5. il valore dell`opera fotografica

Transcript

5. il valore dell`opera fotografica
5. IL VALORE DELL’OPERA
FOTOGRAFICA
Introduzione
Non esiste un modo per valutare un’opera fotografica in termini oggettivi. Il prezzo è sempre e comunque il risultato di un processo simbolico
di costruzione del significato, al quale prendono parte tutti gli attori del
sistema dell’arte e della fotografia. Eppure, tutti gli elementi citati nel capitolo precedente – come anche quelli che seguono – concorrono a spiegare parzialmente alcune fondamentali componenti del prezzo, scelte nel
sistema dell’arte come indicatori di un determinato livello di desiderabilità e quindi cruciali nel valutare, secondo pratiche consolidate eppure mai
scritte, il valore di un’opera fotografica.
La tiratura
Quando si tratta di opere fotografiche, sia il mercato delle fotografie sia
quello dell’arte contemporanea rispondono alla legge del numero chiuso,
più comunemente detto “edizione”. Questa legge presenta le sue dovute eccezioni, che fino agli anni Ottanta erano piuttosto la regola, data la
mancanza di un mercato strutturato rivolto al collezionismo. I fotografi
che operavano allora si limitavano a firmare e datare le stampe, talvolta
usavano un timbro, stampando “on demand”, su richiesta.
Lo stesso Mario Giacomelli, il cui lavoro fu riconosciuto fin da subito da
istituzioni di spicco del mondo della fotografia e dell’arte1, non sentì mai
il bisogno di numerare le sue fotografie, di cui trattava personalmente il
processo di stampa nella sua piccola tipografia nel cuore di Senigallia, sua
città natale. Certo, poteva anche darsi che alcuni fotografi decidessero di
numerare le loro stampe, ma senza che questa pratica implicasse un presunto intento economico nella determinazione del prezzo.
Eugene Smith, The walk to paradise garden, 1946
© Eugene Smith/Magnum Photos
133
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
Era un modo, semmai, di tenere sotto controllo i materiali prodotti e
identificare con facilità quelli approvati personalmente anche a distanza
di lunghi intervalli temporali. La numerazione era usata in maniera più
sistematica nel caso in cui, invece, il fotografo stampasse portafogli composti da diverse opere fotografiche per un committente o in occasione di
eventi e mostre speciali.
Luigi Ghirri, ad esempio, non produceva edizioni, salvo appunto casi specifici quali i portafogli di fotografie stampati ad hoc per il Comune di Modena o per la Riello Group Energy for Life negli anni Ottanta.
Altri fotografi più giovani, come Gabriele Basilico, si sono convertiti alla
logica dell’edizione dopo aver raggiunto una certa popolarità all’interno
di un contesto artistico che richiedeva questa modalità di gestione delle
stampe. Così, mentre la serie “Ritratti di fabbriche” (1978-80) non è edizionata, le produzioni successive sono vendute in esemplari di quindici,
una numerazione comunque abbastanza alta che favorisce la diffusione a
discapito di prezzi proibitivi.
Un’altra pratica diffusa era quella di riprendere in mano i negativi e realizzare nuove stampe, variando il contrasto dei grigi o le dimensioni della
fotografia. Ansel Adams fece di questo processo di rimaneggiamento il suo
marchio di fabbrica, muovendosi nella camera oscura come uno scienziato, sperimentando contrasti e ritornando concettualmente sull’interpretazione dei suoi scatti più sorprendenti.
Il caso di “Moonrise, Hernandez, New Mexico” è esemplare: la fotografia
è scattata nel 1941 e stampata per la prima volta nel 1942 come dono al
MoMA, che la espone nel 1944 nel contesto della mostra “Art in progress”. Nelle stampe prodotte prima del 1948 – pochissime in verità – il
fotografo si concentra su tonalità soft e ampie scale di grigi, che risultano
in una maggiore intensità del cielo e attenzione al dettaglio paesaggistico.
Dopo suddetta data, hanno inizio le celeberrime sperimentazioni – circa
milletrecento quelle tracciate nel mercato secondario – che modificano
radicalmente il senso e il pathos dell’immagine, al punto da scatenare un
dibattito che ancora oggi non ha trovato risposta. Quali versioni sono definibili vintage e quindi originarie, quelle dei primi anni Quaranta o quelle
successive al fatidico 1948?
Il MoMA, primo destinatario della fotografia, ha egregiamente detto “la
sua” esponendo ben tre versioni della controversa “Moonrise” durante
una retrospettiva dell’opera di Ansel Adams nel 2002; mentre il mercato
ha ampliamente dimostrato di prediligere le stampe più datate e quelle
di dimensioni inusuali (i murali), in armonia con quanto detto circa il
principio della rarità.
In questo meccanismo di scambi discontinui dell’era della fotografia analogica è bene sapere, a titolo di curiosità, che alcuni fotografi un po’ sbadati perdevano i negativi originali dei loro scatti e, per riprodurre le immagini fotografiche, si rivolgevano a una tecnica non perfetta al 100%, ma
piuttosto efficace: la duplicazione del negativo a partire da una qualsiasi
stampa fotografica. Si racconta che William Eugène Smith vi si sia affidato per rispondere alle richieste di una televisione americana, la CBS Sunday Morning, che avrebbe sollecitato il fotografo a ristampare alcune delle
sue immagini più famose, tra cui “The Walk to Paradise Garden” (1946)2.
134
135
Tra edizione e prova d’artista
Oggi l’edizione limitata e numerata è un passaggio obbligatorio per il fotografo interessato a lavorare nel mercato dell’arte. Il gallerista, o chi per
lui si occupa delle vendite, tende ad appoggiare questa regola adducendo
prevalentemente due motivazioni: la preservazione della rarità come fattore trainante del mercato e la possibilità di promuovere una produzione
più diversificata dell’artista. Il timore diffuso è che, data l’illimitata riproducibilità di una stampa, il mercato del collezionismo vada a concentrarsi
su pochi scatti giudicati estremamente rilevanti o d’impatto, mettendo in
crisi la produzione successiva dell’artista e la distribuzione delle opere fotografiche tra le diverse gallerie impegnate nella sua promozione. Si tratta,
dunque, di una regola empirica che mantiene equilibrio tra le parti senza
sconvolgere la realtà pre-esistente all’accoglienza dell’opera, tenendo vivo
al tempo stesso l’interesse per la futura produzione fotografica dell’artista.
Non per niente, gli Estate o i parenti dei fotografi defunti sono solitamente molto rigorosi per quanto riguarda le ristampe e sono malvisti dal
mercato quelli che scelgono la strategia della diffusione incontrollata delle
stampe fotografiche a scopo commerciale, nonché coloro che dimostrano
scarsa competenza tecnica relativa alla gestione del processo di stampa.
L’Estate di Diane Arbus si distingue tra i modelli di eccellenza, al punto
che, per gli scatti più rari della fotografa, la differenza di prezzo tra fotografia vintage e stampa contemporanea è minima, quasi trascurabile.
Sempre nella logica del numero chiuso, si è sviluppata la pratica di realizzare da una a tre prove d’artista dell’opera fotografica, addirittura quattro
Ansel Adams,
Moonrise, Hernandez, New
Mexico, 1941
© Ansel Adams Publishing
Rights Trust/Corbis
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
per il fotografo brasiliano Vik Muniz. Ci si chiederà a questo punto cosa
distingua la prova d’artista dall’edizione classica. Una risposta esauriente
richiederebbe di soffermarsi sul fatto che la prova d’artista non aveva inizialmente una destinazione commerciale, essendo spesso l’oggetto di un
dono dell’artista a un collaboratore importante. Nel caso in cui le prove
d’artista fossero più di una, le altre restavano di proprietà dell’artista ed
erano usate per motivi espositivi. Oggi, invece, sono vendute alla stregua
delle altre stampe, e non esiste quindi alcuna differenza sostanziale, tranne la forma. Per l’esattezza, cambia la numerazione, che sceglie i numeri
romani invece di quelli arabi con i quali sono identificate le altre stampe
dell’edizione.
