Sassatelli - Corpi ibridi Aut Aut 2006

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Sassatelli - Corpi ibridi Aut Aut 2006
Corpi ibridi. Sesso, genere e sessualità
ROBERTA SASSATELLI
Io venni fuori, sculacciata e lavata in quest’ordine. Dopo
avermi avvolta in una coperta mi esposero tra altri sei
bebè, quattro maschi e due femmine, tutti quanti,
diversamente da me, con il cartellino giusto.
Jeffrey Eugenides, Middlesex
La cultura è stata spesso presentata come un oggetto coerente e discreto, una trama senza
smagliature. La così detta svolta culturale nelle scienze sociali ha indubbiamente avuto la
funzione di mostrare le tensioni, le rotture e le ricuciture che compongono la trama della cultura,
andando ad analizzare i punti di frizione, mettendo il dito sui costi personali e sociali delle
rappacificazioni, esplorando le possibilità dei soggetti di fare proprio, modificandolo e
ricucendoselo addosso, il tessuto della cultura. La metafora del ricucirsi addosso la cultura
evoca immediatamente alcune delle differenze che diamo maggiormente per scontate, quelle di
genere, sessualità, razza, età, e così via; tutte differenze che hanno a che fare con quella
dimensione spesso definita come “naturale” che identifichiamo con il “corpo”. Anche il
contrapporsi sempre più evidente di forme differenti di essere (nel) corpo e l’emersione di
soggetti che rivendicano uno spazio non marginale per la propria “diversità” ha portato in primo
piano la relazione fra corpo, cultura e potere nelle società contemporanee occidentali. Tra questi
soggetti spiccano le persone con caratteri razziali o caratteri sessuali misti, persone che si
collocano letteralmente, con i propri corpi, tra alcune delle classificazioni culturali più salde
nelle nostre società sfidandone l’ovvietà.
L’ibridismo dei corpi tende a sottolineare il fatto che anche le rappresentazioni visuali o
letterarie che appaiono più innocue sono connotate in base alla razza e al genere (Bordo 1993,
Cash e Pruzinsky 1990; hooks 1992; Kawash 1997; Terry e Urla 1995). È in questa chiave che
gli studi culturali americani hanno, per esempio, recentemente riscoperto le fotografie che
W.E.B. Du Bois raccolse per l’Exposition des Nègres d’Amerique all’esposizione mondiale di
Parigi del 1900, in cui abbondano immagini di persone dai caratteri interrazziali (Smith
2004). Anche se la questione dell’associazione della tonalità di colore alla classe cominciava
1
a porsi già nella comunità nera di fine ottocento, usando “tipi bianchi con sangue nero”, Du
Bois voleva spiazzare il colore della pelle come codice discriminante della differenza
razziale. Oltre che evocare potentemente il passing razziale quale possibilità alla portata di
molte persone formalmente classificate come nere, la varietà dei toni di pelle e delle forme
del volto ritratte stemperava le distinzioni bianco-nero in un gradiente infinitesimale che
metteva in discussione l’esistenza stessa del bianco. Osservate oggi, a distanza di oltre un
secolo, queste fotografie lanciano ancora una potente sfida all’idea che esista uno sguardo
distaccato e universale, sottolineano la naturalizzazione di uno sguardo egemonico “bianco”
che pone il “nero” come a-problematicamente monotono (cfr. Sassatelli 2004).
Se, come sosteneva Mary Douglas (1966), “impuro” è ciò che si situa tra le
classificazioni della cultura, i corpi ibridi, che mescolano razze e generi diversi, sono un
oggetto potente sia di repulsione che di fascinazione. Come lo sguardo coloniale ha investito
il corpo del “mulatto” o del “meticcio” di desideri contraddittori che finivano per eliderne
l’umanità (Young 1995), così lo sguardo medico e borghese, quanto meno dall’Ottocento in
avanti, ha riservato ai corpi “tra i generi” – gli omosessuali, gli ermafroditi – uno sguardo
normalizzatore che era allo stesso tempo ossessionato e disgustato dalla loro “diversità”
(Foucault 1976). Lo sguardo normalizzatore doveva catalogare, distinguere i “tipi” di persone
tra i sessi/generi per poi reinserirle in categorie che, funzionando da eccezioni, non
stravolgessero la natura assoluta dell’opposizione binaria maschio/femmina e il predominio
dell’eterosessualità coniugale. Per questo loro stare sui confini, e per le pressioni a rientrare
nelle classificazioni della cultura cui sono soggette, le persone che si trovano tra i sessi – i
travestiti (chi adotta abbigliamenti dell’altro sesso), i transessuali (coloro che cambiano sesso
in età adulta spesso con l’aiuto di terapia ormonale e chirurgica) e gli ermafroditi (chi nasce
con caratteristiche sessuali miste) – sono state indicate come altrettante figure che in qualche
modo rendono visibile quei segni tipicamente dati per scontati sui quali si costruiscono le
differenze tra maschilità e femminilità. Simili figure, sembra dirci una parte della teoria
femminista e della queer theory, mostrano che l’ordine di genere che si esplica in un
allineamento normativo tra sesso, genere e sessualità – espresso nella convinzione che il sesso
biologico determini il genere e che, a sua volta, ciò detti la scelta del genere opposto come
partner sessuale – è un castello costruito sulla sabbia.
Essenzialismo e performatività
2
Il primo saggio in cui l’esperienza di passing di una transessuale viene usata per rivelare
l’ordine di genere nelle nostre società è indubbiamente quello che Harold Garfinkel ha incluso
nel suo celebre Studies in Ethnomethodology (1967). Lavorando in stretta collaborazione con
l’importante psichiatra Robert Stoller, Garfinkel ricostruisce le esperienze di Agnes, una
giovane transessuale californiana che sul finire degli anni cinquanta fu tra le prime a sottoporsi a
un’operazione chirurgica che implicava l’amputazione del pene e la costruzione, al suo posto, di
una vagina. Distaccandosi dal paradigma biologista, in questo saggio non si cercano le cause del
transessualismo dentro ai soggetti, in una loro supposta normalità o anormalità biologica o
psicologica, bensì si tenta di fornire un quadro dei presupposti culturali in base ai quali vengono
organizzate e negoziate le richieste e i bisogni di Agnes, il suo diritto e l’opportunità medica di
effettuare un’operazione di cambiamento di sesso. Più in generale, i racconti di Agnes sono
un’occasione per tratteggiare un quadro molto esplicito dei principi in base ai quali vengono
ordinariamente legittimate le identità sessuali.1
La storia di Agnes narrata da Garfinkel ci offre la possibilità di fornire una lettura
dell’ordine di genere che anticipa molte delle intuizioni del pensiero femminista
contemporaneo: il genere appare come un performativo, un “fare” che viene stabilizzato nella
vita quotidiana in base a retoriche e pratiche con cui i soggetti confermano continuamente di
essere “veri” uomini e “vere” donne.2 In effetti, se il genere è comunemente concepito come un
dato essenziale, una fedele rappresentazione di ciò che il soggetto è nel profondo (anche e
soprattutto in riferimento a diversi dati medici – anatomici, endocrinologici e fisiologici),
Garfinkel e l’etnometodologia, anche grazie al contributo di Candace West e di Don
Zimmerman, hanno spostato l’accento “da istanze interne all’individuo” ad “arene interazionali
e, in ultima analisi, istituzionali” (West e Zimmerman 1987: 126; cfr. anche Kessler e McKenna
1978).3 È in quest’ottica che le esperienze di Agnes consentono di prendere in esame ciò che
1
È oggi disponibile una certa letteratura critica sul questo lavoro di Garfinkel; molti dei contributi sono di taglio
femminista (cfr. Denzin 1990; Rogers 1992) e sottolineano che l’autore non ha problematizzato a sufficienza la
propria identità di genere. Per una discussione critica, cfr. Sassatelli (2000).
