Capitolo 1 La sveglia sparò a tutta come un`indemoniata

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Capitolo 1 La sveglia sparò a tutta come un`indemoniata
Capitolo 1
La sveglia sparò a tutta come un’indemoniata. Ogni santo giorno, dal lunedì al venerdì, con
quel suono irruente, mi menava alle sei e trenta l’immancabile mazzata strapazza-cervello che mi
risvegliava dall’oltretomba.
<< Porco cane! >> Esclamai, << è già arrivata l’ora di portare le mio culo puzzolente in
facoltà! >>.
Odiavo a morte la sveglia, mi dava quasi l’effetto di un rimprovero, soprattutto se durante la
notte non dormivo e poiché tale evento si ripeteva costantemente, la mia brama distruttiva cresceva
col passare del tempo. Tuttavia mi esimevo dal sfasciarla perché la sua funzione mi era essenziale
per il risveglio. Mi alzai dal letto di scatto di modo che non ricadessi nuovamente nel torpore.
Siccome a quell’ora nessuno era ancora in piedi, mi misi a fare più casino possibile per far sì che gli
altri componenti familiari – ossia mia sorella e mia madre – provassero la stessa angoscia della
levataccia mattutina. Travolsi perciò qualunque ostacolo mi si parasse davanti e sedie e tavoli
persero, con il mio urto volontario, la loro posizione iniziale. Poi, come colpo finale, aprii la porta
del bagno e la sbattei come se fosse stata sospinta dal vento. Nonostante l’inquinamento acustico da
me provocato, mia sorella continuava a ronfare come una cagna; neanche il Big Bang l’avrebbe
tolta dai suoi fottutissimi sogni idioti.
Arrivai in cucina con andamento incerto, ero ancora frastornato dalla sonnolenza,
naturalmente in frigorifero gli alimenti commestibili erano quasi inesistenti. Ti credo, a convivere
con due donne affette da psicosi alimentare, cosa vuoi che si mangi. Sono costantemente
ossessionate dal loro maledettissimo peso corporeo ed impongono indirettamente un regime
dietetico talmente severo, che persino l’acqua risulterebbe ipercalorica.
Trovai un pacco di paste al cacao, purtroppo non sapevo con cosa inzupparle, visto che il latte
proprio non mi andava. Mi preparai una limonata torbida come l’acqua fognaria e la versai nel mio
personale tazzone azzurro. Mi accinsi, quindi, ad immergere le paste e cominciai a mangiare con
disgusto. Ad ogni ingoiata emanavo una reazione di ribrezzo. Mi dissi “Mamma mia che latrina, un
topicida avrebbe avuto sapore migliore”, ma continuai imperterrito a seguire la difficile impresa.
Ebbi prima il voltastomaco, poi una leggera nausea ed infine mi venne da vomitare. Naturalmente
non mi spaventai perché erano dei sintomi che avevo sperimentato in passato ed ero consapevole
che fossero soltanto passeggeri. Infatti non era la limonata e le paste a darmi quegli effetti
collaterali, era la sbornia della sera prima che doveva essere ancora smaltita. Andai pisciare e
l’effetto ribrezzo cominciò ad attenuarsi. Tornai sui miei passi e misi a riscaldare il caffè, in un
bricco di circa duecento millilitri. Lo feci un po’ freddare e me lo scolai alla velocità della luce.
Il caffè mi era essenziale perché mi serviva per non avere un collasso durante lo svolgimento
delle lezioni paranoiche.
Mi vestii in fretta e furia, indossai i jeans che non venivano lavati da oltre un anno e calzai la
mia maglia nera preferita con la scritta “Runner”. Mi detti una passata con l’acqua per pettinarmi i
capelli, presi lo zainetto, m’infilai il giubbotto ed uscii di casa senza salutare nessuno; tanto,
figuriamoci, a chi cacchio gli importava di me.
Il cielo era terso, prometteva una splendida giornata. Mi separavano circa quattrocento metri
dalla stazione, che si svolgevano in una sorta di percorso ad elle. Era ancora presto ed il paese
viveva nella quiete che precede il trambusto urbano. Passai davanti al bar di Riccardo. Detti
un’occhiata all’interno e naturalmente quello sfaticato non era ancora arrivato; c’era il padre a
sostituirlo. Nei pressi dei tavolini stavano alcuni uomini muniti di gazzette a commentare l’accaduto
delle notizie e degli eventi sportivi del giorno prima. Più il là l’attacchino era impegnato a collocare
dei manifesti sulla parete muraria. Due operai edili trasportavano un mazzo di ferri all’interno di
una casa in costruzione. Di tanto in tanto sfrecciava una macchina a forte velocità approfittando
della scarsità del traffico. La vita, il sole ed il caos si stavano lentamente svegliando aumentando
l’entropia dell’universo.
Svoltai il vicolo, la stazione non era lontana, se avessi sforzato la vista sarei riuscito ad
intravederla, ma stavolta i lavori di manutenzione stradale me lo impedirono. La circolazione degli
autoveicoli, in quel tratto, era bloccata. Non esisteva alcuna zona del paese immune dai cantieri.
Eravamo sommersi da recinzioni e da segnali stradali a sfondo giallo.
Non avevo mai visto in vita mia tanti lavori svolti in un così limitato intervallo di tempo.
Sembrava un paese fondato sull’edilizia. Il bello era che li cominciavano e non li terminavano; però
nel frattempo ne iniziavano altri che via via si accavallavano a quelli preesistenti.
D’un tratto m’incrociai con quel peone sindaco, o meglio ex sindaco, perché la giunta
comunale l’aveva liquidato dall’incarico. Due anni e mezzo prima era stato eletto primo cittadino ai
ballottaggi, per volontà della popolazione, forse in parte comprata, a gestire il suo mandato. Come
tutti gli altri se c’era o non c’era non faceva alcuna differenza. L’unica manovra che aveva portato a
termine non era amministrativa ma automobilistica: aveva infatti investito con la sua auto un
pedone (che tra l’altro l’aveva pure votato). Poi non gli avevano approvato il bilancio e la sua
elezione era andata a farsi benedire. Quindi si era nominato un commissario straordinario e la vita
era ricominciata come se nulla fosse. Destra e sinistra si passavano il testimone del potere e tutto
rimaneva immutato. Le stesse persone per generazioni, chi in prima linea, chi arretrato dietro le
quinte del comando, mangiavano a discapito della cittadinanza. Ma tanto alla gente certa feccia gli
andava pure bene. In un paese di coglioni i voti abbondavano. L’ipocrisia dei politici loro la
appoggiavano, anzi diventava proprio un modello da venerare. Ciò che conta non è la persona che
sei ma il posto che occupi. Io sono dell’opinione che per essere qualcuno devi essere te stesso, ma
evidentemente questa è una teoria che nessuno ascolta. Nessun politico ambiva alla candidatura per
ottenere un miglioramento sociale, anche minimo. No, per ogni schifoso essere di questo mondo la
politica rappresentava una passerella all’esibizionismo, una sorta di prostituzione al successo,
l’enfasi più assoluta, l’amore personale fino all’orgasmo, l’amplesso di vedersi superiori ai comuni
mortali. Tutto questo perché ognuno è egoista e si sente superiore rispetto al prossimo. Ma la cosa
che più detestavo era l’incompetenza di questa gente che era persino incapace di allacciarsi le
scarpe. Degli ignoranti all’ennesima potenza, delle sciagure umane. Dei cafoni irraggiungibili.
Addirittura mi è stato raccontato che l’assessore all’urbanistica mentre parlava in un consiglio
comunale, interruppe il suo discorso per andare a rispondere al cellulare e tornò dopo mezzora. Se
lo schifo sopraindicato avveniva a livello di provincia, figuriamoci quanto pattume e puttane si
erano instaurate a livello nazionale. I politici gli ho sempre ritenuti degli uomini piccoli come i
giocatori del Subbuteo.
Ecco perché ero scivolato nell’anarchia e nell’apatia più totale. Erano anni che non votavo e,
l’ultima volta che mi ero presentato alle urne, avevo espresso la mia scelta disegnando un pisellone
da paura sulla scheda elettorale. Purtroppo la rimanente plebaglia del mio paese prima si lamentava
ma poi, con la solita frase “tanto uno deve andare a comandare”, continuava a dargli consenso e
tutti erano felici e belli addormentati.
Però ci fu uno che sconquassò l’intero sistema con un impresa epica, degna di essere
menzionata persino nelle enciclopedie. Fu clamorosa e fu un mio amico a farla: Carlo. Quando ci
furono le elezioni di non so quale anno, si portò come una persona normale in cabina elettorale,
senza suscitare alcun sospetto. Nel momento in cui si trovò la matita per contrassegnare la propria
opinione politica ebbe un lampo di genio: disegnò la stella a cinque punte delle Brigate Rosse e
naturalmente la contrassegnò, come se si fosse trattato di un autentico partito.
Ci volle solo un giorno per scandalizzare tutta l’Italia. Si scatenò uno scompiglio inaspettato,
al punto tale che si svolsero delle indagini meticolose per ricercare il responsabile dell’atto osceno.
Carlo fu beccato, prelevato da quella baracca che doveva essere la sua casa e condotto nella sala
conferenze dell’ufficio comunale a chiedere scusa all’intera cittadinanza. Dato che era una
bricconata di un fuori di testa, una semplice ammenda bastava a cicatrizzare quello spiacevole
evento. Il giorno prestabilito c’era un caos che sembrava di assistere ad un matrimonio reale:
vecchi, donne, bambini, curiosi, cafoni di strada, drogati, alcolizzati, pompinare, poliziotti, froci,
giornalisti, professori, passanti, simpatizzanti, mafiosi, merdacchioni, preti, satanisti, rotti in culo,
spippa canne, spazzacamini, operai, trimonari, sporcaccioni, serial killer, piscialletto. Vi giunsero
finanche persone da altri paesi ad assistere all’evento dell’anno. Il sindaco, un omone barbuto,
somigliante moltissimo a Mangiafuoco, militante in alleanza nazionale, gli volle fare una tirata
d’orecchie pubblica:
<< Ragazzo, non sai quello che hai combinato, ci hai umiliato di fronte all’intera nazione,
vergogna, per tutti coloro che sono morti. Dovresti fare un esame di coscienza per il tuo gesto
sconsiderato, rifletti e pentiti amaramente e che questa storia non si ripeta mai più >>.
A Carlo non gliene fregò assolutamente niente, tant’è vero che al cospetto di telecamere e di
una platea immensa ebbe la faccia tosta di dichiarare:
<< Succhiamelo, fascista di questa cappella, se ti avessi disegnato una croce celtica non
avresti inscenato questo putiferio! Coglione! >>.
Si scatenò l’inferno.
Ci fu prima un’esclamazione di disapprovazione e poi, dalle retrovie, si udì la voce sgolata di
qualcuno che urlava:
<< Maleducato che non sei altro! la vuoi smettere?! Prendiamolo! >>
Carlo rischiò il linciaggio. Per sua fortuna ebbe la prontezza di accorgersi che la situazione
stava volgendo in catastrofe; quindi se la diede a gambe e per circa un mesetto rimase latitante.
Ovviamente su Facebook il video di Carlo fece il giro del mondo.
Fece benissimo a sparire; aveva creato un ambiente talmente di incazzatura, che se l’avessero
beccato e se la pena capitale fosse stata ancora in vigore, sicuramente non avrebbero esitato a
portarlo sul patibolo.
Lo volevano addirittura mettere in prigione ma, quando scoprirono che era privo sia di padre
che di madre, e conviveva con un nonno che svolgeva numerosi affari di usura, divennero clementi,
riducendogli la tipologia di sanzione. Gli fu tolto, comunque, il diritto al voto a vita.
Continuai a camminare offuscato da quegli episodi passati, marciando su di un asfalto
talmente dissestato e pieno di crateri che ricordava moltissimo il paesaggio lunare: non mi sarei
stupito se nel bel mezzo di un viale avessi visto la bandiera americana, conficcata nel suolo,
sventolante in segno di conquista. Dato questo lerciume, i marciapiedi si erano trasformati in
parcheggi e costringevano allo slalom coloro che volevano semplicemente deambulare.
Se poi aggiungiamo che la pavimentazione sulla quale si camminava era condita da rifiuti,
foglie morte e merde, a chiunque gli sarebbe venuta voglia di mandare a fare in culo il paese e i suoi
abitanti insipidi.
Arrivai alla stazione con i piedi imbrattati di sabbia da cantiere. Provai ad obliterare
l’abbonamento settimanale e la macchinetta era fuori uso. Mi toccava, appena salito nel treno,
andare incontro al controllore e farmi convalidare il biglietto. Presi il sottopassaggio perché la linea
che dovevo prendere passava dal secondo binario. Quando vi giunsi dentro, rallentai il passo per
ammirare i nostri graffiti. Ce n’erano una dozzina e tutti rappresentavano i nostri pseudonimi. Del
resto non eravamo capaci, con le bombolette spray, di disegnare un murales coi fiocchi. In questo
eravamo umili e ci limitavamo a imprimere sui muri le scritte familiari. Riconobbi immediatamente
la mia: era di colore blu e diceva “Febo”. Poi a fianco c’erano le altre, però meno artistiche della
mia. Riccardo tra tutti i componenti della comitiva era il più cesso a spruzzare vernice, le sue opere
avevano sempre intorno sbavature. Era troppo lento. Ci vuole una certa esperienza quando ci si
cimenta in certe attività. Ogni qualvolta che sporcavamo un muro, le nostre scritte dopo pochi
giorni venivano cancellate, ma stavolta i vari addetti alla sicurezza delle ferrovie non erano ancora
intervenuti sui recenti disegni; forse si erano dati per vinti e ci avevano lasciato liberi di imprimere i
nostri marchi. Finalmente avevano capito che muri appartenevano a noi, e solo noi avremmo potuto
decidere quando smettere di sporcarli. Evidentemente l’ultimo sgarro che gli avevamo procurato gli
aveva lasciati atterriti, gliela avevamo fatta grossa. È il duro prezzo da pagare quando ci si mette
contro una gioventù balorda. Cinque settimane prima, l’intero corpo delle Ferrovie dello Stato, con
l’appoggio del Comune, aveva deciso di coprire le pareti del sottopassaggio con una barriera in
cartongesso che non so come avrebbe dovuto opporsi alle nostre aspirazioni creative. Si credevano
intelligenti, purtroppo per loro non avevano ancora capito con chi avevano a che fare.
Due giorni durò quella muraglia, il tempo di organizzare una spedizione distruttiva. Venerdì
sei ottobre, intorno alle tre di mattina, giungemmo ai piedi del della muraglia in cartongesso, muniti
di cacciavite, coltellini, alcol etilico e accendini. Con una velocità da record demmo il via ai lavori
di disfacimento. In circa mezzora avevamo terminato la demolizione. Ognuno poi, seguì il metodo
di abbattimento che riteneva più opportuno. Io, Riccardo, Alberto, Giovanni e Cosimo utilizzammo
il metodo della raschiatura, mentre quelle bestie di Carlo e Rebecca si avvalsero della tecnica della
combustione. Quando finimmo c’era lo schifo per terra e si librò come nebbia un fumo
cancerogeno. Fuggimmo all’aperto soddisfatti perché la nostra missione era stata un grandissimo
successo. Dovevamo per forza rispondere alla sfida, altrimenti ne sarebbe stato compromesso il
nostro orgoglio. Coloro che bazzicavano in quelle zone erano tutti al corrente dell’edificazione di
quella protezione e tutti fremevano per constatare quale reazione avremmo avuto. Se ci fossimo
tirati indietro avremmo deluso le aspettative dei nostri amici non partecipi, che comunque avevano
fiducia nel nostro vandalismo sfrenato. Insomma avevamo una questione morale da mantenere
intatta. A noi del resto quell’intervento neanche pesava, anzi contribuiva a darci delle opportunità di
sfogo all’insoddisfazione e alla noia che su di noi incombeva come una persecuzione.
Uscii dalla grotta del sottopasso e mi avviai verso la panchina in cemento che stranamente
non era occupata da nessuno. Poiché il treno ci avrebbe messo ancora cinque minuti ad arrivare, per
ammazzare il tempo, decisi di tirare fuori dallo zainetto una cartina, un filtro e la bustina del
tabacco. Il tutto per rollarsi una bella sigaretta. Quando terminai di comporla avrei tanto voluto
fumarmela ma oramai il suono della campanella e la voce tuonante dell’altoparlante, avvisarono
l’imminente arrivo del metrò.
<< Treno regionale, numero duemilatrecentoquarantuno, delle ore sette e diciassette per
B*** è in arrivo al binario due. Ferma alle stazioni di… >>
Come stavo per entrare nel vagone sentii chiamare:
<< Ciro! Ciro! Aspettami! >>.
Pensai tra me e me:
“A chi cazzo appartiene questa voce da rondine”.
Poi capii e mi dissi: “Cristo santo fa che non sia lei”.
Una mano mi accarezzò la spalla, mi voltai e nello stesso istante mi sconfortai. Era quella
strarompimegapalle di Sofia, una delle persone più fastidiose di tutti i tempi.
<< Ciao Ciro, è meraviglioso rivederti, ho un mucchio di cose tristi da dirti >>.
“Porco cane”, mi dissi, “si mette malissimo la giornata”.
Tutte le volte che ci incontravamo non faceva altro che parlare solo ed esclusivamente se. Ti
uccideva con i suoi discorsi paranoici e dopo che terminava di parlare, chiedeva un tuo consiglio,
ma non lo ascoltava neppure, perché riprendeva a ritmi sfrenati la sua cantilena massacrante.
Stavolta poi era addirittura di umore nero. Maledissi l’intero universo e desiderai ardentemente di
vederla stecchita da un male oscuro. Ci scambiammo un saluto affettuoso ed ipocrita dandoci dei
baci sulle guance. Il suo alito, da un metro, puzzava di saliva solidificata e per precauzione,
nell’istante in cui mi avvicinai al suo volto, rimasi in apnea. Era un fetore insopportabile, persino se
avesse respirato col naso quella ventata di formaggio condito di aglio e sudore sarebbe sopraggiunta
ai miei ricettori olfattivi. Era una ragazza abbastanza carina; può darsi che se avesse avuto un
carattere più pacato e se gli avessero esorcizzato il palato, mi avrebbe suscitato qualche interesse.
Purtroppo la realtà era un’altra e se volevo uscirne vivo avrei dovuto affidare le mie energie alla
pazienza ed alla tranquillità che, in quei momenti rischiava di venire meno.
Avevo da un nanosecondo poggiato il sedere sul sedile dello scompartimento che aveva già,
senza un minimo preannuncio, dato il via alla sua interpretazione angosciosa della vita.
<< Sai Ciro sono infelice perché ho un grandissimo problema >>.
<< E quale sarebbe? Forse il consiglio di un amico potrebbe risultarti utile >>. Ma guarda che
cazzo mi toccava fare pur di assecondare questa decerebrata.
<< Non riesco a piangere, sono otto giorni che Sandro mi ha lasciato e non ho ancora versato
una lacrima. Temo di essere una persona senza sensibilità >>.
Stavolta si era superata, aveva raggiunto l’apice del rincoglionimento. Tutto mi sarei
aspettato, ma questa stronzata valicò anche la più ardua fantasia.
Avrei tanto voluto dirgli:
“ma vattene a fanculo. Una persona, con le migliaia di problemi che si ritrova ad affrontare, ti
deve stare pure ad ascoltare. Se non riesci a pisciare dagli occhi evidentemente il tuo fidanzato ti
faceva schifo!”.
Solo che il mio autocontrollo mi fece trattenere certe ingiurie. Anzi, con voce affabile le
risposi:
<< Il proprio rancore non sempre viene corrisposto con le lacrime. Io credo che quello che
conti realmente sia la consapevolezza di essere feriti internamente. Sono in tanti che piangono solo
per dimostrare la propria sensibilità agli spettatori del mondo. Se poi si andasse a verificare la realtà
dei fatti ci si accorgerebbe che il vero dolore appartiene a pochi >>.
Mi ero superato, avevo compiuto uno sforzo supremo per elaborare quella frase in così pochi
secondi. Mi complimentai con me stesso, non credevo di essere così pieno di concetti psichici.
Quella beduina di Sofia non badò nemmeno alla mia consolazione, anzi d’un tratto ebbe il viso
rigato di gocce di pianto e gridò:
<< Non preoccuparti Ciro, sto bene, sono felice, finalmente sono libera di soffrireeee!! Aaaah
è meravigliosooo!! >>.
Mi rassegnai, si era bevuta definitivamente il cervello. Le lacrime, come corsi d’acqua,
sgorgavano dai suoi occhi verdi e si diramavano in tutte le direzioni, per poi finire nella foce del
colletto della sua camicetta bianca. Il mascara ben calibrato che portava sulle ciglia gli macchiò le
guance di nero. Mi venne voglia di buttarla dal finestrino; se mi fossi trovato un’arma a portata di
mano l’avrei uccisa seduta stante. Meno male che eravamo soli nel vagone, altrimenti me la sarei
data a gambe. Senza avere alcuna reazione presi il pacco dei fazzolettini, ne estrassi uno e glielo
porsi quasi con violenza. Lei mi strappò di mano l’intero pacchetto e in dopo due minuti me lo
restituì vuoto. Ero l’unico studente italiano che aveva la precauzione di rifornirsi di fazzolettini e
per colpa di un’oca idiota ero stato lasciato a secco. E se mi fosse venuto da cacare, come avrei fatto
a pulirmi il culo? Mentre fabbricavo questi dilemmi lei, nella sua recitazione, continuava a frignare:
<< Amore mio, amore mio, lo sapevo ti ho sempre amato >>.
Non l’ascoltai più, non ne valeva la pena. Era talmente egocentrica che il mondo circostante
passava in secondo piano. Guardai attraverso il finestrino lo scorrere veloce del territorio: la natura
esplodeva nelle varie tonalità di verde. Le vigne a riposo si susseguivano ai mandorli spogli e agli
alberi nodosi ed intricati degli olivi. C’erano sparse migliaia di pietre che punteggiavano, a
casaccio, le immense distese erbose. Splendide cornici di muretti a secco, in parte decadute,
delineavano ed ordinavano i confini tra le coltivazioni. Ogni tanto spuntava una piccola pineta a
rompere la monotonia dell’ambiente agricolo.
D’improvviso il panorama scomparve perché ci incanalammo in un sentiero roccioso, il quale
preannunciava che il treno si sarebbe fermato alla stazione ferroviaria di R*** a caricare altri
pendolari. In questo paese non salivano molte persone perché c’erano due linee ferroviarie,
appartenenti a compagnie differenti, che lo percorrevano. La ferrovia che veniva attraversata dal
nostro itinerario, veniva scartata in quanto era localizzata in una zona un po’ periferica. Il convoglio
attese qualche minuto e riprese nuovamente la sua quotidiana corsa. Detti una rapida occhiata a
Sofia, la quale, nel frattempo, si sgranocchiava le unghie e rideva ornata dalle lacrime. Guardava
con una faccia da pazzoide il vuoto, come se fosse stata presa da un’allucinazione. La lasciai
definitivamente perdere e continuai a prestare attenzione al nostro itinerario: di lì a poco il grande
mezzo a motore avrebbe sostato un’altra volta per riempire le carrozze di un ennesimo carico di
persone. Mentre stavamo per accingerci a svolgere la seconda fermata programmata, caddi nella
malinconia più profonda: il centro abitato, nel quale la locomotiva elettrica stava per entrare, era
quello della donna che aveva sconvolto per sempre la mia vita: Loredana, colei che accese le mie
speranze ed avvelenò i miei pensieri, condannandomi ad un’esistenza piatta e burrascosa.
Ogni maledetto giorno speravo di incontrarla e puntualmente venivo bidonato. Ma come al
solito, le donne che amo, diventano belle ed irraggiungibili come gli arcobaleni. Io l’adoravo, ma
non potevo intervenire in alcun modo, perché continuavo a rimanere trasparente di fronte al suo
amore. Mi ero quasi rassegnato perché si sa che i sogni delle persone sono come un uomo eccitato
su di una strada statale: vanno tutti a puttane. Ciò nonostante continuavo a sperare. Non la vedevo
da sei anni ed ormai era diventata in tutto e per tutto una vera divinità: l’avrei soltanto adorata senza
poterla mai raggiungere. Il tempo scorreva e la mia passione non si smorzava. Mi ero convinto che
questo tormento si sarebbe protratto tanto quanto le stelle: ossia per almeno dieci miliardi di anni ed
io sarei, nel frattempo, rimasto inchiodato nel firmamento del patimento. Non c’è soluzione a certe
sofferenze, i palliativi non esistono in determinate situazioni. È il caso di dirlo: l’amore è l’unica
malattia che si cura col suo stesso male. È così e basta.
Sofia mi aveva davvero spezzato le palle, non la sopportavo più, dovevo trovare un
escamotage per liberarmene. Anche perché, stando insieme a lei, avrei dovuto accompagnarla fin
sotto l’aula dove teneva la lezione. Dovevo assolutamente fuggire. Mi inventai perciò la prima
scusa che attraversò il mio cerebro; era molto banale ma senza dubbio efficace:
<< Vado un attimo in bagno >>.
<< Non mi lasciare da sola >>. Mi controbatté in tono avvilito.
<< Devo fare una pisciata megagalattica >>. Ed era vero, il caffè mi aveva stimolato la
diuresi. << Tranquilla, ritorno. Io sono come una calcolatrice: puoi contare su di me! >>. Col
cavolo!
Sofia assunse un’espressione offesa che non mi provocò alcun senso di colpa. Con
spavalderia mi alzai e l’abbandonai al suo insignificante destino. Mi chiusi in bagno dove liberai la
vescica. Come feci per spalancare la porta, mi ritrovai il faccione severo del controllore. Chissà
perché questi bestioni, quando assumono l’onere di rappresentare la legge ed hanno a che fare con
me, diventano più cattivi dei nazisti. Evidentemente la mia faccia da teppista gli pareva poco
raccomandabile. O forse pensava che stessi facendo delle cose zozze. Gli mostrai il biglietto che lui
stesso mi aveva obliterato poco prima, data la macchinetta timbratrice fuori uso, e mi diressi alla
ricerca di un posto libero che si trovasse il più lontano possibile da quella rincoglionita. Il
pavimento del corridoio era parzialmente bagnato: c’era un liquido, simile all’acqua, che doveva
servire per igienizzare gli scompartimenti. In realtà col calpestio continuo dei pendolari non faceva
altro che sporcarli ancora di più. Il treno superaffollato mi costrinse a camminare per un bel po’.
Dopo aver percorso tre vagoni invano, scorsi, in mezzo a tre persone, un sedile disponibile. Lo
occupai tenendomi lo zaino in braccio, come se si fosse trattato di un neonato. Nel frattempo scrutai
coloro che avevo al mio fianco: c’erano di fronte una studentessa dalla faccia di ebete che si sentì
stuprata dal mio sguardo; ed al suo fianco un uomo sulla quarantina, occhialuto, con il tipico
portamento da ufficio. Alla mia sinistra invece vi sedeva una donna che non riuscii bene a
distinguere. Ella si rivolgeva in maniera petulante all’individuo con la faccia da impiegato. Gli disse
più o meno le seguenti parole:
<< Sono due mesi che mio figlio è tornato a vivere a casa nostra. E’ stato messo prima in
cassa integrazione, poi è stato licenziato, infine sfrattato. Adesso non sa più come mantenere la
famiglia. Anche sua moglie è tornata dai suoi. Siamo stanchi, ci troviamo in una situazione
veramente tragica e i politici che si permettono ancora di sostenere che dobbiamo essere ottimisti
>>.
<< E’ suo nipote dove vive? >>. Fece l’uomo che sembrava mostrare interesse alla vicenda.
<< Ci alterniamo con i miei suoceri. Un giorno sta da noi, mentre quello successivo và da loro
>>.
“Minchia”, pensai, “mi sono andato a scegliere il posto più deprimente d’Europa”. In realtà
anch’io sapevo che quella situazione stava raggiungendo la quotidianità e si stava diffondendo
macchia d’olio. “Certo l’Italia è proprio un gran bel paese del cazzo. Qui si fa la fame ed i giornali
che continuano a parlare d’altro”. Oramai l’informazione era diventata solo uno strumento per
accalappiare ascolti e per prenderci per il naso. Sempre lo stesso ordine di categoria avevano le
notizie, era diventata una questione matematica. Ce n’erano tre che in ogni telegiornale non
potevano mancare. La prima apocalittica; per esempio non mi dimenticherò mai lo stato di panico
creato dall’influenza H1 N1, che avrebbe sterminato intere popolazioni peggio della peste nera.
Adesso era stata sostituita dalla crisi economica, che fino a pochi mesi fa era stata superata, con la
frase “la recessione è alle spalle” ma che magicamente era ritornata ed avrebbe riportato il genere
umano all’età della pietra. Come seconda notizia c’era quella demenziale, generalmente presa da
internet, come ad esempio che un cane riusciva ad andare sullo skateboard, oppure che quando fa
caldo non bisogna tenere i termosifoni accesi. Insomma robaccia di questo genere. Infine c’era
quella strappalacrime, generalmente basata su un’intervista ad una persona piangente che aveva
appena vissuto in prima linea una tragedia, come un terremoto, un triplice omicidio, ecc..
Per quanto mi riguarda l’intera informazione italiana andrebbe completamente vietata.
Oggigiorno infatti l’obiettivo dei giornalisti non è diventato fare informazione, ma fare ascolti. Se
pertanto dai una notizia, sia pure necessaria, ma che non suscita l’interesse della feccia popolana,
non ha senso che tu la dia. Il risultato finale è il caos totale e non si capisce più dove si trovi la
realtà. È un disorientamento continuo. Ciò che conta è che i babbei di ascoltatori tengano un organo
informativo non per recepire delle notizie reali, ma solo ed esclusivamente per toglierli dalla noia.
Una sorta di talk show con le vesti di un qualcosa di serio. Nel giornalismo puoi dire tutto quello
che vuoi, tanto nessuno ci fa caso, nessuno controlla e tutto si dimentica.
Mancava soltanto una sosta e poi saremmo giunti finalmente al capolinea. Durante questo
tratto il paesaggio mutò repentinamente: le pendenze si fecero più aspre e lo sfondo agricolo si
trasformò in una veduta maggiormente frastagliata. Questa parte del viaggio rapiva e soggiogava la
mia attenzione. Dovevo provare le medesime sensazioni, anche se le mie avvenivano in un moto
dinamico, di Leopardi; allo stesso modo il mio pensiero si annegava tra quelle immensità ed il mio
stato d’animo, buono o cattivo che fosse, per qualche istante perdeva la sua astratta consistenza.
L’imperiosa distesa collinare che ammiravo dal finestrino era, in prossimità della cima, macchiata
da un candido paesello, non conforme alle norme di sicurezza urbanistica, e capace di mescolare le
ere; senz’altro non doveva essere preso come riferimento per concepire l’epoca nella quale ci si
trovasse.
Anche l’ultima fermata fu valicata: il cammino, da questo punto in poi, sarebbe stato privo
d’interruzioni. Per la verità, ma ciò capitava di rado, il treno era costretto a sospendersi
temporaneamente per coordinare lo scambio con l’altro convoglio che sopraggiungeva in senso
opposto. A pochi chilometri dalla città c’era l’ennesima alterazione del territorio. Stavolta la natura
non otteneva il sopravvento perché veniva sottomessa dalla dottrina assolutista degli apparati
industriali. Silos, cisterne, capannoni lunghi e piatti, smorti nel colore, uccidevano la bellezza del
creato divino; ciò nonostante quei luoghi costituivano l’essenza della speranza di migliaia di
persone che quotidianamente accorrevano sul posto di lavoro.
Il treno, dopo circa quaranta minuti di viaggio, si arrestò puntuale sul binario numero tre.
Prima di uscire lasciai scorrere una ciurmaglia di ragazzacci, di scuola superiore, che per tutto il
tragitto avevano schiamazzato in continuazione. L’esterno era stracolmo di gente perché, sul binario
adiacente al nostro, era piombato in contemporanea l’espresso regionale che ci obbligava ad
accumularci sotto un’unica pensilina.
Liberatomi a strattoni dal sottopassaggio congestionato, mi portai in Piazza della Memoria e
scorsi Carlo, nei pressi della scultura bronzea, dedicata ai caduti della seconda guerra mondiale.
Egli, come al solito, andava errando con le cuffiette dello smartphone impiantate nelle orecchie,
come se fossero state una componente integrante del suo malandato sistema uditivo. La musica era
talmente elevata che finanche a due metri di distanza, ossia poco prima che gli segnalassi la mia
presenza, riuscii a distinguere quale canzone stesse ascoltando: si trattava di “Rédemption” del
gruppo metallaro degli “Ad Inferna”. Come si tolse le cuffie gli chiesi:
<< Ehi ma tu da dove cavolo sbuchi fuori? Non dirmi che stavi nel treno >>
<< C’ero eccome, solo che mi sono nascosto nel cesso perché non avevo il biglietto >>
<< Scusa, ma il controllore non guarda anche il cesso per vedere se c’è qualche sfigato come
te che cerca di prenderlo per il culo? >>
<< Sì ma stavolta me lo sono parato attaccando fuori, in bella vista, sulla porta del wc, un bel
foglio con su scritto “guasto” >>
<< Che cazzata, sei penoso con questi stratagemmi. Andiamo va. È ora di andare a quel cesso
di facoltà a perdere la nostra giovinezza >>.
Ci mettemmo pochi minuti per giungere. All’entrata dell’ateneo c’era uno studente con barba,
occhiali e capelli lunghi, che vendeva giornali di sinistra. Il ragazzo ci prese di mira:
<< Ragazzi volete una copia di “democrazia universitaria”, costa solo un euro >>.
Carlo anticipò la mia risposta:
<< Pace fratello >>, fece in tono hippy, << non vogliamo proprio un cazzo di niente, sappi
che la riorganizzazione fascista è imminente. Preparatevi alla nuova guerra fredda >>.
Naturalmente il mio amico parlava a vanvera, l’unico obiettivo al quale puntava era quello di
lasciare sconcertati i suoi interlocutori. Giustamente il venditore di giornali ci guardò storto,
dopodiché rivolse la sua attenzione verso una clientela più civile.
Capitolo 2
Il professor Carboni era uno di quei vecchi insegnanti baroni feudatari mangia e caca. Soffriva
di una fortissima mania di onnipotenza, talmente spregiudicata, che pareva fosse discendente da
stirpe divina. Ovviamente, gran parte del suo albero genealogico occupava una buona fetta della
docenza della facoltà: suo padre, l’antesignano della presa al potere, era stato intorno agli anni
cinquanta preside della facoltà. Gli erano succeduti, come avviene nell’acquisizione dei titoli
nobiliari, il nostro attuale insegnante e sua sorella; poi a fine anni ottanta la prole didattica si era
allargata in modo imbarazzante, con l’aggiunta di altri quattro consanguinei. Due di questi, onde
celare ogni sospetto, erano stati inviati presso il politecnico, situato dall’altra parte della città. Da
quanto detto, questi cornutazzi erano pure prolifici. C’era un’unica soluzione per estinguere la loro
progenie: la castrazione. Con un loro pronipote, non mi ricordo a quale ramo familiare
appartenesse, avevo frequentato alcune lezioni; naturalmente, nel giro di pochi mesi, nel percorso
universitario, mi aveva dato un distacco abissale e respirava di già odore di laurea. Non era di
difficile immaginarsi quale sbocco lavorativo avrebbe intrapreso. Torniamo però al nostro docente
ed in particolare al suo aspetto ed alle bizzarrie che lo caratterizzavano. Iniziamo col descrivere
come si presentava esteriormente: era un settantenne, appesantito dall’età e con dei capelli lunghi e
bianchi che accentuavano la sua condotta maestosa. Vestiva abiti antichi ed eleganti che non saprò
mai quale stronzo negozio obsoleto glieli fornisse. Forse c’era un sarto apposito che forgiava
indumenti ottocenteschi. Ogni qualvolta veniva a lezione si portava il suo fedele cane, di nome
Abelardo, che legava al termosifone infisso nella parete. Abelardo, credo che appartenesse alla
razza dei pastori maremmani, era l’unico essere vivente che seguiva con attenzione lo svolgimento
della lezione: si accovacciava con atteggiamento rassegnato e senza alcuna protesta, ammirava
l’esposizione del suo padrone.
Il professor Carboni non veniva da solo in aula: ogni mattina si presentava scortato da due
assistenti che avevano la stessa funzione dei servi della gleba. Uno l’accompagnava a braccetto e gli
reggeva la borsa, mentre l’altro si portava il cane ed assumeva il compito di dog sitter. Le lezioni
venivano svolte nel seguente modo: un assistente, forse quello compreso nella scala gerarchica più
alta, andava via, liberandosi da quella umiliante schiavitù, mentre l’altro si sporcava le mani, dando
eventuali chiarimenti alla lavagna.
Anche quella mattina il professor Carboni si presentò con circa venti minuti di ritardo. Prima
che attaccasse a parlare volle perlustrare la platea e disprezzare le nostre facce. Dopo averci schifato
abbastanza, si annusò intorno e prese a lamentarsi in linguaggio bleso:
<< Allievi, spalancate le finestve che l’avia viziata non la soppovto >>.
<< Ma questo gasteropode di merda ci vuole far morire di freddo >>, dissi sottovoce a Carlo.
Egli, preso ad ammirare i corpi sinuosi delle ragazze sedute in prima fila, non fece caso alla
mia affermazione e ribatté:
<< Guarda che culo da paura si ritrova quella peccatrice! >>.
<< Scusa ma come gli fai a vedere il sedere se sta seduta? >>
<< E’ una premonizione, lo sente il mio radar pisello. E’ sicuro, quella voluttuosa ha delle
chiappe più sode di un uovo. Oh sì il demonio sta dalla sua parte! E poi che unghie nere eleganti e
sensuali: Con cosa se le è dipinte col petrolio?! Io a quella la perforerei come un ulcera! >>.
La discussione perversa fu interrotta da un vento, talmente algido, che ci fece congelare fin
dentro gli organi. Si verificò un tremore di massa. Le imposte, dopo cinque minuti di
assideramento, furono chiuse con nostro sollievo. La lezione finalmente cominciò:
<< Miei cavi appvendisti oggi continuevemo con la pavte di esegesi testuale ed in pavticolave
con quella manzoniana…>>
Dieci minuti durò il mio livello di attenzione, dopodiché mi trovai prigioniero nel vortice
dell’incomprensibilità più disorientante. Mi sforzavo come uno stitico ma non c’era nulla da fare.
Sembrava che vagassi nel mezzo di un sogno, dove le parole e le immagini, appiccicate l’una con
l’altra casualmente, fornivano solo risultati insensati.
Il professore, credendo di essere chiaro, continuava a vomitare parole:
<< …I pvotagonisti non viescono a combatteve per i pvopvi divitti cevcando consensi,
pevsuadendo gli altvi ad univsi nella lotta, nella medesima divezione. Un tentativo di Venzo a
Milano lo povta fuggive dalla Lombavdia…
… Lucia, padve Cvistofovo e il cardinale Bovvomeo sono una dimostrazione che e nella
volontà pveoccupata di tendeve al bene, opevante in uno sfovzo di pevfezione piu umanamente
dolovoso che tvionfalisticamente gaudioso… >>.
“Accidenti!”, mi dissi, “non sto capendo un cazzo niente! Vaffanculo pure a Manzoni che a
distanza di centonovant’anni continua a scassare la minchia!”.
Nel frattempo Carlo continuava a contemplare quella che secondo lui sarebbe stata la donna
della sua vita: lo sguardo fisso, puntato come un cacciatore che osserva i minimi movimenti della
sua preda, gli aveva permesso di raggiungere un livello di concentrazione tale, da averlo isolato
dall’intera antroposfera. Noi, dall’alto delle tribune, potevamo osservare la chioma lucente e
sagomata della ragazza che, con ripetuti assensi della testa, voleva dimostrare di essere interessata
alla lezione.
Ricevetti un pizzico sulla coscia, era sempre il mio compagno che non si dava pace:
<< Guardala Ciro, ammirala in tutto il suo splendore. E’ talmente bella che mi berrei persino
il suo pus. La spargerei di seme come un contadino! >>.
Io neanche mi degnai di rispondere. Si agitava in continuazione, come se avesse il prurito
ovunque. Poi la dinamite che serbava nell’animo gli esplose: con faccia di uno che ha ceduto alle
proprie debolezze emanò, quasi ad alta voce:
<< Basta! Non ce la faccio più, mi vado a fare una sega! >>
Si alzò dalla sedia e costrinse, per uscire, a far sfilare l’intera fila di studenti che lo
precedevano nella tribuna, dato che, tra una gradinata e l’altra, lo spazio risultava insufficiente.
Scese di corsa le scale e proprio sulla soglia della porta fu richiamato dal professore:
<< Mio devoto discepolo dove intendi vecavti? >>.
Carlo si illuminò ed io capii perché: l’insegnante gli aveva fatto una domanda troppo
provocante. Per un attimo temetti il peggio, sapevo la risposta che era in serbo. Ebbi la tachicardia
quando Carlo cominciò a pronunciare le prime sillabe.
Si vedeva a distanza che avrebbe voluto dirgli “vado e torno, il tempo di masturbarmi”. E
quindi mi preoccupai della reazione che avrebbe avuto il docente: era un tipo molto complessato,
per un nonnulla andava in escandescenza.
Una volta uno studente, con la faccia da toporagno, giunse in aula in ritardo, mentre la
spiegazione era già abbondantemente in corso, e quel porco gli fece una ramanzina di trenta ore:
“pevchè sei avvivato in vitavdo, offendi la nostva dignità”
il ragazzo, sudato per aver evidentemente corso come un dannato, in tono riverente, rispose:
“sono spiacente, il pullman ha avuto dei problemi”;
“le tue scuse sono inane, se non vuoi subive conseguenze vecati al tuo posto col capo chino”.
Così il poveraccio attraversò il tratto che separava la cattedra dalla sua postazione, con la testa
reclinata. Nessuno lo canzonò e nessuno sorrise, ma dai volti dei colleghi notai che si sprigionò un
raro sentimento di solidarietà nei suoi confronti che, forse, non ne sono sicuro, fece per un
microsecondo barcollare la superpotenza di quella grandissima testa di merda.
Ecco spiegata la mia paura: si sarebbe scatenata una baraonda tale che avrebbero cacciato
Carlo da qualunque università e lo avrebbero condannato ai lavori forzati per l’eternità. Tutto
sommato quest’ultimo verdetto glielo si poteva pure infierire. Meno male che quel maniaco galeotto
si trattenne; ebbe la coerenza di dargli una risposta assennata:
<< Devo andare in bagno >>.
Tirai un sospiro di sollievo.
Carboni scocciato e contemporaneamente indulgente, dall’alto della sua sublimità, si espresse:
<< Acconsento >>, e lasciò libero il mio amico di sfogare le sue pulsioni.
Carlo, non ritornava ed il docente continuò per un’altra ora la sua lezione tediosa. Finalmente
si decise di spezzare il ritmo con una pausa. Come ebbe terminato di dire:
<< Intevvompiamo pev un quavto d’ova in modo che vi possiate vifoccillave >>.
Una massa di studenti si riversò, a casaccio…
Nel corridoio incontrai Angelo in compagnia di quel suo amico dall’aria triste:
<< Cristo santissimo, guarda chi cazzo si vede, il mio caro amico stronzissimo Ciro. Come te
la passi brutto figlio di una cavalla frulla uccelli? E tanto che non ti si vede, speravo fossi crepato!
>>.
Aveva un lessico talmente scurrile che avrebbe offeso persino una scorribanda di pirati. Ogni
frase conteneva come minimo un cinquanta percento di parolacce. Lo conoscevo da quando avevo
iniziato gli studi universitari e le sue frasi non mi scandalizzavano minimamente. In fondo era solo
un modo balordo per esprimere il suo affetto.
<< No >>, gli risposi, << Mi dispiace deluderti, ma non mi hanno ancora ammazzato >>.
<< Speriamo che ti uccidano strada facendo. Cosa straputtana stai a fare in questa facoltà
cessa? Non dirmi che te ne andavi cazzeggiando >>.
<< Sto seguendo filologia italiana con quel frocio di Carboni >>.
<< Mamma mia che scoglionamento! scommetto che ne avrai piene le palle >>.
<< Sì infatti, non lo sopporto proprio. Mi sta sulle palle come le mie mutande. Ho dormito per
tutta la lezione. E tu cosa stai facendo? >>.
<< Niente, oggi è proprio una crosta di giornata. Sono venuto ad imbucare uno statino. Sai,
devo fare quella rogna di esame di letteratura tedesca per la quinta volta. Male che vada lo farò per
la sesta volta. Oramai ci ho fatto il callo. Primo o poi dovrà promuovermi quella grandissima spana
cazzi della De Frani >>.
Lo congedai, anche perché avevo notato che il suo amico era a disagio. Ci salutammo, prima
però di lasciarlo definitivamente, Angelo mi richiamò:
<< Ehi Ciro! Aspetta! Quasi dimenticavo! >>. Aveva l’espressione di uno che mi doveva
informare su chissà quale avvenimento.
<< Ti volevo dire: in culo alla balena e in bocca alla puttana! >>.
<< E allora anche a te vaffanstronzo! >>.
E finì il nostro dialogo da anime dannate.
Ma dove era andato Carlo? Quando veniva lasciato da solo era capace di sparire più di
Mandrake. Detti un’occhiata in giro, ma non riuscii a distinguere nessuno che avesse i suoi tratti
somatici. Ritornai in aula e presi posto in una zona della tribuna molto più elevata di quella in cui
stavo precedentemente.
Il professore continuò a spiegare per un’altra ora e mezza ed io, per un’altra ora e mezza
continuai a soffrire. Le palpebre si chiudevano senza l’imposizione della mia volontà. Ero costretto
a compiere uno sforzo enorme per non cadere in un sonno improvviso. Chissà che figura da idiota
avrei fatto se mi fossi narcotizzato nel bel mezzo della lezione.
La stanchezza mi attanagliava e non mi dava tregua. Era il prezzo da pagare dopo una nottata
passata a bere e a fumare. Presi una giugomma e me la schiaffai in bocca. Forse masticando avrei
messo in moto una parte dell’organismo e sarei riuscito a sfuggire alla sonnolenza. Macché, non ci
fu verso. Il mio capo si reclinava lentamente e, proprio quando stava per cedere, si rimetteva in
posizione d’ascolto. Poi addirittura, sicuramente per quanta merda mi ero menato il giorno prima,
cominciai ad avere delle allucinazioni. Vidi innanzitutto sulla lavagna una sagoma, costituita dal
bianco gesso, di un uomo che camminava; poi notai che il professore portava sul naso una di quelle
palline rosse che adoperano i clown, per compiere i loro numeri circensi.
Stavo rincoglionendo.
Mi guardai le mani e notai la differenza della lunghezza delle unghie che c’era tra una mano
l’altra. L’estremità dell’arto destro portava dei veri e propri artigli: l’anomalo sviluppo era dovuto
alla difficoltà che rinvenivo nel tagliarmele con le forbicine. Quando procedevo a tagliarmi le
unghie della mano sinistra, impugnando le forbicine con la destra, tutto bene. Ma l’operazione
contraria mi risultava assolutamente impossibile, ne veniva uno schifo, risultavano dentellate in
maniera penosa, talvolta mi ferivo persino. Avrei ottenuto un lavoro migliore se mi fossi messo a
limarle con una scimitarra. Poi ottenni la soluzione: ossia, le unghie della mano che riuscivano mal
sagomate me le mangiavo. Il lavoro che risultava era abbastanza soddisfacente. Quella volta però
avevo trascurato l’operazione di masticazione. Pertanto cominciai a mangiucchiarmele, senza
sputare il chewing-gum consapevole dei miliardi di batteri che sarebbero subentrati dall’interno
dell’apparato boccale. Tanto non me ne fregava niente, in fondo non avevo nulla da perdere.
Dietro di me c’erano appostati dei nullatenenti che al posto di seguire la lezione, giocavano a
nomi cose e città:
<< Dimmi una città con la zeta, che non sia Zocca, perché l’ha già scritta Luca >>.
<< Zenzero! >>
<< Zenzero?! >>
<< Sì Zenzero, dove fanno il pane >>.
Davanti a me c’erano invece un ragazzo ed una ragazza che ovviamente parlavano di
stronzate, assolutamente non attinenti a quello che stava spiegando quella mummia del professore.
<< … Mah, Giuliano non lo vedo almeno da sette mesi, e cioè dal giorno del suo onomastico.
Andammo insieme a farci un aperitivo >>
<< Se non sbaglio si è trasferito in Scozia >>.
<< In Scozia?! >>
<< Sì, è andato a convivere con la ragazza che ha conosciuto tramite facebook >>.
Ma guarda un po’ che razza di merdate mi toccava sentire. A prua ero costretto a sorbirmi il
vociare di un gruppo di minorati che facevano dei giochi da bambini, e a poppa ero obbligato ad
ascoltare il discorso di due decerebrati che raccontavano la storia di un beone che non sapeva quello
che voleva dalla vita. Dico io, tra tutte le donne che esistono nel raggio di pochi chilometri, come
Cristo si fa a trovarsi una fidanzata in capo al mondo? In che stato di decadenza ci ha portato la
noia.
Intanto la lezione scorreva con, e come il tempo.
All’una e mezza finì la grande rottura di spiegazione. Scesi le scale e mi diressi verso l’uscita.
Sulla soglia della porta c’era un tipo rasta che dialogava con altre due ragazze scoppiate come lui.
Si erano disposti in maniera tale da ostruire il passaggio verso l’esterno.
<< Permesso >>, gli feci la prima volta.
Ma non ci fu risposta.
Riformulai la stessa richiesta, con un tono più elevato.
<< Permesso! >>
Niente, l’indifferenza gli aveva resi sordi.
Le loro facce strafottenti mi fecero saltare i nervi. Come un ariete mi abbattei sui loro corpi
smidollati. L’impatto fu talmente forte che li feci letteralmente volare. Peccato soltanto che non
caddero per terra.
<< Sei un grandissimo maleducato! >>, mi disse lo spippacanne giamaicano con il volto
spaventato e indignato.
<< Ma se voi vi mettete davanti alla porta e nemmeno vi spostate quando vi viene chiesto con
garbo, come stracazzo faccio io a passare! >>.
<< Non l’avevamo sentito, scusa ma quale interesse avremmo avuto, secondo te, ad ostacolare
il tuo cammino? >>
Non valeva la pena stare a discutere con certa cacca che fa finta di non capire. La sua
domanda non ebbe risposta e pertanto continuai a tirare dritto.
Giunsi nel corridoio, dove c’era la bacheca; nel suo fondale partiva la rampa delle scale.
Quella era un’ora di sovraffollamento all’ennesima potenza: un susseguirsi di ragazzi, sfaccendati
ognuno nei suoi impegni. Mi feci spazio nella ressa, pareva di stare in un aeroporto o in un centro
commerciale. Col giubbotto addosso sentivo la calura imprigionata, sul mio corpo, che via via
tendeva ad accumularsi sempre più, e che si stava lentamente convertendo in sudore.
