu sviluppata nei primi anni Settanta una grande esperienza in questo campo
con l’introduzione a livello di massa dell’istituto contrattuale delle “150 ore”, come
modello che precorreva l’odierno paradigma – nella realtà scarsamente praticato - del
diritto alla formazione continua. Il punto è che la formazione, al di là della retorica di
cui è stata circondata, non è in grado di contrastare i complessi processi che producono
ed esasperano la diseguaglianza. Di qui la più recente tendenza in America a indirizzare
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l’analisi delle cause del degrado del lavoro e della crescente diseguaglianza in direzione
delle conseguenze sociali della globalizzazione.
5…e le clausole sociali
Secondo alcuni sondaggi d’opinione, il 58 per cento degli americani è convinto che la
globalizzazione ha peggiorato le condizioni di vita negli Stati Uniti (Finacial Times,
2.1.2008). Ma non si tratta solo di un rovesciamento dell’orientamento a livello
dell’opinione pubblica. Una nuova linea di analisi si fa strada nel mondo accademico.
Paul Krugman, dopo essere stato negli anni Novanta fra i più autorevoli assertori della
tesi che vedeva il gap retributivo nel salto tecnologico e il rimedio nell’elevazione dei
livelli formazione (cfr. Pop Internationalism, 1996), sposta il discorso sugli effetti
sociali della globalizzazione. <La globalizzazione – scrive - ha contribuito ad accrescere
la ricchezza dei paesi ricchi ma ha anche creato a fianco dei ceti vincenti larghe masse
di perdenti… I lavoratori altamente istruiti che certamente beneficiano del commercio
con le economie del terzo mondo sono una minoranza, fortemente sovrastata da coloro
che con ogni probabilità perdono>. Significa questo che la soluzione possa essere
trovata nell’innalzare nuove barriere protezionistiche? Sarebbe una soluzione sbagliata:
l’unica alternativa – sostiene l’economista di Princeton - è “il rafforzamento della rete di
sicurezza sociale” (“The truble with trade”, www. iht.com, 29-30 dicembre 2007).
I candidati democratici alle elezioni presidenziali del 2008, da Hillary Clinton a Barack
Obama, si spingono oltre e si impegnano a promuovere una politica di “fair trade” al
posto del “free trade”. Un modo elegante di porre dei vincoli alla globalizzazione dei
mercati, condizionando i trattati commerciali con i paesi poveri all’inserimento di
rigorose clausole sociali: dal diritto alla libera formazione dei sindacati, alla
contrattazione collettiva, al divieto del lavoro minorile e alla non discriminazione di
genere. Sono, in teoria, le condizioni minime a cui si possa aspirare per migliorare la
condizione di milioni di lavoratori del terzo mondo. Ma la probabilità che possano
funzionare è scarsissima, se non del tutto illusoria. La delocalizzazione è una scelta
operata non dai governi ma dalle grandi multinazionali che selezionano i mercati del
lavoro nei quali delocalizzare quote della produzione sulla base della convenienza in
termini di salari e di pieno controllo delle condizioni di lavoro.
I paesi poveri, dal canto loro, hanno un bisogno disperato di ottenere investimenti,
attraverso il trasferimento di segmenti produttivi delle filiere industriali dei paesi ricchi,
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e questo li sottopone alle scelte delle multinazionali. Cercare di dettare regole in un
mondo nel quale proprio i paesi ricchi hanno imposto una spietata deregolazione come
condizione per gli investimenti e l’apertura dei mercati è una pura ipocrisia. Quando il
governo cinese decise di aumentare il salario minimo legale (portandolo a 0,55 dollari
l’ora) sulla costa orientale, dove il lavoro comincia a diventare scarso e la protesta dei
lavoratori più minacciosa per il regime, la Camera di commercio americana fece sentire
la sua vibrata protesta, ammonendo che le multinazionali si sarebbero spostate in altri
paesi, come il Bangladesh. E una reazione ancora più negativa ha ricevuto la nuova
legge sulle relazioni industriali varata dal governo cinese che obbliga le imprese a
comunicare alle rappresentanze sindacali i mutamenti negli assetti produttivi, le
innovazioni tecnologiche e organizzative – paradossalmente, diritti che non esistono
negli Stati Uniti, dove oltre il 90 per cento dei lavoratori del settore privato è privo di
rappresentanza sindacale.
In un mercato del lavoro globale, dove le multinazionali dispongono di un illimitata
offerta di lavoro, la pretesa di trasferire nei paesi emergenti, in nome del “fair trade”,
regole del lavoro che sono state acquisite nei paesi ricchi del nord nel corso di un secolo
di lotte sindacali e di riforme sociali non differisce granché dal progetto rivelatosi tanto
velleitario quanto devastante di esportare la democrazia in Iraq o in Afghanistan.
6. La teoria della “responsabilità sociale” dell’impresa
In questo quadro di stridenti contraddizioni tra affermazioni di principio e realtà, ha
acquistato un crescente consenso la tesi che il miglioramento delle condizioni di lavoro
nei paesi poveri possa essere affidato alla responsabilità “sociale delle imprese”. Ma,
per quanto ben intenzionato, si tratta di un atto di ingenuità o di ipocrisia. Nel suo
ultimo libro, Supercapitalism, Robert Reich si diffonde ampiamente su questo punto.
<Da molti anni – scrive – ho predicato che la responsabilità sociale e la profittabilità nel
lungo periodo siano convergenti… Ma dal punto di vista dell’impresa attuale, il lungo
termine può essere irrilevante. Al tempo del supercapitalismo il “lungo termine” è il
valore attuale dei guadagni futuri. E non c’è migliore misura che la quotazione della
borsa>. Del resto, <la competizione è così intensa che le imprese in generale non
possono assumere obiettivi di carattere sociale, senza imporre un costo ai loro clienti e
agli investitori – i quali cercherebbero e troverebbero altrove condizioni più
vantaggiose… Il loro legittimo obiettivo è soddisfare i consumatori in modo da
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realizzare i profitti che si attendono gli investitori>. Ciò non toglie che alcune grandi
imprese multinazionali siano sollecitate a mostrare il loro interesse per le questioni
sociali e ambientali sotto la pressione di alcuni settori dell’opinione pubblica, e per
migliorare la loro immagine abbiano elaborato codici di condotta volontari. Ma <i
codici – osserva Reich - sono in larga misura violati… Il messaggio che le imprese
siano enti morali con responsabilità sociali svia l’attenzione pubblica dal compito di
stabilire prima d’ogni altra cosa leggi e regole adeguate> (Supercapitalism, 2007,
pp.171-.207).
Lo scetticismo di Reich trova ampie conferme. Con riferimento alla Cina, scrive il New
York Times: <Le aziende che forniscono imprese multinazionali, comprendenti WallMart, Disney e Dell sono state accusate di pratiche del lavoro inique come lo
sfruttamento del lavoro infantile, il pagamento di salari al di sotto de minimo legale,
l’imposizione di una durata del lavoro giornaliero di 16 ore su catene di montaggio con
ritmi accelerati”. (Labor abuse plagues China despite corporate crusades,
www.nyt.com 5-6/1/2008). Un’organizzazione americana che indaga sulla violazione
dei diritti umani riferiva in un recente rapporto che un’azienda che fabbrica utensili
domestici per Wal-Mart impone (pena il licenziamento) alle maestranze, per l’80
composte da donne, orari di lavoro di 70-80 ore settimanali e oltre, violando i limiti di
straordinario stabiliti legalmente, per una paga oraria di 54 cents (National Labor
Committee, Rapporto,dicembre 2007).