2
Questo saggio viene spesso usato per illustrare la prospettiva etnometodologica e in particolare l’idea che sia
attraverso pratiche di spiegazione “incarnate” che i soggetti creano continuamente la realtà sociale. In chiave
etnometodologica, le identità – anche quelle che appaiono più stabili e immutabili, come le identità sessuali e di
genere – sono concepite come continue, concertate e situate realizzazioni pratiche (Garfinkel 1967; cfr. Heritage
1984). In opposizione al volontarismo parsonsiano, e proseguendo una tradizione inaugurata da Wright Mills
(1940), l’identità viene quindi pensata a partire dal vocabolario e dalle pratiche mediante le quali gli attori
mostrano e ascrivono varie qualità soggettive a se stessi e agli altri.
3
Per una panoramica sulle teorie e gli studi di genere, attenta anche alle questioni relative alla sessualità e al
sesso, cfr. Piccone Stella e Saraceno, a cura di, (1996) e Connell (2002). Per alcuni contributi sulle nuove
3
viene dato per scontato nell’ordine e nelle dinamiche di genere, in relazione soprattutto
all’orientamento sessuale e al sesso. Garfinkel stesso, riflettendo recentemente sul proprio
lavoro, ha del resto definito il saggio su Agnes “essenzialmente uno studio su un caso di passing
sessuale” sullo sfondo di un interesse più generale per il passing come “luogo privilegiato” per
studiare la “produzione dei fatti sociali”.4 La figura del transessuale funziona, in certa misura,
come quella dello straniero di Schutz: dovendo esercitare una grande dose di abilità e
premeditazione per cavarsela in situazioni per lei nuove, Agnes “era consapevolmente in grado
di insegnare ai normali in che modo essi possano fare apparire lo status sessuale negli scenari
ordinari come un fatto ovvio, familiare, riconoscibile, naturale e serio” (Garfinkel 2000: 119).
Agnes è allo stesso tempo uguale e diversa: uguale perché agisce come tutti all’interno delle
maglie di rilevanze che consolidano la femminilità (e la mascolinità); diversa perché è assai più
consapevole di stare facendo proprio questo. Così se per la maggioranza delle persone adulte il
genere e la sessualità sono per lo più risorse ordinarie per portare a termine altre faccende – e
“impressioni essenziali” che vengono veicolate mentre si sta facendo qualcos’altro (cfr.
Goffman 1976) – per una transessuale come Agnes la realizzazione della competenza di genere
è e tende a rimanere, così sottolinea Garfinkel, un problema costante. Agnes, infatti, come le
altre persone studiate dall’equipe di Los Angeles, sottoscrive una visione dicotomica dei sessi,
includendo se stessa in essa. Proprio per questo è avvertita dei rischi di degradazione che corre,
sia nella vita quotidiana, sia nella sua lotta per il cambiamento di sesso. Il suo comportamento è
allora spesso simile a un gioco strategico: gestisce le informazioni su di sé, rinnegando ogni
possibile esperienza maschile e sottolineando gli aspetti della propria biografia che la
avvicinano alle donne; narra di un “sentirsi diversa” e “femmina” sin dalla più tenera infanzia,
una donna intrappolata in un corpo maschile, pronta a venir fuori non appena le fosse concesso;
si aggrappa alle insegne fisiche della propria femminilità, in particolare a quelle più distintive ed
eroticizzabili come il seno, sostenendone la naturalità biologica, e a questo scopo nega
ripetutamente di aver assunto estrogeni durante l’adolescenza per modificare il proprio corpo.
Le sue narrazioni, così come le possiamo dedurre dalla rielaborazione garfinkeliana sono spesso
anticipatorie, tentano insomma di risolvere in anticipo le difficoltà e le ambiguità interpretative
identità sessuali e di genere anche nel nostro paese, cfr. Leccardi, a cura di, (2002).
4
Comunicazione personale, 19 aprile 2004, Pacific Palisades. A questo proposito è interessante notare che il
termine è stato usato inizialmente ed essenzialmente per riferirsi al passing razziale, un vero e proprio tropo
della letteratura afro-americana di inizio secolo, epitomizzato dal celebre romanzo di J.W. Johnson The
Authobiography of an Ex-Coloured Man; cfr. Portelli (2004) e più in generale Sollors (1997).
4
in cui i suoi interlocutori possono incorrere, tendenzialmente minimizzando i momenti di
tensione. Ciò non significa però che Agnes stia letteralmente interpretando una parte, che sia in
altri termini distaccata o strumentale nel gestire le impressioni su se stessa, il proprio corpo, la
propria identità di genere: più consapevole delle routines che realizzano l’identità sessuale di
quanto non sia la maggioranza delle persone, anche Agnes è immersa nelle convezioni sociali.
Essa impara continuamente a essere donna e mette tutta se stessa nell’utilizzare ogni possibile
occasione per capire in che modo è “opportuno”, “giusto”, “naturale” che una donna si
comporti.
Il transessualismo permette di mettere a fuoco lo spazio che esiste tra il genere e il sesso
ed è quindi un fenomeno di grande rilevanza per la teoria del genere contemporanea. Anche
per questo, considerate dal punto di vista della teoria del genere, le osservazioni di Garfinkel
sono in parte in linea, come suggerito, con quelle sviluppate dalla teoria femminista poststrutturalista, fortemente influenzata sia dalla filosofia del linguaggio wittgensteiniana sia dal
de-costruzionismo foucaultiano. Se il femminismo tradizionale operava in base a una
distinzione tra sesso e genere che iscriveva il sesso in una differenza biologica destoricizzata, a
partire dagli anni ottanta il femminismo ha cominciato a sostenere che il sesso biologico è ovvio
solo in apparenza. Il genere viene così visto da questa variante della teoria del femminismo
post-strutturalista non come la rappresentazione culturale di un dato biologico, ma come quel
processo culturale che produce nel corpo la possibilità di realizzarsi in due sessi distinti. Questa
influente corrente femminista riprende, spesso senza accorgersene, temi anticipati
dall’etnometodologia sull’identità sessuale, innanzitutto scartando le nozioni espressive della
femminilità e, poi, decostruendo il sistema di segni attraverso il quale l’identità femminile è
stata connessa all’eterosessualità, occupandosi a questo scopo di pratiche e identità divergenti
dalla norma.5 Judith Butler, per esempio, afferma, proprio come Garfinkel, che il genere è un
performativo, un insieme di azioni considerate indicative di un’identità di fondo (1990; 1993).
