02 frontespizio - Richard e Piggle

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02 frontespizio - Richard e Piggle
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Nolan, da superstite a calciatore
GIUSY VALVO
Per il bambino è importante scoprire che odio
e pulsioni aggressive possono essere espresse
all’interno di un ambiente conosciuto
senza un ritorno di odio e di violenza...
D.W. Winnicott, 1964
Nolan e i suoi genitori adottivi
Il presente materiale clinico riguarda alcune fasi della relazione terapeutica con un bambino adottivo, Nolan, tuttora in trattamento. Il mio
intento è di condividere alcune considerazioni che questa esperienza ha
suscitato in me soprattutto in merito alle questioni di tecnica che il caso solleva. Siamo in presenza di una difficile elaborazione da parte del paziente,
di elementi traumatici precoci, ma traspaiono anche aspetti emergenti del
Sé propri dell’età di latenza e di quelli successivi ad essa. Il processo di crescita procede destando in N. nuove potenzialità e nuove spinte, ma anche
sconcerto e preoccupazione; i bisogni di accoglimento e di dipendenza non
sono stati pienamente soddisfatti, anzi è stata a lungo sperimentata la vulnerabilità del Sé, esposto ad un ambiente ostile ed inaffidabile. E così con l’emergere della spinta all’autonomia, del bisogno di confrontarsi e competere
con gli altri, N. rischia di rivivere gli antichi sensi di inadeguatezza riproponendo le collaudate difese. C’è da chiedersi, pertanto, se e quanto il riavvicinamento al trauma rischi di ostacolare il lavoro di messa in latenza o se
il riavvio dei processi di integrazione di base possa indurre troppo la regressione non favorendo così l’emergere delle nuove rappresentazioni del Sé.
Nolan è ora un bambino di quasi 12 anni, che frequenta la prima media;
è di carnagione chiara e ha occhi e capelli castani, è magrolino e piccolo di statura rispetto alla sua età, ha un viso e modi di fare molto simpatici. È di origine ucraina, è stato adottato all’età di 5 anni, Lo conosco da circa quattro anni,
allora stava per compiere 8 anni; i genitori adottivi avevano richiesto una consultazione psicologica per le difficoltà di relazione con lui e per il suo scarso
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rendimento scolastico.1 La valutazione del materiale clinico e dei test somministrati (uno intellettivo e uno proiettivo) avevano evidenziato un disturbo
della condotta e della sfera emozionale, che si esprimeva con comportamenti
aggressivi e provocatori associati a manifestazioni di ansia e paura. Lo sviluppo delle prestazioni intellettive si collocava ai limiti inferiori della norma
ed erano emerse evidenti connessioni tra le sue difficoltà di pensiero e quelle
a contattare il proprio mondo interno. L’esperienza dell’abbandono alla
nascita e dell’istituzionalizzazione, durata per i primi 5 anni della sua vita, lo
avevano profondamente segnato nel senso di fiducia verso le capacità dell’ambiente di accogliere, riconoscere e comprendere i suoi bisogni. I genitori
adottivi avevano riferito come il figlio in alcune fasi dell’inserimento in famiglia, avesse manifestato comportamenti oppositori, che comprendevano anche
il rifiuto del cibo e della presenza materna al momento dell’addormentamento.
Il papà, Aleandro, è ingegnere, la mamma, Lelia, è casalinga; la loro
conoscenza è avvenuta frequentando amicizie comuni. Quasi da subito hanno
iniziato una convivenza durata tre anni, cui ha fatto seguito il matrimonio.