Finalmente m’incanalai nelle scale: in questa zona c’era molto meno traffico perché la
pigrizia degli studenti, li portava in massa a servirsi dell’ascensore. Sui muri che accompagnavano i
gradini vi erano una marea di scritte, perlopiù a sfondo politico. Il corrimano rosso, sul quale non
mi poggiavo mai, data la sua perenne sporcizia, mi ricordava i vecchi tempi, quando eravamo una
famiglia unita e piena di serenità. Le immagini che mi si proiettavano erano quelle di quando avevo
cinque anni e, con mia sorella, giocavamo nel corridoio della casa di Faenza, dove adesso risiede
mio padre con la sua nuova compagna sgualdrina di trentuno anni. Sognavamo che le scale fossero
una ripida montagna, tutta da scalare e piena di imprevisti. Ci imbattevamo in diverse asperità ed in
figure abbastanza inquietanti: dall’abominevole uomo delle nevi all’orso polare militare. Quante
avventure ci procurava la nostra fantasia. Ormai tutti quei frammenti di esistenza sono solo la
pellicola sbiadita che il nostro cervello ci ripropone continuamente per informarci che anche noi,
poveri ragazzi depressi e senza futuro, abbiamo avuto degli attimi di gioia. La vita è un grande
quaderno, ricca di giorni di carta: uguali, insipidi, incolori, che si ripetono in successione e senza
distinzione. Di tanto in tanto proviamo a disegnarci sopra qualcosa che serva ad interrompere la loro
monotonia, per mezzo di: un paesaggio, delle persone, un dolore una gioia, insomma un’esperienza
qualunque. Tuttavia otteniamo soltanto degli scarabocchi che rimarranno impressi sulle pagine della
nostra esistenza e che andranno ad alimentare il serbatoio dei nostri ricordi. E sì, perché quello che
scriviamo nel corso dei nostri anni avrà un medesimo destino: sarà solo carta straccia pronta per
essere buttata via nel cestino di un passato sempre più ingordo. Chissà poi perché tutto quello che è
stato viene ricordato sempre come un periodo felice. Magari tra qualche decennio, ripensando a
questi giorni, che io attualmente reputo tra i più schifosi della mia vita, li riporterò alla memoria
come degli istanti ricolmi di allegria, meritevoli addirittura di essere rimpianti.
Arrivato al piano che ospitava il dipartimento di psicologia, incontrai Raffaele,
soprannominato San pezzente. Era ricco sfondato ma come San Francesco d’Assisi ripudiava i suoi
averi e proprio per questo motivo vestiva come un pezzente. Portava quotidianamente dei jeans,
risalenti agli anni ottanta, una maglia di cotone che da nera era sbiadita in grigio e delle scarpacce
devastate che sembravano composte di stracci. La particolarità che veramente mi faceva trasalire e
che m’invogliava a pigliarlo a calci nel culo, era quella orrenda busta di plastica che, tutti gli
abitanti di questo fottutissimo pianeta utilizzano per fare la spesa, egli l’adoperava come zaino.
Dentro infatti ci metteva quaderni, matite e gomma. Le penne non le adoperava mai perché il loro
tratto non poteva essere cancellato e quindi gli avrebbero portato uno spreco di fogli. Lui le definiva
come la pena di morte: una volta eseguita non permetteva più di tornare indietro. Invece, scrivendo
con la matita, si poteva comunque attuare un’operazione di riciclaggio. Era perennemente spettinato
e la sua capigliatura ondulata seguiva l’andamento del volere climatico. Portava una folta barbaccia
che gli copriva gran parte del viso e lo faceva somigliare ad un licantropo. La corporatura
mingherlina gli conferiva, infine, l’aspetto di un vero e proprio filosofo mendicante impazzito. Era
molto pallido e si vedeva immediatamente che aveva le forze solamente per reggersi in piedi e per
respirare.
<< Ciao! >>, gli feci, << cosa fai da queste parti? >>
<< Quello che faccio da oltre un mese, seguire due materie. Non riesco assolutamente a stare
al passo con gli studi. Se la mattina mi arreco in facoltà, il pomeriggio mi risulta molto difficile
mettermi sui libri >>.
<< A chi lo dici, sono rotto tanto quanto te >>.
<< La cosa che più non sopporto e che ultimamente si sta verificando spesso, è che questi
farabutti di professori neanche si prendono la briga di venire a lezione. Ci fanno arrivare in aula, ci
fanno aspettare per oltre un’ora e poi, magicamente, appare uno dei loro collaboratori che ci dice
che l’insegnante è assente. È già la terza volta consecutiva che capita. Roba da matti! Meriterebbero
di essere denunciati >>.
<< Sì è vero, sono dei maiali mafiosi! >>.
<< Questi bastardi ci fanno perdere tempo per trattenerci il più possibile in questa prigione
didattica. Infatti fuori corso non sono un problema per l’università, ma la massima fonte di
ricchezza. Immagina un mondo senza fuori corso: le entrate fiscali si ridurrebbero al minimo e le
università offrirebbero ancora meno servizi di quelli che non offrono. È loro interesse che gli
studenti vadano fuori corso; altrimenti chi gonfierebbe gli stipendi dei professori? Il bello è che poi
si lamentano della nostra lentezza. Volete che gli studenti non vadano fuori corso? Aumentate il
numero degli appelli. E invece no, ce la mettono in quel posto e ci criticano pure da sopra >>.
<< Già, hai perfettamente ragione >>.
Ad un certo punto il suo stomaco prese a gorgogliare; lo fece talmente forte che pareva che,
da un momento all’altro, si sarebbe messo a parlare. Io, sentendo quei versi strani, gli domandai:
<< Da quanto cacchio non mangi? Avrai sicuramente una fame da lupi >>.
<< Stamattina ho bevuto solo un bicchiere di latte. Sto imparando gradualmente a tollerare la
sofferenza. Mi voglio liberare da qualunque dolore. Sono convinto che tra poco anche questo
assenteismo del corpo docenti, non mi susciterà alcun tipo di manfrina. Ricorda: l’essenza della
forza umana è la pazienza. Se si riuscisse ad essere perfettamente tranquilli in qualunque
circostanza, nel mondo, la parola virtù sarebbe alla portata di tutti. Purtroppo la nostra razza è priva
di volontà, quindi anche povera di perseveranza. Vuole raggiungere i suoi obiettivi nel breve
periodo e senza nemmeno mettersi d’impegno. Ciò la porta ad un risultato mediocre che la lascia
insoddisfatta >>.
Secondo me Raffaele leggeva troppo a casa sua. Era il primo caso, enumerabile nella storia,
che aveva subito degli effetti collaterali dalla cultura. La sua erudizione era eccellente, non c’era
che dire. Avrebbe messo in difficoltà anche i più grandi luminari montati dei miei coglioni, che si
aggirano tra i comuni mortali per comunicargli quanto è immensa la loro sapienza. Tuttavia, nella
contingenza di Raffaele, questo sovraccarico di nozioni, inculcate autonomamente, l’avevano
mandato letteralmente in tilt. La dottrina in suo possesso era così vasta che, talvolta, elaborava dei
ragionamenti o delle frasi, che risultavano agli ascoltatori totalmente prive di senso. Egli sosteneva
che, quando non lo si era in grado di seguire nelle sue dissertazioni, si sentiva più smarrito del suo
stesso interlocutore. Provava la medesima sensazione di stare a comunicare con qualche animale.
“Sei mai riuscito a spiegare un tuo concetto ad una formica? A me si verifica uno stato di
disorientamento pressappoco simile”. Una volta mi disse: “Quanto siamo insolenti noi che
fendiamo l’aria senza il suo permesso”. Quale cazzo di significato avesse, non l’ho mai capito.
Neanche provai a chiedergli una spiegazione, altrimenti mi avrebbe riempito la testa di altre teorie
che mi avrebbero confuso peggio di prima. Oppure, un'altra volta, cominciò a sbraitare sul perché
tutti i cittadini possedessero il diritto al voto:
“è un’incongruenza, i vecchi e gli ignoranti non si dovrebbero recare alle urne. Gli anziani
non lavorano, hanno una mentalità inelastica e per di più sono soggetti alle influenze inculcategli
nel passato. Gli ignoranti, dal canto loro, come possono votare se nemmeno conoscono le basi che
stanno all’interno di un organo istituzionale? Per ricevere il diritto al voto bisognerebbe sostenere
un esame di ammissione. Una volta superatolo, coloro che sono avanti negli anni dovrebbero avere
un potere elettorale dimezzato rispetto a quello ordinario. Io, con tanta gentaglia messa ad esprimere
la propria opinione politica, darei il voto anche ai cani ed ai gatti. Comunque rappresentano una
parte cospicua della società”.
A me sembrava una cazzata perché già gli anziani sono emarginati, se gli togli il diritto al
voto possono tranquillamente buttarsi a mare. Ciò nonostante mi piaceva il suo modo di pensare,
era al di fuori di tutto questo ammasso di cloni, che segue soltanto la strada che gli impone questa
maledettissima dittatura mediatica. Sono convinto che, se si fosse trovato a vivere in un epoca
molto più antica di quella odierna, prima avrebbe riscosso un successo strepitoso e poi lo avrebbero
condannato a morte per eresia. Tant’è vero che era così contrario ai dogmi religiosi che le sue
ideologie le dichiarava soltanto a me. In pubblico rimaneva silenzioso, onde evitare che si
innescassero ripercussioni spiacevoli. Un discorso che mi colpì molto fu il seguente:
“Il comunismo in tutti gli stati democratici dovrebbe essere bandito. È stato peggio del
fascismo e nazismo messi insieme ma nessuno ci fa caso. Ha provocato cento milioni morti
violando qualunque diritto umano. Chissà perché l’informazione in questo campo tende a
scarseggiare. Io sono sempre più convinto che gli ideali di pace, solidarietà e fratellanza non
potranno mai esistere, almeno fino a che esisterà l’uomo. Non credere mai ai buoni propositi, sono
tutte promesse prive di fondamenta. Sono soltanto slogan per tenere calmi gli animi di coloro che
potenzialmente potrebbero rivoltarsi contro. Non credere mai a nulla perché nessuno crede in
niente”.
Delle volte le sue divagazioni mi illuminavano, mi spalancavano gli orizzonti. Era come se
fosse in grado di fornirmi un binocolo capace di guardare al di là dei limiti finiti dei luoghi comuni.
Stavolta però non mi andava di ascoltarlo, ne avevo abbastanza della sua saggezza, se poi
attaccava a parlare sarei tornato a casa a mezzanotte. Oltretutto il sudore mi stava irritando; avevo
un prurito della malora. Lasciai Raffaele e m’incamminai nell’atrio dell’università.
Capitolo 3
Finalmente ero arrivato all’aperto. Il sole splendeva, non aveva nessuna nuvola alle calcagna.
Mi tornò di nuovo il caldo: stando in posizione statica crepavo dal freddo ma appena mi mettevo in
moto mi trasformavo in un termosifone; la calura quasi mi soffocava. Attraversai la piazza
adombrata dagli alberi semispogli dei platani. Le loro foglie, depositate sull’asfalto, cominciavano a
costituire una nuova pavimentazione. Del resto l’autunno era alle porte: i giorni lentamente
morivano nel buio. Appostati sulle panchine c’erano degli extracomunitari che vendevano una
moltitudine di cianfrusaglie. Uno di questi mi si avvicinò e mi fece:
<< amigo, vuoi combrare occhiali? >>.
<< No >>, gli risposi secco, << sono senza soldi >>.
Mi lasciò perdere e continuai ad incamminarmi sulla strada. Incontrai un paio di belle ragazze
che nemmeno si degnarono di rivolgermi lo sguardo. La loro unica attrazione era incanalata solo ed
unicamente ai negozi di vestiti. Che razza idiota le donne: la loro unica aspirazione e di agghindarsi
il più possibile fino a diventare delle bomboniere parlanti. Ne vidi poi un’altra che mi ricordò molto
Loredana: stessi capelli, stessa altezza, solo il viso era differente. Solo che Loredana era molto più
graziosa. Ovviamente neanche la brutta copia di Loredana rivolse gli occhi verso di me. Poi sentii il
suo profumo, era lei certamente; mi voltai e non c’era. Anche le narici si erano innamorate di lei ed
avevano serbato gelosamente il suo ricordo. Erano miraggi trasformati in incubi.
Giunto dalle parti del museo della marina, un signore dall’accento inglese mi chiese dov’era
viale Giulio Natta. Io, come al solito, non seppi rispondergli. Se c’è un’operazione che mi fa andare
in panne è quella di fornire le indicazioni, sono un perfetto incompetente. Ci metto una mezzora
solo per capire quale informazione mi sia stata postulata. Dopodiché, mettiamo che abbia percepito
dov’è situato il luogo richiestomi, mi ci vuole un’altra mezzora per spiegare quali strade bisogna
intraprendere per raggiungerlo. Stavolta però non persi tempo, gli controbattei con prontezza
dicendogli che ero estraneo alla città tanto quanto lui.
Congedato il turista scesi il sottopassaggio delle Ferrovie dello Stato: sul binario quattro
sarebbe partito il mio treno. Il pensiero di Loredana continuava ad attanagliarmi. Mi visitai tutti gli
scompartimenti, da cima a fondo, per trovarla. Come di consueto non c’era. Erano sei dannatissimi
anni che proseguiva questa insensata ricerca e, dopo sei maledettissimi anni, non ne avevo
rinvenuto alcuna traccia. Avevo persino cliccato il suo nome su google e, l’unico dato messomi a
disposizione era che frequentava l’accademia di belle arti e due anni fa aveva tenuto in un
paesaccio, che al momento non ricordo come si chiamava, una mostra dei suoi lavori di pittura.
Dunque aveva intrapreso la carriera artistica. Io gli artisti li ho generalmente sul cazzo perché sono
soltanto dei montati perditempo che non svolgono alcunché di produttivo. Sono delle nullità viventi,
hanno la stessa utilità delle appendici. Soltanto per lei avrei fatto un’eccezione. Era innegabile, il
talento lo possedeva. Una volta mi fece un ritratto col carboncino che mi somigliava moltissimo.
Anzi, aveva messo in luce una bellezza che non avevo mai posseduto. Quei minimi difetti facciali,
che abbruttiscono ognuno di noi, non li aveva riportati; era come se avesse messo in risalto la parte
migliore di me che nessuno era riuscito ad intravedere. Un capolavoro, il disegno ora riposava
dentro un contenitore metallico, come una reliquia. Ed ora mi arrampicavo su una finta di speranza
che continuava a disgregarsi e a rinnovarsi. Puntualmente ne rimanevo deluso e quotidianamente
sognavo di vederla. Purtroppo i sogni erano solo menzogne che racconto a me stesso. Con gli anni
era diventata una patologia vera e propria. Il suo ricordo mi si era appiccicato sui globuli rossi; essi
trasportavano al posto dell’ossigeno delle immagini ormai sfocate dall’inarrestabile rotolio delle
stagioni. Chissà se con un bel salasso mi avrebbero guarito. Vagavo di continuo come un fantasma
saturo d’angoscia, trasportandomi addosso la mia pena invisibile. E pensare che giunsi ad un passo
dall’amarla. Che fregatura che è la vita: quanto senti che il destino sul quale contavi si sta per
avverare, te la infila a pressione nel culo. Che senso avevano quegli sguardi traboccanti d’affetto
che ci facevamo a vicenda, se poi tutto è andato a farsi fottere? La verità è che nulla ha senso, tutto
è casuale, peggio delle traiettorie delle palline dei flipper quando vengono scagliate per far partire
una nuova partita. Ma chi me lo fa fare? Sono davvero stanco di maneggiare più merda di uno
stercorario.
Presi posto su un sedile dove c’era una scritta: “Nicole, Anna, Rosa amiche per sempre”; e
affondai sul tessuto impolverato. I vagoni cominciarono a riempirsi e pertanto le poltrone furono
quasi tutte occupate. Solo intorno a me c’erano tre posti a sedere liberi. Nell’intercapedine tra un
sedile e l’altro, che consentiva il passaggio, le persone fluivano come pecore ma nessuna ne
approfittava per accomodarsi. Le ragazze transitavano, guardavano l’opportunità messagli a
disposizione, poi osservavano me ed infine decidevano di proseguire diritto. Che razziste figlie di
puttana! Pur di non starmi vicino, preferivano rimanere in piedi. Ma chi cazzo si credevano di
essere? Ste cafoncelle, opportuniste, carogne, con i loro sederi a violino pieni di cellulite! E
vengono pure a spacciare che sono sensibili e credono all’amore? Sì, sensibili ai cazzi loro e
credono nell’amore del potere e dell’apparenza. Poi si fidanzano con un autentico trimonazzo che le
trascura e fanno finanche le vittime dei miei coglioni. In alcuni istanti mi vien voglia di dargli fuoco
a ste facce di pesca filo naziste e puzzolenti! Con i loro fianconi debordanti che ricordano o delle
trottole o delle pere. Gli auguro a tutte un’agonia piena di dolori.
Comunque fui subito smentito perché una donna venne a sedersi. Solo che era una vecchiazza
ultramillenaria con una faccia maligna e spiritata. La mummia egiziana, appena si mosse il treno,
prese a fissarmi con disprezzo. In un dialetto sconnesso mi domandò:
<< D’ ce caz d’ pais sii? (di che paese sei?) >>
Io gli risposi:
<< Sono di F*** >>
Lei fece finta di sputare e mi rinfacciò, sempre in dialetto:
<< U’ sapev, si nu piz d’ merd d’F*** chid du pais tu so tutt na mass d’ strunz, i murt ca t’nit!
(lo sapevo, sei un pezzo di merda di F***, quelli del paese tuo sono tutti una massa di stronzi. Li
mortacci che tenete!).
Io, di fronte a tante ingiurie, controbattei allargando le braccia, come per dire: “se lo dici tu
sarà anche vero”.
Prese a raccontarmi una storia assurda, piena di incongruenze, senza capo né coda, in un
linguaggio pieno di sputi e difficile da percepire. Riuscii solo a tradurre che lei era di S***, e ce
l’aveva con gli abitanti del mio paese perché, in gioventù, nel Mesozoico, suo padre possedeva un
suolo agricolo, dal quale quelli del mio paese gli andavano a sgraffignare ogni cosa sudata con il
duro lavoro. Disse pure che una notte diedero fuoco agli alberi del loro campo. Per tale ragione
erano sempre vissuti nella miseria e da ciò l’odio spropositato per tutti i residenti di F***.
Stava quasi per piangere ma la sua energia le mutò il dolore in cattiveria. Infilò una mano in
una borsetta nera ed estrasse un foglio spiegazzato in due facciate. Lo porse a me e disse:
<< Liscm sta preghier ca si giuvn, ci sap quant porquari ve fascen (leggimi questa preghiera
che sei giovane, chissà quante porcherie vai facendo) >>.
Che avrei dato in quegli istanti per un bel bicchiere di cicuta, lo avrei ingollato in un sol sorso.
Cosa cazzo dovevo fare? Gliela lessi, non esistevano vie di fuga. Sperai che il treno deragliasse ma
nulla di tutto questo avvenne. Era una supplica alla madonna che avrebbe messo noia alle divinità
stesse. Una palla mondiale, che finanche al vaticano gli avrebbe messo la nausea. I passeggeri che si
trovavano nei paraggi, con i volti stupiti, stettero ad ascoltare la mia orazione. Stavo proprio dando
spettacolo, ero diventato un coglione viaggiatore. Nel frattempo il treno scorreva lungo i binari
bagnati da un esercito di pietre.
Giunsi per l’ennesima volta a destinazione: un’altra giornata buttata al vento e all’insegna
dell’assenza di Loredana. C’erano altri ragazzi che scesero alla mia stessa fermata. Il paese, alle due
del pomeriggio, era un autentico mortorio in quanto era completamente vuoto: troppi spazi larghi in
un ambiente troppo ristretto. Nell’atmosfera regnava un silenzio diffuso, mescolato con l’aria, tale
che avrebbe permesso di sentire anche il respiro delle formiche. A quell’ora potevi incontrare tre
categorie di esseri viventi: cani, vecchi e cafoni delinquenti che interrompevano la quiete col
frastuono delle autoradio sparate a tutto volume diffondenti dolci melodie coatte. Sulla strada
c’erano dei tubi di ghisa abbandonati e bloccati da un calcinaccio. Mentre li scansavo diedi
un’occhiata ai manifesti mortuari. I cognomi scritti sulla carta bianca non mi dicevano alcun che.
Provai ad avvicinarmi per vedere se nelle foto c’era qualche faccia conosciuta. C’era un
vecchiaccio, forse era il marito di quella megera che avevo incontrato in treno, che doveva avere
all’incirca millecinquecento anni. Nello sfondo lugubre egli sorrideva con una dentatura orfana di
un incisivo. Indossava una maglia arancione. Era pallido, sembrava malato; magari quella foto
gliel’avevano scattata qualche giorno prima che morisse. Certo avrebbero potuto anche mettergli
un’immagine in cui era meno decrepito. L’unica parte del viso colorata erano i suoi occhi azzurri
che luccicavano e si mettevano in mostra, quasi a dispetto della senilità. A fianco, leggermente di
sbilenco, e con un angolo sgualcito, quasi strappato, vi era attaccato un necrologio di un giovane, di
una trentina d’anni, avente una risata speranzosa. Secondo me lo fanno apposta ad immortalare i
defunti in pose gaudenti. È tutto calcolato per suscitare l’emozione del rimpianto. È una strategia
che viene utilizzata per fare in modo che, coloro che visionano il ritratto giulivo della persona
deceduta, debbano poter dire la solita frase del cazzo: “Che peccato, che bel ragazzo, era tanto
buono e così attaccato alla vita. Se ne vanno sempre i migliori”.
E magari si trattava di un emerito coglione.
Dobbiamo sempre rimpiangere i morti; mai che ci capita di rimpiangere i vivi che stanno
morendo. Anche Luciano era attaccato alla vita; anche Luciano era giovane, aveva solo ventuno
anni. E invece e crepato solo come un cane e nelle più atroci sofferenze.
<< Vai via Ciro >> mi diceva << che sto diventando una merda >>.
Era l’unico della nostra comitiva che non beveva e finora, è stato l’unico a schiattare di cirrosi
epatica. Bella fregatura che ti dà l’esistenza. Io sono stato l’unico a dargli una mano e a rincuorarlo
fino all’ultimo momento. Non lo dimenticherò mai, era il venticinque aprile, la festa della
liberazione dell’Italia dal fascismo. Per Luciano fu il giorno della liberazione del tormento.
Tutti erano fuori a divertirsi e ad annoiarsi. Mi avevano invitato al mare ma io mi rifiutai
categoricamente.
<< Non posso ragazzi, Luciano morirà da un momento all’altro >>.
<< Ma cosa dici >>, mi ripetevano ipocritamente. Facevano finta di non capire. Volevano, pur
di soddisfare i propri interessi, addirittura rimandare la sua morte. Che egoisti figli di puttana.
Non riuscivo ad entrare nella sua camera senza prima essermi scolato un bottiglia di vodka.
Ero in imbarazzo di fronte al suo deperimento; mi vergognavo quasi di essere in salute. C’era sua
madre ed altri parenti che mi sorrisero; ma la loro risata era distaccata dall’espressione degli occhi.
Si leggeva la consapevolezza, che il loro Luciano, era un condannato a morte.
Certe cose ti rimangono impresse per sempre, sono indelebili come le macchie di candeggina
sopra i vestiti. Luciano se ne stava lì nel letto tutto rannicchiato. Sudato, con i suoi trenta chili di
peso, e giallo come una spremuta. Puzzava maledettamente di farmaco; ma la cosa che mi
provocava la nausea erano quelle sue schifosissime dita. Avevano una forma strana, verso la parte
finale s’ingrossavano come le bacchette di un tamburo. Accidenti alla natura come umilia gli esseri
viventi. Si diverte ad accartocciarli con la manualità della crudeltà. Ogni volta che l’andavo a
trovare mi veniva un groppo allo stomaco. Me ne tornavo a casa con la rabbia e con una voglia di
ringhiare spropositata. Poi un giorno, per fortuna, decise di morire.
Maledissi l’esistenza umana dalla mela di Adamo ed Eva allo sbarco degli alieni. A che
cavolo era servito Luciano? Che senso aveva far nascere qualcuno per farlo morire dopo soli
ventuno anni? Molti diranno: certe persone, sia pure nel loro bagliore vitale, rappresentano una
parte di un grande progetto. Ma quale dannatissimo progetto se tutto è destinato a scomparire. Se le
nostre storie saranno assorbite da un buco nero che le smaterializzerà per sempre? Chi si ricorderà
di me tra duecento anni? A chi vuoi del resto che gliene freghi. Qualcuno è al corrente delle vite
delle persone comuni che sono vissute nel millesettecento? Qualcuno può dirmi se in quegli anni vi
era un pazzo che come me si poneva i medesimi enigmi? La risposta è no! Si conosce soltanto la
storia di chi ha scritto la storia, insomma di chi si è stato reso famoso dall’inquisizione dei mezzi di
comunicazione di massa. Quindi la vita di Luciano non era finalizzata per essere conosciuta, ma
solo ed esclusivamente era esistita perché in un qualche punto del globo terrestre c’era un idiota
avvoltoio che doveva lasciare l’impronta in un passo scandito nella storia. Questa credo sia l’unica
spiegazione plausibile, altrimenti non ne vedo altre. Quindi forse siamo come quei pezzi
insignificanti che compongono l’ingranaggio di un orologio: senza utilità apparente ma, con un
infinitesimale funzionamento reciproco, permettiamo alle lancette, ossia a quegli individui che
influenzano la storia dell’umanità, di funzionare. Eh sì, perché le lancette, che vengono viste da un
ipotetico osservatore, sono quelle che permettono di riconoscere l’orario e, del resto, sono quelle
che si beccano ogni merito. Di tutto il caos che c’è dietro, nessuno se ne avvede; rimane chiuso nel
contenitore dell’anonimato. Che gran bel ruolo di merda.
In casa non c’era nessuno: mia madre e mia sorella erano entrambi al lavoro; meglio, quelle
due sapevano solo dare fastidio. Pranzai con due panini farciti di salame e sottilette e con della
frutta semi ammuffita. In televisione davano i Simpson: era una puntata che avevo già visto un
migliaio di volte ma riuscì lo stesso a mettermi, momentaneamente, di buon umore.
Prima di addormentarmi, accesi il computer e diedi un’occhiata su Facebook: c’era un
messaggio di Cosimo che diceva: “frociò, stesso posto stessa ora?”
Io gli scrissi: “ok, io vengo alle sette”. Fui abbastanza freddo, non mi andava di scherzare. Ma
è mai possibile che non c’era una sola ragazza, in tutto il globo terrestre, che non mi chiedeva un
contatto su questo social network, composto solo da rapporti di ipocrisia virtuale? Mi mettevo solo
ed esclusivamente in comunicazione con maschi e per di più sfigati. Se almeno Loredana fosse stata
iscritta le cose sarebbero andate diversamente. E invece no, nemmeno questa magra consolazione.
Mi misi a dormire dalle tre alle cinque. Rimanendo sempre a letto ascoltai, per circa una
un’oretta la musica sfascia orecchie dei Linea Settantasette. Alle sei, mentre mi guardavo gli
appunti che avevo preso in mattinata, giunsero quasi con sincronia mia madre e mia sorella
(Alessandra).
Quell’idiota mentecatta di Alessandra uscì subito dopo per andare al corso di yoga, mentre
mia madre pensò a mettere in ordine la casa. Alle sette meno un quarto abbandonai anch’io il mio
rifugio casalingo. Ovviamente me ne andai senza salutare nessuno, senza dire dove mi recavo e
senza avvisare a che ora tornavo. A chi cacchio gl’importava della mia sorte? Tanto di guadagnato,
almeno non mi veniva a rompere le palle nessuno.
Appena spalancata la soglia di casa mi si parava il solito bidone dei rifiuti, eruttante
immondizia. Presi la macchina, ero stanco di andarmene sempre a piedi, e poi mi dava fastidio ad
essere guardato e giudicato dai passanti. Ero a zero col carburante ma quel centilitro di benzina, era
bastevole per compiere il viaggio di andata e ritorno. C’era però anche da considerare il problema
che il cruscotto aveva più spie accese della CIA.
Arrivai al luogo di appuntamento: la distilleria. Meglio dire l’ex distilleria; erano circa
trent’anni che aveva chiuso i battenti. Si estendeva imponente e decadente, lateralmente al sito in
cui ci incontravamo. Era fallita perché alla fine degli anni settanta un operaio era morto schiacciato
da una fetta di trave che si era distaccata inspiegabilmente. La dinamica precisa dell’accaduto non la
conoscevo, mi era stata solo raccontata. Sta di fatto che dopo l’incidente scoppiarono una bomba di
accuse per trovare il responsabile del misfatto. È sempre così quando si verifica un incidente: si dice
fino alla nausea “era una tragedia annunciata” e bisogna trovare per forza un capro espiatorio sul
quale far ricadere tutte le colpe. Magari poteva essere soltanto lo scherzo di un destino amaro. Sta di
fatto che si aprirono una marea di processi che non portarono a nulla e che fecero fallire la distilleria
e perdere il posto di lavoro a sessanta operai. Ora ne rimaneva un rudere annerito e soccombente,
pieno di erbacce, topi e colombi, che più che un’ex industria ricordava una casa infestata dai
fantasmi. Rimaneva là, in balia del tempo e nessuno la toccava. Forse tutti pensavano che era
biodegradabile. Magari, tra una decina di miliardi di anni, sarebbe definitivamente scomparsa. Nel
frattempo ci osservava con quell’aria lugubre. Pareva che ci volesse dire: io offro malattie,
disoccupazione, sporcizia e morte. Però, nonostante non svolgesse più una funzione produttiva, ne
era stato fatto un uso alternativo: avevo sentito dire che al suo interno venivano compiuti dei riti
satanici e che era diventato un luogo sicuro per nascondere le merci di contrabbando che stoccava la
malavita. Insomma una sua attività se l’era ritagliata. Io non avevo tuttavia ancora visto nessun
traffico losco; eppure passavo la maggior parte della giornata in quelle zone. Di una cosa comunque
ero veramente certo: faceva schifo e non so se fosse più penoso il nostro oppure il suo stato.
Gareggiavamo a sbriciolarci a vicenda. Neanche l’ambiente che ci circondava si metteva a nostro
favore. Se un giorno mi avessero eletto sindaco, prima avrei raso al suolo quella fabbrica in rovina e
poi avrei bruciato questo paese lassativo, che mi faceva venire da cacare senza stimolo. Altro che
Cartagine.
Capitolo 4
Nei pressi del vialone, illuminato dai lampioni emettenti una luce fioca, c’erano tutti tranne
Giovanni, chissà in quale guaio si era cacciato. I miei amici stavano in gruppo: simili ai giocatori di
football americano quando si rannicchiano a decidere lo schema di gioco, prima di cominciare una
nuova azione. Solo uno di essi, era rimasto in disparte. Dal suo capellaccio rosso, avevo capito
subito di chi si trattasse. Era quel porco di Andrea: stava per terra, con la schiena poggiata sul muro
delle palazzine gialle, a fissare il vuoto. Sembrava un poeta in posa malinconica. Si vedeva che
stava male e che voleva chiedere aiuto anche se non aveva le forze per farlo. Puzzava di acido e i
suoi vestiti erano cosparsi di vino rosso. Dondolava la testa, ora da un lato ora dall’altro e
farfugliava qualcosa di incomprensibile dalla sua bocca ripiena di bava. Faceva pena, persino il suo
cadavere sarebbe stato più presentabile.
Come lo vidi esclamai:
<< Giuda divino! Sono appena le sette e questo si è già impallettato! Puzzi talmente tanto di
aceto che ti potrei utilizzare come condimento nell’insalata! >>.
Gli tolsi il bottiglione di mano, ormai riempito per un quarto e gli diedi una sorsata. Il buio era
sopraggiunto da parecchio sui nostri capi.
<< Ma che schifo! >>, gli gridai, << che razza di merda ci hai rifilato? Questo non è vino,
questa è paraffina! E guardate quanta forfora si ritrova tra i capelli, sembra che si sia messo in testa
il pan degli angeli. Se l’avessi saputo prima mi sarei portato una zuccheriera >>.
Era Andrea che ci forniva l’alcol, suo padre aveva una cantina e produceva vino biologico.
Ogni tanto ci portava un paio di bottiglie da un litro e mezzo, quelle di peggiore qualità. Gliele
pagavamo pure, a sto ladro morto di fame. Nella sua macchina ce n’era un’altra, la stappai e
l’odorai.
<< Che bastardo! >>, dissi, << anche questa è da buttare, sa di antiruggine. Non ti do neanche
un centesimo, miserabile beone che non sei altro! >>
<< Il fiasco ha fatto fiasco! >>. Urlò Cosimo, non appena raggiunse il luogo del misfatto.
Quel deficiente di Cosimo aveva il vizio di fare sempre delle battute orribili, da rendere una
barzelletta melodrammatica. Possedeva, in verità, il talento di saper incastonare le parole in modo
tale da comporre delle rime, oppure, come in questo caso, da creare delle antanaclasi simpatiche.
Poi si avvicinò anche Carlo, scrutò dall’alto i resti umani di Andrea, uscì l’uccello e gli pisciò
in faccia. La povera vittima inerme poteva solo sussultare e si prendeva urina in bocca, senza
poterla scansare. A un dieci metri di distanza, il gregge di persone, non tendeva a diradarsi.
Io invogliavo Carlo a non smettere:
<< Riempilo di piscia a questo porco, tanto ha lo stesso sapore del suo vino >>
Cosimo invece era del parere opposto:
<< Dai finitela, è umiliante! >>
<< Umiliante?! Tutt’al più è un’onorificenza. Non sai che Orione deriva dalla piscia di
Nettuno, Giove e Mercurio? E poi con un bello shampoo urinario gli vengono eliminate tutte quelle
scaglie di forfora che gli scorazzano sul cranio. >>
Cosimo parve soddisfatto della mia spiegazione e sparò un’altra delle sue fesserie. Quando
era in vena di freddure, nessuno lo poteva fermare. Rivolgendosi a Carlo, che si rimetteva il pisello
nelle mutande, disse:
<< Sai perché hai fatto il tuo bisogno velocemente? Perché possedevi una cerniera lampo >>.
A quel punto intervenni io:
<< Cosimo, finiscila con questo repertorio da schifo. Le tue spiritosaggini mi fanno più
vomitare di questo vino alla candeggina! >>
<< Ok, non ti scaldare troppo che non siamo arrivati in pieno inverno. Secondo me,
bisognerebbe fargli rigurgitare l’intruglio che si è scolato. Se il suo organismo lo assorbe
completamente, rischia di rimanerci secco come lo sterco >>.
<< Ben gli sta a venderci il vino di quarta qualità a questo parassita succhia denaro. Cosa c’è
Cosimo, ti dispiace? Vuoi che vomiti? Ora ti accontento subito >>.
Serrai la testa di Andrea tra le tenaglie delle mie mani e gliela scossi, come se stessi
preparando un cocktail. Andrea si lamentava nel linguaggio degli sbronzi. Dopo che lo ebbi
strapazzato per qualche minuto, incominciò ad avere i primi conati.
<< La missione è stata compiuta con successo >>, dissi ai due spettatori in apprensione.
Poi rimanemmo a guardare Andrea che dava sfoggio dei suoi rigurgiti. Uscì di tutto: vino,
bava, bile, essudati gastrici, enzimi, cellule, streptococchi, stafilococchi, virus, acido cloridrico e per
dare un tocco artistico al miscuglio della morte, finanche del sangue color vermiglio. L’eruzione
l’aveva svuotato. Per lo meno aveva ripreso la lucidità. Si tolse la maglietta e rimase in canottiera.
Poi quasi a volerlo fare a posta, chiese:
<< E’ finito il vino? Ne vorrei ancora un poco >>.
Non aveva fatto in tempo a smaltire la sbornia, che già pronto per un altro giro. Secondo me
era davvero malato. Non mi spiegavo nemmeno come riuscisse a riprendersi così velocemente. Io,
dopo un trauma alcolico del genere, per riacquisire uno stato decente, avrei dovuto impiegare,
almeno una decina di ore. Era fenomenale, la sua persona andava studiata attentamente. Io lo avrei
ingaggiato in qualche laboratorio di ricerca, per utilizzarlo come cavia. Sono convito che sarebbe
stato contento di una professione così rischiosa; per lo meno avrebbe avuto uno scopo nella vita.
Gli risposi:
<< E’ finito quel vino orrido che ci hai portato. Lo abbiamo gettato >>.
<< Ma come lo avete gettato?! Ed ora? Siamo senza vino? Nemmeno alle nozze di Cana
erano così a corto di alcolici! >>.
Cosimo volle accertarsi del suo stato di salute:
<< Cazzo Andrea, ma stai bene? Già ti sei ripreso? Credevo ci stessi lasciando per sempre
>>
<< Sì ormai reggo tutto. Vedi è solamente una questione di abitudine. Basta allenarsi a bere
ogni giorno per adeguare il proprio corpo. Non sono io che mi devo abituare all’organismo, è
l’organismo che si deve abituare a me. Questa società, a me, non mi deve imporre niente.
Dev’essere la natura ad occuparsi dei miei limiti. Nessuno mi trascinerà come Ettore. Ognuno è
diverso dall’altro e in quanto tale, deve dare la precedenza alla propria indole. Quindi mi faccio a
piacimento, fino a quando il mio corpo si sarà fatto invincibile ai miei vizi >>.
Io gli controbattei:
<< Oppure fino a quando non ti vedremo, finalmente, stramazzato >>.
Andrea continuava a rompere:
<< Sul serio, è davvero finito tutto quel vino che vi avevo portato? Ma siete degli ingrati! Ora
me lo dovete pagare lo stesso >>.
Cosimo gli rispose:
<< Se hai tanta smania di bere, puoi sempre prendere del nastro adesivo e farti un bel
bicchiere di scotch >>.
Assieme a Carlo lo aiutammo ad alzarsi e a braccetto, scortati da Cosimo, ci avviammo verso
gli altri.
C’era qualcuno che faceva da intrattenitore. Si stava osannando qualcuno, ma non avevamo
ancora capito chi fosse il soggetto:
<< Ragazzi! Fu proprio un grande! Riuscì persino ad organizzare il concilio ecumenico
Vaticano secondo >>.
Andrea con un briciolo di forze disse:
<< Ma chi è che sta parlando di queste assurdità. Non ditemi che sono ancora ubriaco >>
<< No, tu stai bene. È quell’imbecille di Riccardo che sta facendo il galletto saputello >>.
In prossimità della cortina umana che si era venuta a creare, Riccardo, al centro, faceva da
oratore ai suoi discepoli. Stava raccontando la biografia di Giovanni XXIII:
<< …Era bergamasco e di umili origini. Prima di essere nominato papa, trascorse molto
tempo in giro per il mondo: Bulgaria, Francia, ecc.. In Turchia aiutò gli ebrei a sfuggire dalle
deportazioni naziste. Fu nominato pontefice, quando era patriarca di Venezia ed era già abbastanza
anziano. Non ricordo di preciso che età avesse ma sicuramente aveva varcato la soglia dei settanta.
Ancora una volta, durante il suo mandato, venne incontro agli ebrei, che non riconoscevano il
nuovo testamento. Utilizzò, come forma di mediazione, le seguenti parole: “veniamo dal padre,
dobbiamo ritornare dal padre”. Non vi nascondo che, sul suo conto, si proiettarono dei lati oscuri;
secondo me frutto di calunnie immotivate. Ad esempio, si venne a sapere che fosse a conoscenza
dei microfoni che erano stati posti nel confessionale di San Pio, per spiarlo. Oppure era contrario al
dialogo con le sinistre; nel senso che ripudiava i comunisti ed i socialisti, in quanto legati
all’ideologia marxsista. Tuttavia, nonostante tali fermezze, accettò la stipulazione dall’alleanza tra
DC e PC. Purtroppo, come tutti gli esseri umani, si piegò all’atroce realtà: un cancro allo stomaco lo
colpì, così forte, da non lasciargli scampo. Anche sua sorella aveva avuto lo stesso tragico destino
>>.
L’ultima frase l’aveva intristito notevolmente.
Io intervenni con una delle mie solite sortite violente:
<< Ma dove cazzo le vedi queste trasmissioni così noiose? Io, neanche con gli integratori
riuscirei a seguire una simile lordura. Se continui di questo passo diventerai più scocciante di un
testimone di Geova >>.
<< Invece sono programmi culturali. L’ho guardata su Raitre >>.
Cosimo volle porre una domanda da ficcanaso:
<< Ma è diventato almeno santo? >>
<< E certo. Come è possibile non premiare un uomo così buono? >>
Cosimo non ne aveva ancora abbastanza:
<< Ma con quali criteri si diventa santo? Ci saranno delle procedure alle quali bisogna
attenersi >>.
<< Sì, c’è un iter da seguire, sia per conseguire il processo di beatificazione che per
raggiungere quello di canonizzazione. Innanzitutto è necessario condurre delle indagini meticolose
sull’intera vita della persona interessata e, se non erro, bisogna aver compiuto, obbligatoriamente,
un miracolo. Giovanni XXIII, infatti lo realizzò. Una suora, mi pare nel 1966, dopo tre anni dalla
sua morte, anch’essa malata di cancro allo stomaco, guarì inspiegabilmente, proprio quando stava
ad un passo dal baratro. Ella, prima di ritornare in salute, dichiarò di aver visto il papa, che la
spronava a rialzarsi dal suo capezzale >>.
<< Se è per questo >>, proruppe Andrea, << Io, ogni giorno che passa, compio un miracolo.
Riesco a mantenermi ancora in vita, nonostante gli ettolitri di etanolo che assorbo. E mica mi hanno
canonizzato >>.
<< Il miracolo avverrebbe >>, rispose Carlo, << se perdessi quella faccia di merda che ti
ritrovi. Sei talmente merdoso, che per soffiarti il naso, non usi dei comuni fazzolettini ma ti servi
della carta igienica. Infatti è l’unico materiale che ti fa sentire a tuo agio. È una forma di
compatibilità fecale >>.
Andrea continuò fregandosene di Carlo:
<< Secondo me la chiesa la chiesa ti fa santo, non solo per i miracoli e per le opere di bene,
ma soprattutto per il numero di fedeli che riesci a convertire alla loro religione. I cattolici sono
come i mass media: non badano alla qualità; pensano solo ed esclusivamente all’odience. Che
fregatura, persino il marketing si è insediato nella religione >>.
Mi allontanai per scolarmi una birra. L’atmosfera quella sera mi opprimeva particolarmente.
Mi guardai attorno: lo squallore e le tenebre che ci circondavano rendevano l’atmosfera tetra, quasi
al limite del surreale. Era un luogo per dannati, una sorta di girone infernale dantesco, importato nel
mondo dei vivi. Mancava solo uno stronzo di Minotauro o di Pluto a dettare le leggi di questo
Averno di dolore. Non c’era colore, ma solo un nero sbiadito che nelle notti di luna tendeva a farsi
più sopportabile. Da qui era impossibile far sbocciare speranze o sentimenti, non c’era la possibilità
di farlo, rimanevamo prigionieri nella miniera della nostra iracondia. Era una sorta di sorte
monotematica. Si dice che la fortuna passi prima o poi nella vita di ognuno; io qui finora, ho visto
transitare solo cani. Noi le pene le scontavamo già tra i viventi. Se solo si potesse uscire da questo
pantano, accidenti! Non vedo, purtroppo ancore di salvezza: ci sono solo vicoli ciechi o sbarramenti
invalicabili. Noi eravamo e rimanevamo soltanto una generazione di sconforti: la parte arida della
società, la diarrea della civiltà, il marcio da estirpare, insomma, per dirla in modo franco, gente da
censurare. Non avevamo ambizioni, vivevamo per inerzia, senza alcuna speranza per il futuro.
Nonostante fossimo molto giovani, ci gravava dentro l’enorme fardello della vecchiaia precoce. Per
illudere la senilità dei nostri pensieri, ci ciuccavamo fino a stare male. Diventammo così, i piromani
di un’esistenza priva di sbocchi e a suon di alcol e canne, la nostra vita si stava bruciando ad un
ritmo epidemico. Del resto, che altro potevamo fare se anche la persona più ripugnate di questo
mondo si sentiva in dovere di esserci superiore e, quando ci incontrava, ci lanciava sguardi di
protervia e di ribrezzo? Perciò bevevo soltanto per occultare il dolore. Ma il problema era che
bevendo mi facevo soltanto del male e perciò non facevo altro che ricoprire il dolore con altro
dolore. Quindi invece di seppellirlo, lo sovrapponevo, di conseguenza aumentandolo. È poi c’era
quella solitudine che mi stritolava ovunque, anche nel bel mezzo di un trambusto. Anche quando
ero in compagnia soffrivo di solitudine. Anzi, certe volte mi sentivo meno solo quando rimanevo da
solo. Esiste la solitudine fisica: data dal mancato contatto con la gente; e poi c’è quella mentale: che
si innesca con l’impossibilità di condividere i propri sentimenti con il prossimo. Io soffrivo
d’entrambe.
Presi la lattina di birra, poggiata nel sedile posteriore della macchina di Cosimo, e l’aprii. La
linguetta mi provocò un lieve taglio. La ferita era insignificante ma da quella fenditura filiforme
uscirono torrenti di sangue. Tentai di medicarmi, tenendo il dito vicino alla bocca, ma non ci fu
verso, lo straripamento era oramai avviato.
<< Pisciagli sopra >>, mi disse Andrea che per la noia mi era stato appiccicato dietro.
<< Sì >>, gli feci io, << poi magari gli cago e la ricopro di muco. A me non importa che si
disinfetti! Quello che al momento mi interessa e che questa fastidiosa emorragia si plachi. Sai
quanto me ne sbatte che il dito se ne vada in cancrena? Me lo possono pure mozzare, l’importante
che prima mi riesca a bere senza rotture questa fottutissima birra! Maledizione! >>. Ero alquanto
scorbutico, devo ammetterlo.
Cosimo mi porse un fazzoletto e me lo avvolsi intorno al dito a mo’ di garza. Lentamente si
maculò di rosso in vari punti e assunse la stessa colorazione della Pimpa.
Mentre sorseggiavo la mia buona birra, scorgemmo, da lontano, dovevano essere almeno un
centinaio di metri, una sagoma, seguita da due cani. Era Giovanni, con quella camminata
scoordinata, lo avrei riconosciuto anche da Saturno. Le bestie che gli stavano vicino erano Sniffone
e Pecorone. La prima aveva assunto quel nomignolo perché ti annusava in continuazione, era simile
ad un pastore tedesco, ma in realtà non lo era, si trattava solamente di un bastardo come noi. La
seconda, invece, era candida come un ovino; solo, date le dimensioni imponenti, le era stata
aggiunto il suffisso –one. Erano le nostre mascotte, ci facevano compagnia ogni sera. Erano così
tranquille, da non permettersi nemmeno di abbaiare. Per lo meno qualcuno ci rispettava. Non
riuscivo a capire come cacchio si trovassero insieme a Giovanni.
<< Trimone, perché hai quella faccia? Sembra che ti abbiano arrostito le palle! >>, feci io con
la mia immancabile ospitalità.
Il nuovo arrivato era affannato e stravolto. Neanche mi salutò e subito raggiunse gli altri. I
due cani si accucciarono in disparte.
<< Ehi ragazzi! >>, urlò Giovanni con quel poco fiato che gli rimaneva nei bronchi, << avete
sentito del fattaccio che è avvenuto nella foresta, a tre chilometri dal paese? >>
Io ero in vena di provocazioni e cominciai a stuzzicarlo:
<< Quale >>, dissi, << quella di querce o la pineta? >>
<< e che ne so io >>, ribatté, << chi le sà distinguere le piante. Quella che ha gli alberi più
alti, con le foglie ad ago >>
<< Allora è la pineta. Ma Giuda benedetto, neanche sai distinguere un pino? >>
<< Ma vaffanculo! Pino, per me, è solo un nome di persona. Il punto non è questo, è la
tragedia che è avvenuta! >>
Cosimo s’intromise, rivolgendosi a Giovanni, con il suo sarcasmo da quattro soldi:
<< Come cavolo fai a sapere le notizie in tempo reale? Sbrigati a raccontare questa storia, mi
stai facendo venire l’ansia, con le tue notizie ANSA >>.
<< Sì, se vi state un po’ zitti, vi narro l’accaduto. Dunque, di nome fa Nico, il cognome non lo
so. Aveva pressappoco, la nostra età; ha la carnagione scura ed è alto e magro. Beh, non importa,
sta di fatto che mentre era in bicicletta nella foresta, gli sono franate addosso una marea di macerie,
che l’hanno sepolto completamente. I vigili del fuoco sono stati quattro ore, per capire cosa fosse
successo e per estrarlo morto da quell’ammasso di terra e fango >>
A cinque metri di distanza, seduto sul marciapiede, Riccardo esclamò:
<< Oh Cristo! Ho capito di chi si trattava, lavorava al mercato ittico, quello che si trova in
piazza. Poveraccio, spero non abbia sofferto >>
<< Ma lo conoscevi? >>, domandò Carlo, con occhi spiritati.
<< No, cioè sì. O meglio, solo di vista >>
<< E allora! Chi se ne fotte! Uno di meno, ci offrirà la possibilità di usufruire di una maggiore
quantità di ossigeno. È morto da eroe, pace all’anima sua. Io direi di brindare alla sua salute dato
che non c’è più! E mi auspico che qualcun altro, fuorché io, possa crepare allo stesso modo! >>
Rimanemmo silenziosi e atterriti, da una dichiarazione così crudele. Carlo era perfettamente
lucido e non solo non provava pietà per una vicenda così allucinante, no, ma si permetteva persino
di fare dell’ironia così pesante. Una volta mi illudevo che Carlo si comportasse in quel modo solo
per creare scandalo e mandare in tilt gli ipocriti. Mi sbagliavo alla grande. Egli era davvero uno
squilibrato, socialmente pericoloso, da rinchiudere il prima possibile in manicomio.
Ne ebbi la certezza esattamente un anno fa, quando il paese si scosse per l’omicidio di una
prostituta, trovata morta ammazzata lungo i bordi di un tratturo. La notizia, visto che era capitata in
un piccolo centro, era sulle bocche di tutti i cittadini. Qualche settimana dopo la terribile violenza
Carlo, una sera, mentre eravamo scoppiati di canne, mi prese in disparte e mi confessò che era stato
lui l’autore dello squallido reato. Io non gli badai minimamente perché pensai si trattasse di una
delle tante idiozie che raccontava per passare il tempo, simili alle leggende metropolitane narrate
per far sognare le mandrie di illusi. I giorni passavano e Carlo continuava a ribadirmi le proprie
colpe. Una volta, dopo avermi martellato il cervello con i suoi fatti scabrosi, perse la pazienza e mi
annunciò con fare petulante:
<< Lo sapevo che non mi avresti creduto, ti porterò però una prova che ti farà cambiare idea.
Vedrai testa di cazzo come muterai opinione! >>.
L’indomani, infatti, si presentò giulivo, con una fazzoletto tra le mani che fungeva da
involucro a qualcosa che non si poteva distinguere cosa fosse. Quando aprì il cartoccio, rimasi
esterrefatto dallo sconcerto: era l’anello nuziale della vittima, annerito e d’oro; e quel mostro me lo
mostrava come se fosse stato un reperto di caccia.
<< Hai visto >>, fece, << che dico sempre la verità? >>.