A differenza di Garfinkel però – e in sintonia con la nozione di potere simbolico proposta da
Pierre Bourdieu6 – Butler asserisce che il genere possiede una “forza compulsiva” derivante dal
5
Nelle parole di Judith Butler (1994: 24), il genere è una “istituzione normativa che tenta di regolare quelle
espressioni della sessualità che contrastano con i confini normativi di genere, allora è uno degli strumenti
attraverso cui avviene la regolazione della sessualità. La minaccia dell’omosessualità perciò prende la forma di
una minaccia alla maschilità costituita e alla femminilità costituita”.
6
Bourdieu discute espressamente la dimensione del genere in riferimento alla sua teoria più generale in uno dei
suoi ultimi lavori, dove fa riferimento anche al lavoro di Butler, ma riprende in gran parte i primi lavori
fortemente influenzati dallo strutturalismo francese, cfr. Bourdieu (1998).
5
fatto che le persone scambiano le azioni con l’essenza: il suo effetto è dissimulatorio, e cioè
quello di favorire certi tipi di comportamento nascondendo il fatto che non c’è alcun dato
biologico essenziale a cui far riferimento come punto di partenza. La femminista statunitense
sottolinea che le morfologie maschili e femminili in base alle quali vengono naturalizzate le
differenze di genere sono sempre delle costruzioni ideali rispetto alle quali tutti ci sentiamo, in
qualche modo, inadeguati data la variabilità delle dotazioni fisiche umane. Ecco quindi che vi è
sempre la possibilità di essere altro dall’ideale, possibilità che è spesso rappresentata come
fallimento e deviazione, ma che può anche essere abbracciata dai soggetti in modo sovversivo,
beffardo e ironico. L’ironia, impersonata dalla figura del travestito, viene presentata come un
espediente importante di rovesciamento dell’ordine di genere. I travestiti svolgono infatti,
secondo Butler, una potente funzione esemplificativa che assume caratteri eversivi: mostrano
che la femminilità e la maschilità sono innanzitutto interpretazioni, ovvero modi di porsi e di
fare basati sull’imitazione e l’apprendimento, piuttosto che delle essenze immutabili iscritte
alla nascita e una volta per tutte nel corpo. In quest’ottica, Butler considera che i diversi
contesti sociali offrono regole locali che consolidano il genere attraverso ripetizioni ritualistiche
ed enfatizza la reiterazione delle azioni piuttosto che i significati, ma accentua anche e
soprattutto le possibilità di sovversione, sostenendo che, in quanto “pratica discorsiva
ininterrotta”, il genere “rimane aperto all’intervento e alla re-interpretazione”.
La teoria del genere post-strutturalista compie quindi un passo che Garfinkel non aveva
voluto realizzare. L’indifferenza etnometodologica – il voler studiare le giustificazioni degli
attori “ovunque si trovino e da chiunque siano prodotte, astenendosi da ogni giudizio sulla loro
adeguatezza, sul loro valore, importanza, necessità, praticità, successo o consequenzialità”
(Garfinkel e Sacks 1970: 339) – non si sposa facilmente con quella politica del corpo, del
genere e della sessualità che, con sfumature diverse, è la cifra del pensiero femminista, anche
nella sua declinazione post-strutturalista e queer.7 Il femminismo post-strutturalista ha invece
tratto ispirazione dall’importante lavoro di Michel Foucault (1976; 1984) sulla storia della
sessualità e dalla sua sottolineatura del ruolo disciplinare svolto dalla scienza medica nella
costruzione e trasformazione delle identità sessuali. Attento soprattutto alle identità
omosessuali, Foucault ha tuttavia offerto alcuni spunti anche per considerare la questione
7
La storiografia femminista in particolare ha documentato l’implicazione della rappresentazione medica
(tipicamente maschile) del corpo femminile nella riproduzione delle dicotomie e disuguaglianze di genere (Hubbard
1990; Jacobus et alii 1990; Jordanova 1989). Più in generale sulla rappresentazione del genere cfr. De Lauretis
6
dell’assegnazione alla categoria sessuale, curando la pubblicazione in versione integrale dei
mémoires di Herculine Barbin, una persona vissuta nella Francia dell’Ottocento, riconosciuta
femmina alla nascita e che, poi, alla soglia dell’età adulta e in seguito a una serie di esami dei
genitali, era stata dichiarata uomo e costretta a vivere come tale, abbandonando ogni sembianza
femminile nonostante non solo la sua biografia ma anche la sua anatomia mista (Foucault, a
cura di, 1978). Attraverso la storia di Herculine trae forza la teoria foucaultiana secondo cui la
percezione stessa del sesso presume un discorso regolatorio (medico) che si sviluppa nel corso
degli eventi storici, contrassegna i corpi in modo diverso e, nella modernità, si incarna nella
medicina.8 Nell’Ottocento, proprio nel momento in cui si stabilizza una teoria medica
dicotomica, le persone di sesso intermedio – i cosiddetti ermafroditi, conosciuti fin
dall’antichità – sono divenuti l’oggetto di sforzi classificatori poderosi e di una varietà di
interventi medici volti essenzialmente a eliminare l’ibridismo che essi incarnavano. Oggi,
all’anatomia patologica si è affiancata la psichiatria e l’endocrinologia, complicando – senza
peraltro, come vedremo, soppiantare – il genitalismo.9 Ai giorni nostri il corpo è visto sempre di
più come un dato plastico anche per quanto riguarda l’identità sessuale: si sono consolidati
percorsi di trasformazione chirurgica molto concreti, di cui – e qui sta l’ironia – sono diventati i
beneficiari (o le vittime) sia i bambini nati con caratteristiche sessuali miste, sia gli adulti che
cercano un ri-assegnamento di sesso. L’accesso a questi percorsi, però, differisce marcatamente,
e per i bambini nati come Herculine con caratteristiche sessuali miste spesso non vi è scelta; per
soggetti adulti che vogliono passare da un sesso all’altro come Agnes esso è definito più in base
alla capacità dei soggetti di mostrarsi capaci di sostenere “psicologicamente” la nuova identità
sessuale, che non in base a una perizia sulle proprie caratteristiche genitali, endocrinologiche o
fisiologiche. La plasticità del corpo viene quindi declinata in modi differenti, cui continua però a
corrispondere una visione normativa fortemente dicotomica, e come vedremo
eterosessualizzata, dei caratteri di genere e delle morfologie sessuali.
(1987). Per una rassegna sulle questioni della politica del corpo, cfr. Sassatelli (1999).
8
Sulla costruzione sociale del sesso in prospettiva storica, cfr. soprattutto Laqueur (1990). Cfr. anche Domurat
Dreger (1998) per una discussione critica del modo in cui il caso di Herculine fu trattato dalla scienza medica
ottocentesca.