Un’eccezione particolare
Vale la pena citare una situazione che sembra andare in senso contrario
rispetto a quanto affermato: è il caso di Francesca Woodman, vissuta appena ventidue anni eppure titolare di un corpus di ben 500 fotografie in
bianco e nero e un libro d’artista. Le sue fotografie sono uno studio intimistico della propria identità, intrecciata a quella delle eroine dei romanzi
di epoca vittoriana, da Colette a Virginia Woolf e Simone de Beauvoir,
di cui era fervente lettrice. Sullo sfondo, stanze abbandonate, decadenti
e vuote, costellate solo da qualche minimo oggetto. Queste fotografie di
sapore surrealista sono uniche nel loro genere, al punto da essersi guadagnate l’interesse sia di istituzioni come la Fondation Cartier Pour l’Art
Contemporain con sede a Parigi, sia di gallerie come la Photographer’s
Gallery di Londra, in linea perfetta con la dualità di diffusione del linguaggio fotografico di tipo artistico.
Oggi i negativi sono gestiti dalla famiglia, che tende a proporre edizioni
piuttosto numerose di ogni scatto, oltre le venti unità. Questa scelta è
stata spesso criticata sulla base della consuetudine del mercato dell’arte
di trattare l’opera alla stregua di un bene di lusso, misurando dunque il
suo successo economico in termini di prezzo e non di vendite. Ciò significa che quando le due variabili crescono assieme ne deriva un senso di
approvazione generale, ma quando sono disgiunte, si preferisce dare più
importanza alla crescita della prima.
Per comprendere fino in fondo l’indignazione degli attori del mercato di
fronte a un’edizione considerata “troppo numerosa”, è necessario aggiun-
138
gere alcune altre considerazioni. Anzitutto, il fatto che i prezzi delle opere
sono percepiti come indicatori di qualità e come tali non possono essere
abbassati, salvo l’uso di escamotage che deviano l’attenzione verso il compratore – come appunto gli sconti – richiamando la logica dell’eccezione
e la specialità del momento. Da qui deriva la difficoltà di dare un prezzo
all’opera di un’artista, soprattutto se esordiente, che induce i galleristi
ad appoggiare le proprie decisioni sulle caratteristiche fisiche del lavoro
proposto, tecnica e dimensioni in primis3. La tecnica conta sia per il costo
di produzione che per una gerarchia storica che vede la pittura e la scultura – e ormai anche l’installazione – primeggiare rispetto al disegno, così
come il video rispetto alla fotografia. Ultima considerazione riguarda la
qualità delle diverse opere dello stesso artista, che non è mai argomento di
discussione: tutte meritano lo stesso interesse in quanto frutto della stessa mente geniale. Per tutti questi motivi, i galleristi spesso preferiscono
perdere il potenziale surplus di guadagno derivante da un’opera che considerano più importante nel percorso dell’artista o che per un temporaneo
fattore di moda pensano possa vendere più rapidamente.
Per riprendere l’esempio di Francesca Woodman, le sue stampe fotografiche sono piuttosto piccole, assolutamente antimonumentali e in controtendenza rispetto alle recenti sperimentazioni dimensionali realizzate
con la tecnica digitale. Il fatto che l’artista sia morta giovane e che le sue
fotografie siano anche diffuse in grandi quantità implica prezzi piuttosto
bassi, giudicati poco rappresentativi rispetto al valore del suo lavoro.
D’altra parte, si tratta di una scelta consapevole di una famiglia – entrambi i genitori sono artisti – che ha preferito favorire la diffusione dell’opera
della figlia piuttosto che la sua settorializzazione, per quanto questo non
sia in linea con il pensiero dominante sul mercato.
Cosa scelgono gli artisti?
L’edizione è un modo curioso di gestire la numerosità delle stampe fotografiche relative allo stesso scatto. Andando a sommare prove d’artista,
edizioni in piccolo formato ed edizioni in grande formato – o stampe a
contatto versus ingrandimenti nel caso dell’analogico – le fotografie oggi
possono raggiungere una quantità nominale ben superiore a quella delle
fotografie stampate venti o trent’anni fa, alla faccia di chi pensava l’opposto e chiamava in causa il principio della rarità.
139
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
Certo è bene precisare che, in alcuni casi, quantità nominali e quantità
reali non coincidono. Prendiamo l’esempio di Richard Avedon: dopo la
sua morte, nulla è stato più stampato per volere espresso del fotografo.
Così, nonostante di alcuni suoi scatti siano state dichiarate tirature fino a
cento esemplari, è verosimile che siano molti meno quelli effettivamente
in circolazione in seguito alla sua improvvisa scomparsa.
Inoltre, artisti e galleristi sono piuttosto propensi a realizzare edizioni
sì numericamente ridotte ma non uniche, e le differenze in dimensioni
e tipologia di stampa sono spesso addotte a motivazione per riproporre
uno scatto particolarmente apprezzato dalla critica e dal mercato. Senza
che questo provochi alcun tipo di imbarazzo: di fronte a tante variazioni
possibili talvolta i galleristi non conoscono la quantità reale delle stampe
messe in circolazione dall’artista.
Nel caso di fotografi e artisti come Beat Streuli e Armin Linke, la questione si risolve in fretta in quanto entrambi lavorano prevalentemente con
due formati, uno più piccolo e l’altro più grande cui corrispondono le relative differenze di prezzo; non si può dire lo stesso dei fotografi che hanno
vissuto a cavallo degli anni Ottanta, per i quali la questione dell’edizione
si presenta piuttosto arzigogolata.
Uno fra tutti, Martin Parr: le sue fotografie in bianco e nero sono edizioni
aperte, probabilmente perché appartengono alle prime serie e non avrebbe avuto senso vendere in edizione scatti di cui erano già molte le stampe
in circolazione. Al contrario, le fotografie a colori sono edizionate, ma
secondo logiche ogni volta diverse. La serie “Common Sense” prevede un
massimo di dieci esemplari ed è a discrezione del collezionista se scegliere
il grande o il piccolo formato. Per la serie “Last Resort”, Parr ha invece
scelto un’edizione aperta in piccolo formato – 51 x 76 cm – e una speciale
edizione di cinque in grande formato.
Questo per chiarire quanto possa essere difficile, per non dire impossibile,
tenere le fila delle scelte di un artista. Fino a qualche tempo fa, alcuni
fotografi pretendevano di fare chiarezza su questa pungente questione adducendo una sorta di garanzia rispetto alla reale diffusione di ogni scatto
fotografico: la distruzione dei negativi. Risultava però pressoché impossibile verificare che alla dichiarazione corrispondesse un’azione concreta,
e il tutto si risolveva in una questione di fiducia e nell’idea che nuove
edizioni di uno scatto fotografico formalmente distrutto sarebbero state
difficili da vendere o comunque avrebbero provocato un calo della reputazione del fotografo. Oggi non si sente più parlare di questa soluzione, che
è stata millantata senza che ne derivasse una maggiore sicurezza e una
concreta trasparenza tra gli operatori del mercato.
Ad ogni modo, non è il caso di allarmarsi di fronte al temibile spettro della
riproducibilità tecnica. L’edizione è prima di tutto una dichiarazione di
intenti, un'informazione richiesta dalla galleria, ma poi si stampa in caso
di necessità. La necessità può essere: l’acquisto da parte di un collezionista o di un’istituzione, sempre più veicolato da e-mail e telefono, l’esposizione dell’opera durante una fiera commerciale o una mostra all’interno
degli spazi della galleria.
Per le mostre museali, se il costo di produzione dell’opera è inferiore al
costo di trasporto della stessa dalla casa del collezionista o dal laboratorio dell’artista, si tende a prediligere stampe ad hoc definite “exhibition
prints”, volte anche a diminuire il rischio per il collezionista che l’opera
riscontri danneggiamenti durante il viaggio. In ultima istanza, è sempre
bene ricordare che la rarità ha certamente una sua componente puntuale
nel presente, ma anche una temporalità derivante dal fatto che collezionare implica possedere, per un certo periodo di tempo, un’opera, e quindi
preservarla dagli effetti degradanti che il tempo ha sugli oggetti.