Sono entrambi delusi rispetto alle realizzazioni personali: A. avrebbe desiderato ultimare gli studi presso una prestigiosa università e L. laurearsi in
biologia, ma questi progetti solo in parte si sono realizzati. La coppia risulta
accomunata anche dal vissuto di deprivazione affettiva sperimentato nei
nuclei d’appartenenza. Inoltre dagli accertamenti effettuati era emersa una
infertilità di coppia sine causa. La ferita narcisistica al riguardo e le motivazioni della scelta adottiva non sembravano, al momento del nostro incontro,
ancora sufficientemente elaborate. La qualità emozionale, di tipo depressivo,
che traspariva dall’ambito di coppia, contrastava con il quadro clinico del
figlio caratterizzato dall’espressione di ansia, eccitazione e rabbia. L’équipe
della consultazione aveva indicato un percorso psicoterapeutico per il bambino ed un lavoro di sostegno per la coppia genitoriale. N. è attualmente in
terapia da quasi 4 anni con me con una frequenza trisettimanale; poiché i
genitori non hanno seguito l’indicazione terapeutica per se stessi, ho ritenuto
opportuno offrire loro uno spazio di ascolto e di confronto periodico con me.
Le catastrofi e le divertenti cadute stile “Paperissima”
L’intenso vissuto persecutorio e l’implicita richiesta di elaborare il
trauma, conseguente all’interruzione della sua continuità evolutiva, sono
1
La consultazione è stata effettuata presso l’ambulatorio di Psicodiagnosi e Psicoterapia
del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’età Evolutiva; in quella fase io
ho effettuato le sedute di osservazione di gioco.
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comparsi fin dalle prime battute dei nostri incontri. Quando gli stavo comunicando il lavoro che avremmo svolto insieme, N. finisce di mimare le ultime
sequenze di scontro tra due macchinine e mi dice: “Ecco, così mi puoi dare
quello che mi serve quando vado lì”; gli chiedo se può farmi capire meglio e
mi precisa che intende dire quando andrà in Ucraina a colpire la strega cattiva. Sottolineo che mi sta chiedendo di aiutarlo in qualcosa di molto importante per lui e che possiamo scoprire insieme cosa gli sarà utile; ribatte:
“Eh… ma sei tu che me lo devi dire cosa portare, capisci!”, parlandomi seriamente. Aggiungo: “Credo di capire, N.”, e così ci avviammo ai primi saluti.
Più volte nel corso della terapia mi sono sorpresa a ricordare l’intensità emotiva di quella comunicazione e il suo significato: aiutarlo primariamente nel
fornirgli i mezzi perché lui potesse affrontare i fantasmi che lo animavano
circa la sua storia traumatica.
Per tutto il primo anno della terapia N. mette in scena giochi violenti:
scontri tra macchinine, stragi di esseri umani e catastrofi naturali. Ripetuti
incidenti tra le macchine travolgevano persone e animali determinando delle
vere e proprie “stragi”, come era solito definirle. Città intere subivano la forza
di agenti atmosferici come alluvioni o tornado cui gli esseri umani e gli animali non potevano reagire e nemmeno sperare nella funzione dei “soccorsi”.
Questi, infatti, arrivavano sempre troppo tardi,oppure venivano travolti
anch’essi dalla furia della “natura”. La sua attenzione era rivolta non solo a
rappresentare “il finimondo” ma, soprattutto, a constatare cosa tali distruzioni avessero potuto determinare, ovvero quali fossero stati gli effetti concreti e, quindi, i danni sulle persone, sugli elementi naturali e sugli oggetti
materiali. Ritengo che la comunicazione profonda che mi veniva ripetutamente offerta fosse: “È successo qualcosa di violento proveniente dall’esterno
e questi sono gli effetti”; nel controtransfert ero portata a sentire un persistente vissuto di impotenza verso ciò che accadeva ma anche una sorta di svalutazione verso le mie capacità di riconoscimento dei sentimenti dolorosi provati dalle vittime o nei confronti di quanto questo suscitava emotivamente in
me. N., invece, ricorreva all’uso di razionalizzazioni per evitare il contatto
emotivo con i contenuti dolorosi. A chiusura di ogni rappresentazione, N.
commentava: “Eh che ci vuoi fare… questa è la vita!”. Venivo trascinata dalla
forza del suo bisogno di segnalarmi come e quanto io dovessi sentire al suo
posto e, al contempo, mi faceva provare “la forza della natura” che lo aveva
deprivato di quelle qualità dell’ambiente che favoriscono i processi di integrazione, di personalizzazione e che avviano la relazione oggettuale.