9
Più in generale, è interessante notare le assonanze e le dissonanze tra Foucault e Garfinkel: entrambi sono
preoccupati delle condizioni di possibilità localmente realizzate che fanno sì che alcune spiegazioni siano
accettate come “vere”, il primo però ne tenta una genealogia in relazione a tecnologie di potere e di soggettività,
il secondo si preoccupa del dettaglio etnografico cercando di evitare di indicare apertamente dei risvolti critico-
7
Transessualismo e corporeità
La ricostruzione dell’esperienza di Agnes fornita da Garfinkel ci aiuta solo in modo obliquo a
considerare l’arena istituzionale e le pressioni disciplinari cui, ancora oggi, fanno fronte i
transessuali – un contesto segnato anche e soprattutto da diversi saperi e interessi medici, non
sempre armonici tra loro (cfr. Kessler 1998). In effetti, pur includendo una lunga nota con
stralci dei rapporti di Stoller quasi come una sorta di paratesto psicanalitico che sembra voler
sovvertire e rimpiazzare, Garfinkel non discute direttamente il ruolo del sapere medico o
l’importanza dell’evolversi della prassi medica, né problematizza i rapporti di potere tra i
medici e Agnes. Garfinkel ha però indubbiamente il merito di prendere sul serio le esperienze
di Agnes e di riconoscerne appieno la soggettività – al contrario di quanto non si finisca per
fare quando si sostiene che il transessualismo è un’espressione conformista e inautentica del
genere, inventata dalla scienza medica moderna in collusione con l’imperativo culturale della
dicotomia maschio/femmina (Szasz 1990)10. È in larga misura questa la lettura del
transessualismo che è stata fornita dal noto saggio della femminista Janice Raymond (1979)
The Transsexual Empire. Raymond (1979) condannava il transessualismo essenzialmente
come un’espressione del connubio tra sistema patriarcale e scienza medica, capace solo di
rafforzare le dicotomie di genere. Una transessuale come Agnes può in effetti apparire agli
occhi di un “femminismo essenzialista” o della “differenza” come una “falsa” donna che,
mettendo in mostra gli aspetti più stereotipici della femminilità e accettando le norme
patriarcali, sceglie di “usurpare” la propria appartenenza di genere facendosi ricostruire un
corpo con il quale non potrà mai condividere pienamente l’esperienza femminile “vera”.
Dal saggio su Agnes risulta però evidente che in questione non vi è una scelta
individuale, ma l’ordine di genere dicotomico e il suo essere inevitabilmente sia un taken-forgranted sia un principio normativo. Agnes finisce per adottare un certo tipo di femminilità
perché è quella femminilità che sembra funzionare, per tutti gli usi pratici della vita quotidiana,
in modo così scontato da garantirle di passare per donna. In prima battuta, la sua storia può
quindi essere letta eversivamente come un minuzioso dissezionamento dell’allineamento
normativo tra genere, sessualità e sesso, e delle pressioni sull’identità femminile. Quelle che
politici. Per maggiori spunti su questo confronto, cfr. McHoul (1986).
10
Peraltro tanto la medicina quanto una vasta fetta della queer theory tendono, come sostiene Viviane Namaste
(2000), a cancellare i particolari delle situazioni e le esperienze concrete di vita delle persone transessuali e
transgender.
8
Goffman (1971) definiva “apparenze normali” erano infatti fondamentali per Agnes: attraverso
la propria capacità di mettere adeguatamente in scena il genere femminile, rafforzandolo con il
riferimento a desideri ed esperienze eterosessuali, Agnes poteva, per una gran quantità di fini
pratici, guadagnarsi l’appartenenza sessuale desiderata. Non stupisce quindi che Agnes
femminilizzi il proprio genere adottando quelle caratteristiche che erano (e ancora almeno in
parte sono) stereotipicamente associate con l’essere donna, comportandosi anche nel corso delle
interviste con Garfinkel come “una ragazzina timida, sessualmente innocente, allegra, passiva e
accomodante”.11 Agnes aveva a questo punto già imparato a gestire la propria sessualità come
quella di una “donna normale”, femminilizzando il proprio desiderio secondo schemi che il
pensiero femminista ha riportato al sistema patriarcale, arrivando cioè a trarre soddisfazione
dall’essere guardata con bramosia dagli uomini, alludendo anche durante le interviste alla
rivalità femminile che il suo aspetto suscitava e soprattutto evocando il suo rapporto di
sottomissione con il fidanzato Bill. Bill è fondamentale nel processo di femminilizzazione: per
essere convincentemente donna Agnes ha bisogno di un uomo “normale” che, spiega, “non si
sarebbe interessato a me se non fossi stata normale” (Garfinkel 2000: 65). Anche per questo il
rapporto con Bill è duplice e instabile, è fonte di ansia, oltre che di legittimazione: Agnes si
sforza di classificare le sue reazioni in modo assolutamente positivo, descrivendo Bill come “la
cosa migliore” che le sia capitata e re-interpretando la sua affermazione che una “vagina
artificiale” è “inferiore” a una “naturale” come il segno di un “duro”, potremmo dire maschio,
“realismo”. Senza teorizzarla come una forma di dominio, Garfinkel ci mostra dunque che la
complementarietà tra i sessi e l’eterosessualità svolgono importanti funzioni nella costruzione e
proiezione dello status sessuale. Il suo saggio ci induce a pensare che lo smistamento delle
persone in due e solo due sessi distinti è volto essenzialmente a prevenire una sovversione di
quella che Butler (1990) ha definito “matrice eterosessuale”.
Secondo quanto sostenuto da West e Zimmerman (1987:132) il primo problema di
Agnes era “non tanto quello di arrivare a incarnare un qualche prototipo di femminilità bensì
quello di preservare la propria categorizzazione di femmina”. Più correttamente potremmo dire
che il suo problema era quello di incarnare questa categorizzazione. La sua storia ci mostra
che la corporeità non è un attributo del soggetto, è piuttosto fondamentalmente, come scrive
Merleau-Ponty (1954), “l’esserci degli esseri umani nel mondo”, il dato da cui essi partono
11
Per una discussione delle diverse dimensioni della femminilizzazione si veda p.es. Ekins (1997).
9
per esperirlo. In particolare, Agnes non voleva semplicemente essere definita pubblicamente
donna – cosa che le era peraltro relativamente facile anche prima dell’operazione grazie al
modo in cui il processo di ascrizione alla categoria sessuale funziona ordinariamente. Nella vita
quotidiana infatti non è né l’assegnazione a un sesso alla nascita e neppure, poiché i genitali
sono abitualmente nascosti alla vista, la reale ottemperanza al criterio di assegnazione a
determinare l’appartenenza a una categoria sessuale: nella maggioranza delle situazioni sociali
gli attori agiscono con la certezza morale che esistano solo due sessi, per cui se una persona
riesce a comportarsi convincentemente da donna, allora è donna – e non pensiamo certo (né
abbiamo il diritto) di andare a verificare la sua conformazione fisica. Tuttavia, l’assunto
implicito – che sotto un’apparenza di genere ci siano forme genitali corrispettive – è qualcosa
di più di una presenza fantasmatica: è un fondamento mai messo in discussione, “naturale” e
“morale” che tuttavia il transessuale viola, almeno fino a che non venga chirurgicamente riallineato. Pur non essendo esplicitamente indicati da Garfinkel, i rimandi tra genere, sessualità e
sesso mostrano che Agnes non poteva fermarsi facilmente agli attributi di genere. La visione
antiessenzialista e performativa dell’ordine di genere non implica affatto che tutti gli attributi e i
comportamenti riconducibili alla femminilità vadano messi sullo stesso piano. Certo, il fatto
che con il proprio aspetto, i propri gesti, il proprio modo di porgersi, muoversi, parlare e
descriversi Agnes sappia e possa passare per/sia ammessa come (passing) donna mostra il
“carattere routinizzato” delle aspettative di sfondo che definiscono la femminilità. Il sesso –
definito dalle caratteristiche sessuali primarie – viene ciò nondimeno esperito e costruito come
fondazionale12***.