Sarà poi capitato a qualche lettore di imbattersi in galleristi che alla domanda “Quanto costa quest’opera?”, abbiano risposto il fatidico “dipende”. È giusto chiarire immediatamente che si tratta di una strategia di vendita, per cui il mercante decide di elaborare prezzi crescenti proporzionalmente al numero delle stampe vendute, giustificando il metodo come una
premiazione al collezionista che per primo scopre l’opera, senza tergiversare in attesa di conferme dal sistema (interviste, mostre, commissioni,
cataloghi). Il fenomeno è piuttosto diffuso e la maggior parte delle volte è
esplicitato dal gallerista o dal venditore, che indica non una cifra puntuale
ma una fascia di prezzo.
Non ultimo, per i più sensibili rispetto alle tematiche del sistema dell’arte e ai meccanismi di redistribuzione del reddito, vale la pena declinare
poche e importanti osservazioni. Infatti, la questione dell’edizione e della
limitazione artificiale dell’offerta comporta degli effetti concreti, andando
anzitutto a privare il fotografo di un guadagno derivante dalla vendita di
tutte le stampe richieste potenzialmente dal mercato per un certo scatto.
D’altra parte, per quanto i prezzi più elevati di una stampa siano giustificabili proprio nella logica di una indisponibilità, è molto più facile che aumentino nel mercato secondario, in presenza di una platea di compratori
interessati e rimasti insoddisfatti durante la prima sessione di vendite.
140
141
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
I proventi derivanti dalla rivendita delle opere fotografiche nel mercato
secondario non vanno però all’artista – eccetto nel caso in cui sia usato il
canale dell’asta che è stato recentemente regolato per applicare il Diritto
di Seguito4 – bensì al venditore.
Ed è soprattutto nell’ambiente della fotografia professionale, accolta nel
mondo dell’arte per l’eccellenza della sua ricerca, che continua a difendersi l’idea dell’edizione aperta. La scelta di non imporre una chiusura
alla riproducibilità di uno scatto fotografico, coniugata agli usi e costumi
di un mercato editoriale nel quale l’immagine e le informazioni sono idealmente “di tutti” coloro che desiderano entrarne in possesso, sono tra le
motivazioni sottostanti alla teoria dell’edizione aperta. Ça va sans dire, tra
i sostenitori di questa metodologia ci sono i rappresentanti della vecchia
scuola capitanati dal defunto Henri Cartier-Bresson, Elliott Erwitt, Joel
Meyerowitz e l’italiano Ferdinando Scianna.
La dimensione
Nella fotografia analogica
Sono tanti i motivi per cui il grande formato è stato assunto a fattore identificativo di una maggiore desiderabilità, un prezzo più elevato o entrambe
le cose. Nel 1981 la G. Ray Hawkins Gallery di Los Angeles vende una
fotografia di Ansel Adams per 71.500 dollari, il prezzo di gran lunga più
alto pagato per un’opera fotografica, ancor più sorprendente in quanto il
fotografo è ancora vivo. L’immagine è “Moonrise, Hernandez, New Mexico” stampata in dimensioni di 100 x 140 cm5, un formato decisamente
atipico per i tempi e per l’opera di Adams, che sceglieva più spesso misure
in cui l’ingrandimento della stampa era gestibile nell’ambito dei limiti
pratici derivanti dalla tecnica di quegli anni.
La maggioranza dei fotografi a metà del Novecento stampa in grandi dimensioni solo quando si tratta di enfatizzare gli effetti dell’immagine fotografica sull’osservatore e avvicinare l’impatto generato da una fotografia
appesa al muro a quello di una tela. Queste stampe sono speciali, nel senso che affiancano e completano la produzione più copiosa nel formato ridotto, determinando una scissione nella produzione del fotografo: da una
parte, stampe più grandi, visivamente stimolanti e rare; dall’altra stampe
più piccole, stilisticamente perfette e diffuse sul mercato.
142
L’opera di André Kertész incarna perfettamente questa osservazione;
fatto non secondario, infatti, stampe più grandi richiedevano maggiori
lavoro e costo, ed erano quindi giustificabili a seguito di una ampia distribuzione di un determinato scatto e del successo pubblico o critico, di cui
Kertész poteva tranquillamente vantare.
Nel caso di Dorothea Lange, il grande formato è un modo per conciliare
l’aspetto artistico con un intento propagandistico, di cui è testimone la
sua produzione socialmente impegnata inserita nel quadro della Farm
Security Administration, una missione fotografica indetta dal presidente
americano Franklin Delano Roosevelt in seguito alla crisi del ’29 per indagare le condizioni di vita della popolazione americana e infondere un
sentimento di tenacia nei confronti della difficile situazione economica.
Diversamente, quando Henri Cartier-Bresson propone stampe più grandi
delle sue fotografie per la mostra del 1947, lo fa soprattutto a sostegno
della tesi artistica, come dimostra la simultanea decisione di incorniciare le fotografie lasciando intravedere i bordi del negativo, per mettere a
tacere quanti sostenevano o avrebbero sostenuto che ritagliava le inquadrature in fase di stampa.
Non sono solo i fotografi a usare con oculatezza l’elemento dimensionale: quando Edward Steichen cura la mostra “The Family of Man”6 al
MoMA nel 1955, fa stampare le fotografie in grande formato per accrescere l’umanismo dei soggetti e colpire emotivamente gli spettatori con
campi visivi più corrispondenti alla visione naturale del nostro occhio.
La desiderabilità delle fotografie di grande scala deriva proprio da questo rapporto diretto tra occhio della macchina fotografica e occhio dello
spettatore: tanto più la fotografia si ingrandisce, tanto più entriamo nella
scena e abbiamo la sensazione di vedere “da protagonisti” ciò che ha
ispirato il fotografo.
Nella fotografia digitale e digitalizzata
Nella fotografia contemporanea, digitale o – come spesso avviene – digitalizzata a partire dal negativo in pellicola, la dimensione della stampa è
elemento portante della ricerca di un fotografo e si estende a una parte
dominante se non a tutta la sua produzione.
Se ne sono accorti al North Carolina Museum of Art dove, in seguito a
una politica di acquisizione di fotografia contemporanea, si sente l’esi-
143
Collezionare fotografia
genza di dare vita a una mostra che racconti come il fotografo si sia appropriato del grande formato per dare nuovo significato alle immagini.
Nel 2007 inaugurano “The Big Picture”, una mostra che mette insieme
23 opere fotografiche che “trasformano il vedere in un’esperienza partecipativa”, afferma la curatrice Linda Dougherty7.
La tendenza è inaugurata qualche decennio prima da Jeff Wall con i suoi
tableaux fotografici direttamente ispirati a opere pittoriche sostanziali
della storia dell’arte: in “The Destroyed Room” (1978), ad esempio, la
corrispondenza è con “La zattera della medusa”, un’opera di dimensioni
imponenti realizzata nel 1819 dall’artista francese Théodore Géricault e
fiore all’occhiello della collezione permanente del Museo Louvre a Parigi.
Sempre a partire dagli anni Settanta, l’artista Barbara Kruger si avvale
della fotografia in quanto strumento mediatico per eccellenza della cultura consumistica americana. Le immagini pubblicitarie sono diffuse su
larga scala, stampate a basso costo e rispondono a un immaginario popolare – immediato e universale – con cui l’artista ha avuto a che fare agli
esordi della sua carriera lavorativa in un’agenzia.
Nella sua produzione artistica, fotografie di cui non conosciamo la provenienza – forse ritagli di riviste – sono ingrandite al punto da mostrare
la grana della stampa a discapito della riconoscibilità del soggetto e parzialmente coperte da slogan focalizzati su questioni politiche e sociali in
cui domina un pensiero di matrice femminista.
La celebre opera “Untitled (I shop therefore I am)” (1983) misura 282 x
287 cm, proprio come un manifesto pubblicitario da esterni, assumendo
la duplice identità di spazio di critica ideologica e oggetto criticato al
contempo. La dimensione ha quindi un aspetto mimico nei confronti
della realtà, mentre il contenuto è artificialmente distorto, ingrandito,
bloccato.
Nelle sue fotografie monumentali, invece, Candida Höfer indaga lo spazio architettonico abitato dall’uomo coniugando lo sguardo oggettivo ereditato dai maestri Hilla e Bernd Becher con un fare antropologico.