Ma non si tratta di comportamenti riservati alla Cina. Il lavoro costa ancora meno in
altri paesi del terzo mondo, per cui le multinazionali operano dal loro punto di vista
scelte economicamente razionali in un mercato globale altamente competitivo. E non ci
sarebbe nulla da eccepire se oggetto della competizione al ribasso fosse il petrolio, il
rame, il ferro o il carbone, ma la concorrenza al ribasso riguarda il lavoro umano, che a
differenza dei minerali, è oggi il bene più abbondante sulla terra. E questa
sovrabbondanza rispetto alla domanda lo rende vulnerabile, tendendo ad abbassarne il
prezzo al livello della sussistenza. D’altra parte, i diritti dei lavoratori, le tutele
sindacali, la sicurezza sociale sono conquiste che hanno impiegato un secolo per
affermarsi nei paesi di vecchia industrializzazione. Chi sta più avanti deve adoperarsi
con tutti i mezzi più opportuni per trasmettere – come osserva Lyon-Caen - ai lavoratori
dei paesi emergenti <il senso del progresso sociale e la pratica delle lotte> (ib. p.263).
Ma non basta un articolo di un trattato commerciale per farli nascere e crescere in
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condizioni pregiudizialmente ostili. Del resto, quando, a metà degli anni Novanta,
l’Organizzazione internazionale del lavoro si impegnò in questa direzione, si trovò di
fronte a un muro di gomma, e le sue raccomandazioni, anche le più modeste, non
ricevettero alcuna considerazione nelle sedi, come l’Organizzazione mondiale del
commercio, dove si decidevano le scelte strategiche che dovevano presiedere
all’apertura dei mercati commerciali e finanziari nella nuova fase della globalizzazione.
7. Il “Washington consensus”
In effetti, la globalizzazione non è affatto un mondo, come spesso si ritiene, privo di
regole. Le regole sono imposte dalle istituzioni finanziarie multinazionali, come il
Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il WTO. Regole basate sulla
libertà di funzionamento dei mercati, per garantire le quali – secondo la sintesi di Peter
Shutland, ex direttore del GATT: <i governi debbono interferire nella condotta
dell’economia il meno possibile› (Faux, J. The global class war, p.160). E questo
significa tra l’altro: una politica di riduzione delle imposte e della spesa pubblica, di
privatizzazione dei servizi, di piena apertura agli investimenti esteri senza differenze
rispetto al trattamento concesso alle imprese nazionali. ‹Questa concezione
fondamentalista del mercato - ha scritto Stiglitz - fu assunta nella strategia di base per lo
sviluppo (e per la gestione della transizione dal comunismo al mercato) sin dagli anni
Ottanta dal FMI, della Banca mondiale e del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti,
una strategia variamente definita come “neo-liberismo” o, essendo tutti a Washington i
suoi maggiori attori e pianificatori, il Washington consensus› (The Roaring Nineties
2003, p.229). Senza l’osservanza di questa strategia e delle sue severe prescrizioni i
paesi poveri sono esclusi - o minacciati di esclusione – dalla globalizzazione. Scrive
Chalmers Johnson, professore emerito dell’Università della California: <La cosa da
tenere ben presente è che sia l’FMI sia la Banca mondiale sono, in realtà, dei surrogati
del dipartimento del tesoro americano… I loro regolamenti in materia di delibere
assicurano che essi non possano far nulla senza l’approvazione del segretario al
Tesoro>.(Le lacrime dell’impero 2005, p.312). E’ in questo quadro che prendono corpo
le misure di “aggiustamento strutturale” e le terapie d’urto che le due organizzazioni
hanno normalmente imposto prima ai paesi del Terzo mondo poi a quelli dell’est che
hanno intrapreso la transizione dall’economia di stampo sovietico all’economia di
mercato.
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Ma, per essere più precisi, dobbiamo aggiungere che questa è stata la norma vigente
sotto l’egemonia americana, e fino a quando il dipartimento del Tesoro era in grado di
manovrare a sua discrezione le istituzioni finanziarie multinazionali. Oggi la situazione
è in rapida evoluzione. L’egemonia americana perde colpi di fronte all’emergenza di
nuovi grandi attori della globalizzazione – la Cina, l’India, la Russia, il Brasile - e le
istituzioni finanziarie multinazionali, dopo aver manomesso il mandato che, sotto la
spinta di J.M. Keynes, gli era stato affidato a Bretton Woods, come garanti degli
equilibri finanziari internazionali, attraversano una fase di rapido e sempre più diffuso
discredito.
E’ su queste basi che si delinea una svolta nell’analisi e nei rimedi proposti rispetto alle
conseguenze sociali della globalizzazione. Poiché né la formazione, né l’esportazione
dei diritti sociali nei paesi emergenti si dimostrano in grado di fronteggiare il problema
della diseguaglianza legato al peggioramento delle condizioni di lavoro, si fa strada la
convinzione che ci sia qualcosa che non funziona all’interno dei paesi ricchi, che pure
finora hanno guidato e tratto vantaggi dal processo di globalizzazione. La riflessione si
concentra sul fatto che la strada dell’”adattamento”, entrando in contrasto e aggredendo
le istituzioni che nel secolo passato hanno presieduto al progresso civile nel campo del
lavoro e dello stato sociale, si è dimostrata fallimentare.
8. La crisi del processo di “adattamento”
Gli Stati Uniti, ancora più dell’Europa, sulla quale torneremo, sono un terreno di
eccellenza per studiare sperimentalmente i guasti derivanti dal processo di adattamento
alla deregolazione economica e sociale derivante dalla versione neoliberista della
globalizzazione. L’attacco al sindacato, il declino della contrattazione collettiva, lo
schiacciamento dei salari e la riduzione dei benefici sociali (dalla sanità alle pensioni)
non sono la conseguenza naturale della globalizzazione dei mercati, anche se essa
contribuisce a favorirne le condizioni. La destrutturazione dei vecchi equilibri era stata
avviata già prima. Il capitalismo americano degli anni Settanta, sottoposto alla crisi
petrolifera e alla concorrenza delle nuove realtà industriali emerse in Europa e in
Giappone, non era più in grado di onorare il patto sociale che per antonomasia era stato
definito il “Patto di Detroit” con allusione agli accordi nel settore automobilistico fra
l’UAW, il più autorevole sindacato americano, e i tre big dell’auto. Inizia allora il
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processo di delocalizzazione della grande impresa nelle terre vergini del sud dove non
esistevano sindacati, né contrattazione, né rigorosi vincoli sociali e ambientali.
La globalizzazione nella nuova forma è ancora lontana. Ma il processo di
delocalizzazione avanza a ritmo serrato. Al patto di Detroit si sostituisce quella che
potremmo definire la “fuga da Detroit”. Comincia allora la lunga marcia verso la
segmentazione del processo industriale e l’outsourcing che, nei primi anni Ottanta,
Bluestone e Harrison descrivono come l’avvio della deindustrializzazione dell’America
(The deindustrialization of America,1982). Le nuove tecnologie informatiche non hanno
ancora raggiunto il loro pieno sviluppo, mancano ancora una decina d’anni alla “new
economy” che connoterà gli ultimi anni del secolo, quando il cambiamento radicale del
mercato del lavoro e delle condizioni di lavoro ha già percorso un consistente tratto di
strada.
Ma gli Ottanta sono anche il decennio di Ronald Reagan, e la politica dà il suo
aggressivo contributo alla ridefinizione dei rapporti di lavoro. Reagan indica la strada
del ripudio del sindacato, rifiutando di ricevere durante tutto il suo mandato i capi
dell’AFL-CIO alla Casa Bianca. E dà un esempio concreto di come ci si comporta,
licenziando in tronco i 12.000 controllori di volo che scioperano. Le imprese afferrano
la lezione e interpretano la vecchia legislazione sullo sciopero, che risale alla legge TaftHartley degli anni Cinquanta, nel senso che i lavoratori in sciopero possono essere
sostituiti permanentemente, in pratica licenziati.