Con il tempo si sono registrate delle evoluzioni nei giochi, soprattutto
da quando N. iniziò a mimare scene di animali o persone che accidentalmente cadevano, scene che io dovevo presentare e commentare, come nel
noto programma televisivo “Paperissima”. Venivo sollecitata ad esporre quei
filmati a cui di volta in volta lui prendeva parte e a condividere la tonalità
emozionale, di certo ben diversa dallo sgomento per l’impotente assistere
alle precedenti catastrofi e stragi. Grazie al progressivo soffermarci sugli
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effetti che le divertenti cadute avevano sui soggetti da lui interpretati, animali o persone, è stato per me possibile introdurre la parte dell’altro, da me
interpretata, che si preoccupava e si prodigava di proporre eventuali “soccorsi”. A tratti venivo chiamata a posizionarmi sullo sfondo, operando come
una voce fuori campo, la cui funzione veniva richiesta e riconosciuta in modo
attivo da N. stesso, e a tratti sollecitata ad entrare pienamente sulla scena
non appena mi esponeva al pericolo per la sua incolumità fisica, a seguito
delle spericolate cadute, per le quali rispondevo con il prospettare i soccorsi,
che via via N. iniziava a non rifiutare del tutto. In questo periodo della terapia rintracciavo in N. un cambiamento di percezione rispetto all’ambiente
che da catastrofico per la sua incapacità a tenere le manifestazioni della
“forza naturale” diveniva un ambiente entro cui poter manifestare l’iniziale
esercizio attivo della propria vitalità; forse stava evolvendo anche la rappresentazione del trauma che da catastrofico assumeva le connotazioni di
una caduta, la cui risonanza emotiva iniziava a poter essere condivisa.
Il materiale clinico che segue risale a circa un anno e mezzo dall’inizio
della terapia, N. aveva quasi 10 anni. A mio avviso questo materiale permette di cogliere il sopraggiungere di nuove rappresentazioni del Sé, in rapporto sia all’esperienza traumatica precedentemente vissuta che all’emergenza di altri aspetti più specifici della fase di latenza.
Mi attaccano...resisto!
Nolan arriva puntuale al nostro incontro e tenta di spaventarmi con il suo
solito buh! lanciandomi una piccola palla, sgonfia. Entra, attraversa il corridoio, si precipita in scivolata, vado per soccorrerlo ma lui immediatamente
si rialza e si dirige in stanza. Mi fa cenno di voler continuare il gioco della
volta scorsa: nascondersi sotto il tappeto mentre io devo sdraiarmi su di lui
usufruendone come se fosse un cuscino. È nascosto, gli comunico il piacere
di potermi ristorare un po’ e di godermi il riposo su questo cuscino ben morbido. Il gioco, che ha strutturato con il tempo, consiste nel suo allontanarsi
e nel mio dovermi adoperare nel recupero del cuscino esplicitando la mia irritazione perché ciò accade. Oggi mi suggerisce di proseguire il gioco mutandolo radicalmente. Mi invita a pormi sotto il tappeto assieme a lui perché
dobbiamo rifugiarci dai cattivi: i ladri, che sono fuori, pronti a derubarci e ad
attaccarci, e mi sollecita a fare attenzione a non lasciar trasparire alcun filo
di luce. Commento quanto lui si senta di dover proteggere me e al contempo
se stesso e quanto questo debba essere faticoso, e aggiungo di volermi candidare io come la persona che lo possa proteggere. N. sembra accettare la
proposta e mi invita ad uscire dalla tana. Segnalo il mio essere molto attenta
ai rumori e ai segnali di pericolo, ma quasi immediatamente dopo esce allo
scoperto ed emette un suono d’animale, a metà tra il ringhiare e il ruggire,
gattona e si dirige verso la porta-finestra della stanza sbattendo la testa.