Io, dopo essermi ripreso dal trauma, con voce fiacca, gli risposi con un’altra domanda:
<< Sei una merda, ma che cazzo ti aveva fatto quella povera donna? >>
Lui allora mi raccontò la sua storia macabra:
<< Erano circa le diciannove e stavo tornando con la macchina dall’università, quando notai
in lontananza una puttana in attesa di clientela. Poiché mi ritrovavo addosso i venti euro sgraffignati
al nonno e siccome ce l’avevo talmente arrapato che avrei bucato i jeans, decisi di cogliere la palla
al balzo con una bella scopata. Prima di recarmi da lei diedi una decina di sorsate all’inseparabile
grappa, altrimenti avrei raggiunto l’orgasmo troppo velocemente. Una volta compiuto alla grande il
mio dovere, chiesi quanto veniva a costare il servizio prestato. Lei mi rispose che dovevo sborsare
quaranta sacchi ma io ne avevo solo venti. Glielo spiegai che i soldi non mi bastavano, non una, ma
mille volte. Lei invece non volle sentire ragioni. Prima mi prese a parolacce e dopo, come se non
bastasse, mi picchiò come una forsennata. Io, a quel punto, offeso nella dignità, persi le staffe,
estrassi il coltellino svizzero dalla tasca e la riempii di pugnalate. Poi, con tutta la sensibilità che mi
porto dentro, volli portare una prova da mostrarti, sfilandole dal dito della mano sinistra l’anello,
che ho conservato gelosamente fino ad oggi con tanta parsimonia.
È inutile che fai quella faccia schifata, anche tu ti saresti comportato allo stesso modo; dovevi
sentire gli insulti che mi proferì quella troia. Vaffanculo, nessuno mi capisce, la morte se l’è cercata,
è stata solo colpa sua >>. E si mise a battere i palmi delle mani contro le pareti di confine della
stazione.
La situazione stava degenerando, non mi andava di far scoprire l’accaduto, altrimenti
saremmo stati interrogati all’infinito ed avremmo perso la libertà. Non solo, saremmo stati pure
travolti da un ciclone di ruffiani. Perciò diedi a quella bestia un consiglio:
<< Se ti vuoi salvare il culo, liberati al più presto di quell’oggetto e dimentichiamo questa
fottutissima storia una volta per tutte >>.
Gli piacque il mio suggerimento, tant’è vero che lo accettò. Non mi disse però come si era
liberato della prova, né tantomeno provai a chiederglielo. Nel giro di qualche mese la faccenda si
chiuse definitivamente, anche perché le indagini della squadra mobile non riuscivano a seguire
alcuna pista che li mettesse sulla strada giusta. Carlo, dal canto suo, rimosse subito quella vicenda
dell’orrore.
Giovanni aveva con sé uno zaino contenente due belle bottiglie di assenzio. Gliela strappai di
mano e gli diedi una lunga sorsata. Mi quietai un pochino: l’anima, lentamente, per effetto
dell’ebbrezza, si stava distaccando dal corpo. Sentivo tuttavia un bruciore lancinante di stomaco,
come se, sulle pareti gastriche, stesse colando del magma.
Non eravamo ancora tutti al completo, mancava solo Vernice. Anche se, a dir la verità, egli
veniva saltuariamente. Era il nostro fornitore ufficiale, ecco perché la sua presenza era un evento
così raro. Aveva un sacco d’impegni, spacciava droga nell’intero paese ed anche in quelli limitrofi.
Si era fatto una buona fama in quanto sapeva servire la clientela alla grande. Insomma un buon
libero professionista. Conosceva le persone giuste, quelle che se ne intendono di certe faccende e
che ti danno della roba di buona qualità: cocaina, eroina, guaranà, lsd, mescalina, betel, marijuana.
Vernice non era naturalmente il suo vero nome; lo chiamavamo così perché emanava quel tanfo
intenso di solvente che ti fa venire i giramenti al capo. Sicuramente quell’odore sgradevole,
onnipresente, era causato dal fatto che lavorava in un’azienda che produceva suppellettili in legno.
Questo lavoro lo svolgeva di giorno, nelle ore successive si dava allo spaccio. Intorno alle dieci si
fece vivo e puzzava più de solito. Sono convinto che l’arredamento che rifiniva fosse meno
ripugnante all’olfatto. Noi ogni volta che ci portava qualche sostanza, ce la prendevamo, gli
promettevamo di pagargliela ed invece, puntualmente, rimandavamo le nostre spese. Ci
inventavamo una scusa od un motivo per distrarlo e non dargli nemmeno un centesimo, e
quell’idiota rimaneva sempre con le tasche vuote. Pigliarlo per il culo era diventato il nostro
passatempo preferito.
<< E’ arrivato Vernice! >>, schiamazzammo in coro, << chissà cosa ci avrà portato di bello!
>>
<< Mi dispiace ragazzi, oggi ho solo del fumo. Se pazientate una sola settimana, vi porterò
del guaranà che manderebbero in tilt anche il Dalai Lama >>.
Giovanni lo ammonì. La tattica della serata era di riempirlo di colpe in modo da farlo sentire
fustigato dai rimorsi:
<< Una settimana fa promettesti che ci avresti riempito di Peyote. Tu sei solo un pallonista.
Tutte le volte vieni a farci visita sempre con la stesso menù >>.
<< E cosa volete da me, io sono un fattorino, niente di più. Dovete tenere conto che, certe
sostanze, vengono dal sud America e inoltre devono anche rimanere indenni a tutti i controlli di
dogana. Io sono l’ultima parte dell’intera filiera, se qualcosa nelle zone superiori va storto, le
conseguenze su di me hanno una ripercussione doppia >>.
Io non potevo non intervenire:
<< Ma non dire cazzate! So io qual è il destino della roba che ci prometti: va a finire a chi ti
offre un prezzo più elevato. Conduci un indagine di mercato e vendi le tue merci all’imbecille
disposto a pagarti di più. Sei uno sporco usuraio, mi fai veramente schifo. Di fronte ai soldi ti
dimentichi pure degli amici >>.
Era stato un colpo basso. Si vedeva che se l’era presa. Volle tuttavia mantenere l’orgoglio e si
limitò a rispondere:
<< Guarda che ti sbagli di brutto. Io non cado così in basso >>. A momenti scoppiava in
lacrime.
Rimase un po’ zitto e dopo averci dato una bustina di fumo che naturalmente non gli venne
pagata, s’inventò una scusa per abbandonarci:
<< Oh raga, io ho un impegno urgente. Deve venire un pezzo grosso dalla città e non posso
mancare. Sapete com’è, certi appuntamenti sono più sporadici di un’eclissi di luna. Ricordatevi che
avete un debito di trecento euro, per tutta la droga che vi ho dato gratis. A domani. Ciao! >>
Carlo volle dargli la batosta definitiva:
<< Ehi Vernice, si dicono delle cose spaventose sul tuo conto. La gente va mormorando che
hai degli atteggiamenti strani e che fai parte addirittura di un clan mafioso. Corre voce che fai anche
i furti di macchine e che ti sei imbucato nel giro delle scommesse delle gare clandestine. Pare che la
polizia non ti tolga mai gli occhi di dosso e ti vada sorvegliando in ogni tuo minimo spostamento.
Stai all’erta, altrimenti farai una brutta fine. Non fare quella faccia da ebete, sto parlando seriamente
>>.
Egli sorrideva per sdrammatizzare, ma si vedeva che stava morendo dalla paura.
<< Dicono un mucchio di cretinate su di me >>.
<< Saranno anche delle cretinate ma se ti trovi un giorno un proiettile nella scatola cranica,
non venire a dire che io non ti avevo avvisato >>
<< Ok, beh, io vado >>
<< Ti saluto amico mio caro >>, disse Carlo, imitando la voce di un picciotto siciliano, << mi
raccomando, non far arrabbiare i cattivi e rispetta la famigghia che ci tiene tanto alla tua salute.
Soprattutto cerca sempre di guardarti sia le spalle che le palle. Addio figghiu beddu, baciamo le
mani! >>
Vernice già lontano ma non troppo per ascoltare l’intimazione di Carlo, fece un gesto col dito
medio per mandarci in sintonia a quel paese. L’avevano moralmente distrutto. Chissà quando
sarebbe ritornato. Tra non molto, visto che noi eravamo essenziali nei suoi guadagni. Invece mi
sbagliavo alla grande.
Ci trastullammo di veleno e con un’altra sbronza raggiungemmo la mezzanotte. Nella narcosi,
il tempo viaggiava senza noia, in un lampo, con tranquillità. Tralasciando i problemi che si
accavallavano durante l’itinerario della nostra esistenza. L’unico cruccio che non si affievoliva era
il bisogno disperato d’amore che in quei frangenti rimbombava con violenza nel mio cervello. La
malinconia s’impossessava della mia personalità e mi rendeva anche incapace di fingere uno stato
d’animo ottimistico. Loredana era perennemente dentro di me, ovunque, tascabile nei miei pensieri.
Un tormento senza tregua, qualunque cosa io facessi, lei era presente e mi corrodeva in modo
ossessivo. Con molto riserbo si nutriva a spese della mia giovinezza.
L’ultimo treno della giornata giungeva alla stazione con un fracasso terribile,
infischiandosene di trovarsi circondato da palazzine in tarda ora. Fino alle cinque del mattino il via
vai ferroviario era in stato di dormienza. Persino le locomotive andavano al riposo. Noi no,
saremmo andati avanti allo stremo ed avremmo vegliato un paesaccio, misero, squallido, immobile
e silenzioso. La staticità dei luoghi era tale che sembrava che ci avessero proiettati in un’enorme
fotografia.
Una lieve foschia appannò l’orizzonte. Mancava solo la nebbia a deprimermi definitivamente.
Forse si trattava di un aerosol perché nel giro di pochi minuti mi ritrovai inumidito fino alle ossa.
Non mi volli comunque spostare, rimasi seduto sulla spalliera della panchina a godermi il panorama
della solitudine. In fondo si trattava solamente di acqua, con essa ci si lava e ci si disseta. I miei
amici erano rientrati al completo nelle macchine; temevano d’insozzarsi, non si rendevano conto di
quanto fossero imbrattati dentro. Era inutile spiegargli certe cose, non avrebbero capito. Non
sapevano che il futuro dell’intero genere umano termina in un vicolo cieco. La vita ha sempre la
stessa meta, si nasce si vive e si crepa. Leggo ancora negli occhi dei miei amici, che stanno messi
abbastanza male, l’ingenuità di voler credere in qualcosa. Ma loro non saranno mai capaci di
crescere, sono ancora cosparsi dal liquido amniotico che sancisce la loro immaturità. Certa gente ha
l’inconsapevolezza di essere incapace di intendere e di volere. Se fossero al corrente di essere
rincoglioniti probabilmente si correggerebbero. E invece no, rimangono a sguazzare nella loro
ignoranza peggiorando sempre di più un quadro clinico già di per sé disastroso. Si bevono le
stronzate televisive, credono che i cantanti siano dei profeti, vivono di miti e di storie leggendarie.
Grazie al motore dei mass media, anche il più gran demente troglodita di tutti i tempi, con un po’ di
pubblicità, potrebbe reincarnarsi in un eroe. Non hanno capito veramente un cazzo che siamo
quotidianamente presi per il culo. Sono tutte un oceano di minchiate per sfuggire alla semplicità
della realtà. Si cerca di gonfiare e di complicare ogni cosa pur di non ammettere il nostro valore
esiguo: siamo nati da una fusione di spermatozoi e ovuli e spariremo sotto forma di terriccio. Che
disgusto!
Il danno principale è che nessuno guarda la verità a trecentosessanta gradi. Anche di fronte
all’evidenza chiunque sarebbe capace di negare il lerciume che li sovrasta. Noi non siamo altro che
una valanga di carne in putrefazione, destinati ad accumularci alla rinfusa, per decomporci e sparire
senza disturbo. Il mio è un concetto globale, non dico le mie parole solo perché vivo in questo paese
di bifolchi. Se fossi vissuto in città, mi sarei sentito comunque solo. Sono le persone in generale che
vivono con i paraocchi: aspettano ansiose che venga una svolta nella loro vita che in realtà non
giungerà mai. Si finge di essere inconsapevoli. L’unica certezza alla quale non potranno mai
sfuggire è la morte. Nel frattempo trascorrono le loro giornate improduttive, tentando d’ingannare la
noia; ed intanto, con rapida lentezza, invecchiano. Poi, all’improvviso gli capita di osservare il loro
immane declino, o mediante un confronto, oppure tramite un resoconto personale; quindi cadono in
preda allo sgomento. Ma l’afflizione è passeggera, di breve durata, perché il tutto immediatamente
viene gettato via come urina. Mi è capitato di sentire, in un documentario, che gli animali sono
ignari all’esistenza del decesso. Pertanto noi umani, in questo aspetto, possediamo lo stesso
comportamento delle bestie. E meno male che la marcia in più dovrebbe essere proprio la capacità
di elaborare dei pensieri ragionevoli. Sono alla stregua di camaleonti, pipistrelli, rinoceronti, ecc..
Che massa di zombie. Non esiste la riflessione in proprio. Ma santo Dio, io quando ricevo un imput
da una fonte esterna, primo lo elaboro sulla base delle ideologie e le sensazioni che improntano il
mio carattere, dopodiché ne rilascio un’opinione più o meno modificata, rispetto a quello che mi è
stato inviato. Il resto dell’universo no, fa esattamente il contrario: assorbe l’input e lo restituisce al
mittente senza alcuna modifica. Che gente inutile, vatti a stare una vita con tanta feccia.
Riccardo mi venne vicino, era strafatto, si era imbottito di sostanze più di una mummia. Si
reggeva a stento, poggiandosi sulla panchina: restare in equilibrio era un’impresa alquanto ardua.
Mi squadrò e fece:
<< Ehi Ciro, mi serve la tua mano. Devo mettere in pratica alcuni insegnamenti dei miei
maestri di chiromanzia >>.
Riccardo era un ragazzo biondissimo, sembrava di origini scandinave. Aveva un anno in
meno di me e la sua passione era la musica. Andava al conservatorio e sognava di diventare maestro
d’orchestra. Un lavoro che mi convinceva poco. Secondo me ai maestri d’orchestra gli danno troppa
importanza. Mica è soltanto merito loro quando una melodia riesce. Sono come i vigili urbani:
dirigono indirettamente il traffico, mettendosi al centro della strada, ma se lo scorrimento delle
macchine riesce, gli automobilisti qualche merito lo devono pur avere.
Dato che conoscevo ampiamente i suoi gusti, questo improvviso interesse per la chiromanzia
mi aveva spiazzato completamente. Stava sicuramente delirando. Volli dargli un consiglio:
<< Tornatene a casa, non stai bene. Ti fai troppo, sei incapace di intendere e di volere. Stai
più fumato di un comignolo. È pur vero che anche quando ti trovi in pieno possesso delle facoltà
mentali fai altrettanto pena. Secondo me passi troppe ore al computer; sì, non ci deve essere altra
spiegazione. Il tuo PC ti deve aver trasmesso qualche virus cronico. E toglimi quelle zampe di
dosso, lebbroso che non sei altro! >>.
Era troppo insistente. Due erano le soluzioni: o lo riempivo di botte oppure lo accontentavo.
Scelsi la seconda via, anch’io ero alla frutta.
Mi trattenne per il polso, non mi era ancora chiaro se fosse uno scherzo o se si stesse
cimentando seriamente. Guardò il palmo della mia mano con lo sguardo svampito e
contemporaneamente interessato; pareva che fosse assorto nella consultazione di una cartina
geografica. Con un dito seguì attentamente i solchi presenti, considerò le diramazioni, e poi
espresse il suo verdetto.
<< Caspita! Vivrai a lungo >>
<< Sì, hai ragione, credo che camperò almeno per un altro paio di mesi >>
<< No, ma che dici! Io intendo che supererai i novant’anni. La linea è interrotta a questa età
ma non è terminata. Questo vuol dire che oltre questa soglia cadrai nell’incertezza e il destino sarà
completamente affidato a te. Sostanzialmente, oltre questo punto, non c’è scritto assolutamente
nulla >>.
<< Forse, dato che mi stai di fronte, avrai letto la mano al contrario >>.
<< Ti ho detto che non mi sbaglio, e poi, tengo conto di certi aspetti. Io le lezioni dei grandi
sapienti della magia le ho seguite tutte dalla prima all’ultima. E poi sai quante prove ho fatto? Non
sono mica alla prima esperienza. Ma per chi mi hai preso? Per un novello? >>.
Si stava infervorando. Lo assecondai non esprimendo alcun scetticismo. La diagnosi non era
ancora finita:
<< Mmm… Che strano, c’è comunque un’anomalia che un po’ mi spiazza >>.
<< E quale sarebbe? >>, chissà con quale stravaganza se ne sarebbe uscito.
<< Qua è chiaramente delucidato sul tuo derma: mi dice che hai una grandissima ferita e che
pian piano ti sta debilitando. Sei per caso ammalato? >>
Io sapevo di cosa si trattava. Riccardo non riusciva a capacitarsene, temeva che le sue
previsioni avessero fatto un enorme buco nell’acqua. E invece aveva azzeccato pienamente per
quanto riguardava la lesione d’amore che mi portavo dentro. Sulla longevità era al cento per cento
fuori strada. Poi mi fece la proposta indecente che mi portò all’ebollizione i coglioni:
<< Non sono mai caduto nell’errore, com’è possibile? Non ci credo secondo me tu mi
nascondi qualcosa. Devo assolutamente sapere la verità. Ti devo controllare, devo verificare se c’è
un qualche dolore corporeo che ti perseguita. Adesso taci e segui i miei cazzo di ordini! Lo devi
fare per me, non mi voglio rovinare la reputazione. Togliti immediatamente la maglia e i pantaloni,
ti devo analizzare sin nel minimo dettaglio. Fai finta che ti stai facendo una visita dal dottore >>.
Il cervello si era completamente squagliato, stava diventando autoritario e prevaricatore. Mi
mise una di quelle falangi addosso e si mise a tastarmi come un pianista. Poi cominciò a tirarmi la
maglietta fino a sgualcirmela. Non ci vidi più, con uno scatto della gamba gli sferrai un calcio sui
genitali, con una forza e con una precisione tale che se lo avessi tirato ad un pallone, in una partita
di calcio, sarei riuscito a segnare anche da quindici chilometri di distanza. Riccardo fece un urlo
spaventoso e scoppiò in un pianto convulso. Neanche un fulmine di Giove lo avrebbe così
addolorato. Dalla macchina accorsero tutti per capire quale evento spaventoso fosse accaduto.
<< Ma cosa diavolo gli hai fatto?! >> urlò Andrea terrorizzato.
<< Si è messo a fare il frocio e allora gli ho distrutto i testicoli per farlo tornare donna. In
fondo l’ho aiutato >>.
<< Credo che tu gli abbia fatto male di brutto. Guardate come si contorce >>, constatò
Cosimo con apprensione.
Riccardo era per terra, piegato in due per la sofferenza e con un respiro da moribondo.
Carlo si comportò come un angelo nero, mandato dalla divina provvidenza.
<< Tranquilli ragazzi è tutto sotto controllo, l’invalido tra pochi minuti tornerà nuovo di
zecca. Il ragazzo non ha bevuto troppo, ecco perché sente dolore. Portatemi dell’assenzio razza di
imbranati, altrimenti il mio pronto intervento non può andare in porto. Scattare!! >>
Anche Carlo era ebbro, sprigionava un’allegria un po’ troppo inquietante. Prese la bottiglia
del superalcolico e gliela infilò in bocca, come un biberon.
<< Su da bravo piccolo mio, non fare il bambino monello. Fai come ti dice il paparino che ti
vuole tanto bene >>.
Quel fesso di Riccardo si faceva pure abbindolare come una marionetta. Dopo tre sorsi parve
quietarsi. La medicina evidentemente aveva dato degli effetti immediati. Lo fecero stendere a terra,
vicino a degli alberi, di modo che se si fosse trovato a passare un viandante, non lo avrebbe potuto
vedere. Io rimasi dove stavo, al mio posto, senza rimorsi e non rientrai tra quelli che lo avevano
adagiato su quel letto composto da cemento e residui vegetali. Sentivo i suoi lamenti sia pure
affievoliti:
<< Me la pagherai lo giuro, mi hai sentito! Anche tra mille anni, bastardo che non sei altro!
>>
<< Pensi, tra mille anni, ancora di campare? >>, gli risposi io con voce fiacca.
<< Maledetto! Lasciatemi! Gli voglio rompere il muso a quell’insolente >>.
Dopo questa minaccia non fiatò più. Giovanni mi venne vicino per avvisarmi che si era
addormentato. Andai a vedere il reperto di Riccardo: stava accovacciato su di un lato, con gli occhi
serrati, sommerso in un letargo infrangibile. Si era sporcato la schiena di ramaglia e di foglioline
secche del cipresso che lo copriva dallo sguardo del firmamento. Intanto Cosimo esprimeva le sue
preoccupazioni sulla lettiga dell’infortunato:
<< Ma a furia di stare in quella sporcizia non rischia di prendersi più batteri di una capsula
Petri? >>
Carlo rispose con voce esperta.
<< No, tranquillo è tutta sostanza organica verde. È come se si trovasse in una barella di
compost. Male che vada lo utilizzeremo come fertilizzante >>.
<< Se lo dici tu. A me comunque mi pare igienica tanto quanto una discarica >>.
Mi stavo per far sopraffare di tirargli un altra bella pedata in pancia. Fortunatamente mi
bloccai e mi limitai a fargli una carezza tramite la suola delle scarpe; ne venne fuori una bella
striscia bianca di sudiciume. Era stata una serata abbastanza schifosa, non c’era che dire; mi
congedai prima del dovuto:
<< Pederasti, io per oggi ho finito. A domani, ammesso che viviate ancora! Vi saluto e che
Dio ce la mandi buona, anche bona va bene! >>.
Capitolo 5
Non appena mi avviai verso casa mi colpì un attacco di diarrea: lo stomaco tremolava vittima
di un sisma gastrico; in più avevo un male alla testa che mi faceva temere che da un momento
all’altro mi potesse scoppiare. Meno male che avevo preso la macchina, chissà a quali disagi sarei
andato incontro se mi fossi trovato a piedi; sicuramente avrei digerito per strada. Per dirla in termini
diarroici, in scioltezza raggiunsi la circonvallazione, proprio per procedere con maggiore
speditezza. Intanto le feci procedevano con sicurezza verso il retto. Odio la diarrea perché è
anarchica, decide sempre lei quando bisogna cacare. Non dimenticherò mai quella volta, nella notte
in cui l’Italia vinse i mondiali. Ebbi uno stimolo d’altri tempi, e me la feci addosso come un
neonato. Non rimanemmo in paese, ci trasferimmo in città, in quanto era più movimentata. C’era
talmente tanta gente in quella bolgia che ogni persona aveva a disposizione solo un metro quadrato.
Si poteva solo respirare, camminare, gridare e beccarti o dei gavettoni, oppure delle sbandierate in
faccia. Cosa potevo fare? Defecarmi in silenzio. Ricordo che cominciai a camminare con le gambe
ed i piedi uniti, poi dopo circa un quarto d’ora, riuscii a sgattaiolare dal corteo e raggiunsi un bagno
pubblico. Non esisteva nulla per pulirsi, adoperai allora la bandiera: compii un vero gesto da
leghista. Ovviamente, appena finito il servizio, tornai a festeggiare e la bandiera la gettai in una
fontana.
Anche stavolta trovai un ostacolo alla mia digestione. Ero ad un cinquantina di metri da casa,
mancavano solo un paio di isolati per varcare la soglia. Lo stimolo si faceva sempre più opprimente.
Non poteva andare liscia, lo sapevo, qualcuno mi doveva mettere il bastone fra le ruote. Chi, alle
due di notte, può interrompere il tuo cammino? Un simpaticissimo posto di blocco. Se lo avessi
scorto una decina di secondi prima, avrei avuto l’opportunità di intraprendere un percorso
alternativo. Purtroppo non possiedo la vista di un’aquila; inoltre dovrei portare gli occhiali ma non
so neppure dove li ho riposti. Da quando li ho acquistati, li avrò indossati per circa sei mesi. La
visita della ausl, neanche mi ha imposto di indossarli durante la guida.
Erano finanzieri, la paletta mi indicò che dovevo farmi da parte. Stranamente erano in tre, di
solito agiscono in coppia. Esordirono con l’immancabile formula di presentazione, tipica delle forze
dell’ordine:
<< Buonasera, ci fornisca la patente ed il libretto >>.
Glieli diedi. Mentre porgevo i miei documenti, mi tornò in mente che dovevo rinnovare
l’assicurazione; tra due giorni sarebbe scaduta. In due attestarono la veridicità delle mie carte,
mentre un terzo rimase impalato davanti al finestrino. Cominciò a pormi delle domande:
<< Cosa fai nella vita? >>
<< Studio >>.
<< Cosa? >>
<< Lettere >>.
<< Ma sei fuori corso? >>, gli era venuto un ghigno malefico, sul lato destro della bocca.
<< Sì >>, risposi, << il novanta percento degli studenti va fuori corso, la parte rimanente o si
ritira, oppure si suicida >>.
Non badò alla mia battuta, continuò il suo interrogatorio:
<< Dove abiti? >>
<< Abito in quella casa verde, vicino a quell’insegna che pubblicizza vestiti da sposa >>.
<< Da dove vieni >>.
<< Da lavorare, faccio il cameriere in una pizzeria >>, le bugie mi venivano più veloci del
mio stesso pensiero.
<< Ma ce l’hai un contratto regolare? Lo sai che se lavori in nero il tuo datore rischia grosso?
>>
<< Sì sono in regola, sarebbe impossibile non esserlo. Solo nelle ultime due settimane, i
carabinieri, sono venuti già tre volte >>.
<< Fai uso di sostanze stupefacenti? >>
<< No >>.
Che razza di ottuso. Anche se mi fossi trovato della cocaina nella macchina, avrei negato pure
di fronte all’evidenza. Fui stringato nella risposta. Se mi fossi dilungato in giustificazioni inefficaci,
sia pur veritiere, si sarebbe potuto insospettire.
<< Questo è un controllo antidroga. Puoi uscire dalla macchina? >>
Eseguii gli ordini, a momenti rischiavo di esplodere in una merda pirotecnica. Venne un
mentecatto di cane antidroga, prima ad annusarmi, e poi a controllare gli interni della mia auto,
portabagagli compreso. Il pastore tedesco assicurò ai suoi padroni che ero pulito, rientrai in
macchina esausto.
<< Va bene >>, fece il finanziere malvagio, << A chi è intestato questo veicolo? >>.
Non mi voleva lasciare, pareva che fosse consapevole del mio disagio gastrointestinale.
<< A mia madre >>, codesta frase la sussurrai perché le energie dirette alle corde vocali erano
state richiamate nel mio tubo digerente, di modo che si potesse incrementare la forza di trattenuta
del mio ano.
Finalmente mi furono restituiti la patente ed il libretto e mi fu dato il via libera. A furia di
tenermi sotto torchio, avevano dimenticato di sottopormi al controllo più comune che viene
compiuto dopo la mezzanotte: la prova dell’alcol; ero semi sbronzo, avrebbero potuto incastrarmi a
loro piacimento.
Girai la chiave per ripartire, ma la mia maledetta carcassa, non ne voleva sapere di mettersi in
moto. Forse me l’aveva manomessa il cane. Subito, i finanzieri, vedendo la mia difficoltà, si
avvicinarono come predatori:
<< Che è successo? La macchina non parte? >>
<< No, temo proprio che si sia ingolfata >>.
<< Ah, fai un controllo di tanto in tanto >>.
Potevano spingere il mio rottame per farlo tornare nuovamente alla vita. Invece no, se ne
tornarono a fare il posto di blocco. Intanto stava per calarmi un bel blocco di merda dal culo. La
macchina era accostata, la mia abitazione a due passi. La lasciai lì dov’era ed a passo svelto con una
sofferenza atroce raggiunsi la mia tana.
Davanti al portone di casa, due amanti si sbaciucchiavano; mi venne una voglia matta di
cacargli in faccia. Con uno slalom li superai e piombai dentro. Riuscii appena in tempo a poggiarmi
sulla tavoletta del cesso e poi feci le mie grandi feci nere come ceci.
Entrai nella mia stanza, mi stesi sul letto, tenendo ai piedi le scarpe ed accesi la televisione:
stavano intervistando un attrice che con la sua interpretazione in un film aveva partecipato al
Festival di Venezia.
…Questa parte della missionaria mi ha dato un’energia nuova, è stata un’esperienza
indimenticabile che mi ha davvero arricchito dentro. Mi sento più matura, proprio perché di fronte
alla povertà si recuperano quei valori, ormai caduti in disuso. Il film è molto forte, pieno di colpi di
scena ed incredibilmente realistico. Il regista si è anche intestardito nel voler attuare delle
inquadrature dettagliate e rallentate; il tutto per mettere in luce le scene più salienti e
drammatiche. Se notate bene anche i gesti comunicano delle emozioni indirette molto passionali. È
stato bellissimo, meraviglioso, non esiterei a rifare una recitazione così impegnativa…
Ma guarda un po’ questa sgualdrinella come si è riempita di fumo. Fino all’anno scorso,
girava i film porno ed ora si occupa di pellicole a sfondo umanitario. Ero letteralmente schifato,
questa gente confonde i film con gli avvenimenti della vita reale. C’è anche da sottolineare che
viviamo in una società dove vengono adoperati solo aggettivi. L’importante che si utilizzino termini
come “eccezionale” o “fantastico”, per essere osannato e fotterti una bufera di soldi. Sono tutti della
stessa pasta, tanti fac-simile, etichettati ed incapaci di pensare. Prodotti in serie nella catena
industriale della mondanità. Scommetto che, in un una zona del corpo possiedono un codice a barra.
E poi, gira e volta, sempre gli stessi personaggi si spartiscono il loro ghiotto bottino: chissà che
circuito di raccomandazioni. L’importante è mettersi in passerella e posare come dei manichini.
Fanno un sorriso ipocrita, che sprizza demenza da ogni poro e a fine cerimonia, con molto gaudio,
ritornano a sguazzare nelle loro sporche fastosità. Come diceva Padre Cristoforo a Don Rodrigo, in
un passo dei Promessi Sposi: verrà il giorno… Io potrei continuare la frase sospesa dicendo: in cui
creperete e vi toglierete dalle palle! Non l’invidio neanche, se gli si guarda nel fondale del loro
animo si vede la tristezza che cosparge certe vite monotone. Che gente di merda, tutti i personaggi
televisivi li metterei in un plotone d’esecuzione e li trivellerei fino a farli diventare poltiglia.
Comincio ad ipotizzare che Dio abbia inventato la morte per spalare via la feccia dell’inutilità
umana. È come quando si fa uno scarabocchio con la matita; cosa si fa per togliere il pasticcio di
mezzo? Si prende la gomma e lo si cancella. La doveva pur trovare una soluzione a tanta nullità
mentale.
Spensi la tv, altrimenti l’avrei distrutta. Mi era venuta una fame immane; lo stomaco
rivendicava il diritto all’alimentazione. Aprii il frigorifero ed era più vuoto di una cassaforte
svaligiata: c’era solo acqua da masticare. Lo chiusi e mi guardai un po’ attorno, non ero ancora al
corrente se ci fosse qualcuno in casa. Controllai nella camera di mia sorella e lei, destandosi dal
sonno, mi domandò:
<< Sei tu Ciro? >>
Io con molta gentilezza le risposi:
<< Dormi scorfano, che c’è ancora la bassa marea! >> e me ne andai.
Mia madre, invece, era uscita: aveva una delle sue missioni accalappia uomini. Non aveva
ancora capito che il suo tempo era passato. Da quando aveva divorziato con papà, era scivolata nel
baratro. Ricordo che cadde in depressione e passò circa un mese a letto, dimagrendo di venti chili.
L’unico svago che possedeva era il lavoro, dopodiché rientrava in questa gabbia di matti per
mettersi a poltrire. Era diventata un’inetta. Possedevano più funzioni i quadri che adornavano le
nostre pareti. Se non ci fosse stato il legame affettivo che lega una madre ad un figlio, l’avrei presa
e sbattuta a calci fuori di casa. Poi decise di reagire e cominciò a cercare un surrogato di suo marito:
in chat conobbe un paio di uomini che si rivelarono solo dei maiali e che erano interessati solo al
sesso. Ma dico io, santa donna, basta guardare un attimo un uomo per capire qual è il loro grado di
degrado; non ci vuole molto nel leggere ed interpretare la corruzione che trabocca dal volto di un
individuo! Del resto è un difetto che possiedono tutte le donne: sputare giudizi impropri, sia positivi
che negativi. Non c’è verso, sbagliano sempre. Non osservano in un uomo la capacità di trasmettere
affetto o le attenzioni che questo è capace di offrirgli. Per loro l’unica cosa che conti è la capacità di
farle evadere dalla routine quotidiana. Ecco perché esistono casi di vecchi rammolliti che si beccano
femmine sfavillanti. Talmente belle che persino al buio le si riuscirebbe ad apprezzare, come se
fossero fosforescenti. Le donne sono senza dignità: ma come si fa a scopare con un rincitrullito che
puzza già di decomposizione?! Ma come si fa anche a starci insieme! Non hanno alcun pregio, sono
brutti, ammuffiti, pallosi e di cattivo umore; scaduti come il latte avariato. Se penso a tutti quei
porci gasteropodi che stanno insieme con ragazze della mia età, mi faccio prendere da una rabbia
convulsa. È mai possibile che un ragazzo come me, bello, giovane, dolce e sensibile debba ridursi
allo sfascio perché non è in grado di raccattare un briciola d’amore? Inoltre sono ossessionate
dall’incubo di dover rimanere zitelle, per loro il maritarsi e ed avere un figlio, diventa uno status
simbol. È come l’automobile per gli uomini: chi non raggiunge certi traguardi deve rimanere fuori,
è una perdente.
Per questo vaffanculo pure a mia madre, crepasse: hai sposato un bastardo egoista, adesso ne
paghi le conseguenze.
Mi prese un colpo perché il mio cellulare vibrò, manco se fosse stato impossessato. Guardai
sullo schermo luminoso la scritta “Luca”. Egli era uno dei tanti amici che deprimevano la mia
esistenza. Aveva una voce inconfondibile, sempre rauca. Era pur vero che si fumava un pacchetto di
sigarette al giorno ma le sue corde vocali pareva si fossero impiastricciate di catrame. Quando
parlava al telefono, o in qualche strumento dotato di microfono, le sue parole sembravano
pronunciate dall’etere; come se ci fossero state delle continue interferenze che disturbavano la
comunicazione. Egli studiava presso la facoltà di biologia, però la sua concentrazione, direi quasi
devozione, era incessantemente rivolta allo sport: sia come spettatore che come praticante.
Acquistava ogni giorno la Gazzetta dello sport, per andare a spulciare tutte le notizie, anche quelle
più insignificanti. Sapeva a memoria le formazioni di A, B e prima divisione. Dei giocatori della
massima serie conosceva persino quale marca di scarpe portassero.
Naturalmente, tra agosto e settembre, cioè poco prima che cominciasse il campionato,
svolgeva i suoi oneri da maniaco fanatico: fare l’abbonamento allo stadio, iscriversi al Fantacalcio,
oltre che l’avvio ad un’infinità di scommesse che dilagavano anche in altri sport, come: tennis,
corsa dei cavalli, basket, pallanuoto, pallavolo ecc.. Mancavano solo delle puntate in denaro sul
Monopoli o lo sciangai.
C’era però una passione che prediligeva più delle altre: il Milan. Guai se i rossoneri subivano
una sconfitta: cadeva in uno stato di prostrazione sino alla vigilia di una nuova partita. Io, lo giuro,
l’ho visto in lacrime dopo la débacle contro l’Inter; minacciò addirittura di tagliarsi le vene. Era
completamente esaurito, neanche con il ricovero lo si poteva guarire. Non so poi come si faccia a
seguire una massa di ignoranti che vengono strapagati solo per svolgere un esercizio fisico.
Non era difficile indovinare il motivo della sua chiamata, risposi:
<< Pronto? >>
<< Ciao, sono Luca, ti disturbo? >>
<< No mi masturbo. Porca di quella cavalla di troia, sono tre del mattino! Ma dove cazzo vivi,
in Antartide?! >>
<< Ti chiamo a quest’ora perché ti devo parlare di una faccenda urgente. Lo sai che io mi
occupo solo di affari importanti >>.
Chissà quale argomento fascinoso avrebbe trattato.
<< Di che si tratta? >>
<< Sto organizzando una partita con quei fetenti di N***. Sarà una sfida all’ultimo sangue.
Non puoi dirmi di no, ci serve un centrocampista centrale che smisti dei palloni calibrati per gli
attaccanti. L’ultima volta, senza di te, abbiamo perso di sei gol. Fu una disfatta, stavo per ritirare le
truppe dal fronte e ordinai di continuare solo per amor di patria. Ho quindi bisogno di una rivincita.
Non hai nemmeno l’idea di come sono stato massacrato d’insulti. E continuano a farlo; è circa un
mese che vengo deriso. Ma adesso basta è arrivato il momento di pareggiare i conti. Preferisco la
morte piuttosto che subire queste contumelie >>.
La mia reazione fu come la diarrea fatta poco prima: non esisteva la possibilità di bloccarla.
<< E tu mi chiami a questo schifo di ora per organizzare una maledettissima partita di calcio?
Ma sei matto?! La colpa è di quelli delle compagnie telefoniche che rendono possibili certe follie.
Dalle dodici di notte in poi, dovrebbero disattivare il servizio. D’accordo vengo, basta che te ne
torni a letto! Alle tre anche i vampiri riposano! >>.
<< Grazie Ciro, ti prometto che li distruggeremo. Sto mettendo su una squadra invincibile.
Sarà una vittoria storica, il nostro trionfo verrà menzionato anche nelle enciclopedie, di modo che,
mediante i posteri, le nostre imprese potranno rimanere intatte anche nei millenni >>.
Luca aveva reso le partite di calcio delle vere e proprie battaglie epiche. Pareva che si stesse
preparando per la guerra del Peloponneso. Bisognava ammirarlo negli spogliatoi: si avvicinava ad
ogni giocatore per incitarlo psicologicamente; in realtà non faceva altro che incrementare il loro
nervosismo. Una volta mi abbracciò, dandomi dei baci abbastanza ambigui e con l’esaltazione di
uno squinternato, mi incitò (o eccitò) dicendomi: “dai caro, o la vittoria o la vita!”. Se nel prepartita
si lasciava andare a questi riti equivoci, in campo diventava un autentico generale: non stava mai
zitto, era un vociare continuo, ti dava indicazioni anche sulla corsa o su come stoppare il pallone.
Guai se sbagliavi un passaggio o un tiro; si infuriava dicendoti “che cos’hai fatto?! Quello era un
gol sicuro! Un’occasione così non capiterà mai più!”. Credo che avessero una maggiore libertà i
giocatori di un videogioco. E’ vero che venivano comandati da un joestik, ma per lo meno non
dovevano ascoltare il vociare di un dittatore calcistico.
Chiusi la comunicazione, senza un “ciao” o un “a presto”, per non ascoltare quella voce
scartavetrata. Come precauzione spensi il cellulare. Meglio essere prudenti, poteva richiamare da un
momento all’altro. Certa gente più la si evita, meglio è. Si era così insediata, la paura di quel
paranoico che, per aumentare le precauzioni, staccai la spina anche al telefono di casa. Quello
schizoide era capace di tutto: anche di venire a citofonarmi sotto la mia dimora.
Tornai a letto con un macigno sulla testa. Appena provavo a chiudere gli occhi, mi veniva una
nausea esorbitante. Ero preoccupato per mia madre. Come caspita era che non si fosse ancora
ritirata? Senza rispetto, lei faceva i comodacci suoi. Con la scusa della sua fragilità emotiva, andava
e veniva quando voleva. Che stronza, non si era presa la briga nemmeno di avvisare. Uno potrebbe
venirmi a rinfacciare che io mi comportavo allo stesso modo; ti credo, in una famiglia dove regna
l’anarchia che senso ha rispettarsi a vicenda? Se non ti dà il buon esempio tua madre, chi cacchio te
lo deve dare? Occorrerebbe stendere un velo pietoso su mia sorella Alessandra; lei è campionessa
mondiale di menefreghismo. È una sfaticata senza un briciolo di sensibilità, fa la maestra
elementare ed odia i bambini. Si lamenta sempre, frigna come un pinguino e racconta a mia madre i
suoi problemi, risolvibili anche con una scoreggia. Nel weekend sparisce senza lasciare una traccia,
nemmeno un investigatore riuscirebbe ad individuarla. Si cambia, come un abbonamento, un
ragazzo al mese e di tanto in tanto fa qualche servizio domestico svogliatamente. Ma la cosa che mi
manda più in bestia è che si dimentica di spegnere le luci. Mi verrebbe voglia di prenderla a testate.
Va in bagno, si sta quelle due tre ore, dopodiché, va via e chiude la porta con la stanza ancora
illuminata. Questa anomalia si verifica anche di mattina. L’ho rimproverata più volte, ma lei niente;
da un orecchio gli entra e dall’altro gli esce.
Per lei apparire è l’unico obiettivo della vita, va sempre vestita sgargiante, con abiti firmati
che per carità, le conferiscono un bell’aspetto ma porco cane costano quanto un computer. Ecco
quale destino hanno i soldi del suo stipendio: direttamente scialacquati nella discarica dello spreco.
È rimasta intrappolata nell’adolescenza, non crescerà mai. È assolutamente impossibile che riesca a
maturare, con la vecchiaia sarà capace solo di marcire. Possiede più neuroni il forno a microonde.
E’ solo un fantoccio che non capirà mai che la vita è solamente un continuo strisciare nella melma.
Mi auguro che vada via di casa il prima possibile; se la rapissero mi farebbe anche piacere.
L’importante che si tolga di mezzo.
Ma ci fu un giorno che mi fece venire un raptus assassino. Erano le nove di sera e doveva
uscire con non so chi. Come al solito si barricò nel cesso per imbellettarsi. Anche a me serviva il
bagno, per un semplice bisogno fisiologico. La supplicai di farmi entrare ma era diventata muta.
Non ce la feci più ad aspettare e fui costretto a farla nel lavabo.Venne fuori, dopo parecchio tempo,
agghindata come una divinità. Io entrai nella toelette perché mi dovevo lavare i denti, quando, con
mio immenso disgusto, non solo vidi che aveva lasciato i contenitori dei suoi trucchi in bella vista
ma addirittura c’era un suo assorbente insanguinato per terra. Fu la goccia che fece traboccare il
vaso: la presi per capelli e la riempii di pugni e di schiaffi sulla schiena. Lei più continuava ad
invocarmi di smettere e più io la picchiavo. Le sue suppliche erano direttamente proporzionali alla
mia voglia di distruggerla. Infine svenne per il dolore. Chiamai mia madre per dirle il guaio che
avevo combinato e me ne andai sbattendo la porta. Divenne ricolma di ematomi, come se l’avessero
centrifugata. Ogni qualvolta le nostre strade s’incrociavano, abbassava gli occhi come una suora di
clausura. Per un pelo non fui denunciato. Mi risparmiarono il carcere solo perché sapevano che ero
una persona molto disturbata. Secondo loro, la detenzione sarebbe stata una mazzata che non avrei
mai retto.
Con mio immenso sollievo mia madre rientrò. Fece un frastuono colossale con quei maledetti
tacchi; avrebbero fatto meno casino gli zoccoli dei cavalli durante il palio di Siena. Si mise a lavare
i piatti e trascinò sedie e tavoli, manco se stesse compiendo un trasloco. Poi finalmente andò a
riposare. Aveva sicuramente passato una serata di merda; i servizi a quell’ora erano solo un pretesto
per smaltire le scorie di un altro appuntamento andato a male. Si sarebbe confidata più in là con
quel microcefalo di Alessandra. Chissà quali pensieri profondi avrebbero espresso. Io, ovviamente,
ne ero escluso e tutto sommato mi faceva piacere. Non era roba per uomini; soltanto le donne si
capiscono e si comprendono, reciprocamente, nelle loro minchiate.
Più passa il tempo più mi convinco che le donne hanno lo stesso cervello delle meduse.
Ragionano con i paraocchi. Non concepiscono un fuori programma, la loro vita è già prestabilita
come un menù: a dodici anni danno il primo bacio, a sedici si fanno la prima ficcata, dai diciotto ai
trenta si danno al divertimento, dai trenta fino ai quaranta fanno e crescono i figli, dopodiché la loro
vita è finita e se ne vanno in depressione. Quindi dai quarant’anni in poi si sentono continuamente
insoddisfatte e rimpiangono il passato. Iniziano a fare paranoie sui porci dei loro mariti o compagni
che non le capiscono e non le stanno vicino. Con questa attenuante si cercano la scusa giusta per
andarsi a cercare un amante da trombare. È una storia già vista che continueremo a vedere. Per
quanto mi riguarda l’azione migliore che possono fare e sfracellarsi in un burrone. Con la vecchiaia
diventano delle totali nullità e simili a dei trans. E sì perché, mentre noi uomini, col tempo, siamo
solo destinati ad invecchiare; per le donne c’è un ulteriore tappa da seguire: con la senilità, e quindi
con la menopausa, prima si trasformano in maschi e poi diventano anziane. Non sto dicendo
un’idiozia, è per il semplice motivo che subiscono un decremento degli ormoni sessuali femminili.
Non è perciò un caso se il maschio preferisce la fica giovane.
Caricai la sveglia accoppa-sogni, per farmi resuscitare all’alba del giorno dopo. A furia di
pensare a Loredana mi appisolai alle quattro e trenta. Nemmeno la fase REM riuscii a raggiungere.
Capitolo 6
Una settimana dopo mi recai da Andrea. Aveva una casa enorme, in stile antico; somigliava
moltissimo ad un castello. Il giardino era cosparso di verde. Ci si poteva muovere soltanto
percorrendo un sentiero in pietra, perché eravamo circondati dalle aiuole bagnate dagli annaffiatoi.
Nel bel mezzo di uno spiazzo una fontana zampillava: c’era una statua di una Venere del Botticelli;
però un versione maschile che da un anfora spruzzava dell’acqua, che finiva in un vasta piscina. In
una reggia del genere mi sarei aspettato qualche cane da guardia killer tipo: dobermann o pitbull.
Invece tutto era tranquillo, nessuna bestia feroce si trovava nei paraggi. Per accedere all’interno,
salimmo un paio di scalini in marmo. Nell’androne vi poltriva un signore anziano, ben vestito.
Sembrava un maggiordomo o una sentinella in pensione. Ci fissò con aria di sospetto e ci chiese:
<< Chi siete? >>
<< Nonno, sono io, Andrea >>
<< Ma ce l’avete il lasciapassare? >>
<< Sì, siamo apposto >>
<< Ah bene, allora andate signori. Ricordate che avete solo un’ora per sbrigare le vostre
faccende. Dopodiché sarò costretto a prelevarvi; sia pure con la forza. I comunisti ci stanno alle
calcagna. Maresciallo li lasci andare >>
C’incamminammo; Andrea mi spiegò che suo nonno aveva qualche rotella fuori posto. Era
malato di morbo d’Alzaimer:
<< Lentamente ha smarrito il senso dell’esistenza, in quest’ultimo anno si è aggravato. Ogni
giorno cambia mestiere e carattere. Oggi per esempio sta di guardia, ieri credeva di essere un
professore di diritto ecclesiastico e mi dovetti sorbire una sua fantomatica illustrazione dal peccato
originale ad oggi. Due palle così. Spero che muoia, almeno finisce questa pagliacciata >>.
L’interno della casa era pieno di fregi, perlopiù costituito da vasi di terracotta. C’era persino
un’armatura medievale che poteva benissimo essere impossessata da qualche fantasma di passaggio.
Sinceramente mi dava una strana sensazione tutta quell’atmosfera arcana. Oltrepassammo un’arcata
in pietra e raggiungemmo il soggiorno; era spazioso e illuminato da delle lampade, poste
lateralmente, che simulavano dei candelabri. C’erano appese alla parete delle fotografie in bianco e
nero: in una di esse c’erano delle persone, dovevano essere una trentina, disposte su tre file, che
stavano in posa. Ai bordi della prima fila c’erano due cavalli che non parevano interessarsi
all’obiettivo. Mi avvicinai per leggere la targhetta argentata che spiccava sull’immagine
monocromatica. La scritta, avente dei caratteri molto fini in maiuscoletto, diceva: cooperativa M***
1956.
Andrea mi disse di attendere un attimo perché si doveva mettere in ciabatte. Io sedetti su una
poltrona rifinita in legno. Non c’era nessuno in casa; per tale ragione, con molta discrezione
raggiunsi il pianoforte, che da un pezzo aveva attirato la mia attenzione. Adoro gli strumenti
musicali, ogni qualvolta ne vedo uno, sono subito attirato. Mentre mi stavo avviando, sentii un lieve
fastidio sui talloni. Era un gatto di razza Korat che mi stava facendo le fusa. Io mi chinai per
accarezzarlo. Non l’avessi mai fatto; quel figlio di puttana tentò di morsicarmi con quei dentacci
affilati e forse, per gioco, cominciò ad attaccarmi. Si avvinghiò ai pantaloni e con le zampe tentava
di provocarmi dei graffi. Scossi la gamba ma il felino non mollava la presa. Ero anche
impossibilitato dal poter adoperare le mani, altrimenti me le avrebbe massacrate di raschi. C’era un
solo modo per sbarazzarsene: servirsi della violenza. Presi una sedia, bella pesante, e me la scagliai
sullo stinco, dove stava abbarbicato l’animale. Gli colpii il cranio. Si sentì un rumore compatto,
forse di ossa rotte ed il gattaccio cadde esanime, come preso da un’ipnosi. Chi lo sa, forse era
morto, in effetti avrei potuto infierirgli un colpo un po’ più moderato.
Mi dovevo sbarazzare del corpo, il delitto andava celato. Lo raccolsi e lo nascosi sotto un
divano; nessuno avrebbe potuto sospettare di me.
Venne Andrea in ciabatte e vestaglia. Quell’abbigliamento un po’ mi stupì:
<< Sembri un gentiluomo inglese. Scusa, ma se tra un po’ dobbiamo uscire, valeva la pena
conciarsi in quel modo? >>
<< Mi sento più comodo, tanto non è che ci voglia molto per tornare in abiti civili >>.
<< Se lo dici tu >>.
Andrea non aveva fatto in tempo a sedersi che subito si rimise in piedi.
<< Ma dove sarà finito il gatto? Devo dargli da mangiare, aspettami un attimo che vado a
rintracciarlo >>. E andò via.
Proprio ora doveva cercare il gatto. Se lo avesse trovato stecchito si sarebbe messo a fare
storie. Mi poggiai con i gomiti sulle ginocchia a disperarmi. Mentre rimuginavo i miei errori, fui
assalito alle spalle dal felino che evidentemente non era morto, e fui ferito sul collo. Dunque forse
era vera la legenda popolare che i gatti possedevano nove vite. Ebbi un riflesso fenomenale: riuscii
ad acchiapparlo con una mano, aprii il finestrone e lo scaraventai nel vuoto. Ovviamente il farabutto
seppe attutire la caduta e immediatamente si rimise in posizione eretta. Rimase a fissarmi dal basso
verso l’alto, con un atteggiamento di presunzione, che quasi mi stava per far venire la voglia di
raggiungerlo e massacrarlo. Ci odiavamo, saremmo rimasti nemici per sempre. Io con un gesto di
sfida gli gridai:
<< Che cazzo vuoi? Vieni su che ti squarto a morsi, pezzente! >>
Dal balcone vidi Andrea con una scodella che gliela porgeva al gatto.