Le biblioteche, i teatri, i musei sono i soggetti più gettonati dall’artista,
scelti come rappresentanti della nostra storia culturale. Il punto di vista è
centrale, la percezione è di uno spazio puro, intonso, pronto ad accogliere la presenza dell’uomo che tuttavia già si percepisce nei piccoli dettagli
dell’arredamento e nella disposizione razionale degli oggetti.
La prospettiva rinascimentale domina la scena e l’ambiente che avvolge
la parete ci invita a entrare e a rapportarci con una realtà frutto della no-
144
Dorothea Lange, Migrant Mother, California, 1936
© Dorothea Lange, courtesy of Library of Congress
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
stra interpretazione occidentale dello spazio. Anche le fotografie di Thomas Struth, Thomas Ruff e Andreas Gursky – gli altri influenti esponenti della scuola di Düsseldorf – presentano l’elemento dimensionale come
una scelta interna all’opera fotografica, inseparabile dalla sua concezione
di fondo. Nei lavori di Andreas Gursky, in specifico, l’ingrandimento
unito alla manipolazione digitale delle immagini fotografiche ha l’effetto
di attivare nello spettatore una reazione critica alla società contemporanea, alle degenerazioni consumistiche e a un senso di artificialità che le
fotografie univocamente tendono a suggerire.
In Italia, è nelle immagini dedicate alle architetture metropolitane di Olivio Barbieri che scala e manipolazione digitale, meglio ancora virtualità,
definiscono il significato della fotografia. L’artificio è tale da alterare la
percezione dello spettatore, che indotto in un primo momento a confrontarsi con il tessuto urbano dai colori sgargianti catturato dall’occhio
del fotografo, si ritrova afflitto dal dubbio che l’immagine non sia altro
che una mise en scène, il modello di una contesto urbano familiare ma in
qualche modo “altro” rispetto all’esperienza reale.
Se la fotografia professionale è appesa al muro
L’elemento dimensionale è condiviso anche dalla fotografia applicata – il
fotogiornalismo e la fotografia di moda per intendersi – introdotta nelle
istituzioni e nelle gallerie. Misure fino a due metri di base, combinate con
stampe particolarmente vivide e penetranti grazie alla scelta del metodo
cibachrome o cromogenico, trasmettono una nuova presenza alla stampa
inaugurando un periodo di altrettanti dubbi e riflessioni sull’estetismo
connesso a queste scelte tecniche. La questione si fa cruciale nel caso
del fotogiornalismo, intimamente connesso con la rappresentazione del
reale e del “ciò che è stato”, ma soprattutto mezzo di conoscenza di avvenimenti drammatici come guerre, carestie, stati di emergenza dovuti alla
povertà o all’inquinamento. A partire dalla seconda metà del Novecento, queste tematiche un tempo riservate esclusivamente alla documentazione fotografica, sono entrate nell’orbita della videocamera e ci hanno
raggiunto attraverso la televisione, il cinema e, infine, i canali web come
Youtube.com. A modificare ulteriormente modalità di ricezione e effetti
dell’informazione è arrivato il digitale, che ci ha imposto il decisivo distacco dal credere all’oggettività dell’occhio fotografico, e ci ha spinto a
146
imparare a non giudicare più univocamente le immagini fotogiornalistiche, ammettendo al contempo l’estetismo connesso a certe produzioni.
Così siamo arrivati al passaggio successivo: l’accettazione di queste immagini come qualcosa di più di una documentazione effimera e qualcosa
di meno di una riproduzione oggettiva, spesso ponte verso il mondo “in
movimento” del cinema e della televisione. Sono state le istituzioni dedicate alla fotografia a cogliere questa svolta metodica e concettuale, come
l’International Centre of Photography di New York, fondato da Cornell
Capa nel 1974 con la missione di “mantenere viva l’eredità di una fotografia impegnata”, che ha rivolto la propria attenzione negli ultimi anni
al confronto tra fotografia e video, immaginando, nel consolidamento di
questi due canali mediatici all’interno della società, un’espansione delle
potenzialità stesse della fotografia. Questa riflessione è sviluppata e approfondita anche attraverso la Triennale di Fotografia e Video, che ha
luogo dal 2003 presso la sede del museo.
Stessi gli intenti della mostra itinerante dal titolo “Off Broadway”, giunta al PAC Padiglione di Arte Contemporanea di Milano nell’estate del
2005, che si proponeva come un punto di osservazione sul mondo attuale
attraverso gli sguardi di sei fotografi dell’agenzia Magnum Photos.
La frase di Pessoa, “Ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare”, all’inizio del percorso, invitava lo spettatore a lasciarsi andare a
un’esperienza visuale non convezionale: la mostra constava infatti di sei
videoproiezioni e circa trecento fotografie di reportage e semplici frammenti di immagini trovate, tutte prive di etichette indicanti autori, tempi
e luoghi, tutte ugualmente piene e sensuali.
Il titolo della mostra faceva da collante per questi materiali tanto diversi,
richiamando l’idea di un teatro alternativo che rappresenta la realtà accettando l’imprevedibilità del risultato tipica di un approccio sperimentale.
Ma quanto realmente conta la dimensione?
Le critiche all’elemento dimensionale, diffuse con insistenza alla fine degli anni Novanta, continuano ancora oggi a ricordare allo spettatore che
una fotografia non si giudica a partire dalla sua fisicità, perché l’autorità
data dalla monumentalità è un fuoco fatuo, una scintilla pronta a spegnersi di fronte a un’altra fotografia stilisticamente simile. La dimensione, ancora una volta, non è un fine e deve essere attentamente valutata
147
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
all’interno dell’opera di uno stesso fotografo: se ben sintonizzata con gli
altri elementi della fotografia scompare, si nasconde lasciando emergere
narrative e poetiche relative all’immagine nella sua complessità.
Motivo per cui connotare negativamente la scelta di stampare in grandi
dimensioni è ugualmente un errore: la tecnologia ha aperto le porte a una
nuova opportunità, fornendo un’inedita chiave di accesso a determinate
fotografie e non solo una compensazione alla mancanza di contenuto di
altre. Lo hanno capito gli artisti che hanno cominciato a lavorare negli
anni Novanta e hanno trovato nella fotografia digitale e in un processo
di stampa molto più facile e potenziato per gamma di opzioni, uno dei
mezzi espressivi per eccellenza della propria pratica artistica.
E in campo fotografico l’accoglienza è stata ancora più euforica, come
già successo con altre introduzioni tecnologiche del passato, come la piccola Leica negli anni Trenta, che aveva fornito un impulso incredibile
al fotogiornalismo. In fondo, la fotografia è sostanzialmente legata alla
tecnologia e al suo progresso, e colui che se ne serve è ben consapevole
della sua anima mutevole.
In alcune circostanze, poi, la dimensione può modificare significativamente la percezione di un’opera. Wolfgang Tillmans è un esempio interessante a questo proposito: infatti, l’artista si è di recente dedicato a
una produzione fotografica astratta e sperimentale, una linea di ricerca
parallela rispetto a quella delle sue opere fotografiche passate, realizzata
direttamente nella camera oscura senza l’ausilio della macchina fotografica. Il processo, con ponderate esposizioni e operazioni che risultano
in sottili graffi di colore, diventa così il soggetto stesso dell’opera d’arte,
racchiusa in un foglio di carta fotosensibile di piccole dimensioni, 40 x
30 cm. Disinteressandosi al negativo, Tillmans crea un’opera unica, originaria, assimilabile a un disegno; quindi, una volta uscito dalla camera
oscura, scannerizza l’opera e la ingrandisce al punto da occupare tutta la
lunghezza di una parete domestica con un’altezza di circa 240 cm e una
larghezza di quasi 200 cm, in edizione di 1 più 1 prova d’artista.
Sul mercato, l’artista propone entrambe le produzioni, il “disegno” e la
sua immagine ingrandita che rimanda piuttosto all’idea dell’affresco, trasformando segni e toni in paesaggi astratti.
Certo è invece che nella maggior parte dei casi la scelta di variare le dimensioni si configura piuttosto come un tentativo di aggirare l’artifizio
dell’edizione, interpretato in maniera troppo restrittiva nell’ambito del
collezionismo di arte contemporanea.