Intanto, non ostante la crescita del tasso d’inflazione, il salario minimo legale rimarrà
fermo per tutti gli Ottanta con la perdita del 30 per cento del potere d’acquisto (The
State of Working America cit. p..377). Insomma, la globalizzazione non ha ancora
dispiegato i suoi effetti, quando il mondo del lavoro ha già cambiato segno in direzione
di
una
controrivoluzione
neoconservatrice
che
alimenta
l’esplosione
della
diseguaglianza. Alla globalizzazione sarà affidato il compito di consolidare, esaltandola,
la svolta già in atto.
9. La ricerca delle cause interne del degrado del lavoro
La libertà di licenziare e l’imponente abbattimento dei salari è stato praticato in
America con la giustificazione dei cambiamenti indotti dalla globalizzazione e dal
dispiegarsi della concorrenza a livello planetario. Ma cosa c’entrano con la concorrenza
dei paesi emergenti, la precarietà del lavoro, i bassi salari, il diniego dei contributi per
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l’assistenza sanitaria e per la pensione integrativa di Wal-Mart? La più grande impresa
commerciale a livello planetario con oltre un milione e mezzo di dipendenti e 3.500
supermercati negli stati Uniti, con il suo mostruoso gigantismo, non può subire la
minaccia di concorrenti, ma è piuttosto in grado di sbaragliare la concorrenza di piccoli
come di grandi imprese commerciali.
E’ del tutto evidente che la formazione e la globalizzazione non hanno niente a che
vedere con le miserabili condizioni di lavoro di Wal-Mart. Mentre hanno molto più a
che fare con la deregolazione del mercato del lavoro, con le regole che impediscono di
fatto al sindacato di entrare nell’azienda, con l’impossibilità di negoziare un contratto
collettivo, con l’inconsistenza del salario minimo legale e con il mancato obbligo di
garantire l’assistenza sanitaria e una pensione integrativa, di cui gode una parte più
fortunata dei lavoratori americani. La formazione impartita ai nuovi assunti –
rigorosamente definiti “associati” – non occupa più di mezza giornata, durante la quale
si ripercorre la storia gloriosa di Sam Walton, il fondatore dell’impresa, e si spiega
quanto sarebbe pernicioso per tutti se i sindacati riuscissero a metter piede nell’azienda
(Ehrenreich B., Nickel and Dimed 2002, pp.142-143).
Ma Wal-Mart è solo il caso più clamoroso e discusso (su di esso sono stati scritti volumi
e girati documentari), ma non è affatto un’eccezione. Il più forte sciopero degli anni
Novanta si ebbe alla UPS, la più grande società privata a livello mondiale di spedizione
e consegne con circa mezzo milione di dipendenti. All’origine vi era il fatto che circa
100.000 lavoratori assunti part time, ma con le stesse mansioni di tutti gli altri, erano
pagati con una tariffa oraria di 9 dollari contro circa il doppio dei vecchi lavoratori a
tempo pieno. Un tipico caso dove non può essere invocata la concorrenza dei paesi
poveri ma, al massimo quella di un altro colosso americano del settore, la FedEx con
circa 250.000 dipendenti e una gigantesca flotta aerea – un impresa che a sua volta è
sotto processo per l’inquadramento di 15.000 autisti addetti alle consegne come
lavoratori autonomi. Due imprese gigantesche che ugualmente si avvalgono della
deregolazione del mercato del lavoro e dell’assenza di un contratto collettivo di settore
che fissi le tariffe minime orarie a parità di inquadramento professionale.
Ha certamente ragione l’economista del lavoro di Harvard, Richard Freeman, quando
nel suo ultimo libro America Works, guardando direttamente all’interno del modello
neoliberista americano afferma che la deregolazione, la debolezza e più spesso l’assenza
del sindacato, la mancanza di una contrattazione nazionale, l’impoverimento del welfare
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si rivelano come la principale causa del degrado della condizione di lavoro e della
diseguaglianza dei redditi.
La stragrande maggioranza di lavoratori americani è impiegata nei settori terziari dove
la concorrenza del mercato globale non può essere invocata perché si tratta di lavori non
delocalizzabili, se si esclude una certa quantità di lavoro informatico che può essere
eseguito a distanza, com’è tipicamente il caso di Bangalore in India. Nei servizi vi è
un’élite altamente privilegiata che lavora nella direzione delle banche e delle grandi
imprese, negli studi legali, nelle agenzie di consulenza, nel mondo della finanza, nella
medicina, nei media – un’oligarchia che è al di sopra della concorrenza perché fa parte
di una superclasse globale che occupa i posti di comando nelle metropoli dell’economia
mondiale da New York a Londra, a Tokio, a San Paolo, a Nuova Delhi e a Shangai: una
élite – scrive Saskia Sassen – sostanzialmente indifferente alle sorti del proprio paese se
non per garantirsi la piena libertà di gestione dei propri affari a livello globale.(Le città
nell’economia globale, 1997).
Ma nel mondo dei servizi, dove sono impiegati i tre quarti dei lavoratori americani –
all’incirca 100 milioni - questa élite è solo una parte privilegiata quanto minoritaria. La
grande maggioranza dei lavori terziari ha un carattere complementare o subalterno nei
confronti delle imprese e delle famiglie, presente in particolare nell’edilizia, nel
commercio, nei settori finanziari, nella scuola, nella sanità, e così via: tutte attività che
non sono delocalizzabili. Appare evidente che prima ancora che dalla globalizzazione,
la precarietà, i bassi salari, il declino dell’assistenza pubblica sono originate dalla rottura
del patto sociale che mirava a ridistribuire, con accettabili misure di equità, l’aumento
della produttività generale e del reddito nazionale.
Si è sostenuto, scrive Robert Frank della Cornell University che ‹la crescente
diseguaglianza è in larga misura la conseguenza del fatto che i salari dei lavoratori
comuni è trascinato in basso dalla competizione del lavoro straniero. Ovviamente
questo è stato importante per alcune occupazioni. Ma noi assistiamo allo stesso percorso
di ineguaglianza quando guardiamo alle occupazioni che sono largamente immuni dalla
competizione straniera› (Falling Behind 2007, p.98). In altri termini, la globalizzazione
insieme con la rivoluzione tecnologica, accrescendo la ricchezza dei paesi che vi
partecipano, avrebbero dovuto agire in direzione di un patto sociale rinnovato e non
meno equo che nel passato. Ma, in effetti, si è verificato il contrario.
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10. La riscoperta delle istituzioni
Negli anni più recenti, dimostratosi, da un lato, inconsistente il tentativo di rimettere
equilibrio nei rapporti sociali ricorrendo alla leva della formazione; dall’altro, illusoria
la pretesa di esportare la democrazia del lavoro nei paesi poveri, prende corpo un nuovo
orientamento per uscire dal binomio: degrado delle condizioni di lavoro-esplosione
della diseguaglianza. Si torna a puntare sulle istituzioni come strumento di contrasto e
di rimedio alle conseguenze sociali della globalizzazione, abbandonando la linea della
genuflessione delle istituzioni e della politica dinanzi all’incalzare dell’ortodossia
neoliberista.
Alcuni esempi di questa svolta sono particolarmente significativi. Dopo una lunga
opposizione dell’amministrazione Bush, il Congresso ha approvato, a decorrere dal
2009, l’aumento del salario minimo legale a 7,25 dollari l’ora, dopo essere stato
bloccato per dieci anni a 5,25 dollari, corrispondenti al più basso livello reale degli
ultimi 50 anni. Il Congresso ha anche bloccato il tentativo, che faceva parte della
piattaforma repubblicana sin dal primo mandato di George W. Bush, di privatizzare una
quota della “social security”, il sistema pensionistico pubblico che eroga la pensione al
95 per cento dei lavoratori americani. E un posto assolutamente centrale occupa nel
dibattito politico la riforma del sistema sanitario per estenderne la tutela a livello
universale, superando lo scandalo di quasi 50 milioni di americani che ne sono privi,
non ostante il costo complessivo della sanità sia il doppio della media europea.