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Fin dalle prime battute N. mi spinge a sentire quanto da lui provato: l’incontro con le parti fragili e stanche del suo Sé, rappresentate dalla piccola palla
sgonfia, possono produrre spavento nell’altro. Accanto a ciò permane in lui
l’ambivalente bisogno di essere accolto; si precipita in scivolata, mi attiva a soccorrerlo ma fa a meno del mio aiuto. N. segnala, poi, la carenza di base nell’investimento narcisistico attraverso il gioco del nascondersi sotto il tappeto. Sembra che il valore del Sé debba essere celato e svilito nella funzione di chi deve
fornire sollievo all’altro, forse anche in connessione con il mal di schiena della
mamma adottiva di cui è solita soffrire e che la costringe a stare a letto per lunghi periodi. Potremmo chiederci, inoltre, quali opportunità di sperimentazione
ci siano state per N. riguardo alla qualità aggressiva e spietata del Sé dal
momento che comunica la necessità di celare le parti più vitali del Sé, ritenute
forse responsabili della stanchezza a carico dell’oggetto. Winnicott (1984)
scrive: … “il bambino normale prova piacere nello stabilire una relazione spietata con la madre, che si manifesta soprattutto nel gioco, ed ha bisogno di sua
madre perché solo da lei può aspettarsi che tolleri il suo essere spietato anche
se questo avviene nel gioco, perché è qualcosa che realmente ferisce e stanca.
Se manca questo tipo di gioco con lei, il bambino non può far altro che nascondere il suo essere spietato per dargli spazio solo in condizioni di dissociazione”.
Nelle sequenze interattive che seguono si evidenzia la possibilità per N. di
rendere partecipe l’altro dei propri stati angosciosi, ma anche la necessità di
tenere lontana la sperimentazione del rapporto di dipendenza con chi si candida
a figura di protezione in vista degli altri scenari che il Sé si appresta a vivere.
Sembra, infatti, che la raffigurazione di sé in veste di cucciolo d’animale lo renda
così fragile al punto da impattare duramente contro i contenuti dolorosi ed
impensabili: N. esce dalla tana, è angosciato, gattona e va a sbattere la testa.
Il materiale successivo è relativo a quando N. aveva poco più di 10 anni
e mezzo; in esso si possono intravedere le trasformazioni nella rappresentazione del Sé accanto all’emergenza di nuovi bisogni.
Mi attaccano...reagisco!
N. arriva puntuale, apro la porta ma non si fa trovare, vado a cercarlo, è
nascosto nei pressi dell’ascensore. Prova a spaventarmi con il suo buh! e poi
mi sorride. Oggi ha in mano un orsacchiotto, si chiama Lalla, lo ha già portato in seduta diverse volte, è il suo peluche preferito. Entra, si avvia per il
corridoio, si arresta per permettermi di salutare bene il suo orsacchiotto,
prosegue ed entra in stanza. Mi invita a giocare a palla, desidera che
insieme a noi giochi anche Lalla; N. colpisce la palla tramite l’orsacchiotto,
che tiene a precisare si tratta di un maschio, ponendolo all’altezza della
testa. Dopo poco decide di farlo riposare e lo deposita su una poltroncina; è
molto affettuoso con lui, lo accarezza, gli dà bacini, gli parla amorevolmente,
e mi sollecita più volte a notare quanto sia carino. Si posiziona sotto il tapRichard e Piggle, 16, 1, 2008
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peto assieme a lui, mi precisa che loro ora verranno ammazzati dal ladro,
che io dovrò impersonare; accetto di mimare queste sequenze e commento
quanto forse loro lì sotto si sentiranno spaventati ed avranno tanta paura.
È N. a suggerirmi dove io debba colpire; i punti da lui segnalati sono in corrispondenza delle pieghe del tappeto formatesi a seguito dei suoi movimenti
e non effettivamente in direzione dei bersagli da lui stesso prospettati. Si
scopre e dice di essere libero, ma nel togliersi bruscamente di dosso il tappeto ricopre Lalla e assegna a me la responsabilità di questo, che equivale
al suo ferimento. È intento a soccorrere l’orsacchiotto, lo cura e si riposa
accanto ad esso. Sottolineo come oggi lui sia stato in grado di farmi sentire
che possono accadere delle situazioni molto gravi come il rischio di venire
ammazzati o il ferimento di qualcuno a cui si tiene tanto. Mi invita a riposarmi accanto a loro per un pochino; cambiando di posizione, viene a trovarsi vicino alla sediolina su cui sono appoggiati i peluche, le sferra un calcio e la scardina del tutto. Io sono in silenzio e mi dice che deve ammazzare
i ladri, punta i pezzi di legno, ricavati dalla sediolina, che ora rappresentano
dei fucili, in direzione della porta finestra verso gli immaginari ladri e spara
ripetutamente. Commento come il pericolo sembra essere sempre lì presente, N. ascolta, non dice nulla, e torna ad accarezzare il suo orsacchiotto.