148
Le stampe vintage e contemporanee
Il concetto di vintage
Quando le fotografie si pesavano e si compravano guardando alla quantità d’argento e alla qualità tecnica della stampa, nessuno vi scorgeva le
potenzialità di un linguaggio artistico. Il riconoscimento in questo senso
ha sancito il valore di altre caratteristiche a discapito della tecnica, e il
progresso ha aperto la strada alla tecnologia digitale, inaugurando una
nuova era per la fotografia analogica.
Le nuove tecnologie come la fotografia impongono sfide inedite al mercato
dell’arte, basato tradizionalmente sul principio dell’unicità e dell’originalità. Da quando non si realizzano più opere singole, ma multipli infinitamente riproducibili, esistono infatti due rischi concreti per il mercato
dell’arte e i suoi fruitori: la banalizzazione dell’opera per la sua abbondanza e diffusione, e la svalutazione sociale ed economica dell’arte per
la sparizione del fattore della rarità. La necessità di estendere l’etichetta di opera d’arte ai nuovi linguaggi basati sulla tecnologia, che a livello
estetico già influenzano quelli tradizionali, si accompagna alla scelta di
lasciare invariati i canoni di valutazione dell’arte per non incappare in
questi rischi.
Si attivano allora meccanismi di creazione e controllo della rarità, che
nella fotografia corrispondono a tre precise forme di escamotage: la firma,
la numerazione delle stampe e la traslazione del concetto di autenticità, a
supporto di una distinzione tra le diverse stampe di una fotografia. Questa distinzione ha portato negli anni Settanta alla diffusione del concetto
di “vintage”, che qualifica la stampa eseguita a distanza temporale ravvicinata allo scatto della fotografia, tipicamente entro i cinque anni, ed è
eleggibile di un prezzo premio rispetto alle altre stampe – tarde o moderne
– esistenti del medesimo scatto. Una stampa vintage è sensibilmente più
costosa rispetto alle altre versioni del medesimo scatto ed è sempre più
interpretata in termini di investimento in quanto coniuga due garanzie,
rarità e valore storico.
Anzitutto la rarità, dato che fino alla seconda metà del Novecento era
piuttosto difficile che un fotografo stampasse numerose copie dal negativo, in quanto non esisteva un mercato in grado di assorbirle. La situazione cambia radicalmente con la diffusione della tecnologia digitale, che
permette la perfetta riproducibilità delle immagini fotografiche, riducen-
149
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
do l’impegno manuale richiesto per la realizzazione di ogni copia in camera oscura. Per la prima volta le scelte riguardanti la stampa sono gestite interamente nell’ambito del programma di elaborazione fotografica
installato sul computer e possono essere memorizzate per le successive
necessità. Un risultato qualitativo garantito e a minore costo8, associato
a un vivo interesse del mercato dell’arte per l’opera fotografica, induce
quindi i fotografi a orientarsi verso una maggiore sperimentazione nei
processi di stampa, negli ingrandimenti e nei supporti, dalla carta fotografica tradizionale all’alluminio, senza mai tuttavia perdere di vista la rarità
attraverso il meccanismo dell’edizione.
Più di tutto però, il processo che permette di aumentare il valore di una
determinata stampa fotografica a discapito di altre dello stesso scatto si
basa sull’idea che un’opera vintage rispecchi più sinceramente le reali intenzioni del fotografo dal punto di vista tecnico e quindi del risultato:
scelta della carta fotografica, tonalità, chiaroscuro, tipologia di stampa.
Nel caso di immagini classiche di Ottocento e inizio Novecento, la dicitura vintage può corrispondere anche a un maggiore pregio artistico dato
dall’intensa profondità tonale delle fotografie stampate sulle carte fotografiche più datate, ricche di sali d’argento e via via sostituite con altre
più economiche dai laboratori fotografici. La fotografia vintage può essere
anche dieci volte più costosa di una stampa successiva, e questo ha richiesto la parallela diffusione di meccanismi di trasparenza, volti a proteggere
la buona fede del compratore da eventuali truffe, e di consulenti ad hoc.
Per le implicazioni di natura economica, l’uso del termine vintage si è
diffuso anche nei riguardi di stampe fotografiche usate in campo editoriale e pubblicitario, dove manca la componente del controllo della stampa
da parte del fotografo, al punto che ci possono essere ritagli e variazioni
significative nelle tonalità senza che questi sia interpellato. Non da trascurare, inoltre, il fatto che in questi campi non abbondano professionisti della manipolazione e gestione delle fotografie, né vige un prioritario
interesse verso la conservazione della stampa nelle migliori condizioni
possibili.
La fortuna di questo criterio di valutazione economica delle stampe ha
avuto il difetto di non corrispondere spesso a una reale, percettibile diffe-
renza. Dunque, il concetto c’è nel senso che data del negativo e data della
stampa sono inequivocabilmente vicine, ma è svuotato di vero significato
e non spiega il motivo del valore economico addizionale della fotografia.
Diversi sono i motivi per cui la stampa vintage può non rappresentare la
migliore versione possibile dell’immagine. A volte sono i difetti conservativi a oscurare l’effettivo beneficio derivante dall’acquisto di una stampa a
dispetto dell’altra. Senza imbarazzi, invece, in alcune fotografie è davvero
impossibile apprezzare a occhio nudo gli elementi identificativi del vintage. Certo, l’occhio del collezionista è meno tecnico e abituato di quello
dell’esperto, ma ci sono casi – e molti – per i quali non si può affermare
il primato della stampa vintage neppure da un punto di vista tecnico professionale.
Ci sono, poi, fotografi il cui rapporto con la camera oscura si è evoluto nel
tempo e, per loro stessa ammissione, le stampe tarde hanno forse una nota
in più rispetto alle prime interpretazioni. Come Bill Brandt, il fotografo
passato alla storia per aver raccontato, con una buona dose di sarcasmo,
gli effetti della crisi economica nei diversi substrati sociali inglesi nel libro fotografico The British at Home (1936). Altri, invece, hanno cambiato
sensibilmente il proprio approccio alla stampa.
Imogen Cunnigham e il già citato Ansel Adams superano il tanto discusso
criterio della perfetta riproducibilità fotografica, intensificando le versioni dei loro scatti con risultati sempre più drammatici.
L’effetto vintage deve essere allora riesaminato con rispetto al caso specifico. Infatti, il mercato tende sempre e comunque a conferire al vintage
un prezzo tale da renderlo il corrispettivo di una stampa “di lusso”, senza
alcuna aderenza rispetto alle qualità concrete della stampa.
È la rarità in termini assoluti che conta. Ma oggi è giusto che un collezionista si faccia le sue domande e decida se – ceteris paribus – sia realmente
intenzionato a pagare prezzi tanto superiori rispetto alle stampe moderne
dello stesso scatto.
Tanto più che sono ben rari anche gli operatori economici in grado di
distinguere le differenze tra le diverse stampe. Nel mondo delle gallerie
e delle agenzie che trattano fotografie vintage la questione è abilmente
risolta con il certificato di autenticità, in cui si confermano data e provenienza della fotografia e si giustifica il prezzo pagato dal collezionista.
Invece, le case d’asta hanno scelto di tutelarsi rispetto alle affermazioni
dei propri esperti, dichiarando di garantire unicamente l’attribuzione nominale delle fotografie vendute, anche se, nelle schede descrittive di ogni
150
151
Quando scegliere il vintage?
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
opera non mancano ricche congetture rispetto alle origini della fotografia.
Basti pensare al controverso caso della fotografia di una foglia messa
all’asta da Sotheby’s nella sessione newyorkese della primavera del 2008
e ritirata ufficialmente per la necessità di effettuare ulteriori accertamenti. La fotografia, trattata dalla stessa casa d’asta nel 1989 per un prezzo
di 900 dollari, appariva nel catalogo di allora datata 1840-45 e attribuita
a un collaboratore di Fox Talbot, anche se numerosi specialisti l’avevano
considerata successiva e frutto di un’esperienza amatoriale.