Ma l’aspetto per molti versi più sorprendente è il rilancio del dibattito sul ruolo dei
sindacati. Dopo alcuni decenni di declino (con una rappresentanza sindacale nel settore
privato ridotta al 7,4 per cento dei lavoratori) in un clima di indifferenza, quando non di
ostilità dell’opinione pubblica, i sondaggi rivelano che i due terzi degli elettori
democratici e quasi la metà degli elettori repubblicani lamentano il declino del
sindacato, e ne vorrebbero il rafforzamento. Andy Stern, presidente del SEIU,
attualmente il più grande sindacato americano con 1.900.000 iscritti, si batte per una
riforma delle leggi sindacali che ne avvicinino il modello a quello europeo, un’ipotesi
che sarebbe apparsa del tutto stravagante nei decenni passati.
E’ una svolta destinata ad avere successo? La previsione non può che essere incerta. Le
forze che mirano a conservare la condizione di privilegio acquisita nel corso dell’ultimo
quarto di secolo sono potenti, e hanno dato prova della capacità di dirottare in direzione
dei loro interessi il processo politico. La riforma della legge Taft-Hartley che dovrebbe
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ridare fiato al sindacato è stata approvata nella primavera del 2007 dalla Camera dei
Rappresentanti, ma rischia di essere bloccata al Senato. La riforma sanitaria è tornata a
essere la questione centrale, prima ancora dell’Iraq, nella campagna elettorale dei
candidati democratici, ma l’esito è tutt’altro che scontato. Nel campo delle pensioni, le
imprese non si assumono più la responsabilità di garantire una pensione integrativa
predeterminata (defined benefit), ma trasferiscono sul lavoratore il rischio connesso ai
fondi pensione a capitalizzazione (defined contribution). Il tentativo di riformare il
modello sociale americano nella versione neoliberista consolidatosi, a partire
dall’avvento di Reagan, nell’ultimo quarto di secolo, incontra ostacoli formidabili
nell’oligarchia imprenditoriale e finanziaria. Siamo in ogni caso a una svolta. La
teologia del mercato e dell’autoriduzione delle funzioni statali, in definitiva delle
istituzioni e della politica, ha perduto credibilità. I suoi sacerdoti sono duri a morire, ma
la loro predicazione si fa sempre più sbiadita.
11. Il caso americano e l’Europa
Ho detto all’inizio che il caso americano e i nuovi versanti del dibattito sulla
globalizzazione sono utili per verificare, in trasparenza, a che punto siamo in Europa.
Credo che si possano fare a questo proposito tre osservazioni.
La prima riguarda il fatto che nell’Unione europea l’analisi dei cambiamenti nel mondo
del lavoro è fondamentalmente ferma all’idea dell’adattamento al paradigma
neoliberista della globalizzazione, mentre in America si discute ormai del fallimento
delle risposte neoliberiste, affidate agli automatismi di mercato. In Europa – come del
resto in Italia – rimane forte e aggressiva la posizione dei sostenitori della
liberalizzazione del mercato del lavoro e della privatizzazione di una parte del welfare,
dalle pensioni alla sanità.
Un esempio di scuola, apprezzabile per la dichiarata scelta neoliberista, si può scorgere
nel saggio di Alesina e Giavazzi (Goodby Europa, 2006) che intreccia il dibattito
italiano con quello europeo. Gli autori attribuiscono le difficoltà di crescita che incontra
l’Unione europea ai sistemi di rigidità del mercato del lavoro e di protezione
dell’occupazione che trovano il loro sostegno nella legislazione sociale, nei sindacati,
nella contrattazione, nella concertazione, nella dimensione della spesa sociale, e così via
biasimando. E’ il modello di critica e di alternativa che in America è stato proposto nel
corso degli ultimi due decenni dai grandi centri di ricerca neo-conservatori,
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dall’Heritage Foundation al Cato Institute; ma, come abbiamo visto, la loro teologia
neoliberista attraversa una fase di declino e discredito. In Italia avviene il contrario. I
due autori citati sono editorialisti di punta del maggiore giornale del paese con al
seguito una schiera, forse meno illustre ma non meno determinata, di adepti che
propagandano lo stesso credo.
La seconda osservazione riguarda un metodo di analisi che invece di basarsi sui fatti,
tende a oscurarli. E’ diventato di moda guardare con un certo rispetto a quello che viene
definito il modello scandinavo, elogiandone – come nel caso danese – la libertà di
licenziare (libertà, peraltro, più formale che praticata, essendovi una situazione di
sovraoccupazione con carenza di mano d’opera, e un sindacato che copre
sostanzialmente l’intera forza lavoro). Quasi sempre dimenticando (o fingendo di
dimenticare) che si tratta dei paesi con la più alta incidenza di imposte sul reddito al
mondo e con la più elevata spesa sociale a tutela del reddito dei lavoratori.
Poi, come contrappunto all’elogio scandinavo, non privo di una vena di ipocrisia, la
linea di pensiero neoliberista getta discredito sui sistemi di protezione presenti nei
grandi paesi continentali dell’Unione europea - Germania, Francia, Italia. Ognuno dei
quali, peraltro, presenta problemi diversi. Ma l’esempio più classico della
contraddizione dell’analisi neoliberista si può individuare in relazione alla Germania.
Qui sono presenti, più che in Francia e in Italia, gli elementi di struttura che più
disturbano il pensiero ortodosso: un sindacalismo forte, un elevato potere contrattuale a
livello nazionale e aziendale che non ripudia la flessibilità, ma ne negozia le forme e le
contropartite in termini di controllo dei livelli di occupazione. Un sindacato che per di
più esercita attraverso quella specifica forma di codeterminazione a livello delle grandi
imprese che è la Mitbestimmung, un potere di intervento sulle scelte strategiche
aziendali. Un paese dove i trasferimenti sociali, al netto delle imposte, come dimostra
un recente studio dell’OCSE, sono comparabili a quelli garantiti dalla spesa sociale
scandinava (R. Paladini, www.eguaglianzaelibertà.it, gennaio 2008)
Questo quadro così testardamente improntato al vecchio modello di “capitalismo
renano” dovrebbe essere la vittima designata della globalizzazione. Si dà il caso che sia
vero il contrario. La Germania è il paese con il più alto avanzo commerciale al mondo.
Non ostante l’elevatezza dei salari e del costo del lavoro, la sua competitività regge
anche di fronte alla supervalutazione dell’euro che ha registrato negli ultimi anni un
apprezzamento del 40 per cento sul dollaro. Mantiene una forte struttura industriale che,
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peraltro, il governo difende dall’assalto dei capitali finanziari speculativi. La sua
industria automobilistica è, insieme con quella giapponese, la più efficiente e redditizia
a livello mondiale, mentre i colossi simbolo dell’industria americana del secolo scorso,
General Motors e Ford, non riescono a uscire da una condizione fallimentare e la
Chrysler è finita nelle mani di un hedge fund.
Questo non significa che la Germania sia immune da problemi. Le regioni orientali
continuano a registrare un livello doppio o triplo della disoccupazione presente nelle
regioni della vecchia Repubblica federale, innalzandone il tasso medio. Ma i problemi
regionali, come ben ci ricorda l’esperienza del Mezzogiorno, non si risolvono riducendo
la spesa sociale, liberalizzando i licenziamenti e svendendo l’industria nazionale agli
hedge fund americani, come pretende il fondamentalismo neoliberista.
