università degli studi di macerata dipartimento di ricerca

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università degli studi di macerata dipartimento di ricerca
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO DI RICERCA LINGUISTICA, LETTERARIA E FILOLOGICA
Corso di dottorato di ricerca in
INTERPRETAZIONE E FILOLOGIA DEI TESTI LETTERARI
E LORO TRADIZIONI CULTURALI
Ciclo XXV
Orientalismo e alterità.
Percorso attraverso i resoconti di viaggio e la memorialistica coloniale italiana
Tutor
Dottoranda
Chiar.mo Prof. Laura Melosi
Dott.ssa Silvia Caserta
Coordinatore
Chiar.mo Prof. Massimo Bonafin
Anno 2013
Ad Ada
Premessa
Il presente lavoro nasce e si sviluppa all’interno del Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale Colonialismo
italiano: letteratura e giornalismo cofinanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
per gli anni 2006-2008 e 2009-2011. Al progetto, coordinato a livello nazionale da Simona Costa
dell’Università di Roma Tre, hanno collaborato singole unità di ricerca delle Università di Firenze, Perugia,
Perugia Stranieri e Macerata.
Con i preziosi consigli e suggerimenti di Gianluca Frenguelli, responsabile dell’unità di ricerca maceratese, e
della mia tutor Laura Melosi, attivamente coinvolta nel medesimo progetto, ho ritagliato il mio specifico
ambito di ricerca, che si è focalizzato sulle opere di viaggio prodotte lungo tutto l’arco dell’avventura
coloniale italiana. L’archivio digitale “Italia coloniale” (www.italiacoloniale.it), che raccoglie i dati
bibliografici, corredati da utilissime note contenutistiche, delle indagini e degli spogli documentari condotti
dal gruppo di lavoro maceratese, ha costituito per me un indispensabile supporto nell’individuazione del
materiale esistente. Nello stesso database sono confluiti, in un secondo momento, i risultati delle mie
personali ricerche catalografiche e bibliografiche, condotte in particolar modo presso la Biblioteca della
Società Geografica Italiana a Roma.
Infine, un contributo essenziale alla comprensione e all’inquadramento delle tematiche coloniali in una
prospettiva interdisciplinare e internazionale mi è stato fornito dagli stimoli culturali raccolti durante i mesi
di studio e di ricerca presso la Cornell University di Ithaca. In questa sede ho tratto immenso profitto dalla
ricchezza bibliografica a mia disposizione e soprattutto dallo straordinario sostegno culturale e umano di
Karen Pinkus.
Orientalismo e alterità.
Percorso attraverso i resoconti di viaggio e la memorialistica coloniale italiana
Introduzione. Il faticoso recupero di una memoria scomoda
1
1. Il passato coloniale italiano: rimozione e mistificazioni
1
2. Tra nostalgia e condanna
6
2.1 Modulazioni letterarie della memoria recente: testimonianze degli anni Cinquanta
8
2.2 Giuseppe Berto: fedeltà alla patria e autoassoluzione
9
2.3 Rancore e incomunicabilità nei ricordi di Mario Tobino
14
2.4 Ennio Flaiano anticolonialista?
24
3. Prospettive
36
Cap. I La letteratura coloniale: fonti e problemi
39
1. Un’impostazione unilaterale
39
2. Rare eccezioni: il diario di Fesseha Giyorgis
42
3. Indispensabili filtri interpretativi
47
4. Per una periodizzazione della letteratura coloniale
50
5. Travel writing
58
Cap. II Pionieri ed esploratori: italiani in Africa nel XIX secolo
69
1. Viaggiatori di fine secolo
69
2. Civiltà vs barbarie: tra innocenza e consapevolezza
74
2.1 Carlo Piaggia: un selvaggio tra i selvaggi?
76
2.2 Primitività tra idealizzazione e condanna: Arturo Issel e Luigi Pennazzi
81
2.3 Fascino di superficie e disprezzo profondo: le due facce della medaglia in Pippo Vigoni
85
2.4 L’ironia pungente di Augusto Franzoj
91
2.5 Gustavo Bianchi e la nuova logica del profitto
92
2.6 Il “paese degli aromi” di Robecchi-Bricchetti
107
2.7 Lo spirito “scientifico” di Vittorio Bottego
117
2.8 Un politico in colonia: Ferdinando Martini
124
3. La donna indigena
132
3.1 Una lezione sul rispetto dei ruoli
134
3.2 “La curiosità è donna”
136
3.3 Le “piagnone”
138
3.4 La Venere Nera
142
3.5 Sfruttata e prostituta
146
3.6 Una meticcia
151
4. Il paesaggio
153
4.1 Esotismo come estetica del sublime
156
4.2 Idealizzazione stereotipica
163
4.3 La rivincita europea e il paesaggio urbano
166
Cap. III Alla conquista dell’Africa tra nuove e vecchie frontiere.
Esperienze di viaggio agli esordi del Novecento
171
1. Risorgere dalle ceneri: l’atteggiamento coloniale italiano dopo Adua
171
2. La “terra promessa”: italiani in Libia
175
2.1 Per un rinnovato impero
178
2.2 Una nuova attenzione all’uomo: tra razzismo e psicologia
184
2.3 Testualizzazione e teatralizzazione
190
3. Notizie dal fronte orientale
195
3.1 La battaglia di Adua tra rimozione e mitizzazione
195
3.2 Renato Paoli e Carlo Citerni: quando passato e presente convivono
200
3.3 Il paesaggio: godimento per gli occhi
204
3.4 La spettacolarizzazione dell’altro come preludio al razzismo
209
4. Due donne in Africa
216
4.1 Una duchessa tra i “selvaggi”
219
4.2 La sospetta filantropia di Rosalia Pianavia-Vivaldi
224
Cap. IV Fascismo e AOI: propaganda, mito, razzismo
231
1. L’impero coloniale fascista tra eredità liberali e spinte innovative
231
1.1 Propaganda e letteratura: un connubio irrealizzato
233
2. Verso una nuova mentalità coloniale
235
2.1 Senso di missione personale e collettiva
238
2.2 Per bocca e nella mente degli indigeni
247
2.3 Uomo o non uomo?
250
2.4 Fantasmi dal passato per un più glorioso presente
254
3. Una nuova percezione del paesaggio
259
4. La donna in colonia
266
5. Ciro Poggiali: scrittura e riscrittura
275
Conclusioni… e prospettive
281
Bibliografia
285
1. Opere
285
1.1 Opere di argomento coloniale
285
1.2 Opere selezionate
289
2. Studi
292
2.1 Studi sul colonialismo italiano
292
2.2 Altri studi e testi teorici
305
Introduzione
Il faticoso recupero di una memoria scomoda
“Il n’y a pas un, mais des silences,
et ils font partie intégrante des stratégies
qui sous-entendent et traversent le discours”.
(Michel Foucault, Histoire de la sexualité)
1. Il passato coloniale italiano: rimozione e mistificazioni
Non si può di certo imputare al caso il fatto che una sorta di consapevole oblio largamente
promosso, condiviso e accettato sia riuscita a offuscare per lungo tempo la realtà del passato
coloniale nazionale, impedendo alla memoria comune di organizzarsi in forme esaustive, coerenti e
accessibili a un vasto pubblico.
Una memoria è in sé stessa necessariamente una costruzione, vale a dire la selezione degli
avvenimenti del passato e la loro disposizione secondo una gerarchia che non appartiene loro
in proprio, ma che deriva dai membri che fanno parte del gruppo. Questa memoria collettiva,
come ogni memoria umana, opera una selezione radicale tra gli innumerevoli avvenimenti del
passato, ragion per cui l’oblio è costitutivo dell’identità così come la salvaguardia dei ricordi.
La selezione dei fatti e la loro sistemazione gerarchica non sono effettuate da esperti scienziati
[…], ma piuttosto da gruppi di potere all’interno della società, che vogliono difendere i propri
interessi.1
L’atteggiamento prevalente, infatti, opportunamente orientato, si è a lungo assestato su una
determinata e caparbia volontà di difendere un’immagine del tutto alterata e mistificante, ma
proprio per questo rassicurante e benevola, della presenza e delle operazioni italiane in Africa. Di
conseguenza, fino a tempi relativamente recenti è stata manifestata da ogni parte una decisa ostilità
nei confronti degli studiosi impegnati, in maniera sempre più scrupolosa e tenace, nel ricostruire le
dinamiche effettive e le precise vicende di un momento storico quanto mai complesso e
controverso.
Bisogna senza dubbio, a questo proposito, tenere in considerazione la particolare natura del
fenomeno coloniale, capace di accostare in un percorso simile le maggiori potenze europee, eppure
al tempo stesso impossibile da ridurre a un unico paradigma comune. In quanto tale, esso non solo
fa ovviamente parte di un passato che non va in alcun modo archiviato né dimenticato, ma ha
contribuito in maniera sostanziale a disegnare lo scenario politico, sociale ed economico del nostro
presente: l’etichetta di età post-coloniale, applicata a quel momento storico che ha avuto inizio alla
1
Tzvetan Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Milano, Garzanti, 2009, p. 85.
1
metà del XX secolo con il progressivo declino della dominazione europea sul continente africano2,
è oggi non a caso sempre più messa in discussione e sostituita in larga misura da quella di neocolonialismo, nel riconoscimento del fatto che i rapporti di potere tra le diverse realtà politiche ed
economiche sono senza dubbio mutati nella forma, ma non si sono affatto trasformati nella
sostanza. 3 L’intenzione di fare chiarezza sui meccanismi operanti al tempo dell’imperialismo
colonialista non scaturisce pertanto da un ostinato quanto inutile tentativo di riportare alla luce un
passato che in tanti vorrebbero rimuovere, quanto piuttosto dalla necessità di acquisire maggiore
consapevolezza nel giudicare e nell’affrontare la nostra stessa condizione presente.
Da questo punto di vista, com’è ovvio, la questione non riguarda solo la specifica situazione
italiana, bensì si colloca in una prospettiva più ampia: non a caso in diversi Paesi europei si è
assistito negli ultimi anni a un forte impulso allo svolgimento di indagini sul tema della memoria, in
tutte le sue possibili accezioni e ramificazioni, tra le quali quella coloniale occupa spesso un posto
di rilievo:
Despite great efforts to transmit the “colonial experience” to the metropole via cultural media
and its impact on everyday life, for many Europeans colonialism remained an abstract concept.
[…] Nevertheless, since the 1990s, in countries such as France, Italy and German, it is possible
to identify a “rediscovery” of colonial history in academic, public and sometimes even
political discourse.4
Il processo di riappropriazione critica del passato deve passare attraverso una sua faticosa ma
necessaria rimessa in discussione non solo in ambito accademico, dove forse gli sforzi e i risultati
sono stati finora i più considerevoli, ma anche e soprattutto a livello di opinione pubblica e di
discussione politica. In questo senso, infatti, il caso italiano può forse considerarsi paradigmatico
e, per certi aspetti, estremo. Una forma così profonda e tenace di quella che possiamo definire una
generale rimozione del passato coloniale da parte di ampi strati della società italiana presuppone
questioni e meccanismi complessi, in buona misura strettamente connessi ai motivi peculiari allo
stesso movimento di espansione coloniale. La retorica degli “italiani brava gente” ha a lungo
contribuito a far passare sotto silenzio alcuni aspetti brutali, ad esempio, della guerra fascista in
Etiopia − se è vero che Indro Montanelli, che ad essa aveva preso parte in qualità di ufficiale,
ancora nel 1985 continuava a misconoscere pubblicamente l’uso dei gas, come ricorda lo storico
2
Si veda almeno il fondamentale lavoro di Bill Ashcroft, Gareth Griffiths, Helen Tiffin, The empire writes back.
Theory and practice in post-colonial literatures, London, Routledge, 2002.
3
Anticipatrice, in questo senso, la lettura di Jean-Paul Sartre, Situations. 5, Colonialisme et néo-colonialisme, Paris,
Gallimard, 1964; ma si veda anche, in ambito italiano, Gianfranco Peroncini, Il bianco e il nero. Colonialismo,
neocolonialismo, questione razzista, Rimini, Il cerchio, 1993.
4
Jan Jansen, Politics of remembrance, Colonialism and the algerian war of independence in France, in Małgorzata
Pakier, Bo Stråth (edited by), A european memory? Contested histories and politics of remembrance, New York,
Berghahn Books, 2010, p. 275.
2
Angelo Del Boca.5 E lo stesso Del Boca, che ha lottato e continua a farlo ancora adesso per
riportare alla luce la verità storica dei fatti e promuoverne un’ampia consapevolezza a livello
nazionale, ha asserito con fermezza in un recente volume:
Il mito degli «italiani brava gente», che ha coperto tante infamie […] appare in realtà,
all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun
fondamento storico. Esso è stato arbitrariamente e furbescamente usato per oltre un secolo, e
ancor oggi ha i suoi cultori, ma la verità è che gli italiani, in talune circostanze, si sono
comportati nella maniera più brutale, esattamente come altri popoli in analoghe situazioni.
Perciò non hanno diritto ad alcuna clemenza, tantomeno all’autoassoluzione.6
E anche volendo etichettare simili azioni come sporadiche o addirittura “giustificate” dallo stato di
guerra, la difficoltà di giudizio è aggravata dal fatto che − come hanno dimostrato ricerche
storiche mirate e approfondite − molti atti criminali furono commessi da soldati e funzionari
italiani non solo durante le vere e proprie guerre di conquista (peraltro in un certo senso mai
pienamente portate a termine ma piuttosto sempre in fieri), ma soprattutto all’interno
dell’ordinaria amministrazione coloniale o nella fase di occupazione dei territori.
Altro esempio illuminante, a questo proposito, è la sorte toccata a Il leone del deserto, film
arabo incentrato sulla figura di Omar al-Mukhtār, il condottiero che si pose a capo della guerriglia
libica impedendo con successo agli italiani per vent’anni di compiere la pacificazione completa
dei territori occupati: realizzato nel 1981 e subito censurato in Italia, è finalmente apparso in
televisione solo nel recentissimo 2009.
Difficile da sradicare, soprattutto a livello di percezione comune, «the legend of Italian
colonialism as different, more tolerant, and more humane than other colonialism».7 Lucide e
puntuali, a questo proposito, sono ancora una volta le osservazioni di Del Boca, nell’introduzione
alla sezione dedicata al colonialismo di un pregevole sito internet creato nel 2004 e inteso come
“Museo virtuale delle intolleranze e degli stermini”8:
Il rapporto con l’alterità africana fatto di esclusione e di discriminazione sopraffattoria,
l’aggressività, la violenza, lo sfruttamento e le stragi che hanno segnato l’esperienza coloniale
italiana costituiscono pagine non ancora integrate nella storia nazionale del paese; rimosse, o
apertamente negate, in nome di un mito ancora fortemente radicato nell’immaginario
collettivo, che rivendica l’atipicità della vicenda coloniale italiana come quella di un
‘colonialismo dal volto umano’.9
5
Cfr. Angelo Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Bari, Laterza, 1992.
Una formale ammissione dell’utilizzo di armi chimiche durante le guerre coloniali è avvenuta solo nel 1995.
6
Id., Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005, p. 7.
7
Patrizia Palumbo, A place in the sun. Africa in Italian colonial culture from post-unification to the present,
Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2003, p. 1.
8
www. istoreto.it/amis/index.asp
9
Cito da Eric Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (1911-1931),
Roma, Manifestolibri, 2005, pp. 9-10.
3
La relativa brevità dell’esperienza imperialista italiana, infatti, unita all’impatto traumatico della
sconfitta nella seconda guerra mondiale, ha dato adito a un generale misconoscimento della realtà
dei fatti, e a un suo significativo ridimensionamento. In una recente raccolta di saggi pubblicata nel
2005 in ambito anglofono e specificamente dedicata alla questione della memoria coloniale in
Italia 10 , i curatori Jacqueline Andall e Derek Duncan preferiscono parlare di “spostamento”
(displacement) piuttosto che di vera e propria rimozione del passato, nell’asserita convinzione che
esso abbia a lungo continuato a manifestarsi in una varietà di modi attraverso forme diverse di
eredità coloniale. Se è vero allora, per restare in termini psicanalitici, che la rimozione agisce come
meccanismo di protezione di un’identità minacciata, essa ha a mio avviso operato in gradi diversi
ma in maniera costante nella lenta rielaborazione di un vissuto scomodo e controverso.
Seguendo la periodizzazione proposta da Nicola Labanca11, possiamo in effetti riconoscere che
fino agli anni Cinquanta il ricordo dell’impero da poco perduto informa di sé quasi soltanto coloro
che a lungo e direttamente avevano fatto esperienza della vita in colonia e i veri e propri circoli
africanisti: le difficoltà e gli immensi sforzi della ricostruzione post-bellica del Paese, premiati poi
dal miracolo economico della giovane Repubblica, contribuiscono senza dubbio a relegare in
secondo piano le già di per sé poco lusinghiere memorie coloniali. Negli anni Sessanta e Settanta,
poi, ancora più diffusa e radicale si fa la tendenza all’oblio: la perdita delle colonie era stata di fatto
determinata dalla sconfitta militare ad opera di altre nazioni europee all’interno di un conflitto
mondiale, e non da una forma vittoriosa di ribellione da parte delle popolazioni africane
assoggettate. L’assistere dunque alla lotta per la decolonizzazione nei territori ancora soggetti a
Francia e Inghilterra fa sì che soprattutto «in the period between the 1960s and 1970s, Italy
deceived itself with the self-absolution of the ‘brava gente’».12 E proprio la stessa espressione, con
singolare coincidenza, fornisce a Giuseppe De Santis il titolo per il film del 1965, Italiani brava
gente, incentrato sulle vicende di un reggimento italiano sul fronte russo durante la seconda guerra
mondiale. Lo scenario è dunque diverso da quello coloniale, ma l’intento è ugualmente apologetico:
i soldati italiani sono rappresentati come antieroi, vittime inconsapevoli delle loro gerarchie e
dunque implicitamente espressione di un’ideologia sì antimilitarista e improntata ai valori della
fratellanza tra i popoli, ma che tuttavia finisce per non fare i conti con la condotta reale delle nostre
truppe.
Al tempo stesso, tuttavia, una forma sia pure embrionale di discussione, comunque dislocata sul
versante estero, è dimostrata dall’uscita nel 1966 de La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo e di
Africa Addio di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi: due importanti pellicole che − sia pure nella
10
Jacqueline Andall, Derek Duncan, Italian colonialism. Legacy and memory, Oxford, Peter Lang, 2005.
Nicola Labanca, History and memory of Italian colonialism today, in Jacqueline Andall, Derek Duncan, Italian
colonialism, cit., pp. 29-46.
12
Ivi, p. 36.
11
4
loro alquanto diversa visione del colonialismo − mostrano come l’eco dei processi di
decolonizzazione in atto negli stessi anni in diverse regioni africane fosse in qualche modo giunta
sulla scena politico-culturale italiana.13
Se il rapido crollo dell’impero italiano in Africa fu dunque in larga misura responsabile della
mancata sollevazione di un dibattito a livello politico e di opinione pubblica sulla decolonizzazione
e sui problemi ad essa legati, esso favorì al contrario il ridimensionamento altrettanto rapido di tutta
l’azione coloniale nazionale, e il diffondersi di sentimenti auto-assolutori. Eppure, come hanno
sottolineato Ruth Ben Ghiat e Mia Fuller − curatrici, in ambito statunitense, di un’altra recente
raccolta di pregevoli contributi sul colonialismo italiano14 − l’Italia ha “guadagnato” con le proprie
imprese coloniali primati tutt’altro che ammirevoli nel campo specifico delle aggressioni militari.
Non solo, infatti, la guerra d’Etiopia è il primo conflitto su ampia scala ingaggiato da un Paese
europeo dopo la prima guerra mondiale; ma all’Italia spetta anche il “riconoscimento” di aver fatto
per prima uso, nella guerra italo-turca per il possesso della Libia, di bombardamenti aerei, e di
essere il primo paese dell’Occidente a mettere in atto, attraverso le deportazioni e i campi di
concentramento in Cirenaica, tattiche di genocidio fuori dal contesto della guerra mondiale. Come
sottolinea ancora Labanca, pur nella loro varietà e difficoltà di definizione, crimini in senso stretto,
identificabili come oggettive violazioni di norme e leggi vigenti all’epoca (se ad essi non si vuole
aggiungere tutta una serie di procedure, comportamenti, istituzioni ugualmente considerate
intollerabili dai soggetti coloniali e dagli anticolonialisti italiani), furono perpetrati sia dall’Italia
liberale sia poi da quella fascista (sebbene, ancora una volta, con risultati diversi in termini di
vittime e di impatto). In due casi sembra necessario applicare il termine di “genocidio”, e cioè al
trattamento riservato alla resistenza della popolazione in Cirenaica prima e in Etiopia poi: episodi
entrambi direttamente ascrivibili alla volontà diretta del Duce, eppure di certo impossibili da
condurre a termine senza la collaborazione della stessa popolazione italiana in colonia. La reticenza,
in ambito specificamente storiografico, a fare uso della nozione di “genocidio”, con le implicazioni
di ordine morale ma anche giuridico che essa porta con sé, non è tuttavia caratteristica esclusiva del
contesto italiano: al contrario, in forza di un profondo eurocentrismo ancora difficile da sradicare, i
genocidi coloniali stentano ancora in diversi Paesi a essere riconosciuti come tali. Come ha
sottolineato Todorov, d’altronde, «i massacri non sono mai rivendicati: la loro esistenza, di solito, è
tenuta segreta e viene negata».15 Soprattutto, quelli coloniali raramente sono stati comparati in una
prospettiva globale alla Shoah inflitta dal nazismo16: in questo senso, solo con la nascita e il
13
Cfr., a questo proposito, Daniela Baratieri, Memories and silences haunted by fascism. Italian colonialism,
MCMXXX-MCMLX, Bern, Peter Lang, 2010, pp. 179-88.
14
Ruth Ben Ghiat, Mia Fuller, Italian colonialism, New York, Palgrave Macmillan, 2005.
15
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Torino, Einaudi, 1984, p. 176.
16
Cfr. Enzo Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Milano, Feltrinelli, 2011, pp. 110-5.
5
progressivo sviluppo degli studi postcoloniali i massacri compiuti dai Paesi occidentali nei territori
colonizzati sono stati posizionati allo stesso livello dello sterminio degli ebrei, che già Aimé Césaire
aveva individuato come la trasposizione europea della violenza coloniale.17
E proprio la relazione tra fascismo e colonialismo, impossibile da declinare in maniera semplice
e univoca, complica la questione e finisce per porsi come un ulteriore ostacolo al processo di
chiarificazione storica. L’apice così come il drammatico epilogo di tutta l’impresa coloniale italiana
seguono in parallelo l’evoluzione/involuzione e la rapida disfatta del regime mussoliniano, al punto
che inevitabilmente «the colonialist enterprise was quickly demonized as a fascist enterprise».18
L’aggressione e la forzata annessione dell’Etiopia è infatti divenuta una delle immagini
emblematiche, in qualche modo, della violenza fascista in Italia, «yet Mussolini merely pursued,
with greater determination and greater indifference to international opinion, a policy that had long
antecedents».19 In questo modo gli orrori coloniali ricadevano a pieno titolo nel più ampio bacino
delle brutalità compiute dal fascismo, e dunque insieme ad esse condannati in senso generico, ma
anche più facilmente e rapidamente archiviati. Senza contare, poi, il fatto che la portata generale
della stessa violenza fascista è stata a lungo sottovalutata e relegata in secondo piano, in quanto
aspetto puramente materiale, da tutte quelle interpretazioni del regime mussoliniano interessate
piuttosto a metterne in luce i meccanismi ideologici e culturali.20
2. Tra nostalgia e condanna
Non è questa la sede adatta per scendere in dettagli riguardanti ciò che effettivamente di positivo
o di negativo gli italiani fecero in colonia in ambito economico, culturale, sociale o quant’altro; né
tanto meno è mia intenzione dare giudizi in merito. D’altronde, non è questo il compito neppure
dello storico, il quale «non deve formulare sentenze di colpevolezza o innocenza ma cercare di
interpretare un’epoca e un evento problematizzandoli, cogliendone le coordinate fondamentali, le
cause, la dinamica, e penetrando, per quanto possibile, l’universo mentale dei loro attori».21 E
proprio a partire dalla ricostruzione dell’apparato concettuale formatosi a posteriori intorno
17
Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Verona, Ombre corte, 2010. Stessa visione della violenza nazista come
una sorta di “ritorsione” sull’Europa dei crimini da essa stessa perpetrati in ambito coloniale emerge dall’opera dello
scrittore svedese Sven Lindqvist, in particolare in Sterminate quelle bestie, Milano, Tea, 2003.
18
Karen Pinkus, Empty spaces: decolonization in Italy, in Patrizia Palumbo (edited by), A place in the sun, cit., p.
300.
19
Charles Burdett, Memories of Italian East Africa, «The Journal of Romance Studies», 1 (3), 2001, p. 2.
20
Tale è l’impostazione adottata per esempio in Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari,
Laterza, 2002. Scarsa attenzione alla specificità della violenza fascista si riscontra d’altronde anche nella monumentale
biografia del duce scritta da Renzo De Felice (Mussolini, Torino, Einaudi, 1965-1997, 4 voll.). Cfr. a tale proposito
Ruth Ben Ghiat, A lesser evil? Italian fascism in/and the totalitarian equation, in Helmut Dubiel, Gabriel Motzkin
(edited by), The lesser evil. Moral approaches to genocide practices in a comparative perspective, London, Frank Cass,
2004, pp. 137-53.
21
Enzo Traverso, Il secolo armato…, cit., p. 108.
6
all’impresa coloniale italiana è possibile, come abbiamo visto, cogliere le basi tutt’altro che
legittime su cui troppo a lungo ha poggiato la comune rimozione di tale passato coloniale.
L’illusione di aver agito nel migliore dei modi possibili, o almeno in maniera sensibilmente
migliore di quanto avessero fatto tutte le altre potenze europee, ha alimentato negli italiani la
tendenza ad appagarsi con fiducia della versione ufficiale trasmessa dalle generazioni precedenti,
senza sentire alcuna necessità di mettere sotto processo una presunta e senza dubbio comoda verità.
D’altro canto sarebbe ingiusto, oltre che sbagliato, voler attribuire esclusivamente alla malafede
la diffusa negazione dei lati più bui delle nostre passate imprese africane. Va tenuto presente,
infatti, che nei territori coloniali si erano costituite, col passare del tempo, comunità piuttosto
consistenti di italiani, che della vita in Africa avevano imparato ad apprezzare la libertà dalle
costrizioni spaziali e temporali proprie della civiltà europea. Oltre a ciò, più di un milione di
giovanissimi italiani si trovò a prendere parte tra il 1935 e il 1936 a quella campagna d’Etiopia che
ha segnato al tempo stesso l’acme e l’epilogo dell’espansione italiana sul continente.22 È pertanto
comprensibile che, sulla base di ricordi più o meno veritieri associati ai tempi di una eroica
giovinezza, si sia potuta sviluppare una forte tendenza nostalgica, capace di epurare
opportunamente gli aspetti contraddittori se non addirittura denigratori del proprio comune passato.
La memoria autobiografica, d’altronde, lungi dall’essere specchio fedele della vita vissuta, è facoltà
fortemente selettiva e sempre orientata dal soggetto che la esercita, condizionata dai suoi filtri
spaziali, temporali ed emotivi:
To remember is not to produce a perfect forgery of a past event, but to abstract and rearrange
characteristics of that event. Not only does memory depend upon a coherent narrative of
personal identity, it also constructs an historical context for the occurrences that it brings to
mind. Alluding to the criteria that are unconsciously deployed for retention, recollection tells
us about the mechanics both of past and of present perception […] the memory of the past is,
to a large degree, moulded by the present circumstances of the person who remembers; upon
the context in which memory is articulated and upon the demands that the present may make.23
La memoria, in altre parole, è una particolare rappresentazione del passato che viene costruita nel
presente: tale meccanismo implica sempre una certa presa di distanza nei confronti del passato
stesso, percepito come concluso e pertanto entrato a far parte della storia. «La memoria è il risultato
di un processo nel quale interagiscono diversi elementi che possono variare per importanza e
dimensioni»24: nel nostro caso specifico, l’evento passato è capace di riaccendere nella memoria del
singolo l’orgoglio di aver preso parte, nel pieno della propria giovinezza, a un momento fondante
dell’intera vita nazionale, per cui il ricordo si colora inevitabilmente di sfumature particolari.
22
Angelo Del Boca, La guerra di Etiopia. L’ultima impresa del colonialismo, Milano, Longanesi, 2010.
Charles Burdett, Memories of Italian East Africa, cit., p. 16.
24
Enzo Traverso, Il secolo armato…, cit., p. 171.
23
7
Infine, contribuirono non poco a questa tendenza nostalgica e idealizzante alcune particolari
pubblicazioni periodiche, direttamente legate a specifiche categorie di persone che parteciparono,
ognuna in un modo diverso, al processo di espansione coloniale. Vale la pena ricordare, ad esempio,
la rivista bimestrale «Mai Taclì», redatta a partire dagli anni Settanta da un gruppo di ex abitanti di
Asmara con l’intento di raccogliere episodi, sensazioni e immagini della vita della comunità italiana
in colonia. Trattandosi per lo più di figli di imprenditori o di funzionari stabilitisi in Eritrea negli
anni Trenta, i ricordi sono ovviamente legati al periodo della prima giovinezza: non sorprende
pertanto la comune attitudine nostalgica che avvolge una visione senza dubbio idealizzata del
passato, a sua volta atta a sostenere e ricreare con le parole il senso di appartenenza a una comunità
che non esiste più, in evidente polemica con la realtà presente. O si pensi ancora al periodico
trimestrale «Il Reduce d’Africa», voce ufficiale dell’“Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati
d’Africa”, fieramente impegnato a difendere e riportare alla luce esempi di italiani eroici, pronti a
sacrificarsi in nome di ideali che, con evidente rammarico dei sottoscrittori, sembrano aver perso
ogni considerazione e attrattiva.25
2.1 Modulazioni letterarie della memoria recente: testimonianze dagli anni Cinquanta
Le voci non sono tutte a senso unico. La stessa esperienza bellica vissuta in prima persona ha
fornito materia prima anche a ricostruzioni memoriali di gran lunga più complesse e problematiche,
specialmente laddove i ricordi stessi tendono a essere almeno in parte trasfigurati attraverso il filtro
letterario. Nel novero dei giovani che si trovarono infatti a sperimentare sulla propria pelle la realtà
della guerra coloniale, e a vivere anche direttamente il fallimento di quegli stessi ideali eroici che
potevano averne animato in un primo momento una più o meno convinta partecipazione, figurano
anche scrittori del calibro di Ennio Flaiano, Mario Tobino e Giuseppe Berto. I testi cui essi hanno
affidato la resa, più o meno fedele, della propria esperienza autobiografica sono illuminanti proprio
nella misura in cui testimoniano ancora oggi il formarsi, a livello letterario che più ci interessa, di
quella peculiare rimodulazione del recente passato destinata, con poche varianti, a permeare della
sua impronta ideologica anche le generazioni successive. Si tratta di opere pubblicate in un breve
arco cronologico a cavallo del 1950 (dal 1947 al 1955, per la precisione), che si inseriscono
pertanto in un clima sì mutato rispetto a quello cui si riferiscono gli eventi in esse narrati, ma al
tempo stesso ancora profondamente avvolto da incertezze e contraddizioni. In altre parole, se non
sorprende trovare in questi testi spunti polemici e accenti disincantati, pienamente giustificati
nell’ottica della presa di coscienza posteriore alla fine della guerra e alla perdita delle colonie, come
abbiamo già sottolineato si tratta ancora, a questa altezza cronologica, di sentimenti tutt’altro che
25
Cfr. ancora Charles Burdett, Memories of Italian East Africa, cit.
8
unanimemente condivisi. In tutte e tre le opere cui alludo la componente autobiografica è necessaria
e irrinunciabile, sebbene essa si articoli poi in modo diverso e peculiare in ognuna di esse. In forza
del comune tentativo di esprimere e dare nuova concretezza a una memoria sì recente eppure già
scomoda e controversa, questi testi potranno aiutarci a comprendere alcuni meccanismi che
agiscono spesso all’interno di opere testimoniali legate all’esperienza coloniale, e che come tali
ritroveremo, declinati secondo modalità di volta in volta particolari, nei resoconti di viaggio
paralleli allo stesso moto di espansione (su cui, come vedremo a breve, si concentrerà il mio
lavoro).
2.2 Giuseppe Berto: fedeltà alla patria e autoassoluzione
Nel caso di Guerra in camicia nera Berto sceglie di ridare voce, a distanza di anni, alle pagine di
un diario steso durante la militanza sul fronte libico tra il 1942 e il 1943, conclusasi con la prigionia
e l’esperienza del campo di concentramento in Texas. Nella breve nota introduttiva, l’autore si
assume l’impegno di orientare il lettore − in modo peraltro ambiguo, come vedremo − nella
direzione di una recente presa di coscienza dovuta al crollo definitivo della fiducia riposta fino a
poco tempo prima nelle imprese belliche nazionali. In modo ambiguo, dicevo, in quanto il proposito
di scrivere pagine “oneste” e “libere dalla retorica” non riesce comunque ad offuscare un fondo
impastato di sentimentalismo nostalgico e desiderio di espiazione. D’altronde, bisogna anche
considerare il fatto che già prima di partire volontario per la guerra Berto non aveva mai nascosto la
propria adesione al regime e alla sua politica colonialista, né aveva smesso poi di credere in una
possibile evoluzione in senso positivo del fascismo stesso.
L’affidarsi, in altre parole, alla propria “misura delle cose”, sia pure senza dubbio maturata negli
anni, implica una partecipazione emotiva ineliminabile: non stupisce allora che l’autore sia pronto a
schierarsi comunque a difesa di quanti, come lui stesso, «servirono il fascismo con la convinzione
di servire l’Italia»26:
Del resto, questo libro lo pubblico non per quelli che sono stati camicie nere, ma per gli altri,
magari per quelli che furono loro avversari e nemici, perché vorrei che riconoscessero nei miei
soldati una sostanza umana comune a tutti i soldati e a tutti gli eserciti. Per far sì che la guerra
sia veramente perdonata. (p. 8)
Esplicito, dunque, l’intento apologetico che è alla base della stessa decisione di riorganizzare e
pubblicare i propri ricordi: a poco più di dieci anni di distanza dagli avvenimenti narrati, Berto
scrive sì per se stesso e per quanti hanno con lui condiviso l’esperienza della guerra in terra
africana, ma ancora di più per coloro che hanno poi in fretta condannato gli attori di questa guerra:
26
Giuseppe Berto, Guerra in camicia nera, Milano, Garzanti, 1955, p. 7. Tutte le successive citazioni del romanzo
si intendono dalla presente edizione, con la sola indicazione dei numeri di pagina.
9
il libro si dà come opera di denuncia e di autodenuncia, ma pure come atto d’accusa contro il
popolo italiano, velocemente trascorso dalla retorica del fascismo a quella dell’estraneità al
fascismo.27
Una puntualizzazione mi sembra a questo proposito necessaria: a differenza di Tempo di uccidere,
in cui Flaiano ricostruisce, sia pure in forma romanzesca, lo scenario di una guerra propriamente
coloniale − nella forma cioè dell’aggressione italiana a un libero Stato africano − l’opera di Berto,
così come quella di Tobino, si riferisce propriamente alle vicende della seconda guerra mondiale,
sia pure combattuta nello specifico sul fronte libico. Nella sua scansione diaristica, che va dal
settembre del 1942 al maggio del 1943, il testo si pone volontariamente come testimonianza di una
fase drammatica del conflitto vissuta in prima persona dall’autore appena ventisettenne, giunto in
Libia come volontario dopo aver già preso parte dal 1935 al 1939 − sempre volontariamente − alla
guerra fascista d’Etiopia. In questo senso, dunque, il contesto propriamente coloniale, con tutte le
implicazioni pratiche e morali che esso presuppone, rimane un po’ sullo sfondo, messo in ombra
dalla realtà di una guerra combattuta non per vincere la locale resistenza africana, bensì al fianco
dei tedeschi contro le forze inglesi nel tentativo di ribaltare le sorti del conflitto mondiale.
Non solo, dunque, si cercherebbero invano nel testo tracce della presenza di una popolazione
locale che, sia pure ininfluente in quanto non direttamente implicata nelle manovre belliche, si
trovava comunque a dover assistere impotente alle conseguenze devastanti dello scontro tra le
diverse potenze europee sul proprio territorio. Ancor di più, la visione che Berto ha della stessa
realtà coloniale è intimamente connessa alla contemporanea situazione politica italiana,
caratterizzata dalle avvisaglie di una crisi di regime che di lì a poco avrebbe condotto all’arresto
dello stesso Mussolini. La partecipazione volontaria dell’autore alla guerra si rivela atto supremo di
fedeltà alla patria in un momento di evidente difficoltà, ma al tempo stesso utopistico tentativo di
evasione come unica forma ancora possibile di fuga da una realtà cui sempre meno si sente di
appartenere.
Non a caso Berto non esita a compiacersi della sincerità e della schiettezza che traspare già dalle
prime conversazioni avute a Tripoli presso il circolo ufficiali, ancora più apprezzabili se messe a
confronto con il clima di doppiezza e falsità che si respira negli stessi tempi in Italia:
[…] qui l’ipocrisia e la paura di esprimere il proprio pensiero sono state bandite. Preferisco
questi giovani che fanno la guerra e hanno il coraggio di dire ciò che ne pensano, a quelli che
stanno in Italia cantando, magari in malafede, lodi al fascismo. (p. 11)
E in effetti, nel quadro che l’autore offre della propria esperienza, la realtà della guerra sembra porsi
in netta antitesi con quella coloniale per se stessa. Dell’una egli per primo si sente «responsabile
27
Elena Frontaloni, Il soldato ventriloquo. Guerra in camicia nera di Giuseppe Berto, in Gianluca Frenguelli, Laura
Melosi (a cura di), Lingua e cultura dell’Italia coloniale, Roma, Aracne, 2009, p. 123.
10
nella misura giusta, cioè quanto ne spetta a ciascun italiano che abbia capacità di intendere e di
volere», dal momento che «se non si volevano il fascismo e la guerra, bisognava pensarci prima»,
non ora che «l’identificazione del fascismo con l’Italia non è da discutersi» (p. 24). Al contrario, se
non ci fosse la guerra l’ambientazione coloniale indurrebbe “per natura” l’uomo a liberarsi delle
preoccupazioni, irretendolo − sembra suggerire Berto − con la malia della sua atmosfera pigra e
sonnolenta:
Mi piacerebbe che non ci fosse la guerra, e vivere in questa fresca cittadina dell’altopiano
cirenaico, lasciandomi prendere un po’ alla volta da quel senso di irresponsabilità che
costituisce il fascino della vita nei presidi coloniali. Lo chiamano insabbiarsi. (p. 15)
Solo l’elemento paesaggistico sembra infatti in grado di rasserenare l’animo del soldato; ma si tratta
di un paesaggio assolutamente decontestualizzato, in cui qualsiasi elemento atto a renderlo
riconoscibile viene forzatamente europeizzato, in un forse inconsapevole bisogno di assimilazione e
familiarizzazione:
È quasi sera e mi sento pressoché felice, con un mucchio di pensieri che nascono da soli, senza
peso. Dall’oasi alle mie spalle viene l’abbaiare dei cani, il ragliare degli asini, lo stridere delle
carrucole dei pozzi, qualche occasionale richiamo degli arabi. Su di un’arida collina sorge la
tomba del marabutto, un piccolo cubo sormontato da una mezza cupola. E davanti ho il mare
vasto e senza navi, di un colore incredibilmente fresco, dopo la costa rossiccia. (p. 22)
L’oasi, la tomba del marabutto, le voci lontane degli arabi sono singoli ingredienti scelti per la loro
natura esemplificativa, privati tuttavia di ogni ulteriore caratterizzazione e per questo incapaci di
evocare davvero un’immagine concreta della realtà circostante. Come d’altronde non mancheremo
di riscontrare nella maggior parte degli scritti di viaggio di epoca coloniale, il paesaggio africano è
anch’esso “rifunzionalizzato” in un’ottica europea, “orientalizzato”28 sulla base di idee precostituite
al punto di divenire pura immagine da cartolina, quasi fosse stato creato appositamente in vista
della sua fruizione occidentale. Illuminante in questo senso l’impressione che Berto prova durante
un breve giro nel quartiere arabo di Tunisi:
Scendiamo insieme per le viuzze della Kasbah, tortuose e scoscese, piene di mistero con le
finestrelle a grata, le donne velate, i profondi antri delle botteghe, gli arabi accovacciati che
vendono monili d’argento. Cose e persone sono così assolutamente pittoresche, che sembrano
messe lì apposta per una ripresa cinematografica europea. (p. 159)
Torneremo più avanti sulle dense implicazioni del concetto di “pittoresco” associato al paesaggio
coloniale. Per ora ci basti notare che la “diversità” della zona indigena, appunto, viene in qualche
modo esorcizzata attraverso una sua resa del tutto statica, in cui solo l’occhio dell’europeo che
28
Il riferimento è ovviamente a Edward Said, Orientalism, London, Penguin, 1977 (trad. it. a cura di Stefano Galli,
Orientalismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1991) dove in apertura l’autore definisce l’orientalismo come «a way of
coming to terms with the Orient that is based on the Orient’s special place in European Western experience» (p. 1).
11
osserva sembra poter dare vita a un quadro altrimenti inerte. Laddove invece la colonizzazione −
francese, in questo caso − è evidentemente intervenuta sul paesaggio stesso, entra in gioco con
estrema facilità il meccanismo messo in luce già da Todorov e consistente nel «conoscere l’ignoto
con l’ausilio di ciò che è noto»29, per cui ad essere sottolineate sono ora le affinità piuttosto che le
differenze, tanto che, di fronte al susseguirsi ininterrotto di viti e olivi «uno sente che si avvicina
all’Italia». Anzi, la vista del paesaggio coltivato è talmente familiare da richiamare subito alla
memoria «le parti più belle della Calabria e della Sicilia». E d’altronde «la somiglianza tra l’Italia
Meridionale e la Tunisia è effettiva e non casuale: è un prodotto del lavoro umano, e i colonizzatori
di questa terra sono in gran parte italiani» (p. 155), non manca di far notare Berto, con evidente
riferimento polemico all’estensione del protettorato francese sulla Tunisia del 1881 (il cosiddetto
“Schiaffo di Tunisi”), che aveva frustrato i propositi espansionistici italiani nella regione.
Sui benefici apportati dalla colonizzazione italiana in Africa Berto non sembra avere dubbi, tanto
che si stupisce di come la popolazione locale assoggettata possa accomunare sotto la stessa etichetta
di «stranieri, cioè nemici» (p. 16) sia gli italiani che gli inglesi: solo la loro assoluta mancanza di
senso storico può, a parere dell’autore, indurre gli arabi a sperare in una liberazione da un
qualsivoglia dominio straniero. È evidente, pertanto, che ancora a questa altezza cronologica,
quando nel giro di pochi anni, a seguito della sconfitta nella seconda guerra mondiale, l’Italia sarà
costretta a rinunciare al controllo sui propri possedimenti coloniali, non solo l’imperialismo
coloniale è ancora affermato come una sorta di evoluzione naturale e inevitabile del divenire
storico, ma nella specifica situazione italiana ne vengono con nuova forza sottolineati i vantaggi,
con una completa e voluta omissione dei molteplici risvolti negativi:
Appena una ventina d’anni fa, qui era il deserto. Ora ci sono campi verdi, filari di eucaliptus,
ulivi ed alberi da frutto. Coloro che considerano i villaggi colonici della Libia nient’altro che
ridicoli e retorici colpi propagandistici del fascismo, dovrebbero venir qui a vedere: si
convincerebbero subito che erano opere serie ed opportune. Se la guerra non ci avesse fermati,
in pochi anni anche quelle distese di sabbia sarebbero diventati campi. (p. 64)
La politica voluta e promossa dal governo fascista in colonia sembra, in altre parole, aver dato i suoi
frutti: essendo riuscita ad apportare migliorie concrete per lo sviluppo del territorio ha, secondo
Berto, ampiamente dimostrato di basarsi su fatti concreti, mettendo così a tacere lo stuolo di
calunnie sulla sua presunta natura propagandistica. Ma a quali costi è stato realizzato − se pure lo è
stato − tutto questo? L’autore non si preoccupa di dare risposta a un simile interrogativo; anzi, evita
del tutto di porselo, nella misura in cui l’elemento umano interessato da tali cambiamenti non viene
29
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, cit., p. 156.
12
neppure preso in considerazione, e nessuno spazio viene lasciato nel testo a descrizioni o anche solo
a considerazioni sulle condizioni di vita della popolazione locale.
Solo quando iniziano a circolare le prime voci sulla possibile necessità di provvedere a un rapido
ripiegamento, la fiducia si incrina, e Berto non può fare a meno di ammettere − contraddicendo se
stesso − che «le parole del Duce, pur fresche di pochi giorni, han perduto la loro efficacia, come se
si trattasse di una qualsiasi frase propagandistica» (p. 51), e che la gloria sognata da tutti i soldati
impegnati nella guerra, lui compreso, era certamente stata immaginata come qualcosa di diverso.
Allora c’è posto anche per un’amara ironia, quella che scaturisce dalla constatazione dello scarto
sempre più evidente tra la realtà della situazione e le parole impastate di vuota retorica troppo a
lungo diffuse dal regime: «Tra i tanti motti da cui siamo stati afflitti in questi ultimi vent’anni, non
ce n’è forse uno che dice: nudi alla meta? La meta è vicina, e io nudo press’a poco lo sono» (p.
207).
Anche il comandante, sia pure ridicolizzato per la sua vanagloria, finisce poi per muovere a
compassione nel momento in cui si trova, perduto ormai ogni entusiasmo, a dover comunque
compiere fino il fondo il proprio dovere e «infondere qualche energia in uomini più stanchi,
intontiti e sfiduciati di lui» (p. 119). Piuttosto evidente qui l’intento dell’autore di
deresponsabilizzare le forze militari − di cui egli stesso è parte − mostrandone il coraggio, la fedeltà
al proprio dovere, l’impotenza e la rassegnazione di fronte alla catastrofe. È un atteggiamento che
troveremo anche in Tobino e, in forma ambigua e in parte rovesciata, in Flaiano: eppure,
diversamente da quanto avviene negli altri due autori, qui le colpe non vengono automaticamente
addossate al fascismo, sul quale Berto non smette, fino alla fine, di nutrire speranze di evoluzione.
Emblematica, in questo senso, la riflessione con cui si chiude il testo, contenuta all’interno di un
breve capitolo finale che reca il titolo: Senza data, alcuni anni dopo. Si tratta verosimilmente di un
momento successivo al febbraio 1946, mese in cui Berto riesce finalmente a tornare in patria, dopo
gli anni di prigionia nei campi di concentramento degli Stati Uniti:
Poi, col tempo, dimenticammo il senso di vergogna. Dovemmo fare un lungo cammino, prima
di poter tornare a casa. E mentre il tempo passava, nell’eco delle cose che succedevano nel
mondo, noi perdemmo la vergogna di aver perduto. Ci parve anzi di aver fatto abbastanza per
non perdere. (p. 218)
Non traspaiono, da queste parole, né rimorso né desiderio di rinnegare le proprie azioni. Persino la
vergogna, scaturita − si badi bene − dalla sconfitta militare, e non da un qualsivoglia ripensamento
sulla legittimità e opportunità delle proprie azioni, è venuta meno, una volta maturata la
convinzione di aver fatto tutto quello che l’onore e la fedeltà di patria richiedevano. Piuttosto,
allora, resta il rimpianto per qualcosa di diverso che poteva essere e non è stato, per quella gloria
sperata e mai raggiunta, per l’umiliazione subita durante la prigionia. Ma la nota su cui Berto
13
sceglie, ormai nel 1955, di chiudere il suo diario, pronto per la consegna alle stampe, è
evidentemente ancora apologetica e auto-assolutoria. C’è innegabilmente la volontà di ricordare, di
prendere la parola, di consegnare alla storia la propria testimonianza; ma le memorie sono senza
dubbio filtrate dall’urgenza, altrettanto forte, di difendere la posizione di quanti hanno creduto di
fare solo il proprio dovere, in nome del quale sentono di poter rigettare accuse e calunnie. Non
posso, in questo senso, condividere appieno il giudizio della Tomasello, secondo la quale
di fronte a un’esperienza che si è trasformata in un incubo e all’immagine di una terra
colonizzata già ispiratrice di infinite speranze e ora ridotta a desolazione, niente sembra più
poter frenare un definitivo atteggiamento di rinuncia.30
In cosa consista questa presunta “rinuncia” non viene ulteriormente spiegato, laddove piuttosto,
come abbiamo visto, l’orgoglio di aver agito in nome dei propri ideali non sembra in Berto venire
meno neppure nel momento estremo della disfatta e nella consapevolezza ormai tangibile del
funesto destino a cui non può in alcun modo sottrarsi.
2.3 Rancore e incomunicabilità nei ricordi di Mario Tobino
Il deserto della Libia31 è già opera più difficilmente definibile, nella sua giustapposizione di
immagini evidentemente autobiografiche, legate ancora una volta all’esperienza diretta di
combattente sul fronte libico durante la seconda guerra mondiale, ma cariche di un sentimento
ambiguo, misto di rabbia e di nostalgia, subito ricavabile nel testo, fin dalla prima frase del capitolo
di esordio: «C’era un misto di viaggio di piacere e di condanna».32 Tobino d’altronde, al contrario
di Berto, non aveva fin dall’inizio della guerra mancato di manifestare un atteggiamento
antifascista. Non sorprende pertanto che una certa ambivalenza nei confronti dell’impresa cui ci si
accinge informi già il momento della partenza: nella relativa ignoranza del destino che si ha di
fronte, infatti, il viaggio attrae per la quota di imprevedibilità che porta con sé, ma al tempo stesso
suona come una punizione inflitta per qualcosa che non si è compiuto. Inoltre, al contrario di quanto
avveniva in Guerra in camicia nera, dove l’Io del protagonista e l’Io dell’autore che ricorda e che
scrive finivano per sovrapporsi in una sia pure impossibile identificazione, Tobino ritarda in
maniera singolare il momento di porre la propria soggettività in primo piano, dando avvio alla
ricostruzione dei propri ricordi in terza persona.
30
Giovanna Tomasello, Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Palermo, Sellerio, 2004,
p. 203.
31
Si veda, per un confronto, Le rose del deserto, film diretto nel 2006 da Mario Monicelli e liberamente ispirato alla
vicenda narrata da Tobino, in cui il regista estremizza la rappresentazione grottesca di ambienti e soprattutto personaggi
mediante la scelta di un tono a tratti farsesco.
32
Mario Tobino, Il deserto della Libia, Torino, Einaudi, 1952, p. 15. Tutte le successive citazioni del romanzo si
intendono dalla presente edizione, con la sola indicazione dei numeri di pagina. Il romanzo è stato di recente incluso nel
volume della collana “I Meridiani” dedicata all’autore: Mario Tobino, Opere scelte, Milano, Mondadori, 2007, pp. 267502.
14
È, ad esempio, attraverso la figura del comandante di sezione che l’autore rivela quella che
presumibilmente era anche la propria visione all’esordio dell’impresa:
L’idea del casco coloniale, del cammello, del deserto, del soldato che torna vincitore, gli resero
un po’ più dolce la partenza; e credeva fermamente che quella gita in Libia fosse pressoché
un’adunata, soltanto un po’ più lunga, un affare di dieci giorni. (p. 16)
Quelle del maggiore, tuttavia, sono evidentemente illusioni comuni a tutta una generazione, nutrita
di esotismo, attirata in Africa con la convinzione di essere destinata a un rapido e glorioso rientro in
patria. Non a caso simile convinzione viene attribuita, più avanti nel testo, al maggiore medico della
sezione sanità in cui il protagonista si trova a militare:
Il maggiore medico era un buon uomo che era tranquillamente convinto di dover stare quindici
giorni in Libia e poi ritornare, eroe vittorioso, al suo paese, e, finalmente, essere amato dalla
moglie più di lui giovane e bella. (p. 38)
Eppure l’impatto non si rivela affatto confortante. La desolazione si impone subito come la cifra
dominante, mirabilmente comunicata attraverso un’immagine del mondo animale che non può
impedire l’associazione immediata con quello umano:
La vaccarella aveva il beneficio di tirare su il secchio mentre trotterellava quella discesa; ci
mancava solo che belasse per farla sembrare una vecchina abbandonata da tutti. (p. 17)
Ma il senso di rovina e di squallore si trasmette dagli esseri animati alle cose, invade il paesaggio di
«allucinata miseria» (p. 18) e lo fissa in un’immobilità che non lascia orizzonti di riscatto.
Illuminante in tal senso l’accenno all’apparenza delle strade − fatte di sabbia e delineate ai lati da
due file di fichi d’India − ripetuto in maniera pressoché identica in tre pagine successive, ad
accrescere fino alla saturazione una condizione di monotonia alla quale è impossibile sottrarsi:
«Non c’era nessuno, non si sentiva nessun rumore» (p. 21).
Altrettanto impersonale sembra essere l’approccio all’elemento umano indigeno, cui viene
riservata nelle prime pagine una descrizione del tutto banale, stereotipica, priva di qualsiasi
connotazione davvero caratterizzante:
L’arabo bastona finché e quando vuole. Vive con pochissimo. Sono magri. Non escono dal
Corano e dal deserto. Stanno così spesso immobili nell’immobilità dell’oasi. Questo modo di
vita porta a disprezzare il dolore e l’occidente. (p. 21)
Anche l’arabo, in un certo senso, sembra permeato dalla stessa inerzia che avvolge tutto l’ambiente
in cui egli vive. Ma anche qui, come quasi sempre avviene nei racconti di viaggio di ambientazione
coloniale, la tendenza alla generalizzazione viene meno nel momento in cui si entra in contatto con
personaggi di più alto rango: così avviene con la figura di Mahmúd, che si presenta
all’accampamento chiedendo, in perfetto italiano, aiuto medico per un bambino malato agli occhi.
15
Troppo tardi resisi conto di non averlo trattato con il dovuto rispetto, infatti, due ufficiali se ne
rammaricano,
perché avevano sperato che quell’uomo, così diverso dagli altri arabi, li avrebbe aiutati a
conoscere il difficile mondo dove all’improvviso eran capitati; e poi avevan tutti e due una
segreta voglia, che neppure tra di loro si eran comunicata: i funzionari italiani, che in Libia
comandavano gli arabi, erano ignoranti e fannulloni; sarebbe piaciuto ai due tenenti mostrare a
quell’arabo che l’Italia non era soltanto quei funzionari. (p. 23)
Prima di tutto appare singolare il procedimento mediante il quale l’autore sceglie di riferire una
considerazione che si presuppone interiore ai due soldati, al punto che essi stessi non la comunicano
tra di loro pur condividendola: è come se, in altre parole, Tobino volesse mettere in bocca ai
personaggi della sua narrazione elementi di pensiero facilmente generalizzabili anche al di fuori del
contesto specifico, di cui in questo modo egli stesso può farsi portavoce. In questo senso la frase
sopra riportata mi pare quanto mai significativa, nella misura in cui esprime una forma di
relativismo culturale e un’esigenza di reciproco riconoscimento: se, infatti, Mahmúd si distingue
dagli arabi comuni e in forza di questa distinzione può fornire valido aiuto alla comprensione degli
usi del proprio paese, al tempo stesso i soldati italiani, consci dello scarso valore dei propri
connazionali in colonia, si propongono tacitamente di rappresentare in maniera più degna la propria
patria agli occhi dello straniero. Viene da chiedersi, tuttavia, su cosa si basi questa riconosciuta
superiorità di Mahmúd sugli altri arabi. Senza dubbio gioca un ruolo discriminante la posizione
sociale, evidente nel fatto di possedere appezzamenti di terra, cammelli, altri capi di bestiame, ma
soprattutto «una casa quasi all’europea» (p. 24). A ben guardare, infatti, sembra proprio il suo grado
di europeizzazione a renderlo più gradito, se è vero che «nell’oasi era l’unico aperto a ciò che
poteva venire dall’Europa e dal mondo» (p. 24) e, soprattutto, in grado di assumere su di sé un
compito di mediazione tra due culture trovatesi da un giorno all’altro a convivere, in un radicale
disequilibrio di forze:
Per ambizione e perché era utile, il paese essendo sotto lo straniero, Mahmúd cercava di
divenire amico delle autorità italiane e contemporaneamente promuovere rispetto verso la sua
persona e i suoi costumi. […] Il suo limpido giudizio di continuo gli indicava la realtà, sua e
della Libia, e che cioè i sentimenti non servivano, gli arabi erano pochi, ignoranti e poveri, gli
italiani così potenti da essere a petto loro impossibile un paragone; e ora per di più il deserto,
che una volta era stato per l’arabo la grande difesa, con l’aviazione non era neppure un misero
nascondiglio. (p. 24)
E tuttavia anche qui è impossibile valutare fino in fondo spontaneità e sincerità di siffatte
considerazioni. Tobino, d’altronde, non sembra preoccuparsi troppo della loro credibilità: senza
esitazioni, infatti, attribuisce al “limpido giudizio” dell’arabo quelle che, ancora una volta, sono
verosimilmente riflessioni imputabili a se stesso e riconducibili a più ampio raggio al punto di vista
italiano sulla realtà dell’occupazione.
16
Ad ogni modo, se l’arabo accetta razionalmente − o almeno l’autore fa sì che egli lo faccia −
l’ineluttabilità del dominio dello straniero sul proprio popolo riconosciuto inferiore per numero,
cultura e mezzi, gli stessi italiani occupanti non possono tuttavia fare a meno di vedere in Mahmúd
una quanto mai preziosa possibilità di comunicazione con il mondo esterno:
Le fitte interrogazioni derivarono anche dal fatto che quei cittadini erano stati tolti dai loro
luoghi e occupazioni, si erano all’improvviso trovati in un’oasi, il caldo non li faceva uscire
dall’accampamento, da fare non c’era nulla, tra loro non si sapevano che poco aprire, ché la
dittatura aveva insegnato ogni sospetto; Mahmúd fu una liberazione. (p. 25)
La parola, scambiata di preferenza, si badi bene, con lo straniero, in quanto la tesa atmosfera
instaurata dal regime mussoliniano ha condotto ogni italiano a diffidare dei propri connazionali,
rimane in questo senso forma prediletta e indispensabile di sopravvivenza in un mondo estraneo e
ignoto, ma che sembra capace di riservare inaspettate vie d’uscita dal tedio e dall’angoscia
quotidiani. D’altronde l’arabo, se anche non si ribella a una sottomissione vissuta come
inappellabile, non perde affatto la propria dignità, e l’inevitabile rassegnazione non si fa mai del
tutto passiva, bensì reca con sé sempre un grado di intima resistenza. A dare l’esempio, in questo
senso, sono peraltro le generazioni più anziane, che stentano ad abituarsi a una condizione che di
fatto le rende schiave nella propria terra. Esemplificativo a questo proposito l’atteggiamento del
padre di Mahmúd, il quale
fece agli ospiti una generica festa, e in quella trasparì una punta di chi è stato sempre sotto lo
straniero ed è sempre riuscito a trattarlo quasi da pari, sebbene con fatica. Si notava infatti una
amarezza, ormai pacata, ma ancora presente, per dover far sempre quella parte e raggiungere
quel rispetto che avrebbe dovuto invece venire naturalmente. (p. 28)
A mano a mano che il racconto procede, tuttavia, l’attenzione viene a focalizzarsi sempre più su
singole figure di italiani in colonia (che non a caso danno anche il nome ad alcuni capitoli del libro),
diverse una dall’altra ma tutte estremamente significative e proprio per questo sfruttate in modo
sapiente da Tobino per portare avanti una critica sagace a svariati aspetti della costruzione coloniale
italiana: l’autore mantiene infatti nei confronti della propria materia di analisi un’attitudine
costantemente ironico-sarcastica, capace di comunicare con chiarezza al lettore la propria posizione,
evitando però al tempo stesso di formulare accuse dirette o esplicitare le proprie opinioni.
Inequivocabile, ad esempio, l’atteggiamento dissacrante con cui egli guarda al desiderio, nutrito di
evidenti residui di esotismo ottocentesco, del maggiore di farsi fotografare in groppa a un
cammello:
Il maggiore, aiutato e spinto, fu sopra, a cavalcioni, tra le due gobbe. Aveva in testa il casco
coloniale.
Le due macchinette fotografiche (la pellicola poi sarebbe stata ingrandita) presero la mira.
Il signor maggiore guardò verso l’infinito. (p. 30)
17
L’autore opta per una scrittura dai passaggi rapidi: attraverso la scansione ritmica delle
proposizioni, in cui ogni singolo termine è scelto con estrema perizia, la parola acquista inaspettato
spessore e disegna da sé immagini e situazioni che non necessitano di ulteriore commento. Tre
brevissime frasi, infatti, sono sufficienti a ricoprire di ridicolo la maldestra figura del maggiore il
quale, incapace perfino di montare da solo sull’animale, non rinuncia tuttavia ad atteggiarsi in posa
da grande generale, con il casco coloniale in testa e lo sguardo assorto in attitudine meditativa. Non
basta, inoltre, una sola macchinetta fotografica per immortalare la scena: ne vengono utilizzate due
(e si noti la personificazione delle stesse, “impegnate” nell’atto della messa a fuoco, a sua volta
significativamente descritto con espressione propriamente riferibile alle armi da fuoco), e l’autore
non manca di sottolineare tra parentesi come sia già stato stabilito di sottoporre la riproduzione a
opportuno ingrandimento.
Il fascino nei confronti di una presunta alterità, che l’uomo bianco si ritiene comunque in
condizione di dominare in forza della propria superiorità, non si rivela solo nel tentativo, peraltro
goffo e quanto mai effimero, di appropriazione della realtà “altra” attraverso la sua riduzione a
immagine da cartolina: è l’elemento femminile infatti a ricoprire, in ossequio a una già consolidata
tradizione orientalista, il ruolo ammaliante per eccellenza. Anche in questo caso, tuttavia,
l’accostamento viene messo in atto sulla base di idee precostituite, destinate inevitabilmente a
rivelarsi prive di effettivo riscontro sul campo:
Quando gli italiani si trovarono in Libia non incontrarono che queste vecchie, che le altre arabe
furono ancora di più serrate dall’implacabile gelosia dei loro uomini. Il tenente Marcello che
era sempre stato un sincero e avido ammiratore della bellezza femminile davanti a quel triste
spettacolo non si trovava a suo agio e ripeteva che ci doveva invece essere la bellezza delle
Mille e una notte. (p. 83)
Fruitori di tanta facile letteratura esotica, di cui evidentemente hanno già assorbito fino in fondo gli
stereotipi più diffusi e ricorrenti, gli italiani in colonia non possono cioè fare a meno di cercare
quello che la loro immaginazione, a sua volta nutrita delle speranze accese dai racconti di quanti li
hanno preceduti, crede di dover trovare; al punto che inconcepibile risulta ai loro occhi lo spettacolo
tutt’altro che edificante della vecchiaia e del degrado femminile, in quanto non corrispondente alle
proprie aspettative. Aspettative che, pur di essere soddisfatte, riescono persino a stimolare un grado
maggiore di rispetto nei confronti dell’uomo arabo, se visto come tramite ineliminabile per la
realizzazione dell’agognato contatto con la bellezza muliebre:
Era una considerazione frequente che gli italiani disprezzavano gli arabi poiché essi non si
genuflettevano alla meccanica europea, per questo li consideravano dei ciechi miserabili e
quando ci conversavano dalle loro parole traspariva questo giudizio. Marcello che
spontaneamente li stimava, quando seppe che c’era la bellezza delle Mille e una notte fu più
attento col suo amico Mahmúd. (p. 89)
18
Peraltro, anche dopo l’incontro ravvicinato con la fanciulla indigena nipote di Mahmúd, il tenente
Marcello non ne dà affatto una descrizione specifica, né comunica le sensazioni provate dal
contatto; bensì si limita ad affermare la finalmente piena e appagante rispondenza tra realtà e
immaginazione:
ma erano le guance, la bocca, l’ovale del volto che la facevano bellezza dell’Oriente, quella
bellezza che si è immaginata e sognata senza mai avere il sospetto di poterla realmente
incontrare e parlarci e perfino toccarla e sentirne battere il cuore. (p. 93)
Sembra quasi, in altre parole, che sia una fantasia precostituita a guidare l’esperienza reale, e a
servire da metro di giudizio per quest’ultima.
Lo sdegno e la frustrazione dell’autore si fanno nel corso del testo sempre più acuti e percepibili,
ma continuano a essere da lui espressi indirettamente, e in buona misura veicolati attraverso
l’insistenza nella caratterizzazione di alcuni personaggi. Primo tra tutti il maggiore Oscar Pilli, già
conosciuto dall’autore ai tempi in cui lavorava come psichiatra, ancor prima di ricevere la lettera di
richiamo al fronte. I germi del delirio di cui il maggiore cadrà vittima si colgono già nell’icastica
descrizione del suo sbarco in Africa:
Egli, con le gambe divaricate, stringendo spasmodicamente i passamani con tutte e due le
mani, ansante, cominciò a scendere la semplice scaletta. Lo seguivo. Aveva un’angoscia
bestiale. Le sue gambe cercavano, tremanti, astrusi sostegni. Infine arrivò vicino alla terra,
scendemmo sull’Africa. (p. 33)
E il ritratto che ne viene fuori a lettura terminata è senza dubbio impietoso: pusillanime,
millantatore e persino ladro, Pilli tuttavia sembra caricarsi degli echi di certo umorismo di matrice
pirandelliana, nella misura in cui riesce a suscitare compassione se non altro per il fatto di non
risultare l’unico responsabile del degrado fisico e morale in cui lui stesso è caduto. La critica più
decisa, infatti, non si indirizza contro il personaggio bensì contro il sistema che ha contribuito in
buona dose a una diffusa perdita di dignità e di lucidità, senza peraltro poi curarsi minimamente di
mettere ad essa riparo. Se pertanto Pilli diventa in fretta lo zimbello di tutti i soldati, argomento
preferito di conversazione e fonte inesauribile di risate, al tempo stesso si insinua tra le righe il
sospetto che la sua follia sia poi in fondo l’unica reazione possibile a una condizione esistenziale
che diventa di giorno in giorno sempre più assurda e insostenibile. Il personaggio allora si fa
emblema di una forma certo patologica, ma non per questo meno significativa, di rivolta alla
situazione di abbandono in cui versa tutto l’esercito italiano in Libia:
Nel silenzio pomeridiano sorpresi Pilli a scrivere una lettera a sua madre, scriveva in un
angolino della tenda di medicazione. Me la lesse. Descriveva in quella lettera lui bambino
sperduto in un deserto, contornato da mosche e da scorpioni, sospeso tra la penuria, le
inguaribili malattie, l’abbandono, ma innanzitutto vi diceva il senso dello sperduto, del
bambino solo in fondo a un abisso. (p. 46)
19
Per questo stesso motivo il suo febbrile attivismo, che pure dovrebbe essere a rigore l’atteggiamento
adeguato di un comandante in un contesto di guerra, suscita ilarità in quanto contrasta con
l’effettiva inattività di tutto il suo reparto. Inoltre, nel momento in cui la sua follia diviene da fonte
di divertimento motivo di esasperazione per gli stessi soldati costretti a tollerarne ogni nuova
bizzarria, Tobino sceglie di relegare a poco a poco il personaggio stesso dietro le quinte della scena,
puntando piuttosto i riflettori sulle disfunzioni della burocrazia militare italiana, la quale
dice che non vuole nessuna «grana», che tutti «si lavano le mani», e poiché non è contemplato
che un superiore venga accusato da inferiori, chi è inferiore sopporti in silenzio, perché è così.
(p. 59)
Pilli viene infatti giudicato idoneo al proprio incarico semplicemente sulla base della sua
meticolosità, peraltro maniaca e ossessiva, nella redazione e organizzazione dei documenti
dell’esercito, senza che si badi affatto all’inadeguatezza del suo comportamento:
I due colonnelli ispezionarono se c’era la polvere sopra il mobile, non curandosi affatto se il
mobile era storto, tarlato, inservibile, o se era anche un mobile. (p. 66)
Mi sembra tuttavia evidente l’intenzione dell’autore di dimostrare come Oscar Pilli goda almeno in
parte, in forza della propria malattia mentale, di una condizione in un certo senso privilegiata, nella
misura in cui la perdita di lucidità lo libera in qualche modo dall’oppressione di una realtà
esistenziale alienante nelle sue assurdità e staticità. Privilegio non riservato, al contrario, a Marcello
e Mahmúd, nel cui difficile rapporto denso di contraddizioni si coglie invece tutta la drammaticità
di una consapevolezza che attanaglia i soggetti stessi, ma non può in alcun modo modificare una
situazione che li trascende:
Solo uno che è stato sotto la tirannia può con un lampo capire e soffrire certi aspetti e subito
vergognarsene, accorgendosi di aver cambiato improvvisamente la sua parte. Infatti Marcello
in quel momento era lo straniero, colui che domina, che ha l’uniforme del suo tiranno.
Mahmúd parlava anche contro di lui. […] E Marcello, tutto rosso più nell’animo che nel volto,
si trovò già dentro il mercato e la sua prima considerazione fu che egli non era, come avrebbe
amato, in quel luogo come un sereno spettatore, ma era e restava un italiano con il suo passato,
la storia del suo paese e personale, era un attore, un vivo attore del suo tempo e la guerra,
anche se non appariva ufficialmente, era proprio tra lui e Mahmúd, con tutto il dolore e
l’ingiustizia che c’è nelle guerre perché loro due che capivano e si capivano e avrebbero potuto
essere amici e in segreto e in pubblico mai mancarsi di rispetto si facevano invece tiri, e pochi
giorni prima Marcello aveva goduto sardonicamente, approfittando della scienza medica, a
denudare il suo harem, ora Mahmúd derideva Marcello salutandolo con acre cerimonia,
isolandolo nella piazza piena di sole, snudandolo come disumano straniero che senza essere
invitato cammina armato in un paese altrui, con abitanti antichissimi, di civiltà per certi lati
così raffinata che nessuno, o quasi, osa confronto. (pp. 101-2)
L’oppresso è diventato oppressore: colui che ha vissuto nell’Italia fascista, e qui ha provato sulla
propria pelle la realtà odiosa dell’oppressione e della violenza, si trova ora a sua volta a esercitare
20
un altrettanto odioso dominio, peraltro in terra straniera. Marcello non può infatti agire come
l’istinto gli suggerirebbe, bensì deve uniformare con rammarico il proprio comportamento alle
responsabilità derivanti dal fatto di essere andato in Africa per prendere parte a un’aggressione
militare che forse non condivide, ma che ha comunque accettato di rappresentare in nome della
fedeltà di patria. Nel reciproco prendersi gioco l’uno dell’altro non è la volontà del singolo ad agire,
ma una legge che è al di sopra di entrambi e che li condanna senza possibilità di appello ad
appartenere a due mondi contrapposti e inconciliabili. Significativa la scelta di Tobino di utilizzare
la stessa espressione verbale, prima in senso proprio e poi figurato, in riferimento alle azioni che
rispettivamente Marcello e Mahmúd compiono l’uno a discapito dell’altro: se infatti il primo ha
saputo trarre vantaggio dalle proprie conoscenze mediche per giustificare l’esigenza di far denudare
la nipote di Mahmúd (godendo così della vista delle sue fattezze perfette), l’arabo dal canto suo,
intento nella pubblica piazza ad ammonire i propri concittadini contro il violento dominio italiano,
riesce nell’intento di additare Marcello come incarnazione effettiva dello straniero usurpatore,
denudandolo a sua volta della machera di presunte umanità e cordialità con cui egli tenta di coprirsi
il volto. La stima e il rispetto reciproci, in altre parole, agiscono solo a livello individuale, e non
possono bastare a cancellare una disparità di fondo che pesa sul singolo e ne condiziona
inevitabilmente atteggiamenti e comportamenti: «Al di là di ogni buona volontà individuale, la
comunicazione autentica, rispettosa, paritaria, tra il colonizzato e il colonizzatore, si rivela
impossibile».33
Eppure di nuovo l’autore rifugge dalla tentazione di pronunciare un giudizio di condanna che
vada a colpire il singolo attore, come lo è lui d’altronde, intrappolato sulla scena e progressivamente
sempre più consapevole della propria scomoda posizione. Anzi, nel testo mi sembra agire ancora
una volta, e in maniera altrettanto chiara, quella retorica degli italiani “brava gente” già applicata ai
soldati italiani dalla sceneggiatura di De Santis: Tobino si guarda bene dallo sviluppare all’interno
della propria opera un discorso critico sulla guerra in atto, la quale è presente nella sua realtà come
qualcosa di imposto dall’alto a una massa di uomini sostanzialmente inconsapevoli, colpevoli solo
di avere uno spiccato senso del dovere e un rispetto totale per le gerarchie militari.
Una sezione del testo trascrive fedelmente le pagine di diario dello stesso Marcello, da cui si
evince infatti una critica radicale alla gestione della guerra da parte del governo italiano. Soprattutto
dopo la pesante disfatta del generale Graziani in Tripolitania, l’esercito versa infatti nel caos più
assoluto, e gli italiani in colonia sono pronti a cambiare partito in un batter d’occhio, dapprima
guardando alle notizie dello sbarco inglese in terra africana come a un’agognata liberazione, poi di
nuovo supini all’arrivo inaspettato dei tedeschi:
33
Giovanna Tomasello, L’Africa tra mito e realtà, cit., p. 208.
21
Poiché questa folla non aveva convinzioni e dignità, e appena luccicava il più forte
s’inchinava, non avendo nulla da mantenere e difendere; ed è una particolare attitudine degli
italiani a inghiottire saliva davanti alle parate. (p. 106)
Il crollo definitivo delle speranze di vittoria si accompagna d’altronde al libero sfogo degli istinti
non più frenati da nessun residuo di disciplina, al punto che, come annota Marcello:
ormai gli italiani sono giunti vicini alla bestia, non c’è quasi più differenza.
Con un facile trucco di dirsi tutti eroi, si sono fatti contentissimi.
Per ritornare uomini avranno bisogno ancora di molte bastonate. (p. 110)
Laddove in tanta letteratura di viaggio otto e novecentesca di ambientazione coloniale il mondo
animale era sempre stato bacino fecondo da cui attingere immagini utili come metro di paragone
con l’elemento umano indigeno, nelle parole di Marcello i ruoli sono ora cambiati, ed è l’italiano
stesso ad essere sceso al livello delle bestie.
Traspaiono dalle considerazioni sempre più amare del tenente la difficoltà e persino la messa in
discussione dell’utilità, a questo punto, di operare una distinzione tra vincitori e vinti, tra nemici e
connazionali, laddove l’unica linea di demarcazione ancora tracciabile sembra quella che corre sul
filo della dignità personale, di certo da tempo non più appannaggio dei fascisti:
Gli unici calmi e vagamente tristi sono coloro che tutto questo risultato avevano previsto
logicamente. Costoro sono pochi, e saranno colpiti come gli altri. I nemici (così detti) non
possono distinguere. I fascisti cercano di fuggire a più non posso verso l’Italia, e in massima
parte l’hanno già fatto. Qui sono rimasti gli italiani imbecilli e in certo modo innocenti e gli
italiani dignitosi che nonostante già, anche nella falsa vittoria, avendo capito la situazione
malsana, sono tuttavia rimasti, non fuggendo, a causa della dignità. (pp. 115-6)
I fascisti al comando, su cui forte si appunta il disprezzo dell’autore, gli unici a essere definiti
esplicitamente responsabili di quanto è accaduto e sta accadendo, in fretta si dileguano, imboscati
per evitare la prigionia o salpati per l’Italia nell’ultimo momento utile. A tutti coloro che avevano
creduto nella vittoria, che si erano inorgogliti nell’esaltare la schiacciante superiorità italiana sul
barbaro nemico, non resta che convergere su Tripoli da ogni parte della Libia, sperando di scampare
alla prigionia degli inglesi. Ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non sono molti,
non solo perché in tanti non riescono a precedere l’arrivo degli inglesi, ma anche e soprattutto
perché non vogliono farlo:
i diversi non tentarono nulla per sfuggire all’accerchiamento inglese poiché erano lieti di
divenire prigionieri e finalmente smetterla col deserto, del quale erano stanchissimi, e poiché
ugualmente erano stanchissimi di quella confusione che non capivano bene quale e perché ci
fosse, ma che pure sentivano esistente. […] E arrivarono a Tripoli con la testa rotta, dentro e
fuori. Erano tutti coloro che non avevano pensato, che s’eran fatti tirar su con l’amo,
agganciati per il naso, e felicemente scodinzolanti, da quella sciocchissima tirannia tutta
ingualdrappata di patriottismo; costoro arrivarono stralunati a Tripoli. (pp. 117-8)
22
E lo stesso Marcello sa di essere in fondo uno di loro, spettatore ancora per poco, presto anche lui
attore di un dramma ridicolo e tragico allo stesso tempo, in cui eroismo e viltà diventano ormai le
due facce di una stessa medaglia, e l’unico desiderio che ancora tiene in vita è quello di poter
tornare a casa.
Fin qui dunque un ritratto, quello di Tobino, piuttosto impietoso della realtà italiana in Libia, che
non lesina critiche; una visione della situazione in colonia che certamente non potremmo definire
idealizzata, ma che mira piuttosto a scardinare diffuse credenze e false opinioni. Tuttavia, ci sono
alcuni elementi che mi preme sottolineare a chiusura di questa mia breve analisi del testo, i quali in
parte si ricollegano al discorso sull’elaborazione della memoria coloniale da cui sono partita.
Prima di tutto, mi sembra evidente che la condanna dell’autore si appunti direttamente sul
regime fascista in quanto tale, con le sue ipocrisie, i suoi falsi miti e la sua ridicola vanagloria. In
questo contesto, è impossibile sfuggire all’impressione che poi, in fondo, la vicenda coloniale nella
sua peculiarità resti piuttosto sullo sfondo, in linea con quella tendenza, forte negli anni Cinquanta
ma anche oltre, a collegare appunto fascismo e colonialismo, finendo per ritenere quest’ultimo
come una semplice appendice del primo. Ne è riprova anche il fatto che, come ho già accennato,
poca o nessuna attenzione viene dall’autore riservata alle condizioni di vita degli indigeni e, nello
specifico, al loro concreto rapporto con le forze occupanti; sorprendentemente, la loro stessa
presenza, in quanto legittimi abitanti della terra su cui la vicenda si svolge, tende quasi a essere
dimenticata nel corso della lettura, nella misura in cui la memoria dell’autore si concentra piuttosto
sulla situazione degenerativa dell’esercito italiano. Come abbiamo già messo in luce, Mahmúd è
l’unica figura di arabo che trova posto nella narrazione, per lo più in quanto in grado di dialogare
con gli italiani e di ricoprire una posizione di tramite tra questi e i suoi compatrioti. In altre parole,
non sembra trasparire dal testo la presa di coscienza dell’impatto che l’occupazione prima e la
guerra poi hanno sulla popolazione locale, né sostanzialmente viene davvero criticata la stessa
espansione coloniale perpetrata a danno di essa. Sono, al contrario, gli stessi italiani, lasciatisi
ingannare da governanti mendaci e incapaci, a essere additati come vittime di altri italiani più
potenti, furbi e disonesti di loro, rimasti in patria al riparo a orchestrare da lontano una scena
pietosa. Non è un caso dunque che il libro si chiuda con un brevissimo capitolo dal titolo Ci furono
anche in Libia gli eroi, estremo tentativo di riabilitare la memoria di chi, nonostante tutto, «non
abbandonò l’amico, chi morì per nulla, sapendolo», di quell’«uomo senza patria, vilipeso, afflitto
per venti anni da una bestiale tirannia» (p. 219). Ma dove si collocano, viene da chiedersi, in questa
prospettiva quegli uomini che sono stati condannati a vivere da emarginati nella propria terra natia,
e a vedere di essa e della propria vita lo scempio perpetrato da mani straniere? Se ad essi non spetta
l’appellativo di vittime, se addirittura la loro presenza non vale neppure la pena di essere
23
menzionata, come verranno non dico risarciti della loro sofferenza, ma almeno riabilitati alla futura
memoria?
2.4 Ennio Flaiano anticolonialista?
Declinazione alquanto originale di una vicenda per molti aspetti simile è, infine, quella scelta da
Flaiano, il quale decide di relegare il proprio Io autobiografico in uno spazio ancora più incerto e
marginale: il protagonista di Tempo di uccidere è, più che alter-ego dell’autore, figura
rappresentativa di una intera generazione di soldati italiani mandati a combattere una guerra assurda
in un Paese ignoto. È pur vero, tuttavia, che l’autore si trovò a partecipare in prima persona alla
campagna di Etiopia lanciata con entusiasmo da Mussolini sul finire del 1935: una guerra, come
egli stesso afferma in un’intervista del 197234, da lui profondamente odiata, al punto da augurarsene
la disfatta, purché questa potesse garantire al tempo stesso la caduta del regime fascista in Italia.
D’altronde, un breve diario di questa sconvolgente esperienza, per quanto lapidario, rappresenta la
fase avantestuale del romanzo del 1947: Aethiopia. Appunti per una canzonetta, pubblicato
postumo nel 1973 sul settimanale «Il Mondo», rimane infatti ancora oggi come testimonianza della
profonda interconnessione tra letteratura e vita che è peraltro caratteristica di tutta l’opera di
Flaiano, e che contribuì a relegare l’autore in posizione marginale in un periodo culturale dominato
dal neorealismo, e dunque teso a propugnare un distacco pressoché totale dell’autore dal proprio
testo.35 E proprio in clima neorealistico certamente doveva destare maggiore sorpresa il carattere
marcatamente allegorico delle scelte tematiche e stilistiche dell’autore, che talora raggiunge risultati
poetici di indubbia potenza visionaria.
Non stupisce, dunque, il fatto che la critica al romanzo si sia a lungo appuntata sulle profonde
implicazioni esistenziali che la vicenda porta con sé, a partire dal percorso metafisico del
protagonista, scandito da una serie di episodi al limite del verosimile, dalla colpa all’autoassoluzione (in cui è chiaro il riferimento al ben più consapevole viaggio di purificazione dantesco).
Lascia perplessi, tuttavia, come sottolinea in un contributo recentissimo Leah Nasson36, la generale
tendenza a tralasciare del tutto il contesto bellico di riferimento sul cui sfondo l’intera narrazione si
articola, e che a lungo è stato considerato marginale o addirittura ininfluente nella sua precisa
caratterizzazione storico-geografica. Emblematico, a questo proposito, il giudizio di Sergio
Pautasso, secondo cui i problemi del protagonista nel romanzo sarebbero quelli universali riferibili
a ogni uomo, indipendentemente dalle condizioni e circostanze storiche in cui egli viene a
34
35
Cfr. Ennio Flaiano, Opere, a cura di Maria Corti e Anna Longoni, Milano, Bompiani, 1988-90.
Cfr. a questo proposito Franco Celenza, Le opere e i giorni di Ennio Flaiano. Ritratto d’autore, Milano, Bevivino,
2007.
36
Leah Nasson, Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale. Negotiating exoticism and colonial conquest in
Ennio Flaiano’s Tempo di uccidere, «Studi d’italianistica nell’Africa australe», 1, 2012, pp. 40-58.
24
trovarsi.37 O ancora la lettura che del romanzo dà in tempi recenti Patrizia Palumbo, secondo cui
l’Etiopia funzionerebbe nel testo solo «as a bare backdrop to what is […] Flaiano’s existentialist
representation of human conditions».38 In altre parole, Tempo di uccidere viene immediatamente
inglobato, in forza del suo tessuto simbolico e visionario, nella corrente esistenzialista del romanzo
europeo, e dunque in questo senso accostato ai capolavori di Camus e soprattutto di Conrad.39
Persino Giovanna Tomasello, che inserisce Flaiano nel novero degli autori coloniali di cui si
propone di analizzare l’opera, finisce in fondo per far propria una lettura del romanzo fortemente
orientata in senso allegorico, secondo la quale l’Africa è qui «l’esperienza di un incubo in cui
intravediamo ciò che realmente siamo» per cui, una volta rientrati in patria, «il malessere della
nostra coscienza non viene dissolto, ma soltanto rimosso, e la parte oscura dell’animo non viene
asportata, ma soltanto occultata».40
In realtà, la sovrapposizione della vicenda autobiografica dell’autore alla storia narrata, se
contravviene alle regole di impersonalità imposte dal neorealismo (e, al contrario di altre opere
cosiddette neorealiste − quale Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, che esce peraltro sempre nel
1947, stesso anno in cui Pratolini pubblica Cronaca di poveri amanti e Cronaca familiare − non si
fa carico di delineare direttamente gli eventi di guerra), al tempo stesso tuttavia riporta il romanzo
nel solco di questo stesso movimento culturale nella misura in cui è proprio l’esperienza vissuta a
farsi garante di un realismo capace di coinvolgere ambiente e personaggi: «per Flaiano l’Africa era
uno scenario della memoria, più che una “carta da parati” su cui proiettare i sogni (o gli incubi)
dell’immaginazione».41 Significativa, a questo proposito, l’icastica scenetta che compare tra i primi
appunti di Aethiopia, dove protagonista è un soldato appena arrivato in Africa: come accadeva già
al maggiore cui fa riferimento Tobino nelle prime pagine del Deserto della Libia, anch’egli si trova
immediatamente costretto a realizzare con i propri occhi lo scarto profondo tra le fuorvianti
aspettative e la realtà che si trova di fronte:
Egli sognava un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali
ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei films Paramount
denominata Oriente, che offre tanti spunti agli autori dei pezzi caratteristici per orchestrina.
Invece trova una terra uguale alla sua, più ingrata anzi, priva d’interesse. L’hanno preso in
giro.42
37
Cfr. Sergio Pautasso, Attualità di un romanzo, «Nuova Antologia», dicembre 1976, p. 555-60.
Patrizia Palumbo, National identity and african malaise in E. Flaiano’s Tempo di uccidere, «Forum Italicum», 36
(1), 2002, p. 58.
39
Vedi anche, a questo proposito, Daniele Fioretti, Tempo di uccidere. L’anti-epopea coloniale di Ennio Flaiano
dal “taccuino” al romanzo, «Triceversa», Revista de Estudios Italo-luso Brasileiros, 3 (1), Maio-Aut 2009, pp. 168-81.
40
Giovanna Tomasello, L’Africa tra mito e realtà, cit., p. 215.
41
Marcello Simonetta, Mal di Flaiano. L’Africa fra il gioco e il massacro, «Studi d’italianistica nell’Africa
Australe», 6, 1993, p. 10.
42
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Milano, BUR, 2010, pp. 289-90. Tutte le successive citazioni del romanzo si
intendono dalla presente edizione, con la sola indicazione dei numeri di pagina.
38
25
Per quanto non siamo autorizzati a postulare un’immediata identificazione tra il soldato qui
rappresentato e l’autore stesso, è senza alcun dubbio verosimile ipotizzare un impatto non meno
traumatico per Flaiano all’arrivo in Etiopia: d’altronde doveva trattarsi di una situazione facilmente
generalizzabile, dal momento che, come sappiamo, l’immaginazione di chi si accingeva a partire
era sapientemente nutrita in patria da una fervida attività di propaganda. Quello che, al contrario, mi
sembra interessante notare in questo passo è la profonda consapevolezza che ne traspare dei
meccanismi messi in atto per veicolare un’immagine del tutto mistificante dell’Africa, creata a
tavolino e per questo priva di qualsiasi corrispondenza con l’effettiva realtà geografica. In rapida
successione, e in forma sottilmente ironico-allusiva, Flaiano fa riferimento infatti ai diversi mezzi di
comunicazione sfruttati in quegli anni dal regime per assicurarsi il consenso delle masse intorno
all’impresa: raffigurazioni circolanti già da tempo sulle riviste illustrate, ma anche rappresentazioni
cinematografiche e canzonette popolari. L’autore quindi si fa qui portavoce di una denuncia, sia
pure velata, verso una forma di elaborazione stereotipata dell’Oriente di matrice occidentale; quella
che a partire dai fondamentali studi di Edward Said siamo soliti indicare con l’etichetta di
“orientalismo”. È proprio in un’ottica europea che la realtà africana viene infatti concepita e sembra
talora poter assumere connotazione positiva: vale a dire solo nella misura in cui essa possa servire a
soddisfare le esigenze di rigenerazione e di riconciliazione con se stesso dell’uomo bianco. Anche il
protagonista del romanzo si lascia, infatti, almeno in un primo momento, attrarre dalla purezza
primigenia di una «terra non contaminata: idea che ha pure il suo fascino sugli uomini costretti nella
loro terra a servirsi del tram quattro volte al giorno» (p. 53). E anzi egli non esita a sottolineare, in
uno scambio di battute con un maggiore dell’esercito, come gli indigeni abbiano potuto conservare
virtù ormai perdute nei cosiddetti paesi civili, al punto che, aggiunge, «se non fossimo venuti non
avrebbero mai sospettato che si può condurre una vita meno difficile, a patto di perdere le loro
qualità e di acquistare i nostri difetti» (p. 136).
Eppure, tali luoghi comuni diffusi ampiamente nella letteratura esotica già ottocentesca non
hanno particolare risonanza né ricorrenza nello sviluppo del romanzo; piuttosto, si chiarisce ben
presto come non sia tanto il contatto con una condizione esistenziale originaria e irrimediabilmente
perduta a rivitalizzare l’uomo europeo in Africa, quanto la realizzazione, qui inequivocabile, della
superiorità da lui raggiunta sulle forze della natura:
Qui sei un uomo, ti accorgi cosa significa essere un uomo, un erede del vincitore del
dinosauro. Pensi, ti muovi, uccidi, mangi l’animale che un’ora prima hai sorpreso vivo, fai un
breve segno e sei obbedito. Passi inerme e la natura stessa ti teme. Tutto è chiaro, e non hai
altri spettatori che te stesso. La vanità ne esce lusingata. (p. 53)
Una riflessione di questo genere va ben al di là, ovviamente, della vicenda personale del
protagonista, e inquadra piuttosto alla perfezione tutta una generazione nutrita sì di esotismo, ma al
26
tempo stesso educata al culto della forza e all’idea del dominio sul più debole. Flaiano intaglia
dunque consapevolmente il proprio personaggio all’interno di una mentalità che non esito a definire
colonialista, ed è in questo senso che l’Africa e ciò che essa contiene e rappresenta non rimane in
alcun modo sfondo ornamentale alla narrazione. Piuttosto, possiamo riconoscere che laddove i due
testi di Berto e Tobino presi in esame finiscono, nel loro forte intento testimoniale, per relegare
davvero in una posizione marginale tutto quel mondo indigeno che pure costituiva, oltre che il
teatro di guerra, l’ambientazione delle vicende autobiografiche narrate, Tempo di uccidere ambisce
in maniera più decisa a fornire il ritratto di un incontro, impossibile forse, eppure reale nella sua
occorrenza storica, tra due culture che si vengono a trovare loro malgrado a stretto contatto. Flaiano
non teme, in altre parole, di confrontarsi con il problema coloniale: se è vero che le condizioni
esistenziali del protagonista si prestano a una lettura del romanzo che esuli dal contesto storico in
cui esso si sviluppa, tuttavia tale contesto è tutt’altro che accessorio al punto che, secondo
l’opinione della Nasson, attraverso la sua attenta messa in scena l’autore riesce a veicolare le
proprie posizioni decisamente anticoloniali. Seppure non mi senta di sottoscrivere appieno una tale
affermazione (ma su questo punto tornerò più avanti), sono senza dubbio d’accordo sul fatto che la
dimensione coloniale del romanzo sia stata a torto messa da parte, in quanto essa costituisce al
contrario un punto di riferimento essenziale per una sua corretta e completa interpretazione.
Non è un caso, infatti, che l’incontro tra il protagonista e l’indigena costituisca l’episodio
scatenante di tutto il percorso narrativo: in esso si esprime appieno quella fusione tra attrazione
esotica e passione erotica che caratterizza l’approccio europeo all’alterità.43 Di tale meccanismo,
d’altronde, Flaiano si dimostra esplicitamente consapevole, laddove nel primo appunto di Aethiopia
compare la seguente incisiva annotazione: «Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale» (p.
289).
Mariam, allora, suscita una commistione di repulsione e desiderio scatenata allo stesso modo, a
un livello più ampio, dal contatto con la terra africana, con cui la donna viene tra l’altro
esplicitamente identificata:
Dormiva, proprio come l’Africa, il sonno caldo e greve della decadenza, il sonno dei grandi
imperi mancati che non sorgeranno finché il “signore” non sarà sfinito dalla sua stessa
immaginazione e le cose che inventerà non si rivolgeranno contro di lui. Povero “signore”.
Allora questa terra si ritroverà come sempre; e il sonno di costei apparirà la più logica delle
risposte. (p. 55)
Ambiguo e volutamente criptico nel prospettare l’incerto futuro del continente africano − laddove il
conquistatore bianco sembra essere l’unico in grado di risollevarne le sorti, eppure anche lui
43
Cfr. a questo proposito Roberta Maccagnani, Esotismo-erotismo. Pierre Loti: dalla maschera esotica alla
sovranità coloniale, in Anita Licari, Roberta Maccagnani, Lina Zecchi, Letteratura esotismo colonialismo, Bologna,
Cappelli, 1978, pp. 63-99.
27
destinato alla lunga a fallire e a cedere il passo di fronte a una forma di inerzia atavica e irredimibile
− il passo riportato stabilisce un’intima connessione tra la donna e l’Africa, entrambe avvolte
appunto da un sonno che sembra essere la loro unica e più autentica forma di (non) vita.
Inoltre, come avviene in tanta letteratura coloniale, la figura femminile finisce per diventare essa
stessa elemento interno al paesaggio, descritta non a caso in tutta la sua fisicità, «pura componente
cromatica e scenografica dello spettacolo ambientale»44, e infine contendente in una lotta in cui è
inevitabilmente condannata a soccombere.45 Come giustamente nota ancora una volta la Nasson, la
quale concentra la sua analisi proprio sul capitolo iniziale di Tempo di uccidere,
the interaction between the lieutenant and Mariam does not differ substantially from any other
colonial encounter. Although it does not involve the exchange of gunfire, the isolated area of
the plateau is transformed into a metaphorical battlefield, in which the power of the coloniser
is asserted over that of the colonised.46
D’altronde, anche le strategie messe in atto dal soldato italiano per vincere la lunga e tenace
resistenza di Mariam alle sue avances richiamano da vicino, come vedremo, quelle usate da tanti
viaggiatori ed esploratori coloniali nell’intento di stupire, e dunque più facilmente piegare alla
propria volontà, le popolazioni indigene. Sorpresa infatti la donna nell’atto di lavarsi presso il
fiume, il tenente non esita a cederle il proprio pezzo di sapone, compiacendosi dell’evidente senso
di vergogna da lei stessa subito dopo manifestato «perché aveva ceduto al fascino di qualcosa che
mi apparteneva. Cominciava a riconoscermi dei diritti» (p. 41). Ogni mezzo è utile per affermare la
propria superiorità, e per rendere dunque più rapido e più sicuro il soddisfacimento dei propri
desideri.
La descrizione di Mariam, poi, si rivela oltremodo fedele ai moduli di una tradizione socioletteraria densa di stereotipi e di facili schematizzazioni, in cui la già asserita equazione con la
natura si allarga a comprendere un ulteriore termine di paragone, rappresentato dal mondo animale.
Il sorriso di Mariam è allora «quello di un buon animale domestico che aspetta» (p. 95); il suo odore
è al tempo stesso «odore vegetale, da albero paziente» (pp. 95-6) e «odore denso, da animale
cristiano, […] odore delle sacrestie e dei cani randagi e anche l’odore delle tuberose in una stanza
calda» (p. 97), e i suoi occhi possono offrire solo uno «sguardo insopportabile di animale
diffidente» (p. 52). Infine, persino il rapporto peculiare con il trascorrere del tempo, ancora
originario e non viziato dai ritmi incalzanti della civiltà occidentale, finisce per rappresentare un
ulteriore elemento di contatto tra realtà femminile e ambientale in quanto le ragazze indigene, come
44
Francesco Surdich, La rappresentazione dell’alterità africana nei resoconti degli esploratori italiani di fine
Ottocento, in L’Afrique coloniale et postcoloniale dans la culture, la littérature et la societé italiennes. Représentations
et témoignages, Actes du Colloque de Caen, 16-17 novembre 2001, publiés sous la direction de Mariella Colin et Enzo
Rosario Laforgia, France, Presses Universitaires de Caen, 2003, p. 47.
45
Cfr. anche Maria Pagliara, Il romanzo coloniale. Tra imperialismo e rimorso, Bari, Laterza, 2001.
46
Leah Nasson, Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale…, cit., p. 48.
28
afferma il tenente, «sanno perdere tempo proprio come gli alberi e gli animali» (p. 91). E tuttavia, il
risvolto di tale concezione è positivo solo in apparenza, perché anch’esse sono destinate ad
apprendere la nozione del tempo, e a diventare «come tutte le ragazze di questo mondo, ma di un
genere inferiore, molto inferiore» (p. 91). Non si tratta allora soltanto, sembra qui suggerire il
protagonista, di una questione di mancata o ritardata evoluzione: anche a parità di civilizzazione la
donna indigena rimarrebbe sempre e comunque su un gradino più basso in un’ipotetica scala di
valore.
Ogni tassello di questa sapiente orchestrazione comparatistica tra donna e paesaggio, topos come
abbiamo detto «ripetutamente usato e proposto per sancire l’irredimibile condizione di non-umanità
di quel mondo ritenuto ancora fermo ad uno stadio estremamente primitivo e bestiale» 47 , è
funzionale, nella trama specifica del romanzo, all’intenzione del protagonista di auto-assolversi
dalla colpa di aver ucciso, sia pure per errore, l’indigena. E infatti, quando ormai il suo percorso va
avviandosi alla conclusione, il tenente ritorna ancora una volta sull’accaduto, ma solo per
ridimensionarne fino all’estremo la portata, proprio in forza della natura sub-umana della donna in
esso coinvolta:
Eppure, non mi sembrava che valesse tanto […] la vita di una persona che ci è sembrata
qualcosa di più di un albero e qualcosa di meno di una donna. Non dimentichiamoci che eri
nuda e facevi parte del paesaggio. Anzi, eri qui a indicarne le proporzioni. (p. 247)
La nudità si presenta dunque come il primo segno visibile di una condizione umana ancora vicina
allo stato di natura: interessante, a questo proposito, il fatto che la stessa nudità venga ad assumere
un significato diverso agli occhi del protagonista in un’altra figura femminile indigena con cui egli
entra in contatto. Anche lei, come già era accaduto con Mariam, viene scorta dal tenente nell’atto di
lavarsi; tuttavia è l’ambientazione ad essere cambiata: l’incontro non avviene sulle sponde di un
fiume, bensì in una casa situata nel contesto cittadino di Massaua, e la visuale del corpo femminile è
impedita dalla presenza di un paravento che lascia scoperto allo sguardo dell’uomo solo il viso. E,
anche quando la nudità del corpo viene offerta alla vista dello straniero, essa reca con sé una
consapevolezza del tutto estranea alla semplice ingenuità di Mariam: «Poteva restar nuda non per
estrema innocenza, ma perché aveva superato tutti i pudori» (p. 177). Si tratta infatti di un’indigena
«evoluta» (p. 175), la quale «aveva raggiunto quell’invidiabile posizione di una casetta con la
doccia, aveva clienti, sapeva leggere» (p. 176); tanto diversa dal prototipo femminile precedente
che il paragone animale non regge più, e l’odore diviene ora «un fresco odore di acqua di colonia»
(p. 175). Volutamente ambiguo in questo caso il messaggio di Flaiano, che lascia al lettore la
risposta al quesito su cosa davvero si basi questa presunta “evoluzione”, se lo sradicamento dal
47
Francesco Surdich, La rappresentazione dell’alterità africana…, cit., pp. 47-8.
29
villaggio «ormai dimenticato» (p. 177), il “lavoro” come prostituta e l’uso di un profumo
occidentale rappresentino davvero un segno di progresso rispetto a una condizione indigena
originaria. Quel che è certo è che la giovane eritrea è ben lontana dall’indifesa Mariam non solo
perché parla l’italiano e legge riviste italiane, ma anche perché si pone come esempio tangibile di
quel fenomeno di combinazione di elementi appartenenti a culture diverse a cui già da qualche
tempo è stata data la definizione di ibridazione; presa a prestito dall’ambito scientifico e applicata
nei cultural studies alla realtà coloniale e post-coloniale, la nozione di ibridismo viene infatti
considerata da Homi Bhabha48, il filosofo indiano che ne è il più convinto assertore, attributo
ineliminabile della condizione coloniale, effetto prodotto dallo stesso potere coloniale che, nel
tentativo di negare l’“altro” e la sua cultura finisce nel dare ad esso nuova forza.49
Il confronto con la realtà indigena, ad ogni modo, non si realizza in Tempo di uccidere solo
attraverso l’interazione con il mondo femminile; al contrario, una figura particolarmente
interessante nelle sue sfaccettature è costituita dal vecchio Johannes, che anzi diventa punto di
riferimento essenziale nello sviluppo della vicenda dopo la morte di Mariam. Anche in questo caso
Flaiano preferisce l’ambiguità alla chiarezza, e sceglie di avvolgere il personaggio di un’aura di
mistero che ne accresce il fascino e ne scava la profondità. Al lettore non è fino in fondo concesso
neppure di capire con certezza quale sia la natura della relazione dell’anziano con la giovane donna
uccisa, se egli semplicemente provenga dallo stesso villaggio o se ne sia addirittura il padre. Ad
ogni modo, un po’ come avveniva nel Mahmúd di Tobino, l’atteggiamento che ne caratterizza la
figura è quello di una profonda e intaccabile dignità, lungi dal piegarsi di fronte alla presunta
autorità dello straniero: «Non ci temeva, non stimava opportuno sorriderci, farci il saluto che aveva
visto fare tante volte» (p. 110). Johannes sembra voler ridurre al minimo necessario la stessa
interazione con l’uomo bianco al punto che non solo, al contrario di Mahmúd, non chiede alcun tipo
di aiuto, ma evita accuratamente di mettersi nella condizione di debitore di qualsivoglia favore o
concessione, nonostante i reiterati tentativi del tenente:
Se vieni al campo, avrai quanto pane desideri» dissi. Ringraziò ancora, ma capii che non
sarebbe mai venuto, che giammai l’avrei visto davanti alla mia tenda in atto di salutarmi, di
riconoscermi vincitore. (p. 120)
Le parti sembrano in questo caso piuttosto invertite: Johannes, ex ascari e dunque perfettamente in
grado di parlare la lingua italiana, non manifesta esigenze di comunicazione né la sia pur minima
intenzione di mettere da parte il proprio orgoglio; è il tenente, al contrario, che cerca più volte il
dialogo, e che suo malgrado non può evitare di provare ammirazione per il vecchio indigeno, la cui
serafica forma di rassegnazione ancor di più fa risaltare, per contrasto, l’irrequietezza smaniosa del
48
49
Homi Bhabha, The location of culture, London-New-York, Routledge, 1994.