<< Eccoti Rambo! Sempre in giro stai! Chissà quante ne vedi durante la giornata! >>, poi,
volgendo lo sguardo verso di me, con l’aspetto sereno, mi domandò:
<< Ti piace il mio gatto? Se vieni giù, potete fare conoscenza >>.
<< No grazie, sono allergico al pelo dei gatti >>.
Se avessi avuto una pietra gliel’avrei scagliata per fargli andare il cibo di traverso.
Rambo si tuffò nel pappone e, con molta ipocrisia, dimenticò l’alterco venutosi a creare poco
prima tra noi. Possibile che dalla botta che gli avevo inferto ne era uscito indenne? Possibile che
non gli avevo provocato neanche un’emorragia cerebrale? Forse dovevo attendere solo un po’ di
tempo, per vederlo stramazzato a terra.
<< Vai nella mia stanza, che ti raggiungo tra un minuto. Fammi saziare questa peste e sono
subito da te >>.
<< Ok >>, risposi e rientrai al coperto.
Arrivato a destinazione, attesi il padrone di casa, poggiandomi sul davanzale ed osservando
l’esterno con l’avvilimento di un galeotto.
La camera di Andrea, dato che si trovava ad una ventina di metri d’altezza, permetteva di
poter spaziare con gli occhi. Tra i vetri c’era il panorama della solitudine della campagna: il cielo
ospitava gli ultimi spicchi di sole. In lontananza un’antenna televisiva, di dimensioni titaniche,
stonava l’ambiente incontaminato. C’era una villetta bianca con le persiane rosse e due case di
rustiche dismesse. Qualche macchina passava dalla provinciale. Oltre un certo punto non era
possibile vedere, l’asperità del territorio non lo permetteva. Il vento si lamentava e l’inverno
cominciava a muovere i primi passi: noi ci coprivamo di indumenti e gli alberi, all’opposto, si
svestivano del fogliame.
Finalmente il mio amico ritornò e si venne a sedere sul letto. Io gli chiesi:
<< Ma i biglietti per Vasco li hai comperati? >>
<< Li ho prenotati, da circa sei mesi. Se ci si riduce all’ultimo, stai tranquillo che il posto non
lo trovi nemmeno nel cesso dello stadio >>.
<< In quanti dovremmo essere ad andare? >>
<< Siamo in sette. Non vedo l’ora di recarmi e venerare il grande profeta della musica
italiana. Lui sì che ha capito come va la vita e soprattutto come va affrontata. Siamo degli autentici
Vascolizzati >>.
Era giulivo Andrea, l’eccitazione lo percorreva come una scossa elettrica e l’aveva mandato
in estasi. Parlava con un ghigno, liberato da un’autentica emozione. Io fissavo quel suo naso
aquilino che pareva si volesse distaccare dal resto della faccia. Era talmente pendente che lo si
sarebbe potuto utilizzare come salita per il giro d’Italia. Con quel viso da teppistello ti dava
l’impressione che ti stesse perennemente prendendo per i fondelli. Anche in quegli istanti di pura
sincerità risultava poco convincente. Io, per quanto ci provassi, non è che fossi preso dal delirio di
Vasco Rossi. Andavo a vedere la sua esibizione solo perché non avevo nulla da fare. Sempre meglio
che starsi in casa era. Sostanzialmente recitavo la parte del fan sfegatato ma a me nulla interessava.
Io pensavo solo ed esclusivamente a Loredana; il resto passava in ombra.
Andrea accese la luce per evitare che rimanessimo al buio.
Una mosca svolazzava sopra le nostre tempie. Zigzagava quasi con frenesia, forse era alla
ricerca di qualche alimento. Supposizione svanita, in quanto il suo unico obiettivo aveva una
differente finalità. I suoi volteggi erano circoscritti tra me ed il mio amico, pareva che ci fosse un
campo magnetico che le impediva di spostarsi altrove. Eravamo, tutte le volte che si posava su una
parte del nostro corpo, costretti a sbracciarci con rapidi movimenti, per lo meno per tentare di
spaventarla. Sembravamo, con quei sussulti fulminei, dei cacciatori di pulviscolo. Dato che l’insetto
seccante aveva preso troppe confidenze, Andrea decise di eliminarlo. Prese un giornale, riposto
nelle viscere di uno scaffale, lo avvolse su se stesso ed ottenne una clava di carta. Appena la mosca
poggiò le sue zampette sul muro, l’esecuzione scattò subitanea. Rimase stecchita alla prima
mazzata. Purtroppo, per scongiurare un problema, se ne venne a creare un altro ed anche abbastanza
spiacevole. La parete infatti, con l’uccisione del povero esapode, rimase dipinta dalle sue budella.
Era diventata una pennellata, composta da acquerelli rivoltanti: un nero tendente al giallo,
riproduceva il fossile di una vita stroncata all’improvviso.
<< Dannazione! >>, sbraitò Andrea, << e adesso come faccio a pulire questa sgommata di
morte? >>
Estrasse dalla tasca della vestaglia un fazzoletto bisunto e accartocciato, che ricordava molto
una conchiglia, e si cimentò con dedizione per rimuovere la macchia dello spappolamento.
Fu un’operazione vana che non fece altro che allungare la piccola chiazza organica.
Strofinava con forza ma l’unico risultato positivo che rinvenne fu un leggera perdita d’intensità di
colore della traccia del delitto. A quel punto il mio genio si fece spazio:
<< Sai cosa dovresti utilizzare? Dello spirito >>.
<< Non credo d’averlo, e poi c’è il rischio di inumidire l’intonaco e portalo definitivamente
alla rovina >>.
<< Allora utilizza una gomma >>.
<< Bah, la gomma, che consigli stupidi che dai >>.
<< Deficiente, se nemmeno provi, non potrai mai sapere se ti ho detto una cazzata o no >>.
Si fece silenzioso, rovistò in un cassetto ma non trovò nulla. Per tale ragione uscì dalla stanza
e dopo un paio di minuti, ritornò con una gomma così ingrigita, che pareva l’avesse estratta da una
miniera. Abbisognava di una pulizia sfregante. Il fesso si era già rimesso al lavoro per rimediare al
danno commesso; non aveva capito che agendo in quel modo, avrebbe innescato una catastrofe di
entità maggiore. Fortunatamente lo bloccai in tempo:
<< Aspetta! Prima di agire, fai sparire la fuliggine che ammanta la gomma. Se la applichi tal
quale, rischi di creare un murales di sporcizia >>
<< Hai ragione >>.
Prese un taglierino e limò le sei facciate della gomma, riducendola di dimensioni. Quindi
passò all’azione. Dopo una decina di passate la chiazza rimase viva solamente nei nostri ricordi.
<< Strabiliante! Non credevo che la gomma possedesse degli altri poteri. Bisognerebbe
rivalutarla e non relegarla alle semplici mansioni di pulisci-scrittura >>.
<< Che vuoi fare adesso, il sindacalista degli oggetti da disegno? >>
<< No, ma se un utensile può avere degli impieghi alternativi, perché non fargli sbocciare
queste sue potenziali propensioni? >>
<< Tutti gli aggeggi hanno delle funzioni celate. Un bicchiere lo puoi utilizzare come un
water portatile, con una penna puoi infilzare uno che ti sta sulle scatole. Anche tu, inconsciamente,
hai assegnato a quella rivista, che ora giace abbandonata nella spazzatura, un compito diverso. L’hai
infatti trasformata in un manganello spappola mosche. Potresti servirti della saliva per lavarti,
oppure della cacca da impiegare come gel per modellare i tuoi capelli ribelli. In questo caso però si
presenterebbe l’ostacolo del fetore perenne >>.
<< Adesso che ci penso, potrei adoperare le caccole del mio naso come adesivi >>.
<< Bravo! Hai visto che anche tu sei dotato d’inventiva? Io ti consiglierei di usare il tuo ano
come portapenne >>.
Come al solito lo scherzo stava degenerando.
Eravamo sfaccendati e quindi avevamo bisogno di un passatempo prima di poter andare
incontro agli altri compagni. Eravamo a secco di argomenti e la noia era sempre in agguato a
tenderci qualche tranello. Il silenzio tuonava il preavviso di un immediato straripamento di tedio.
Mi stavo spazientendo; tutte le volte che andavo a trovare un amico, la trama della giornata
sconfinava nell’incapacità di trastullarsi. Solitamente si finiva col diventare malinconici e col
respirare tramite sospiri. La prossima volta che riceverò un invito, voglio che mi venga consegnato
un programma che riporti, chiaro e tondo come sono scandite le ore da trascorrere.
Andrea tentava di ingegnarsi per evitare che rimanessimo ibernati nella nostra inerzia. Con un
pretesto, abbastanza penoso, volle introdurre l’attività che avremmo dovuto intraprendere:
<< Ehi Ciro, tu che sei perennemente sveglio ed hai anche una buona memoria, te ne intendi
di puzzle? >>
<< Puzzle? >>
<< Sì, ne ho uno da diecimila pezzi, ma sono ancora in alto mare. Che ne dici se uniamo le
menti per comporlo? >>
<< D’accordo, possiamo provarci >>.
<< Seguimi >>.
Andammo in una stanza vuota che fiancheggiava il terrazzo. Sembrava in fase di costruzione
perché c’erano i mattoni forati in bella vista. Faceva un po’ freddo però non era insopportabile. Per
terra c’era un puzzle pieno di vuoti, talvolta piccoli, talvolta somiglianti a delle vere e proprie
voragini. L’immagine che si stava formando era una donna in topless, con il sedere in bella vista
che si strusciava il manubrio di un harley.
<< Che mi venga un colpo! Questo sì che è un puzzle da sballo! Io, se mi fossi trovato al tuo
posto, non mi sarei dato pace per terminarlo. E poi, subito dopo, me la sarei inchiappettata a dovere.
Che bambola! Mamma mia che schianto! Mettiamoci immediatamente al lavoro! Questa biondina
bavosa deve tornare a mostrarsi in tutto il suo splendore! >>
Andrea prese un sacco enorme e svuotò nei miei pressi una valanga di quadretti colorati e
dentati. Poi esclamò:
<< Guarda quanti sono, è pure esigente questa maledetta troia! >>
Ci mettemmo al lavoro, era un’impresa impossibile: non c’era un pezzo che combaciava con
l’altro. Ogni volta, prendevo un pezzo, ma l’incastonatura risultava vana. Quelle semplici
operazioni mi condussero al calvario d’amore. Allo stesso modo io cercavo invano di rintracciare la
mia anima gemella: una metà perfetta che ci permettesse di completarci a vicenda. Quante volte mi
ero cimentato in tale impresa. Finora c’era stato soltanto il buio assoluto. Solo Loredana mi aveva
abbagliato con la sua speranza. Era infatti solo un abbaglio; un’illusione prodotta da una
convinzione, dedotta dalla mia immaginazione. Magari era come una di quelle tante tessere che ti
danno l’impressione d’incastrarsi alla perfezione ma che poi, in realtà, si smussano l’una con l’altra,
ferendosi reciprocamente. Che rottura! Nemmeno un passatempo poteva darmi pace. Anzi, il mio
disagio si era dilagato come l’universo.
Ci stancammo di dover risolvere una composizione, sia pure gradevole ma quasi impossibile,
per i nostri cervelli maciullati dall’alcol e dalla droga. E poi io, per quei rompicapo assolutamente
scoccianti, non sono portato. Molti dicono che servono per misurare l’intelligenza di un individuo.
Tutte frottole. Così come reputo una grandissima balla che, chi ha un elevato rendimento scolastico,
sia una persona intelligente. È un’emerita stronzata, in quanto uno che è bravo negli studi, ha un
elevato grado di concentrazione. E chi ha un elevato grado di concentrazione è incapace di distrarsi.
E chi è incapace di distrarsi è dotato di poca fantasia. E chi ha una scarsa fantasia è mentalmente
rigido, quindi un totale demente. Magari potrei affermare che chi ottiene dei voti elevati, a scuola o
all’università, è bravo in una delle tante discipline dell’intelligenza. In realtà il concetto
d’intelligenza è molto ampio: abbraccia una moltitudine di settori ed è quasi impossibile che uno di
noi sia dotato di tale capacità. L’intelligenza è come lo sport. Perciò dire che uno è un genio, solo
perché possiede un’elevata efficienza nell’apprendimento, è sbagliato. È come se si affermasse che,
se uno è un fenomeno nella corsa, debba essere anche bravo nel nuoto, nella scherma, nel ping
pong, ecc.. La verità è che siamo indotti dal luogo comune ed abbiamo un concetto molto relativo di
quello che ci accade intorno. Non siamo in grado di spaziare con la ragione e rimaniamo incapsulati
nelle nostre ideologie sbagliate. Ci muoviamo soltanto nella realtà formata dagli eventi che ci
capitano e la estendiamo al resto del genere umano. Questo ci fa dimenticare di immedesimarci
nell’altro. Ecco perché non ci evolveremo mai. E poi l’intelligenza è genetica: se non la possiedi,
potrai studiare come un eremita, ma sempre idiota rimarrai.
Anche Andrea appariva stremato, neanche la bellezza della raffigurazione gli dette la forza di
terminare quel mosaico pre impostato.
<< Basta, mi sono rotto. Ciro andiamo un attimo in camera mia; ti devo mostrare un video
rivoltante che mi ha inviato un mio amico su facebook. Ti farà passare la voglia di mangiare per il
resto dei tuoi giorni >>.
Se è per questo erano anni che non conoscevo la parola fame. Ero sempre a stomaco vuoto e
mi saziavo ingollando aria.
Tornammo nuovamente in camera, dove c’era il computer perennemente acceso, sopra una
scrivania marrone scuro. Una volta connessi in internet ed entrati su facebook, il filmato poté
partire: si trattava di un uomo, a torso nudo, girato sulla schiena, che si faceva scoppiare un brufolo
o una cisti, da una ragazza con un camice medico. Ne usciva una valanga di pus che somigliava
moltissimo ad un’eruzione vulcanica albina. Questa porcheria si perpetuava per una decina di
minuti ed era intervallata, ogni tanto, dall’applicazione di ovatta, sulla quale c’era, spero per il
paziente, del disinfettante. Ecco a cosa serviva internet: a desensibilizzare la gente di fronte al
dolore. Ecco a cosa vanno dietro le nuove generazioni. A questa gente è affidato il futuro? Che
declino.
<< Mostruoso è? >>
Ed io che rimanevo impassibile come una rana che, anche in punto di morte, conserva quella
verde faccia da menefreghista.
Poi Andrea mi costrinse a vedere un film, “La città nel macello”, che era uscito nella sale
cinematografiche circa due anni fa e che aveva riscosso un successo stellare. Ci veicolammo nella
sala da pranzo e la mia guida inserì il DVD nell’apposito lettore.
Durante la musica iniziale diede da mangiare al pesce rosso che rimaneva, poveraccio,
intrappolato in una grande bolla di vetro trasparente. Ora avevo capito quale fosse la maggiore
attività di Andrea: quella di alimentare il bestiame domestico. Mentre si prestava a versare la
bustina di mangime nel piccolo acquario, mi volle sponsorizzare il film, con un’enfasi da speaker:
<< Lo conosci? È un filmaccio! Io ho avuto l’onore di vederlo; è micidiale. Ti fa stare sulle
spine per tutto il tempo. Fece degli incassi record la prima volta che fu proiettato. Poi io adoro le
sparatorie, mi riempiono di adrenalina. Beh, è meglio che sto zitto; sta per iniziare >>.
Prima di venirsi a sedere al mio fianco, riempì due calici con una bibita di colore rosso
purpureo. Sembrava un liquido inquinato da metalli pesanti.
<< Che diavolo è? >>
<< E’ una ricetta del mio chef, si chiama americano: è un aperitivo a base di vermut, amaro e
seltz. Di solito gli viene aggiunta anche una scorza di limone ma sinceramente non mi andava di
mettermi a fare finezze del genere. Ho aggiunto del succo d’arancia rossa perché con la quantità che
ne era rimasta in bottiglia, non sarei riuscito a riempire nemmeno un bicchiere >>.
Avvicinai le labbra e trincai l’intruglio: dava di aranciata con un retrogusto alcolico. Uno
schifo. Andrea, durante questi movimenti, mi osservava con l’ansia di chi si aspetta un
complimento ed allo stesso tempo, teme il trauma di essere deluso. Ebbi pietà:
<< Ottimo, se non sbaglio mi sembra di averlo già assaggiato. Non mi è nuovo questo sapore
>>.
Ti credo, con le casse di succhi di frutta che mi ero bevuto nella mia vita. Credetemi, sarebbe
stata più saporita il contenuto di una flebo.
Il film cominciò.
Passata una mezzora, mi ero già rotto di palle. La pellicola narrava di un rapinatore, vestito da
cow boy, che faceva irruzione nei luoghi super affollati, derubava i clienti di ogni oggetto di valore
e dopo si divertiva ad ucciderli. Adesso, ad esempio, era appena entrato in un bar, si era fregato
l’incasso ed aveva trivellato di proiettili tutti gli esseri che si era trovato davanti. Era di una crudeltà
spaventosa. A confronto, “Arancia meccanica” sarebbe stato paragonabile a “Biancaneve e i sette
nani”.
<< Scusami Andrea, ma è un film d’orrore o d’azione? >>
Egli rimaneva imbambolato dalla suspance dell’ennesima scena di sangue.
<< D’azione trimone. Ma che diamine di domande mi fai? Non vedi quanta dinamica c’è in
quest’opera? >>
<< Sarà, però non è che mi sembri un capolavoro. Ogni due minuti si verifica un massacro. A
questo punto, anch’io avrei potuto intraprendere la carriera di regista >>.
Rimanemmo immobili per un altro quarto d’ora. Avevo messo tutto il mio impegno per
seguire il teleschermo ma il mio interesse lentamente si stava deteriorando.
Fortunatamente era sopraggiunto il momento di uscire, si erano fatte le ventuno e
trentacinque. Quell’oscenità, con mio immenso sollievo, poteva essere interrotta. E poi c’era il resto
della teppaglia che ci aspettava. Era il richiamo selvaggio della foresta, non ci potevamo sottrarre.
Andrea tuttavia stentava a desistere:
<< Peccato! Non tanto per me, che ho già avuto il modo di guardare questa storia
meravigliosa, quanto per te, che rimarrai a bocca asciutta. Comunque, se tu vuoi, mi memorizzo il
minuto esatto in cui l’abbiamo messo in pausa e magari, la prossima volta che vieni in visita,
possiamo riprendere la nostra degustazione intellettuale >>.
Ma sto coglione non aveva capito una ciambella bucata in culo, che non me ne sbatteva
niente di queste cafonate sperpera quattrini?!
<< No, senti, se c’è una cosa che odio è quella di vedermi un film fatto a spezzatini. Già le
serie televisive non le sopporto, figuriamoci i nervi che mi verrebbero se mi vedessi una trama
frammentata. Va a finire che lo seguo svogliatamente e ne perdo completamente l’interesse >>.
<< Come vuoi tu >>, ribatté Andrea, mentre sorseggiava gli ultimi sgoccioli dell’aranciata
corretta.
<< Almeno concedimi di raccontarti come va a finire la proiezione >>.
<< D’accordo, però muoviti che è tardi. Anzi, prima togliti quegli abiti da barone fifì e poi
sarò disposto ad ascoltarti. Fai veloce, che è tardi >>.
Andrea rimaneva impalato come un imbecille. Infine riaprì quella boccaccia:
<< Stai zitto, stavo pensando al codice da inserire per innescare l’allarme. Porco cane! Non
me lo ricordo! Meglio non mettere mani su sistemi che non conosco. Ah, quasi dimenticavo! C’è
pure il nonno a metter il bastone tra le ruote! Dovrebbe esserci, da qualche parte, la badante, solo
che non ne ho nemmeno visto l’ombra. Che casino! Non posso lasciare da solo quel rincoglionito
del nonno. Se si accorge che la casa è vuota va a finire che le dà fuoco >>.
<< Scusa la domanda: ma fino ad ora non è rimasto in perfetta solitudine? >>
<< Sì ma è stato buono e tranquillo perché, secondo la sua mente bacata è in pieno lavoro.
Quel pazzo crede di essere una sentinella e si è imposto il turno lavorativo che và dalle nove a
mezzogiorno e dalle sedici e trenta alle ventuno e trenta >>.
<< E’ uno stacanovista, un militare ideale! >>
<< La vuoi smettere di scherzare?! Non vedi che è una faccenda seria? >>
Quell’aggressione non mi piacque e i miei nervi sussultarono come le corde di un violino,
azionate dal musicista dell’impazienza. Mi caricai di energia esplosiva. Io volevo solo
sdrammatizzare la situazione e questo inconcludente mi bacchettava come un bambino. Gli risposi
per le righe:
<< Chi se ne frega di te! Io, tra un quarto d’ora, vado via. Quindi o ti sbrighi a trovare una
soluzione, oppure taglio la corda e ti lascio a fare la guardia con quello squilibrato di tuo nonno! >>
<< Ok, porca di quella puttana! Fammi pensare, ci sarà un cazzo di modo per uscire da questa
prigione. Posso telefonare a mia madre e tentare di fargli rintracciare la badante. Ma dove si è
cacciata? Eppure oggi doveva rimanere col nonno >>.
Prese il cellulare e con frenesia cominciò a comporre il numero. L’ansia lo fece sbagliare per
due volte consecutive. Quando riuscì a chiamare, ricevette la fregatura che sua madre, il telefonino,
ce l’aveva spento. Cominciò a bestemmiare a ruota libera. Disse tante di quelle ingiurie, condensate
in frasi striminzite, da lasciarmi attonito. Sembrava impossessato dal demonio e persino io, abituato
ad ogni genere di porcherie, ne rimasi inorridito. La fortuna però, nonostante le filastrocche
d’insulti, gli venne miracolosamente incontro. Evidentemente, per invocare l’aiuto di Dio, era
necessario mitragliarlo di bestemmie. Sentimmo da lontano, provenire dal basso, il rumore di una
porta che si chiudeva. Due erano le spiegazioni plausibili: o c’era un nuovo arrivato oppure suo
nonno se l’era data a gambe.
<< Chi è?! >>, gridò Giovanni, con spavento e speranza.
Una voce femminile ci rincuorò. Era la badante.
<< Sono Irina >>, gridò, con quel filo di voce che sebbene fosse fievole, in realtà si capiva
che fosse il frutto di un forte sforzo vocale.
Andrea scese le scale e le andò incontro. Nella tromba a spirale di gradini, riuscii a percepire
il discorso tra i due dialoganti.
<< Dove sei stata? >>, l’aggredì Andrea con una voce polemica ed incuriosita.
<< Da mia sorella. Stare molto male signore >>, ribatté la badante lievemente intimorita. <<
Ho lasciato un biglietto sul tavolo della cucina >>.
<< Non c’era nessun biglietto. Se l’avessi visto non mi sarei preoccupato in questo modo >>.
<< Ti giuro signore, io avere messo. Avevo scritto: “io andare via, poi tornare tra poco” >>.
<< Scusa, ma da quant’è che sei fuori? >>
<< Una ora >>.
<< Ma se non ti ho sentita? >>
<< Sono stata a far servizi in camera da letto della signora >>.
<< Ok, ma io non ho scorto alcun avviso >>.
<< Eppure avere messo >>.
D’improvviso si udii una terza voce, sicuramente fuori campo perché fino a quel momento,
non era intervenuta. Aveva una voce catarrosa, con cadenza napoletana. Era il nonno fuori di senno:
<< Iamme Brigadiè, è tutto sotto controllo. Ho sequestrato io il foglio di carta alla gentil
donna. Mi pareva materiale sospetto e allora ho compiuto il mio dovere. L’ho portato in caserma e
l’ho fatto analizzare dagli scienziati che hanno tanto di laurea. Io di queste cose non ne capisco,
quelli invece sì. È gente che ha sctudiato, che ha passato tutte le giornate sui libri e che non si è mai
presa uno sfizio nella vita. Quelli, a Natale, neanche a carte li puoi vedere giocare. Stanno sempre a
fare calcoli dalla mattina alla sera e si scuordano persino di mangiare. Però poi di certi professori ci
si può fidare, soprattutto adesso che c’è la guerra e come niente può arrivare na bella bomba per
posta. Da quel cornuto di Adolfo Hitlèr ci si deve ascpettare qualunque sorpresa. Quello, indo a
capa sua tiene l’acqua scpuorca. Comunque la guagliona è pulita, lasciatela libera di andare che
sctanno nu sacco di belli giovani in divisa che la vorrebbero spuosare. Non vedi quant’è graziosa, è
proprio nu bello buocconcino! >>.
Andrea si accomiatò e come ultima frase disse ad Irina:
<< Occupati tu di questo svitato. Io esco e non so quando torno. Ciao. >>
Egli sparì per cinque minuti per potersi cambiare e ritornare in abiti incivili. Difatti poco
dopo, come i super eroi che mutano il loro vestiario per espletare al massimo i loro poteri, allo
stesso modo il mio amico aveva quel tipo di metamorfosi che, alla mia vista, risultava più familiare.
Il suo cappello era un segno che marcava a fuoco la sua personalità turbata. Poi, i jeans e le scarpe
da ginnastica bucherellate, completavano il quadro della sua trasandatezza.
<< Adesso sì che ci siamo >>, lo accolsi con voce trionfale, << sei tornato ad essere il maiale
di una volta. Con i vestiti che indossavi precedentemente mi sembravi una buona checca >>.
<< Ma che dici! E poi quelli sono abiti che si indossano solo in casa. Tu sei il primo, tra tutti
quelli della comitiva, che mi hai osservato conciato in questo modo. E ora andiamo. Sono stufo di
stare a sentire quel malato di mente del nonno >>.
Prendemmo la mia macchina. L’appuntamento con gli altri, come al solito, era davanti alla
distilleria. Le stelle sfavillavano a loro piacimento perché le uniche luci nei paraggi erano quelle
provenienti da quelle quattro case circostanti; il buio perciò concedeva agli astri di distinguersi nel
loro splendore. Soffiava un po’ di vento che mi portò della polvere sugli occhi e mi causò un lieve
bruciore. Il silenzio, a braccetto con le tenebre, ci metteva una certa tensione: era come se ci
fossimo catapultati dentro un enorme cimitero. La paura si riversò di colpo quando un furgone, a
tutta velocità suonando un clacson da emicrania, ci fece rigurgitare il cuore in gola. Il barbaro,
autore di quell’atto, era un amico di Andrea che andava a quell’ora a lavorare: consegnava latticini
in ogni caseificio della provincia.
Il mio compagno sventolò il braccio in ritardo, sicuramente non era stato scorto nel ricambio
del saluto. Salimmo nella mia autovettura. Andrea faceva girare un mazzo di chiavi, utilizzando
come perno il proprio indice, forse credeva di stare a maneggiare un revolver. I vetri del veicolo si
erano riempiti di foglie gialle e marroni. Col tergicristalli ne eliminai la gran parte.
<< Come mai guidi col sedile così ravvicinato al volante? >>, mi chiese il passeggero dal
berretto scarlatto.
<< Perché, evidentemente, sto più comodo >>.
<< Secondo me è troppo vicino >>.
<< Fatti i cazzi tuoi, se mi trovo meglio in questa posizione, qualche motivo deve pur esserci
>>.
<< Sarà. Ma quella non è una postura corretta. Rischi di non rispondere con prontezza agli
imprevisti della guida. Inoltre potresti anche avere dei problemi seri alla schiena >>.
<< Gesù santissimo! Ho la patente da cinque anni e nella mia fottutissima vita disastrosa non
ho ancora fatto un incidente! Di dolori alla schiena non ne ho mai avuti, perciò le tue teorie
risultano delle autentiche stronzate! >>.
Insistette:
<< Ma se ti lamenti in continuazione dei reumatismi alla schiena? >>
<< Sono i reni che mi fanno male, non la schiena. Quelli sì che non mi danno tregua. Ma ti
posso assicurare che il mio modo di stare al volante non c’entra assolutamente. Ma ti vuoi guardare,
una volta tanto le miriadi di difetti che ti ritrovi? >>
<< Calma, volevo solo darti un consiglio. Se non vuoi seguirlo peggio per te >>.
Rimanemmo per qualche minuto senza fiatare. Non era tuttavia piacevole rimanere a corto di
parole. L’imbarazzo è una delle sensazioni più irritanti che si possa provare. Dovevo in qualche
modo uscirmene da quel fango, costituito da un mutismo auto indotto. Pur di cambiare il destino dei
nostri umori, sarei stato disposto anche ad andarmi a sfracellare contro un albero. Per lo meno
saremmo riemersi da quel disagio sempre più deprimente e soffocante. Già conducevamo
un’esistenza da schifo, se poi non eravamo capaci di consolarci l’un l’altro, sarebbe stato più
consono un suicidio in contemporanea. Odio tutti, non c’è niente da fare. Più m’impegno e più
rimango deluso. Non ho ancora trovato, da quando sono nato, una persona, Loredana a parte, che mi
abbia colmato di entusiasmo. Non perché siano cattive, no, peggio, il problema è dato dalla
fiacchezza perenne che li ricopre; dalla noia e dalla malinconia a tempo indeterminato che guizza
nel loro temperamento. Roba da farti scendere il latte alle ginocchia, simile ad un macigno che
impedisce una libertà di allegria. E non mi riferisco solamente alla gente comune ma anche a coloro
che hanno raggiunto l’apice della forma e del benessere. L’ho notato con i professori universitari, in
particolar modo quelli che hanno ricoperto di fregi la loro immagine, mediante una carriera
brillante. Sono cupi, cattivi, sprezzanti, insoddisfatti. Evidentemente la felicità non si cela dietro il
manto dello sfarzo e della gloria. Probabilmente la serenità si inerpica in qualche sentiero
alternativo. Forse è anche possibile vivere contenti in maniera diversa, schivando i rigidi canoni del
piacere artificiale. O forse la felicità non esisterà mai nell’uomo. Magari è solo una goccia
nell’oceano dei giorni che costellano un essere vivente. Come un flash: è un bagliore che prima ti
acceca ed allo stesso modo svanisce. Per quanto mi riguarda, ritengo che la felicità sia solo
apparente e rimanga chiusa nella cassaforte dell’aspettativa. Uno scrittore, mi pare John Stainbek in
uno dei suoi libri, diceva pressappoco che: un uomo è felice quando ripete le medesime azioni nel
tempo. Sarà pur vero ma finora nessuno mi è sembrato giulivo nel clonare le proprie giornate. Sono
tutti alla ricerca di un diversivo, me compreso. Chissà se con Loredana sarei stato in grado di
scrollarmi di dosso questa polvere di dolore che è solo in grado di tagliarmi il fiato.
Per uscire da questa situazione stagnante, mirai dritto all’interesse che in quei frangenti,
coinvolgeva Andrea:
<< Dimmi allora: come va a finire il filmazzo che abbiamo interrotto? Mi avevi promesso che
mi avresti raccontato il resto della trama >>.
Sembrava recalcitrante ma la sua passione non poté rimanere circoscritta nel silenzio.
<< Già, quasi avevo dimenticato l’impegno preso. Dunque, dove ci eravamo fermati? >>
E chi se lo ricordava. Col livello d’attenzione che avevo prestato non ricordavo nemmeno se
la pellicola fosse a colori o in bianco e nero. Ricordavo soltanto un’immagine che mi aveva
riempito di sgomento. Fu quella che riuscì a farmi da promemoria e che mi salvò la faccia da una
figuraccia, nonché da un potenziale litigio:
<< Se non sbaglio avevamo stoppato il lettore nella scena in cui il protagonista stava
strangolando l’edicolante paffuto e, contemporaneamente, gli morsicava il naso >>.
<< Ah già è vero! Che realismo! Praticamente dopo avviene che…>>
E parlò ininterrottamente raccontandomi ogni particolare del film. Dalla distilleria distavamo
circa cinque chilometri, pertanto, andando di buona lena, in pochi minuti saremmo arrivati a
destinazione. Se non che il tracciato era pieno di curve e la carreggiata risultava stretta e dissestata.
Ma l’elemento che ci tenne in balia dell’attesa fu un intoppo che aveva ostacolato la circolazione.
Eravamo nei pressi del ponticello realizzato in epoca fascista quando, d’un tratto, ci trovammo
davanti una Lancia y, che procedeva a passo d’uomo.
“Che caspita è successo?”, domandai a me stesso, visto che il passeggero che mi portavo a
bordo era preso, anima e corpo, dal raccontarmi la cronaca di quello schifosissimo film che non mi
aveva coinvolto nemmeno per un istante.
Poi la spiegazione venne da sé: il veicolo che ci precedeva, nell’infinito serpentone di
ferraglia, teneva accese le luci d’emergenza. Cercai invano, con la vista, di capire il motivo della
decelerazione ma le ipotesi convergevano in un’unica spiegazione: sicuramente più in là doveva
essersi verificato qualche incidente. Nel frattempo, non dimentichiamolo, Andrea continuava a
blaterare.
<< Poi praticamente sai cosa succede? Che Luis (questo era il nome del killer cow boy) entra
in un ottico e comincia a cospargere il negozio di liquido infiammabile. Ma la gente non ci sta,
esausta da tanto abuso, decide di reagire. Mentre il rapinatore sta completando il suo lavoro di
combustione e controlla la clientela con un mitra, un uomo di una trentina d’anni, avvia l’assalto:
gli si butta addosso come un leone; solo che viene freddato. Però, contemporaneamente, altri
quattro giovani, presi sia dalla disperazione che dall’esaltazione, si lanciano sull’assassino. Lo
picchiano con una veemenza tale da ucciderlo. In questo modo si consuma la saga di uno spargitore
di sangue più terrificanti del mondo cinematografico e con essa, il film può dare inizio alla parola
fine. Bellissimo, me lo rivedrei per quaranta volte di fila. Ehi! Ma che cacchio è successo?! >>
Solo adesso si era accorto che procedevamo a quindici chilometri orari. Tra un po’ persino le
processionarie ci avrebbero sorpassato.
<< E che ne so. Si tratta certamente di un incidente. Mi auguro ci sia qualche vittima,
altrimenti tutta questa attesa non ne è valsa la pena >>.
Valicammo il ponte e notammo un uomo in divisa. Mi colpì che si trattava di un vigile, ossia
di un dirigente del traffico e non di un carabiniere. Chiesi le dovute informazioni e ricevetti la
seguente risposta:
<< C’è la festa patronale ragazzi, in questo momento stanno lanciando gli spari. Dovreste
deviare sulla provinciale che porta a G***, altrimenti rischiereste di rimanere imbottigliati per oltre
un’ora >>.
Non valeva la pena di pensare, optammo immediatamente di imboccare la provinciale. Si
trattava di allungare di dieci chilometri però, sebbene la distanza, avremmo guadagnato in termini di
tempo; almeno saremmo sgattaiolati via da questo alveare di automobili. Raggiungemmo la rotonda
sulla quale c’era in blu la scritta “G***”, che indicava il passaggio verso la libertà. Nonostante tutte
le auto s’incanalavano in quella direzione, il caos tese a diradarsi. Cominciammo a rifiatare. Andrea
come al solito volle rimproverarmi:
<< Scusa, ma non sapevi che oggi c’era la festa dell’addolorata? >>
<< E che ne so io? Mica tengo il calendario delle ricorrenze dei paesi d’Italia. Dato che fai
tanto il gradasso, non potevi ricordarmelo? >>
<< Credevo che fossi a conoscenza di questo evento >>.
<< Ma vatti a fottere tu e la tua presunzione! È facile giudicare col senno di poi. Inoltre chi
cazzo la segue la religione?! Non mi ricordo nemmeno se mi hanno battezzato e tu vieni a fare il
professore delle mie palle! >>
<< Calmati, sei sempre aggressivo. Se continui ad avere queste reazioni, diventerai come il
killer del film che ci siamo appena visti >>.
<< Magari! Ed il primo ad essere fucilato sarai tu! >>
La distilleria era vuota, pareva che stessero facendo delle esercitazioni per un piano
d’evacuazione, per prepararsi allo scoppio di una bomba nucleare. Persino le cartacce erano sparite.
Accostai l’auto ed ispezionai con la testa fuori dal finestrino ma dei nostri amici non c’era
nemmeno la loro ombra. C’era un’umidità pazzesca ed un clima che non poteva essere definito né
caldo e né freddo. O meglio, la sensazione di gelo o di calura era affidata alle interpretazioni
personali, relative alla percezione che ha ognuno di noi della temperatura. Io avevo la sensazione di
stare a sguazzare in una grande brodaglia atmosferica.
<< Che massa di bastardi! Lo sapevo che non si sarebbero fatti trovare! Ehi Andrea, fai un
numero a caso e vedi se riesci a rintracciare qualcuno >>.
<< Non posso, il mio cellulare è scarico >>.
<< E allora componilo dal mio. Gesù santissimo, dobbiamo rintracciarli per forza. E se non ci
riusciremo per mezzo del telefono, adotteremo qualche altro sistema di comunicazione. Anche a
costo di avvalerci del telegrafo, dei segnali di fumo o dei cerchi nel grano, riusciremo a richiamare
la loro attenzione >>.
<< Ok, prendo il tuo cellulare. Dove l’hai messo? >>
<< E’ lì, sotto il cruscotto >>.
Andrea aveva dato l’ennesima prova di essere un taccagno pezzente. Che morto di fame,
impiegava il suo cellulare solo per ricevere le chiamate. Aveva una montagna di soldi e risicava
spiccioli peggio di un’accattone. Appena prese il telefono, lo fece cadere per terra. L’impatto con
l’asfalto fu notevole, tant’è vero che il mio povero aggeggio si aprì in tre pezzi.
<< Ma nemmeno sai agguantare gli oggetti! Hai le mani più mollicce di polpo>>.
Dovevo intervenire, Andrea stava diventando troppo svogliato ed irritante.
<< Faccio io >>, gli dissi, e con la pazienza di un ragno rimontai pazientemente il cellulare.
Nel rimettere la batteria in sesto, notai che le mie mani tremavano. Erano i primi sintomi di
avvicinamento al limite. Chiamai Cosimo e stranamente mi rispose quasi subito, di solito aveva il
telefono più occupato di un cesso. Domandai con una pacatezza che un po’ mi sorprese, il motivo di
quel forfait inaspettato.
<< Non lo sapevi? >>, ribatté con stupore ipocrita Cosimo dall’altro capo del ricevitore, <<
Siamo al pub. Sbrigatevi che fra poco si liberano i tavolini >>.
<< D’accordo ora arriviamo >>.
Ma che razza di cornuti quella decisione l’avevano presa massimo dieci minuti fa. Vatti a
fidare di certi escrementi. Senza dare spiegazioni ad Andrea misi in moto la macchina. Intanto, da
qualche vicolo non vedente, erano sopraggiunti Sniffone e Pecorone scodinzolanti. Anche se erano
dei cani, per riverenza, reputai che fosse giusto dare loro delle giustificazioni:
<< Spiacente ragazzi, vi porterei con noi ma stiamo andando in un luogo coperto, dove i
signori come voi non li accettano. Sarà per la prossima volta >>.
Mentre parlavo, sentii che Andrea rumoreggiava, tramite il tipico scricchiolio fastidiosissimo
che viene generato quando si scarta un pacchetto contenente alimenti. Aveva dei biscotti con sé,
sicuramente scaduti da un secolo, che li lanciò alle due bestie vogliose di triturare qualcosa di
commestibile tra i denti. I due canidi parvero pure contenti di questa offerta. Io invece ne ero
categoricamente contrario.
<< Cosa c’è scritto sul contenitore? Da consumarsi preferibilmente entro l’unità d’Italia? Mi
fai schifo, sei come quei pezzi di merda che si occupano di smistare gli aiuti umanitari: dai ai poveri
la robaccia di quarta mano per liberarti dei tuoi rifiuti e contemporaneamente per vantarti di essere
una persona solidale >>.
<< Ma cosa dici?! Sono solo scaduti da un mese e poi io mica becco quattrini per dare aiuto!
>>
<< E allora che cazzo gli dai a fare quel lerciume?! Finiranno per intossicarsi e crepare prima
del previsto. Mi sembra che sia più salutare quando vanno a rovistare nelle immondizie. La
prossima volta che ti viene in mente di dare del cibo gratuito, prima lo devi saggiare con le tue
papille gustative e se non schiatti, lo consegni all’interessato >>.
<< Cosa c’entra! Quelli sono cani. Hanno un metabolismo diverso dal nostro. Ad esempio,
non ti accorgi che vanno matti per le ossa? Si nutrono di qualunque cosa, anche se porgi loro dei
colori a cera, la prendono come una prelibatezza. Mica fanno storie come noi. E poi, se fossero
tanto schizzinosi, rifiuterebbero la vettovaglia che gli viene consegnata. Saranno anche incapaci
d’intendere e di volere ma santi numi, ce l’avranno un minimo di sensibilità al palato. E che
diamine! Non penso che abbiamo a che fare con due fessi ambulanti! >>
Non valeva la penna fare storie, voleva avere sempre ragione. Se mi fossi ribellato avremmo
innescato un putiferio che si sarebbe concluso a legnate. Delle volte la quiete risulta più devastante
di una tempesta. Partimmo anche lentamente, altrimenti Andrea avrebbe captato lo sgretolamento
della mia pazienza. Lasciammo i due cani soli, visibili al giallo arancio dei lampioni. Tutto
sommato erano contenti di trarre nutrimento dagli scarti di avanzi di cibo marcio. Si erano tuffati
con la stessa voracità che adottano gli umani quando sentono il profumo di denaro: chi prima arriva
meglio alloggia e l’altro essere non esiste, si tramuta in un ostacolo che va immediatamente
eliminato.
Il muco mi gocciolava dal naso, ogni tanto staccavo un braccio dal volante per tamponare
quella perdita interfacciale. Giovanni canticchiava una canzone, riconoscibile soltanto dal suo
sistema cerebrale. Dalle mie orecchie percepivo un bisbiglio che poteva essere attribuito a qualche
insetto che si era fatto strada nel mondo dello spettacolo.
Lungo la via che ci avrebbe condotto a destinazione non fiatammo minimamente. Il mio
compagno nemmeno mi chiese in quale dannatissimo luogo lo stessi portando. Era concentrato in
quel motivetto cretino, più infantile di una canzone dello zecchino d’oro.
Capitolo 7
Il neon rossastro pose fine al nostro viaggio. C’erano parecchie persone che circondavano il
pub. Aspettavano il loro turno, per potersi rimpinzare a dovere. Bloccai l’autoveicolo ad una
cinquantina di metri dall’entrata, lungo un lieve scoscendimento. Tra la folla non riconobbi alcun
volto noto; si vede che gli altri membri della comitiva si erano già bell’accomodati. Dentro la
minuscola sala d’attesa, che raggrumava i clienti, scrutai i visi di coloro che mi si paravano davanti.
Il mio istinto mi aveva ricondotto alla ricerca primordiale di Loredana. Ogni ragazza che possedeva
lontanamente i suoi tratti fisionomici, poteva essere una potenziale Loredana. Mi auto convincevo
di ritrovarla in ogni donna che riflettesse la sua immagine sbiadita. Come al solito si rivelava
un’immancabile, insopportabile delusione. La tortura silenziosa si apriva dei varchi nelle piaghe dei
miei sentimenti liquefatti. Sgomitai tra la calca all’interno del locale; la luce intermittente si
sovrapponeva ad una serie di pezzi musicali d’antiquariato. In uno sfondo viola vidi finalmente
qualcuno che mi faceva un largo gesto con a mano, era il solito esibizionista di Carlo.
Con Andrea raggiungemmo gli altri che erano stati collocati dalla parte opposta all’entrata,
vicino ad una parete che straripava disegni, forse enumerabili nell’ambito futurista. Avevo una
voglia matta di accendermi una sigaretta: era parecchio tempo che non tiravo tabacco; ero talmente
fuori di me che avevo smesso di fumare involontariamente. Meno male che quei farabutti degli
amici nostri si erano degnati d riservarci un posto.
Fummo collocati, ognuno, ad un angolo opposto del tavolo. Fu in quel momento che mi
affiancai ad Giovanni, il quale se ne stava indifferente, può darsi già accoccolato nelle braccia
dell’anestetico alcolico. Dalla parte opposta avevo le braccia imponenti di Carlo, che mi toglievano
l’aria. Appena collocammo i nostri deretani sulle sediacce in legno e senza schienale, Cosimo
mormorò il suo biglietto di benvenuto:
<< Ehi ritardatari!! Che piacere vedervi! Saremmo stati lieti se non foste venuti affatto.
Mettetevi comodi, l’ospitalità è il nostro unico grande difetto >>.
Accoglienza da schifo in un posto da schifo.
A quanto pareva si erano dati immediatamente da fare: e sì perché le ordinazioni erano già
state inoltrate, senza tener minimamente conto del parere mio e di Andrea. Va beh, a me poi non e
che importava molto; una cosa valeva l’altra.
Il menù era a base di hot dog e birra a volontà; c’era d’aspettarselo: erano completamente
incapaci di sbizzarrire la loro creatività gastronomica. Del resto, non è che il luogo permettesse
grandi opzioni di scelta. Comunque, lo scopo principale di questi pasti era di fornire alla parte
liquida, una parte solida, che fungesse da tampone. Vale a dire noi mangiavamo per spalmare
l’effetto alcolico nel tempo e quindi per bere di più.
Generalmente queste cene improvvisate venivano stabilite molto più tardi, in prossimità della
mezzanotte. Invece, quella sera, erano le dieci ed aspettavamo con foga l’arrivo delle vivande. La
pecca di quell’ora precoce erano le macerie di persone che continuamente irrompevano nel pub e
che ci costringevano a rimanere padroni del nostro tavolo per un periodo di tempo abbastanza
limitato. Circa un quarto d’ora dopo trangugiavamo, per così dire, nel silenzio; ossia inteso come
mancato rilascio della parola da parte dei membri appostatati lungo i confini del tavolo.
Sopraggiunse poi un’ennesima portata di birra, in quanto precedentemente i miei compagni
avevano avuto modo di gustarla. Riempiti i nostri stomaci, il cretino di turno, Cosimo, volle dare
sfogo del suo repertorio inesauribile da quattro soldi:
<< Questa barzelletta si intitola: “comunque vada starò sul cesso” >>.
Aveva l’aveva finanche decorata di un titolo.
<< Un water riflette tra se: “con o senza internet riesco lo stesso a scaricarmi un sacco di roba
>>.
Tutti si sganasciarono dal ridere, in maniera irrefrenabile.
<< E poi non ho nemmeno bisogno di lavarmi, rimango a bagno tutti i giorni >>.
Ancora giù straripamenti di risate.
<< Mi considero molto fortunato, infatti, nonostante gli eccessi, ho avuto parecchio culo nella
vita >>.
A Carlo uscirono le lacrime per il troppo gaudio:
<< Basta Cosimo! tu mi mai morire! >> e sputò sul piatto il cibo che stava masticando.
Ma Cosimo non ci fece caso; era gasatissimo ed inarrestabile come una slavina:
<< Ultimamente mi sento anche molto solo, perché non mi ha cagato nessuno. Però adesso ho
conosciuto una tipa, che tutti definiscono un cesso, ma a me piace lo stesso” >>.
Venne giù una caterva di risate, per sancire il trionfo del nostro giullare. Cosimo,
evidentemente per quel successo inaspettato, si alzò in piedi e regalò alla platea i suoi ultimi sforzi
di lavoro comico:
<< Sapete che, se tentate di eliminare un prurito, con un tozzo di pane, ottenete del pan
grattato? Ma per fargli venire una bella crosta croccante non è necessario ferirlo >>
Un’altra mossa azzeccata. Ridemmo in maniera sguaiata e ci contagiammo a vicenda. I
camerieri accennavano un sorriso, ma si vedeva che erano in forte imbarazzo. Intanto gli altri clienti
si erano tutti voltati verso di noi, per capire quale fosse il motivo di tanto divertimento.
<< Oh, santissima trinità, questa roba ti fa andare le mascelle in cancrena! >>
Come quando fanno gli spari in una festa patronale, che prevedono una batteria finale con una
serie di scoppi intensi, tutti racchiusi in una manciata di secondi, allo stesso modo Cosimo, senza
respiro, lanciò una mitragliata di battute potentissime:
<< La mia lucertola soffre di un problema sessuale. Ha una disfunzione rettile >>
<< Sapete cosa ci fa una baldracca britannica con un meccanico italiano? Una chiavata
inglese >>
<< E sapete cosa ci fa una mignotta ad un funerale? Le pompe funebri >>
<< Ed un falegname che si masturba vicino ad un veicolo a motore a due ruote? Una
motosega >>.
Fu il delirio. Carlo era diventato rosso per il gaudio e si stava per soffocare
Cosimo riprese a parlare:
<< Adesso, per terminare la mia esibizione vi racconterò barzelletta storico-blasfema: In una
partita di calcio, i capitani delle due squadre, che sono Luigi XVI e Gesù Cristo, si contendono chi
dovrà dare la battuta d’inizio. L’arbitro va e gli chiede: testa o croce? >>
Tutti scoppiarono per l’ennesima volta ridere. Dopo esserci ripresi dallo scompiscio,
chiedemmo, in coro, il bis. Ma il nostro eroe della risata si congedò dicendo:
<< Mi dispiace ragazzi, ma io sono come il maestro Paganini: non mi ripeto >>, e si sedette
come se nulla fosse.
Poi si rialzò e con solennità fece:
<< Ho detto che non posso ripetere le mie battute, ma nessuno m’impedisce di raccontarne di
nuove >>
Noi, per la contentezza, spronammo lo showmen, con un “Evviva”. Cosimo si mise all’opera:
<< Dicesi rinculo: il movimento brusco, all’indietro, che si genera in seguito allo sparo di
un’arma da fuoco, come razione alla pressione dei gas. Quindi, se due non fa tre e se la matematica
non è un’opinione; il movimento contrario, vale a dire quello che si genera puntando l’arma
posteriormente, e che provocherebbe una spinta anteriormente, si dovrebbe chiamare rincazzo! >>
Oltre alle risate, alcuni aggiunsero anche dei fischi e degli applausi d’approvazione.
<< Questa era veramente l’ultima mia idea umoristica. Temo proprio di aver consumato il
repertorio. Mi ci vorrà qualche settimana per ritornare di nuovo in voga >>. Fece un inchino, si
rimise al suo posto e si scolò la birra che aveva lasciato a metà.
Poi iniziammo ad adocchiare una delle cameriere che servivano i tavoli.
Carlo aprì le danze:
<< Guarda quella battona! Ha più forme di un libro di geometria! Chissà che bell’emisfero australe
si ritrova! Secondo me quella si prende più uccelli di una gabbia. Pasifae a confronto risulterebbe
una santa. >>
<< E chi è Pasifae? >>, fece Giovanni.
<< Come chi è, quella che se lo fece menare da un toro e partorì il Minotauro >>
Giovanni però era in preda ad un attacco d’amore:
<< Quanta carne cruda. Chissà se è fidanzata. Mmm, me la leccherei come un francobollo!
Dio santissimo, sto sbavando dagli occhi! Con lei vorrei avere più rapporti di una bicicletta>>.