12. L’asse Francoforte-Bruxelles
La terza osservazione riguarda le ambiguità del modello economico-sociale dell’Unione
europea. Jacques Delors aveva immaginato, nel corso del decennio che lo vide alla testa
della Commissione europea, lo sviluppo di un modello sociale fondato su un sistema di
check and balance, di equilibri fra la libertà dei mercati, l’intervento dei poteri pubblici,
sia a livello comunitario che dei singoli stati, un forte potere d’intervento dei partner
sociali, con un esplicito sostegno al sindacalismo europeo. A quell’epoca, nel decennio
a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, si trattava di un’impostazione che rovesciava i
termini della controrivoluzione sociale operata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Il dopo Delors ci ha consegnato un processo ininterrotto di svuotamento di questo
modello. La politica della BCE è unicamente diretta alla stabilità dei prezzi con una
dichiarata indifferenza ai problemi della crescita economica. In ossequio alla politica
antinflazionistica di Francoforte, la Commissione europea, operando una rigida e
burocratica interpretazione del trattato di Maastricht, impone (o prova a imporre) agli
stati membri una politica fiscale che ha come obiettivo il pareggio del bilancio o il suo
avanzo. Jean-Claude Trichet, presidente della BCE ha uno sguardo severamente vigile
sulle regole del mercato del lavoro, i sistemi pensionistici e rivendicazioni salariali,
contribuendo a comporre un mosaico teoricamente compiuto di stampo monetarista.
Si tratta di politiche che non mancano di sollevare dubbi e critiche sia dalla parte di una
folta schiera di economisti di diversi orientamenti, sia da parte dei governi. In molti,
considerano la politica macroeconomica sostenuta dall’asse Francoforte-Bruxelles una
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politica deflazionista che frena le potenzialità di sviluppo di quella che è ormai la più
grande area economica integrata del pianeta. Bisogna tuttavia considerare che non si
tratta di scelte arbitrarie, ma basate su precise basi dottrinali che collimano con una
determinata visione e gerarchia degli interessi economici e finanziari. Il problema è,
secondo Stiglitz che <L’Europa ha chinato il capo di fronte a queste dottrine>. E non si
tratta solo di scelte tecniche: <La Banca centrale europea continua a perseguire una
politica monetaria fantastica dal punto di vista dei mercati obbligazionari, visto che
l’inflazione resta bassa e i prezzi delle obbligazioni si mantengono alti, ma disastrosa
per tutto ciò che attiene alla crescita e all’occupazione>. Del resto: <la
depoliticizzazione delle decisioni spiana la strada a decisioni che non tengono contro
degli interessi sociali generali> (La globalizzazione che funziona, 2007, pag.321).
Dobbiamo, in ogni caso, riconoscere che siamo al cospetto di una politica a suo modo
coerente,
perfettamente
corrispondente
a
un’impostazione
teorico-ideologica
chiaramente dominante tra gli anni Ottanta e Novanta, in primo luogo nelle grandi
istituzioni finanziarie multinazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca
Mondiale. Una linea criticabile, ma con il merito di essere esposta e difesa in modo
chiaro e senza infingimenti dalle autorità di Francoforte e Bruxelles.
13. L’ambigua politica del lavoro europea
Se l’asse Francoforte-Bruxelles si presenta con una linea chiara e trasparente, non
altrettanto si può affermare della politica del lavoro. Nelle dichiarazioni di principio, la
Commissione europea esibisce l’obiettivo della salvaguardia e dello sviluppo del
modello sociale europeo, con tutte le sue distinzioni ma anche con i suoi fondamentali
principi di tutela del mondo del lavoro. Ma negli orientamenti concreti non vi potrebbe
essere politica più ambigua. Dietro la sterminato quantità di documenti, che
instancabilmente promettono la lotta alla disoccupazione, possiamo intravedere una
concezione dell’occupazione perfettamente corrispondente al quadro teorico che gli
economisti definiscono come “politica dell’offerta”.
Di cosa si tratta? Sostanzialmente della politica dell’employability: vale a dire, misure
destinate ad accrescere l’occupabilità attraverso la flessibilità, la formazione, lo spirito
imprenditoriale. E se, non ostante tutto, permane una condizione di disoccupazione? Il
quesito non è contemplato. Infatti, secondo la teoria dell’offerta, c’è sempre una
domanda di lavoro disponibile, se l’offerta è sufficientemente flessibile. Non è invece
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prevista la circostanza che la disoccupazione dipenda da un’insufficienza della domanda
di lavoro, da una crescita economica troppo bassa, da un vuoto di investimenti, da
condizioni storiche di insufficienze strutturali e così via. Il famoso Libro Bianco di
Delors aveva raccomandato una politica attiva del lavoro dai due lati: dell’offerta e della
domanda; ma, dopo molti cerimoniosi inchini, è stato in breve tempo collocato
nell’archeologia delle politiche “volontariste”, francesizzanti, di ispirazione cattolicosocialista, in definitiva di vecchio stampo keynesiano, incompatibili con il principio
della sovranità e autoregolazione dei mercati.
Dobbiamo ripetere che non si tratta di teorie e convinzioni campate in aria. La scelta del
mercato come supremo regolatore della vita economica fu trionfante fino alla soglia
degli anni Trenta del secolo passato, per essere poi riportata in auge negli ultimi due
decenni. Il richiamo alla razionalità del mercato si fonda su una tautologia. <In un certo
senso - osservava Polanyi - tutti i mercati sono sempre autoregolati poiché tendono a
produrre un prezzo che consenta di vendere quanto è disponibile sul mercato>. Ma
aggiungeva significativamente che: <il funzionamento di mercati di questo tipo tende a
distruggere la società> per cui <l’azione autoconservatrice della comunità era intesa a
prevenire la loro istituzione o a interferire nel loro libero funzionamento> (La grande
trasformazione, 1974 p.256). Questo è quello che si è verificato, con alti e bassi, nel XX
secolo: l’affermarsi di istituzioni di carattere sociale non concepite per adattarsi ai
paradigmi dell’autoregolazione dei mercati, ma precisamente tendenti a prevenirli e a
interferire nel loro funzionamento per scongiurarne o stemperarne gli effetti negativi.
Ma la maggioranza delle nuove élite tecnocratiche europee si sono dimostrate più inclini
a seguire le dottrine neoliberiste delle Business School americane che non il pensiero
critico elaborato nella vecchia Europa.
14. Le” due” Lisbona
All’inizio del 2000 ebbi l’occasione, come consigliere del Ministro del lavoro, di
prendere parte direttamente all’elaborazione dei documenti per il Vertice straordinario
dell’Unione europea di Lisbona dedicato alle politiche dell’occupazione. Ricordo che il
lavoro svolto a livello intergovernativo in uno stretto rapporto con i governi francese,
tedesco, svedese aveva portato a un documento che per la prima volta tornava a
intrecciare esplicitamente l’obiettivo della piena occupazione con quello della crescita
economica. La flessibilità del lavoro, concordata nel rapporto fra le parti sociali,
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avrebbe trovato una sponda in una politica di crescita sostenuta e duratura a livello
comunitario in una misura che mirava a un aumento medio del PIL del tre per cento
l’anno. Gli uffici della Commissione europea proiettarono questa impostazione in un
arco di tempo decennale, tracciando la traiettoria di una sostanziale piena occupazione.
Non si trattava di obiettivi e proiezioni astratte. Tra il 1998 e il 2000 la crescita media
dell’Unione europea raggiunse la media del tre per cento annuo, la disoccupazione calò
verticalmente e l’occupazione aumentò di circa cinque milioni di unità con una media
annua di oltre l’1,5 per cento. Ma gli obiettivi di Lisbona furono rapidamente deviati
verso un’interpretazione che oscurò l’obiettivo di una politica economica comunitaria
indirizzata allo sviluppo, per tornare ai paradigmi neoliberisti della crescita fondata su
una politica macroeconomica antinflazionistica (pur essendo l’inflazione ai livelli più
bassi da 40 anni) e sulle famose “riforme di struttura”, intese come: liberalizzazione dei
mercati nei settori dei servizi, concorrenza, flessibilità illimitata del mercato del lavoro,
contenimento della spesa sociale, privatizzazione dei servizi e di quote crescenti dello
stato sociale.