Cfr. Robert Young, Colonial desire. Hibridity in theory, culture, and race, London, Routledge, 1995.
30
protagonista. Anzi, la calma di Johannes concorre a esasperare la già di per sé tangibile irritazione
del tenente, il quale ne giudica addirittura insolente l’atteggiamento:
Ed è una bella pretesa la mia, che egli deponga il suo rancore davanti a un biglietto di banca,
che non avrà mai occasione di spendere, perché al suo sostentamento basta questa miserabile
terra e quella solitaria gallina e quello sciagurato animale che si offre per i suoi spezzatini. È
un saggio e, come tutti i saggi, detesta il denaro perché ne sospetta il fascino. Vuol fuggire le
tentazioni. In questo deserto! O vuol soltanto dimostrarsi che sono il vincitore ma non l’amico,
che posso vendergli, ma non regalargli qualcosa. (p. 232)
Di fronte all’impassibile fermezza di Johannes il tenente non può far altro che avanzare
supposizioni, in quanto dal suo punto di vista stenta a comprenderne le ragioni. Prima di tutto è
inspiegabile agli occhi occidentali l’attaccamento dell’indigeno alla propria terra, una terra ingrata,
«senza uscita» (p. 44), che non regala nulla ma che anzi rende difficile anche la più elementare
forma di sostentamento. Inoltre, stupisce la consapevolezza dei rapporti di forza che regolano il
mondo coloniale: laddove il colonizzatore vorrebbe in maniera ipocrita fingere di ignorarne la vera
natura, il colonizzato dimostra di non poter dimenticare la propria condizione di assoggettamento, e
rifugge da qualsiasi falsa manifestazione di amicizia.
Non è forse un caso, allora, che l’unica forma di comunicazione autentica (quella stessa che
Marcello e Mahmúd, nel romanzo di Tobino, non erano riusciti in nessun modo a stabilire,
nonostante gli sforzi reciproci) possa qui prendere piede tra gli indigeni e un soldato italiano
abituato in patria a svolgere il duro e precario lavoro del contrabbandiere:
Lui con due strilli s’era messo dalla loro parte, tutto era stato detto tra quelle persone, non
valeva nemmeno la confusione delle lingue a dividerli, perché si intendevano, come legati da
radici comuni a un destino poco chiaro, pieno di cattive incognite. (p. 113)
La differenza razziale allora è subordinata a quella sociale: la «comune appartenenza alla categoria
umana degli “inferiori”, degli oppressi dalla gerarchia, estranei all’ordine costituito»50 funge da
unico collante possibile tra due mondi altrimenti destinati a una tragica incomprensione reciproca.
In questo nostro rapido percorso attraverso il romanzo, volto a rintracciare quelle caratteristiche
che ne fanno un documento oltremodo interessante nel quadro della letteratura coloniale,
particolarmente illuminante è un passo in cui campeggia ancora una volta la figura di Johannes,
osservata e al tempo stesso interpretata dal giudizio del tenente:
Stavo leggendo allorché vidi Johannes: anch’egli s’era seduto sul ciglio. Guardava la valle. Era
la prima volta che lo vedevo attento a guardare la valle e ne fui sorpreso. Stimavo Johannes
insensibile ai panorami e forse incapace di vederli; il suo occhio elementare non era certo uso a
coordinare quei vari elementi sino a farne un quadro degno di attenzione. Egli poteva vedere
un albero, una capanna, l’altopiano, il fiume, la boscaglia, ma non certo considerarli parte di
un paesaggio. La sua visione utilitaria sfrondava il superfluo, e invece ora guardava la valle e
50
Giovanna Tomasello, L’Africa tra mito e realtà, cit., p. 214.
31
mi accorgevo che la vedeva tutta e che il suo sguardo si fermava lentamente su tutte le cose,
considerandole. Un pittore non avrebbe guardato diversamente. (pp. 219-20)
Valeva la pena di riportare il brano per intero, dal momento che affronta una questione quanto mai
significativa per comprendere la mentalità coloniale. Il vecchio viene sorpreso nell’atto di
“guardare”, e già di per sé questo basta a stupire l’uomo europeo, che si riteneva legittimato a
postulare l’incapacità dell’indigeno a “vedere un panorama”. Il riferimento non è ovviamente a un
impedimento di tipo fisico, bensì a una presunta inabilità nell’elaborazione di una visione
d’insieme, di una coordinazione a livello mentale dei diversi elementi catturati dallo sguardo. In
altre parole, viene contestata in linea di principio all’uomo “non civilizzato” la possibilità di
percepire un panorama nella sua interezza, di comprenderne la realtà effettiva al di là della sua
articolazione in molteplici elementi naturali. In questo senso, la modalità osservatrice di Johannes è,
almeno in partenza, definibile dal tenente come utilitaria, in quanto volta a registrare i singoli
oggetti fisici per quello che rappresentano e per la funzione che possono avere, senza però
occuparsi di quella che potremmo chiamare la loro visione estetica totale. Una concezione di questo
genere si collega, a un livello più ampio, alla generica quanto abusata opposizione tra spontaneità
ed educazione, natura e civiltà, ma in un senso quasi paradossale: l’indigeno, considerato primitivo
e dunque per questo più vicino allo stato di natura, non è comunque capace di comprendere solo
con i propri mezzi neppure la natura stessa. Persino lo sguardo, cioè, va ammaestrato, educato,
condotto sulla via di una percezione della realtà esterna estetizzante, qual è quella che permette a un
pittore di dipingere un paesaggio. Ed è questo livello che Johannes sembra aver finalmente
maturato: il tenente allora se ne stupisce, ma al tempo stesso se ne compiace in quanto
implicitamente associa la nuova acquisizione a un passo in avanti sulla via della civilizzazione.
Il gesto di abbracciare dall’alto con lo sguardo tutta la valle sottostante è d’altronde un’azione di
spiccata attitudine colonialista, una forma metaforica di appropriazione e di controllo messa in atto
dal colonizzatore. Si tratta infatti di quella condizione privilegiata indicata da Mary Louise Pratt con
la formula Master of all, I survey 51 basata sull’interpretazione foucaultiana del panopticon di
Bentham: tale struttura, ideata alla fine del Settecento e applicata nella costruzione delle prigioni
affinché un unico guardiano potesse osservare contemporaneamente, senza essere visto a sua volta,
tutti i prigionieri, è considerata appunto da Foucault il modello attraverso cui vengono esercitati il
controllo e il potere nella società contemporanea.52
Non viene invece presa in considerazione l’ipotesi che l’estasi contemplativa in cui sembra
rapito il vecchio saggio possa recare con sé sentimenti appropriati alla sua condizione quali la
nostalgia o il rimpianto, e che quello sguardo che abbraccia il paesaggio possa significare anche per
51
52
Mary Louise Pratt, Imperial eyes. Travel writing and transculturation, London-New York, Routledge, 1992.
Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976.
32
lui un tentativo di legittima riappropriazione di un qualcosa che da sempre gli appartiene, ma di cui
assiste con rammarico all’usurpazione e al degrado.
In effetti, il tenente stesso sembra talora avere coscienza del fatto che l’apporto della cultura
occidentale su quella indigena non può essere altro che deleterio, nella misura in cui l’uomo
europeo va programmaticamente in Africa per «sgranchirsi la coscienza», per farne il proprio
«sgabuzzino delle porcherie» (p. 94); lo dimostra anche il fatto che il minimo impegno viene
riservato ad esempio all’educazione dei bambini, che con compiacimento del sottotenente
dimostrano di possedere un repertorio di lingua italiana costituito per lo più da «parole indecenti».
Eppure anche in questo caso il messaggio resta quantomeno ambiguo. L’aura di disfacimento e di
degenerazione che avvolge questa terra africana, infatti, sembra inizialmente una sua propria
caratteristica, che anzi trasmette inquietudine ai soldati italiani: «È troppo triste questo paese.
Troppo triste. Se in una terra nasce la iena ci deve essere qualcosa di guasto» (p. 141); ma poi si
insinua l’idea che questo qualcosa di guasto sia imputabile piuttosto allo stesso imperialismo
europeo, paragonato esplicitamente alla lebbra in quanto ugualmente contagioso, e anch’esso
“curabile” solo con la morte. Non è un caso, peraltro, che lo stesso verbo “guastare” sia usato da
Flaiano in un frammento di Aethiopia chiaramente critico nei confronti della presunta opera di
civilizzazione italiana in Africa:
La civiltà è un’opinione.
Sarà molto difficile, forse impossibile, amalgamare questa gente, portarla ai nostri costumi.
Dopo quarant’anni di dominio gli eritrei sono ancora pieni di credenze e di usi radicati e ci
vorranno almeno altri quarant’anni di cinema americano per guastarli. (p. 294)
Considerazioni di questo genere valgono senza dubbio a supportare le tesi di quanti interpretano la
posizione dell’autore all’interno del romanzo orientata in senso marcatamente anticoloniale.
Roberta Orlandini, optando giustamente per una rivalutazione della tematica coloniale nel testo di
Flaiano che lo liberi almeno in parte dal legame con la corrente esistenzialista europea degli anni
Quaranta, lo giudica una «denuncia della distruttiva visione eurocentrica» e dunque un primo
tassello «degli sviluppi anticolonialisti basati sul rispetto della differenza e sulla comprensione delle
altre culture».53 Ed effettivamente convincente pare l’analisi di Orlandini volta a mettere in luce la
particolare tecnica stilistica con cui l’autore riesce a creare nel testo uno scarto tra la voce narrante e
quella del protagonista, dalla quale lui stesso si distacca talora per mezzo di una sottile ironia.54
53
Roberta Orlandini, (Anti)colonialismo in Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, «Italica», 69 (4), p. 479.
Esemplificativo, a questo proposito, il seguente passo in cui, anche attraverso l’anafora di “forse”, il narratore
ironizza sulle semplicistiche deduzioni del suo personaggio: «Forse, come tutti i soldati conquistatori di questo mondo,
presumevo di conoscere la psicologia dei conquistati. Mi sentivo troppo diverso da loro, per ammettere che avessero
altri pensieri oltre quelli suggeriti dalla più elementare natura. Forse reputavo quegli esseri troppo semplici» (p. 43).
54
33
L’anticolonialismo di Flaiano è comunque, sempre secondo Orlandini, parziale, nella misura in
cui si fa portavoce di una denuncia all’imperialismo mossa però dall’interno, senza che avvenga un
effettivo distacco da esso: questo fattore riporterebbe allora il romanzo nell’alveo della produzione
di quegli stessi autori, quali Kipling e Conrad, che pure avevano criticato l’imperialismo inglese in
maniera altrettanto indiretta. A mio parere, tuttavia, non si può sottovalutare la diversa situazione
storica (oltre che geografica, ovviamente) in cui i tre autori si trovano a scrivere. L’ambiguità dietro
cui si celano le posizioni critiche di Kipling e Conrad è certo in buona misura determinata dal fatto
che a quell’altezza cronologica l’impero britannico era ancora solido: Kim viene infatti pubblicato
nel 1901, e Hearth of Darkness nel 1902.55 Ben diversa la situazione di Tempo di uccidere, uscito a
due anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, e dunque anche dal crollo definitivo
del sogno coloniale italiano: scegliendo di ambientare la sua vicenda in un contesto
cronologicamente anteriore, Flaiano non può fare a meno di comunicare in qualche modo al lettore
il distacco critico dall’impresa al cui fallimento ha lui stesso dovuto assistere, verosimilmente
interpretando quelli che erano i sentimenti di molti italiani nell’immediato dopoguerra.
Proprio in questo senso, tuttavia, preferisco mantenermi più cauta in riferimento a un presunto
“anticolonialismo” di Flaiano, allo stesso modo in cui non posso dissimulare il mio scetticismo nei
confronti della lettura in chiave evolutiva del protagonista del romanzo, che raggiungerebbe
progressivamente una diversa consapevolezza del bene e del male tale da fare di lui una nuova
persona.56 Più ambigua, in quanto più complessa, sembra a me la posizione dell’autore, di certo da
ricollegare a quanto abbiamo detto − in apertura di capitolo − sulla specifica condizione coloniale
italiana: due fattori, in particolare, agiscono a mio avviso da freni inibitori di un’eventuale presa di
posizione apertamente anticoloniale. Prima di tutto va considerato il già asserito legame tra
colonialismo e fascismo. Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, che Flaiano non si era mai
in effetti schierato esplicitamente contro il regime, optando per una posizione di sostanziale
disimpegno politico, dalla quale cercherà d’altronde più avanti di difendersi: «l’unica protesta
contro il fascismo era quella di non parlare mai delle cose, ma sempre di altre cose»57 dirà infatti in
un’intervista nel 1972. Inoltre, un certo peso potrebbe verosimilmente avere avuto una forma di
nostalgia − cui già abbiamo accennato come stato d’animo condiviso da un’intera generazione − per
55
Cfr. il giudizio di Edward Said in Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale
dell’Occidente, Roma, Gamberetti, 1998, p. 49: «Cuore di tenebra è così efficace perché la sua estetica e i suoi principi
politici sono, per così dire, imperialisti, e questi alla fine dell’Ottocento parevano incarnare al tempo stesso una estetica,
una politica e perfino un’epistemologia inevitabili e ineluttabili». O quello decisamente meno misurato di Chinua
Achebe, An image of Africa. Racism in Conrad’s Heart of Darkness, «The Massachusetts Review», 18 (1977), p. 89:
«Joseph Conrad was a thoroughgoing racist. That this simple truth is glossed over in criticisms of his work is due to the
fact that white racism against Africa is such a normal way of thinking that its manifestations go completely
unremarked».
56
Vedi sempre Orlandini, (Anti)colonialismo in Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, cit.
57
Ennio Flaiano, Opere, cit., p. 1202.
34
un’età giovanile ricca di speranze e di ideali ormai irrimediabilmente infranti. Solo così acquistano
significato alcuni accenni all’interno del romanzo che, a mio avviso, conducono nella direzione di
un tentato ridimensionamento della colpa se non del singolo protagonista, almeno di quelle
genericamente imputabili (e imputate) al corpo militare in quanto tale. In altre parole, come avviene
anche per Berto e Tobino, l’esperienza autobiografica concorre inevitabilmente a trasporre la stessa
realtà bellica su un piano ideale:
E il ricordo degli amici lasciati lassù quasi mi commosse, bravi fratelli dei quali un giorno
avrei dimenticato forse il nome, ma non la gaiezza e il disinteresse della loro amicizia, anzi
l’assoluta gratuità di essa, che farebbe sembrare quel tempo, nella memoria, il prologo di
un’altra vita ormai irraggiungibile. (p. 54)
Mi sembra verosimile, in questo caso, ipotizzare piuttosto che uno scarto, una sovrapposizione tra
narratore e protagonista: Flaiano ormai quasi quarantenne, profondamente segnato e disilluso dai
recenti avvenimenti storici vissuti in prima persona, torna indietro con la mente a quei momenti di
una giovinezza densa di aspettative e ormai perduta, in cui il contesto di guerra alimentava
sentimenti puri ed eroici. L’autore, in altre parole, non si esime dal tentativo di deresponsabilizzare
i soldati italiani − e dunque in qualche modo anche se stesso − mettendone in luce la nobiltà di
propositi, il leale attaccamento reciproco, l’attesa fiduciosa del ritorno in patria e dunque della fine
di una guerra non voluta, eppure subita con dignità e coraggio:
Ogni soldato sapeva almeno i segreti di un altro ed era quella una magnifica occasione per
accennarvi, facendo proprie le gioie altrui, partecipando in ispirito ai futuri fidanzamenti, alle
future nozze. Si sarebbero rivisti tutti, una volta in Italia, e l’amicizia nata sotto la tenda
avrebbe tinto di rosa i ricordi più foschi e fatto apparire a distanza di pochi anni tutto lieto e
piacevole, anche le marce di dieci giorni, anche la sete e la stanchezza, anche il caldo e la
paura. (pp. 99-100)
E in effetti, se anche non tutto finirà per divenire a posteriori “lieto e piacevole”, senza dubbio il
ricordo autobiografico, alterato e autoassolutorio, giocherà come abbiamo visto un ruolo tutt’altro
che secondario nella rielaborazione della più ampia memoria nazionale.
Tuttavia, questo non basta a Flaiano per concludere su una nota ottimistica il suo romanzo:
nell’ultimo capitolo l’anonimo protagonista si “svuota” la coscienza, racconta la propria storia al
sottotenente dopo essere venuto a sapere, con sua grande sorpresa, che nessuno lo cerca per i
crimini compiuti (o tentati), che nessuna denuncia è stata sporta contro di lui. Le parole
dell’interlocutore, che qui Orlandini interpreta in senso letterale, sono invece a mio parere un
ulteriore esempio di quel distacco ironico del narratore dal personaggio da lei giustamente messo in
luce, e non aprono affatto a prospettive di speranza:
Come tutte le storie di questo mondo, anche la tua sfugge a un’indagine. […] Come cavarne
una morale? Eccoti diventato una persona saggia, da quel giovane superficiale che eri, e solo
35
per virtù di qualche assassinio che hai commesso senza annettergli la minima importanza. Mi
congratulo. (p. 277)
Non c’è spazio per una morale della storia, in quanto essa stessa rifiuta ogni spiegazione razionale:
il protagonista può, senza ulteriori indugi e senza aver pagato per le proprie colpe, rientrare in patria
e archiviare quello che è stato perché in fondo, se nessuno ne è al corrente, diventa anche inutile
parlarne. Le trombe del Giudizio, come sottolinea il sottotenente in chiusura, si faranno sentire
ancora per qualche giorno, ma poi anch’esse concederanno la tregua, e resterà forse solo «la scia di
quel fetore» (p. 289) che infastidisce, ma che non fa male. A soli due anni di distanza dalla fine
ingloriosa dell’impresa coloniale si profila già all’orizzonte la possibilità concreta della sua rapida
rimozione.
3. Prospettive
La memoria coloniale italiana, dunque, sembra muoversi tra due estremi «as a sort of
‘pendulum’ oscillating between an all-out desire to forget and the nostalgic recollection of a past
which is selectively remembered and re-enacted to suit Italy’s new role in the postcolonial age».58
Come abbiamo appena visto, infatti, già all’indomani della sconfitta nella seconda guerra mondiale
e della conseguente perdita delle colonie, quelle stesse opere memoriali che intendono affrontare
direttamente la questione e che si fanno coraggiosamente carico di mostrarne e interpretarne le
interne contraddizioni, nella pratica non si salvano tuttavia dal cadere vittime loro stesse di nuove
contraddizioni. Persino nel momento in cui il crollo dell’impero coloniale si impone nella sua
evidenza come inevitabile corollario di una politica inadeguata e di un’occupazione arbitraria e
violenta di territori comunque irriducibili ai propri canoni culturali, i testimoni più sensibili di tale
realtà non possono e non vogliono pronunciare un netto giudizio di condanna per ciò cui hanno
assistito in prima persona. Anzi, proprio l’aver preso parte, con maggiore o minore convinzione,
alle imprese belliche nazionali, se li previene almeno da qualsiasi tentazione di rimuovere
completamente i propri ricordi − operazione che comporterebbe, come abbiamo detto, la messa da
parte di tutta quell’età della propria vita già di per sé ricca di speranze e di ideali − li spinge a
un’accurata revisione degli stessi.
Berto, Tobino e Flaiano vivono in modo diverso il contrasto traumatico tra una realtà passata
nutrita di adesione e di fiducia e un presente fatto di umiliazione e di ripensamenti. Il primo risale
indietro negli anni proprio nel tentativo di scrollarsi di dosso un senso ancora opprimente di
vergogna per un fallimento nazionale che è anche personale, e per farlo deve chiamare a sua
discolpa la fedeltà alla patria e il compimento fino in fondo del proprio dovere. Tobino, dal canto
58
Alessandro Triulzi, Displacing the colonial event, «Interventions», 8 (3), p. 430.
36
suo, si serve dell’arma dell’ironia per sfogare la propria rabbia e la propria amarezza nei confronti
di un regime che si è visto costretto a subire, di cui ha direttamente sperimentato le ombre e le
incompetenze, e di cui non ha mai condiviso i valori. Questo atteggiamento, che senza dubbio
trapela in maniera decisa dalla sua ricostruzione memoriale, non implica tuttavia un’altrettanto
chiara presa di posizione nei confronti del problema coloniale: se, insomma, la condanna verso gli
italiani che sono stati fascisti suona sicura e irrevocabile, al tempo stesso traspare la parallela
volontà di assolvere, e redimere, coloro che (come l’autore stesso, verrebbe da dire) non si sono
lasciati irretire nelle maglie perverse dell’odiosa tirannia. Flaiano, infine, sceglie di ammantare i
propri ricordi di un’affascinante costruzione allegorica, che gli permette di orchestrare la scena
dall’alto e di giocare al confine tra realtà e finzione, finendo per disorientare il lettore attraverso una
originale declinazione del rapporto colpa-punizione. Nonostante abbia commesso un maldestro
omicidio, che ne condiziona tutto il percorso all’interno del romanzo, e nonostante si dimostri del
tutto inadatto alla vita in colonia e incapace di comunicare con un mondo da cui pure è
profondamente ammaliato, il soldato protagonista di Tempo di uccidere finisce per suscitare più
compassione che sdegno, partecipazione più che critico distanziamento. Ed è d’altronde quello che
probabilmente era nelle intenzioni del suo autore e creatore, disilluso e amareggiato da quelle
vicende storiche, ma proprio per questo forse incapace di rigettare del tutto un’identificazione con il
suo personaggio, e dunque di lasciare aperto uno spiraglio per una almeno possibile redenzione di
entrambi.
Seppure in modo diverso, dunque, i tre autori concorrono paradossalmente, proprio attraverso la
sofferta ma necessaria rimessa in gioco dei propri ricordi, a porre le premesse per quella forma di
rimozione che abbiamo descritto in apertura del capitolo, e che diviene appunto cifra caratterizzante
l’atteggiamento comune di fronte al passato coloniale nazionale a partire almeno dagli anni
Sessanta del Novecento. È chiaro che, se negli ultimi decenni sono stati fatti in Italia notevoli passi
in avanti nel ripercorrere e chiarire le dinamiche di uno dei periodi più controversi della storia
europea in generale, lo spazio per la ricerca è ancora vasto e la questione è oggi più che mai di
primario interesse in forza del suo stretto e non recidibile legame con la situazione storica
contemporanea. Lo scenario socio-politico attuale, infatti, vede un difficile quanto necessario
confronto quotidiano con la questione dei continui flussi migratori provenienti non solo dalle excolonie, ma in misura notevole anche dal Maghreb: in quanto tale, esso ha accelerato e reso ancora
più urgente un ripensamento radicale del passato in vista di una più efficace azione nel presente. E
non è un caso che, pur nell’innegabile difformità che separa i due distinti e peculiari momenti
storici − quello coloniale e quello attuale − oggi come allora i sentimenti e le opinioni suscitati
siano ancora una volta marcati da profonda irresolutezza e ambivalenza.
37
Si potrà obiettare, a questo proposito, che non solo l’Italia, ma tutte le nazioni che in passato
hanno partecipato allo scramble for Africa devono oggi fare i conti con le problematiche aperte
dall’era post-coloniale. E anche se, ancora una volta, altri Paesi europei hanno già da tempo, con
vari e alterni risultati, fatto i conti con il proprio passato e continuano tutt’oggi a cercare il modo
migliore per affrontarne le ripercussioni sul presente, certo non è sufficiente che ognuno faccia la
sua parte. Come hanno sottolineato in proposito Jacqueline Andall e Derek Duncan59, per studiare e
dunque comprendere fino in fondo la questione coloniale nella sua matrice internazionale è
necessario tracciare un ampio raggio di ricerca che tenga conto di tutte le diverse declinazioni del
fenomeno in quanto tale, compresa senza alcun dubbio quella italiana. Se è vero, infatti, che
all’interno del contesto nazionale gli studi coloniali hanno a lungo ricoperto un ruolo marginale, una
parallela marginalizzazione ha avuto luogo anche in ambito comparatistico, laddove la breve ed
effimera sopravvivenza della chimerica Africa Orientale Italiana ha contribuito in modo decisivo a
svalutarne la portata in un’ottica mondiale.
Il mio lavoro prende dunque avvio dall’intento di utilizzare testimonianze letterarie dell’epoca
per dimostrare come anche nel panorama coloniale italiano, a torto ma costantemente escluso da
analisi di questo genere, si siano poste problematiche e siano state sollevate questioni se non
analoghe senza dubbio comparabili a quelle messe in luce negli altri contesti. In altre parole, se gli
storici hanno con fatica lottato negli ultimi decenni per riguadagnare all’Italia il posto che, per
ragioni tutt’altro che onorevoli, comunque le spetta nel novero delle potenze coloniali, l’analisi
delle fonti memoriali può fornire ulteriore e prezioso supporto alla ricostruzione di un profilo a tutto
tondo dell’Italia coloniale, aiutando a seguirne da vicino l’evoluzione storico-politica.
Indubbiamente ci troviamo in ritardo anche su questo versante; tuttavia forse questa volta gli ultimi
potrebbero diventare i primi, se saremo in grado di trarre vantaggio dalle esperienze altrui e di
tracciare il nostro personale solco nel sentiero già aperto dagli studi coloniali internazionali.
59
Jacqueline Andall, Derek Duncan, Italian colonialism. Legacy and memory, cit.
38
Capitolo I
La letteratura coloniale: fonti e problemi
“Le voyage me semble un exercice profitable.
L’âme y a une continuelle exercitation
à remarquer les choses incogneuës et nouvelles”.
(Montaigne, Essais)
1. Un’impostazione unilaterale
Prima di arrivare a focalizzare l’attenzione su quello che è divenuto - per le ragioni che
spiegherò più avanti - oggetto specifico della mia ricerca, ossia la vasta produzione odeporica che si
dispiega lungo tutto l’arco dell’avventura coloniale italiana, mi sembra necessario porre alcune
questioni preliminari, che esulano dal ristretto ambito nazionale.
Punto di partenza fondamentale è la definizione stessa della materia: cosa si intende in generale
per letteratura coloniale? Quali sono le associazioni che tale espressione suscita a un primo
impatto? Il riferimento immediato è, in senso ampio, a tutta quella vasta produzione letteraria che,
potremmo dire, ha come tema più o meno specifico il colonialismo e come ambientazione appunto
quella coloniale, e che dunque mette in luce il rapporto conflittuale tra i diversi Stati europei e le
regioni da essi assoggettate negli altri continenti.
Siamo qui di fronte a un primo paradosso, indicativo di una duratura impostazione unilaterale
degli stessi studi coloniali. La realtà umana e naturale descritta, rappresentata o anche solo evocata
come sfondo è geograficamente collocata nei luoghi delle ex-colonie, ossia nei continenti africano,
asiatico, o americano centro-meridionale. Tuttavia, l’attore e soprattutto l’elaboratore di una tale
produzione letteraria è per lo più automaticamente identificato con un autore di provenienza
europea, così come europeo è l’aggettivo che in genere qualifica lo specifico campo geo-politico di
riferimento: si parla cioè di letteratura coloniale inglese, francese, spagnola e via dicendo. In questo
modo, tutta la parte complementare del rapporto coloniale, che è nella sua matrice fondamentale un
rapporto a due agenti, viene totalmente obliterata: il punto di vista preso in considerazione è sempre
e solo quello del colonizzatore, che assume su di sé la responsabilità di filtrare − qualora si
preoccupi di farlo − attraverso le proprie lenti anche quello del colonizzato.
Tale silenzio forzato cui viene irrimediabilmente condannato l’interlocutore più debole è
conseguenza immediata di una parzialità, ben più ampia ma altrettanto problematica, che ha a lungo
caratterizzato lo storicismo di matrice positivista. La concezione della storia come un percorso
lineare sulla via del progresso, infatti, reca inevitabilmente con sé l’appropriazione del punto di
39
vista privilegiato dei vincitori, di coloro cioè che degli stessi eventi storici sono stati gli artefici
determinanti, il che a sua volta ne favorisce un’interpretazione apologetica. A una simile miopia
storica reagiva già Walter Benjamin, quando affermava con forza la necessità, nell’approccio critico
al passato, di un ribaltamento totale di prospettiva, in grado cioè di restituire nel modo più intatto
possibile il punto di vista dei vinti, «il cui ricordo si perpetua come una “promessa di redenzione”
inappagata».1 È la conoscenza dei fatti per come essi si sono svolti e per come sono stati percepiti
dai loro diversi attori a fornire il primo imprescindibile passo verso una corretta comprensione del
passato: «alla memoria dei senza nome» scrive ancora Benjamin «è consacrata la costruzione della
storia».2
Solo in tempi relativamente recenti, e ancora una volta per lo più in contesti anglofoni, la
diffusione dei Subaltern Studies e di un nuovo tipo di approccio “from below” alla realtà storica ha
portato gli studiosi a prendere in considerazione le testimonianze, scritte od orali che siano, di
coloro che si trovarono a subire il processo di colonizzazione e che furono, in modo diverso, artefici
del suo smantellamento. Caso primo ed emblematico quello dell’India sotto il dominio britannico,
di cui sono stati riportati alla luce non solo e non tanto il ruolo delle élites indigene, formate
all’interno della classe dirigente britannica in colonia, ma soprattutto la progressiva presa di
coscienza delle masse.3
Anche in questo senso, tuttavia, il caso italiano si dimostra almeno in parte singolare. Dobbiamo
tenere presente innanzitutto il fatto che non si è avuta, nelle colonie italiane, una vera e propria
guerra di liberazione nazionale: la sconfitta nel secondo conflitto mondiale è bastata da sé a far
perdere all’Italia ogni diritto sulle proprie colonie, le quali non a caso non ottennero subito
l’indipendenza. Con il Trattato di Parigi del 1947, infatti, la Libia passò sotto il dominio inglese,
così come anche la Somalia (poi concessa all’Italia sotto forma di amministrazione fiduciaria
ONU), mentre l’Eritrea diveniva parte dell’Etiopia (con tutti i problemi che ne seguiranno4), unica
tornata indipendente dopo la breve parentesi mussoliniana. Questo non vuol dire, peraltro, che le
popolazioni assoggettate al sia pur breve dominio italiano non abbiano tentato in alcun modo di
opporre resistenza, se è vero ad esempio che in Libia il governo fascista deportò migliaia di persone
1
Enzo Traverso, Il secolo armato, cit., pp. 18-9.
Walter Benjamin, Materiali preparatori delle tesi, in Id., Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997, p. 77.
3
Cfr. Ranajit Guha, Elementary aspects of peasant insurgency in colonial India, Delhi, Oxford, 1983, e Ranajit
Guha, Gayatri Chakravorty Spivak, Selected subaltern studies, New York, Oxford University Press, 1988.
Fondamentale punto di riferimento resta in questo ambito Edward Palmer Thompson, The making of the English
working class, New York, Pantheon Books, 1964.
4
Cfr. Paul Henze, Eritrea’s war. Confrontation, international response, outcome, prospects, Addis Ababa, Shama
Books, 2001 e, di recente, Marco Gessini, La guerra tra Etiopia ed Eritrea 1998-2000, Roma, GAN, 2011.
2
40
in appositi campi di concentramento nel tentativo di debellare la guerriglia delle zone interne,
colpendo direttamente la popolazione civile che ad essa forniva un essenziale supporto.5
Non è semplice tuttavia rintracciare testimonianze in proposito, prima di tutto in quanto la
maggior parte di esse non assunse una formulazione scritta:
Il momento coloniale non ha prodotto documenti da parte dei colonizzati. Tacciono le
espressioni letterarie del passato, soprattutto religiose, e non se ne formano di nuove. Il
colonialismo ha indotto ad una forma di riflessione su se stessi, al pensiero e non alla scrittura
e questo fenomeno ha significato una assenza quasi totale di documenti locali
scrive Irma Taddia6, alla quale si deve peraltro una preziosa raccolta di memorie orali, frutto di un
intenso lavoro sul campo. D’altronde, come la stessa studiosa non manca di sottolineare al fine di
rendere chiare e condivisibili le direzioni della propria ricerca, anche il testo scritto, soprattutto se
come in questo caso di natura testimoniale e autobiografica, reca in sé una percentuale non
irrilevante di soggettività, «è una interpretazione di dati fenomeni che non appaiono mai neutri».7
Inoltre, è indispensabile tenere presente anche l’ostacolo linguistico, per cui le poche
testimonianze elaborate in forma scritta non sono quasi mai state fatte oggetto di traduzione: testi
memoriali relativi al periodo dell’occupazione italiana in Etiopia, per esempio, sono per lo più in
lingua amarica, e come tali rimasti inaccessibili a un più vasto pubblico di studiosi. Peculiare in
questo senso è, ancora una volta, la situazione delle colonie italiane. Gran parte della produzione
letteraria anticoloniale e postcoloniale è stata redatta dagli stessi autori africani in lingua francese o
inglese (a seconda del rispettivo Paese dominatore) per ragioni sia pratiche sia ideologiche: non
solo questo ha permesso infatti ai testi un’ampia circolazione e dunque un maggiore impatto sociale
e culturale, ma ha anche dato voce al legittimo desiderio da parte degli autori di porre la propria
opera sullo stesso piano di quelle prodotte dagli autori europei.8 Al tempo stesso, proprio dal punto
di vista ideologico, si è trattato tuttavia di una scelta maturata al prezzo di pesanti sacrifici, una
scelta dalle profonde, e in parte inconsce, implicazioni identitarie. Come ha infatti ben evidenziato
nei suoi studi Frantz Fanon, riferendosi in particolare alla situazione della Martinica, colonia
francese da cui egli stesso proviene, esprimersi nella lingua europea assoggettatrice rappresenta
storicamente per il colonizzato l’accesso a opportunità altrimenti a lui precluse, al punto che egli
può talora arrivare a desiderare di affrancarsi dalla propria lingua di origine, per ottenere
5
Cfr. Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore, Roma-Bari, Laterza, 1986. Ma vedi anche
Eric Salerno, Genocidio in Libia, cit.
6
Irma Taddia, Autobiografie africane. Il colonialismo nelle memorie orali, Milano, Franco Angeli, 1996, pp. 17-8.
7
Ivi, p. 19.
8
Cfr. Chinua Achebe, Hopes and impediments, New York, Doubleday, 1989.
41
riconoscimento come essere umano: «The more the black Antillean assimilates the French
language, the whiter he gets − i. e., the closer he comes to becoming a true human being».9
Il contesto italiano, ad ogni modo, è stato meno, o comunque diversamente, toccato da simili
problematiche, nella misura in cui le più volte menzionate debolezza, disorganicità e brevità
dell’impero coloniale nazionale hanno reso difficile in partenza la stessa assimilazione della lingua
e impedito il formarsi di una letteratura locale capace di esprimersi, appunto, nel linguaggio del
colonizzatore.
2. Rare eccezioni: il diario di Fesseha Giyorgis
Alla luce di quanto appena messo in evidenza, un caso oltremodo interessante, che merita se non
altro una menzione in questo mio lavoro, è il breve testo in lingua tigrina, pubblicato a Roma nel
1895, in cui l’etiope Fesseha Giyorgis narra il suo viaggio dall’Etiopia all’Italia. Si tratta del primo
testo di natura non religiosa a essere pubblicato in tigrino e del primo racconto di viaggio nella
letteratura etiope in generale, come ricorda Hailu Haibtu, a cui si deve la prima traduzione del testo,
in lingua inglese, apparsa negli Annales d’Éthiopie appena una decina di anni fa.10 Ma il testo è
rilevante non solo e non tanto per la sua indiscussa unicità (legata al primato appena accennato),
quanto per il suo offrire, in questo specifico contesto, un contrappunto prezioso ai diversi giornali di
viaggio di italiani in colonia su cui si focalizzeranno la mia attenzione e la mia ricerca. Come
Ghirmai Negash fa a proposito notare in un recente articolo, questo breve testo «make accessible
“an insider’s” critique of European colonialism in an African language − an opportunity which is
scarcely available otherwise».11
Infatti, sia pure nelle sue brevità (si tratta di appena poche pagine) e semplicità, il testo non solo
comunica con chiarezza, com’è nelle intenzioni dell’autore, «the impressions that seeing this
country [Italy] made on us» (p. 362), bensì rivela anche in maniera sottile ma altrettanto chiara le
implicazioni affettive, culturali e sociali che il viaggio porta con sé.
Come l’autore stesso espone apertamente nella prefazione, lo scopo del testo è quello di produrre
materiale di studio per coloro che vogliano imparare la lingua tigrina, tanto che nelle parole del suo
stesso autore «this present account, being only a narration of our voyage, is not worrisome» (p.
9
Frantz Fanon, Black skin, white masks, New York, Grove Press, 2008, p. 2.
Hailu Habtu, The voyage of Däbtära Fesseha Giyorgis to Italy at the end of the 19th century, «Annales
d’Éthiopie», XVI, 2000, pp. 361-8. Nelle citazioni a seguire riporto di volta in volta la sola indicazione del numero di
pagina. Ringrazio lo studioso etiope − personalmente incontrato alla Cornell University − che, oltre ad avermi fatto
conoscere il presente testo, si è intrattenuto nel discutere con me questioni riguardanti la mia ricerca, fornendomi
inestimabili consigli e suggerendomi interessanti prospettive per il mio lavoro futuro.
11
Ghirmai Negash, Native intellectuals in the contact zone. African responses to Italian colonialism in tigrinya
literature, «Biography», 32 (1), 2009, p. 75. Lo studioso accosta in questo articolo il testo di Giyorgis al breve romanzo
The story of the conscript di Gebreyesus Hailu, primo romanzo scritto in lingua tigrina, e a sua volta basato sulle
memorie dell’autore del periodo delle campagne italiane in Libia e in Eritrea.
10
42
363). In realtà, questa esplicita manifestazione di modestia suona piuttosto come una formula tipica
di captatio benevolentiae rivolta in anticipo ai futuri lettori: traspaiono infatti già dalla prefazione
l’orgoglio e la soddisfazione dell’autore per la possibilità di scrivere nella propria lingua madre, per
cui non manca anche una dichiarazione di gratitudine nei confronti del maestro italiano che lo ha
spinto a farlo. Espliciti destinatari, cui si rivolge tutta l’attenzione di Giyorgis, sono i compatrioti,
invitati a colmare le eventuali lacune del testo e ad astenersi da critiche eccessive. L’autore, in altre
parole, è perfettamente consapevole del ruolo che egli stesso, in quanto intellettuale, è chiamato a
svolgere nell’ambito della propria comunità, che è quella appunto dei sudditi coloniali sottoposti
alla dominazione da parte di un Paese straniero. Nessuna titubanza, allora, circa la lingua da usare:
visti e dichiarati gli intenti e le finalità del testo, l’adozione dell’italiano non viene nemmeno presa
in considerazione.
Come nella maggior parte dei racconti di viaggio di italiani nelle colonie, anche Giyorgis
fornisce subito al lettore le coordinate fondamentali, ossia data e luogo alla vigilia della partenza: è
il 30 giugno 1890, e l’autore attende a Massaua l’arrivo della nave che lo condurrà a Napoli. Suo
compito durante la traversata sarà quello di vigilare sul cavallo e sull’asino donati al conte
Antonelli, suo vecchio maestro, da Menelik, insieme a un altro cavallo dono di Ras Alula. Quando,
tuttavia, gli viene richiesto di provvedere, durante il viaggio, al sostentamento degli animali stessi,
con fermezza rifiuta lo svolgimento di compiti che non gli competono, evitando dunque fin da
subito di mostrarsi ubbidiente e arrendevole. Si allontana allora per salutare gli amici prima della
partenza, e anche nella descrizione del commiato trapela la necessità di riaffermare senza cedimenti
la propria posizione: non tutti infatti sono venuti al porto per salutare con orgoglio e trepidazione
l’“eroe” che si accinge all’arduo compito di esplorazione di terre ignote e ostili, come saremo
abituati a leggere nei resoconti dei viaggiatori italiani. Qui, al contrario, alcuni amici «mocked at
me and others said that I had triumphed» (p. 363), reazioni che l’autore può solo ignorare, evitando
persino di prenderle in considerazione. Sebbene Giyorgis eviti di scendere nel dettaglio delle
provocazioni che gli vengono rivolte, è chiaro che doveva entrare in gioco una forma più o meno
consapevole e dissimulata di critica (e anche probabilmente di autocritica) nei confronti della sua
posizione di intellettuale, in forza della quale ha potuto verosimilmente stringere i contatti necessari
a garantirgli la partenza.
Questo non vuol dire che egli non viva sulla propria pelle il dolore per una condizione forse
migliore di quella di tanti altri, ma che pure comporta scelte difficili e pesanti rinunce: nel momento
in cui il distacco della partenza diviene reale nella sua imminenza, almeno per un attimo le certezze
vacillano, il corpo trema, gli amici piangono. Non si tratta, appunto, di un viaggio eroico; al
contrario un senso di costrizione e ineluttabilità traspare quasi involontariamente dallo stile asciutto,
43
affatto retorico, dell’autore; il quale, nell’atto stesso di imbarcarsi, non può fare a meno di girarsi in
continuazione, spinto dal bisogno irrefrenabile di incrociare ancora una volta gli sguardi afflitti
degli amici che restano a terra.
Colpisce, proprio in questo senso, la profonda dignità (in contrasto con lo stereotipico ritratto
fornito in genere dai viaggiatori italiani dell’abissino come incline a manifestazioni eccessive dei
propri stati d’animo) con cui Giyorgis si accinge al suo primo viaggio attraverso il mare. In
un’unica frase, così condensa la malinconia dell’abbandono e l’ansia dell’ignoto: «it is a grave
matter to leave your land and your people and to go alone to an alien country. Although it becomes
a simple matter later, at the beginning, when you think deeply, your hearth lacks ease and repose»
(p. 364).
Il fatto di aver evidentemente ricevuto, a differenza della maggior parte dei suoi connazionali, un
buon livello di educazione, non equivale d’altronde per Giyorgis nella maniera più assoluta a un
fattore di effettiva rivalutazione in un’ottica europea: già sulla nave, pertanto, sarà comunque fatto
oggetto di curiosità e giudicato secondo facili pregiudizi da parte dei compagni di viaggio. Se, ad
esempio, la pacatezza e il dominio sulle passioni sono elementi considerati dagli europei estranei al
carattere etiope (o sarebbe più corretto dire africano in generale, in quanto mancano distinzioni
significative in questo senso), gli indigeni sono del pari ritenuti incapaci di provare un sentimento
connaturato nell’uomo quale la paura: «Some of those who had been to Africa said, “When were
Abyssinians ever afraid?”» (p. 364). Alcuni membri dell’equipaggio, infatti, chiedono incuriositi
all’etiope se anche lui abbia provato paura, pochi istanti prima, all’avvicinarsi sospetto di due
imbarcazioni (poi rivelatisi amiche). Significativa allora, nella sua spontaneità ma anche nella sua
fermezza, la reazione dell’autore: «‘Just like you’» (p. 364), risponde, volendo consapevolmente
evidenziare, e dunque implicitamente rigettare, le basi razziste su cui una tale domanda si fonda.
Questo non vuol dire, ovviamente, che egli non veda o non riconosca le nuove realtà con cui il
viaggio lo mette in contatto per la prima volta, o che non sia anche in qualche misura affascinato dai
panorami che si offrono al suo sguardo. E se già a Suez inizia a vedere quello che fin da subito
definisce come «a different world» (p. 364), il vero sbigottimento arriva allo sbarco a Napoli,
quando «it became to me just like when Queen Makeda [Sheba], seeing Jerusalem, said that what
she was seeing was more than what she had heard [of it]» (p. 366). Sembra, leggendo queste parole,
di trovarsi di fronte a una forma di “esotismo rovesciato”: lo stupore di Giyorgis può essere senza
dubbio messo a confronto con quello di tanti viaggiatori ottocenteschi provenienti dall’Europa e per
la prima volta sbarcati sulle coste africane. Anche in questo senso, dunque, l’autore sembra voler
suggerire un’inversione di prospettive attraverso la quale orientare polemicamente nella direzione di
un relativismo dei punti di vista che rifiuta la loro gerarchizzazione su una scala di valori.
44
Ma le impressioni suscitate sono difficili da riferire, in quanto difficili da discernere per il
soggetto stesso: è plausibile, annota infatti Giyorgis, che l’etiope che si trovi per la prima volta
immerso in una grande città europea resti talmente abbagliato da quello che vede da arrivare a
chiedersi se sia sempre sulla Terra, o se sia piuttosto finito in paradiso. E tuttavia, continua l’autore:
«especially a son of central Tigrai is so sharp that there is nothing that will be uphill to him» (p.
366). In altre parole, ammettere una reazione così ingenua vorrebbe dire non tenere in
considerazione il realismo, la prontezza, la lungimiranza propri di un tigrino: considerazione,
questa, da cui traspare ancora l’orgoglio della propria origine e il rifiuto di una qualsiasi forma di
complesso di inferiorità nei confronti dei dominatori europei.
Durante la navigazione, tra l’altro, Giyorgis aveva avuto modo di assistere allo spettacolo di
arabi, egiziani e greci che, accostandosi alla nave, cercavano di vendere frutta e altri prodotti,
incuranti delle secchiate d’acqua versate con disprezzo su di loro da alcuni soldati, «like a monkey
who is denied water» (p. 365). Non c’è, non a caso, nei confronti di costoro alcuna espressione di
compassione né di giustificazione: se si sottomettono all’atteggiamento e ai modi insolenti dei
soldati europei è perché evidentemente sono abituati a farlo, e hanno anch’essi pertanto una buona
parte di responsabilità per il trattamento che viene loro riservato. In questo senso Giyorgis rientra
appieno nella categoria dell’intellettuale specificamente inserito nella realtà dell’ex mondo
colonizzato per come essa viene delineata in particolare da Walter Mignolo12: non solo, cioè,
interessata a suscitare una reazione ad ampio raggio contro l’assoggettamento coloniale, ma anche
profondamente critica nei confronti delle debolezze e delle mancanze della propria cultura e della
propria società. L’autore, infatti, sembra al contrario sorprendentemente consapevole − già a questa
altezza cronologica − dei meccanismi sottesi all’incontro culturale in atto, al punto da poter
guardare con un pizzico di ironia alle reazioni da lui stesso suscitate negli osservatori: «As I found
their manner of dress and behaviour different, I saw them with curiosity on my part as well.
However, I was not as amazed at them as they were at me» (p. 367). Lo stupore degli europei a
contatto con lui è, cioè, sensibilmente superiore a quello provato da egli stesso nei loro confronti,
sebbene la differenza di abbigliamento e di comportamento sia evidente a entrambe le parti. Ancor
di più, dalle parole dell’etiope si evince una maturata concezione della relatività dei giudizi umani,
accompagnata per di più da una aperta volontà di riflessione sugli stessi, finalizzata a valutarne il
grado di verità:
These people [in Rome] looked upon Ethiopia much like Ethiopian highlanders looked upon
other Africans surrounding them. When I heard of this cultural attitude, it became new to me
12
Walter Mignolo, Local histories/global designs. Coloniality, subaltern knowledges and border thinking,
Princeton, Princeton University Press, 2000.
45
and I marveled. If you ponder over it, however, it is true. In Ethiopia, he who can write his
name is an accomplished person. (p. 367)
La meraviglia nell’apprendere che gli italiani hanno nei confronti degli etiopi lo stesso
atteggiamento che gli etiopi stessi riservano in genere agli altri africani confinanti è dunque solo
momentanea: la loro curiosità e l’insistenza delle loro domande si possono capire, a ben guardare,
considerando il fatto che il livello di alfabetizzazione e di sviluppo culturale dell’Etiopia nel suo
complesso è realmente ancora basso. Può dunque questa riconosciuta arretratezza culturale fornire
all’etiope stesso un metro di giudizio su cui fondare il paragone tra l’Italia e l’Etiopia, da cui
quest’ultima risulti inevitabilmente “perdente”? Il rischio è più che mai concreto, in quanto
innegabile è il fascino con cui l’Europa è capace di ammaliare il viaggiatore africano che per la
prima volta si accosti ad essa:
When an Ethiopian comes to Europe and sees its goodness, beauty and glamour, that which
impresses his whole being can not be told. He marvels when he sees the lights at night shining
like the sun at day while people tarry back and forth. He admires saying, “What a country!” He
even goes as far as saying that God created this people himself, and not others. Wherever he
goes, he sees and hears only new things, things he did not see or hear before in his country.
Upon this, he decides he will not leave a country such as this. He compares his country with
this country and finds his own country inferior in all aspects. He sinks in the urge and concern
to speak in the language of the [host] country. […] He is always happy. (pp. 367-8)
Ma è solo una felicità passeggera, ingannevole, destinata in breve tempo a un ridimensionamento
radicale: «“This country is likable at first. However, later, when you know the language and its
nuances and get to know people very well, its glamour wears off”» (p. 368). Non possiamo fare a
meno di notare, tuttavia, che di questo rapido disincanto si fa portavoce nel testo Dagna, un
connazionale di Giyorgis venuto ad accoglierlo a Roma, da lui già visitata diverse volte per più o
meno lunghi periodi di tempo. Le parole di biasimo e di critica non soltanto, peraltro, sono messe in
bocca a un altro personaggio (e dunque non automaticamente sottoscritte dall’autore stesso), ma
l’autore ne prende apertamente le distanze, giudicandole non vere, e viziate senza dubbio dalla
nostalgia di casa. E aggiunge:
Apart from this, there is no country which does not have vulgar and impertinent persons, and
Dagne’s social milieu was that of vulgar servants. On top of his nostalgia, it is possible that
they slandered him with insults like “You cannibal!” or some such insult. Even then, you take
into account the behaviour of the rich gentlemen, and should not consider that of the riffraff.
(p. 368)
Interessante notare come qui Giyorgis miri a superare, rifiutandola, una possibile distinzione
razziale, chiaramente sostituendo a essa una gerarchia di classe, evidentemente ritenuta meno
pericolosa: laddove cioè si ha a che fare con gente del popolo, rozza e ignorante, è plausibile
incorrere in comportamenti impertinenti, e persino l’appellativo infamante di cannibale può non
46
sorprendere troppo. Ancor più interessante, in questo senso, se pensiamo al fatto che la condizione
di bassa estrazione sociale veniva vista al contrario da Flaiano come un fattore di coesione tra
l’europeo e l’indigeno, esemplificati in Tempo di uccidere rispettivamente dal soldato ex
contrabbandiere e dal piccolo Elias:
Lui [il contrabbandiere] con due strilli s’era messo dalla loro parte, tutto era stato detto tra
quelle persone, non valeva nemmeno la confusione delle lingue a dividerli, perché si
intendevano, come legati da radici comuni a un destino poco chiaro, pieno di cattive incognite.
[…] Era un uomo semplice, aveva cominciato a guadagnarsi la vita da bimbo anche lui, voleva
insegnare al ragazzo a guadagnarsi la vita e gliel’insegnò in pochi giorni.13
In altre parole, nella visione di Flaiano la stratificazione sociale riguarda la sola popolazione
italiana, all’interno della quale è la classe inferiore a porsi sullo stesso piano e dunque a stabilire
una connessione con la popolazione indigena in toto. Al contrario, Giyorgis applica la stessa
distinzione alla propria realtà di provenienza, mettendo dunque in parallelo tra di loro le classi di
stesso livello delle due diverse nazionalità: egli dimostra così ancora una volta l’intento, a mio
parere assolutamente consapevole, di mettere in luce una possibile e reale equiparazione tra italiani
ed etiopi.
Dal canto suo, sebbene la nostalgia della patria e degli affetti lontani sia sempre presente, dopo
cinque mesi di permanenza in Italia Giyorgis non esita a dischiararsi orgoglioso del Paese ospitante
e della sua gente, e soprattutto grato delle condizioni di stabilità, tranquillità e sicurezza che esso
garantisce, impensabili in Etiopia. Su un’ulteriore nota di relativismo si chiude infatti il breve
resoconto di viaggio: il passaggio da un Paese in cui «you came across corpses dead from starvation
and disease» e dove «it was a marvel if you went out of your house and came safe and well» (p.
368) a una «land of peace and paradise» è talmente radicale da non poter non lasciare una certa
impressione su colui che lo vive.
3. Indispensabili filtri interpretativi
Il testo di Giyorgis, tuttavia, resta un esempio tanto prezioso quanto isolato nella realtà della
produzione letteraria coloniale di cui disponiamo. Questa situazione di fatto pone oggi di fronte a
un problema metodologico e ideologico tutt’altro che trascurabile, nella misura in cui restituisce
intatto all’analisi dello studioso solo un lato della medaglia, lasciando in ombra uno dei due
interlocutori fondamentali di un processo storico complesso e controverso qual è quello coloniale.
Imprescindibile qui il richiamo al concetto di contact zone che Mary Louise Pratt ha applicato allo
spazio dell’incontro imperiale, «the space in which peoples geographically and historically
13
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, cit., pp. 113, 115.
47
separated come into contact with each other and establish ongoing relations»14; ma, come lei stessa
non ha mancato di sottolineare, la dimensione di scambio reciproco che tale incontro comporta è
stata poi ignorata o soppressa nei racconti della conquista e del dominio redatti dall’esclusivo punto
di vista dell’invasore.
Senza contare il fatto che, anche per quanto riguarda le testimonianze propriamente ascrivibili
alla letteratura italiana in quanto prodotte da italiani che si trovarono per vari motivi a contatto con
la realtà africana coloniale, è necessario accostarsi ad esse con la massima cautela possibile, nella
consapevolezza delle specifiche finalità e condizioni in cui vennero realizzate e offerte al pubblico
dei lettori.
Un’eccezione, seppure parziale, può in questo senso essere rappresentata da quelle fonti
documentarie che rimasero inedite all’epoca dei fatti e che oggi continuano ad affollare gli archivi
pubblici della nazione, troppo spesso ancora trascurate, a torto, dagli studiosi:
non si può sottovalutare il fatto che (pur non scansando quelli inevitabili ed intimi di
autocensura e censura legati alla scrittura di sé) questi testi non siano incappati nei meccanismi
pubblici di autocensure e censure tipici della fase coloniale, e per certi versi post-coloniale.15
Eppure, come non manca di far notare tra parentesi lo stesso Labanca, anche in questo genere di
testimonianze agisce comunque quell’impulso più o meno consapevole alla trasfigurazione del
proprio passato che caratterizza ogni scrittura autobiografica in quanto tale16; inoltre, per il solo
fatto di non essere sfuggite al processo di approvazione da parte di un editore e di non essere state
composte avendo in mente un immediato e specifico pubblico di riferimento, tali opere memoriali
non costituiscono automaticamente una fonte privilegiata né tantomeno esaustiva sulla realtà degli
avvenimenti, nella misura in cui sono sempre e comunque espressione della visione parziale e
orientata dei coloni bianchi in territorio africano. Non stupisce allora, come emerge dalla
ricostruzione di Labanca, trovare in esse una maggiore attenzione alla condizione lavorativa, così
come una più alta percentuale di scritture femminili, meno inclini a contenuti politici e ricche di
descrizioni improntate a un buon senso e realismo quotidiani piuttosto che a un facile esotismo di
maniera. Allo stesso tempo, tuttavia, lascia perplessi e induce a non abbandonare scetticismo e
cautela il fatto che, ad esempio, non compaiano nemmeno qui riferimenti all’opera di repressione
della resistenza al dominio coloniale cui per forza di cose i coloni si trovarono ad assistere; né
particolare insistenza venga esercitata nel delineare i tratti caratteristici dell’ambiente sociale
14
Mary Louis Pratt, Imperial eyes…, cit., p. 8.
Nicola Labanca, Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie d’Africa, Rovereto (Trento),
Museo Storico Italiano della Guerra, 2001, p. VIII.
16
D’obbligo il rimando a Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986. Si veda anche John
Sturrock, The language of autobiography. Studies in the first person singular, Cambridge, Cambridge University Press,
1993.
15
48
autoctono (il quale, tuttavia, viene se non altro spogliato delle sue presunte immobilità e chiusura e
restituito al lettore moderno nella sua reale interazione con quello creato dai coloni).
Altro esempio in questo senso sono anche i più di cento diari ambientati in Africa in un periodo
che va dal 1849 al 1993 e conservati presso l’Archivio di Pieve Santo Stefano, quella sorta di “casa
della memoria” dove da quasi trent’anni confluiscono, per essere raccolti ma anche letti e rivissuti
pubblicamente, diari e testimonianze provenienti da ogni parte d’Italia.17 In questo caso si tratta di
memorie lasciate per lo più da soldati impegnati nelle operazioni di conquista o stanziati sui territori
occupati, le cui riflessioni cadono comunque spesso vittime di luoghi comuni e stereotipi: se il cibo
africano suscita immancabilmente disgusto, i domestici indigeni sono sempre guardati con sospetto
e considerati ladri per natura.18
Anche laddove non agiscano direttamente motivazioni e meccanismi legati alle esigenze della
propaganda − liberale o fascista che sia − non è facile trovare espressioni di apertura e tolleranza, e
niente garantisce a priori un tentativo di liberarsi da un’ottica squisitamente eurocentrica. Si tenga
presente, a tale proposito, che non siamo di fronte a una situazione specificamente italiana; al
contrario, come è facile immaginare, si tratta di un atteggiamento comune ai diversi contesti
europei:
La letteratura sull’esplorazione e sulla conquista è vasta e varia quanto gli stessi processi che
descrive. Ma, a parte alcune eccezioni di spicco, le testimonianze sono costruite unicamente in
base a un unico atteggiamento di dominio: sono i diari di uomini che guardano all’Africa
rimanendone decisamente al di fuori. Non che da molti di loro ci si potesse aspettare qualcosa
di diverso, ma il punto è che la qualità delle loro osservazioni è circoscritta entro confini
claustrofobici, e oggi quando li leggiamo dobbiamo tenerlo presente. Se qualcuno di loro si è
sforzato di capire la mentalità e le azioni degli africani che incontrava, si è trattato di un fatto
casuale e assolutamente sporadico. Quasi tutti erano convinti di trovarsi di fronte “all’uomo
primordiale”, all’umanità com’era prima che iniziasse la storia, a società rimaste ferme all’alba
dei tempi.19
Simili considerazioni ben si applicano alle testimonianze sulle quali si incentra il presente lavoro: e
se mia intenzione sarà quella di metterne in luce elementi condivisi e di mostrarne al tempo stesso
gli scarti anche sensibili rintracciabili in una prospettiva a lungo termine, fondamentale assunto da
cui partire per l’analisi dei testi deve essere la consapevolezza di avere a che fare con un unico
sostrato ideologico comune, più o meno conscio ma sempre nettamente orientato.
17
Cfr. Mario Perrotta, Il Paese dei diari, Milano, Terre di Mezzo Editore, 2009.
Cfr. Enrico Castelli, David Laurenzi, Permanenze e metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, Napoli,
Edizioni scientifiche, 2000.
19
Basil Davidson, The african past. Chronicles from antiquity to modern times, London, Longmans, 1964, p. 36, cit.
da Edward Said, Cultura e imperialismo, cit, p. 125.
18
49
4. Per una periodizzazione della letteratura coloniale
La complessa rete di ostacoli e limitazioni di cui abbiamo tentato di dare conto è corollario
ineliminabile nell’accostamento a quei documenti scritti che costituiscono oggi l’unico mezzo di
riappropriazione di un passato non così lontano, eppure denso di incognite e di interrogativi cui è
necessario trovare adeguata risposta.
Tuttavia, proprio la difficoltà nel relazionarsi con la
letteratura coloniale ha troppo spesso fornito in Italia, al contrario di quanto avvenuto in genere in
altri Paesi, un facile pretesto per evitare di indagarla e studiarla in maniera esaustiva. Giudicata
frettolosamente come pura propaganda, o comunque archiviata in quanto ritenuta priva di qualsiasi
valore letterario, essa è stata a lungo relegata in una posizione del tutto marginale, e sostanzialmente
privata della possibilità di divenire oggetto di un serio dibattito.
Senza dubbio in altre nazioni europee, quali in primo luogo Inghilterra e Francia, il problema
coloniale, ben radicato e di lunga data, ha fornito materia e giustificazione allo sviluppo di una
letteratura capace prima di accompagnare la creazione stessa dei rispettivi imperi d’Oltremare, poi
di sorreggerne le ragioni e soprattutto di alimentarne un ricco immaginario. Questa situazione di
fatto ha a sua volta favorito, a partire soprattutto dagli anni Ottanta del Novecento, l’inquadramento
dello stesso problema coloniale all’interno dei cosiddetti Cultural Studies: l’attenzione è stata cioè
sempre più focalizzata sull’aspetto culturale inteso in senso ampio, non ristretto alla specifica
produzione di tipo intellettuale, bensì allargato a comprendere tutte quelle manifestazioni
ideologicamente strategiche volte a creare e tenere vivo un vero e proprio consenso di massa. Un
impulso fondamentale in direzione del riconoscimento del ruolo giocato dalle costruzioni di tipo
culturale all’interno dei movimenti espansionistici europei proviene dalle acute riflessioni di
Edward Said, il primo ad asserire con forza che
né l’imperialismo né il colonialismo sono semplici atti di espansione e acquisizione di territori.
Entrambi sono sostenuti, e forse perfino sospinti, da formidabili formazioni ideologiche, che
racchiudono l’idea che certi territori e certi popoli necessitino e richiedano di essere dominati,
così come da forme culturali associate al dominio.20
Una volta dunque ricostruite le ragioni storiche, economiche e politiche dell’imperialismo coloniale
− e dunque quelle che potremmo definire le sue dinamiche più marcatamente materiali − si è venuto
finalmente a creare lo spazio adeguato per l’indagine di quegli aspetti a lungo considerati accessori
o perlomeno marginali, aprendo il campo a una nuova e stimolante prospettiva multidisciplinare.
Ancor di più, gli apporti della teoria e della critica letteraria hanno addirittura ribaltato la modalità
tradizionale con cui la questione veniva affrontata, se è vero che a partire ancora una volta dal
contributo imprescindibile degli studi di Said la costruzione discorsiva che sorregge il fenomeno
20
Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 35.
50
coloniale è divenuta motivo centrale di analisi, in quanto riconosciuta realtà con cui tutti i diversi
approcci disciplinari si trovano comunque a dover fare i conti:
the contribution of colonial-discourse analysis is that it provides a significant framework for
that other work by emphasizing that all perspectives on colonialism share and have to deal
with a common discursive medium which was also that of colonialism itself: the language used
to enact, enforce, describe or analyse colonialism is not transparent, innocent, ahistorical or
simply instrumental. Colonial-discourse analysis can therefore look at the wide variety of texts
of colonialism as something more than mere documentation or “evidence”, and also emphasize
the ways in which colonialism involved not just a military or economic activity, but permeated
forms of knowledge which, if unchallenged, may continue to be the very ones through which
we try to understand colonialism itself.21
Nuova e feconda attenzione è stata pertanto già da tempo, soprattutto in contesto anglo-americano,
riservata all’eterogenea varietà di testi prodotti parallelamente allo sviluppo storico-politico del
colonialismo, e ad esso più o meno direttamente legati nel contenuto come nelle finalità, sia pure
con le limitazioni prospettiche già evidenziate. In altre parole, dissipato ogni dubbio riguardo
all’utilità di studiare il discorso culturale messo in atto in questa specifica epoca storica, conoscenza
e sapere coloniali sono stati a buon diritto riconosciuti non solo come prodotto, ma soprattutto come
supporto alla conquista vera e propria:
Colonialism not only has had cultural effects that have too often been either ignored or
displaced into the inexorable logics of modernization and world capitalism, it was itself a
cultural project of control. Colonial knowledge both enabled colonial conquest and was
produced by it; in certain important ways, culture was what colonialism was all about […] If
colonialism can be seen as a cultural formation, so also culture is a colonial formation.22
Il testo letterario realizzato in ambito coloniale, dunque, non ha valore solo in quanto documento
direttamente percepibile e fruibile nella sua evidenza testimoniale; al contrario, esso merita di
divenire oggetto specifico di analisi nella misura in cui si fa portatore di modi complessi e spesso
tutt’altro che trasparenti di articolazione di un più ampio messaggio culturale. Come scrive
Todorov:
gli individui non sono immersi in contatti puramente fisici con il mondo, ma in un insieme di
rappresentazioni collettive che, in un dato momento, occupano un posto predominante. […] In
questo senso la cultura è l’immagine che la società si fa di se stessa. È con questa
rappresentazione che gli individui cercano di identificarsi.23
Non a caso, esplicito punto di riferimento nell’elaborazione dell’orientalismo di Said come
fenomeno a matrice essenzialmente culturale è il concetto gramsciano di “egemonia”: il
riconoscimento fondamentale, cioè, del fatto che il potere, che sia o meno esercitato attraverso
21
Robert Young, Colonial desire. Hibridity in theory, culture, and race, cit., p. 163.
Nicholas Dirks, Colonialism and culture, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1992, p. 3.
23
Tzvetan Todorov, La paura dei barbari, cit., pp. 82-3.
22
51
evidenti forme di violenza e di coercizione, richiede poi, per poter essere davvero efficace,
l’imposizione da parte del gruppo egemone della propria visione culturale sugli altri gruppi, nei
confronti dei quali esso agisce da riconosciuto leader mediante la creazione di un certo livello di
consenso.24 Il potere, in altre parole, agisce non solo nella formazione e nel mantenimento della
conoscenza, ma all’interno della conoscenza stessa.25 Ancor di più, lo stesso consenso non si ottiene
semplicemente con una diretta manipolazione dei soggetti, bensì spesso, in maniera più sottile e
insidiosa, con una pericolosa in quanto mascherata azione sul senso comune delle persone. Il
fenomeno coloniale necessita pertanto di essere compreso fino in fondo anche nella sua natura di
formazione di un discorso che incorpora gli stessi soggetti coloniali in un preciso sistema di
rappresentazione26, sia pure evitando la deriva di una assoluta testualizzazione dei suoi processi
storico-sociali. Da questo punto di vista è bene tenere presente che «discourse is not simply another
word for representation. Rather, discourse analysis involves examining the social and historical
conditions within which specific representations are generated».27 In altre parole, prospettare uno
studio del colonialismo che si appunti in maniera diretta sulla sua natura di elaborazione linguistica
e testuale non equivale in alcun modo a rigettarne la realtà storica e materiale, alla quale anzi è a
mio avviso sempre utile ricollegarsi per evitare facili astrazioni e generalizzazioni.
Ciò premesso, non si può fare a meno di constatare che, anche per quanto riguarda l’aspetto
propriamente culturale, la situazione coloniale italiana si dimostra quantomeno peculiare, nella
misura in cui risente inevitabilmente delle particolari condizioni in cui prende avvio e
determinazione lo stesso progetto espansionistico nazionale. Non si può non considerare, a questo
proposito, il fatto che l’Italia si inserisce nello scramble for Africa molto in ritardo e in modo
quanto mai incerto ed esitante. Inoltre, e ancora diversamente da quanto avvenuto per altre nazioni,
non sono cause economiche dirette a motivare lo sbarco in Africa, quanto la volontà prettamente
politica di risollevare in qualche modo il livello del proprio prestigio internazionale all’indomani
dell’estensione del protettorato francese sulla Tunisia, che sostanzialmente lasciava l’Italia isolata e
ne frustrava profondamente le aspirazioni. Nato dunque da una decisione diplomatica e
governativa28, in Italia forse più che altrove il progetto di espansione coloniale si trova nella
necessità di avvalersi di una forma mirata di propaganda, atta a suscitare il coinvolgimento della
popolazione nell’impresa. D’altronde, tale partecipazione concreta ed emotiva della nazione nel suo
24
Sterminata la letteratura oggi disponibile sul concetto di “egemonia” in Gramsci, per una cui recente rivisitazione
si veda almeno Giuseppe Cospito, Genesi e sviluppo del concetto di egemonia nei “Quaderni del carcere”, in Angelo
d’Orsi (a cura di), Egemonie, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2008, pp. 187-206.
25
Cfr. Stuart Hall, Miguel Mellino, La cultura e il potere. Conversazione sui «Cultural Studies», Roma, Meltemi,
2007.
26
Cfr. Chris Tiffin, Alan Lawson, De-scribing empire. Post-colonialism and textuality, London, Routledge, 1994.
27
Ania Loomba, Colonialism /Postcolonialism, London-New York, Routledge, 2005, p. 96.
28
Cfr. Nicola Labanca, L’ultima arrivata, in Id., Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il
Mulino, 2002, pp. 15-56.
52
insieme, stimolata e sostenuta durante tutto l’arco dell’avventura coloniale con mezzi sempre più
moderni ed efficaci, stenta comunque a raggiungere i livelli di ramificazione e profondità propri
ancora una volta di quella delle grandi potenze europee: al di là, infatti, della più o meno forte
incidenza di una perdurante politica anticolonialista e delle divisioni interne agli stessi circoli
coloniali, non si può dimenticare che la stessa identità nazionale, peraltro di recentissima
acquisizione, è ancora quanto mai debole e precaria, e costretta sul fronte interno a fare i conti con
gravi e pressanti condizioni di disequilibrio sociale ed economico.
Non stupisce perciò più di tanto il fatto che persino la propaganda messa in atto dal regime
fascista dagli anni Venti in poi, seppure senza dubbio molto meglio organizzata e notevolmente più
massiccia di quella dell’Italia liberale, non solo non raggiunga gli esiti di quella straniera, ma
soprattutto sembri non sortire gli effetti auspicati dai suoi stessi promotori. Il consistente impiego,
scrupolosamente diretto e controllato, dei mezzi di comunicazione di massa, al fine di cementare un
consenso quanto più ampio possibile presso l’opinione pubblica, prevedeva infatti un uso accorto e
strumentale anche della stessa produzione letteraria. Eppure ancora nel 1931, e cioè a pochi anni da
quella campagna d’Etiopia che segnerà l’acme di tutta l’impresa coloniale italiana, l’«Azione
coloniale», periodico di chiaro orientamento nazionalista e dunque direttamente legato agli ambienti
governativi, promuove un referendum sulla letteratura coloniale, segno che a tale altezza
cronologica evidentemente non erano ancora stati raggiunti in questo campo gli obiettivi sperati. A
essere interpellati sono importanti intellettuali e scrittori dell’epoca, tra cui Tommaso Marinetti,
Arnaldo Cipolla, Clarice Tartufari, Massimo Bontempelli e Margherita Sarfatti, dalle cui risposte
emergeva in particolare la consapevolezza delle implicazioni politiche, ancor prima che estetiche,
associate inevitabilmente a un tale tipo di produzione letteraria: nella misura in cui, in altre parole,
veniva registrata una forma di adesione ancora troppo timida e incerta alle imprese coloniali, si
avvertiva l’esigenza di una maggiore chiarezza pedagogica della letteratura, solo in questo modo in
grado di svolgere una funzione educatrice ed edificante nei confronti della masse.29
Proprio in questo senso, tuttavia, non si giustifica il generale disinteresse di cui la letteratura
coloniale è stata a lungo fatta oggetto, in quanto essa dimostra di porsi sia come parte fondamentale
della cultura fascista in generale sia come specchio del più vasto problema del passaggio, in Italia,
da una cultura ancora di élite a una di massa. Ed è a partire da questo riconoscimento che ha preso
le mosse il lavoro critico di Giovanna Tomasello la quale, in un primo contributo risalente alla metà
degli anni Ottanta, si soffermava sugli esiti del romanzo coloniale di autori quali Mario Dei Gaslini,
Giorgio Mitrano Sani o Orio Vergani, nutritisi dei messaggi ideologici sottesi alle opere “africane”
29
Si veda, a questo proposito, Monica Venturini, Il mito dell’Impero tra letteratura e giornalismo, in Ead.,
Controcànone. Per una cartografia della scrittura coloniale e postcoloniale italiana, Roma, Aracne Editrice, 2010, pp.
25-36.
53
di Marinetti e di D’Annunzio.30 In un volume più recente, inoltre, la studiosa ritorna sugli stessi
argomenti, nell’intento questa volta di delineare una sorta di itinerario letterario: attraverso
un’accorta selezione degli autori trattati, il saggio si propone infatti come un’analisi del percorso
evolutivo sotteso all’elaborazione culturale di temi e motivi legati all’espansione coloniale. 31
L’intenzione è quella di tracciare un profilo di storia della letteratura coloniale italiana che, lungi
dal volere essere esaustivo, possa tuttavia, secondo le parole della stessa autrice, «fornire un
semplice contributo a un dibattito ulteriore».32 A questo scopo il materiale analizzato si amplia
sensibilmente, allargandosi a comprendere non più solo romanzi, ma anche testi saggistici e
memoriali, non mancando di accostare opere appartenenti alla letteratura istituzionale ad altre
evidentemente rivolte a un pubblico popolare e di massa. La Tomasello spazia così dai ricordi di
viaggio di Ferdinando Martini, inviato come commissario straordinario in Eritrea nel 1891 per
un’inchiesta parlamentare sulla gestione della colonia, alle prose del Pascoli, venate di accenti
nazionalisti ispirati dalla concezione “proletaria” dell’Italia, umile patria di emigranti, passando
ancora una volta attraverso le voci irrinunciabili di D’Annunzio e Marinetti. Accanto ai romanzi di
Cipolla, Zuccoli e Vergani trovano posto, allo stesso modo, Mal d’Africa di Bacchelli, ma anche
testimonianze propriamente post-coloniali, quali quelle di Berto, Tobino, Flaiano e, più avanti
ancora, di Moravia e Pasolini.
La carrellata di opere, autori e temi su cui si concentra di volta in volta lo sguardo critico della
studiosa pone tuttavia un’altra questione metodologica di non scarso rilievo: dal momento che,
infatti, il suo proposito è quello di delineare, sia pure in maniera consapevolmente rapida e
inevitabilmente parziale, una parabola letteraria che accompagna e sorregge il parallelo formarsi di
una coscienza culturale dell’Africa da parte degli italiani, è imprescindibile l’adozione di
determinati limiti cronologici. Il momento di esordio della letteratura coloniale viene da lei
esplicitamente collocato tra il 1887, anno della disfatta di Dogali, e il 1896, tristemente noto per il
massacro delle truppe italiane ad Adua. La scelta è dovuta al fatto che, come lei stessa specifica in
apertura del volume:
le due battaglie, con i loro esiti mortificanti per l’orgoglio della giovane nazione,
intensificavano il dibattito sull’opportunità di una politica coloniale italiana, acuivano la
consapevolezza del problema, scatenavano […] l’opinione pubblica, e finivano per
coinvolgere insomma in vario modo, nella costruzione dell’immagine del mondo coloniale, gli
«specialisti» della letteratura.33
30
Giovanna Tomasello, La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Palermo, Sellerio, 1984.
Ead, L’Africa tra mito e realtà, cit.
32
Ivi, p. 15.
33
Ivi, p. 11.
31
54
Ora, è senza dubbio vero che le due sconfitte militari appena ricordate ebbero un impatto enorme a
livello di percezione comune della realtà di ciò che stava accadendo in Africa, di cui d’altronde in
quegli anni molte persone erano ancora del tutto ignare, e contribuirono di certo non solo ad
animare dibattiti politici, ma anche a risvegliare curiosità fino ad allora rimaste appannaggio di
pochi. In che misura questo vada a incidere sulla produzione letteraria è questione, tuttavia, da
sottoporre a un più delicato esame. Non è chiaro prima di tutto a chi la Tomasello si riferisca con
l’espressione “specialisti della letteratura” dal momento che, come abbiamo visto, la sua trattazione
tende a porre sullo stesso piano, tra gli altri, D’annunzio, Moravia, Zuccoli e Vergani. Evidente si
rivela la soppressione di distinzioni di genere o di valore, giustificabile all’interno di una strategia
di lettura che tende a privilegiare aspetti ideologici e contenutistici su quelle che sono invece le
caratteristiche formali o propriamente stilistiche dei testi presi in esame. Rimane comunque
problematico il limite cronologico fissato, che per altro è posto in termini vaghi all’interno di un
arco temporale che copre quasi dieci anni.
In effetti, se volessimo prendere a riferimento le date fornite dal succedersi degli eventi storici,
dovremmo allora tornare indietro di qualche anno al 1869, quando la Compagnia di navigazione
genovese Rubattino procede all’occupazione della baia di Assab: è questa infatti a essere
comunemente considerata come la prima mossa compiuta dall’Italia per ottenere un avamposto in
Africa. Si tratta, tuttavia, di una forma di acquisizione gestita appunto da una società privata, tanto
che nel 1882 il governo italiano provvederà all’acquisto al fine di farne appunto la base per la futura
espansione coloniale. Solo due anni dopo, infine, con l’occupazione di Massaua, inizieranno a
prendere forma più definita i propositi coloniali della nazione rimasta fino ad allora fuori dai giochi
espansionistici europei.
Come si vede, anche dal punto di vista strettamente storico è difficile poter fissare una data
precisa, dal momento che il processo di acquisizione dei primi possedimenti coloniali si dispiega
nell’arco di quindici anni. Ancor più controverso, allora, è naturale che sia il limite cronologico che
si voglia tentare di applicare alla nascita di una letteratura coloniale. In base a quello proposto dalla
Tomasello, restano sostanzialmente escluse dall’analisi tutte quelle testimonianze che potremmo
ricondurre a una fase preparatoria alla conquista vera e propria: non trovano infatti posto in nessuno
dei due volumi, che, come abbiamo visto, la studiosa dedica alla letteratura coloniale, i vari
resoconti dei viaggi e delle esplorazioni compiuti da italiani a partire dalla metà dell’Ottocento, i
quali godettero all’epoca di un enorme successo e, come vedremo più avanti, contribuirono in
maniera decisiva a formare e orientare l’interesse coloniale presso una fetta notevole della
popolazione.
55
D’altro canto, la posizione della Tomasello è condivisibile, ed effettivamente condivisa, anche
da altri studiosi che meglio ne specificano poi le ragioni. Ad apertura di un suo breve saggio
dedicato proprio ai rapporti tra letteratura e colonialismo, Riccardo Scrivano afferma infatti che «il
colonialismo irruppe nella letteratura italiana coll’eccidio di Dogali, il 26 gennaio 1887»34, per il
fatto che l’uccisione, allora per la prima volta, di soldati dell’esercito regolare fece notevole
scalpore e suscitò aspre polemiche. Egli identifica dunque in Carducci e Oriani i due autori che, sia
pure sostenitori di due visioni profondamente diverse e quasi contrastanti della questione,
ugualmente furono decisivi nel porre in quegli stessi anni le premesse di un approccio letterario al
fenomeno coloniale. Tutto ciò che viene prima del 1887 non è però totalmente obliterato da
Scrivano, il quale fa al contrario esplicito riferimento alla «letteratura dettata dalle esplorazioni
italiane nel continente africano»35, sia pure per raccoglierla sotto l’etichetta di “sperimentazione
colonialistica”: in altre parole, nel momento in cui il colonialismo, inteso come movimento
consapevole di espansione nazionale al di fuori dei propri confini, non è ancora stato avviato
dall’Italia, è impossibile trovare nella produzione scritta dell’epoca “componenti veramente
colonialistiche”.
Scrivano non si limita, tuttavia, a tracciare questa linea di demarcazione a partire da un punto di
vista esclusivamente terminologico e cronologico, bensì si spinge oltre nell’intenzione di
distinguere anche contenuti e finalità nelle opere di quei primi esploratori a suo parere «animati da
un desiderio di conoscenza, magari di registrazione dell’esotico, perfino di gusto per un contatto
autentico con la natura africana, col fascino dell’Africa sconosciuta»36, e dunque ancora avulsi da
tentazioni colonialistiche. Sarà mia premura il tornare a discutere più avanti se e fino a che punto
sia sottoscrivibile l’ipotesi di un’assoluta mancanza in questi testi di propositi anche vaghi di
assoggettamento e di conquista, più o meno espliciti e consapevoli. Fin da ora, tuttavia, vale la pena
notare che personaggi come il Piaggia, il Miani, il Chiarini, citati a mo’ di esempio da Scrivano,
diventano ben presto canoniche figure di pionieri sulla strada delle conquiste africane37, spesso
infatti chiamati in causa retrospettivamente e con orgoglio dagli autori propriamente coloniali: le
loro figure poterono essere infatti abilmente sfruttate in un secondo momento dai veri e propri
conquistatori italiani interessati a trovare un fondamento adeguato alla dominazione oltremare −
secondo quel meccanismo di autolegittimazione che Ranger e Hobsbawm hanno descritto come
34
Riccardo Scrivano, Letteratura e colonialismo, in Carla Ghezzi (a cura di), Fonti e problemi della politica
coloniale italiana. Atti del convegno, Taormina - Messina, 23-29 ottobre 1989, Roma, Ministero per i beni culturali e
ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1996, vol. 2, p. 645.
35
Ivi, p. 655.
36
Ibid.
37
Cfr. Roberto Battaglia, Tre pionieri italiani in Africa, in Id., La prima guerra d’Africa, Torino, Einaudi, 1958, pp.
15-53.
56
“invenzione della tradizione”.38 Non è un caso che proprio Alfredo Oriani, considerato da Scrivano,
come abbiamo visto, colui che assieme a Carducci diede definitivo avvio alla letteratura coloniale in
Italia, non solo faccia esplicito riferimento a personaggi quali il Piaggia, l’Antinori, il Gessi,
«audaci di ogni tempo, che malati della nostalgia dell’ignoto esularono verso tutte le contrade
inesplorate»39, ma dedica anche alcune pagine all’avventura di Pellegrino Matteucci, che morì
appena sbarcato in Europa. Ciononostante, Scrivano ritiene opportuno collocare tutte queste figure
al di qua di quella produzione letteraria «che nasce dalla frequentazione continuata dell’Africa e, di
seguito, dalla costituita esistenza delle colonie», e in cui davvero «si afferma il colonialismo come
fatto ideologico».40
E d’altronde anche Giuliano Manacorda asserisce la necessità di operare una distinzione tra un
tipo di letteratura propriamente coloniale e un’altra che sarebbe più opportuno definire “esotica”.
Egli cita a proposito la posizione di Mario dei Gaslini, prolifico autore coloniale e vincitore con
Piccolo amore beduino del primo concorso per un romanzo coloniale organizzato dal governo
fascista nel 1926, il quale aveva già in quegli anni riservato una posizione specifica a «tutto quanto
vive l’ambiente e l’atmosfera delle colonie, cioè tutti gli scritti artistici che si riferiscono alle
colonie, denominando diversamente, ad esempio ‘letteratura esotica’, quanto è coloniale senza la
trattazione dei nostri domini d’oltremare».41 In questo caso, tuttavia, la distinzione sembra farsi al
tempo stesso più sottile ma anche più sfumata: se infatti in quest’ottica possono essere definiti
coloniali solo quegli scritti che abbiano per lo meno come sfondo i possedimenti italiani in Africa,
al tempo stesso rientrerebbero sotto la categoria di letteratura esotica quei testi di argomento sempre
coloniale in cui però non siano specificamente chiamati in causa i domini italiani. In tal senso,
allora, resta ancora una volta tagliato fuori tutto ciò che viene prima e che, in quanto tale, come
faceva notare Scrivano, non può dirsi coloniale «per la buona ragione che il colonialismo non era
ancora nato».42
Sembra allora di essere tornati al quesito di partenza, per come esso ci si era posto riflettendo
sulla periodizzazione proposta dalla Tomasello. A mio parere, tuttavia, se si vuole almeno cercare
di avere una panoramica completa − e per completa non intendo esaustiva in tutte le sue forme, che
davvero sarebbe impossibile − di quello che è stato l’apporto letterario alla vicenda coloniale
italiana, come non si possono tralasciare le declinazioni propriamente post-coloniali che ho fatto
oggetto della mia analisi nel precedente capitolo, così allo stesso tempo è necessario allargarsi a
38
Eric Hobsbawm, Terence Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987.
Alfredo Oriani, Fino a Dogali, Bologna, Cappelli, 1935, in Id. Opera omnia, vol. 7, pp. 323-4.
40
Riccardo Scrivano, Letteratura e colonialismo, cit., pp. 656-7.
41
Giuliano Manacorda, Le guerre italiane in Africa e la letteratura, «Studi d’italianistica nell’Africa australe», 6,
1993, p. 47.
42
Riccardo Scrivano, Letteratura e colonialismo, cit., p. 655.
39
57
comprendere sotto il proprio sguardo anche la produzione che potremmo per contrasto definire
genericamente pre-coloniale, nel senso appunto di antecedente alla creazione giuridica ed effettiva
delle colonie stesse, eppure in qualche modo anticipatrice di temi e atteggiamenti che verranno poi
sistematicamente ripresi negli anni successivi. Questa convinzione, da cui ha preso le mosse la mia
ricerca e che sorregge pertanto questo mio intero lavoro, mi sembra peraltro condivisa da Daniele
Comberiati che, in un recentissimo articolo dedicato alla presenza del mito africano nelle dispense
ottocentesche dell’editore Pierino, così esordisce:
Se l’inizio della letteratura coloniale italiana può essere fatto risalire al periodo che va dalla
sconfitta di Dogali (1887) fino alla disfatta di Adua (1896), è pur vero che già negli anni
immediatamente successivi all’unità nazionale è possibile riscontrare nelle masse e nella
borghesia un principio di quella “coscienza coloniale” che esploderà definitivamente
nell’ultimo lustro del secolo.43
Punto di partenza per una riflessione sulla letteratura coloniale sono dunque ancora una volta, come
d’altronde egli stesso riferisce esplicitamente in nota, la periodizzazione e l’esemplificazione
proposte dalla Tomasello; tuttavia Comberiati ci tiene fin da subito a precisare come una forma sia
pure embrionale di consapevolezza del proprio ruolo coloniale di là da venire fosse già presente nel
popolo italiano all’indomani della stessa Unità nazionale. Non a caso la sua attenzione si concentra
sulla collana “Biblioteca nova”, lanciata dalla casa editrice romana Pierino alla metà degli anni
Ottanta dell’Ottocento: progettata per accogliere libri e resoconti di viaggio non peraltro limitati al
solo contesto africano, essa era infatti destinata a incontrare un notevole successo presso un
pubblico borghese «predisposto a racconti di avventure che mostrassero la capacità dell’uomo di
domare una natura a prima vista impervia e sconosciuta».44
4. Travel writing
L’intento che dunque sorregge la mia ricerca è quello di rintracciare e mettere in evidenza, al
fine di comprenderne genesi e ragioni, costanti e varianti nella percezione dell’altro e nelle modalità
di rapportarvisi per come esse vengono testualizzate all’interno della produzione letteraria italiana
di argomento coloniale. Un tale proposito implica di necessità la scelta di un’angolazione più o
meno precisa da cui partire per affrontare il problema, al fine di evitare una sterile e generica
riproposizione di motivi già da più parti messi in luce. Ho deciso pertanto di tralasciare la
produzione propriamente romanzesca che, come abbiamo visto, è quella su cui negli ultimi anni si è
maggiormente concentrata l’attenzione degli studiosi, focalizzando invece la mia analisi su quegli
43
Daniele Comberiati, “Un esploratore a settimana”. La nascita del mito africano nella cultura popolare italiana
attraverso le dispense dell’editore Pierino, in Gabriele Proglio (a cura di), Orientalismi italiani, vol. 2, Alba, Antares,
2012, p. 57.
44
Ivi, p. 61.
58
scritti, di natura autobiografica, che possono essere raggruppati sotto la categoria di memorialistica
e/o diaristica di viaggio. Nel tentativo di tracciare un percorso che riesca effettivamente a dare
conto dell’evoluzione del genere, prodottasi in parallelo al contemporaneo sviluppo del
colonialismo come fenomeno storico-politico, ho adottato quella che potrei chiamare una
periodizzazione “ad ampio raggio”: all’interno dell’analisi mi propongo cioè di spaziare dai
resoconti delle prime esplorazioni compiute in terra africana a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, quando ancora come abbiamo visto si può parlare propriamente solo di una
letteratura coloniale ante-litteram, fino ai diari redatti nel breve periodo di sopravvivenza
dell’Impero d’Africa Orientale, crollato alla fine della seconda guerra mondiale. Con un breve
cenno alle prime forme di elaborazione memoriale del recente passato coloniale, infine, ho aperto il
presente lavoro, nella convinzione che, proprio a partire dalle testimonianze dell’epoca ancora oggi
accessibili, possa prendere le mosse un maturo e necessario ripensamento delle condizioni, non solo
e non tanto materiali, in cui prese avvio e si realizzò il progetto coloniale italiano.
Da questo punto di vista, la scelta di occuparmi della scrittura di viaggio non è affatto casuale, né
dettata semplicemente dalla volontà, sia pure legittima, di indagare un campo ancora in effetti poco
esplorato; essa, al contrario, è maturata a partire dall’intenzione di rivalutare le complesse
prospettive che può aprire il genere in quanto tale, per ovvie ragioni particolarmente folto al tempo
dell’espansione coloniale: «travel writing is essentially an instrument within colonial expansion and
served to reinforce colonial rule once in place».45
Bisogna innanzitutto considerare che, anche al di fuori del contesto coloniale, la scrittura di
viaggio come genere a se stante si è trovata per lungo tempo a fare i conti con una forte tendenza a
ridurne la portata e la reale complessità. La natura fondamentalmente ibrida del genere, se in tempi
recenti ha stimolato una nuova e feconda ondata di attenzione, è tuttavia stata per lungo tempo di
ostacolo allo studio e anche al reperimento stesso dei testi che, per «un errore antico perpetuato nei
secoli»46, venivano tradizionalmente considerati alla stregua di semplici opere geografiche, e in
quanto tali etichettate a prescindere come monotone e ripetitive. Tuttavia, come fa a proposito
notare Emanuele Kanceff, pioniere degli studi sull’odeporica, fondatore e presidente del “Centro
Interuniversitario di Ricerche sul Viaggio in Italia” (CIRVI):
se è vero che nessun genere quanto la scrittura di viaggio ha dimostrato di essere
irremovibilmente ancorato ai modelli e gravemente ripetitivo, è anche vero che è quello che
45
Sara Mills, Discourses of difference. An analysis of women’s travel writing and colonialism, London, Routledge,
1991, p. 2.
46
Emanuele Kanceff, Leggere il viaggio in Italia: un metodo di classificazione, in Id. (a cura di), Lo sguardo che
viene di lontano: l’alterità e le sue letture. Riflessioni e problemi in un mondo che cambia, Moncalieri, CIRVI, 2001,
vol. I, p. 4.
59
più ha lottato e sofferto per rinnovarsi e ha trovato nel superamento di tali difficoltà una
ragione tenace di sopravvivenza.47
La fedeltà a determinati schemi elaborativi e interpretativi non ha impedito, infatti, al genere
odeporico di cercare e trovare modulazioni nuove e originali attraverso cui riproporsi di volta in
volta a un lettore immancabilmente affascinato dall’ampiezza di scenari e di orizzonti offerta dai
testi di viaggio.
Con altrettanta frequenza, poi, questi ultimi venivano automaticamente inseriti all’interno del più
vasto campo della letteratura autobiografica; come questa, infatti, anche la scrittura di viaggio ha
dovuto ugualmente faticare per vedere riconosciuto il proprio valore e guadagnare un posto
legittimo e specifico nel panorama letterario: un posto cioè non inferiore, se non altro in linea di
principio, a quello della scrittura di finzione. Il semplicistico ma comunemente diffuso
accostamento alla categoria delle guide o di altri simili apparati turistici ha contribuito a porre
troppo spesso la scrittura di viaggio su un piano prettamente pragmatico, finalizzato a uno scopo
ben preciso, oscurandone in partenza le più profonde potenzialità.48 Anzi, è proprio la presunta
natura concreta del genere ad averne ostacolato la fortuna:
quasi che i molti dati materiali e concreti di cui essi [i libri di viaggio] sono necessariamente
costruiti inquinino in qualche modo un ideale di disinteressata e disincarnata letterarietà; quasi
che paesi e costumi ed eventi possano diventare riconosciuta provincia letteraria solo quando li
marchi il segno dell’invenzione, del fantastico.49
Al contrario, come sottolinea ancora Kanceff:
Ogni scritto di viaggio, sia pure in forma di diario o di appunto, implica l’adozione o la
presunzione di una struttura di fondo: criterio formale che lo distingue dalla scrittura
utilitaristica e gli conferisce di conseguenza la dignità di creazione, almeno a carattere
potenziale. Contrariamente a quanto avviene per altre forme di scrittura, nelle note di viaggio
la logica del racconto è sempre presente, per quanto rozze e occasionali possano essere le
annotazioni, e ciò fa di loro fin dall’inizio una narrazione, sulla completezza e leggibilità della
quale si dovrà decidere caso per caso.50
Senza dubbio, è a partire soprattutto dal Settecento che una nuova valutazione estetica del
paesaggio in quanto tale sorregge a sua volta l’affermazione in Europa del Grand Tour e favorisce,
di conseguenza, un consistente incremento della produzione odeporica su larga scala.51 Tuttavia,
47
Id., Odeporica e letteratura: contro la dislessia, in Luigi Monga (a cura di), Hodoeporics revisited (Ritorno
all’odeporica), Chapel Hill (N.C.), University of North Carolina at Chapel Hill, 2003, p. 50.
48
Cfr. Kristi Siegel, Travel writing and travel theory, in Ead., Issues in travel writing. Empire, spectacle, and
displacement, New York, Peter Lang, 2002, pp. 1-9.
49
Giorgio Raimondo Cardona, I viaggi e le scoperte, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, vol. V,
Le Questioni, Torino, Einaudi, 1986, p. 687.
50
Emanuele Kanceff, Odeporica e letteratura, cit., p. 51.
51
Cfr. Attilio Brilli, Quando il viaggiare era un’arte. Il romanzo del Grand Tour, Bologna, Il Mulino, 1995.
60
anche in questo caso l’Italia, che pure è tra le mete irrinunciabili dello stesso Grand Tour52,
rappresenta almeno in parte un’eccezione, in quanto «i presupposti principali che alimentano il
fenomeno in questi due secoli, e cioè il viaggio concepito come libera, autonoma e disinteressata
esperienza culturale prima e il viaggio come attività di esplorazione e conquista poi, sono deboli».53
Solo a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, per dir la verità, si è registrata una decisa
inversione di tendenza, al punto che le opere di viaggio non solo incontrano oggi i gusti di un
pubblico di lettori sempre più ampio e maturo, ma già da qualche tempo hanno acquisito una nuova
rispettabilità critica. In ambito specificamente italiano, la stessa fondazione del CIRVI, avvenuta nel
1978, ha rappresentato un momento di svolta fondamentale nella promozione di ricerche,
manifestazioni e pubblicazioni inerenti al tema del viaggio in un senso più ampio possibile, come
incontro di culture, tradizioni e mentalità destinate ad avere forti ripercussioni sugli sviluppi del
pensiero e della cultura in genere.54 Negli ultimi anni la letteratura odeporica è stata oggetto di un
interesse sempre crescente, testimoniato dal proliferare di numerose nuove edizioni di testi di
viaggio e, soprattutto, di ricerche di carattere teorico e metodologico. Se, per citare alcuni studiosi,
Elvio Guagnini ha dedicato particolare attenzione alle forme assunte dalla scrittura di viaggio tra
XVIII e XIX secolo55, Luca Clerici, dopo aver raccolto in un’antologia vari scritti di viaggiatori
italiani nella penisola tra Sette e Novecento56, ha ancor più di recente curato per “I Meridiani”
Mondadori il primo volume di una collana dedicata all’evoluzione delle modalità del viaggio
nell’arco degli ultimi tre secoli, ripercorsa ancora una volta attraverso numerosi e diversificati
esempi letterari.57 La scrittura odeporica, infatti, ponendosi, proprio in virtù del suo carattere
autobiografico, in quello spazio liminale tra realtà e finzione, si dimostra oggi capace di guidare il
percorso del lettore e di stimolarne al tempo stesso partecipazione e immaginazione. Inoltre, se essa
è davvero riuscita finalmente a guadagnarsi un posto di primo piano nell’ambito della critica
letteraria, ciò è dovuto soprattutto al fatto che ne è stata sempre meglio compresa la reale
complessità: l’interesse odierno per il genere nasce dalla raggiunta consapevolezza della
molteplicità di livelli su cui esso si articola e delle stimolanti questioni che suscita in termini di
rappresentazione.
52
Cfr. Cesare De Seta, L’Italia del Grand Tour: da Montaigne a Goethe, Napoli, Electa, 1992.
Luca Clerici, Scrittori italiani di viaggio, vol. 1 (1700-1861), Milano, Mondadori, 2009, p. XVI.
54
Si veda, almeno, la recentissima pubblicazione a cura di Emanuele Kanceff, Pino Menzio e Chiara Kanceff,
Odeporica e dintorni. Cento studi per Emanuele Kanceff, Moncalieri (Torino), Centro interuniversitario di ricerche sul
viaggio in Italia, 2011.
55
Cfr. Elvio Guagnini, Il viaggio, lo sguardo, la scrittura. Generi e forme della letteratura odeporica tra Sette e
Ottocento, in Guido Santato (a cura di), Letteratura italiana e cultura europea tra Illuminismo e Romanticismo, Paris,
Droz, 2003, pp. 351 ss.
56
Luca Clerici, Il viaggiatore meravigliato, Milano, Il Saggiatore, 2001. Dello stesso autore si veda anche il
precedente contributo: La letteratura di viaggio, in Franco Brioschi, Costanzo di Girolamo (a cura di), Manuale di
letteratura italiana. Storia per generi e problemi, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, vol. III, pp. 590-610.
57
Luca Clerici, Scrittori italiani di viaggio, cit. 53
61
Si è spesso portati a pensare, d’altronde, che la descrizione, ossia l’atto più immediato di
rappresentazione in parole di qualcosa che si osserva, sia un mero fatto discorsivo che sfugge in
quanto tale a ogni forma di teorizzazione, limitandosi piuttosto a registrare i fatti o gli oggetti per
come essi sono. In realtà, come nota Lorenza Mondada:
La situation de déplacement du voyageur a le mérite de montrer que toute description implique
des choix interprétatifs, projette des éclairages particuliers, construit à sa guise les scènes
qu’elle prétend rapporter fidèlement. La description de l’Autre nous montre qu’il n’existe pas
d’écriture purement référentielle, mais que toute référence est une action sociale qui construit
discursivement son objet par les choix des ressources langagières auxquels elle procède.58
Il problema fondamentale da tenere sempre presente nel momento in cui ci si accosta alla scrittura
di viaggio è proprio quello della transizione da un luogo fisico, reale, alla sua osservazione e
dunque alla sua descrizione da parte di un soggetto.
La letteratura di viaggio provoca il pensiero perché è come un secondo viaggio, una ripresa
dell’esperienza: si trova nel punto di congiunzione fra la vita e il pensiero, l’azione e la
riflessione, e ne evita così le rispettive unilateralità, da una parte l’insignificanza di ciò che
resta puramente fattuale, dall’altra l’astrattezza di quanto viene sottratto al contatto con la
realtà.59
Ancor prima di assumere una forma scritta, di essere “letteralizzato” attraverso la parola, ciò che
viene visto è condensato in un’immagine, che è già una prima forma di trasformazione del reale.
Come ha notato a questo proposito Eric Leed, in ogni forma di osservazione è sempre implicito un
distanziamento tra soggetto e oggetto, e non è detto che il prendere nota di ciò che si osserva,
quand’anche esso si realizzi contemporaneamente all’atto visivo stesso, possa aiutare a catturare in
modo autentico il momento unico e irripetibile della vista.60
Inevitabilmente poi, nel secondo decisivo passaggio dalla rappresentazione di ciò che lo sguardo
restituisce più o meno intatto alla mente alla sua messa per iscritto, l’osservatore pone numerosi
filtri, spontanei o piuttosto consapevoli, di cui non è mai facile liberarsi in sede di interpretazione,
ma della cui esistenza bisogna per lo meno essere coscienti nell’approccio a questo genere di testi.
Il momento della resa in parole di quanto si è visto coincide con quello della sua totale
appropriazione a livello conoscitivo, ed è dunque il presupposto necessario per la trasmissione agli
altri della conoscenza acquisita in prima persona:
le texte n’est pas uniquement un moyen de représentation intervenant après coup sur des objets
préexistants, déjà là ou déjà vécus, mais est une médiation symbolique qui intervient de façon
58
Lorenza Mondada, Relations de voyage et archéologie des pratiques d’enquête en sciences sociales: Comment
rapporter la voix de l’Autre, in Luigi Monga, Hodoeporics revisited, cit., p. 331.
59
Roberto Carelli, L’Uno e l’Altro. Percorsi filosofici e teologici contemporanei, in Emanuele Kanceff (a cura di),
Lo sguardo che viene di lontano…, cit., vol. I, p. 34.
60
Eric Leed, The mind of the traveler. From Gilgamesh to global tourism, New York, Basic Books, 1991.
62
constitutive sur les objets qu’elle permet de penser, de rendre intelligibles, de comprendre et de
communiquer.61
Le implicazioni presenti in una tale duplice forma di rielaborazione concettuale di un’esperienza
reale devono dunque perlomeno suggerire un giusto livello di cautela qualora ci si trovi di fronte a
veri e propri resoconti di viaggio in forma diaristica, e pertanto si presume redatti
contemporaneamente all’esperienza stessa. Come fa notare giustamente Sara Mills, che della
scrittura di viaggio al tempo stesso coloniale e femminile si è a lungo occupata, «it is not necessary
to read travel writing as expressing the truth of the author’s life, but rather, it is the result of a
configuration of discursive structures with which the author negotiates».62 Ancora più complessa da
condurre a termine è l’analisi interpretativa di quei testi, che sono poi la maggioranza, stesi in un
momento successivo al viaggio, spesso al rientro in patria ma talora anche alcuni anni dopo. In
questo caso, infatti, lo scrittore non si limita a operare semplicemente la già asserita trasposizione
dall’immagine alla propria percezione di essa e alla sua resa in parole, ma si trova per forza di cose
a dover far ricorso alla propria memoria, la quale, come abbiamo già visto, pone spesso insidie non
trascurabili. Che si tratti di rimozione inconscia o di volontaria omissione, i ricordi finiscono già di
per se stessi per essere fortemente lacunosi; a questo dato di fatto si aggiunge poi la necessaria
opera di selezione del materiale virtualmente disponibile, talora dettata da scelte strettamente
personali, ma spesso anche determinata in larga misura da esigenze ideologiche e di mercato.