Lo studioso Larry Schaff, consultato da Sotheby’s e non estraneo a precedenti collaborazioni con il venditore, azzarda invece che si tratti di
un’opera di Thomas Wedgwood o James Watts, due gentiluomini che
avevano compiuto numerose sperimentazioni in campo fotografico senza
essere mai riusciti a stabilizzarle. La sensazionale questione della protofotografia raggiunge le più grandi testate internazionali stimolando una
serie di obiezioni degli specialisti del settore che costringe la casa d’asta a
ritirare il pezzo a cinque giorni dall’evento9.
In passato la questione è stata risolta diversamente: nel 2001 è dovuto
intervenire l’FBI per investigare il caso di numerose stampe vintage firmate da Lewis Hine, vendute all’asta negli anni Novanta per prezzi anche
superiori ai 100 mila dollari. Uno dei collezionisti che se le era accaparrate aveva svolto delle ricerche ex post, scoprendo che le stampe vintage
di Hine non erano mai apparse in condizioni così ottimali come quelle di
sua proprietà e, preso dal dubbio di essere stato truffato, aveva finalmente
esposto le stampe al controllo degli esperti. Confermata la presenza di illuminatori ben successivi alla morte di Lewis Hine, vi è stato un ricorso al
tribunale e tutte le parti coinvolte sono state costrette a prendersi carico
delle rispettive responsabilità pecuniarie. Resta la domanda: se il collezionista non si fosse accorto delle incongruenze, sarebbe forse rimasto lo
status quo? E se le avesse rivendute in asta, sarebbero passate ancora una
volta come opere vintage?
Non mancano esempi meno sensazionali di errori grossolani nella compilazione delle schede tecniche delle opere fotografiche, sia da parte degli
esperti – tutelati – delle case d’asta che degli assistenti di galleria, per cui
il collezionista deve sempre svolgere una ricerca preventiva se acquista
opere il cui prezzo è – teoricamente – giustificato sulla base di dettagli
tecnici come appunto il vintage.
Tutt’altro è il punto di vista nel mercato dell’arte, dove la stampa è sempre
un argomento di difficile approccio in quanto rientra in quelle caratteri-
stiche tecniche del mezzo fotografico che sono state trascurate, anzittutto
dagli artisti che se ne servivano negli anni Settanta per registrare il prodotto di happening, installazioni e situazioni anonime della vita quotidiana, quindi dagli artisti che negli anni Novanta hanno cominciato a
esprimersi attraverso molteplici linguaggi, incluso quello fotografico.
Gli stessi addetti al mercato dell’arte, ormai abituati a tecniche artistiche inusuali – rispetto alla sfera delle tradizionali belle arti – e a materiali di provenienza domestica e quotidiana, hanno mostrato sempre
meno interesse per gli aspetti legati al mezzo fotografico, soprattutto alla
stampa, usata nel settore più conservatore della fotografia come fattore di
discriminazione per valutare immagini anche molto diverse da un punto
di vista concettuale e ragione dell’appiattimento di prezzi in tempi non
sospetti. Queste osservazioni evidenziano ancora di più le differenze tra
due mercati, quello dell’arte e quello della fotografia tradizionale, che per
quanto tangenti e vicendevolmente debitori conservano le proprie specificità e credenze, comprese le proprie regole interne di funzionamento.
152
153
Cosa cambia con il digitale
Le fotografie analogiche possono essere sbiadite, strappate, graffiate, rovinate da muffa, ferro, cancellature, corrose, sporche, ammaccate o piegate.
Sappiamo però che la tradizionale emulsione ai sali d’argento e tutti i
metodi utilizzati per fissare quelle immagini fotografiche su supporto materiale – dall’albume d’uovo fino al platino o al palladio – hanno centrato
il proprio obiettivo: rendere la fotografia eterna. Non possiamo dire lo
stesso per la fotografia digitale, non ancora almeno. La tecnologia digitale è, infatti, recentissima. È del 1972 l’annuncio dell’azienda americana
Bell Systems circa l’uso di un dispositivo ad accoppiamento di carica ccd
– charged coupled device – in una fotocamera a stato solido. Prima era
stato l’incontro tra la tecnologia ottica – il principio della camera oscura
basato sulla replica del sistema di rappresentazione della prospettiva rinascimentale (Leon Battista Alberti, De Pictura, 1433) – e quella chimica
– l’uso di minerali sensibili all’effetto della luce – a permettere la creazione di un’immagine fotografica. Durante lo scatto, un segnale continuo
di informazioni si registrava in modo definitivo su un supporto trattato
con un'emulsione al bromuro d’argento, in cui gli atomi si raggruppavano
quando colpiti dalla luce che transitava attraverso l’obiettivo.
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
Alle origini, le prime macchine fotografiche basate specularmente sul
principio della camera oscura restituivano un’immagine del mondo reale
a testa in giù, come suggerisce l’artista canadese Rodney Graham nella serie “Tree Portrait”, dove i suoi alberi capovolti sfidano la forza di gravità.
Invece, il sistema di rappresentazione digitale recepisce lo stesso segnale continuo di informazioni attraverso la tecnologia ottica, ma ingloba
queste informazioni, invece che sulla lastra di vetro o sulla pellicola, su
un ccd: un microchip di silicio ricoperto da una matrice di elettrodi che
reagiscono al segnale generando delle piccole cariche elettriche tra di loro.
Tre elettrodi formano un pixel e tanto più è elevato il numero di pixel,
tanto maggiore è la possibilità che l’informazione sia precisa.
In un secondo tempo, quanto selezionato dal ccd è convertito in un sistema binario per essere letto dal meccanismo computerizzato della fotocamera. Dopo il trasferimento dei dati il ccd, al contrario della pellicola e
della lastra di vetro, torna vergine e può accogliere nuove informazioni
dalla realtà.
Il mercato delle fotocamere digitali si è sviluppato soprattutto a partire
dagli anni Novanta, in risposta a una diffusione di prodotti di fascia alta
e di largo consumo. Nel frattempo sono stati risolti i problemi iniziali,
che includevano consumi di energia e livelli di rumore elevati, limiti nei
supporti di memoria, lentezza del funzionamento, qualità scadente dello schermo lcd che sostituisce il mirino. Eppure, restano delle questioni
aperte in riferimento alle immagini fotografiche digitali prodotte in questi
ultimi anni. Come conservarle? Quanto durano le impressioni e quali possono essere i fattori di degrado?
I tecnici stanno ancora studiando la qualità e la permanenza dei toni e
dell’immagine, ma già iniziano a delinearsi i primi criteri empirici di valutazione. Argomento non secondario, dato che nel digitale “come in tutti
i processi di acquisizione ed elaborazione delle immagini, è il risultato
finale che conta”10. Tanto più che oggi si stampano in digitale anche fotografie nate sotto il segno dell’analogico, scannerizzando opportunamente
il negativo. Gli Estate di Luigi Ghirri e William Eggleston adoperano, ad
esempio, la tecnica della stampa a inchiostro, che sostituisce la stampa
cromogenica e quella per trasferimento di coloranti, usate dai due fotografi negli anni Settanta e oggi sempre più rare.
Nella macroclasse della stampa a inchiostro vige, comunque, una differenza tra i due ingredienti principali, che sono alternativamente i coloranti
(dye based) o i pigmenti (carbon based). I primi penetrano nel supporto
di stampa e ciò favorisce una finitura resistente e una certa trasparenza
e ampiezza cromatica che ricordano il procedimento per trasferimento
di coloranti. I secondi restano in superficie ma garantiscono una notevole stabilità anche se esposti a forte illuminazione come spesso accade in
occasione di mostre. Ma è soprattutto nei confronti del tempo che questi
due ingredienti mostrano la loro vera natura. Mentre il colorante tende,
infatti, a essere completamente assorbito dal supporto, risultando in una
minore permanenza dell’immagine; il pigmento sembrerebbe poter durare fin a 200 anni in condizioni ottimali, ed è per questo che è favorito per
le fotografie d’archivio.
Accanto alla stampa a inchiostro, un altro tipo di stampa digitale particolarmente apprezzata da fotografi e artisti è quella laser con tecnologia
Lambda, che permette di ottenere un’immagine nitida anche in grandi
dimensioni per la totale assenza di retino, coniugandovi un’ampia gamma
di toni e sfumature.