È innanzitutto la visione biologistica e metonimica del genere che si è andata
consolidando nel corso della modernità a far sì che la conformazione genitale non possa
diventare irrilevante per Agnes, per quanto sia brava a essere donna, e anzi proprio per questo.
Garfinkel (2000: 122) spiega che la “naturale, normale persona sessuata” come “oggetto
culturale” deve possedere una vagina o un pene, e dove la natura “erra”, occorrono vagine e
peni fatti da mano umana. Agnes vuole quindi avere un corpo il più possibile femminile. Non
si tratta solo di dare per scontata nel maggior numero possibile di occasioni la propria
appartenenza sessuale, ma anche di un bisogno di vissuto corporeo che Agnes, sfruttando il
solco culturale ritagliabile nell’ordine di genere egemonico, rappresenta come il legittimo
12
E questo anche, come vedremo, dai professionisti che sono deputati a modificarlo chirurgicamente (cfr. ; sulla
10
desiderio di cucirsi addosso la capacità di avere relazioni sessuali “normalmente” (e cioè
eterosessualmente) femminili, e quindi il tentativo di arrivare a soddisfare carnalmente, come
una donna, il fidanzato Bill che aveva cominciato a “insistere” per avere rapporti sessuali. Le
sue aspirazioni sono però destinate a essere disattese: la sua vagina sarà sempre artificiale
tanto quanto la sua biografia rimarrà diversa da quella di chi viene riconosciuta donna alla
nascita. Suzanne Kessler (1998) nel suo studio sulle esperienze delle persone con caratteri
sessuali misti che hanno subito chirurgia plastica mostra che sono gli stessi chirurghi a non
ritenere né una vagina, né tanto meno un pene ricostruiti paragonabili ai loro corrispettivi
“naturali”, sono piuttosto “simulacri” per evitare una dissonanza imbarazzante e, allo stesso
tempo, un “segno” del progresso medico. Sembra quindi delinearsi uno spazio di tacito
conflitto tra chi si sottopone a una operazione di cambiamento di sesso e la scienza medica; la
speranza di incarnare pienamente un genere si scontra con un costruttivismo, quello medico,
che rimane irrimediabilmente terapeutico e normalizzatore e che, in un double bind
insolvibile sorretto dalla moralità dell’ordine dicotomico di genere, ribadisce la plasticità del
corpo e la superiorità di certe forme “naturali”.
Lo studio di un caso di passing clamoroso come quello di Agnes permette a Garfinkel
(1967: VII) di affrontare, sia pure indirettamente, questioni epistemologiche fondamentali,
riassunte nell’affermazione programmatica secondo cui “ogni riferimento al ‘mondo reale’,
anche quanto si tratta di eventi fisici o biologici, non può che riguardare le attività organizzate
della vita quotidiana”.13 Il suo scopo non era quello di valutare i discorsi di Agnes, ma
neppure quello di considerare le esperienze dei transessuali in quanto tali: Agnes è usata
come una “metodologa pratica” per far risaltare cosa diamo per scontato nei confini di genere.
Questa focalizzazione fa sì che non venga problematizzata pienamente l’esperienza di Agnes
e la ricostruzione di quei confini che il suo corpo sembrava destinato a violare. Garfinkel era
infatti interessato alla “rilevanza strutturale” dei segreti di Agnes, ovvero a capire come
storia del transessualismo negli stati uniti, fondamentale Meyerowitz (2002).
11
Prima di arrivare al nostro allineamento normativo rigido e dicotomico, la prima medicina moderna occidentale ha
interpretato le teorie classiche della riproduzione producendo un modello di specie umana a un solo sesso (Laqueur
1990). A partire dal celebre, ancorché controverso, studio di Margaret Mead (1935) su alcune tribù della nuova
Guinea, gli studi antropologici hanno confermato non solo che i comportamenti e gli atteggiamenti maschili e
femminili variano culturalmente, ma anche che esistono sistemi di classificazione sessuale assai meno dicotomici
e rigidi di quello tipico delle società occidentali, basti pensare all’esistenza di un “terzo sesso” in molte culture
dell’emisfero australe o alla normalità di periodi di omosessualità in alcune culture africane (per una panoramica,
cfr. Weston 1993). Secondo Domurat Dreger (1998) si stima oggi che circa un bambino su mille nasca con
caratteri sessuali ambigui.
11
potesse passare, e non a rendere conto di cosa implicasse per lei il passare.14 Questa
angolazione mostra bene che la verità non è un dato essenziale bensì un fatto sociale
continuamente prodotto dai membri di un gruppo mentre portano a termine le faccende della
vita quotidiana, ma trascura le differenti posizioni che i soggetti hanno nella produzione delle
verità accettate. È questa diversità di esperienze e di potere che la visione collaborativa dei
fatti sociali tipica dell’etnometodologia garfinkeliana non sembra mettere pienamente in luce,
ed è questa diversità che invece è emersa poco a poco alla luce del sole con la crescente
consapevolezza che le identità personali, anche quelle che sembrano avere un fondamento
essenziale come la razza o il sesso, sono un fatto non solo sociale ma anche politico,
innervato di conflitti e di contraddizioni. Lo sguardo costruttivista tenta così di aprirsi uno
spazio al di là di una prospettiva terapeutica e normalizzatrice: riconsiderata nei termini di
una politica culturale dell’identità, Agnes ci appare come una persona che si fa complice di, e
allo stesso tempo lotta contro, una prospettiva culturale e, soprattutto, medica normalizzatrice
che può non risultare pienamente soddisfacente per lei. In quest’ottica, a posteriori, e grazie
alla passione per il dettaglio di Garfinkel, ci rendiamo conto che le insoddisfazioni di Agnes –
su cui peraltro essa tenta di tacere – hanno spesso un carattere molto corporeo, a partire dalle
sue difficoltà con una vagina ricostruita che richiede sforzi quotidiani di manipolazione per
poter essere funzionale. E di nuovo si evince la distanza tra la medicina e la chirurgia (per cui
la vagina deve esserci ma, al limite, può essere anche un simulacro con cui identificarsi
mentalmente) e Agnes (che vuole vivere il corpo, e non indossarlo come un segno, che vuole
incarnare il sesso e non semplicemente assicurarsi l’appartenenza a una categoria sessuale).
14
Il caso di Agnes fu celebre perché tra i suoi segreti, c’era anche il fatto di aver assunto ormoni da adolescente
contrariamente a quanto dichiarato in un primo tempo ai medici come ci riporta Garfinkel in una controversa
appendice al saggio. Intervenendo a un dibattito organizzato dall’Associazione americana di sociologia, James
Coleman critica la metodologia dell’equipe di Los Angeles e si rifiuta di accordare ad Agnes lo status di persona
dal “doppio sesso”, definendola un “travestito di sesso maschile” e utilizzando sempre il pronome maschile a
sottolineare che era riuscita a “ingannare” Garfinkel il quale si rivolgeva a lei al femminile. Coleman
chiaramente sposava l’abituale visione essenzialista del genere considerando la “pervasiva complementarità
funzionale” tra maschi e femmine un “meccanismo grazie al quale la sessualità biologica è ulteriormente polarizzata
socialmente”. Poiché era “basato sull’erroneo assunto che la natura aveva costretto questa persona a prendere una
decisione tra l’essere maschio o l’essere femmina”, il saggio su Agnes gli appariva dunque sia una “colossale
impostura” sia una mossa politicamente infelice, almeno qualora Garfinkel intendesse sostenere che la legge
avrebbe dovuto lasciare alle persone libera scelta circa il proprio stato sessuale perché “usare la deviazione
biologica come falsa facciata della giustificazione è lasciare che quest’ultima venga distrutta sulla base di falsi
assunti” (Coleman 1968: 129: cfr. anche Sassatelli 2000).