A questo proposito, bisogna sottolineare il fatto che la fortuna di cui ha goduto la scrittura di
viaggio a partire dal XX secolo è stata anche il risultato encomiabile di un clima intellettuale
interessato a porsi nuovi interrogativi sugli eventi che hanno caratterizzato il cosiddetto “secolo
breve” 63 , quali l’imperialismo, la diaspora ebraica, il colonialismo stesso. Il legame con
quest’ultimo è, d’altro canto, oltremodo evidente: il viaggio di esplorazione è il diretto antecedente
− se non addirittura l’obbligatoria fase preliminare − dell’espansione coloniale, di cui spesso
contribuisce in maniera sostanziale a determinare modalità e tempi di attuazione. La scelta di fare di
tali resoconti l’oggetto privilegiato della mia ricerca deriva anche dal fatto che attraverso di essi è
ancora oggi possibile indagare, nella loro elaborazione appunto memoriale, i meccanismi complessi
che hanno sostenuto il contatto con terre sconosciute e l’incontro con popolazioni mai viste prima,
di cui essi forniscono una propria rappresentazione. Se il viaggio, infatti, è per sua stessa
definizione un movimento verso un luogo diverso da quello in cui ci si trova, il viaggio etnografico
prima e coloniale poi implica che l’“altrove” non sia tale più solo in senso geografico, ma porti con
sé anche la connotazione ulteriore di luogo ancora ignoto.
61
Lorenza Mondada, Relations de voyage…, cit., pp. 342-3.
Sara Mills, Discourses of difference, cit., p. 9.
63
Il riferimento è chiaramente a Eric Hobsbawm, Il secolo breve - 1914-1991. L’era dei grandi cataclismi, Milano,
Rizzoli, 1995.
62
63
The journey, from the Renaissance on, became a structured and highly elaborated method of
appropriating the world as information; the most privileged official motive of travel became to
see and know the world, to record it, to assemble a complete and detailed picture of it.64
Nella misura in cui si impone come momento decisivo di conoscenza, il viaggio, allora, si situa non
solo, come abbiamo detto, nello spazio liminale tra due generi letterari, bensì tra due culture, tra due
mondi che sono improvvisamente portati a incontrarsi, in cui si tende a riconoscere se stessi ma
anche a recuperare le differenze; in quello spazio che la Pratt definisce transculturale, uno spazio
“in-between”65 che per forza di cose porta con sé un’ambivalenza di fondo. È infatti senza dubbio
semplicistico aspettarsi che, nella misura in cui queste testimonianze letterarie non si mascherano di
forme romanzesche, anzi si aprono spesso con enunciazioni atte a rivendicarne l’aderenza alla
verità dei fatti e delle osservazioni, possano restituire una visione genuina della realtà evocata.
Scrive ancora Clerici:
l’italiano è portatore di uno sguardo potenzialmente disinteressato e le sue osservazioni
possono quindi essere considerate piuttosto attendibili, anche se ciò naturalmente non lo
salvaguarda affatto dall’attingere con abbondanza al prontuario di pregiudizi ideologici
descritto da Said, attraverso i quali gli europei costruiscono la loro fittizia immagine esotica
dell’Oriente.
Anche laddove, in altre parole, non abbiano ancora fatto il proprio ingresso interessi di ordine
economico-politico, siamo comunque di fronte a una scrittura che si mantiene, per sua stessa natura,
sempre ibrida: scientificità e letterarietà, immaginazione e realtà si fondono e trapassano l’una
nell’altra continuamente, assumendo di volta in volta, come vedremo, gradi diversi. Un carattere
non esclude l’altro, due forme stilistiche tendono a coesistere: la narrazione della propria avventura
di ricerca e di scoperta si alterna alla descrizione inedita e stupita di quello che si ha davanti agli
occhi. Anche altri generi letterari finiscono spesso per confluire, rifunzionalizzati, all’interno dei
singoli testi, che si arricchiscono così di estratti propriamente diaristici o epistolografici, e talora si
allargano ad accogliere le più varie articolazioni disciplinari del genere storiografico, dalla
toponomastica all’erudizione locale.
Ulteriore difficoltà deriva poi dal fatto che sarebbe errato e riduttivo accostarsi a simili opere
come a un corpus indifferenziato di testimonianze anonime: al contrario, esse portano con sé
l’individualità dell’autore che è al tempo stesso anche personaggio, la cui identità pertanto si
sdoppia tra quella passata di attore delle vicende narrate e quella presente di scrittore.
The enigma of the journey − the underlying, often unacknowledged impulse for travel abroad
− is transformed into, or transposed as, the autobiography of the traveler, the search for origins
64
Eric Leed, The mind of the traveler, cit., p. 188.
James Duncan, Derek Gregory, Introduction, in Writes of passage. Reading travel writing, London, Routledge,
1999, p. 4.
65
64
and identity, the revealing of the various attempts to construct and confirm authority in terms
of both authorship and ownership.66
In particolare, alcuni elementi agiscono inevitabilmente sull’autore in questione, e ne influenzano in
maniera più o meno sostanziale tanto la percezione immediata quanto la rielaborazione successiva
di essa: le circostanze che determinano il viaggio − siano esse di natura privata o più spesso
istituzionale − la posizione geografica ed economica di provenienza, l’età e la professione sono tutte
caratteristiche che, lungi dal voler essere utilizzate a supporto di una sterile forma di biografismo,
meritano tuttavia di essere perlomeno tenute in considerazione. Non è certamente possibile, ad
esempio, proporre una griglia di comportamenti dei viaggiatori di fronte alle società coloniali, non
tanto per la diversità di queste, sia pure innegabile, quanto per la varietà dei soggetti, di volta in
volta diversi, come vedremo, per statuto, competenze, campo di osservazione.
Se, in altre parole, i resoconti di viaggio sono davvero, come credo, fonti preziose e insostituibili
per una rivisitazione del nostro passato coloniale, ciò non è di certo dovuto al fatto che essi
forniscono informazioni su territori più o meno lontani dai nostri − informazioni che potevano
interessare etnografi e geografi di allora, non certo umanisti di oggi. Essi, piuttosto, ci permettono
di ricostruire, anche attraverso le notizie reperibili sull’identità del viaggiatore stesso, le lenti, le
premesse e gli assunti attraverso cui egli osserva e descrive l’“altro” e l’“altrove”.
Al di là, inoltre, di quelle che sono le peculiarità riconducibili alla persona fisica dell’autore, i
resoconti di viaggio non risentono meno dei romanzi delle pressioni esercitate da fattori esterni; in
particolare è pressoché scontato che si facciano spesso carico di finalità educative o
propagandistiche, soprattutto se si considera che erano molto spesso destinati alla pubblicazione e
alla circolazione presso un vasto pubblico. Come ha notato a proposito Laura Ricci:
La letteratura di viaggio − diari di esplorazioni, descrizioni geografiche, riviste specializzate e
illustrate − diede nel suo insieme al programma espansionistico un contributo decisivo e
peculiare, in quanto aggiungeva alla comune tensione retorica dei testi colonialisti il valore di
autenticità della testimonianza diretta e, in alcuni casi, l’autorevolezza del discorso
scientifico.67
E proprio l’enorme successo editoriale ne garantisce una produzione piuttosto nutrita, al punto che
essi si dispiegano lungo tutto l’arco dell’avventura coloniale italiana, fornendo così materiale
prezioso per seguirne da vicino gli sviluppi paralleli.
Certo, l’ampiezza del corpus pone allo studioso anche notevoli difficoltà di selezione, a partire
da un problema preliminare riguardante la definizione stessa di viaggiatore in colonia: essa non è
infatti di così immediata intuizione qualora si consideri, ad esempio, l’incerto statuto da attribuire in
66
Melanie Hunter, British travel writing and imperial authority, in Kristi Siegel, Issues in travel writing, cit., p. 29.
Laura Ricci, La lingua dell’impero. Comunicazione, letteratura e propaganda nell’età del colonialismo italiano,
Roma, Carocci, 2005, p. 67.
67
65
questo senso ad amministratori e funzionari coloniali, o agli stessi coloni, i quali compiono sì un
viaggio in Africa, ma vi si trattengono poi per un certo numero di anni. Bisognerebbe, dunque, a
rigore escludere questa categoria da quella dei viaggiatori di cui intendiamo occuparci? È pur vero,
tuttavia, che alcune spedizioni africane si protraggono anche per la durata di diversi mesi, o che
talora finiscono, al di là delle intenzioni iniziali, per trasformarsi in soggiorni più o meno
prolungati. Dovremmo allora stabilire arbitrariamente un arco di tempo necessario perché si passi
dallo stato di viaggiatore a quello di residente permanente? Per quanto mi riguarda, ritengo di poter
sottoscrivere senza remore la posizione espressa, in proposito, da Michel Bideaux:
Sans nous tenir contraints de fournir une définition trop précise du terme, nous considérerons
comme voyageur, celui qui, à un moment de son existence, s’est mis en chemin pour ce pays
et, qu’il décrive ou non son trajet, manifeste dans son texte qu’il n’a pas toujours appartenu à
cette terre, voire qu’il n’envisage pas d’y demeurer indéfiniment.68
Nel nostro caso specifico, mi sembra tuttavia opportuno aggiungere due ulteriori presupposti,
fondamentali e di facile constatazione. Prima di tutto bisogna considerare che, nella maggior parte
dei casi, non si tratta di scrittori di professione, ma di semplici viaggiatori spinti ad annotare la
propria esperienza più per l’orgoglio di lasciare di essa − e dunque di se stessi − testimonianza che
per ambizioni artistiche di alcun tipo. In secondo luogo, è inevitabile che si produca nel tempo un
certo grado di ripetitività che coinvolge temi e contenuti: non a caso questi testi sono stati fatti
oggetto in passato di riduzioni antologiche, peraltro utili e interessanti, da parte di studiosi volti
appunto a metterne in luce elementi comuni e omogeneità di intenti.69
Se si eccettuano, in effetti, pochi casi isolati, è difficile, nel pur vasto panorama disponibile,
incontrare opere capaci di distinguersi per un particolare pregio artistico o per un significativo
grado di originalità. Di conseguenza, nell’ovvia impossibilità − e inutilità − di dar conto dell’intera
produzione, e nell’evidente mancanza di criteri oggettivi utili a guidarne la selezione, ho ritenuto
opportuno optare per una scelta a campione che fosse in grado tuttavia di fornire un quadro
esemplificativo dello sviluppo del genere a cavallo tra XIX e XX secolo, in accordo con il parallelo
consolidarsi dell’impero coloniale italiano. In questo senso, una cernita delle opere da prendere in
considerazione avrebbe potuto basarsi su un parametro di tipo geografico, dal momento che diverse
sono le zone su cui progressivamente vengono a concentrarsi le mire espansionistiche della nazione
“proletaria”. Se, infatti, l’Eritrea, cui si aggiunge ben presto la Somalia, svolge fin dalla sua nascita
una funzione strategica in vista della futura conquista dell’Etiopia, l’Italia liberale si proporrà poi
68
Michel Bideaux, Les Voyageurs devant les sociétés coloniales (1500-1800): essai d’une problématique, in Luigi
Monga, Hodoeporics revisited, cit., p. 257.
69
Cfr. in particolare Renato Bertacchini, Continente nero. Memorialisti italiani dell’800 in Africa, Parma, Guanda,
1965, e Francesco Surdich, L’esplorazione italiana dell’Africa, Milano, Il Saggiatore, 1982.
66
l’annessione del territorio libico, alla cui pacificazione definitiva, tuttavia, non varrà nemmeno il
massiccio dispiegamento di forze messo in atto dal governo fascista. È vero che, contrariamente a
quanto si potrebbe pensare, una volta avviato il movimento di esplorazione e poi soprattutto nel
momento in cui inizia a diffondersi una più ampia e profonda coscienza del ruolo coloniale
intrapreso dalla nazione, ad attrarre con curiosità e orgoglio i viaggiatori italiani saranno anche
contemporaneamente entrambe le zone, sia quella libica che quella orientale. Escluderne pertanto
una a vantaggio esclusivo dell’altra, oltre a porsi ancora una volta come una scelta in fondo
arbitraria, avrebbe comportato la perdita di una più coerente visione d’insieme. Senza contare il
fatto che, com’è facilmente intuibile, in quella fase preliminare che abbiamo definito pre-coloniale e
che abbiamo giudicato opportuno inserire nella presente trattazione, gli italiani si associano agli
altri europei nello scegliere come mete di viaggio le regioni ancora sostanzialmente inesplorate o
quelle già ritenute di maggiore interesse; va da sé che esse non coincidono sempre con le colonie
italiane di là da venire, per quanto tendano a ridursi alle zone immediatamente a ridosso di esse,
quali il Sudan o l’Egitto. Ad ogni modo la letteratura, specie in questo ambito, segue da vicino
l’attualità, dunque anche i resoconti di viaggio si distribuiscono con maggiore concentrazione nelle
zone via via interessate dall’azione politica promossa dal governo. Ogni esperienza fa di per sé
riferimento a un’interazione specifica e caratterizzante tra luogo geografico e situazione storica, tra
spazio e tempo, secondo la nozione di cronotopo applicata alla teoria letteraria da Michail Bachtin.
Ripercorrere dunque, mediante il riferimento a testi specifici, lo sviluppo del genere equivale allora
a seguire al tempo stesso la parabola lungo la quale si disegna l’espansionismo italiano in Africa,
che va progressivamente accentuando il proprio carattere aggressivo e militare.
In particolare, a partire dall’acquisto di Massaua e dunque dalla fondazione della colonia
d’Eritrea, possiamo distinguere tre fasi principali attraverso cui scandire dal punto di vista storico e
geografico la nostra analisi letteraria: dalla prima guerra d’Africa, con la sconfitta di Dogali e fino
alla disfatta di Adua, alla guerra libica, intrapresa nel 1911, fino all’aggressione fascista finalizzata
alla conquista dell’Etiopia, culminata nella breve e effimera costituzione dell’impero.
67
68
Capitolo II
Pionieri ed esploratori: italiani in Africa nel XIX secolo
“L’Africa ha per l’Italia un fascino irresistibile […]
Affacciati sulle stesse acque, a distanza ormai di poche ore,
e con sì sfolgorata diversità di cielo, di clima e di popoli,
la curiosità, non ch’altro, vi ci dovrebbe tirare.
Quattro salti, e potremo trovarci in mezzo a una natura nuova,
e vivere in un’età preistorica.
A chi non deve piacere sentirsi allargare l’universo
e raddoppiare l’anima e il tempo?”
(Cesare Correnti, L’Africa. Le ultime esplorazioni (1873-1875) e la spedizione italiana)
Nel 1885 il governo italiano dà l’avvio ufficiale alla propria campagna africana. Le truppe italiane,
infatti, occupano Massaua, città costiera sul Mar Rosso, sostituendosi alla precedente dominazione
egiziana grazie all’appoggio decisivo della Gran Bretagna, e procedono poi nello stesso anno alla
stipula di un trattato con l’Etiopia atto a garantire la libera circolazione dei prodotti provenienti
dall’interno verso il porto di nuova acquisizione. Quattro anni prima l’Italia era stata costretta a
subire lo scacco di Tunisi: meta già da alcuni anni di numerosi emigranti italiani e dunque fatta
oggetto delle prime mire espansionistiche, la città era tuttavia divenuta un protettorato francese,
frustrando in tal modo le aspirazioni italiane. La nascita della colonia Eritrea, peraltro funestata nel
1887 dall’eccidio di Dogali e a lungo fatta oggetto di discussione in Parlamento, viene ufficialmente
dichiarata dal governo italiano nel 1890, dopo una fase preparatoria di penetrazione da Massaua
verso l’interno. Questa mossa, dunque, sancisce il definitivo ingresso dell’Italia nello scramble for
Africa, in netto ed evidente ritardo rispetto alle altre maggiori potenze europee: subito a ridosso
dell’unificazione nazionale, anche in conseguenza dei problemi ad essa legati, la giovane nazione
non aveva infatti manifestato serio interesse per la questione coloniale.
1. Viaggiatori di fine secolo
Se dunque gli anni Ottanta dell’Ottocento rappresentano la svolta decisiva, sia dal punto di vista
storico che da quello ideologico-culturale, perché si possa iniziare a parlare di colonialismo italiano,
nei due decenni precedenti, come abbiamo accennato, una nuova curiosità rivolta al continente
africano aveva già iniziato a circolare e soprattutto era stata in grado da sola di stimolare i primi
viaggi alla scoperta di zone ancora quasi del tutto sconosciute.
Non stupisce, pertanto, che i viaggi che si dispiegano nell’arco degli ultimi quarant’anni del XIX
secolo possano offrire al loro interno un panorama già ampio e difficile, almeno a prima vista, da
69
ricondurre a un unico paradigma comune. Il soggiorno presso gli azande, dal 1863 al 1865, del
lucchese Carlo Piaggia, “un antropologo prima dell’antropologia” secondo la definizione che dà il
titolo a un recente contributo di Emanuela Rossi1, può ad esempio essere accostato al viaggio di
Augusto Franzoj attraverso l’Egitto e l’Etiopia, culminato nel recupero delle spoglie di Giovanni
Chiarini, esploratore morto in prigionia presso Ghera nel 1879. Si tratta, infatti, in entrambi i casi,
di esperienze realizzatesi a partire da iniziative private, e sostenute dunque da uno spirito di
avventura ancora sostanzialmente libero da obblighi politici, scientifici o burocratici. Già negli anni
Settanta, tuttavia, erano nate alcune società geografiche e di esplorazione commerciale, tra cui le
prime e più importanti furono quelle fondate a Firenze, a Milano e a Napoli, veri e propri enti
istituzionali creati al fine di patrocinare missioni dalla seria e definita impronta scientifica.2 E
proprio dalla Società geografica italiana, istituita a Firenze già nel 1867, vengono inviati in Africa
orientale nel 1870 due propri membri, il marchese Orazio Antinori, zoologo per passione, e
Odoardo Beccari, naturalista e botanico. Alla spedizione si unisce anche Arturo Issel, professore di
geologia e mineralogia all’Università di Genova, incaricato di occuparsi in particolare della
descrizione degli animali marini, ritagliando in tal modo il proprio spazio di intervento all’interno di
quello che è l’esplicito scopo indicato dalla Società stessa: studiare cioè il paese e le sue produzioni
dal punto di vista scientifico per valutare la convenienza dell’eventuale impianto di uno
stabilimento nazionale. Dalla Società milanese di esplorazione commerciale in Africa viene poi
promossa nel 1878 la spedizione guidata da Pellegrino Matteucci, già forte dell’esperienza di
viaggio in Sudan al fianco del più noto esploratore Romolo Gessi, cui partecipa tra gli altri Gustavo
Bianchi, anch’egli annoverabile tra le figure di spicco di questa prima ondata di viaggi, e forse
ricordato meglio di altri per essere caduto vittima di un agguato da parte dei dancali in una
successiva esplorazione compiuta cinque anni più tardi. Al 1891, infine, risale la decisione del
governo presieduto da Antonio di Rudinì di inviare in Eritrea una commissione di inchiesta
finalizzata a far luce sullo scandalo che aveva coinvolto il tenente di polizia Livraghi e l’avvocato
Cagnassi, denunciati al Tribunale Militare della colonia con l’accusa di essersi resi colpevoli di
abusi e prepotenze nei confronti della popolazione indigena. Alla commissione prendono parte
alcune figure politiche di rilievo, tra cui Luigi Ferrari e Ferdinando Martini, entrambi peraltro noti
all’epoca per aver assunto una sia pur moderata posizione antiafricanista.
Di tutte queste diverse avventure in terra africana i protagonisti hanno voluto lasciare
testimonianze scritte, talora in forma di diari redatti in concomitanza con il viaggio, il più delle
volte derivate invece da rielaborazioni successive di annotazioni prese nel corso dell’esperienza
1
Emanuela Rossi, Carlo Piaggia. Un antropologo prima dell’antropologia, Roma, Aracne, 2008.
Si veda, almeno, Maria Carazzi, La Società Geografica Italiana e l’esplorazione coloniale in Africa (1867-1900),
Firenze, La Nuova Italia, 1972.
2
70
stessa. E proprio a partire dagli anni Settanta, parallelamente alla progressiva istituzionalizzazione
delle singole iniziative, i progetti di esplorazione cominciano a catturare in modo morboso organi di
informazione e opinione pubblica. Numerosi quotidiani e riviste illustrate vengono esplicitamente
decretati ad accogliere varie testimonianze di natura coloniale, mentre le relazioni degli esploratori
cominciano a essere inserite in vere e proprie collane create appositamente da alcuni editori in
particolare, come Treves o Perino con le rispettive “Biblioteca di Viaggi”.3
Ovviamente, come vedremo, i singoli resoconti risentono ognuno a modo proprio del diverso
contesto in cui il progetto di esplorazione prende forma, oltre che dello specifico interesse e delle
peculiari inclinazioni e specializzazioni dei vari viaggiatori. Anche dal punto di vista prettamente
letterario, poi, lo scarto tra le diverse opere si fa talvolta perfino troppo evidente. Esemplare, in
questo senso, il caso del Piaggia, contadino toscano sprovvisto di qualsivoglia preparazione
accademica, spinto in Africa da un desiderio personale e costretto, al rientro, a lottare per la
pubblicazione delle proprie memorie − peraltro avvenuta solo nel 1941, oltre mezzo secolo dopo la
sua morte, attraverso la fusione delle diverse versioni del testo.4 D’altronde, convinto del valore
documentario delle numerose note raccolte, eppure conscio al contempo della scarsa qualità
letteraria delle pagine da lui stesso redatte, Piaggia non aveva esitato a rivolgersi a Edmondo De
Amicis nel tentativo di ottenerne l’aiuto per una revisione accurata della lingua e dello stile
dell’opera.5 Il rifiuto da parte dello scrittore di apportare alcun intervento correttorio al resoconto
del Piaggia è d’altro canto motivato dalla volontà di salvaguardare l’originalità e la schiettezza del
diario nella sua forma autentica, pur nell’evidente riconoscimento delle carenze stilistico-formali
del testo: «A me pare anzi che una certa ingenua rozzezza di forma accresca efficacia a questo
genere di scritti».6
Su un piano nettamente diverso si colloca, senza dubbio, Nell’Affrica italiana, il resoconto del
viaggio compiuto in Eritrea da Ferdinando Martini come membro della commissione d’inchiesta
parlamentare.7 Non sono solo, infatti, la diversa provenienza sociale e il diverso grado culturale a
fare la differenza, quanto le personali doti letterarie dell’autore, scrittore di professione oltre che
influente uomo politico. Bisogna ad ogni modo tenere presente che il caso del Martini rappresenta
più un’eccezione che una regola all’interno del vasto panorama delle scritture di viaggio di ambito
coloniale: è infatti l’esperienza stessa, per quella naturale consonanza che si crea tra il viaggio come
3
Cfr. Francesco Surdich, L’esplorazione italiana dell’Africa, cit.
Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Firenze, Vallecchi, 1941.
5
Scrive infatti in una lettera indirizzata al noto scrittore: «Io però non sono uomo di penna. La raccolta delle mie
note è abbondante ed oso dire interessante, ma sono scritte come Dio vuole, ed avrebbero bisogno di esser rivedute,
ordinate e messe in una bella veste perché potessero presentarsi con favore davanti al pubblico» (Carlo Piaggia, Nella
terra dei Niam-Niam, a cura di Ezio Bassani, Lucca, M. Pacini Fazzi, 1978, p. XXX).
6
Ivi, p. XXXI.
7
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana. Impressioni e ricordi, Milano, Treves, 1891.
4
71
pratica e il racconto di viaggio come testo, che tende naturalmente a voler essere tradotta in parole,
al di là dell’effettiva autorità letteraria, spesso del tutto assente, del protagonista-autore.
Non per questo, tuttavia, deve essere guardato con diffidenza un tentativo di accostare tra loro
opere apparentemente legate solo da un criterio cronologico e di genere: come vedremo, infatti,
sono diversi gli elementi che contribuiscono in realtà ad accomunarle, e che permettono di tracciare
una sottile linea di continuità e di somiglianze che le percorre. Accingendomi a seguire questo filo,
sarà mia intenzione mettere in luce temi e motivi che trapassano dall’una alle altre, senza che si
debba postulare tra esse un rapporto di filiazione. Più semplicemente, la lettura e l’analisi
comparata di alcune tra le opere pubblicate nell’ultimo scorcio del XIX secolo permettono di
ricostruire e di indagare, nella loro rispettiva articolazione, le questioni sollevate dai primi contatti
con terre e popolazioni ignote: pur prendendo le mosse, infatti, da presupposti ideologici e culturali
differenti, come da differenti ambienti sociali, tutti questi pionieri dell’esplorazione italiana, «poeti
della redenzione che si inoltrano alla scoperta dei bruti umani»,8 si trovano a dover fare i conti con
simili problematiche, affrontate, come vedremo, secondo modalità sostanzialmente rapportabili le
une alle altre, pur con le dovute sfumature.
Un dato di partenza che mi sembra generalizzabile, adatto cioè a comprendere al suo interno i
diversi testi di questo periodo, è la prevalenza dell’interesse descrittivo rispetto a quello valutativo,
che acquisterà invece sempre più spazio a partire dal XX secolo. Ciò non vuol dire, come risulterà
chiaro già da un primo accostamento ai testi in questione, che anche l’osservazione apparentemente
più ingenua non rechi poi spesso con sé un più o meno consapevole giudizio di valore. Tuttavia, la
sincera curiosità scaturita dall’essere in presenza di una realtà nuova e al tempo stesso la coscienza
del proprio ruolo di osservatore privilegiato e di fondamentale divulgatore di essa risultano nel
diffuso tentativo di raggiungere una maggiore esaustività possibile nel resoconto di quanto scorre
sotto i propri occhi. Non solo, allora, lo spettacolo naturale diviene oggetto insostituibile di stupita e
assorta descrizione, spesso in grado di soppiantare o di fagocitare anche la componente umana, ma
sezioni cospicue del testo vengono deputate a un’accurata esposizione degli usi e costumi delle
popolazioni africane, per come essi si rivelano allo sguardo indagatore dell’uomo europeo.
Ciononostante, è evidente che l’attenzione tende poi a focalizzarsi su alcuni elementi in particolare,
punti nodali che finiscono per imporsi come nuclei fondamentali intorno ai quali il racconto
immancabilmente si organizza e prende forma, e che funzionano a poco a poco anche da
catalizzatori di giudizi sempre più articolati e perentori. Come scrive Francesco Surdich, riferendosi
in particolare alle spedizioni patrocinate negli ultimi trent’anni dell’Ottocento dalle diverse società
di esplorazione:
8
Alfredo Oriani, Fino a Dogali, cit., p. 327.
72
il tratto distintivo di questo esploratore sta nella funzione che più o meno consapevolmente si
dispone ad assolvere e nella «missione» di cui si sente portatore e simbolo, e quindi anche
nelle categorie concettuali e nelle forme stilistiche con cui poi analizza, interpreta e filtra ogni
momento della sua singolare esperienza.9
A partire da questa considerazione, lo studioso passa a evidenziare alcuni momenti caratteristici
attraverso cui la narrazione immancabilmente procede, i quali costituiscono in altre parole una sorta
di sostrato tematico comune a cui i racconti tendono ad uniformarsi. Se, infatti, l’introduzione è in
genere deputata all’indicazione dei preliminari della spedizione, comprendenti consigli su
equipaggiamento e adeguata preparazione alla partenza, una volta giunto in terra africana il
viaggiatore non dimentica mai di prendere nota delle avventure e dei pericoli affrontati, così come
dei tratti salienti, dal punto di vista (pseudo)-scientifico, riferibili a territori e popolazioni. Al tempo
stesso, se si eccettuano le poche figure cui abbiamo già accennato di personaggi isolati e alieni da
motivazioni istituzionali, gli esploratori tendono sempre più spesso a fornire giudizi personali su
possibilità di insediamento e di sfruttamento delle future colonie, come d’altronde veniva loro
esplicitamente richiesto. Infine, non è raro imbattersi in considerazioni sul ruolo e sulle potenzialità
insite nell’opera di evangelizzazione già ampiamente radicata in territorio africano a questa altezza
cronologica. Va tenuto presente, d’altronde, che le informazioni raccolte sul campo dai missionari,
e annotate poi in corpose opere memoriali, sono spesso fonte preziosa di studio e di preparazione
per i successivi esploratori, in forza della loro accuratezza derivante dalla lunga esperienza sul
campo. Basti ricordare, come esempi tra i più significativi, le figure del lazzarista Giuseppe
Sapeto10, responsabile tra l’altro in prima persona dell’acquisto della baia di Assab a nome della
Società mercantile Rubattino, di Daniele Comboni, che attraverso ben otto viaggi in Africa si
dedica per tutta la vita allo studio della zona del Nilo, o del cardinal Massaja11, impegnato per
trentacinque anni con la propria missione in Etiopia.12
Surdich passa poi a rilevare la condivisione da parte degli stessi viaggiatori di alcuni stereotipi
caratterizzanti, di cui fornisce di volta in volta esempi attraverso la citazione di passi ritenuti
significativi. Si va dalle espressioni del mal d’Africa al mito della Venere Nera e del buon
selvaggio, passando attraverso gli immancabili riferimenti a pratiche e abitudini considerate barbare
agli occhi dell’europeo. Senza dubbio lo studioso fornisce un prezioso quadro di riferimento da cui
prendere le mosse per rintracciare aspetti peculiari e atteggiamenti comuni di fronte al nuovo
9
Francesco Surdich, L’esplorazione italiana dell’Africa, cit., p. 16.
Giuseppe Sapeto, Viaggio e missione cattolica fra i Mensâ, i Bogos e gli Habab. Con un cenno geografico e
storico dell’Abissinia, Roma, Tipografia di Propaganda Fide, 1857.
11
Guglielmo Massaja, I miei trentacinque anni di missione nell’alta Etiopia. Memorie storiche, Roma, Tipografia di
Propaganda Fide, 1885-1887.
12
Cfr. Maria Francesca Piredda, Più vero del vero. La costruzione dell’Oriente nella propaganda per immagini
degli Istituti missionari nella prima metà del XX secolo, in Gabriele Proglio (a cura di), Orientalismi italiani, vol. 2,
cit., pp. 129-53.
10
73
mondo con cui gli italiani vengono per la prima volta a contatto. E non a caso su questa stessa scia,
lungo la quale si colloca anche il precedente significativo rappresentato da Renato Bertacchini13, si
sono mossi anche studi successivi, nell’intento di apportare utili contributi all’identificazione di
quei clichés sull’Africa e sugli africani che hanno agito in maniera sensibile, come fonte
imprescindibile di legittimazione del colonialismo stesso, sulla formazione della coscienza culturale
di larghe aree della popolazione.14
Prendendo dunque spunto da tali lavori, il mio proposito non è solo quello di soffermarmi su
alcune questioni che, proprio in forza della loro continua riproposizione, si impongono
efficacemente all’attenzione del lettore, ma anche quello di analizzare più da vicino e con maggiore
dovizia di particolari il modo in cui esse vengono consapevolmente o meno sollevate e affrontate
nei vari testi, a partire dalla loro diversa declinazione. Mi concentrerò, in particolare, su tre nuclei
tematici a mio parere particolarmente significativi, con cui di volta in volta tutti gli autori si trovano
a confrontarsi: l’articolazione, più o meno oppositiva, dei concetti di civiltà e barbarie,
immediatamente chiamata in causa nel contatto con le popolazioni locali; il ritratto della donna
indigena, anch’esso spesso oscillante tra poli contrari; infine, le modalità descrittive riservate al
paesaggio, rivelatrici della volontà di dare forma a un peculiare rapporto tra uomo e natura. Ho
scelto questi argomenti non solo per la loro evidente preponderanza nei testi, ma soprattutto in
quanto consentono all’interprete di andare al di là della loro semplice formulazione, prestandosi a
discussioni teoriche di più ampio respiro e fornendo materiale prezioso per un tentativo di
ricostruzione della visione ideologica degli autori stessi, e più in generale dell’epoca e della società
cui essi di volta in volta appartengono.
2. Civiltà vs barbarie: tra innocenza e consapevolezza
Un posto di primo piano in questo senso è occupato dal motivo del rapporto tra civiltà e barbarie,
nelle sue varie articolazioni, dal momento che tale opposizione fondamentale è adatta a rendere
conto, in forza della sua oltremodo semplicistica banalizzazione, delle differenze riscontrate dai
viaggiatori a contatto con la realtà africana. Anzi, l’impressione che si ricava dalla lettura delle
ricorrenti riflessioni sull’argomento è che si tratti, nella maggioranza dei casi, di categorie
predefinite. Ereditate da una già piuttosto lunga tradizione culturale moderna avviatasi con il
Rinascimento15, esse erano infatti arrivate a occupare una posizione di rilievo nell’ambito della
13
Renato Bertacchini, Continente nero…, cit.
Mi riferisco, in particolare, a Maura Angeli, Paolo Boccafoglio, Rossano Recchia, Camillo Zadra, Immagini
dell’Africa e degli africani nei resoconti di viaggio, Rovereto (Trento), Museo Storico Italiano della Guerra, 1993.
15
Come è noto, il termine barbaros è di origine greca: inizialmente privo di qualsiasi senso dispregiativo e usato
semplicemente per indicare i parlanti una lingua diversa dal greco, già nel periodo di massimo splendore della società
ateniese acquisisce tuttavia una connotazione valutativa. Appellandosi al valore supremo della cultura, Aristotele, sia
14
74
riflessione suscitata dai grandi viaggi di esplorazione intrapresi per conto delle varie nazioni
europee a partire dal XV secolo: la necessità di dare conto delle caratteristiche di popolazioni di cui
si era fino a quel momento ignorata l’esistenza veniva semplicisticamente soddisfatta attraverso la
loro classificazione all’interno di schemi precostituiti e pronti all’uso. La riflessione sull’argomento
aveva acquisito tuttavia una nuova problematicità a partire soprattutto dall’opera di Michel de
Montaigne: il filosofo francese, sulla scia delle idee già diffuse da Bartolomé de Las Casas e nate
dal contatto ravvicinato con gli indigeni d’America16, dava al concetto di barbarie un significato del
tutto relativo, nel riconoscimento − tutt’altro che scontato nel Cinquecento − «che ciascuno
definisce barbaro ciò che non è nel suo uso» 17 , dal momento che ogni giudizio equivale
semplicemente a un’espressione della consuetudine. Eppure, a uno sguardo più attento, Montaigne
rimane intrappolato nel relativismo radicale da lui stesso propugnato. Come fa notare Todorov, che
alla “riflessione francese sulla diversità umana” ha dedicato un intero saggio18, egli finisce per
oscillare, senza risoluzione, tra un senso storico e positivo della parola “barbaro”, inteso come
“vicino alle origini”, e un altro etico e negativo, sinonimo di “crudele” e “degradante”, entrambi
misurati comunque sul metro europeo. Ad ogni modo, sono proprio le riflessioni di Montaigne ad
aprire la strada alla feconda critica illuminista sulla stessa dialettica tra civiltà e barbarie, che, nelle
sue molteplici declinazioni e con esiti differenti, acquista un posto di rilievo in tutto lo sviluppo
della ricerca filosofica nel XVIII e XIX secolo. È vero che il pensiero romantico tende poi a esaltare
lo stato di natura dei popoli considerati primitivi, visti come detentori di una purezza originaria, di
energie genuine che la civiltà europea ha irrimediabilmente perduto; al tempo stesso, tuttavia, il
concetto di civiltà finisce e contrario per identificarsi con la nozione di progresso, la quale fornisce
a sua volta, in una sorta di circolo vizioso, una giustificazione alla missione civilizzatrice.
pure con un irriducibile fondo contraddittorio, si fa teorizzatore della necessità della schiavitù per i popoli non elleni, in
quanto culturalmente appunto e moralmente inferiori (Cfr. anche Marina Maruzzi (a cura di), La Politica di Aristotele e
il problema della schiavitù nel mondo antico, Torino, Paravia, 1988). Fatto proprio nella stessa accezione dai Romani
conquistatori, il concetto di barbaro segue da vicino lo sviluppo delle vicende politiche dell’Impero, per cui passa a
indicare le popolazioni al di fuori dei confini di esso, sempre viste come minacciose ma moralmente inferiori. Infine,
con l’avvento del cristianesimo e dunque per tutto il Medioevo, l’opposizione si sposta sul piano religioso, per cui sono
i pagani prima e i non-cristiani poi a meritare l’appellativo di “barbari”. Da notare, tuttavia, come nello specifico ambito
italiano abbia in più giocato un ruolo importante a partire dal tardo medioevo la riscoperta umanistica dei classici. Il
culto dell’antichità, infatti, solleva l’orgoglio nazionale, e spinge a considerare barbari coloro che non discendono
direttamente da Roma, e in particolare dunque i popoli dell’Europa settentrionale. Con il Rinascimento, il termine si
affranca dalla sfera religiosa e assume, in opposizione a quello di “civiltà”, nuova problematicità.
16
Todorov parla, a questo proposito di “prospettivismo” di Las Casas, rilevando come il domenicano fu
probabilmente il primo, in età moderna, a relativizzare il concetto di barbarie, collegandolo semplicemente all’uso di
una lingua diversa: «Chiameremo barbaro un uomo rispetto a un altro, perché gli è estraneo il suo modo di parlare e
perché pronuncia male la lingua dell’altro […] Ma, da questo punto di vista, non esiste uomo che non sia barbaro
rispetto a un altro uomo, o razza che non lo sia rispetto a un’altra razza […] Così, se noi prendiamo in considerazione i
popoli barbari delle Indie, essi ci giudicano allo stesso modo, perché non ci capiscono». (Apologética Historia, III, 254,
tratto da Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, cit., pp. 231-2).
17
Michel de Montaigne, Saggi, Milano, Mondadori, 1970, p. 272.
18
Tzvetan Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Torino, Einaudi, 1989.
75
D’altronde, l’ambiguità è insita nella stessa parola “civilizzazione”, apparsa per la prima volta in
Francia e mai affrancatasi definitivamente da una pericolosa pluralità di significati:
the crucial point is that the use of the term, civilization, to describe both the fundamental
process of history and the end result of that process established an antithesis between
civilization and a hypothetical primordial state (whether it be called nature, savagery, or
barbarism).19
Nella misura in cui, in altre parole, la civiltà è il risultato di un processo attraverso cui alcune
nazioni divengono appunto civilizzate, allora essa assume su di sé anche un evidente attributo
qualitativo, funzionando da agente discriminante tra chi la possiede, o la raggiunge, e chi no. Com’è
ovvio, i criteri di giudizio in base ai quali i fattori di civiltà vengono misurati sono di esclusivo
appannaggio europeo: è il grado maggiore o minore di uniformità agli standard europei, che siano
essi relativi all’organizzazione sociale e all’amministrazione della giustizia, o piuttosto a
caratteristiche afferenti a una dimensione più marcatamente domestica quali l’abbigliamento o
l’alimentazione, a permettere di valutare la posizione raggiunta dal popolo indigeno su un’ipotetica
scala verso la civilizzazione.
Pur non potendo postulare una partecipazione diretta a specifiche disquisizioni filosofiche in
materia da parte dei viaggiatori italiani di fine Ottocento, è tuttavia naturale supporre che essi
abbiano avuto sentore degli schemi evoluzionistici elaborati nel clima culturale dell’epoca, e siano
stati portati a fare proprie e a rielaborare le problematiche sollevate da tali discussioni. Sia pure con
diversità di accenti, con declinazioni più o meno personali della questione e soprattutto, come
vedremo, con coscienza più o meno profonda delle sue conseguenze e implicazioni, l’argomento,
che compare in pratica in tutti i resoconti, è affrontato secondo modalità sostanzialmente simili e
rapportabili le une alle altre. E non è semplice, come pure si è tentato di fare, rintracciare in questo
senso significative eccezioni.
2.1 Carlo Piaggia: un selvaggio tra i selvaggi?
Potremmo infatti ancora una volta partire dalle testimonianze di Piaggia, a lungo giudicate
profondamente differenti da tutte quelle successive, in quanto la figura stessa del viaggiatore
toscano ha subito un processo di idealizzazione o, come lo definisce Emanuela Rossi, di
«“patrimonializzazione” − prendendo in prestito un concetto generalmente utilizzato dagli
antropologi del patrimonio per sottolineare la natura “costruita” di un “bene” che si intende
tramandare ai posteri». 20 Se, in effetti, una sorta di primato gli può oggettivamente essere
19
Jean Starobinski, The word Civilization, in Id., Blessings in disguise; or, the morality of evil, translated by Arthur
Goldhammer, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1993, p. 5.
20
Emanuela Rossi, Carlo Piaggia…, cit., p. 13.
76
riconosciuto, esso consiste nell’aver anticipato di circa un decennio il flusso dei viaggiatori italiani
verso il continente africano, deviato pertanto da quelle che erano state fino ad allora le mete
principali, in particolare L’America Latina e l’Australia.21 Inoltre, la bassa estrazione sociale, unita
alla mancanza di istruzione, ne fanno almeno in parte un viaggiatore sui generis, e hanno spinto gli
studiosi a postulare automaticamente una corrispondenza diretta tra l’ingenuità della sua formazione
e la presunta naïveté del suo approccio nei confronti degli indigeni, descritto da Sandra Puccini nei
termini di «un contatto empatico ed istintivo, diretto e naturale».22
Spingendosi, dunque, durante il suo primo viaggio in Africa (1851-59) da Kartum verso l’interno
alla ricerca delle sorgenti del Nilo, che già dall’antichità e ancora a lungo erano destinate a
rappresentare un’affascinante incognita e ad attrarre sulle proprie misteriose tracce viaggiatori dalle
diverse nazione europee (della cui scoperta si contesero poi l’onore), il Piaggia arriva presso la tribù
dei Kic, dove il negoziante francese De Malzach aveva posto un proprio scalo mercantile. Qui il
viaggiatore lucchese è, suo malgrado, testimone delle tutt’altro che onorevoli pratiche e abitudini
commerciali vigenti, nei confronti delle quali non esita d’altronde a manifestare il proprio
disappunto: «Questi affermava di commerciare in bovi e il suo traffico si svolgeva nel modo
seguente: rubava ai selvaggi il bestiame e poi lo restituiva loro in cambio di avorio. Questo sistema
di commercio non gli costava che polvere e piombo». 23 Critico dunque nei riguardi del
comportamento di un europeo che, agendo in maniera disonesta, inganna la tribù autoctona
sfruttando la superiorità dei propri mezzi tecnici, si unisce comunque a lui per svolgere attività di
caccia, di cui è evidentemente appassionato praticante. Eppure anche in questo caso esplicita è
l’intenzione di Piaggia di volersi distinguere dal “bianco” cui si accompagna, con il quale altrimenti
il lettore sarebbe stato facilmente portato a stabilire una facile connessione: viene da chiedersi allora
se «la ferocia di questa belva sitibonda di sangue»24, cui immediatamente si dichiara pentito di
essersi associato, sia da prendere alla lettera o sia piuttosto frutto di una volontà di far risaltare, per
contrasto, la propria stessa millantata umanità.
Gli uomini di De Malzach vengono presentati nell’atto di compiere continue e impunite razzie di
animali, donne e bambini presso i villaggi indigeni. Ed è proprio dall’assistere a tale gratuito
accanimento che scaturisce la riflessione dell’autore sul rapporto tra barbarie e civiltà:
21
Situazione, questa, specificamente italiana, laddove in ambito europeo, già all’indomani delle guerre
napoleoniche, si registrano flussi di viaggiatori in molteplici direzioni, tra cui figura senza dubbio anche la zona interna
del continente africano: spedizioni più o meno ufficiali partono in questi anni da diverse nazioni europee al fine di
compiere esplorazioni sistematiche delle numerose aree, ancora sconosciute, del globo terrestre. Cfr. a questo proposito
Maurizio Bossi (a cura di), Notizie di viaggi lontani. L’esplorazione extraeuropea nei periodici del primo Ottocento,
1815-1845, Napoli, Guida, 1984.
22
Sandra Puccini, I diari di Carlo Piaggia nel quadro dei resoconti di viaggio italiani dell’Ottocento, in Tiziana
Fratini (a cura di), Carlo Piaggia e il suo viaggio tra gli Azande (Niam Niam), Lucca, Comune di Capannori, 2000, p.
34.
23
Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, cit., p. 77.
24
Ivi, p. 109.
77
Simili infamie non dovrebbero mai essere commesse da alcuno, e tanto meno da coloro che,
nati in paesi civili, si danno a percorrere regioni barbare. Anche i selvaggi sono uomini dotati
d’intelligenza e differiscono da noi soltanto per il colore della pelle e per i loro costumi, che
potrebbero progredire a contatto della civiltà.25
Non sembra, in questo passo, di poter rintracciare ambiguità nella concezione di quella che viene al
contrario presentata come una chiara opposizione tra due realtà irriducibili: le nazioni civili, da cui
De Malzach ma anche Piaggia provengono, si contrappongono nettamente alle regioni barbare, che
pure sono meta di viaggio da parte di coloro che alle prime appartengono. L’autore evidentemente
non ritiene necessario soffermarsi a indicare su cosa si basi questa indiscutibile distinzione, eppure
la spiegazione si evince chiaramente dal prosieguo della riflessione: la condanna del ricorso a
pratiche ingiuste e immorali, così come presumibilmente anche alla violenza, si fonda
sull’affermazione della condivisione da parte degli individui appartenenti a entrambi i popoli
dell’attributo dell’intelligenza. Potrebbe a prima vista sembrare un riconoscimento notevole, tanto
più che, come vedremo, esso non è affatto scontato a questa altezza cronologica né lo sarà ancora
diversi anni più tardi. Eppure, a ben vedere, Piaggia si trova poi a specificare le caratteristiche che,
in opposizione al comune dono dell’intelletto, creano uno scarto che egli non può fare a meno di
evidenziare. La prima è una caratteristica fisica, il colore della pelle, che in effetti si impone al
viaggiatore come vistosa e irriducibile diversità, impossibile da colmare e dunque sfruttata come
base imperitura dagli appartenenti alla razza bianca per affermare la propria superiorità. I costumi,
al contrario, secondo motivo di differenziazione, sono un elemento contingente della cui
perfettibilità l’autore si dichiara prontamente fiducioso. Ma qui risiede in effetti il punto nodale
della contraddizione cui Piaggia non riesce a sottrarsi: in che modo può l’evoluzione − e dunque,
sembra egli voler suggerire, il miglioramento − di tali costumi evidentemente giudicati inadeguati
(sempre sulla base dei medesimi criteri eurocentrici interiorizzati dall’osservatore) avvenire
attraverso il contatto con quelli ritenuti invece civili, se questi ultimi sono allo stesso tempo
personificati da De Malzach, esempio oltremodo evidente di degenerazione umana e morale (al
punto da essere poco prima paragonato a un animale)? Sembrerebbe che il viaggiatore lucchese, in
questo caso, voglia appellarsi a una civiltà europea “ideale”, di cui certo il mercante francese non è
un degno rappresentante, i cui usi e i cui valori, non meglio specificati, vanno nondimeno seguiti e
trasmessi alle popolazioni indigene. Potremmo allora forse legittimamente ipotizzare che egli voglia
additare piuttosto se stesso come figura esemplare di un’ipotetica quanto astratta civiltà superiore e,
in quanto tale, passibile di essere presa a modello. Come fa notare ancora Emanuela Rossi,
riferendosi in particolare all’inverosimile e paradossale attaccamento a una piccola gazzella che
l’autore stesso, convinto ed esperto cacciatore, racconta di aver provato (episodio che, nelle
25
Ivi, p. 123.
78
memorie riordinate da Pellegrinetti, figura significativamente sotto il titolo sentimentale de Il
romanzo dell’antilope), «Piaggia stesso nelle sue memorie tende a rappresentarsi in un certo modo.
La sua “umanità” è piuttosto enfatizzata».26
D’altronde, quell’«atteggiamento di disincantata curiosità del Piaggia, insieme alla sua bonaria
acutezza osservativa»27 non è, come numerosi e benevoli interpreti della sua opera vorrebbero
credere e far credere, del tutto scevro da propositi valutativi. Il trattamento riservato agli schiavi
dalle popolazioni sudanesi che incontra lungo il Nilo Bianco ne suscita immancabilmente la
sdegnata reazione:
I padroni dispongono della vita di uno schiavo, come di quella di un animale qualsiasi.
Sfogano sull’infelice la loro rabbia e talvolta lo bastonano fino ad ucciderlo. In questo caso la
spoglia del morto non riceverà sepoltura, ma sarà invece abbandonata all’aperto per cibo delle
iene e dei cani; qualche altra volta viene gettata nel fiume. I proprietari degli schiavi
giustificano questa barbara usanza, dicendo che il danaro speso per dare sepoltura ad uno
schiavo porta disgrazia; e prestano fede ciecamente a questa superstiziosa credenza.28
Egli non esita in questo caso a giudicare negativamente, usando ancora una volta la categoria non
meglio definita e onnicomprensiva di “barbare usanze”, lo scarso livello di considerazione di cui
godono gli schiavi nella società sudanese: e se in effetti la morte derivante dalle ripetute percosse e
la mancata sepoltura non possono di certo essere considerate pratiche umanitarie, sembrerebbe che
nell’arco di poche pagine il Piaggia abbia dimenticato quelle non meno brutali che coloro che sono,
per sua stessa ammissione, rappresentanti delle nazioni civili perpetrano ai danni delle popolazioni
locali, senza peraltro operare alcuna distinzione di genere, età o classe sociale.
L’esempio di De Malzach è destinato comunque a restare tutt’altro che isolato; nel 1860, e cioè
soltanto un anno dopo il rientro dal precedente viaggio, Piaggia parte nuovamente per l’Africa,
deciso stavolta a raggiungere la tribù dei Niam-Niam, stanziata sempre nella zona sud-occidentale
del Sudan, al confine con l’Etiopia. Presso di loro egli finirà effettivamente per trattenersi tre anni,
spinto dalla curiosità derivante dal fatto che se ne parlava molto in Europa «come di un popolo
antropofago, che si distingueva dalle altre popolazioni dell’Africa Centrale per il colorito assai
chiaro della pelle».29 I due attributi sono agli occhi degli europei in apparente contrasto. La presunta
antropofagia dei Niam-Niam, così soprannominati in senso spregiativo (si tratta in realtà della tribù
degli azande)30 proprio per la diceria che fossero soliti cibarsi di carne umana, viene indicata come
esempio estremo di sottosviluppo e di “barbarie”, appunto, tanto che sarà additata come “modello”
26
Emanuela Rossi, Carlo Piaggia…, cit., p. 14.
Mariano Pavanello, Carlo Piaggia etnografo, in Antonio Romiti (a cura di), Le memorie di Carlo Piaggia. Nuovi
contributi alla conoscenza dell’esploratore di Badia di Cantignano, Comune di Capannori, Lucca, 1998, p. 227.
28
Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, cit., pp. 137-8.
29
Ivi, p. 166.
30
Sull’antropofagia degli azande si veda lo studio di Edward Evan Evans-Pritchard, Il cannibalismo degli Azande,
in Id., La donna nelle società primitive e altri saggi di antropologia sociale, Bari, Laterza, 1973, pp. 135-68.
27
79
in numerose relazioni di viaggio ancora diversi anni più tardi. Il cannibalismo, infatti, si pone agli
occhi degli europei come una delle caratteristiche più vistose dell’irriducibile alterità culturale degli
indigeni, un comportamento che «la paura e il sentito dire, il disprezzo e l’ignoranza contribuirono a
far ritenere più diffuso di quanto lo sia effettivamente stato».31 D’altronde, la sfumatura di colore
più chiara della loro pelle spingerebbe a posizionarli, sempre in virtù di parametri occidentali e privi
di qualsiasi fondamento scientifico, su un gradino più alto nella scala evolutiva delle razze umane.
Ad ogni modo, in questo secondo viaggio Piaggia si trova di nuovo nella necessità di mettersi al
seguito di un altro mercante, copto questa volta, tale Gattas, per poter più facilmente farsi strada
verso l’interno del continente; eppure rileva fin da subito un inasprimento dell’atteggiamento dei
nativi verso gli europei, e non esita a comprendere come esso sia una reazione naturale e
giustificabile ai soprusi quotidiani cui essi sono sottoposti. «Ormai i negozianti avevano seguito il
barbaro esempio di De Malzach, e i selvaggi guardavano i bianchi con molta diffidenza»32, annota
infatti, con uno spostamento interessante di prospettiva: l’aggettivo “barbaro” è stavolta
direttamente riferito al comportamento del commerciante francese, cui gli altri europei in Africa
vanno a poco a poco sempre più uniformandosi. In questo caso, allora, l’autore sembrerebbe
propendere per una concezione relativa della “barbarie”, per cui essa andrebbe identificata e
condannata in singoli atti, e non attribuita a priori, come faceva prima, a una zona specifica del
mondo e di conseguenza agli uomini che la popolano. Tuttavia, il Piaggia non pare in grado − o
forse non vuole − risolvere davvero questa oscillazione concettuale: anzi, l’accusa ai mercanti
europei di compiere atti “barbari” sembra in fondo utilizzata al fine di biasimarli in quanto,
superiori per natura e per costumi, essi non possono ciononostante talvolta evitare di mettersi sullo
stesso piano dei “selvaggi”, loro “barbari”, appunto, simili. D’altronde questi ultimi, stanchi delle
continue razzie di uomini e di bestiame compiute nello stabilimento di Gattas, iniziano a reagire,
dimostrando a loro volta di poter compiere un passo sulla strada della civiltà, sia pure da un punto
di vista negativo stavolta:
Fino a quel momento io ritenevo che i selvaggi fossero incapaci di compiere qualsiasi
vendetta. Ma l’esempio mi ammonì che anche i primitivi possono essere indotti a compiere
azioni dettate dall’odio se li sospinga l’istinto della propria difesa e della propria
conservazione.33
Lo stadio primitivo, in altre parole, non è neppure garanzia sufficiente di assenza di crudeltà:
laddove sono le motivazioni economiche a spingere gli uomini bianchi ad azioni brutali, i popoli
31
Francesco Surdich, L’antropofagia dei resoconti degli italiani al servizio dello stato indipendente del Congo, in
Emanuele Kanceff (a cura di), Lo sguardo che viene di lontano: l’alterità e le sue letture. Riflessioni e problemi in un
mondo che cambia, cit., vol. III, p. 1163.
32
Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, cit., p. 171.
33
Ivi, p. 178.
80
“selvaggi” sono guidati dagli istinti nel bene come nel male, e finiscono inevitabilmente per reagire
di fronte a provocazioni ripetute.
Sembra dunque a questo punto necessario se non altro ridimensionare quell’elogio diffuso e
condiviso delle modernità e diversità di Piaggia che vorrebbe farlo «assomigliare ad una versione
europea del buon selvaggio. Un selvaggio “interno”, insomma, più di altri legato e vicino al mondo
di natura, perché di umilissima estrazione sociale e culturale».34 Ciononostante, quelle innegabili
sfumature ideologiche che abbiamo visto e che hanno a lungo contribuito a rafforzare l’aura creatasi
attorno al personaggio, non si ritroveranno in molti altri viaggiatori a lui contemporanei o di pochi
anni successivi, che pure non mancano quasi mai di affrontare le stesse questioni.
2.2 Primitività tra idealizzazione e condanna: Arturo Issel e Luigi Pennazzi
Per la verità, un’idea simile a quella che abbiamo appena riscontrato in Piaggia, relativa
all’influsso negativo che la civiltà può avere sulle popolazioni primitive, ricorre nelle pagine
lasciateci da Arturo Issel come resoconto della spedizione condotta nel nord dell’Abissinia nel
1870, al seguito di Antinori e Beccari e, come abbiamo visto, svolta per conto della Società
geografica italiana. La prima popolazione in cui la compagnia si imbatte è quella dei danakil, ossia i
dancali (dall’arabo dankal, pl. danakil, da cui deriva la forma italianizzata), abitanti appunto della
Dancalia, in Africa orientale, estesa dal Mar Rosso, in corrispondenza della baia di Assab, fino ai
piedi dell’altopiano etiopico. Si tratta di una regione giudicata oltremodo inospitale e di una stirpe
che era all’epoca ancora sostanzialmente ignota agli etnologi, e che avrebbe dato filo da torcere a
diverse spedizioni inviate dall’Italia. Basandosi allora probabilmente su banali ma diffuse dicerie
più che su una personale impressione, troppo frettolosa per essere fondata su un’evidenza reale,
Issel, dopo aver fornito una rapida descrizione fisica dei sultani Danakil e aver lui stesso affermato
che troppo poco si sa dei loro costumi e del loro modo di vivere per poterne riferire, non esita
tuttavia ad aggiungere:
Alcuni viaggiatori vantano la buona fede, la semplicità, il candore dei popoli selvaggi, tra i
quali non sono penetrati ancora i vizii e la corruzione della civiltà europea. In verità queste
doti non appartengono ai Danachil, che per astuzia e rapacità darebbero punti ad un vecchio
causidico.35
Se, come abbiamo visto, Piaggia si appellava all’esistenza e ai valori di una civiltà ideale,
contraddetta nella realtà dai comportamenti biasimevoli dei suoi rappresentanti, qui, in maniera
speculare, Issel sembra volersi richiamare a una “primitività” ideale, che tuttavia ancora una volta si
oppone all’incarnazione di essa da parte delle tribù con cui egli entra in contatto. Allora, se
34
35
Emanuela Rossi, Carlo Piaggia…, cit., p. 12.
Arturo Issel, Viaggio nel Mar Rosso e tra i Bogos, Milano, Treves, 1872, pp. 27-8.
81
l’ingenuità e la purezza sono state spesso indicate a ragione come prerogative dei popoli selvaggi in
quanto non ancora corrotti dai difetti della civiltà, questo tuttavia non basta da solo, secondo il
nostro autore, a garantirne l’immunità dai vizi che possono essere insiti nella loro stessa stirpe.
Tuttavia, se l’avidità, tipica di un avvocato da quattro soldi pronto a difendere una causa in
tribunale solo a fini di lucro, non è di certo una caratteristica lodevole, la stessa cosa non può in
assoluto essere detta dell’astuzia, la cui connotazione negativa deriva dal medesimo accostamento
alla figura del vecchio causidico, ma che al tempo stesso non può fare a meno di implicare il
riconoscimento di una certa dose di intelligenza, sia pure usata, come il testo pare suggerire, per
scopi non edificanti. L’autore, d’altronde, prosegue poi nella stessa direzione, indicando ancora un
possibile punto di contatto, sempre in senso negativo, tra europei e africani, anzi tra italiani e
dancali per la precisione, stavolta riferito al trattamento riservato alle donne: «Qui, come in certe
province d’Italia che pur hanno fama di civili, al sesso debole sono devolute le cure più gravi, i
lavori più faticosi».36 Come vedremo, si tratta di una notazione ricorrente con poche varianti presso
diversi autori di resoconti di viaggio, stupiti dal fatto che all’elemento femminile venissero spesso
demandati, nella società africana, compiti gravosi ritenuti dagli europei senza dubbio più adatti al
sesso considerato “forte”. In realtà, come qui fa presente Issel, la pratica di assegnare alle donne
lavori duri e pesanti è evidentemente annoverata tra quei costumi che contribuiscono a determinare
la natura “barbara” degli indigeni, e che quindi come tali non dovrebbero comparire in nazioni
“civili”. Il fatto, dunque, che essi siano presenti in alcune province italiane spinge ancora nel senso
di una relativizzazione dei due concetti altrimenti contrapposti di civiltà e barbarie, per cui elementi
dell’uno possono talora “contaminare” l’altro e viceversa.
Come ho già accennato, tuttavia, proposte che si inscrivano nel segno di una categorizzazione
meno radicale sono tutt’altro che comuni da incontrare. Molta meno considerazione per gli indigeni
dimostra ad esempio il conte Luigi Pennazzi nei due volumi contenenti la relazione del lungo
itinerario compiuto in Africa Orientale, lungo il Nilo Azzurro e fino alla sua confluenza con il Nilo
Bianco, insieme all’amico Giuseppe Bessone nel 1880. Spinto, infatti, dalla ferma volontà di
sostenere le proprie convinzioni, egli addirittura non prova alcun imbarazzo nel formulare secchi
giudizi sull’operato di Gordon Pascià, già ufficiale dell’esercito britannico, poi colonnello
dell’esercito egiziano e infine Governatore britannico del Sudan, dove troverà la morte nel 1885 nel
tentativo di sedare la rivolta mahdista. Gordon, ben noto tra i suoi contemporanei per l’impegno
profuso in Africa nella lotta contro la pratica diffusa della tratta degli schiavi, viene elogiato in
questo senso da Pennazzi, il quale tuttavia non manca di criticare il vasto inserimento da lui operato
36
Ivi, p. 31.
82
dell’elemento indigeno a scapito di quello arabo nell’amministrazione egiziana, azione che, a suo
parere, gli avrebbe procurato una sensibile opposizione. Scrive Pennazzi:
Ma questi indigeni, così degni d’interesse, erano essi atti a disimpegnare le alte funzioni alle
quali Gordon li chiamò dall’oggi all’indomani, nominandoli mudir, bey o bascià? Erano essi
capaci di sbrigare funzioni amministrative elevate e delicatissime, senza incorrere negli stessi
errori dei loro predecessori, inebbriandosi del potere, e lasciando agire liberamente le loro
passioni e i loro sentimenti di odio e di vendetta? Non si correva pericolo, se tale sistema
predominava, di sostituire una cattiva amministrazione, che nondimeno poteva considerarsi
come semi-civile, con una amministrazione per nulla migliore, e completamente barbara?37
È chiaro come in questo caso (al contrario di quanto aveva rilevato, sia pure con le dovute
eccezioni, Arturo Issel) i difetti degli indigeni, in seguito ai quali essi non sono ritenuti in grado di
poter assolvere a funzioni amministrative, non sono affatto imputati all’influsso europeo; al
contrario, essi sono additati come evidente eredità delle generazioni precedenti, e dunque in un
certo senso come elemento costitutivo della razza nera, non comune, a quanto pare, a quella araba.
Gli arabi, infatti, acquistano in quest’ottica una posizione senza dubbio sopraelevata rispetto ai
nativi, tanto da occupare se non altro un gradino intermedio nella contrapposizione tra civiltà, di
esclusivo appannaggio europeo, e barbarie totale, di cui solo i neri sono in questo caso
rappresentanti. E tale giudizio suscita ancora maggiori perplessità laddove si voglia mettere a
confronto con le ripetute critiche manifestate da Piaggia nei confronti dei negozianti turchi
incontrati durante il proprio viaggio, accusati in toni sensibilmente più aspri di quelli riservati agli
europei di essere spietati sfruttatori degli indigeni, oltre che di trovare tutti i mezzi per aggirare la
repressione della tratta degli schiavi, e per i quali egli si trova nella necessità, sempre suo malgrado,
di intercedere presso le popolazioni locali.
Eppure, a ben vedere, nemmeno Pennazzi si dimostra in fondo del tutto coerente nelle sue
categorizzazioni, se in un altro passo della sua opera lamenta il fatto che tutta la stirpe africana, ad
eccezione forse dei soli Abissini, sia costretta a vivere nel terrore a causa del riprovevole
trattamento loro riservato, cui egli stesso è testimone diretto, da parte di soldati e ufficiali egiziani:
non osando reagire contro la volontà di un Europeo, questi fellah, bastardi della civiltà, si
vendicano sopra i negri ed i beduini, e credono, battendoli, di diventare nostri uguali almeno in
qualche cosa, come se la nostra superiorità fosse solo materiale e muscolare, e non provenisse
soprattutto dallo sviluppo della nostra intelligenza, e del culto che abbiamo per la civiltà ed il
progresso.38
In realtà non possiamo dedurre, da questa voce levata a favore di un atteggiamento più umanitario
nei confronti dei neri, che la gerarchia stabilita in precedenza venga qui ribaltata: Pennazzi non
fornisce alcun indizio in tal senso, anzi, sia pure implicitamente tende a ristabilirla, nella misura in
37
38
Luigi Pennazzi, Dal Po ai due Nili (Spedizione Pennazzi-Bessone), Milano, Treves, 1882, vol. I, p. 210.
Ivi, p. 252.
83
cui mostra quella che potremmo definire una sorta di “reazione a catena” per cui gli arabi, battuti
dagli europei e impossibilitati a reagire contro questi ultimi, se la prendono a loro volta con i nativi,
a loro sottoposti. Ma l’elemento per noi sorprendente sta nel fatto che da una simile constatazione
l’autore non prende spunto per elaborare una critica diretta ai bianchi posizionati al vertice della
piramide e che, in quanto tali, sono i primi responsabili di quanto accade “sotto” di loro. Al
contrario, l’atteggiamento assunto dagli arabi è giustificabile, sembra di capire, nell’ottica di un
comprensibile tentativo di emulazione della stirpe europea; se non fosse che il fine cui esso è diretto
è impossibile da raggiungere con i mezzi violenti messi in atto, non in quanto essi siano di per sé
contrari al concetto di civiltà, ma semplicemente perché ne rappresentano solo la parte fisica, e
dunque non la più importante (seppure chiaramente ineliminabile). La superiorità europea, in
pratica, ha il suo fondamento più solido in un non meglio specificato “culto per la civiltà e il
progresso”, veramente difficile da evincere dalle pratiche appena descritte. Ed è d’altronde il grado
di civiltà raggiunto a fungere ancora come elemento discriminante atto a indicare la più alta o più
bassa posizione su un’ipotetica scala di valore delle razze umane: i Sudanesi allora «non devono
confondersi colle razze inferiori che abitano certe regioni Niliache, nonché alcune delle contrade
che confinano colla costa atlantica» proprio per il fatto che, come ricorda Pennazzi, «ogni qualvolta
ho incontrato Sudanesi che erano stati in contatto col mondo civile, fui sorpreso dalla capacità di
assimilazione che possiedono».39
Tuttavia, se analizziamo più a fondo nel testo il motivo di un progressivo inasprimento del
giudizio nei confronti degli arabi, ci accorgiamo chiaramente che esso trova un impulso primario
nella questione religiosa: l’islamismo è senza dubbio un forte motivo di preoccupazione e di
pericolo per l’Europa cristiana, al punto che a fronte dei musulmani sono le popolazioni indigene a
essere guardate con maggiore favore, nella speranza che su di esse possa ancora agire il seme della
“vera religione.” In altre parole, anche Pennazzi, come già Piaggia, si fa portavoce del principio
della perfettibilità dei nativi i quali, proprio in quanto ritenuti ancora sostanzialmente fermi a uno
stadio primitivo dell’evoluzione umana e dunque suscettibili di cambiamento, possono aspirare a un
effettivo miglioramento se saranno in grado di liberarsi dall’influsso negativo dell’arabo
conquistatore e sapranno invece fare tesoro dell’esempio loro fornito dalla civiltà europea:
Fino ad ora purtroppo, l’islamismo […] ha gettato qualche buon seme in questo terreno ancora
vergine, ne ha pur gettati tanti di pessimi […] Non dispero però delle razze sudanesi; alcune di
esse hanno ancora tanto di forza vitale, malgrado la perduta autonomia politica, da poter
resistere all’impulso del male, e conservare intatti certi grandi principii di moralità e di onore,
che sono totalmente sconosciuti ai loro conquistatori. In questi principii e nell’influenza della
civiltà, che poco per volta rovescia tutte le barriere, tutti gli ostacoli e tutte le frontiere, queste
39
Ivi, vol. II, p. 302.
84
popolazioni, sì degne d’interesse, troveranno il proprio salvataggio e la propria
rigenerazione.40
Due elementi distinti ma correlati sono dunque necessari affinché gli indigeni (si tratta in questo
caso dei Sudanesi ma sarebbe vano pretendere dai viaggiatori italiani sensibili distinzioni) possano
avviarsi sulla strada della vera crescita morale e spirituale. Prima di tutto devono fare appello ai
propri principi originari, rigettando i costumi corrotti introdotti dall’Islam; in secondo luogo devono
aprirsi alla forza dirompente della civiltà, i cui mezzi e fini non vengono peraltro specificati. Siamo
di fronte, ad ogni modo, a una forma di interna contraddizione che non sarà raro ritrovare in molti
resoconti di viaggio, consistente appunto nell’indicare come via di uscita dalla presunta “barbarie”
un improbabile compromesso tra primitività e progresso. Quest’ultimo, infatti, è al tempo stesso
ideale positivo da perseguire ma anche inevitabile causa di snaturamento di alcune caratteristiche
peculiari della società indigena, e in quanto tale additato talvolta in toni meno entusiastici dai
viaggiatori soprattutto ottocenteschi, ancora profondamente imbevuti di esotismo.41
2.3 Fascino di superficie e disprezzo profondo: le due facce della medaglia in Pippo Vigoni
In questo senso, almeno, mi pare di dover leggere la delusione dell’ingegnere Pippo Vigoni,
giunto in Africa nel novembre 1878 a seguito della spedizione guidata da Matteucci e interessata a
spingersi fino al Goggiam e allo Scioa per esplorarne le possibilità di sviluppo commerciale. Come
si evince dalle sue stesse parole, Vigoni era già stato in Africa alcuni anni prima, quando, subito
dopo la laurea, aveva avuto l’opportunità di visitare non solo l’Egitto, ma anche la Siria, il Libano e
la Palestina.42 Tuttavia, l’impressione che ne riceve questa volta è inferiore non solo alle sue attuali
aspettative, ma anche all’entusiasmo provato nella precedente occasione:
Da quando vidi Cairo la prima volta, trovo che ha perso moltissimo: i quartieri europei con
grandi fabbricati a portici, e l’elemento europeo che si va infiltrando nei quartieri arabi, sono
certo a maggior comodo di chi vi abita, ma a grave discapito dell’originalità del paese. Il
Kedivè crede erigersi un monumento di gloria facendo della sua capitale una seconda Parigi,
ma parmi invece che rovini un paese, e oso dire una civiltà cui si poteva togliere quanto v’ha
di barbaro, rispettandovi però quanto v’ha di bello e di caratteristico.43
Il passo è particolarmente interessante nel nostro discorso in quanto inserisce una sfumatura diversa
all’interno della classica opposizione civiltà/barbarie. L’europeo, ovvio rappresentante della prima,
dovrebbe infatti, a parere di Vigoni, essere tanto lungimirante da saper apportare nella realtà
40
Ibid.
Si vedano, a questo proposito, Anita Licari, Roberta Maccagnani, Lina Zecchi, Letteratura esotismo colonialismo,
cit.; Francis Affergan, Exotisme et altérité. Essai sur les fondements d’une critique de l’anthropologie, Paris, Presses
universitaires de France, 1987. Per un quadro dell’esotismo nell’arte italiana tra XIX e XX secolo si veda inoltre
Rossana Bossaglia (a cura di), Gli orientalisti italiani. Cento anni di esotismo (1830-1940), Venezia, Marsilio, 1998.
42
Si veda Carla Ghezzi, Pippo Vigoni e l’Africa, in Ead., Colonie, coloniali. Storie di donne, uomini e istituti fra
Italia e Africa, Roma, Istituto per l’Africa e l’Oriente, 2003, pp. 67-89.
43
Pippo Vigoni, Abissinia. Giornale di un viaggio, Milano, Hoepli, 1881, p. 6.
41
85
africana solo quelle modifiche che non vadano a intaccarne l’essenza più profonda. In questo senso,
l’autore arriva perfino ad additare come inadeguate quelle migliorie che, come lui stesso
oggettivamente riconosce, sarebbero in grado di rendere più confortevole la vita in Africa: nega, in
altre parole, non solo la necessità ma anche l’effettiva positività dell’applicazione di mezzi europei
(architettonici in questo caso, ma il discorso è verosimilmente estendibile ai mezzi tecnici in
generale) in un territorio che rischia altrimenti di vedere distrutta la propria originalità. Paradossale
fino a questo punto mi pare il ragionamento del viaggiatore italiano, anche se di certo in sintonia
con tutti quelli che abbiamo discusso finora, almeno nella pacifica e totale adozione di un punto di
vista esclusivamente eurocentrico sulla questione: mantenere l’Africa nel suo stato di cose attuale è
infatti precetto guidato non da una forma di rispetto per la terra e per i suoi abitanti − che, si noti
bene, non vengono nemmeno nominati − bensì finalizzato a preservare intatto il fascino che agisce
sull’uomo europeo, e che per essere efficace deve conservare almeno un suo grado minimo di
alterità. Non a caso è sull’aspetto esteriore della città che si appunta l’attenzione del viaggiatore, in
quanto primo elemento che si concede alla vista dell’europeo sbarcato in Africa e su cui egli subito
è portato a misurare i propri preconcetti e pregiudizi. Le città, d’altronde, sono dispositivi spaziali
che emblematizzano l’“altrove”, e sono dunque particolarmente utili per comprendere la percezione
di tale alterità.44 Ed è significativo il fatto che quello che ancora, a questa altezza cronologica, può
in esse venire valorizzato come elemento di mistero che risveglia nell’uomo occidentale, tediato dai
privilegi della modernità, sensazioni ormai sopite in Europa, verrà anni più tardi sfruttato dalla
propaganda di regime per sottolineare il contrasto tra la decadenza degli antichi quartieri arabi,
appunto, e il nuovo ordine apportato dalla società coloniale, evidente nelle zone moderne delle città
stesse.
In Vigoni, tuttavia, c’è ancora posto per una effimera esaltazione del carattere autentico e
peculiare della città africana, a suo parere danneggiato non dall’espansionismo europeo nella
regione, cui peraltro non si fa ancora cenno, bensì per mano dello stesso rappresentante del potere
locale, il viceré egiziano. Quest’ultimo, infatti, spinto da un vano desiderio di emulazione, si rende
responsabile in prima persona di tradimento nei confronti della tradizione del Paese, facendosi
costruire un monumento degno di figurare in una moderna capitale europea. Un tale comportamento
non aiuta quella che evidentemente il viaggiatore italiano considera la missione civilizzatrice da
compiere in Africa: annullando il “colore” locale, al contrario, si sottraggono proprio i fattori da cui
partire per un potenziale sviluppo, senza invece intaccare minimamente quelli deteriori. E, se ce ne
fosse bisogno, si evince ancor più chiaramente dal prosieguo del brano citato che quella che Vigoni
44
Vedi, a questo proposito, Michel Lussault, Città degli altri/luoghi dell’altrove: qualche rappresentazione di città
dell’Africa del Nord nell’immaginario francese, in Emanuela Casti, Angelo Turco (a cura di), Culture dell’alterità. Il
territorio africano e le sue rappresentazioni, Milano, Unicopli, 1998, pp. 61-81.
86
“osa” con magnanimo gesto chiamare civiltà poggia su un complesso esteriore e ben fruibile in
superficie di un folclore caratteristico, come fosse un bel quadro da ammirare sia pure un po’
discosti, e da cui lasciarsi ammaliare:
Andai cercando un magnifico viale fiancheggiato da sicomori dove ogni giorno mi recavo a
godermi degli splendidi tramonti che dietro le lontane piramidi infuocavano l’orizzonte: era
uno di quegli spettacoli indescrivibili che ricreano lo spirito e innalzano la mente, ma che non
v’ha penna, né pennello, né fantasia che possano ritrarre, e mi trovai invece rinchiuso in una
via fiancheggiata da grandi fabbricati, e allo sfondo sorgeva un prosaico e fumante camino da
opificio. Povero Oriente come ti vestono da Arlecchino!45
A essere biasimato è dunque l’ostinato tentativo di ridurre una visione preconfezionata e del tutto
idealizzata dell’Oriente, di esclusiva matrice occidentale e applicabile come vedremo
indiscriminatamente anche a zone e territori africani molto diversi tra di loro, a una brutta copia
semplificata dell’Europa stessa.
Resta tuttavia da capire a cosa, allora, si riferisca Vigoni con l’immancabile qualifica di
“barbaro”, attraverso la quale vuole genericamente indicare ciò che andrebbe davvero modificato o
eliminato, cui invece non si presta sufficiente attenzione. Mi pare legittimo ipotizzare che
l’aggettivo alluda verosimilmente all’elemento umano, il quale è del tutto assente in questo
discorso, forse in maniera voluta proprio in quanto nota stonata del quadro appena dipinto, e
oggetto su cui dovrebbe focalizzarsi il miglioramento delle condizioni esistenti. D’altronde, pare
che Vigoni non solo non abbia degli indigeni una grande considerazione, ma giudichi per la loro
elevazione fisica e morale necessaria l’attività missionaria europea, in grado di fornire l’esempio
«alle popolazioni selvagge che la missione dell’uomo sulla terra ha uno scopo ben più alto che
quello di vegetare abbrutendosi e facendosi continua guerra gli uni agli altri». 46 Sul ruolo
fondamentale che la religione cristiana può e deve svolgere presso le popolazioni autoctone l’autore
torna più volte a discutere lungo l’esposizione dei propri ricordi di viaggio. È tuttavia significativo
che l’accento cada sempre sul valore strumentale che essa è chiamata ad assumere, come necessario
supporto a un’operazione che, se non è ancora esplicitamente intesa nei termini della conquista, di
certo vede nella conversione al cristianesimo il primo necessario passo verso un asservimento degli
indigeni:
Ma quando invece si prepara alla religione un fondamento di sviluppo intellettuale, si sveglia
questa povera gente dal suo letargo di ignoranza, si fa loro vedere e toccar con mano di quanto
bene possa esser fonte la civiltà, si sviluppa l’industria e l’agricoltura, si aprono loro così la
mente e gli occhi, e si migliora la loro condizione, si ottiene della gente che veramente ci ama
e ci stima, ci crede, perché ci vede capaci di un bene reale, e dietro questa si ispira ad amare e
stimare chi ha ispirata in noi quella fede per la quale si abbandonò patria e famiglia per andare
45
46
Pippo Vigoni, Abissinia. Giornale di un viaggio, cit., p. 6.
Ivi, p. 43.
87
cercando il bene altrui, quel bene dal quale vedranno scaturire il loro nuovo benessere. Quando
la propaganda si basa su tali principii, come fortunatamente si basa nel maggior numero dei
casi, allora si prefigge ed ottiene uno scopo eminentemente utile e sacro.47
In polemica con la pratica, di cui l’autore stesso si è trovato talvolta suo malgrado a essere
testimone, delle conversioni forzate ottenute con noncurante dispiego di mezzi coercitivi e
intimidatori, Vigoni intende rivalutare l’importanza dell’attività missionaria laddove, come nel caso
di quella svolta in quegli stessi anni da monsignor Comboni a Kartum, essa sia davvero ispirata a
sentimenti e scopi umanitari. Eppure, nessun principio di vera e disinteressata moralità trova posto
nell’enunciazione dei benefici che dovrebbero derivare dall’impegno dei missionari, tanto che non
si capisce bene come quella che viene esplicitamente definita un’opera di propaganda possa
implicare in se stessa una finalità “sacra”. L’unica finalità cui effettivamente l’autore fa riferimento
consisterebbe nel riuscire a instillare nelle popolazioni indottrinate alla nuova religione stima e
affetto per i loro “maestri” e dunque, di riflesso, attaccamento sincero a quel sentimento religioso
che ne ispira l’operato. Un passo verso la civiltà equivale in questo senso a un progressivo
riconoscimento da parte dei nativi della propria inferiorità, in forza del miglioramento delle
condizioni di vita che gli europei si dimostrerebbero in grado di apportare, e dunque del bisogno
imprescindibile di una guida, non più solo spirituale a questo punto. D’altronde, sono gli stessi
missionari a porre la questione in tali termini, se vogliamo prestare fede all’affermazione di padre
Comboni, riportata da Vigoni, in base alla quale affinché la religione possa davvero svolgere il
proprio compito è prima necessario trasformare le bestie in esseri umani: il religioso in questo caso
si spinge oltre, non solo negando agli indigeni un sia pur minimo grado di civiltà, ma arrivando
addirittura a non voler attribuire loro la stessa natura umana.
Il paragone con il mondo animale − quello che Frantz Fanon ha definito il “linguaggio
zoologico” del colono sul colonizzato48 − lungi dall’essere caso isolato, diventerà piuttosto una
sorta di leitmotiv utile come sbrigativo mezzo di rappresentazione e tentativo di riduzione
dell’estraneità insita in quegli aspetti delle popolazioni ritenuti dettati dall’istinto più che dalla
ragione. Abbiamo già visto diversi esempi in tal senso nei modi di caratterizzazione che Flaiano,
attraverso il filtro del soldato protagonista di Tempo di uccidere, mette in atto nei confronti del
personaggio femminile di Mariam. L’animale, come ci capiterà di rilevare ancora nel corso della
trattazione, è elemento indispensabile di raccordo tra l’“io” che scrive, e che porta con sé la propria
identità di provenienza, e l’“altro”, sconosciuto, visto per la prima volta, le cui differenze
reagiscono a un immediato tentativo di assimilazione. In questa opposizione biunivoca l’animale
funge da intermediario naturale, crea un ponte tra due culture diverse, o meglio tra quella che
47
48
Ivi, p. 47.
Frantz Fanon, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 2007, p. 9.
88
l’europeo considera la Cultura, cioè esclusivamente la propria, e la Natura, in cui egli include al
contempo l’altro e l’animale stesso.49 Il paragone, che ricorre continuamente nei resoconti di
viaggio, è d’altronde, come già notava Todorov in riferimento ai diari di Colombo50, un mezzo
indispensabile e privilegiato di riduzione dell’ignoto al noto: il rilevamento della differenza innesca
il confronto con qualcosa di conosciuto e di simile, che a sua volta funziona sia come strumento di
difesa da una realtà estranea ed estraniante sia come prima forma di conoscenza di essa, e base utile
per una sua prossima rivendicazione.
Conferendo dunque un valore fondamentale, sulla scia già tracciata anche da Pennazzi,
all’impulso derivante dalla religione cristiana (contrastante o meno con quello parallelo messo in
atto dall’Islam) Vigoni non sembra più avere la minima fiducia, propria ancora di Piaggia, nella
perfettibilità della razza indigena raggiungibile semplicemente attraverso il contatto con esemplari
di una stirpe “superiore”. Se non altro, questa è l’opinione che ha in merito agli abissini, la
popolazione che ha modo di osservare più da vicino, cui non risparmia un giudizio tagliente:
Io ritengo il carattere abissinese incapace di adattarsi a qualsiasi civiltà, e lo vedemmo infatti
dimenticare tutta l’antica, e restare completamente indifferente alle invasioni portoghesi e al
contatto dei tanti viaggiatori europei. È come una pietra che anche lasciata dei secoli in fondo
a un lago, non ne assorbirà mai goccia d’acqua. E a conferma di questa mia supposizione ho il
fatto che tre Abissinesi che ho conosciuti, che vissero per degli anni in Europa o in India,
ritornarono in Abissinia per diventarvi più Abissinesi di prima. Niente ispirò loro la civiltà,
neppure un poco di attività e di amore alla pulizia, e quasi indifferenti restarono a tutto quello
che hanno visto […] E sia che non ne sentano il bisogno, sia che si credano superiori a noi,
non cercano per nulla di imparare qualcosa da chi, come devono pur vedere, sa rendersi
l’esistenza un po’ più piacevole. Essi vivono allo stato poco meno che selvaggio.51
Degno di nota, se non altro, il riconoscimento − anch’esso tutt’altro che scontato, come vedremo −
dell’esistenza di una civiltà abissina, che tuttavia viene definita dall’autore in negativo, tramite
l’affermazione della sua attuale perdita. L’antica civiltà etiope, cui Vigoni pure accenna, è stata
infatti ormai del tutto accantonata, ma la sua scomparsa non ha lasciato il posto all’avvento di una
nuova dal momento che la popolazione non ha voluto, o non è stata in grado, di accogliere e fare
proprie quelle con cui è entrata in contatto: questa è la colpa imputata agli etiopi, e in essa, secondo
l’autore, risiede il loro più grande limite. Interessante qui l’utilizzo di un nuovo paragone, costruito
questa volta non attraverso la comparazione con un elemento tratto dal mondo animale, bensì in
modo ancor più significativo con un oggetto inanimato: come una pietra, dura e impermeabile a
qualsiasi contaminazione con il mondo esterno, così l’abissino si dimostra incapace di trarre
vantaggi prima dalla presenza portoghese sulle sue terre e poi dal continuo passaggio di viaggiatori
provenienti da diverse zone d’Europa. Ciò che più stupisce l’ingegnere italiano è, in questo senso,
49
Cfr. a questo proposito Francis Affergan, Exotisme et altérité…, cit.
Cfr. Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, cit.
51
Pippo Vigoni, Abissinia, cit., p. 152.
50
89
l’atteggiamento di indifferenza che l’indigeno mostra nei confronti delle forme se non altro esteriori
di civiltà che ha potuto avere sotto i propri occhi, soprattutto in termini di utensili e di pulizia, e di
cui non ha ritenuto necessario appropriarsi. Persino coloro che hanno trascorso un periodo di tempo
immersi nella tanto decantata civiltà europea, una volta rientrati in patria sembrano non serbarne
alcun ricordo, al punto che si riappropriano senza soluzione di continuità del connaturato stile di
vita “selvaggio”. In altre parole, pur nella superficiale ammissione dell’esistenza, almeno passata, di
una civiltà abissina (la quale peraltro non pare suscitare alcun moto di interesse tanto che niente di
essa viene specificato), di fatto l’unica forma di civiltà che in quanto tale viene riconosciuta e
considerata valida è sempre e solo quella europea, al punto che il viaggiatore italiano non può in
alcun modo capacitarsi del fatto che essa possa non essere presa a modello da parte di popolazioni
che non ne condividono lo stesso grado di sviluppo. In questo tipo di ragionamento, d’altronde, si
collocano le premesse per la successiva formulazione di una utilitaristica autogiustificazione
all’invasione e alla conquista, dettata appunto dalla (mala)fede nell’indiscutibile progresso
apportato alle condizioni di vita dei nativi in colonia. Da notare di nuovo, a questo proposito, la
sottile consonanza tra l’atteggiamento di Vigoni e lo stupore e l’incomprensione del soldato di
Tempo di uccidere di fronte all’attaccamento degli indigeni alla propria terra, che appare ai suoi
occhi inospitale, dura, opprimente:
Perché non capivo quella gente? Erano tristi animali, invecchiati in una terra senza uscita,
erano grandi camminatori, grandi conoscitori di scorciatoie, forse saggi, ma antichi e incolti.
Nessuno di loro si faceva la barba ascoltando le prime notizie, né le loro colazioni erano rese
più eccitanti dai fogli ancora freschi di inchiostro. Potevano vivere conoscendo soltanto cento
parole. Da una parte avevano il Bello e il Buono, dall’altra il Brutto e il Cattivo. Avevano
dimenticato tutto delle loro epoche splendide e soltanto una fede superstiziosa dava alle loro
anime ormai elementari la forza di resistere in un mondo pieno di sorprese.52
Rimossi definitivamente i fasti dell’antica civiltà e accantonate le possibilità di sviluppo in essa
contenute, gli abissini sono considerati, ancora al tempo dell’invasione italiana, come rimasti
intrappolati in una primitività elementare, insensibili al richiamo della modernità, rassicurati da una
visione manichea del mondo e dell’esistenza, guidati dalla cieca superstizione: tutte caratteristiche
che li rendono incomprensibili agli occhi dei conquistatori, ma che al contempo giustificano
l’intervento di questi ultimi. Così, lo stesso soldato si ritiene in diritto di reclamare a sé la fanciulla
indigena, i cui occhi chiari tradiscono l’influsso degli antenati portoghesi, non dubitando per un
attimo del sicuro successo, anzi meravigliato del fatto che «una simile principessa fosse scaduta a
vivere in quel bassopiano, mentre nelle città qualche generale o qualche autista sarebbe stato assai
lieto di proteggerla».53
52
53
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, cit., p. 44.
Ivi, p. 50.
90
2.4 L’ironia pungente di Augusto Franzoj
La totale incomprensione verso usi e atteggiamenti delle popolazioni locali, che sulle prime può
suscitare curiosità e persino imbarazzo, lungi dallo stimolare un confronto, al contrario radicalizza
ogni contrasto già latente, e si rafforza talora anche attraverso formulazioni ironiche e dissacranti.
Questo è ad esempio il caso del già nominato Augusto Franzoj, personaggio di per sé sopra le righe,
tipografo improvvisato, protagonista in patria di numerosi duelli e costretto a spostarsi più volte
attraverso l’Europa. Nel 1882, con la scusa ufficiale di impegni di lavoro, parte per l’Africa deciso a
ricondurre in Italia le spoglie di Giovanni Chiarini, morto tre anni prima in prigionia a Ghera in
seguito al fallimento della spedizione condotta con Antonio Cecchi per conto della Società
geografica italiana. 54 Più che una spedizione, allora, quella di Franzoj si configura come
un’avventura, gestita in modo del tutto disorganizzato e solitario, con assoluta incoscienza ma
anche con profonda determinazione, tanto che egli riuscirà nella sua impresa, pur essendo
sprovvisto di mezzi e trovandosi più volte sull’orlo della sopravvivenza. Ed è senz’altro vero, come
sottolinea nella prefazione all’edizione del 1961 delle sue memorie di viaggio il curatore,
Gianfranco Silvestro, che l’Africa di Franzoj è negli uomini, tanto che in essa la terra africana trova
davvero pochissimo spazio, né restano tracce dell’esotismo pur ancora tanto in voga a quel tempo.
Eppure, non bisogna credere che questo interesse per l’uomo lo conduca davvero lontano dai
viaggiatori a lui contemporanei in termini di comprensione e lungimiranza. E se la sua insofferenza
alle regole e alle imposizioni della società civile, l’anticonformismo e l’antitrasformismo che ne
scatenano l’intolleranza verso i governanti italiani lo spingono in effetti a cercare nuovi termini di
confronto fuori dall’Europa, essi non si traducono tuttavia, come si potrebbe erroneamente sperare,
in un’apertura sincera verso l’altro. Al contrario, il suo ruolo da protagonista indiscusso, unico
metro di giudizio da cui partire per valutare il mondo esterno, non risulta affatto intaccato dalla sia
pure consistente folla di personaggi incontrati e descritti lungo il percorso. Così il suo spirito
mordace, lasciate in patria le fonti primarie del proprio malcontento e della propria insofferenza
esistenziale, trova negli indigeni facili bersagli su cui scaricare un innato sarcasmo. Ecco allora che,
sorpreso dall’ottima tecnica sviluppata dagli abissini per l’amputazione degli arti, e spesso da loro
usata come strumento di punizione, non manca di cogliere la palla al balzo per evidenziarne, in
maniera antifrastica, la barbarie: «Siccome in un paese civile com’è l’Abissinia, un carnefice
titolare fisso, pagato, stonerebbe, così, subito dopo la condanna, uno qualunque fra i soldati presenti
54
Memorie dettagliate della disgraziata spedizione sono contenute nei tre volumi redatti da Antonio Cecchi,
sopravvissuto alla prigionia: Da Zeila alle frontiere del Caffa. Viaggi di A. Cecchi pubblicati a cura e spese della
Società Geografica Italiana, Roma, Loescher & C., 1885-87.
91
è incaricato dell’esecuzione». 55 Mediante la tecnica dell’ironia, consistente appunto nel voler
comunicare un pensiero attraverso l’enunciazione del suo contrario, anche Franzoj nega
chiaramente la possibilità che all’Etiopia venga associato il concetto di civiltà. Anzi, dall’alto della
sua posizione privilegiata di occidentale e dunque rappresentante di costumi indiscutibilmente più
progrediti, egli non esita a trascrivere un breve scambio di battute avuto con un’abissina, nuovo
spunto per una messa in ridicolo degli autoctoni e dei loro bizzarri usi:
In questi paesi, specialmente le donne mangiano con vera ingordigia i pidocchi che si vanno
per tutto il giorno cacciando sul corpo. Io ho detto ad una: − Ti pare buona quella roba lì? A
me pare schifosa? − E come? Non è forse carne della mia carne, e sangue del mio sangue? −
Perché allora non ti mangi anche il verme solitario che, come tutti gli altri del tuo paese, anche
tu devi avere e che è pure la carne della tua carne? Questa mia interrogazione parve
imbarazzare la donna che se ne andò senza nulla rispondere.56
Nonostante sia descritta per mettere in luce un ulteriore tratto distintivo della barbarie e
dell’inferiorità dei popoli africani, la scena finisce per essere focalizzata interamente sulla figura
dello stesso narratore: forte della propria astuzia verbale, con la quale atterra l’avversario
lasciandolo senza possibilità di replica, egli domina il dialogo, riuscendo perfino a far passare in
secondo piano la reale drammaticità dell’episodio descritto. Non lo sfiora neppure l’idea che il
cibarsi dei propri pidocchi possa essere dettato semplicemente dalla fame, o se lo sfiora non è di
certo quello l’aspetto che gli interessa sottolineare: nella loro ignoranza e arretratezza gli indigeni
fanno cose di cui, qualora interrogati, non sono nemmeno in grado di rendere conto.
2.5 Gustavo Bianchi e la nuova logica del profitto
Senza dubbio, tuttavia, l’autore che già a questa altezza cronologica si dimostra nelle sue
riflessioni scritte più incline alle future possibilità di conquista, e allo stesso tempo pienamente
consapevole delle conseguenze che essa avrebbe potuto e dovuto comportare, è Gustavo Bianchi. In
questo senso è interessante notare come Cristina Lombardi-Diop trovi in quest’ultimo una figura
esemplare, all’interno del gruppo dei primi esploratori italiani, da contrapporre per antitesi a quella
di Piaggia, sulla base di considerazioni riguardanti il diverso approccio nei confronti delle realtà
indigene con cui i due entrano rispettivamente in contatto.57 L’atteggiamento di Piaggia, sostiene la
studiosa, affonda le proprie radici in modelli di interazione economica di stampo precapitalista,
fondati cioè sullo scambio di doni e di prodotti di vario genere, a sua volta finalizzato a creare
rapporti non solo di tipo commerciale, ma anche sociale e morale tra le due parti in causa. Al
55
Augusto Franzoj, Continente nero, a cura di Gianfranco Silvestro, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1961,
p. 56.
56
Ivi, p. 227.
Cristina Lombardi-Diop, Gifts, sex, and guns. Nineteenth-century Italian explorers in Africa, in Patrizia Palumbo
(edited by), A place in the sun, cit., pp. 119-37.
57
92
contrario, di pari passo con l’avvento dell’economia liberale e della società capitalista, anche la
natura degli scambi muta, e gli esploratori successivi a Piaggia, a partire proprio da Bianchi o da
Giovanni Miani, non a caso utilizzeranno soprattutto armi e munizioni come merce privilegiata da
barattare. Dietro una diversa comprensione e un diverso adattamento alla logica del dono e dello
scambio si celano, secondo la Diop, oltre a distinte motivazioni e finalità insite nelle spedizioni
stesse, anche e soprattutto una diversa mentalità di partenza: l’atteggiamento disinteressato e aperto
dell’esploratore lucchese lascia il posto a una prospettiva ideologica evoluzionaria e razzista, in cui
anche il dono diviene soltanto un mezzo di affermazione della propria innegabile superiorità.
Nella figura di Piaggia, anche in forza della descrizione offertaci da Diop, mi sembra allora di
poter rintracciare quella “mistica della reciprocità” [mystique of reciprocity] che Mary Louise Pratt
individua come caratteristica fondamentale di una nuova tipologia di viaggiatore europeo, incarnata
nello specifico da Mungo Park, giovane scozzese, esploratore dell’Africa occidentale tra la fine del
1700 e i primi dell’‘800.58 Lo scarto temporale di più di mezzo secolo non deve, in questo senso,
sorprendere, alla luce di quel ritardo proprio della situazione italiana che abbiamo sottolineato più
volte. Park rappresenta secondo Pratt un esempio di sentimental travel writing, opposto allo
scientific travel writing della generazione precedente59: la schematizzazione non è così semplice se
volessimo cercare di applicarla al contesto italiano, laddove anzi mi pare che le due modalità
vadano in parte a sovrapporsi, o se non altro non trovino un così netto avvicendamento. Peraltro, la
stessa Pratt riconosce in realtà la sostanziale concomitanza e interconnessione tra i due
atteggiamenti, quando afferma che «in travel literature […] science and sentiment code the imperial
frontier in the two eternally clashing and complementary languages of bourgeois subjectivity».60
Ma su questo torneremo a discutere alla fine del nostro lavoro, una volta delineato un quadro
diacronico di sviluppo del colonial travel writing italiano, appunto. Per ora mi interessa notare
come Piaggia condivida con Park questo «desire to achieve reciprocity, to establish equilibrium
through exchange».61 Al tempo stesso, Pratt suggerisce che, proprio in questa continua necessità di
negoziazione, il racconto di Park sia prefigurazione di quell’espansione commerciale a nome della
quale egli stesso viaggia e scrive. Prefigurazione, tuttavia, quasi inconscia e comunque del tutto
ignara dei meccanismi dell’emergente capitalismo europeo. In questo potrebbe risiedere, a mio
avviso, anche lo scarto tra Piaggia e Bianchi: il primo, come Park, pratica una forma di commercio
«but never for profit», tanto che alla fine dell’avventura «he is no longer defined by European
commodities» 62 , anzi addirittura integrato (con le opportune e necessarie limitazioni) nella
58
Cfr. Mungo Park, Travels in the interior districts of Africa, Durham [N.C.], Duke University Press, 2000.
Mary Louise Pratt, Anti-conquest II: The mystique of reciprocity, in Ead., Imperial eyes, cit., pp. 67-83.
60
Ivi, p. 38.
61
Ivi, p. 78.
62
Ivi, p. 79.
59
93
comunità indigena. Bianchi, al contrario, è, come vedremo, ben consapevole del profitto che è
fondamentale ricavare dall’insediamento di stazioni commerciali. Ciononostante, come ho già
espresso in precedenza, non ritengo opportuno né necessario isolare la figura di Piaggia per farne un
unicum su cui misurare tutte le esperienze di viaggio a lui successive: pur nell’innegabile
singolarità di alcuni suoi comportamenti e punti di vista, egli rivela infatti a ben guardare legami
tenaci con la mentalità del suo tempo, e non sfugge a generalizzazioni e categorizzazioni che
diventeranno indiscusso appannaggio degli esploratori di fine Ottocento.
Non per questo, tuttavia, intendo negare che intercorrano differenze significative e anche
sostanziali tra l’atteggiamento del viaggiatore lucchese, che nel complesso potremmo ancora
definire innocuo se guardiamo almeno alle sue effettive finalità, e quello di un esploratore come
Gustavo Bianchi, già socio corrispondente della Società geografica italiana, e chiaro sostenitore
della necessità di un’espansione coloniale in Africa. In altre parole, se, come è mia intenzione
dimostrare, gli italiani che si recano in Africa negli ultimi decenni del XIX secolo condividono tutti
un certo sfondo ideologico che è anche in parte frutto della stessa compagine storico-culturale in cui
tutti indistintamente sono inseriti, non per questo tuttavia sarebbe corretto appiattire le singole
individualità su un sostrato comune. Esse infatti si discostano l’una dalle altre in base prima di tutto
a caratteri strettamente personali, quali la provenienza sociale, il livello culturale o il più o meno
definito ruolo istituzionale; inoltre, com’è ovvio, bisogna anche considerare il fatto che sono questi
gli anni in cui la stessa politica coloniale italiana subisce una sia pur lenta progressione da un
atteggiamento cauto e timoroso all’aggressiva posizione espansionista assunta dal governo Crispi,
che finisce per costare alla nazione grandi sacrifici sia in termini economici che di vite umane.63
In tale contesto va inquadrata dunque la figura di Bianchi che, come abbiamo detto, appare di
certo tra i suoi contemporanei il più nettamente orientato già a propositi di conquista, cui fa
esplicito riferimento in passi diversi del suo lungo e dettagliato resoconto di viaggio. Il suo testo,
edito in gran formato e corredato da numerose illustrazioni realizzate da Ettore Ximenes sulla base
degli schizzi dello stesso autore, ricevette d’altronde evidente apprezzamento presso un pubblico
piuttosto vasto, a giudicare dal susseguirsi di varie edizioni nel giro di pochi anni. Per di più, come
ho già accennato, anche la sua tragica fine concorse ad alimentare l’interesse verso la sua figura e le
sue imprese. Nel 1928 il noto esploratore Ludovico Nesbitt, ripercorrendo le terre dancale da Sud a
Nord, si adopera per rintracciare il luogo preciso dell’eccidio del corpo di spedizione guidato
appunto da Bianchi. E lo stesso Nesbitt, tra l’altro, scrive l’elogiativa prefazione al volume, edito
due anni più tardi, che raccoglie i vari documenti (diari, lettere, relazioni) riguardanti quell’ultima
63
Cfr. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. II, La conquista dell’Impero, Roma-Bari, Laterza,
1979.
94
sfortunata spedizione.64 Carlo Zaghi, che del testo suddetto fu il curatore, si dimostra d’altronde
ottimo interprete delle contemporanee istanze politico-culturali promosse dal regime, dal momento
che non esita a giudicare Bianchi come indiscusso e precoce promotore di un’idea della
colonizzazione basata non sulle armi e la violenza, ma sulla lenta, paziente e tenace esplorazione,
senza imposizioni nei confronti delle popolazioni autoctone.
In realtà, a me pare piuttosto arduo poter rintracciare segni di una simile impostazione nell’opera
Alla terra dei Galla, cui l’autore consegna i ricordi legati alla spedizione compiuta a seguito del
Matteucci: né di certo la rielaborazione delle proprie memorie risponde semplicemente, come
vorrebbe il protagonista, al desiderio di riportare la realtà dei fatti per distruggere le «illusioni
perniciose».65 Pienamente consapevole del ruolo chiave svolto dalle relazioni di viaggio nello
scuotere l’ancor tiepida fiducia nei confronti dell’impresa coloniale nazionale, Bianchi non si esime
dal disegnare se stesso come un moderno eroe, che campeggia costantemente al centro della
narrazione. D’altronde, non mancano in essa elementi atti a suscitare l’entusiastica ammirazione del
lettore contemporaneo, opportunamente evidenziati dall’accorto scrittore. Prima di tutto, infatti,
quest’ultimo dimostra un intrepido coraggio nel rifiutare di tornare indietro insieme al capo della
spedizione, non lasciandosi deviare dal proposito di proseguire da solo attraverso il Paese dei galla.