In questo inizio di seduta, come in molte altre successive, N. segnala il
bisogno di riscontrare in me la sua mancanza e il mio desiderio verso di lui;
mi attiva nella sua ricerca (sono io a dover uscire dalla stanza per cercarlo) e
mi sollecita nell’accoglimento delle parti del Sé bisognose di coccole e di attenzioni, rappresentate dall’orsacchiotto Lalla. N. si avvale dell’orsacchiotto per
rispondere ai miei lanci di palla proponendo così un iniziale accostamento
delle parti fragili del Sé con quelle più vitali ed assertive. Potremmo considerare come, attraverso l’attività del porsi l’orsacchiotto sulla testa, N. delinei anche una differente raffigurazione dell’esperienza traumatica; dalle
stragi e catastrofi che annientavano tutto e tutti, ora rappresenta se stesso
alle prese con il continuo rimbalzo dell’oggetto che colpisce la sua testa,
segnalata come parte più fragile del Sé (l’orsacchiotto Lalla). Forse anche il
vissuto angoscioso di minaccia alla sua incolumità psicofisica, la cui fonte di
pericolo è persistente e tale da ingaggiarlo in una continua lotta per la sopravvivenza, inizia ad assumere delle diverse articolazioni: emerge una chiara
distinzione tra chi è oggetto di attacco, e chi è agente della violenza, chi
deruba e chi è derubato, accanto a chi è oggetto di cure e chi le fornisce. Tuttavia la riproposizione delle parti bisognose interpretate dai peluche sembra
risuonare per N. come l’accostamento ad una situazione traumatica e temibile per la quale manifestare l’angoscia persecutoria e la propria aggressività.
Anche in tempi successivi N. ha mostrato la necessità di portare in
seduta sempre qualche oggetto. La sua richiesta di trovare accoglimento per
le parti fragili e danneggiate del Sé, – portava peluche, macchinine ammaccate, soldatini feriti – è stata progressivamente affiancata dall’esigenza di
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essere rispecchiato per le sue emergenti capacità. Sempre più presentava il
bisogno di essere riconosciuto nelle sue abilità di gioco come tentativo di
recupero nell’investimento narcisistico ma anche come ricerca di un adulto
che trasmettesse entusiasmo, apprezzamento e che godesse delle sue capacità. Per una lunga fase N. ha raffigurato nei disegni una moltitudine di faccette che simboleggiavano la folla accalcata allo stadio che assisteva ad una
partita di pallone e alle prodezze dei giocatori. Con il tempo siamo arrivati
a giocare delle vere e proprie partite nelle quali ci si poteva lasciare andare
al piacere della disputa esprimendo ciascuno la propria vitalità.
Il fallimento ambientale ha costituito, per il percorso evolutivo di N.,
una traumatica interferenza esterna ed è su questo scenario che il lavoro
terapeutico si è installato. Dai passaggi clinici, che ho scelto di presentare,
ritengo che si raffiguri quanto, a fronte di un holding discontinuo e imprevedibile, parte della persona di N. sia stata spinta a ritirarsi in posizione
rigidamente difensiva contro l’angoscia di sentire il nucleo del Sé derubato
e minacciato dall’ambiente (i ladri pronti a derubarlo e ad ucciderlo), ed al
contempo derubante e minaccioso (la parte del sé derubante viene appoggiata sulla terapeuta). La dinamica interna tende ad impoverire le risorse
emotivo-affettive; la rabbia e l’aggressività rappresentano l’unico mezzo per
disfarsi dei contenuti interni persecutori. Tuttavia la riorganizzazione dei
rapporti con il suo mondo interno ed esterno, quale compito della fase di
latenza, sembra aver rappresentato a tratti un vero e proprio rischio per l’acutizzarsi della vulnerabilità del Sé. Non a caso in coincidenza dell’ampliamento delle richieste ambientali, in particolare della scuola, sono emersi più
chiaramente i nodi evolutivi e gli elementi irrisolti legati alle precedenti fasi.