Intervenne Cosimo con una delle sue teorie sballate:
<< Per capire se una donna è fidanzata o meno, basta vedere se porta degli anelli >>
Giovanni si fece pure prendere dalla curiosità:
<< Quindi, se la tua teoria è fondata, per far rimanere le donne eternamente single, basterebbe
che gli venissero amputate le dita. Per lo meno si avrebbe la certezza che un ragazzo non la
possiede >>.
<< Esatto. Tuttavia ci sarebbe il problema che non ti potrebbe fare nemmeno una sega. A
meno che non si munisca di un uncino >>.
Intervenne Giovanni:
<< Ho bisogno di lei, mi occorre per allenarmi. Il mio pene è inattivo come la spada nella
roccia. E poi, come dice un vecchio detto: le gambe delle donne sono come i libri, bisogna aprirle
per scoprire il nero che c’è dentro >>.
Io, sentendo quella idiozia controbattei:
<< Mai sentito un proverbio più depravato. E poi tu comunque ti alleni quotidianamente: ti fai
più pippe di Braccio di Ferro.>>.
<< Ma se io sono più casto di un castrato! >>.
<< Secondo me tu non sei capace di combinare niente. Non ti ho mai visto tentare di
zavorrare una ragazza nella mia vita >>.
<< Sarà anche vero, secondo me però non conta il numero di ragazze che sei in grado di
accalappiare ma il potenziale che ti ritrovi. Io potenzialmente risulto un maschio dominante; questo
mi permetterebbe di attirare a me qualunque donna in qualunque circostanza. E come dice un altro
vecchio detto: il leone immobile non è detto che sia debole >>
<< Maschio dominante?! Ma sei un umano o un babbuino?! Se hai tutto questo flusso
seduttore, vacci, fermala e digli: scusa mi piacerebbe conoscerti >>
Carlo volle intervenire con la sua solita grazia:
<< Scusa mi piacerebbe conoscerti?! Ma queste frasi neanche nel Rinascimento dicevano!
Questa è preistoria! Se vuoi farti una ragazza, basta che gli spifferi la seguente dichiarazione:
prendetene e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi >>.
<< E che cacchio! Con una proposta del genere, metteresti in soggezione persino una
pornostar >>.
<< Eh sì >>.
Io volli disilludere Giovanni:
<< Comunque lasciala perdere, è sicuramente una testa di cazzo. Guarda che sguardo poco
arguto si ritrova; una gallina ritardata la batterebbe in una prova d’intelligenza. E poi sono tutte
fidanzate o sposate ste femmine scola cazzi >>.
Cosimo mi chiese:
<< Perché le donne rinunciano alla propria personalità? Sposandosi con un uomo, sia pure
ricco, ma brutto rude ed ignorante equivale ad annullare completamente i propri gusti. È come
dissetarsi con un calice di diarrea >>.
<< Perché sono brave a fingere, anche quando non ce né bisogno: fingono di essere felici,
fingono di entusiasmarsi, fingono di innamorarsi, fingono di soffrire. Sostanzialmente fingono di
vivere. Rendono la loro esistenza un fiction. Questo perché temono continuamente il giudizio altrui.
Ecco perché nel novanta per cento dei casi i loro matrimoni falliscono. Le donne pensano solo alla
sicurezza economica, a quella mentale non ci fanno mai caso. Se badano tanto alla sicurezza, si
sposassero con una cassaforte o con una porta blindata. No, invece vanno a nozze con pachiderma
spietato che farebbe ribrezzo persino a Marilyn Manson e si auto convincono di essersi coniugati
con il principe azzurro. Vanno avanti con questa convinzione e lentamente s’intristiscono senza
sapere il perché. Ed è proprio questa infelicità che le stimola ad essere sensibili. Questo perché,
generalmente, chi piange e rompe le palle lamentandosi viene considerato come una persona
sensibile, in quanto emotiva. Il problema è che non si tratta di sensibilità, ma solamente di idiozia.
Le donne sono infatti solo delle mentecatte deficienti. Non è una mia opinione, è dimostrato dalla
scienza: non è un caso che il cervello di una donna pesa circa 1016 grammi, mentre quello di un
uomo 1150. Ci sono pertanto ben 134 grammi di materia cerebrale di differenza >>.
<< Scusa allora, secondo la tua teoria, pure gli elefanti dovrebbero essere più intelligenti di
noi, visto che hanno un cervello molto più pesante di quello umano >>.
<< Cosa c’entra; certi confronti li devi fare in proporzione alle dimensioni. Se un elefante
avesse il nostro volume, si ritroverebbe con un cervello microscopico. Senti Giovanni, quando torni
a casa fammi un favore: prendi la tua grandissima testa di cazzo e poggiala sulla bilancia. Verifica
quanta materia grigia ti ritrovi in testa. Non si sa mai, la sicurezza non è mai troppa >>.
Carlo mi domandò:
<< E allora, il cervello dei gay quanto pesa? >>
<< Probabilmente bisogna fare la media tra i cervelli dei due sessi opposti: dovrebbe andare
sui 1083 grammi >>.
Cosimo prese la parola:
<< Ritornando all’argomento donne, credo che invece esse in realtà facciano parte di un
progetto diabolico delle multinazionali, volto ad incrementare le vendite. Ecco perché vogliono
mettere su famiglia, per impennare i consumi e dare maggiori profitti alle grandi imprese >>.
<< Sono perciò il frutto di un capitalismo esasperatamente sfrenato, che non si fa scrupoli
nemmeno di fronte ai sentimenti umani >>.
<< Esatto! >>
Poi la noia sopravvenne. Nel frattempo il tempo navigava inesorabile sulle nostre teste.
Uscimmo consumati dopo un’altra serata buttata nel nulla. La luna, imperatrice delle tenebre,
stillava sulle vesti del cielo, lacrime di stelle. Era lì in sospeso in attesa di lasciare il posto al sole.
La temperatura si era abbassata notevolmente, tuttavia non ci risospinse al coperto.
Raggomitolati nelle nostre braccia sfidammo le intemperie notturne. Era l’una: l’ora giusta per
starsene lontani dal resto dell’umanità.
<< Ti vedo pallido come Moby Dick ed hai anche una faccia strana. Non è meglio se ritorni
nella tua sporca tana? >>, osservò Giovanni, per metà preoccupato.
Dunque i miei pensieri si erano spalmati sul viso.
<< Forse perché non dormo un sonno sano da giorni >>, risposi al mio interlocutore.
<< E allora vai a casa e mettiti a letto >>.
<< Non ha alcun senso mettersi tra le lenzuola se poi non entri nel mondo dei sogni. Sarebbe
come mangiare da un piatto vuoto; è un’azione del tutto inutile >>.
Questa volta in macchina non c’era Andrea ma Giovanni, che ormai mi si era attaccato.
Dall’uscita del pub alla mia auto, aveva già sputato una decina di volte. Speravo che quel viziaccio
non si sarebbe protratto anche all’interno dell’abitacolo.
L’asfalto sudava pozzanghere. A due passi dallo sportello ne calpestai una che rifletteva a
specchio il mondo soprastante: con la mia suola, per pochi istanti, lo feci dileguare. Forse Dio, allo
stesso modo, avrebbe potuto chiudere l’esistenza umana: tramite una semplice pedata; ed invece
rimaneva lì, impassibile, a guardare dall’alto il riverbero delle nostre vite sgualcite.
Presi una sigaretta e me l’accesi; mi era stata data da Cosimo all’interno del locale. Ne
assorbii con ingordigia tutto il suo tabacco. Il fumo farà col tempo anche male, però nel frattempo è
capace di regalarti per ogni boccata dei piaceri, sia pure millesimali. Si sa poi com’è il piacere,
quando decade in vizio: prima o poi ti fa scontare i suoi abusi. Va beh, chi se ne frega; tanto prima o
poi, in un modo o nell’altro, bisogna schiattare. Quella era un’ora tarda, in giro si sentivano soltanto
i sussurri del vento. L’ombra che di giorno sembra così piccola e indifesa, col trascorrere delle ore
si era presa la sua rivincita, riappropriandosi del dominio delle nostre latitudini.
In macchina Giovanni non fiatò, era immerso in un’apnea d’espressione. Io accesi la radio
sulla prima stazione a portata di mano. Giovanni estrasse da una scatoletta metallica due sigari, uno
lo porse a me e l’altro se lo infilò tra le labbra, dopo esserselo acceso. Chi gliel’aveva dati, nessuno
lo sapeva. Io gettai la sigaretta, che mi ero appiccato poco prima. Cominciammo entrambi a fumare
e la macchina si riempì del candore del tabacco nebulizzato. La visibilità divenne un problema, era
come se una perturbazione si fosse incanalata sotto la scorza della mia automobile. Abbassai
completamente il vetro del finestrino per far sì che non rimanessimo accecati ed asfissiati. Io
seguivo Carlo, il quale si mise a dare spettacolo: zigzagava con la macchina e lampeggiava come un
faro con gli abbaglianti. Quando si metteva a fare il cretino non la smetteva più, evidentemente era
anche aizzato dai passeggeri che viaggiavano con lui. Non finì di certo lì la sua performance;
innanzitutto strombazzò lungo tutto il tragitto e poi si mise a fare uno scherzo idiota che avrebbe
fatto perdere la pazienza anche ad un santone. Metteva la freccia direzionale da un lato e come un
bastardo, imboccava la direzione opposta. Lungo la statale accelerava e decelerava
improvvisamente, rischiando di provocare un bel tamponamento. La rabbia mi crebbe in corpo e per
tale ragione decisi di sorpassarlo. Tuttavia lo stronzo, mentre ero parallelo per compiere la manovra,
rimaneva al mio fianco, aumentando la velocità, mettendo la mia vita e quella di Giovanni in
pericolo. L’unica soluzione era sbarazzarsene: presso la circonvallazione di F***, imboccai una
strada secondaria e sparii da suo specchietto retrovisore.
Liberatoci di quel deficiente scorsi Giovanni che sembrava mi volesse dire qualcosa. Aveva
un viso quasi sofferente. D’improvviso attaccò a parlare:
<< Mia sorella mi ha regalato un libro, un dono assolutamente inutile perché nella mia vita
non ho mai letto. Mi affatico persino a guardare le scritte dello scontrino, e lei cosa Cristo mi va a
regalare? Un cazzo di libro. Cosa me ne faccio io di un libro se per me non ha alcuna funzione? E
come se gli regalassero un deltaplano ad un uccello >>.
<< Chi se ne frega. Ringraziala, digli che è un bellissimo regalo, e lascia il libro ad un angolo
a marcire. Tutt’al più se ti chiede di raccontarle com’è la storia, dille quello che c’è scritto sulla
trama iniziale e la tieni contenta. In questo modo non rovini i rapporti ed allo stesso tempo ti liberi
di una simile cianfrusaglia >>.
Il consiglio gli piacque pure perché ridivenne silenzioso ma con una faccia soddisfatta.
Quando giungemmo alla distilleria, all’appello non mancava nessuno: ognuno poi era ben
fornito con tanto di lattina di birra, manco se stessero nel deserto. Sudavo freddo ed i reni mi
dolevano. Mentre mi accingevo a raggiungere gli altri sentii che la scarpa sinistra si era slacciata.
Serrai pertanto le stringhe bagnate, con un nodo stretto come una tagliola. Sull’asfalto sbrecciato
c’erano foglie sparse come coriandoli: secche, avvizzite e per terra, simili alle nostre esistenze .
L’asfalto era a brandelli, sembrava affetto da tigna. Quella dannatissima breccia ti imbrattava
le scarpe di polvere calcarea non appena ti trovavi nei paraggi; anche con il solo respirare si librava.
Fiorivano le erbacce dalle fenditure dei marciapiedi che col tempo erano diventate dei veri e propri
cespugli. Forse in un futuro remoto si sarebbero mutate in alberi. Il silenzio era sepolcrale, avrebbe
messo persino paura ai fantasmi. Guardai per un attimo la parete che separava la nostra via dalla
stazione; con tutti quei murales ricordava molto il muro di Berlino. Ecco perché, forse, avevamo
una voglia matta di farlo cadere giù: non si trattava d’inciviltà, bensì di un richiamo inconscio della
storia. Può darsi che fosse semplicemente un desiderio represso di libertà, oppure una
giustificazione, dalle gambe corte, delle nostre schifosissime menti malate ed intorpidite. Guardai
nel vuoto, ma l’infinito non mi dava risposta; piuttosto sgretolava i miei pensieri nella sua vorace
vastità. Intanto il mondo andava a rotoli per la forza del caso, e noi rimanevamo impotenti, ospiti
della sua decadenza. Pensai alle altre persone che dormivano, cacavano, crepavano e scopavano, e
alle loro esistenze frivole. Non le avrei mai viste e loro non avrebbero mai visto me. Che senso
aveva vivere simultaneamente sullo stesso pianeta, se non c’era la speranza di scambiarsi le proprie
esperienze? E chi lo sapeva, forse spettava a noi diventare dei bulimici della conoscenza. Oh Dio
nemmeno Loredana potevo avere! Mi sentivo incompleto come una settimana enigmistica. Rimasi
ad ondeggiare nel vuoto, come un’altalena senza passeggero. Ero sempre più convinto che in questo
stato si sgomento avrei portato al crepuscolo la mia giovinezza esagitata.
Giovanni mi porse una lattina omaggio e volle alzarmi il morale con una frase
d’incoraggiamento:
<< Su bevi, che domani c’è la grande partita: gli romperemo il culo a quelle femminucce.
Mettiti in forma, prevedo un trionfo storico >>.
Come al solito Carlo, che evidentemente aveva sentito il nostro dialogo e che sicuramente non
si era saziato con la balordaggine fatta lungo la provinciale, si esibì in un altro numero barbaro ed
altrettanto inaspettato:
<< Si gioca ragazzi! Allora avete il dovere di svolgere una preparazione pre-partita. Gesù
Santissimo! Prima di un incontro così importante è necessario un riscaldamento per constatare le
condizioni della squadra >>.
Era eccitato quella notte, non so quale intruglio avesse ingurgitato. Aveva gli occhi sbarrati
come un folle e temetti per davvero che potesse commettere qualche cosa di brutto. Andò vicino ad
un bidone e saltò sul pedale che ne permetteva l’apertura. Dopodiché cominciò a prendere a calci ed
a spintoni, il contenitore dell’immondizia, fino a farlo rivoltare. Ci fu un fracasso orribile: tonnellate
di spazzatura sgorgarono lungo la strada. Io rimasi ad osservare a bocca aperta e mi domandai quale
fosse l’intenzione che avesse in testa. Poi capii: voleva utilizzare i sacchetti di rifiuti come dei
palloni da calcio. Ne prese uno per le mani e con una pedata micidiale, lo lanciò dall’altra parte del
muro, verso la ferrovia.
<< Si gioca miei allievi. È ora di capire con quali gambe vi scontrerete domani! >>
Un vandalo in piena regola.
Credevo che gli altri sarebbero rimasti fermi, stonati da tanto scempio; invece trovarono il
pretesto per una nuova occupazione.
All’inizio io non mi volli rendere partecipe di un simile trastullo, però dopo pochi istanti mi
resi conto che ero rimasto soltanto io l’unico spettatore di questo sabba di sporcizia. Decisi pertanto
di immischiarmi nella bolgia. Diedi tutto me stesso affinché si potesse creare un’insalata di rifiuti.
Calciavo ogni oggetto che mi si parava davanti, senza criterio, solo per il gusto di scaricare
l’elettricità accumulata nella giornata. Intanto dai sacchetti lacerati uscivano schifezze di ogni
genere e colore, si stava trasformando in un caleidoscopio della merda. Con foga, quasi feroce, mi
dimenai, sprigionando tutta la mia ira. L’alcol che il mio sangue aveva ospitato, non accennava a
smaltirsi e contribuiva all’escandescenza immotivata. Se si fosse trovato un passante nei paraggi,
avrebbe distinto delle figure non enumerabili come adolescenti in preda all’euforia; bensì degli
ibridi, forse dei mutanti, metà umani metà rifiuti, che danzavano in una sacra liturgia, dedicata ad
un qualche demone amante della putrefazione. Quella era la nostra nuova razza, evolutasi solo e
soltanto dal nostro genoma: i rifiuti solidi umani.
Sudai nel mio giubbotto e mi rinfrescai grazie all’alcol convertito in secrezione. Già la
situazione di per sé stava andando in frantumi ma ahimè, subì un’ulteriore evoluzione degenerativa.
Una volta adoperate le gambe si passò ai bombardamenti corpo a corpo. Come se stessimo nel bel
mezzo di una coltre di neve, che istiga i soggetti a guerreggiare a suon di palle di fatte di ghiaccio,
allo stesso modo noi, ci colpivamo l’un l’altro, con delle autentiche granate di sozzura. Tuttavia, c’è
da sottolineare che, rispetto alla gelata e monocromatica neve, la nostra scelta era più svariata, e le
possibilità di oggetti da scagliare risultavano di vasta gamma. Ad esempio io colpii Carlo con una
manciata di carne macinata, che lo imbrattò di rosa fetido. A suon di “fottiti” e di “crepa bastardo”,
ci inzaccherammo da capo a piedi. In una simile lordura, se fosse andata bene, come minimo ci
saremmo ammalati di peste: nera o bubbonica non faceva differenza. Che devastazione, persino i
ratti si sarebbero schifati. Ci eravamo in qualche modo liberati, in un luogo dove chiunque tende a
coprirsi gli occhi e davanti a tanta desolazione, anche quello era un modo per divertirsi. Infatti,
sebbene fossimo affamati, sporchi, puzzolenti ed infettati di batteri fin dentro il midollo, la nostra
contentezza era trasalita alle stelle.
<< Questa guerra a palle di cacca è stata meravigliosa, dovrebbero inserirla come sport alle
olimpiadi >>, urlò Carlo, con il viso sporco di sugo e ricotta.
<< Ragazzi >>, disse Cosimo, seduto sul bordo del marciapiede, per rifiatare, << vi rendete
conto?! Anche noi siamo degli ecologisti: abbiamo trovato un metodo alternativo d’impiego dei
rifiuti. La piaga delle immondizie è ormai risolta. Viva l’ambiente! E che Dio riempia questo paese
schifoso di colera e di scarafaggi! >>
Carlo, di nascosto, si era appostato dietro le spalle di Cosimo. Il quale, appena terminato di
parlare, si ritrovò addosso una pelliccia. Poteva essere un animale, non si capiva bene. Secondo me
era un gatto morto ma sinceramente non ne ero sicuro. Poteva anche trattarsi di una donnola, un
ermellino o una nutria. Era decapitato, quindi la sua identità era un’interpretazione del tutto
personale.
Cosimo, nemmeno provò ribrezzo, anzi quel materiale da vomito lo ispirò per comportarsi
ulteriormente da idiota. Si mise sul collo quell’ammasso di peli e con una voce aristocratica fece:
<< Guardatemi! Sono una nobildonna. Quando avevo vent’anni, ho sposato un vecchio maiale
di settant’anni che mi ha riempito di gioielli. Ora, da quando mio marito è schiattato, godo di ogni
privilegio. Nonostante sia flaccida e piena di rughe, organizzo eventi mondani a base di sfarzo.
Sono serate che solo persone di un certo livello possono frequentare. Non c’è mica posto per la
feccia popolana. Pertanto i miserabili plebei come voi non sono desiderati. Non c’è comunque da
disperarsi: se volete un po’ salire di grado, vi posso concedere un posto come schiavi; questo vuol
dire che sarete costretti a servirmi, da mattina a sera, ed a togliermi i porri che mi germogliano dal
culo >>.
Ecco come i giovani passavano il primo decennio del duemila.
Al di là del pattume e del rischio epidemia venutosi a creare fu una serata memorabile.
Riuscimmo in quella mezzora a fluttuare in pace, senza più essere legati ad alcun lucchetto etico.
Questi sono momenti che ti fanno apprezzare veramente la vita. Tuttavia dovevamo comunque fare
i conti con la realtà, e cioè ci dovevamo rendere conto del macello combinato. Poiché rimettere in
ordine ogni rifiuto era un’impresa troppo lunga da compiere, decidemmo di intraprendere la scelta
più rapida e pusillanime: tagliare la corda.
Ciò che rimase fu una strada coperta da una quantità immane di scarti civili. Ricordava molto
un cataclisma che aveva stravolto l’intero territorio urbano.
<< Che casino abbiamo combinato >>, dissi con un po’ di senso di colpa << bisognerebbe far
saltare questo posto con delle bombe nucleari >>.
Cosimo intervenne con la sua battuta pronta:
<< Là c’è un albero di mele granate, usa quelle >>.
Carlo però volle dare un ultimo tocco di magnificenza allo scempio. Guardava la strada
inzaccherata con un’aria simile a quegli artisti che sono insoddisfatti della loro opera e credono che
con una sola pennellata divina, possano restituire lo splendore alle loro fatiche. Chi lo sa, forse
aveva solo in mente di far sparire l’enorme massa di immondizia dispersa, oppure semplicemente
era ancora preda alla sua imprevedibile follia. Sta di fatto che d’improvviso, quando noi tutti ormai
avevamo preso posto, ognuno nelle corrispettive automobili, lo vedemmo con una tanica di benzina,
cospargere la strada. Non so come diavolo se la facesse a trovare ma con celerità sorprendente,
bagnò ogni solido dormiente sull’asfalto e poi con un leggero tocco di fiamma, quasi poetico,
generato dal suo accendino, creò una sorta d’incendio controllato: un po’ come fanno gli agricoltori
per eliminare le stoppie. La bruciatura durò pochissimo, i rifiuti si erano ridotti in cenere e furono
sostituiti da una puzza malsana di diossina che senz’altro ridusse la speranza di vita dell’intera
cittadinanza. L’avevamo combinata grossa ed era ora di fuggire al più presto. Persino Sniffone e
Pecorone avevano fiutato il miasma e si erano resi conto che ci eravamo incagliati in un brutto
affare; difatti in un attimo li vidi svanire dalla mia vista. Che spettacolo irripetibile.
Fortunatamente da balconi e finestre non fuoriuscì nessuno; almeno così ci parve. Non
c’erano perciò testimoni oculari e nasali disposti ad accusarci. Nel frattempo, la macedonia di rifiuti
da noi lasciata, continuava a sprigionare un fumo bianco e tossico.
Carlo al posto di migliorare la situazione, l’aveva peggiorata. L’unico vantaggio venutosi a
creare da quella combustione era che il nebbione ci celava da eventuali spioni. Al di là di tutto, era
passato troppo tempo, ed era ora veramente di andarsene. Con una sgommata lasciammo
quell’inferno e tirammo dritto fino al parco, che aveva assunto il nome di uno storico del nostro
paese. Forse ci avrebbero arrestato, in fondo non era difficile individuare gli esecutori del reato:
bazzicavamo sempre e soltanto noi in quei bassifondi. Avevamo dato alle fiamme una zona
residenziale e fuggivamo come dei profughi senza meta.
La macchina puzzava ancora di plastica bruciata, era rivoltante farsi profanare le narici da
quell’odore insopportabile. Gli occhi mi lacrimavano, evidentemente si erano irritati. Giovanni
come al solito mi stava a fianco e taceva come un pesce. Dato che nessuno profferiva parola, feci
con il mio pensiero un esame di autocoscienza: chi e cosa ci aveva spinto a quel comportamento
distruttivo?
Formulai
qualche
ragionamento
che
reputavo
abbastanza
plausibile.
Era
sostanzialmente l’insoddisfazione che c’invogliava a comportarci peggio delle locuste. E
quell’insoddisfazione era generata dalla società bigotta che ci aveva tagliato fuori, che a sua volta
era stata procreata da uno Stato bidone, fondato sul denaro e sulla raccomandazione. Perciò la colpa
non era completamente nostra. Il nostro modo d’agire non era altro che una forma d’espressione
malevola, verso le amministrazioni avariate che ci governavano. Ogni fottutissimo giorno i giornali
ci parlavano di disoccupazione alle stelle e di giovani senza futuro. In più c’era da aggiungere la
situazione decadente del nostro microcosmo. Ad esempio, come potevo diffondere il bene senza
una famiglia, senza l’amore e con degli amici ai quali, tra l’altro gli voglio un mondo di bene, ma
che come uno svago hanno quello di devastare solo ed esclusivamente la propria salute? Mi ero dato
una risposta accettabile, il nostro atto poteva perciò essere giustificato ed in qualche misura
legalizzato.
Abbassammo tutti i finestrini per far sfiatare l’interno dell’auto. Pur di far entrare dell’aria un
po’ più pura dall’esterno, sarei stato disposto a sfasciare il parabrezza. Erano le tre del mattino e
naturalmente c’era il deserto urbano: i bar erano chiusi ed i palazzi pareva che dormissero. Mentre
stavo circumnavigando il parco, Carlo, nel bel mezzo della strada, mi fiancheggiò e mi fece cenno
di accostare. Con i miei occhi arrossati gli volsi l’attenzione.
<< Ehi Ciro, seguimi; mi ha chiamato Roberto e non so cosa voglia >>.
Il nome Roberto non l’avevo mai sentito pronunciare in vita mia; chissà da dove era spuntato
fuori. Sicuramente doveva essere un poco di buono. Gli diedi il mio assenso. Intanto Giovanni
continuava ad essere immerso nel suo habitat mentale. Decisi, con tutti i rischi che ne sarebbero
subentrati, di accodarmi a Carlo. Va beh, non me ne fregava niente; sempre meglio dello stare a
ronzare in questo alveare di noia, era.
La marmitta della macchina di Carlo emanava uno scarico tossico, che ci costrinse a chiudere
i finestrini. Giungemmo in via Milano ed accostammo al primo parcheggio rinvenuto sui bordi. Per
la verità la strada era completamente deserta, perciò c’era un’ampia libertà di sosta. Scendemmo
dal’auto e c’infilammo in una stradina che sembrava una feritoia e che avrebbe dato problemi di
deambulazione persino ad una sogliola. Carlo si salutò con un tipo alto, dai vestiti lunghi e
sgargianti e con una barba incolta. Aveva dei capelli lungi e neri, più spettinati di Huckleberry Finn.
Sembrava un intellettuale impazzito. Tra le dita teneva una canna che aveva agito sulla sua
andatura; infatti barcollava lievemente. Rideva della tipica gioia artificiale, scaturita dalle inalazioni
di certe sostanze. All’interno della stradina, deposto lateralmente ed accovacciato, giaceva un
ragazzo che maneggiava un laccio emostatico ed una siringa contenente eroina. Stetti per pochi
istanti ad osservare i suoi gesti: s’infilò l’ago nell’avambraccio e s’introdusse la dose di piacere
fatale. Una volta terminata l’operazione sgranò gli occhi e soffiò, come se stesse spegnendo una
torta di compleanno immaginaria. Il collo per un po’ barcollò, come se la testa stesse chiedendo
l’indipendenza dal resto del corpo. Infine poggio il capo al muro e rimase lì fermo, in un
dormiveglia tormentato: si era ibernato dalla realtà. Aveva un viso scavato e grigiastro, il tipico
marchio di riconoscimento di un eroinomane di prima qualità. Temetti che sarebbe potuto scoppiare
in una reazione frenetica e rabbiosa e che ci avrebbe pestato in sintonia a sangue. Fortunatamente
rimase fermo ed accovacciato, mummificato dai veleni introdottisi.
Sulle braccia aveva dei lividi: segni inconfutabili delle punture di vespa della droga.
<< Tranquilli ragazzi >>, confortò Roberto, << è innocuo. Comunque non avvicinatevi, non si
sa mai >>, lo trattava come un cane assassino.
Dopo esserci presentati imboccammo un’altra strada, che ci condusse quasi in campagna.
Come per le colonne d’Ercole c’era un muretto a secco che delimitava la linea di confine tra il paese
ed il paesaggio rupestre. Il buio da quelle parti era ancora più fitto, tale da far sembrare il nero
anemico. Roberto uscì di tasca un pacchetto di fazzolettini, però riempito di marijuana.
<< Ehi sballati! Entro stasera dobbiamo finire questo fumo, perché ho i carabinieri alle
costole. Non vorrei passare dei guai, perciò diamoci alla pazza gioia. A proposito, non mi dovete
niente, offro io; stanotte il divertimento è gratuito. Ho tutto l’occorrente, in tasca ho più cartine di
un atlante >>.
Cominciammo a rollare, come in una catena di montaggio, una canna dopo l’altra. Ne vennero
otto. Il nostro lavoro di artigiani improvvisati sembrava terminato lì, invece Roberto uscì altri due
pacchetti di fazzolettini, ricolmi della medesima sostanza.
<< Porca puttana! >>, esclamai, << ma da dove vieni, dall’Afganistan?! Come facciamo a
finire tutto questo ben di Dio entro stanotte?! Nemmeno Bob Marley ci riuscirebbe >>.
<< Cosa vuoi da me, non è mica colpa mia. Avevo un affare in ballo e mi è saltato. Un cazzo
di rifornimento andato a vuoto. Dovevo partecipare ad un festino di un mio amico e mi avevano
incaricato di provvedere agli intrattenimenti. Poi tutto è saltato e mi sono ritrovato con dosi da
magazzino di fumo che non so più dove stoccare. Si è verificata una tipica situazione di congiuntura
economica: in questo caso l’offerta ha superato, in modo esponenziale, la domanda >>.
<< Scusa, ma non la puoi rivendere? >>
<< Sei matto! Se chi gestisce certi giri viene a scoprire che mi sono dato al commercio in
proprio, mi fanno secco. E poi, come ti ho accennato prima, ho i carruba che mi stanno pedinando.
È già la terza volta in quattro giorni che me li ritrovo sotto casa. Comunque non preoccuparti, per
consumare le scorte ho chiamato i rinforzi. Ed ora rimettiamoci al lavoro e continuiamo a fabbricare
canne >>.
Chissà cosa faceva Roberto nella vita, forse studiava, forse rubava. Non sapevo nemmeno se
fosse del mio paese. Eppure il volto non mi era completamente sconosciuto.
Ci mettemmo a fumare e nel giro di una mezzora, risultavamo già completamente strafatti. Mi
venne la contentezza e la tranquillità dell’effetto benefico della cannabis. Sebbene mi fossi pappato
due panini e due birre, mi venne una fame immensa, peggio di quella di Pantagruel. Cosimo era
completamente svalvolato e sparava frasi senza cognizione di causa:
<< Avevo una ragazza bellissima che suonava il sax, poi si mise con quel ragazzo prussiano
che leccava il culo allo zar. Quella troia, se ne andata a Stalingrado, senza nemmeno salutarmi.
Quella merda del fidanzato era pure un giocatore d’azzardo. Che tristezza mi sento un senso di
vuoto, come se mi avessero trapiantato un buco nero sul cuore. Cosa ci prova ad innamorarsi di un
coglione del genere, che va facendo ancora scherzi da ragazzini, che va ancora mettendo la schiuma
da barba sui citofoni? Ed io che sto a fare la muffa con voi che siete lo sterco del paese >>
<< Porco cane! >>, fece Andrea con apprensione << a questo gli si è formattato il cervello!
>>
Cosimo continuava a lamentarsi e a piagnucolare come una femminuccia. Io lo guardavo con
occhi estranei perché mi sentivo calmo come un moribondo. Ero di una serenità inattaccabile, anche
se si fossero presentati gli alieni non avrei battuto ciglio; mi sentivo un saggio che con freddezza
scrutava l’avvicendarsi convulso del mondo. Che avrei dato per rimanere perennemente in quello
stato. Di canne ce n’erano ancora in abbondanza e dei rinforzi tanto osannati da Roberto non ne
avevo visto nemmeno l’ombra. Non mi andava più di fumare perché avevo un po’ di nausea. Se
proprio Roberto voleva sbarazzarsi del fumo, poteva anche gettarlo nel fiume. Poi, anche se veniva
arrestato, non è che me ne fregasse molto, anzi era uno sciagurato in meno in circolazione.
Lentamente riacquistai la lucidità e potetti distinguere quali conseguenze aveva prodotto la
cannabis. Feci una sorta di appello col pensiero per vedere se non mancava nessuno ma, ahimè,
Carlo di era dissolto nell’aria. Chiesi agli altri che fine avesse fatto, ma nessuno mi rispose. Cercavo
Carlo perché temevo la sua pericolosità: quando infatti svaniva nel nulla poteva creare dei casini
seri. Della sua incolumità non me ne fregava assolutamente un accidenti. Poteva anche essere
sparato; ciò che mi metteva in ansia era che ci poteva mettere nei guai, in un frangente ed in
contemporanea.
Poi sentimmo un frastuono provocato da un oggetto metallico che si trascinava; era
odiosissimo alle nostre orecchie. Digrignai i denti a causa di quel fastidio uditivo.
<< Che diavolo è, un carro armato? >>, urlò Giovanni che evidentemente provava le mie
stesse sensazioni. Più passavano i secondi, più quel graffiare d’asfalto aumentava d’intensità. Poi a
circa una cinquantina di metri di distanza vedemmo una sagoma che a fatica, con entrambe le
braccia, si trascinava una sorta di contenitore bianco. Sicuramente era lui il fautore di quel
frastuono. Era Carlo, anche se molto distante, l’avevo riconosciuto ugualmente. “Che si porta
appresso?”, mi chiesi con un pizzico di paura. Ci alzammo tutti in piedi per aspettare il Carlo al
prodigo. Quando ci raggiunse era stremato ma appagato per l’obiettivo portato a compimento.
<< Ehi pargoli, guardate cosa vi ha portato il vostro amico del cuore >>.
Noi rimanemmo di sasso: aveva rubato da una farmacia il bidoncino, che conteneva i
medicinali scaduti. Se lo portava dietro con trionfo, come se si fosse trattato del sacco dei doni di
Babbo Natale. Lo distrusse e tirò fuori una fiumana di medicine, chiuse in dei pacchetti a noi
completamente sconosciuti. Si stava veramente toccando il fondo. Forse perché eravamo rintronati
dalla droga, o forse perché eravamo semplicemente matti. Sta di fatto che cominciammo a scartare
quegli involucri contenenti medicinali. Poi Cosimo, che quella notte era stato impossessato dal
delirio, fece la schifezza: si spalmò sul viso una pomata al cortisone, come se si fosse trattata di una
crema idratante.
<< Guardatemi! Tra un po’ potrò concorrere per miss Italia! Che meraviglia, non vedo l’ora di
darla ai giudici di gara. In seguito sfrutterò la mia bellezza per ottenere le mie ambizioni. Mi
iscriverò all’università e farò pompini a ripetizione a quei vecchi professoroni settantenni che hanno
le rughe persino sulla lingua. Ah, quanti esami orali che farò! >>
<< Ehi questo sta fuori davvero, gli saranno penetrati i nematodi nei neuroni! Toglietegli quel
cortisone dalle mani, altrimenti stanotte va a finire male >>.
<< Secondo me, la merda che gli scende dal culo gli parte dalla testa >>, feci disgustato.
Cosimo si era rimesso a piangere. Io estrassi un fazzoletto dalla tasca e tentai di ripulirgli la
faccia. Mentre mi cimentavo in questa opera di bene, quel figlio di buona madre mi tirò un morso
con quei suoi dentacci affilati come quelli di un coguaro. Mi venne un dolore senza precedenti;
sarebbe stato meglio se mi avesse morsicato un tirannosauro rex. Egli rimase attaccato alla mia
carne come se avesse intenzione di staccarmela. Secondo me si era preso la rabbia. La sofferenza
che mi produsse mi fece reagire repentinamente, con l’azione del riflesso. Non ebbi pertanto
nemmeno il tempo di capire che cosa stessi facendo: gli sganciai un ceffone col palmo irrigidito, di
modo che il colpo fosse ancora più violento del previsto. Il povero Cosimo era talmente preso dagli
spasmi della cannabis che non sentì alcun dolore, tuttavia il mio intervento fu risolutivo, perché egli
parve quietarsi e si fece ripulire con cautela.
Carlo nel frattempo rovistava nello scatolame medico, era in cerca evidentemente di qualcosa:
<< Cazzo, deve pur esserci un’aspirina da qualche parte, ho un male alla capoccia bestiale >>
<< Cioè, fammi capire, tu hai svaligiato la parte esterna di un farmacia solo ed esclusivamente
per rinvenire un analgesico che ti alleviasse il mal di capo? >>
<< Certo, ci mancherebbe. Dove lo vado a trovare qualcuno disposto a curarmi il mal di capo.
E poi la salute è un servizio pubblico, quindi sono autorizzato a servirmi autonomamente e
gratuitamente di qualunque prodotto che ponga fine alle mie tribolazioni >>.
L’aspirina non c’era e Carlo parve deluso di quel furto sui generis. Pertanto tralasciò la ricerca
per andarsi a riposare sulle pendici di un marciapiede. Vidi che ore si erano fatte, dato che mi
sembrava di vagare nell’eternità. Erano le sei e trenta, tra circa un’ora avrei dovuto prendere il treno
e recarmi all’università. Non potevo non andarci, dovevo fare l’esame di analisi dei linguaggi e dei
concetti politici. Non mi andava però di tornare a casa, altrimenti avrei svegliato i miei familiari che
si sarebbero messi a fare storie. Tanto il portafoglio ed il libretto universitario li avevo con me.
Quindi mi allontanai dagli altri e mi recai nella mia macchina per fare una pennichella.
Ripercorrendo la strada al contrario notai che il ragazzo che si stava strapazzando di eroina se n’era
andato, però aveva lasciato come ricordo del suo transito un accumulo di fazzolettini bisunti di
sangue e la siringa che gli aveva pugnalato il braccio. Aprii lo sportello dell’auto e mi coricai lungo
i sedili posteriori. Nel dormiveglia sentii bussarmi dal finestrino; alzai gli occhi e riconobbi
l’immagine sfocata di Cosimo. Aprii lo sportello per sapere cosa volesse:
<< Che cazzo vuoi? Speravo fossi morto di overdose >>, gli chiesi con la bocca impastata dal
sonno.
<< Me lo dai un passaggio a casa? >>
<< Scordatelo, io rimango qui a dormire >>.
<< Dopo tutti i favori che ti ho fatto, neanche uno strappo fino alla mia abitazione mi vuoi
dare? Cosa ci perdi? Se ne andrebbero soltanto una decina di minuti >>.
<< L’unico favore che potresti farmi sarebbe se ti impiccassi con le tue stesse mani >>.
Cosimo abitava in periferia e dalla parte opposta del paese. Se fosse andato a piedi, avrebbe
impiegato circa tre quarti d’ora ed avrebbe pure rischiato la vita dato che c’erano, nel tratto di strada
che l’avrebbe condotto a casa sua, delle zone in cui il marciapiede veniva a mancare. Per tale
ragione c’era un’alta probabilità di essere preso in pieno come un birillo da un guidatore
imprudente. Io però in quei frangenti soffrivo di carenza di forza di volontà:
<< Ti offro due possibilità: o te ne torni a casa tua con le tue gambe, oppure ti metti a dormire
con me nella mia auto matrimoniale >>.
<< Va bene, hai vinto tu, scelgo la seconda possibilità: opto per una gioiosa nottata con il mio
marito dolcissimo. Oggi caro, te lo devo dire in tutta franchezza, non mi va di fare l’amore; mi
sento più frigida del solito; ho infatti le ovaie infiammate >>.
<< Chiudi quella boccaccia, brutto frocio di merda e vatti a strafottere! >>
Entrò e si mise a dormire nel vano addetto al portabagagli. Naturalmente, per farlo sistemare,
avevo abbassato lo schienale dei sedili posteriori. Cosimo si addormentò quasi subito, o almeno
così mi parve. Di una cosa tuttavia fui certo: che scorreggiasse come un motore a scoppio. Pareva di
stare a dormire in un tombino. Si sentì un fetore che avrebbe messo disgusto persino ad una
mummia sofferente di flatulenza; nemmeno con un depuratore impiantato nel perineo si sarebbe
potuto eliminare quel puzzo da capogiri. Ciononostante il sonno prevalse sul mio olfatto: non mi
lamentai della malaria venutasi a diffondere ed abituai il mio sistema respiratorio, pur di cavare una
briciola di riposo.
Un’ora dopo ero già in piedi, l’esame non poteva aspettare, se non lo davo adesso, avrei
aspettato un’altra era geologica. Svegliai Cosimo, prendendolo per capelli. Lui si riprese
tempestivamente e fu altrettanto veloce nel voler comportarsi da idiota:
<< Cucciolo mio, cosa c’è per colazione? >>
<< Un bel calcio nelle palle. Se vuoi ancora il passaggio taci e rimettimi subito in ordine la
macchina. Per pochissimo tempo sei stato e c’è un casino, manco se fosse passato un uragano >>.
<< Certo cuoricino mio >>, e mi dette un bacio sulla guancia << sono io che faccio i servizi
nella nostra dimora nuziale >>.
Era inutile supplicarlo, nemmeno in ginocchio m’avrebbe dato ascolto. Mi guardai nello
specchietto per constatare il mio stato: sotto i miei occhi c’erano delle occhiaie spaventose, lividi di
un’ennesima notte d’insonnia. Uno zombie avrebbe avuto una cera migliore. Partimmo d’impulso,
senza avvederci se gli altri ci fossero o meno; non mi voltai minimamente, la curiosità non era di
moda nella mia mente. Mi vergognavo molto di condurre questa esistenza alla cieca ed ogni mattina
mi promettevo di uscirne, tuttavia, puntualmente, ci cascavo come un allocco: mi ferivo con le
trappole che io stesso m’innescavo.
Accompagnai Cosimo e raggiunsi casa mia. Lasciai la macchina che sarebbe servita a mia
madre e m’incamminai frastornato verso la stazione. Non salii a casa perché non ne valeva la pena.
Vedere quelle facce di ebeti di mia madre e mia sorella mi procuravano soltanto il voltastomaco.
Tanto mia madre era in possesso di un’altra copia di chiavi della macchina. Intanto piovigginava,
per fortuna con un’intensità da non procurarmi noie. Lentamente il paese si risvegliava dal letargo
notturno. Una scena già vista un migliaio di volte: si era messa in moto la pellicola dell’ennesima
giornata fotocopia. I platani contorti erano diventati orfani delle foglie e mostravano, quasi con
angoscia, le proprie falangi di rami nodosi. In stazione non c’era molta gente. Raggiunsi la
macchinetta che erogava biglietti, ma questa non funzionava, o meglio, l’avevano distrutta: infatti,
introducendo gli spiccioli in sommità, questi tornavano al mittente, senza che non si verificasse
alcuna deviazione al loro percorso. Attesi il treno sotto un vento impetuoso. L’orologio segnava le
sette e ventiquattro ed il convoglio ferroviario, che doveva essere presente già da diversi minuti,
non era ancora sopraggiunto. Due ragazze imbacuccate, ritte ed intirizzite, che mi fiancheggiavano,
discutevano della serata appena trascorsa in un bar fighetto.
“Maledettissimo treno”, imprecai dentro di me, “ti vuoi muovere!”. Come se telepaticamente,
con la sola forza dei simulacri, avessi potuto trascinarlo al capolinea. Anche gli altri pendolari
cominciavano a spazientirsi perché il ritardo, da tre minuti, era passato ad un quarto d’ora e via via
si stava ampliando sempre di più. Poi, l’altoparlante decise di far sentire la propria voce
informativa:
“il treno regionale, numero …, delle ore sette e ventidue, arriverà con trenta minuti di
ritardo”.
Lo sapevo che qualcosa sarebbe andata storta. L’esame lo dovevo fare obbligatoriamente,
anche se mi avessero mutilato. Che sbattimento! Molti degli attendenti abbozzarono dei gesti
d’approvazione ironica, come a voler sottolineare l’efficienza del sistema di trasporto italiano. Io
rimasi statico, come quegli uomini rassegnati che aspettano inesorabilmente il loro destino, dato che
sarebbero incapaci di mutarlo. Pertanto rimasi lì, imbambolato come un traliccio, che nemmeno una
frana poteva sradicare. Poi, però, tanto per cambiare e per rendere la mia vita ancora più sfigata di
quanto non lo fosse, ricevetti il colpo di grazia: il treno l’avevano soppresso. Come al solito ero
stato fregato e l’obiettivo di raggiungere l’università si faceva sempre più complesso. Come dovevo
fare? Non potevo neanche prendere il pullman perché, con grande intelligenza, avevano
programmato degli orari di partenza, pressappoco simili a quelli dei treni. Tornai in fretta e furia sui
miei passi, per tentare di raggiungere mia madre, spiegargli l’intoppo e riappropriarmi della
macchina. Non credo che avrebbe dato problemi, c’erano un sacco di colleghe che l’avrebbero
potuta accompagnare sul posto di lavoro. Con la foga dell’ansia mi misi a correre per un breve
tratto. Le persone che incrociavo mi guardavano incuriosite e ricolme di timore. Tutte si voltavano
ad osservare la mia andatura fulminea e si scrutava nella loro espressione il pizzico di ridotta
quantità di materia grigia e della fame di distribuire pettegolezzi. Che cazzo c’era di così strano nel
vedere un ragazzo correre? E chi lo sa, ogni pretesto era buono per ingannare lo strapotere della
noia.
Arrivai sotto casa grondante di sudore. Tuttavia, la mia corsa contro il tempo era risultata
vana. C’era da aspettarselo, mi ero affannato a vuoto. Di solito mia madre fa sempre ritardo ma
stavolta, quasi volesse infierirmi un dispetto, aveva spaccato il minuto risultando puntuale. Rimasi
spiazzato da un simile evento, probabilmente ero impreparato ad un imprevisto del genere. Cazzo,
credo che anche la sfortuna abbia un limite; nel mio caso no, si protraeva a tempo indeterminato.
Comunque, in un modo o nell’altro, il mio intento dovevo raggiungerlo, anche a costo di servimi di
un monopattino. Mi voltai dal luogo esatto dove avevo posteggiato l’auto e con molta lentezza,
tentai di scervellarmi nel trovare una soluzione di salvataggio. Avrei potuto chiedere la macchina in
prestito a qualcuno ma non mi andava. Del resto non ero nemmeno in grado di recitare la parte dello
scroccone. Tra un’ora l’esame cominciava o meglio, tra circa un’ora sarebbe cominciato l’appello
del professore e dei suoi assistenti, per capire il numero degli studenti che avrebbe dovuto ascoltare.
Già immaginavo quali facce costernate avrebbero fatto, dopo aver constatato che le persone da
esaminare sarebbero state più numerose delle stelle della via Lattea. Se non mi fossi presentato
avrei alleggerito, seppure di poco, il loro lavoro tedioso. Non mi andava di dargli questa
soddisfazione. Inoltre, perdere questa occasione, significava rimandare di altri tre mesi il mio studio
nauseante.
Congegnai con la mente le possibili alternative per raggiungere la mia tanto ambita
destinazione. Purtroppo le possibilità lasciavano molto a desiderare. Pertanto scelsi l’unica e la più
difficile da realizzare: mettermi a fare l’autostoppista. In mezzo ad un traffico continuo e soffocante
qualche essere di buona volontà ci doveva pur essere. Uscii dal paese e raggiunsi la provinciale per
ricercare qualcuno disposto ad accompagnarmi all’università. Dentro di me pensavo “Che schifo,
siamo nel 2012 ed i giovani devono mettersi ad accattonare passaggi, pur di raggiungere il luogo di
studio”. Poi mi venne un’idiozia che mi disse Raffaele, mentre stavamo squadrando una ragazzona
super dotata che si dava delle arie da vip: “la bellezza è come un autostoppista: è solo di passaggio”.
La strada faceva pena: c’erano fenditure dappertutto, le macchine mi sfioravano senza
degnarsi nemmeno di decelerare, come se mi avessero preso per un qualunque segnale stradale da
non rispettare. Sulla banchina stretta agitavo il braccio per attirare l’attenzione dei guidatori che mi
passavano lateralmente. C’era l’indifferenza allo stato puro, forse ero diventato invisibile. Il cielo
era plumbeo e minacciava, col suo grigiore sempre più accentuato, un’ira temporalesca; nel
frattempo continuava a piovigginare. Mi misi lo zaino in testa, che funse da ombrello. Sull’asfalto
c’erano numerose cartacce, bottiglie di birra vuote e preservativi appassiti dall’usura.
Quando oltrepassai il distributore, che era distaccato dal paese di duecento metri, avvenne il
miracolo: qualcuno, avendomi scorto e superato, prima rallentò e poi mise una freccia intermittente
per accostare; infine, con mio immenso sollievo, si fermò completamente. L’ultima volta che avevo
vissuto una esperienza del genere, lo stronzo del guidatore si limitò a chiedermi delle indicazioni.
Stavolta mi era andata bene; a meno che il mio autista non fosse stato un maniaco omicida. Nei
pressi della macchina lo osservai: era un uomo corpulento di una quarantina d’anni, bruno e con i
capelli corti. Anche se si vedeva ch si era appena tagliato la barba, l’alone della sua peluria facciale
gli si era già formato; come se al posto di essersela rasata se l’era strappata, rilasciandogli sulle
guance le tracce di un’ombra perpetua. Dando un giudizio preventivo, tipico dei primi sguardi,
nonostante l’aspetto un po’ rude, mi sembrava un buon uomo; raffrontabile ad un orco convertito.
Partimmo con le gocce di pioggia che maculavano i vetri e che svanivano sui colpi del
tergicristalli. Un insetto si venne a spiaccicare, con un rumore sordo, sul parabrezza e divenne
soltanto una poltiglia senza forma propria. L’uomo mi chiese cosa facevo, io gli risposi che ero uno
studente di lettere e che avevo da fare un esame. Egli mi raccontò che faceva il lavavetri presso
numerosi negozi del paese e che quel giorno, motivo pioggia, non lavorava. Per tale ragione si stava
recando a vedere sua madre che non vedeva da più di una settimana. Arrivati in città, un
personaggio dagli atteggiamenti delinquenziali, che si muoveva a scatto, ci volle propinare degli
accendini. Il lavavetri rifiutò. Egli allora per ripicca ci mandò in a quel paese e diede un pugno sullo
sportello, dalla parte del guidatore.
<< Ma guarda con quali personaggi dobbiamo avere a che fare >>, fece l’autista amareggiato.
Dato che non c’era un parcheggio nemmeno a volerlo trovare nel cimitero della città, il mio
salvatore mi lasciò a pochi metri dalla facoltà. Lo ringraziai e ci salutammo. Egli nel congedo mi
volle augurare buona fortuna con un “imbocca al lupo”.
All’interno dell’università c’era il solito frastuono: dementi intellettuali che con la sigaretta
tra le dita si davano arie di saccenti e se ne fottevano di fumare in luogo pubblico, sporchi comunisti
che avevano barbe da cavernicoli sudate che gli ostruivano persino le narici, pigroni che
trascorrevano le loro giornate all’interno dell’ateneo stabilendone un rapporto di simbiosi, culattoni
in cerca di maschi da trapanare, culettone in attesa di essere trapanate; insomma tutte le tipologie di
feccia sociale erano racchiuse in quei pochi metri quadrati. La caratteristica che gli accumunava era
quella dell’incompetenza. Gente pronta ad entrare nel mondo del lavoro e preparata a creare dei
casini ancora più spaventosi di quelli lasciati dai nostri antenati.