Inoltre, se ce ne fosse bisogno, l’eccezionalità della sua impresa doveva essere ulteriormente
testimoniata dal successo nell’operazione di liberazione di Antonio Cecchi: la scena dell’incontro
sulle rive del fiume Abbai è infatti descritta e illustrata con chiara e voluta allusione al simile
episodio, avvenuto vent’anni prima sulle sponde del fiume Tanganica (nell’odierna Tanzania), che
aveva avuto come protagonisti il dottor David Livingstone, scomparso in Africa da alcuni anni alla
ricerca delle sorgenti del Nilo, e il giornalista Henry Morton Stanley, inviato sulle sue tracce dal
New York Herald, per cui lavorava.66 Se, tuttavia, il secondo è divenuto famoso come emblema
della stravagante imperturbabilità anglosassone, evidente nella pacata frase pronunciata da Stanley
nel momento dell’incontro con il connazionale (e tra l’altro frutto molto probabilmente di una
invenzione a posteriori del giornalista nel comporre le proprie memorie), Bianchi non rifugge dal
colorire l’episodio di un’aura di patetica drammaticità, enfatizzando gli sforzi compiuti da entrambi
per trattenersi dal gettarsi nel fiume incuranti dei pericoli derivanti dai coccodrilli e dalla forte
corrente.
D’altronde, se volessimo comunque ritenere in tutto e per tutto degno di fede il racconto del
viaggio, con le sue peripezie e i suoi frequenti momenti di tensione, e prendere alla lettera ogni
64
Carlo Zaghi (a cura di), L’ultima spedizione affricana di Gustavo Bianchi. Diari, relazioni, lettere e documenti
editi ed inediti, Milano, Alpes, 1930.
65
Gustavo Bianchi, Alla terra dei Galla, Milano, Treves, 1884, p. 1.
66
Henry Morton Stanley, How I found Livingstone. Travels, adventures and discoveries in central Africa. Including
an account of four months’ residence with Dr. Livingstone, New York, Scribner, Armstrong & Co, 1872.
95
affermazione dell’autore, egli non manca di formulare in modo esplicito le proprie considerazioni e
non dissimula in maniera sensibile quelle che sono le sue convinzioni. Il punto di partenza è ancora
una volta l’atteggiamento che abbiamo già trovato in Vigoni, e che come abbiamo detto Flaiano non
mancherà, settant’anni più tardi, di attribuire al proprio personaggio di romanzo: vale a dire
l’incomprensione per la mancante volontà di emulazione che gli indigeni dimostrano di fronte alle
innovazioni e migliorie tecniche apportabili dagli europei. Su questa scia, tuttavia, Bianchi compie
un passo ulteriore, nella misura in cui sembra comprendere il motivo di tale refrattarietà, e arriva a
renderne esplicito quello stesso corollario che in Vigoni era soltanto latente. Prima di tutto, infatti,
se gli abissini non esprimono interesse per la costruzione di abitazioni stabili o di moderne
infrastrutture è perché sono cose di cui non hanno mai avuto bisogno, la cui esistenza improntata
alla necessità può benissimo fare a meno, come d’altronde ha sempre fatto:
Essi non possono desiderare le cose di cui odono parlare dal momento che non sanno
comprenderne la necessità […] A che pro fabbricare case la cui costruzione, stando alle
proposte degli Europei, esige dei mezzi, del tempo e della fatica, mentre una capanna, fatta in
pochi giorni, con rami d’albero, e con un po’ di paglia, ripara egualmente dal sole e dalla
pioggia? […] Delle strade? Ma a che debbono servire le strade a popoli nati fra quelle
montagne, dannate all’obblio da tanti secoli? Essi le conoscono, palmo a palmo, abituati come
sono a correr giù pei dirupi, in mezzo a quelle gole, colla stessa agilità delle loro antilopi, e a
che possono servire le strade − essi pensano − se non a facilitare l’entrata in paese ai nemici?67
Traspare, da queste parole dell’esploratore, una coscienza chiara delle problematiche che la
millantata missione civilizzatrice si trova di fronte, così come una messa a nudo delle sue reali e
primarie intenzioni, celate dietro falsi propositi umanitari. Gli indigeni, per di più, non sono da
Bianchi considerati tanto ingenui da lasciarsi facilmente abbindolare dai progetti, tutt’altro che
disinteressati, ipotizzati dagli europei sul loro territorio: se non ne vedono la necessità, e tantomeno
il beneficio, è perché al tempo stesso fiutano il pericolo in essi contenuto. La loro è un’opposizione
«istintiva, […] latente, per così dire, sotto la forma semplice di idee primitive contro idee di
innovazioni inopportune, contro idee di civiltà»68, ma non per questo così difficile da comprendere
agli occhi dello scaltro italiano. E d’altronde, Bianchi non sembra farsi scrupoli nel replicare in
modo non del tutto sincero alla domanda dell’abissino volta a sapere se gli europei abbiano
intenzione di portare nel suo paese quei velocissimi carri a vapore di cui tanto ha sentito parlare.
Ché, se avesse dovuto dire tutta la verità, avrebbe dovuto ammettere che «il giorno in cui un carro
trascinato dal fumo attraverserà il vostro paese, questo sarà più bello, ma non sarà più vostro».69
In altre parole, quella forma forse ancora inconsapevole ma del tutto introiettata di eurocentrismo
che negli stessi anni portava Vigoni a stupirsi di fronte alla strenua difesa e al tenace attaccamento
67
Gustavo Bianchi, Alla terra dei Galla, cit., p. 11.
Ibid.
69
Ibid.
68
96
degli indigeni ai propri costumi − considerati appunto barbari − e alla loro apparente
incomprensione degli immensi benefici insiti in un eventuale processo di civilizzazione − le cui
modalità di attuazione non sono ancora materia di discussione − viene ora del tutto esplicitata nelle
sue immediate implicazioni: l’apporto di nuovi mezzi tecnici equivale chiaramente alla sottrazione
della terra ai suoi legittimi abitanti. La dissimulazione, dunque, serve ormai a poco nei confronti dei
diretti interessati, ben più coscienti di quanto si possa pensare del rischio cui vanno incontro, se è
vero che «tante altre cose, e l’ordine, e la pulizia, e le cure necessarie agli Europei, non valgono
certo, agli occhi di quei popoli, la semplicità dei loro costumi e la libertà di cui godono».70 Al
tempo stesso non è più possibile nascondersi dietro falsi atteggiamenti filantropici nemmeno nei
confronti dei lettori contemporanei: se la posizione assunta da Bianchi rappresenta davvero una
svolta tra quelle espresse dai viaggiatori di fine Ottocento, questa risiede proprio nel riconoscimento
e nella piena accettazione di quel ruolo di pioniere della conquista coloniale che sarà loro attribuito
solo retrospettivamente. Per questo motivo egli sente la necessità di mettere in luce la natura solo
anticipatrice e del tutto subordinata del compito svolto da lui stesso e da tutta quella schiera di
religiosi e uomini di scienza che hanno fino a quel momento rappresentato il principale contingente
umano arrivato dall’Italia:
La civiltà non è cosa che possa essere imposta da una o da cento spedizioni pacifiche di pochi
studiosi, commercianti, lavoranti o missionari che siano. Possono tali spedizioni rendere
servigi alle scienze, indicare le vie allo studio e al commercio − il che per noi è molto. Possono
far conoscere la nostra razza − ed è qualche cosa − ma che lascino dietro di loro tali
modificazioni da meritarsi dei capitoli intitolati primi elementi di civiltà, non lo dovete credere
a noi altri esploratori, e neppure credetelo ai signori missionari, cui dobbiamo talvolta qualche
risultato scientifico, ma nessuna civilizzazione.71
Difficile aspettarsi un giudizio più chiaro e perentorio, espresso attraverso alcuni concetti chiave su
cui vale la pena soffermarsi. Prima di tutto l’accento cade sulla qualità delle spedizioni che si
vorrebbero apportatrici di civiltà: è errato poter pensare che qualsiasi risultato effettivo possa essere
ottenuto in modo pacifico. L’uso della violenza viene dunque qui non solo pienamente legittimato,
ma persino richiesto in quanto necessario. L’intero passo è, inoltre, costruito dall’autore con
un’attenzione specifica ed esclusiva al contesto europeo da cui egli stesso proviene, nella cui ottica
vengono considerati obiettivi positivi da ottenere in Africa l’acquisizione di elementi utili allo
sviluppo dei commerci o la diffusione della conoscenza della razza bianca. Nessuno dei due può
tuttavia provvedere da solo a portare la civiltà nelle nuove terre. Ma cosa intende Bianchi per
civiltà? Quel concetto che finora abbiamo visto contrapporre genericamente a quello di barbarie,
senza per questo acquisire una più chiara connotazione, viene ora da lui direttamente associato alla
70
71
Ivi, p. 12.
Ibid.
97
nozione di violenza, in quanto unico strumento in grado di veicolarlo. Nello sviluppo coerente del
proprio ragionamento, infatti, egli passa subito a dimostrare l’inadeguatezza che, proprio ai fini
della civilizzazione, dimostrano le categorie cui l’Italia sembra fino a questo momento aver affidato
la propria missione in terra africana:
Ad essi dobbiamo studi, scoperte, e storie di viaggi, allorché sanno distinguersi come scienziati
e come viaggiatori […] Quindi nessuna modificazione radicale, nessun cambiamento di
abitudini, nessun elemento di civiltà […] Portate pure le croci a mille e a mille, se volete, fra le
tribù dei Galla. Impareranno ad adorarle, forse, ma non abbandoneranno le loro abitudini
selvagge, non cesseranno dall’uso barbaro di tagliare certe parti del corpo ai nemici vinti in
72
guerra.
Viaggiatori e missionari possono ottenere solo cambiamenti effimeri, destinati a essere annullati
alla fine della singola missione e a non lasciare alcuna impronta duratura sui popoli selvaggi. Ecco
allora che la formulazione di una proposta concreta di intervento in Africa deve necessariamente
partire da un presupposto di fondo:
Atteniamoci dunque una buona volta alla realtà: lasciamo in disparte le allucinazioni, gli
entusiasmi, i racconti dei poeti, e conveniamo che, per quei popoli, due solamente possono
essere i fattori di civiltà: il cannone, e le vere, estese, efficaci, conquiste commerciali.73
Questa affermazione si pone in maniera senza dubbio categorica e non lascia molto spazio a
speculazioni interpretative, tanto che non stupisce trovarla spesso citata, anche in forma del tutto
estrapolata dal proprio contesto di riferimento, all’interno di raccolte antologiche o di saggi critici
volti appunto a mettere in luce la precoce elaborazione di propositi di aggressione colonialistica
presente già nei resoconti odeporici di fine Ottocento. A noi interessa tuttavia vedere da vicino
anche lo specifico sviluppo concettuale che tale premessa assume nel testo di Bianchi: egli, infatti,
passa ad analizzare i pro e i contro di entrambe le direzioni indicate, finendo, come ci si
aspetterebbe, per prediligere la seconda. Ma è utile fermarsi un attimo a riflettere sulle motivazioni
che determinano tale scelta, per come esse vengono sapientemente articolate ed esposte dall’autore
stesso. Il passo, per quanto esteso, merita di essere riportato per intero, in quanto persino la
selezione delle parole da usare mi sembra interessante e tutt’altro che casuale:
Il primo mezzo è senza dubbio il più sbrigativo ma, a vero dire, è il meno consentaneo a quei
principi di libertà, di cui noi ci diciamo i sostenitori con tanta enfasi. Occorre poi che chi lo
adotta non dica di voler portare la civiltà unicamente per trovare un comodo pretesto ad altre
mire, ma che voglia, invece, portarla per davvero. Così il fatto della prepotenza potrà
mascherarsi alla meglio vestendo l’abito di una influenza benefica, la quale, però, a sua volta,
sarà sempre una cosa imposta, e non domandata certamente dai paesi conquistati.
Sicuro che il correre con le armi e con la forza per imporre ad altri quello che non è
domandato, sia pure una civiltà, è un delitto, ma ne sono stati commessi, registrati, applauditi
72
73
Ibid.
Ivi, p. 13.
98
tanti e tanti, e coronati persino d’alloro, che il mettersi a fare la filosofia sentimentale in
proposito è un volersi tirare addosso il ridicolo. Il mondo a me piace tale qual è, colle sue
brutture, colle sue bellezze, e colle sue bizzarrie; così, pur facendo le mie considerazioni, non
mi rifiuterei di far parte di una spedizione militare proponentesi il delitto d’andare in paesi
selvaggi ad imporre la sua civiltà perché, in ultima analisi, sarebbe più facile il venire a capo di
qualche cosa unendomi a tale spedizione, che fabbricare un altro mondo, meno pratico e più
sentimentale.74
Le proprie argomentazioni sono costruite dall’autore in maniera rigorosa, anche mediante il ricorso
ad alcuni accorgimenti stilistico-formali giocati con estrema perizia. Prima di tutto, il ragionamento
si snoda attraverso il continuo susseguirsi di strutture oppositive: se la violenza è di certo un mezzo
veloce di conquista, essa è però poco pertinente ai valori di libertà proclamati a gran voce dagli
stessi conquistatori. In secondo luogo, l’uso della violenza deve essere giustificato da alti propositi
“morali”, sembra di capire, e cioè dalla reale intenzione di portare la civiltà, non come pretesto per
fini meno nobili. Eppure, lo stesso intento di civilizzazione viene poi descritto come un
rivestimento esteriore atto a nascondere la reale prepotenza: non si tratta allora di un ulteriore
pretesto? E in effetti, a chiusura del primo paragrafo, l’autore riconosce che, per quanto si possa
tentare di indorare la pillola, resterà sempre l’ineludibile realtà di un’azione che viene imposta ad
altri, i quali non l’hanno affatto richiesta. È allora d’obbligo riconoscere, e Bianchi non si esime dal
farlo, che simile azione deve essere considerata a tutti gli effetti un “delitto”. Ma neppure questa
ammissione, per quanto drastica, porta nella direzione, che invano ci si aspetterebbe, del rifiuto e
della condanna: al contrario, essa spinge piuttosto al ridimensionamento della gravità
dell’operazione proprio in forza del suo inserimento in una categoria di cui fanno parte tante altre
azioni ugualmente biasimevoli eppure da più parti celebrate. L’appello definitivo è dunque
all’abbandono di un facile sentimentalismo a favore di una maggiore concretezza. Proprio in nome
di quest’ultima, infatti, l’autore arriva al punto focale cui tende tutta l’argomentazione precedente:
egli stesso, in ragione di quanto ha appena spiegato, sarebbe disposto a prendere parte in prima
persona a un simile “delitto”. Eppure, anche in questa sua finale ed esplicita presa di posizione, egli
sente il bisogno di manifestare se non altro una certa cautela. Ecco allora giustificati l’introduzione
della concessiva “pur facendo le mie considerazioni”, che in realtà, nella sua assoluta vaghezza, non
attenua poi molto la perentorietà della sentenza in cui è contenuta; così come l’uso della litote “non
mi rifiuterei” mira probabilmente al tentativo di smorzare quella che sarebbe la più ovvia
affermazione positiva “accetterei”. La considerazione conclusiva, poi, si inscrive nel segno di un
criterio di opportunità in base al quale, con uno scarto concettuale sagace ma solo apparentemente
coerente, l’impresa di civilizzazione, sia pure condotta con la forza, si pone come unica alternativa
all’utopica creazione di un mondo nuovo, bello quanto si vuole ma basato solo sulle parole e privo
74
Ibid.
99
di fattualità. Infine, illuminanti anche la scelta e la disposizione dei singoli termini all’interno dei
due paragrafi: la parola “civiltà” ricorre ben tre volte, la prima delle quali associata all’idea di
“pretesto”, e le altre due collegata direttamente, come abbiamo visto, al concetto di “delitto”:
dunque anche la selezione lessicale e l’accorta costruzione stilistica contribuiscono a indirizzare nel
senso del rifiuto a proporre un’immagine idealizzata, ma priva di effettivi riscontri con la realtà,
della missione civilizzatrice che andrebbe compiuta in Africa.
Al tempo stesso, in linea con quell’impostazione eurocentrica che abbiamo già sottolineato in
apertura, coloro che di tale missione dovrebbero pagare le spese − o beneficiare, a seconda dei punti
di vista − rimangono nettamente sullo sfondo. Anche quando la loro presenza deve essere per forza
di cose evocata, in un modo o nell’altro essi vengono comunque privati di qualsivoglia peculiarità o
specificità: solo una volta genericamente indicati come “altri”, nelle due occorrenze successive essi
vengono ancor più semplicemente assorbiti nella realtà geografica di cui fanno parte,
implicitamente designati dunque, senza che si senta il bisogno di nominarli, attraverso il riferimento
a quei paesi a loro volta qualificati solo in quanto oggetto di conquista o, con evidente allusione alla
popolazione che li abita, come “selvaggi”.
In altre parole, Bianchi dimostra qui senza infingimenti quelle che sono le sue convinzioni ed è
pertanto certamente corretto, come ha fatto la critica, vedere nella sua testimonianza una forte
accentuazione di consapevolezza ma anche di aggressività rispetto alle posizioni di altri viaggiatori
ottocenteschi che abbiamo già nominato. Al tempo stesso, tuttavia, se ho voluto prestare attenzione
anche alla costruzione retorica del discorso dell’esploratore è perché mi preme, ai fini di un
migliore inquadramento generale di questo mio lavoro, sottolineare come a questa altezza
cronologica sia ancora voluta, e forse necessaria, una certa prudenza di giudizio e di espressione,
nella quale Bianchi si dimostra d’altronde maestro. Prudenza che, come vedremo più avanti, non
sarà appannaggio di coloro che si troveranno a viaggiare in Africa nel momento in cui l’operazione
di conquista sarà già stata avviata con maggiore decisione, e per i quali l’uso della violenza non sarà
più considerato materia di discussione.
Ma veniamo alla seconda modalità proposta per la penetrazione in Africa, che come abbiamo
detto l’autore finisce per prediligere, e che consisterebbe nella creazione di colonie agricole
commerciali. La formulazione di una simile ipotesi si distingue nel contemporaneo panorama dei
resoconti di viaggio per il suo elevato e precoce tasso di concretezza: non è usuale, infatti, che i
viaggiatori italiani di fine Ottocento si prodighino già in specifici piani di effettiva espansione, per
il momento, come abbiamo visto, più inclini a osservare e a fornire descrizioni, accompagnate
eventualmente da annotazioni scientifiche, che non propensi, nell’attuale clima di incertezza sociale
e di governo, a indicare specifiche strade di penetrazione. Bianchi, al contrario, addita con chiarezza
100
i punti focali di quella che ritiene essere la via migliore attraverso cui dare avvio e
progressivamente stabilizzare la presenza italiana nel continente africano:
È questo il sistema più razionale per quanto possa parere meno facile e meno speditivo.
Abbiamo la volontà, lo slancio intraprendente e il coraggio di colonizzare paesi ove nulla si
trova perché tutto è da fare […] e col lavoro necessario alle nostre imprese, porteremo
l’influsso benefico della civiltà senza ricorrere alla violenza […] Più estese saranno le
pacifiche conquiste del commercio, minore sarà il tempo necessario a dare quel primo impulso
benefico, che non provoca reazione, perché inoffensivo.75
Studiata e perspicace anche qui la costruzione del paragrafo, che torna ad insistere su quelle
categorie concettuali appena esposte, caricandole tuttavia di sottili ma significative varianti.
Speculare al precedente è l’incipit del ragionamento, per cui a una qualificazione positiva −
caratterizzata cioè dal segno “più” − viene contrapposta una negativa. Ma, come avveniva anche
sopra, il segno “meno” è più apparente che reale: se prima gli scrupoli di coscienza venivano infatti
velocemente messi a tacere dai principi del realismo e dell’opportunità, in questo caso difficoltà e
lentezza sono ostacoli senza dubbio aggirabili da chi, come gli italiani cui si fa appello, possiede
doti di volontà, coraggio e intraprendenza. Ancora più interessante è, però, lo slittamento che
subisce nel giro di poche righe la concezione di “influenza benefica”, che già compariva nel
paragrafo analizzato in precedenza e che qui ritorna ben due volte. Di fronte alla proposta di
un’invasione violenta, ad essa veniva affidato il ruolo di velare, in qualche modo, l’atto comunque
illecito, pur restando irrimediabilmente qualcosa di inflitto in maniera del tutto gratuita e non
richiesta. Qui, al contrario, lo stesso “influsso benefico” viene improvvisamente privato di quel suo
carattere ambiguo, in forza, sembrerebbe, della sua associazione non più alla violenza, bensì al
commercio pacifico. Insomma, anche in questo caso il discorso di Bianchi, apparentemente
limpido, finisce per creare un corto circuito che non può sfuggire a un’analisi non troppo
superficiale, e di cui probabilmente l’autore stesso era cosciente. L’indicazione ad astenersi da
comportamenti violenti non è dettata, come forse a questo punto non dovremmo più nemmeno
essere tentati di supporre, da un risveglio di sentimenti umanitari o da una nuova preoccupazione
per la popolazione da sottomettere. E d’altronde così non potrebbe essere, dal momento che non si
può fare a meno di riconoscere al nostro autore una persuasiva coerenza di argomentazione: nel
momento in cui, dunque, l’uso della violenza viene accantonato in favore di altri metodi più
proficui − e non, si badi bene, preferibili di per sé, in astratto − questo non vuol dire che la prima
formulazione venga a cadere; essa viene semplicemente relegata al secondo posto in una ipotetica
scala di efficienza colonizzatrice. Infine, è chiaro che a beneficiare di questo secondo metodo sono,
nell’ottica di Bianchi, ancora una volta gli europei, in quanto sempre con la stessa incrollabile
75
Ivi, pp. 13-4.
101
coerenza tutto viene angolato da questa precisa prospettiva: ecco allora che l’instaurazione di
colonie commerciali è preferibile in quanto, essendo di per sé esente da violenza, non suscita
reazione e dunque finisce, a conti fatti, per risultare più semplice e rapida per l’europeo che la
applica.
L’unica forma di violenza contemplata è, ovviamente, quella fisica: nella totale rimozione dal
quadro appena tracciato dell’elemento umano indigeno, di certo non può esserci alcuno spazio per
la considerazione della violenza morale che, in entrambi i casi, esso sarà sempre costretto a subire.
Al contrario, nella chiusura del brano Bianchi sembra lasciarsi prendere un po’ la mano, e aprirsi lui
stesso, finora sempre misurato e concreto, a una visione che presenta innegabili caratteri utopici,
soprattutto nella rappresentazione di una comunità ideale realizzata in colonia grazie al prezioso
esempio di lavoro offerto dagli europei:
Il continuo lavoro degli Europei, il loro contegno tranquillo e riservato, la benevolenza verso
chi tace, osserva e rispetta, e la stessa difesa contro gli aggressori, insegneranno a quei popoli
un primo culto al lavoro, e il rispetto al bene, all’utile ed alle proprietà.
L’esempio solo farà nascere in loro idee che ora non hanno, e sentiranno il bisogno
dell’operosità, perché impareranno a desiderare […] poco a poco il desiderio si farà vivo in
tutti; i bisogni cresceranno; le masse dovranno scuotersi dall’abbrutimento in cui giacciono,
attirate dall’idea del guadagno. I ricchi dovranno farle lavorare per soddisfare alle nuove
necessità; centri di operosità sorgeranno per ogni dove; e dal seno di quelle mute foreste, e dal
mezzo di quelle plaghe feconde, oltraggiate dall’abbandono, attività, lavoro e vita si
manifesteranno là dove tutto tace, sì che par morto.76
L’autore intende qui chiaramente disegnare un’immaginaria parabola di ascesa e incivilimento che
inevitabilmente interesserà i popoli poco prima definiti “selvaggi” quando si troveranno finalmente
a contatto con il vero germe della civiltà europea. Si tratta, è chiaro, di una costruzione del tutto
ipotetica, che ancora una volta − come già in Piaggia e in altri − fa appello a qualità idealmente
connesse alla generica e quanto mai astratta categoria degli “europei”, ma spesso quanto mai prive
di effettivi riscontri nella realtà. La comunità agricola-commerciale destinata a impiantarsi in
colonia dovrebbe prima di tutto possedere le doti fondamentali di serietà nel lavoro e di riserbo
caratteriale da instillare poi, a sua volta, negli indigeni. In secondo luogo, fattore ancora più
importante, saprebbe esercitare un contegno benevolo nei confronti di questi ultimi, i quali vengono
indicati ora da Bianchi con una significativa perifrasi, che da sé vale a delimitare e indicare il
campo d’azione. Quanto appena prospettato, in altre parole, è valido per “chi tace, osserva e
rispetta”, con evidente ma implicita esclusione di coloro che sceglieranno di non allinearsi ai
dettami del più forte. E c’è di più: quello che paradossalmente la presenza europea dovrebbe essere
in grado di garantire ai popoli che vivono su terre di loro legittima proprietà è la difesa da
76
Ivi, p. 14.
102
aggressioni esterne, come se tale non dovesse essere considerata quella che si raccomanda agli
stessi europei di mettere in atto.
E in cosa consisterebbero, in fondo, i concreti benefici apportati dalla tanto declamata civiltà?
Non si parla, come potremmo pensare, di miglioramenti pratici e materiali; o meglio, essi vengono
solo accennati in quanto conseguenza naturale e secondaria di quella che viene invece additata
come una fondamentale e radicale modificazione di atteggiamento che, sull’esempio europeo,
verrebbe a caratterizzare l’indigeno in colonia. A questo proposito Bianchi introduce la nozione
interessante di “desiderio”: non servirà a nulla, cioè, portare nelle nuove terre strumenti tecnici più
sofisticati, o costruire strade, o sviluppare l’agricoltura, fintantoché i loro abitanti non sentiranno la
necessità di avere tutte queste cose. Solo instillando in essi il desiderio e facendo sorgere bisogni
dove prima non ce n’erano si potranno ottenere i risultati sperati, prima di tutto per se stessi, e poi
anche per quelle “masse” che finalmente potranno sollevarsi dallo stato animale in cui si trovano. Il
ragionamento dell’esploratore italiano dunque, partito da premesse che potevano sembrare ingenue
e sostanzialmente in linea con quelle finora riscontrate in altri viaggiatori dello stesso periodo, si
carica progressivamente di una sottigliezza tutt’altro che scontata. Esso è soprattutto illuminante per
noi dal punto di vista della precoce consapevolezza dei meccanismi ideologici e culturali che stanno
dietro al processo di colonizzazione: Bianchi arriva infatti non solo a spingere per un’azione, com’è
ovvio, pratica e concreta, ma anche a sostenere la necessità di ottenere, attraverso appunto un
esempio che sia capace di stimolare l’immaginazione dell’indigeno, una forma almeno parziale di
consenso da parte di quest’ultimo. Lo stesso abbandono della condizione di “abbrutimento”,
immancabilmente associata all’indistinta massa indigena (all’interno della quale non sono
pressoché mai isolate dall’autore singole individualità), viene subordinato a un atto di volontà da
parte della stessa; atto di volontà che però, a sua volta, può in quest’ottica scaturire soltanto dopo
aver inculcato in essa una nuova considerazione per la categoria concettuale del profitto.
In questo senso, allora, acquistano evidenza maggiore le considerazioni di Cristina LombardiDiop, la quale attribuisce a Bianchi l’incomprensione della reciprocità del sistema di scambio di
doni vigente tra le tribù indigene, testimoniata anche dal fatto che egli mostra di provare solo noia
di fronte alle continue richieste di regali. Eppure, forse sarebbe più giusto parlare di
un’incomprensione strumentale, studiata e volontaria, volta a rinnegare valori non più condivisibili.
Torna infatti alla mente, per analogia, lo stupore di Cristoforo Colombo di fronte all’apprezzamento
che gli indiani d’America dimostrano nei confronti di qualsiasi oggetto egli sia pronto a scambiare
con loro: «Quale che sia l’oggetto che viene dato loro in cambio» scrive in una lettera a Santángel
del febbraio-marzo 1493 «e quale che sia il suo valore, valga esso molto o sia cosa di poco prezzo,
103
essi sono contenti».77 Si tratta, in questo caso davvero, del totale misconoscimento da parte del
viaggiatore europeo, chiuso in un orizzonte prospettico esclusivamente eurocentrico, della natura
del tutto convenzionale dei valori associati alle merci, per cui «un diverso sistema di scambio
equivale, per Colombo, a mancanza di sistema, e ciò lo porta a concludere che gli indiani sono delle
bestie».78 Un po’ azzardato mi pare, tuttavia, attribuire a Bianchi quella stessa ingenuità che è, se
non condivisibile, per lo meno comprensibile nel contesto del primo contatto con popolazioni non
solo mai viste prima, ma del cui intero continente fino ad allora si ignorava del tutto l’esistenza.
Quattro secoli sono trascorsi da quel momento, e qualche nozione etnografica, sia pure abbozzata e
imprecisa, circolava di certo a fine Ottocento sulle popolazioni africane. Se dunque l’atteggiamento
di fastidio provato da Bianchi, peraltro comune alla maggior parte dei viaggiatori in Africa, non può
forse bastare a testimoniare una sua totale ignoranza degli usi di tipo economico-commerciale
vigenti nelle tribù che incontra, esso riesce bene tuttavia, supportato da passi come quello che
stiamo analizzando, a persuaderci del fatto che, come dice ancora la Diop, egli abbia elaborato
almeno in nuce un piano politico a lungo termine, inteso ad agire sugli Africani anche dal punto di
vista ideologico, per farne consumatori di prodotti italiani.79
L’entusiastica climax ascendente che sostiene tutto il paragrafo citato trova il suo culmine e il
suo compimento nella proposizione finale, in cui si prospetta, attraverso una quanto mai fervida
potenza immaginatrice, un prossimo futuro di pace e prosperità per le nuove colonie italiane in
Africa. I ricchi, il cui colore della pelle non viene specificato ma che ci sembra scontato
immaginare bianchi, metteranno a lavorare quelle stesse masse indigene miracolosamente divenute
benevole e improntate dall’esempio a una nuova operosità; solo così potrà trovare adempimento
questa sorta di “rivoluzione” prospettata da Bianchi in grado di mettere a frutto le innegabili doti
del territorio africano altrimenti destinate a restare solo potenziali. In altre parole, pur evitando di
esprimersi in modo troppo scoperto, l’autore non rinuncia a trasmettere con forza il proprio
messaggio ideologico: solo l’avvento dell’uomo europeo può salvare e redimere queste terre che
giacciono nell’abbandono. Una simile formulazione è d’altronde perfettamente inquadrabile in un
tentativo di conciliazione di esigenze di propaganda e di giustificazione che già Francesco Surdich
ha individuato come tipico della letteratura di viaggio coloniale:
Da un lato […] nelle relazioni di esploratori, conquistatori, missionari, funzionari coloniali
ecc., veniva dato largo spazio alla ricchezza ed alle possibilità di sfruttamento e di larghi
profitti che avrebbero potuto offrire le terre ancora da colonizzare […] dall’altro si tendeva
invece a sottolineare sempre la crudeltà, l’irreligiosità, la pigrizia e l’indolenza, l’inciviltà in
genere delle popolazioni indigene e a teorizzare e a legittimare di conseguenza un intervento
77
La citazione del testo di Colombo è tratta da Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, cit., p. 46.
Ibid.
79
Cfr. Cristina Lombardi-Diop, Gifts, sex, and guns…, cit.
78
104
rigeneratore dei conquistatori, i cui principi etici, sulla base dei quali venivano emanate tali
condanne, coincidevano sempre perfettamente con i loro interessi e precisamente con la loro
fame di terra, di materie prime e di forza lavoro a basso prezzo.80
Nel nostro caso specifico, Bianchi riesce a far passare lo stesso tipo di messaggio condensandolo in
rapide espressioni particolarmente pregnanti. Le potenzialità del paesaggio africano sono evocate
mediante il semplice accostamento dei due sintagmi “mute foreste” e “plaghe feconde”, posizionati
in chiasmo con una evidente attenzione all’aspetto anche retorico-letterario del passo. Inoltre, i
difetti generalmente attribuiti agli indigeni vengono in questo caso dall’autore, più che direttamente
nominati, lasciati intendere proprio per assenza e attraverso l’immagine del loro capovolgimento in
seguito all’intervento europeo: se il paesaggio, dunque, è talmente silenzioso che sembra privo di
vita, a tal punto è letteralmente “oltraggiato” dall’abbandono in cui i suoi abitanti lo tengono, esso
potrà senza dubbio risorgere a nuova vita quando affidato alle mani esperte dei bianchi civilizzatori.
Surdich, d’altronde, coglie in pieno anche quelli che dovevano essere gli specifici interessi
economici, più o meno celati dietro vaghi principi umanitari, per come essi traspaiono appunto dalle
parole di Bianchi: egli infatti, come abbiamo visto, non a caso insiste proprio sull’importanza della
forza lavoro indigena asservita alle esigenze produttrici dei prossimi conquistatori capitalisti, i quali
solo sfruttando la manodopera locale potranno arrivare a trarre dalla terra africana i profitti tanto
agognati.
Prima di chiudere dunque questa lunga digressione riflessiva e tornare più da vicino alla
narrazione del proprio viaggio, l’autore ribadisce la propensione per la seconda delle due modalità
di penetrazione proposte e ne chiarisce di nuovo le motivazioni. Egli ritorna sostanzialmente, pur
con sottili varianti, sugli stessi concetti-chiave, e tuttavia, se ce ne fosse ulteriore bisogno, mira tra
le righe a sottolineare ancora meglio la propria posizione:
Tali cose non procederanno velocemente come una palla da cannone, ma i risultati saranno di
gran lunga superiori. Saranno l’effetto d’un’azione graduata e pacifica, e non di una scossa
subitanea e violenta. Riusciranno maggiormente vantaggiosi a noi e più efficaci per quei
popoli, che, dinanzi ai primi raggi di civiltà, contenti s’inchineranno come dinanzi ad un
beneficio, e non si piegheranno impotenti come sotto un’oppressione. Che se, riusciti nel
nostro intento, vorremo domandarci un giorno se quei popoli erano più felici prima della
nostra civiltà, in caso di risposta affermativa di qualche discepolo di Gian Giacomo Rousseau,
non avremo a rimproverarci, se non altro, d’averla imposta loro con la forza.81
L’astensione dalla violenza, fisica se non altro, a favore di una lenta introduzione di nuovi principi
economici e realtà commerciali, comporterà ovviamente una più lunga attesa per la realizzazione
dei propri progetti. Tuttavia, tra le due parti in gioco, il vantaggio maggiore derivante dalla
prospettata penetrazione pacifica spetterebbe senza alcun dubbio all’eventuale colonizzatore. Prima
80
Francesco Surdich, La donna nell’Africa orientale nelle relazioni degli esploratori italiani 1870-1915, in
Miscellanea di storia delle esplorazioni, IV, 1979, pp. 193-4.
81
Gustavo Bianchi, Alla terra dei Galla, cit., p. 14.
105
di tutto, infatti, egli otterrebbe più facilmente l’obbedienza degli indigeni, ingannati, verrebbe da
dire, dall’apparente benevolenza degli oppressori. D’altronde, ancora una volta Bianchi si dimostra
oltremodo perspicace ed attento nella scelta dei termini, di nuovo strutturati a formare un chiasmo
sintattico: di fronte ai colpi di cannone, gli indigeni non potrebbero fare altro che piegarsi alla
volontà del più forte, “impotenti” appunto a tentare qualsiasi reazione; persuasi invece in qualche
modo dei benefici apportati dalla nuova civiltà, essi, “contenti”, faranno grati un inchino al
benefattore. Significativa, in quanto consapevolmente adeguata all’intero messaggio che si vuole
veicolare, mi pare l’immagine qui condensata, che prevede la persistenza, sia pure nella descritta
opposizione tra due ipotesi diverse, di una medesima posizione assegnata all’indigeno: sia che
venga costretto con la forza sia che venga convinto dall’esempio pacifico, egli in ogni caso si
troverà inginocchiato, e dunque in evidente posa di sottomissione, di fronte al nuovo arrivato, poco
importa, dal nostro punto di vista, se lo farà a seguito di una scoperta oppressione o dell’apporto di
un presunto beneficio, comunque non richiesto.
Ma c’è un’altra ragione, definitiva a quanto pare, che dovrebbe far propendere senza
ripensamenti per la colonizzazione commerciale, ossia il fatto che essa fornirà, una volta portata a
compimento, una facile auto-assoluzione nel caso in cui non fosse in grado di dimostrare gli
effettivi miglioramenti realizzati. Può suonare un po’ curiosa, in realtà, una tale affermazione posta
a conclusione di tutto il discorso, la quale getta inevitabilmente su di esso un’ombra di dubbio: dopo
numerose righe, come abbiamo visto, vibranti di propositi altisonanti e di piena fiducia nella
missione da compiere, si apre la possibilità, mai prima accennata, del fallimento. In realtà, il tono
con cui Bianchi chiude la sua tirata è quanto mai ironico: i suoi lettori non potrebbero mai davvero
pensare che gli indigeni stessero meglio come stanno ora, dopo che lui stesso li ha descritti più
simili alle bestie che agli uomini, abbrutiti dall’inerzia in una sorta di dantesco “torpore
animalesco”. La sua notazione, al contrario, mira solo a mettere in ridicolo − e a rigettare
apertamente − qualsivoglia reminescenza o addirittura adesione alle teorie rousseauiane sul buon
selvaggio: e mi sembra che questo esplicito richiamo finale alle discussioni già tardo-settecentesche
sull’opposizione natura-cultura, cui abbiamo accennato in apertura del capitolo, conduca sempre
nella direzione (opposta a quella di una sua presunta ingenuità) di una certa maturata
consapevolezza da parte di Bianchi delle dinamiche culturali e ideologiche connesse al problema
della colonizzazione. D’altronde, l’autore si dimostra anche altrove nettamente schierato, nel
binomio civiltà-natura, a favore della prima, che può essere solo prodotto dell’intervento, sulla
seconda, dell’uomo; ma dell’uomo bianco, evidentemente. Non a caso solo laddove è arrivato
l’europeo si notano inequivocabili i segni dell’evoluzione, per cui Massaua, «per quanto inferiore di
gran lunga all’agitazione e alla grandezza affascinante dei centri nostri, ricorda sempre i vantaggi
106
della civiltà». Non appena, invece, ci si addentra in terre ancora non trasformate dall’apporto civile,
è la natura che prende il sopravvento, e l’unica presenza umana è quella di popoli che non sanno
«veramente come si viva una vita superiore a quella dei bruti».82
2.6 Il “paese degli aromi” di Robecchi-Bricchetti
Gli abissini, ad ogni modo, non sono l’unica popolazione con cui i viaggiatori italiani
dell’Ottocento entrano in contatto. Non solo, come abbiamo già visto, alcune spedizioni si spingono
più nell’interno, orgogliose di poter rivendicare a se stesse il primo incontro con tribù pressoché
ignote, come quella degli azande, appunto, o dei dancali; esploratori si dirigono anche, com’è
naturale, nelle regioni dell’Egitto e del Sudan, limitrofe a quelle su cui andava consolidandosi
l’interesse nazionale, e già più o meno entrate nell’orbita di potere dell’impero britannico.83 Inoltre,
proprio a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento prende avvio la penetrazione dell’Italia nell’area
somala, condotta grazie ad accordi con l’Inghilterra (che costituisce la Somalia britannica nel 1884)
e con il sultano di Zanzibar. Ufficialmente, tuttavia, solo la zona meridionale, il Benadir, diviene
dominio diretto e va a costituire la Somalia italiana, con capitale Mogadiscio, cuore della stessa
emigrazione italiana. Nella parte più settentrionale della penisola l’Italia si limita a stabilire, almeno
per il momento, protettorati, in particolare sui sultanati di Obbia e dei Migiurtini. E proprio a questo
clima di incipiente interesse per le concrete possibilità di espansione sul territorio si collegano,
com’è prevedibile, le prime spedizioni esplorative italiane nella regione, non a caso patrocinate
dalla Società geografica italiana, e dunque implicitamente rivestite di un certo carattere
istituzionale.
Al 1890 risale il viaggio dell’ingegnere Luigi Robecchi-Bricchetti, non del tutto inesperto di
“cose africane” per aver già attraversato due anni prima la regione interna dell’Harrar84, nella parte
orientale dell’Etiopia, appena occupata dalle truppe di Menelik. La regione del Bahr-es-Somal,
tuttavia, si presentava agli occhi dell’esploratore dotata di un fascino particolare, derivante dal fatto
di non essere stata ancora esplorata e dunque di offrirsi potenzialmente “vergine” allo sguardo
curioso, e ovviamente giudicante, dell’europeo. Non a caso Bricchetti stesso, dopo questa sua prima
esperienza, si recherà nuovamente nella medesima zona solo un anno dopo, per appoggio diretto
non solo della Società geografica, questa volta, ma anche dello stesso governo italiano. E questo
secondo viaggio in Somalia, d’altronde, anch’esso come i due precedenti testimoniato al rientro
82
Ivi, p. 23.
L’intervento inglese in Egitto, nel 1882, ne sancisce l’autonomia dall’impero ottomano e la trasformazione in
protettorato inglese; il Sudan, facente parte del regno egiziano, diviene anglo-egiziano, per imposizione del governo
britannico, nel 1899.
84
Cfr. Luigi Robecchi-Bricchetti, Nell’Harrar, Milano, Galli, 1896.
83
107
attraverso la messa per iscritto delle proprie memorie85, garantirà al suo protagonista una certa
notorietà in quanto gli permetterà, primo tra gli europei, di compiere la traversata dell’intera
penisola somala, da Mogadiscio appunto fino a Berbera. Notorietà testimoniata tra l’altro anche dal
notevole successo editoriale dell’opera stessa, che già nel 1902 raggiungerà la decima edizione,
ulteriore prova del fatto che «egli contribuì a plasmare l’opinione pubblica con i suoi scritti e
discorsi, anche grazie a un indubbio talento descrittivo e a una formazione letteraria che lo soccorre
nel forgiare immagini seduttive».86
Vale la pena, nel nostro contesto, di trarre almeno qualche riferimento dall’opera cui l’autore
consegna le prime impressioni ricevute da quella regione che dà il titolo al volume stesso,
denominata appunto “Paese degli aromi”, già Aromatica Regio per i romani, in quanto, come spiega
lo stesso Bricchetti nel testo, la distingue «una particolarità notevolissima: tutte le piante, dai
ramoscelli nani alle più alte, si distinguono per uno spiccatissimo carattere aromatico».87 Va da sé
che gran parte del fascino da cui il viaggiatore si sente compenetrato derivi dalla profonda e del
tutto nuova immersione in una natura che in questo caso, appunto, non solo confonde con la malia
delle sue tinte e la maestosità della sua vegetazione, ma anche stordisce con la varietà delle sue
fragranze. Ma sull’aspetto del paesaggio e delle sue molteplici declinazioni mi riprometto di tornare
più avanti. Restiamo ancorati, per ora, al motivo dell’opposizione tra civiltà e barbarie da cui siamo
partiti, il quale d’altronde non manca anche qui, pur nel suo sostanziale adeguamento ai modelli che
abbiamo in queste pagine delineato, di aprire il campo a qualche riflessione ulteriore.
Se, in parte a ragione, Gustavo Bianchi viene in genere considerato il più “audace” nelle
proposte di espansione tra i viaggiatori della sua generazione, quando Robecchi-Bricchetti si
imbarca a Brindisi alla volta di Porto Said sono già trascorsi dieci anni dal tempo in cui Bianchi
esplorava la terra dei galla, e sei da quando egli stesso cadeva vittima dell’agguato dei dancali. Non
posso esimermi, dunque, dall’aprire una breve parentesi storica, necessaria ai fini di un più chiaro e
corretto inquadramento dei testi letterari che andiamo ad affrontare. Nel 1887 la colonna militare
italiana comandata dal colonnello De Cristoforis, mossasi per portare rifornimenti ad altri soldati
connazionali asserragliati nel fortino di Saati, era stata sorpresa sulla strada e interamente abbattuta
presso il colle di Dogali dagli etiopi guidati da Ras Alula, generale del Negus d’Etiopia Giovanni
IV, ostile alla penetrazione italiana. La notizia dell’eccidio di Dogali aveva creato grande scalpore
nell’opinione pubblica italiana, che in realtà poco o nulla sapeva fino ad allora di quanto avveniva
sullo scenario africano, e inevitabilmente spinto il Parlamento a una presa di posizione più decisa
85
Cfr. Id., Somalia e Benadir. Viaggio di esplorazione nell’Africa orientale. Prima traversata della Somalia
compiuta per incarico della Società Geografica Italiana, Milano, Carlo Aliprandi, 1899.
86
Laura Ricci, La lingua dell’impero, cit., p. 76.
87
Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel Paese degli aromi. Diario di una esplorazione nell’Africa Orientale, Milano,
Tipografia Editrice Cogliati, 1903, p. 79.
108
sulla questione. Oltre a porre l’accento, dunque, sull’eroismo dei combattenti italiani, che a lungo e
con coraggio avevano resistito all’assalto dei nemici, Francesco Crispi, succeduto nello stesso anno
ad Agostino Depretis alla Presidenza del Consiglio, aveva avviato una politica coloniale nettamente
più aggressiva, «pronto persino a svincolarsi dalla tutela britannica e a sostenere
contemporaneamente progetti anche opposti».
88
L’opposizione fondamentale (e d’altronde
caratteristica, nelle sue linee generali, dell’imperialismo europeo tout court) era quella tra la
posizione dei reparti militari, insediati a Massaua, sostenitori di un’avanzata sull’altipiano abissino
verso il Tigrè, ossia la regione dell’Etiopia confinante con l’Eritrea, e quella diplomatica, volta a
disgregare l’unione dell’impero etiopico dando sostegno allo scioano Menelik (riassumibile come
dialettica tra linea tigrina e linea scioana). Nel 1889, alla morte del negus Giovanni, Crispi aveva
appoggiato l’ascesa al trono di Menelik II nella lotta dinastica sorta tra i vari ras; nello stesso anno,
poi, era riuscito, in virtù di un calcolato malinteso linguistico orchestrato dall’astuto esploratore
Pietro Antonelli, a far firmare al nuovo imperatore il trattato di Uccialli, che sanciva il
riconoscimento del protettorato italiano su Abissinia e Somalia. «Fatto sta che fu nell’eccitazione e
nella retorica crispine che, il 1° gennaio 1890, i Reali possedimenti d’Africa venivano rinominati
Colonia Eritrea».89 Già l’anno successivo, tuttavia, l’intenzione di aumentare i finanziamenti per
l’impresa africana aveva suscitato proteste all’interno dello stesso Parlamento e aveva scritto la
parola “fine” al primo ministero guidato da Crispi, inaugurando una fase di profonda incertezza
destinata a culminare in una nuova, e ancora più pesante, disfatta.
Un simile background storico-politico è dunque evidentemente presupposto, e come tale va
conosciuto e tenuto presente, nel resoconto che Robecchi-Bricchetti redige alcuni anni dopo, per la
verità, il rientro da questo suo primo viaggio in Somalia del 1890. Anche se, in effetti, la Somalia
rimane un po’ sullo sfondo rispetto alle vicende che abbiamo brevemente richiamato, è naturale che
esse vadano tuttavia a influire, in maniera più o meno consapevole, sull’atteggiamento di quanti
intraprendono, nello stesso convulso periodo, spedizioni in terra africana, peraltro ormai sempre più
spesso dotate di una certa forma istituzionale. Quando allora Bricchetti si dichiara, già nelle prime
pagine del proprio testo, favorevole a una penetrazione di tipo commerciale piuttosto che ad azioni
militari condotte in nome della violenza, le sue indicazioni, apparentemente riconducibili sullo
stesso piano di quelle di Bianchi, acquistano in realtà una sfumatura differente:
Quando il nostro Governo, invece di colonizzazioni armate, per le quali l’Italia ha dato largo e
doloroso tributo di sangue e di danaro, vorrà, e mi auguro sia presto, avviare pacifici e proficui
commerci su queste cose africane, sarà necessario fare in piccolo ed in un’unica occasione, ciò
che l’Inghilterra, maestra in proposito, compie quotidianamente: costruire intorno
88
89
Nicola Labanca, Oltremare, cit., p. 71.
Ivi, p. 73.
109
all’insenatura di Obbia una diga, la quale darà un facile approdo ed un sicuro asilo alle
imbarcazioni.90
L’intervento militare viene qui rigettato in base a considerazioni senza dubbio meno articolate e
sofisticate di quelle di Bianchi, legate però direttamente ai recenti avvenimenti: non si tratta più,
cioè, di pure speculazioni del pensiero, ma di circostanze reali il cui impatto a livello psicologico,
oltre che pratico, non può essere passato sotto silenzio. Anzi, l’autore si dimostra in questo caso
volutamente diplomatico, proprio nella misura in cui l’eccidio di Dogali, il cui ricordo rimarrà come
uno spettro nelle memorie degli italiani per lungo tempo, viene solo accennato, e nemmeno
nominato direttamente. L’allusione è comunque chiara: l’Italia ha già versato abbastanza sangue
nell’impresa coloniale, tanto che dovrebbe prendere spunto dall’Inghilterra e dedicarsi piuttosto al
consolidamento dei traffici commerciali. D’altronde, non sono solo le vite umane a essere state
sacrificate, bensì le vicende africane hanno gravato notevolmente anche sulle finanze del neo-nato
Stato italiano: la questione dell’investimento di denaro pubblico per consolidare i domini
d’Oltremare diviene, in effetti, di prim’ordine in questi stessi anni, tanto da andare a incidere, come
abbiamo visto, sulla fortuna politica di Crispi, e da diventare motivo fondamentale nella futura
amministrazione civile delle colonie.91
L’insistenza sull’aspetto commerciale di una eventuale colonizzazione è, ad ogni modo e
contrariamente a quanto si potrebbe d’istinto pensare, tutt’altro che ingenuo o innocuo; al contrario,
esso funge da pretesto utile a sottolineare del pari la necessità di un intervento di matrice europea,
nella misura in cui alle ricchezza e potenzialità di sviluppo della Somalia fanno riscontro
l’ignoranza e la ristrettezza di vedute della sua popolazione. Siamo tuttavia di fronte a un sottile
scarto ideologico rispetto al meccanismo che abbiamo visto utilizzare da Bianchi, e adeguatamente
descritto da Surdich. La luce della redenzione apportata dalla civiltà europea non viene in questo
caso immaginata come costretta a operare su un terreno arido, a imporsi su una tabula rasa in cui
tutto sia da ricostruire da capo; ai somali vengono, al contrario, riconosciute delle qualità
intrinseche, buone predisposizioni, se non altro, che l’europeo deve essere abile a indirizzare e a
sfruttare a proprio vantaggio:
il Somalo è per eccellenza commerciante nato. Ha mente acuta e rotta alle finezze del calcolo.
Infaticabile e pertinace, è capace, dopo due o tre disastri, di accingersi di nuovo a rifarsi
un’altra fortuna. Il guaio è che, o non conosce o non sa apprezzare tutte le ricchezze naturali
del suo paese. Non ricorda, pare, la grande parte ch’esso ebbe nel commercio dell’antichità,
quando la Somalia era detta la Terra degli Aromi, e dava a tutti i popoli del bacino
Mediterraneo le più squisite raffinatezze. Forse non è lontano il tempo in cui egli, edotto dagli
90
Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel Paese degli aromi, cit., pp. 65-6.
Basti pensare, a questo proposito, alla rilevanza che la questione assume nei dieci anni del governatorato Martini
in Eritrea, per come si evince dal suo stesso Diario eritreo, Firenze, Vallecchi, 1946.
91
110
stranieri, o meglio indovinando le tendenze che li portano a visitarlo e a stringere con esso dei
vincoli commerciali, si imporrà e vorrà dettar la sua legge.
Auguro all’Italia d’essere la prima a prendere commercialmente il suo posto fra i Somali.
Politicamente, grazie ai Protettorati, vi è già bene avviata. Il commercio a lungo andare,
cementando la comunanza degli interessi, farà la prosperità dell’Italia e sarà per la Somalia
mezzo potente di civiltà.92
È il passato, nello specifico, a essere chiamato a testimone del perduto splendore, e dunque a dover
funzionare da garanzia per un investimento futuro. Di natura, come insegna appunto la storia antica,
il popolo somalo si è distinto per l’abilità e la tenacia nelle attività commerciali: se ora ha perso
coscienza del valore della sua terra e dei suoi prodotti, di certo la riacquisterà presto, insospettito
dal crescente interessamento manifestato nei suoi confronti dalle potenze straniere. Affiorano dalle
parole dell’autore, sia pure velate, la consapevolezza del ritardo e della marginalizzazione dell’Italia
nel novero delle nazioni europee in lotta per un “posto al sole”, che diventerà tema dominante nei
decenni successivi e motivo centrale della roboante propaganda fascista93, e la parallela necessità di
non lasciarsi sfuggire le risorse ancora disponibili. Solo due devono però essere, nell’idea di
Bricchetti, le strade da perseguire, di cui l’una non esclude, anzi sostiene l’altra: quella politicodiplomatica, già positivamente avviata con l’istituzione dei protettorati, e quella commerciale
appunto.
Non si prospetta dunque, come avveniva nel testo di Bianchi, un’alternativa radicale tra
soluzione violenta e soluzione pacifica; più semplicemente, nella visione dell’autore che ha assistito
da pochi anni alla tragedia di Dogali, la seconda è l’unica praticabile, dalla quale peraltro dovrebbe
derivare beneficio reciproco. Proprio in questo senso, tuttavia, possiamo registrare uno scarto
ulteriore rispetto alla posizione senza dubbio più articolata, e più consapevolmente mistificatoria, di
Bianchi. Quello stesso influsso benefico che infatti era inteso da quest’ultimo come maschera
adeguata a nascondere la realtà traumatica di una colonizzazione imposta con ogni mezzo, sembra
qui investito da Bricchetti, con un buon tasso di ingenuità e idealizzazione, di una sua consistenza
reale: lo sviluppo degli scambi economici tra i due paesi, se indubbiamente consentirebbe all’Italia
un passo in avanti notevole sulla via della ricchezza, al tempo stesso innalzerebbe di un gradino
almeno la posizione della Somalia sulla scala della civiltà. Laddove, insomma, sia pure sempre tra
le righe e con cautela, Bianchi non si esimeva dal rendere trasparenti le contraddizioni inerenti al
92
Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel Paese degli aromi, cit., p. 345.
Basti pensare, come massimi esempi letterari dell’entusiastica rivendicazione del destino coloniale italiano, alle
Dieci canzoni delle gesta d’oltremare, pubblicate sul «Corriere della Sera» da D’Annunzio nell’ottobre-dicembre 1911,
e al celebre discorso La grande proletaria si è mossa, tenuto da Pascoli nel Teatro comunale di Barga nel novembre
dello stesso anno. Per un’analisi particolareggiata di questi testi si rinvia ad alcuni preziosi contributi recenti: Isabella
Nardi, Sandro Gentili (a cura di), La grande illusione. Opinione pubblica e mass media al tempo della guerra di Libia,
Perugia, Morlacchi, 2009; Manuela Martellini, Pascoli e le vicende coloniali: tra sentimento politico ed eloquenza
nazionalistica, in Gianluca Frenguelli, Laura Melosi (a cura di), Lingua e cultura dell’Italia coloniale, Roma, Aracne,
2009, pp. 15-56; Monica Venturini, Il mito dell’Impero tra letteratura e giornalismo, cit.
93
111
processo di colonizzazione − senza per questo mettere in dubbio la validità dello stesso − Bricchetti
sembra riporre totale fiducia in una penetrazione commerciale in grado di venire incontro, nella sua
ottica, agli interessi di entrambe le parti in gioco. Se una tale posizione, d’altronde, si allinea senza
alcun dubbio ai propositi commerciali nutriti in seno all’ambiente finanziario e imprenditoriale
lombardo che ne appoggia le spedizioni, l’autore si fa al contempo portavoce di un punto di vista
che potremmo definire più “genuino”, in un momento in cui paradossalmente più pressanti si fanno
le mire espansionistiche della nazione, a riprova del fatto che indole e temperamento del singolo
viaggiatore influiscono sulla sua riflessione politico-culturale non meno di quanto facciano le
contingenze storico-politiche.
Nella stessa direzione, infatti, sembrano condurre le considerazioni espresse in merito alla
questione religiosa, che abbiamo già visto acquisire notevole importanza nei resoconti di altri
viaggiatori, quali Pennazzi o Vigoni. E proprio laddove questi ultimi contrapponevano in maniera
netta islamismo e cristianesimo, mettendo al bando il primo come fonte di degenerazione morale ed
esaltando il secondo soprattutto in forza del suo giovare alla causa dell’asservimento degli indigeni,
Robecchi-Bricchetti mira a ridimensionare il più possibile le differenze, evidenziandone
un’articolazione sostanzialmente comune a partire dal concetto di carità:
La stessa barbarie se ne fa segnacolo in vessillo non di battaglie, ma di fratellanza umana. Io,
seguendo le venture della mia vita errabonda, l’ho veduta sbocciare, germinazione spontanea,
là dove noi figli di una civiltà qualche volta un po’ troppo esclusiva, ci argomentiamo non
poterci né doverci essere che barbarie, ignoranza, durezza di cuore. L’ho veduta florida e
rigogliosa nel deserto libico e nella Somalia. L’ho sorpresa, per così dire, sul fatto, e ne ho
concluso che essa è la parte migliore dell’anima, la forza ingenita che prepara ed agevola i
trionfi del progresso umano.
Della carità, il Cristianesimo ha fatto più che una virtù, un dovere. Ma, dovere o virtù, essa è la
suprema ragione d’ogni culto religioso. Anzi tutti i culti, anche i più disparati, si fondono in
essa, che è qualche cosa di più che umano e accomuna le genti in un pensiero, che è
manifestazione suprema della Provvidenza divina.
Noi, cristiani, obbediamo o dovremmo obbedire al santo precetto: «Ciò che vi avanza dai
vostri bisogni datelo ai poverelli». La massima del Vangelo sotto il sole dell’Africa, nella
Somalia, ha un’interpretazione che va tenuta da conto: «Coloro che fanno la carità
tesoreggiano per la vita di oltre tomba». Così il canto somalo surriferito.
Non dirò che i Somali abbiano in questo modo allargato l’ideale del Vangelo; ma in ogni caso
dimostrano che il Vangelo essi lo intuiscono senza conoscerlo, senza averne un concetto, meno
forse, quello d’un Codice religioso contrario al loro, il Corano.94
Ancora prima che i diversi culti religiosi, sotto il segno della carità trovano un punto di incontro le
stesse civiltà e barbarie. Non che, attraverso di essa, i due concetti arrivino a perdere la propria
contrapposizione ontologica e ad aprirsi a un’eventuale sovrapposizione: eppure, proprio nella loro
impossibile compresenza, gli opposti nondimeno si avvicinano in forza della condivisione di un
valore comune. D’altronde, nel primo paragrafo della citazione appena riportata è contenuto un
94
Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel Paese degli aromi, cit., pp. 190-2.
112
germe di critica alla pretesa assoluta superiorità della civiltà europea, accusata di essere talora
troppo “esclusiva”, concentrata su se stessa e dunque incapace persino di scorgere segnali positivi
nelle zone che esulano dalla propria influenza. Non si può negare che in questo caso
l’atteggiamento manifestato dall’autore sia improntato a una forma di utilitaristico paternalismo,
eppure egli si spinge oltre: non solo, infatti, testimonia in prima persona la presenza e l’esercizio
della carità, che egli stesso ritiene evidentemente un valore supremo, presso i somali, ma, cosa
ancora più importante, ne sottolinea la nascita spontanea, al di là di un qualsivoglia influsso
europeo. Asserzione, quest’ultima, degna di nota proprio alla luce delle numerose riflessioni
incontrate e commentate finora nei diversi autori, dove gli indigeni incarnano sempre il polo
negativo dei valori, e ogni elemento positivo in loro presente, peraltro raro, può derivare solo dal
contatto diretto con la civiltà europea. La carità, al contrario, viene indicata da Bricchetti come una
qualità propria dell’animo dell’individuo, dunque sì personale ma al tempo stesso congenita, non
assimilabile per apprendimento; e se essa, posseduta dai somali in quanto tali, è davvero, come
l’autore sostiene, forza capace di dare impulso e facilitare il progresso umano, allora viene a cadere
lo stesso principio in base al quale l’esempio europeo sarebbe requisito imprescindibile per lo
sviluppo dei popoli africani.
Della stessa carità, inoltre, viene dall’autore esplicitamente rigettata la presunta matrice cristiana,
nel riconoscimento della sua natura super-religiosa, impossibile da ricondurre a un unico Credo.
Anzi, in quest’ottica quella predicata dal Vangelo viene persino, un po’ tra le righe, svalutata, nella
misura in cui essa è in un certo senso imposta e vissuta dai fedeli come un dovere, e non
spontaneamente esercitata per virtù individuale. Significativa, a questo proposito, la differenza che
si registra tra le due massime citate dall’autore: quella evangelica, che suona appunto come un
imperativo rivolto ai credenti affinché pratichino la carità verso i più bisognosi, e quella somala,
espressa attraverso un canto religioso popolare, che si limita a prefigurare la vita eterna tra i beati
per coloro che sanno essere caritatevoli nella loro esistenza terrena. Infine, degna di nota anche la
preterizione con cui si apre il paragrafo conclusivo del passo, attraverso cui l’autore insinua in
maniera sottile l’idea che i somali non solo si comportino in modo confacente ai precetti cristiani,
ma addirittura abbiano trovato per essi, sia pure inconsapevolmente, una più piena e perfetta
applicazione. Questa spontaneità riconosciuta agli indigeni è tuttavia, immancabilmente, una
medaglia a due facce. Da un lato, essa può essere valutata positivamente in quanto garanzia di
assenza di pregiudizi, e dunque viatico per una migliore e spontanea valutazione delle cose: pur non
conoscendo affatto i testi sacri della religione cristiana, e solo genericamente a conoscenza del fatto
che essi si oppongono al proprio testo sacro, il Corano, gli indigeni infedeli sono tuttavia in grado di
comportarsi in maniera genuinamente cristiana. D’altro canto, però, l’autore si gratifica nel
113
sottolineare come sia l’intuizione a venire in aiuto a quelle popolazioni musulmane prive altrimenti
di qualsiasi forma di adeguata conoscenza a cui affidarsi: implicita, ma piuttosto trasparente,
l’allusione all’evidente esigenza di una guida che possa se non altro indirizzare nella giusta
direzione le loro sia pure buone inclinazioni.
Sulla matrice essenzialmente religiosa dell’opposizione tra una presunta civiltà e una altrettanto
presunta barbarie Bricchetti torna a insistere anche più avanti nel testo, di nuovo indirizzandosi
verso un tentativo di ridimensionamento e relativizzazione delle posizioni ideologiche più comuni:
Chi vive in mezzo ad essa dichiarerà apertamente che la barbarie onde la gratifica la nostra
civiltà è meno profonda che non si creda. Certo. Tra noi ed essa la differenza è grande riguardo
alla coltura, ma allo stringere delle somme tutto si riduce alla differenza che passa tra il
Cristianesimo e l’Islamismo. Nel Medio Evo, ed anche in tempi assai più recenti, l’Islamismo
passò per una barbarie. Ma lo era di fatto? Si pensi alla splendida rifioritura araba del primo
secolo dopo Maometto e sarà duopo confessare che nessuna civiltà ha fatto, in periodo così
breve, tanti progressi.95
Ma non del tutto univoco, a un’attenta lettura, si dimostra ancora una volta il messaggio dell’autore.
In conseguenza dell’esperienza diretta maturata a contatto con i somali, egli rivendica per loro non
l’appartenenza a una civiltà, sia pure differente dalla propria, bensì una condizione di barbarie meno
“avvilente”, verrebbe da dire, di quella che solitamente viene loro riferita. Tale formulazione
ovviamente aggira ma non risolve affatto il problema di fondo che inquina una simile impostazione
metodologica etnocentrica, e cioè la pretesa di ricoprire, in una scala assoluta di valori di cui si è
fabbricatori e detentori, il posto più alto a partire dal quale poter assegnare anche agli altri il
proprio, ontologicamente inferiore. In più, dopo essersi fatto assertore dell’esistenza di un profondo
quanto vago divario culturale tra un generico “noi” e l’altrettanto generica barbarie (non così netta,
pare) degli “altri” con cui si è trovato in contatto, l’autore sembra poi voler riportare il tutto sul
piano religioso, traferendo dunque l’opposizione noi/altri su quella Cristianesimo/Islamismo. Anche
in questo caso, tuttavia, non si accontenta e procede oltre, arrivando a polemizzare con la diffusa
identificazione tra barbarie ed Islam, al punto da cadere egli stesso in una sorta di contraddizione,
finendo per concedere esplicitamente l’appellativo di civiltà alla realtà araba dell’ottavo secolo.
Contraddizione, d’altronde, solo apparente, e da cui egli stesso si libera facilmente, precisando
subito quanto poco di questo passato splendore sia intuibile attraverso coloro che pure dovrebbero
esserne i moderni rappresentanti: «Quanto ai Somali non c’è che dire: per essi Aristotele è un mito,
l’algebra una cosa della quale non hanno mai inteso il nome».96 Anche qui, dunque, Bricchetti
vuole rimarcare la mancanza di coscienza, da parte degli stessi indigeni, di quelli che pure
potrebbero essere i loro punti di forza, e che solo l’europeo, magnanimo, può loro riconoscere.
95
96
Ivi, pp. 383-4.
Ibid.
114
Inconsapevoli eredi culturali della un tempo fiorente civiltà islamica, erroneamente musulmani ma
cristiani per istinto, persino «senza saperlo, veri democratici»97, essi difettano evidentemente, agli
occhi del viaggiatore italiano, di quella maturità e consapevolezza di sé che è prerogativa degli
europei, alla cui mancanza questi ultimi sono dunque legittimamente chiamati a supplire. E infatti,
sulla perfettibilità degli indigeni che lui stesso ha incontrato Bricchetti sembra non nutrire
particolari dubbi, reinserendosi agevolmente nel solco di considerazioni già tracciate dai suoi
predecessori:
In Alula, per il continuo contatto che ho avuto con Somali Migiurtini, ho potuto convincermi
che, se questi avessero più frequenti relazioni con gli europei, il loro incivilimento sarebbe
facile e rapido. Hanno intelligenza vivace e prontissima. Afferrano alla prima l’utilità delle
combinazioni commerciali, cosa che li rende perciò più facilmente socievoli, smorzando in
loro quello spirito di diffidenza che è connaturale ai popoli condannati a vivere
nell’isolamento.98
Le potenzialità di sviluppo, in altre parole, ci sono e sono anche alte: per di più, discostandosi da
quella tendenza − già evidenziata da Surdich e da noi riconosciuta senza indugio nel testo di
Bianchi − a porre l’accento sulle caratteristiche negative degli indigeni in modo da farne strumento
atto ad avallare l’intervento europeo a loro beneficio, l’autore giunge alla stessa conclusione
passando tuttavia attraverso premesse differenti: la loro prontezza di spirito e di ingegno viene
interpretata cioè come base migliore per garantire efficacia allo stesso ineludibile intervento
europeo. In questo senso, anzi, l’instaurazione di relazioni commerciali si rivela, ancora una volta,
la via migliore da seguire, l’unica in grado, in forza degli evidenti benefici che apporta, di vincere la
“connaturata” diffidenza degli indigeni e di renderli più disponibili ad accogliere i nuovi arrivati.
Se dunque Bricchetti si discosta in diversi punti dalle impressioni e dalle indicazioni fornite da
Bianchi, esattamente equivalenti sono le due visioni per quanto riguarda l’opportunità di instillare
nelle popolazioni locali il desiderio di cose di cui fino a quel momento hanno fatto a meno,
ignorandone persino l’esistenza:
Se al presente si accontentano di un tob, fra non molto sentiranno il bisogno della camicia. E
così via via, sino al pieno soddisfacimento di tutte le esigenze di una vita nuova e meno
disagiata. L’appetito viene mangiando, dicono i francesi, e l’incivilimento, diciamo noi, non si
inizia diversamente.99
Per essere accettata, la penetrazione dello straniero deve essere graduale, e soprattutto riuscire a
dimostrare di poter apportare significativi miglioramenti alle condizioni di vita degli indigeni, al
punto che essi stessi, infine, presi nel vortice del bisogno, quasi non si accorgano più del prezzo che
saranno disposti a pagare in cambio.
97
Ivi, p. 387.
Ivi, p. 521.
99
Ivi, p. 526.
98
115
A conti fatti, dunque, e dall’analisi dei brani che abbiamo citato, la posizione di Bricchetti si
rivela ingenua solo in apparenza, forse più semplicisticamente ottimista di quella ad esempio di
Bianchi, o forse solo più accorta, e dunque anche più mistificatoria, nelle sue enunciazioni. D’altra
parte, dovrebbe già essere evidente dalle ricostruzioni testuali condotte fin qui che non è sempre
facile né tantomeno esente da rischi provare a spingersi al di là del contenuto “manifesto” dei testi
stessi per riuscire ad individuare quelle forme di censura o auto-censura che spesso di celano dietro
di esso. Al tempo stesso, tuttavia, se è importante rintracciare punti in comune nei resoconti dei
diversi viaggiatori, al fine di mettere in luce tendenze proprie di un determinato momento storico e
di una specifica situazione socio-politica, è mia intenzione anche sottolineare, dove possibile,
divergenze sia pure sottili di pensiero e di impostazione, le quali, stimolando in noi riflessioni più
accorte e profonde, contribuiscono senza dubbio a rendere più problematica, e proprio per questo
più interessante, la nostra stessa percezione del passato. Proprio per questo motivo, dunque, non mi
sento di condividere appieno la lettura dell’ideologia e della mentalità di Luigi Robecchi-Bricchetti
proposta già negli anni Ottanta da Francesco Surdich, e da lui stesso basata sull’analisi di brani tratti
non solo da Nel paese degli aromi, ma anche dalle altre opere «di sintesi dall’ampia struttura
narrativa, come All’oasi di Giove Ammone, Nell’Harrar, Somalia e Benadir»100, che noi abbiamo
invece ritenuto opportuno escludere dal campionario per ragioni di spazio e in conseguenza della
loro sostanziale ripetitività argomentativa. Il giudizio che ne dà lo studioso è certamente
condivisibile proprio nella sua generalità, al di là, a mio avviso, di una specifica applicazione ai testi
e alle riflessioni dell’autore in questione. Scrive Surdich:
Da una loro attenta lettura emerge, infatti, molto nettamente un’immagine dell’Africa e
dell’Africano (ma in particolare di quest’ultimo) piuttosto approssimativa e superficiale dal
punto di vista scientifico, caratterizzata com’è da mistificanti luoghi comuni che tendevano a
ridurre tutto a bozzetto di colore di natura stucchevolmente oleografica, inevitabile punto di
arrivo di un approccio conoscitivo vissuto e raccontato secondo matrici culturali fortemente ed
arrogantemente eurocentriche ed all’interno di precise scelte ed esigenze di natura
espansionistica che vanno perciò colte e sottolineate prima di passare alla valutazione ed
analisi di quei moduli descrittivi che da esse e in funzione di esse hanno preso consistenza e
significato. 101
Sottoscriverei senza indugi una simile descrizione laddove l’intenzione fosse quella di racchiudere
in un’immagine fortemente condensata le tendenze generali della prosa di viaggio di questo
periodo, indubbiamente, come abbiamo visto, già intrisa di stereotipi destinati peraltro a lunga
fortuna, nettamente angolata secondo un’unica prospettiva eurocentrica e influenzata sensibilmente
dagli indirizzi politici dell’epoca. Se però, al tempo stesso, vogliamo tentare di cogliere, ai fini di
100
Francesco Surdich, L’immagine dell’Africa e dell’africano nelle relazioni di Luigi Robecchi Bricchetti, in
Miscellanea di storia delle esplorazioni, V, Genova, Bozzi, 1980, p. 198.
101
Ivi, pp. 198-9.
116
una più corretta e maturata interpretazione, quelle che possono essere le problematiche peculiari ai
singoli viaggiatori, sia pur tutti ugualmente immersi in un’unica congerie storica e culturale, allora
siamo inclini a rigettare l’idea che
indipendentemente dal tipo d’esperienza vissuta in terra di colonia e dagli elementi che
attraverso essa si potevano acquisire, Luigi Robecchi Bricchetti, come tutti i suoi “colleghi”,
era fatalmente orientato e disposto a vivere e a trasmettere tali esperienze ed acquisizioni
secondo gli schemi e le forme impostigli dal ruolo che, sollecitato da una ben precisa cultura
ed ideologia, aveva scelto ed accettato.102
Protagonisti di due esplorazioni diverse, in territori diversi, ma ugualmente promosse dalla Società
geografica italiana a una distanza di anni relativamente breve, Bianchi e Bricchetti − per attenerci
agli ultimi due esempi proposti − condividono inevitabilmente un’impostazione ideologica dettata
da ragioni superiori, e probabilmente da loro stessi accettata. Il modo in cui essa, tuttavia, viene
introiettata dagli stessi e comunicata al lettore attraverso la pagina scritta rivela scarti interessanti di
prospettiva e di riflessione, che danno conto appunto della complessità della situazione, impossibile
da ridurre a un unico paradigma comune.
2.7 Lo spirito “scientifico” di Vittorio Bottego
Luigi Robecchi-Bricchetti non è di certo l’unico esploratore, in questo frangente, a interessarsi
alla Somalia, e a tornarvi più volte nel corso degli anni. Al 1890 e ’91 risalgono i viaggi nella stessa
regione di Enrico Baudi di Vesme, entrambi interrotti prima del previsto per l’ostilità delle tribù e
per le precarie condizioni dell’equipaggiamento; degno di nota è soprattutto il secondo, grazie al
quale il suo ideatore e protagonista arriva a lambire le sponde del fiume Uebi-Scebeli.103 Lo stesso
traguardo, nel medesimo anno, è raggiunto anche da Eugenio Ruspoli, il quale torna anch’egli di
nuovo in Somalia nel 1893, arrivando questa volta sulle rive del Giuba.104 Figura forse anche più
nota della precedente, per le ragioni che vedremo, è poi quella di Vittorio Bottego, giovane ufficiale
di artiglieria, già nel 1887 arruolatosi volontario nella neonata colonia italiana sul Mar Rosso (poi
denominata Eritrea), evidentemente attirato dal desiderio di conoscere da vicino i primi domini
italiani d’Oltremare. Non è, tuttavia, su una regione particolare che si focalizza l’attenzione
dell’esploratore, bensì sulle risorse idriche disponibili, ma ancora inesplorate e dunque ignote nella
loro reale configurazione, nella zona dell’Africa orientale su cui si andavano contemporaneamente
appuntando gli sguardi cupidi della nazione. Nel 1892, a soli due anni di distanza dal viaggio
raccontato da Bricchetti ne Il paese degli aromi, Bottego compie una serie di esplorazioni lungo il
corso del fiume Giuba, partendo proprio dalla Somalia per spingersi poi, attraverso il deserto
102
Ivi, p. 220, n. 4.
Cfr. Enrico Baudi di Vesme, Le mie esplorazioni nella Somalia, Editrice Apollon, Roma, 1944.
104
Cfr. Eugenio Ruspoli, Nel paese della mirra, Roma, Tip. Cooperativa Romana, 1892.
103
117
dell’Ogaden, alla ricerca delle sorgenti del fiume Omo, nei territori del Kenia, del Sudan e
dell’Etiopia. Le premesse che lo spingono a partire sono evidentemente orientate più in senso
geografico-scientifico che antropologico, dettate da specifici interessi e non da semplice curiosità.
Non a caso, il volume in cui l’autore raccoglie le sue memorie dell’impresa è corredato non più
solo da incisioni, come lo erano spesso anche quelli visti in precedenza, ma anche da tavole
meteorologiche e da un’ampia carta geografica a colori, strumenti utili appunto a una conoscenza
più approfondita delle dinamiche territoriali. D’altronde, è comprensibile che l’interesse scientifico
si leghi strettamente ai propositi sempre più espliciti di espansione commerciale: solo una migliore
cognizione delle risorse disponibili può condurre a una più esatta valutazione delle potenzialità
economiche in esse contenute. Inoltre, come fa notare giustamente Pratt, non va sottovalutata la
portata ideologica insita nell’operazione di offuscamento scientifico di quella che sarà poi destinata
a trasformarsi in una violenta conquista coloniale:
at the level of ideology […] science created global imaginings above and beyond commerce. It
operated as a rich and multifaceted mirror onto which all Europe could project itself as an
expanding “planetary process” minus the competition, exploitation, and violence being carried
out by commercial and political expansion and colonial domination.105
In questo senso le stesse osservazioni e scoperte legate alle scienze del territorio non solo mirano
alla realizzazione di traffici commerciali, ma preludono già a una forma ben più radicale di
sorveglianza del territorio stesso, di appropriazione delle sue risorse e di controllo amministrativo
su di esso.
D’altronde, proprio il merito di aver scoperto le sorgenti del fiume Giuba è uno dei motivi che
hanno contribuito maggiormente a una diffusa conoscenza dell’esploratore, il quale, come ha
evidenziato Manlio Bonati che di lui si è occupato a più riprese106, è uno dei pochi nomi provenienti
da questo ambito ad essere noto anche all’estero. Inoltre, come avvenuto per Gustavo Bianchi,
anche in questo caso un ulteriore fattore di notorietà del personaggio è senza dubbio legato alla
morte avvenuta in circostanze tragiche, durante una seconda importante spedizione nel 1895.
Bottego infatti, dopo il successo ottenuto nella prima occasione, tre anni più tardi riesce a
concordare un progetto ambizioso con l’allora presidente della Società geografica italiana, il
marchese Giacomo Doria, che ottiene l’approvazione del Ministero degli Affari Esteri: la
spedizione è indirizzata alla ricerca delle sorgenti del fiume Omo, fino a quel momento ritenuto se
non più il Giuba stesso almeno un affluente di questo.107 Tuttavia Bottego non farà mai più ritorno
105
Mary Louise Pratt, Imperial eyes, cit., p. 34.
Cfr. Manlio Bonati, Vittorio Bottego. Un ambizioso eroe in Africa, Parma, Silva Editore, 1997, e Id., Vittorio
Bottego. Coraggio e determinazione in Africa Orientale, Torino, Il Tucano Edizioni, 2005.
107
Cfr. Luigi Vannutelli, Carlo Citerni, Esploratori. Alla ricerca delle sorgenti del fiume Omo (1895), a cura di
Luigi Bellavita, Milano, SugarCo Edizioni, 1987.
106
118
dall’Africa, caduto vittima di un massacro della carovana nel 1897, e le notizie su questo secondo
viaggio ci sono note attraverso la relazione che i suoi due collaboratori, Luigi Vannutelli e Carlo
Citerni, ne hanno steso, una volta rientrati in patria dopo una lunga prigionia.108
È necessario aprire qui una breve ulteriore parentesi storica, che vada a coprire gli avvenimenti
intercorsi nel giro di questi pochi anni, e possa anche chiarire le fatali circostanze del massacro
stesso. Proprio nel 1895, quando Bottego parte alla volta della Somalia per la spedizione che gli
sarebbe costata la vita, sempre più concrete si fanno le mire espansionistiche di Crispi, tornato alla
guida del governo dopo le dimissioni, due anni prima, di Giovanni Giolitti. In colonia, il generale
Baratieri, a capo delle truppe militari, progetta dunque l’invasione del Tigrè, intesa come punto di
avvio di una massiccia e definitiva penetrazione nel confinante impero etiopico. Tuttavia, la
sottovalutazione del nemico, unita a insufficiente preparazione, inadeguata conoscenza del territorio
e incertezza d’azione, ha conseguenze fatali per le truppe italiane, culminate nella tragica disfatta di
Adua, del 1° marzo 1896, la «più pesante sconfitta bianca di tutto lo scramble for Africa».109 Come
avremo modo di constatare più avanti, l’impatto di questo episodio sull’opinione pubblica, e dunque
la sua impronta nella memoria collettiva della nazione, è talmente profondo da creare quello che è
stato definito un vero e proprio «complesso di Adua», caratterizzato dal timore assillante della
sconfitta sul campo, e come tale destinato a influenzare anche la successiva politica coloniale
italiana. In più, quanto appena avvenuto ha ripercussioni indirette proprio sulla spedizione Bottego:
ignari infatti dell’accaduto, gli esploratori proseguono fiduciosi nella loro marcia verso l’interno,
inconsapevoli di essere a questo punto considerati nemici armati provenienti da un Paese appena
sconfitto, e in quanto tali massacrati senza troppi riguardi dai soldati etiopi, o ridotti in prigionia.
Di Vittorio Bottego, dunque, ci rimane la poderosa relazione del primo viaggio compiuto nel
continente africano, incentrato soprattutto sul proposito di raggiungere le sorgenti del fiume Giuba e
di fornire una descrizione quanto più possibile esaustiva del suo stesso corso e delle sue
caratteristiche. Non stupisce troppo, allora, il fatto che il resoconto proceda a ritmo serrato, scandito
da una fitta paragrafazione, in cui gli avvenimenti, rubricati con l’indicazione precisa della data,
sono riportati nel loro svolgersi quotidiano, e la stessa divisione in capitoli segue lo spostamento da
un luogo all’altro. In ragione delle finalità scientifiche cui abbiamo già fatto riferimento, le
descrizioni sono riservate soprattutto alle diverse condizioni del terreno, in prossimità dei fiumi e
sugli altipiani tra l’uno e l’altro fiume, ma anche al clima, alla fauna e alla flora, laddove invece
l’etnografia si fa rapida, fornendo notizie schematiche e approssimative sui popoli incontrati. Gli
unici sui quali si dilunga nel costruirne un’immagine a tutto tondo sono proprio i somali: il ritratto
che ne esce, tuttavia, è decisamente molto meno lusinghiero rispetto a quello proposto da Robecchi108
109
Luigi Vannutelli, Carlo Citerni, L’Omo. Viaggio di esplorazione nell’Africa orientale, Milano, Hoepli, 1899.
Nicola Labanca, Oltremare, cit., p. 82.
119
Bricchetti. Soprattutto, esso è intriso di giudizi fortemente denigratori, privi di qualsiasi riferimento
a dati oggettivi, bensì basati, per sua stessa ammissione, sull’impressione spontaneamente ricavata
dalle proprie osservazioni, ed esplicitamente intesi a ribaltare quell’esaltazione del somalo, data
«sotto la suggestione del tema e delle descrizioni esistenti», che in esso vede un «uomo di carattere
nobile, fiero, indipendente e coraggioso».110 Non solo dunque, a suo parere, «invano si cercherebbe
di scoprire nella vita di lui un atto generoso, ardito o deciso, che fosse prova di qualità
eccezionali»111, ma, cosa ancora peggiore, egli è in grado di dissimulare con false apparenze la sua
vera natura di uomo scaltro, traditore e vendicativo, impudente e bugiardo, e soprattutto privo di
qualsiasi principio di moralità. Rientriamo dunque appieno, con simili considerazioni, nello schema
proposto da Surdich, e meno applicabile come abbiamo visto al caso Bricchetti, dell’insistenza sulle
peculiarità negative delle razze africane, presupposto di un necessario intervento esterno risanatore.
Eppure, in questo caso, l’autore non si sbilancia in grandiose prospettive di un possibile radioso
capovolgimento della situazione esistente per mano europea. Simile cautela, se in parte può essere
attribuita a un realismo di vedute peculiare al carattere dell’esploratore stesso, di certo va ricollegata
all’effettiva e concreta, questa sì, valutazione del territorio che si ha di fronte. In altre parole,
Bottego si dimostra perfettamente consapevole, anche proprio in virtù degli specifici rilevamenti
scientifici condotti sul posto, della disparità di condizione e dunque di possibile evoluzione
dell’area somala rispetto, ad esempio, agli stessi Paesi galla percorsi da Bianchi. Inoltre, un ruolo
non secondario in questo ridimensionamento delle aspettative deve aver giocato proprio la
contemporanea ed entusiastica ripresa degli interessi espansionistici, dopo il momentaneo
sbandamento seguito alla disfatta di Dogali e prima della nuova battuta di arresto che sarà
determinata dal disastro di Adua. È infatti un simile contesto, senza dubbio animato da speranze
ottimistiche ma in cui al tempo stesso si delineano già gli spettri dell’insuccesso, a richiedere
all’esploratore una stima quanto più possibile affidabile e lungimirante delle potenzialità ascrivibili
alle nuove zone acquisite al controllo italiano:
Illudersi intorno all’avvenire agricolo della Somalia e delle regioni Boran sarebbe errore; ma
io credo fermamente che intelligenti allevatori potrebbero trarre grandi compensi
dall’allevamento del bestiame, favorito da un clima dei più salubri e dagli abbondantissimi
pascoli […] L’Europeo potrebbe con la sua intelligenza ottenere risultati agricoli più
soddisfacenti, ma non tali, giova ripeterlo, quali son da aspettarsi dalle regioni Galla […] A
questi paesi prediletti dalla natura dovrebbero essere diretti, e non altrove, gli sforzi dei nostri
colonizzatori. Quando queste estese regioni fossero sottratte al dominio devastatore degli
Amhara, noi potremmo, aiutati dai laboriosi Galla, trarne lauti guadagni.112
110
Vittorio Bottego, L’esplorazione del Giuba, Roma, Società Editrice Nazionale, 1900, p. 284.
Ibid.
112
Ivi, p. 327.
111
120
In questo senso, allora, i somali possono essere a cuor leggero giudicati «intriganti, calcolatori,
interessati, avidi all’eccesso, egoisti» 113 , oltre che sfaticati e fannulloni, senza che tale
riconoscimento debba preludere necessariamente a una loro “rieducazione” da parte dell’europeo
occupante: al contrario, qui esso sembra piuttosto poter funzionare come elemento a favore di un
contenimento delle stesse mire espansionistiche nella regione, sostenuto come abbiamo visto a
partire comunque da considerazioni opportunistiche di tutt’altro tipo.
D’altronde, che gli interessi da perseguire nella Somalia esplorata debbano essere, nella visione
di Bottego, prettamente commerciali, si evince piuttosto chiaramente dalle riflessioni sparse in
diversi punti del suo testo. Questo non vuol dire, tuttavia, che, in quanto tali, essi non debbano
essere opportunamente incanalati entro un quanto mai convenzionale richiamo alla missione
civilizzatrice che l’europeo è chiamato a compiere. Anzi, in questo caso l’autore inscena, in maniera
piuttosto originale (solo in Augusto Franzoj abbiamo visto finora un esempio simile), un breve
scambio di battute con non meglio identificati indigeni, al fine di esprimere quelle che sono le sue
posizioni in materia. Niente, evidentemente, ci spinge a ritenere che il dialogo riportato sia
effettivamente avvenuto, tanto meno nei precisi termini in cui esso viene descritto. Innazitutto
Bottego non si preoccupa minimamente di spiegare in che modo i due interlocutori possano essere
stati in grado di comprendersi a vicenda, anche se potremmo ipotizzare la presenza di un interprete,
necessario per superare la barriera linguistica. Sono molti, d’altronde, i casi in cui gli esploratori si
servono di mediatori linguistici al fine di stabilire un’interazione con la realtà locale; eppure gli
esempi che si trovano più frequentemente nei testi riguardano situazioni più o meno ufficiali di
incontro con personaggi di alto rango, ras quando non gli stessi imperatori. Questa constatazione,
basata sulla lettura di numerosi testi di viaggio e di esplorazione, ci porta a ritenere verosimilmente
che gli italiani in Africa non sentissero l’esigenza di instaurare un confronto verbale con la
popolazione del luogo: gli stessi giudizi, sia pure secchi e perentori, che su di essa vengono
pronunciati senza troppe riserve, quando non ricalcano semplicemente sentenze già emesse,
sembrano derivare più da osservazioni colte da una certa distanza “di sicurezza”, che non da un
contatto diretto. Proprio per la sua natura fittizia, allora, il dialogo acquista una rilevanza
particolare: la scelta di inserirlo nel testo, in alternativa a una più consueta e banale forma di
argomentazione, deve rispondere alla volontà di dare maggiori concretezza e visibilità al nucleo
tematico del discorso stesso, evidentemente inteso a veicolare contenuti su cui l’autore vuole
richiamare l’attenzione. Rispetto all’esempio che abbiamo trovato in Franzoj, le posizioni sono
ribaltate: nel primo caso era il viaggiatore italiano a stabilire il contatto ponendo alla donna
indigena una domanda, peraltro del tutto retorica e chiaramente volta a ridicolizzare l’interlocutore
113
Ivi, p. 286.
121
ironizzando sulle sue abitudini ritenute biasimevoli. Qui, al contrario, Bottego si mette nella
posizione di colui che viene interrogato, sfruttando la domanda posta dall’interlocutore locale per
esprimere il messaggio che gli sta a cuore:
Dopo i Bòran, qui ed altrove, gl’indigeni m’han rivolto le stesse domande: «Perché voi bianchi
volete invadere le nostre terre? Qui non sono che spini, sabbia e sassi; questo terreno non
produce che dura e bestiami. Perché non restate nel vostro paese, che tutti dicono bello come
l’Eden? Di là vien l’oro e l’argento, i Corani, la tela, i fucili, il riso, i datteri, lo zucchero. Forse
lasciate tante ricchezze, perché siete troppi e vi state a disagio?» Rispondo: «Non è intenzione
dei miei fratelli di stabilirsi fra voi; verrà forse qualcuno con carovana per comprare avorio,
gomma, pelli. Se io dovessi darvi un consiglio fraterno, vi esorterei a tener ben cara la nostra
amicizia e far sapere dovunque che noi vi proteggiamo; così gli Amhàra non verranno a
devastare, come ora fanno nell’Ogadén: giacché temono i frengi e rispettano i loro amici. Se tu
non baderai alle mie parole, quando essi non troveranno più nulla al di là dell’Uébi, andranno
nei Gurra e dopo verranno a Lugh ed anche a Bardéra: rapiranno le donne ed i bestiami, e
metteranno il resto a ferro ed a fuoco. Quei pochi tra voi che si potran salvare, avran tutto
perduto e moriranno affamati. Sappi, del resto, che i frengi non fan male ad alcuno, ma
arricchiscono i paesi dove vanno. I miei soldati sono di luoghi diversi, ora sotto gl’Italiani, che
quantunque vi abbiano molti soldati, comprano e non tolgono a forza. I loro paesi, prima che
fossero occupati da noi, erano più poveri che non ora l’Ogadé. Adesso gli Amhàra ne stanno
lontani, e bianchi e neri vivono là come fossero di una sola famiglia.114
Già la formulazione della domanda, per la verità, è tutt’altro che ingenua e innocente. L’indigeno
pone una questione che deriva dalla propria incomprensione nei riguardi del comportamento degli
europei, che a suoi occhi appare privo di senso: essi, infatti, si spingono in un territorio che non solo
non appartiene loro, ma dal quale non possono sperare di ricavare niente di buono, essendo povero
di risorse. L’autore non si limita, poi, a fare del suo interlocutore locale il portavoce di un giudizio,
negativo, sulla propria terra; bensì, con una mossa sagace, mette in bocca allo stesso un elogio
incondizionato, ed evidentemente convenzionale, dell’Italia, maturato per sentito dire, che la
dipinge come luogo edenico della ricchezza e dell’abbondanza. Ancora di più, l’indigeno si
dimostra persino consapevole, cosa abbastanza difficile da credere, dei problemi di pressione
demografica presenti in Italia, additandoli egli stesso come possibile causa dell’altrimenti
inspiegabile movimento migratorio verso il continente africano. Ma il fulcro del messaggio che
Bottego intende veicolare attraverso questa breve scena di scambio dialogico sta nella risposta,
lunga e articolata, che lui stesso fornisce all’indigeno curioso. Il punto fondamentale, subito
espresso, è la negazione di ogni proposito di duraturo stabilimento in terra straniera: se gli italiani
percorrono le lande africane lo fanno per acquistarne i prodotti, dunque solo per ragioni
commerciali e senza propositi di insediamento. Forse tali erano davvero le idee dell’autore, se non
altro in relazione alle zone della Somalia da lui visitate, sulle cui scarse potenzialità di rendimento
si era d’altronde già pronunciato; ovviamente lo stesso discorso, che qui sembra non dare adito a
incertezze, difficilmente si sarebbe potuto applicare, ad esempio, a quei Paesi galla esplorati da
114
Ivi, p. 269.
122
Bianchi, nel cui resoconto di viaggio, infatti, sarebbe vano cercare formulazioni del genere. In altre
parole, più che alla magnanimità, o alla falsità, del personaggio, l’astensione da effettivi intenti di
conquista si spiega con la natura del territorio stesso, ed è sempre dettata da ragioni di opportunità
in un’ottica eurocentrica. Ottica da cui, d’altronde, Bottego non si discosta affatto nel prosieguo del
discorso, mascherandola tuttavia, questa volta, di propositi umanitari: instaurando rapporti
amichevoli con i bianchi, e dunque non ostacolandone, è sottinteso, i traffici mercantili, gli indigeni
sarebbero i primi a trarne giovamento, in quanto otterrebbero in cambio protezione contro le tribù
Amhara, le cui devastazioni ne decreterebbero altrimenti il completo annientamento. Ma non solo:
benefici ulteriori deriverebbero loro dal semplice fatto che gli Italiani non usano violenza, bensì
portano ricchezza, pronti ad arruolare soldati di tutte le etnie non a forza, ma dietro compenso.
Alcuni elementi, in questo passo, mi paiono particolarmente significativi: prima di tutto, il
restringimento di campo dalla nozione generica di bianchi o frengi alla specifica identità nazionale,
procedimento che sarà sempre più ricorrente nei resoconti di viaggio di generazioni successive,
laddove il mito dell’italianità diventerà progressivamente fonte di legittimazione della stessa
occupazione coloniale. Inoltre, Bottego rifugge dalla mistificante, eppure invalsa, tentazione di
trovare come giustificazione all’invasione europea, di qualunque natura essa sia, il pretesto di
diffondere la civiltà, di illuminare la barbarie con la luce del sapere. Molto meno idealistici, e
dunque più concreti e tangibili, sono i benefici prospettati alle popolazioni indigene, consistenti
appunto in ricchezza materiale e difesa dalle aggressioni esterne. D’altro canto, Bottego ci tiene a
sottolineare che «le imprese scientifiche, come la mia, si debbono condurre in modo da sfuggire
l’occasione di far uso delle armi, a meno che si tratti di suprema necessità, come la riuscita della
spedizione o la difesa della vita»115, non solo rifuggendo, dunque, dall’uso della violenza, ma anche
insistendo sul carattere scientifico della propria missione, volta cioè a raccogliere informazioni e
non a imporre la propria presenza come avamposto di una futura conquista.
Ora, sarebbe ingenuo pensare che l’autore fosse del tutto ignaro, nella congerie storico-politica
italiana che abbiamo in breve delineato, di quale fosse la strada intrapresa dal governo Crispi e con
quali finalità effettive. Ciò non toglie che sia, di nuovo, la sua specifica condizione a rendere in
parte diverse le sue stesse considerazioni. Pur non essendo, come non lo era Bianchi d’altronde, uno
scienziato di professione (anzi, entrambi venivano da una formazione prettamente militare), egli
tuttavia assume caparbiamente su di sé il compito scientifico che gli viene assegnato, ed è ad esso
che si consacra fino in fondo. Un simile presupposto non garantisce automaticamente una maggiore
ampiezza di vedute né una comprensione più profonda della realtà che si ha di fronte. Tuttavia esso
può contribuire a spiegare, ad esempio, il suo generale disinteresse per gli esseri umani (tratto in
115
Ivi, p. 98.
123
parte generalizzabile, ma qui più spiccato che altrove), nei confronti dei quali si limita, laddove ne
ha l’occasione, a esprimere affrettati giudizi di seconda mano («Non è certo che abitualmente i
Cormòso e i Giamgiàm [i Niam-Niam del Piaggia] mangino i morti, ma neppure il contrario»116) o a
ricorrere alla sbrigativa comparazione, già vista anch’essa, con gli animali («Riscontro in loro [i
Cormoso] un punto di contatto con le iene e gli avvoltoi, perché amano com’essi la carne
corrotta»117). Infine, la pretesa scientificità offre anche un appiglio prezioso, cui mi sembra che
Bottego si aggrappi saldamente, per poter allontanare da se stessi lo spettro di una colpa consistente
se non altro in quell’ostentata finta innocenza che Bianchi, a modo suo, riconosceva e rivelava. Un
atteggiamento, questo, descritto bene ancora una volta da Pratt, in riferimento specifico alla figura
del naturalista, come espressione tipica di quell’anti-conquista che è poi nient’altro che una forma
diversa, ma non per questo innocua, di conquista:
the conspicuous innocence of the naturalist […] acquires meaning in relation to an assumed
guilt of conquest, a guilt the naturalist figure eternally tries to escape, and eternally invokes, if
only to distance himself from it once again […] the discourse of travel that natural history
produces, and is produced by, turns on a great longing: for a way of taking possession without
subjugation and violence.118
La consapevolezza della realtà di sopraffazione e di violenza che si cela dietro le apparenze di una
missione scientifica e civilizzatrice non manca, già sul finire dell’Ottocento, al viaggiatore meno
esperto come all’esploratore avveduto e all’uomo di scienza. Il diverso grado con cui essa viene
vissuta e interiorizzata, e in un secondo momento rielaborata e comunicata attraverso la pagina
memoriale, varia però in funzione dell’indole personale e del ruolo assunto dal soggetto stesso, così
come anche del contesto in cui egli si inserisce.
2.8 Un politico in colonia: Ferdinando Martini
L’attenta considerazione della personalità dell’autore e dell’ambiente in cui egli si muove risulta
particolarmente importante, ad esempio, nel caso di Ferdinando Martini, figura di spicco tra quelle
finora proposte per alcuni motivi fondamentali. Prima di tutto, egli non si trova nella posizione di
dover in qualche modo sottostare o quantomeno allinearsi a determinate direttive politiche gestite
dall’alto, in quanto è lui stesso a inserirsi in prima persona nell’ambiente politico del giovane
Regno d’Italia. Se questo non equivale, come vedremo, all’essere a riparo da pregiudizi o
opportunismi di natura politica appunto, tuttavia rende in un certo modo più agevole
l’interpretazione del suo pensiero, per come esso appare nei suoi scritti, in quanto annulla (o almeno
dovrebbe annullare) quella forma di censura che agisce altrove, in maniera più o meno profonda in
116
Ivi, p. 117.
Ivi, p. 116.
118
Mary Louise Pratt, Imperial eyes, cit., p. 56.
117
124
base a contesto e finalità delle spedizioni. Allo stesso tempo, non si può non considerare la levatura
specificamente intellettuale di Martini, letterato a tutti gli effetti, autore di un ricco corpus di opere
teatrali e di altri scritti di diverso genere, nonché appassionato e inesausto fruitore di opere
letterarie.119 È chiaro che, laddove a una figura di tale spessore potrebbe essere dedicato un intero
studio specifico, essa è oltremodo interessante ai fini del nostro discorso per lo stretto legame con
quella fase della politica coloniale italiana di cui ci stiamo occupando. Ancora più interessante se
consideriamo l’aspetto su cui sempre la critica storica si è dovuta soffermare nel cercare di fornire
un ritratto a tutto tondo del personaggio, e cioè il suo passaggio, o quella che è stata definita già da
Renato Battaglia la sua “conversione”120, da una netta posizione anticolonialista (che lo aveva
portato nel 1887 a votare in Parlamento contro la proposta di stanziamenti finanziari per l’Africa)
all’appoggio della politica di consolidamento in Africa, sancita definitivamente dai suoi personali
incarichi di Commissario civile per l’Eritrea (per ben dieci anni, dal 1897 al 1907) e poi di Ministro
delle colonie (dal 1914 al 1916).121
Tuttavia, come abbiamo già accennato, diversi anni prima di assumere ruoli politici di tale
rilievo Martini aveva avuto modo di visitare la nascente colonia in qualità di vicepresidente della
commissione d’inchiesta inviata per indagare sugli scandali associati ai comportamenti di Livraghi
e Cagnassi. La relazione di quel viaggio costituisce a mio avviso l’adeguato e illuminante punto di
arrivo del percorso seguito finora, a partire da Piaggia, attraverso numerosi resoconti tutti
collocabili in questo scorcio finale del XIX secolo: anche qui, infatti, l’opposizione di base tra
civiltà e barbarie si colora di diverse sfumature, oscilla tra alterni punti di vista e si cela di volta in
volta dietro nuove reticenze e giustificazioni, fino al punto in cui Martini «riconosce a malincuore
l’“empia necessità” della colonizzazione, pur non risparmiandosi dal sottolinearne le
“amarezze”».122
Se volessimo rintracciare una nota dominante che attraversa tutto il testo e che caratterizza
fortemente la personalità del suo autore, questa è certamente l’ironia, attraverso le cui lenti egli
stesso dipinge indiscriminatamente tanto gli indigeni quanto i propri connazionali. Di questi ultimi,
in particolare, Martini prende a bersaglio la falsità e l’ipocrisia di atteggiamenti e comportamenti,
119
Rendono esplicita testimonianza di tale passione e vocazione letteraria la Biblioteca Martini, cui è riservata una
sala apposita della Forteguerriana di Pistoia e che contiene oltre 15.000 tra volumi e opuscoli, e il Fondo Martini,
conservato presso la medesima biblioteca pistoiese, di particolare interesse storico, oltre che letterario, in cui sono
raccolti manoscritti autografi dello stesso Martini e altri da lui conservati, le sue medaglie ricordo, l’archivio di
famiglia, vari autografi di Giuseppe Giusti e le edizioni originali delle sue opere, e infine cinque codici etiopici riportati
in Italia alla fine del suo governatorato africano.
120
Renato Battaglia, La prima guerra d’Africa, cit., pp. 478-88.
121
Si vedano, tra gli altri, Alberto Aquarone, La politica coloniale italiana dopo Adua. Ferdinando Martini
governatore in Eritrea, «Rassegna storica del Risorgimento», LXII, 1975, pp. 346-77, 449-79; Massimo Romandini, Il
“dopo Adua” di Ferdinando Martini governatore civile in Eritrea (1897-1909), «Studi Piacentini» 20, 1996, pp. 177204. Un resoconto dettagliato sui dieci anni di operato come Governatore in Eritrea lo ha lasciato lo stesso autore:
Ferdinando Martini, Diario eritreo, cit.
122
Così si esprime Gianni Guadalupi nella prefazione a Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., p. 10.
125
che, sia pure in modo molto meno scoperto e pungente, anche Bianchi aveva messo in luce. In
questo senso, egli non si fa scrupolo di attaccare apertamente l’abitudine, non solo italiana ma
europea tout court, di coprire con il velo mistificante dell’intento civilizzatore la realtà di azioni
violente e radicali, che hanno come fine ultimo l’annientamento dell’indigeno:
replicate a noi malinconici che in Europa stiamo troppo pigiati, che in Etiopia vi son tre o
quattro abitanti per chilometro quadrato, che oramai le conquiste coloniali sono un’empia
necessità; ma non parlate d’incivilimento. Chi dice che s’ha da incivilire l’Etiopia dice una
bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire razza a razza: o questo o niente, affermava il
Munzinger trent’anni fa, quando la schiettezza era lecita. All’opera nostra l’indigeno è un
impiccio; ci toccherà dunque volenti o nolenti rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le
Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da lui per istinto, fornisce: il cannone
intermittente e l’acquavite diuturna. È triste a dirsi ma pur troppo è così. I colonizzatori
sentimentali si facciano coraggio: fata trahunt; noi abbiamo cominciato, le generazioni
avvenire seguiteranno a spopolare l’Affrica de’ suoi abitatori antichi, fino al penultimo.