N. non sembrava pienamente equipaggiato per quell’attivazione di modalità
di funzionamento proprie della fase di latenza (Bruno, Tabanelli, 2001).
L’impoverimento del nucleo interno di N., effetto del continuo svuotamento
difensivo, rende difficile la riorganizzazione del mondo interno ed esterno e
costituisce un’ulteriore occasione per risperimentare il senso di fragilità,
non potendo contare su di una effettiva maturità emotiva ed affettiva.
Come sottolineato da Carratelli et al. (2001) il processo del divenire soggetto richiede, per la stabilità del Sé, una buona articolazione dei momenti di
integrazione e di non integrazione, e per quanto riguarda il funzionamento dell’Io, un lavoro di neutralizzazione e di desessualizzazione relativo alla pulsionalità sessuale e aggressiva. La discontinuità del processo evolutivo ha, invece,
comportato per N. l’incompleta integrazione degli aspetti pulsionali e lo scarso
supporto per la costituzione delle basi narcisistiche del Sé. Questi aspetti, come
abbiamo avuto modo di notare dal materiale clinico, si evidenziano nell’uso
prevalente delle difese primitive, nella peculiare valenza difensiva dell’aggressività, e nel bisogno di praticare attività fisiche e violente, volte a percepire i confini corporei oltre che ad evitare il contatto emozionale. A N. è mancata l’esperienza di quell’adattamento dell’ambiente nei confronti dei bisogni
infantili, che favorisce l’illusione in una realtà esterna e che corrisponde e si
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sintonizza sulla capacità del bambino di creare il mondo. N. risulta deprivato
proprio di quella funzione desiderante e creativa del Sé (Maccioni 2005); non
ha potuto godere abbastanza della funzione di rispecchiamento e di rèverie; ha
dovuto, almeno inizialmente, resistere e reagire all’assenza di un ambiente facilitante e ai turbamenti interni che tale assenza ha suscitato in lui.
Riassunto
L’autrice riporta il materiale clinico di una psicoterapia di un bambini adottato
e mostra come la mancata elaborazione dei traumi precoci possa rendere più difficile
al paziente il lavoro di messa in latenza e l’emergere delle tematiche pubertarie. La
riorganizzazione dei rapporti con il mondo interno ed esterno, quale compito della fase
di latenza, sembra rappresentare a tratti un rischio per l’acutizzarsi della vulnerabilità del Sé che, non potendo contare su di una effettiva maturità emotiva ed affettiva,
risulta non pienamente equipaggiato per l’attivazione delle nuove modalità di funzionamento. In alcuni fasi della relazione terapeutica, si evidenzia come, da un lato,
il riavvio dei processi dei processi di integrazione di base possa indurre troppo la
regressione, ma anche come il confronto con i nuovi compiti evolutivi possano ostacolare l’affiorare delle nuove rappresentazioni del Sé. Il bisogno di riconoscimento nelle
abilità di gioco, come tentativo di recupero nell’investimento narcisistico ma anche
come ricerca di un oggetto vitale, sembrano aver costituito una nuova possibilità di
costruzione della relazione terapeutica consentendo il confronto con altre tematiche.
Bibliografia
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Winnicott DW (1984). Lo sviluppo primario. In: Il bambino deprivato: le origini della tendenza
antisociale. Milano: Cortina, 1986.
Giusy Valvo, Dottore di Ricerca in Psicologia Giuridica, diplomanda in Psicoterapia Psicoanalitica del Bambino e dell’Adolescente (ASNE-SIPsIA).
Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:
V. F. Valagussa, 69
00151 Roma
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