Gli anni successivi a Lisbona, non ostante la nascita dell’euro che oggettivamente
rafforzava l’Unione riducendo i rischi di shock monetari esterni, furono miseramente
deludenti, segnati da una lunga fase di sostanziale stagnazione economica e di ripresa
della disoccupazione. Alle promesse di Lisbona sopravvisse solo la retorica dell’Unione
europea che sarebbe diventata “la società della conoscenza più avanzata e competitiva
del mondo”, naturalmente come esito di una politica ortodossamente neoliberista.
L’asse Francoforte-Bruxelles trovò l’appoggio di una parte dei governi europei e, in
particolare della Gran Bretagna, peraltro fuori dall’euro, ma non di tutti e non in tutte le
circostanze. Vi sono dissensi anche all’interno della Commissione europea - famoso è il
marchio di stupidità attribuito da Romano Prodi alla gestione del trattato di Maastricht
quando era presidente della Commissione europea. Ma l’ortodossia neoliberista rimane
il punto di riferimento ideologico e tecnico dell’euroburocrazia addetta alle questioni
monetarie, finanziarie e della concorrenza.
L’esito in parte esplicito, più spesso latente, è la tensione e talvolta il conflitto che si
manifestano nella critica alle politiche della Banca centrale, nella continua diatriba
sull’applicazione dei parametri di Maastricht, nella tacita, quando non esplicita,
resistenza ad assumere nel campo del lavoro le riforme di struttura, intese come
progressiva liberalizzazione del mercato del lavoro e riduzione della spesa sociale.
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Paradossalmente, la tecnocrazia europea ha riscosso un maggiore successo nei nuovi
paesi dell’est che, usciti dalla paralisi dei regimi comunisti, hanno con perfetto spirito
subalterno adottato le misure economiche e sociali tipicamente raccomandate dal Fondo
monetario internazionale e dalla Banca mondiale. Non a caso, le istituzioni finanziarie
multinazionali sono riuscite, col pieno appoggio delle istituzioni europee, a far passare
nei nuovi stati membri politiche di privatizzazione del welfare (pensioni, sanità,
istruzione) che stentano a trovare un terreno altrettanto disponibile nei paesi della
vecchia Europa (cfr. Social Watch Report 2007).
15. La” flexicurity” degli inganni
E’ questo lo scenario nel quale, nell’autunno del 2007, la Commissione europea si è
impegnata a proporre la politica della “flexicurity”, presentata come la prodigiosa
soluzione dei problemi connessi alla precarietà del lavoro. Non sappiamo se riuscirà ad
affermarsi, ma un successo l’ha già ottenuto a livello mediatico. E’ una formula
lessicale ibrida ma, nonostante (o proprio per) questo, suggestiva. Cosa ci può essere di
meglio che coniugare la flessibilità con la sicurezza? Ma cosa si deve intendere
esattamente per flessibilità? Quella che già esiste e che in molti, giuristi e economisti e
sociologi del lavoro, come Luciano Gallino, considerano eccessiva e causa di un
crescente disagio sociale? E’ questa flessibilità che si vuole controbilanciare con una
maggiore garanzia di sicurezza e di tutele, in modo da attenuarne le conseguenze
negative? La risposta a questi interrogativi è semplicemente: no.
La flessibilità, così come la conosciamo, è considerata dai sostenitori della flexicurity
insufficiente, ancora frenata se non bloccata dai vecchi schemi garantisti cresciuti con il
diritto del lavoro del secolo scorso, con la contrattazione collettiva e con una
legislazione sociale reputata eccessivamente protettiva.
Trattandosi di una formula che evoca il concetto di sicurezza, ci si aspetterebbe che la
flessibilità sia circoscritta, sottoposta a regole, confinata entro limiti trasparenti e
riconoscibili, insomma il più possibile immune dalla discrezionalità incondizionata di
una sola delle due parti in gioco. E’ vero il contrario. La flessibilità richiamata dalla
flexicurity sconfina al di là dell’ultimo tabù costituito dai limiti alla licenziabilità senza
giustificato motivo.
In ultima analisi, la vera essenza della flessibilità è collocata nella libertà di assumere e
licenziare, l’invidiato “hire and fire” di cui, in linea generale, dispongono le imprese
25
americane, la possibilità di interrompere il rapporto di lavoro “at will”, raffinata
versione inglese del vecchio e greve “ad nutum” - evenienza in linea di principio
confutata dalla Carta sociale europea. Finora i giuristi del lavoro inclini al modello
neoliberista si sono sforzati di ottenere quella che si definisce flessibilità in uscita con
l’adozione di un’ampia e immaginifica manipolazione della flessibilità in entrata, vale a
dire moltiplicando i rapporti di lavoro a termine che implicano per la loro stessa essenza
la libertà di licenziare, senza esplicitamente nominarla. Ora la Commissione europea,
assistita da una schiera di volenterosi esperti del lavoro, punta a compiere il passo
conclusivo verso il pieno adattamento del mercato del lavoro alle regole della domanda
e dell’offerta, facendo venir meno quella specifica funzione dialettica, di contrasto e di
bilanciamento, che Karl Polanyi attribuiva alle istituzioni di carattere sociale.
Ma tutto questo riguarda solo la prima parte della formula della flexicurity, essendo la
seconda dedicata alla sicurezza, vale a dire alla tutela del reddito, una volta perduto il
lavoro. E qui la doppiezza della formula diventa ancora più sconcertante. Infatti, essa
non evoca un allargamento delle tutele rispetto a quelle mediamente praticate nei vecchi
paesi dell’Unione. Bensì una tutela ben circoscritta e limitata nelle quantità e nella
durata in modo da incentivare la (obbligare alla) ricerca e l’accettazione di un qualsiasi
posto di lavoro alle condizioni offerte dal mercato.
Si tratta, in sostanza, del compimento della teoria che fa discendere la disoccupazione
dalla rigidità del mercato del lavoro, e la conferma della tesi secondo la quale l’offerta
di lavoro, come di ogni altra merce, trova una domanda solvibile se il salario e le
condizioni della prestazione sono sufficientemente (illimitatamente) flessibili. In
sostanza, la disoccupazione involontaria deve essere attribuita ai vincoli del diritto del
lavoro e alle norme contrattuali maturate nel corso del secolo scorso, oggi considerate
conservatrici e fonte di privilegi per quei lavoratori che possono ancora disporne.
Paradossalmente, le forme di protezione sociali diventano fonte di diseguaglianza. La
protezione del lavoro diventa il peggior nemico dei disoccupati secondo la bibbia
diffusa dall’OCSE a metà degli anni Novanta col famoso rapporto sulle origini della
disoccupazione (Jobs Study, 1994), successivamente criticato all’interno della stessa
organizzazione, ma rimasto come criterio guida della superiore razionalità della
deregolazione del lavoro. Che, nella formula più accattivante, è presentata come una
politica diretta alla tutela del lavoratore disoccupato, non nel suo posto di lavoro. E
l’accento torna sulla formazione come panacea universale: <E’ un fatto della vita –
26
sostiene Barroso, – che le persone possano sperimentare lo stress della disoccupazione,
ma arricchendo le proprie competenze si metteranno in condizione di trovare un nuovo
lavoro il più presto possibile>.
Ma per quanto queste tesi siano criticabili e perfino paradossali, esse assumono una
sorta di coerenza teorica e ideologica, se ci si colloca dal punto di vista del mercato
come il migliore regolatore dei rapporti sociali. Ma allora bisogna rendere chiaro il
punto
di
partenza.