L’ultimo no: l’ultimo lo addestreranno in collegio a lodarci in musica, dell’avere, distruggendo
i negri, trovato finalmente il modo di abolire la tratta!123
Le critiche del Martini, è chiaro, si appuntano sulla facciata delle operazioni condotte in Africa, sul
modo in cui esse vengono presentate e giustificate, nient’affatto sulla sostanza delle stesse. Anzi, da
questo punto di vista le sue affermazioni si spingono decisamente più in là di tutte quelle che
abbiamo visto e commentato finora, nella misura in cui la “necessità”, come lui stesso la definisce,
della civilizzazione non è più messa in discussione. Così come non è messa in discussione la
parallela necessità di utilizzare ogni mezzo disponibile, ivi comprese le armi da fuoco. Non c’è
spazio, nella visione di Martini, per indugi sentimentali: la colonizzazione è un processo ormai
avviato, che non può più e non deve essere fermato, e che deve necessariamente passare attraverso
l’eliminazione fisica dell’altro, del diverso. Anche questo è un punto nuovo, estremo approdo di un
percorso che aveva preso avvio, come abbiamo visto, dalla fiducia nella possibilità di evoluzione
dell’indigeno a contatto con il “bianco”. Questa fiducia qui è del tutto accantonata: se pure si vorrà
salvare un − e uno solo − abitante dell’Africa, egli sarà utile soltanto, ironicamente, a elogiare
l’operato del conquistatore e a testimoniare della sua abilità nell’aver abolito la tratta degli schiavi,
avendo eliminato tutti gli schiavi disponibili! Da notare, tuttavia, il fatto che la più esplicita
affermazione dell’esigenza di rimpiazzare completamente la popolazione nera locale con quella
bianca proveniente dall’Europa viene strategicamente attribuita al Munzinger, viaggiatore svizzero
di metà Ottocento caduto vittima in terra africana, come molti altri, di una strage compiuta da tribù
dancale. In tal modo Martini risparmia, in un certo senso, a se stesso la paternità di un pensiero
tanto radicale, sia pur non potendo, né volendo, evitare di condividerne la sostanza. Non è un caso,
allora, che la stessa identica formulazione compaia altrove nel testo, e ancora una volta non sotto
123
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., pp. 43-4.
126
forma di pensiero personale bensì messa in bocca di nuovo a un viaggiatore della generazione
precedente, il botanico tedesco Schweinfurth:
«Diffondere la civiltà fra questa gente, pretendere di educarli con l’esempio è sogno da Arcadi,
non proposito da colonizzatori. Bisogna sostituire razza a razza: chi dice altrimenti,
chiacchiera, non ragiona […] Quando ci si mette nelle imprese coloniali, bisogna stare a
giorno dei più recenti trovati della scienza e aiutarsene: altrimenti, si fa, vi domando scusa
un’ultima volta, ciò che avete fatto voialtri: si spendono quattrini a iosa con scarsissima
utilità».
Ebbi in seguito a convincermi che la maggior parte di quelle sentenze, le quali mi sembravano
allora troppo recise, erano il frutto di osservazioni ponderate;124
In questo caso Martini si serve del giudizio di un altro europeo per dare voce a critiche dirette nei
confronti della condotta coloniale italiana che, come abbiamo visto, pur non essendo arrivata a
ottenere risultati degni di nota e avendo anche dovuto subire pesanti battute d’arresto, gravava
comunque in modo più che consistente sul bilancio finanziario dello Stato. E qui l’autore dichiara la
propria adesione al pensiero espresso, preoccupandosi anche di mostrarne la recente presa di
coscienza, forse con l’intento di prevenire le critiche di quanti lo avevano visto sostenere in
precedenza decise posizioni antiafricaniste. In altre parole, l’essere a contatto diretto con la realtà
coloniale sembra agire prepotentemente sulla percezione che di essa aveva Martini quando era
ancora in patria, radicalizzandola in maniera decisa. Annullata ogni residua fiducia in una
possibilità di miglioramento dell’indigeno a contatto con l’elemento civilizzato, resta dunque come
unica possibilità quella di un intervento più profondo, che vada a incidere ben oltre la superficie
delle cose:
Perché ci è riuscito sostituire in gran parte de’ nostri territori il tallero eritreo al tallero di
Maria Teresa, non s’ha da credere ci riesca, con altrettanta facilità, sostituire nell’animo degli
indigeni le nostre opinioni morali alle loro.125
Se, dunque, non c’è alcuna speranza di cambiarli, tanto vale smettere di nascondersi dietro falsi
propositi umanitari, guardare in faccia la realtà, non cercare ipocrite quanto inutili giustificazioni, e
portare a termine l’opera avviata.
È più che evidente come Martini, di certo consapevole del proprio ruolo politico e dunque
dell’influenza che le sue parole potevano avere non solo sull’opinione pubblica contemporanea, ma
anche sugli effettivi indirizzi di governo, non sia parco di consigli, suggerimenti, e persino aspre
invettive contro quelli che giudica inutili e dannosi temporeggiamenti. D’altronde, anche negli anni
di governatorato in Eritrea egli avrà spesso da lamentarsi, con profonda amarezza, dell’indecisione
e dell’irresolutezza con cui vengono gestite “ai vertici” le questioni coloniali, dell’ignoranza che
124
125
Ivi, pp. 40-1.
Ivi, p. 127.
127
determina decisioni non adeguatamente ponderate, dell’errata ripartizione delle risorse
finanziarie.126
Per adesso, intanto, insiste, nei modi di un’oratoria epidittica che gli sono congeniali, affinché
siano definitivamente messi da parte ingenui scrupoli di natura morale, atti a servire da facili
pretesti per sottrarsi all’azione, e siano invece in tempi rapidi portate a compimento le premesse
gettate dal primo sbarco in Africa:
Abbiamo invaso l’Abissinia non provocati, per violenza, contro ogni giustizia; ci scusiamo
dicendo che gl’Inglesi, i Russi, i Francesi, i Tedeschi, gli Spagnuoli fecero altrove altrettanto.
E sia. Non possiamo abbandonarla per molte ragioni, e non senza molta vergogna, lo credo
anch’io, e sta bene. Risparmiamoci dunque la vergogna, ma non la scrupoleggiamo, per timore
degli effetti, sopra violenze e ingiustizie minori, le quali ora andiamo commettendo. Non
pregiudichiamo nulla per finzione o per rispetto umano; le ingiustizie e le violenze saranno
necessarie un giorno o l’altro; tanto più necessarie quanto migliore il successo dell’impresa a
cui ci accingemmo.127
Martini vuole qui fare appello a un’esigenza di coerenza, che è poi in fondo la cifra sempre
mancante, e come tale sempre rimproverata, alla politica coloniale nazionale: l’occupazione di
territori altrui si è posta già di per sé in un’ottica usurpatrice per la sua assoluta gratuità, essendo
stata dettata solo da interessi personali. L’attenuante, in questo senso, può essere trovata
nell’adeguamento a consuetudini messe in atto già dagli altri Paesi europei; ma questo in realtà ha
poca importanza agli occhi dell’autore, in quanto il suo atteggiamento è tutto improntato al rifiuto
delle giustificazioni e delle recriminazioni, volto al futuro e non al passato. Una volta stabilito,
dunque, che non si può abbandonare la neo-nata colonia, per non essere costretti a sopportare poi la
vergogna che ne deriverebbe, è controproducente sollevare interrogativi e “filosofeggiare” su ogni
azione da compiere, soprattutto nel caso in cui la scelta sia in fin dei conti obbligata. Almeno tale è
secondo Martini che, diversamente da come avevamo visto fare da Bianchi, non solo non affianca
alla via violenta nessun’altra strada percorribile in alternativa, ma considera per di più i risultati
raggiunti direttamente proporzionali al grado di violenza utilizzata. Senza dubbio è condivisibile e
bello a parole il disegno dell’Italia, che vorrebbe «la grandezza senza spesa, le economie senza
sacrifizi, e la guerra senza morti»128, ma del tutto utopico e inapplicabile nella situazione reale.
Anche la pratica delle punizioni, allora, viene a inserirsi nel medesimo quadro, e anche su di essa
Martini dichiara di aver vinto l’originaria reticenza, una volta convintosi «per questa e per tante
altre cose, che è un errore marchiano il giudicare dell’Affrica con criteri europei».129 Curiosa,
questa volta, la motivazione addotta, che a prima vista potrebbe far pensare a un segnale di apertura,
126
Si vedano a questo proposito anche le numerose epistole di questo periodo, inviate ad amici e familiari, dove
Martini esprime tutta la propria frustrazione: Ferdinando Martini, Lettere (1860-1928), Milano, Mondadori, 1934.
127
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., p. 90.
128
Ivi, p. 50.
129
Ivi, pp. 22-3.
128
insito nel riconoscimento dell’inapplicabilità del proprio metro di giudizio a contesti diversi dal
proprio. Tuttavia, simile premessa funziona in un certo senso “al contrario” di come ci si
aspetterebbe: non equivale infatti a una messa da parte dei propri pregiudizi in nome del rispetto da
accordare ad un’altra cultura, bensì serve qui solo a sottolineare una volta di più, se ce ne fosse
bisogno, il divario incolmabile che separa la “vera” civiltà da quella che «se non è barbarie, poco ci
corre».130
D’altronde Martini non fa mistero, nelle sue pagine, di considerare irrimediabilmente superiori la
razza e la cultura cui egli stesso appartiene, se è vero che l’unico ambito in cui gli indigeni possono
superare gli europei pertiene alla sola forza fisica, particolarmente evidente nell’attività militare,
dove «per lo meno fin che si tratta di marciare, la creatura inferiore non è il nero, è il bianco».131 Ma
si tratta di un riconoscimento effimero, anzi, quasi volontariamente svilente per coloro che lo
ricevono, inteso com’è a sottolineare una caratteristica che finisce per avvicinare il nativo più agli
animali che agli altri esseri umani. Tanto più visto che, proprio tra i soldati che combattono a fianco
degli italiani,
v’è persino un antropofago: un Niam-Niam, il quale, venuto fra gente che, sebbene abbia poco
da mangiare, non s’è ancora adattata all’espediente di cibarsi di carne umana, pare si vergogni
delle usanze della sua tribù e si prova a difenderla. In fondo, dice, non si mangiano che i
nemici, e quando sieno caduti in guerra: e anche di loro un po’ del gozzo soltanto!132
Con la solita ironia pungente questa volta l’autore cambia il bersaglio, e ne sceglie uno oltremodo
facile da attaccare: la presunta antropofagia degli azande. In realtà, nelle parole del Martini la
pratica cannibale non ha più nemmeno l’attenuante, che sempre abbiamo visto introdotta finora, del
“sentito dire”, della notizia riferita ma di cui non si poteva asserire con certezza, per mancanza di
testimonianza diretta, la sincerità. Anzi, non sembra che l’autore si ponga nemmeno il problema, o
meglio egli lo aggira semplicemente mettendo in bocca all’indigeno stesso una quanto mai
improbabile (oltre che ridicola) giustificazione del proprio costume. In fondo, quello che a Martini
interessa comunicare con l’inverosimiglianza di una simile scenetta è solo il senso di orgoglio e
l’arroganza di appartenere a una stirpe che, proprio nella misura in cui sa dominare e controllare i
propri istinti, può ritenersi davvero “civile”. Per dirla, ancora una volta, con Todorov:
In pratica, come si giudicano gli altri? Naturalmente, la stima maggiore viene sempre riservata
a se stessi: ogni essere particolare è spontaneamente egocentrico; ogni popolo […] è
etnocentrico. I nostri giudizi sugli altri, che si rivestano dei colori dell’oggettività o
dell’imparzialità, non descrivono, in realtà, che la distanza che ci separa da loro: più ci sono
130
Ivi, p. 141.
Ivi, p. 76.
132
Ivi, p. 70.
131
129
vicini, più li stimiamo […] Al contrario, quello che giudichiamo ridicolo negli altri è tutto ciò
che ci è estraneo.133
Martini, in questo senso, non depone mai l’ascia: per tutto il tempo del suo viaggio in colonia
mantiene inalterato il proprio atteggiamento sarcastico, ma anche duro e inflessibile, prendendo di
mira gli inopportuni indugi della politica italiana, cercando di smuovere le coscienze e di indurle
all’azione, ma neppure risparmiando l’altro versante della barricata. Se, in effetti, non si trovano nel
testo, almeno non nella stessa percentuale in cui sono presenti nei resoconti precedenti, descrizioni
denigranti degli indigeni o giudizi perentori ed espliciti sulla loro barbarie, è semplicemente perché
essi sono veicolati, in un’ottica assolutamente eurocentrica, proprio attraverso le indicazioni sul
migliore comportamento da tenere fornite ai connazionali. Laddove, in altre parole, si riconosce
l’impossibilità della sua educazione morale e si incoraggia l’uso della violenza e della
sopraffazione, va da sé che la considerazione per la popolazione africana sia praticamente
inesistente.
Una simile posizione ideologica contrasta solo in apparenza con la vena “esotica” dell’autore,
alimentata senza dubbio da un ponderoso bagaglio di letture che lo porta a proiettare sul continente
sconosciuto le proprie fantasie.134 Per questo motivo, come succedeva anche a Vigoni, egli rimane
deluso quando sbarca in Egitto, infastidito dalle contaminazioni di gusto europeo che, a suo avviso,
snaturano il genuino carattere africano:
Ed io agognavo a quell’altra Africa, della quale Aristotile direbbe oggi come venti secoli fa,
che sempre ha da mostrarci qualcosa di curioso e di inaspettato […] mi tornavano alla mente le
notizie intorno ai popoli semi barbari del continente nero, imparate via via nei libri degli
esploratori.135
Quello che Martini vorrebbe vedere, e che in effetti vedrà poi nel corso del viaggio, è l’immagine
preconfezionata che ha appreso dai libri, e che ha portato con sé in Africa, che fa di quest’ultima il
regno della purezza incontaminata, dell’ingenuità incorrotta dalle raffinatezze. Tuttavia anche in
questo caso, lungi dal rappresentare una forma di riconoscimento e di rivalutazione dell’alterità in
quanto tale, una simile visione del continente nero serve solo a instillare nel viaggiatore europeo
una forma di nostalgia per qualcosa che egli sente di aver irrimediabilmente perduto. «Ma proprio
in questo si vede che l’Altro rimane una perpetua proiezione ideale dell’europeo, una forma di
trasporto del suo desiderio, senza nessun contatto con la realtà». 136 In altre parole, questa
133
Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, cit., pp. 57-8.
La catalogazione delle opere di viaggio possedute - e dunque verosimilmente lette - da Martini è stata curata da
Rossella Dini e Franco Savi: Viaggi, popoli e paesi nella libreria di Ferdinando Martini conservata dalla Biblioteca
Forteguerriana di Pistoia. Catalogo, Milano, Bibliografica, 1993.
135
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., p. 14.
136
Anita Licari, Lo sguardo coloniale, Per un’analisi dei codici dell’esotismo a partire dal Voyage au Congo di
Gide, in Anita Licari, Roberta Maccagnani, Lina Zecchi, Letteratura esotismo colonialismo, cit., p. 50.
134
130
esaltazione dello spirito innocente e primitivo non si pone comunque in contrasto con le esigenze
della civilizzazione: se l’Africa rigenera lo spirito viziato dell’europeo è proprio perché è rimasta
ferma a un gradino inferiore dello sviluppo umano, e compito dell’Occidente è quello di agire con
ogni mezzo per colmare questa lacuna. Ecco allora che «alla fine il viaggio nel cuore dell’Africa
riusciva anche per il pacato signorotto del contado […] un viaggio nel cuore dello “spleen” esotista
di fine secolo»137, come si evince dalla pagina finale del testo, tutta intrisa di retorica e vibrante del
più raffinato esotismo:
I vincoli, che noi uomini inciviliti ci andiamo artificiosamente e sempre intessendo d’attorno,
ci stringono, ci opprimono, pare che a volte ci soffochino; l’Affrica li spezza e ci libera. Le
leggi, le invenzioni, le costumanze impediscono ormai nell’Europa decrepita i raccoglimenti,
empiono di moto e di fragore le solitudini; quelle, che l’Affrica tuttavia custodisce, solitudini
educatrici, dove il pensiero si eleva e si affina, l’animo si migliora e Dio si ritrova.138
Dopo aver a lungo, come abbiamo visto, insistito sulla necessità di un pronto e radicale intervento
in colonia, volto a modificarne alla base la stessa composizione etnica, il resoconto si chiude sulle
note di un’entusiastica celebrazione della primigenia atmosfera africana, capace da sé di innalzare
l’animo umano ai migliori propositi. L’uomo indigeno, non a caso, è del tutto assente da questo
quadro, in linea con la sua totale svalutazione portata avanti per tutto il corso del testo: il fascino
dell’Africa, sembra di capire, è qualcosa di cui solo l’uomo europeo, ancora una volta, sa e può
godere, proprio nella misura in cui esso lo riconduce a stati d’animo da lungo tempo accantonati.
Non c’è contrasto, come dicevo, con l’immagine stereotipata e degradante costruita finora: se
quest’ultima, infatti, legittima l’occupazione straniera, l’esotismo si muove in fondo nella stessa
direzione, «perché serve alla macchina territoriale dello Stato per ridurre il territorio a paesaggio
geografico e poi per valorizzare il paesaggio geografico come suolo nazionale».139 E Martini, dal
canto suo, si dimostra in questo senso perfettamente integrato nella propria epoca, esemplare
rappresentante di quella congerie politico-culturale italiana di fine Ottocento che stiamo cercando di
ricostruire attraverso i resoconti di viaggio, in cui appunto persistenti tracce di esotismo nostalgico
si uniscono e si alternano a un’inclinazione colonialista sempre più decisa e aggressiva.
137
Mario Tropea, Ferdinando Martini: «Nell'Affrica Italiana», impressioni e ricordi di un toscano in Colonia, in
Miscellanea di Storia delle Esplorazioni, IX, Genova, Bozzi, 1984, p. 102.
138
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., p. 217.
139
Gianni Celati, Situazioni esotiche sul territorio, in A. Licari, R. Maccagnani, L. Zecchi, Letteratura esotismo
colonialismo, cit., p. 23.
131
3. La donna indigena
Fino a questo punto abbiamo dunque cercato di ricostruire, attraverso alcuni tra i resoconti della
seconda metà dell’Ottocento che abbiamo ritenuto essere i più significativi, le modalità con cui a
questa altezza cronologica viaggiatori ed esploratori italiani pongono, e si pongono, la questione del
rapporto tra la propria civiltà e quella che incontrano nelle regioni africane su cui la nazione sta solo
adesso e a fatica iniziando a focalizzare le proprie mire espansionistiche. Come abbiamo visto, la
prima assume su di sé i caratteri della civiltà tout court, incarnazione astratta di regole e valori che
la pongono sul gradino più alto di una scala gerarchica assolutamente eurocentrica; le popolazioni
del continente nero, al contrario, finiscono inevitabilmente per rappresentare, in forza della loro
radicale diversità nella non condivisione delle stesse consuetudini e degli stessi valori, l’estremo
opposto di quella stessa scala, semplicisticamente etichettate come “barbare” o “selvagge”, e nella
cui possibilità di evoluzione “i bianchi” sembrano riporre sempre minore fiducia.
Un secondo elemento interessante è costituito dalla rappresentazione, quasi mai neutra, almeno
in apparenza, bensì volutamente accompagnata da espliciti giudizi, della donna indigena, che sia
caratterizzata individualmente o intesa in senso più ampio, e ancor meno appropriato, come
categoria generica cui fare riferimento. Anche questo motivo è capace, infatti, nelle sue diverse
articolazioni, di rendere conto di particolari modi di rapportarsi del soggetto, viaggiatore e scrittore,
nei confronti dell’alterità, del suo spesso maldestro tentativo di coniugare il fascino da essa
derivante alle esigenze di una sua radicalizzazione, presupposto necessario per legittimare un
intervento non richiesto e per giustificarne le forme spesso tutt’altro che umanitarie.
Mi sembra utile, preliminarmente, notare che, sia pure ammettendo le ovvie difficoltà di
comunicazione e di interazione nel momento dell’effettivo contatto tra esploratore e indigeno (per
cui spesso, ad ogni modo, siamo informati della presenza di un interprete linguistico), è in pratica
molto raro trovare nei resoconti di viaggio esempi di rapporti interpersonali instaurati con persone
comuni, di cui peraltro mai viene colta la possibile individualità. In altre parole, l’elemento umano
locale funziona in questi testi quasi esclusivamente nella sua facile generalizzazione, in base alla
quale caratteristiche notate singolarmente vengono indebitamente considerate qualità proprie della
popolazione nella sua interezza. Unica eccezione, almeno parziale, in questo senso è costituita dagli
incontri con personaggi del più alto rango, sui quali gli autori tendono a focalizzare la propria
attenzione e dei quali spesso non mancano di fornire descrizioni accurate e significative.140 Essi
devono infatti possedere caratteristiche che li distinguano dall’indigeno comune permettendo loro di
governare su di esso, ed è proprio questa forma di potere che essi detengono all’interno della
140
Per una trattazione specifica di alcuni di questi incontri rimando al mio articolo: Esploratori e indigeni.
L’incontro con l’altro da sé, in Gabriele Proglio (a cura di), Orientalismi italiani, vol. 2, cit., pp. 39-56.
132
propria comunità ad attirare, verosimilmente, l’interesse del viaggiatore europeo, e a far loro
“meritare” una menzione particolare.
Nella stessa ottica, la donna si pone come catalizzatrice dello sguardo maschile europeo in
quanto, inevitabilmente, unisce all’alterità etnica, immediatamente riscontrabile nel colore della
pelle, quella di natura sessuale. Non è forse un caso allora, come notava già Surdich141, che simile
focalizzazione tematica non sia, ad esempio, riscontrabile nei resoconti di viaggio di Rosalia
Pianavia-Vivaldi o della duchessa d’Aosta, Elena di Francia (di cui mi occuperò, tra gli altri, nel
prossimo capitolo). Ai loro occhi, evidentemente, la donna indigena non meritava in sé
un’attenzione particolare; al contrario, in un significativo rovesciamento di prospettiva, espressioni
e immagini in genere usate per descriverla possono qui essere riadattate in riferimento a personaggi
maschili. In altre parole, la diversità nutre la percezione dell’uomo “bianco” in colonia, e ne guida
l’interesse attraverso molteplici fattori.
Al tempo stesso non possiamo ignorare il fatto che, a un livello più generale, è l’Africa nella sua
interezza, in forza delle sue caratteristiche di territorio vergine, conturbante, misterioso e
ammaliante, a essere identificata con l’elemento femminile, prestandosi, per passività e
arrendevolezza, a divenire oggetto di conquista da parte dell’uomo, rappresentante a sua volta la
forza assoggettatrice del continente europeo. Questa, ad esempio, è l’interpretazione che
Maccagnani fornisce dei romanzi di Pierre Loti, dove la posizione del protagonista maschile
europeo verso la donna locale riflette il suo approccio più generale all’alterità in quanto tale, per cui
la conquista coloniale si pone sempre come conquista sessuale. 142 In realtà, è forse troppo
semplicistico porre un’equivalenza assoluta tra donna come persona da sottomettere e Africa come
continente da assoggettare. Senza dubbio nei testi stessi, come vedremo, si riscontra un alto tasso di
ripetitività di immagini e di lessico, che conduce nella direzione di una certa omogeneità di punti di
vista e di atteggiamenti. Eppure, ancora una volta, bisogna evitare di cadere nel rischio di
ricondurre sotto un unico comun denominatore esperienze in parte diverse per luogo e tempo,
finalità e presupposti, o per l’indole stessa dei diversi protagonisti. Non stupirà, dunque, rilevare
l’impossibilità di isolare un unico modo di rappresentazione della donna indigena, volto a
comunicare un univoco messaggio; tanto più che, in prospettiva diacronica, vedremo nell’ultimo
capitolo come mutamenti in ambito politico e ideologico andranno a incidere profondamente anche
su questo specifico aspetto. Per ora ci basti rilevare che, come ha sottolineato Barbara Sorgoni in
uno studio dedicato in particolare ai problemi posti dalla sessualità interrazziale durante il dominio
italiano in Eritrea:
141
Francesco Surdich, La donna nell’Africa orientale nelle relazioni degli esploratori italiani (1870-1915), cit., p.
196, n. 10.
142
Si ricordi, a questo proposito, il primo appunto di Flaiano in Aethiopia. Appunti per una canzonetta: «Alla base
di ogni espansione, il desiderio sessuale» (in Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, cit., p. 289).
133
Il possesso territoriale e il dominio coloniale non hanno cioè necessariamente bisogno della
metafora sessuale per essere propagandati. E comunque, come i più recenti studi di analisi del
discorso coloniale tendono ormai a far emergere con chiarezza, il tratto che caratterizza il
discorso del potere non è l’univocità autoritaria del messaggio ma al contrario la sua intrinseca
ambiguità, il suo inevitabile ibridismo.143
Ripercorrendo i resoconti introdotti nel paragrafo precedente, saremo pertanto anche in grado di
giudicare se e fino a che punto questa identificazione funzioni nel riscontro testuale, e soprattutto in
quali altri modi, e con quali intenti, la figura femminile trovi in essi un suo spazio specifico.
3.1 Una lezione sul rispetto dei ruoli
Nel corso del suo prolungato soggiorno presso la tribù degli azande, i cosiddetti Niam-Niam a
lungo destinati ad alimentare leggende e fraintendimenti, il lucchese Carlo Piaggia ha modo di
arrivare a conoscere piuttosto da vicino la società della quale si trova ammesso a fare parte. Nel
quadro che egli ne delinea nelle proprie pagine, la donna sembra di per se stessa ricoprire un ruolo
particolare: questo non significa, come erroneamente si potrebbe pensare, che goda di privilegi
rispetto all’uomo; bensì che, al contrario di quanto verrà poi sottolineato da molti altri viaggiatori
italiani (vedremo di volta in volta con quale grado di ignoranza e di semplificazione), abbia
comunque un posto ben definito, fatto di doveri ma anche di diritti, per cui può spesso rappresentare
un dono prezioso per chi la riceve, ma al tempo stesso può essere punita gravemente, al pari di
chiunque altro, qualora commetta un atto considerato illegittimo. Significativo, e illuminante per
capire meglio questo aspetto, è un episodio riferito dall’autore con il consueto stile narrativo che gli
è proprio, ossia attraverso la descrizione quanto più possibile oggettiva dell’accaduto, che si astiene
dal commento e che mira, attraverso il ricorso costante al discorso indiretto, a riproporre al lettore la
scena nella sua immediatezza. Avendo colto una donna nell’atto di sottrargli della carne dal fuoco,
Piaggia la punisce con percosse che subito richiamano l’attenzione di Tombo:
Io spiegai l’accaduto; ma il Capo, per risposta, mi mostrò una delle lance e mi disse che se
avessi bastonato un’altra sua donna, mi avrebbe senz’altro ammazzato con la sua lancia.
Intanto bonariamente soggiungeva che le donne non si devono mai bastonare, perché esse
devono farci da mangiare e servirci: se si comportano male, si puniscono col privarle del
nostro sguardo e della nostra parola; se la donna tradisce il suo uomo questi ha il diritto di
metterla a morte.144
La donna, dunque, è sì chiamata a espletare i propri compiti, in conseguenza dei quali si trova a
occupare una posizione di sottomissione nei confronti dell’uomo, però questo le garantisce a sua
volta protezione e rispetto. Piaggia non commenta ulteriormente l’accaduto, ma è lecito supporre
che, essendosi preso la libertà di battere la donna, non si aspettasse un simile rimprovero da parte
143
Barbara Sorgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia
Eritrea (1890-1941), Napoli, Liguori, 1998, p. 62.
144
Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, cit., p. 206.
134
del capo tribù, le cui parole suonano come una vera e propria lezione morale impartita allo
straniero. Pur astenendosi dall’ammetterlo esplicitamente, l’autore doveva essersi verosimilmente
stupito della reazione di Tombo: bisogna a questo proposito considerare il fatto che, ancora nella
seconda metà dell’Ottocento, in Italia ben scarsa era l’attenzione riservata ai diritti delle donne. In
questo senso si spiega allora l’insistenza con cui Piaggia ritorna più volte (sia pure sempre in
maniera apparentemente acritica) a fornire al lettore le coordinate fondamentali del rapporto tra i
due sessi, di cui egli stesso si trova a essere testimone e che evidentemente dovevano in qualche
modo risultare degne di nota ai suoi occhi:
La donna è tenuta in gran conto dall’uomo, che talvolta la aiuta nei lavori domestici. Anche se
è bambina si considera madre dell’uomo, e diventata adulta si sceglie un compagno
provvisorio se desideri diventare madre di fatto e presto. L’uomo prescelto viene da essa
custodito e curato come un proprio figliolo; per lui va a pescare, raccoglie la frutta nei boschi,
si adopera per procurargli i cibi più graditi.145
La devozione della donna all’uomo è totale, ma al tempo stesso essa viene ripagata dall’alta
considerazione riservata alla propria compagna dall’uomo stesso, il quale non disdegna,
all’occorrenza, di assisterla nei lavori di casa. Persino la pratica dell’antropofagia, sulla quale
l’autore chiede ragguagli allo stesso capo tribù, trova la sua ragion d’essere proprio nell’esigenza di
difendere le donne e di accordare loro il massimo rispetto possibile: «Il mio popolo è anche il tuo e
se tu non fai vedere che lo mangi quand’è cattivo, non rispetterà le tue donne. È così che fanno tutti
i grandi»146, spiega Tombo.
Non è solo l’episodio delle percosse, inoltre, a mettere in imbarazzo il nuovo arrivato e a
dimostrarne l’incomprensione delle regole non scritte che governano il buon andamento della
società zande. Se, infatti, la violenza nei confronti delle sue donne, quando non supportata da
adeguata giustificazione, è condannata e bandita dal capo tribù, al tempo stesso quest’ultimo si
dimostra perfettamente consapevole dei meccanismi su cui poggia l’equilibrio delle parti all’interno
della propria comunità, e non è disposto in alcun modo a permettere che esso venga minato
dall’arrivo dello straniero. Così Piaggia riferisce infatti un’ulteriore “lezione” di comportamento
che gli viene impartita da Tombo dopo aver costruito un mulino utile alle donne per macinare più in
fretta i grani della polenta, e di cui esse si dimostrano peraltro entusiaste:
Ma la festa durò poco, ché Tombo venuto da me mi ordinò di rompere subito le pietre. – Da
quando – mi disse – hai inventato il molino, le donne non sanno più cosa fare, e invece di
restare nelle capanne vanno nei boschi. Tu non devi dare alle donne cattive abitudini, perché la
donna è fatta solo per lavorare, e quando non lavora va in cerca dell’uomo. Tombo non aveva
torto e per non inimicarmelo distrussi il molino in sua presenza.147
145
Ivi, p. 280.
Ivi, p. 235.
147
Ivi, p. 242.
146
135
È interessante notare qui l’atteggiamento fermo e deciso dell’indigeno di fronte alla prospettiva di
miglioramenti tecnici che possono essere apportati dall’uomo europeo. Forse mosso da un fine
meno utilitaristico, Piaggia risponde comunque, con il proprio intervento, a quell’opportunità su cui
abbiamo visto insistere Bianchi e Bricchetti di instillare nella popolazione locale, attraverso
l’esempio, il desiderio di mezzi di cui hanno fino ad allora fatto a meno. Ebbene, l’esito del suo
tentativo finisce per ribaltare completamente questa prospettiva: Tombo non si sofferma neppure a
discutere sulla maggiore o minore utilità pratica che il mulino può effettivamente rappresentare, in
quanto il suo effetto sul comportamento della popolazione è senza dubbio negativo. In altre parole,
questo episodio dimostra come le premesse sui cui si basa la fiducia di esploratori quali Bianchi o
Bricchetti, appunto, possono essere disattese nella realtà per il semplice fatto che sono, ancora una
volta, di marca squisitamente eurocentrica, e non prendono nemmeno in considerazione
l’eventualità di dare luogo a effetti diversi in diversi contesti.
3.2 “La curiosità è donna”
Il rapporto di Piaggia con l’altro sesso, che abbiamo visto finora sempre mediato dall’intervento
del capo tribù, si trova in realtà a caratterizzare in un senso particolare il soggiorno del viaggiatore
lucchese fin dal suo arrivo: primo uomo bianco a spingersi nella regione, egli diviene fin da subito
oggetto di morbosa curiosità da parte della popolazione locale. In particolare, dopo il primo
incontro con Tombo, l’immediata intesa tra i due e la sua formale accoglienza, sancita con
l’affidamento da parte di quest’ultimo di uno dei propri figli affinché faccia da guida allo straniero,
Piaggia viene introdotto nel corteo di donne che attornia il re, e che ne conferma ulteriormente il
potere e la sovranità.148 E sono proprio le donne, qui come anche più avanti nel testo, a prendere
con lui maggiore confidenza, e a manifestare nei suoi confronti quella curiosità che gli diventa
presto molesta. I motivi di tanto stupore, rilevati dall’autore stesso, risiedono sostanzialmente in due
caratteristiche evidenti nel suo aspetto esteriore: l’uso di vestiti, atti a coprire la maggior parte del
suo corpo, e il chiarore della pelle, in ragione del quale viene ritenuto mandato dal cielo, in base
all’analogia per cui il colore nero viene associato con la terra. Solo l’intervento in prima persona
dello stesso Tombo, che impone il massimo rispetto nei confronti del nuovo venuto, riesce a
toglierlo dall’imbarazzante situazione in cui le donne tentano addirittura di privarlo degli indumenti
per poterne ammirare la pelle.
148
Non a caso, lo stesso Tombo rifiuterà di lasciare a Piaggia due fanciulle, avute in dono da un altro capo locale,
spiegandogli «che soltanto lui era il grande e che io non dovevo avere molte donne, perché non avevo uomini a cui
comandare» (Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, cit., p. 223). Come ha sottolineato Lombardi-Diop a questo
proposito, l’accettazione di una donna per la preparazione dei cibi si iscrive nella stessa logica di reciprocità di scambi
con la comunità che Piaggia a poco a poco impara a conoscere e a rispettare. La donna deve preparare i cibi per gli
uomini che sono a lui soggetti: pertanto, non avendo lui molti uomini sottoposti, non ha bisogno di molte donne. (Cfr.
Cristina Lombardi-Diop, Gifts, sex, and guns, cit.).
136
Solleva qualche dubbio sulla genuinità di una tale descrizione il fatto che l’alterità dello straniero
susciti meraviglia presso un pubblico esclusivamente femminile, dal momento che le ragioni di tale
stupore non sono in alcun modo legate a una differenza di genere. D’altro canto, è probabile che
Piaggia risenta in parte di uno stereotipo comunemente diffuso nella cultura occidentale, e che non
a caso agisce anche in altri resoconti, per cui la curiosità viene in genere ritenuta una caratteristica
propriamente femminile: Robecchi-Bricchetti, ad esempio, è oltremodo esplicito in questo senso,
quando a sua volta narra di trovarsi spesso circondato da donne indigene «spinte da quella curiosità
che in diversi punti del globo ho visto essere comune al sesso debole». 149 Inoltre, è anche
verosimile che Piaggia si compiaccia, pur non ammettendolo e anzi insistendo solo sull’effetto
fastidioso che gli procura, di dipingere se stesso come oggetto di sì grande interessamento da parte
delle donne indigene, su cui evidentemente si sarebbe appuntato, a sua volta, l’interesse dell’uomo
bianco potenziale lettore delle memorie. Infine, è plausibile che la focalizzazione sull’elemento
femminile sia legata in buona parte all’alta considerazione e allo specifico ruolo che esso assume
alla corte del re: anche quando l’autore ci presenta le donne nell’atto di ornarsi dei vetri colorati che
trovano nella sua capanna150, è bene notare che si riferisce sempre e solo alle “donne di Tombo”, in
tutto il testo assunte come fondamentale parametro di riferimento per l’universo femminile
indigeno.
Eppure, Piaggia non è l’unico, tra i protagonisti di questa fase di avvio dell’esplorazione italiana
in territorio africano, a essere infastidito, almeno a parole, dalla curiosità che gli indigeni
manifestano nei suoi confronti; né è l’unico, peraltro, ad attribuire alle donne l’incontestabile
primato nel possesso di questa attitudine. Augusto Franzoj sopporta mal volentieri le richieste più
svariate che gli vengono rivolte da ogni parte, conscio del fatto che «per i villaggi abissinesi ogni
bianco è un uomo pieno di tutte le ricchezze immaginabili e portentoso per scienza umana e
magica».151 Ma prova irritazione ancor maggiore nel constatare che sono soprattutto le donne, nella
pratica quotidiana, a rendersi moleste con continui assedi. E di tale realtà egli, al contrario di
Piaggia, non esita a spiegare quella che ritiene essere la causa unica:
La moralità poi in ribasso, come mai non vidi, permette ai mariti ed ai padri di mandarvi con
un certo mistero la moglie o la figlia, le quali hanno sempre carta bianca, perché riescano a
farsi dare qualche cosa, che già inutilmente essi avevano chiesto.152
149
Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel paese degli aromi, cit., p. 176.
«Mentre badavo alle cacce, le donne di Tombo entravano qualche volta nella mia capanna e prendevano grani di
vetro colorato per adornarsene il collo e le braccia. Io che mi avvedevo della sparizione, non mancavo di chiedere quale
persona fosse entrata nel mio abituro, e subito mi veniva indicata. Né le donne negavano di aver sottratto gli oggetti,
chè fra quei popoli il furto è sconosciuto. Dopo aver girato con quegli ornamenti, me li riportavano, se pure non li
passavano a qualche amica che voleva a sua volta pavoneggiarsene» (Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, cit.,
p. 233).
151
Augusto Franzoj, Continente nero, cit., p. 37.
152
Ivi, p. 38.
150
137
Franzoj compie qui due operazioni totalmente arbitrarie: prima di tutto nega alla donna indigena
una propria autonomia di comportamento, mostrandola chiaramente sottomessa al volere del marito
o padre che sia, che ne dispone a proprio piacimento. Ma non solo: il presunto assoggettamento da
parte dell’uomo si carica, indebitamente, di un’immoralità aggiunta, nella misura in cui Franzoj
vuole, con le proprie parole, insinuare l’autorizzazione implicita da parte dello stesso a un eventuale
sfruttamento sessuale da parte dell’uomo bianco, purché questo possa garantirgli il soddisfacimento
del proprio fine. È chiaro che, quale che possa essere stata la rispondenza alla situazione reale,
quella espressa da Franzoj ricade nel campo delle pure illazioni: non c’è − che difficilmente egli
avrebbe mancato di sottolinearlo − alcun elemento particolare, nell’atteggiamento delle donne che
lo disturbano, tale da giustificare una conclusione di questo tipo. D’altronde, anche quando egli
stesso riconosce che l’essere in presenza di usi e costumi diversi dai propri dà inevitabilmente a essi
anche un valore diverso, per cui ad esempio «le donne etiopi − avvezze come sono alla nudità fin
quasi all’età pubere − non la considerano punto un’indecenza», ciò non basta tuttavia a stimolarne
la comprensione; al contrario, ogni pretesto è buono per ridicolizzare la diversità che si ha di fronte:
Le mie compagne di guado, passato il torrente, si trovarono anch’esse col corpo pieno di
sanguisughe. Ed allora, oh le grida ed i contorcimenti strani e le pose più strane ancora per
farsele staccare! Nulla ho mai veduto di più inverecondamente buffo.153
3.3 Le “piagnone”
La nudità, d’altronde, è solo una delle pratiche indigene che stupiscono, di riflesso, il viaggiatore
europeo, e che trovano dunque specifica menzione all’interno della sua narrazione. In particolare,
degna di nota in alcuni resoconti è la consuetudine che accompagna i riti funebri indigeni, nei quali
sono nuovamente le donne ad avere un ruolo di primo piano: esse infatti si fanno carico, in queste
occasioni, di rappresentare il lutto vissuto da tutta la comunità per la perdita subita, esibendosi
spesso in manifestazioni di dolore ostentate e plateali. Si tratta, com’è ovvio, di forme rituali
codificate in una tradizione di lunga data, e che non a caso vengono riattualizzate in ogni occasione,
senza che ci sia bisogno di uno specifico legame con il morto, o che quest’ultimo abbia un
particolare statuto. Bianchi è il primo tra i nostri viaggiatori, per quanto almeno ci è dato di sapere
dalla lettura dei loro stessi racconti, ad assistere a una cerimonia di questo tipo, che egli stesso
definisce “curiosa” ancor prima di descriverla, dalla quale ammette di aver ricevuto una certa
“impressione”, e che si sofferma a illustrare con dovizia di particolari ripercorrendone tutto lo
svolgimento:
La famiglia, i parenti e gli amici del defunto si incaricano del trasporto della salma sino al
recinto attorno alla chiesa che serve di cimitero. I parenti e gli amici debbono piangere, anche
153
Ivi, p. 187.
138
se non ne hanno voglia, e per questo, a seconda dei mezzi di cui dispone la famiglia, v’è alla
casa del defunto distribuzione di talà e di tegg, per uno, due o più giorni. Ma non basta;
bisogna pagare altra gente, più specialmente donne e fanciulle, con l’engerà, col sale, col tegg
e la talà, perché si uniscano agli amici, ai parenti, a condurre la salma al cimitero, piangendo
sempre. Vi sono donne in paese che fanno la cosa per mestiere; sono conosciute fra le più
brave a piangere, son chiamate a quasi tutti i funerali, e il loro numero varia a norma della
condizione della famiglia che fa le spese. La salma […] è seguita da una turba di gente che
piange perché pagata. Le donne e le fanciulle sono in maggior numero e son quelle che
piangono meglio. Coperte appena di una sdruscita camicia, sciolte le chiome abbandonate al
vento, seguono il corteo all’innanzi, a braccia penzoloni e, fingendo sempre di piangere
dirottamente, procedono come forsennate, dimenandosi con un movimento continuo laterale
del busto. Giunti al cimitero − od anche al luogo speciale designato dalla famiglia del defunto
− scavata la fossa, depostovi il cadavere, coperto di terra e di pietre sovrapposte, all’interno del
tumulo continuano i pianti per qualche tempo con movimenti sempre più marcati del busto, dei
fianchi e delle ginocchia. Così i movimenti di prima non tardano a cambiarsi in una danza
sfrenata, accompagnata da urli, da cantilene, che sostituiscono i gemiti e i pianti.154
Siamo qui dunque in presenza di un corteo funebre, a composizione prevalentemente femminile,
appositamente “ingaggiato” per accompagnare con pianti e lamenti la salma del defunto: non solo,
come l’autore ci tiene a sottolineare, le donne ne costituiscono la parte più numerosa, ma sono
anche quelle che, avendo fatto di questa attività un vero e proprio mestiere, vi riescono meglio, e si
ritrovano ugualmente a tutti i funerali. L’autore è senza dubbio consapevole della natura rituale di
una simile cerimonia, tanto che insiste nel descrivere anche i movimenti particolari che
accompagnano i lamenti delle donne. Non a caso, nessuna delle parole usate per questa descrizione
è totalmente neutra; al contrario, ognuna di esse è evidentemente scelta di proposito in forza della
sua connotazione sottilmente negativa, con la finalità di dare un quadro caricaturale di quanto si
svolge sotto i suoi occhi. La veste che copre le donne è “sdrucita”, i capelli sono non semplicemente
sciolti ma abbandonati al vento, quasi a suggerire un senso aggiunto di lascivia, così come
abbandonate sono anche le braccia, come se le donne agissero quasi spinte da una forza che le
possiede. O forse sanno solo calarsi bene nella parte, in quanto “fingono” di piangere e non
smettono di “dimenare” il corpo in modo “forsennato”, quasi fossero invasate. Persino una volta
deposto e ricoperto di terra il cadavere, le lacrime non cessano, anzi lasciano il posto a
manifestazioni ancor più teatrali, mentre grida e lamenti perdono ogni senso della misura. In realtà,
quello che lascia noi perplessi non è la natura del rituale spiccatamente femminile descritto, quanto
proprio l’impressione straniante che Bianchi ne riceve. O forse sarebbe meglio dire “pretende” di
riceverne, dal momento che è per noi abbastanza immediato, nel leggere la sua descrizione, stabilire
un accostamento con la figura della prefica, ossia della donna prezzolata che, fin dall’antichità,
partecipava appunto ai cortei funebri esibendosi in strepiti e lamenti; costume che, d’altronde, è
verosimilmente ancora presente (o lo era di certo ancora nel secolo scorso) in alcune zone dell’Italia
meridionale e della Sardegna. D’altra parte, come fa notare Francesco Surdich:
154
Gustavo Bianchi, Alla terra dei Galla, cit., p. 94.
139
nonostante troppo spesso si finga di ignorare tale realtà o la si isoli sotto la comoda definizione
di «folklore», esistono nelle nostre campagne riti legati alla donna che presentano
un’incredibile somiglianza con quelli africani descritti con divertita ironia e con un malcelato
senso di superiorità dai nostri esploratori di fine Ottocento.155
E qui, per giunta, non si tratta nemmeno di un vero e proprio rituale, come sono ad esempio quelli
nuziali sardi portati a mo’ di esempio dallo studioso nel proprio articolo, piuttosto di una
consuetudine ereditata da una tradizione evidentemente comune a entrambe le culture. Lungi,
tuttavia, dal cogliere l’occasione per sottolineare un elemento di contatto con gli indigeni, Bianchi
al contrario ne enfatizza la singolarità, mirando evidentemente a rinforzare l’estraneità anche
laddove non ce ne sarebbe motivo.
D’altronde, egli non è neppure l’unico a poter essere biasimato per un simile atteggiamento. Già
prima di lui, una scena molto simile l’aveva descritta anche Pippo Vigoni, che non a caso si era
spinto nelle stesse regioni attraverso le quali viaggia anche Bianchi. E anche Vigoni, come
quest’ultimo, era rimasto evidentemente “impressionato” dalla scena svoltasi sotto i suoi occhi,
della quale a sua volta propone un resoconto accurato e nient’affatto neutro:
Una trentina di megere schifose, con conterie e grossi anelli d’argento intrecciati ai capelli,
coperte solo da logori cenci, e alcune con un bambino appeso al dorso con una pelle,
continuano a ballare stranissime danze simili a rozze quadriglie, accompagnandosi con una
monotona cantilena interrotta da acuti gridi. Girano continuamente in un ristrettissimo spazio
diventato un vero pantano, nel quale di quando in quando si sdraiano per rimettersi poi
accovacciate a riposare. Di tempo in tempo dalle capanne vicine arrivano disposte in fila altre
megere saltellando, e prima di entrare nel circolo delle contraddanze, tutte devono stendersi al
suolo.156
Già il testo di Bianchi, come abbiamo visto, tendeva a rivestire di una patina chiaramente
dispregiativa le donne protagoniste, con i loro canti e movimenti, della cerimonia funebre cui si
trovava ad assistere. Mancano tuttavia, nella sua descrizione, accenni espliciti all’aspetto fisico
delle donne in questione, di cui in realtà non vengono fornite coordinate nemmeno riguardanti l’età.
Ben più esplicito, a questo riguardo, Vigoni, il quale, presentandole direttamente con l’appellativo
di “megere schifose”, non vuole com’è ovvio lasciare grande spazio all’immaginazione del lettore:
quel parallelismo con la figura della strega, allora, che in Bianchi era solo vagamente suggerito e
ricavabile attraverso la messa insieme degli sparsi elementi forniti (abbigliamento, capigliatura,
gesti), diviene qui oltremodo chiaro, conferendo un aspetto inquietante a tutta la scena. Lo stesso
sostantivo usato, e ripetuto due volte laddove mai compare invece il termine neutro “donna”,
conduce immediatamente all’associazione mentale con una ben determinata figura di vecchia, che
presumibilmente assomma su di sé le caratteristiche di bruttezza fisica e di cattiveria morale. Le
155
156
Francesco Surdich, La donna nell’Africa orientale…, cit., p. 200.
Pippo Vigoni, In Abissinia, cit., p. 62.
140
vesti sdrucite osservate da Bianchi sono qui scadute al rango di “logori cenci”, e l’attenzione di
Vigoni si appunta più sull’aspetto visivo che non su quello uditivo: riferisce anch’egli di come le
grida si alternino di tanto in tanto alle nenie cantilenanti, ma sembra soprattutto la natura ossessiva e
scomposta delle loro “stranissime” danze a incuriosire − o meglio a sdegnare − l’italiano. Manca, al
tempo stesso, il riferimento alla natura prezzolata di simili prestazioni, che in quanto tale le
accomuna da vicino a quelle della tradizione occidentale, ma è verosimile supporre che Vigoni non
ne fosse a conoscenza ovvero che non lo ritenesse, non a caso, un particolare degno di menzione:
inquadrare la situazione in un contesto di “rituale fisso a pagamento” ne avrebbe almeno in parte
ridotto il carattere tribale e demoniaco che l’autore intendeva testimoniare.
Mi sembra, a questo punto, interessante introdurre anche una voce che si pone, in questo stesso
rispetto, fuori dal coro costituito da Bianchi e Vigoni, fornendo al lettore un’immagine del tutto
opposta della medesima situazione. Luigi Robecchi-Bricchetti, infatti, che come abbiamo visto si
spinge a esplorare la regione somala su cui si erano di recente indirizzate le mire espansionistiche
italiane, riceve un’impressione radicalmente diversa dal corteo funebre che incontra sulla propria
strada:
una lunga processione d’uomini e di donne salmodianti, col viso contrito sì dal dolore, ma
senza alcuna esagerazione, senza quelle dimostrazioni eccessive che talora rendono men
solenne anche il dolore, s’avvicinava lentamente. Era un funerale, commovente nella sua
semplicità.157
Qui, addirittura, l’autore è favorevolmente stupito dal carattere dimesso del rito funerario,
consistente sostanzialmente in una semplice e comunissima processione se non fosse forse per
l’accompagnamento del canto, anch’esso tuttavia assolutamente pacato e dunque, nella visione di
Bricchetti, del tutto adeguato alla circostanza dolorosa. Inoltre, non viene in alcun modo evidenziata
una maggiore partecipazione dell’elemento femminile, anzi è lecito suppore che gli uomini e le
donne cui si fa generico riferimento costituiscano semplicemente le persone più vicine al defunto.
Dobbiamo prima di tutto rilevare che ci troviamo, in questo caso, in una regione diversa, abitata da
una popolazione di stirpe diversa che quindi si può verosimilmente ritenere avesse riti e usanze
diverse da quelle abissine. I somali, inoltre, sono di fede musulmana, come lo stesso autore
sottolinea riferendosi alla natura del loro canto, e in questo senso presumibilmente più “lontani”,
almeno dal punto di vista strettamente religioso, di quanto non siano i cristiani copti dell’Abissinia.
Al tempo stesso, però, sembra che Bricchetti voglia tentare di riavvicinarli culturalmente, o forse
sarebbe più corretto dire di riassorbirli a forza sotto il dominio ideale di quella che è considerata
l’unica cultura degna di questo nome, e cioè quella europea, di derivazione greco-romana. Così
infatti si conclude il resoconto del funerale somalo:
157
Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel Paese degli aromi, cit., p. 338.
141
Dopo il seppellimento, i giovani e gli uomini circondarono la tomba e uccisero quattro
montoni, che, tagliati a pezzi, furono distribuiti a tutti gli astanti. È un ricordo delle vecchie
usanze funebri dei Greci e dei Romani.158
Non c’è alcun nesso logico causale che leghi inequivocabilmente, come l’autore vorrebbe far
credere, la prima alla seconda proposizione: niente autorizza, in altre parole, a postulare una genesi
diretta della pratica sacrificale somala da quella di matrice greco-romana. Tanto più che in modo
molto simile ha termine il rito funerario che pure abbiamo visto descrivere in maniera così diversa
da Vigoni, e che si svolge appunto in territorio etiopico:
Quelli che stavano presso la tomba andarono ad incontrare a mezza strada il convoglio e
subentrarono a portare il morto che, giunto innanzi alla fossa, vi fu deposto e coperto con terra
e grosse pietre, mentre a pochi passi si faceva il sagrificio di un bue e nel tempo stesso si
recitavano preghiere. Tutti si riunirono poi in gran circolo presso il camposanto, e in onore del
morto divorarono le carni della vittima, ancora fumanti di vita.159
Lo scenario dipinto da Vigoni è, in accordo con la danza delle “megere” appena terminata,
decisamente più inquietante, nella misura in cui si chiude sull’immagine della vittima sacrificale
“divorata” − e non semplicemente mangiata − ancora calda e palpitante della vita che le è stata
appena sottratta. Ma si tratta, com’è chiaro, della stessa identica pratica, che Bricchetti priva di
qualsiasi connotato sinistro in accordo con la propria finalità, che è quella di rapportarla a un rito
occidentale. Come si vede, anche due realtà così simili tra di loro possono essere circonfuse di
un’aura e di un significato diverso a seconda che l’intento sia denigratorio − rappresentare la più
rozza barbarie indigena − o elogiativo − lodare la compostezza europea attraverso la sua
sopravvivenza in un costume locale.
3.4 La Venere Nera
Al di là del fastidio provato nei confronti delle donne che a lungo continuano a tormentarlo,
spinte da una curiosità morbosa per il suo corpo e per gli oggetti che egli porta con sé, Piaggia non
rimane comunque del tutto immune dal subire il fascino della “Venere Nera”, figura-simbolo che
racchiude in sé tutta l’ambiguità del rapporto dell’uomo europeo con lo stesso continente africano.
Come ha scritto Sandra Ponzanesi, «Black Venus embodying the most archaic, secretive and
untamable drives of nature has a dual role: she becomes the epitome of the collective unconscious
fantasy and equally of the primordial fear of the Other». 160 E vedremo come questo duplice
movimento di attrazione e repulsione sia destinato a lunga durata, fino alla sua radicalizzazione
158
Ivi, p. 339.
Pippo Vigoni, In Abissinia, cit., pp. 62-3.
160
Sandra Ponzanesi, Beyond the Black Venus. Colonial sexual politics and contemporary visual practices, in
Jaqueline Andall, Derek Duncan, Italian colonialism, cit., p. 176.
159
142
soprattutto in epoca fascista, quando sarà reso ancora più complesso dall’evolversi delle politiche
razziali imposte dal regime. Per il momento, tuttavia, è la fascinazione a prevalere sulla paura, in
quanto «the “black Venus” promised a triumph of the senses over − but still compatible with and
useful to − strict European moral codes».161
In Piaggia, esso agisce già ma in una forma che potremmo definire embrionale, nella misura in
cui rimane sostanzialmente incanalato entro gli stretti binari lungo i quali in fondo scorre tutto il suo
resoconto memoriale: non ci sono, in altre parole, nel suo testo, manifestazioni emotive
particolarmente spinte o azzardate, e anche il contatto personale e duraturo stabilito con l’indigena
Mambia viene presentato come una qualsiasi delle esperienze facenti parte del quadro composito
del proprio soggiorno africano. Siamo ben lontani, ad esempio, dalla densità simbolica di cui
abbiamo visto portatrice la Mariam di Tempo di uccidere. E tuttavia, la fascinazione agisce, almeno
a un livello superficiale, dal momento che, avendo avuto notizia della bellezza proverbiale di questa
donna, figlia del capo di una regione più a sud di quella in cui si trova, Piaggia non solo non può
fare a meno di spingersi fin là, mosso dal desiderio di vederla, ma chiede anche al padre di poterla
portare con sé, ottenendone peraltro un deciso rifiuto. Della ragazza, poi, fornisce al lettore la
seguente descrizione:
La figlia di Sati non dimostrava più di 14 o 15 anni; assai alta, la sua statura non era diversa da
quella di una donna europea: Le sue fattezze non potevano essere più regolari di quelle che si
ricercano in un modello di beltà. La sua pelle aveva un bel colore rosso scuro, ed era liscia e
gentile come quella di una figura di cera. La vita stretta sui fianchi quasi se avesse vestito fasce
fin da piccina. I lunghi capelli riuniti in trecce le cadevano sulle spalle. I denti fitti ed affilati,
come sogliono fare quei selvaggi ai loro bambini fin da piccoli, davano il più leggiadro aspetto
alle sue labbra rosse e regolari.162
Dal quadro delineato traspare innegabilmente il tentativo dell’autore di ridimensionare, contenere e
quasi direi celare una forma, comunque percepibile, di attrazione nei confronti della figura
femminile che si trova di fronte. Non a caso, la descrizione è giocata su un registro impersonale che
tende a evitare ogni esplicito apprezzamento, e il ritratto che ne esce è costruito tutto al negativo (si
noti la triplice anafora del “non”), al punto che ogni aspetto positivo viene affermato solo attraverso
la negazione del suo contrario. Prudente, oltre all’elaborazione sintattica, anche l’insistenza su
alcune precise note di colore: la pelle nera è definita, quasi per una sorta di eufemismo, “rosso
scura”, così come l’intera figura è paragonata a una statua di cera, la cui caratteristica fondamentale
e più evidente è chiaramente il colore bianco. Infine, sia pure nel riconoscimento della perfezione
dei suoi lineamenti, Piaggia non manca di sottolineare come essi siano almeno in parte frutto di
abitudini appartenenti a un popolo definito senza mezzi termini “selvaggio”.
161
Giulia Barrera, Dangerous liaisons. Colonial concubinage in Eritrea (1890-1941), Evanstone, Northwestern
University, 1996, p. 14.
162
Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, cit., p. 213.
143
Laddove, tuttavia, in Piaggia la figura-simbolo può avvalersi dell’incarnazione in una donna non
solo reale, ma anche individualmente caratterizzata, altrove nei testi la descrizione della bellezza
femminile sembra costituire più che altro un momento di indugio voluttuoso dell’autore uomo che,
sia pure inevitabilmente attratto dalle fattezze delle donne indigene, può e vuole permettersi di
mantenere nei confronti di queste ultime lo sguardo distaccato e orgoglioso del bianco che osserva e
giudica. Questo, almeno, si può dedurre per esempio dallo sbrigativo ritratto che Vigoni dà delle
abissine, che «hanno tutte le belle qualità dell’uomo, aggiungendovi che la bellezza delle forme e la
semplicità del costume le rende assai provocanti: mani e piedi piccolissimi e bellissime
attaccature».163 Manca qui, a ben guardare, una reale caratterizzazione della donna, che si limita a
riproporre le stesse qualità già riscontrate nel tipo maschile (fisico alto e atletico, dentatura perfetta,
naso e labbra regolari), e il cui lato provocante sembra risiedere in quella semplicità che altrove
servirà come sinonimo di arretratezza e barbarie.
Più accurata e anche più complessa, nella sua voluta ambiguità, la descrizione dedicata da
Franzoj al “tipo” femminile galla, considerato dunque come un insieme inverosimilmente
omogeneo e rappresentativo in cui si annullano le singole individualità:
Il tipo delle donne gallas di tutte queste regioni è bello e delicato, sebbene abbiano il colorito
olivastro scuro. Sono generalmente di struttura elegante, alta e finissima. Ma hanno nelle
movenze qualche cosa di tardo e di penoso che le farebbe dire tutte sofferenti di malattie
uterine. I loro occhi sono nerissimi e profondi. E candidissimi e piccolissimi hanno i denti che,
con leggiadria di sorriso, mostrano spesso dalle labbra finemente tagliate.. La capigliatura, che
portano divisa in infinite trecciuole pendenti sulla fronte fino agli occhi, e lungo le guancie
fino alle spalle, loro inquadra mirabilmente il viso, dal quale emana una dolce, un’indefinibile
tristezza che seduce ed insieme commuove.164
Salta subito agli occhi l’uso della proposizione concessiva introdotta da “sebbene”, che mira
chiaramente a ridimensionare l’elogio appena espresso della bellezza femminile indigena, nella
misura in cui delicatezza e armonia delle forme trovano inevitabile limitazione nel colore scuro
della pelle. È evidente che, in base ai canoni europei che l’autore non solo non mette in discussione,
ma della cui assolutezza è chiaramente convinto sostenitore, la pelle chiara è più bella di per sé,
ragion per cui la donna nera partirà sempre svantaggiata e non potrà mai arrivare a colmare il
divario che la separa da quella bianca. Non è un caso che tutto il paragrafo citato si giochi su
un’alternanza di riconoscimenti e ritrattazioni, per cui a una successiva affermazione positiva segue
immediatamente una nuova avversativa: la struttura fisica per lo più ammirevole non vale
comunque a celare una trascuratezza e, sembra, una dissolutezza morale che traspaiono dai
movimenti lenti e gravi con cui le donne indigene si trascinano. Persino il sorriso aggraziato e
l’accurata pettinatura, che concorrono all’armoniosa e attraente conformazione del volto, non
163
164
Ivi, p. 153.
Augusto Franzoj, Continente nero, cit., p. 196.
144
bastano a coprirne l’espressione triste che in parte intriga, ma, con evidente atteggiamento
paternalistico, soprattutto muove a pietà.
L’unica, nelle pagine di Franzoj, a meritare un sia pur breve ritratto individuale è, ovviamente,
non una donna qualsiasi, bensì la regina madre del regno di Ghera, quella stessa che, in forza della
grande autorità esercitata persino nei confronti del figlio regnante165, era stata responsabile della
prigionia di Cecchi e di Chiarini, culminata con la morte del secondo, avvenuta in circostanze
misteriose:
Nella faccia di questa donna, c’è qualche cosa che ricorda il tipo nervoso e duro di Caterina
de’ Medici. È la virago del regno. Pare che in altri tempi, non lontanissimi, poco amasse la
massima della cavalleria francese: «Non toccate la regina!» Ha 59 anni ed è benissimo
conservata. Ha il sorriso forzato. Dagli occhi traspare la molta energia dell’animo. Bocca
piuttosto larga, denti bianchi, naso leggermente aquilino, colore olivastro chiaro. È alta di
statura e di complessione robusta.166
La descrizione qui va senza dubbio al di là delle semplici caratteristiche fisiche, nell’intento di
delineare un quadro a tutto tondo di una figura già di per sé leggendaria e tristemente nota nel
contesto nazionale italiano. In questo caso, effettivamente, Franzoj non pronuncia un vero e proprio
giudizio sull’aspetto fisico, per cui non compaiono riferimenti né a una supposta “bellezza” né al
suo contrario; piuttosto, il ritratto si focalizza sui particolari più inquietanti, a partire dal volto,
austero e fiero, non a caso messo a paragone con quello di Caterina de’ Medici. (Sulla regina
francese, com’è noto, ha a lungo pesato la leggenda, alimentata dal suo presunto coinvolgimento
nella strage di ugonotti passata alla storia con il nome di “notte di San Bartolomeo”, che la voleva
donna dispotica e spietata). Ogni ulteriore dettaglio conduce nella stessa direzione: le fattezze
androgine, il sorriso innaturale, gli occhi rivelatori dell’energia che la anima completano la
rappresentazione di una donna dura e crudele, come verosimilmente era già considerata. L’autore
dunque si adagia su un’immagine precostituita, la quale mira più a veicolare un messaggio di natura
morale che non a fornire un reale ritratto fisico, da cui comunque non può fare a meno di far
trasparire una dose innegabile di fascino.
Fascino che senza alcun dubbio subisce Vittorio Bottego quando si trova ad assistere, in
territorio somalo, al matrimonio di una figlia del sultano locale. Sull’immagine della giovane sposa
si sofferma allora lo sguardo compiaciuto e voluttuoso dell’esploratore:
una fanciulla, di mezzana statura, sui quattordici anni, fiore di bellezza appena dischiuso e
spirante la prima fragranza dell’amore. Dalla veste bianca e leggiera, messa con aggraziata
semplicità, trasparivano le forme scultorie del suo corpo snello e flessuoso ed un ardito seno;
165
Franzoj stesso lo descrive come un fantoccio nelle mani della madre: «Abbà-Ragò è grosso e grasso come un
fenomeno delle nostre fiere. Faccia di eunuco, bocca sempre aperta, occhi istupiditi e sempre larghi. È un personaggio
che non parla e che non conta» (Continente nero, cit., p. 255).
166
Ibid.
145
nel volto, profilato con perfezione greca, sfavillava il più bell’occhio arabo che si vedesse mai,
nero e profondo, con soavità di sguardi affascinante; la bocca piccolina, nell’atto del sorridere,
scopriva due stupende file di perle fitte e minute: aveva piedini di silfide e manine di fata; e
tanta era in lei la schietta leggiadria dell’abito e delle movenze, ch’io, riguardando questa
bellezza nera, ripensava e sentiva in me stesso la verità delle parole che la più famosa bellezza
bianca svegliò nell’animo del maggior poeta del mondo: … Ogni lingua divien, tremando
muta.167
L’aspetto verginale della fanciulla accende evidentemente l’eccitazione di Bottego, che non
disdegna neppure di rintracciare un profilo greco nel volto dominato da occhi neri, arabi sì ma della
più bella specie mai vista. A tal punto è scosso dall’angelica apparizione che riesce persino a
passare sopra al fatto che si tratti di una bellezza nera, e non bianca, e ad ammettere di provare
qualcosa di simile a quello che doveva aver provato Dante di fronte alla visione di Beatrice.
Meno entusiasta, e di certo meno coinvolto emotivamente, il ritratto distaccato e assolutamente
generico, ma non per questo meno significativo ai nostro occhi, che delle donne abissine dà, infine,
Ferdinando Martini nel suo resoconto di viaggio:
La natura, anche quando non le carezza con le ultime levigature, le sbozza belle; dà loro occhi
vivaci, denti uniti e bianchissimi, pelle fina, vellutata, mani e piedi piccoli, membra eleganti;
ma le fa di una magrezza a cui l’occhio nostro ripugna. Per giunta, si sciupano, ornandosi.168
Anche qui si ritrovano quegli stessi elementi che già abbiamo visto sottolineare come segni di
bellezza dagli autori precedenti, e cioè in particolare la perfetta dentatura, le piccole proporzioni di
mani e piedi, lo sguardo attento e dinamico. Eppure, l’uso del verbo “sbozzare”, riferito all’atto con
cui Madre natura disegnerebbe i corpi delle donne abissine, dà alla loro pur riconosciuta bellezza un
qualcosa di grezzo, di non rifinito, che prelude all’avversativa seguente: è il punto di vista europeo,
esplicitamente messo in luce attraverso l’aggettivo “nostro”, a guidare il giudizio estetico, e nel
confronto sia pure implicito con la bellezza cui l’europeo stesso è abituato la donna indigena esce
inevitabilmente sconfitta.
3.5 Sfruttata e prostituta
D’altronde, sarebbe del tutto errato credere che, sia pure con le relative riserve, della donna
locale gli italiani in colonia si limitino, in misura variabile, a lodare le fattezze. Al contrario, è forse
la condizione femminile il soggetto che suscita il maggiore interesse, sul quale i viaggiatori non
mancano mai di esprimere fermi giudizi di condanna. Potrebbe, a prima vista, apparire strana una
simile partigianeria dell’uomo bianco nei confronti della donna nera, tanto più che, a differenza di
quanto accadeva magari in altri Paesi occidentali, in Italia era ben scarsa l’attenzione riservata,
ancora nella seconda metà del XIX secolo, ai problemi della donna. Tuttavia, come vedremo,
167
168
Vittorio Bottego, L’esplorazione del Giuba, cit., p. 306.
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., p. 106.
146
l’insistenza sul turpe trattamento a essa riservato nella società indigena serve di riflesso a
corroborare la tesi della degenerazione morale e dell’arretratezza culturale di questa stessa società,
presupponendo ancora una volta la legittimità di un intervento esterno rigeneratore:
È l’immagine della donna nei paesi colonizzati che si presta meglio a un recupero in chiave
«esotica», a dare quindi un aspetto «credibile» all’interpretazione razzista del mondo africano.
L’analisi della condizione della donna nelle culture africane è servita da una parte a certa
letteratura antropologica per dimostrare la superiorità della nostra cultura: secondo tale ipotesi,
le donne delle società «primitive» sarebbero poco più che schiave (mentre sarebbe
diversamente «civile» il trattamento riservato alle donne bianche occidentali).169
In questo senso, il quadro fornito non varia di molto dall’uno all’altro autore, laddove tutti
sottolineano allo stesso modo l’indebito sfruttamento di cui la donna è vittima. Così si esprime, ad
esempio, Luigi Pennazzi:
Dissi che la donna a Massauah vi è meno donna che femmina, e questo è il solo punto sul
quale la mia prima impressione non ha variato. Come in tutto l’Oriente, la donna vi è
considerata quale uno strumento di piacere e di procreazione, non godendo di nessun diritto e
non conoscendo altra legge fuorché il beneplacito del padrone. A Massauah poi le cose
oltrepassano quanto ho mai visto fino ad ora. Non solo sono tenute nell’ignoranza la più
crassa, ma non sanno nemmeno accudire alle faccende più famigliari. Trovare una donna che
sappia cucire o lavare o stirare, sarebbe un voler cercare la pietra filosofale. Condannate le une
all’ozio il più completo, le altre alle fatiche più imani, le prime non trovano da campare la vita
che nella prostituzione, mentre le altre non ricavano dal penoso lavoro che magro ed
insufficiente compenso.170
Prima di tutto, una semplice impressione, che l’autore ammette di aver ricevuto a Massaua, viene
indebitamente allargata a riassumere sotto di sé quanto avviene in tutto l’Oriente (denominazione
peraltro quanto mai vaga e generica). Inoltre, le stesse informazioni sul trattamento che si presume
riservato, se non altro nella regione, alle donne, sono giustapposte in maniera incoerente e quasi
contraddittoria in quanto, evidentemente, cercano di accordare insieme il maggior numero possibile
di stereotipi. Prima si dice che, private di ogni diritto dal marito − non a caso denominato padrone,
nell’intento di dipingere le mogli come poco più che schiave a lui sottoposte − esse servono solo
per soddisfare i bisogni sessuali dell’uomo e per fare figli. Poi ci si lamenta della loro incapacità di
provvedere ai lavori domestici, il che agli occhi di un italiano rappresenta evidentemente il requisito
fondamentale della donna in quanto tale. Infine viene introdotta un’arbitraria divisione delle stesse
in due categorie, per cui le une, non avendo di che vivere, si danno alla prostituzione, e le altre
sopravvivono grazie al lavoro pesantissimo che sono costrette a prestare, della cui natura nulla ci è
dato di sapere. Ad ogni modo, dalle parole di Pennazzi non traspare neppure quella che potremmo
chiamare commiserazione, né egli formula nessuna rivendicazione di carattere umanitario a favore
169
Maria Rosa Cutrufelli, Donna perché piangi? Imperialismo e condizione femminile nell’Africa nera, Milano,
Mazzotta, 1976, p. 8.
170
Luigi Pennazzi, Dal Po ai due Nili, cit., pp. 46-7.
147
della donna. L’unica cosa che davvero lo interessa è aggiungere un ulteriore tassello al quadro di
corruzione e degrado etico in cui versa la società indigena; e il ruolo, del tutto incompreso, della
donna al suo interno ben si presta ad essere usato per questo scopo.
Ma Pennazzi va oltre, quando in un passo successivo torna sulla stessa questione per
“approfondire” i risvolti della pratica, qui solo accennata, della prostituzione:
Non è tanto per temperamento che le donne di qui si danno alla prostituzione, come in causa
della fame, della miseria, del nessun senso morale che in esse cercasi sviluppare. Esse sanno
che sono condannate fino dall’infanzia alla lascivia; si sottomettono tacitamente alla loro sorte,
senza nemmeno cercarvi il piacere dei sensi; la donna vi è forse meno sensibile, meno portata
all’amore (nel senso brutale della parola) che fra noi, e molte donne europee, nate sotto climi
assai più freddi di questo, sono però assai più nervose, e più sensibili al contatto dell’uomo
[…] Si direbbe che la civiltà, raffinando lo spirito e l’intelletto, abbia anche raffinato e reso più
sensibile il sistema nervoso delle nostre donne, mentre le Orientali, nate e cresciute in paesi
che rifuggono dal progresso, vivono in una specie di assopimento non solo morale, ma anche
fisico.171
Il brano è quasi, a mio avviso, sorprendente per le modalità con le quali il ragionamento vi si
sviluppa. Come aveva già affermato, Pennazzi indica nella prostituzione l’unica strada in effetti
praticabile per tutte quelle donne che non hanno altri mezzi di sussistenza. Tuttavia, l’aspetto che lo
stupisce non risiede tanto nella remissività con cui accettano la propria sorte, quanto nel fatto che
non cerchino di trarre da essa se non altro il piacere fisico! Al di là del fatto che davvero non si
capisce da cosa l’autore possa dedurre un’opinione del genere, essa a sua volta serve a mostrare
ancora di più, se poi ce ne fosse bisogno, l’inferiorità della stirpe nera. Non mancando, infatti, di
ricorrere a un ulteriore pregiudizio in base al quale il caldo climatico sarebbe direttamente
proporzionale alla calorosità fisica e spirituale degli individui, Pennazzi non si spiega come sia
possibile che le nere si mostrino tanto insensibili di fronte alle lusinghe della carne (ricordiamo che
sta parlando di sesso a pagamento…). L’unica spiegazione, davvero artificiosa ai nostri occhi ma
non tale evidentemente per colui che la formula, è che anche la sensibilità fisica sia un portato della
civiltà, laddove la mancanza di sviluppo conduce invece al torpore persino dei sensi. Conclusione
quasi paradossale, se pensiamo che proprio l’asservimento alle passioni e il dominio degli istinti
sulla ragione sono caratteristiche fondamentali, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, che
distinguono la “barbarie” indigena dalla superiore civiltà europea.
A riprova del fatto che l’insistenza sulla condizione femminile è guidata da fini meno nobili e
più utilitaristici di quanto si vorrebbe far credere e che serve solo, in fondo, come motivo
aggiuntivo di biasimo nei confronti di una realtà locale di cui si vuole in ogni modo riaffermare
l’ontologica inferiorità, la stessa immagine della donna sfruttata fisicamente viene per esempio da
171
Ivi, pp. 178-9.
148
Robecchi-Bricchetti riferita non più alle abissine, ma alle somale, e legata questa volta all’eredità
religiosa musulmana:
Ho detto che, nell’associazione somala, della donna si tien poco conto. È questa pure una
conseguenza del dogmatismo islamita, che della donna fa uno strumento di piacere od una
macchina o forza di lavoro mettendola in una condizione di schiavitù che dalla nascita la
accompagna sino alla morte.172
Gli argomenti sono gli stessi, simili persino le parole usate. Diversa, come si diceva, la spiegazione,
che pure tuttavia rientra nello stesso ordine di idee: attribuendo infatti, in questo caso, il completo
asservimento della donna, costretta per tutta la vita ai lavori più ingrati e a essere semplice
strumento di piacere per l’uomo, all’influsso dell’Islam, ancora una volta non si fa altro che
criticare un altro aspetto comunque fondante della società che si ha di fronte, implicitamente
asserendo la superiorità della religione cristiana e dunque della civiltà che ai suoi principi si
conforma.
Un’analoga forma di paternalistica compassione, allo stesso modo suscitata dalla considerazione
della presunta triste sorte della donna in Somalia, viene espressa con il ricorso a immagini simili
anche da Vittorio Bottego:
Alle Somale sono riservate tutte le fatiche: marciano a piedi, caricano e scaricano i cammelli,
issano le capanne, durante la fermata ammanniscono il cibo e, a tutto questo, aggiungono le
cure della maternità. Una delle nostre signore non può formarsi una chiara idea della
condizione delle donne nei popoli barbari; queste poverette non hanno, neppure in giovinezza,
la consolazione dell’amore, perché il padre le dà a quel pretendente che più gli offre e senza
consultarle nella scelta. Avvicinandosi la maturità, meglio sarebbe per loro il morire; il marito
e i figli o le cacciano via o le tengono in conto d’inutile peso.173
Bottego però insiste solo sul primo degli argomenti che abbiamo visto agire fin qui: la donna è
vittima per il fatto che a lei sono demandati tutti i più pesanti lavori quotidiani (di cui l’autore per
primo fornisce se non altro qualche esempio concreto), oltre che evidentemente la cura dei figli.
Manca qui, invece, ogni accenno alla sfera sessuale dello sfruttamento, forse perché, come sembra
di capire da quello che segue, l’autore, chiamando in causa le donne italiane, intende piuttosto
istituire una sorta di confronto implicito con la condizione femminile in patria.
Ed effettivamente, per quanto riguarda le sole manifestazioni esteriori, e non facendo nessuno
sforzo per entrare nella logica dei moduli di vita di una struttura sociale di tipo «primitivo», la
donna africana si presta assai bene, nel suo ruolo di moglie ed anche di figlia, ad alimentare
un’idea di suo completo sfruttamento da parte dell’uomo; condizione femminile che, colta e
fissata superficialmente in questi termini, contribuì a sottolineare ancora una volta la
superiorità della «civiltà» occidentale, facendo risaltare, in maniera altrettanto superficiale, il
migliore trattamento riservato alla donna italiana.174
172
Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel Paese degli aromi, cit., p. 387.
Vittorio Bottego, L’esplorazione del Giuba, cit., pp. 19-20.
174
Francesco Surdich, La donna dell’Africa orientale…, cit., p. 199.
173
149
Da notare che, nello sviluppo del suo ragionamento, Bottego allarga il proprio campo di riferimento
dalla popolazione somala a comprendere tutti i popoli barbari, con una generalizzazione
evidentemente arbitraria. Inoltre, il fattore su cui si sofferma è la mancanza di libertà, che vede le
donne sempre date in sposa dal padre al “migliore offerente”, e maltrattate in seguito anche dal
marito e dai figli. Ma quest’ultima notazione contrasta con quanto lo stesso autore annota più avanti
nel testo, stabilendo questa volta un punto di contatto tra donna indigena e italiana sulla base della
comune devozione proprio nei confronti degli stessi membri uomini della famiglia:
Le donne, sempre generose e pronte, come le nostre, al sacrificio, per la salvezza dei figli e
mariti, si avvicinano. Se costoro, pensano, son nemici, noi farem loro perdere tanto tempo
quanto basti ai nostri cari per mettersi in salvo.175
Quelle stesse donne, dunque, che sarebbero sempre schiavizzate e maltrattate da mariti e figli, si
dimostrerebbero poi inspiegabilmente pronte a mettere in pericolo la propria vita per difendere i
loro stessi aguzzini: comportamento eroico che, tra l’altro, le avvicinerebbe sensibilmente alle
italiane con le quali, fino a poco prima, sembrava impossibile ogni raffronto. Se, infatti, il porsi in
prima linea a difesa dei propri uomini è un segno di sottomissione all’universo maschile, allora esso
è ugualmente presente nella realtà italiana. Ma se, al contrario, esso è motivo di lode e di orgoglio
femminile, allora Bottego riconosce anche alle donne somale una propria autonomia di scelte e di
comportamento che non è facile trovare altrove.
Come si è visto, Bottego si riferisce alle donne italiane con l’appellativo di “signore”, che fa
pensare a una specifica caratterizzazione in senso sociale della categoria di riferimento. Una
differenziazione di tipo sociale, appunto, viene introdotta invece all’interno della stessa realtà
indigena da Ferdinando Martini, il quale d’altro canto fornisce una descrizione della condizione
femminile in colonia che non vuole lasciare spazio ad equivoci:
Alla donna, quando non è ricca e non ha un codazzo di schiave che la servano e la trastullino,
toccano tutte le fatiche, durissime tutte in quello stato di semi-barbarie, per menomo che sia il
bisogno domestico cui si abbia da provvedere. Nubili a dieci anni, a dodici non più fanciulle,
sono vecchie a venticinque, e a trenta comincia per loro la decrepitezza che dura spesso mezzo
secolo e più […] Le fatiche, la sporcizia non le logorano, ma le deformano presto: poche
quelle che a diciotto anni serbino tuttavia il seno turgido, eretto. Io credo che nulla m’abbia
tanto ributtato quanto certe donne abissine, tuttora giovani, che vidi inginocchiate macinare la
dura. Nel movimento di va e vieni che le braccia fanno spingendo e ritraendo la pietra, tutto il
torso le accompagna: le mammelle, membrane pendule e flosce, altalenano, e se il moto
s’accelera e la spinta è maggiore, ritornano a sbattere sul petto con un rumore di manrovescio.
A cacciare le tentazioni, nudità più efficaci di qualunque esorcismo.176
Nella visione del Martini, dunque, la condizione della donna si polarizza attorno a due estremi
opposti: c’è da un lato la donna facoltosa, con cui possiamo immaginare che l’autore si riferisca
175
176
Ivi, p. 262.
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., pp. 106-7.
150
essenzialmente a mogli di ras o capi locali, che vive nell’ozio più assoluto, mettendosi lei stessa in
condizione di sfruttare altre donne utilizzate come schiave. Dall’altro lato c’è la donna comune che,
sia pure tenendo conto dello scarso livello di sviluppo della società, il quale presuppone a sua volta
una minore presenza di specifici bisogni, deve comunque farsi carico di tutti i lavori per supplire
all’ozio in cui vivono gli uomini. Tuttavia, l’aspetto notevole del passo di Martini, che lo pone in
un’ottica ancora più radicalmente eurocentrica, se vogliamo, di quelle che abbiamo visto finora,
risiede nel fatto che l’accento non è posto tanto sulla consueta forma di commiserazione quanto sul
risultato negativo che il lavoro ha sulle donne ma, si badi bene, dal punto di vista dell’occhio
europeo che le guarda. In altre parole, il ribrezzo che Martini dice di provare alla vista delle donne
intente a macinare la farina non è di tipo morale, bensì squisitamente estetico: semplicemente, esse
non rappresentano uno spettacolo edificante con i loro corpi sformati dal duro lavoro, tanto da
annullare in partenza ogni possibile “appetito” sessuale. Questo non contrasta, d’altronde, con
l’atteggiamento che già abbiamo visto proprio del Martini, volto a rigettare ogni forma di ipocrisia e
a non nascondere dietro falsi propositi umanitari i reali fini di invasione e di conquista: la sua
denuncia della condizione femminile in colonia, in effetti, ha ben pochi residui di umanitarismo.
3.6 Una meticcia
Per chiudere il nostro quadro esemplificativo delle diverse modalità con cui questi primi
viaggiatori italiani in Africa si rapportano all’alterità femminile, e scelgono di fornirne una
specifica rappresentazione all’interno dei propri resoconti, mi sembra interessante rilevare
l’accenno, che compare in due dei testi di cui ci siamo finora occupati, a una figura femminile che
riassume in sé geni abissini e europei allo stesso tempo, essendo nata appunto da padre tedesco e
madre indigena. Si tratta, nello specifico, di Teresa Naretti, moglie di Giacomo Naretti, che da
semplice falegname già da tempo emigrato in Egitto, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento era
stato accolto alla corte del negus Giovanni, mettendosi al suo servizio e sopravvedendo alla
costruzione di diversi edifici imperiali. Pippo Vigoni, che incontra la coppia durante il suo viaggio
in Abissinia, così descrive Teresa:
Figlia ad una abissinese e ad un europeo, prese dalla madre una leggera tinta delle donne del
paese e dal padre i germi di civiltà che in terreno così vergine trovarono campo propizio allo
svilupparsi con tutto il rigoglio di una vegetazione tropicale. Ella è colta, è gentile, parla
quattro lingue del paese e due europee, ha il coraggio di tentare tutto e in tutto riesce, è una
vera perla pel bravo Naretti. E tutto questo seppe diventare per esuberanza di talento e per
forza di volontà, senza aver mai messo piede fuori dal suolo abissino, su cui nacque.177
177
Pippo Vigoni, In Abissinia, cit., p. 81.
151
Com’è evidente, ogni notazione mira a ridimensionare l’influsso materno sulla giovane donna e a
sopravvalutare, al contrario, quello paterno di matrice europea. Prima di tutto il biancore della pelle
è stato solo in minima parte “contaminato” dal nero indigeno, garantendole un colorito
presumibilmente olivastro. Inoltre, la giovane età della sposa, che al momento del matrimonio con
Giovanni già ultraquarantenne aveva appena quattordici anni, ha fatto sì, secondo l’autore, che ella
non avesse ancora sviluppato i “vizi” della razza indigena, ma al contrario fosse del tutto pronta a
far fruttare al meglio i semi della civiltà di eredità paterna. Interessanti, nel brano, anche due
specifiche scelte lessicali. Prima di tutto la metafora del “rigoglio della vegetazione tropicale”, che
sembra voler alludere alla componente africana comunque presente in Teresa, e incanalarla
nell’unica forma positiva che essa può assumere. Inoltre, la definizione di Teresa stessa come
“perla” per il marito: il riferimento ovvio e immediato è alla preziosità dell’oggetto, ma mi sembra
significativo che la scelta cada proprio, forse peraltro a livello del tutto inconscio, sulla perla,
notevole per la perfezione del suo colore bianco. Infine, il brano si chiude con un ulteriore elogio
delle qualità intrinseche di questa fanciulla abissina che, nonostante la pecca di non essere mai
uscita dal suo Paese, e dunque nella visione di Vigoni di non aver mai avuto accesso alla vera
civiltà, è riuscita comunque ad acculturarsi e forse (questo l’autore non lo dice esplicitamente) a
elevarsi dallo stato di barbarie in cui giace il suo stesso Paese.
Un ritratto simile della stessa figura femminile, ma altrettanto interessante, lo fornisce infine
Gustavo Bianchi:
Il signor Giacomo Naretti, come ho già detto, prese moglie in Abissinia e, non già per far torto
alle nostre belle donnine, ma per dire la verità, debbo dichiarare che fu di molto buon gusto.
Sposò la figlia d’un Tedesco che morì in Abissinia e che fu lavorante fabbro febbraio ed
armaiuolo sotto Teodoros. Nata da madre abissina, allevata alla vita e agli usi semplici del suo
paese, la signora Teresa Naretti ha però ereditato dal padre e conservato tendenze europee −
amore al lavoro ed allo studio − come ha ereditato e conservato la bianchezza della pelle […]
Riunisce in sé i vantaggi della civiltà, poiché sa apprezzare l’utile e il bello, ed i vantaggi che
deve alle abitudini semplici del paese in cui è nata, ché per lei non sono fatica le marcie e la
vita di campagna sotto una tenda, siccome sa contentarsi di una capanna e di quel poco a cui
può dedicarsi.178
Prima di tutto l’autore non può esimersi da un sottile elogio della bellezza della giovane Teresa,
peraltro inevitabilmente accompagnato da una sorta di excusatio rivolta alle donne italiane, agli
occhi delle quali esso poteva evidentemente apparire quantomeno bizzarro, se non inappropriato.
Significativo poi il modo in cui vengono introdotti i genitori della ragazza: Bianchi riferisce prima
del padre tedesco, e della sua attività in Abissinia. Della madre, al contrario, tanto basta sapere che
è indigena, e che forse è stata responsabile della semplice educazione della figlia, la quale tuttavia
ha assunto su di sé, come viene subito precisato, tutte le qualità paterne, o sarebbe più corretto dire
178
Gustavo Bianchi, Alla terra dei Galla, cit., p. 21.
152
europee. Non solo infatti ha manifestato propensione allo studio e al lavoro − cose di cui
evidentemente gli indigeni sono ritenuti sprovvisti − ma ha anche mantenuto il colore bianco della
pelle. Quest’ultima annotazione contrasta, tra l’altro, con quanto rilevato da Vigoni, la cui
descrizione faceva pensare piuttosto a una tonalità quantomeno scura: è ovvio che qui Bianchi
vuole mistificare l’evidenza per concedere a Teresa un’ulteriore caratteristica a suo avviso
superiore. Da ultimo, tuttavia, l’autore sembra in fondo voler riconoscere la positività derivante
dall’incrocio di razze per come essa se non altro si è incarnata nella figura della giovane sposa di
Naretti, che può infatti godere di una raffinatezza superiore derivante dal suo “lato civile” così
come della modestia e semplicità ereditate dagli usi del proprio paese.
Avremo modo di valutare meglio la portata di una simile posizione quando ci troveremo a
doverla confrontare con quella che verrà dichiarata nei propri resoconti da viaggiatori ed esploratori
delle generazioni successive: il problema del meticciato infatti, legato alla pratica diffusa e sempre
meno tollerata del “madamato”, si farà a poco a poco davvero pressante nelle colonie italiane,
spesso affrontato e vissuto in modi contraddittori, fino alle misure estreme adottate del regime
fascista, che tenteranno di arginare il fenomeno prescrivendo una netta quanto assurda separazione
razziale.
4. Il paesaggio
L’ultimo aspetto che vogliamo introdurre, prima che la nostra analisi abbandoni l’Ottocento per
focalizzarsi sulle testimonianze del XX secolo, riguarda l’atteggiamento con cui i viaggiatori di cui
ci siamo occupati finora si pongono di fronte al “paesaggio”. Uso il termine tra virgolette, in quanto
la nozione stessa di paesaggio non è così immediatamente trasparente come potremmo pensare:
inteso come quella “parte di territorio che si abbraccia con lo sguardo” (questa la definizione, ad
esempio, che ne dà il vocabolario Treccani), sinonimo in questo senso di “veduta” o di “panorama”,
è dunque un’entità che necessita a priori di un punto di vista umano che dia ad esso concretezza e
legittimazione. Al tempo stesso, tuttavia, è concetto talmente vago e sfuggente da richiedere spesso
ulteriori specificazioni: a seconda che venga usato sostanzialmente come sinonimo di natura o che,
piuttosto, voglia stare ad indicare un territorio modificato dall’uomo per le proprie esigenze
abitative, dovremmo ad esempio parlare rispettivamente di paesaggio rurale e di paesaggio urbano,
e così via per altre sue particolari declinazioni semantiche. Infine, la nozione di paesaggio, nella più
immediata e automatica associazione mentale che essa porta con sé, presuppone in genere il
riferimento a un territorio considerato appunto di per sé, privo dell’elemento umano o in cui
quest’ultimo comunque non ha particolare rilevanza. E proprio questo carattere di luogo allo stato
puro è forse particolarmente evidente nei resoconti dei viaggiatori ottocenteschi in Africa, per una
153
ragione tuttavia ben precisa: in linea con una svalutazione ideologica dell’indigeno e della razza
nera, infatti, l’uomo viene per lo più associato alla natura stessa, visto come parte di essa, «pura
componente cromatica e scenografica dello spettacolo ambientale».179 Non dobbiamo dimenticare,
a questo proposito, che, proprio a partire dallo schema classificatorio ideato da lui stesso ai fini di
una catalogazione unificata di tutte le piante esistenti, il naturalista svedese Linneo aveva proposto
nel 1763 un’analoga sistematizzazione e implicita gerarchizzazione degli esseri umani, atto di
nascita delle moderne categorie razziste miranti a “naturalizzare”, come spiega Pratt, il mito della
superiorità europea.180
Inoltre, l’“altrove” geografico ha talora un impatto maggiore che non l’“altro” umano, in quanto
si impone nella sua immediatezza visiva e non ha bisogno di alcun tipo di intermediazione per
essere fruito. L’approccio al paesaggio, allora, può essere significativo e sintomatico di un più vasto
approccio al diverso, e può aiutarci a ricostruirne le dinamiche e le più profonde implicazioni. Non
è un caso, dunque, che l’elemento naturale finisca per essere preponderante in tanti resoconti di
viaggio di questo periodo, nei quali al contempo abbiamo già notato la scarsa tendenza
all’individualizzazione delle figure umane con cui pure si entra in contatto. D’altronde, la medesima
presenza dominante della natura aveva già informato i resoconti di Cristoforo Colombo, che si
pongono indubbiamente come il “capostipite” del genere:
Colombo parla degli uomini che vede solo perché, dopotutto, fanno parte anch’essi del
paesaggio. I suoi accenni agli abitanti delle isole sono sempre inframmezzati alle sue notazioni
sulla natura: fra gli uccelli e gli alberi vi sono anche gli uomini.181
Allo stesso modo, non sorprende che laddove si noti un tentativo più concreto di interazione con la
popolazione locale, come nel caso di Piaggia, o si manifesti comunque un maggiore interesse per la
rappresentazione dell’indigeno, come nel caso delle numerose figure, soprattutto di ras e capi tribù,
che costellano la narrazione di Franzoj, le descrizioni paesaggistiche recedono. In altre parole, o lo
sguardo che osserva finisce per associare in un tutto organico uomo e paesaggio, e a ridurre il primo
a elemento di contorno, o le due componenti tendono a disporsi in maniera inversamente
proporzionale l’una all’altra.
Un’intrinseca ambiguità di atteggiamento è rivelata, infine, attraverso la forma stessa che le
descrizioni del paesaggio assumono nei testi: essa riflette in modo significativo quell’analoga
oscillazione, definibile genericamente come una dialettica tra attrazione e repulsione, che, come
179
Francesco Surdich, La rappresentazione dell’alterità africana nei resoconti degli esploratori italiani di fine
Ottocento, in L’Afrique coloniale et postcoloniale dans la culture, la littérature et la societé italiennes, cit., p. 47.
180
Al 1735 risale la prima edizione del Systema Naturae di Linneo, mentre la sua classificazione degli esseri umani
è contenuta nelle Amoenitates Academicae del 1763. Sull’impatto e le conseguenze di entrambi anche, e non solo, sulla
scrittura di viaggio, si veda Mary Louis Pratt, Imperial eyes, cit., pp. 24 ss.
181
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, cit., p. 41.
154
abbiamo visto, informa già il modo di porsi nei confronti dell’alterità femminile. In quel caso essa
si declinava come alternanza e compresenza tra immagine seduttiva della Venere Nera e ritratto
ripugnante dell’indigena ignobilmente sfruttata e deformata dal lavoro: se la prima sembrava far
dimenticare le bellezze bianche lasciate in patria, la seconda serviva come perfetto termine di
paragone per farle al contrario risaltare, e sancirne una volta di più l’innegabile superiorità.
D’altronde, anche dove sembrava possibile raggiungere una sorta di compromesso, ossia nella
raffigurazione della meticcia Teresa, scura di pelle ma non troppo, immune alle fatiche ma anche
colta e dedita allo studio, di costumi semplici ma raffinata nei comportamenti, in realtà erano le
presunte qualità ereditate dalla razza bianca a decretare il complessivo apprezzamento.
Dall’atteggiamento manifestato nei confronti dell’elemento naturale si deduce d’altronde una
simile indecisione ideologica: il fascino esotico derivante dal contatto con un’alterità radicale e, al
contempo, con una purezza primitiva di cui in qualche modo l’europeo rimpiange la perdita non
elimina del tutto in lui la coscienza della mancanza di progresso che esso denota, e neppure conduce
a un superamento dei propri orizzonti concettuali e dei propri canoni valutativi. Ecco allora che
spesso l’ignoto viene ricondotto al noto, interpretato attraverso griglie che non gli competono,
confrontato indebitamente con realtà che gli sono del tutto estranee e nei riguardi delle quali è
comunque destinato a risultare “perdente”. In una simile prospettiva si può capire perché ogni
illusione di poter davvero conoscere o comprendere qualcosa di più del paesaggio africano a partire
dalle descrizioni che tra poco prenderemo in esame è destinata a rimanere tale: invano, in altre
parole, si cercherebbero rappresentazioni tali da permettere al lettore di formarsene un’idea
quantomeno realistica, per più o meno veritiera che sia. L’impressione, piuttosto, è che i viaggiatori
si accontentino spesso di riproporre un’immagine idealizzata e precostituita, priva per lo più di
effettivi riscontri con la realtà che si trovano di fronte: quest’ultima perde allora la sua unicità e la
sua specificità, piegata a paragoni spesso sterili, o semplicemente usata come spunto, dagli autori
letterariamente più accorti, su cui costruire vuoti e retorici pezzi di bravura. Ecco allora che l’idea
dell’Africa che emerge al tempo di queste prime grandi esplorazioni finisce per dirci molte più cose
sull’Europa di quante non ne dica sull’Africa stessa, contribuendo non tanto alla conoscenza fisica e
geografica di un territorio ignoto, quanto piuttosto a illuminare la nostra comprensione di quelli che
erano in fondo i presupposti e le aspirazioni più o meno celati dietro simili imprese.
155
4.1 Esotismo come estetica del sublime
Nell’intento di ricostruire e comprendere le radici che sono alla base e determinano in buona
misura l’attitudine manifestata dai viaggiatori, non solo italiani, del XIX secolo in Africa, bisogna
fermarsi un attimo a considerare la specifica contingenza storico-sociale in cui questi viaggi si
inseriscono. La seconda metà dell’Ottocento, infatti, viene in genere retrospettivamente indicata
come il culmine della “modernità”, il momento in cui i cambiamenti apportati dalla rivoluzione
tecnologica e industriale, assieme al parallelo consolidarsi di un capitalismo sempre più aggressivo,
riescono a dare un nuovo volto all’Europa nel suo complesso. Non a caso, infatti, spesso si tende a
situare a questa altezza cronologica una sorta di turning point decisivo nel rapporto tra uomo e
mondo, che avrebbe definitivamente spezzato un presunto equilibrio secolare, basato peraltro su
quanto meno idealistiche relazioni di armonia e rispetto reciproci. Al di là dell’evidente forzatura di
tali drastiche periodizzazioni, che spesso finiscono per banalizzare la vera complessità di simili
evoluzione diacroniche e per far dimenticare la reale lenta dinamica dei processi storici, è
innegabile che l’insorgere di alcuni fattori legati appunto allo sviluppo industriale − quali la crisi
demografica, l’impoverimento delle campagne, l’urbanizzazione asfissiante − muta, se non altro, la
posizione dell’uomo nella società, condizionandone l’atteggiamento esistenziale. In questo contesto
è appunto verosimile ritenere, come d’altronde ha già fatto tra gli altri lo storico Basil Davidson,
che i viaggiatori di questo periodo si spingano anche consapevolmente a ritrarre un’Africa dotata di
quelle stesse condizioni pre-moderne, lontane dagli assilli introdotti dalla modernità, la cui
sostituzione in Europa poneva evidentemente nuovi e inquietanti interrogativi, destinati ben presto a
rivelare risvolti traumatici e contraddittori.
In ambito specificamente letterario, l’elaborazione della nuova sensibilità suscitata dai
rivolgimenti dell’epoca si ripercuote in maniera evidente, per esempio, nell’esotismo tragico e
simbolista dei romanzi di Pierre Loti182, o nel motivo dello spleen coloniale come annientamento
dell’individuo rintracciabile nella produzione dell’ultimo Rimbaud
183
, dove appunto la
drammaticità scaturisce dalla nuova posizione mobile e precaria del soggetto moderno, privato
irrimediabilmente delle proprie radici. Su questa stessa scia, appunto, si pone l’esaltazione
dell’Africa, così frequente nei resoconti di viaggio di questo scorcio del XIX secolo, come
continente dell’innocenza, immerso ancora nello spirito di natura e al tempo stesso destinato a
essere risvegliato, redento quasi, dalla civiltà occidentale:
Ed ecco che l’Africa diventa il continente misterioso, le sue foreste i suoi luoghi di tenebra, la
sua natura la manifestazione più piena della primitività del mondo, con i suoi uomini selvaggi,
182
Su cui si veda ancora Roberta Maccagnani, Erotismo-esotismo, cit.
Il cosiddetto Rimbaud africano, appunto, su cui si veda almeno la ricostruzione biografica di Charles Nicholl,
Somebody Else. Arthur Rimbaud in Africa (1880-91), London, J. Cape, 1997.
183
156
feroci, oppure umanissimi. Il Marlowe di Conrad che si inoltra nel cuore del continente via via
penetrandolo nel suo intimo sta − notoriamente − come metafora dell’uomo europeo che
penetra dentro se stesso, la sua natura non rimossa o rimossa solo illusoriamente attraverso la
civilizzazione in senso industriale.184
Il quadro appena tracciato, dunque, di cui abbiamo citato alcune significative espressioni letterarie
in area francese e inglese, non è in realtà molto dissimile da quello che si registra anche in Italia,
nella cui produzione culturale sono rintracciabili simili tracce più o meno insistite di
quell’atteggiamento esotico ugualmente riconducibile alla mutazione antropologica messa in luce.
Basti pensare, a questo proposito, ai celebri e fortunatissimi romanzi salgariani, che proprio in
questo periodo vedono la luce e conoscono un immenso successo di pubblico.185 Romanzi che, a
loro volta, sono ovviamente espressione e risultato di un preciso clima storico-culturale, e che senza
dubbio derivano spunti e suggestioni tanto preziose quanto indispensabili per l’elaborazione delle
proprie vicende avventurose da quegli stessi viaggi reali che sono oggetto principale della nostra
trattazione. Possiamo condividere, in questo senso, l’impressione provata da Sandra Puccini che
«uno stile simile, analoghe strategie retoriche ed il medesimo linguaggio sembrano impregnare
tanto le narrazioni immaginarie, scaturite dalla fantasia degli scrittori che rielaborano la realtà,
quanto le descrizioni che gli scienziati-viaggiatori fanno dei popoli esotici».186 Ma la descrizione
delle popolazioni nei racconti di viaggio, le cui tracce abbiamo già incontrato nel paragrafo dedicato
all’opposizione tra civiltà e barbarie, non va per lo più oltre la banale ripetizione di stereotipi e di
notizie spesso di seconda mano, che denotano non solo la più generale mancanza di comprensione e
di apertura nei confronti della diversa realtà di cui volontariamente si è testimoni, ma anche lo
scarso interesse per l’elemento umano di per sé, che nei casi estremi viene giudicato persino
passibile di una radicale eliminazione e sostituzione. Anche quando, d’altronde, gli autori non
vogliono o non osano formulare, almeno per iscritto, ipotesi tanto perentorie, i frequenti paragoni
con animali o l’uso di termini tratti dal medesimo ambito vanno nella stessa direzione, già illustrata,
della subordinazione dell’uomo alla natura.
Il paesaggio è dunque l’elemento esotico che subito attira e colpisce, quello che più prontamente
risponde all’ansia di evasione manifestata dall’uomo europeo, desideroso di fuggire da quella stessa
civiltà che, altrove esaltata come culmine della perfezione umana, può talora risultare soffocante
con le sue costrizioni fisiche e morali. Come ha notato Todorov, d’altronde, l’esotismo si pone in
184
Eugenio Turri, Voglia d’Africa. L’attrazione dell’alterità nella letteratura di viaggio dell’Ottocento, in Emanuela
Casti, Angelo Turco (a cura di), Culture dell’alterità, cit., p. 142.
185
Si veda, a questo proposito, Emy Beseghi, La valle della luna. Avventura, esotismo, orientalismo nell’opera di
Emilio Salgari, Firenze, La Nuova Italia, 1992.