154
155
La firma, il timbro e altre annotazioni
Quando, negli anni Venti e Trenta, le fotografie erano destinate alla carta stampata, la maggior parte di esse erano anonime, anche nelle riviste
di circoli d’arte come quello surrealista. Non esistevano meccanismi che
premiassero l’autenticità dell’opera fotografica e l’attenzione era completamente rivolta allo scatto. Certo non sono mancate eccezioni tra quei fotografi che sempre hanno protetto il lato artistico del loro lavoro frequentando movimenti e associazioni dedicate alla fotografia, come il gruppo di
Camera Work (1903), f/64 (1932) o la Photo League (1936).
Edward Weston, ad esempio, già in quegli anni collocava le sue iniziali sul
fronte della stampa poi aggiungeva la data e una particolare numerazione
sul retro.
Naturalmente, le cose sono cambiate: firma, timbro e annotazioni non
sono più un’eccezione, ma piuttosto la regola e vale sempre la pena consultarsi con uno specialista del settore prima di acquistare una fotografia
che non rechi almeno uno di questi riferimenti all’autore. Per i fotografi
contemporanei, se ne occupano i soggetti deputati alle vendite che hanno un rapporto continuativo con l’artista in questione, fatto che si può
facilmente verificare attraverso qualche domanda di rito: ultima mostra
presentata, opere in magazzino o reperibilità dei lavori recenti.
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
L’impresa si complica nel caso di fotografi defunti, che hanno calcato aree
di sperimentazione eterogenee e sono stati così accolti tanto nel mondo
editoriale che in quello artistico. Le loro opere sono estremamente disperse e spesso i familiari che hanno ereditato il patrimonio di negativi
e stampe rimasti nello studio non hanno le competenze tecniche per archiviarli e conservarli. Fortunatamente, e soprattutto da quando le fotografie hanno maturato un valore economico nel mercato dell’arte, si sono
diffuse fondazioni create dagli stessi fotografi o dai citati eredi per gestire
l’eventuale ristampa delle fotografie e il processo di autenticazione dei
materiali fotografici in circolazione.
Alcune di queste fondazioni hanno recepito le regole del mercato dell’arte
e della fotografia in modo severo, abbinando la scelta di edizioni ridotte
a livelli qualitativi elevati della stampa, come l’Estate di Diane Arbus;
altre hanno stabilito invece di non stampare più, affidando la completa
gestione delle stampe fotografiche già in circolazione ad alcune gallerie
con contratti più o meno esclusivi a livello geografico e internazionale.
Tra queste, le Fondazioni di Helmut Newton, quella di Robert Mapplethorpe e di Henri Cartier-Bresson, tutte create dai fotografi stessi poco
prima di morire. Altre ancora, come l’Archivio Mario Giacomelli, vende
direttamente dal sito internet le fotografie dell’artista, specificando che si
tratta di quelle stampate da Giacomelli stesso e accumulate negli anni nel
suo studio.
dell’etichetta da applicare sul retro della fotografia con tutti i dettagli del
caso, compreso il logo della galleria che tratta il loro lavoro. Martin Parr e
Guy Tillim, ad esempio, hanno optato per questa modalità, che consente
di vendere la stampa nel passepartout, lasciando piena libertà al collezionista circa la decisione di applicarla su alluminio, inserirla in una cornice
colorata o appenderla tale e quale al muro.
Il timbro e le annotazioni
Ecco un elemento che oggi mette tutti d’accordo: la firma sulla stampa. C’è
chi preferisce collocarla davanti alla fotografia, in basso a destra, memore
degli usi e costumi dei pittori che non hanno mai mancato di affermare
la paternità delle proprie creazioni con grafie che quasi riproponevano in
piccolo le forme e le modalità di creazione del dipinto. Che dire altrimenti
della sofisticata firma di Magritte o di quella sconclusionata di Picasso,
entrambe manifesto del carattere artistico dei due autori? Altri, la maggioranza, firmano sul retro, accompagnandovi anche la data, il luogo ed
eventualmente il titolo dell’opera o della serie; spesso scrivendo a matita
per evitare possibili inconvenienti di tipo conservativo che possono derivare dall’uso di pennarelli.
Recentemente, alcuni fotografi e artisti hanno scelto una terza via, quella
L’uso del timbro è un costume del fotografo più che dell’artista. Può essere
tradizionale o a secco e si accompagna spesso con altre forme di identificazione quali firma, data e annotazioni personali di varia natura.
Tra gli estimatori del timbro a secco c’è il fotografo brasiliano Sebastião
Salgado, che tratta le proprie fotografie attraverso l’intermediazione di
Amazonas Images, l’agenzia da lui stesso costituita a Parigi nel 1994.
Le sue fotografie si riconoscono per la timbratura a secco sul fronte della
stampa, con il nome esteso del fotografo, e per l’aggiunta sul retro, in matita, delle informazioni relative a titolo e data dell’opera, nonché la firma.
Storicamente diffuso, il timbro tradizionale è oggi usato soprattutto dagli
Estate che curano la produzione del fotografo defunto o ristampano – se
abilitati – alcune delle fotografie più famose in edizione.
Le ristampe dell’Estate di Herbert List, membro Magnum e stimato fotografo di moda presso la rivista Harper’s Bazaar, riportano il timbro della
Fondazione e il nome e cognome di colui che se ne occupa, Olaf Richter.
Al contrario, Simone Giacomelli, figlio del fotografo di Senigallia, si limita ad autenticare le foto del padre tramite l’opera dell’archivio a lui
dedicato e ha scelto il timbro dopo un primo periodo in cui certificava
con la propria calligrafia l’autenticità della stampa. Il timbro tradizionale
vanta di per sé alcune qualità informative aggiuntive rispetto alle altre
forme di riconoscimento e riconducibili alla presenza di caratteri formali
e/o contenutistici, come ad esempio l’indirizzo dello studio del fotografo. Nell’universo fotografico di Gianni Berengo Gardin, che conta più di
un milione e trecentomila scatti, l’indirizzo dello studio è talvolta l’unica
fonte informativa da cui dedurre il periodo storico di esecuzione della
stampa, in virtù dei numerosi traslochi affrontati dal fotografo, errante
tra Italia, Francia e Svizzera e sempre attento ad aggiornare il timbro.
Per quanto concerne le annotazioni, c’è da sbizzarrirsi.
156
157
La firma
Collezionare fotografia
Il valore dell'opera fotografica
Focus on
Non mancano didascalie, numeri di archiviazione, date, luoghi, dediche
ma anche dichiarazioni di intenti, se così può essere definita la frase “Fotografia non manipolata al computer” che recentemente applica Gianni
Berengo Gardin alle sue stampe fotografiche in aperta polemica con la
diffusione della fotografia digitale. Nel vintage, invece, si trovano soprattutto le dediche, poiché le stampe erano spesso doni personali ad amici e
sostenitori.
158
Comprare una serie o una foto singola?
L’universo fotografico possiede una tale varietà, che rispondere univocamente a questa domanda è impossibile. Tuttavia, analizzando caso
per caso in profondità, è possibile capire la genesi e il significato di una
fotografia, e di conseguenza scoprire se, estrapolata singolarmente da
una serie, possa mantenere intatto il suo valore comunicativo.
Scorrendo un catalogo di fotografie datato anni Settanta, non è raro
trovarsi di fronte ad una sequenza di immagini che si dipanano come
le diapositive di un viaggio o i frammenti di un paesaggio, la cui unità
implica la possibilità di un concetto più chiaro e autentico.
Il linguaggio seriale delle fotografie dei Becher o i pensieri per immagini di Luigi Ghirri ne sono un esempio, tanto più che coniugano un
aspetto di ricerca concettuale che permea le singole fotografie e il tutto
con un fare documentario, per cui sembra ogni volta di essere davanti
all’inquadratura di una realtà significativamente più ampia. Anche nel
contemporaneo, molti fotografi restano intimamente legati all’idea di
sequenzialità che si trova nel reportage, nell’archivio o ancora nel progetto editoriale, prima destinazione privilegiata della fotografia. E non
è una tendenza circoscritta quanto una scelta diffusa, che può riguardare il fotografo e l’artista in tutto o in una parte specifica dell’opera,
attraverso i diversi generi fotografici, nella fotografia di moda, come nel
ritratto, nel paesaggio o nel fotogiornalismo.