Come
scriveva
Federico
Caffè,
richiamando
Myrdal,
nell’introduzione alle Lezioni di politica economica: l’analisi sociale riflette sempre una
certa visione del mondo, premesse ideali e preferenze politiche dello studioso, non vi è
una scienza sociale immune da giudizi di valori: <il suo necessario sforzo di obiettività
consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo o
reprimerli> ( 1978 pp. 13-14). In effetti, assistiamo a una diffusa operazione di
mascheramento. Vediamo in Europa Barroso, presidente della Commissione europea, di
chiara inclinazione neoliberista, voluto in quell’incarico da Blair, Aznar e Berlusconi,
presentare la flexicurity come la più autentica ed equa politica del lavoro, in perfetta
continuità con la tradizione europea. Così come tanti zelanti sostenitori delle politiche
neoliberiste si dichiarano in Italia i veri paladini di una politica progressista suggerita
alle forze di centrosinistra.
16. Il fondamentalismo tecnocratico
Concludendo, possiamo provare a riassumere. Le politiche pubbliche non sono state in
grado di far fronte alle conseguenze che scaturivano dai mutamenti in corso,
indipendentemente dal dosaggio delle loro cause. Vi è di più. Si è arrivati a concludere
che le politiche pubbliche nulla possano per intervenire sui processi in corso per
contrastarne o mitigarne gli effetti collaterali. La reazione è stata quella
dell’adattamento inteso come sottomissione alle tendenze dominanti..
In questo scenario, i sindacati, la legislazione sociale, la contrattazione nazionale, i
vincoli del diritto del lavoro, che presidiano la certezza dei rapporti di lavoro, sono
considerati un impedimento al libero funzionamento del mercato del lavoro e per ciò
stesso causa di distorsione, indebiti privilegi, diseguaglianza. Gli Stati Uniti, che sono
stati la frontiera più avanzata lungo questo percorso, hanno pagato un prezzo sociale
alto che oggi rischia di risolversi in una crisi di rigetto del processo stesso di
globalizzazione, di cui sono stati i maggiori protagonisti nell’ultimo quarto di secolo.
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Questo malessere sociale interno incrocia una più generale perdita di egemonia dei paesi
ricchi del Nord al cospetto di un profondo cambiamento della mappa della
globalizzazione, che era nata all’insegna della triade Stati Uniti, Unione europea,
Giappone sotto la guida americana. La globalizzazione è ormai un processo policentrico
dove operano con una crescente dose di autonomia nuovi grandi attori regionali come la
Cina, l’India, la Russia, il Brasile.
La novità, come abbiamo visto, è che gli Stati Uniti sembrano finalmente coglierete la
natura interna della crisi. S’interrogano sulle sue origini, riscoprendo l’importanza dei
problemi sociali, del lavoro e della diseguaglianza, e in misura crescente si orientano
verso nuove soluzioni al cui centro vi è la riabilitazione delle istituzioni e delle funzioni
della politica. L’esito di questa partita rimane incerto. L’ala progressista conta sulla
vittoria nelle elezioni dell’autunno del 2008 nella convinzione di poter conquistare
insieme la Casa Bianca e la maggioranza nei due rami del Congresso. In nessun caso il
cambiamento politico sarà facile. Ma il “laissez faire” è ormai discreditato, avendo
concorso a una profonda rottura interna alla società americana. Mentre s’incrinavano i
fondamenti di quello che negli anni Novanta fu definito il”pensiero unico”.
Diversa è la situazione in Europa. Il dibattito sulla globalizzazione è oscurato, o
utilizzato per sostenere la necessità di consolidare le linee neo-conservatrici della
tecnocrazia che regge l’asse Francoforte-Bruxelles in accordo con le oligarchie
finanziarie europee. Non esiste un dibattito aperto, e sembra di essere tornati alla metà
degli anni Novanta, quando Jean-Paul Fitoussi agitò le acque col suo saggio Le débat
interdit.
In effetti, pur in assenza di un dibattito aperto, i governi si muovono lungo strade più o
meno esplicitamente divergenti rispetto alle linee di condotta dettate dalle istituzioni
europee in materia economica e sociale. Il risultato di questo scenario precario e
contraddittorio è che i governi fanno ricadere sull’Unione le responsabilità delle
politiche che frenano la crescita e aggravano le condizioni di disagio sociale, mentre le
tecnocrazie europee accusano i governi di infedeltà ai principi dell’Unione.
Complessivamente, ne risulta un quadro schizofrenico. Da un lato, la tradizione di un
modello sociale – non importa se unitario o plurale - teso a ridurre la diseguaglianza
sociale e a rafforzare il valore del lavoro come un fattore essenziale della libertà
personale e della cittadinanza. Dall’altro, la tendenza a scardinare queste conquiste di
28
civiltà per l’assunzione di un modello neoliberista che ha dimostrato di dare una
pessima prova proprio in America che è stata la sua patria originaria.
Come negli Stati Uniti l’esito imprevisto è un diffuso spirito di rivolta contro la
globalizzazione, così in Europa cresce il disincanto verso il processo di integrazione. Il
ripudio del Trattato costituzionale in Francia e Olanda fu letto come il risultato di una
crisi interna ai due paesi, piuttosto che un chiaro segnale di allarme per il futuro
dell’Unione. Ma alla fine del 2007, dopo l’approvazione del minitrattato di Lisbona, i
governi si sono trovati d’accordo nell’escludere il ricorso ai referendum popolari per il
timore, non infondato, di incorrere in nuovi e forse questa volta irreparabili incidenti di
percorso. Ma la fuga dal giudizio e dalla ricerca del consenso popolari è alla lunga una
prova di miopia.
17. “Beware the U.S. Model”
La crisi europea sta in questa tendenza autolesionista a uscire dalla propria storia per
clonare un modello che è estraneo alla sua esperienza. Un modello ispirato a dottrine
neoliberiste che, sotto l’allure modernizzante, riecheggiano teorie non del secolo scorso
ma di quelle che si consolidarono alla fine del XIX secolo e che primeggiarono, non
senza arrecare enormi danni, fino alla Grande Depressione degli anni Trenta e alla
radicale critica keynesiana. A metà degli anni Novanta i ricercatori dell’Economic
Policy Institute di Washington intitolarono un libro sui rischi che correva la società
americana Beware U.S. Model – Jobs and Wages in a Deregulated Economy:
l’ammonimento (“Attenti al modello americano!”) si è rivelato previgente. Sia pure con
molto ritardo la discussione in America è aperta. Al contrario, l’Europa soffre di uno
stato di apatia.
Le teorie neoconservatrici degli anni Ottanta e Novanta, non ostante i visibili insuccessi,
vi si aggirano abbastanza indisturbate. Riferendosi a un recente discorso al College of
Europe di Bruges del Ministro degli esteri di Gordon Brown, scriveva recentemente il
Financial Times: <La visione di Mr. Miliband di un’Unione che estende i suoi confini
alla Turchia e il mercato unico ai paesi del Medio Oriente e dell’Africa combacia
esattamente con la visione della signora Thatcher di un’Europa più larga non più
profonda› (16.11.2007).
Era stato Jacques Delors ad ammonire che l’Unione doveva provvedere al suo
“approfondissement”, il rafforzamento dell’integrazione, prima di dilatare i suoi confini
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nel processo di allargamento. Le cose sono andate diversamente, e l’Europa come
grande mercato ha prevalso su quella del rafforzamento delle istituzioni. Alla politica di
cooperazione economica fra gli stati membri è stata sostituita quella della competizione.
Per cui assistiamo all’esaltazione delle flat tax nei paesi di nuova adesione dell’Europa
centro-orientale, e alla conseguente restrizione della spesa sociale, come esempi di
modernizzazione e di adattamento alle esigenze della competizione dentro e fuori
l’Unione.
Come abbiamo visto, osservando il dibattito negli stati Uniti, il problema del degrado
delle condizioni di lavoro e della diseguaglianza non deriva, come prevalentemente si è
ritenuto negli anni Novanta, dalla rivoluzione tecnologica, né dalla globalizzazione in
quanto tale, pur avendo l’una e l’altra un impatto profondo sui vecchi modelli di lavoro.