186
Sandra Puccini, Mondi narrati. Contaminazioni e incontri tra letteratura e antropologia, Roma, CISU, 2007.
157
opposizione simmetrica al patriottismo, in quanto «favorisce ciò che non appartiene al paese in cui
si è nati».187
L’immersione nella natura selvaggia e primitiva, vissuto come irrimediabile bisogno di
rigenerazione, è quello cui aspira evidentemente Guglielmo Godio, che nel 1885 dà forma scritta ai
ricordi di un viaggio compiuto due anni prima nella regione del Sudan immediatamente confinante
ad est con l’Abissinia. Si tratta, dunque, di un tragitto che esula da quelle che sono le zone percorse
per un più esplicito interesse legato a un’ottica di espansione nazionale, ma l’autore rientra nel
nostro discorso in quanto, oltre a condividere senza dubbio le più comuni posizioni culturali e
ideologiche già espresse negli altri viaggiatori italiani188, si dimostra acuto divulgatore e interprete
del fascino suscitato dall’“altrove” esotico. Particolarmente interessante, in questa prospettiva,
l’incipit stesso del volume, in cui Godio mira prima di tutto a mettere in luce la singolarità della
percezione che l’uomo “civile” ha dei territori non solo geograficamente distanti dai propri, ma
specificamente poco conosciuti e dunque ancora intatti nel loro enigma anche dopo essere stati visti.
Esotici, appunto, nell’immaginazione e nella realtà:
In due forme, diverse dal vero, appaiono i lontani paesi alla mente umana: quali li foggia la
fantasia di chi ha il rovello di visitarli, quali li foggia la rimembranza di chi li ha visitati.
Quando si tratti di paesi stranieri aventi coi nostri comunanza di civiltà e di costumi, che noi
possiamo con adeguati criteri giudicare, accade per lo più che la seconda visione contraddica
od elida la prima. È curioso ad osservarsi che ciò non succede per i paesi ai quali, causa la
secolare loro segregazione, il mondo civile non ha tolto ancora l’aura del mistero. Mancando al
nostro criterio rapporti immediati e spontanei di paragone, la visione della rimembranza torna
a confondersi colla primitiva visione dell’immaginazione […] Di qui l’appellativo di
continente nero, di sfinge nera, all’Africa, mantenutole malgrado le ripetute esplorazioni. Ed è
con tale appellativo che voi sintetizzate l’idea di ignoto, di misterioso, di oscuro, che
spontanea vi si affaccia alla mente pensando all’Africa prima che vi ci siate mai addentrati. E
ancora, quando ne siate usciti, e ci ripensate, non sapete trovare altra parola per sintetizzare i
vostri ricordi.189
L’autore ammette, in un certo senso, la particolare impressione che lascia la terra africana su coloro
che la visitano in prima persona, al punto che anche i ricordi di viaggio finiscono, al rientro in
patria, per fondersi in un tutt’uno con le idee preconcette che del luogo si avevano prima della
partenza. Ed è significativo per noi notare che proprio la mancanza di termini appropriati di
paragone fa sì che si perda, secondo Godio, ogni appiglio al reale, e si ricada nel terreno non solo
della fantasia, ma più propriamente dell’oscurità, dell’impossibilità di raccontare ciò che si è visto,
in quanto esso non rientra nei canoni condivisi da autore e lettore. Non è casuale, allora, che da
187
Tzvetan Todorov, Noi e gli altri…, cit., p. 209.
Interessante, a questo proposito, la dedica del testo al generale Julio Roca, allora Presidente della Repubblica
Argentina, di cui si loda, oltre all’accoglienza dei numerosi emigranti italiani, l’alta opera di “civiltà” conseguita con lo
«strappare la Pampa al dominio degli Indi selvaggi, facendo succedere la colonizzazione alla conquista» (Guglielmo
Godio, Vita africana. Ricordi d’un viaggio nel Sudan Orientale, Milano, Vallardi, 1885, p. III).
189
Ivi, pp. 1-2.
188
158
questa sorta di vicolo cieco descrittivo i viaggiatori cercheranno poi spesso di uscire, nella stesura
delle proprie memorie, attraverso il ricorso a quello stesso metodo del paragone che qui viene
invece giudicato inapplicabile. Va da sé che un tale procedimento di banalizzazione comparativa
comporta inevitabilmente il sacrificio di ogni elemento di originalità e, lungi dal condurre nella
direzione di una resa maggiormente realistica del paesaggio africano, non fa altro che renderlo
spesso del tutto anonimo e irriconoscibile, accrescendo peraltro la tendenza alla fissità e
all’idealizzazione.
Godio, in questo senso, sembra volersi porre su una prospettiva diversa, proprio nella misura in
cui giudica immotivato il costante ricorso a termini di confronto tratti dalla propria realtà di
appartenenza, inadatti a rendere conto di uno spettacolo naturale tanto diverso quanto affascinante,
e ancora purtroppo in attesa di essere adeguatamente “rivelato” alla percezione europea. Prosegue
infatti l’autore nel suo ragionamento:
Eppure, voi, che ne siete usciti, ci avete vissuto dentro, ci avete provato gioie e dolori, avete
amato, avete odiato, avete offeso, vi siete difesi, vi siete trovati al contatto diretto ed
immediato con uomini e cose, avete palpato la realtà… Perché dunque voi dite ancora come
prima: continente nero? Gli è che il nero, se mi si permette un’altra immagine, non istà sulla
scena, sta sul sipario. Non è nera l’Africa: è nero il velo che la cinge. L’Africa di nero non ha
altro che la pelle degli abitanti, e le prevenzioni che noi, figli del pregiudizio, orgogliosi sviati
d’una civiltà degenere, ci portiamo con noi, unitamente alla strana pretesa che sia ottimo
solamente il nostro punto di vista, e che il nostro organamento sociale sia l’unico ed il
migliore. Ciò che ho detto fin qui mi pare debba concorrere anche a spiegare il perché, con
tanta dovizia di bellezze naturali, con tanta e sì pittoresca varietà di costumi e di foggie, con
una miniera affatto vergine di tradizioni, con tanta copia di smaglianti colori per la tavolozza,
fra i molti libri che si son pubblicati sull’Africa, non vi sia ancora un’opera descrittiva
veramente ed artisticamente potente. L’Africa − per noi − è paese da sognatori. Essa attende
dall’Europa il suo poeta.190
Il passo è piuttosto ridondante nella forma, volutamente retorica, così come nel contenuto, ma vale
la pena di leggerlo per intero al fine di seguire in esso lo sviluppo dell’argomentazione: da premesse
che appaiono quantomeno audaci, infatti, e potenzialmente proiettate a un inconsueto relativismo
ideologico, derivano tuttavia conclusioni riconducibili a pieno titolo nell’alveo del filone esotista di
cui stiamo denunciando i limiti. Godio infatti accusa senza mezzi termini coloro che prima di lui si
sono recati in Africa di non essere stati in grado, nonostante il più o meno prolungato e intenso
soggiorno, di sollevare il sipario dei pregiudizi che ne guidavano l’esperienza per poter, al proprio
ritorno, rivelare a sé e agli altri l’essenza di quella terra a troppi ancora sconosciuta. Eppure, in
concreto, il sommario elenco di elementi su cui egli stesso, evidentemente, si propone di
soffermarsi non fa altro, a ben vedere, che riprendere e riaffermare una serie di stereotipi che, non a
caso, nell’intenzione dell’autore dovrebbero condurre non alla divulgazione di una conoscenza più
190
Ivi, p. 2.
159
sincera e accurata del territorio in questione, bensì semplicemente a una descrizione “artisticamente
più potente”. Quello cui Godio aspira, in altre parole, è il superamento di una sorta di paralisi
linguistica, più che mentale e ideologica, che parte dall’Europa e all’Europa ritorna:
paradossalmente, anzi, con significativo spostamento di prospettiva, è l’Africa stessa,
nell’immagine finale, non solo ad autorizzare ma persino a richiedere all’artista europeo un ritratto
che sia degno delle sue potenzialità. Se dunque, come sembra, l’interesse è propriamente artistico e
letterario, non è un caso che siano proprio le caratteristiche esteticamente (e, com’è inevitabile,
anche superficialmente) più rilevanti quelle su cui Godio raccomanda di concentrare l’attenzione:
ecco allora che finisce per evocare concetti quanto mai vaghi e generici, quali la bellezza naturale o
la varietà degli usi e delle tradizioni, che non fanno altro che indirizzare verso un banale esotismo di
maniera. Emblematica, in questo senso, l’immagine della “tavolozza di colori”, così variegata nel
contesto africano da permettere appunto allo scrittore-pittore, nelle intenzioni di Godio, di attingere
materia prima utile a comporre il proprio quadro: l’Africa si impone allora come puro spettacolo,
che ha forma, e dunque senso, solo nel momento in cui viene fruito dall’occhio europeo, che deve
poi però anche farsi carico di descriverlo in un modo che sia capace di renderne la potenza visiva.
Di questa asserita potenza Godio stesso fornisce peraltro alcune coordinate più specifiche:
Si dovrebbe urlare continuamente un ah! di meraviglia, sì da rendere sgangherata la bocca,
tutte le volte che si incontra un sicomoro o un tamarindo gigantesco, od un baobab a cui si
possa misurare una circonferenza di 28 e fin di 30 metri, dal momento che in un solo giorno di
marcia potreste incontrarne un migliaio […] Se uno si dovesse entusiasmare a tutti gli
spettacoli stupendi, nuovi, grandiosi, che si succedono, potrebbe addirittura svaporarsi,
eterizzarsi […]
Colà tutto è solenne, tutto è poderoso, dal torrido sole che screpola, che morde, che sfrana le
rocce basaltiche delle montagne, alle piante gigantesche dei baobab, dalle moli viventi degli
elefanti che popolano i piani, agli immani ippopotami e coccodrilli, che diguazzano nei fiumi,
dal ruggito, che rintona nella foresta, allo scroscio dell’uragano, quando il cielo è in ira.191
La caratteristica che con più forza colpisce il viaggiatore europeo è evidentemente la maestosità
della natura africana, una grandezza di proporzioni che riguarda tanto le manifestazioni climatiche
quanto le figure animali, cui egli comunque non è abituato e che lo sovrasta nel corpo e nello
spirito.192 «È sempre la natura che giganteggia: l’uomo impiccolisce e si sente nullo», nota Gustavo
191
Ivi, pp. 9, 13.
Dello stesso stampo, per esempio, è il seguente passo di Pippo Vigoni: «Alberi giganteschi, gruppi pittoreschi
quanto mai, piante secolari dalla forma squarciata abbracciate ad altre di diverso verde e di diversa natura, fiori e frutti
pendenti, liane che si arrampicano, scendono a terra a succhiarle gli umori, poi risalgono a bevere l’aria più pura e più
fresca, enormi fusti troncati dal vento e dal fulmine, tronchi rovesciati che sbarrano il passaggio; cespugli di ogni sorta,
aloe, grassume, erbe e fiori che fanno un vero mosaico del suolo; e tutto questo animato dallo svolazzare di mille
augelletti e dal fuggire al nostro avanzare d’ogni sorta di selvaggina. Tutti eravamo compresi dalla bellezza e
dall’immensità di questa scena, e la carovana maestosamente procedeva di quel passo lento, ma imponente, che è
proprio del cammello. Ognuno di noi godeva, e quasi temeva recar guasto lasciandosi trasportare da un’esclamazione o
comunicando al compagno le proprie impressioni, per cui regnava sovrano il silenzio, ciò che dava ancora miglior tinta
al quadro» (In Abissinia, cit., p. 50).
192
160
Bianchi.193 Conseguenza estrema di questa impressione totalizzante è appunto, come prospettato da
Godio, lo smaterializzarsi dell’individuo stesso a contatto con tanta immensa grandezza, al punto da
fondersi con la natura. È questa, d’altronde, la posizione che siamo soliti associare all’eroe
romantico in fuga dai condizionamenti della modernità, agli occhi del quale appunto la natura si
pone, a fronte del capitalismo dilagante nella nuova città industriale, come l’ultimo baluardo a
difesa di una condizione originaria altrimenti perduta. L’osservazione della natura si attua dunque
nei termini di un confronto che il solitario io individuale stabilisce con essa, nel tentativo di
annullare le differenze tra soggetto e oggetto: un incontro attuato secondo le modalità del “sublime”
che Sara Mills ha descritto come tipico, e specificamente maschile, di questa fase di esplorazione.194
Esso, in realtà, come la stessa Mills sottolinea e come è già evidente dalle parole di Godio, tende
presto a risolversi nel consolidamento di una posizione di superiorità del soggetto, che riesce poi a
soggiogare la natura attraverso il controllo delle proprie sensazioni visive, ponendosi non a caso
come unico soggetto osservatore. Questa deriva del rapporto tra uomo e natura, che è già in nuce
nell’approccio europeo di fine Ottocento, prelude d’altronde a quella che sarà, nei resoconti di
viaggio successivi, l’attitudine “pittoresca”195, e non più sublime appunto, di guardare al paesaggio
solo nella misura in cui esso si presta a una rappresentazione pittorica: «the word picturesque refers
to nature and art at the same time, that is, to physical landscape conceived of pictorially […]
Picturesque landscape is, in effect, landscape reconstituted in the eye of the imagination».196
Nella visione di Godio, ad ogni modo, l’impressione che il paesaggio naturale suscita
sull’individuo europeo che lo osserva non è tanto forte e duratura nel momento stesso in cui
avviene, in quanto la ridondanza delle stesse caratteristiche naturali finiscono ben presto per creare
assuefazione e annullare l’iniziale effetto di sorpresa. La vera reazione, profonda e quasi
193
Gustavo Bianchi, Alla terra dei Galla, cit., p. 28. Vale la pena di notare, tuttavia, che Bianchi si diffonde poco in
descrizioni di spettacoli naturali. Anche quando fa esplicito riferimento alla bellezza della natura che lo circonda, o al
rigoglio della vegetazione, l’elogio si ferma lì, non si dilunga, come per lo più accade altrove, nel tentativo di delineare
ampi quadri panoramici. D’altronde, è lui stesso ad accennare in modo vago ma con tono decisamente polemico alla
pratica “esotica” in voga tra gli scrittori sui contemporanei, dalla quale dichiara apertamente di volersi trarre fuori per
evitare di cadere, come in effetti capita ai più, in una sterile banalizzazione di qualcosa che si è impotenti a ritrarre.
L’immediatezza della visione è, in altre parole, per Bianchi, intrinsecamente superiore e inevitabilmente guastata dalla
sua resa in parole: «Mi dispongo a raccontarvi quel tanto che vidi, e quel poco che feci, assicurandovi che non vi
tratterrò sulle solite eccelse cime, dorate a ciascun tramonto. Non vi bagnerò di quelle solitissime goccie di rugiada
ingemmate ai primi raggi del mattino dall’astro, fulgido sicuramente, ma abbastanza cantato; […] la natura, quando la si
vede o la si tocca, è sempre nuova, è sempre bella, ma a descriverla occorrono forze maggiori della mia, e allorquando
le cime dorate, le goccie, gli astri, i fantasmi, li leggo in qualche descrizione sbiadita, mi fanno l’effetto di quegli
organetti che van suonando per le vie “l’è la bella Gigogin”» (Alla terra dei Galla, cit., p. 127).
194
Cfr. Sara Mills, Gender and colonial space, Manchester-New York, Manchester University Press, 2005.
195
Le teorie sul pittoresco come categoria estetica specifica si diffondono in area anglosassone già alla fine del
Settecento, proprio con riferimento alla sua applicazione nel contesto esperienziale del viaggio. Cfr. William Gilpin,
Three essays: On picturesque beauty; On picturesque travel; and On sketching landscape: to which is added a poem,
On landscape painting, London, printed for R. Blamire, 1792; Uvedale Price, An essay on the picturesque, as compared
with the sublime and the beautiful; and, on the use of studying pictures, for the purpose of improving real landscape,
London, printed for J. Robson, 1794.
196
John Maxwell Coetzee, White writing. On the culture of letters in South Africa, New Haven, Yale University
Press, 1988, p. 40.
161
drammatica nella sua incontenibilità, si scatena nel momento del rientro in patria, quando appunto
salta innegabile agli occhi il contrasto con la “decadente”, corrotta, malata quasi natura europea:
È qui, nei nostri climi freddi, nebulosi, che voi rimpiangete quel sole sfolgorante, quelle
magnifiche notti […] È qui, dove vi circonda una vegetazione nana, rachitica, che si ammala
una volta ogni anno pei geli, che vi appaiono nella loro vera maestà quegli alberi giganteschi,
quella natura lussureggiante.197
Come abbiamo detto, dunque, il fascino risvegliato dall’impatto visivo con il “continente nero”
sembra nascere e contrario dalla realtà dell’oppressione urbana europea, e dunque si accresce a
contatto con gli spazi aperti, sterminati, ma anche incontaminati che caratterizzano lo scenario
africano, quegli oceani e deserti che sanno, soli, ispirare «all’animo tutta la sublime poesia
dell’infinito».198
Così anche Vittorio Bottego ne propone una visione estremamente ammaliante ed estetizzante:
Salgo sulle alture di sinistra del Gànale, dove la vegetazione arborea sorge vigorosa solo
presso ai frequenti rii, che portano ciascuno al fiume un filo d’acqua perenne. Passo così, dal
bosco al prato, da questo a quello, di bellezza in bellezza. Di luoghi così belli rendono qualche
immagine le più belle e boscose valli delle Alpi; ma qui la flora ha una freschezza verginale
che invano si cercherebbe altrove. Impossibile, anche all’uomo men disposto a sentir la natura,
non esserne commosso.199
Anche qui l’irredimibile stato di corruzione in cui versa il mondo europeo moderno porta l’autore a
prediligere, nel confronto stavolta specifico con le valli alpine, quelle del Giuba somalo, il cui
spettacolo è di una purezza che, ancora una volta, cattura l’osservatore in una fusione empatica. I
fiumi africani, d’altronde, assumono spesso nei resoconti degli esploratori un posto di primo piano,
non solo per il fascino conturbante legato al mistero delle loro foci: essi si impongono anche, con la
propria dirompente vitalità, come arterie vitali intorno alle quali appunto la vegetazione arriva al
massimo del suo rigoglio, soprattutto laddove intervengono a spezzare con irruenza la monotonia
del deserto. Nell’avvicinarsi al fiume Nogal, nella Somalia settentrionale, di cui aveva tanto sentito
parlare, Luigi Robecchi-Bricchetti rivela allora di essere spinto da una viva curiosità, e così
descrive lo spettacolo che si offre alla sua vista:
Fra gli enormi baluardi delle sue due rive, il sole, gettando sul filo d’acqua i suoi raggi, pareva
lo trasformasse in argento liquido. I sassi, tra i quali scorre, scintillavano anch’essi; e,
rinfrangendo gli increspamenti delle acque, ne traevano scintille. Il fiume scendeva lene lene
197
Guglielmo Godio, Vita africana, cit., p. 9. Non a caso qui è lo stesso autore a usare proprio il termine “sublime”,
al quale ricorre peraltro anche Luigi Pennazzi nel seguente passo, anch’esso perfettamente inquadrabile in quest’ottica
di immedesimazione e annullamento voluttuoso di fronte al fascino naturale: «se la natura vi è spoglia e nuda, essa ha
qualcosa di melanconico e di sublime allorché il sole tramontando sparisce dietro le masse di un viola cupo dei monti
abissini, irradiando la città, il deserto che la circonda, ed il mare di una tinta rosea, dolce, calma come il sogno di una
vergine» (Dal Po ai due Nili, cit., p. 46).
198
Ivi, p. 171.
199
Vittorio Bottego, L’esplorazione del Giuba, cit., p. 136.
162
in mezzo ad una lussureggiante fioritura di vegetazione palustre. Era un quadro che
abbagliava, mutando ad ogni istante.200
L’ampiezza del suo corso, ma anche la maestosità delle sue sponde, l’effetto del sole che si riflette
sull’acqua, il rigoglio tutt’attorno della natura, ogni cosa concorre anche qui ad “abbagliare”
letteralmente lo spettatore, che finisce in un certo senso per essere incorporato al quadro circostante.
Persino la quiete, l’assenza di quei rumori che caratterizzano e accompagnano la vita moderna, non
solo è in Africa più immediatamente percepibile, ma soprattutto assume in quest’ottica un valore
aggiunto, come sembra voler comunicare Luigi Pennazzi quando ritrae se stesso in una sorta di
rapimento estatico di fronte allo spettacolo sublime di una silenziosa notte africana:
La notte è splendida ed il cielo scintillante di stelle; l’aria calma e pura ha quella trasparenza
africana che permette di osservare il paesaggio nei suoi minimi dettagli. Sul fondo azzurro del
cielo scorrono alcune nubi inargentate dalla pallida luce della luna; tutta la natura dorme in un
immobile splendore: tutto tace, il silenzio è imponente ed è solo interrotto dagli impercettibili
e misteriosi rumori dell’eterno lavoro della natura. È una tepida notte d’estate, e le nuvole
lontane riposano l’occhio stanco di quella luce e di quell’inerzia, mentre il pensiero
seguendone il corso capriccioso si slancia attraverso lo spazio e vaga a briglia sciolta sulle ali
irradiate della fantasia.201
Anche se qui manca, in effetti, qualsiasi riferimento esplicito a quella realtà europea da dove il
viaggiatore proviene, vissuta come una prigione dal moderno soggetto borghese privato a un tratto
del suo presunto secolare e armonioso rapporto con il mondo, essa traspare in modo chiaro proprio
attraverso l’insistenza su alcune caratteristiche specifiche: il cielo stellato, l’aria pura, la quiete
totale, il silenzio avvolgente sono tutte condizioni messe inevitabilmente al bando dalla moderna
città industriale, votata a ritmi costanti di lavoro e di produttività, e che non a caso permettono
all’uomo di lasciarsi andare a sublimi pensieri e fantastiche immaginazioni.
4.2 Idealizzazione stereotipica
Nella misura in cui, come abbiamo detto, le descrizioni paesaggistiche di questo periodo che
ancora prelude alla vera e propria conquista coloniale mirano sostanzialmente a un unico e uno
stesso fine, che è appunto quello di rintracciare e far risaltare in esse quelle condizioni premoderne
che l’Europa ha voluto lasciarsi alle spalle, esse finiscono poi spesso per appiattirsi su un orizzonte
comune, in cui davvero poco spazio gioca l’originalità. In altre parole, l’immagine che si impone
rapidamente, passando con disinvoltura dall’uno all’altro testo al punto che davvero sarebbe
impresa vana il tentare di riconoscervi una marca d’autore, è quella stereotipica di un paesaggio
fortemente idealizzato, «un convenzionale scenario da favola, fuori dal tempo e dallo spazio, dal
200
201
Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel Paese degli aromi, cit., pp. 296-7.
Luigi Pennazzi, Dal Po ai due Nili, cit., p. 253.
163
sapore stucchevolmente arcadico ed oleografico». 202 Il riferimento all’Arcadia è oltremodo
appropriato: come nella migliore tradizione bucolica virgiliana, anche qui il paesaggio finisce − nei
casi estremi − per ridursi a un generico locus amoenus, perdendo la sua specifica connotazione
africana, e dunque le sue riconoscibilità e unicità.
Talora gli esploratori sono talmente rapiti, per esempio, nell’ammirazione dei giochi coloristici e
delle forme create dalla luce al punto da dichiararsi, anche qui in maniera del tutto retorica e in
omaggio a una lunga tradizione, incapaci di rendere a parole ciò che si impone al loro sguardo. Così
Arturo Issel, dalla posizione di osservatore privilegiato ancora a bordo della nave, descrive
l’ammaliante spettacolo del Mar Rosso che si stende davanti a lui:
La vivida luce onde sono illuminate e la trasparenza dell’aria ne fanno risaltare a gran distanza
i contorni e le anfrattuosità con mirabile nitidezza; di più, secondo lo stato dell’atmosfera e
l’ora del giorno, i raggi del sole si riflettono su quegli aridi gioghi in vaghissime e mutabili
tinte azzurre, violacee, rosee o porporine […] Salendo allora sulla tolda, fui colpito da uno
spettacolo che la penna è impotente a descrivere.203
Ancor di più, quello evocato in una rapida immagine da Pennazzi sembra davvero lo scenario tipico
di una favola per bambini, in cui nulla resta nemmeno di quella imponente e a tratti inquietante
maestosità africana, bensì c’è ormai spazio solo per il “quadro” tanto astratto quanto improbabile di
un’amena valletta:
Ad una svolta del sentiero, resto incantato alla vista del grazioso quadro che mi stava dinnanzi.
Ai miei piedi stendevasi una piccola valle tutta verde e ridente nel mezzo della quale
zampillava un chiaro e limpido ruscello.204
In altri casi, lo stesso effetto di irrealtà e l’atmosfera quasi di sogno sono costruite piuttosto
attraverso il ritratto di un paesaggio non solo perfetto in se stesso, ma reso ancor più vitale dalla
pacifica presenza, in esso, di figure animali che concorrono a comunicare l’idea di una natura in cui
ogni elemento ha ancora il proprio posto e la propria ragion d’essere proprio in quanto parte di un
tutto armonico che lo trascende. Così persino Piaggia, generalmente parco di descrizioni
naturalistiche, non può fare a meno di fissare nel proprio diario il ricordo, evidentemente idealizzato
nella sua perfezione, di una scena imperniata ancora una volta attorno all’elemento vitale costituito
dal fiume:
Il fiume scorreva fra grandi estese foreste di acacie che formavano masse oscure di verde rotto
soltanto dal nastro bianco delle acque. Ogni tanto apparivano sulle rive branchi di scimmie che
nelle ore più calde della giornata venivano ad abbeverarsi al fiume. Sbuffi di ippopotami
facevano eco sulle acque e si propagavano fino a miglia di distanza. Branchi di pappagalli
202
Francesco Surdich, La rappresentazione dell’alterità africana nei resoconti degli esploratori italiani di fine
Ottocento, cit., p. 46.
203
Arturo Issel, Viaggio nel Mar Rosso e tra i Bogos, cit., pp. 18-9.
204
Luigi Pennazzi, Dal Po ai due Nili, cit., p. 105.
164
verdi volavano da un albero all’altro riempiendo l’aria delle loro grida. Ogni tanto il fiume si
divideva in più rami, facendo cerchio ad isolette coperte di rigogliosa vegetazione. Pure ogni
tanto si vedevano gruppi di tamarindi assieme, e là facevano un verde più cupo contrastato dal
cielo azzurro in guisa di fosche e dense nubi, vedute dietro il sole, in gran distanza.205
Eppure, anche qui sarebbe sufficiente sostituire piante e animali tipicamente esotici con altri più
consoni all’habitat europeo per adattare facilmente il brano a un contesto completamente diverso.
Non a caso, una descrizione molto simile a quella del Piaggia si rintraccia anche nella pagine di
diario di Giovanni Miani, altra figura di “pioniere” italiano, il cui primo viaggio alla ricerca delle
sorgenti del Nilo risale addirittura agli anni 1859-60:
S’udiva il variato canto di mille uccelletti che saltellando di fronda in ramo facevano vedere i
vaghi colori delle loro penne. Uscivano dai cespugli i timidi lepri, i quali non avendo mai udito
l’esplosione di un’arma a fuoco, camminavano tranquilli. La gentile, la veloce, la scaltra
gazzella stava pacificamente ritta rodendo la scorza della acacia. Sulle sommità dei monti si
vedevano delle famiglie d’asinelli zebrati che ci osservavano drizzando le orecchie, indi
fuggivano come gli antilopi. Sul pendio dei monti si vedevano quantità di capre ed agnelli che
saltando di balza in balza cercavano qualche magra erbetta per cibarsi, ballando nei punti
difficili come per chiedere soccorso ai loro compagni.206
E già, una volta scomparsi scimmie e ippopotami e introdotti, accanto ad antilopi e gazzelle, anche
lepri, uccelletti, capre e agnelli, il senso di irrealtà si fa persino più marcato. Si è così portati a
maturare l’impressione che spesso la descrizione della natura serva all’autore come pretestuosa
interruzione del ritmo narrativo, in cui far confluire immagini fisse e pronte all’uso, utili solo a
rimarcare quello che il viaggiatore già sa di voler e dover trovare nel territorio sconosciuto e
pertanto ancora immune dai vizi e dalla decadenza della modernità.
Un’eccezione in questo senso può essere rintracciata nei casi in cui le stesse idee preconcette,
unite però almeno in parte alle suggestioni effettivamente derivanti dalla bellezza del territorio e
anche a più o meno esplicite reminescenze letterarie, vengono sfruttate dagli autori più
artisticamente consapevoli per creare immagini artificiose e magniloquenti. È il caso, quanto meno
prevedibile, dell’incipit di Nell’Affrica Italiana, dove Martini intende evidentemente dare avvio al
proprio volume in un tono alto e solenne, che tuttavia non riesce a evitare il vizio di un’eccessiva
retorica:
Che erano mai, paragonati con quelli, i tramonti mirati dai colli di Posillipo, dalle pendici del
Monte Bianco […]? Chi vide tramontare il sole sul Mar Rosso non dimenticherà più, quando
campasse cent’anni, tanta festa degli occhi, tanto bagliore di raggi, tanta vivezza di tinte. Un
globo d’oro s’era da poco nascosto dietro un fulgido padiglione sanguigno, coronato d’archi
gialli, i quali digradando di tono in tono dall’arancio al canario, si perdevano, sfumavano in
luci opaline, che animali non più visti, draghi crocei recanti sul capo gigli d’argento, ippogrifi
azzurri cavalcati da dimoni colore di rame, parevano volare a diffondere per la vòlta del cielo.
205
206
Carlo Piaggia, Le memorie di Carlo Piaggia, cit., pp. 153-4.
Giovanni Miani, Diari e carteggi (1858-1872), a cura di Gabriele Rossi-Osmida, Milano, Longanesi, 1973, p.
277.
165
Ora noi, scorta per la prima volta e salutata co’ versi danteschi la Croce del Sud, navigavamo
tra vapori perlati, vicendevolmente ricordandoci e descrivendo gli sfolgorii di quegli occasi
meravigliosi.207
Sia pure nell’adeguamento a quelli che sono, come abbiamo a questo punto ampiamente dimostrato,
i canoni più comuni e stereotipici utilizzati per dare conto del paesaggio africano, Martini si
distingue senza dubbio per una ricercatezza di stile non comune, per un’attenzione alla forma e alla
parola quasi ossessiva: si notino, tra le altre cose, il tricolon contrassegnato dalla ripetizione di
“tanta” a creare una sorta di climax, la metafora del “globo d’oro” per indicare il sole, la scelta di
termini poco usati quali “canario” e “opalino” per indicare le gradazioni di colore del sole al
tramonto, il latinismo “occasi” inserito al posto del piano “tramonti”. Ovviamente, non rimane qui
nemmeno una traccia di realismo, anzi, sembra che l’intento stesso dell’autore lo conduca piuttosto
nella direzione opposta, a giudicare dal fatto che gli unici animali di cui si parla non sono stavolta
né esotici né europei, bensì deliberatamente fantastici.
4.3 La rivincita europea e il paesaggio urbano
Come abbiamo notato già nei paragrafi precedenti, il Martini letterato e scrittore si distingue
senza dubbio, all’interno del nostro corpus di riferimento, per la spiccata qualità artistica della
propria opera, al punto che giustamente, all’interno della rassegna sulla letteratura coloniale da lei
stessa proposta, Giovanna Tomasello non esita a porlo al fianco di autori del calibro di D’Annunzio
o Marinetti.208 Giunto infatti in Africa in veste di uomo politico, destinato tra l’altro ad avere un
ruolo chiave nella delicatissima fase di transizione tra la sconfitta di Adua e la guerra italo-turca in
Libia, Martini non si ritrae dal manifestare più volte l’intenzione di rompere con l’atteggiamento
paternalistico fatto di ipocrisia e mistificazioni diffuso tra coloro che lo hanno preceduto, e di voler
optare invece per maggiore chiarezza e sincerità di opinioni. Se, allora, la sua vena artistica non può
forse esimersi dall’avvantaggiarsi del contatto con i grandiosi spettacoli naturali africani per
esprimersi al meglio delle sue possibilità, al tempo stesso l’esotismo non è di certo la nota
dominante nel suo resoconto proprio in quanto la finalità dell’autore è quella di condurre a una
valutazione concreta delle potenzialità di espansione italiana nel territorio. Ecco allora che, come
abbiamo già notato, i pregiudizi e le note negative sulla popolazione africana si fanno persino più
insistenti; allo stesso modo l’elemento naturale, che finora abbiamo visto sempre esaltato se non
altro per la sua primitiva purezza e grandiosità, viene da Martini fatto oggetto di un giudizio estetico
negativo (quando non è invece del tutto privato di una connotazione riconoscibile e usato solo come
pretesto per improvvisi innalzamenti di stile). Significative mi sembrano, in quest’ottica, le
207
208
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., p. 11.
Cfr. Giovanna Tomasello, L’Africa tra mito e realtà, cit.
166
considerazioni che l’autore dedica al baobab, quello stesso albero che, a detta di Godio, non può
mancare di suscitare un’esclamazione di meraviglia proprio per le sue imponenti dimensioni:
Utile ed enorme, non importa dire che il baobab è brutto: non v’è proporzione alcuna fra il suo
tronco immenso ed i suoi rami brevi ed esili; ma prescindendo da ciò, s’intende che dev’essere
brutto: prima, il destino volle che il bello e l’utile si accoppino molto di rado; poi se oltre le
misure comuni l’individuo può serbarsi e crescere in bellezza, l’enorme nella specie è sempre
bruttura.209
Anche qui, dunque, come avveniva già al cospetto delle donne africane, a guidare la riflessione di
Martini è un giudizio di natura estetica: ai suoi occhi di europeo, educato evidentemente al principio
del giusto mezzo oraziano, il baobab, proprio in ragione delle sue misure spropositate, non solo non
sembra dover destare alcuna meraviglia, ma suscita piuttosto quasi una sorta di istintiva avversione.
In realtà Martini, con quell’attitudine ironica che gli è propria e che percorre d’altronde tutta la sua
opera, piega ai propri fini, in maniera senza dubbio banalizzante, quella poetica del bello perseguita
con forza e serietà di intenti dal movimento estetico decadente: il baobab allora, vista la sua
indubbia utilità (poco prima Martini stesso ha spiegato che gli indigeni ne usano le fibre del tronco
per tessere cordami o vuotano il tronco stesso e vi conservano l’acqua all’interno) necessariamente
non può possedere anche la dote della bellezza. Interessante, poi, che lo stesso rapporto di
proporzionalità inversa sia stabilito anche tra grandezza e bellezza, dal momento che, si dice,
“l’enorme nella specie è sempre bruttura”. Ora, il termine “specie”, usato evidentemente in
opposizione a “individuo”, starebbe a indicare un insieme, un gruppo, ma l’assenza di un aggettivo
che lo qualifichi meglio lascia perplessi. Martini non vuole riferirsi in particolare, come potremmo
pensare, alla specie animale o a quella vegetale, ma lascia − a mio parere volutamente − aperto il
campo dell’interpretazione: non esclude, in altre parole, che l’allusione, chiaramente di senso
negativo, possa andare a quella specifica “razza” africana che, non a caso, spicca sulle altre per la
misura relativamente maggiore delle sue proporzioni fisiche. D’altronde, abbiamo già visto che
l’autore è il primo a non farsi scrupoli nell’asserire l’inferiorità della popolazione nera: non stupisce
troppo, dunque, che anche il paesaggio possa essere in questo senso piegato ai propri fini.
Anche in riferimento alle categorie estetiche del sublime e del pittoresco che abbiamo introdotto
in precedenza, Martini rivela nuovamente una posizione ambigua, che tende a spostarsi già verso la
seconda delle due attitudini, e che prelude al più netto cambio di prospettiva che coinciderà, grosso
modo, con il volgere del secolo. Se, infatti, non subisce il fascino né l’intimidazione derivanti da
una natura imponente e sovrastante, allo stesso tempo sembra talora già porre le basi per un modo
di guardare al paesaggio da puro spettatore che potremmo definire “imperialista”, focalizzando
l’attenzione esclusivamente su qualità estetiche che appartengono all’audience occidentale. Ecco
209
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., p. 139.
167
allora che le bellezze naturali vengono ridotte drasticamente a elementi di un quadro che l’autoreosservatore si assume il compito di ricomporre, laddove «il sicomoro di Debaroa» richiama alla
mente «le figure del Rubens» o «un grande pittore soltanto potrebbe trovare quei toni [di cobalto e
di giallo croma] e rifare le smaglianti durezze della terra e del cielo».210
Come, tuttavia, abbiamo già accennato, il concetto di paesaggio è in fondo in sé sfuggente e
anche ambiguo, non solo per il fatto che implica per lo più la presenza di uno sguardo osservante
che dia ad esso la sua ragion d’essere, ma anche perché a seconda della specificazione che gli si
vuole attribuire esso può adattarsi a indicare ambienti dalle caratteristiche anche molto differenti.
Per questo motivo ho deciso di includere in questo mio discorso anche alcune brevi considerazioni
su quello che potremmo definire il “paesaggio urbano” africano nel modo in cui, ovviamente, esso
viene fruito e ritratto dai nostri viaggiatori. Si tratta, infatti, di un approccio molto diverso rispetto a
quello che abbiamo visto, sia pure nelle sue varianti, manifestarsi nei confronti della natura “allo
stato puro”. L’alterità di cui quest’ultima è portatrice, evidente nella sua vegetazione gigante e nei
suoi animali esotici, lasciava poco spazio all’applicazione di un meccanismo di confronto con la
realtà europea; nei pochi casi in cui esso veniva attivato, era spesso solo per sottolineare il degrado
prodotto sulla natura stessa dalla modernità (si pensi alla “vegetazione nana e rachitica” di Godio) o
comunque la sua incomparabilità con la maestosità degli scenari europei (si vedano le valli alpine di
Bottego). Diversa è la situazione, tuttavia, quando entra in gioco la città, già di per se stessa
considerata simbolo fondamentale di civiltà, e dunque immediatamente associata a tutto un
immaginario che idealmente ricollega l’Europa alle sue radici classiche (dalla polis greca alla urbs
romana) e la oppone, nuovamente, alla “barbarie”. Non sorprende, allora, che il confronto posto su
queste basi abbia esiti ben diversi. Così, ad esempio, Pippo Vigoni reagisce alla vista di Adua, il cui
nome non è ancora associato, tra l’altro, alla umiliante memoria della sconfitta italiana:
Peggio che mai; il più meschino dei nostri villaggi di montagna è una Parigi al confronto: case
disabitate e cadenti, tetti rovinati, carcami di ogni sorta d’animali che ingombrano ad ogni
passo la via, l’eco di morte che pare risuoni ad ogni porta, un vero disastro, una seconda
Pompei per lo squallore, senza il bello artistico, ma colle tracce recenti della catastrofe.211
Interessante notare come il passo si articoli qui in molteplici riferimenti: se il paragone immediato,
di fronte all’agglomerato in disfacimento delle case di Adua, è con un infimo villaggio di montagna
italiano, quest’ultimo, tuttavia, guadagna proprio dal confronto una luce nuova, salendo al rango,
con evidente enfasi iperbolica, della capitale francese. Curioso, poi, il richiamo a Pompei, anche qui
svilente per la città africana, che della prima serba i segni della catastrofe ma non l’artistica
bellezza.
210
211
Ivi, pp. 111, 155.
Pippo Vigoni, In Abissinia, cit., p. 93.
168
Infine, se la visione di Vigoni è tutta negativa, di certo volutamente esagerata eppure in parte
dettata dalla povertà della zona che sta attraversando, non così accade per esempio al Martini, che
alla vista di Massaua affacciata sulle acque del Mar Rosso elabora un’immediata associazione
mentale con la laguna veneziana:
Durante il breve tragitto, osservando la mole ora bruna de’ caseggiati di Massaua uscente dalle
acque tranquille, che presso la riva accoglievano ombre fantastiche e riflessi tremuli […] mi
scappò di bocca una parola: Venezia! − Che San Marco se la dimentichi!212
Non a caso, tuttavia, egli fa subito la mossa, in qualche modo, di ritirare il paragone appena
proposto, mostrando addirittura, con il suo usuale piglio ironico, di pentirsene di fronte al santo
protettore della città, quasi si trattasse di una blasfemia. Poco più avanti nel testo, in realtà, torna su
un simile confronto, e il richiamo è ancora una volta a Venezia, ma questa volta la necessaria
cautela è espressa preventivamente:
Perché, si parva licet componere magnas, dire la diga di Taulud, a Massaua, è come dire i
Portici di Po a Torino, o a Venezia le Procuratie.213
Se l’Africa, con le sue distese sconfinate, i suoi panorami variopinti e le sue foreste silenziose può,
in altre parole, rappresentare agli occhi dell’europeo una sorta di paradiso perduto in cui cercare
rifugio e ristoro, sia pure temporaneo, dagli effetti soffocanti della rapida industrializzazione, essa
di certo non può, con le sue città desolate e infuocate, reggere il confronto con quelle europee: «Se
Dante avesse conosciuto Massauah, è ben certo che il suo Inferno conterebbe una bolgia di più»214
annota Pennazzi nel suo diario.
212
Ferdinando Martini, Nell’Affrica italiana, cit., p. 18.
Ivi, p. 29.
214
Luigi Pennazzi, Dal Po ai due Nili, cit., p. 44.
213
169
170
Capitolo III
Alla conquista dell’Africa tra vecchie e nuove frontiere.
Esperienze di viaggio agli esordi del Novecento
“The whites are coming. The whites are landing.
And if they are repulsed again, they will return again once more.
No revolution and no resolution and no foreign currency statute will help;
they will come in spirit if they can no longer come in another way.
And they will be resurrected in a brown and a black brain;
it will still always be the whites, even then.
They will continue to own the world in this roundabout way”.
(Ingeborg Bachmann, The Book of Franza)
1. Risorgere dalle ceneri: l’atteggiamento coloniale italiano dopo Adua
La disfatta di Adua, del 1° marzo 1896, segna senza dubbio una tappa fondamentale
nell’accidentato e controverso percorso coloniale italiano. Oltre, infatti, all’impatto tragico e
devastante che la notizia dei compatrioti caduti per mano abissina inevitabilmente ebbe
sull’immaginario collettivo della giovane nazione, l’Italia veniva improvvisamente a vanificare tutti
i sacrifici e gli sforzi compiuti in dieci anni di politica coloniale, annullando in un sol colpo le
speranze a lungo nutrite di guadagnare un adeguato prestigio internazionale in forza dei propri sia
pur tardivi domini d’Oltremare. La pesante sconfitta militare, che per i sopravvissuti comportò la
dura e ignominiosa esperienza della prigionia, ridimensionò prima di tutto le millantate pretese
italiane sui territori dell’impero etiopico: con la revoca del trattato di Uccialli, mediante il quale
l’Italia si era indebitamente arrogata il protettorato sull’Abissinia, e con il ritiro delle truppe dalla
regione del Tigrè, il “guadagno” coloniale si riduceva alla pallida e svilente estensione dell’Eritrea e
dei protettorati somali. Inoltre, ripercussioni fondamentali si produssero sul fronte interno, laddove
conseguenze inevitabili furono il definitivo ritiro dalla scena politica di Francesco Crispi, che
dell’espansionismo africano era stato il principale fautore, e al tempo stesso il rinfocolarsi
dell’opposizione anticoloniale sia popolare (sfociata in ampie manifestazioni di protesta) sia
parlamentare (al punto che nelle stesse aule della Camera, alla notizia della disfatta, da diverse parti
si inneggiava a Menelik).
Eppure, Adua non decreta, di certo, la messa a tacere delle aspirazioni espansionistiche
dell’Italia liberale: al contrario, come negli ultimi anni gli storici hanno ampiamente messo in luce,
esse non vengono in effetti sopite nemmeno nel periodo immediatamente a ridosso dell’infausto
evento, proprio nella misura in cui venivano anzi a porsi come lo sbocco naturale di una sempre più
171
affannosa ricerca di prestigio internazionale. Anche lasciando da parte il caso sia pure emblematico
della concessione cinese di Tien Tsin, ottenuta dall’Italia nel 1900 in seguito alla sua partecipazione
militare all’intervento internazionale volto a reprimere l’insurrezione nazionalistica dei Boxer1, i
segni di una persistente intenzione del governo italiano di mettere un rinnovato impegno nella
politica coloniale si fanno innegabili anche sul fronte somalo: dietro pagamento, infatti, l’Italia
ottiene l’ampliamento dei protettorati in direzione settentrionale, preludio all’unificazione di tutto il
territorio somalo e alla sua costituzione in colonia, sotto la diretta amministrazione del governo e
non più attraverso compagnie commerciali, a partire dal 1905.
Ma i segni di un’innegabile continuità negli interessi espansionistici della giovane nazione, e
della sua decisa volontà di superare il “complesso di Adua” per cercare con ogni mezzo possibile di
non uscire del tutto esautorata da quella fase di scramble for Africa che in realtà vedeva ormai
assestate sulle proprie posizioni tutte le maggiori potenze europee, si fa notare soprattutto sul fronte
interno non tanto politico quanto ideologico-culturale, che è quello che più interessa al nostro
discorso. È soprattutto, infatti, attraverso quello che Nicola Labanca ha definito il “tempo
dell’istituzionalizzazione”2 che l’Italia opera una radicale riorganizzazione della propria politica
coloniale e un accorto re-indirizzamento dell’opinione pubblica profondamente turbata dagli ultimi
luttuosi eventi: in altre parole, rispetto alla prima timida e incerta fase di affaccio sullo scacchiere
coloniale internazionale condotta sullo scorcio del XIX secolo, ora l’Italia sembra divenuta
consapevole della necessità di una più accurata pianificazione strategica, esterna ma anche e
soprattutto interna, delle proprie mosse.
Prima di tutto, allora, e nonostante le polemiche suscitate dall’epilogo della prima guerra
d’Africa, l’Eritrea non viene abbandonata: al contrario, essa viene affidata a un governatorato civile
presieduto da quello stesso Ferdinando Martini che già prima del disastro di Adua si era
pronunciato a favore del suo mantenimento. Ormai in procinto di accettare l’incarico propostogli,
infatti, egli scrive alla figlia nel 1897:
Io a liquidare la Colonia non ci vado. Sono stato fin da principio contrario alla spedizione:
contrario alle espansioni: parteggiai per la pace perché stimai che un’altra e non improbabile
sconfitta avrebbe messo a repentaglio le sorti della monarchia: ma mi dimostrai fin dal maggio
contrario alle fughe precipitose, le quali io non voglio né dirigere né aiutare.3
E infatti, come testimoniato dai poderosi quattro volumi del suo Diario Eritreo, il parlamentare
toscano si impegnerà a fondo per dieci anni, sia pure lamentando le persistenti indecisione e
1
Episodio di cui Nicola Labanca sottolinea la rilevanza non tanto politica quanto ideologica, e di cui egli stesso
lamenta la mancanza di una adeguata ricostruzione storica (Cfr. Oltremare, cit., p. 98).
2
Per una magistrale e completa ricostruzione storico-politica dell’evoluzione di questi anni, che qui per forza di
cose sarà compressa e limitata a mettere in luce gli aspetti più importanti dal nostro punto di vista ideologico-culturale,
si rimanda al già citato Oltremare di Nicola Labanca, in particolare alle pagine 99-128.
3
Ferdinando Martini, Lettere (1860-1928), cit., p. 316.
172
irresolutezza del governo in materia, nel tentativo di ridurre i costi sostenuti dalla madrepatria per la
gestione della colonia e di pacificarne e stabilizzarne i confini con l’impero etiopico. Nei confronti
di quest’ultimo, d’altronde, vengono almeno per il momento messe da parte le aspirazioni alla
conquista e anche ogni velleità di vendetta per l’affronto militare subito, così come si giunge
finalmente, nel 1906, all’accettazione della supremazia francese sulla Tunisia, che pone fine alle
peraltro vane rivendicazioni nazionali sul territorio.
Come già accennato, tuttavia, è all’interno degli stessi confini della penisola che si notano i
mutamenti più consistenti di atteggiamento, volti a stabilizzare una posizione troppo a lungo
oscillante e contraddittoria: non a caso, sono prima di tutto i circoli colonialisti in patria ad essere
riorganizzati al proprio interno al fine di agire in maniera più decisa nell’orientamento dell’opinione
pubblica. Nel 1906, inoltre, nasce a Roma l’“Istituto coloniale italiano” che, nella sua attività di
gestione e coordinamento dei progetti coloniali, rappresenta com’è ovvio un netto passo in avanti
rispetto alle precedenti società di esplorazione commerciale. Infine, la nascita e la rapida diffusione
in quegli stessi anni del nazionalismo (la fondazione del «Regno» di Corradini risale al 1903)
fornisce al motivo dell’espansione coloniale un’adeguata base ideologico-culturale su cui fare leva
per creare un consenso popolare e di massa alle nuove imprese: puntando infatti sulla piaga sociale
particolarmente viva e sentita dell’emigrazione transoceanica, Corradini stesso indica nelle sponde
africane del Mediterraneo la soluzione ideale per porre un argine alla dispersione del popolo
italiano nelle lontane contrade americane.4
È più che evidente, dunque, che, se è vero che il disastro di Adua fece emergere tutte le
contraddizioni e i limiti di una politica coloniale condotta in maniera avventata e ambigua, senza la
necessaria preparazione militare e diplomatica, al tempo stesso esso finì paradossalmente per
radicalizzare e diffondere l’opinione di quanti credevano che i sacrifici fatti non dovessero restare
vani, e che l’Italia non dovesse in alcun modo rinunciare al proprio posto nel rango delle potenze
coloniali. Siamo qui di fronte a un altro dei paradossi che caratterizzano l’avventura coloniale
italiana: proprio nel momento in cui i diversi Paesi europei, consolidati i propri possedimenti
d’Oltremare, si impegnano ormai solo nella loro pacificazione e nel loro mantenimento, l’Italia
inaugura se vogliamo la fase più aggressiva della propria storia coloniale. A questo proposito, vale
la pena sottolineare che, come abbiamo già affermato in apertura al presente lavoro e come
torneremo a ricordare nell’ultimo capitolo, gli storici moderni, e Del Boca in primis, hanno
ampiamente dimostrato come il colonialismo italiano dell’epoca liberale non sia stato affatto, nella
sostanza, più umano, meno spietato e radicale di quello fascista: se, dunque, tra le due fasi si vuole
4
Si tratta, ovviamente, dello stesso legame tra emigrazione proletaria ed espansionismo coloniale destinato ad
animare di significativo fervore patriottico la ben nota orazione La grande proletaria si è mossa… pronunciata nel
teatro di Barga da Giovanni Pascoli nel 1911, e incentrata sul mito della nazione proletaria che non può e non deve farsi
sopraffare dall’imperialismo vorace delle altre potenze europee.
173
stabilire una relazione, essa tende ad assumere inevitabilmente i caratteri della continuità, più che
della rottura. Certo, la guerra condotta da Mussolini contro l’Etiopia presenterà, come già sappiamo,
indiscutibili peculiarità che come tali la distingueranno da tutte le altre guerre coloniali, non solo
italiane. Ciononostante, le premesse di quell’inaudita aggressione sono già tutte pesantemente
gettate da «mezzo secolo di tentativi, di gravosi sacrifici per il Paese, di spese ingentissime e
totalmente improduttive, di sconfitte militari e di ecatombi»5 di cui l’Italia ha costellato il proprio
percorso alla ricerca di un “posto al sole”.
Proprio nel volgere del nuovo secolo, dunque, conclusosi ormai il tempo dello scramble for
Africa, l’Italia mette finalmente da parte la sua fase pionieristica ed entra a tutti gli effetti nella
competizione internazionale. Ovviamente, un simile ritardo non è privo di conseguenze: la mossa
giocata da Giovanni Giolitti, dietro costanti pressioni da parte dei rinnovati circoli colonialisti, è in
fondo l’unica ancora possibile su uno scacchiere che vede già ancorate sulle proprie posizioni tutte
le altre potenze. La Libia, infatti, non è solo l’unico lembo di terra rimasto escluso dal circuito dei
progetti espansionistici europei, ma viene anche ad assumere una fondamentale rilevanza strategica
immediatamente derivante dalla sua privilegiata posizione geografica: confinante a ovest con la
Tunisia e a est con l’Egitto, rappresenta dunque per l’Italia un’innegabile quanto necessaria base da
cui poter al meglio controllare, e se possibile ostacolare, l’egemonia francese e inglese nel
Mediterraneo. L’impero ottomano, d’altronde, indebolito dalla rivoluzione interna e poi in difficoltà
anche sul fronte balcanico, non si trova nelle condizioni di poter intimorire troppo l’avversario, sia
pure scottato dalle recenti sconfitte militari e dunque deciso a non ripetere le passate performances.
Tutto, insomma, sembra giocare a favore dell’impresa, avviata nel settembre del 1911 e
accompagnata dal plauso della parte più consistente e pressante dell’opinione pubblica nazionale.
Non è qui nostra intenzione ripercorrere nei dettagli lo sviluppo della guerra, né soffermarci ad
analizzarne contraddizioni, errori, atrocità: storici moderni e scrupolosi lo hanno fatto già da tempo,
andando a ricercare e interrogare documenti dell’epoca, troppo a lungo rimasti sepolti e inascoltati.6
Ci basti, dunque, accennare al fatto che, contrariamente alle più rosee aspettative, quella che era
stata concepita come una guerra-lampo, da portare a termine rapidamente e senza eccessive
difficoltà, finisce per configurarsi come un graduale ed estenuante − e a conti fatti vano −
avanzamento all’interno di una regione inospitale sia per la natura del suo territorio sia per
l’atteggiamento dei suoi abitanti. Di nuovo, in pratica, il governo liberale aveva fatto male i propri
conti, immaginando in particolare che la popolazione locale avrebbe identificato negli italiani i
propri liberatori dal dominio turco, e ne avrebbe facilitato in ogni modo il compito. Al contrario, la
5
Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. I, Dall’unità alla marcia su Roma, Milano, Mondadori,
2001, p. 880.
6
Si rimanda in particolare agli studi, citati più volte nel corso del lavoro e riportati in bibliografia, di Angelo Del
Boca e Nicola Labanca, ma si veda anche il volume di Eric Salerno, Genocidio in Libia, cit.
174
forte resistenza delle comunità locali, sia pure del tutto disomogenee al proprio interno7, e la
conseguente configurazione di una situazione profondamente instabile di continua guerriglia, se
pure non impediscono la formale annessione della nuova colonia al territorio italiano8, risultano
tuttavia in una forma di controllo quanto mai parziale e difficoltoso, limitato sostanzialmente alle
città con i loro dintorni e ad alcune zone costiere, ma del tutto inefficace all’interno. Anche quando,
attraverso una penetrazione di tipo esclusivamente militare, nel 1914 il controllo del territorio di
nuova acquisizione raggiunge la sua massima estensione, essa è destinata a durare ben poco,
vanificata già l’anno successivo in seguito allo scoppio del primo conflitto mondiale e alla
riorganizzazione sempre più tenace della resistenza libica. Infine, questa seconda stagione di
espansionismo d’oltremare si chiude nel 1919 con la frustrazione delle sproporzionate aspirazioni
coloniali con cui l’Italia si presenta alla conferenza di pace di Versailles.9 Il bilancio di venti
ulteriori anni di politica coloniale è allora, senza alcun dubbio, deludente sia sul piano concreto,
dove la conquista della Libia è tutt’altro che compiuta, sia su quello ideologico, dal momento che di
certo il prestigio nazionale non ne esce rafforzato. Al “complesso di Adua”, che aveva chiuso la
l’inquietante stagione della prima guerra d’Africa, si sostituisce ora quello della “vittoria mutilata”,
che, abilmente sfruttato e strumentalizzato, spianerà la strada al successo delle rivendicazioni
fasciste.
2. La “terra promessa”: italiani in Libia
Nella misura in cui, dunque, l’interesse politico viene gradualmente a spostarsi, a partire dai
primi anni del nuovo secolo, dalla costa orientale dell’Africa alla sponda libica che, prospiciente
quella italiana, si affaccia sul mar Mediterraneo, l’asse di maggiore concentrazione dei viaggi e
delle esplorazioni tende parimenti a spostarsi verso occidente. Questo non vuol dire, come vedremo,
che non siano giunte fino a noi testimonianze anche rilevanti di nuove spedizioni dirette negli stessi
anni nelle prime due colonie italiane, o ancora in quella regione etiope che fin dagli esordi
dell’avventura coloniale si era posta evidentemente come obiettivo ultimo, più o meno esplicito e
consapevole, dell’espansione stessa. Anzi, il passaggio in Eritrea dal governo militare al
Commissariato civile di Ferdinando Martini oltre a significare, come nelle intenzioni dello stesso
7
Alla divisione nelle due regioni, occidentale e orientale, della Tripolitania e della Cirenaica, e nella zona desertica
del Fezzan, si aggiungono l’organizzazione tribale molto radicata nel territorio, la compresenza di arabi e berberi, di
comunità stanziali e di altre nomadi, tutti elementi di evidente divisione interna, molto probabilmente arginati, come fa
notare ancora Labanca, dal forte fattore unificante rappresentato dalla religione islamica.
8
Nel novembre dello stesso anno, infatti, Giolitti fa firmare senza preavviso al re un decreto di immediata
annessione di Tripolitania e Cirenaica, anche se la pace effettiva con la Turchia viene firmata solo un anno dopo.
9
Già nel 1914 Ferdinando Martini, pochi mesi dopo essere stato eletto Ministro delle Colonie (ministero tra l’altro
istituito appena due anni prima, in linea con il nuovo clima favorevole all’espansionismo e a una più severa e
controllata gestione dei possedimenti) aveva predisposto ben otto memorie contenenti gli obiettivi coloniali italiani,
sulle quali appunto si basarono le richieste avanzate a Versailles da Orlando e Colosimo, succeduto a Martini nel 1918.
175
governatore, l’impegno a non ritirarsi, sull’onda emotiva della sconfitta, dalla colonia primigenia,
rappresenta anche un decisivo passo in avanti nell’organizzazione stabile della sua
amministrazione. È naturale, pertanto, che la sponda orientale continui a richiamare ed esigere
attenzione secondo modalità in parte anche diverse, come vedremo, da quelle incontrate finora.
Tuttavia, come ho d’altronde già spiegato nel primo capitolo, è nell’intento del presente lavoro
delineare un percorso che sia scandito in tre fasi non solo cronologiche, ma anche geografiche,
proprio in relazione alla stessa tripartita articolazione geo-politica degli eventi storici di riferimento.
Il cambiamento della zona di precipuo interesse, o meglio la focalizzazione dei progetti
espansionistici in quest’avvio del ventesimo secolo su un territorio diverso e separato rispetto ai
possedimenti già acquisiti, comporta d’altronde un mutamento di prospettiva ideologica tutt’altro
che indifferente. I primi movimenti di italiani verso il continente africano, quando non
semplicemente determinati da curiosità del tutto personali, si indirizzavano per la maggior parte,
come abbiamo visto, nella zona più o meno adiacente a quella su cui la nazione aveva stabilito il
proprio controllo, in quanto finalizzati a dare di essa descrizioni e notizie in grado di suscitare un
certo interesse in patria. Non a caso, i resoconti di viaggio di fine Ottocento si caratterizzano per un
approccio di tipo scientifico o più spesso pseudo-scientifico, a seconda che siano redatti da veri e
propri studiosi (per lo più naturalisti o geologi) o piuttosto da semplici esploratori, i quali si
arrogano comunque il diritto di dare alle proprie osservazioni (o peggio ancora a quelle riportate da
altri e fatte proprie) un carattere di pretesa scientificità. La conseguenza più evidente di un simile
atteggiamento sta, come abbiamo notato nel precedente capitolo, nell’immediata associazione
dell’alterità riscontrata a un’inequivocabile inferiorità/barbarie, cui tiene dietro la comune insistenza
sul necessario apporto di civilizzazione che l’europeo è chiamato a mettere in atto.
La situazione è almeno in parte diversa nel caso degli italiani che si spingono in Libia in quegli
stessi anni in cui sempre più concrete si fanno le aspirazioni di conquista del territorio, destinate a
sfociare nella vera e propria guerra. Gioca un ruolo fondamentale in questo senso la diversa natura
del territorio stesso, la sua peculiare evoluzione storica: la Libia, o sarebbe meglio dire le due
regioni di Tripolitania e Cirenaica, entrambe province romane al tempo dell’impero, si prestano di
per sé all’ostentazione da parte italiana, quanto mai retorica e priva di sostanza, di un passato eroico
utile a legittimarne l’odierna (ri)conquista. Questa seconda fase espansionistica, in altre parole, è
sorretta alla base da una costruzione ideologica già in sé molto ben connotata, che le permette, se
non di eliminare del tutto, almeno di far passare in secondo piano quei pretesti umanitari che
abbiamo visto agire con forza fino a questo momento. Le giustificazioni alla conquista e alla
violenza, ovviamente, devono esserci anche qui, ma sono se vogliamo ancora più astratte e vacue,
nella misura in cui si fondano sostanzialmente su un millantato diritto acquisito, potremmo dire, per
176
“naturale successione”. Vale forse la pena sottolineare che questa nuova forma di mascheramento
della propria politica imperialista sotto l’egida di una missione non solo e non tanto civilizzatrice
quanto legittima, quasi fosse richiesta alla nazione dal suo peculiare ruolo storico passato
riattivabile in automatico nel presente, non rigetta in alcun modo la gerarchizzazione già operante
nel rapporto tra bianchi e neri. Semmai, come vedremo, anch’essa contribuisce a modificarne in
parte la declinazione, che per un verso si radicalizza acquisendo sempre più la forma di una
contrapposizione di razza, e per un altro verso pone in risalto la specificità italiana all’interno del
panorama europeo. In altre parole, l’innegabile eredità dell’impero di Roma riafferma di principio
la convinta superiorità storica e razziale dell’Italia nei confronti di quei territori − e dunque
inevitabilmente anche di quelle popolazioni − che essa si appresta a ri-sottomettere, e al tempo
stesso fornisce un utile pretesto per l’affermazione di superiorità anche rispetto alle altre potenze
europee.10 Nasce e si fa strada qui, dunque, l’idea di un colonialismo italiano diverso, originale non
solo perché più umano, ma anche perché autorizzato dal magistero ideale, giuridico e militare di
Roma, e volto dunque a riprenderne e riattualizzarne gli antichi fasti.
Tuttavia, sarebbe fuorviante ritenere che sia solo la specificità del territorio libico, con il suo
importante bagaglio di eredità romana, a determinare quei mutamenti più o meno profondi e più o
meno significativi di prospettiva che vedremo agire in alcuni resoconti di viaggio di questo periodo.
Se così fosse, infatti, non saremmo in grado di spiegare gli slittamenti e le variazioni sia nella scelta
delle questioni principali da affrontare, sia soprattutto nel trattamento che alcune di esse ricevono
all’interno di quelle testimonianze risalenti agli stessi anni, ma riferite alla zona africana orientale di
cui ci siamo in maniera esclusiva occupati nel precedente capitolo. Proprio per questo ho scelto di
proporre ora all’attenzione, accanto a testi riguardanti l’area libica, anche alcuni esempi memoriali
di esperienze condotte in Eritrea ed Etiopia, affinché possa risultare chiaro, ad analisi compiuta,
come l’evoluzione ideologica e pratica della politica coloniale italiana (che ho delineato qui in
apertura) abbia i suoi innegabili effetti su tutta la produzione letteraria odeporica che ad essa si
accompagna e che, a sua volta, contribuisce di riflesso a influenzare e rafforzare la prima.
Infine, uno sguardo particolare ho intenzione di riservare di nuovo, come nel precedente
capitolo, alla figura femminile, non indigena stavolta, ma italiana. Due esempi interessanti, e
peraltro molto diversi tra di loro, di resoconti memoriali redatti da donne che hanno inteso lasciare
testimonianza scritta della propria esperienza di viaggio africana potranno aprire uno spiraglio su
alcuni aspetti spesso ignorati della nostra colonizzazione, e fornire un punto di vista per certi versi
alternativo su una realtà che rischia, altrimenti, di apparire monotona e stancamente ripetitiva.
10
Si veda, sulla questione, Mariella Cagnetta, L’impronta classica dell’ideologia coloniale italiana, «Materiali di
lavoro», II-III, 1991-1992, pp. 199-211.
177
2.1 Per un rinnovato impero
Illuminante in relazione alla nuova prospettiva ideologica che informa lo spostamento di
interesse dall’Africa orientale alla Libia è il resoconto che Domenico Tumiati, scrittore e soprattutto
drammaturgo ferrarese di una certa notorietà, redige al rientro da un proprio viaggio in Tripolitania
compiuto nel 1904. 11 Siamo, evidentemente, ancora lontani dal concretizzarsi degli interessi
nazionali nella regione libica; eppure, come abbiamo peraltro già accennato, sono proprio questi gli
anni in cui l’Italia inizia a dare segnali sempre più marcati e pressanti del nuovo indirizzo che
intende dare alla propria politica coloniale. Basti pensare che nel 1905 si tiene ad Asmara il primo
“Congresso nazionale di studi coloniali”, che fornisce al suo promotore, quello stesso Ferdinando
Martini che da diversi anni guida ormai l’amministrazione civile dell’Eritrea, un’occasione
imperdibile per rilanciare il motivo dell’espansionismo italiano in Africa.12
E proprio allo stesso 1905 risale la pubblicazione di Tripolitania di Tumiati, testo che dovette
verosimilmente incontrare un notevole successo di pubblico, dal momento che ne venne subito
approntata dall’editore Treves una seconda edizione. Vale la pena di notare che era stato lo stesso
editore ad appoggiare e sostenere il progetto di viaggio e di reportage da Tripoli, in un momento in
cui evidentemente il governo giolittiano, versando ancora in quell’incertezza che a lungo e con
insistenza gli veniva peraltro rimproverata in quegli anni dagli accesi circoli nazionalisti, non si
preoccupava né tantomeno si sentiva in dovere di promuovere simili iniziative. Il dato è importante,
si diceva, in quanto rappresenta per noi uno scarto rispetto a tutto il materiale che abbiamo preso in
considerazione finora: anche laddove, come nel caso di Piaggia e di Franzoj, il viaggio ottocentesco
nasceva da un interesse del tutto personale e non veniva pertanto promosso né finanziato da alcun
ente istituzionale (come invece nel caso di Bianchi o di Martini), il suo resoconto scritto nasceva a
posteriori in risposta a un’esigenza di raccontare che possiamo presumere sviluppata in
concomitanza al viaggio stesso, e talora (come nel caso del Piaggia) incontrava anche notevoli
difficoltà di pubblicazione. Le cose evidentemente sono ben diverse per Domenico Tumiati, la cui
esperienza di viaggio presuppone già in anticipo la successiva messa per iscritto, che anzi né è al
tempo stesso causa e fine ultimo.
Un simile ribaltamento di prospettiva è di certo strettamente connesso alla figura dell’autore in
questione, la cui fama specificamente letteraria doveva senza dubbio fornire all’editore una garanzia
più che sufficiente al successo della pubblicazione. Tuttavia, è opportuno tenere a mente che è
anche la particolare natura del genere in questione a rappresentare un terreno di investimento
sempre più fecondo per gli editori stessi: il crescente interesse e coinvolgimento di ampi strati
11
Cfr. anche la sezione a lui dedicata in Isabella Nardi e Sandro Gentili, La grande illusione. Opinione pubblica e
mass media al tempo della guerra di Libia, cit., pp. 43-56.
12
Cfr. Carlo Rossetti (a cura di), Atti del Congresso coloniale italiano in Asmara. Settembre-ottobre 1905, Roma,
Tip. dell’Unione cooperativa editrice, 1906.
178
dell’opinione pubblica nelle imprese africane è infatti al tempo stesso incentivo a nuove
pubblicazioni, per cui si viene a creare una sorta di circuito autofecondante tra realtà e sua
rappresentazione.
Non a caso il testo di Tumiati è oggetto di una terza edizione, sempre da parte di Treves, nel
1911, nel momento in cui, come sappiamo, Giolitti ha finalmente messo da parte indugi e
tentennamenti e ha ormai inviato il proprio ultimatum di guerra all’impero ottomano: ed è questa
l’edizione che ho deciso di prendere a riferimento, in quanto essa contiene, rispetto alle due
precedenti, alcuni elementi atti a meglio illuminare la nostra analisi. Prima di tutto, doveva
evidentemente saltare all’occhio dei lettori contemporanei l’introduzione nel nuovo volume non
solo e non tanto di illustrazioni (che peraltro corredano quasi sempre questo tipo di produzione fin
dagli esordi coloniali, contribuendo non poco alla fissazione e divulgazione di stereotipi
orientalisti13) quanto di una copertina realizzata appositamente, su cui grandeggia il tricolore e
compaiono sullo sfondo, dietro la figura di una donna velata in primo piano, le sagome ben
riconoscibili di due soldati. Inoltre, l’aggiunta del sottotitolo Africa romana lascia intendere fin
dall’apertura l’ideologia sottesa a tutto il volume, che peraltro viene ampiamente introdotta e
spiegata dall’autore nelle pagine di un Proemio anch’esso assente nell’edizione originale, e risalente
dunque allo stesso 1911.
Anche a una lettura superficiale del testo, colpisce immediatamente la sua forte carica retorica,
che si esplica soprattutto in una insistenza quasi ossessiva sulla romanità della nuova colonia, e
della Tripolitania prima di tutto, la parte cioè occidentale della regione (estesa intorno a Tripoli,
appunto) che comprende non a caso anche l’antica Leptis Magna: essa spetta dunque di diritto
all’Italia, che deve tornare alle proprie origini per avviarsi a un nuovo inizio nel segno delle glorie
del passato. Nella stessa direzione va la sottolineatura delle radici cristiane di questa zona
dell’Africa, prima dell’invasione araba, più volte ricordate da Tumiati anche al fine di legittimare,
ed elogiare, gli sforzi compiuti dalle missioni francescane per ricondurre gli infedeli alla vera
religione.
Ma è già nel post-datato Proemio, come dicevo, che si delinea con forza e decisione maggiori
che nel prosieguo del testo, in quanto evidentemente ormai poggiate su una nuova consapevolezza
data dai recenti avvenimenti storici, il nucleo concettuale fondamentale chiamato da ora in poi a
sostenere gli sviluppi dell’impresa coloniale: un nuovo e profondo orgoglio nazionale. Complice
senza dubbio la rapida crescita economica e industriale vissuta dal Paese nell’ultimo decennio, così
come l’altrettanto rapida messa in circolazione di una nuova ideologia nazionalista, anche i
13
Si veda, ad esempio, l’interessante volume pubblicato a cura di Maria Grazia Bollini, Eritrea 1885-1898. Nascita
di una colonia attraverso i documenti e le fotografie di Antonio Gandolfi, Ledru Mauro e Federigo Guarducci,
Bologna, Comune di Bologna, 2007.
179
viaggiatori italiani in colonia tendono ora a voler riporre una rinnovata fiducia nelle potenzialità
della Patria, nazione sì “proletaria” ma finalmente sollevatasi dal torpore e dall’immobilità in cui
troppo a lungo si è rifugiata. Dalle prime considerazioni dell’autore, infatti, emerge lo scarto tra la
situazione ancora vaga del 1905 e quella attuale, in cui sembra finalmente essersi compiuto ciò che
egli auspicava, e che pertanto accende di rinnovato entusiasmo le sue stesse parole:
Non ero certamente il solo della mia generazione che, ferito a morte dalla paralisi della vita
nazionale, cercasse salvezza fuori della patria […] Il contatto degli altri popoli, come un
martellìo di scalpelli, aveva sbalzata viva, dentro di me, l’immagine della patria.14
Quello stesso viaggio, vissuto allora come un’opportunità di evasione dall’ignavia dei governanti
italiani, accusati di frustrare con i loro timori e con l’ossessione paralizzante dei fantasmi di Adua le
aspirazioni e gli ideali eroici delle nuove generazioni, acquista a posteriori un significato persino
opposto: proprio l’incontro con l’alterità radicale dei popoli africani ha avuto infatti come
conseguenza immediata un rafforzamento dell’identità dell’autore, non personale e soggettiva, si
badi bene, bensì nazionale. Si tratta di una notazione particolarmente significativa, proprio nella
misura in cui mette in risalto un punto focale e indicativo della realtà italiana: la giovane nazione,
che da appena mezzo secolo ha conseguito una unità almeno giuridica e formale, ha evidentemente
bisogno di cementare la propria identità a contatto con il diverso, che funziona in questo caso da
utile e preziosa cartina di tornasole su cui misurare la propria peculiarità. Simile rafforzata
percezione di alterità nei confronti dell’uomo africano, d’altronde, se non conduce ad alcuno sforzo
sulla via di una migliore comprensione di quest’ultimo, finisce al contrario per spingere ancora più
direttamente all’affermazione della sua inferiorità, dal momento che «il postulato di differenza
suscita facilmente un senso di superiorità».15
Di questa superiorità, d’altronde, l’Italia sta “finalmente” dando prova proprio con l’impresa
libica, che le fornisce l’occasione di riprendere il posto che le spetta nel novero delle grandi
potenze, e anzi persino di sollevarsi al di sopra di esse, nell’ottica di Tumiati, per «restaurare sopra
tutti i sistemi d’oltralpe, nel nostro sangue e nel nostro pensiero, la tradizione nostra, la volontà
nostra, lo spontaneo genio della nostra razza immortale».16 Degna di nota la scelta finale del
termine “razza”, in posizione rilevata in chiusura di frase e messo ancora più in risalto, rispetto ai
sostantivi che lo precedono, dall’utilizzo, oltre al solito possessivo, dell’aggettivo “immortale” a
caratterizzarla specificamente: e qui, inoltre, il termine non sta ad indicare genericamente la “razza”
bianca, in opposizione a quella nera, bensì vuole nello specifico distinguere la stirpe italica, diretta
discendente di quella dell’antica Roma per sangue e per cultura, rispetto a quelle d’oltralpe, nei
14
Domenico Tumiati, Nell’Africa romana. Tripolitania, Milano, Treves, 1911, pp. XI, XIV.
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, cit., p. 77.
16
Domenico Tumiati, Nell’Africa romana, cit., p. XIX.
15
180
confronti delle quali evidentemente viene del pari rivendicata una forma di superiorità. In un moto
d’orgoglio tanto pomposamente retorico (si noti in due sole righe di testo la ripetizione per ben
cinque volte dell’aggettivo “nostro/a”) quanto vanamente utopistico, Tumiati sembra non dare
alcuna importanza ai secoli trascorsi dai tempi dell’espansione romana, in cui altre nazioni hanno
davvero messo a frutto le proprie risorse e fortificato al massimo il proprio potere, e immaginare
addirittura che l’Italia possa tornare a imporre il proprio magistero, spirituale e non solo, e ad essere
guida per l’Europa tutta.
Non stupisce, allora, che il registro dominante nella descrizione di luoghi e persone sia quello
della nostalgia, non, come nella prima fase, di uno stato primitivo inteso come fuga da una moderna
condizione esistenziale opprimente, bensì come desiderio irrinunciabile di un ritorno alle proprie
specifiche origini, a qualcosa che attrae non solo e non tanto per la sua diversità, ma perché riattiva
comunque la memoria di un’appartenenza passata. Così le donne saracene «destano una nostalgia
amara di contrade lontane, di forme nuove, una irrequietezza insaziabile»17, e l’oasi di Zanzùr
appare come una sorta di Eden, rimasto inalterato, in cui presente e passato possono conciliarsi e
sostenere insieme la rinascita di una nuova Libia italiana:
Questa gente si nutre e cammina; tosa le sue gregge, beve ai pozzi millenari, siede sotto gli
alberi mormoranti, abbraccia donne dalle carni di bronzo tintinnanti di diademi barbari, si
avvolge di lane bianche, e dorme, dopo aver invocato il nome misterioso di Dio. Che v’è altro
da fare? Facciamo forse noi qualche cosa di meglio? […] Non sei tu un faro nuovo per
l’avvenire? Non ci chiami a ritentare, ove il mondo è deserto, l’odissea primitiva della vita? a
ritemprare i nostri sensi e il nostro spirito, in una lotta di conquista feconda, in nuove patrie più
vergini e più ricche, pionieri assetati di serenità e di luce? […] e dove è apparente deserto,
potrebbero risorgere gli antichi oliveti, pascoli e vigne. Quanti muoiono di stenti nella mia
patria, troverebbero qui una nuova sede, una terra promessa.18
Lo scontro tra civiltà e barbarie, che tanta parte aveva nelle riflessioni dei viaggiatori della
generazione precedente, qui non viene nemmeno affrontato, o meglio non sembra essere più motivo
di problematizzazione. Resta, fossile retaggio di una consuetudine più che scelta significativa e
consapevole, l’aggettivo “barbaro” riferito non a caso né a un comportamento né a una persona,
bensì a un oggetto − il diadema che orna il costume femminile − che in quanto tale ne attutisce la
carica dispregiativa. Allo stesso modo, la semplicità della vita nel deserto non induce a valutare
l’opportunità di instillare nelle popolazioni nuovi desideri propri della “civiltà” (come era in
Bianchi), bensì si pone come garanzia di rigenerazione per coloro che potranno trovare in queste
terre una nuova patria. Il fine dunque si fa esplicito, indicato e sorretto anche dall’utilizzo di alcuni
termini ben marcati in questo senso, quali “conquista” e “pionieri”, laddove questi ultimi (gli
italiani, ovviamente) sono ritratti come “assetati”, dunque alla spasmodica ricerca di qualcosa che
17
18
Ivi, p. 38.
Ivi, p. 71.
181
non hanno, e la prima è definita “feconda”, con una drastica asserzione di fiducia nella futura
riuscita. Tutto quello che ha reso in passato rigogliosa e ricca la regione può verosimilmente,
rimesso in atto − si intende − dagli antichi “conquistatori”, risorgere e dunque ricreare per i loro
discendenti un habitat tanto ideale quanto necessario. Chiaro è qui il riferimento al problema
dell’emigrazione: seppure solo accennato, esso dimostra il pieno inserimento dell’autore all’interno
della corrente di pensiero nazionalista che voleva indicare nelle colonie, e specialmente nella vicina
Libia, lo sbocco naturale delle risorse umane italiane (e che sarà fatto proprio e riproposto con
forza, com’è noto, anche da Pascoli).
Particolarmente interessante, infine, soprattutto tenendo presente quanto abbiamo rilevato nel
capitolo precedente, il fatto che anche le modalità di rappresentazione del paesaggio sembrano
subire in Tumiati un sottile slittamento, funzionale e coerente con l’immagine di continuità ideale
che l’autore vuole proiettare sul territorio libico. Permane, indiscutibilmente, una forma di
quell’esotismo, così accentuato nei resoconti ottocenteschi, evidente per esempio nel passo
seguente, che figura tra l’altro all’interno di un capitolo dal titolo volutamente accattivante di
“Tripoli misteriosa”:
Ma, quando l’alba sorge tra i palmeti di Tagiura, un’altra città si desta, e uno spettacolo
variopinto si svolge ai nostri occhi. Le vie si svegliano come la bella Sheherazade… le piccole
porte dei bazar e dei mercati si aprono, e appariscono personaggi leggendari, dai vibranti
colori.19
Più che di esotismo, tuttavia, bisognerebbe in questo caso parlare di “orientalismo”, per il fatto che
siamo propriamente di fronte a un ritratto del tutto stereotipico, e certamente inattendibile, di una
realtà dal vago “sapore orientale”, in cui vengono non a caso inseriti quegli elementi comunemente
associati nella cultura occidentale all’idea di Oriente, a partire dall’immancabile riferimento
letterario alle Mille e una notte. Non c’è infatti, a ben guardare, stupore per una riscontrata alterità
dello spettacolo naturale, come abbiamo spesso incontrato in precedenza, né c’è d’altronde una sua
effettiva descrizione: l’autore si limita a fornire quelle che sembrano piuttosto le coordinate di una
rappresentazione teatrale da salotto, o di un’immagine pittorica del tutto convenzionale.
Ma il paesaggio, o ciò che resta di esso, non è solo banalizzato e ridotto a una piatta quinta di
palcoscenico, adatto a uno spettatore passivamente assetato di scenari da favola, bensì viene anche
in un certo modo addomesticato, in linea con il presupposto teorico che vede nella Libia una
propaggine ideale del suolo nazionale:
Gli agrumi giungono come li creò la terra, senza coltivazione: aranci e cedri più belli che in
Sicilia […] E allora, uno spettacolo maestoso, la visione di un’Umbria dieci volte più vasta, di
una Toscana più verdeggiante, sorge dinanzi a noi, giogaie e valli, inseguentisi a perdita
19
Ivi, p. 19.
182
d’occhio, ove la mano dell’uomo è da secoli ignota, ove il suolo custodisce tesori ancora
sconosciuti.20
Torna di nuovo quel meccanismo di accostamento e riduzione dell’ignoto al noto che già Todorov
aveva riscontrato operante nei racconti di Colombo, e che abbiamo visto anche nei resoconti
ottocenteschi. Tuttavia, avevamo notato come in questi ultimi esso funzionasse soprattutto laddove
la comparazione era più facilmente sostenibile, ossia non tanto nei confronti degli spettacoli naturali
veri e propri, ammirati in forza della loro spaventosa e ignota maestosità, quanto piuttosto in
relazione ad ambienti cittadini, per lo più usati come pretesto per sottolineare l’arretratezza africana.
In Tumiati, ancora una volta, la situazione è diversa: la Libia è una terra mediterranea, è già stata
romana in passato, ed è destinata a tornare sotto il suo “legittimo custode”: ecco allora che anche il
paesaggio può (e deve) essere lo stesso, in quanto lasciato in eredità da un antenato comune a due
terre separate solo dallo stretto mar Mediterraneo.21 Le regioni più feconde e verdeggianti d’Italia,
pertanto, trovano tutte ugualmente specchio nel territorio libico, anche laddove alla spontaneità
della natura è demandato l’intero compito, dal momento che manca, come l’autore non a caso
sottolinea, il lavoro dell’uomo. La familiarità del paesaggio, allora, serve senza dubbio a
incrementare il fascino della regione e, in particolare, l’attrazione da essa esercitabile sulla
popolazione italiana. In quest’ottica, tuttavia, la notazione dell’assenza di coltivazione del terreno
non può e non vuole porsi come un ingenuo elogio della purezza di una terra incontaminata che non
necessita, anzi rifiuta l’intervento umano. Al contrario, mira a evidenziarne l’innata fertilità,
lasciando intendere le enormi potenzialità che deriverebbero da uno sfruttamento consapevole delle
sue ricchezze:
Quale contrasto con le nostre popolazioni della campagna, instancabili nel lavoro,
appassionate alla terra, e ignare del riposo, finché l’opera non debba necessariamente
arrestarsi! E quale trasformazione porterebbe in questi fecondi altipiani, un’immigrazione
scelta e ordinata!22
Il paragone tra le risorse e le bellezze naturali dei due Paesi porta inevitabilmente con sé quello tra
le presunte “qualità” dei suoi abitanti, campo nel quale ovviamente non c’è spazio per nessuna
forma di accostamento: in altre parole, l’asserita somiglianza dei territori deve servire da ulteriore
stimolo per gli italiani a vedere in Libia nuovi sbocchi e opportunità per se stessi, laddove
evidentemente la popolazione locale non è in grado di trarne alcun particolare beneficio.
20
Ivi, pp. 20, 162.
Sulla volontaria e studiata riabilitazione dell’area mediterranea come luogo d’origine della civilizzazione europea,
soprattutto in reazione all’orientalismo romantico nord-europeo che tendeva al contrario a ricercare le stesse radici in
direzione più propriamente asiatico-orientale, si veda l’interessante contributo di Fabrizio De Donno, Routes to
modernity. Orientalism and mediterraneanism in Italian culture (1810-1910), «California Italian Studies Journal», 1
(1), 2010, pp. 1-23.
22
Domenico Tumiati, Nell’Africa romana, cit., p. 173.
21
183
Popolazione che, d’altronde, rimane del tutto sullo sfondo nelle memorie di Tumiati, inerte e
insignificante; tutt’al più, come abbiamo visto, pittoresco elemento di un quadro, utile solo a far
risaltare, per contrasto, la grandezza di quegli eredi di Roma chiamati a conquistarne il territorio.
2.2 Una nuova attenzione all’uomo: tra razzismo e psicologia
Se, dunque, permane invariata rispetto al secolo precedente una forma di interesse del tutto
superficiale nei confronti dell’indigeno in quanto individuo, essa assume tuttavia, come abbiamo
già iniziato a vedere, una declinazione leggermente differente. Egli continua, prima di tutto, ad
essere assimilato o perfino subordinato all’ambiente, ma ne subisce in questo senso anche la
medesima sorte: diventa cioè anch’egli parte non secondaria di un quadro ricostruito ad hoc dal
viaggiatore italiano e pronto all’uso per tutti gli spettatori che ne vorranno usufruire in patria.
D’altronde, come abbiamo già sottolineato, è solo con l’impresa di Libia che l’opinione pubblica
viene davvero coinvolta appieno, e volutamente, nel programma di espansione coloniale: dopo il
brusco risveglio provocato dal disastro di Adua, che per molti tra l’altro aveva rappresentato la
forzata uscita da un’ignoranza pressoché totale degli avvenimenti coloniali, la nazione viene ora
chiamata nel suo insieme a dimenticare gli spettri del passato e pertanto guidata alla fruizione di
un’immagine tanto idealizzata quanto strumentalizzata delle nuove terre oggetto di conquista.
Non a caso proprio nel 1911, pochi mesi prima che Giolitti si decida a dichiarare guerra alla
Turchia, viene finanziata dal Banco di Roma, e promossa in accordo col governo stesso, una
missione incaricata di svolgere ricerche a Tripoli e, per quanto possibile, di spingersi anche verso
l’interno, con l’esplicita finalità di valutare le risorse specialmente minerarie del Paese e di rilevare
tutto ciò che in qualche modo possa risultare utile in vista della prossima espansione italiana
(sebbene, si noti, essa non sia stata ancora in alcun modo autorizzata né ufficializzata). I ricordi
della spedizione, e della prigionia di cui cadono vittime i partecipanti nel momento in cui giunge in
Libia la notizia dello scoppio della guerra italo-turca, vengono pubblicati in volume quasi dieci anni
più tardi dal conte Ascanio Michele Sforza, vice capo della missione stessa.
Nel momento in cui egli visita Tripoli, dunque, la città si trova ancora sotto la dominazione
turca, per cui non sorprende che l’autore ne metta in luce, con chiaro intento denigratorio, l’aspetto
misero e desolante. Tuttavia, questa comune constatazione affatto originale non fornisce lo spunto,
come spesso abbiamo visto accadere, per l’introduzione di un paragone con le ben diverse e
superiori realtà cittadine europee, bensì viene in un certo senso accantonata, quasi si direbbe
giustificata a fronte del fatto che, malgrado la tristezza e la sporcizia, Tripoli conserva comunque
intatto il fascino dell’Oriente:
184
La città aveva un aspetto povero e desolato, con le case tutte bianche, con le strade sporche,
formicolanti di accattoni innumerevoli, ma il carattere dell’Oriente era allora integro […] Lo
spettacolo di quel mondo d’Oriente, fra gente dalle fogge di vestire così diverse dalle nostre e
che, più degli abiti, hanno un modo tanto differente da noi di intendere la vita, in quei giorni
non mi saziava mai. Quelle facce gravi, bianche, nere, giallastre, bronzine, dallo sguardo più
sprezzante che indifferente, avevano per me qualcosa di misterioso. Ho cercato allora il viso di
qualche araba, senza riuscire a vedere in quegli esseri, ravvolti in un mucchio informe di cenci,
che delle mani, coll’estremità delle dita tinte di rosso dalla henna, e, non velato dalla veste, la
quale ricopre anche tutta la testa, che un occhio soltanto.23
Si tratta, tuttavia, di un fascino che scaturisce da una realtà ben precisa e delimitata, la quale
consiste appunto nella varietà e nella diversità degli esseri umani. Com’è ovvio, essa veniva rilevata
nei resoconti dei propri viaggi anche dagli scrittori precedenti, ma tendeva a non rappresentare tanto
un motivo di attrazione, quanto piuttosto un elemento imprescindibile intorno al quale articolare
accurate descrizioni, atte a fornire non solo caratteristiche fisionomiche ma anche esaustivi dettagli
su acconciature, abbigliamento, ornamenti. Qui l’autore, al contrario, sembra voler spostare
l’attenzione dal piano meramente fisico-descrittivo a quello che potremmo definire psicologico,
introspettivo: l’interesse sorge dal mistero racchiuso negli sguardi, dall’aria di scherno con cui si
volgono all’esterno, da una tanto diversa filosofia di vita che si presume incarnino. Eppure, a ben
guardare, il ritratto così delineato risulta per noi quanto mai privo di un’effettiva caratterizzazione:
quello che, per sua stessa ammissione, cattura e alimenta l’interesse quasi morboso dell’autore è
propriamente uno “spettacolo”, e dunque ancora una volta qualcosa della cui vista si gode in
maniera passiva e superficiale. Anzi, è quel proporsi e allo stesso tempo negarsi alla vista dell’altro,
insito nel costume velato delle donne musulmane, che ancora di più eccita la fantasia dello
straniero, rinfocola la sensazione di mistero e funziona in questo senso da catalizzatore di attenzioni
anche per gli eventuali lettori nei confronti di un’umanità che, a ben guardare, consiste però solo in
“esseri ravvolti in un mucchio informe di cenci”. Non c’è, in altre parole, alcuna rivalutazione
dell’“altro”, né alcun reale tentativo di introspezione; forse solo una sua ri-funzionalizzazione,
parallela e concomitante a quella che subisce anche l’“altrove”, utile in una prospettiva più
marcatamente propagandistica di quella che abbiamo visto agire finora.
D’altronde, Sforza si fa accompagnare, nel suo primo giro di “perlustrazione” della città, da una
guida locale, che non si esime dal fornire risposte esaustive a ogni sua curiosità: eppure nessuna di
queste spiegazioni è evidentemente ritenuta dall’autore rilevante né tantomeno degna di fede, tanto
che non a caso egli non stima opportuno né necessario inserirne alcuna nel suo resoconto. Anzi,
esse non sembrano neppure essere prese in grande considerazione se non nella misura in cui fanno
esse stesse parte del quadro pittoresco e stravagante che si vuole delineare:
23
Ascanio Michele Sforza, Esplorazioni e prigionia in Libia, Milano, Treves, 1919, pp. 6-7.
185
Nei suck (mercati), interessanti soprattutto perché vi si mescolavano uomini appartenenti alle
razze più svariate dell’Africa, dell’Europa e dell’Asia, la guida che mi conduceva era
infaticabile nel darmi spiegazioni di ogni genere. Spesso erano spiegazioni a modo suo, ma
non per questo meno interessanti per conoscere la strana mentalità della razza.24
Si ripropone, ad ogni modo, anche in questo passo la stessa focalizzazione di attenzione sull’uomo
più che sull’ambiente: persino nel suq, che colpisce in genere i viaggiatori europei per la
straordinaria varietà dei suoi colori, dei suoni, dei profumi, Sforza è attirato piuttosto dalla varietà
delle persone e, più in particolare, delle razze, tra cui non a caso a quella libica viene attribuita una
non meglio specificata “strana mentalità”.
L’insistenza sulla differenziazione e al tempo stesso sul miscuglio razziale non è d’altro canto
affatto casuale: come ha di recente sottolineato in un denso e illuminante saggio Lucia Re, proprio
agli anni della campagna libica risalgono la formazione e la radicalizzazione della questione
razziale in quanto tale.25 Come peraltro abbiamo visto anche nelle parole di Domenico Tumiati,
l’improvviso e serrato confronto con le “altre razze” riesce laddove l’unificazione politica aveva
sostanzialmente fallito, ossia nel cementare un’identità italiana ancora debole e incerta. Un simile
processo di consolidamento dell’identità nazionale (in cui un ruolo non secondario è giocato da
testimonianze letterarie assimilabili a quelle di cui ci stiamo occupando per contenuti e per intenti),
enfatizzando le differenze rispetto alle realtà esterne con cui si viene in contatto, agisce anche come
importante pacificatore sociale interno alla nazione. Come fa notare ancora Re, infatti, esso è in
grado di mettere a tacere o almeno di relegare in secondo piano le rivendicazioni di uguaglianza
sociale portate avanti negli stessi anni dalle donne e dai ceti più emarginati soprattutto del
Meridione, ponendo l’accento su un quanto mai effimero senso di appartenenza e di condivisione
che a sua volta, e strumentalmente, risalta nell’incontro con il “diverso”. In questa prospettiva
acquistano nel nostro caso specifico un senso e un valore aggiunto quegli attributi di mistero,
estraneità, stravaganza riferiti alle razze africane su cui torna a insistere più volte Sforza, nella
mistificante pretesa di fornire qualche elemento utile e interessante, e contribuendo solo a
concretizzarne e renderne più tangibile la distanza e l’alterità. Il monito a “sostituire razza a razza”
che compariva, sia pure per bocca altrui, nel resoconto di viaggio di Martini in Eritrea, trova in altre
parole sempre maggiori appigli: favorisce la coesione interna attorno a un vago ideale di purezza
biologica e innalza barriere via via più alte verso l’esterno.
Sulla stessa linea e a partire dai medesimi presupposti si articola, evidentemente, il resoconto che
della propria permanenza in Libia dalla fine del 1911 ai primi mesi del 1914 fornisce Giuseppe
Alongi, poliziotto oltre che scrittore, che infatti appena giunto a Tripoli si occupa dell’apertura
24
Ivi, p. 6.
Cfr. Lucia Re, Italians and the invention of race. The poetics and politics of difference in the struggle over Libya
(1890-1913), «California Italian Studies», 1 (1), 2010.
25
186
ufficiale in città della questura. La natura della sua professione, d’altronde, potrebbe sembrare un
particolare irrilevante, ma torneremo più avanti sulla questione in relazione al peculiare
atteggiamento che l’autore rivela nei confronti degli indigeni.
Prima di tutto, infatti, mi sembra opportuno soffermarmi un attimo sull’apertura del volume, che
inizia in medias res senza fornire indicazioni (come avviene di norma) sulle ragioni o sulla
preparazione del viaggio, all’insegna di un forte contrasto visivo: all’impressione di incantato
stupore provata ancora a bordo della nave, mentre questa lentamente si avvicina alla costa libica, si
sostituiscono l’amara disillusione e una sensazione quasi di disgusto nel momento del contatto
effettivo con la nuova realtà:
Quando il Po […] giunse in vista della costa tripolina, uno spettacolo indimenticabile si offrì
agli occhi dei pochi passeggeri che si reggevano in piedi. Era la visione di una grande città
orientale che si allungava sulla spiaggia, candida come un cigno, ricca di minareti emergenti
sui fabbricati, e circondata da palmizii il cui verde, ai raggi del sole, dava magici riflessi e
tenere cangianti sfumature […] Profondo disinganno: una folla etnicamente promiscua, ma con
predominio evidente di cenciosi d’ogni età e colore, che si assiepava sui poveri passeggeri,
strappando loro valigie e involti, e dando così l’impressione di una rapina a mano…
fortunatamente non armata. Un vocio babelico faceva da coro a moccoli buttati lì in tutti i
dialetti italici.26
I sentimenti contrastanti sono tuttavia, a ben vedere, suscitati da elementi distinti tra di loro, in un
modo peraltro perfettamente coerente con quanto abbiamo visto finora. È infatti lo scenario
osservato da lontano, dalla posizione privilegiata sulla tolda dell’imbarcazione, quello che gratifica
e quasi commuove. Come uno spettatore, appunto, che gode di assistere dalla platea a una
rappresentazione che risponde appieno alle proprie aspettative, così il viaggiatore, nutrito di nozioni
stereotipiche e false di un Oriente immobilizzato nel proprio fascino atavico e misterioso, si
compiace di trovare e riconoscere in esso, di lontano, gli elementi che nella sua mente già lo
connotano: la spiaggia, le case bianche, i minareti, le palme, e infine il sole che si distende
implacabile a delineare contorni e colori di tutte le cose. Visione senza dubbio poetica e
accattivante, di cui lo scrittore è lieto di poter essere testimone a parole, ma la cui impressione
appunto si dilegua una volta approdati a terra. La folla degli indigeni che si accalca intorno ai nuovi
arrivati fa immediatamente crollare il castello di carte appena eretto, e l’aspetto che più sembra
infastidire è proprio quel miscuglio non meglio definito di “razze” e “colori” in cui predominano gli
stessi “cenciosi” osservati da Sforza. Il tratto caratterizzante è dunque la confusione, evidenziato
anche dall’utilizzo dell’aggettivo “babelico” a indicare appunto l’affastellarsi disordinato delle voci
le une sulle altre. Esso fornisce, non a caso, un presupposto ideale per legittimare il già
sopraggiunto intervento italiano: in base alla modalità di osservazione delle persone messa in atto
26
Giuseppe Alongi, In Tripolitania, Palermo, Sandron, 1914, pp. 9, 10.
187
dall’autore e nettamente orientata secondo precise distinzioni razziali, è per forza di cose il genio
italico ad essere chiamato a portare nuovo ordine nel caos.27
Eppure, dopo la breve parte introduttiva, il testo di Alongi prende una piega diversa, tanto che in
realtà non è nemmeno corretto definirlo un diario di viaggio, in quanto l’autore non fornisce in
seguito ulteriori dettagli riguardanti il proprio specifico soggiorno. Il suo intento, al contrario, è
quello di redigere un resoconto, che dobbiamo presumere basato sulla sua diretta esperienza ma che
in realtà non contiene di essa alcuna traccia significativa, sulle condizioni economiche, politiche e
antropologiche della regione, evidentemente utile a indirizzare verso una migliore amministrazione
della colonia. Particolarmente interessanti sono i primi due capitoli del testo, dedicati
rispettivamente alle caratteristiche psicologiche e sociologiche della popolazione locale, che Alongi
inserisce in aperta polemica con quanti, venuti prima di lui, hanno avuto la pretesa di poter arrivare
a conoscere, e dunque a descrivere, l’essenza vera dell’arabo:
Fin dai primi giorni della nostra occupazione quanti vennero qui, anche per pochi giorni, si
credettero in dovere di far sapere che avevano studiata e compresa l’anima araba; ciascuno, per
quel fenomeno psichico, spontaneo e soggettivo, di rispecchiare le proprie impressioni come
osservazioni oggettive, attribuì agli Arabi idee e sentimenti diversi, spesso contraddittori, così
che l’anima araba rischiò di diventare l’araba fenice. Chi scrive non presume di ricondurre
nel vero oggettivo la psicologia degli arabi, e tanto meno di averla compresa in tutto il suo
complesso contenuto, ma solo di portare in questo studio un modesto e sereno contributo di
esperienza.28
Il proposito potrebbe anche essere apprezzabile, quantomeno nella misura in cui sembrerebbe volto
a sgombrare il campo da una serie di clichés ripetuti stancamente da un testo all’altro, su cui infatti
non ho in genere ritenuto interessante soffermarmi troppo. In realtà, l’autore precisa subito che le
impressioni sono per tutti «identiche e unisone» e che la loro analisi inevitabilmente «rivela uno
stato psichico di infantilità costante e soddisfatta».29 Alongi insiste a lungo su questa forma di
arretratezza mentale degli indigeni, che mancano dei requisiti fondamentali che distinguono l’uomo
moderno e civilizzato, ossia «la memoria […] l’associazione di idee, l’attenzione e l’astrazione»:
Da tutto ciò, come necessaria illazione, consegue una coscienza intellettuale torbida,
semplicista, inoperosa, senza energie di iniziativa e di elaborazione psicologica […] la psiche
araba non è in istato di arresto o di sviluppo, ma in quello di inerzia e di decadenza. Messa in
graduale esercizio si muoverà normalmente. Dà in conclusione l’immagine d’una macchina
che funziona male per lungo riposo, per mancanza di esercizio, pronta per altro a riprendere la
sua ordinaria attività se curata e sospinta da una mano pratica.30
27
Cfr. Ivi, p. 15: «Gli arabi, nei loro paludamenti statuari sì, ma anche cenciosi, guardavano appena i passanti. Facce
arcigne, sospettose che mal dissimulavano la paura evidente e l’odio latente. Gli ebrei invece si mostravano fiduciosi,
servizievoli, deferenti e previdenti […] Su tutte queste miserie era bello il gran movimento militare».
28
Ivi, pp. 23-4.
29
Ivi, pp. 24, 25.
30
Ivi, pp. 32, 33, 36.
188
Una simile insistenza sul fattore specificamente psicologico di inerzia e intorpidimento che
caratterizza i popoli considerati primitivi deriva di certo all’Alongi dalla sua formazione: poliziotto,
si diceva all’inizio, e in quanto tale interessato alla psicologia criminale tanto da diventare anche
allievo e seguace di Cesare Lombroso, ben noto all’epoca per le sue teorie sull’atavismo.31 Alongi,
dal canto suo, non insiste tanto sui fattori fisici e biologici degli individui, che nella visione
originaria di Lombroso potevano da sé costituire elemento sufficiente a determinarne la condotta
criminale, quanto piuttosto sulle cause contingenti e ambientali «del regresso sociale, intellettuale e
morale»32 degli arabi. Esse sono, a suo parere, la commistione con “razze negroidi inferiori”, lo
stato di isolamento, in particolare nei confronti degli europei, e l’asservimento e la rassegnazione
cui sono indotti dai principi religiosi del Corano: tre condizioni, non a caso, opportunamente
strumentalizzate in modo tale da suggerire, ancora una volta, la necessità di un intervento esterno
ordinatore.
La riflessione di Alongi, dunque, attinge a teorie pseudo-scientifiche e si dilunga in
considerazioni sugli indigeni che vanno oltre la loro comune identificazione con la categoria
generica di “barbari” in opposizione a una presunta civiltà di cui i loro osservatori sarebbero i
migliori rappresentanti. Eppure, in sostanza, il suo punto di arrivo si discosta ben poco da quello di
questi ultimi, additando implicitamente gli stessi correttivi: l’apertura all’influsso europeo,
l’affrancamento dall’Islam, e, unico elemento nuovo ma in linea con l’ideologia emergente in questi
stessi anni, la distinzione dalle razze giudicate inferiori. Come i bambini, i popoli primitivi, fermi
dunque a uno stadio iniziale della psicologia evolutiva, necessitano di una guida che li indirizzi
sulla giusta strada: provvidenziale, dunque, è giunto l’apporto italiano, che qui riceve una sanzione
ulteriore di natura psicologica e morale.33 Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, che il
testo di Alongi risale al 1914, anno in cui l’Italia raggiunge la massima espansione sul territorio
31
Cesare Lombroso, considerato il fondatore dell’antropologia criminale, riteneva che la delinquenza fosse un tratto
ereditario, e che potesse essere non solo riconosciuto, ma anche attribuito, a partire da alcune determinate caratteristiche
fisiche. Dell’opera fondamentale in cui espone queste sue teorie - L’uomo delinquente studiato in rapporto alla
antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, Milano, Hoepli, 1876 - l’autore appronterà poi diverse
edizioni successive, in cui si aprirà in parte a riconoscere l’influenza di altri fattori oltre a quelli biologici, sulla base
delle critiche che gli vengono rivolte soprattutto dal suo stesso allievo Enrico Fermi. Lo stesso Alongi, d’altronde, nel
capitolo successivo, si allargherà a indicare, come ulteriori ragioni della pigrizia e inerzia imperanti tra gli arabi, fattori
ambientali e in particolare climatici, introducendo una diretta relazione causale tra temperanza del clima, scarsità di
bisogni e dunque riluttanza all’attività.