12
Mettendo l’accento su queste contraddizioni, si possono chiaramente vedere i
presupposti fallocentrici insisti nel sapere medico-chirugico: ricostruire una vagina appare
semplice perché essa sembra essere definita letteralmente dalla capacità passiva (profondità,
ampiezza) di accomodare un pene, e non dalla sua capacità attiva (sensazioni, movimento) di
partecipare a un orgasmo – dato questo che, insieme a una più generale gerarchia tra i generi,
spiega, ancora oggi, la larghissima prevalenza di transessuali male-to-female rispetto a quelli
female-to-male (Hird 2000). E si avverte nuovamente il peso della contraddizione tra
“apparenze normali”, genitali in questo caso, e corpo vissuto: se l’accento di molti chirurghi
che operano ricostruzioni genitali – sia nei transessuali che negli ermafroditi – è sulla
fabbricazione di “vagine che sembrino vere”, la speranza – troppo spesso delusa – di molte
transessuali è quella di avere una vagina che le faccia “sentire vere”, e che quindi “senta”
veramente (Kessler 1998). Questa contraddizione dà uno spessore nuovo all’immagine del
passing sessuale sostanzialmente pessimista fornita da Garfinkel e così facendo comincia a
delineare più chiaramente alcune possibili tattiche di effettiva resistenza e sovversione che
l’indifferenza etnometodologica non sembra interessata a mettere a fuoco. Queste
probabilmente passano per l’assegnazione di una precedenza al piacere sessuale come
fondamentale esperienza umana, prima e al di là delle differenze di genere/sesso. È in questi
termini che Butler (1999: 11) ha recentemente espresso l’importanza di Foucault per la teoria
femminista della performatività, sostenendo che quando il teorico francese invoca il
passaggio dall’attenzione per il sesso e il desiderio a quella per “i corpi e il piacere”, egli
promette di “superare i limiti epistemologici che obbligavano a pensare alla sessualità come
qualcosa che emanava da persone di sesso diverso sotto forma di desiderio” e di immaginare
“corpi non segnati, corpi che non erano più pensati o vissuti nei termini della differenza
sessuale, e piaceri che erano diffusi, e forse illimitati”.
Crossgenderismo e ibridismo
Soprattutto a partire dagli anni ottanta, in seguito al consolidarsi del pensiero femminista e
dei movimenti gay e lesbici, si sono fatte strada visioni del sesso, del genere e della sessualità
“alternative”, sono emerse alcune “trasgressioni” che sembrano più direttamente rivolte a
sovvertire l’ordine dicotomico di genere. Si vanno oggi diffondendo fenomeni, accomunati
dalle etichette crossgenderismo o transgenderismo, che mirano apertamente a trascendere la
logica binaria maschio/femmina e l’eterosessualità, proponendo e articolando forme narrative
13
spesso caratterizzate da una spiccata riflessività (nel duplice senso di racconti incarnati in
forme identitarie e corporee visibili e concrete, e di racconti che tematizzano le dicotomie di
genere). Questi fenomeni hanno soprattutto una forte presa sulla cultura di massa: se il
cinema presenta ormai immagini articolate e complesse delle nuove identità di genere e di
orientamento sessuale (dallo storico The Rocky Horror Picture Show a Querelle, da Boys
Don’t Cry a La moglie del soldato), soprattutto a partire dagli anni ottanta, personaggi gay,
lesbici e transgender hanno fatto capolino nelle sit-com americane per il largo pubblico
(Hellen, Friends ecc.), sono entrate nei manga giapponesi per adolescenti e bambini (Lady
Oscar, Ranma, F-Compo ecc.) e compaiono con crescente frequenza negli spot pubblicitari
della televisione generalista anche nel nostro paese (p.es. le recenti campagne della Martini).
Simili immagini, figure e caratteri sembrano diffondere e, per così dire, normalizzare
una possibilità che nelle società occidentali contemporanee, appariva tipica solo di alcune
particolari occasioni “giocose” in cui, come nel carnevale, si sovverte e si inverte
temporaneamente quello che si è nel profondo. Come ammonimento contro concezioni
semplicistiche del genere, lo stesso transessualismo è diventato una categoria di genere, e in
una certa misura una subcultura sessuale (con guide, come la celebre Tranny Guide di Vicky
Lee, che illustrano il cambiamento di sesso e la gestione delle apparenze in pubblico, sul
lavoro, ecc.). Drag queens famose come Ru Paul hanno ottenuto grande visibilità mediatica, e
si sono esposte in prima persona con biografie fortunate e spesso ironiche in cui hanno tentato
di creare uno spazio tra i generi. L’ambiguità e l’ambivalenza sono caratteristiche
fondamentali delle loro auto-descrizioni. Così, sostiene Ru Paul, il genere non è tutto –
“un’altra domanda che mi viene rivolta è ‘come ti devo parlare al maschile o al femminile’?
Io rispondo che mi si può parlare come si vuole, l’importante è che si entri in comunicazione
con il mio essere, invece di fermarsi alla superficie” – ma poi insiste su un’ambigua forma di
autenticità imperniata nuovamente sul genere – “dire che la mia realtà è che sono un uomo, e
ciò che l’illusione dà di me è l’immagine di una donna; ma delle due cose, l’illusione è la più
vera” (in Perri 2000: 91). Certo il glamour di performers crossgender di successo come Ru
Paul e l’ambiguità sessuale di molte icone della cultura giovanile non deve oscurare la
marginalità in cui vivono personaggi transgender molto reali come i viados brasiliani che,
come ha mostrato Don Kulick (1998), adottano attributi fisici femminili ma rivendicano
spesso una identità maschile omosessuale (cfr. anche Perkins 1983). In questo caso, l’ironia,
l’ambiguità e l’ambivalenza fa posto a racconti autobiografici dove le distinzioni di sesso,
14
genere e sessualità sono complicate ma terribilmente serie: come scrive Princesa, un celebre
viado celebrato dal cantautore italiano Fabrizio De Andrè, “anche io mi sono comportata da
uomo per ottenere soldi dai clienti. Mai però mi sono comportata da uomo con una donna o
con un altro trans. Ho sempre accettato l’amore con dei maschi maschi anche se un pochetto
fantasiosi” (Farias 1997: 108).