Raggiunsi il terzo piano ed entrai in aula magna: vale a dire il luogo nel quale si sarebbe
dovuto tenere l’esame. C’era un’aria viziata, quasi rarefatta, manco ci fossimo trovati in un
sommergibile. Ovviamente i posti scarseggiavano perché gli sciacalli già se n’erano appropriati. Un
frullato di voci mi rimbombava nei timpani sotto forma di brusio. I deficienti ripetevano quello che
avevano studiato come dei macchinari industriali. La mia ultima ripassata risaliva a tre giorni prima
e l’avevo condotta con lo stesso impegno di un bradipo. Sebbene all’apparenza sembravo
disinteressato a quello che avrei dovuto affrontare, in realtà mi sentivo un po’ di farfalle nello
stomaco che decretavano il mio stato d’ansia sempre più crescente. Avevo tuttavia nello zaino uno
stratagemma infallibile che mi avrebbe riportato la calma: mezzo litro di vodka, scampata da una
delle nostre nottate di baldoria. Non potevo però bermela nel bel mezzo di quella ressa di cagasotto.
Mi serviva un luogo appartato, estraneo agli sguardi altrui. Uscii quindi dall’aula e andai in cerca di
un bagno. C’era nei pressi del lavabo uno studente lercio e sciattone, a torso nudo, che si stava
lavando le ascelle. Me ne andai in cabina e diedi tre sorsate. Ripassai nuovamente davanti a quel
porco, il quale era intento ad una nuova manovra d’igienizzazione: la pulizia dentale. Già che c’era
poteva anche pulirsi lo sfintere; chissà quante schiere di pantere nere gli ostruivano il sedere!
Che animale, forse aveva scambiato l’università per un autogrill. Oppure a casa sua mancava
l’acqua. Me ne andai senza lavarmi le mani.
Rientrai in aula e mi sedetti vicino ad un cretino che ripeteva tenendo il libro chiuso. Parlava
da solo come uno schizofrenico. Da quando mi ero appollaiato sulla seggiola, con la coda
dell’occhio non faceva altro che squadrarmi, anche se si dava un’aria indifferente. Infatti poco dopo
si voltò per pormi una serie di domande fastidiose:
<< Hai degli evidenziatori? >>
<< No >>
<< Una penna rossa, un colore a cera, degli acquerelli? Uno strumento per scrivere che sia
diverso dal nero o dal blu? >>
<< Non ho niente, oggi sto scrivendo tutto col mio sangue. Per cosa mi hai preso per una
cartoleria? >>
Roba da matti, non si poteva stare in pace nemmeno un minuto. L’imbecille aprì il libro e
cominciò a mangiarsi le unghie con ansia e voracità. Quel modo di fare certamente non l’aiutava. Si
vedeva da un chilometro che era in preda ad un attacco di panico; ciononostante si ostinava in
quello studio patetico. Fremeva, sembrava una pentola a pressione; si era come caricato
elettricamente per auto induzione. Era talmente eccitato che se avessi portato con me il telefonino,
lo avrei collegato a quell’idiota e me lo sarei ricaricato.
Finalmente il demente che mi affiancava se ne andò perché la sua attenzione venne richiamata
da un suo amico rimbambito tanto quanto lui. Io me ne stavo lì: appeso nella mia tenera semi
sbronza. Ogni tanto andavo in bagno per pisciare e farmi un’altra sorsata del super alcolico. In
questo modo trascorsi il tempo d’attesa. Vedevo un continuo gesticolare dei professori verso gli
allievi che venivano esaminati. Dopo altre quattro bevute di vodka la quiete s’impossessò di me,
senza peraltro farmi perdere la lucidità. Le ore divennero minuti e rimasi perfettamente fermo fino
al tardo pomeriggio, ossia fino a quando giunse il mio turno.
Il professore baffone che verificò la mia preparazione fu abbastanza indulgente, forse perché
si era stancato. Lo ammetto, non è mica facile starsi a sentire la pappardella di uno stormo di
studenti ciucci e sfaticati. Mi beccai un bel ventisei perché in una domanda ebbi qualche
tentennamento. Ne fui però soddisfatto. Quindi con garbo e senza battere ciglio firmai il verbale, mi
feci autografare il libretto e mi accinsi a fuggire da quella massa di mocciosi smidollati. Avevo
voglia di sorridere ma ero così stremato che rischiavo un collasso.
Nel corridoio deserto intravidi un ragazzo che si agitava sia verbalmente che con le mani nei
confronti di una ragazza dall’apparenza innocente. Le ragazze infatti, soprattutto quando sono in
colpa, appaiono tutte innocenti. Avrei voluto tanto cambiare strada ma l’itinerario non me lo
permetteva: un corridoio c’era e quello dovevo imboccare. Erano fatti loro e a me non interessava;
per nessuna ragione al mondo mi sarei dovuto fermare. Solo che purtroppo fui costretto, non per la
violenza verbale che stava subendo la ragazza testa di cazzo, ma per il suo aggressore che aimè
conoscevo dannatamente bene: era Carlo. A momenti la stava per strangolare. Poteva anche
ammazzarla a quella puttana, in fondo le donne sono degli esseri totalmente inutili, servono solo da
condimento all’esistenza umana. Quindi una di più o una di meno non faceva alcuna differenza.
Solo che poi se quella sgualdrina lo avesse denunciato si sarebbe scatenato il putiferio. Per evitare
di farlo cadere in un altro casino, mi avvicinai e tranquillizzai Carlo che mi sembrava uscito
completamente di testa. Si stava incazzando perché era andato dal professore per chiedere l’orario
di un esame ed era stato cacciato con una partaccia. Allora Carlo per vendicarsi si era messo a
pisciare dietro la porta del suo studio. In quel momento passava quella gallina idiota che l’aveva
scorto. Quindi Carlo, più infuriato che mai, l’aveva presa per il collo e la stava minacciando di non
parlare, altrimenti glielo avrebbe tirato fino ad ammazzarla. Io, una volta avvicinatomi al diverbio
acceso, spiegai a Carlo che non ci sarebbero stati problemi: ella sicuramente non avrebbe parlato.
Gli dissi che le donne sono delle inette assolute in quanto sono delle vigliacche senza coglioni.
Sono buone soltanto a scopare e a fare i servizi. Sono sempre insicure perché vivono in una paura
quotidiana. Vivono in una mare d’incertezza, perciò tanto vale se si fossero affogate. Quindi poteva
stare tranquillo, una demente del genere era assolutamente innocua.
<< Già >>, fece Carlo con aria minacciosa alla ragazza, << Una cogliona del genere potrebbe
soltanto fare pompini, se però vengo a sapere che hai parlato t’infilo questo dito nella fica fino a
romperti l’utero! >>
Lasciammo quella donna escremento e andammo insieme al distributore automatico delle
bevande e degli snack. Carlo subito cominciò a mettergli le mani, come se stesse violentando
qualcuno. Non so quale marchingegno avesse architettato ma cominciarono ad uscire soldi dal
nulla, come se stesse giocando alle slot machine. Poi sbattendosene delle persone che lo
osservavano con occhio torvo, inclinò la macchinetta e tentò di prendersi qualcosa da mangiare.
Questa volta i suoi stratagemmi risultarono vani.
<< Sai, devo provare un giorno di questi a portarmi una moneta attaccata ad un filo di modo
che possa prendermi gioco della macchinetta: gl’infilo la moneta, facendo credere allo stupido
sistema di aver pagato regolarmente il mio spuntino e poi mi prendo i soldi come se nulla fosse. Per
quanto mi riguarda potresti collaborare anche tu a questo tipo di ricerca. Si lamentano tutti che in
Italia quegli incompetenti dei ricercatori non hanno un lavoro. Basta un po’ d’inventiva le nuove
soluzioni fioccano >>.
<< Magari ti insigniscono per il nobel per la truffa. Io me ne vado a casa. Mi sento esausto
come la sansa >>.
<< Di già? Non vuoi venire con me? Devo incontrare Angelo che mi deve far vedere un film
porno in hd. Qualcosa d’incredibilmente reale. Vedessi che colori! >>
<< No, meglio di no; ho i nervi a pezzi >>
L’ultima volta che ero andato da quel depravato avevamo perduto un’intera serata a guardarci
un filmaccio i cui attori meritavano di essere arsi vivi nella lava infernale per le sozzure che
commettevano. Il film si chiamava “io speriamo che me la chiavo”. C’era l’attrice protagonista che
si faceva malmenare, sputare pisciare cacare, come un bagno turco. Più la picchiavano e più faceva
finta di godere; roba da denuncia. Poi si capiva anche soltanto sentendo la voce che fingeva, i suoi
occhi erano falsi e mi riempirono di sgomento. Gli altri spettatori che erano con me invece si
divertirono, manco si trovassero al Colosseo. Addirittura ci fu un momento che uno degli attori,
avendogli messo l’uccello in gola come un colluttorio, sembrava volesse strozzarla. Questa oscenità
mandò il pubblico in delirio: cominciarono in coro a gridare: “uccidila! Uccidila”, come quelle
masse popolari inferocite di fronte ad un’esecuzione. Violenza, solo violenza, nient’altro che
violenza; persino un semplice atto d’amore si era tramutato in violenza.
Carlo mi afferrò per un braccio per ostacolare in qualche modo la mia decisione ferrea:
<< Dai, ti prego, vieni con me, mi sento così solo. Mia dolce metà non puoi lasciarmi in
mezzo a questa valle di lacrime. Ho bisogno di qualcuno che mi protegga >>.
Intanto la presa aumentava la sua stretta, fin quasi a farmi penetrare le unghie nella carne. Io
per liberarmi adoperai la solita tattica della fuga indiscreta:
<< D’accordo >>, feci, << aspettami solo un attimo, il tempo di consegnare questo modulo in
segreteria e sono da te >>.
Fortunatamente mi lasciò, mi avviai verso la segreteria e furtivamente sgattaiolai dalle grinfie
di quel maniaco omicida. Che nervi, se non fosse stata per quell’idiota di ragazza che si era
frapposta sui miei passi, a quest’ora sarei già stato in treno a guardare dal finestrino come un ebete
lo scorrere dei paesaggi. E’ inutile, ho una tendenza ad avere le persone sempre sopra le palle, come
le valvole che tengono gonfi i palloni.
Che schifo questo maltempo; per vedere un po’ di sole occorreva raggiungere lo spazio. La
strada era grigia, il cielo era grigio, le facce che incontravo erano grigie. Ero immerso nella
squallida realtà cinerea. I volti che incontravo erano fiacchi e apatici, cattivi e annoiati, come se li
avessero costretti a vivere. Quella pelle dei loro volti era rugosa, sciolta e priva d’emozioni mi
faceva sia schifo che paura. Anch’io sarei diventato così? Anch’io col quotidiano vivere mi sarei
trasformato in un essere indecente a corto d’entusiasmo? Quei visi aggrottati si contrapponevano ai
manifesti pubblicitari di modelli e modelle dai corpi perfetti, che imbavagliavano la città. Il futuro
mi dava la nausea; avrei voluto chiedere una risposta al cielo, ma lassù c’erano solo nuvole. Poi,
sotto un porticato incontrai a chiedere l’elemosina, quei due strippati di Toni e Riki. Stavano come
al solito, uno col bonghetto e l’altro con la chitarra acustica, a suonare uno dei loro pezzi musicali
pietosi e cosmopoliti. Erano circondati da dei cani tappezzati di tigna, che mangiavano tranquilli,
ognuno la sua razione di latrina. Persino San Francesco avrebbe provato ribrezzo. Appena mi
videro, in contemporanea e con un’espressione opportunista e giuliva, mi dissero:
<< Ciao Ciro, facci un’offerta >>.
<< No ragazzi mi dispiace, ma oggi sono più al verde di un semaforo >>.
Ogni tanto mi impietosivo e gli davo qualche spicciolo ma questa loro messa in scena si era
trasformata in una brutta abitudine. Che poi, coi soldi che si guadagnavano, si andavano a comprare
il fumo per squagliarsi di canne. Fanculo pure a questi no global sfaticati del cazzo e alla loro pace
universale della minchia. Si potevano andare a trovare un lavoro. Se potessi li percuoterei a colpi di
manganellate fino a fargli sputare gli organi dal culo.
Capitolo 8
Alle otto di sera c’era la partita. Come al solito le robe da calcio non erano lavate e odoravano
come l’ano di una puzzola. Diedi loro una sciacquata e poi le asciugai col fon. Con l’acqua
evaporava anche il fetore. Occorreva una maschera antigas per svolgere una simile funzione.
Maledette donne; una cosa sanno fare nella vita, che è quella del lavaggio degli indumenti e
nemmeno s’impegnano per portarla a termine. Comincio seriamente a pensare che il loro unico
talento sia quello di apparire.
Riuscii a raggiungere il campo comunale con un po’ di umidità addosso, che in quella
stagione significava avviarsi sulla strada giusta della febbre. Portavo ancora con me un po’ di fetore
tant’è, appena incontrai Giovanni, non ebbe alcuna esitazione ad esprimere la sua sensazione
olfattiva.
<< Ciro quanto puzzi! Che fai, conservi le robe nell’immondizia? >>
<< Ma che dici?! Ma se profumo come la primavera! Profumo talmente tanto che
dall’estrazione della mia cacca vengono si ricavano i cosmetici. Mentre il sudore che sgorga dalle
mie ascelle viene recuperato per produrre gli oli essenziali. E’ il tuo naso che fa cilecca; forse è
otturato dalla moltitudine di caccole che germogliano nelle tue narici. Chissà come sono indurite,
persino un minatore avrebbe problemi ad estrartele. E poi guarda che razza di completo di ritrovi.
Ma devi giocare in porta o ad hokey? Stai più corazzato di un armadillo >>.
Era imbottito ovunque. D’accordo che a gettarsi a terra in quei campacci comportava delle
abrasioni che non te le procuravi nemmeno con la carta vetrata, però, tutte quelle imbottiture
nemmeno gli addestratori di cani le utilizzavano. Non seppe come rispondermi, conoscevo un
milione di modi per zittire la gente.
Sotto l’arco degli spogliatoi c’era Luca con un’espressione da folle. Con quella sua faccia di
pazzo mi prese sotto braccio, poi con quella odiosissima voce da ciminiera mi fece:
<< Come ti senti? Sei pronto per la vittoria? >>
<< Certo, sono venuto per questo >>.
Lo presi per i fondelli, altrimenti se gli avessi detto la verità e cioè: “non me ne sbatte niente
di questa partita del cazzo” mi avrebbe torturato psicologicamente fino alla fine dei miei giorni. Per
di più avevo al piede anche una bolla come Martin Lutero.
Mi diede un occhiata compiaciuta e diffidente, per capire se mentivo o meno. I miei occhi
ghiacciati non gli diedero alcuna risposta. Mi lasciò andare e si recò in campo per riscaldarsi. Poi
però, già lontano, richiamò la mia attenzione per dirmi:
<< Ti ho lasciato negli spogliatoi la maglia della squadra, in modo che giochiamo con un
colore uniforme! >>
<< D’accordo! >>
Dentro gli spogliatoi tutti erano impegnati: chi si vestiva, chi si allacciava le scarpe chi si
aggiustava i capelli e così via. Vidi la maglia che mi aveva portato Luca e l’indossai: era enorme e
mi arrivava come il latte, fino alle ginocchia. M’inalberai e gridai dentro me stesso:
“Ma che cazzo è la maglia di Polifemo?!”, solo che dovevo indossarla comunque per
mantenere il colore di squadra. Quindi continuai a vestirmi silenzioso e stizzito.
Dato che io avevo finito in un batter d’occhio e me ne stavo con le mani in mano, decisi di
raccogliere i soldi da dare al custode del campo. Raccolsi la quota di ogni componente, ma quando
arrivò il turno di quello spilorcio di Andrea le palle mi girarono ancor prima di iniziare a giocare.
Mi consegnò una manciata di spiccioli che non c’erano nemmeno nel fondale della fontana di Trevi.
Faceva pure l’indifferente quel gran ricchione. Mi venne la voglia di prenderlo a vangate. Lo
aggredii come uno squalo:
<< Ma santo dio, sei proprio una gran merda! Come cristo fai ad avere cinque euro, in monete
da uno e due centesimi?! Ma porco Giuda, sei l’unico in tutta l’Unione Europea ad utilizzare queste
cacate. Io certi bottoni alla ramaglia quando me li trovo davanti li butto nel cesso! >>
<< Lo stronzo che sei, in questo modo aumenti l’inflazione >>.
<< Ma vatti a fottere! Ma se quegli spiccioli te li rifiutano persino i barboni >>
Me li feci dare tenendo i palmi uniti ad angolo acuto, come se dessi raccogliendo dell’acqua
zampillante. Terminata questa operazione glieli portai al quella capra del custode.
Cominciò a partita ed iniziò subito la violenza. Il campo da gioco era accidentato perché era
in terra battuta. Le caviglie pertanto si affaticavano più del normale. A questi micro traumi si
sovrapposero i falli degli avversari che coll’avanzare del tempo crescevano d’intensità. C’era un
tipo in particolare che combatteva sulla mia stessa fascia. Evidentemente il suo posizionamento non
era casuale; mi aveva sicuramente preso di mira. Ogni qualvolta m’impossessavo del pallone mi
faceva degli interventi al limite del regolamento. Ma ci fu un momento in cui mi prese in pieno il
malleolo e mi fece un male che nemmeno una fucilata mi avrebbe provocato.
<< Cristo! >>, urlai, << vuoi moderare la tua maledettissima foga?! >>.
Non mi rispose e continuò come se nulla fosse.
“Ma chi e questo grandissimo figlio di mignotta?”, mi chiedevo mentre zoppicavo; poi
subentrò in me un dolore ancora più acuto, che rese nebbia la sofferenza fisica: il pensiero di
Loredana. La mia pena d’amore era come il vento: non la vedevo eppure me la sentivo addosso.
Fottutissima Loredana, quanto mi fai soffrire; avrei tanto voluto incontrarti in questo misero
campetto di periferia per pigliarti a calci nel culo. La mia concentrazione tendeva quindi a vacillare.
Luca nel frattempo mi teneva continuamente d’occhio, perché era conscio di quanto fossero
altalenanti le mie prestazioni di gioco. Io però me ne fregai altamente perché avevo ormai perso
l’interesse. Mi sembrava tutto finto; senza senso come una strada segnalata da un divieto di transito.
Tutti correvano e si affannavano per impossessarsi di una sfera che li rendeva soltanto più cattivi,
mentre io m volevo impossessare di Loredana per divenire un angelo. Guardavo le corse multi
direzionali dei miei compagni di squadra e degli avversari: ognuno con qualcosa che gli impazzava
per la mente, ma sicuramente credo che nessuno avesse i miei pensieri. Mi riportò alla cruda realtà
quell’animale che mi stava massacrando come un martire. Stavolta mi fregò un fallo laterale: lui
l’aveva mandata fuori e lui si accingeva a batterlo, con indifferenza spavalda, come se fossi stato io
a buttarla oltre la linea di fondo. Ma in quest’occasione l’incazzatura mi fece uscire gli artigli: andai
vicino a con una spinta feci volare quell’assassino, per riprendermi il mio rispetto:
<< Stavolta non mi pigli più per il culo! >>.
Egli subito mi si avventò contro e mi menò una manata sul petto.
<< Sei solo un porco! >>, gli dissi, << ti credi forse una persona furba con queste stronzate?!
Mi hai proprio rotto il cazzo tu ed i tuoi modi da killer. Sai cosa ti dico, evito pure di fare una rissa,
altrimenti rischieresti di finire in obitorio. Mi fai talmente senso, che nemmeno mi degno di
picchiare un lurido come te, perché ti reputo pari ad una matassa di feccia. Ora me ne vado e tolgo il
disturbo. Con questi soggetti minorati non voglio più avere a che fare! >>.
Queste parole naturalmente le urlai per fare più effetto. Difatti rimasero tutti di stucco e
scioccati dalla mia sparata inaspettata. Nessuno si muoveva, io però sì, perché me ne stavo andando
via. Subito, c’era da aspettarselo, mi si parò davanti Luca, in preda ad un attacco di panico.
<< Che fai? Te ne vai ed abbandoni tutto? Lasci così i tuoi amici con un uomo in meno? Che
razza di giocatore sei? Vuoi farci perdere? >>
<< No, voglio far fallire questa partita. Con un uomo in meno, l’agonismo, vedrai, scemerà.
>>
<< Ma che ti salta in mente? Manca ancora mezzora e siamo in vantaggio. Senza di te saremo
umiliati >>.
<< Come un flipper me ne sbatto le palle! E poi non hai visto che quell’elemento mi si
avventa come un kamikaze? Mi ha maciullato le gambe. Questo porco fa scoppiare i conflitti come
Gavrilo Princip! >>.
<< Aspetta ti prego, non andare, se rimani, ti rimborso la partita >>.
Questa supplica me la faceva mettendomi le mani addosso, quasi a volermi molestare.
<< E smettila di fare il cretino e toglimi quelle chele di dosso! Ho detto no, punto e basta >>.
<< Ma ti prometto che d’ora in poi la partita sarà sempre all’insegna della correttezza e del fai
play >>
<< Chi cazzo sei il presidente della FIFA?! Impossibile, anche sotto giuramento certe canaglie
rimangono tali e quali. Le persone intelligenti si evolvono e quindi modificano il loro
comportamento. I mentecatti no, rimangono impantanati a commettere sempre lo stesso errore. Nei
loro sistemi operativi mentali ci vorrebbero sicuramente degli aggiornamenti. Questa è gente che
non sa convivere, frequenta gli ambienti affollati ma poi è capace solo di procurare disordini >>.
Lasciai Luca rassegnato e me ne andai senza voltarmi. Il mio fu un gesto d’onore e
contemporaneamente coraggioso. Chiunque infatti non si sarebbe mai sognato di scialacquare i
soldi spesi per giocare, per rigetto verso una persona incapace di rispettare il prossimo.
Tornai a casa stanco, sebbene avessi praticato una partita dimezzata. Mi misi sotto la doccia e
senza asciugarmi mi buttai nel letto. Non ne avevo più, era stata una giornata massacrante
fisicamente e psicologicamente. Il bello era che non era ancora terminata. Mi aspettava qualche ora
più tardi una bella serata in compagnia. Ecco perché volevo dormire. Se non avessi approfittato di
quella nicchia di tempo rimastami a disposizione, probabilmente sarei morto di veglia. Appena
chinai le palpebre caddi nel torpore e con esso mi lasciai dietro tutti i problemi ed i pensieri di una
vita del cazzo. Adoro quei momenti, è come un’ubriacatura naturale: il dolore si annulla e la carezza
dei sogni ammorbidisce l’animo. Si diventa come neonati, senza alcun tipo d’angoscia, beati nel
primo approccio all’esistenza. Sarebbe impensabile farsi prendere dal cattivo umore in quei
frangenti, il vaccino della serenità risulta infallibile. Del resto, se non c’è calma e spensieratezza, il
sonno non può mica venire: è la compatibilità della tranquillità. Vorrei tanto essere come quei
nullatenenti di quegli animali che vanno in letargo: si abbuffano come i porci, poi con l’arrivo della
stagione fredda, si appisolano e chi si è visto si è visto. Che pacchia. Molti potranno controbattere
che la loro vita e più breve, dato che passano parecchi mesi a dormire. Per quanto mi riguarda non
c’è alcun tipo di problema: e chi se ne frega di saltare un pezzo di vita che sai con certezza che ti
farà sicuramente schifo? Io il letargo la reputo la migliore vacanza: sul posto, gratuita, rilassante e
senza l’assillo di quella marea di teste di cazzo che ti si attacca come il velcro. Se potessi mi farei
ibernare.
Quando mi svegliai la luna aveva già da parecchio tempo calato la saracinesca del buio ed io
mi catapultai fuori di casa per andare ad incontrare i soliti amici bisunti. Stavolta non
c’incontrammo alla distilleria, ma al parco Pisacane. Dopo lo scempio della sera precedente
conveniva stare alla larga per un po’ di tempo. Nel parco c’erano ovunque segni di devastazione,
panchine senza schienale, monumenti mutilati, cartacce, lampioni fulminati, e tutti quei requisiti che
decorano un biglietto di presentazione di un paesello del Sud Italia. C’era a pochi metri la caserma
dei vigili urbani, ma la loro presenza si era estinta come i dinosauri. Tanto comunque lo stipendio lo
ricevevano. Per quale motivo allora bisognava mantenere l’ordine? La teoria del caos avrebbe
riportato la materia in equilibrio permettendo la sopravvivenza della specie. Quella sera nel parco
c’era ancora parecchia gente: erano perlopiù anziani che passeggiavano ed ostacolavano la nostra
sporca privacy. Poi fortunatamente la ressa cominciò pian piano a svanire, come i granelli della
metà superiore di una clessidra. Ero ancora solo, come al solito, soltanto io ero a conoscenza della
parola puntualità.
Dopo un quarto d’ora si presentarono i primi selvaggi della serata. Vennero a scaglioni e nel
giro di pochi minuti raggiungemmo un bel gruzzolo di persone. Giovanni si era pure portato sua
figlia, di soli quattro anni. Non voleva lasciarla sola a casa e, contemporaneamente, non voleva
rinunciare a drogarsi ed ubriacarsi. La dipendenza dagli stupefacenti è come l’amore: ti permette di
compiere dei sacrifici pazzeschi. In questo caso entrambe le cose convivevano, sia pure in modo
anomalo. Sua moglie non c’era, era andata a fare in concorso per accedere a scienze
infermieristiche ed aveva affidato a quel fallito del marito una bambina destinata al baratro.
Era spaventata la piccola e lo credevo bene, con un padre del genere, ti dava più un esempio
di civiltà Big foot. Appena vidi quell’essere innocente andai su tutte le furie:
<< Ma che diavolo ti salta in mente, perché hai portato questa poppante; cosa speri di farla
ubriacare? >>
<< Non sapevo dove metterla. O l’abbandonavo in strada oppure rimanevo con lei in strada
>>
<< Non potevi starti a casa? Rimarrà traumatizzata questa sera. Poi che razza di educazione le
dai facendoti vedere imbottito di maryuana? >>.
Subentrò Cosimo che non capii da dove fosse comparso, forse era sceso da un albero.
<< No ragazzi, stasera niente cannabis; oggi la mia nuova ricetta di ricettatore prevede una
specialità a base di funghi allucinogeni. Dato che quell’energumeno di Vernice è scomparso ho
preso io l’iniziativa facendo una bella ordinazione da internet. Ma non temete è roba di prima
qualità, colta direttamente nelle selve del Guatemala. Un altro capolavoro della natura messo al
servizio dell’uomo. Grazie Dio, tu manifesti il tuo amore con la natura? E noi cogliamo i tuoi frutti
saziando i nostri palati e svuotando i nostri cervelli. Oh ma guarda che bella bambina, è tua figlia?
Speriamo non abbia ereditato nulla dal padre, o meglio ancora, che sia una figlia illegittima >> e
l’accarezzava come un cane, << sai che facciamo mio bel pulcino? Ti diamo un bicchiere di
whiskey e ti mettiamo subito a nanna >>.
La bambina lo guardava di striscio con una faccia diffidente. A quel punto intervenni io,
anche perché Giovanni era pure apatico alle battute che venivano profferite a sua figlia. Che padre
involuto, era meglio se la piccola l’avessero abbandonata in una mangiatoia.
<< Ma ti vuoi stare zitto? Con chi credi di stare a parlare con quegli etruschi dei tuoi
familiari? Mi auguro soltanto che tu sia sterile, altrimenti chissà che razza di genitore mostro
saresti. Meglio l’educazione che ha ricevuto Mogly nel libro della giungla >>.
Proprio in quel momento, in cui si cercava di dare delle direttive di pedagogia e di buone
maniere, giunse Carlo il flagello dell’etica, in compagnia di due tipi astratti che sembravano
provenire da Marte.
Andrea giulivo gridò con tutta l’aria che aveva nei polmoni:
<< Guardate, è arrivato mister spippato! >>
Carlo prese la parola:
<< Ehi ragazzi, non avete l’idea degli ospiti che vi ho portato stasera! Questa è roba forte,
gente di classe, geni nel loro campo, non pezzi d’ignoranti come voi. Lui è Gildo, uno di quei poeti
assurdi, strampalati, che renderebbero Leopardi un felino, e Pascoli un pecoraro. Gildo è uno che
soffre, mica vive la nostra beatitudine insensibile. Lui invece è Sebo, come il liquido che fuoriesce
dalle ghiandole esocrine. Fa parte di un gruppo culturale come si deve che analizza ogni cosa, dalle
opere più cesse ai grandi capolavori. Non so se mi spiego, abbiamo a che fare con due menti
supreme che col loro intelletto vi porterebbero al manicomio >>, poi rivolgendosi alla bambina, <<
Ehi, ma che vi siete portati una nana? Da dove è uscita, dalla casa delle bambole? >>
<< Ci hai già snocciolato le palle >>, feci io, << presentiamoci con i tuoi amici e serrati quella
boccaccia una volta per tutte >>.
Ci presentammo, la mano di Gildo era umida e fredda, sembrava quella di un cadavere sudato.
Era molto pallido e spettinato, neanche al risveglio mi ritrovo con una simile capigliatura, sembrava
pettinato col frullatore. Evidentemente i suoi capelli reagivano all’intensa attività cerebrale che non
si placava per un solo istante. Aveva un atteggiamento superbo tipico di quelle persone che sono
consapevoli della loro superiorità e disdegnano i comuni mortali. Era un genio incompreso, o un
pagliaccio da prendere a martellate. Sebo mi dette invece subito l’aria di uno sballato doc, che non
fosse consapevole di cosa stesse a fare in quel contesto. Sembrava smarrito. Probabilmente si era
inalato talmente tanti acidi che lo rendevano quotidianamente disorientato. Scommetto che pure nel
cesso di casa sua si sentisse estraniato.
<< Su Gildo >>, intervenne Carlo per rompere il ghiaccio e le palle, << raccontaci cosa fai di
bello nella vita >>.
<< La nostra esistenza è effimera, siamo fiammiferi pronti a spegnerci al vento delle
emozioni. Cosa faccio di bello? Cerco di stabilire un contatto con Dio e con le intelligenze motrici
>>.
<< Intelligenze motrici?! >>, esclamai, << Oh
merda! Che cazzo si è iniettato questo
psicopatico la criptonite? >>
<< Non mi comprendi perché sono un poeta >>, ribatté Gildo, << Solo e soltanto la nostra
specie superiore è in grado di stabilire un contatto con Dio. Scommetto che tu non ti sei mai fatto
delle domande del genere: perché la luna è così pallida? Cosa impensierisce il mare? Perché egli è
così agitato? Perché gli alberi non si potranno mai abbracciare? Cosa fa piangere le nuvole? Come
mai il sole e la luna non si potranno mai incontrare? Ho capito, siamo come pianeti: destinati a
seguire sempre la stessa rotta, imposta dall’orbita dei nostri insignificanti destini. Il mio pensiero è
come il polline: non è controllabile, segue solo e soltanto le corsie dell’imprevisto. Noi poeti è come
se avessimo un senso in più: traduciamo con la lirica i messaggi che ci invia Dio, per mezzo delle
bellezze della natura. Abbiamo una sensibilità molecolare: anche una minima particella può influire
sul nostro temperamento. Così come descrisse De Crescenzo in “così parlò Bellavista”, ci troviamo
nella strada intermedia tra i santi ed i saggi. I primi possiedono un eccesso d’amore, diffondibile a
livello universale; i secondi sono dotati di una sapienza incomparabile. Sebbene entrambi si trovino
su poli completamente opposti, hanno lo stesso una caratteristica che gli accomuna. Infatti, sia che
si parli di saggi, sia che si parli di santi, sono ammantati dal manto della serenità. È proprio questa
serenità mancante che frega noi poeti. Siamo tormentati da una sensibilità che delle volte, anzi quasi
sempre, diventa addirittura debilitante. Noi possediamo un’emotività particellare che può portare la
devastazione del nostro animo, anche con un semplice mutamento di stato. Noi entriamo in lutto se
vediamo appassire un fiore, o se il sole va a morire nella notte. Con la tempera della lirica,
dipingiamo gli affreschi dei nostri sentimenti. Per dirla con una semplice frase: è tutta una questione
di pathos >>.
<< Pathos?! >>, feci io, << Chi è un moschettiere? Ma questo sta più fuori di un citofono! Il
tuo discorso è l’esatto contrario di uno spermatozoo: non ha infatti né capo né coda >>.
Cosimo rivolse il suo dubbio:
<< Ehi poeta dei miei stivali vorrei rivolgerti una domanda: ma la vita un senso ce l’ha? >>
<< E chi lo sa, per ora l’unica risposta che mi sono dato e che siamo solamente dei bonsai
nella foresta della nostra esistenza e che i nostri sogni sono soltanto insetti bloccati dalla zanzariera
della realtà >>.
Non ce la feci più ed esplosi senza trattenermi:
<< Mamma mia! Questo si fa più buchi della luna! Sniffa come un formichiere. Ma che
cacchio si è fumato la polvere di antrace? Carlo, stavolta hai trovato dei tipi unici nel loro genere.
Non appena finiamo questa nottata penosa prendili, mettili da parte e sopprimili come cani randagi!
>>.
Carlo, con un ghigno maligno, volle invogliare Gildo nella sua principale specialità:
<< Gildo non ascoltarli, sono invidiosi. Facci sentire il tuo ultimo capolavoro >>
<< D’accordo >>, fece Gildo, << Questa poesia, dal titolo “l’ambizione di una foglia”,
racchiude in pochi versi l’effimera esistenza umana ed il condizionamento che ha il destino verso le
aspirazioni di ciascuno di noi. La foglia è l’uomo, la sua traiettoria è la vita che percorre, ed il vento
è lo straziante destino >>.
Cominciò la poesia:
<< L’ambizione di una foglia è volare a piacimento,
ma rimane ingarbugliata tra le cantiche del vento,
verso il basso o verso l’alto, a seconda del momento,
lei affonda prigioniera in un languido lamento.
Come un salto è questa vita, un istante ed è finita >>.
Io riesplosi come un fuoco d’artificio:
<< Cazzo che iellata! Con questa poesia persino Gastone si taglierebbe le vene! Gildo
secondo me hai più problemi un libro di matematica! >>
<< Non c’è che dire >>, fece Carlo, << E’ proprio flashiato! Sta dando i numeri come un
elenco telefonico. Meglio abbandonarlo al vento proprio destino >>
<< Sì hai ragione, salvarlo risulterebbe un’impresa impossibile. Sarebbe come voler
incendiare il mare >>.
Gildo taceva ma non pareva offeso. Quasi si aspettasse la frana di ingiurie che gli sarebbe
cascata addosso.
Mi allontanai da quel ricettacolo di esauriti, per conoscere più a fondo quell’altro svalvolato
di Sebo. Sentii che aveva aperto un dibattito acceso con Andrea. Non sapevo di cosa stessero
parlando. Mi avvicinai quindi per origliare i loro discorsi. Ascoltai le seguenti parole:
<< Sì, d’accordo, se Hemingwei nei suoi libri usava un linguaggio ripetitivo, quasi
elementare, era pure per creare un quadro semplificato per il lettore. Talvolta la semplicità aiuta a
mandare nella mente di chi guarda la scrittura delle immagini nitide di quello che si sta
avvicendando in un romanzo >>.
E Andrea rispondeva:
<< Io un romanzo ho letto di Hemingwei, “il vecchio e il mare”, e mi ha fatto veramente
cagare. Centodieci pagine dedicate ad un vecchio alcolista che lotta contro un pesce avente le stesse
dimensioni di un transatlantico. Non è che ci vuole del talento a scrivere una lordata del genere.
Anch’io, a questo punto, sarei capace di diventare scrittore. Io sono del parere che se sei un culo
rotto raccomandato, puoi avere la strada spianata anche comportandoti da buono a nulla. Se al
contrario non hai gli agganci giusti, sei fottuto e ti attacchi. Perché ad esempio la Gioconda è
l’opera più bella di Leonardo da Vinci? A me fa veramente schifo. Come gli è venuto in mente a
Leonardo di ritrarre la più racchia femmina del ‘400? >>
<< Ma che raccomandato! Quello è uno che si è fatto da solo! >>
<< Anch’io mi faccio da solo quando mi sparo una sega >>.
Sebo volle riprendere il timone del discorso:
<< Comunque, domani trasmettono un cortometraggio di un regista americano che tratta
proprio questo argomento.
<< Quale? >>, fece Andrea, << la mia sega? >>
<< No Andrea, di Hemingwei. Questo regista è immigrato nel nostro paese un paio di anni fa.
Più che immigrato, lui si stabilisce per qualche anno in una nazione per assorbirne tutti gli aspetti
culturali che essa contiene >>.
A quel punto feci la mia entrata irruente:
<< Si vede che non ha altro da fare nella vita. Una persona che lavora, se le va bene, può
permettersi un schifosissimo viaggio sono nel periodo in cui gli concedono le vacanze. Questo
lurido spilorcio invece le vacanze se le fa annuali, anzi lavora andando in vacanza. Ecco perché
l’intero occidente è in piena crisi: c’è chi sgobba e chi invece vive a spese degli altri senza muovere
un dito. Mi verrebbe di impalarlo con un remo. Per carità, non lo invidio proprio, io i viaggi li odio.
Ti sporchi, ti annoi e ti accorgi che ogni angolo della terra combacia con l’altro. Con la
globalizzazione, anche se vai in Nuova Zelanda ti sembra tutto uguale a questo posto di merda.
Tanto vale restarsene a casa. Talvolta la ricerca dei diversivi si rivela una delusione insopportabile.
Non è mica un caso che tutti quei grand’uomini che viaggiano sono intristiti come fiori sotto sale. E
poi il viaggio non è altro che una forma di cultura passiva; è come le conferenze: non ci si sforza
minimamente per ampliare il proprio bagaglio culturale; si aspetta come un soprammobile e ci
aggrada soltanto la vista >>.
<< Non dire così, ti posso assicurare che è un bravo regista. Io in realtà non lo avevo mai
sentito nominare. L’ho conosciuto quando feci l’erasmus in Spagna grazie ad un amico, che mi fece
vedere un suo spettacolo teatrale >>.
Io alla parola erasmus ebbi un’altra detonazione:
<< Ah l’erasmus! Soltanto l’erasmus ci mancava! Lo sai a cosa serve l’erasmus? Te lo dico io
a cosa serve l’erasmus: a scopare, a ubriacarsi, a drogarsi e a fare gli esami che non si riescono a
sostenere in patria! >>.
Andrea quasi con rammarico disse:
<< Avrei tanto desiderato fare l’erasmus sull’isola delle femmine >>.
<< Invece è una bellissima esperienza >>, fece Sebo, << Anzi ve la consiglierei >>.
<< Un’esperienza che fa spendere soldi all’università a carico dei contribuenti e che è
consentita soltanto ai ricchi >>.
Sebo si stava irritando:
<< Ciro mi sembri l’emblema della contraddizione >>
<< Io sono l’emblema della verità. Vedo il male dove c’è il male, non il male dove c’è il bene.
E a dirti la verità io i critici d’arte non tanto li sopporto, mi sembrano come gli interpreti dei sogni:
vogliono per forza dare un senso a quelle cose che un senso non ce l’hanno >>.
Cosimo, che evidentemente mi seguiva in ogni spostamento, si attaccò al discorso,
rimorchiandosi alle nostre parole, con un argomento assolutamente fuori luogo:
<< Sai perché, nonostante le grandi distanze che separano i luoghi geografici più disparati, le
popolazioni, nei loro comportamenti, tendono più o meno a rassomigliarsi l’un l’altra? >>
<< E che c’entra. Comunque non lo so, spiegacelo tu, studioso del nulla >>
<< Semplice, perché gli uomini geneticamente sono tutti simili tra loro e solo per una piccola
percentuale si differenziano. Ed è proprio quell’insignificante frammento di geni che ci diversifica
nell’aspetto e nel carattere. In fondo discendiamo tutti da Adamo ed Eva >>
<< Eh sì, infatti ogni essere vivente, come Adamo ed Eva, ha la corruzione nel sangue. Loro
si vendettero per una mela avariata e per di più propinatagli da un serpente! Figuriamoci quante
stirpi di delinquenti si sono prodotti nel corso dei millenni >>
Sebo volle riappropriarsi di quello che stava dicendo:
<< Ehi calma fratelli, siamo partiti da un regista ed in pochi minuti ci siamo trovati
inspiegabilmente a parlare del peccato originale >>
<< A proposito di peccato >>, fece Cosimo, << Se ce n’è uno originale, ce n’è sarà
sicuramente uno contraffatto >>
<< Molto divertente. Raga lasciatemi terminare il mio discorso e poi potrete nuovamente
procedere con le vostre divagazioni, per altro abbastanza interessanti, e proprio per questo
indispensabili da ascoltare. Dicevo che quel regista americano oltre a quel servizio di mezzora su
Hemingwei terrà anche un meraviglioso cortometraggio dal titolo: “la concorrenza dei licaoni” >>
Io rimasi stupefatto dicendo:
<< Oh mio Dio! Già il titolo mi suggerisce che sarà una bidonata incomparabile! >>
<< Invece non dovreste farvi prendere dai pregiudizi. Ci saranno un sacco di nomi di spicco
ad assistere alla pellicola: il presidente del comitato giovani intellettuali, l’assessore dei beni
culturali…>>
<< Cacchio, proprio gente coi fiocchi che ne ha fatta di strada nella vita a furia di prendere la
macchina. Ora sì che la mia mente potrà arricchirsi di virtù. A furia d’incontrare certa gente c’è
un’altissima probabilità di diventare un uomo di mondo. Continuo a ribadire che queste grandiose
persone sono raccomandate come le lettere. Darei qualunque cosa pur di ghigliottinargli >>.
<< Se sminuisci tutti, persino le celebrità rischiano di diventare degli individui
completamente inutili >>
<< Infatti, anche le celebrità sono delle nullità, soprattutto quelle che hanno fatto una fine da
stronzi. Ma che razza di miti sono Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones o Jim Morrison? Che
cazzo hanno fatto? Hanno passato un’intera vita a sniffare a scopare e a buttar soldi, solo per moda,
fottendosene assolutamente degli altri. E tutta quella massa di cazzoni di fan che gli va ancora a
leccare il culo a distanza di anni. Questi li chiami miti? Per me sono solo una massa di ignoranti
senza personalità che si sono standardizzati al mestiere che compivano >>.
Intervenne Andrea:
<< Perché noi non facciamo lo stesso? Non stendiamo a suon di canne? >>
<< Si ma noi conduciamo un’esistenza destinata a cadere ancor prima di decollare. Tu sei un
fallito prefabbricato. Sei come un aborto: nato già morto. L’evento migliore che ti possa capitare è
la morte >>.
<< Azzo!!! A furia di augurarmi la malasorte mi farai venire la varicella ai coglioni. Per la
puttana! >>, e prese a grattarsi come un pervertito.
Cosimo si metteva in mezzo soltanto per dare fastidio:
<< Sì non c’è speranza per nessuno di noi. Non vale la pena nemmeno pianificare quello che
verrà. Siamo infatti senza futuro perché viviamo nel presente. È poi sti cazzo di giovani che hanno
l’ansia di voler vedere oltre quello che vivono. A me sinceramente sto cazzo di futuro mi ha
davvero rotto le palle. Questa gente non ha capito che a furia di pensare al futuro si ritroverà
vecchia senza saperlo >>.
Io, lasciando perdere le idiozie di Cosimo, continuavo a rivolgere la mia attenzione ad
Andrea:
<< E’ inutile grattarsi, è la pura verità. Tu vali meno della piscia di un cane. Cos’hai dato a
questa società? Nulla. L’unica cosa che sai fare sono quelle tue marce pacifiche da gente di sinistra,
che si finge aperta al prossimo ma che in realtà fa soltanto i cazzi propri. A proposito, per cosa hai
protestato l’ultima volta? Per l’inquinamento marittimo? E cosa hai concluso? Una cicca di sega.
Nessuno protesta più ed il mare continua a rimanere contaminato. Nei fondali c’è talmente tanto
mercurio che se ti fai un bagno ti puoi anche misurare la febbre! >>.
<< Ma che dici! Non hai nemmeno l’idea dello scombussolamento che abbiamo provocato; e
poi le manifestazioni non violente sono state capaci di cambiare il corso della politica! >>
<< Le marce pacifiche non servono a nulla. Il giorno dopo vengono dimenticate anche da
coloro che vi partecipano. Dimmi una sola protesta pacifica, che ti ricordi, che è rimasta nella storia.
Eh dimmelo! >>.
<< Adesso non mi viene niente. Però ce ne sono state parecchie che hanno cambiato il sistema
di una società >>.
<< Ancora con queste stronzate?! La verità è che se vuoi cambiare il corso delle cose, devi
provocare delle stragi. Ci deve scappare per forza il morto. Non capisci che a questi bastardi non
gliene fotte niente di nessuno? I lamenti dei cittadini gli entrano ad un orecchio e dall’altro gli
fuoriescono. Ci vuole un terremoto di violenza per strapazzare i loro culi ingrossati ed ingombrati di
merda. Altrimenti puoi stare tranquillo che continueranno a succhiare soldi a sbafo! La violenza
cambia il mondo, non gli ideali. Tutte le rivoluzioni hanno come unica matrice in comune la
violenza >>
Intervenne Cosimo:
<< E’ vero ha ragione Ciro. Chi detiene il potere pensa solo ed esclusivamente ai propri
interessi, fino a quando la pentola a pressione dell’insoddisfazione collettiva non esplode. Ecco
perché il mio sogno è quello di diventare un politico. Voglio andare ai festini, impipparmi di
cocaina, fino a sfracellarmi il setto nasale e scoparmi una gran ficona al giorno. Che bellezza, e poi
finire la mia vita con una bella overdose. Spero che il mio cadavere venga ritrovato in una vasca da
bagno con l’uccello mozzato. Meraviglioso! >>.
Fu la volta di Sebo, che non parlava da un bel po’:
<< Tanto anche i politici che rubano la pagheranno. Chi si comporta male la paga sempre. La
vita è ingiusta con i giusti ed giusta con gli ingiusti. Nel senso che: coloro che si comportano bene
non vengono premiati, mentre gliela fa pagare ai farabutti >>.
<< No, allora non hai capito un cazzo di niente! Alla politica gli si può applicare la proprietà
commutativa: cambiando l’ordine del governo, il risultato penoso non cambia. Le azioni umane
vengono mobilitate dal Dio denaro. Gli uomini più soldi hanno, meno si sentono sazi; per questo
più ne pretendono. È come se il loro cervello fosse occupato perennemente da una tenia mentale. Il
mondo perciò non si divide in buoni e cattivi. Il mondo si compone di stronzi e ignoranti. Qui
nessuno ti dà niente. Regna soltanto la regola del baratto. La gente ti dà qualcosa soltanto se gli fai
un favore. L’iniziativa personale non esiste. Dietro la pietà si nasconde solo la vendetta. Qui c’è
solo dolore, odio ed egoismo. Io reputo le persone solo e soltanto delle grandi merde. Riescono ad
essere egoiste anche nell’altruismo. Hai notato che i presidenti della maggior parte delle
associazioni solidali non sono altro che genitori, figli, coniugi, amici, o comunque persone vincolate
da un forte legame, di quelle vittime cadute per quel determinato male per il quale si combatte?
Perché si sono interessate al problema solo dopo averlo vissuto personalmente? Per quale motivo
non lo hanno fatto prima? La so io la risposta: la gente, solo quando gli intacchi i beni personali
diventa suscettibile a ciò che la circonda >>.
Andrea cercò di contrastarmi:
<< Non è che uno può stare a pensare al patimento dell’intero pianeta. Quando la provvidenza
gli schiarisce le idee uno imbocca una determinata strada. In fondo tentano di fare soltanto del bene
>>.
<< Questo è vero, ma a me dà fastidio che questi individui vestano la livrea di benefattori.
Secondo me il vero santo è quello che si interessa ai problemi altrui, a prescindere da quello che gli
è capitato durante la sua esistenza. Ti posso fare altri esempi sulla filantropia opportunistica. Ti sei
mai chiesto perché alcuni soggetti, appartenenti alle associazioni di volontariato, vanno a dare aiuto
in capo al mondo, quando la sofferenza è presente anche sotto casa? Ancora una volta sarò io a
risponderti: quelli si sono talmente rotti le palle dell’ambiente in cui vivono che pur di eliminare la
noia, sono disposti a far finta di dare una mano ai paesi del terzo mondo >>.
Andrea perse la pazienza:
<< Cristo santissimo Ciro! E’ mai possibile che tu riesca a trovare il marcio anche nelle
persone generose? Ci sarà pure, nascosto da qualche parte, uno stronzo pulito in questa fottutissima
terra del cazzo! >>
L’incazzatura di Andrea mi tenne a bada. In fondo forse aveva ragione. In più mi era venuta
un sete da paura. Quella sera c’era da bere birra in delle bottiglie di vetro. Non so per quale ragione
le lattine, più maneggevoli, non ci fossero. Usammo come apribottiglie gli accendini ma Carlo
come al suo solito attuò un metodo del tutto personale e pericoloso. Per bere infatti egli
scaraventava il collo di bottiglia sull’asfalto, lo distruggeva ed ingurgitava il contenuto come se
nulla fosse. Come faceva a non ferirsi le labbra rimaneva un mistero. Mi aspettavo che da un
momento all’altro si mettesse a sanguinare dalla bocca come il conte Dracula, e invece nulla. Non
era nemmeno facile mettere in atto quella pratica, perché per un colpo sbagliato, rischiava di farsi
scoppiare la birra in mano, come un residuo bellico.
Bevvi tre birre che non mi diedero alcun effetto. Mi stavo tediando terribilmente. Stavo
battendo il record di rottura. Mi sentivo inutile su questo mondo malsano e pieno di intoppi. La mia
vita aveva la stessa funzione del coccige che ci ritroviamo nel culo. Desideravo tanto andarmene. Sì
ma dove? Ovunque c’era asfalto e insoddisfazione. Cominciai ad aggirarmi tra i miei amici per
sedare temporaneamente la noia. Vidi Gildo che era rimasto solo perché si era allontanato
volutamente dal resto del gruppo. Si era isolato come un fiordo. Stava assaporando l’amarezza della
vita in una di quelle meditazioni che ti fanno capire quanto sia stupido andare avanti. Guardava se
stesso attraverso l’infinita spensieratezza che hanno i poeti. Sentiva le parole degli alberi, degli
oggetti abbandonati, della desolazione che danzava sulle nostre teste. In quel momento avevamo le
stesse sensazioni che probabilmente ci scatenavano le medesime reazioni: l’impotenza davanti
all’incognito e all’insensato. Quel silenzio dove ti porta il cervello e fa baccano nell’anima.
L’aridità del cuore che ti spinge alla ricerca di un motivo per vivere. Una sofferenza inaudita,
perché non avrà mai risposta. Possiamo infatti avere pure un miliardo di obiettivi per tirare avanti.
Ma a cosa servono se si ha la consapevolezza che ogni cosa con la morte si rivelerà inutile ed andrà
a finire nel dimenticatoio? C’è una prassi che si segue durante una giornata: la mattina si è ottimisti
e si ha la voglia di spaccare il mondo ma col calare del buio ogni cosa diventa vana. Uno con la sera
ha voglia di rinchiudersi in un convento e mandare ogni singolo essere vivente a quel paese e farla
finita una volta per tutte. Solo che dopo un po’ di ore subentra il giorno successivo ed ogni cosa si
resetta con l’ottimismo mattutino. Mentre camminavo inciampai su di un pezzo di metallo che se ne
stava sdraiato sull’asfalto. Che desolazione, nemmeno ci si poteva muovere tranquillamente. In
questo paese malvagio c’erano le barriere architettoniche persino per i normodotati. Fortunatamente
non caddi. In quel mentre scorsi Cosimo che maneggiava una bustina di plastica riempita di funghi
allucinogeni. Gli misi una mano sulla spalla e gli domandai:
<< Fammi assaggiare questi funghi allucinogeni, vediamo che sapore hanno >>.