32
Giuseppe Alongi, In Tripolitania, cit., p. 26.
33
Indiscutibili le assonanze con le teorie psicanalitiche di Freud, soprattutto per le relazioni da quest’ultimo stabilite
tra infanzia, primitività e nevrosi. Un contributo interessante e originale sul legame tra psicanalisi e colonialismo è il
recente volume di Ranjana Khanna, Dark continents. Psychoanalisys and colonialism, Durham, NC, Duke University
Press, 2003, la cui indagine è condotta a partire dall’utilizzo della stessa immagine, quella di continente nero appunto,
da parte di Freud e di Stanley con riferimento rispettivamente alla sessualità femminile e al continente africano. Con
l’intento finale di proporre una teoria femminista post-coloniale, Khanna ripercorre lo sviluppo delle elaborazioni
teoriche freudiane, a partire dalla loro stretta connessione iniziale con l’antropologia e l’archeologia contemporanee, per
dimostrare la necessità di una rilettura della psicanalisi come disciplina essa stessa coloniale, non solo in quanto
prodotto del suo tempo, ma soprattutto nella misura in cui ha promosso, ai suoi esordi, un’idea di soggettività
occidentale contrapposta a un “continente altro” rappresentato appunto dal colonizzato, dal femminile, dal primitivo.
189
libico: di fronte a un dominio che sembra sempre più solido, non è allora più necessario stare a
insistere sulle legittima eredità di Roma, argomento che tornerà in auge, con rinnovata audacia, a
sostegno della campagna propagandistica ed espansionistica mussoliniana.
A chiusura di un ritratto psicologico così dettagliatamente delineato, almeno nelle intenzioni di
colui che lo ha predisposto, l’autore introduce infine una sottile distinzione all’interno del quadro
appena tracciato:
questi rilievi si riferiscono, per così dire, all’uomo medio arabo o in altri termini alla massa,
alla cosiddetta anima araba, non quindi alla minoranza e dirò così ai capi, specialmente della
città, poiché in questi la media normale della mentalità e della moralità non ha nulla di
inferiore a quella europea; e le deficienze ed i pervertimenti non esistono specialmente poi in
coloro nei quali la cultura, ed i contatti con la civiltà occidentale, hanno perfettamente
amalgamato il contenuto psicologico della loro evoluta mentalità. E le note di inferiorità
aumentano dalla costa all’interno.34
Il focus del discorso è sempre lo stesso: il contatto con la civiltà porta inevitabilmente a
un’evoluzione morale e culturale, e pertanto esso va perseguito con ogni mezzo possibile.
Interessante notare, tuttavia, come qui al razzismo etnico, che abbiamo visto imporsi in maniera
sempre più radicale nel giro di questi anni, se ne aggiunga un altro, addirittura più forte, di tipo
sociale: laddove cioè, a parità di condizione sociale, la differenza risiede solo nel colore della pelle,
non è lecito postulare alcuna gerarchia in valori morali e attitudini mentali. In una simile
affermazione agisce senza dubbio l’eco delle problematiche emergenti all’interno della stessa realtà
nazionale, con le progressive rivendicazioni degli strati più emarginati della popolazione, che
proprio il movimento coloniale mirava, come abbiamo già detto, a offuscare.
2.3 Testualizzazione e teatralizzazione
Allo stesso 1914 risale, infine, (ultimo esempio relativo all’area libica su cui ci soffermeremo) il
resoconto di viaggio di Corrado Zoli, inviato del «Secolo», che ottiene insieme ad altri due
giornalisti, Mario Bassi della «Stampa» e Guelfo Civinini del «Corriere», l’autorizzazione da parte
dell’allora Ministro delle Colonie Ferdinando Martini a unirsi a un’autocolonna di rifornimento in
viaggio verso l’interno della Libia. Il compito specifico della missione è quello di dare conto dello
stato di penetrazione militare e politica italiana nella regione interna del Fezzan, oltre che «di
vedere e descrivere gli aspetti naturali e i costumi indigeni di quella estrema plaga di Colonia
affricana di recente acquisita al dominio d’Italia».35 Dovrebbe essere abbastanza evidente, a questo
punto, in che modo e misura sia progressivamente mutata, dalla fine dell’Ottocento al primo
ventennio del Novecento, la natura dei viaggi le cui testimonianze costituiscono l’oggetto principale
34
35
Giuseppe Alongi, In Tripolitania, cit., p. 41.
Corrado Zoli, Nel Fezzan. Note e impressioni di viaggio, Milano, Alfieri & Lacroix, 1926, p. 5.
190
di questa ricerca. Laddove, come abbiamo visto a suo tempo, nel XIX secolo le missioni oltremare,
quando non intraprese a titolo del tutto personale, venivano per lo più patrocinate dalle diverse
società geografiche e di esplorazione, con o senza l’assenso del governo, ora è invece il governo
stesso, e nello specifico il ministero appositamente creato per amministrare le questioni relative alle
colonie, ad affidare alle spedizioni incarichi ben precisi. Inoltre, è opportuno notare anche una
variazione, almeno parziale, nei soggetti stessi: le società geografiche sceglievano per lo più di
affidare le missioni a uomini di scienza, affinché potessero supplire, sotto diversi aspetti, alla
carenza di informazioni pratiche sui nuovi territori fornendo rilevazioni di prima mano, senza
dubbio utili nell’ottica di futura espansione. Nel momento in cui, tuttavia, la suddetta espansione
sembra essersi realizzata, sia pure con le dovute limitazioni, altre sono diventate le priorità, e
diverse le persone che vengono ad esse demandate: vi figurano, pertanto, uomini di lettere e
soprattutto giornalisti, che possano sì continuare a raccogliere informazioni sulla realtà locale, ma
soprattutto aggiornare sulla nuova situazione creata dalla vera e propria instaurazione di un regime
coloniale, e al tempo stesso essere capaci, una volta rientrati in patria, di andare ad alimentare, con i
propri mirati resoconti scritti, il canale sempre più nutrito della propaganda.
Nel testo di Zoli, d’altronde, questa attitudine letterario-propagandistica è evidente al punto che
vi giungono a piena maturazione quelle premesse già disseminate nelle opere precedenti, tutte
ugualmente volte a indirizzare verso una specifica forma di fruizione preconfezionata e
strumentalmente ben orientata della realtà africana. Prima di tutto, è l’autore stesso a dimostrarsi
perfettamente consapevole del ruolo chiave che è chiamato a svolgere in quanto intermediario unico
e privilegiato tra ciò che scorre davanti ai suoi occhi e i lettori cui si rivolge:
Il paziente lettore vorrà dunque seguirmi mentr’io rifarò a tappe il viaggio dalla costa al
Fezzan: ciò servirà a familiarizzarlo colla strada, lungo la quale troveremo indubbiamente
qualcosa d’interessante da vedere, e varrà anche ad abituarlo per gradi alle alte temperature del
deserto. Ci soffermeremo qua e là, in qualche oasi fresca e tranquilla, per ricordare un po’
della storia alquanto nebulosa della regione e per dare un’occhiata alla situazione geografica,
alla flora, alla fauna. Ed infine io lo porterò a rivivere meco qualche settimana al Fezzan […]
E cercherò anche, quando me ne capiti l’occasione, di mostrargli qualche meraviglioso aspetto
del paese del sole...36
Il tono stesso è significativamente mutato, forse accostabile a quello ironico di Martini, ma non di
certo a quello sostenuto e retoricamente solenne più comune nei racconti dei primi esploratori. Zoli
si atteggia a guida turistica, ma lo fa in modo scopertamente teatrale: più che nell’atto di rivolgersi a
un pubblico interessato o almeno vagamente informato su questioni coloniali, viene naturale
immaginarlo mentre recita il prologo di una commedia, accompagnando le parole con un’accorta
gestualità. In questa sorta di captatio benevolentiae nei confronti del pubblico cui si accinge a
36
Ivi, pp. 11-2.
191
narrare la propria storia, Zoli non fa altro, in fondo, che evocare una certa atmosfera quanto mai
vaga e sfuggente, ma forse proprio per questo considerata adatta a catturare l’attenzione. A ben
guardare, infatti, il quadro fornito resta del tutto astratto, privo com’è non solo di adesione alla
realtà, ma anche di una sia pur minima concretezza: la prospettiva consiste nel trovare “qualcosa di
interessante”, “qualche oasi”, “qualche meraviglioso aspetto”, quasi che appunto non sia tanto il
contenuto a fare la differenza, quanto quello che l’autore stesso sarà capace di tesserci attorno.
D’altronde, il giornalista è ben cosciente del fatto che una nuova era è stata inaugurata con
l’impresa di Libia, che i tempi sono cambiati e ormai maturi per una diversa affermazione del
proprio ruolo. Non a caso egli inserisce nel testo uno smaccato elogio dei suoi predecessori (di
quegli stessi viaggiatori, cioè, i cui resoconti abbiamo analizzato nel capitolo precedente), in cui
davvero essi appaiono come paladini eroici e quasi inconsapevoli di un passato che sembra quanto
mai remoto e che ha tuttavia aperto la strada a un più glorioso presente:
Ogni qual volta ho pensato alle condizioni nelle quali agirono quei nostri gloriosi predecessori,
ai loro mezzi limitati, ai lunghi, lenti e disagiati percorsi, ai brevi soggiorni, alle loro gravi e
costanti preoccupazioni, alle diffidenze suscitate, alle insidie sventate, agli ostacoli superati, ed
ho insieme ripensato alla ricchissima messe di informazioni da loro raccolte, alle innumerevoli
osservazioni fatte, ai diligenti studi compiuti di ogni particolare aspetto della vita e della natura
dei luoghi, alla scrupolosa semplicità della loro narrazione, mi sono sempre sentito prendere da
una profonda ed infinita ammirazione per quei magnifici pionieri della scienza e della civiltà
europea.37
Sappiamo bene, per averne insieme ripercorso gli itinerari, riletto le impressioni, riconsiderato le
riflessioni alla luce di un quadro più ampio e complesso, quanto un simile elogio suoni falso oltre
che privo di basi effettive di riscontro. Come nota Del Boca, d’altronde:
Questo tema dei «precursori» e dei «pionieri» fu poi ripreso dal fascismo trionfante negli anni
della preparazione alla seconda avventura bellica in Africa Orientale, ed i personaggi in
questione, senza che si tenesse conto di ciò che in realtà erano stati, di ciò che li aveva mossi,
di ciò che avevano loro stessi confessato nei loro scritti, furono tutti indistintamente
idealizzati, innalzati alla gloria degli altari patriottici, definiti tout court eroi.38
Tuttavia, il motivo dei “pionieri” non solo è significativo in quanto si impone fin da ora come
pretesto su cui il movimento fascista vorrà porre le basi per una ulteriore legittimazione del proprio
operato in Etiopia, in forza degli enormi sacrifici sostenuti appunto dai predecessori. Nelle parole di
Zoli esso suona sì come indicazione di continuità con il passato, ma l’accento cade al tempo stesso
sui progressi che questo passato ha reso possibili, e dunque su un divario inevitabilmente
registrabile rispetto ad esso. In questo senso, almeno, la ricostruzione del giornalista guadagna se
non altro un minimo di credibilità, non perché i viaggiatori dell’Ottocento furono davvero “pionieri
37
38
Ivi, p. 23.
Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. I, cit., p. 879.
192
di scienza e civiltà”, ma perché essa implicitamente riconosce che simili abnegazione e scientificità
di intenti (per quanto presunte esse fossero) non sono più necessarie né richieste nella situazione
presente.
Nella stessa direzione, peraltro, mi sembra condurre anche l’atteggiamento di Zoli verso la realtà
naturale che ha di fronte: lungi dall’incutere timore o estatica ammirazione per la sua estraneità, si
pone anch’essa come parte ineliminabile del quadro, quinta teatrale adatta a una serena scena
bucolica, dove «il sole brillava in un cielo affricano, azzurro e luminoso, e spirava un venticello di
levante, fresco e delizioso come una carezza feminea».39 Al tempo stesso, non è più il paesaggio
africano nelle sue sia pure stereotipiche caratteristiche a suscitare stupore, secondo quella forma di
esotismo che abbiamo visto agire profondamente altrove; bensì il vero elogio va a quei
miglioramenti tecnici, ovviamente apportati dall’intervento italiano, che hanno saputo vincere sulla
natura, e che concorrono a rendere molto più agevole l’esplorazione di quanto essa non fosse in
passato:
Eppure, in mezzo a quel suolo nero che richiamava stranamente allo spirito l’impressione di un
inverosimile incendio della terra, sotto il cielo inesorabilmente azzurro, sotto il sole
implacabile, un largo, interminabile nastro giallo si stendeva in spire irregolari a perdita di
vista: serpeggiava in fondo ai colli, valicava le alture, si perdeva nelle spaccature, riappariva
più lontano, sempre uguale, sempre fiancheggiato da due muriccioli di pietre nere. In Europa,
sarebbe sembrata una cosa arida e intollerabilmente monotona: là, era un segno di vita e di
energia umana in mezzo alla natura ostile. Era la strada camionabile.40
Se dunque i pionieri possono essere retrospettivamente considerati eroi per non essersi tirati indietro
di fronte alle evidenti e talora insormontabili difficoltà, in alcuni casi perfino costretti a soccombere
ad esse, pur senza mai arrendersi fino al sacrificio della propria stessa vita, non per questo il passo
in avanti compiuto dai contemporanei deve essere sottovalutato. Esso è anzi il giusto e meritato
coronamento delle aspirazioni di una nuova generazione di italiani patriottici e determinati, che ha
sfruttato la tecnologia per imporre se stessa su un territorio che ne era sprovvisto: è evidente che in
quest’ottica non può esserci più spazio per nostalgici vagheggiamenti di un passato privo degli
assilli della modernità, né tantomeno la benché minima considerazione del prezzo che altri hanno
dovuto pagare per interventi esterni nient’affatto richiesti.
L’Africa che traspare dal resoconto di Zoli è volutamente priva di identità e, come d’altronde è
evidente già in apertura del testo, fissata in un’immobilità che gioca a favore di una
disumanizzazione e spettacolarizzazione di chiara matrice propagandistica. L’“orientalismo”,
magistralmente individuato e descritto da Said come stile di pensiero creato e adottato dalla
soggettività europea sulla base di una postulata assoluta distinzione tra Oriente e Occidente, «views
39
40
Ivi, p. 14.
Ivi, p. 31.
193
the Orient as something whose existence is not only displayed but has remained fixed in time and
place for the West […] The West is the actor, the Orient a passive reactor. The West is the
spectator, the judge and jury, of every facet of Oriental behavior».41
Nel testo di Zoli, non a caso, compaiono due metafore esemplificative di un tale procedimento,
le quali portano a compimento gli indizi, già peraltro ben disseminati lungo il percorso, funzionali
alla studiata presentazione che della realtà africana si vuole dare. Nel primo caso, assistiamo a una
sua voluta testualizzazione:
Di quel grande libro, che per qualche tempo ancora rimarrà chiuso alle investigazioni degli
studiosi, ho avuto la fortuna di sfogliare alcune pagine e forse non delle meno interessanti, e
certo in circostanze particolarmente favorevoli di esame: perciò non mi credo autorizzato a
sottrarre alla conoscenza del pubblico europeo le mie impressioni e le mie osservazioni, per
poco profonde e concludenti che siano. Ho la convinzione che esse saranno ancora utili
quando, in un lontano avvenire, noi ritorneremo in quelle lontane regioni. Perché il Sahara è un
mondo chiuso, nel quale cose ed avvenimenti evolvono con lentezza, direi quasi, geologica:
cento volte ho avuto occasione di stupire io stesso dinanzi alla vitalità, alla freschezza, alla
immobilità di aspetti che, a trenta, a cinquanta e più anni di distanza, avevano attirato
l’attenzione dei viaggiatori. E, nel quadro immutabile di quel paese dal sole perenne, sembra
che pur la vita e i ricordi degli uomini sien rimasti cristallizzati in un piano unico, nel quale le
distanze scompaiono e le immagini si sovrappongono.42
Bisogna tenere presente, per comprendere le parole dell’autore, la sfasatura temporale tra
l’esperienza effettiva e la sua messa per iscritto e pubblicazione: come abbiamo visto, infatti,
proprio a partire dal 1914, anno di massima estensione del controllo italiano sul territorio libico, la
situazione torna a essere quanto mai instabile e precaria, e tale rimarrà fino ai drastici interventi del
regime fascista negli anni Venti. È chiaro, tuttavia, che grande fiducia è riposta nelle potenzialità
della nazione, che in un futuro sia pure non immediato tornerà senza alcun dubbio a riguadagnare le
posizioni momentaneamente perdute. Proprio in quest’ottica, allora, potranno tornare utili le
informazioni ora raccolte in volume, in una sorta di testualizzazione, appunto, di seconda mano, di
cui il lettore è chiamato a fruire: l’autore, infatti, ha potuto attingere in prima persona al Libro
dell’Africa, e a sua volta si è impegnato a ricrearlo come tale nel proprio libro. Ovviamente, questo
processo è reso possibile proprio nella misura in cui il territorio stesso si presta, in forza della sua
presunta immobilità, a essere ritratto e fruito di generazione in generazione senza che intervengano
significative variazioni: Zoli stesso vi ha ritrovato intatti elementi e aspetti a sua volta appresi dai
resoconti dei viaggiatori che lo hanno preceduto. E ancora una volta, esso si pone come
un’immagine piatta, a due dimensioni, un quadro appunto da guardare in quanto tale: in altre parole,
un mondo senza storia, senza evoluzione, dove persino l’esistenza umana non ha alcuna profondità.
41
42
Edward Said, Orientalism, cit., pp.108-9.
Corrado Zoli, Nel Fezzan. Note e impressioni di viaggio, cit., pp. 6-7.
194
Da qui, allora, è facile cogliere lo spunto per un’ulteriore metaforizzazione, questa volta suscitata
dalla visione ravvicinata di Múrzuch, allora capitale del Fezzan, una volta superata la prima positiva
impressione stimolata dalle possenti mura di cinta: «Perché, guardando da vicino quella città
sahariana, se ne riportava quella stessa disastrosa impressione che prova chi abbia visto uno
scenario dalla platea, se gli accada di andarlo a vedere dal palcoscenico». 43 L’attitudine da
spettatore, a stento dissimulata nel progressivo sviluppo della narrazione, è alla fine ammessa
esplicitamente soltanto in una formula ancor più svilente nei confronti dell’oggetto osservato, non
più nemmeno scenario affascinante in quanto visto di lontano, bensì solo finta e deludente quinta di
palcoscenico.
3. Notizie dal fronte orientale
3.1 La battaglia di Adua tra rimozione e mitizzazione
La natura profondamente accidentata e contraddittoria del percorso coloniale italiano, sia pure
nel dovuto riconoscimento di una sua sostanziale coerenza e dell’evidente continuità di
atteggiamenti nel succedersi delle diverse fasi, non dovrebbe più porsi, a questo punto della nostra
analisi, come materia di discussione. Infatti, come abbiamo già sottolineato in apertura del presente
capitolo, la stessa sconfitta di Adua, dal forte impatto anche emotivo e non priva di significative
ripercussioni sull’immaginario collettivo, finisce nella realtà per produrre conseguenze di certo
diverse da quelle più immediatamente prevedibili, inasprendo le posizioni più ardite e conducendo
da ultimo alla guerra di Libia. Gli indizi rivelatori di una particolare evoluzione della politica
coloniale, e le premesse per una elaborazione ad hoc di temi, motivi e vicende ad essa legati, sono
rintracciabili già a partire dal peculiare atteggiamento con cui coloro che alla stessa battaglia
avevano preso parte forniscono di essa una propria ricostruzione e soprattutto una propria
interpretazione. È opportuno, a questo proposito, precisare che, pur essendo piuttosto alto il numero
dei prigionieri italiani trattenuti per mesi ad Addis-Abeba (sia pure considerando i molti decessi
avvenuti nel corso dell’estenuante marcia che da Adua doveva condurli alla capitale etiopica), non
molte testimonianze scritte furono poi effettivamente redatte dai reduci a testimonianza di quanto
avevano vissuto. D’altronde, è verosimile pensare che essi non siano stati in alcun modo
incoraggiati a farlo da una mentalità e una pratica di governo miranti a rimuovere l’accaduto quanto
più in fretta possibile e a ridimensionarne l’impatto agli occhi dell’opinione pubblica.44
43
Ivi, p. 111.
Lo storico Del Boca parla di 1900 italiani fatti prigionieri subito dopo la battaglia. Egli stesso, poi, si serve di sei
testimonianze, giudicate esemplari tra le pochissime disponibili, al fine di illustrare l’umanità e il rispetto con cui i
prigionieri vennero in effetti trattati dagli abissini. Cfr. Angelo Del Boca, L’odissea dei prigionieri, in Id., Gli Italiani in
Africa Orientale, vol. I, cit., pp. 719-40.
44
195
Nel 1898, a due anni di distanza dalla tragica battaglia e a poco più di un anno dal tanto agognato
rientro in patria, vengono pubblicate le memorie di Nicola D’Amato, che aveva partecipato alle
imprese militari in qualità di sottotenente medico, e che con tanti altri aveva appunto condiviso la
triste sorte della prigionia.45 Anche a un primo superficiale accostamento al testo, stupisce e suscita
qualche perplessità l’organizzazione stessa che l’autore sceglie di dare ai propri ricordi. Essi non
sono, infatti, come sarebbe lecito aspettarsi, concentrati al massimo intorno alla triste esperienza
vissuta: al contrario, se si escludono i due capitoli rispettivamente dedicati alla rievocazione della
battaglia e della marcia forzata, per la parte restante il testo è facilmente confrontabile con quelli
che abbiamo visto finora, nella misura in cui il suo autore si preoccupa sostanzialmente di dare
conto della realtà locale con cui è venuto a contatto. Anzi, in questo senso D’Amato si colloca su
una posizione affine a quella che abbiamo riscontrato nei viaggiatori del nuovo secolo in Libia, in
quanto sembra riservare uno sguardo privilegiato, all’interno della propria narrazione, all’uomo più
che all’ambiente: non a caso i capitoli del testo si riferiscono, tranne minime eccezioni, a singole
figure (il re Menelik, la regina Taitù, la moglie nera di Cappucci, l’abissino prodigo di cure verso
gli italiani Ligg-Nado, lo svizzero Ilg, braccio destro del negus, ecc.) o a categorie (vincitori e vinti,
le donne scioane, i medici) che lasciano pochi dubbi sul punto di focalizzazione verso cui i vari
spunti narrativi finiscono per convergere.
Questo non vuol dire, come d’altronde abbiamo già imparato a riconoscere dagli esempi
analizzati in precedenza, che ci troviamo di fronte a un concreto e incisivo cambio di prospettiva, né
che l’interesse per l’elemento umano porti con sé una maggiore forma di considerazione per
l’indigeno in quanto essere umano, appunto. Al contrario, sia pure nell’innegabile diversità di
motivi e di intenti per i quali egli viene di volta in volta evocato o persino posto in primo piano, non
c’è niente che conduca nella direzione di una genuina volontà di approfondimento conoscitivo e
interpretativo: quelli di Menelik e della sua consorte, ad esempio, sono ritratti privi di qualsiasi
spessore, in cui leggende e notizie di seconda mano si uniscono a barlumi di impressioni personali
inevitabilmente viziate dall’eredità di pregiudizi di lunga durata.46
Anche il trattamento riservato non a singole figure ma a gruppi umani considerati nel loro
insieme è a ben vedere tutt’altro che ingenuo e disinteressato: come esempio per tutti valgano le
45
Oltre a quella di D’Amato, figurano tra le principali testimonianze dell’esperienza di Adua le Memorie d’Africa
del generale Oreste Baratieri e il volume di ricordi di Giovanni Gamerra (Ricordi di un prigioniero di guerra nello
Scioa. Marzo 1896-gennaio 1897, Firenze, Barbera, 1897), maggiore comandante l’VIII Battaglione Indigeni, entrambi
pubblicati nello stesso anno del rimpatrio. Il testo del caporale Luigi Goj, Adua e prigionia fra i Galla. 10 gennaio
1896-6 maggio 1897 uscirà a Milano nel 1901, mentre i ricordi del tenente Gherardo Pantano (Ventitré anni di vita
africana) verranno dati alle stampe a Firenze solo nel 1932.
46
Del primo, ad esempio, viene evidenziato il fatto che si entusiasma facilmente e che, come i bambini, è curioso di
tutto; sulla seconda si confermano i giudizi espressi da coloro che lo hanno preceduto, e che hanno descritto la regina
come una figura ammaliatrice, intrigante, tessitrice di inganni, astuta.
196
considerazioni sulla donna scioana, alla quale è dedicato peraltro un intero capitolo del testo.
Secondo lo stesso procedimento di riduzione dell’ignoto al noto che tante volte abbiamo visto agire
nei resoconti di viaggio, anche qui la descrizione si sviluppa attraverso un costante confronto con la
figura femminile italiana, la quale tuttavia, diversamente da quanto saremmo portati a pensare, non
si impone sulla prima con la forza lampante della propria superiorità. Evidentemente l’autore è
interessato a porre un distinguo non solo e non tanto tra donna indigena e donna europea, quanto
implicitamente tra uomo europeo e donna europea, al punto che le due figure femminili finiscono in
realtà per accostarsi nettamente. Se, allora, della donna scioana si dice che serve all’uomo come
bestia da soma e come oggetto di piacere, è per mostrare che «sono rare le donne che nutrono
quell’affetto materno e coniugale che fa dell’europea l’angelo della casa».47 In altre parole, non si
postula tra le due una differenza di ruoli: non solo, infatti, la donna italiana non aveva ancora
raggiunto alcuna indipendenza in patria né tantomeno la parità di diritti rispetto all’uomo, ma anzi
proprio le sue prime forme di rivendicazione in questo senso impensierivano l’élite maschile, che
tendeva pertanto a esorcizzarle in ogni modo possibile. Ecco allora che D’Amato ritrae una donna
italiana sottomessa all’uomo e relegata in casa né più né meno di quella scioana, eppure
diversamente da quest’ultima riconosciuta, in maniera del tutto ipocrita ed effimera, come garante
preziosa e indispensabile del focolare domestico. E tuttavia, quando dall’indicazione dei ruoli si
passa a quella che si propone come una lettura introspettiva dell’universo femminile, ecco che le
sfumature si assottigliano ed esso acquista improvvisa omogeneità:
A voler addentrarci in uno studio accurato sul carattere e sui nervi delle donne scioane, non
troveremmo gran che di disparità con le donne nostre. Togliete a quelle l’educazione finita e
multiforme di queste, e resterà sempre la materia grezza muliebre: la sensibilità eccitata,
gl’isterismi ed i bollori del sangue non frenati più dalle convenienze sociali, e tutte le
debolezze e tutte le simpatie più peregrine.48
Sembra qui di poter individuare quella stessa tendenza alla facile psicologizzazione già riscontrata
in Alongi, e che abbiamo visto essere d’altronde notevolmente influenzata dal pensiero scientifico e
pseudo-scientifico dell’epoca. Non a caso, un punto su cui insiste Lucia Re nel saggio che abbiamo
citato è proprio quello della razzializzazione della donna all’interno della società italiana di questi
stessi anni, misurabile appunto nella tendenza evidente ad associarne comportamenti e
atteggiamenti a quelli riscontrabili tra le razze primitive e meno evolute49: «This inferiorization of
women in Italy was a way for men to define their own Italian identity by opposition and to give a
47
Nicola D’Amato, Da Adua ad Addis Abeba. Ricordi d’un prigioniero, Salerno, A. Volpe & C., 1898, p. 77.
Ibid.
49
Figura di riferimento nell’elaborazione e nella diffusione di simili teorie è ancora quella del criminologo Cesare
Lombroso, che nel 1893 aveva pubblicato, insieme a Guglielmo Ferrero, La donna delinquente la prostituta e la donna
normale.
48
197
gendered as well as racially and socially higher meaning to male citizenship».50 In questo senso,
dunque, la civilizzazione è indicata come unico mezzo possibile per arginare tendenze negative
(alla vulnerabilità, all’eccitamento dei sensi, alla promiscuità) di per sé condivise dalla donna
bianca e da quella nera caratteristiche riconducibili non alla razza, ma piuttosto al genere.
Inoltre, lo scarto rispetto a quella forma sia pure non ingenua di curiosità “etnografica”
manifestata dai viaggiatori di cui ci siamo occupati nel precedente capitolo si rivela con forza
laddove persino quella “tradizionale”, ricorrente e generalmente condivisa opposizione tra civiltà e
barbarie tende man mano ad assumere un carattere sempre meno vago e più spiccatamente razziale.
Paradossalmente, infatti, persino nel momento critico rappresentato dalla pesante sconfitta militare,
le convinzioni sulla superiorità etnica non tanto europea in generale quanto specificamente italiana
non vengono affatto accantonate. Dobbiamo senz’altro tenere in considerazione il fatto che i ricordi
sono frutto di una rielaborazione “a mente fredda” di quanto avvenuto, e che vengono destinati alla
pubblicazione nel momento in cui Ferdinando Martini ha già assunto la guida della colonia Eritrea,
la cui liquidazione, dunque, si profila come ipotesi sempre meno realizzabile e auspicabile. Solo in
quest’ottica, allora, si riesce ad inquadrare l’atteggiamento altrimenti insolito di D’Amato, che non
si ferma a questionare nemmeno per un attimo il “naturale” diritto dei bianchi alla sopraffazione
della razza nera inferiore. Al contrario, con un voluto capovolgimento di prospettiva, egli non esita
a proporre (fin nel capitolo di esordio intitolato appunto Vincitori e vinti) un’inversione delle parti
in base alla quale gli italiani, sia pure formalmente sconfitti nello scontro militare, possono
comunque celebrare il proprio trionfo in quanto rappresentanti di una civiltà superiore che di certo
non può essere scalfita da un contingente, per quanto triste e vergognoso, incidente di percorso:
I visi pallidi, come gli abissini chiamano noi bianchi, mantengono sui neri una superiorità, che
appare luminosa anche quando gli uni sono alla mercè degli altri. Ne è a credere che ciò
avvenga per quell’istintiva avversione che i popoli inferiori hanno pei civili: sovente si
appalesa che il colore della razza poco influisca sulle enormi differenze, ed è la coscienza della
propria barbarie che rende i neri transigenti e remissivi […] L’italiano inerme, al cospetto
dell’abissino inerme, offre la più luminosa dimostrazione della razza che trionfa. Ed è così:
allo sguardo fiso e penetrante del primo l’altro non sa resistere; di qui il timore ed il rispetto.
La pupilla del bianco domina il nero con la magia del bracco che punta la selvaggina, o meglio
del domatore che frena la tigre nel serraglio.51
È significativo che l’autore compia qui un passo ulteriore rispetto alle considerazioni, peraltro già
affatto lusinghiere nei confronti degli indigeni, che abbiamo spesso riscontrato finora, portando il
50
Lucia Re, Italians and the invention of race, cit., p. 7.
Nicola D’Amato, Da Adua ad Addis Abeba, cit., pp. 1-2. Degno di nota, tra l’altro, anche il fatto che l’autore
voglia del tutto misconoscere la validità persino dell’impresa militare compiuta dagli etiopi, il cui successo viene infatti
attribuito solo all’aver saputo approfittare della confusione in cui versava la ritirata nemica: sarebbe stata dunque solo la
scaltrezza indigena, la quale implicitamente si connota di una sfumatura negativa atta a far risaltare per contrasto il
presunto comportamento eroico delle truppe nazionali, ad aver condannato gli italiani alla sconfitta.
51
198
proprio ragionamento a conclusioni non solo originali, ma anche prive di qualsiasi supporto reale,
eppure sapientemente illustrate come corollario della situazione creatasi proprio nello scontro di
Adua. Nella visione di D’Amato, infatti, l’indiscutibile soggezione dei neri ai bianchi non si riduce
né scompare, come si potrebbe pensare, nel momento in cui i primi si trovano in una posizione di
forza rispetto ai secondi, bensì si rivela con un impatto persino maggiore: in simili condizioni,
infatti, sono gli indigeni stessi che, consapevoli della propria inferiorità, provando quasi imbarazzo
nello squilibrio di forze venutosi a creare in proprio favore, non possono far altro che dimostrare
almeno con lo sguardo deferenza e rispetto. Non curandosi affatto di cadere nell’evidente
contraddizione derivante dall’attribuire simili capacità e finezza di auto-analisi a quegli stessi
indigeni ritratti come barbari inferiori, l’autore mira soprattutto a dimostrare come neppure qualora,
come in questo caso, i due contendenti siano posti, per colpa o per destino, l’uno di fronte all’altro
in pari condizioni (diversamente dall’usuale posizione privilegiata dell’europeo che viaggia in
Africa, armato non solo di fucili e pistole ma anche dell’arroganza dei propri giudizi e pregiudizi),
essi condividono davvero un terreno comune, sempre e comunque separati da un abisso morale e
intellettuale.
Infine, nel resoconto di D’Amato si impone all’attenzione, com’è naturale, la rievocazione della
battaglia, alla quale è dedicato a sua volta un intero capitolo, curiosamente collocato tuttavia poco
prima della fine del testo (che si chiude con il rientro in patria dopo la prigionia). È quasi come se
l’autore intendesse illuminare retrospettivamente, alla luce del terribile avvenimento, anche le
descrizioni di uomini e cose che ne precedono il racconto: tutto, infatti, converge verso questo
punto di focalizzazione centrale, dopo il quale poco resta da poter e da dover aggiungere. Se, ad
ogni modo, i ricordi sono senza dubbio dolorosi, soprattutto nella tragica realtà di morti e feriti che
l’autore, in quanto medico, si trova più di altri a dover affrontare, il tono che li anima e ne sorregge
la messa a fuoco tende chiaramente più all’epico che al tragico. La scena si apre all’insegna della
preterizione («Quel che successe in quella notte nel campo di Adua è cosa da non potersi
descrivere. In ogni tukul erano scene di orrore ch’è impossibile pensare»)52 mediante la quale
D’Amato, mentre tocca le corde emotive del lettore al fine di stimolarne la compartecipazione,
contribuisce al tempo stesso a caricare le aspettative intorno al proprio racconto. Non a caso, allora,
l’innegabile orrore della realtà osservata e descritta finisce per convergere sull’immagine sublime e
grandiosa della conca di Adua immersa nella “quiete dopo la tempesta”, dove la storia diventa
spettacolo, e la tragedia sconfina appunto nell’epica:
Mi resta innanzi alla mente il quadro bellissimo della conca d’Adua illuminata di sera: una
bellezza che contrastava fra tante brutture. Erano migliaia di lumi sparsi per pianure estese,
52
Ivi, p. 178.
199
interminabili e su per le innumerevoli pendici, da produrre un effetto unico al mondo e
fantastico. Napoli illuminata nelle sere di estate, guardata da’ punti più culminanti, a volo di
uccello, dà in confronto del campo di Adua un’idea pallida e lontana.53
Tutte le “brutture”, a questo punto, quasi perdono rilevanza e consistenza a fronte della visione
mozzafiato di quella distesa illuminata: pur essendo appena stata teatro di sconfitta e di morte, essa
è ora capace piuttosto di evocare alla mente l’immagine familiare della notte partenopea, seppure
quest’ultima non sia in grado di renderne appieno l’effettiva bellezza. Ma, ai miei occhi di lettrice
forse appena più scaltrita, un’altra associazione immediata si impone nella sua sottile evidenza,
ossia quella con la città di Troia distrutta dai Greci, sul cui suolo ugualmente giacciono i corpi di
numerosi combattenti, e le cui rovine sono illuminate dalle fiamme che lentamente la divorano. E se
la fuga da Troia è stata di buon auspicio per Enea, destinato a prolungare la propria stirpe e a
fondare un nuovo impero, allo stesso modo la sconfitta italiana deve rimanere solo una breve
battuta d’arresto in vista di una più completa gloria futura. In questo senso, dunque, Adua, come già
Troia, è pronta per divenire un mito, trasformandosi cioè da ignominiosa tragedia a indispensabile e
formativa prova di valore e resistenza sulla via della costruzione dell’impero.
3.2 Renato Paoli e Carlo Citerni: quando passato e presente convivono
Se, in effetti, come si evince dalla ricostruzione storico-politica con cui abbiamo dato avvio al
presente capitolo, nei primi due decenni del nuovo secolo le spinte espansionistiche italiane si
concentrano e confluiscono sul fronte libico, ciò non vuol dire che l’area della prima colonizzazione
esca del tutto dall’orbita d’interesse nazionale. Al contrario, il notevole impegno profuso dal
governatore Martini per rendere più stabile il dominio della colonia primigenia, unito all’inevitabile
riaccendersi, dopo l’episodio di Adua (che dal canto suo richiamava in causa i mai del tutto rimossi
fantasmi di Dogali), di sia pur velati propositi di vendetta nei confronti del nemico etiopico o
quantomeno dell’innegabile intenzione di risollevare il proprio orgoglio oltraggiato, garantiscono il
perdurare di un movimento dall’intento esplorativo o più genericamente documentario di cui,
ancora una volta, rimangono testimonianze per noi preziose. Attraverso la lettura e l’analisi di
quest’ultime, infatti, siamo in grado di misurare gli scarti registrabili nei confronti di quella stagione
ottocentesca che abbiamo definito propria dei “pionieri” in Africa, e anche di renderci conto di
quanto, e fino a che punto, modalità in parte nuove di percezione e di interpretazione della realtà
africana con cui di volta in volta si entra in contatto siano ricollegabili alla natura del territorio
stesso (la Libia, appunto, rispetto all’Africa Orientale) e/o a rinnovate modulazioni della questione
coloniale emergenti all’interno della penisola.
53
Ivi, p. 181.
200
Nel 1906, in particolare, il giornalista Renato Paoli parte alla volta dell’Eritrea dove rimane
alcuni mesi, spostandosi dalla costa all’altipiano interno, nell’intenzione di avere della colonia una
veduta d’insieme atta a sorreggere la relazione che del proprio viaggio appronterà una volta
rientrato in patria. E già le aspettative di cui si carica l’immaginazione dell’autore, ancor prima di
mettere piede in terra africana, sono determinate non più e non tanto da quel desiderio di evasione e
ansia dell’ignoto che spesso animava i viaggiatori ottocenteschi, quanto piuttosto da una del pari
urgente volontà di confrontarsi in prima persona con una realtà di cui tanto si è sentito parlare e che
ha già dunque alimentato per vie indirette la propria immaginazione. Di una simile predisposizione
Paoli d’altronde non fa affatto mistero:
quando l’ottimo comandante Merlo ci annunziò prossimo l’arrivo a Massaua, io mi misi in
grande agitazione. Aver sentito parlare dell’Eritrea fin da piccolo, aver palpitato sui banchi
della scuola per la sorte della nostra colonia, aver assistito da lontano al tramonto d’uno degli
astri fatidici della patria, aver ascoltate tante maledizioni, tante ingiurie contro gli ideatori
d’una Affrica Italiana, ed esser prossimo a sbarcare su quella terra, nella quale si erano svolti
tanto tragici e non ancora dimenticati avvenimenti, tutto ciò rendeva acuta la mia curiosità,
tormentosa la mia impazienza.54
Si tratta, com’è ovvio, di una nuova generazione di italiani, cresciuta a contatto, se non direttamente
con le regioni africane, di certo con le notizie che su di esse circolavano in patria con sempre
maggiore insistenza, parallelamente al progressivo evolversi della lenta, timida e incerta impresa
coloniale. Non stupisce, pertanto, che la curiosità non venga in questo frangente ancorata ad alcun
elemento africano in quanto tale (che sia esso il paesaggio, la popolazione, la storia…) bensì
specificamente e unicamente a quanto di essi è stato trasmesso in Italia, e soprattutto ai sentimenti,
contrastanti e spesso violenti, che le vicende seguite da lontano hanno negli anni suscitato. In
effetti, nella ricostruzione di Paoli si impongono senza dubbio notazioni di stampo negativo:
l’attenzione insiste sugli episodi luttuosi che hanno costellato il movimento d’espansione fin dai
suoi esordi, così come sulle rimostranze e proteste interne che ne hanno accompagnato lo sviluppo.
Eppure tutto questo, lungi dall’aver portato con sé quell’inversione di rotta, da taluni pure auspicata,
che avrebbe dovuto concretizzarsi con l’abbandono dell’Eritrea, continua al contrario ad alimentare
un interesse forse meno prettamente etnografico-esplorativo, ma piuttosto, e significativamente,
giornalistico e propagandistico, in linea con la tendenza ad allargare lo spettro di partecipazione e di
consenso da un numero inizialmente ristretto di “esperti” (o sedicenti tali) di cose coloniali a un
quadro di massa.
Tuttavia, come abbiamo più volte sottolineato, qualsiasi riflessione critica sui testi di cui ci
stiamo occupando non deve tenere in considerazione solo la specificità della regione africana cui di
volta in volta essi si riferiscono, né al tempo stesso basarsi soltanto su generiche implicazioni di
54
Renato Paoli, Nella colonia Eritrea. Studi e viaggi, Milano, Treves, 1908, p. 11.
201
natura cronologico-diacronica: un fattore di variabilità non secondario, infatti, è rappresentato
inevitabilmente dalla natura stessa del viaggiatore, o di colui cui più propriamente noi facciamo
riferimento in quanto scrittore-relatore della propria esperienza. Ora, abbiamo notato che,
soprattutto in relazione alla campagna messa in atto ai fini della conquista della Libia, emerge e
prende rapidamente piede una nuova categoria di “esploratori” in Africa, rappresentata appunto dai
giornalisti, i quali, esenti da specifici compiti tecnici e dunque per lo più alieni da una vera e propria
“missione”, sono ugualmente incoraggiati a unirsi ad essa o a svolgere viaggi per proprio conto in
forza del riscontro sull’opinione pubblica che i loro reportages saranno poi in grado di ottenere.
Renato Paoli rientra a pieno titolo in questa categoria, e non a caso già nelle premesse del suo
resoconto è facile cogliere un movimento duplice che, se dalla patria porta all’Africa,
immediatamente alla prima ritorna: in altre parole, in linea con il corretto adempimento del proprio
ruolo di produttore di informazione per un pubblico quanto più ampio possibile, il giornalista si fa
portavoce di istanze e sentimenti da esso condivisi, dando voce e cercando risposte a interrogativi
comuni in patria.
Parzialmente diversa, allora, si presenta nel rinnovato contesto la già nota figura del vero e
proprio esploratore, di cui fornisce un esempio contemporaneo a quello di Paoli il toscano Carlo
Citerni. Il suo nome non è per noi del tutto nuovo, in realtà, dal momento che egli aveva già preso
parte come sottotenente di fanteria, sul finire dell’Ottocento, alla seconda spedizione compiuta in
Somalia da Vittorio Bottego, nella quale quest’ultimo aveva trovato la morte e Citerni stesso aveva
conosciuto, insieme a Vannutelli, la dura realtà della prigionia. È evidente, dunque, che ben altro
significato riveste per lui l’Africa quando, nel 1910, assume l’incarico affidatogli dal Ministero
degli Affari Esteri di recarsi nella zona meridionale dell’Etiopia al fine di regolare la situazione dei
confini tra il suddetto Impero e la Somalia italiana. Si tratta, prima di tutto, di un compito politicoistituzionale, in virtù del quale già di per sé l’incaricato non si trova nella posizione (propria del
giornalista) di dover spiegare e in qualche modo motivare agli occhi dei lettori italiani la scelta
compiuta. Inoltre, sia pure investito, proprio in forza della sua maturata esperienza in ambito
coloniale, di una responsabilità che va oltre quei più comuni compiti di rilevazione e di studio del
territorio che abbiamo visto spesso affidati ai viaggiatori ottocenteschi, Citerni si pone comunque
sulla scia di questi ultimi per una modalità di accostamento all’Africa che reca ancora con sé
elementi ereditati dal secolo precedente. Potrebbe infatti a prima vista sorprendere l’atteggiamento
emotivo e spirituale che egli stesso rivela alla vigilia della nuova partenza:
Debbo confessare di aver provato una vera commozione nel ritrovarmi su quel suolo africano
che mi ha sempre attratto con un irresistibile fascino. Io credo che poche ebrezze siano
comparabili a quella di colui che si mette in cammino per inoltrarsi verso paesi ignoti; che
volge le spalle ai luoghi dove tutto è costruito in modo da facilitare la sua vita, e s’avanza
202
verso quelli dove tutto sarà alla sua vita nemico; di colui che vedrà nudo il volto selvaggio e
meraviglioso della Natura, senza la maschera artificiosa che l’uomo gli ha applicato nei paesi
civili. Egli dovrà sentirsi pronto a tutto; ad ogni passo troverà un ostacolo; ogni passo sarà una
lotta; ogni passo compiuto una vittoria. Dovrà invigilare continuamente: gli uomini lo
insidieranno in mille modi, la terra gli opporrà ad ogni istante minacciose barriere. Ma, in
mezzo a tutte queste asprezze, egli proverà la soddisfazione immensa di affrontarle
continuamente con l’ardire e l’ostinatezza e sentirà il proprio corpo e il proprio spirito
temprarsi sempre più nella lotta e nella solitudine; ed avrà la grande gioia della rivelazione
dell’ignoto; la gioia di tuffare lo sguardo nell’intrico smeraldino impenetrabile di foreste
meravigliose, dove ancora l’ascia ugualizzatrice della civiltà non ha intaccato nessun tronco; di
udire melodie di uccelli, canzoni di cascate, stormir di piante che ancora l’orecchio dei suoi
simili non ha udito; di saziar la gran sete che arde in ogni cuore umano: la sete degli orizzonti
novi.55
Il passo è piuttosto lungo, ma merita di essere letto nella sua interezza per l’esemplarità in esso
racchiusa. Se, infatti, nulla sapessimo della data di pubblicazione del testo (1913) né del suo autore,
saremmo facilmente portati a pensare di trovarci ancora di fronte a un resoconto dei primi
esploratori italiani dell’Ottocento, soprattutto ora che abbiamo acquisito con essi una certa
familiarità. Nessun indizio rivela che, come sappiamo, Citerni ha già in precedenza calcato il suolo
africano; al contrario, tutta l’enfasi possibile è da lui posta nel sottolineare l’unicità e la
straordinarietà dell’esperienza in quanto tale, descritta nella sua assolutezza e mediante il ricorso ad
argomenti che suonano alle nostre orecchie fin troppo scontati: l’ostilità e l’ebrezza dell’ignoto, la
purezza della natura ancora intatta e soprattutto l’orgoglio per ogni nuovo ostacolo superato. In altre
parole, è come se l’autore volesse in un certo senso mostrarsi più ingenuo di quello che non sia in
effetti, e rendere omaggio, anche attraverso la propria testimonianza, a quella tradizione di “eroi”
che ha aperto la strada alla vera e propria conquista. Al tempo stesso, nell’approntare in apertura del
proprio volume uno scenario così ricco di stereotipi e di immagini precostituite, Citerni colloca se
stesso e la propria avventura nella medesima prospettiva, quasi che rivendicare l’appartenenza a una
generazione ormai passata possa bastare da sé a fare anche di lui un acclamato eroe.
Eppure, come in parte abbiamo già constatato e come d’altronde anche i due testi di Paoli e
Citerni contribuiranno a breve a confermare, anche laddove lo scenario è rimasto sostanzialmente
immutato (e non intervengono dunque, come accadeva per la Libia, motivazioni ideologiche
accessorie create ad hoc), si sono modificati atteggiamenti, intenzioni, aspettative, al punto che ne
deriva una prospettiva nel complesso nuova, dove sempre maggiore rilievo assumono motivi e
modalità di rappresentazione assenti, o forse solo in nuce, nei resoconti ottocenteschi.
55
Carlo Citerni, Ai confini meridionali dell’Etiopia. Note di un viaggio attraverso l’Etiopia e i paesi galla e somali,
Milano, Hoepli, 1913, pp. 12-3.
203
3.3 Il paesaggio: godimento per gli occhi
Nel capitolo precedente abbiamo dedicato un paragrafo specifico all’analisi delle caratteristiche
che il paesaggio africano assume nelle scritture di viaggio prodotte sul finire del XIX secolo,
riscontrando una generale tendenza all’idealizzazione stereotipica di esso, unita all’esaltazione di
quegli aspetti vagamente e genericamente esotici atti a testimoniare un’assenza di contaminazione
impossibile da riscontrare in ambito europeo. Sarebbe ingenuo aspettarsi, con il volgere del nuovo
secolo e alla luce delle modifiche di percezione e di atteggiamenti che esso in effetti porta con sé, il
rapido e definitivo superamento di una simile prassi e l’adozione immediata di un differente modo
di relazionarsi di fronte a uno spettacolo naturale sostanzialmente immutato. Permangono, dunque,
analoghe tracce di insofferenza per i guasti della civilizzazione, suscitate appunto dalla
constatazione della loro assenza in terra africana. Paoli, ad esempio, definisce la natura africana
come «artefice sovrana, decoratrice unica, poiché il godimento degli occhi per fortuna non è
guastato ancora da cartelloni europei di pubblicità, celebranti virtù magiche di pillole, di cosmetici e
di acque purgative», il che permette ancora di godere appieno delle «grotte muscose ed umide» o
dei «ripiani verdeggianti e soleggiati», e di ammirare «farfalle stupende, dai vividi colori».56 E altre
volte l’autore ritorna sul contrasto tra uomo e natura, in cui alla seconda spetta immancabilmente la
palma della vittoria:
Le stupende piante azzurrine [dei tamarischi], disposte in file così regolari che la mano
dell’uomo meglio non potrebbe in un parco, componevano sul sentiero, dritto come un viale,
una grandiosa navata, nella quale la luce del giorno acquistava riflessi d’opale. La penna non
arriva a descrivere l’indimenticabile paesaggio, la misteriosa boscaglia, che sembrava ed era
prodigio della natura.57
Non solo, dunque, la natura africana è potuta rimanere al riparo dai deturpanti interventi apportati
dall’uomo moderno, ma dimostra di saper creare, in assoluta libertà da ogni costrizione o vincolo
esterni, scenari di tale perfezione che nessuna costruzione artificiale sarebbe in grado di eguagliare.
Eppure non possiamo esimerci dal notare, sulla scorta dei numerosi passi testuali che abbiamo
già letto e analizzato nel capitolo precedente, una certa ripetitività di forme e contenuti, resa ancora
più evidente dall’applicazione del topos retorico in base al quale le parole non sarebbero sufficienti
per descrivere in maniera adeguata lo spettacolo osservato, a tal punto esso supera anche la più
fervida e generosa immaginazione. E, non a caso, è su queste stesse note di estatico rapimento
contemplativo, reso ancora più pungente dal confronto ormai inevitabile con la ben diversa e
frenetica realtà della città europea cui si è infine costretti a riapprodare, che si modula la chiusa del
56
57
Renato Paoli, Nella colonia Eritrea, cit., pp. 40-1.
Ivi, p. 247.
204
testo, ovvero una di quelle parti in cui già di per sé il tono tende a elevarsi, e si fa in genere più
marcata la presenza di formule e immagini fisse:
A Livorno […] col pensiero tornavo a quella nostra Affrica solitaria e selvaggia dagli ampi
orizzonti e dagli alti silenzi. Chi di noi non nasconde nel segreto dell’anima l’aspirazione
francescana di goder gli spettacoli e i prodigi della natura lungi dal turbinoso e frenetico viver
civile? Chiudendo gli occhi mi passarono dinanzi i verdi pianori dell’altipiano, gli orti
lussureggianti di Cheren, i palmizi di Agordat… So che nella valle del Nilo c’è un proverbio:
chi ha bevuto l’acqua del fiume, la beve una seconda volta. Io ho bevuto l’acqua del Mareb,
che fa lo stesso. Che il proverbio a mio riguardo si avveri. Non ho altro desiderio più vivo.58
Nell’atto di congedarsi da quella terra che ancora rappresenta l’unico reale avamposto italiano in
Africa e su cui pertanto si va sempre più consolidando l’effettivo dominio coloniale, Paoli non può
comunque fare a meno di rendere omaggio a una tradizione che “prescrive”, al rientro in patria,
l’insorgere di un certo “mal d’Africa”, ovvero di una forma quasi patologica di nostalgia derivante
proprio dall’improvvisa perdita del contatto diretto con una natura primitiva e maestosa destinata a
essere invocata invano nell’Europa moderna e civilizzata.
Fin qui, dunque, sia pure attraverso una sensibile dose di stucchevole uniformità e monotonia
espressiva e contenutistica, Paoli dimostra comunque di non volersi allontanare troppo da una
tradizione che si esprime anche nella consuetudine specificamente letteraria di ritrarre e lodare il
paesaggio africano proprio per tutto ciò che lo caratterizza e differenzia da quello cui l’uomo
europeo è suo malgrado assuefatto. Tuttavia, egli non può fare a meno, al tempo stesso, di
disseminare lungo il suo percorso indizi rivelatori di un atteggiamento che, nella sostanza, si fa
quanto meno contraddittorio, soprattutto laddove l’ammirazione estetica si lega indissolubilmente
alla percezione di qualcosa che, proprio in forza della sua evidente estraneità, finisce per suonare
stonato alle sue orecchie:
Così tra pranzi ed escursioni passai a Cheren tre giorni piacevolissimi. Ancora rivedo la
mirabile conca verde, il colle del forte, le alte zeribe di fichi; ancora provo l’impressione del
clima caldo e sfibrante, che m’induceva a sonnolenze meridiane, non già accompagnate,
ahimè, dallo stridore delle cicale, ma dal crocidare di centinaia e centinaia di corvi, grossi
grossi, neri neri, che svolazzavano senza posa intorno al colle, sopra le case, in cerca di
qualche avanzo da dilaniare, instancabili e fastidiosi fino a sera. Allora i corvi scomparivano:
cominciava il coro delle iene, quello schifoso ululato che è, per così dire, il motivo dominante
delle notti eritree.59
Qui, infatti, il locus amoenus descritto in apertura, che di per sé non ha tra l’altro nulla di
specificamente africano, viene sensibilmente turbato da qualcosa che l’uomo europeo non riconosce
come familiare e che, al contrario, giudica fastidioso e inadeguato al punto da incrinare
irrimediabilmente l’armonia del quadro. Quello che, tuttavia, non sfiora neppure per un attimo la
58
59
Ivi, pp. 305-6
Ivi, p. 228.
205
mente dell’autore è il fatto che l’alterità di suoni e di animali che egli stesso riscontra, reputandola
stridente, sia parte integrante e affatto anomala del paesaggio locale per come esso è realmente, e
non per come l’italiano lo immagina o vuole che sia. L’esaltazione della purezza originaria,
dell’assenza di contaminazione, cede allora il posto al biasimo e all’inquietudine generati al
contrario dalla percezione di caratteristiche primitive e selvagge, proprie di una natura
irrimediabilmente altera.
Una simile irriducibile alterità, dunque, richiede uno sforzo maggiore per poter essere assimilata
ai propri canoni e assoggettata alle proprie aspettative. In particolare, è la posizione del soggetto,
estraneo al paesaggio e tuttavia sempre più intenzionato a imporre la propria presenza su di esso,
che tende a modificarsi: egli non vuole più, in un certo qual modo, fondersi con la natura,
immergersi completamente in essa in un’estasi contemplativa, bensì dominarla da una posizione di
forza privilegiata, che si manifesta in genere con la visione dall’alto, atta a garantire un senso di
sicurezza e al tempo stesso di onnipotenza. Nel momento in cui Paoli afferma, soddisfatto: «Di
lassù, abbracciavo d’uno sguardo la magnifica conca»60 non fa altro che assumere quella posizione
tipica del colonizzatore nei confronti del colonizzato che Mary Pratt ha descritto con la formula
“Master of all, I survey”61 (già da noi menzionata a proposito del protagonista di Tempo di uccidere
di Flaiano) e che è in grado di porlo, appunto, in una condizione di innegabile superiorità. In questa
stessa prospettiva, allora, non fa meraviglia che persino il baobab, altrove osservato con referenza
in forza della sua maestosa grandezza, ora invece, sulla strada peraltro già spianata da Martini, «col
tronco colossale, la corteccia simile alla pelle d’un pachiderma, piccolo e sproporzionato il ciuffo
dei rami e delle foglie»62, appaia più come un esperimento di botanica mal riuscito che un genuino
prodigio della natura incontaminata.
D’altronde, è in questo stesso contesto che possiamo rilevare il passaggio, cui accennavamo nel
precedente capitolo, da un incontro con la natura modulato secondo la concezione estetica del
“sublime”, di cui i resoconti ottocenteschi recano spesso esempi significativi, a un’attitudine
definibile propriamente, sulla scia di Sara Mills63, come “pittoresca”, in quanto tende a valutare il
paesaggio esclusivamente per le sue capacità di produrre sensazioni nello spettatore che lo osserva.
Si tratta, in questo caso, di una percezione inequivocabilmente orientata secondo il punto di vista
del fruitore occidentale, al punto che il paesaggio africano, anche laddove resta per necessità il
referente diretto del discorso, finisce comunque per perdere del tutto la propria specificità. Citerni,
ad esempio, dimostra nel suo resoconto una spiccata propensione alla descrizione degli scenari
naturali che di volta in volta si trova di fronte; anche per lui, come per lo stesso capitano Bottego al
60
Ivi, p. 217.
Cfr. Mary Louise Pratt, Imperial eyes, cit.
62
Ivi, p. 219.
63
Cfr. Sara Mills, Gender and colonial space, cit.
61
206
seguito del quale aveva per la prima volta messo piede in Africa, il fiume è l’elemento vitale che
funge da catalizzatore dell’attenzione. Così reagisce allora alla vista del Ganale, nella regione
meridionale dell’Etiopia:
Intanto il paesaggio era divenuto pittoresco e si era rivestito di tutti gl’incanti che possiede la
terra africana nei luoghi dove l’aridità non l’ha resa desolata e nuda. Il fiume scorreva ora
argenteo, ora azzurrino, come una lama d’acciaio, ora scurito da cupe trasparenze verdi. Dalle
sponde, eleganti boschetti di palme e di ombrellifere scagliavano in alto sui colli sottili le loro
capigliature folte, emergendo dalle frange compatte delle piante più basse che armonizzavano
in gamme delicate di infinite sfumature verdi; e talvolta si curvavano dalle sponde verso
l’acqua, come straripassero per troppa esuberanza, o come volessero guardare, attraverso alla
trasparenza della corrente, le pietre rotonde dell’alveo. Ma tutta questa lussureggiante
vegetazione non copriva che le sponde, formando come due strisce di velluto smeraldino che
orlavano il letto del fiume da ambo i lati. Al di là si stendeva, sulla pianura e sulle colline, uno
sconfinato bosco arido, spinoso, spoglio di verde come se la vampa cocente del sole
equatoriale lo avesse arso distruggendone la linfa vitale. Ma, per la gioia dei nostri occhi, era
sufficiente il meraviglioso spettacolo offerto dal fiume.64
Si noti come sia lo stesso autore ad applicare l’aggettivo “pittoresco” allo spettacolo che ha la
fortuna di ammirare: d’altronde, il brano appena riportato permette nella sua interezza di cogliere
appieno la natura marcatamente pittorica del quadro che Citerni sta costruendo per sé e offrendo al
lettore. Prima di tutto, è facile constatare che niente, al di là dell’esplicita nomina contenuta nella
proposizione di apertura, sta poi in effetti a indicarci la reale collocazione della scena che ci viene
proposta. Al contrario, tutta la parte centrale del passo, ovvero quella propriamente dedicata alla
descrizione del fiume, manca di qualsivoglia accenno che riconduca all’ambientazione africana;
eppure non si può di certo sostenere che sia parca di dettagli. L’autore, non a caso, si sofferma in
particolare sulle note coloristiche, sui riflessi e le cangianti tonalità dell’acqua, così come sulle
gradazioni di colore che offre la vegetazione circostante, andando proprio a mettere l’accento sulle
caratteristiche visive più evidenti dell’arte pittorica in quanto tale e rilevando qualità estetiche di
certo apprezzabili da un’audience europea. Alcune scelte lessicali contribuiscono peraltro a dare
quest’impressione d’insieme di un quadro statico e creato ad hoc in vista della sua fruizione
occidentale: l’“eleganza” degli alberi, la “compattezza” delle fronde, l’“armonia” dei colori sono
tutte notazioni intese a comunicare un senso di regolarità, di sistematicità, di perfezione se
vogliamo, che a sua volta riconduce a un tentativo di annullamento del diverso, dell’estraneo, del
disarmonico appunto. Non stupisce allora che la frase successiva si apra con un’avversativa: la nota
stonata che turba il quadro, ma che al tempo stesso è atta a ricondurre in quello scenario africano
reso per un attimo volutamente irriconoscibile, è l’aridità del terreno. Essa, infatti, non appena ci si
allontani un po’ dalle immediate sponde del fiume, riprende il sopravvento con la stessa
inesorabilità con cui il sole africano impone la sua presenza. Eppure, con un ulteriore significativo
64
Carlo Citerni, Ai confini meridionali dell’Etiopia, cit., pp. 104-5.
207
scarto avversativo, Citerni sorvola rapidamente sul paesaggio che si distende al di là del Ganale,
evidentemente giudicato inadeguato a divenire oggetto di descrizione o per lo meno ininfluente ai
fini della categoria del “pittoresco” cui essa scrupolosamente si attiene.
Il fiume, dunque, elemento particolarmente prezioso in terra africana dove ossessiva è la
minaccia della siccità, costituisce al tempo stesso un ingrediente ineliminabile e privilegiato dei
resoconti di viaggio: la sua presenza, spesso inaspettata o comunque non immediatamente percepita
e dunque ancor più gradita, sorprende e incanta nella sua improvvisa realtà. Ecco allora che persino
un torrente, sia pure destinato − come Citerni stesso asserisce − a trasformarsi, una volta passata la
stagione delle piogge, in un misero alveo secco e riarso, quando ancora scorre «biondo e impetuoso
fra rocce muscose disegnate con arditi profili»65 può suscitare ammirazione pari a quella già
riservata al Ganale etiope. Di nuovo, attraverso scelte lessicali lungi dall’essere del tutto casuali,
l’autore insiste nel dare conto del colore dell’acqua che rapida scorre, resa “bionda”, viene da
pensare, dai riflessi abbaglianti del sole, e definisce significativamente “disegnate” le rocce che
fanno da sponda al torrente, dunque con un esplicito prestito dalla sfera semantica dell’arte
pittorica. E se, nonostante tutto, avessimo ancora qualche dubbio sulle ben determinate scelte
descrittive autoriali, la riflessione che fa da seguito alla visione del torrente dovrebbe bastare da
sola a fugarli definitivamente:
Tutto era così artisticamente disposto, che non pareva possibile fosse opera del caso; sembrava
invece di traversare un magnifico parco, dove il gusto d’un maestro della pittura avesse
armonizzato le linee e i colori e avesse disposto fin l’ultimo particolare.66
Interessante, nel passo appena riportato, la perfetta specularità con il brano di Paoli citato in
apertura del presente paragrafo: laddove quest’ultimo sottolineava, infatti, il prodigio di una
disposizione delle piante perfetta per natura, al punto che «la mano dell’uomo meglio non potrebbe
in un parco», qui Citerni capovolge in un certo senso la prospettiva, mettendo in risalto al contrario
proprio l’“artisticità” intrinseca del parco, che farebbe piuttosto propendere per una sua creazione
artificiale, e che contribuisce pertanto a evidenziarne le straordinarie potenzialità in termini di resa
pittorica.
Le modalità di osservazione e dunque anche di descrizione del paesaggio che l’autore mette in
atto sono chiaramente finalizzate a un godimento estetico che, a sua volta, è improntato a specifici
canoni di riferimento: l’aspetto africano del territorio può, infatti, essere ammirato e apprezzato solo
a determinate condizioni, come nel caso in cui, ancora, si incontrino «numerosi villaggi che hanno
un aspetto pittoresco ed elegante, con le loro capanne raggruppate e con le graziose siepi di
65
66
Ivi, p. 196.
Ivi, p. 197.
208
euforbie».67 Singolare come di nuovo Citerni ricorra agli stessi termini, “pittoresco” ed “elegante”,
che già aveva usato in precedenza sempre in riferimento al paesaggio, cui affianca in questo caso un
terzo aggettivo, “grazioso”, riconducibile alla medesima sfera semantica dei primi due e a uno
stesso tipo di percezione esclusivamente visiva. Qui, tuttavia, l’autore compie un passo in avanti, il
quale fornisce a noi ulteriore prova del fatto che il punto di vista sotteso a ogni considerazione sulla
realtà africana contenuta nella sua opera sia inequivocabilmente non solo il proprio, ma anche
quello verosimilmente condivisibile dai suoi connazionali in patria. Infatti, all’esaltazione della
spontaneità e verginità della natura che tante volte abbiamo riscontrato nei viaggiatori
dell’Ottocento, si sostituisce ora la lode per la «mano italiana [che] sta compiendo miracolosi sforzi
di civiltà in quel paese perduto dell’Africa selvaggia, in quell’ultima plaga della terra somala»68,
ossia per il progresso che trionfa in colonia finalmente apportato dall’opera umana occidentale,
almeno laddove la natura «benigna, alla razza umana s’era piegata, e la mano dell’uomo l’aveva
soggiogata, l’aveva reso docile strumento della propria vita e del proprio benessere».69
3.4 La spettacolarizzazione dell’altro come preludio al razzismo
L’attenzione per la qualità estetica di quanto viene di volta in volta osservato e descritto non si
applica tuttavia in modo esclusivo al paesaggio in senso stretto, bensì si allarga a coinvolgere da
vicino anche cose e soprattutto persone: queste ultime, infatti, non mancano, come d’altronde
abbiamo già rilevato, di essere semplicisticamente assimilate, e dunque annullate nella loro
specifica identità, all’ambiente che le circonda e le racchiude. In questo senso, allora, non dobbiamo
stupirci nel riscontrare il biasimo e il malcontento di Renato Paoli di fronte a quella che egli stesso
definisce una «civiltà di stracci», a indicare l’uso sempre più diffuso presso gli indigeni all’Asmara
di vestire abiti europei, vecchi e pertanto dismessi dai loro originari proprietari. Com’è facile
comprendere, una simile considerazione deriva ancora una volta da riflessioni e giudizi di matrice
prettamente estetica. Prima di tutto, infatti, la vista di un’umanità già di per sé reietta e per di più
coperta di «vestiari che da noi [italiani] non varrebbero nemmeno un soldo bucato» offende il buon
gusto occidentale. Inoltre, conseguenza ancora peggiore, questa ignobile abitudine priva la realtà
locale di una sua peculiare nota di “colore”:
Nulla è più odioso, a mio giudizio, di questo dilagare spillaccherato e brandellone di
robevecchie europee, della penetrazione pacifica del rigattiere bianco che assorbe la varietà
pittoresca dei costumi nazionali, e minaccia l’esistenza di abbigliamenti artistici, quali quelli
abissini.70
67
Ivi, p. 173.
Ivi, p. 141.
69
Ivi, p. 173.
70
Renato Paoli, Nella colonia Eritrea, cit., p. 80.
68
209
Diversamente da quanto potrebbe sembrare a una prima ingenua lettura (che a questo punto
dovremmo essere abituati a rigettare in quanto inadeguata e inaffidabile) la posizione assunta a gran
voce dall’autore non si giustifica di certo alla luce di una spassionata difesa delle tradizioni locali
contro l’invadenza degli apporti esterni; anche volendo, d’altronde, una simile finalità non sarebbe
in alcun modo difendibile, nel momento in cui sempre più massiccia si fa la penetrazione italiana
nel continente africano e, nello specifico, si viene consolidando il dominio sulla colonia primigenia.
Al contrario, il fastidio espresso da Paoli è non solo di natura squisitamente estetica, evidenziata
dalla non casuale riproposizione dell’aggettivo “pittoresco” riferito stavolta ai costumi indigeni, ma
anche espressione ulteriore di una prospettiva marcatamente eurocentrica, che vede e vuole vedere
nell’“altro e nell’“altrove” africano uno spettacolo gradevole per i propri occhi “educati” al gusto
della bellezza.
La voluta spettacolarizzazione della realtà coinvolge, dunque, persino gli indigeni in quanto tali,
perfettamente integrati all’interno del quadro che, si noti, è preconfezionato, pronto per l’uso già
prima che il viaggiatore italiano metta realmente piede in colonia:
Come primo saggio del lontano paese che vado a visitare, abbiamo a bordo due autentici
eritrei, cittadini di Massaua, avvolti nei loro pittoreschi costumi. Essi rimpatriano, tornando
dall’esposizione di Milano, nella quale facevano mostra della loro pelle color fuliggine e della
crespa capigliatura.71
Qui l’autore fa riferimento all’Esposizione internazionale tenutasi a Milano appunto nel 1906, nella
quale i due “esemplari” indigeni erano stati offerti allo sguardo curioso del pubblico europeo,
perfettamente a proprio agio di fronte a una forma radicale e sprezzante di reificazione dell’essere
umano. Ancora una volta sono degne di nota alcune precise scelte lessicali compiute da Paoli: egli
intende, prima di tutto, sottolineare l’“autenticità”, ossia diremmo noi la purezza di razza, degli
eritrei che ha di fronte, forse affinché questo serva come ulteriore garanzia della veridicità della
propria esperienza. Inoltre, l’accento cade sul loro caratteristico abbigliamento, definito attraverso
l’ennesimo ricorso all’aggettivo “pittoresco”, e dunque giudicato curioso e intrigante per
l’osservatore occidentale; infine, sono proprio due aspetti immediatamente percepibili alla vista,
ossia il diverso colore della pelle e la relativa eccentricità dei capelli, quelli di cui l’eritreo ha dato
mostra a Milano, quasi che egli spontaneamente si fosse dato in pasto agli sguardi europei, affamati
di facile esotismo.
D’altronde, l’opportunità, di cui le istituzioni italiane si sono avvalse, di condurre in patria due
cittadini di Massaua con l’esplicita finalità di affiancarli ad altri oggetti in una mostra di rilevanza
internazionale basta da sé come testimonianza del fatto che, evidentemente, gli eritrei sono ormai
considerati alla stregua di un possesso personale, ossia che il potere sul territorio si è esteso
71
Ivi, pp. 5-6.
210
automaticamente a quello sui suoi abitanti. Non a caso, pur recandosi per la prima volta in colonia,
Paoli si arroga già, senza il benché minimo bisogno di porlo in discussione, un vero e proprio diritto
di proprietà sugli indigeni, al punto che, durante la visita a una missione svedese, non risparmia
aspre critiche al pastore protestante, in quanto non solo insegna agli indigeni il tedesco, ma si
impegna anche
a diffondere una religione, la protestante, non soltanto diversa da quelle indigene, mussulmana
e cofta, ma anche dalla cattolica che è la religione della razza dominatrice. In conseguenza di
che, voi, tacitamente ma assiduamente, approfondite sempre più l’abisso che separa noi dai
nostri, non vostri indigeni.72
L’errore del pastore svedese, dunque, non sta tanto nel voler indottrinare gli africani a una religione
diversa da tutte quelle presenti sul loro territorio, cui essi verosimilmente sono stati educati, quanto
nell’aver scelto un culto che non è quello dei “legittimi proprietari”, cosa che appunto non può far
altro che rendere più discutibile, agli occhi degli indigeni stessi, la dominazione italiana. Eppure, se
da un lato Paoli ammette qui la realtà di una profonda spaccatura in colonia tra colonizzati e
colonizzatori (di cui non specifica tuttavia la concreta natura), dall’altro non si fa scrupolo di
riferire ai primi l’aggettivo possessivo “nostri”, rendendone quanto mai esplicita la riduzione a
oggetto di cui rivendicare appunto il possesso.
Nel suo resoconto non mancano, peraltro, indizi rivelatori di un’ottica di asservimento e di
sfruttamento dell’indigeno poggiante su basi ridicolmente ipocrite, volte a mascherare, dietro
l’apparente paternalistico riconoscimento di presunte qualità della popolazione locale, una realtà
concettuale ormai indiscutibilmente razzista. In conseguenza del fatto che, allora, «si nasce
camerieri come si nasce poeti», Paoli conviene che, se non altro, «gli abissini sono servi nati»73,
caratteristica che ovviamente gli italiani in Eritrea non mancano di “apprezzare” a proprio
vantaggio; egli rileva, inoltre, «la meravigliosa sobrietà e la resistenza alla fatica dei neri: nessun
operaio italiano con salari di tal misura […] potrebbe immigrare in colonia. L’europeo, qualunque
sia, ha troppi bisogni, e questi, quanto più sono superflui, tanto più costano in Eritrea».74 Non solo,
dunque, gli indigeni sono fisicamente più resistenti e dunque più adatti a svolgere lavori pesanti
(argomento tutt’altro che nuovo), ma soprattutto, rimasti indietro sulla strada della civilizzazione,
hanno del pari sviluppato meno esigenze, e dunque si accontentano senza rimostranze del misero
salario che viene loro concesso. Interessante qui notare come sia capovolta la questione dei
“bisogni”, che avevamo visto sollevare già da alcuni viaggiatori ottocenteschi: secondo Gustavo
Bianchi, ad esempio, proprio il progressivo aumento delle necessità avvertite dalla popolazione
72
Ivi, p. 185.
Ivi, p. 81.
74
Ivi, p. 96.
73
211
locale a contatto con gli europei più evoluti avrebbe costituito elemento di supporto all’espansione
italiana. In questo senso, Paoli di nuovo si pone in una posizione inconsapevolmente
contraddittoria: da un lato, infatti, fa mostra di apprezzare la sobrietà indigena, in quanto permette
evidentemente il più bieco sfruttamento. Dall’altro, poi, domanda stupito a se stesso: «per quali
scopi siamo andati in Affrica, se non per insegnare agl’indigeni i nostri bisogni materiali e
spirituali, e così vendere loro i nostri prodotti?»75, riallineandosi dunque alla via già tracciata da
Bianchi.
Inoltre, quella facile assimilazione dell’uomo indigeno all’animale, che abbiamo visto informare
di sé paragoni e considerazioni dei viaggiatori già nel secolo precedente, subisce del pari
un’innegabile radicalizzazione, assumendo toni sempre più perentori:
Ci venne dietro come un cane, un giovane abissino, che aveva modi affabili e signorili e che
parlava abbastanza bene il francese […] Durante tutto il giorno ci era venuto dietro, senza
staccarsi un istante dalle nostre costole […] Perché voleva chiedermi in dono alcune cartucce
cariche a pallettoni! È inutile: anche educato in Francia, l’abissino perde il pelo, ma non il
vizio!76
Senza alcuna reticenza, dunque, Citerni sviluppa il confronto tra l’indigeno e il cane lungo un intero
paragrafo, non limitandosi semplicemente a esplicitare i due termini di paragone, ma articolando il
proprio resoconto dell’episodio in modo tale da creare, ad uso del lettore, un’immagine dell’uomo
perfettamente sovrapponibile a quella dell’animale. L’azione dell’abissino è, infatti, descritta
mediante il riferimento al cane che segue fedelmente e da vicino il padrone, al fine di averne in
cambio una qualche ricompensa; e la stessa coincidenza di atteggiamenti (e dunque di “valore”)
viene ribadita nella chiusa, laddove al “lupo” del noto proverbio è sostituito, di nuovo, l’abissino, le
cui maniere esteriormente raffinate non possono comunque nascondere la sua vera natura gretta e
selvaggia. Curiosamente, anche Paoli ricorre nel proprio testo all’accostamento tra indigeno, eritreo
stavolta, e medesimo animale, portandolo tuttavia alle sue estreme, e per noi davvero paradossali,
conseguenze. Nel constatare, infatti, che la massima fonte di svago e divertimento a Cheren è la
caccia, così reagisce di fronte al problema della penuria di cani, i quali non resistono alle proibitive
condizioni climatiche: «Ma non c’è da sgomentarsi; all’occorrenza suppliscono in modo egregio
questi neri straordinari»77, trasformando evidentemente il semplice paragone teorico in una vera e
propria sostituzione di ruoli, messa in atto con assoluta naturalezza.
Inoltre, a ricoprire un gradino se possibile ancora più basso in questa immaginaria scala, che dal
vertice in cui si presume campeggi l’uomo civilizzato europeo scende giù fino alla base occupata
dagli esseri animali, è non a caso la donna, la quale non sembra già più in grado di irretire l’uomo
75
Ivi, p. 106.
Carlo Citerni, Ai confini meridionali dell’Etiopia, cit., p. 31.
77
Renato Paoli, Nella colonia Eritrea, cit., p. 226.
76
212
europeo col fascino della sua figura misteriosa e conturbante. Al contrario, ancora sulla strada
spianata da Martini, suscita per lo più ripugnanza (e non più nemmeno compassione) per la
trascuratezza della propria persona, conseguenza del duro lavoro cui è quotidianamente demandata,
e inquietudine per lo stato di abiezione in cui versa: secondo Paoli, quello «della inferiorità della
donna indigena, del grado bestiale in cui si trova, è uno dei più gravi problemi coloniali da
risolvere».78
Eppure, l’elezione della donna a rappresentante infimo della categoria indigena cui appartiene
non è del tutto ingenuo, bensì funzionale all’articolazione di un preciso discorso socio-politico in
atto in questi anni, che vede al centro della questione proprio la figura femminile. Non a caso, nel
prosieguo delle sue eloquenti considerazioni, Paoli compie una precisa distinzione volta a dar conto,
a suo dire, dell’umore grigio e malinconico che permea gli italiani all’Asmara: «Femmine ce ne
sono in colonia, nere esuberanti e generose; mancano le donne, le quali non possono essere che
bianche».79 L’allusione, a questo punto, va ben oltre la più volte incontrata constatazione della triste
quanto necessaria diffusione in colonia della prostituzione, che abbiamo visto per lo più menzionata
dai viaggiatori italiani con un tono di paternalistica compassione. Qui, in effetti, la donna indigena
viene ritratta in un atteggiamento di benevolente lascivia nei confronti dell’uomo bianco, il quale,
dal canto suo, non può fare a meno di sentire profonda nostalgia per la “vera” donna bianca. Una
simile notazione va allora inquadrata all’interno della problematica, emergente proprio in questi
anni, relativa al moltiplicarsi delle unioni, in colonia, tra cittadini italiani e donne locali, la quale a
sua volta va ricollegata, in un orizzonte più ampio, al parallelo consolidarsi di una distinzione che
assume connotati sempre più marcatamente razziali (come già osservato a proposito della campagna
di Libia). Paoli, d’altronde, è testimone in prima persona di quello che a breve diventerà uno dei
problemi più urgenti da risolvere in colonia, e su cui torneremo più in dettaglio nel prossimo
capitolo, ossia quello dei meticci:
In questa scorgevo dei ragazzi dalla pelle nera, dai capelli biondi e ricciuti, dagli occhi miti,
dal viso regolare. Erano meticci, e grandi e piccini, frutto dell’incrocio di due razze. Mi dissero
che tale mescolanza di sangue non dà buoni prodotti. Non si sa bene la ragione: ma la razza
italiana sovrapposta all’indigena dà luogo ad individui ancora più deboli, più mingherlini e più
fiacchi.80
Il costume che in territorio italiano venne definito “madamato”, ossia la relazione temporanea tra
cittadini italiani e donne locali, è una realtà diffusa com’è noto in tutte le colonie europee tra Otto e
Novecento, tollerata se non addirittura incoraggiata dalle autorità come forma di unione almeno
apparentemente più legittima e soprattutto più sicura di quanto non fosse il ricorso alla
78
Ivi, p. 81.
Ivi, p. 106.
80
Ivi, p. 13.
79
213
prostituzione. Almeno in età liberale, i rapporti di madamato sono pertanto molto comuni
specialmente in Eritrea, dove più consistente è la presenza di soldati e poi anche funzionari italiani.
Fin da subito, invece, vengono proibite unioni di tipo inverso, tra donne bianche e indigeni, per
presunte questioni biologiche ma anche perché è considerato sconveniente che la donna in quanto
tale, sia pure bianca, si trovi a dover essere soggetta a un uomo nero. Come rileva Barbara Sòrgoni,
inoltre, i pregiudizi e le superficiali valutazioni sui costumi matrimoniali indigeni, ignoti e non
compresi nelle loro talora differenti implicazioni, spingono gli europei a postulare automaticamente
nei nativi una eccessiva libertà di costumi, da volgere con estrema facilità a proprio vantaggio. Ad
ogni modo, a prescindere dal grado di accettazione che a questa forma di concubinaggio viene di
volta in volta riservato, la sua sempre più vasta diffusione ha come immediata conseguenza
l’enorme proliferare di meticci. Frutto di queste unioni passeggere, essi finiscono per lo più per
essere abbandonati in colonia dai padri italiani; ma, al tempo stesso, è proprio il loro indiscutibile
legame di sangue con questi ultimi che pone la questione teorica del loro statuto giuridico e, con più
forza, quella pratica del loro sostentamento. Vedremo più avanti come le politiche razziali e sessuali
messe in atto dal fascismo tenteranno in ogni modo possibile di arginare questo fenomeno ritenuto
non solo sconveniente, ma anche soprattutto deleterio per la “purezza” della razza italiana.
Tuttavia, come d’altronde si evince dal brano di Paoli sopra citato, al di là dell’accettazione più o
meno pacifica della pratica del madamato, la realtà dei meticci provoca evidentemente, già nei
primi anni del Novecento, un impatto notevole sugli italiani che visitano la colonia, vuoi per la sua
rapida proliferazione, vuoi soprattutto per il fatto che si presenta immediatamente alla vista in tutta
la propria “diversità”. Non a caso Paoli, contestualmente al suo primo diretto contatto con alcuni
meticci, non si fa sfuggire l’occasione per asserire, senza preoccuparsi di citare né vagliare la fonte
dell’informazione, l’infima “qualità” di individui generati attraverso simili incroci. Peraltro, che la
questione razziale si faccia in questi anni sempre più pressante possiamo rilevarlo anche dalle
seguenti considerazioni di Citerni, in cui essa viene applicata non più agli incroci di indigeni con
europei, ma ad una stessa stirpe locale, e dunque se vogliamo ancora meno giustificabile:
Però il tipo Rahanuin manca di caratteri ben definiti, e di stabilità somatiche; il che fa supporre
che queste tribù, invece di aver nelle vene il sangue puro d’una razza originaria, com’esse
vorrebbero, non siano che il prodotto di svariati incroci di stipiti diversi in epoche diverse; o,
quanto meno, che il primitivo stipite sia stato corrotto da connubi con stipiti estranei.81
L’intento dell’autore è di dimostrare che, per quanto loro dicano e credano di esserlo, i rahanuin
non possono essere definiti propriamente somali, in quanto questi ultimi, «se si fa astrazione dal
colore, hanno un tipo perfettamente ariano», mentre gli stessi tratti regolari di cranio e profilo non
sono riscontrabili nella tribù suddetta. I rahanuin, in altre parole, come i meticci appunto, sarebbero
81
Carlo Citerni, Ai confini meridionali dell’Etiopia, cit., p. 175.
214
frutto di incroci di stirpi diverse, e di conseguenza un prodotto per sua stessa natura corrotto e
imperfetto.
Sulla questione dei meticci, d’altro canto, Paoli torna a riflettere in una sezione conclusiva del
proprio racconto di viaggio, dall’eloquente titolo Bianchi e neri, in cui evidentemente si prefigge
l’intento di dare il proprio parere, e fornire una quanto mai discutibile interpretazione, della
relazione che in effetti intercorre in colonia tra popolazione locale e recenti dominatori. Suscita
allora perplessità, se non altro per l’inconfutabile ipocrisia che sottende in rapporto alle
considerazioni dall’autore stesso sottoscritte finora, l’immagine di una convivenza pacifica «senza
ribrezzo e senza pregiudizi di colore»82, garantita dal fatto che l’Italia è egregia rappresentante di un
sistema di colonizzazione a tradizione latina, diverso sia da quello americano che da quello inglese
in quanto basato non sulla divisione, bensì sull’assimilazione:
I due popoli, in una ragionevole divisione di uffici e di lavoro si completano a vicenda,
impiegando le loro intrinseche virtù, o d’intelligenza, o di lavoro. La razza situata più in basso,
gradualmente s’innalza, a poco a poco, verso quella dominatrice colla quale tende a
confondersi.83
Abbiamo visto, in realtà, come esempio di “collaborazione” dei neri agli uffici, o meglio agli
svaghi, dei bianchi il loro utilizzo in vece dei cani nelle battute di caccia, pratica che difficilmente
sembra capace di avvicinare e far convergere su uno stesso piano le due “razze”. D’altronde,
bisogna dare atto a Paoli che, a ben guardare, quello che sta descrivendo, sia pure in maniera
astratta ed edulcorata, è quanto avviene sotto i suoi occhi in colonia, ma non per forza quanto egli
auspica che avvenga. I suoi dubbi, infatti, riemergono proprio in relazione alla questione dei
meticci: l’«assenza di odio di razza» (che in teoria potrebbe o dovrebbe essere una nota positiva, ma
che, si noti, Paoli non giudica mai esplicitamente come tale) da lui riscontrata va, infatti, di pari
passo con l’eccesso contrario, la cui conseguenza immediata sta appunto nel proliferare di
«madame e cioccolatini»,84 su cui ancora il governo italiano non ha preso una decisa posizione.
Da ultimo confessa che sarebbe «la soluzione più utile», per quanto crudele, «sostituire ai
trecento sessantamila neri altrettanti coloni italiani», ma visto che gli africani non danno, nonostante
carestie e guerre (ovviamente portate dagli europei) segni di recesso, al contrario «vivono e si
moltiplicano con una prolificità di animali inferiori», forse è destino che le due “razze” convivano,
«l’europeo, mente direttiva; l’affricano, braccio esecutore».85
82
Renato Paoli, Nella colonia Eritrea, cit., p. 296.
Ivi, p. 297.
84
Ivi, pp. 298-9.
85
Ivi, pp. 301-2.
83
215
4. Due donne in Africa
I testi cui abbiamo fatto riferimento finora, i quali ci hanno permesso di volta in volta di astrarre
e isolare temi, questioni e categorie concettuali utili alla ricostruzione e definizione di un percorso
culturale che accompagna la parallela evoluzione storico-politica del colonialismo italiano, sono
tutti senza eccezione da ricondurre ad autori di sesso maschile. Possiamo infatti legittimamente
affermare, proprio sulla base delle testimonianze fin qui analizzate, che la letteratura coloniale in
quanto tale nasce come genere maschile, dal momento che già nei primi anni del Novecento essa
può vantare un corpus piuttosto nutrito di narrazioni di viaggi esplorativi e resoconti di missioni
diplomatiche, religiose o commerciali redatti da quegli stessi uomini che ne erano stati i
protagonisti. In una simile omogeneità del panorama di dirette esperienze coloniali e della loro
relativa messa per iscritto acquistano rilevanza ancora maggiore i casi, senza dubbio minoritari, in
cui il nostro accostamento alla realtà coloniale africana può essere condotto attraverso il filtro di
originali voci femminili. Si tratta, in realtà, di un corpus meno ristretto di quanto non si sia a lungo
creduto in conseguenza di una rapida e semplicistica marginalizzazione delle scritture femminili,
tralasciate o sottovalutate in quanto considerate espressione di soggetti svolgenti una parte del tutto
accessoria all’interno dell’impresa coloniale stessa.86 Inoltre, sulla base di stereotipiche concezioni
delle ristrette potenzialità, in questo contesto soprattutto fisiche e pratiche, riconosciute alla donna
in quanto tale, i resoconti delle imprese da esse narrate sono stati spesso ritenuti inaffidabili ed
esagerati. Un simile giudizio, preludio a un rigetto tout court del genere, diviene d’altronde più
facilmente comprensibile nel momento in cui consideriamo il tipo di ritratto, fondamentalmente
anticonvenzionale, che tali testi tendono a dare della donna, se non altro in confronto agli standard
femminili promulgati dalla contemporanea letteratura di consumo: il modello della viaggiatrice in
colonia è stato dunque respinto proprio in forza della sua eccentricità e non riducibilità a canoni
tradizionali e rassicuranti, per la sua messa in discussione di patriarcali regole imposte all’epoca
dalla società non solo italiana, ma europea in genere.87
Pur senza volerne rivendicare la perfetta specularità o assimilabilità ai resoconti maschili, e
anche nel consapevole riconoscimento delle loro peculiarità, le narrazioni di viaggio femminili
meritano ad ogni modo di essere tenute in considerazione proprio nella misura in cui aprono il
campo a considerazioni ulteriori sui rapporti di potere in colonia, e sul modo in cui equilibri già
precari nella madrepatria finiscono per materializzarsi in atteggiamenti rivelatori di latenti
contraddizioni. In particolare, nel giro di anni su cui abbiamo focalizzato la nostra attenzione nel
86
Si tenga presente, d’altronde, che, al contrario di quanto si sia portati a pensare, donne viaggiatrici anche solo
spinte da una passione per l’avventura fine a se stessa costellano il panorama italiano fin dal Medioevo, per cui si veda
Andreina De Clementi, Maria Stella (a cura di), Viaggi di donne, Napoli, Liguori, 1995.
87
Si tratta di quelli che Sara Mills ha definito Constraints on the reception of women’s travel writing, in Ead.,
Discourses of difference, cit.
216
presente capitolo, vale la pena di accennare almeno a due figure, peraltro molto diverse tra di loro,
che hanno lasciato preziose testimonianze delle proprie esperienze di viaggio o di permanenza in
Africa: attraverso di esse possiamo cogliere, infatti, alcuni aspetti interessanti e peculiari delle
categorie di genere applicate al contesto coloniale, quanto mai sfuggenti e oscillanti, ma proprio per
questo indicative e rivelatrici di problematiche più ampie e profonde.
L’assunzione di una simile prospettiva non implica un’automatica sottoscrizione dell’assunto in
base al quale la scrittura femminile è intrinsecamente e obbligatoriamente diversa da quella prodotta
dal sesso opposto, e dunque in se stessa rappresentante di un punto di vista unico e coerente da
contrapporre semplicisticamente a quello della categoria maschile dominante. Al contrario, è chiaro
che essa si faccia necessariamente portatrice di riferimenti, valori e messaggi almeno in parte
diversificati in base a specifiche distinzioni interne al “gruppo” di genere, e riconducibili a
differenze di classe o di “razza”, ad esempio. In questo senso, anzi, i testi su cui andrò a breve a
basare le mie considerazioni potranno risultare particolarmente appropriati in quanto le rispettive
autrici sono ascrivibili a contesti di provenienza non del tutto opposti, ma sensibilmente differenti.
Nel 1893, al colonnello veneto Pianavia-Vivaldi viene offerto dal governo italiano un comando
militare in Eritrea, precisamente nella zona interna dell’Asmara; è alla moglie Rosalia, almeno per
quanto ci è dato di sapere dalla stesse parole di lei, che egli rimette la decisione, pronto a rinunciare
all’incarico nel caso in cui lei non sia disposta ad accompagnarlo. Sia pure dopo una giornata di
intensi e quasi angosciosi tentennamenti, di certo enfatizzati di proposito nella rievocazione scritta e
retoricamente sostenuta dell’intera vicenda, Rosalia si piega all’idea di un soggiorno in Africa,
destinato a protrarsi fino al 1896: si tratta, peraltro, di una forma di compromesso attuata piuttosto
raramente nel panorama coloniale italiano, almeno fino agli anni Trenta quando, con l’inasprirsi
delle politiche razziali imposte dal regime fascista, alle donne sarà sempre più richiesto di seguire i
propri mariti in colonia.88
Elena di Francia, al contrario, autrice propriamente francese ma assimilabile, ai nostri fini, al
contesto italiano per il matrimonio contratto nel 1895 con Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, dà
avvio al corso dei propri viaggi in Africa, nel 1907, spinta dalla personale curiosità e da uno spirito
d’avventura che appare ancora sensibilmente impregnato di retaggi romantici, e di certo reso
possibile e sostenuto dall’estrazione aristocratica della donna. Come la Vivaldi, infatti, anche Elena
sceglie evidentemente di affidare al testo scritto il resoconto della propria esperienza sentita come
eccezionale nello specifico contesto di riferimento e dunque oltremodo degna di essere trasmessa.
Laddove, tuttavia, la prima intende senza subbio affermare se stessa e il proprio ruolo
88
In base alla periodizzazione che stiamo seguendo, il testo della Vivaldi sarebbe dovuto più propriamente rientrare,
per ragioni squisitamente cronologiche, nel capitolo precedente, nonostante la sua pubblicazione si collochi già nel
secolo XX. Abbiamo scelto, tuttavia, di darne conto in questa sezione in quanto riteniamo sia più utile e illuminante
leggerlo anche in confronto diretto e ravvicinato con la narrazione dei propri viaggi redatta da Elena di Francia.
217
specificamente femminile senza per questo rinunciare a porsi come fiera rappresentante della
propria nazione in colonia, la duchessa valdostana non dimostra, in effetti, alcun legame con l’Italia
né alcuna particolare coscienza della realtà coloniale in quanto tale, nella misura in cui mira a una
individualistica e aristocratica affermazione di sé e dell’unicità indiscutibile della propria impresa.
Non stupisce allora che lo scenario che fa da sfondo al suo stesso resoconto stia a indicare, in modo
ancora più radicale di quello della Vivaldi, i particolari condizionamenti cui è sottoposta
l’esperienza femminile e che la distinguono da quella maschile, aggiungendo ad essa un livello
ulteriore di problematicità. L’idea della patria e degli amici lontani e il timore dell’ignoto cui va
incontro impongono alla moglie del colonnello quantomeno una ponderata valutazione, prima che
ella possa infine decidersi ad assecondare la carriera del marito. Quella che in Elena di Francia si
presenta invece come una scelta assolutamente autonoma e personale, non dettata da alcuna
pressione di natura esterna allo stesso soggetto, deve comunque fare i conti con la peculiare
condizione che vede nel protagonista non solo una donna, già di per sé dunque considerata
fisicamente poco adatta a sostenere le avversità di un continente ignoto e pericoloso, ma anche una
madre: il doloroso commiato dai figli, con cui si apre il testo della duchessa, fornisce un drastico
contrappunto alla convenzionale partenza, carica di ansiose aspettative, che dà avvio abitualmente
ai resoconti degli esploratori.89
Al tempo stesso, tuttavia, nella misura in cui rappresenta una forma del tutto specifica e
personale di ostacolo al viaggio, che agli uomini non tocca mai in sorte di dover affrontare, la
maternità si trasforma automaticamente in dimostrazione di un punto di forza della donna, avvio
funzionale a quell’affermazione di sé che è perseguita attraverso l’esperienza prima, e la sua
necessaria messa per iscritto poi. La stessa cosa non può avvenire nel caso della Vivaldi: a ritardare
la risoluzione alla partenza non sono l’amore materno né la presenza di particolari legami affettivi
in patria, quanto piuttosto l’idea di trovarsi costretta a fronteggiare situazioni nuove e
potenzialmente pericolose e ad abbandonare condizioni e stile di vita cui è da tempo abituata.
Eppure, a ben vedere, le sue stesse parole, poste in apertura del volume, risuonano piuttosto
convenzionali, quasi fossero appositamente intese a far risaltare, per contrasto, l’impegno che la
donna assume in prima persona; tanto più che, come abbiamo detto, è lei a pronunciare la parola
definitiva di assenso alla partenza. Sia pure in modi diversi, dettati senza dubbio dalle diverse
condizioni sociali e personali, entrambe le autrici danno dunque avvio alla riscrittura della propria
esperienza africana ponendo inequivocabilmente l’accento sulla responsabilità che sono
intenzionate ad assumersi direttamente: e in effetti, nella già ricordata disparità di situazione che
89
Valga a mo’ di esempio, in proposito, le parole con cui Robecchi-Bricchetti saluta la propria avventura: «La
prima volta che io mossi per l’Oceano Indiano e mi recai ad Obbia, col pensiero d’intraprendere, di là, un viaggio
d’esplorazione nel paese dei Somali, inseguivo un ideale o, piuttosto, un sogno soavemente e a lungo accarezzato»
(Luigi Robecchi-Bricchetti, Nel Paese degli aromi, cit., p. 3).
218
mettono in scena, gli incipit di questi due resoconti pongono bene le premesse per la realizzazione,
ottenuta indiscutibilmente nello sviluppo del racconto, di quella centralità del personaggio
femminile perseguita da entrambe le protagoniste.
È stato evidenziato dalla critica, la quale soprattutto nell’ambito dei Gender Studies ha
finalmente focalizzato la propria attenzione sulle scritture femminili riconducibili all’ambito
coloniale, la peculiare declinazione delle relazioni spaziali in esse rintracciabile. La donna, che
ricopre senza dubbio una posizione marginale nel contesto spaziale di provenienza, tende allora a
creare per se stessa, nel nuovo ambiente coloniale nel quale improvvisamente si trova immersa, una
posizione e un ruolo altrettanto nuovi, che siano in grado di modificare almeno in parte le
condizioni di subalternità vissute in patria. In questo senso, tali resoconti permettono di
comprendere appieno la natura al suo interno diversificata e conflittuale dello spazio coloniale, il
quale rischia invece di essere inteso come omogeneo e monolitico qualora si prendano in
considerazione solo i racconti degli esploratori uomini. In altre parole, quella che fin qui poteva
apparire come un’opposizione binaria, manichea quasi, tra colonizzato e colonizzatore90, acquista,
tramite la nuova prospettiva apportata dalla presa in considerazione del punto di vista femminile,
uno spessore nuovo, in grado di dar conto in maniera più appropriata della complessa realtà sociale
e razziale che caratterizza la vita delle colonie.91
4.1 Una duchessa tra i “selvaggi”
Il caso della duchessa d’Orleans, che abbiamo appositamente scelto di far rientrare all’interno
del nostro canone di riferimento, presenta in questo senso peculiarità dovute in buona misura alla
sua estrazione aristocratica: essa rappresenta, infatti, un fattore decisivo di differenziazione sociale
rispetto al modello della donna in colonia appartenente alla middle-class cui la critica per lo più si
riferisce e che comprende senza difficoltà la figura di Pianavia-Vivaldi. Rispetto al viaggio di
quest’ultima, che si configura in realtà come un soggiorno piuttosto prolungato e che dunque reca
con sé implicazioni più profonde che vedremo, quelli di Elena di Francia (che a più riprese si reca
in Africa svolgendo in totale tre diversi itinerari) rispondono a una concezione passatista e tutta
impregnata di romanticismo dell’avventura in terre lontane e sconosciute:
90
Opposizione che, espressa già con particolare veemenza da Frantz Fanon (I dannati della terra, cit.) è stata
riproposta con simile enfasi, e in aperta polemica con il concetto di “ibridazione” messo in campo da Homi Bhabha,
dallo studioso Abdul JanMohamed (Manichean aesthetics. The politics of literature in colonial Africa, Amherst,
University of Massachusetts Press, 1983).
91
Si veda, in particolare, Sara Mills, Gender and colonial space, cit. Utili considerazioni a questo riguardo si
trovano anche in Margaret Strobel, Gender, sex and empire, Washington DC, American Historical Association, 1993, e
nel più recente Simon Lewis, White women writers and their African invention, Gainesville, University Press of Florida,
2003.
219
Noi ci sdraiamo in eccellenti poltrone sotto la veranda della mia tenda e ci godiamo
deliziosamente il “dolce far niente” fra il deserto e il fiume, con un tramonto di sole
meraviglioso seguito quasi istantaneamente dal sorgere della luna […] Trovarmi sotto questa
tenda, lontano dalle città, dalle convenzioni mondane, con lo spirito in riposo, le idee ed i
polmoni dilatati… mi sembra un sogno troppo bello perché possa essere la realtà.92
In modo peraltro molto simile a quello che abbiamo imparato a riconoscere come proprio di tanti
esploratori di fine Ottocento, la duchessa di Aosta vive evidentemente la propria esperienza africana
come fonte di rigenerazione fisica e soprattutto morale, in quanto essa le permette di liberarsi dalle
pastoie della modernità e di immergersi in un contesto che appare onirico, tanto si discosta da
quello usuale. A ben guardare, tuttavia, mentre gli esploratori trovano appagamento sostanziale nel
dover e poter affrontare ostacoli e pericoli imposti proprio dalle condizioni di spontaneità e
arretratezza tecnica del territorio, per Elena di Francia sembra riproporsi sostanzialmente immutata
quella condizione di inattività che verosimilmente caratterizzava la sua vita anche in patria. Ecco
allora che il divario è più mentale che effettivo, ideale piuttosto che pratico, laddove il cambio di
ambiente basta da sé a garantire un’esperienza personale che vuole essere percepita come diversa.
In una simile concezione del viaggio come romantica evasione, il nuovo ambiente di riferimento,
fungendo da semplice scenario atto ad accogliere le velleità personali, viene strumentalizzato
secondo il proprio fine, idealizzato come sorgente di sanità e tranquillità cui attingere a piene mani.
Scrive ancora l’autrice:
I giorni succedono ai giorni, calmi, sereni, fra questa natura selvaggia, così bella, nella quale si
è di fronte a Dio. Qui bisogna venire per trovare l’equilibrio fisico e morale che la vita
d’Europa, agitata e strozzata, talora fa perdere. Aria, sempre aria! non è questa forse la grande
igiene?93
Se si volesse rintracciare qui una qualche specifica connotazione riferita al nuovo contesto africano,
che sia in grado di giustificare l’entusiastico elogio della viaggiatrice, essa andrebbe individuata
nell’apertura sconfinata degli spazi, la quale permette allo sguardo di allargarsi senza confini e al
corpo di non sentirsi irretito dalle costrizioni fisiche e sociali dell’Europa urbana moderna. Da un
lato, tale visione rientra in quella “poetica del sublime” che abbiamo illustrato nel capitolo
precedente, e che prevede appunto una forma di annullamento estatico del soggetto rapito nella
contemplazione. Ecco che allora, in linea con la sua applicazione al paesaggio africano,
quest’ultimo può senza alcuna reticenza perdere ogni suo reale e peculiare spessore, e farsi del tutto
irriconoscibile nella sua anonima rappresentazione:
La notte è stata deliziosamente calma. Mi sono addormentata al gracidare monotono delle
rane, cullata dalla brezza che fremeva fra le foglie del nostro grande albero. Non ho aperti gli
92
93
Elena di Francia, Duchessa di Savoia Aosta, Viaggi in Africa, Milano, Treves, 1913, pp. 12-3.