La comunità crossgender o transgender che è emersa nel corso degli anni ottanta negli
Stati Uniti e in Europa viene descritta da Anne Bolin (1994) come composta da individui che
cercano di mettere in discussione il dominante sistema a due generi, mescolando aspetti della
mascolinità e della femminilità oppure optando per affrontare solo alcune delle operazioni
chirurgiche che potrebbero ri-assegnarne completamente la categoria sessuale. Il principio
guida di questo movimento sembra consistere nell’idea che ciascun individuo dovrebbe poter
essere libero di cambiare, non solo permanentemente ma anche temporaneamente, il sesso cui
è stato assegnato alla nascita, superando le strettoie dicotomiche del sesso, del genere e della
sessualità. Tra queste figure “tra i generi” si annoverano sempre di più non solo travestiti e
omosessuali, ma anche transessuali. In effetti sembra delinearsi sempre più chiaramente una
tensione nella comunità transessuale tra chi vuole passare come “genitalmente corretto” come
donna o uomo e il crescente numero di transessuali che tentato di sovvertire l’ordine di
genere dicotomico (Hird 2000; Prosser 1998). Se l’ossatura portante delle storie di molte
transessuali oggi, come per Agnes, è ancora quella di una soggettività il cui genere è
imprigionato in un corpo dal sesso sbagliato – e quindi la necessità di ripristinare un
allineamento “naturale” tra sesso e identità di genere, nascondendo o omettendo parte della
propria biografia personale e modificando il proprio corpo (Bolin 1988; Devor 1997;
Hausman 1995; Shapiro 1991), la queer theory usa sempre più insistentemente il
transessualismo come epitome della sfida alla stabilità della dicotomia sessuale, cercando di
svilupparne il potenziale trasgressivo. Kate Bornstein (1994), Leslie Feinberg (1996) e Sandy
Stone (1991), alcune delle più celebri studiose transessuali, non sembrano aspirare a
identificarsi pienamente con il genere femminile e cercano invece posizioni intermedie e
sovversive delle dicotomie di genere/sesso. Stone (1991: 295), per esempio, ha invitato
esplicitamente i transessuali a “non passare” come se fossero sempre stati uomini o donne, ma a
“proclamare con fierezza” le loro storie che “rompono i discorsi accettati sul genere”.15
15
Per una discussione del modo in cui è stato letto il transessualismo dalla teoria femminista e dagli studi di
15
Bornstein (1994: 8) sostiene che i transessuali non possono diventare uomini o donne, quanto
meno “secondo il modo di sentire corrente”, non perché siano “inautentici” come sosteneva
Raymond, ma perché le loro biografie semplicemente rivelano quanto caotica e incompiuta sia
la distinzione tra sesso e genere e quindi implicitamente o esplicitamente finiscono per
decostruire l’ordine di genere.
Questo movimento oggi si fa forte anche della crescente attenzione prestata al
fenomeno dell’ermafroditismo e, al contempo, della crescente vocalità dei soggetti nati con
caratteristiche sessuali miste e chirurgicamente ri-allineati da neonati. Come scrive Alice
Domurat Dreger (1998: 6) nella sua analisi del trattamento medico dei casi di ermafroditismo
o intersessualismo che si snoda dall’Ottocento ai giorni nostri, “l’ermafroditismo causa una
notevole quantità di confusione, molto di più di quanto non si possa immaginare a un primo
sguardo, perché […] la scoperta di un corpo ‘ermafroditico’ solleva dubbi non solo su quel
particolare corpo, ma su tutti i corpi. Il corpo in questione ci obbliga a chiederci cosa
esattamente vi sia – se vi è qualcosa – che rende i nostri corpi non questionabili”. In questo
senso, i corpi ermafroditi sono stati e sono ancora un terreno di battaglia per ribadire la
definizione della maschilità “naturale” e della femminilità “naturale”. Un terreno che è
presidiato dalla scienza medica che, espressione di un più vasto orientamento culturale, ha
tentato di ricostruirne i corpi per “rafforzare primariamente quello che minacciavano più
fortemente: l’idea che ci fosse un singolo, conoscibile, “vero” sesso, maschile o femminile in
ciascun corpo umano” (Domurat Dreger 1998: 44; cfr. anche Fausto-Sterling 2000; Kessler
1998 e Meyerowitz 2002). La medicina insomma si è progressivamente impossessata di una
icona culturale, l’ermafrodita, che suscitava sia attrazione che disgusto, e l’ha reso un fatto
“scientifico”, un “organismo malato”. Con l’evolversi dell’ortodossia medica, le gonadi, gli
ormoni, i cromosomi ecc. sono diventati altrettanti complessi e non sempre armonici indicatori
dell’appartenenza a una categoria sessuale, e allo stesso tempo, luoghi di intervento medico
(chirurgico, endocrinologico, genetico) per ristabilire una linea di confine il più possibile chiara
tra il maschio e la femmina.16 Il principio classificatorio maschio/femmina prevale così
genere, cfr. Hird (2000). Più in generale sulla politica del trasessualismo, dentro e fuori le scienze sociali, cfr. il
lavoro di Pat Califa-Rice (1997) e sullo sviluppo dei diritti sessuali e di genere come diritti di cittadinanza e
umani, cfr. Bell e Binnie (2000) e Weeks (1998).
16
Per una discussione dei protocolli medici oggi in uso per assegnare i soggetti a una categoria sessuale e per le
diverse forme di ermafroditismo che sono riconosciute dalla medicina, cfr. Domurat Dreger (1998); Kessler
(1998); Fausto-Sterling (2000) e Meyerowitz (2002).
16
sull’esistenza reale di corpi ibridi, il cui sesso “indeterminato” deve essere corretto, o
mediante la soppressione dei feti, o mediante interventi chirurgici precoci.
Il diritto della professione medica di determinare il genere e di restringere questa scelta
a due possibilità viene oggi messo in discussione. Tra le voci di dissenso più attive e sonore
troviamo la Intersex Society of North America (ISNA) che opera da metà degli anni novanta,
rivendica il diritto a non essere oggetto di chirurgia da neonati per ristabilire apparenze
genitali dimorfiche e definisce le persone tra i sessi come “individui con anatomia o fisiologia
che differisce dagli ideali culturali di maschio e femmina”.17 Questa associazione ha mostrato
che sono soprattutto le clitoridi troppo grandi a essere rimosse, causando spesso
disorientamento e perdita della sensazione sessuale.18 Toccando un tasto dolente della politica
globale dell’identità e della differenza, l’ISNA tenta di stabilire un parallelo tra questa pratica
medica condotta su neonati occidentali e la mutilazione genitale femminile o infibulazione,
esperienza che colpisce circa 130 milioni di donne in Africa, Asia e Medio Oriente e che
viene stigmatizzata da uno stuolo di femministe, missionari e medici stessi del civilizzato
occidente come sintomo di arretratezza culturale e mancanza di rispetto per i diritti umani.
Gli ermafroditi o pseudoermafroditi vengono oggi sempre più spesso considerati da
alcuni – tra cui la nota attivista ermafrodita statunitense Cheryl Chase (1998) – i transgenders
per eccellenza, capaci di destabilizzare le categorie maschio e femmina. Tanto quanto e forse
più delle esperienze dei transessuali, le vicende degli ermafroditi mostrano che l’ordine
dicotomico di genere è una “legge naturale” molto sociale che, a differenza della meccanica o
della termodinamica, funziona solo se viene sancita normativamente, magari mediante
l’intervento chirurgico per ristabilire nei corpi quello che la “natura” avrebbe erroneamente
dimenticato. Se confrontiamo queste tipologie di persone “tra i sessi” – i transessuali e gli
ermafroditi – ci accorgiamo però altrettanto chiaramente che la questione della plasticità del
corpo e della performatività del genere non è puramente accademica e che spesso vi sono
17
È oggi disponibile un’utile letteratura sull’attivismo degli “intersessuali”, ermafroditi o pseudoermafroditi, e
sull’ISNA, cfr. per esempio Holmes 2002; Turner 1999. Il fenomeno dei corpi con caratteristiche sessuali miste
sta emergendo come un tema importante per i queer studies e una parte del femminismo post-strutturalista che
cerca di mostrare che non solo il genere, ma anche il sesso, è un fatto socialmente costruito e fortemente
innervato di relazioni potestative, cfr. l’intervista di Peter Hegarty (2000) alla fondatrice dell’ISNA Cheryl Chase.