<< Ok, buon viaggio >>, fece con l’espressione di un buon padre di famiglia.
Ne imboccai uno, ma non aveva nessun sapore. Inizialmente non sentii alcun effetto, la
lucidità non si era ancora sfarfallata. Dopo qualche minuto cominciai a sentire che la vista mi era
diventata estranea. Non è che non vedessi, ma mi sentivo come se stessi nel corpo di un’altra
persona. Mi stavo trasformando in un sognatore vigile. Mi sedetti ad una panchina e stesi le braccia.
La mente così come la vista si stava rendendo indipendente. Vagava nei meandri dell’inconscio
senza che la potessi controllare. Elaborava pensieri insensati, presi a casaccio, che sicuramente non
mi sarei ricordato. Era il tipico viaggio fatto in compagnia degli stupefacenti: per lo meno non si
rischiava di morire sfracellati come in aereo. Mi massaggiavo la faccia per riprendermi da quella
sorta d’incantesimo. Col poco senno che avevo a disposizione mi pentii amaramente di quell’atto
idiota. Chissà da dove cacchio gli aveva acquistati quei funghi malvagi, più cattivi di quelli che
s’incontrano giocando a Mario Bros. Poteva anche darsi che fossero avvelenati. Bella fine da
imbecille, senza nemmeno avere la consapevolezza di andare a crepare. La nausea non mi si
attenuava, ma al contrario raggiunse in quei momenti l’acme dell’intensità. Bisbigliai qualcosa
d’incomprensibile, ma nessuno mi ascoltava. Ci eravamo intossicati in contemporanea perché
subito dopo me, il resto della compagnia aveva seguito il mio gesto. Infatti voltandomi mi avvidi
dello sterminio compiuto da quei funghi. Erano tutti quasi stesi, accovacciati, poggiati in malo
modo, che combattevano invano con quella forza oscura. Soltanto la piccola Nadia rimaneva là,
ferma, e contemporaneamente terrorizzata ad ammirare uno degli spettacoli più raccapriccianti della
realtà. Chissà col tempo quale ricordo ne avrebbe serbato: un padre con i suoi amici che si
divertivano a passare il tempo mortificandosi l’anima ed il corpo. Quale orrore e quanta influenza
negativa si procurano le persone tra di loro. Al posto di venirci incontro, ci respingiamo come atomi
della stessa carica. La povera Nadia ne avrebbe risentito e sono convinto che quella scena avrebbe
senz’altro modificato il suo approccio alla vita. Eventi che l’un l’altro si contrastavano e proprio per
questa ragione si mescolavano per forgiare il carattere di una persona. Bisognerebbe nascere con
una preparazione a codeste situazioni già incorporata. Ogni segno lascia un trauma, poi dipende
dalla nostra corazza mentale, sopportare il colpo e trasformarlo in ferita o in un momento di
passaggio. Forse il non avere memoria può aiutare a dimenticare le molestie della vita. Tuttavia
nemmeno questa difesa si può rivelare efficace. Certe cose infatti si depositano nell’inconscio, ti
fanno diventare portatore sano di dolore, ed esplodono quando meno te lo aspetti. Noi continuiamo
come se nulla fosse, magari anche in buona fede ma così facendo, non eludiamo di certo il
problema. È lui che quando gli pare e piace decide di farsi sentire. Noi non ci possiamo fare niente,
dobbiamo rassegnarci e studiare la cavia della nostra improvvisa escandescenza. Chissà di quante
belle paranoie soffrirà la piccola Nadia. Meriteremmo in massa di essere arrestati, per aver
compromesso il futuro di una bambina in fase evolutiva. È come per le gemme fiorali che si trovano
sugli alberi. Esse, affinché possano sbocciare in primavera, necessitano di particolari condizioni
climatiche, naturalmente stabili che inneschino la loro apertura senza alcun danneggiamento.
Ebbene noi siamo come quelle condizioni inidonee alla loro fioritura. Siamo le gelate primaverili, le
piogge incessanti, o i venti indomabili di marzo-aprile. Abbiamo stroncato col nostro modo di fare
il fiore che era racchiuso in quella bambina. Forse metterà comunque i petali migliori del suo cuore,
o forse no. Starà a lei decidere, o meglio al carattere che si porta dentro.
Io continuavo a stare fuso; controllavo la mia lucidità ma essa rimaneva sempre la medesima.
Credetti con mio immenso sgomento che sarei rimasto inebetito fino alla fine dei miei giorni. Non
sapevo quanto tempo era passato e non capivo più niente, mi girava la testa e sentivo solamente il
mio respiro affannato. Ma che caspita di droga, nemmeno un po’ di sballo. Generalmente le droghe
comuni un minimo di piacere lo riescono a procurare. Questa invece zero, era una catastrofe per i
ricettori del piacere. Tentai di muovermi ma fu un’impresa assolutamente inutile. Gli arti nemmeno
li sentivo, l’anima si era volatilizzata. Che potevo farci, non restava che aspettare e vedere in che
modo volgevano gli eventi. Speravo solo di salvarmi. Non escludevo una potenziale morte. Temevo
di poter cadere in coma ad un momento all’altro. Se si fosse verificata un evenienza del genere,
sarebbe stato uno spettacolo degno di una tragedia sceckspiriana. Chissà le facce di coloro che, la
mattina successiva, si fossero imbattuti in una marea di corpi buttati come vittime di una guerra
atroce. Una visione orrenda, resa ancora più macabra dalla presenza della bambina, stupita e
spaventata, unica esule di una strage misteriosa. Magari come ricordo avrebbero innalzato una
statua in memoria di quei giovani caduti. No, forse no, anzi sicuramente no. Mica eravamo morti in
modo eroico. Le circostanze del nostro decesso erano vergognose, per quanto tristi. Probabilmente
nemmeno avrebbero ricordato un simile avvenimento con un lutto cittadino. Dovevamo essere
immediatamente depennati dalla memoria del paese. La storia è fatta per i migliori, mica per i
poveri nullatenenti. Per entrare a far parte dei libri devi infatti compiere qualcosa di grandioso, di
unico, che lasci il segno e l’esempio alle future generazioni. E cosa avevamo noi di esemplare?
Niente, tanto valeva essere dimenticati per sempre. Che poi se andiamo a scavare nei formidabili
personaggi che sono diventati immortali possiamo suddividerli in tre categorie, ossia ci sono solo
tre modalità per essere captato nell’album della storia: alla prima troviamo i ricchi come Cavour;
alla seconda gli uomini dotati di talento come Mozart; nella terza i martiri come Gesù. Quindi
secondo questa mia confabulazione, se nelle prime due categorie non potevamo essere catalogati,
l’ultima sciance era costituita dal martirio. Di fronte ad una simile opportunità tanto valeva
rimanere a crogiolarsi nell’anonimato. Magari potevamo essere anche catalogati come martiri, dato
che il nostro decesso era avvenuto in malo modo. Tuttavia, mi duole dirlo, i martiri, per divenire
quello che sono, cioè prima di essere ammazzati in maniera violenta, vanno a rompere le palle a
qualcuno. Giordano Bruno le ruppe alla chiesa e fu messo allo spiedo. Perciò occorreva andare a
contrastare il potere. A me sinceramente, nelle condizioni nelle quali mi trovavo, non mi riusciva
nemmeno di badare a me stesso. E poi il potere non l’ho mai preso in considerazione. Non me n’è
mai fregato niente di coloro che primeggiano al vertice della scala sociale. Non hanno capito che
tutto l’affanno consumato per raggiungere un obiettivo così di prestigio si rivela prima o poi di
un’inutilità pazzesca. Ogni traguardo, ogni ambizione, ogni vittoria, è schiava alle leggi del tempo.
Tutto ha un termine, quindi, sono del parere che una persona le proprie energie le dovrebbe
razionalizzare a favore dell’auto perfezionamento fisico e mentale. Obiettivi sicuramente
impossibili da raggiungere, ma proprio per questo ci terranno impegnati per una vita. Saranno eterni
perché vivranno con noi e finché noi vivremo. Questa è l’impresa straordinaria, non le stronzate che
vanno a macchiare di sangue i libri di storia. Se tutti, nella storia dell’uomo, si fossero comportati a
questo modo, a quest’ora saremmo già andati su Plutone. Purtroppo rimaniamo materialisti in
quanto ignoranti. Gli ignoranti si azzannano per i beni materiali, per loro la virtù è solo una perdita
di tempo bestiale. Questo perché le persone non hanno pazienza, vogliono tutto e subito. Ciò li
rende animali mediocri. Ecco perché io reputo la maggior parte degli abitanti del globo terrestre dei
minorati senza speranza. Il bello è che queste modalità esemplari di vita io me le propinavo ed io mi
comportavo esattamente al contrario. Bell’ipocrita fesso che ero.
Lentamente il senno cominciò ad irrorare la linfa della cognizione. Ed io altrettanto
alacremente m’impossessavo dei bastioni dei miei pensieri. Mi misi a gattonare, poi pian piano
cominciai a conquistare la posizione eretta; sembrava che stessi compiendo in sintesi il ciclo
dell’evoluzione umana, da quando era uno scimmione, fino al conseguimento del traguardo sapiens
sapiens. Gli altri stavano pressappoco nelle mie stesse condizioni e si reggevano a malapena in
piedi. Venne Carlo che aveva già smaltito ogni sostanza tossica. Aveva l’aria di uno che volesse
farmi una proposta allettante. Non so dove cavolo fosse stato; io in quel momento di sbandamento
l’avevo perso completamente di vista. Forse se n’era andato o forse era rimasto sempre lì buttato in
terra a dialogare con l’asfalto.
<< Cosa c’è, quale idea ti è venuta? >>, domandai con la bocca resa inelastica da quegli
schifosissimi funghi.
<< Ehi, ma cacchio ti hanno fatto l’elettroshock?! Sei più pallido di Edwuard mani di forbici.
Inoltre parli come uno scimunito! >>
<< Peggio, questa merda persino gli stregoni cercano di evitarla. Cosa volevi chiedermi? >>
<< Chiederti niente, tutt’al più offrirti. Non puoi dirmi di no, ti prego non rinunciarci come al
solito. Sei sempre negativo, come le pellicole delle macchine fotografiche. Una maledettissima
volta dimmi di sì. Solo perché sono matto mi eviti. Ecco con quale razza di amico ho a che fare. Mi
metti sempre al margine, come le zone industriali. Sei uno xenofobo del cazzo. Ecco cosa sei.
Fanculo a te e a tutto il tuo albero genealogico! >>
Se non si era fatto di funghi, qualche altra sostanzaccia doveva averla pur presa. Era agitato
come un cocktail ed aveva gli occhi lucidi ed arrossati, manco se si fosse preso una congiuntivite. Io
tentai di sedare quell’atto d’isteria, che si era azionato non appena aveva cominciato a parlare:
<< la vuoi finire con questi piagnistei? Sembri un bambino viziato testa di rotto in culo. Cosa
bolle nella pentola della tua mente malata? Se non m’illustri cosa diamine hai intenzione di farmi
fare, come accidenti faccio a darti una dannatissima risposta?! >>
<< Dimmi sì o no >>
<< Sì o no? Ma che cacchio stiamo a fare un referendum?! Spiegati come quella stronza che ti
ha procreato! Dannazione! >>
<< Va bene, non ti agitare. Lo sai che stai imbottito di funghi come una micosi. Non mi
uccidere. Calmati, abbi un po’ di pazienza e ti spiegherò cosa ho intenzione di proporti >>.
Ora mi faceva passare pure per l’esagitato, questo meritava solo e soltanto di essere internato
tra le maglie di una prigione o le maglie di una camicia di forza.
<< Allora ti dicevo, da dove cominciare? E un po’ emozionante. Cristo santo, certi momenti
sono proprio imbarazzanti. Cosa ti dovevo dire? E chi si ricorda? Stavo sclerando a furia di
frequentare quel deficiente intellettuale di Sebo. Allora niente, ti volevo proporre, domani una bella
nottata in discoteca, con Alessia e Rebecca. Ballo e sballo a tremila! Delirio di onnipotenza caro!
Niente amfetamine però, l’ultima volta ce la siamo vista brutta. È pur vero che quelle pillole
simpatiche, che ti fanno vivere la vita in un lampo, mi mancheranno; purtroppo sono sacrifici che
bisogna compiere. Solo alcol, noi ci teniamo alla salute, tant’è vero che la salutiamo. Guido io, ti
giuro che berrò solo una decina di bicchieri, non di meno. Se all’uscita svengo, lascio a te il volante.
Ho una voglia di scopare, come un’impresa di pulizie. Li hai almeno dei vestiti buoni? Sembra che
quegli stracci te li abbia venduti Robinson Crusoe, ecco perché oggi è Venerdì >>
<< Non preoccuparti. E poi anche se mi vestissi con un sacco di patate farei molta più bella
figura di te, che sembri un galeotto di Alcatraz. A proposito di avvertimenti: non ti prendere a botte
con nessuno. Sei stato già cacciato da tre discoteche. Per una volta divertiti, stantuffa chi ti pare, ma
non incazzarti con nessuno. Nella tua vita non sei stato ancora capace di rimanere in un luogo
pubblico per due ore consecutive. Appena si sta per creare qualche casino chiamami. Col mio savoir
faire saprò risolvere qualunque questione. Per quanto sono diplomatico mi dovrebbero mettere
all’ambasciata in quei paesi a rischio di guerra >>.
Parole famose queste, che ricorderò per sempre. Non le avrei mai dette se fossi stato
consapevole del caos che sarebbe avvenuto la notte successiva. Succede sempre così: quando ci
vantiamo, ci arriva un colpo basso dalla provvidenza, un vero e proprio gancio, che ci fa rigare
dritto, oppure che ci fa cadere nell’abisso della prostrazione. Quelle parole furono la tregua prima
dell’apocalisse. Se avessi saputo il disastro che si sarebbe verificato l’indomani, me ne sarei andato
a dormire quatto quatto come un ragazzo a modo. Ed invece si dimostra in tutto il suo squallore
proprio quando meno ce lo aspettiamo. Carlo mi rispose:
<< Ma per chi mi hai preso, per Bruto di Braccio di Ferro? Io attacco solo per difendermi,
sono come quegli animali che si vedono nei documentari e che proteggono se stessi dalle fauci dei
predatori >>
<< Infatti sei un animale, su questo non c’è alcun dubbio. Comunque vengo, meglio passare
una notte in discoteca che starsi a bivaccare con questi nomadi da paese. Una volta ogni tanto un
diversivo ci vuole. Dalla feccia bisogna scuotersi qualche volta >>
<< Ben detto, abbandoniamo questi pagani a marcire nei loro viziacci patetici. Noi andremo
alla ricerca dell’ottavo peccato capitale: lo sballo! >>
Venne poi Giovanni tutto stordito, con la maglia impiastricciata di una sostanza gialla che
sembrava senape. Chissà quale liquido organico fosse. Fece giusto in tempo a sedersi sull’erba
dell’aiuola e vomitò le cascate del Niagara dalla bocca. Queste belle scene sotto gli occhi sconvolti
di sua figlia. Appena ebbe terminato quell’obbrobrio si giustificò alla bambina dicendo:
<< Tranquilla Nadia, papà stava solo facendo un gioco >>. Poi si volse verso di me con una
faccia pietosa come a dire “qualche frottola dovevo pur dirgliela”.
Nadia parve tranquillizzarsi, ma un’altra paura la invase:
<< Ma papà, qui non ci sono i lupi? >>
<< No sono tutti scappati nella foresta >>
Giovanni diceva queste scuse con un colore verdastro. Le porcherie ingerite ed iniettate
l’avevano reso simile ad una pianta. Il volto si era trasformato perché si era asciugato per la
disidratazione; aveva subito una trasformazione mostruosa come il dottor Jeckill. La stanchezza lo
possedeva, manco se avesse fatto una maratona intorno al mondo. Lasciò momentaneamente sua
figlia e con molta pacatezza mi raggiunse, affiancandomi alla panchina. Io mi stavo godendo tutti
quegli esseri che pian piano tornavano lentamente alla vita, come le tartarughe che vanno a
spiaggiare per partorire. Appena lo vidi gli chiesi:
<< Cosa c’è, è successo qualcosa? >>
<< E’ successo tutto e niente. Ciro ti devo chiedere un piacere. Tra questa massa di
impallettati tu mi sembri il più sobrio >>
<< Vediamo di cosa si tratta >>
<< Ecco… ho portato la bambina con me, perché non sapevo dove lasciarla >>
<< Questo lo sapevo >>
<< Guarda gli occhi di mia figlia: sono esausti sia dallo schifo che ha visto stanotte e sia dal
sonno. Credo che meriterebbe di andare a casa >>
<< Questo lo vedo. Secondo me dovremmo andare tutti a casa. Ma mi vieni a chiedere il
permesso per congedarti da questo luogo ammuffito? >>
<< No, non si tratta di questo. Io vorrei riaccompagnarla a casa ma sto male di brutto. Ho
bisogno di almeno un paio d’ore per riprendermi. In più se guido in questo stato, rischio di
provocare un incidente mortale. Senza contare il fatto che i carabinieri potrebbero fermarmi ed
arrestarmi in seduta stante >>.
<< Cosa vuoi che l’accompagni io? Bé si può fare. Ti avverto però che le mie condizioni non
sono tanto migliori delle tue. Avrò anche un aspetto rassicurante, ma ti posso giurare che mi sento
sgretolato dentro come un pacco di fette biscottate che ha subito degli scossoni. Se però mi dici che
non te la senti, ti posso anche sostituire >>
<< C’è però anche un altro aspetto che credo ti sia sfuggito. Una specie di favore nel favore.
Non solo me la devi ricondurre a casa, ma ti sarei molto grato se le facessi anche un po’ di
compagnia. Dovresti trascorrere qualche oretta con lei. Il tempo di riprendermi. Mi sento uno
straccio; è come se mi avessero buttato e ripreso una settantina di volte da un burrone. Ho il
cervello spappolato; mi mantengo la testa in equilibrio con le mani >>
<< Oh Gesù, passare il tempo con una bambina, ma per chi mi hai preso per Mery Poppins?
Comunque d’accordo, ne ho abbastanza di questo lager. Mi sento la testa sbriciolata ma posso
farcela, è poi mi sto prendendo più vento di una pala eolica. Dammi le chiavi di casa tua e togliamo
il disturbo >>.
Mi avvicinai alla bambina e le presi la mano, lei non ebbe alcun problema nel porgermela. Mi
chiese soltanto:
<< E papà non viene? >>
<< No >>, le risposi, << Deve fare la guardia contro i lupi mannari >>
<< I lupi esistono, ma i lupi mannari no >>
<< Esistono, esistono. Tu non li vedi, ma ti posso accertare che esistono. Tuo padre rimane
qui a fare la guardia per evitare che vengano. Se infatti tuo padre non ci fosse, posso assicurarti che
ce ne sarebbero a bizzeffe >>.
Salimmo in macchina senza rimpianti. Prima di partire salutai la mandria di amici miei:
<< Addio miei proci froci, ci vedremo un giorno tutti ad Itaca! >>
<< Statti e sbatti bene! >>, mi fecero all’unisono.
Carlo, che stava a pancia in giù in un’aiuola, come se stesse brucando l’erba, ci tenne a
puntualizzare:
<< Domani ti passo a prendere con le ragazze a mezzanotte >>
<< Ok, ma esci da quell’aiuola e scrollati quel terreno di dosso, che somigli ad un lombrico. A
furia di sguazzarci dentro ricaverai l’humus! >>.
Premetti il piede sull’acceleratore e la macchina volò lontano.
Giungemmo molto velocemente a casa di Nadia e Giovanni. Era situata in campagna ed era
attorniata da una puzza insopportabile di cacca di vacca. C’era un grande allevamento nelle
vicinanze che sprigionava i suoi prodotti fecali. Mi ci volle un po’ per abituare le mie narici; Nadia
invece pareva a suo agio, sembrava che stesse camminando in alta montagna. Era proprio una
bambina tranquilla, se non altro Giovanni e sua moglie avevano fatto qualcosa di decente nella loro
vita. L’interno dell’abitazione era tutto sgangherato, un disordine che nemmeno i ladri avrebbero
potuto provocare. In cucina, che poi fungeva anche da soggiorno, c’era un tavolo con sopra una
marea di piatti impiastricciati di cibo, forse risalenti al paleolitico, sparsi come un mazzo di carte.
La sporcizia era talmente remota che il cibo depositatosi sopra si stava fossilizzando, sino ad
assumere la durezza del cemento. Il pavimento era appiccicoso ed incrostato di impronte di scarpe.
C’era una coperta verde su una sedia, mentre su un divano giacevano degli abiti ed una pila di
riviste. Il lavello era occupato nella sua interezza da piatti, bicchieri e pentole in balia di se stessi.
<< Mazza che lerciume, roba che persino Mastro Lindo si strapperebbe i capelli! >>
Si vedeva che mancava una donna da quelle parti. Si era assentata da pochi giorni e già c’era
l’invasione della sporcizia. Entrai nella camera dei due coniugi e vi ritrovai un caos della stessa
razza. Il bagno era altrettanto pietoso. Nel water c’era persino della piscia annacquata che sembrava
tè. Tirai lo scarico e l’acqua del cesso ritorno alla sua trasparenza originale. Pigliai uno spazzolino
e del dentifricio e mi lavai i denti. Non sapevo a chi appartenesse, ma avevo il palato talmente
disturbato che un’igienizzazione globale orale mi era assolutamente necessaria. Visitai infine
l’ultima stanza, vale a dire quella di Nadia. Ne rimasi sorpreso: c’era un ordine puntiglioso che mi
commosse. Era piena di bambole e di altri giochi idioti. Tutti erano disposti con cura, il pavimento
era tirato a lucido, il letto rifatto e nemmeno col microscopio si sarebbe potuta rinvenire una traccia
di acaro. Per lo meno Giovanni ci teneva alla propria figlia. Il tesoro inestimabile doveva meritare i
migliori servigi. Giovanni e sua moglie, nella loro vita di merda, non avevano fatto altro che
prendersi vagonate di merda: una merda di lavoro, una merda di situazione, in una merda di casa,
tenuta di merda, in un posto di merda, che puzzava di merda. Tuttavia di tutta quella merda
accumulata, una parte l’avevano presa e l’avevano resa concime, per far crescere in tutto il suo
splendore il fiore della loro figlia, che rendeva sensata la loro esistenza. Anch’io desiderai
assolutamente un figlio, nonostante fossi molto giovane. I figli sono come i corpi celesti, ti tolgono
dal buio. E poi hanno degli aspetti che ammiro particolarmente: sono innocenti ed ottimisti. Come
si può non reagire positivamente di fronte ad un evento tanto meraviglioso? Ti fanno anche sentire
importante perché seguono cecamente le tue parole. Quindi ti sradicano dal senso d’inutilità che
ognuno di noi si porta dentro. Lo Stato dovrebbe concedere il diritto d’adozione anche agli
omosessuali ed ai single. Chiunque dovrebbe avere il diritto all’amore, se si ha il desiderio di
amare. Esistono un sacco di persone che pur di avere un figlio sono costrette a sposarsi, anche non
avendone alcuna intenzione. Questo in molti casi sta alla base dei fallimenti matrimoniali: il
desiderio di avere una persona d’accudire. Se lo Stato agisse in questo senso una marea di problemi
sarebbero risolti. Purtroppo questo non accadrà mai perché viviamo nella società degli ipocriti e
della Chiesa. Eppure questa cazzo di Chiesa dovrebbe rappresentare l’istituzione primaria
dell’amore. Ed invece si è inventata una serie di ideologie che non stanno né in cielo né in terra.
Sono convinto che se Dio avesse la possibilità di commentare l’operato ecclesiastico direbbe:
“avete interpretato la mia dottrina solo ed esclusivamente per fare i vostri porci comodi. Ma questo
modo di agire non è religione, si chiama opportunismo!”
Non sapevo cosa farle fare. Era tardissimo, eppure la poppante rimaneva ancora pimpante. Mi
pentii di non averle fatto bere nemmeno un goccio d’alcol. Il broncio le era passato, forse perché si
trovava all’interno delle sue familiari mura domestiche. Si fidava di me e non aspettava altro che gli
impartissi qualche ordine su come passare il resto della nottata. Che potevo fare? Mandarla a letto
era impossibile; si capiva dai suoi occhi vivaci che mi avrebbe mandato a quel paese con qualche
pianto assordante. Poi mi baluginò un’idea niente male. Quindi le chiesi:
<< Che ne dici se ci vediamo qualche bel cartone animato e ci facciamo due risate? >>
Non sapevo né se avesse un lettore Dvd e nemmeno se possedesse dei cartoni animati. Per
fortuna ebbi delle conferme positive che mi misero l’animo in pace.
<< Evviva, ti voglio far vedere l’ultimo cartone che mi ha comprato papà! >>
Sia fatta la volontà di Dio.
<< D’accordo, troviamolo e vediamocelo >>.
Misi il cartone animato, ipnotizza bambini, per tenere buona Nadia. Era in realtà un cartone
animato virtuale, che oltre ad imbambolarti ti fa venire anche l’epilessia. Passò un quarto d’ora e mi
salì un po’ di noia. Trascorse una mezzora ed avevo già le palle a terra. Dopo quarantacinque
minuti, il sonno mi aveva mandato al tappeto. Non potetti fare a meno di addormentarmi.
Quell’idiozia proiettata in televisione ed il sudore caldo che mi portavo addosso, mi diedero un
tepore tale che nemmeno un carillon avrebbe potuto provocarmi. Non capii più niente e dimenticai
Nadia e tutta la realtà che mi cospargeva.
Qualcosa mi smosse, era una manata amichevole che mi voleva far spalancare le palpebre.
Giovanni era rientrato ed aveva recuperato la lucidità perduta. A fianco a me c’era Nadia, ancora
sveglia, però il suo sguardo vigile si stava dileguando sulla via della sonnolenza. Era comunque lei
che mi aveva mandato a nanna. Sentii dei rumori all’esterno, sottili ma pungenti: era la pioggia che
cadeva e s’infrangeva sulle vetrate. Giovanni mi volle ringraziare per la disponibilità concessami:
<< Ti sono debitore. Come si è comportata Nadia? Ha fatto la brava, oppure si è messa a fare
i capricci? >>
<< No, è stata bravissima. Sa badare a se stessa alla grande. Credo sia più matura di noi due
messi insieme >>.
Sorrideva Nadia e si godeva i complimenti che tra l’altro meritava pienamente. Che ore si
erano fatte? Guardai sulla parete dove era appeso un orologio dalla forma quadrata. Erano già le
quattro del mattino: un orario veramente insulso. Giovanni, cercava in tutti i modi di rendersi utile:
<< E’ tardissimo e fuori piove. Se vuoi puoi dormire a casa. Un po’ di compagnia non sarebbe
male >>.
Ero stanco e frastornato, ma desideravo con tutto il cuore di ritornarmene a casa, nella mia
sperduta solitudine. Certi eccessi di altruismo, a posteriori, non sono altro che una forma per espiare
i propri sensi di colpa. Se proprio Giovanni voleva fare il generoso, poteva evitare di chiedermi di
mettermi a fare il babysitter. La verità è che certa gente rompe le palle sia quando ti chiede che
quando tenta di farti un favore; perché anche quando tenta di aiutarti lo fa per soddisfare comunque
un proprio bisogno. In questo caso Giovanni, con la scusa dell’ospitalità voleva a tutti i costi
trattenermi per non annoiarsi. Tentai pertanto con ogni pretesto di sbolognarmi da quella situazione:
<< Grazie per l’invito, ma devo tornare alla base. Non ho avvisato nessuno dei miei, e non
vorrei mettermi in allarme. L’ultima volta che ho dormito da un amico, senza preavviso, stavano
mobilitando le unità cinofile per ritrovarmi. La pioggia non è un problema, i vestiti potrebbero pure
bagnarsi, ma non dimenticare che la nostra pelle è impermeabile. Sarà per un’atra volta. Tanto ci si
vede al più presto. >>
Fortunatamente Giovanni non insistette come tutti gli altri. Fosse stato Carlo mi avrebbe
sicuramente proposto uno dei suoi ricatti inaccettabili.
<< Fai come vuoi >>, disse << volevo farti restare soltanto per l’orario assurdo. Chissà quanti
tipacci vanno pascolando in questi istanti >>.
<< A quest’ora gli unici esseri pericolosi che puoi trovare in giro, sono i gatti. E poi siamo noi
i tipacci. Non credo esista gente più incivile di noi. Stai tranquillo, ne approfitterò per sgranchirmi
le gambe >>
<< Ok >>.
Diedi una carezza sui capelli cotonati di Nadia ed uscii fuori da quel letamaio. Non
dimenticherò mai che quell’abitazione puzzava internamente ed esternamente come il ricovero di un
esercito di maiali affetti da meteorismo. Mi tappai il naso e sgattaiolai via. Un'altra giornata era
evaporata dal cammino della mia esistenza e si era andata a depositare nell’archivio del tempo. Ce
n’era però pronta un’altra, ancora da costruire e da disfare, che fremeva per poter subentrare. Essa si
sarebbe affacciata con i suoi buoni propositi, con l’avvento del risveglio del mattino o di
mezzogiorno.
Capitolo 9
La notte successiva, intorno alle ventiquattro, mi passò a prendere Carlo con la sua
automobile. Era un rottame d’antiquariato, truccato alla perfezione da alcuni suoi amici teppisti che
nel weekend si divertivano a fare i meccanici e a dopare le cilindrate dei motori. Aveva a bordo
Alessia e Rebecca che frequentavamo di rado ma si mettevano subito a disposizione nel momento
in cui si presentavano delle serate più sofisticate. Carlo aveva in bocca un sigaro spento e si dava
delle arie da gangster. Appena entrai nell’abitacolo feci i miei saluti:
<< Salve ragazze, ciao Carlo; che cavolo hai tra le labbra un candelotto di dinamite? Sembri
un ricottaro cubano. Se ti beccasse uno statunitense ti aprirebbe il fuoco a vista >>
<< Bello vero? >>, fece Carlo ingraziandosi le mie parole e mostrandomi quel sigaro
mastodontico, << Me l’ha portato mio nonno dall’Equador. Hanno una fragranza eccezionale >>
<< Sì, sì, bellissimo, non c’è che dire. Ma cazzo, prima di entrare ho notato che la tua
macchina è sporchissima di sabbia. Come l’hai fatta a far inzaccherare in questo modo? Sei per caso
andato alla Parigi Dakar? >>
<< No, niente di tutto questo. Io non c’entro assolutamente niente con questo lerciume. Si è
ridotta in questo modo perché l’ho data in prestito al Celtico, che doveva fare una gara di rally sullo
sterrato che sta nel bosco >>
<< Oh santi numi! E tu affidi al Celtico, che non sarebbe in grado di guidare nemmeno il
carrello della spesa, l’unico mezzo che ti permette di viaggiare autonomamente? >>
<< Beh ma c’era una scommessa in gioco e l’abbiamo vinta. Mi è entrata nelle tasche una
bella banconota da duecento euro, senza che io abbia mosso un dito >>
<< D’accordo, ma il Celtico è uno degli uomini più ripugnanti della terra; prestargli la
macchina è sinonimo di suicidio. C’era una probabilità su un miliardo che ritornasse sana; avrei
preferito piuttosto affidare il mio veicolo ad uno stuntman, che al Celtico >>.
Il Celtico aveva quattro anni più di me e viveva di scommesse clandestine di qualunque
genere, qualcuno diceva di scippi e senz’altro di spaccio di cocaina. L‘unico momento in cui
lavorava era quando veniva preso e sbattuto in un centro sociale. Non appena usciva sembrava
un’altra persona, piena di salute e di speranza. Questo stato durava più o meno un paio di settimane.
Subito dopo ricadeva a capofitto nella sua dipendenza, come e più di prima. Il soprannome
gliel’aveva affibbiato non so chi, per via della sua capigliatura stramba: era completamente rasato ai
lati e gli fuoriusciva dalla nuca un piccolo codino che dava, appunto, l’impressione di essere un
guerriero nordico del quarto secolo avanti Cristo.
Partimmo con un clima festoso e sereno. Sereno appariva anche il cielo buio punzecchiato qua
e là di stelle. Aveva da qualche ora smesso di piovere. L’asfalto era bagnato con parecchie
pozzanghere che prevalevano soprattutto sui bordi della strada. Il traffico era scorrevole com’era
giusto che fosse a quell’ora. Dopo un sacco di tempo, con mio immenso sollievo mi stavo
rilassando. Per la prima volta la presenza di quello psicopatico di Carlo non mi creò tensione.
Discorremmo con le ragazze con vivacità e garbo, sinceramente non ricordo nemmeno di quale
argomento. Non appena giungemmo in discoteca trovammo immediatamente il parcheggio. La
nottata pareva volgere dalla nostra parte.
I buttafuori ci fecero immediatamente entrare, cosa che non fecero la volta precedente. Se ne
uscirono con la scusa che non avevamo gli abiti adatti. Tutte cazzate, la verità è che in
quell’occasione ci eravamo presentati sulla soglia dell’entrata senza ragazze. Chissà perché non ci
dissero come stavano in realtà le cose. La discoteca faceva un fracasso infernale e le luci erano così
ad intermittenza che rischiavano di farti diventare cieco. Carlo in un attimo sparì, come un tappo di
bottiglia di spumante quando viene aperta. Dopo un po’ lo rividi che parlava con il Farmacista;
ossia uno che forniva le pillole di ecstasy ed altra robaccia spazza cervello. Anche le ragazze le
persi di vista. Salutai un mio conoscente di un altro paese e mi accomodai al bar. Ordinai una
Redbull e poi mi bevvi quattro cicchetti, manco fossi un cowboy. Nel frattempo ammiravo con
orrore il gregge di persone che ballava e fingeva di divertirsi. Chissà perché avevo la strana
sensazione che fossero tutti scemi. Sì lo erano sicuramente, si fingevano uomini e donne mondane e
si sentivano al centro dell’attenzione. Una massa di allocchi mandati al macello dell’ignoranza.
Come facevano a fingere di sorridere, non sapevo spiegarmelo. In quei metri cubi c’era solo feccia
inutile, che viveva per il nulla e non serviva a nulla. Cosa cazzo vivono a fare coloro che sciupano il
loro intelletto e lo mettono alla mercé dei canoni della società svalorizzata? Gente già schematizzata
mentalmente, che si finge trasgressiva ma rimane nella recinzione della banalità. Si credono
immortali, pensano che il loro fisico rimarrà per sempre giovane ed integro; come se rimanesse
sempre al presente. Prima o poi il futuro li attenderà per fargliela a suon di acciacchi. Ho già
previsto il loro destino: una vecchiaia ricolma di rimpianti di un passato vissuto all’insegna della
stupidità. Cosa vivono a fare mi chiedo, se consumano ossigeno inutilmente. Io li ammazzerei
sprigionando nell’aria una buona dose di gas nervino. Che razza di ragionamenti mi venivano, stavo
diventando come uno di quei filosofi pazzi dei primi del novecento. Se a quell’epoca avessi diffuso
la mia dottrina, avrei disseminato morte e distruzione a suon di stragi, in nome del mio verbo. In
fondo quelle persone non stavano facendo nulla di male. Ognuno aveva il diritto di interpretare la
vita a modo proprio. Tuttavia non li consideravo intelligenti e sicuramente non meritavano la mia
stima. Continuai a bere perdendo il conto di quanto alcol avessi ingerito. Mi chiesi che caspita ero
venuto a fare in quel covo di dementi. Mi ero speso un occhio della testa per accedere in discoteca e
poi, per fare cosa? Per starmene imbambolato a scolarmi cocktail da vomito. Potevo farlo in strada
con quei luridi dei miei amici. Almeno non mi sarei allontanato: distruzione a chilometro zero. Il
motivo invece c’era: ero andato per fare compagnia a Carlo. Se non fossi andato io, nessuno si
sarebbe degnato di stargli al fianco. Avevano tutti paura; finanche Hannibal si sarebbe intimorito
nel stargli vicino.
Gli alcolici devono avere qualche legame col tempo, perché sono le uniche sostanze, insieme
alla droga, capaci d’interagire con esso. La nottata trascorse speditamente e intorno alle cinque e
trenta eravamo già tutti in macchina sulla via del ritorno. Non avevamo però fatto i conti con il
nostro stato di alterazione. Carlo al posto di parlare, gridava. Io invece avevo il capo a pezzi, mi
girava la testa, manco mi trovassi sulle montagne russe. Riacciuffammo le ragazze e le caricammo
in macchina.
<< Si parte!!! >>, urlò quel pazzo di Carlo, mentre premeva i piedi contemporaneamente
sull’acceleratore e sui freni. La macchina rombava dall’impazienza di partire, faceva un putiferio
infernale. Finalmente Carlo decise di staccare il piede dal freno e fummo catapultati come un
Shuttle verso il vuoto.
Il viaggio di ritorno fu completamente diverso, fu un incubo nel mondo reale. Carlo stava
fatto di brutto, gli occhi gli brillavano ed erano arrossati; sembravano stregati. Al volante era un
vero pericolo. Chissà perché non volle ingranare la quinta, anche quando oltrepassava gli ottanta
chilometri orari: questo faceva andare la macchina su di giri ed in questo modo la faceva ringhiare
come un belva feroce. Certe volte non guardava nemmeno la strada che gli si parava davanti, perché
era impegnato ad usare il telefonino. Poi ruttava come un cinghiale, manco si trovasse in un bosco.
Ma il peggio doveva ancora arrivare; e giunse in corrispondenza dell’ingranaggio della quinta
marcia. La velocità divenne paurosa, non solo, si mise sulla corsia di sinistra a pericolo di provocare
un incidente frontale, con un’eventuale veicolo che ci poteva venire incontro.
<< Gesù santissimo, vuoi rallentare e vuoi metterti sulla corsia di destra? Che cazzo sei
diventato un inglese? >>
<< Tranquillo milord >>, mi diceva con accento britannico, << entro le 6:00 pm, arriveremo
nella sua tenuta, tra i suoi bracchetti scodinzolanti. La regina ne sarà orgogliosa. Giusto l’ora di
prendersi un tè >>.
Non gliene fregava assolutamente niente. Dovevo agire, le ragazze avevano capito che era
uscito di senno e cominciavano ad inquietarsi. Io che gli stavo affianco, notavo il suo affanno e la
sua lucidità sempre più offuscata. Poi fece quel gioco idiota che faceva tutte le volte che si metteva
alla guida: spense le luci e per di più cominciò a strombazzare col clacson come un forsennato.
Nemmeno se l’Italia avesse vinto i mondiali si sarebbe messo a fare un simile baccano. A quel
punto persi la pazienza ed intervenni con un’azione drastica ma efficace. Anche perché non potevo
reggere quella follia, dovevo in qualche modo intimargli a terminare quella roulet russa a motore.
<< Fermatiiiiiiii!! >>, gli esclamai con tutta l’energia delle mie corde vocali.
Con una sgommata alla “Fast end Furios” pose fine alla corsa dannata.
Lo buttai per terra e gli menai tre calci in pancia. Poi, ripensando alla violenza che aveva
inferto a quella prostituta e sicuramente invogliato dall’alcol, fui preso da un raptus omicida. Lo
presi per i capelli e gli stampai con tutta la potenza che avevo nelle gambe degli altri calci, ma
questa volta in pieno viso. Mentre lo picchiavo selvaggiamente gli gridavo:
<< Prendi questo perché sei un rincoglionito! E quest’altro per aver ammazzato quella
maledetta troiona! >>.
Lui, del resto, non tentava nemmeno di difendersi; rimaneva impavido a prendere mazzate
come un battiscopa.
<< Hai ragione >>, gridava << Merito di essere fustigato. Continua ti prego che lentamente
mi sto purificando >>. E prendeva colpi come un sacco da box.
Dopo averlo distrutto di botte, Carlo, imperterrito, riprese a guidare.
Io mi ero placato dalla mia ira, ma non avevo sbollito del tutto la rabbia e la voglia di
diffondere violenza. La testa mi girava, quella notte mi ero ciuccato più del solito. Le luci dei
lampioni rimbalzavano sui miei occhi e mi invogliavano a vomitare. C’era una sovrapposizione di
pensieri, di immagini e di colori che si mescolavano e mi stavano facendo venire una nausea
insopportabile; un frastuono senza rumore. Ero indemoniato e depresso allo stesso tempo; dentro di
me, lentamente e sempre più prepotentemente, si stava diffondendo un terribile desiderio di
piangere; strinsi pertanto i pugni per trattenermi. Tuttavia sentivo che l’autocontrollo non era uno
stato d’animo di mia proprietà.
Carlo, nel frattempo e apparentemente ripresosi, con il volto devastato, cominciò a parlare a
vanvera:
<< Oh! Ciro grazie per avermi salvato, sei proprio un grande, mi stavo perdendo >> e intanto
grondava sangue e lacrime. La maglia bianca si era macchiata di rosso, sembrava, in quello stato di
delirio, un maniaco omicida; che in effetti lo era. Poi, in un momento, si accasciò su volante ed a
peso morto sterzò bruscamente verso sinistra. Io mi precipitai a riprendere il controllo dell’auto, ma
era troppo tardi, la macchina fece un testa coda da paura e ci ritrovammo, di sbilenco, nel senso
opposto a quello che avevamo intrapreso, come se ci fossimo diretti nuovamente verso la discoteca.
Fortunatamente non uscimmo di strada e non passarono altre macchine, altrimenti ci sarebbe stata
una strage. Restammo illesi in un silenzio imbarazzante. Carlo rimaneva con la testa appoggiata al
finestrino appannato ed imbrattato dei suoi essudati. Io, vedendo che nessuno aveva alcuna
reazione, mi incazzai di nuovo come una bestia:
<< Lo ammazzo a sto ricchione! >>
uscii dalla macchina andai allo sportello di Carlo, lo aprii e lo scaraventai fuori dall’abitacolo.
Egli batté il suo corpo malandato sull’asfalto e rotolò sull’erba bagnata. Sembrava uno di quegli
animali, che si ritrovano ai bordi della carreggiata, uccisi dai pirati della strada. Presi a quel punto le
redini del comando e misi in moto la macchina. Avevo deciso di abbandonarlo al suo tragico ed
insensato destino. Vedendo i miei gesti risoluti, le ragazze con voce disperata mi supplicarono:
<< Ciro ti prego non lo lasciare fuori! Finirà per morire! >>.
<< Non vi immischiate in questioni che non vi riguardano maledette puttane! >>
Poi, vedendo i loro pianti sinceri mi placai e diventai ragionevole. Lo presi dalle ascelle, lo
caricai in auto sui sedili posteriori, feci inversione e ci rimettemmo in marcia.
Carlo si risvegliò e come se nulla fosse successo, si mise a raccontare le esperienze sessuali
passate nel bagno della discoteca:
<< Gli ho fatto dei gargarismi ad una troia di quindici anni, vedessi Ciro che schifo. Se ti fossi
trovato nei pressi del cesso gliel’avremmo infilato io davanti e tu da dietro…. >>.
Carlo svenne per la seconda volta e per la seconda volta rinvenne. Il secondo collasso l’aveva
stremato, era affannato e si era smontata completamente l’aria da bullo che portava sempre con se.
Era diventato fiacco e smidollato come un mollusco, non riusciva nemmeno a rimanere in
posizione eretta, probabilmente gli avevo maciullato le ossa. Chiudeva gli occhi e li riapriva, come
se stesse sotto l’effetto di qualche anestetico. Rimase per tutto il viaggio chino da un lato e farfugliò
qualcosa in una lingua incomprensibile. Alessia lo guardava preoccupata, però rimase in silenzio
per non far riemergere la mia ira che in quei frangenti era raffrontabile a quella di Achille. Ella poi
con voce frammentata decise di esprimersi:
<< Ciro… secondo me… dovremmo portarlo al pronto soccorso >>.
Io con prontezza gli risposi:
<< Taci altrimenti ti faccio fare la stessa fine. Anche se dovesse morire non sarebbe una
grande perdita per l’umanità >>.
Non parlò più, sentivo solo i suoi lamenti repressi che mi pizzicavano le orecchie.
Anch’io ero satollo della mia violenza, avevo esagerato. Forse solo adesso, con lo
smaltimento degli alcolici, cominciavo a capacitarmi del casino che avevo combinato. Per tale
motivo i rimorsi si insinuarono nei miei pensieri. Mi venne persino un certo dispiacere per le
mazzate che avevo inferto a Carlo. Poi all’improvviso, il male di vivere mi ricordò che non c’era
speranza per me e lo spettro del mio stato mentale, riprese il sopravvento. Senza alcun motivo
accelerai e dai novanta all’ora che avevo mantenuto fino a quel momento, passai e valicai i cento
ottanta. Mi stavo comportando allo stesso modo di Carlo; meritavo dunque gli stessi trattamenti
truculenti che egli aveva subito?
Le mie due amiche scoppiarono in lacrime e gridarono disperatamente:
<< Rallenta Cirooo!! Rallentaaa!! >>.
Io esplosi in una risata isterica e simultaneamente demoniaca. Poi con una tranquillità da
saggio dissi:
<< Tranquille ragazze, non dovete aver paura della morte. Noi siamo già morti. Se ci pensate
bene, la morte si configura con il non essere e noi, prima di nascere, non eravamo. Come direbbe
Seneca: noi torneremo ad essere quello che eravamo già stati! >>
La loro arma principale, ossia superbia, che mostravano al mondo, non c’era più, si era
polverizzata. Si erano trasformate in delle mocciose bambine. Dallo specchietto retrovisore vidi una
di loro, con la testa tra le ginocchia, che gemeva come un animaletto impaurito. Io tuttavia non volli
demordere, non c’era più pietà in me e continuai a procedere ad una velocità supersonica. In dieci
minuti eravamo arrivati già a F***. Giunti alla periferia del paese, accostai la macchina e dissi:
<< La corsa è finita andate in pace. Ragazze è stata una serata fantastica. Alla prossima. Io ora
me ne vado per la mia strada e vi affido questa larva umana. Addio >>.
Lasciai le ragazze intontite ai bordi del paese e proseguii a piedi. Le case di quelle zone mi
sembravano apatiche, ti davano l’impressione che non fossero abitate da alcun essere vivente. La
torcia della luna faceva un po’ di luce, dato che persino i lampioni erano spenti. Come mai soltanto
io mi sentivo circondato dalla solitudine e dalla desolazione? Cazzo, nessuno che in tutta la mia
vita, m’avesse confidato una sensazione similare alla mia. Evidentemente ero troppo lontano dagli
altri. Non avevo l’intenzione di tornarmene a casa, volevo prima passare dalla distilleria per vedere
se c’era qualcuno che si era intrattenuto a dormire in qualche panchina, in attesa di smaltire i fumi
dell’alcol. Avevo una strana voglia di conversare. Durante il tragitto ebbi l’impressione che
qualcuno mi stesse seguendo. Forse era solo un’impressione sbagliata. Eppure per tutta la serata e la
nottata avevo notato, durante l’andata in discoteca, che qualcuno con la macchina di venisse dietro,
come per tallonarci. Stavo evidentemente diventando schizofrenico. Chi caspita mi doveva spiare?
A chi potevo suscitare tanto interesse? Sebbene cercavo di dirmi che si trattava di pure congetture,
non riuscivo a rimanere tranquillo. Ero sempre all’erta, come una gazzella in un covo di leoni. Ad
ogni passo del vento che generava un fruscio di foglie o di cartacce, io voltavo la testa. Ero quasi in
preda al panico. Mi stava quasi venendo voglia di tornarmene a casa. Chi me l’aveva fatto fare di
starmene tutto solo in un paese così insicuro. Adesso che ci pensavo, anche la notte precedente, cioè
quando ci imbottimmo di funghi allucinogeni nel parco, sia pure con la testa appesantita dalla
droga, avevo scorto una macchina ferma, all’entrata, con due tipi sinistri che ci osservavano. Mi
sentii per la prima volta solo ed indifeso. Stavolta ebbi veramente la voglia di sgattaiolare dritto,
verso la mia dimora e barricarmi dietro le sue mura. Solo che ormai ero giunto alla distilleria. Dare
un’occhiata in giro non mi costava nulla. E poi se c’era qualcuno, tanto di guadagnato. Per quanto
disturbata che fosse si poteva comunque rivelare una valida compagnia. E invece nessuno, più
disabitato della luna. Soltanto Sniffone e Pecorone scorazzavano nella loro innocente libertà.
Appena mi videro mi vennero incontro e scodinzolando vennero a farmi un sacco di feste. Mentre
gli stavo vicino mi accorsi che avevo dimenticato le chiavi di casa in casa. Ero per l’ennesima volta
costretto a passare la notte fuori, sotto gli occhi vigili delle stelle. Mica potevo rientrare e citofonare
a quell’ora balorda. E poi chi se le sentiva quelle due oche di mia madre e di mia sorella. Avrebbero
fatto le vittime per un mese asserendo che non le facevo dormire. Cazzo, era pure sabato; il giorno
dopo non si doveva andare nemmeno a lavorare. Avevo paura ma andava bene così. Meglio
comunque starsene rintanati all’aperto e farsi rimboccare le coperte dal vento. Mi trovai pertanto
una bella panchina morbida d’acciaio, così avrei avuto il segni della sua conformazione persino
sulla spina dorsale. Mi rannicchiai, i due cani mi avevano seguito. Si moriva di freddo ma mi ci
dovevo abituare. Tremavo e bestemmiavo tutto il mio vocabolario osceno alla rigidezza della
temperatura. Ogni tanto giungeva una folata di vento, quasi volesse prendersi gioco di me. Io
rabbrividivo e tentavo di compattarmi il più possibile, per riuscire a trattenere quel poco di calore
rimastomi in corpo. Il buio color lutto inumò i colori del mondo. Il silenzio penetrò dentro la cassa
di risonanza del mio inerme corpo, mettendo a tacere persino i pensieri. Non si sentiva nulla, tranne
le foglie che facevano attrito sul suolo. Di tanto in tanto passava una macchina a distanza, se ne
sentiva il rombo lontano. Per il resto era identico il paese ad una foresta. Una giungla cementificata,
piene di bestie feroci pronte a straziare i più deboli. Dormii profondamente e, quando mi svegliai,
dovevano essere le otto, per gli otto rintocchi di un campanile, provenienti da chissà quale chiesa.
Mi sentivo pieno di reumatismi, causati dalla posizione scomoda di quel letto improvvisato. Il sole
aveva ridestato il cielo, ma nella posizione in cui mi trovavo mi era impossibile vederlo. Avevo una
nausea immane e mi sentivo stravolto, come se mi fossi appena svegliato da un coma. Chissà se
Carlo era ancora vivo. Sicuramente si era ripreso alla grande, altrimenti a quest’ora mi sarei già
dovuto trovare in manette. Sniffone e Pecorone erano ancora lì che vigilavano le movenze della
mattina. Raggiunsi un bar e gli comprai due focacce ai wurstel che ingurgitarono ad una velocità
pazzesca. Io invece non avevo trangugiato alcunché di solido dal pranzo del giorno prima. Ieri
infatti la mia cena era stata a base di alcolici. Mi sentivo disgustato ed infreddolito. Me ne tornai a
casa perché mi sembrava come se mi fossi preso la febbre. Qualche linea l’avevo sicuramente
perché ero diventato pesante e per raggiungere casa mi ci volle uno sforzo disumano. Mi sentivo le
gambe molli, come di gelatina. Arrivai con l’affanno, citofonai, entrai e mi misi subito a letto, senza
avere la minima preoccupazione di dare delle spiegazioni di quel rientro. Finalmente la mia giornata
si era conclusa con l’inizio di un nuovo giorno.