Osservando l’approccio di due fotografe coetanee rispetto al tema del
ritratto femminile, la ceca Jitka Hanzlová e l’olandese Rineke Dijkstra,
la questione posta risulta senz’altro più chiara. Nella serie “Female”
(1997-2000), la prima ha indagato la condizione della donna rivolgendo
la propria attenzione a sconosciute incontrate per strada. Le sue fotografie accendono un confronto tra queste varie figure, in un dialogo
multiculturale che fa emergere un punto di vista sul mondo e il nostro
modo di abitarlo. Nelle numerose serie fotografiche dedicate all’universo della donna, Rineke Dijkstra è, invece, interessata non allo spazio
quanto al tempo e ritorna anche sui medesimi soggetti a distanza di
anni per leggere nella loro attitudine, nello sguardo e nelle movenze,
i segni di un cambiamento. Oppure si concentra su una determinata
condizione come può essere quella dell’adolescenza, della gravidanza
o del servizio militare.
Immagini fotografiche ugualmente ritrattistiche possono avere uno
159
Collezionare fotografia
Focus on
sbocco diverso nel collezionismo. Jitka Hanzlová vende di solito le fotografie singolarmente, ma la possibilità di comprarne più di una relativa alla stessa serie apre un nuovo orizzonte riflessivo sottile per capire
la filosofia della fotografa, il concetto e la narrazione interna all’immagine e il dialogo con le altre della serie. E il discorso nel suo caso vale
anche per la serie “Forest” (2000-2005), cui non a caso è stato dedicato il progetto artistico di destinazione libraria della casa editrice tedesca Steidl. Al contrario, Rineke Dijkstra pensa ogni fotografia come
un’entità singola, fusa in un unicum essenziale coniugando gli aspetti
formali – come la luce, il colore e la composizione – e informali – come
lo sguardo del soggetto o la sua gestualità.
160
I prezzi delle opere storiche e
del contemporaneo
Alle conversazioni organizzate da Art Basel 05, Maria De Corral, ai
tempi curatrice della collezione di arte e fotografia dell’impresa di telecomunicazioni spagnola Téléfonica, affermava: “quando l’arte contemporanea supera nel prezzo il materiale storico, allora sai che c’è
un problema. Eppure, anche se il problema è di facile definizione, non
saprei come risolverlo”11.
Non lo si può negare, è un fenomeno piuttosto strano, e nel campo
della fotografia pure usuale. In passato si trattava di casi specifici, che
in un mercato inesistente riuscivano comunque ad attrarre su di sé
l’attenzione; Ansel Adams, Stephen Shore, Mario Giacomelli tra gli altri.
Ma oggi più che mai, il valore aggiunto accordato alle opere contemporanee rispetto a quelle storiche è un caso di interesse sociologico
ormai generalizzato.
Si potrebbe avanzare un’ipotesi che fa leva sul meccanismo identitario innestato dalle immagini fotografiche. Le ambientazioni ricercate
o ricreate nelle fotografie a partire dagli anni Novanta fanno spesso
esplicito richiamo al materiale fotografico documentario di cinquanta
anni prima, aggiungendo riferimenti all’attualità presi a prestito dalle
mitologie collettive di un pubblico non specializzato.
Nelle immagini di Andreas Gursky prendono forma architetture e paesaggi identificabili con l’ausilio di titoli rivelatori: scopriamo così che la
decadente costruzione multipiano che occupa a tutta pagina la stampa
fotografica “Montparnasse” si trova nell’omonimo quartiere parigino
caratterizzato per l’eleganza dell’architettura di epoca haussmaniana,
nel quale però esistono edifici di costruzione post guerra di dubbio
gusto e dimenticati dalla municipalità. Questa immagine colpisce inizialmente per la sua presenza fisica, alterata e rafforzata digitalmente
tale da diventare più reale del reale; poi affiora il dialogo con le linee
geometriche dei quadri di Mondrian e con il rigore documentario delle
fotografie dei nuovi paesaggisti degli anni Settanta, da Lewis Baltz ai
coniugi Becher, maestri di Gursky.
Quando arriva in asta, però, emana un appeal inedito, un’autorevolezza non paragonabile a quelle dei fotografi citati. Stesso discorso per le
opere di fotografi contemporanei la cui pratica sembra a primo impatto
molto distante: le immagini di Gregory Crewdson, ad esempio, che si
161
Collezionare fotografie
fotografia
Il valore dell'opera fotografica
rifà al tradizionale stile documentario di Walker Evans esaltando un’atmosfera di suspense tipica dei film di paura di David Lynch e Stephen
Spielberg; le fotografie concettuali di Cristopher Williams e i ritratti di
Collier Schorr e Rineke Dijkstra, riflettendo sull’identità del soggetto
nella fotografia familiare, sembrano invitare lo spettatore a eliminare le
distanze tra l’esperienza personale e la storia della fotografia.
Queste immagini sono epifaniche, raccontano una storia verosimile
ma la presentano con tale precisione e imponenza da accentuare il
processo di identificazione tra immagine e reale. La grandezza/grandiosità della stampa e l’uso sensibile del colore, oltre a un inquadratura interna alla scena, non lasciano scampo. Il principio di originalità
che le contraddistingue sta dunque nella capacità propria dell’immagine di essere per l’osservatore un monumento alla velocità e alla
società contemporanea, ma al contempo anche una scena autonoma
da un preciso contesto spazio-temporale. Per questo non è un errore
dire che spesso i collezionisti interessati a queste immagini fotografiche sono più interessati all’immagine che al percorso artistico di un
certo fotografo: la forza dell’immagine e il suo esclusivo contatto con
lo sguardo dell’osservatore diventano il punto focale di un’intesa che
si intensifica nel tempo e determina l’ascesa dei prezzi di certe immagini a dispetto di altre.
È per questo anche che qualunque previsione rispetto ai prezzi di
queste immagini fotografiche può sembrare oggi un calcolo inutile e
affrettato: la questione è ancora in pieno svolgimento e riguarda il nostro rapporto con una realtà che tende a sfuggirci di mano e ci porta
a rifugiarci in queste immagini a metà strada tra fatti concreti e immaginario, un punto di appoggio e di autodefinizione rispetto al mondo.
162
Note
1. Nel 1964 John Szarkowski, allora direttore del Dipartimento di Fotografia del MoMA
di New York, acquista alcune immagini di Mario Giacomelli della serie dedicata a Scanno.
Negli anni successivi lo include nella celebre mostra “The Photographer’s Eye” (1966),
mentre il suo lavoro è sempre più presente nel panorama istituzionale internazionale, dal
Baltimore Museum of Art al George Eastman House.
2. La fotografia chiudeva il percorso della storica mostra “The Family of Man” (1955),
curata da Edward Steichen al MoMA di New York.
3. La decisione deriva dall’impossibilità di effettuare una previsione circa l’interesse dei
collezionisti nei confronti di una ricerca artistica inedita e le singole opere presentate. Questo limite oggettivo si unisce al fatto che il mercato dell’arte non brilla per trasparenza e
prezzare individualmente le opere – senza una coerenza di fondo – può provocare un senso
di disordine nel collezionista e la percezione di essere vittima di un imbroglio.
4. Si veda il box dedicato al Diritto di Seguito .
5. Le misure in pollici sono 39 x 55 e un pollice equivale a 2,5 cm.
6. “The Family of Man”, la mostra curata da Edward Steichen al MoMA e finanziata in
parte dal U.S Information Service e dall’azienda americana Coca Cola, è stata spesso nel
mirino dei critici e degli osservatori che vi hanno visto uno strumento di manipolazione
politica.
7. Dal sito del North Carolina Museum of Art: www.ncartmuseum.org.
8. Si intende il costo complessivo, che include denaro e manodopera.
9. Per un approfondimento sulle argomentazioni del caso, si consiglia l’articolo di Alex
Novak pubblicato sulla newsletter E-Photo # 148 del 28 Settembre 2008.
10. Dizionario della fotografia (Einaudi 2009) a cura di Gabriele D’Autilia e Robin Lenman.
11. Maria de Corral, Art Basel Conversations, giugno 2005.
163