Sul ruolo dell’azione politica e del consolidamento di una faccia collettiva pubblica per la costruzione dell’
identità intersessuale si veda la ricerca condotta da Sharon Preves (2000) su oltre una trentina di ermafroditi
americani.
18
Confermando che, a dispetto di ogni misconoscimento culturale consolatorio o puritano, le “dimensioni” contano
la regola implicita è che qualunque organo sessuale più lungo di 2,5 cm è da classificarsi come pene mentre
17
diversi punti di vista non immediatamente riconciliabili. La posizione di molti ermafroditi
sembra essere, per esempio, in potenziale conflitto con alcune delle direzioni della cultura
transessuale, nel suo complesso entusiasticamente favorevole all’incremento delle possibilità
di intervento chirurgico e cosmetico sui genitali (Kessler 1998: 119 e sgg.; Fausto-Sterling
2000: 45 e sgg.).
Questo confronto ci mostra molto bene la forza dell’imperativo culturale alla
distinzione sessuale anche quando il corpo e il genere vengono concepiti come dati
socialmente costruiti. Si tratta di un imperativo categorico che non potrebbe essere più evidente
laddove il “paziente” è non solo l’adulto transessuale, indipendentemente dalla sua dotazione
fisica originaria, ma anche il neonato dai caratteri sessuali misti. Oggi, proprio come nel caso di
Agnes, la medicina (e in diversi stati europei la sanità pubblica) accorda il cambiamento di
sesso a quegli adulti che sentono di dover scegliere di divenire quello che sono già e che
convincentemente – innanzitutto mediante apparenze adeguate e l’idealizzazione
dell’eterosessualità – siano in grado di passare per/nel genere desiderato. Queste stesse
istituzioni però non lasciano scelta ai neonati con caratteri sessuali misti. L’assunto,
epitomizzato nei protocolli diffusi dal sessuologo americano John Money, è che si impari a
essere donna o uomini sin dai primi giorni di vita, che una conformazione genitale adeguata sia
fondamentale per imparare correttamente, e che i chirurghi debbano semplicemente fornire i
genitali giusti per procedere con una socializzazione di genere adeguata (cfr. Kessler 1998; Hird
2000). Ecco che la plasticità del corpo può essere declinata in modi diversi, che però tendono a
confluire in una direzione dominante: le prassi mediche sembrano in effetti sfidare l’idea che il
sesso biologico sia incontrovertibile, ma rafforzano la visione dualistica del sesso/genere. Il
fatto che sia possibile e lecito intervenire sul corpo alterandolo anche radicalmente non
implica dunque che tutto sia facilmente concesso. Qualunque identità corporea che cada fuori
dai parametri stabiliti per l’identità di genere sembra ancora oggi incontrare una forza
disciplinare, terapeutica e normalizzatrice che tende a ristabilire l’ordine dicotomico di
genere.
Note conclusive
Soprattutto a partire dalla fine degli anni settanta, le scienze umane e sociali hanno messo in
qualunque organo più piccolo è una clitoride (Hird 2000).
18
discussione le assunzioni epistemologiche implicite nella produzione dei fatti naturali, hanno
decentrato il corpo fisico delle scienze biomediche e criticato dicotomie date per scontate
come cultura/natura, mente/corpo, genere/sesso, maschio/femmina (Butler 1993; Haraway
1991; Laqueur 1990). I corpi hanno acquistato una loro storia e sono divenuti politici anche e
soprattutto perché la loro naturalità è stata ricondotta a pretese di verità che riflettono
differenze di potere spesso consolidate attraverso istituzioni chiave della modernità dalla
famiglia, alla medicina, allo stato (Feher et al., a cura di, 1989; Foucault 1976, 1984; Porter
1991). Questa consapevolezza si è appoggiata a, e ha favorito, l’emersione di voci e richieste
provenienti da soggetti con esperienze identitarie e corporee divergenti dalle norme culturali
che segnano le differenze “naturali” tra i corpi, divergenti in particolare dall’ordine di genere
egemonico. Esaminando le esperienze dei transessuali e degli ermafroditi si è però potuto
mostrare che considerare il corpo e i caratteri sessuali come un processo culturale di
“assegnazione” a una categoria, qualcosa di “socialmente costruito” e basta, non elimina
affatto la questione del potere, al contrario pone tanti quesiti quanti ne risolve. La medicina
moderna, partecipe di quel potere disciplinare che Foucault ha così magistralmente messo in
luce, ha aderito molto presto all’idea che il corpo fosse plastico e malleabile, e ha combinato
questa plasticità a uno sguardo normalizzatore e terapeutico che può e deve ristabilire l’ordine
“naturale”. Le esperienze dei transessuali e degli ermafroditi dunque ci mostrano non solo che
il corpo è un campo di battaglia modellato dalle relazioni di potere che innervano la nostra
cultura, ma anche che la sua plasticità – se e come precisamente esso è plasmabile – è oggetto
conteso, declinabile in direzioni diverse, verso un ibridismo sovversivo, o più spesso, verso
una normalizzazione che simula un ordine “naturale”.
Anche se entrambe queste figure in qualche modo destabilizzano l’ordine di genere
dato per scontato e rendono scoperto il gioco referenziale che dal genere sembra risalire al
sesso come sostrato essenziale da cui emana la differenza, occorre resistere alla tentazione di
trasformare il “travestito”, “il transessuale”, l’“ermafrodita”, il crossgender in una sorta di
figura topica (per quanto riguarda la performatività del genere) e sovversiva o viceversa (per
quanto riguarda le norme sull’identità sessuale e la sessualità). Si può forse essere d’accordo,
almeno in prima battuta, con quelle femministe post-strutturaliste secondo cui il genere è una
costruzione culturale instabile, il cui scopo è “delimitare e contenere la minacciosa assenza di
confini tra i corpi e tra le pratiche del corpo, assenza che altrimenti farebbe esplodere le strutture
istituzionali e organizzazionali delle ideologie sociali” (Epstein e Straub 1991: 2). Questa
19
indeterminatezza e ibridismo a sua volta non va però ipostatizzata e feticizzata, come avviene
nella teoria freudiana della bisessualità originaria e come una parte della teoria queer sembra
voler fare. A fronte di forme organizzative sociali e culturali solidissime, il riferimento
all’indeterminatezza deve rimanere una procedura euristica per esplorare le diverse possibilità
di organizzazione della sessualità, delle categorie sessuali, del genere. L’insistenza sul
costruttivismo e l’antiessenzialismo non dovrebbe cioè risolversi in un’ontologia della
plasticità che può divenire, ancora una volta, facile preda per la costruzione forme
egemoniche di corporeità.
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