Capitolo 10
Ma com’è che bevo e non mi disseto? Vado ad aprire il rubinetto, porgo le mie labbra secche,
inghiotto ettolitri di acqua ma niente. La gola mi rimane arida. Sto subendo una desertificazione del
palato, ho bisogno di una sorgente liquida. Già, ma com’è che quando bevo non ricevo alcun
beneficio? D’ improvviso si avvicina una donna con la barba che mi fa:
<< Tieni, beviti questo orologio >>.
Poi scompare. Provo ad abbeverarmi ma comincio a perdere i denti. Apro la bocca e vedo che,
del mio apparato masticatorio, mi sono rimaste soltanto le gengive. Entro in ascensore, ma questo
si blocca; poi però si riattiva e va velocissimo. Va talmente sparato che mi porta in un lunapark.
Mentre mi avvio all’interno del lunapark, tutto diventa oscuro e…
Mi destai rimbambito, con un rumoraccio assordante che proveniva dall’esterno. C’erano
degli operai che stavano trapanando l’asfalto per rifare le tubature della rete fognaria. Quel fracasso
quindi lo generava il martello pneumatico, addetto a tali lavori. Guardai la sveglia, segnava
mezzogiorno. Mi misi in piedi, ma l’effetto della sbornia non era ancora svanito. Arrancando
raggiunsi la cucina perché sentivo una fame tremenda. In casa non c’era nessuno; ormai si viveva
come in un hotel, alla giornata. Aprii il frigorifero ed ovviamente scarseggiava di vivande. Su una
delle due mensole c’era un contenitore di riso, risalente a chissà quale periodo storico. Senza
nemmeno apparecchiare consumai quei rimasugli con molta malinconia. Il riso si staccava a
blocchetti per quanto era vecchio e disidratato. A malincuore mangiai quella porcheria, pur di
sopravvivere all’inedia che mi divorava. Dopodiché mangiai una fetta di pane e burro e me ne
tornai in camera mia. Presi un libro universitario e tentai di studiare stando a letto. Un quarto d’ora
rimasi a leggiucchiare quei paragrafi incomprensibili, perché il sonno s’impossessava nuovamente
del mio corpo esausto. Caddi come un sasso, sebbene il frastuono del cantiere sottostante non aveva
cessato la sua aggressività acustica: la mia stanchezza lo trasformò in una ninna nanna. Alle sette di
sera ripresi conoscenza, mi diedi una lavata e mi attaccai al computer. C’erano sia mia madre che
mia sorella, naturalmente si catapultarono su di me per rompermi le palle.
<< Tu hai mangiato il riso nel frigorifero?! >>, fece mia madre con un’acidità tale, che se le
avessi messo a contatto una cartina tornasole, si sarebbe colorata di rosso.
<< Sì non c’era assolutamente niente da mangiare. Se non mi fossi pappato quel riso sarei
probabilmente morto di fame >>.
<< Come hai potuto, quel riso era riservato al nonno. Ora cosa gli preparo? >>
<< Allora ho fatto bene a sbafarmelo, era così vecchio ed indurito che per tutto il tempo mi è
parso di masticare della ghiaia. Se invece lo avesse assaggiato il nonno, probabilmente la dentiera
gli sarebbe andata in frantumi >>
<< Ma smettila, mangione che non sei altro! >>
<< Sarà, ma sono comunque talmente magro che mi si vedono gli organi con tutto il sistema
circolatorio >>.
Mia madre si ruppe di scatole e se ne andò infastidita. Quell’idiota di mia sorella invece
rimaneva imbambolata, manco se Medusa, con il suo sguardo l’avesse pietrificata.
<< E tu che cazzo guardi! Tornatene nelle fogne in mezzo ai tuoi simili! Mutante! >>
<< Fanculizzati >> mi fece lei e mi mostrò il dito medio con un’eleganza tale che le fece
perdere tutta la sua femminilità.
Alle nove e trenta uscii per andarmi a comprare una vaschetta di patatine, poi mi recai alla
Distilleria per il solito appuntamento.
Giunsi che ancora mangiucchiavo. La distilleria era un’ecatombe, vuota come un pozzo
artesiano nel deserto. La stessa immagine del giorno prima mi si parò davanti. Ed allo stesso modo
Sniffone e Pecorone mi vennero festanti per la mia visita. Sentii d’improvviso delle macchine
sgommare, ma non mi preoccupai, mi sembravano troppo lontane. Mentre rimanevo chino ad
accarezzare i due cani, con il sovrappensiero che mi rimbombava l’enigma di dove si trovassero i
miei amici, qualche cosa di brutto accadde. Mi trovai circondato di uomini incappucciati che si
coprivano il viso con una sciarpa ed occhiali da sole, nonostante il buio imponente. Alcuni di loro
avevano un casco da motociclista in testa. Erano una decina all’incirca. In quei momenti di terrore
non potevo mica stare a fare calcoli. Cosa volevano era fin troppo chiaro: menarmi fino a rompermi
le ossa. Quello che invece non mi era chiaro era il motivo di una simile retata. All’inizio pensai che
si fosse trattata di una vendetta di Carlo, dopo le botte da orbi che gli avevo dato. Poi scartai questa
ipotesi perché l’organizzazione di una simile banda di violenti non poteva essere stata messa
assieme in un lasso di tempo così breve: non erano passate nemmeno ventiquattro ore. Inoltre Carlo
era talmente scimunito che neanche si sarebbe ricordato quello che gli era successo; rimuoveva i
suoi ricordi come un computer quando cestina i suoi file. Probabilmente a quest’ora stava dormendo
alla grande. Mi accorsi con mio immenso dispiacere che avevano anche delle spranghe per
fracassarmi anche i globuli rossi.
Non si fecero problemi, subito incominciarono. Mi arrivò una sprangata sulle gambe che mi
mise subito k.o.. Poi una seconda sulla schiena a pericolo di sfasciarmi la colonna vertebrale. Un
male cane. Cominciai a piangere per il dolore. Fortunatamente, vedendo il mio cedimento
immediato, misero da parte quelle odiosissime sbarre di metallo. Ma la violenza di certo non era
terminata. Infatti mi riempirono di calci per non so quanto tempo. Una sofferenza della malora,
persino la mia anima sentiva dolore. Una tortura raffrontabile ai desaparecidos e Gauntanamo messe
assieme. Mi sputarono ed umiliarono, poi mi saltarono addosso, manco fossi stato un tappeto
elastico. Ma su di me erano solo in quattro. Gli altri si misero a malmenare i cani come se avessero
commesso qualche torto. Che vigliacchi figli di puttana. Mentre mi pestavano a sangue vidi con la
coda dell’occhio che riempivano di sprangate Sniffone. Pecorone non lo vedevo ma sentivo che
urlava di dolore. Mi voltai e chiusi gli occhi ad un simile scempio; meglio essere picchiato.
Continuarono ininterrottamente ad umiliarmi a suon di parolacce:
<< Muori merda! Così imparate ad insultarmi e a non saldare i debiti con la gente per bene!
>>
Capii di chi si trattava, sia da quello che aveva detto che da quella voce da evirato che si
ritrovava. Era Vernice, con i suoi amici malavitosi. Forse si era aggiunto anche Riccardo perché era
sparito da tempo e mi aveva giurato vendetta. Ebbi veramente paura. Vernice era un coglioncello
ma quelli erano dei veri e propri mafiosi: trafficavano armi e rubavano macchine all’ordine del
giorno. C’era perciò il rischio di rimanerci secco. Questi a lungo andare mi avrebbero ammazzato.
Di fuggire non potevo, mi avevano trasformato in un’ameba. L’unica sciance che mi rimaneva era
quella di urlare a squarcia gola. Con tutta la forza che avevo in corpo urlai senza preoccuparmi delle
legnate che mi buscavo. Per il fracasso che feci quegli animali s’intimorirono e temendo di essere
scoperti se la diedero a gambe. Tanto un bel lavoro coi fiocchi era stato compiuto, non c’era
bisogno che si trattenessero per qualche altro minuto per continuare la loro opera. Potevano ritenersi
completamente soddisfatti.
Io, allo stremo delle forze, appena sentii l’ultima macchina andarsene cercai di riprendermi
dal massacro. Non potevo ancora constatare se avevo qualche cosa di rotto perché ogni cosa mi
faceva male, perfino i peli del naso mi dolevano. Mi confortai per essere sopravvissuto a
quell’alluvione di botte. Ero disteso in mezzo alla strada. La mia prima azione fu quella di togliermi
da là in mezzo, altrimenti la prossima automobile che sarebbe passata mi avrebbe ridotto ad una
bella frittata. Mi fischiavano le orecchie ma riuscivo a sentire il mugolio di uno dei due cani che mi
martellavano i timpani. Arrivai a gattoni sul marciapiede e mi rimisi nuovamente disteso. Ero
esausto e con quel lamento di cane mi sembrava di essere disceso nell’Ade. Basta! Era
insopportabile! Mi strapazzava i gangli del cervello. Con le lacrime addosso implorai aiuto. Ma la
voce che possedevo l’avevo tutta consumata per salvarmi la vita. Una nausea si posò sulla testa,
aumentando lentamente la sua pressione, come se volesse schiacciarmela. Iniziai a vedere le stelle
che coprivano la mia visuale, dopodiché tutto diventò nebbia, anche i miei pensieri.
Mi svegliai ancora con quel maledettissimo piagnisteo che mi rimbombava dentro la scatola
cranica. Provai ad alzarmi e a verificare le mie condizioni fisiche. Sputai per terra un fiotto di
sangue. Mi sentivo pieno di lividi. Feci qualche passo, ma lo compii in modo molto disagiato
perché un piede aveva perso di sensibilità. Andai incontro a quelle lamentele e vidi il disastro.
Pecorone era ancora vivo ma lo avevano imbrattato di vernice spray. Era tutto colorato, peggio di
Arlecchino. Su di un lato gli avevano disegnato una bella svastica, sull’altro il pesce cristiano. Stava
accucciato e piangeva. Ma l’obbrobrio mi sopraggiunse quando m’imbattei in Sniffone. L’avevano
ucciso a colpi di spranghe. Se ne stava immobile a pancia in su, gonfio come una zampogna.
Un’immagine orripilante. Mi voltai immediatamente e meditai sul serbatoio di male inesauribile che
porta con se l’uomo, sulla sua capacità di trasferire la violenza ovunque e di impiegare gli esseri
innocenti come unica fonte di sfogo ai propri complessi.
Fui sovrastato dal senso di colpa. Lasciai tutto come stava e mi avviai verso un luogo remoto,
possibilmente privo di traccia umana. Bestemmiavo e piangevo come un dannato della Divina
Commedia. Ero stato abbandonato da tutti, non avevo più nulla su cui contare: la mia famiglia era
andata allo sfascio e sopravviveva come un relitto in mezzo ad una tempesta. L’amore neanche a
parlarne: una tortura senza tregua, come se masticassi di continuo del filo spinato. Ma stavolta
avevo perso pure gli amici, le uniche persone sulle quali potevo contare. Nessuno si era degnato di
avvisarmi che quella sera si sarebbe presentata una spedizione punitiva a flagellare il primo che gli
si parava davanti. Anzi, probabilmente avevano deciso di mandare me, in prima linea, usandomi
pertanto come capo espiatorio dei peccati collettivi. Ora che si erano sfogati su di me, non c’era più
alcun bisogno di ritorsioni future. Che maiali vili del cazzo, senza un briciolo di coraggio. Non
potevo contare su nessuno, ero praticamente finito. Tutto mi sarei aspettato fuorché una simile
beffa. Che pezzi di merda, persino Giuda li definirebbe dei traditori. Le persone sono come l’acqua:
dall’esterno sembrano limpide, dentro contengono un sacco d’impurità. Intanto camminavo verso
una meta sconosciuta, sempre più lontana da casa. Il paese era come al solito vuoto. Nessuno poteva
vedere il ragazzo soccombente che respirava l’asfissia. Ognuno era impegnato a coltivare la pianta
del proprio egoismo. Adesso ero completamente libero da ogni rapporto umano. Non potevo dare e
ricevere alcunché. Come le larve degli insetti xilofagi, che lentamente si nutrono della polpa
legnosa degli alberi, uccidendoli internamente e contemporaneamente lasciandoli intatti
dall’esterno, allo stesso modo io, sotto il mio strato di derma, sentivo la fiamma della mia anima
spegnersi, con foga ed altrettanta cruda discrezione.
Non mi rimaneva altra scelta: farla finita. Sperare non serviva più; sapevo che non si sarebbe
aggiustato nulla. Anche se mi fossi messo di buona lena a credere in qualcosa sarei stato
inevitabilmente deluso. Nessuno aveva ideali, quindi un progetto di miglioramento risultava
un’impresa totalmente vana. Morire così giovani avrebbe per qualche tempo portato qualcuno a
riflettere: tuttavia la vita insipida delle persone avrebbe nuovamente ripreso il moto perpetuo
dell’avidità. Chi se ne fregava, è tutta una finzione, dove tutto è stato destinato a finire. Tanto nella
vita ne usciremo tutti sconfitti, perché si finisce coll’invecchiare e col morire; e chi non invecchia
comunque muore. Porre fine a questa pagliacciata sarebbe stato dal mio punto di vista uno dei gesti
più dignitosi che si potessero mai fare. E poi non volevo più avere a che fare con queste facce di
ebeti che ti sanno soltanto regalare cattivo umore. Staccare la spina e dimenticarsi di qualunque
cosa per sempre. Che splendore. Sollevare un muro invalicabile verso coloro che ti vogliono del
male ed isolarli soli con se stessi. Si sarebbero sbranati tra loro come miserabili antropofagi.
Nutritevi della vostra carne e godetevi lo spettacolo dell’olocausto di anime. Io ne resto fuori,
salvando ed uccidendo la mia persona.
Raggiunsi i binari che segnavano il confine con il paese dalla campagna. Vi camminai nel
mezzo inciampando qua e là sulle pietre che si frapponevano tra le traversine. Piangevo, ma tanto
nessuno mi poteva sentire. Cominciò a piovere e le gocce di pioggia si mescolavano alle mie
lacrime. Continuai con passo strascicato per un bel po’ di metri, fino ad una nuova risalita che, una
volta raggiunta, permetteva di spaziare sull’orizzonte che rimbalzava sulla mia vista. Di fronte a me
si stagliavano le luci di altri paesi, lontane come pianeti, esprimevano il mistero di un’altra esistenza
remota. Mi fermai con l’affanno, manco se mi fossi trovato sull’Himalaya. Rimuginavo il mio stato
di abbandono: maltrattato ed incompreso da chiunque, costretto a viaggiare in una vita schifosa che
non meritavo. Cazzo, non credevo di essere l’individuo più ripugnante del mondo, eppure mi
trovavo qui, abbandonato come l’ultimo escremento di fogna. Da lontano un rumore funesto era
pronto ad offrirmi l’occasione per la fine. Era il treno che giungeva a liberarmi. Tramortito poggiai
la testa sui binari di modo che, al passaggio del mezzo, venissi ghigliottinato come un monarca
durante la rivoluzione francese. Il rumore aumentava convertendo la mia rassegnazione in terrore.
Chiusi gli occhi e feci in ogni modo per rimanere immobile. Oramai la decisione l’avevo presa ed
andava portata fino in fondo. Non avevo nulla da perdere e da guadagnare. L’importante era
sbattersene altamente. Come gli stoici che avendo raggiunto un livello di saggezza talmente elevata
si distaccano completamente dal corpo e dal materialismo, dato che racchiudono nel loro spirito
l’essenza della vita, allo stesso modo io, in maniera altrettanto e diversamente distaccata, chiudevo
la mia parentesi terrena. Dico diversamente distaccata perché a differenza di un saggio decidevo di
morire non per eccesso di serenità, ma per un surplus di tristezza.
Ma il treno era già vicino e sentivo le vibrazioni che mi penetravano fin dentro l’anima. Col
suicidio, secondo la divina commedia, sarei stato trasformato in pianta, come Pier della Vigna. Ad
un passo dall’abisso la paura mi dette uno scossone non previsto che mi rese rigido come un
tondino d’acciaio. Un brivido fermentò lungo la spina dorsale: digrignai i denti, strinsi i pugni e
tentai di farmi coraggio davanti a quel dinosauro di ferraglia che mi veniva contro a tutta velocità.
Eccolo, eccolo! Era giunto quasi al capolinea e la sua opera infallibile si stava quasi per
completare…
Capitolo 11
Ritrassi la testa all’ultimo secondo, dopodiché affondai le mani nel suolo bagnato e con esse il
mio ardimento alla vita. Le falangi stritolavano le zolle di fango, per sgretolare la mia dannazione
sempre più crescente. Nel frattempo la pioggia continuava a battere, insensibile, sul mio corpo
ridotto allo stremo. L’acqua meteorica mi urtava la testa e, ripetutamente, mi infliggeva i suoi colpi
privi di forza, come se avesse avuto l’intenzione di inabissarmi ancora di più. Le gocce che
toccavano la mia ripida fronte, valicavano gli occhi e si mescolavano col liquido delle mie lacrime
amare. Che peccato, non meritavo di diventare così disgraziato; non è giusto. Purtroppo, nonostante
stavolta l’avevo scampata, sentivo di essere giunto alla fine. Eppure mi sono sempre accontentato di
poco. Basterebbe che qualcuno mi tendesse una mano d’amore ed io risalirei rapidamente la china.
Sì, necessiterei di una trasfusione d’amore ed invece nulla; continuerò come le stelle cadenti a
dissolvermi strada facendo.
Il treno era ormai lontano, il suo rumore un’esperienza passata, forse un’occasione sfuggita.
Continuai a piangere nelle tenebre cercando di ributtare il dolore che mi portavo dentro.
Sebbene il cielo fosse coperto, la luna, prendendosi beffa sia delle nuvole che delle stelle, rimaneva
là, in bella vista, immobile, a scrutarmi dall’alto. Essa era pallida, come il mio viso cadaverico. Io
che volevo rimanere al buio e solo nel mio umore nero, mi sentii quasi imbarazzato dalla sua
lucente presenza.
Infreddolito e zoppo, col capo reclinato me ne tornai come un reduce verso casa.
Una guerra interna e rapidissima si era svolta, già da tempo annunciata ma che non aveva
condotto da nessuna parte. Non c’erano stati né vinti né vincitori ma soltanto un nulla di fatto. La
mia anima prigioniera della mia stessa carne chiedeva di liberarsi, senza tuttavia riuscirci.
Camminavo vuoto e senza una minima sensazione. Sarei rimasto dunque ancora a galleggiare nel
campo di sterminio terreno? Non m’importava ormai, era tutto di un’inutilità esasperante. Seguire il
corso delle cose come se ci si trovasse lontani, osservare lo scivolare della propria vita davanti al
televisore del distacco. Preoccuparsi è per gli stolti, roba da gente mediocre. Se facciamo mente
locale e proviamo a ricordare, ed al contempo rivivere le nostre preoccupazioni, ci rendiamo conto
del sangue che abbiamo buttato a vuoto. Ansia che si sovrappone e ci dà la sensazione di stare
sempre sull’orlo del dell’abisso. Noi ci lamentiamo sempre di condurre un’esistenza sfortunata e da
ciò ne usciamo perennemente insoddisfatti, siamo noi però che condizioniamo la riuscita di una
vita. Uno può vivere in un bidone ma rimanere di buon umore, oppure al contrario un individuo
potrebbe diventare l’uomo più famoso del mondo ma sentirsi flagellato da uno stato di torpore
dell’umore. E perciò una questione interna, bisogna assistere alla globalità degli eventi senza farsi
influenzare perché tutto ciò che influenza genera conseguenze.
Io, viandante in un paese decadente vivevo a mille anni luce dalla realtà che mi circondava.
Le ganasce dei sentimenti si erano ormai sciolte e non m’imbrigliavano più di condizionamenti. Ero
stanco ma non sentivo fatica, ero ferito ma non sentivo dolore, solo ma non mi sentivo isolato, ero
in lacrime ma non mi sentivo depresso, insomma ero io ma non mi sentivo me stesso. Pioveva ed i
miei vestiti si erano assorbiti più acqua di una pezza per lavare a terra. Arrivai a casa ed entrai senza
nemmeno pulirmi le scarpe. Lasciai, con l’acqua che mi ero preso, più impronte di un dinosauro.
Fortunatamente il fango, nel cammino, dalle suole si era parzialmente distaccato. Dentro non c’era
nessuno. Mia madre e mia sorella, non sapevo dove si trovassero ma non me ne fregava
assolutamente niente. M’inoltrai nel soggiorno e là vi rimasi; poi mi stesi e col sangue freddo di
un’iguana mi addormentai sul pavimento, come un barbone senza dimora fissa nella propria dimora.
Potevo andarmene a letto, in fondo era a due passi. Non lo feci perché stare per terra o accucciarsi
su di un materasso per me era la stessa cosa. Tanto entrambe queste azioni avrebbero condotto al
sonno. Io scelsi quella più spontanea, cioè quella che fu adottata dall’uomo sin dall’alba dei tempi.
Chiusi gli occhi e ogni cosa divenne lentamente sempre più pura e remota. Così aleggiai verso
l’infinito, dove ogni elemento materiale assume la fluidità dell’astrazione e col nostro sonno
nebulizza la propria consistenza.
Aprii gli occhi con lo sconforto di aver ritrovato la realtà. Mi alzai in qualche modo con i
dolori che mi trapanavano fin dentro le ossa. Sul pavimento avevo lasciato un’immensa impronta di
fango sfumata di sangue: il calco della mia gioventù bruciata. Erano le sei del mattino: l’ora esatta
per andare in facoltà. Sebbene non ero nelle condizioni e chiunque mi avrebbe consigliato di
prendermi almeno una giornata di riposo, decisi comunque di barcamenarmi in un bel po’ di ore
pregne di lezioni. Per me non faceva differenza, ero senza speranza: non sognavo e non temevo più
nulla; ogni evento mi avrebbe solamente arrecato indifferenza. Niente umiliazioni, niente timori,
niente di niente per sempre. Mi sciacquai e poi diedi una sorsata di birra lasciata in frigo in balia di
se stessa. Nulla più, non occorreva nemmeno mangiare. Avrei organicato l’anidride carbonica
presente nell’aria così come fanno tutti i vegetali di questo pianeta. Scesi le scale con leggerezza,
come se mi avessero rimpinzato di elio.
Prima i andare in stazione entrai in una chiesa. Non c’era nessuno, nemmeno una vecchia
bizzoca di passaggio. Mi sedetti col capo reclinato ed incominciai a pregare davanti ad una statua di
Gesù crocifisso:
“Dio perché non mi aiuti? Perché fai finta di niente di fronte alle mie lacrime e guardi solo ed
esclusivamente i miei peccati? Come fa uno a condurre una vita esemplare se il dolore non lo prendi
in considerazione? Cazzo, punisci i peccati ma santo Dio indennizza le buone azioni!”
Ma le mie suppliche erano vane e rimanevano sigillate dentro me stesso. Credo che Dio,
ammesso che esista, il dolore dell’uomo non sia assolutamente in grado di recepirlo; nemmeno se si
munisse di telescopio riuscirebbe a vederlo. Nessuno ha pietà, nessuno si accorge di te, è come
piangere sott’acqua. Le lacrime dell’anima sono come le falde freatiche: scorrono al di sotto senza
che nessuno se ne avveda. Abbandonai la statua del Cristo crocifisso che come un pesce pensava
solo e soltanto alle sue spine e mi riavviai verso la stazione.
Ero condannato all’inesistenza e come un condannato avrei dovuto vivere. Mentre compivo i
miei gesti primordiali, dentro me stesso, col pensiero, facevo la radiocronaca delle mie azioni:
“uomo morto che cammina attraversa la strada, uomo morto che cammina raggiunge la
stazione, uomo morto che cammina aspetta il treno, uomo morto cammina sale sul convoglio, uomo
morto che cammina trova un posto e si siede, uomo morto che cammina osserva il paesaggio”.
Fermai questa voce interna e con occhi annacquati di tristezza vidi quella natura che
tranquillamente se ne stava ad adornare le terre del mio paesaggio. La natura calma e senza reazioni
non cambiava mai nel breve periodo come l’umore della gente. Noi c’incazziamo, ci disperiamo, ci
soffochiamo, ci malediciamo, ed ella rimane là a sbattersene delle nostre monotone calunnie.
Sembra volerci dire: ma che caspita fate?! Non vedete quanto è stupido sbracciarsi ad afferrare le
ambizioni? Cosa concludete? Avete passato il vostro vivere a sputare veleno. Guardate noi,
arriviamo al vostri stesso risultato ma stando completamente fermi e per di più ci guadagniamo in
termini di anni. Chissà in quanti nel vedere un ambiente rupestre abbiano fabbricato i miei stessi
ragionamenti. Il problema sta proprio là: nessuno ti capisce perché nessuno riesce a raggiungere il
tuo modo di pensare. C’è un’immensa solitudine nel regno umano, nonostante la densità di
popolazione sia in continuo aumento. Steppe di solitudine che ghiacciano l’anima. Calai una mano
sugli occhi perché mi vergognavo persino di essere ancora vivo. Sentivo una nausea immensa
quando pensavo a quante migliaia di giorni avrei dovuto affrontare. La stessa sensazione che prova
un avventuriero prima di cimentarsi in un’ardua impresa. Ingoiai angoscia e mi saziai di adrenalina.
Mi sentivo impossessato dai reumatismi, sicuramente avevo anche un po’ di febbre. Ero ormai un
relitto: toccavo lentamente il fondo a pezzi. Intanto il treno seguiva il suo destino lungo un binario.
Il rumore del cammino monotono e soporifero mi comandò di chiudere gli occhi. Io obbedii senza
fare storie. Dopodiché l’oscuro investì la mia coscienza.
Capitolo 12
Sognai una luce che mi veniva incontro. Era così intesa che mi disturbava gli occhi. Ciò
nonostante se ne fregava altamente della mia vista perché continuava ad avanzare inesorabile. In
quello scoppio di luminosità c’era una figura che lentamente cominciava a distinguersi. Quando
arrivò a circa un metro dai miei piedi non potetti credere a quello che mi si parava davanti. Era lui,
non c’erano dubbi, un po’ cambiato per il meglio ma era lui. Scintillava di bellezza, tirato a lucido
come non mai, Luciano, il mio caro amico defunto, mi sorrideva con un affetto che non gli vedevo
da anni. Di slancio, per quella frustrata di emozioni, provai ad abbracciarlo ma agguantai solo il
vuoto. Una simile scena si deve essere verificata tra Enea e suo padre Anchise. Senza pensare sparai
la prima frase che mi passò per la mente:
<< Non ci posso credere! Sei tu Luciano?! Porca puttana stai benissimo e sei anche
bellissimo. Ci voleva la morte a farti dare una ripulita! A proposito, quella trimona di tua madre è
offesa con me perché non sono venuto al tuo funerale >>.
<< Lasciala perdere è rincoglionita, poverina. Mi ha sempre trattato come un coglione ed ora
mi rimpiange. Se la dovessi trovare digli: “Luciano ti vuole bene ed allo stesso tempo ti manda a
fanculo” >>.
<< Dove ti hanno messo? All’inferno? >>
<< Ma sei matto?! Se mi avessero escluso dal paradiso, il regno dei cieli avrebbe chiuso per
sempre i battenti. Santo Dio! >>
<< Ma le bestemmie non sono peccato? >>.
<< No, non sono queste stronzate che fanno incavolare il grande capo. A meno che non si
tratti di offese dirette e abbastanza volgari. Lui, le ingiurie nemmeno le prende in considerazione
>>.
<< Raccontami, ci sono delle gran fighe in paradiso? >>
<< Certo, e sono tutte proprietà delle divinità. C’è più giustizia sulla terra che nell’aldilà.
Almeno da voi gli stronzi primo o poi crepano, qua invece sono immortali e sono ancora più
montati >>.
<< Hai visto per caso quel barbone capellone di Gesù?>>
<< Sì, ma si rasato completamente >>.
<< E di un po’ che tipo è? E’ un comunista sfegatato? >>
<< No so che carattere abbia. L’ho visto di sfuggita in una conferenza. Appare pochissimo in
pubblico. Era poco presente sulla terra e lo è altrettanto meno in paradiso. No scherzavo
naturalmente, finora ho solo detto una marea di cazzate. Qui il corpo non esiste. Tu mi vedi con il
mio aspetto, solo per darti prova della mia identità. In realtà sono luce. Il corpo non è altro che un
imballaggio che tiene incapsulate le nostre aspirazioni divine. Non hai nemmeno l’idea dello stato
di beatitudine che si prova. Non sarei nemmeno in grado di spiegartelo. È una sensazione che si
sente soltanto quando la vita giunge al capolinea. Volevo dirti una cosa, il nostro incontro non è
casuale. Mi è giunta voce che ti volevi fare secco decapitandoti con il treno. Sono qui per farti
respirare il senso della vita e per abbattere quella depressione che da un po’ di tempo non ti lascia
tregua. Il senso della vita è l’amore. È molto semplice: la voglia di vivere risorge amando. Bada,
quando parlo di amore non intendo quello spicciolo, ossia quello tra un uomo ed una donna. Intendo
quello in senso lato. Quella forma di energia, sviluppata dalla fonte dei sentimenti migliori, che
tiene in moto l’intero universo. È citato pure nella Divina Commedia: quando Dante fissa negli
occhi Beatrice, raggiunge l’amore assoluto che si configura con il conseguimento di Dio. Dio infatti
è sinonimo di amore e l’amore è sinonimo di vita. Quindi ti consiglio, appena ti svegli, di darti da
fare ad amare. Apprezza tutto ciò che ti circonda e liberati delle parti oscure che ti attanagliano. Al
di là di quello che ti capita diffondi amore e polverizza una volta per tutte l’odio, l’invidia, la
pigrizia e via di scorrendo. Non ti chiedo mica di vivere come San Francesco, ma di superare quegli
ostacoli di male che ci rodono il cuore. Ama anche te stesso perché l’amare se stessi è un’altra delle
tante ramificazioni dell’amore. Perché secondo te chi tiene allenati il corpo e la mente vive di più?
Perché ama se stesso e questo amore si traduce in un investimento di vita. Questo non vuol dire
mica che tu non ti debba dedicare agli altri, anzi, quando hai la possibilità riversa quantità
abbondanti d’amore senza farti scrupoli. Tanto l’amore non ha limite, può generarsi in maniera
indefinita: eterno ed infinito e per l’appunto, come l’universo e Dio. Se agirai in questo modo
aumenterai la speranza di vita e adornerai tutti i tuoi giorni con la voglia continua di vivere. In
questo modo, sia pure in maniera molto sfocata, riuscirai a toccare la bellezza del divino. E poi non
sentirti così solo: da qualche parte c’è qualcuna che ti ama ed attende il tuo amore >>.
<< Ah sì, adesso che ci penso l’altro giorno mentre camminavo, nei pressi di una fattoria,
notai una pecora che mi fissava intensamente. Quasi quasi, la prossima volta che la incontro la
metto a pecora e me la fiocino. Quella che hai detto mi sembra una gran cagata. Ma se non mi
desiderano nemmeno gli scarafaggi? >>
<< Ma che cacchio vai dicendo?! Persino nei sogni ti ubriachi?! >>
<< No è che mi sembra una cosa assurda. Ma se lo dici tu, non mi resta che aver fede in Dio e
nella chiesa >>.
<< Altra cazzata. La fede serve per far vivere una vita anti dissipazione a coloro che sono
incapaci di autogestirsi, non per spianarti le porte del paradiso. Dio non guarda la dedizione che una
persona impiega nell’adorazione, egli tiene conto che tu abbia rispetto verso il prossimo. Sai quanto
gliene fotte che tu gli vada a leccare il culo? Cosa se ne deve fare l’entità più potente dell’universo
della tua ipocrisia? Per chi cazzo l’hanno preso per un cretino rimbambito? D’accordo che ha un’età
avanzata, ma cazzo mica soffre di alzaimer! >>
<< Okay ci credo. Ma toglimi una curiosità: se come dici tu ti trovi in uno stato di beatitudine
molto avanzato, addirittura incomparabile con quello terreno, non farei prima ad uccidermi per
raggiungere il tuo stato? >>
<< E qui viene la fregatura mio caro. Quando ti sveglierai non saprai mai se questo è un
sogno oppure un’apparizione. Rimarrai col dubbio per il resto dei tuoi giorni. E questo ti spingerà a
non commettere nuovamente la cazzata che stavi per compiere >>.
<< Cacchio, voi in paradiso ne pensate sempre una in più del diavolo! Ma non sei proprio
capace di descrivermi quello che provi? Ed è mai possibile che sulla Terra nessuno sia mai stato
capace di ottenere le tue stesse emozioni? >>
<< Io sinceramente a parole no ti so spiegare un bel niente. È indescrivibile perché valica
quelle che sono i confini della ragione umana. È come se si tentasse di spiegare la teoria della
relatività ad una cimice: è impossibile. In effetti qualcuno dalla Terra è stato capace di raggiungere
Dio, ma si è trattato di casi eccezionali. Parlo di eremiti e di alcuni religiosi che con la meditazione
hanno lacerato l’involucro corporeo per andare a ricongiungersi con le divinità celesti. Il Lama
Itigilov è stato uno di questi. Bisogna avere soltanto un po’ di pazienza. La vita è imprevedibile e
riserva, sia eventi negativi ma talvolta anche grandi sorprese. Addio! >>.
<< Cazzo e mi lasci così? Rimani un altro po’ con me, sono tre anni che non ti vedo >>
<< Uffa, che pizza! Non rompere con queste stronzate strappalacrime. Solo perché sono
schiattato non è mica detto che tu debba essere triste. Sti cazzo di religiosi ci hanno condizionato il
cervello spacciando la morte come un evento negativo. Sto alla grande, quindi non rompermi le
palle, altrimenti ti faccio fulminare da Dio in persona. Scherzo ovviamente. Ricorda però le
raccomandazioni che ti ho fatto e cercale di seguirle con il massimo impegno. Non rimpiangermi
mai, tanto un giorno ci rivedremo e spero sia il più tardi possibile >>.
<< Allora ciao mio caro amico, non ti dimenticherò mai >>
<< E’ basta! Stai diventando veramente pesante! Se non la smetti mi materializzerò sotto
forma di fantasma e verrò a spaventarti la notte a te e a tutti i tuoi familiari! >>
E scomparve in un solo istante.
Capitolo 13
Aprii gli occhi e dalla sommità del mio viso scorrevano rigagnoli di lacrime, il mio animo
però rimaneva stranamente tranquillo, quasi beato. Forse qualcosa esisteva oltre questo marciume.
Mi sentii sobrio e tutto intorno a me sembrava in silenzio. In realtà c’era un tran tran ininterrotto di
brusii e frastuoni meccanici. Pensai a Luciano e a quello che mi aveva detto. Forse erano soltanto
un mucchio di coglionate di un sogno senza senso, ma le coincidenze erano troppe. Tutto
combaciava, non una parola fuori posto, non un argomento strambo. Dovevo crederci, non poteva
essere il frutto della mia immaginazione. Inoltre era l’unico appiglio che mi rimaneva, se l’avessi
lasciato sarei sprofondato nel baratro. Il treno fece capolinea alla stazione del paese, dove avrebbe
dovuto salire Loredana. Cercai con gli occhi ovunque perché sentivo che quello era il giorno della
mia rinascita ma le speranze furono vane. Nessuna pietà per un povero cuore sanguinante. Come al
solito il bidone giornaliero non poteva mancare. Passerà un oceano di tempo, ma non la
dimenticherò mai, è più probabile che una stella si muti in una nana bianca, piuttosto che si verifichi
un affievolimento del suo ricordo. Ho capito che si è insinuata nell’anima. Anche dopo morto la
terrò con me. Si era ormai ibernata nei miei pensieri raggelandomi il cuore ed era diventata come
l’oro: preziosa e inossidabile nei miei ricordi. E sia pure l’avessi incontrata, cosa le avrei detto?
Avrei trovato il coraggio, oppure l’emozione mi avrebbe giocato un brutto tiro? Se la sua presenza
mi riempiva d’angoscia e di tensione, come avrei potuto reggere il suo ritrovo? Come il sole era lei:
solo per pochi secondi potevo fissarla, dopodiché venivo accecato dalla sua bellezza abbagliante ed
ero, con mio immenso rammarico, costretto a distogliere lo sguardo. Forse perché la ritenevo troppo
affascinante per i miei standard. Come avrei potuto interferire ed inquinare la sua vita se aveva già
raggiunto la perfezione senza di me? Sarebbe una profanazione al suo splendore. Quindi, l’unica
risposta che mi davo, era che amarla mi risultava impossibile, perché temevo di violare la sua
bellezza, sarebbe come stato togliere i petali ad un fiore.
Tuttavia questi pensieri tristi non mi scoraggiavano; qualcosa da dentro mi spingeva a non
desistere. Bisognava continuare e rimanere al proprio posto come soldati in un campo di battaglia.
Andare senza bloccarsi mai, far finta che sia tutto a posto e mantenersi eretto come un pene. C’era
una grande forza in me, un’energia mai provata prima che avrebbe lenito in ogni circostanza il
dolore. Strinsi le mie mani e guardai il sole splendente che galleggiava nel mare del cielo. Sentivo il
calore fin dentro i cromosomi. Lì c’era Dio che con uno dei suoi raggi infondeva speranza anche a
me. Ora toccava a me renderla tangibile.
Prima di entrare in aula incontrai Angelo che come al solito mi fermò e m’investì con
un’ondata di parolacce:
<< Ma per tutte le chiaviche di questo emisfero! Ciro frocissimo! Da quanto tempo! Che cera
di merda hai stamattina. Hai la faccia di uno che si vuole buttare sotto un treno >>.
Sto cornuto ci aveva pure azzeccato.
Stemmo a parlare per un po’. Gli spiegai dell’esame che avevo appena passato. Egli al posto
di darmi dei cenni di assenso, diceva: “sticazzi”. Ad ogni frase era un “sticazzi”. Al ventesimo
“sticazzi” persi la pazienza e gli feci:
<< Angelo misericordioso ma non sai dire nient’altro oltre a “sticazzi”?! >>
<< Certo. Sticoglioni! >>
Dialogammo per altri cinque minuti e dovetti sorbirmi altrettanti “sticoglioni”. Dopodiché mi
volle congedare, mantenendo sempre una certa raffinatezza:
<< Bé io devo andare. Salutami quella caimana di tua sorella e tutti li stramortacci tuoi! >>
<< Okay, ma tu ricordati di andare a fottere! >>
Seguii le lezioni con l’attenzione di un radar e tornai a casa senza pensieri.
Poi me ne tornai a casa meno affaticato del solito. Sulla soglia c’era Pecorone claudicante. Il
suo pelo era sempre imbrattato di vernice spray. Lo accarezzai e lo strinsi forte. Ci capivamo,
eravamo gli unici superstiti di un’immane dramma. Era venuto per essere consolato e per
consolarmi. Me lo portai dentro casa, che ovviamente era deserta. Lo misi nella vasca da bagno
fottendomene dell’igiene della casa. Tolsi ogni macchia con l’acetone, e man mano che l’inchiostro
si estingueva l’attaccamento alla vita si accresceva. Poi lo lavai, lo asciugai e gli diedi da mangiare
tutto quello che c’era nel frigo. Lui non fece storie ed ingurgitò ogni vivanda. Poi uscimmo nelle
strade decorate dal sole. Ero fortissimo, un uomo d’acciaio indistruttibile. Mi sentivo nobile e
superiore a tutti questi esseri spregevoli e carenti d’amore. Che pena provavo per loro. Era in fondo
povera gente. Non capivano che il loro comportamento gli avrebbe fatti invecchiare precocemente e
morire in un’esasperata insoddisfazione. Più rubavano dall’esterno e più si svuotavano da dentro.
Che massa di deficienti schiavi inconsapevoli. Io no, sarei stato diverso ed in quanto tale mi sarei
distinto diventando un pezzo raro e di valore.
A un tratto vidi quel porco di Carlo passare mano per la mano con una ragazza. Ma guarda
che razza di figlio di puttana. Prima ammazza poi si fidanza. Fortunatamente non mi vide. L’averlo
scorto mi fece venire una gran nervosismo. Tornai a casa incazzato con la rabbia idrofobica e
desideroso di fargli un torto a quella carogna. Una merda del genere non poteva rimanere libero,
meritava come minimo la sedia elettrica. Era un peso quella prostituta uccisa che mi torturava come
una malattia. Pensavo e non mi decidevo. Intanto il tempo correva nei miei tormenti. Dovevo fare
per forza giustizia altrimenti tutti i propositi fatti poco prima non sarebbero serviti a un cazzo. Se
però andavo a spiattellare tutto ai carruba avrebbero condannato pure me per complicità. In fondo
avevo tenuto un segreto orribile che andava denunciato istantaneamente.
Mi scolai quattro cicchetti di alcol puro misto a succo di frutta e, forse per la semi sbronza che
avevo mi venne un’idea niente male. Aspettai le tre di notte, presi un bomboletta spray e mi coprii il
viso con una sciarpa ed un cappuccio, come un black block. Andai sulla piazza principale e scrissi
sulle mura di un palazzo che era in bella vista e che quindi potevano osservare tutti i passanti:
l’assassino della prostituta è Carlo A***. Non fece in tempo nemmeno ad albeggiare che Carlo era
già in stato di fermo. I carabinieri lo misero sotto torchio per otto ore per fargli sputare il rospo.
Perquisirono la casa da cima a fondo e ritrovarono in un bidone l’anello nuziale della povera
prostituta. Dopo tre giorni di interrogatorio incessante Carlo confessò il suo reato e fu sbattuto in
prigione peggio di Al Capone.
Solo allora mi resi conto di aver commesso una grande cazzata: i carabinieri stavano cercando
colui che aveva scritto quella confessione sul muro. I giornalisti lo chiamavano il “rivelatore”. Ero
spacciato, non avevo calcolato questa leggerezza. Iniziai a sudare freddo. Ogni qualvolta squillava il
telefono o suonava il citofono mi saliva il cuore in gola perché credevo che i carramba si trovassero
dietro la porta, pronti per prelevarmi. Invece il tempo passava ma non succedeva una mazza di
niente. Di colpo, esattamente tre giorni dopo l’arresto di Carlo si venne a sapere il responsabile di
quella scritta: era stato lo stesso Carlo. Egli mi volle per una volta salvare la pelle. Un briciolo di
umanità c’è sempre anche nel maniaco più seriale. Confessò agli inquirenti che lui stesso aveva
imbrattato quel muro, incolpando se stesso, perché i rimorsi della coscienza lo stavano sbranando.
Fu ragionevole per una volta nella vita, oppure no. Può anche darsi che tutta la merda che aveva
bevuto e fumato gli avesse talmente incatramato il cervello da non capacitarsi degli eventi accaduti
poche ore prima. Forse nella sua follia più estrema si era immaginato che di notte fosse andato a
verniciare quella parete ruffiana.
Tuttora rimane ancora un mistero, tra quattordici anni quando uscirà di prigione
probabilmente glielo chiederò. Se mi andrà glielo chiederò, perché c’è ancora una distesa di tempo
da dover attraversare. Chissà quanti altri casini mi aspettano negli anni a venire. Quindi è meglio
fare un passo per volta, tanto le cose avvengono un po’ per volta. Quello che conta è che quella
disgraziata abbia avuto il suo riscatto, ora che la verità era venuta a galla poteva finalmente
riposarsi in pace. Era infatti la prima volta che assistevo ad una vittoria del bene sul male. Poteva
anche essere un segno divino, dal sogno di Luciano le cose pareva stessero volgendo per il meglio.
Adesso non mi restava che archiviare quell’assurda violenza e cercare di coltivare la mia morale ed
il mio grado intellettuale. Un senso per me la vita ce l’aveva e soprattutto non avrei più commesso
la cacchiata di tentare di uccidermi né con droghe, né con alcolici e né tantomeno con dei treni
arrugginiti.
Camminavo e pensavo, e più camminavo e più mi rendevo conto che viviamo nella più totale
anarchia, le regole e le leggi si polverizzano nei nostri impulsi animaleschi, perché noi non siamo
altro che prigionieri della nostra strafottenza. Mi guardo intorno e scorgo la più immensa
desolazione, un mondo immondo, nessuno che rispetta nessuno. Macchine parcheggiate su posti per
disabili, macchine parcheggiate in doppia fila, macchine parcheggiate sui marciapiedi. Vogliono
tutti prevaricare, c’è prepotenza ed arroganza dappertutto. La contraddizione, che sarebbe la madre
della democrazia e della discussione, viene continuamente messa a tacere dalla violenza. Vedo due
auto in fila indiana: carcasse di metallo lungo cordoni di traffico. All’improvviso quella che sta
davanti frena, l’altra rischia di tamponarla. Volano bestemmie gratuite senza che nulla sia successo.
Ma quella evidentemente deve essere la prassi, è il biglietto da visita della virilità. Chi non si serve
della forza non potrà accertarsi la sopravvivenza della specie. Non c’è più niente da fare, siamo
selvaggi con i panni di esseri umani. Sotto il balcone pende, attaccata ad un filo, una busta
d’immondizia gocciolante. Appesa a quel modo pareva un punge ball. Se non fosse composta di
sozzura, due ganci glieli avrei pure dati. Il responsabile di quel capolavoro non sapevo chi fosse,
sicuramente trattasi di una mente balorda, che non ha nemmeno la voglia di alzare le proprie
chiappe e portarle fino al cassonetto dei rifiuti. Una signora piena di se mi viene incontro fumando,
è all’ultimo tiro. Appena terminata l’ultima boccata getta la sigaretta per terra, inquinando
l’ambiente per almeno un paio di secoli. Mi si para poi davanti una schiera di cani stravaccati sulle
logore strade. Sono loro il primo presagio di quanto si stia inselvatichendo la vita urbana. Hanno
una faccia rilassata e non mostrano alcun disagio. Questo mi fa supporre che non è l’animale più
simile all’uomo, ma è l’uomo che è più simile all’animale. C’è poi uno scheletro di un’abitazione,
ancora forse in fase di costruzione, che una volta, nelle favole dei nostri amministratori, sarebbe
dovuta diventare una scuola. È invece è ancora lì, in fase embrionale, senza intonaco, con i mattoni
forati in bella vista; priva delle palpebre delle finestre e circondata da alberi spogli, che paiono
anch’essi in fase di costruzione. Devo attraversare la strada, ma non c’è una sola automobile
disposta ad arrestarsi per potermi fare passare. È una gara ad ostacoli. L’egoismo ha raggiunto
picchi vertiginosi. Leggo negli occhi di chi m’incrocia una brama senza senso, una ricerca di
benessere che non potrà mai essere soddisfatto, come un sacro Graal di un’ambizione introvabile. In
questo trambusto mi cala addosso una stanchezza nuova. Dico che è nuova perché mi dà quasi una
sensazione piacevole. È la ripugnanza del genere umano, ma contemporaneamente il distacco
completo dal materialismo. Sto ragionando da sapiente. Forse ho raggiunto un livello superiore.
Non mi entusiasma più niente, dato che m’imbatto di continuo con gli stessi comportamenti
individualistici e patetici; ma nulla oramai mi pesa. Sono diventato leggero e per questo sereno:
pulviscolo senza gravità. Tutta questa poltiglia di gente che s’affanna per briciole di ossa decrepite,
mi fa pena. È per tale ragione la compatisco. Sono diventato finalmente tollerante. Forse un giorno
riuscirò a domare la bestia della vendetta, per dedicarmi all’amore dell’odio. La fine è giunta alla
fine è l’inizio è tornato al punto di partenza. Mi trovo un cammino lunghissimo da percorrere con
l’itinerario tracciato dalla mia esistenza. Sarà il miglioramento di me stesso che tenterò di
aggiornare nel tempo. L’auto perfezionamento risiederà in ogni frazione di secondo. Un obiettivo
impossibile da raggiungere; ma proprio perché impossibile da agguantare, mi terrà attivo una vita.
Cercherò ogni difetto nelle tenebre del mio essere; li metterò in luce e li curerò con la medicina
della parsimonia. Dalla pazienza alla bontà, dalla cultura al mio aspetto. Su tutto veglierò e su tutto
cercherò d’intervenire. Molti ritengono che il senso della vita è diventare qualcuno, niente di più
sbagliato. Il senso della vita è ritrovare se stessi. Rincorrendo un’ambizione si finisce col
dimenticare cosa compone l’essenza di ognuno di noi. Circondati da vari ambienti, che si
contendono il conseguimento della meta sognata; si va incontro ad una miriade di perturbazioni
esterne, che in un modo o nell’altro influenzano la nostra personalità, cambiandocela. Ecco che si
viene a creare il conflitto: anche se l’obiettivo tanto sudato è stato raggiunto, si continua a rimanere
abbattuti. Questo perché non c’è più rispondenza tra quello che eravamo, ossia le predisposizioni
che abbiamo incorporate; e quello che siamo diventati, vale a dire la metamorfosi che abbiamo
subito. Questo stato infelice ci porta nuovamente a muoverci verso un altro obiettivo, magari più
difficile e perciò più doloroso da raggiungere. Così trascorriamo la nostra vita e così trascuriamo la
nostra vita. Io sono del parere che tanto affanno è soltanto uno spreco di fiato. Non dà alcun
rendimento perché è tutto fondato sull’illusione creata da un modello pubblicitario che ha suddiviso
la società non più in classi ma in status. D’accordo il benessere, ma oltre una certa soglia non dà più
frutti. È come se si tentasse di mungere una vacca con le mammelle svuotate. Rimanere un po’
fermi ci gioverebbe soltanto.
Quindi in mezzo a tanto scempio mi posso ritenere uno dei pochi esseri che possiede dei
sentimenti. Tutti soffrono, si preoccupano, combattono, piangono, cagano, ma la verità e che
nessuno prova niente. Sono tutti una massa di attori, apatici senza memoria; peggio dei pc, perché
almeno questi un po’ di memoria la possiedono, anzi è l’unico pregio che hanno. La gente vive la
propria vita come se fosse un film: subiscono un trauma e devono sentirsi in dovere di recitare la
parte degli afflitti e, magari, dopo qualche minuto hanno dimenticato qualsiasi preoccupazione. In
verità sono più vuoti delle campane: se gli si bussasse si sentirebbe il rimbombo. Io almeno ho
qualcosa di concreto. Pertanto anche se riceverò secchiate di male non gli darò scampo a questi
stronzi. Anche se mi butteranno giù, mi rialzerò da terra come un gayser. Nella vita bisogna fare
come le boe: farsi sommergere dal mare del dolore e poi, come se nulla fosse, riemergere dalle
profondità ancora più intatti e più saldi di prima, nonostante i ripetuti scossoni provocati dalle onde
della disperazione. La mia fine non è ancora arrivata, o per lo meno non giungerà per mano mia. Per
adesso ho altro a cui pensare.
Fanculo, si fottessero, non mi avranno mai.
Luglio 2010 – Agosto 2012