Entrambe invece hanno assunto un carattere incontrollabile e dirompente, quando si è
formata una miscela esplosiva con la politica del laissez faire, di asservimento delle
istituzioni e della politica, alle quali è stato attribuito un ruolo subalterno di sostanziale
supporto alla deregolazione.
Strumenti potenti di cambiamento come la rivoluzione dei computer e l’apertura dei
mercati globali esigono, invece, strumenti altrettanto robusti di bilanciamento e
riequilibrio sociale. In un libro di circa dieci anni or sono Dani Rodrik, docente di
economia internazionale a Harvard e per quanto lo riguarda convinto sostenitore della
globalizzazione, aveva ammonito che <la sfida più seria per l’economia mondiale nei
prossimi anni sta nel rendere compatibile la globalizzazione con la stabilità sociale e
politica a livello nazionale – o per dirla in termini più diretti, nel garantire che
l’integrazione economica internazionale non contribuisca alla disintegrazione sociale
nazionale>. (Has globalization gone too far? 1996, p.2). Si tratta di affermazioni forti
sulle quali vale la pena di riflettere.
Il dilemma sta nel fatto che lo sviluppo dell’integrazione economica globale tende a
ridurre, fino ad annullare, la capacità degli stati nazionali di esercitare il loro
tradizionale ruolo di intervento per evitare o mitigare gli squilibri. Ma, a sua volta, il
mancato intervento di riequilibrio interno apre la strada al ripudio sociale e politico
della globalizzazione. Lo scioglimento di questo dilemma è un compito che spetta alla
politica e alla capacità di adeguamento delle istituzioni nella loro funzione di
riequilibrio.
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Abbiamo visto nella classica analisi di Karl Polanyi, che scriveva nei primi anni
necessità di istituzioni sociali in grado di promuovere il consenso nelle fasi delle grandi
trasformazioni per non rischiare il loro rigetto insieme con la crisi della democrazia. In
epoca più recente, Albert Hirshman ha ricordato come il pensiero conservatore si è
sempre opposto con motivazioni diverse nel corso degli ultimi due secoli all’estensione
delle politiche pubbliche nel campo economico e sociale. Ricorda lo scienziato sociale
di Princeton come, in particolare, lo stato sociale fosse considerato da Hayek una
minaccia alla libertà e alla democrazia, mentre in realtà ne è stato un indiscutibile punto
di forza. E ricorda, non senza una dose di raffinata ironia, come l’oggetto della minaccia
sia di volta in volta mutato, come quando il politologo Huntington accusava lo stato
sociale di minaccia alla governabilità e, da questo punto di vista, allo stato democratico.
(The Rhetoric of Reaction 1991). Potremmo dire che, negli anni successivi, l’intervento
dello stato nell’economia e le politiche pubbliche sono diventate nel pensiero
neoconservatore, cambiando ancora bersaglio, una minaccia per il processo di
integrazione dell’economia globale e prima ancora dell’integrazione europea.
18. Uscire dall’apatia
L’aspetto straordinario del capovolgimento del pensiero sociale progressista ha trovato
un terreno ricettivo anche a sinistra, nel senso di una minaccia portata dallo stato sociale
non alla libertà e alla democrazia, ma alla crescita economica e perfino all’eguaglianza.
Si ritiene, in altri termini, che la salvaguardia di talune residue tutele per alcune fasce di
lavoratori penalizzi gli altri che subiscono più direttamente gli effetti della
deregolazione selvaggia del mercato del lavoro. Con la paradossale, anche se non
sempre esplicita, deduzione che una situazione di precarietà per tutti ristabilirebbe una
maggiore equità sociale.
In sostanza, siamo di fronte a una logica capovolta che la “retorica reazionaria” evocata
da Hirshman rende sorprendentemente plausibile, come quando si teorizza il conflitto
intergenerazionale a proposito dei sistemi pensionistici pubblici. L’abiura, rispetto alla
tesi di T.H. Marshall che aveva consacrato <il welfare state come la conquista suprema
della civiltà occidentale, grazie alla quale le libertà individuali e la partecipazione
democratica erano completate da una serie di diritti sociali ed economici> (Hirshman,
ib. p.115), può così essere considerata compiuta.
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Ma il discorso, come abbiamo visto, si è riaperto sia a livello scientifico che politico. Le
questioni sociali sono tornate al centro del dibattito, talvolta per il rischio che il loro
degrado fa correre ai processi di integrazione economica, altre volte per le rotture che
introduce nel tessuto sociale con spinte di carattere populista e isolazionista. E il
dibattito americano sulle origini del degrado delle condizioni di lavoro e sulla
dilatazione della diseguaglianza può esserci di stimolo nell’analisi dei problemi che ci
pone la crisi, più o meno latente, del processo d’integrazione europea. Bisognerà
convincersi che la ricorrente domanda di una maggiore integrazione politica, come
sembrava concretizzarsi nel fallito progetto costituzionale, è destinata a essere disattesa
in mancanza di un disegno in grado di produrre una solida legittimazione sociale.
Dovrebbe anche essere chiaro che non basta la rituale affermazione di una “dimensione
sociale” del processo d integrazione europea, se poi rimane avulsa dal processo politico
complessivo. Le politiche sociali si intrecciano necessariamente con le politiche
economiche. La politica monetaria non può essere gestita a prescindere dai suoi impatti
sulla crescita e l’occupazione. Perfino Greenspan e Bernanke, il vecchio e il nuovo
presidente della FED attentissimi ai bisogni di Wall Street e dei mercati finanziari,
considererebbero eccentrica e controproducente questa linea di condotta. D’altro canto,
le politiche di bilancio non possono essere dirette al pareggio o al surplus, a prescindere
dalle esigenze di intervento pubblico in tutti quei settori che non possono essere affidati
alla “spontaneità” del mercato: dalla ricerca, agli investimenti nelle infrastrutture, al
riequilibrio regionale, alla difesa di settori essenziali dell’industria dall’attacco dei
capitali speculativi vaganti, che ne minacciano lo svuotamento o la frantumazione.
In questo quadro, la tutela del lavoro e della sicurezza sociale sono strumenti vitali della
legittimazione sociale dei diversi gradi di integrazione. Questo non significa che i
dilemmi e le contraddizioni fra equilibri interni e pressioni di carattere globale possano
essere sciolti facilmente o con ricette prodigiose. Ma è appunto questo il compito degli
economisti, dei giuristi, degli scienziati sociali, dei politici: l’individuazione degli
strumenti istituzionali e delle politiche in grado di stabilire nuovi livelli di compatibilità
tra rivoluzione tecnologica, integrazione sovranazionale e globalizzazione, da un parte,
e progresso sociale, dall’altro. Le teorie dell’adattamento propugnate – come scelta
consapevole o talvolta per subalternità intellettuale o opportunismo – nel campo della
ricerca economica, giuridica e sociale, si sono rilevate sbagliate e rischiose per la
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gestione del processo di globalizzazione dal punto di vista americano, così come lo sono
per il processo di integrazione regionale rappresentato dall’Unione europea.
La via maestra per salvare e rilanciare l’Unione è aprire il dibattito in termini espliciti e
trasparenti per analizzare gli errori politici e le pregiudiziali ideologiche che rischiano di
minare il processo di integrazione europea. Non sarebbe infatti fuori luogo immaginare
che l’Unione per le sue dimensioni economiche ha, o potrebbe avere, un ruolo guida
nella nuova mappa della globalizzazione regionale, una volta affrancata dai vincoli
ideologici, dagli interessi oligarchici e dal governo tecnocratico che ne hanno frenato e
sviato il percorso.
(dicembre 2007 - gennaio2008)
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