Ivi, p. 37.
220
occhi che molto dopo la suoneria della sveglia. I raggi del sole penetravano nella mia tenda e
gli uccelli cantavano al di sopra della mia testa.94
Qui anzi, la rievocazione della notte trascorsa al riparo della tenda, sia pure tra le immagini
stereotipate e prive di caratterizzazione delle rane, della brezza e dei raggi del sole, vorrebbe forse
di per sé essere testimonianza di una presunta capacità e volontà di immersione in un mondo
“altro”; tuttavia, essa viene al tempo stesso turbata dal riferimento alla sveglia, elemento
evidentemente estraneo che, sia pure negato nella sua specifica funzionalità, riconduce
immediatamente autrice e lettore nell’alveo dell’ambiente europeo di provenienza.
D’altro canto, in questo specifico caso, l’esaltazione degli spazi vasti e sterminati offerti dal
continente africano assume una sfumatura ulteriore derivante dal fatto di porsi in aperto contrasto
con lo stile di vita aristocratico che si suppone proprio della protagonista-scrittrice, chiaramente
caratterizzato dall’invariabile e monotona frequentazione di spazi chiusi e, come lei stessa afferma,
“mondani”. L’appropriazione di abitudini locali, che doveva evidentemente suonare piuttosto
stonata alle orecchie della contemporanea élite europea (proprio in quanto messa in atto da una
donna e per di più di nobili origini), sembra nelle parole della duchessa finalizzata più a un intento
di rivendicazione di personale indipendenza e coraggio agli occhi di quello stesso pubblico che è
chiamato a leggere e giudicare il resoconto della sua esperienza, che non a una reale volontà di
accostamento alla realtà indigena. Non a caso, la sua presunta assuefazione alla vita spartana della
colonia africana vacilla non appena le si offre l’occasione di un invito a pranzo presso la dimora del
governatore inglese:
Tant’è, malgrado le attrattive della vita mezzo selvaggia che abbiamo condotta, fa molto
piacere il mangiare in piatti di porcellana e vedere della biancheria di bucato! […] Abbiamo
passata la notte nell’antica casa del governatore pel momento inabitata; era la prima volta che
dormivamo sotto un vero tetto, dopo tre mesi. Io aveva presa l’abitudine della mia casa
volante. Ne ho sentita la mancanza. La camera dove ho dormito mi pareva enorme, tutti gli
oggetti mi parevano sparsi negli angoli, il pavimento risuonava stranamente sotto i miei passi,
le assi scricchiolavano, l’aria mancava, il soffitto mi pareva pesarmi sul capo.95
Come si deduce dalla lettura del brano, Elena d’Aosta non può esimersi dal cadere in
contraddizione proprio nel suo rapporto conflittuale con la realtà da cui proviene e di cui fa parte:
nonostante abbia scelto volontariamente di affrontare il viaggio, e nonostante abbia finora fatto di
tutto per dimostrare a se stessa e soprattutto a chi la legge non solo di trovarsi perfettamente a suo
agio “tra i selvaggi”, ma anche di godere appieno dei loro ritmi lenti e della loro semplicità di
costumi, non manca tuttavia di apprezzare le comodità e le raffinatezze occidentali, non appena le si
presenta l’occasione. Al tempo stesso, però, l’affermazione di sé passa necessariamente attraverso
94
95
Ivi, p. 44.
Ivi, p. 71.
221
la dimostrazione del proprio spirito di adattamento al punto che, trovandosi ospite a dormire in casa
dello stesso governatore, l’autrice vuole comunicare il senso di oppressione e costrizione che le
quattro mura della stanza procurerebbero a lei, ormai abituata a condizioni di vita quanto mai
avverse e precarie. Inevitabilmente, allora, le sue parole risuonano in questo caso, al lettore appena
un po’ smaliziato, alquanto convenzionali e false, improntate come sono a un bisogno di proiezione
della propria figura su uno spazio “altro” le cui prerogative sembrano accettate e fatte proprie solo
nella consapevolezza della loro transitorietà e quasi accidentalità, come la casa del governatore sta
appunto a ricordare.
In altre parole, Elena di Francia non compie affatto un reale tentativo di inserire se stessa
all’interno dell’ambiente che si trova a sperimentare per come esso è davvero, bensì tanto più se ne
auto-esclude quanto più fa mostra di volerlo comprendere e apprezzare. Al contrario, i suoi sforzi
effettivi sono piuttosto rivolti, se vogliamo, a ricreare in colonia il proprio spazio di appartenenza,
nella misura in cui è solo in quel preciso contesto che può al meglio esprimere la propria superiorità
di donna europea e aristocratica. Chiaramente, allora, deve trattarsi di uno spazio su cui la donna
può rivendicare, anche lontano dalla patria, la propria autorità: l’ambiente domestico, chiuso (quello
stesso che faceva gesto di rigettare durante la visita al governatore) opposto a quello esterno in cui
solitamente l’uomo bianco afferma se stesso nel confronto con la natura, gli animali e gli indigeni
stessi. Indicativa in tal senso la scena in cui l’autrice descrive, in tono marcatamente ironico proprio
nei confronti di quell’ambiente che vorrebbe mostrare a sé congeniale, la propria preparazione
mattutina:
Questa mattina la mia toeletta è stata interrotta da visite pittoresche. Mi stavo pettinando,
quando è arrivata la più bella dama di Lado, portando doni: radici, foglie di cavoli, ecc… Ci
scambiamo strette di mano. Ella si siede… e si mette a ciarlare. Io riprendo la mia toeletta.
Nuovo allarme. Entrano due negri portatori di ova, di burro fresco, di formaggio alla crema, di
latte di vacca… La gioia per tutte queste cose fresche mi fa dimenticare il disagio di essere
stata sorpresa in un costume poco protocollare: del resto questi negri non hanno, senza dubbio,
che un’idea molto vaga della toeletta femminina europea.96
Già dalla scelta dell’aggettivo “pittoresco”, usato per caratterizzare le visite di indigeni che riceve,
possiamo dedurre, sulla base di quanto abbiamo già rilevato in precedenza, un’attitudine più da
spettatore che da attore verso la popolazione locale. Impressione, d’altronde, perfettamente
confermata dalle riflessioni che suscitano nella protagonista l’arrivo prima di una donna, che si
presume di alto rango a giudicare dal fatto che le sia concesso di fare visita a un’europea e di
intrattenersi con lei, e poi di due uomini. La donna, descritta come la più bella della città, viene
accolta con evidente aria di sufficienza: se i doni che reca non sono meritevoli di essere menzionati
nel loro complesso, tantomeno le sue chiacchiere sono degne di essere ascoltate, al punto che senza
96
Ivi, p. 25.
222
battere ciglio la duchessa ritorna alla propria attività. L’ingresso di “due negri” poi, evidentemente
due schiavi di cui non a caso viene fornita come unica connotazione quella “razziale”, provoca sulle
prime un certo turbamento nella scrittrice, dovuto al fatto di essere stata colta nell’atto di
provvedere alla propria cura mattutina, che però si dilegua ben presto a fronte della verosimile
ignoranza degli indigeni in materia. Laddove dunque, come rilevato da Sara Mills, la donna della
middle-class britannica nella colonia indiana, per poter far valere la propria indiscutibile supremazia
sulla popolazione indigena, tende ad assumere atteggiamenti e comportamenti propri di quella della
upper-class, l’estrazione aristocratica di partenza di Elena di Francia supporta la sua affermazione
individualistica e conferma la sua presunta superiorità.
Nei confronti degli indigeni, d’altronde, la posizione fatta propria dalla duchessa coincide
perfettamente con quella che abbiamo già visto assumere nel giro degli stessi anni ai viaggiatori
italiani in Africa, priva del pari di qualsiasi serio proposito comunicativo e conoscitivo. L’occhio
abbraccia in un unico sguardo ambiente e persone, e su queste ultime si sofferma solo qualora,
come nel passo seguente, possano concorrere a delineare un quadro interessante in quanto, ancora
una volta, pittoresco:
Questi gruppi di negri nudi, vicini al fuoco quanto più è possibile, parte coricati sur uno strato
di foglie verde tenero, parte appoggiati e stretti gli uni contro gli altri per tenersi caldi, fanno
un insieme pittoresco.97
In questa immagine, in effetti, l’attitudine imperialista che l’autrice rivela senza alcuna reticenza,
rappresentando se stessa intenta a mirare gli indigeni di fronte a lei da una posizione evidentemente
sopraelevata, è del tutto assimilabile a quella di tanti viaggiatori che abbiamo incontrato finora, colti
anch’essi nell’atto di affermare il proprio dominio (prima di tutto spirituale, poi anche fisico) sulla
popolazione autoctona anche con la semplice, ma affatto ingenua, imposizione di un particolare
sguardo su di essa. Allo stesso modo, non si discosta dalla visione maschile dominante la negazione
di un sia pur minimo livello di civiltà delle genti africane, laddove «nessuna rovina, nessun vestigio
indica un grado di vita superiore allo stato selvaggio in cui li vediamo ridotti anche oggidì».98
Il caso di Elena di Francia non può di certo essere considerato esemplare nel panorama delle
scritture di viaggio femminili rintracciabili in ambito coloniale italiano: la sua posizione sociale non
solo le permette di recarsi in Africa con l’unico fine di soddisfare una personalissima inclinazione
all’avventura, ma, di conseguenza, le garantisce anche completa autonomia di movimento
all’interno della colonia e soprattutto non fa altro che rafforzare, qualora se ne presenti l’occasione,
il naturale e condiviso senso di superiorità dei bianchi nei confronti delle popolazioni indigene. In
questo senso, anzi, il punto di vista femminile non scardina affatto pregiudizi e stereotipi già diffusi
97
98
Ivi, p. 38.
Ivi, p. 114.
223
dai contemporanei resoconti maschili, ma a questi si allinea, confermandone per lo più la presunta
credibilità. Nella sostanziale riproposizione di idee e motivi affatto originali, dai quali ancora una
volta deriva l’impressione di una netta separazione tra due universi difficilmente comunicanti, il
racconto della duchessa si distingue comunque per la marcata tensione individualista, cui
corrisponde la significativa assenza di ogni riferimento anche velatamente politico a propositi
nazionali di espansione e di conquista. In altre parole, anche laddove il testo non si rivela poi molto
diverso da quelli già passati in rassegna per il modo in cui l’autrice si rapporta alla realtà locale e ne
fornisce rappresentazione scritta, quest’ultima tuttavia è frutto di una visione personale in cui certo
giocano un ruolo fondamentale costruzioni discorsive già ampiamente circolanti (la stessa autrice fa
presente la mediazione letteraria del suo approccio al continente africano, che si avvale nello
specifico di numerose letture di testi di esploratori), ma che resta se non altro aliena da smaccati
intenti propagandistici.
4.2 La sospetta filantropia di Rosalia Pianavia-Vivaldi
È forse opportuno a questo punto ripetere che l’inclusione di resoconti di viaggio femminili
all’interno del nostro percorso e la specifica attenzione ad essi qui riservata non vuole in alcun
modo postulare la possibilità di rintracciarvi un punto di vista omogeneo e costante, da contrapporre
schematicamente a quello maschile predominante. Al contrario, come risulterà chiaro dall’esempio
che ci accingiamo a considerare, essi si rivelano spesso anche sensibilmente diversi l’uno dall’altro,
in ragione delle specifiche e variabili personalità e condizioni delle autrici in questione. Tuttavia, se
abbiamo ritenuto importante inserire voci femminili a completamento del nostro corpus di
riferimento è per il fatto che le generali condizioni storico-sociali in cui si inquadra il fenomeno
coloniale tout court, e italiano in particolare, si declinano per forza di cose in maniera almeno in
parte diversa per una categoria soggetta già in patria a peculiari vincoli di natura sociale e culturale.
Come abbiamo accennato, l’esperienza africana di Pianavia-Vivaldi si presenta già di per sé
diversa da quella di Elena d’Aosta: dopo aver accettato spontaneamente di accompagnare il marito
colonnello in Eritrea, la donna vi rimane per ben tre anni, durante i quali ha modo di interagire, in
maniera se non più profonda almeno più costante, con la popolazione locale, così come di stabilire
per se stessa un ruolo che va oltre quello della semplice visitatrice, e che tende invece ad assumere
un carattere performativo nei confronti della realtà di accoglienza. Una volta giunta in colonia, in
altre parole, la donna cerca di portare a compimento quella rivendicazione di autonomia
dall’universo maschile che è già implicita nell’insistita assunzione della responsabilità personale del
viaggio. Ovviamente, il fatto che il colonnello lasci a lei libera scelta in merito alla partenza
(ammesso che rispecchi la situazione reale) non può cancellare la realtà di una subordinazione insita
224
nel fatto di piegare comunque se stessa alle esigenze di carriera del marito. Tuttavia, proprio alla
luce di questo ineliminabile divario acquista un significato maggiore lo sforzo consapevole, che
l’autrice dimostra durante tutto il soggiorno, volto a costruire un’immagine di sé quanto più
possibile indipendente, senza per questo rigettare ma anzi assumendo in pieno su di sé i valori di
fedeltà e devozione alla patria.
Ancor una volta, sarebbe vano cercare nell’attitudine della donna segni di una maggiore
apertura, pratica ma prima di tutto mentale, nei confronti degli indigeni. Anche in Pianavia-Vivaldi,
appena arrivata a Massaua, l’entusiasmo si accende alla semplice presenza della folla locale,
osservata con la curiosità di una spettatrice di teatro:
Ciò però che dà la più pittoresca e la più viva intonazione all’ambiente, è la moltitudine
svariata che s’aggira sulla banchina, sulla diga, sulla spiaggia, facendo mostra di tipi d’ogni
razza, di vesti d’ogni colore, ed attendendo ai propri affari, colla calma caratteristica degli
orientali.99
A partire dall’immancabile uso dell’aggettivo “pittoresco”, che abbiamo ormai imparato ad
associare a una precisa modalità di guardare ciò che si ha di fronte solo in virtù delle sensazioni che
suscita, privandolo di ogni spessore reale, la descrizione dello “spettacolo” che si svolge sulla
banchina del porto è la stessa che abbiamo riscontrato diverse altre volte. Allo stesso modo, la
moglie del colonnello non si risparmia di inserire una nota del più spiccato orientalismo divulgativo
e di maniera, laddove, sulle rive del Mar Rosso, rileva la presenza di «quattro rematori negri che
sembrano usciti da un racconto della Sultana Sherazade».100
Anzi, a tratti le considerazioni della donna sembrano anticipare (tenendo presente che la stesura
del volume, come già accennato in nota, risale in realtà agli ultimi anni del XIX secolo), nella loro
insistente opposizione tra gruppi umani basata sul colore della pelle, quel progressivo emergere di
distinzioni razziali e razziste che abbiamo individuato come caratteristica del pensiero e della
propaganda coloniale dei primi anni del Novecento. Ecco allora che il fascino naturale della piana
di Ghinda, «spaziosa, verde e già in parte coltivata», non basta da solo a sostenere l’illusione di
trovarsi in Italia, irrimediabilmente spezzata dalla presenza degli indigeni che stona nell’ameno
quadro di riferimento: «Se non ci fossero i negri e i loro miseri tukùl, ci si potrebbe credere su
qualche lembo della madre patria».101 Persino all’interno del medesimo panorama umano abissino,
Pianavia-Vivaldi introduce distinzioni di tipo apparentemente sociale, ma che traggono esse stesse
origine da precise categorie razziali, in base alle quali l’autrice può riconoscere «uomini snelli,
eleganti, coi lineamenti regolari e la tinta chiara, anzi chiarissima in quelli di razza nobile, che non
99
Rosalia Pianavia-Vivaldi, Tre anni in Eritrea, Milano, L. F. Cogliati, 1901, p. 13.
Ivi, p. 15.
101
Ivi, p. 19.
100
225
hanno miscugli di sangue con razze inferiori».102 D’altronde, è anche vero che nell’accostarsi in
prevalenza a personaggi di alto rango l’autrice non fa altro che porsi sulla scia della tradizione già
inaugurata dai primi esploratori, per i quali il prestigio sociale rappresentava un fattore decisivo di
discriminazione all’interno della altrimenti omogenea comunità locale. Come questi ultimi, inoltre,
anche Pianavia-Vivaldi esprime, dietro l’apparente forma di ammirazione per alcuni capi locali che
incontra, un malcelato senso di superiorità evidente nel tono velatamente ironico delle sue
considerazioni:
per bellezza di forme, per maestosità ed eleganza d’incesso, colpiscono, interessano e fanno
ricordare i romani antichi. E che squisitezza di modi in questi e in altri abissini, specie di alto
lignaggio, di razza nobile! E quanto e come sono aristocratici, e fino a qual punto osservano le
regole della loro etichetta! Cozzanti con la nostra, diametralmente opposta…103
Non basta certo il riferimento agli antichi romani (il cui esempio sarà sfruttato, come abbiamo già
visto, in maniera opposta dalla propaganda per la conquista della Libia) a garantire una effettiva
nobilitazione dell’indigeno o tantomeno una sua possibile equiparazione all’uomo europeo del
medesimo rango. I puntini di sospensione che chiudono il passo stanno chiaramente a indicare la
relatività della nozione stessa di “nobiltà” quando applicata a soggetti di “razze inferiori”.
Fin qui, dunque, il diario della Vivaldi non spicca per originalità, anzi sembra porsi
adeguatamente a cavallo tra quel sapore esotico-orientalistico dei resoconti ottocenteschi, che
ancora condivide, e l’emergere di una più forte coscienza di contrapposizione razziale tra bianchi e
neri in colonia, di cui in parte anticipa i successivi sviluppi. Alcuni elementi, tuttavia, colpiscono,
nel racconto della donna, per la loro peculiarità: prima di tutto, il modo in cui la protagonista
reagisce alla vista di Dogali, dove pochi anni prima aveva avuto luogo la strage di alcuni reparti
militari italiani. Non è difficile immaginare che, moglie di un colonnello, l’autrice avesse avuto
accesso a notizie anche piuttosto dettagliate su quanto accaduto, tanto più che, come abbiamo detto
a suo tempo, l’eccidio di Dogali fece in patria scalpore, rappresentando per molti italiani il primo
contatto, mediato, con un’avventura coloniale di cui poco o nulla sapevano. Tuttavia, il trasporto
emotivo con cui Pianavia-Vivaldi rivive l’episodio e l’innalzamento retorico del brano dedicato alla
sua rievocazione lasciano intendere l’importanza che esso acquista in relazione all’intera opera:
Era il primo palpito doloroso che in Africa commoveva il mio cuore di donna italiana; e fu un
palpito concitato, angoscioso! Quelle croci sparse, quell’alto e funereo silenzio della deserta e
brulla campagna, con un tumulto di affetti e una vibrante verità, diedero vita e corpo nella mia
mente, alla breve ma gagliarda lotta quivi sostenuta; all’ardito entusiasmo di quel manipolo di
Italiani che, simili agli eroi delle Termopili, quivi sacrificarono amori, speranze e vita!
Sacrificio infruttuoso? … Nobile sempre. N’ebbi un palpito concitato, angoscioso; e da quelle
102
103
Ivi, p. 35.
Ivi, p. 48.
226
solitarie croci mi parve si sprigionasse il saluto che, per me italiana, essi mandavano alla
patria, alle loro famiglie!104
Quando giunge nella piana di Dogali, l’autrice è ancora sulla strada per l’Asmara, dunque da
pochissimo sbarcata in Africa e ancora del tutto ignara di quello che l’aspetta una volta arrivata alla
destinazione finale. Ma, nella rievocazione a posteriori del proprio viaggio, vuole evidentemente
“sfruttare” l’episodio per porre già in primo piano se stessa e la propria italianità. Il ricordo delle
luttuose vicende, infatti, strazia il suo cuore, si badi bene, non di semplice “italiana”, ma di “donna”
italiana e forse, sulla scia di Lombardi-Diop105, diremmo noi anche di “madre” italiana, che
rivendica implicitamente quella partecipazione alla vita politica che le era esclusa in patria. Lo
scontro, disastroso per le truppe italiane, addirittura si replica, con straordinaria potenza visionaria,
nella sua mente sovraeccitata (al punto che, forse di proposito, menziona due volte il “palpito”,
sempre “concitato” e “angoscioso” che la scuote). Infine, è significativa la completa mitizzazione
che, attraverso le sue parole, riceve quello stesso episodio che, per la prima volta, metteva in luce
contraddizioni, inadeguatezza e superficialità della politica italiana in Africa. È noto che l’eccidio di
Dogali fornì poi materiale utile ad alimentare il desiderio di rivincita sugli etiopi che sfocerà nella
battaglia di Adua; e in questo senso il paragone che la scrittrice fa con le Termopili non ha niente di
originale, anzi circolava ampiamente all’epoca tra l’opinione pubblica che voleva vedere nel
colonnello De Cristoforis un eroe paragonabile all’antico Leonida spartano. A colpire, piuttosto, è
la posizione di primo piano che l’autrice riserva a se stessa, la cui figura risalta sia in apertura che in
chiusura del brano: nel secondo caso Pianavia-Vivaldi si pone in prima persona al centro dello
scenario che descrive, immaginando di fare da tramite tra i combattenti morti e le loro famiglie in
patria. In altre parole, è esplicito l’intento di ritagliare per se stessa, ma possiamo legittimamente
ampliare il discorso a comprendere la donna italiana in genere, un ruolo specifico che possa essere
di supporto alla missione nazionale in Africa.
Non stupisce, in una simile prospettiva, che ancora più scopertamente l’autrice tenda poi ad
assumersi il compito di rieducare soprattutto le donne abissine, nei confronti delle quali la propria
superiorità razziale non deve essere nemmeno mediata dalla differenza di genere (come può
avvenire con gli indigeni uomini): non solo allora si arroga il diritto di giudicare con estrema
superficialità usi e costumi locali, ma considera, per esempio, di poter recare lei stessa un prezioso
servizio all’opera di civilizzazione promossa dalla propria nazione qualora riuscisse a debellare
l’uso del burro come cosmetico per i capelli, a causa del tremendo e persistente odore che emana!
104
Ivi, pp. 15-6.
Cfr. Cristina Lombardi-Diop, Mothering the nation. An Italian woman in colonial Eritrea, in Matteo Sante
(edited by), ItaliAfrica. Bridging continents and cultures, Stony Brook (NY), Forum Italicum Publishing, 2001, pp.
173-91. La studiosa interpreta la nozione di maternità, nel testo, come metafora ideologica della propaganda coloniale,
categoria simbolica indispensabile in quanto serve a supportare la costruzione di un’idea di nazione ancora in fieri.
105
227
Abbiamo visto come la donna indigena rivestisse senza dubbio una posizione di preminenza già
all’interno dei resoconti maschili di viaggiatori italiani in colonia, di volta in volta esaltata come
figura di Venere Nera, deplorata in quanto ritenuta di facili costumi, allontanata perché insistente e
fastidiosa, biasimata per le sue manifestazioni eccessive, e via dicendo. Anche nel testo di Vivaldi,
laddove scarsi e icastici sono i riferimenti ai neri, abbondano al contrario notazioni sulle donne,
dettate chiaramente da motivazioni diverse rispetto a quelle appena ricordate: donna lei stessa,
infatti, non può mancare di instaurare un confronto, il più delle volte implicito, con le indigene che
incontra, dal quale queste ultime escono immancabilmente sconfitte. Lungi dal suscitare, infatti, il
benché minimo fascino, esse infondono piuttosto ripugnanza mentre eseguono una danza del ventre
giudicata «grottesca e schifosa»; persino quando non può fare a meno di ammirarne, pur senza
particolari slanci, forme e portamento, l’autrice trova comunque il modo di inserire qualche
particolare atto a stroncare sul nascere ogni eventuale forma di apprezzamento:
le donne, piuttosto formose, dissimili dalle arabe flessuosamente slanciate, dal portamento
grazioso e provocante e drappeggiate sempre in modo scultorio. Ma arabe e abissine, benché
con molti ornamenti alle mani, ai polsi, alle caviglie, al collo, non si peritano di portare fute,
sciamma e camicioni quasi neri pel sudiciume […] La donna abissina giovane, pur essendo
bella e ben fatta, è però lenta, cascante nel camminare, e punto passionata.106
Anche qualora appartenente alla classe sociale più elevata, non per questo la donna indigena, come
avviene invece per gli uomini e specificamente per i capi locali, è degna di lode; anzi, viene in
questo caso duramente criticata per lo stile di vita che sostiene, «indolente e ciarliera, con uno
stuolo di ancelle intente a indovinare i suoi desideri e a servirla», trascorrendo pertanto un’esistenza
«senza aspirazioni, senza ideali, senza bisogni che spronino, senza soddisfazioni che rinvigoriscano
e che compensino».107
Uno dei punti su cui, infatti, Pianavia-Vivaldi torna a insistere più volte nel corso del testo è la
funzione che lei stessa si è ritagliata badando «al progresso della Colonia, al benessere degli
indigeni e al sostegno del prestigio italiano», curandosi cioè di servire la patria nella maniera più
adatta possibile anche alle esigenze locali, e avendo procurato di adattarsi appieno alle difficoltà
climatiche e ambientali in genere. La volontà di costruire per se stessa in quanto donna bianca un
ruolo all’interno della colonia passa allora attraverso la realizzazione di uno spazio dove poterlo
svolgere in maniera adeguata: si tratta necessariamente di un ambiente chiuso, una palazzina
all’Asmara dove, come rilevato giustamente da Loredana Polezzi, la donna può ricreare una propria
dimensione domestica persino in un luogo esteriormente connotato da barbarie e arretratezza:
106
107
Rosalia Pianavia-Vivaldi, Tre anni in Eritrea, cit., pp. 35, 57.
Ivi, p. 67.
228
Home-building is perceived, by herself and by others, as her primary feminine function, and
the role of the female settler is further marked by the accumulation of gender specific
commodities: flowers, kitchen, garden, the “salotto”, and, eminently, the first “cucina
economica” in Asmara.108
Ovviamente, il tentativo di attuare in colonia lo stesso stile di vita europeo, italiano nel caso
specifico, deve fare i conti con alcune differenze ineliminabili, che Pianavia-Vivaldi non può fare a
meno di annotare puntualmente, sia pure, come afferma, per dimostrare la propria straordinaria
capacità di adattamento. Si trova costretta, infatti, ad avere come cameriera personale una ragazza
di origine sudanese (e dunque di carnagione nera), e a doversi servire di un cavallo abissino, al
posto del tram cui è abituata, per spostarsi da un luogo all’altro; infine, nello stesso salotto da lei
approntato con tanta cura (di cui non a caso è inserita nel volume di ricordi una riproduzione
fotografica, in cui lei stessa compare) si trova nella condizione di poter ricevere non le solite
visitatrice dell’upper middle-class italiana, bensì fastidiose madame dai capelli unti. In altre parole,
il nuovo e il diverso, la cui esistenza si vorrebbe dimenticare e quasi negare se non altro tra le
quattro mura protettive del focolare domestico, si insinua comunque a turbare una costruzione “a
tavolino”, fragile nella sua astratta perfezione, inevitabilmente costretta a corrompersi una volta
sradicata dal proprio contesto di appartenenza.
Alla forma tuttavia più ravvicinata di contatto con un’“alterità” stavolta davvero impossibile da
negare nella sua fisica evidenza l’autrice dedica un capitolo tra gli ultimi del testo, dal titolo
significativo di “I miei bambini”. Si tratta propriamente di bimbi meticci, nati dall’unione di donne
indigene con italiani, la cui proliferazione, come abbiamo già accennato, inizia a impensierire
proprio in questi anni le autorità italiane, nel quadro di un generale stato di ansia crescente derivante
dalla consapevolezza sempre più marcata delle differenze razziali, ma anche appunto dei miscugli
di razze diverse. In questo frangente, davvero Pianavia-Vivaldi ha modo di espletare appieno la
propria funzione materna, assumendo su di sé il compito di sostenere l’attuazione di un progetto la
cui realizzazione sarà per lei fonte di immensa soddisfazione: dopo aver ottenuto il plauso del
governatore e l’assenso dei padri in Italia, cui comunica per iscritto i suoi propositi, riesce a far
nascere ad Asmara l’“Istituto degli Innocentini”, gestito dalle suore di s. Anna con aiuti finanziari
inviati dagli stessi padri e dalla carità privata e pubblica. Questo non vuol dire che la sua posizione
nei confronti dei meticci sia del tutto trasparente; al contrario, il capitolo si apre con un suo moto di
vero e proprio disgusto per quel «connubio fra il bianco e la nera» su cui evidentemente non aveva
fino ad allora fermato la propria attenzione, e le cui disastrose conseguenze ha ora di fronte agli
occhi. Eppure, passato il primo impulso di riprovazione morale per un comportamento giudicato
inopportuno, il sentimento che prende il sopravvento è la spontanea compassione per quei bambini
108
Loredana Polezzi, The mirror and the map. Italian women writing the colonial space, «Italian Studies», 61 (2),
Autumn 2006, p. 196.
229
innocenti, cui si unisce lo stupore, non privo di una significativa nota di biasimo, per l’abbandono
completo cui sono condannati:
Se in Africa noi siamo venuti per portare la civiltà; se si riscattano - con tributo - i piccoli
schiavi; se si raccolgono, si allevano, si alimentano i bambini neri abbandonati, aprendo
ricoveri e scuole per rigenerarli e avviarli al lavoro, all’operosità, all’onestà; se l’opera nostra
d’incivilimento deve far rifulgere i suoi benefici effetti su tutto e su tutti; se trascinati, talora,
da male inteso sentimentalismo, ci lasciamo andare per fino a delle esagerazioni; perché tenere
chiuso il cuore solo per queste innocenti creaturine di Dio, colpevoli solo d’avere il sangue
commisto al nostro? Perché offrire al nero lo spettacolo dei nostri figli abbandonati?109
Dopo aver riposto ogni sforzo nel tentativo di dimostrare piena assunzione del proprio ruolo
all’interno del più ampio moto di civilizzazione portato avanti dalla madrepatria, Pianavia-Vivaldi
sembra infatti non capacitarsi di una simile mancanza, e cogliere appieno le contraddizioni latenti
nella millantata missione umanitaria italiana. Senza dubbio, come sottolinea Loredana Polezzi, si
tratta di una critica quanto mai breve ed effimera110, eppure interessante proprio nella misura in cui
proviene da una donna che si mostra per altri versi perfettamente integrata nell’ottica
propagandistica della nazione, e si focalizza su un motivo destinato a breve a raggiungere un
rilevante grado di problematicità.
109
110
Rosalia Pianavia-Vivaldi, Tre anni in Eritrea, cit., p. 312.
Cfr. Loredana Polezzi, The mirror and the map, cit., pp. 198-9.
230
Capitolo IV
Fascismo e AOI: propaganda, mito, razzismo
“Allora era bello avere vent’anni,
voleva dire conoscere il senso di questa straordinaria ricchezza.
Miti, attese, nostalgie, questo era il mio mondo;
Tripoli, l’Etiopia […], il lago Tana, le Ambe, i Ras,
erano astrazioni inebrianti, calde, irresistibili.
La mia generazione è stata l’ultima che abbia vissuto un’idea romantica.
Nessuno che avesse un cuore volle rimanere a casa.
Tra il Po e l’Uebi Scebeli,
la mia generazione non ha avuto un momento di incertezza”.
(Ugo Franzolin, I giorni di El Alamein)
“As for turning things into objects:
Isn’t that the principal source of violence?”
(Christa Wolf, Cassandra)
1. L’impero coloniale fascista tra eredità liberali e spinte innovative
A cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, tutte le maggiori potenze europee,
soddisfatte delle condizioni sostanzialmente stabili di dominio raggiunte nei rispettivi possedimenti
coloniali, si impegnano al massimo per trarre i maggiori benefici possibili dalla situazione
vantaggiosa in cui si trovano, portando avanti una politica di consolidamento e soprattutto di
sfruttamento intensivo delle proprie colonie che raggiunge in questi anni i suoi indiscutibili vertici.
Diverso, ancora una volta, il caso italiano: come abbiamo ricordato nel precedente capitolo, la
giovane nazione aveva visto frustrate le proprie aspirazioni coloniali, rimanendo del tutto esclusa
dalla spartizione dei territori sottratti alle potenze uscite sconfitte dalla guerra (Germania e Impero
ottomano). L’estensione dei suoi possedimenti d’oltremare, in pratica, non si era affatto allargata
rispetto a quella antecedente il conflitto mondiale, e il controllo nella regione libica, in particolare,
dopo la breve ed effimera parentesi espansionistica del 1914, alla fine della guerra si limitava di
nuovo alle principali città costiere. Le forti accuse espresse da ogni parte, e soprattutto dai più
accesi circoli nazionalisti, contro la presunta incapacità del governo liberale di rappresentare
adeguatamente la posizione dell’Italia alla conferenza di pace di Versailles, e quindi di ottenere gli
auspicati riconoscimenti in ambito coloniale, contribuiscono d’altronde in maniera decisiva a
determinare il successo della posizione “revisionista” assunta con forza, dagli anni Venti in poi, dal
neonato partito fascista. Già nel 1922, infatti, il primo governo di coalizione guidato da Benito
Mussolini dà avvio alla riconquista della Libia, che vedrà negli anni un impiego di mezzi
quantitativamente e qualitativamente non paragonabile a nessuna delle campagne coloniali pre231
fasciste. La conquista dell’Etiopia, territorio mai del tutto escluso dalle mire espansionistiche
nazionali fin dai tempi di Adua, è l’ultimo e grandioso obiettivo del regime: perseguito e ottenuto
(in appena sette mesi, tra il 1935 e il 1936) a seguito di un’aggressione militare senza precedenti,
condannata pur senza effettive conseguenze dalla Società delle Nazioni, esso sancisce la creazione,
peraltro di breve durata, del tanto a lungo agognato impero coloniale italiano, espressione tangibile
e materializzazione definitiva di quella «politica di potenza e di prestigio nazionale»1 che Mussolini
aveva inaugurato già all’indomani della sua presa del potere.2
Sarebbe errato, com’è stato chiaramente dimostrato dagli storici moderni3, postulare una svolta
assoluta e radicale tra l’azione coloniale a lungo portata avanti dai governi liberali e le nuove mosse
giocate dal regime fascista sullo scacchiere africano: come abbiamo appositamente rilevato già
nell’introduzione al presente lavoro, proprio la semplicistica identificazione tra fascismo e
colonialismo − evidentemente resa possibile da un indebito ridimensionamento di tutta la stagione
coloniale antecedente − è stata peraltro responsabile di un’altrettanto riduttiva condanna del
secondo in quanto aspetto “accessorio” (forse nemmeno tra i più deplorevoli) del primo, agendo a
lungo da ostacolo a una più accurata e responsabile indagine del fenomeno coloniale italiano tout
court. In realtà, come abbiamo già messo in luce nel quadro storico di apertura al precedente
capitolo, a partire dai primi anni del Novecento la classe liberale al governo aveva finito per farsi
portavoce, sia pure dopo alcuni tentennamenti, delle rivendicazioni nazionaliste ed espansionistiche
condivise da strati sempre più ampi della popolazione. Essa sembrava dunque aver dato, con la
guerra alla Turchia per il possesso della Libia, nuova credibilità a quella politica coloniale incerta e
oscillante che aveva condotto, nell’opinione comune, alla sconfitta di Adua, sancendo la definitiva
uscita di scena di Francesco Crispi. Un inoltre non trascurabile elemento di affinità risiede nel fatto
che tanto il governo liberale negli anni Dieci quanto quello fascista negli anni Venti fanno leva su
una sconfitta, militare o morale che sia, per assicurare e cementare un diffuso consenso intorno alla
propria impresa. La disfatta di Adua, infatti, non aveva segnato, come ci si sarebbe potuti aspettare,
l’abbandono definitivo di una politica coloniale ancora agli esordi eppure già funestata da gravi
insuccessi, preludendo piuttosto a quell’impresa di Libia esplicitamente intesa a riaffermare il
proprio diritto a “un posto al sole”. Allo stesso modo, il misconoscimento, almeno in termini di
benefici territoriali, dei presunti meriti della giovane nazione, con la conseguente elaborazione del
fortunato tema della “vittoria mutilata”, ora non fa altro che riaccendere all’interno nuove spinte
espansionistiche e rinfocolare propositi di rivalsa mai del tutto sopiti.
1
Nicola Labanca, Oltremare, cit., p. 143.
Si veda almeno Ennio Di Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana: 1919-1933, Padova, CEDAM, 1960.
3
Si veda, in particolare, Angelo del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. II, La conquista dell’Impero, RomaBari, Laterza, 1979.
2
232
Proprio in questo senso, tuttavia, è più facile cogliere anche l’innegabile evoluzione che subisce,
in termini di concezione ideologica, lo stesso colonialismo nel momento in cui diviene punto di
forza della politica fascista:
per Mussolini la potenza coloniale e africana della nuova Italia risultava un fine strategico in
sé. Se Crispi o anche Giolitti andavano in Africa per dimostrare di essere una grande potenza,
l’Italia africana di Mussolini vi andò perché riteneva di essere una grande potenza, anzi un
impero.4
Non è dunque tanto sul piano materiale che il colonialismo fascista si distingue da quello
precedente, come a lungo si è voluto credere, tentando di ridimensionare o volutamente di rinnegare
crimini e atrocità compiuti in Libia, ad esempio, già durante la guerra italo-turca, per quanto forse
dovuti più a inesperienza e approssimazione che non pianificati con determinazione, come sarà nel
caso di Graziani, ai fini di compiere una drastica repressione della resistenza locale ad ogni livello.
L’aspetto di novità più significativo, che procede comunque a mio avviso più in direzione di un
approfondimento e, se vogliamo, di una radicalizzazione di tendenze già emerse negli anni
precedenti, sta piuttosto nella dimensione nuova che assume l’impresa coloniale a livello di
“massa”, grazie a un’accorta e mirata opera di propaganda condotta dal regime. È vero che, negli
stessi anni, un parallelo rafforzamento della propaganda si registra anche in Paesi quali la Francia e
l’Inghilterra, ma a partire da presupposti e motivazioni del tutto diversi: laddove esso si pone, in
Italia, come sintomo tra i più evidenti della centralizzazione politico-ideologica perseguita dal
fascismo, le altre nazioni si trovano invece nella condizione di far fronte alle prime spinte
autonomiste provenienti dalle colonie, oltre che a una nuova forma di apertura all’interno della
stessa madrepatria verso le culture “altre”.
1.1 Propaganda e letteratura: un connubio irrealizzato
Con il consueto sfasamento temporale, dunque, quello di consolidare la “coscienza coloniale”
degli italiani diviene uno degli scopi fondamentali della politica mussoliniana fin dal suo avvio, per
raggiungere il quale viene potenziata tutta la macchina culturale della nazione, con mezzi che vanno
dall’istituzione della “Giornata coloniale” all’organizzazione sempre più frequente di Convegni di
studi in materia. Soprattutto, per quanto destinato a non raggiungere mai i risultati sperati, uno
sforzo singolare è posto nel tentativo di orientare la produzione specificamente letteraria, dopo il
prezioso contributo che alla causa coloniale avevano già dato scrittori del calibro di Pascoli,
D’Annunzio e Marinetti. Il fascismo, in questo senso, sembra voler puntare su un ampio spettro di
scrittori in senso lato, soprattutto giornalisti ma anche militari e uomini politici, attraverso i quali
poter diffondere con nuova forza, e maggiore capacità di penetrazione capillare, il tema della
4
Nicola Labanca, Oltremare, cit., p. 152.
233
missione imperiale e civilizzatrice assunta dalla nazione.5 Rientra in quest’ottica la nascita, nel
1926, della rivista «Oltremare», con lo specifico fine di promuovere un nuovo tipo di letteratura
coloniale, in grado di affrancarsi dalle atmosfere esotiche e misteriose alla Pierre Loti, assumendosi
invece il compito di fornire una rappresentazione più concreta e consapevole della svolta segnata
dal fascismo nell’impresa africana:
Non un semplice progetto, una manovra politico-culturale alla ricerca di consenso, ma una
questione vitale per l’intero Paese, ancora privo di una solida identità nazionale, una querelle
che impegna scrittori e giornalisti, storici e uomini politici.6
Il referendum promosso dall’«Azione coloniale» nel 1931, di cui abbiamo già parlato nel primo
capitolo, è un chiaro indice del fallimento di una politica culturale che, nell’ottica del suo ideatore e
promotore, avrebbe dovuto culminare nella realizzazione di una produzione letteraria pedagogica e
realista, in grado di agire da sostegno ideologico fondamentale all’imperialismo. I numerosi autori
di romanzi, tra cui Mario Dei Gaslini, Giorgio Mitrano Sani, Vittorio Tedesco Zammarano non
riescono prima di tutto a seguire fino in fondo le direttive imposte loro dall’alto, e a liberare dunque
le proprie opere dal fascino esotico suscitato dalla terra africana; ma soprattutto si trovano
nell’impossibilità di adeguare una visione “strapaesana” dell’Africa come terra autentica e
incorrotta (messa peraltro in campo per rispondere alle aspettative del regime) con la progressiva
affermazione in patria di una prospettiva marcatamente razzista, culminante con le teorie
eugenetiche e la nuova legislazione contro il meticciato emanata nella seconda metà degli anni
Trenta. D’altronde, in una prospettiva più ampia, le contraddizioni sono interne alle stesse scelte
culturali del regime, conseguenza di un’irrisolta oscillazione tra cultura tradizionale e moderna, tra
elogio della genuinità ed esaltazione della tecnica che, com’è noto, caratterizza la posizione di
Mussolini anche nei confronti dell’arte.7
Non stupisce, dunque, che, per quanto molto più massiccia e organizzata di quella messa in atto
dai governi di età liberale, la propaganda coloniale non riesca mai a sortire davvero quegli esiti
radicali auspicati dal regime, nemmeno nel momento in cui ne ha di certo notevole bisogno, ossia
nella preparazione dell’aggressione all’Etiopia. 8 Anche in questo caso, infatti, un’attenzione
specifica viene riservata alla costruzione “ideologica” della guerra, al punto che, tra il 1934 e il
1935, viene creato un Sottosegretariato e poi un vero e proprio Ministero per la Stampa e la
5
Si veda Giovanna Tomasello, L’Africa tra mito e realtà, cit.
Monica Venturini, Controcànone. Per una cartografia della scrittura coloniale e postcoloniale italiana, cit., p. 28.
7
Cfr. Adolfo Mignemi (a cura di), Immagine coordinata per un impero: Etiopia 1935-36, Torino, Forma, 1984.
8
Cfr. Marco Giuman, Nigra subucula induti. Immagine, classicità e questione della razza nella propaganda
dell’Italia fascista, Padova, CLEUP, 2011. Per una visione generale delle diverse questioni aperte dalla conquista
dell’Etiopia si veda Riccardo Bottoni (a cura di), L’Impero fascista: Italia ed Etiopia, 1935-1941, Bologna, Il Mulino,
2008, in cui i diversi contributi raccolti forniscono un quadro prezioso delle problematiche storiche, politiche, letterarie,
sociali e antropologiche legate alla formazione dell’Impero.
6
234
Propaganda − diretto non a caso da Galeazzo Ciano, braccio destro del Duce − volto a cementare
consenso intorno all’imminente impresa. Cercando di fare leva sull’orgoglio nazionalistico offeso
dal comportamento irrispettoso delle altre nazioni e sulla presunta barbarie dell’Etiopia stessa
dipinta come un Paese arretrato e schiavista, la propaganda dell’età dell’Impero unisce a vecchi e
consunti stereotipi una nuova accentuazione classicistica, volta all’esaltazione della Roma antica,
oltre che sempre più espressamente razzista, tesa al riconoscimento di una supremazia specifica
della stirpe italica. Tuttavia, come abbiamo detto, nonostante la messa in campo di un efficiente e
capillare sistema di comunicazione, il messaggio colonialista mussoliniano riesce a suscitare
un’adesione comunque sempre parziale e contraddittoria, vuoi per la palese insostenibilità dei molti
miti prospettati, vuoi anche per la breve tenuta dell’impero stesso, che non consente l’agognato
consolidamento di una coscienza coloniale di massa (favorendo piuttosto quella rimozione postcoloniale da cui il presente lavoro ha preso avvio). Questo non vuol dire, peraltro, che esso non
abbia effettivamente attecchito, sia pure con diversi livelli di profondità e di consapevolezza, nei
vari “operatori culturali” del periodo, e che non sia dunque oltremodo utile e interessante andarne a
ricostruire, all’interno dei testi di viaggio che costituiscono l’oggetto privilegiato di questa ricerca,
echi e declinazioni, soprattutto alla luce di temi e attitudini riscontrati finora negli autori delle
generazioni precedenti.
2. Verso una nuova mentalità coloniale
L’enfasi posta dal regime fascista sulla centralità della questione coloniale, nei suoi risvolti sia
politico-militari che ideologico-letterari, non si pone di certo in contrasto, anzi in parte favorisce, il
parallelo proliferare di viaggi nel continente africano. Tra gli anni Venti e Trenta, infatti, il numero
di pubblicazioni dedicate a resoconti di itinerari africani raggiunge forse il suo picco più alto, anche
in conseguenza del sostanziale miglioramento delle stesse condizioni di viaggio. Non si tratta più,
molto spesso, di dover attraversare a piedi o con mezzi locali quanto mai precari intere regioni
ancora in gran parte sconosciute; ormai, il percorso in carovana rappresenta più un vezzo che una
reale necessità laddove, come vedremo, la costruzione di moderne infrastrutture, in particolare
ferroviarie, consente ai viaggiatori di questi anni di muoversi tranquillamente, e anche piuttosto
rapidamente, da una parte all’altra delle colonie, e di spingersi talora anche più all’interno. La
regione etiopica, su cui d’altronde sempre più insistenti e concrete si fanno le mire espansionistiche
del regime, si impone senza dubbio come la meta prediletta, raggiungibile facilmente passando
attraverso quella colonia primigenia, l’Eritrea, che oramai è sempre più considerata come estrema
propaggine del territorio nazionale. Non mancano, al tempo stesso, itinerari volti non più tanto a
esplorare, quanto a fornire notizie sullo stato di penetrazione italiana in Libia, in quella “quarta
235
sponda” che costituisce d’altronde il primo teatro su cui il fascismo dispiega senza mezzi termini la
propria macchina militare, intenzionato a far davvero rivivere in esso, secondo gli auspici già propri
dei governi liberali, gli antichi fasti della Roma imperiale.
Non stupisce allora che alcuni dei resoconti di viaggio scritti e stampati in questo frangente
rechino talora nel paratesto, e più precisamente nella prefazione, la firma di noti personaggi
strettamente connessi all’ambiente di governo; i quali evidentemente, giudicando i testi in questione
particolarmente adatti a far circolare presso un pubblico più ampio quei presupposti ideologici
indispensabili a garantire adesione alle nuove imprese coloniali, non disdegnano di elogiarne in
prima persona i presunti meriti. Così, ad esempio, Roberto Farinacci redige la prefazione al volume,
«suggello di valorizzazione e di divulgazione»9 pubblicato nel 1927, che raccoglie le note della
missione condotta da Corni, Calciati e Bracciani in Eritrea tra il ’22 e il ’23: alla luce dell’odierna
lungimirante politica fascista vanno infatti, nella concezione del gerarca, corrette le false opinioni
del passato, e dunque patrocinate simili esplorazioni che, animate da fini scientifici, possano aiutare
a rivalutare un territorio troppo a lungo non tenuto nella giusta considerazione. Ad emergere
soprattutto dalle parole di Farinacci è, allora, la millantata incompatibilità tra la vocazione del
popolo italiano all’espansione, evidente nella sua storia millenaria, e la sua attuale refrattarietà ad
accogliere e fare proprie le nuove istanze imperialistiche della nazione:
È doloroso dover constatare che un popolo come il nostro, il quale è stato maestro al mondo
anche in fatto di colonizzazione, con Roma prima e poscia colle Repubbliche marinare del
Medio Evo e che ha dato all’umanità i più celebri ed arditi esploratori da Marco Polo in poi,
non possiede ancora quella coscienza politica per cui i problemi che riguardano le questioni
coloniali sono problemi di costante attualità, di eccezionale importanza che interessano in
sommo grado non solo gli specialisti in materia e gli uomini di governo, ma anche la grande
massa dei cittadini.10
Ciò di cui si lamenta la mancanza è dunque la diffusa consapevolezza dell’importanza da annettere
al ruolo dell’Italia nel novero delle nazioni coloniali: in quest’ottica, allora, i resoconti di
esplorazioni compiute in terra africana possono se non altro sperare di sollevare nuovo interesse
intorno alla questione, tanto più se i loro protagonisti e narratori, come nel caso di Calciati e
Bracciani, si distinguono per «affinità di ideali, alto sentimento patriottico, desiderio di giovare
ancora alla patria».11
Simili ragioni spingono Arnaldo Mussolini, fratello minore del Duce e allora direttore del
«Popolo d’Italia», a firmare una sorta di lettera-prefazione di accompagnamento al testo redatto nel
1931 da Federico Ravagli, giornalista e scrittore. Lo scenario è almeno in parte diverso, se non altro
geograficamente, dal momento che il territorio percorso, e poi divenuto oggetto di trattazione nel
9
Cesare Calciati, Luigi Bracciani, Nel paese dei Cunama, Milano, Società Editrice Unitas, 1927, p. X.
Ivi, p. VII.
11
Ivi, p. VIII.
10
236
testo, è questa volta la Libia. Ma non è sulla specificità della regione che il giornalista intende
richiamare l’attenzione, quanto sull’adeguatezza dei contenuti dell’opera rispetto agli intenti politici
del governo, cui evidentemente essa può fornire utile e prezioso supporto:
Tutto vi è descritto con conoscenza profonda; in modo speciale le vicende della gente di colore
e l’operosità delle popolazioni di razza bianca che valorizzano e potenziano il continente nero.
Tra queste ultime, in primo piano, vi sono gli Italiani. I suoi chiari accenni alla possibilità di un
nostro popolamento e di uno sfruttamento della Colonia libica, contengono delle verità, che
gioveranno ai fini della nostra penetrazione e del nostro sviluppo in Africa.12
Il passo è costruito con scrupolosa attenzione, allo scopo esplicito di fare intendere come la
veridicità delle notizie e dei racconti riportati da Ravagli possa di per sé fungere da garanzia alla
parallela veridicità delle sue conclusioni, che vanno nella direzione di una legittimazione assoluta
del dominio italiano in Libia. In effetti, come vedremo nel corso del capitolo, l’autore è di certo tra
coloro che più insistono sull’opportunità di uno sfruttamento rigoroso del territorio e sulle migliorie
già apportate da quella che viene salutata come una nuova grandiosa era della colonizzazione
italiana. Ad emergere in maniera di certo meno evidente, tuttavia, è quella «conoscenza profonda»
della colonia che gli viene attribuita, e che pure doveva in effetti poggiare su basi concrete, dal
momento che Ravagli non si limita a compiere in Libia un breve viaggio esplorativo, bensì vi
soggiorna per alcuni anni durante i quali lavora come insegnante nel liceo italiano di Tripoli.
Eppure, se volessimo giudicare della consistenza e almeno apparente profondità delle informazioni
fornite, esse non si discostano nella sostanza da quelle rintracciabili nella maggior parte dei
resoconti contemporanei: anzi, per quanto gli altri si riferiscano nella quasi totalità a una regione
diversa, eritreo-etiopica o talora somala, le considerazioni sono facilmente sovrapponibili in forza
della loro evidente uniformità di presupposti e di intenti. In particolare, non mi sembra che ci sia
davvero traccia, nel testo di Ravagli, delle «vicende della gente di colore» menzionate nella
prefazione, a meno che non vogliamo considerare volutamente ossimorica l’espressione di A.
Mussolini, laddove in effetti l’autore dell’opera assume, sin dalla prima pagina del testo, un
atteggiamento più che esplicito a riguardo:
E poi in queste contrade mediterranee, oggi nascenti a vita novella per l’attività prodigiosa che
la nostra civiltà latina va svolgendo con ritmo sempre più celere e incessante, la razza nera
quasi non appare. Gente senza nome e senza storia, essa ha dato un minimo contributo di opere
alle popolazioni della Libia, le quali han creato oasi floride, boschi d’ulivi, prosperosi giardini;
e oggi sono a noi di ausilio prezioso, per quanto insufficiente, nei lavori di avvaloramento
agrario.13
12
Federico Ravagli, Sulle soglie del Continente nero. Tripolitania, Sirtica, Tunisia, Tripoli, Plinio Maggi, 1931, pp.
IX-X.
13
Ivi, pp. XXIII-IV.
237
Non c’è dubbio che il primo piano sia riservato agli italiani, e all’opera di ammodernamento sulla
via della civiltà che essi stanno portando avanti in colonia. Quantomeno rapido, tuttavia, il quadro
delineato della presenza indigena, e tutto costruito in negativo: con una sottile distinzione tra razza
nera e popolazione libica, peraltro pretestuosa, alla prima viene persino negata una sua esistenza
reale, dal momento che manca dei due requisiti fondamentali a garantirla, ossia un proprio nome e
una propria storia;14 alla seconda vengono al contrario riconosciuti alcuni apporti preziosi, per
quanto anch’essa possa ormai, senza che ne sia spiegato il motivo, dare ben poco supporto ai lavori
messi in atto dalla moderna colonizzazione agraria italiana. Senza dubbio, dunque, Ravagli mette in
luce l’operosità apportata dall’intervento della razza bianca non preoccupandosi affatto, tuttavia, di
bilanciarla, come le parole introduttive di A. Mussolini volevano lasciar intendere, con una
adeguata rappresentazione delle “vicende” della popolazione indigena, nei confronti della quale
l’autore non mostra il benché minimo interesse documentario.
2.1 Senso di missione personale e collettiva
Come già lasciano intuire i brevi passi appena presentati, al centro delle ricostruzioni di viaggio
redatte negli anni dell’espansione coloniale fascista è senza dubbio quell’orgoglio nazionale che, a
lungo trattenuto entro i margini ristretti consentiti da una politica estera incerta e spesso
contraddittoria, trova finalmente il terreno adatto su cui estendersi senza più costrizioni. Si tratta,
ovviamente, di un processo di acquisizione progressiva, che abbiamo visto passare attraverso una
prima fase di consolidamento parallela alla conquista della Libia: laddove, infatti, gli esploratori
dell’Ottocento tendono ancora a contrapporre agli indigeni africani una generica “razza bianca” o
europea tout court, essa viene gradualmente sostituita, nel nuovo secolo, da riferimenti specifici alla
stirpe italica. D’altronde, non poteva essere diversamente, dal momento che proprio l’affermarsi di
spinte nazionalistiche è alla base del nuovo impulso all’espansione che abbiamo visto sfociare nella
guerra italo-turca, dalla cui matrice ideologica di fondo il regime eredita direttamente il mito della
Roma imperiale, sfruttato ad hoc con nuova enfasi retorica.
Posizionandosi nel solco di questa avviata tradizione, i resoconti che si dispongono lungo l’arco
del ventennio fascista si distinguono, tuttavia, per la nuova consapevolezza che i loro autori
dimostrano dello specifico ruolo, collettivo ma vissuto anche in senso spiccatamente personale, che
l’Italia è ormai perfettamente in grado di svolgere in quella terra africana destinata a trasformarsi
sotto la nuova egida colonizzatrice: non solo, infatti, è qui ormai sicura padrona al pari delle altre
nazioni europee, ma tra queste ultime spicca in forza di una sua evidente supremazia etica (motivo
che, come abbiamo visto, sarà destinato a fuorviare per lungo tempo una corretta ricostruzione
14
Giudizio peraltro affatto nuovo, se pensiamo che a definire l’Africa intera come un continente senza storia era
stato già Hegel, nel 1834, nella sua Fenomenologia dello spirito.
238
storica degli eventi passati). Anche il vecchio tema del contrasto tra civiltà e barbarie, che abbiamo
visto operante con significativa insistenza e con sottili varianti interpretative nei resoconti già
ottocenteschi, può essere in questo senso piegato alle esigenze di esaltazione di una particolare
civiltà, quella italiana appunto. Così nelle parole dello stesso Ravagli:
Un popolo è e dev’essere considerato barbaro quando si sottrae ai doveri della civiltà. I secoli
e i millenni di tormento dello spirito danno a una nazione il diritto di diffondere la propria
civiltà. La nostra gloriosa antichissima storia e l’attuale dimostrazione delle nostre inesauribili
risorse di popolo civile, ci dan bene il diritto al riconoscimento sostanziale di un posto più
elevato nella gerarchia delle nazioni colonizzatrici.15
La barbarie, allora, sembra essere una scelta volontaria, consistente nel rifiuto ad accogliere gli
apporti della civiltà, la quale ha a sua volta, per sua stessa natura, il dovere “morale” di espandersi
al di fuori dei propri confini.
Particolarmente funzionale, in quest’ottica, all’immagine positiva degli italiani in colonia che si
intende veicolare, è inoltre l’elogio dell’attività missionaria, purché essa sia insieme cattolica e
italiana, che fornisce allo stesso Calciati uno spunto prezioso per diffondersi in un’altisonante
retorica di esaltazione nazionale:
C’è proprio da essere orgogliosi, e come Cattolici e come Italiani, quando s’incontrano questi
uomini semplici, spinti dal nobile impulso di una fede sublime, a migliaia e migliaia di
chilometri dalle loro case, in luoghi isolati ed inospitali, privi spesso di ogni più piccola
comodità […] eppur sempre sereni, operosi e fattivi, fattivi al punto da creare dal nulla veri
centri di bontà disinteressata, di italianità indiscutibile, di vero progresso! Chi si è mai curato
di conoscere a fondo tutti gli ardimenti e tutti gli eroismi compiuti da questi oscuri combattenti
di Roma eterna, sparsi in tutto il Mondo, arma incruenta, ma poderosa, di una colossale
penetrazione pacifica che precedette spesso i più arditi esploratori e che ottenne ben più, a
traverso i secoli, che non tutte le terribili e sempre effimere guerre di conquista in nome del
progresso… civile?16
Numerosi viaggiatori dell’Ottocento si erano imbattuti, lungo il proprio percorso, nella realtà delle
missioni religiose, già ampiamente radicate sul territorio fin dai tempi delle prime esplorazioni; e
sebbene, talvolta, la fede nell’Islam venisse semplicisticamente individuata come una delle ragioni
principali dell’arretratezza e dell’immoralità degli indigeni, al tempo stesso la religione cristiana
veniva anche, senza eccessiva ipocrisia, indicata come un mezzo per raggiungere il più o meno
esplicito fine del loro asservimento. Qui, invece, l’autore delinea un ritratto della missione cattolica
italiana talmente intriso di immagini idilliche e precostituite da apparire quanto mai esagerato e
falso: i missionari vengono dipinti come costretti a vivere in una situazione di assoluti disagio e
precarietà che, senza dubbio vera nel secolo precedente, non era di certo più tale, almeno nella
maggioranza dei casi, a questa altezza cronologica. Inoltre, essi vengono nello specifico presentati
15
16
Federico Ravagli, Sulle soglie del Continente nero, cit., p. 156.
Cesare Calciati, Luigi Bracciani, Nel paese dei Cunama, cit., p. 57.
239
come veri e propri “paladini” della cristianità nel mondo fin dai tempi più antichi, e dunque i più
degni rappresentanti non solo della carità evangelica, ma anche non a caso della stirpe italica, in
grado dunque di farsi garanti di una penetrazione massiccia, ma pacifica: ad essere postulata
dall’autore è, in altre parole, una fiduciosa quanto improbabile identificazione tra missionari e
colonizzatori italiani, che evidentemente ha ben pochi sostegni su cui reggersi.
Essa è tuttavia perfettamente coerente con l’idea più generale che Calciati, così come peraltro
pressoché tutti i viaggiatori di questi stessi anni, intende comunicare, ossia quella di un’Africa come
possesso al tempo stesso personale e nazionale, di cui ogni italiano, grazie agli sforzi compiuti dalla
Patria, può e deve essere fiero. Solo in quest’ottica acquista significato anche l’auto-esaltazione
eroica che traspare, ad esempio, dalle parole di Guelfo Civinini, altro giornalista piuttosto noto
all’epoca, già corrispondente di guerra in Libia per conto del «Corriere della Sera», fervente
nazionalista e poi entusiasta aderente al partito fascista. Anche in Africa orientale egli aveva già
compiuto diversi viaggi, soprattutto sulle orme dell’esploratore Bottego (che in quelle terre aveva
trovato la morte), quando, tra il 1924 e il 1926, attraversa con una carovana l’Abissinia da sud a
ovest. Nei suoi ricordi dell’impresa, che sono organizzati più in forma di giustapposizione di quadri
e di episodi ritenuti significativi che non effettivamente scanditi cronologicamente a ripercorrere
l’itinerario compiuto, manca ogni accenno a fatiche, pericoli, belve feroci, siccità, agguati, guadi di
fiumi, insomma a tutta quella serie di difficoltà che rendevano di certo più avventuroso e rischioso
il viaggio ottocentesco, ma che nutrivano del pari la sua messa per iscritto. Nella ricostruzione di
Civinini, al contrario, lo scenario è sereno, appagante, idillico, ma proprio per questo ancora più
adeguato a far risaltare, per contrasto, la figura dell’uomo italiano che tutto domina:
Siete solo e libero, in quell’assorta serenità, e padrone di essere quel che volete. Sul suolo che
pestate non c’è altro «rumore» che quello dei vostri passi: il resto è fruscio. Anche gli uomini
che vi seguono non dàn suono coi loro piedi scalzi, non sono uomini, ma dettagli di paesaggio,
come i cercopitechi e le gazze fra i rami di boscaglia. Voi solo vi sentite nota d’umanità, che
rompe ferisce sconvolge l’immobile silenziosa armonia d’alberi d’acque di roccie e di cielo
rimasti nella verginità del tempo in cui furon creati. Talora pensate che è un peccato, una
stonatura, ma vi piace appunto per questo. Creatura d’altro mondo tutto rumore e travaglio, vi
sentite ora come riportato al principio della lunga fuga di secoli dalla cui fatica siete stato
generato, e vi ci sentite bene come in un placido sogno. Pensate allora che v’aspetta laggiù,
dove stamani non c’era nulla, un piccolo mondo umano creato da voi, trascinato da voi
attraverso monti e valli, di solitudine in solitudine, dove tutto obbedisce alla vostra volontà, al
vostro gusto, alla vostra norma - senza altro limite oltre quello che può segnare solo il vostro
destino, unica volontà che sia sopra la vostra.17
Notazione interessante, che salta subito agli occhi, è l’uso del soggetto di seconda persona: è chiaro
che l’autore sta qui descrivendo una condizione, e delle sensazioni, che, per lo meno nella finzione
17
Guelfo Civinini, Ricordi di carovana. Abissinia Settentrionale 1924, Abissinia Occidentale 1926, Milano,
Mondadori, 1933, pp. 85-6.
240
narrativa sottesa alla propria ricostruzione autobiografica, è stato lui stesso a vivere in prima
persona. Tuttavia, la scelta di inserire come soggetto del brano il potenziale lettore del testo non è di
certo casuale, in quanto contribuisce senza dubbio a coinvolgerlo da vicino, e a trasporre
direttamente su di lui quella sorta di “delirio di onnipotenza” che Civinini vuole qui rappresentare.
La figura che campeggia al centro della scena ha, infatti, le caratteristiche del “superuomo” colto
nell’atto della piena manifestazione della propria volontà di potenza: egli non ode altro suono
all’infuori di quello dei propri passi, al punto che gli indigeni dietro di lui, i cui piedi nudi non
fanno rumore, non sono nemmeno considerati esseri umani, ma semplici “accessori” del paesaggio
circostante. Non si tratta, ovviamente, di una constatazione di per sé nuova: abbiamo sottolineato
più volte come la svalutazione della razza nera passi anche attraverso la sua più completa
disumanizzazione, e riduzione al rango animalesco. Originale è, tuttavia, il modo in cui essa viene
presentata, in quanto è effettivamente solo un dettaglio che concorre all’affermazione, già di per sé
concepita in termini assolutistici, del connazionale in colonia: in altre parole, l’accento non è posto
sull’inferiorità della popolazione locale, cui se vogliamo viene riservata ancora meno importanza,
bensì sull’indiscussa centralità dell’uomo italiano, cui ogni elemento esterno per forza si piega.
Nuova è anche la descrizione dell’impatto che l’uomo, vero e proprio eroe civilizzatore, ha sul
paesaggio, nei confronti del quale sembra mettere in atto una forma di violazione della sua purezza
originaria, di quella innocenza che abbiamo visto tanto spesso esaltata come panacea contro la
corruzione della modernità. Qui, tuttavia, lo spirito infuso dall’uomo su tutto ciò che lo circonda è sì
violento e perturbatore, ma non per questo illegittimo o inadeguato, ché anzi proprio il senso di
essere fuori luogo è solo momentaneo: l’intervento performativo del colonizzatore è in grado,
infatti, di ricreare anche dal nulla e in mezzo al nulla un microcosmo che ha in lui il suo unico
padrone, alle cui leggi unicamente obbedisce.
È innegabile, nel brano appena discusso, l’innesto di un tono chiaramente rinnovato su contenuti
affatto originali: ciò che l’autore intende comunicare, avvalendosi di una estrema perizia retorica, è
la nuova posizione dell’uomo italiano, fascisticamente inteso come padrone assoluto di tutto ciò
che, in forza della propria volontà, è in grado di sottomettere, e che soprattutto è giunto finalmente
ad avere coscienza piena e matura del proprio ruolo. D’altronde, a testimonianza innegabile
dell’impatto che la propaganda di regime ha su tutta una nuova generazione di scrittori e viaggiatori
in Africa è il fatto che le parole di Civinini restano tutt’altro che isolate. Pochi anni dopo il suo
rientro dall’Abissinia, infatti, un’altra spedizione attraversa sostanzialmente lo stesso territorio,
intrapresa da Roberto Asinari di San Marzano con l’intento di studiarne la geografia e soprattutto le
risorse minerarie, in un’ormai esplicita ottica di sfruttamento coloniale. In realtà, lo scopo
“scientifico” della missione appare, nell’economia del racconto, del tutto collaterale all’impresa,
241
laddove invece la narrazione viene a focalizzarsi ancora una volta sull’autore-protagonista, il quale
traspone in prima persona la sensazione di onnipotenza nei confronti della natura circostante che
abbiamo appena visto agire in Civinini:
Mi trovo finalmente solo col mio piccolo e strano esercito e forse non devoto, al quale è legato
per qualche mese il mio destino. Un po’ di malinconia e molta soddisfazione. Nella maestosa e
immensa solitudine, pur sentendomi piccino per l’isolamento, ho la sensazione di essere il solo
padrone della natura che mi circonda.18
La consonanza di idee e di sensazioni espresse nei due brani è davvero notevole, per quanto in
quest’ultimo caso esse risultino più facilmente isolabili, e forse dunque più immediatamente
evidenti, grazie a una sottile riduzione di quell’apparato retorico di abbellimento del discorso che
Civinini sfrutta senza riserve. Di San Marzano insiste sugli stessi concetti chiave, riproducendo la
medesima immagine di solitudine maestosa che, al tempo stesso, è garanzia di assoluta padronanza
su cose e persone. Anche qui, infatti, l’accenno ai soldati indigeni cui l’autore si accompagna indica
una presenza umana che, tuttavia, non mette in alcun modo in discussione la supremazia assoluta
del soggetto protagonista, e che funge solo da testimone passivo e inerte del suo stesso delirio di
onnipotenza. Poco più avanti nel testo, e precisamente nel momento in cui si trova a trascorrere la
prima notte nella boscaglia con la propria carovana, Di San Marzano sembra per un attimo cedere
alla tentazione di lasciarsi andare allo sconforto, irretito nelle strette maglie della nostalgia degli
affetti e della Patria lontana. Ma a ben vedere, l’evocazione della casa e della famiglia risulta un
mero pretesto, lo spunto necessario per tornare a insistere con rinnovata enfasi sulla propria
missione:
Penso: ebbi in guerra il comando del mio piccolo reparto di fronte al nemico, onore e dignità
supremi per un soldato: allora mi ero sentito un capo, il primo tra i miei eguali nel dovere. Ora
sono il padrone nell’esercizio di un potere assoluto, l’arbitro tra uomini da me diversi ed
inferiori e il nemico è rappresentato dall’ignoto, dal multiforme pericolo, dall’insidia della
natura, dall’incognito che vado ad affrontare. In queste considerazioni il piccolo spazio
racchiuso nella mia tenda mi sembra un posto di comando di tanta potenza che mi inorgoglisce
e mi esalta.19
Alla luce della passata esperienza di guerra, in cui pure si era trovato a guidare un manipolo di
soldati a lui sottomessi e da lui in qualche modo dipendenti, la situazione presente acquista tuttavia
una singolarità ancora maggiore che, nota interessante, sembra derivare specificamente dalla
diversa “qualità” degli uomini che lo circondano. Al comando di truppe italiane, infatti, la sua
posizione di preminenza si imponeva solo in forza di un più alto grado gerarchico all’interno del
sistema militare, assumendo dunque un carattere del tutto transitorio e contingente: si trattava, in
18
19
Roberto Asinari Di San Marzano, Dal Giuba al Margherita, Roma, L’Azione coloniale, 1935, p. 12.
Ivi, p. 25.
242
altre parole, di una “sovranità” sempre e comunque delimitata e contenuta nel suo stesso esercizio
dalla presenza dell’altro, che lo rendeva un primus inter pares. In Africa, al contrario, laddove ad
essere sottomessi alla sua volontà e alle sue decisioni non sono più i connazionali, bensì indigeni
“diversi e inferiori”, il potere diviene allora assoluto, si libera da ogni remora e da ogni costrizione
e, lungi dall’intimorire colui che lo detiene, ne potenzia l’onore e ne esalta la fierezza. Non mi
sembra necessario sottolineare la gravità di conseguenze potenzialmente derivabili da simili
affermazioni, in cui la presunzione di dividere a priori gli esseri umani in categorie gerarchiche
autorizza di riflesso atteggiamenti e comportamenti dispotici degli uni nei confronti degli altri.
La potenziata consapevolezza della missione nazionale da portare avanti in colonia, e la sua
volutamente strategica resa in parole nei testi di questo periodo, non passano tuttavia solo attraverso
l’affermazione individualistica di una volontà di potenza vissuta con accenti personalistici. Per
quanto, infatti, essa rispecchi un lato non secondario dell’ideologia fascista, teso a esaltare il singolo
che si erge sulla massa con le sue virtù eccezionali e si pone a guida di essa (si pensi, per restare
nell’ambito della letteratura coloniale, al Corrado Brando del Più che l’amore di D’Annunzio),
rischia al tempo stesso di oscurare quell’aspetto partecipativo, di massa appunto, che lo stesso
Mussolini intendeva dare alla propria impresa africana. Si giustificano dunque, in questa
prospettiva, le note di orgoglio nazionale attraverso cui Ravagli, ad esempio, tenta di comunicare
un’immagine dell’italianità in colonia come sacrificio fatto dai singoli a beneficio di tutti, segno
tangibile di un’etica del lavoro che trova, ancora una volta, nell’appartenenza di razza la sua ragione
prima e il suo fine ultimo:
Bravi questi siciliani, che han ritrovato la patria qui, dopo averla cercata invano in più ricche
contrade; che son venuti a dissodar queste zolle, dopo una dura esperienza e amara di sacrifici
e di rinunce. Perché non vale la mercede del lavoro a ristorare il corpo, se manca il pane dello
spirito. Lavorare faticosamente, sì, anche per l’utile altrui, se è necessario; ma che non ci sia
chi ci fa il viso dell’arme, e attenta al nostro patrimonio più prezioso e più sacro, ch’è il
patrimonio della stirpe. Poco salario: ma la nostra parlata e la nostra bandiera. Poveri, ma
italiani.20
L’allusione dell’autore riguarda qui, in modo piuttosto chiaro, il fenomeno dell’emigrazione italiana
nel continente americano che, com’è noto, aveva assunto proporzioni rilevanti, rappresentando un
indubbio quanto massiccio impoverimento delle risorse umane della madrepatria. Già i governi
liberali, in questo senso, avevano visto nei territori africani una meta migliore verso cui dirottare i
flussi migratori, puntando, almeno in teoria, su un espansionismo di tipo demografico ed economico
volto a creare colonie di popolamento. Diversa e più radicale la posizione assunta dai circoli
nazionalisti che, rigettando le ipocrisie pacifiste, rivendicavano apertamente la necessità di un
espansionismo territoriale sostenuto dall’intervento militare, modello poi fatto proprio anche dal
20
Federico Ravagli, Sulle soglie del Continente nero, cit., p. 68.
243
fascismo. 21 Ad ogni modo, nonostante gli sforzi compiuti da quest’ultimo nel tentativo di
promuovere l’emigrazione dapprima in Eritrea e Libia, poi anche in Etiopia, le comunità nazionali
in Africa (o sarebbe meglio dire nelle colonie italiane, dal momento che molto più consistente è la
presenza italiana in colonie di altri Paesi, come Tunisia ed Egitto) rimarranno sempre piuttosto
scarne, e senza dubbio non paragonabili a quelle costituitesi in America.22
Il testo di Ravagli, tuttavia, risale alla fine degli anni Venti, quando la politica coloniale fascista,
nel pieno della sua entusiastica realizzazione, ripone ancora fiducia nelle effettive possibilità di
popolamento delle terre africane di recente acquisizione attraverso l’insediamento di coloni
provenienti dalla madrepatria. Di questi ultimi l’autore sottolinea il sacrificio in termini sia fisici
che morali, che doveva essere tutt’altro che trascurabile, almeno a giudicare dalle testimonianze che
essi stessi ne hanno lasciato: aridità e refrattarietà del terreno ne rendevano difficile lo sfruttamento
agricolo e, al tempo stesso, il tentativo di ricreare in colonia un ambiente almeno in parte
assimilabile a quello italiano era destinato a scontrarsi con l’effettiva disparità di condizioni.23 Non
a caso, il punto su cui Ravagli insiste nel brano citato è più di natura morale, “sentimentale”
potremmo dire, che non pratica: tralasciando volutamente tutte le reali difficoltà di insediamento e
di lavoro, egli insiste piuttosto sulla qualità incomparabilmente superiore dell’emigrazione in
colonia rispetto a quella precedente che aveva come meta gli Stati Uniti e che comportava, sembra
di capire, una condanna alla marginalizzazione e al rinnegamento della propria identità. Ora, se
anche non si discosta troppo dal vero il giudizio sull’emigrazione oltreoceano, senza dubbio
riduttiva e semplicistica si rivela, del pari, l’immagine fornita delle comunità italiane in Africa, che
in maniera di certo strumentale non tiene affatto conto della realtà complessa, multi-stratificata dal
punto di vista sociale oltre che multietnica, delle società coloniali. Nella visione dell’autore, che
ancora una volta si allinea senza dubbio a precise direttive della propaganda di regime, le colonie
africane (la Libia, nel caso specifico) si presentano come “sedi distaccate” di italianità: qui, infatti,
il sia pur modesto riconoscimento economico viene ampiamente bilanciato dalla possibilità di
tenere alto il proprio nome e il proprio vessillo nazionale, ignorando evidentemente la presenza
umana da tempo e legittimamente ancorata sul territorio.
D’altronde, un punto di forza della propaganda di questi anni consiste proprio nell’insistenza con
cui viene presentata la necessità di un adeguato sfruttamento delle risorse offerte dalle nuove terre,
che a sua volta può essere raggiunto esclusivamente grazie all’apporto di tecniche e manodopera
21
Sulla questione si veda, tra gli altri, Giuseppe Are, La scoperta dell’imperialismo. Il dibattito nella cultura
italiana del primo Novecento, Roma, Edizioni Lavoro, 1985.
22
Si guardi, in proposito, il recente contributo di Daniele Natili, Una parabola migratoria: fisionomie e percorsi
delle collettività italiane in Africa, Viterbo, Sette città, 2009.
23
Cfr. Nicola Labanca, Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie d’Africa, Rovereto (Trento),
Museo Storico Italiano della Guerra, 2001.
244
italiane. Renzo Martinelli, scrittore e giornalista, già noto corrispondente di guerra, nel suo
resoconto del 1930 di un viaggio in Eritrea ed Etiopia annota:
Tutta la base dell’economia indigena è da rifare […] Solo l’esempio italiano, condotto con
fermezza, può operare la trasformazione della psicologia indigena […] Non tutti quelli che
vennero a riscattare col lavoro lembi di terra eritrea, per insegnare all’indigeno che cosa essa
poteva rendere, furono all’altezza dell’impresa […] Ma di fronte a questi sporadici episodi c’è
tutto un quadro d’onore in cui si leggono nomi di coloni che intesero la loro missione in senso
veramente eroico.24
È chiaro come la sottrazione di terre al legittimo proprietario e la loro assegnazione a coloni italiani,
nella maggior parte dei casi poco entusiasti di ottenere quel “posto al sole”, ma spinti comunque
dalla speranza di ricavarne migliori condizioni di vita, sono qui sapientemente circonfuse di un’aura
di gloria e quasi di predestinazione che ne fanno una “missione eroica”. L’acquisizione di una
matura coscienza coloniale prevede infatti, nella visione dell’autore, anche la capacità di porsi a
guida delle popolazioni locali, nei confronti delle quali viene indicata la necessità di agire al fine di
modificarne sì l’attitudine al lavoro, ma anche l’innata mentalità: l’unica forma possibile di
riconoscimento dell’altro deve passare attraverso la sua assimilazione.25
Dalla Somalia, come dalla Libia, giungono peraltro simili celebrazioni dell’opera italiana in
colonia, persino più entusiastiche di quelle che abbiamo visto finora. A farsene portavoce è una
donna questa volta, Augusta Perricone Violà, scrittrice che potremmo definire coloniale in senso
stretto, autrice di diversi romanzi a sfondo africano. Convinta estimatrice dell’aggressiva politica
estera mussoliniana, non si esime in alcun modo dal dimostrarlo nei suoi Ricordi somali, editi nel
1935. In realtà, il testo in questione non può essere definito un diario di viaggio, e a rigore
nemmeno un’opera di memorialistica, in quanto il racconto procede attraverso una sequenza di
quadri privi della consueta coordinazione da parte di un soggetto narrante e protagonista. Anzi,
l’autrice qui potrebbe essere definita puro sguardo, in quanto si limita a registrare le immagini che
le scorrono davanti agli occhi: intento primario è evidentemente non più quello di raccontare la
propria esperienza, sia pure infarcita di stereotipi e giudizi approssimativi, bensì quello di
presentare direttamente al lettore lo scenario rassicurante di una terra non più “altera”, risorta a
nuova vita grazie alla forza rigeneratrice di Roma, che
è giunta a ricostruire, a valorizzare, ad illuminare, a dare non solo l’avvenire ma a ridare il
passato a quei paria della storia umana, fra i quali molti vorrebbero annoverare il popolo
somalo, facendogli portare, come una stigmate d’inferiorità, l’enorme lacuna del suo passato.
È venuta a tirarlo su, con un soffio potente di civiltà, che vivifica i secoli trascorsi, presenti e
24
Renzo Martinelli, Sud. Rapporto di un viaggio in Eritrea ed in Etiopia, Firenze, Vallecchi, 1930, pp. 262-4.
Si vedano, ancora una volta, le riflessioni di Todorov: «Il postulato di differenza suscita facilmente un senso di
superiorità, il postulato di eguaglianza suscita un senso di in-differenza […] La differenza si converte in ineguaglianza,
l’eguaglianza in identità» (La conquista dell’America, cit., pp. 77, 177).
25
245
futuri, dalla bassa graduatoria umana, nella quale l’assenza di gloria e la frammentaria vicenda,
lo pongono.26
Anche qui l’accento viene posto più sull’assimilazione che non sulla differenza, sul presente più che
sul passato: all’avvicendamento confuso dei popoli sul suolo somalo ha finalmente messo fine
l’«ultima apparizione, e questa volta ben reale, ben vicina, ben splendente e fulgida, la gran stella
d’Italia, nuova costellazione, segno di vittoria». 27 È chiaro come, in una simile prospettiva
accentratrice e totalizzante, il “diverso” viene rivalutato solo nella misura in cui crea lo sfondo utile
su cui innestare l’immagine tangibile della “rivoluzione” introdotta dalla nazione italiana, alla luce
della quale la specificità indigena perde ogni ragion d’essere: che sia la Libia, l’Eritrea o la Somalia
poco importa, in quanto tutto è ugualmente destinato a essere trasformato dall’intervento non solo
modernizzante, ma persino in un certo senso creatore dell’Italia fascista, in quanto messo in atto su
uno scenario cui viene negata una propria fisionomia storica e culturale. Lo sguardo del lettore
allora può sorvolare senza posa da uno spazio all’altro, seguendo gli spostamenti convulsi e
frenetici dell’autrice, senza riuscire a cogliere nulla del referente reale del discorso, se non ancora
una volta le modifiche ad esso apportate:
Dinanzi a questo stato di cose il pensiero di correre ad una meta che ci presenterà dodici
chilometri di steppa domata, vinta, trasformata in un meraviglioso comprensorio di ogni
coltivazione, ha qualche cosa della illusione e pare un miraggio di sogno. Il piccolo Giuar-Eil,
ammasso di poveri “tucul”, perduto e tuffato in piena boscaglia, ha proprio potuto trasformarsi
nel sereno e ubertoso villaggio Duca degli Abruzzi, cangiando nettamente il suo aspetto di
miserabile località di neri dell’Equatore, in quello di una ricca fazenda americana.28
Il passo mi sembra oltremodo eloquente, in quanto condensa in sé le tendenze che abbiamo visto
agire con determinazione progressivamente maggiore: quello che in passato poteva essere solo un
sogno, uno di quei miraggi con cui, non a caso, l’Africa ancora catturava e confondeva lo sguardo
inesperto dell’europeo, è divenuto realtà grazie all’impegno dei coloni italiani, che hanno prima
soggiogato e poi rigenerato lo sterile deserto, ricavandone campi coltivati. Il prezzo che i “neri
dell’Equatore” hanno dovuto pagare per una simile trasformazione non è neppure preso in
considerazione:
d’altronde
Perricone
Violà
pubblica
i
propri
ricordi
nell’imminenza
dell’aggressione fascista all’Etiopia, materializzazione ultima e più concreta dell’in-differenza
assoluta nei confronti delle esigenze e dei diritti dell’altro che l’Italia mussoliniana ha “finalmente”
raggiunto.
26
Augusta Perricone Violà, Ricordi somali, Bologna, Cappelli, 1935, p. 9.
Ivi, p. 15.
28
Ivi, pp. 20-1.
27
246
2.2 Per bocca e nella mente degli indigeni
Non si può di certo concludere, soprattutto alla luce di quanto abbiamo visto finora, che la
politica coloniale italiana del ventennio fascista senta il bisogno di addurre giustificazioni per il
proprio operato. Le ragioni umanitarie sostenute a gran forza dai viaggiatori ottocenteschi, così
come la legittimazione all’espansione ottenuta in eredità dall’impero romano possono ormai passare
in secondo piano di fronte all’evidenza luminosa dei risultati raggiunti. In altre parole, la
propaganda si costruisce e si fortifica attraverso le immagini, opportunamente orientate, di una
situazione presente che essa sì giustifica, retrospettivamente, il percorso compiuto fino a questo
punto, e autorizza da sé la prosecuzione sulla strada tracciata. L’italianità in colonia è, infatti,
sinonimo di sacrificio, ma al tempo stesso garanzia di un progresso sulla via della civiltà che, in
quanto tale non può non essere riconosciuto anche dalla sua prima e presunta beneficiaria, la
popolazione autoctona. Ecco che allora gli indigeni vengono curiosamente sottratti alla condizione
di ineffabilità in cui li abbiamo visti finora relegati per assurgere, talvolta, al rango di diretti
testimoni delle migliorie apportate dalla conquista italiana.
Da questo punto di vista, i resoconti degli anni Venti e Trenta sembrano rappresentare
un’eccezione rispetto a quelli precedenti, dove mancano quasi del tutto esempi di interazione tra
colonizzati e colonizzatori e dove questi ultimi vengono semplicemente ignorati, assimilati al
paesaggio, o tutt’al più descritti nelle loro caratteristiche fisiche ed estetiche. Tuttavia, si tratta a ben
guardare di un’eccezione solo apparente e quanto mai fittizia, del tutto strumentale al messaggio
che si vuole veicolare: senza neppure bisogno di essere interpellati a riguardo, gli indigeni ritratti
nei testi si effondono “spontaneamente” in lodi entusiastiche dei propri padroni-benefattori, nel
momento stesso in cui, come le fonti storiche hanno ormai ampiamente dimostrato, cercano in tutti i
modi di opporsi alla loro penetrazione. Talvolta, come vedremo, nel raccontare la propria
esperienza di viaggio gli autori di questo periodo si spingono persino oltre, non limitandosi cioè a
mettere in bocca a rappresentanti più o meno autorevoli delle popolazioni locali smaccati quanto
improbabili elogi dei nuovi dominatori, bensì arrivando a formulare direttamente in loro vece quelli
che si presume siano i loro interni giudizi e considerazioni. E per quanto a noi, ora, tale
meccanismo possa sembrare ingenuo nella sua evidente mistificazione, esso doveva al contrario
avere una certa presa sulla massa del pubblico italiano contemporaneo, che poco o nulla sapeva
sulle effettivamente scarse modalità di interazione tra i diversi gruppi etnici in colonia e per il quale
dunque simili azzardi interpretativi rispettavano se non altro il criterio della verosimiglianza.
Ad essere sfruttate con le suddette finalità propagandistiche sono particolarmente adatte figure di
un certo rilievo, che si distinguono in qualche modo dalla massa altrimenti anonima degli autoctoni
risultando in tal modo più autorevoli e credibili. Martinelli, ad esempio, in visita presso la Sceriffa
247
Alauia, massima autorità religiosa per i musulmani del bassopiano orientale eritreo (ben nota in
tutto il mondo islamico in quanto ritenuta discendente di Fatma, unica figlia di Maometto), si
preoccupa prima di tutto di rassicurarla che «l’Italia è sempre più bella e più potente, che Mussolini
sta bene e starà bene ancora per cent’anni», e subito dopo annota le presunte riflessioni
dell’interlocutrice al riguardo, la quale, lodando Mussolini, assicura che
nel mondo mussulmano si nutre per lui la più grande ammirazione. I mussulmani amano i capi
quando sono forti e giusti. Mussolini è un uomo giusto e un uomo forte. La presenza
dell’Italia, e specie di questa Italia, nel Mar Rosso è un elemento di prosperità e di pace.29
Nelle parole della Sceriffa, il giudizio sul Duce non si avvale neppure, come sarebbe naturale
aspettarsi, del riferimento a interventi effettivi compiuti in colonia, da cui risulterebbe evidente la
natura positiva della dominazione italiana. Sono piuttosto le qualità umane della persona a
rappresentare di per sé garanzia sufficiente al suo buon operato e ad assicurare a lui la fiducia
incondizionata da parte di tutto il popolo musulmano.
Talora, come nel caso della tribù cunama presso cui si spinge la missione di Corni, Calciati e
Bracciani, ad essere sottolineato dai viaggiatori è l’atteggiamento di apparente benevolenza nei
propri confronti, asserito con sicurezza per quanto poi verificato su basi piuttosto labili: l’helleltà,
ossia «quel trillo di saluto e di gioia» con cui gli indigeni li accolgono appena giunti all’Asmara,
viene interpretato non solo come manifestazione di consenso, ma come un vero e proprio «inno di
ringraziamento, […] commovente e indescrivibile»30 per chi lo riceve, e dunque immediata fonte di
orgoglio personale e nazionale. Non a caso, ricorre più volte in questo testo la menzione di un
presunto sentimento di fiducia riposto dai cunama negli italiani, tanto più evidente in quanto in
contrasto con l’altrettanto presunta insofferenza nutrita per gli abissini: «Tutti i vecchi poi ci
sorridono, forse perché essi, più che non i giovani, si rendono conto della grande differenza tra le
due dominazioni: ci considerano i loro buoni e necessari protettori».31 Sia pure con la pleonastica
limitazione rappresentata dall’introduzione dell’avverbio “forse”, l’espressione sorridente colta nei
volti degli anziani, reale o immaginaria che sia, basta comunque come pretesto per inserire
un’interpretazione gratuita e nettamente orientata del pensiero indigeno. D’altronde, essendo già
considerati ora i protettori della tribù nei confronti del precedente dominio odioso e opprimente, è
certo che gli italiani acquisteranno onore e rispetto ancora maggiori quando saranno in grado di
fornire ai cunama una difesa più salda e sicura:
29
Renzo Martinelli, Sud. Rapporto di un viaggio in Eritrea ed in Etiopia, cit., p. 56.
Cesare Calciati, Luigi Bracciani, Nel paese dei Cunama, cit., p. 16.
31
Ivi, p. 71.
30
248
Amano, però, sempre gli Italiani e non mancano in nessuna occasione di dimostrarlo ogni qual
volta possono porgere a un viaggiatore il modesto omaggio pari alla propria miseria e siamo
sicuri che quando la nostra protezione sarà perfetta, essi non mancheranno di tornare a noi.32
Anche l’offerta di un omaggio, che si inserisce in quella logica dello scambio di doni vigente nelle
culture africane arcaiche e ampiamente sperimentata dai viaggiatori europei già nei secoli
precedenti33, viene strumentalmente letta come simbolo di un diretto apprezzamento e offre lo
spunto per ribadire la necessità di proseguire sulla strada intrapresa.
D’altronde, l’arbitraria applicazione ai soggetti africani dei propri schemi logici e interpretativi,
sia essa imputabile a banale ignoranza o piuttosto il frutto di una voluta e opportunistica
semplificazione, serve in diverse occasioni di conferma e supporto a quell’immagine benevola del
colonialismo italiano con cui ancora oggi siamo costretti a fare i conti. Raimondo Franchetti,
viaggiatore reso celebre dalla grandiosa impresa di esplorazione della Dancalia etiopica compiuta
tra il 1928 e il ’29 a proprie spese (per quanto poi trionfalmente salutata, al suo rientro, dal regime
fascista) sulle orme della sfortunata spedizione Giulietti del 188134, in un passo del suo diario di
viaggio lamenta il fatto che, a suo parere, proprio un’errata valutazione della “psicologia” indigena
avrebbe impedito agli italiani di sfruttare adeguatamente un’occasione utile per ribadire la propria
superiorità etica. Nella sua visione, infatti, il sultano di Biru, responsabile diretto o indiretto della
sorte toccata sul suo territorio agli esploratori italiani di fine Ottocento, si aspettava di ora in ora la
ritorsione italiana (non, si badi bene, perché l’Italia ne avesse dato sentore, ma solo perché egli
stesso, nella situazione inversa, avrebbe agito così). Tuttavia,
di questa psicologia, forse, non fu tenuto sufficiente conto da parte di coloro che per diversa
via ci impedirono qualsiasi atto di volontà nei confronti di questo sultanello, verso il quale la
nostra superiore civiltà non cerca né poteva cercare una materiale vendetta per colpe non sue,
ma teneva a poter dimostrare di rinunziarvi per generosità, pur avendo la piena capacità di
compierla.35
Se, dunque, i connazionali avessero davvero compreso le modalità di ragionamento indigeno, e
intuito appieno l’attesa da parte del sultano della vendetta per l’eccidio perpetrato, allora avrebbero
colto al volo l’opportunità non di compierla davvero, ma di dimostrare la propria magnanimità
insita nella stessa rinuncia a vendicarsi. Ora, è interessante notare come il giudizio di Franchetti
sull’intera vicenda si basi su presupposti quanto mai sfuggenti, a partire proprio dalla convinta
applicazione della strategia della ritorsione alla mentalità indigena: non viene neppure preso in
considerazione, ad esempio, il fatto che l’uccisione degli esploratori bianchi potesse aver
32
Ivi, p. 161.
D’obbligo il riferimento a Marcel Mauss, Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002.
34
Cfr. Elena Giulietti Venco, Giuseppe Maria Giulietti. Memorie. Pubblicate dalla sorella Elena Giulietti Venco,
Firenze, Tip. di G. Barbera, 1882.
35
Raimondo Franchetti, Nella Dancalia etiopica. Spedizione italiana 1928-29, Milano, Mondadori, 1930, p. 202.
33
249
rappresentato un meccanismo di difesa messo in atto dalle popolazioni locali nei confronti di una
penetrazione esterna sempre più insistente, e che come tale non presupponeva, pertanto, una
conseguente forma di vendetta, quanto mai ingiustificata agli occhi dei dancali. Inoltre, è curioso
che l’idea stessa della vendetta sia tirata in ballo esclusivamente dagli indigeni, per una loro
presunta attitudine a tale comportamento, quasi come se essa fosse un concetto del tutto estraneo
alle considerazioni moralmente superiori degli italiani (i quali tuttavia, come sappiamo, attendevano
dai tempi di Adua di potersi prendere una rivincita adeguata sull’impero etiope).
Infine, vale la pena di notare che l’attribuzione indebita − in quanto non sostenuta dalla minima
evidenza − agli indigeni di pensieri e riflessioni elaborati ad hoc dai viaggiatori stessi non è
utilizzata solo in funzione di un più o meno esplicito elogio della nazione italiana e dei suoi
rappresentanti, ma anche a scopo autodenigratorio. Un esempio in tal senso ci viene dalle memorie
del missionario Giovanni Ciravegna, impegnato tra il 1926 e il 1928 in un apostolato cattolico in
quella stessa regione del Caffa, nel sud-ovest etiopico, in cui a lungo aveva dimorato e svolto
attività missionaria il noto cardinale Massaja.36 In questa zona, infatti, a detta di Ciravegna si
ottengono migliori e più rapidi risultati in termini di conversione, in quanto, diversamente dagli
abissini, «i Galla riconoscono sinceramente la loro inferiorità davanti ai bianchi e son meglio
disposti alla vera religione e civiltà»:37 l’imposizione del nuovo culto viene dunque in modo del
tutto ipocrita mostrata come spontaneo assoggettamento alla guida moralmente e spiritualmente
superiore dei bianchi da parte di una tribù locale strumentalmente consapevole della propria innata
subalternità (per quanto poi ritenuta incapace, in molteplici altre occasioni, di formulare pensieri
intellettualmente apprezzabili).
2.3 Uomo o non uomo?
Questa forma di auto-riconoscimento della propria inferiorità che Ciravegna attribuisce ai galla,
sottraendosi in tal modo dal dover esprimere un giudizio personale al riguardo, non implica affatto,
d’altronde, la scomparsa, nei resoconti di viaggio di questi anni, di più esplicite e denigratorie
considerazioni nei confronti delle popolazioni locali. Come abbiamo visto, agli inizi del nuovo
secolo il disprezzo per gli indigeni, e la scarsa o nulla considerazione per i loro diritti e le loro
esigenze, avevano già subito, rispetto alla ancora generica e talvolta ingenua formulazione
ottocentesca, una radicalizzazione, spesso unita a una declinazione in senso più marcatamente
razziale, destinata ad approfondirsi sotto il regime:
36
Guglielmo Massaja, I miei trentacinque anni di missione nell'alta Etiopia, cit.
Giovanni Ciravegna, Nell’impero del Negus Neghest. Viaggio di esplorazione apostolica, Torino, Istituto
Missioni Consolata, 1930, p. 87.
37
250
Like Apartheid in South Africa, and Aryan supremacy in Nazi Germany, the Italian Fascist
policy was based on an ideology of racial supremacy. It stressed hierarchy, holding that, as a
superior race, Italians had a duty to colonize inferior races, which included, in their view,
Africans.38
Su questa stessa scia mi sembra lecito porre molte riflessioni fornite dai viaggiatori del ventennio
fascista, in cui spesso la coscienza di un’incolmabile differenza di razza si unisce a un
atteggiamento esasperatamente paternalistico nei confronti degli “inferiori” con cui si entra in
contatto. Perricone Violà, ad esempio, è convinta assertrice di una netta e irriducibile opposizione
tra le due razze, che trova non a caso la sua prima evidenza nel diverso colore della pelle:
Le anime di entrambe le razze, quelle, restano separate da un abisso che nulla può colmare,
come a nessuno è dato cambiare il colore della pelle, differente fra noi. Restano chiuse
reciprocamente da troppe diffidenze che le pongono a dei piani assolutamente diversi.39
Il pigmento cutaneo, in altre parole, è la materializzazione esterna di una radicale alterità interiore,
che non ha nemmeno bisogno di essere ulteriormente indagata, ma che sembra poggiare le proprie
basi su una chiusura reciproca allo scambio e all’interazione. Piuttosto chiaro appare qui lo scarto
rispetto alla a lungo millantata fiducia in un’evoluzione dei neri a contatto con i rappresentanti di
una civiltà superiore: il baratro che separa i due gruppi umani è comunque ritenuto troppo profondo
per poter sperare in alcun modo di riuscire a colmarlo.
D’altronde, se qui insiste la stessa autrice su una ancora generica nozione di differenza,
trattenendosi dalla tentazione di scendere in dettagli di merito, altrove non mostra alcuna reticenza
nell’esprimere considerazioni ben più drastiche e offensive, negando per esempio ai somali le più
elementari capacità intellettive, quando ammette che «sì, è un po’ pomposo il nome di letteratura a
questi poveri versi infantili… Ma siamo all’Equatore dove nelle piccole teste nere vi sono molti più
riccioli che non cervello».40
Quando, peraltro, ad essere presa di mira non è specificamente l’arretratezza mentale e culturale
degli indigeni, può essere sufficiente anche il loro aspetto esteriore come spunto per una icastica
rappresentazione denigratoria. La prima descrizione di un autoctono che superi le due righe nel
testo redatto da Calciati e Bracciani, per esempio, opta per la messa in scena di una sua comica
ridicolizzazione:
La nostra guida è un vecchio sudanese, nero più del carbone, altissimo e magro, allampanato,
armato di una lunga lancia, seguito da due asinelli uno dei quali gli serve da cavalcatura.
L’umorismo di una caricatura non potrebbe mai superare la realtà, giacché il nostro negro, e
38
Ali Abdullatif Ahmida, When the subaltern speak: memory of genocide in colonial Libya 1929 to 1933, «Italian
Studies», 61 (2), Autumn 2006, p. 180.
39
Augusta Perricone Violà, Ricordi somali, cit., p. 123.
40
Ivi, p. 80.
251
nella figura e nella serietà, è un Don Chisciotte caricaturato a cavalcioni dell’asino di Sancio
Pancia, con le gambe che toccan terra!41
Talvolta, invece, il sarcasmo si fa più sottile, meno scoperto, nascosto da una patina più spessa di
commiserazione e di pietà, ma rivelatore di un atteggiamento altrettanto discriminatorio, che si
spinge con noncuranza e apparente ingenuità fino a mettere in dubbio la stessa natura umana dei
nativi intravisti. È quanto si evince, ad esempio, dalle considerazione di Franchetti in seguito
all’incontro con una famiglia dancala:
Vi sono in quella famiglia anche dei ragazzini fra i quattro e gli otto anni; immobili, nudi e
neri come la lava cui sono appoggiati; nel guardarli si ha quasi l’illusione che non di esseri
umani si tratti, ma che per uno strano scherzo della plastica lava, questa ne abbia,
rovesciandosi dall’alto, riprodotte le forme. E veramente figli della lava devono essere, perché
al nostro avvicinarsi spariscono in quella come per incanto, quasi li avesse tutti nuovamente
inghiottiti. Rassicurati dal sentirci parlare coi genitori, sporgono poi fuori nuovamente le
testine da uno stretto e assai profondo crepaccio, dove nessuno potrebbe certo immaginare
possano nascondersi esseri umani.42
I fanciulli indigeni osservati e proposti all’attenzione del lettore subiscono, nella descrizione appena
riportata, un evidente processo di reificazione, svolto peraltro dall’autore con un sagace movimento
progressivo e circolare al tempo stesso: a partire dalla metafora di apertura, esso si sviluppa in
poche righe attraverso l’insistenza ossessiva e opprimente sulla stessa immagine della lava, vista
come l’unica creatrice plausibile di quelle forme di vita vane e inconsistenti. Le quali, d’altronde,
quando scorte di lontano in forza di un loro continuo movimento che ne rivela incontestabilmente la
natura animata, possono al massimo aspirare a ottenere il consueto paragone con esseri animali,
anch’esso in Franchetti pervaso da una sottile vena di ironia:
Distante forse due chilometri, sul pendio scosceso di una collina argillosa, si scorgevano dei
buchi che spiccavano scuri sulla superficie chiara del terreno e dei piccoli esseri neri che ne
entravano e ne uscivano come in un formicaio. Scimmie? No; dancali, ci disse la guida.43
Ma anche altri indizi concorrono a dimostrare come la tendenza all’animalizzazione dell’indigeno,
che in epoche precedenti agiva spesso in una forma edulcorata, mascherata attraverso il frequente
ricorso a metafore e similitudini, abbia assunto ormai uno statuto di normalità che, in quanto tale,
non sembra richiedere particolari attenuanti. Al contrario, essa stessa può essere a sua volta
sfruttata, qualora la situazione lo richieda, a sostegno di tesi persino deteriori, come quella qui di
seguito avanzata da Di San Marzano:
41
Cesare Calciati, Luigi Bracciani, Nel paese dei Cunama, cit., p. 176.
Raimondo Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., p. 253.
43
Ivi, p. 302.
42
252
Premetto che non si deve considerare lo schiavo come un condannato ai patimenti, ai ferri e
alle dure sevizie di un tempo: lo schiavo è l’animale da lavoro e viene trattato come si trattano
gli animali che rendono e sono necessari all’andamento di un’azienda.44
Il tema della schiavitù, tra l’altro, è fatto oggetto in questi stessi anni di una forma di reinterpretazione piuttosto significativa, se solo pensiamo alla veemenza con cui essa veniva rigettata
o persino combattuta in prima persona nel secolo precedente. Non solo missionari, ma anche
numerosi viaggiatori ottocenteschi (tra cui già il Piaggia, e molti altri dopo di lui) avevano infatti a
più riprese criticato la deplorevole tratta condotta da mercanti arabi ed europei sul continente
africano, che andava ad alimentare un sistema schiavista ben radicato ad esempio in Sudan e in
Etiopia. E proprio in queste due regioni si erano concentrati, negli anni Settanta dell’Ottocento, gli
sforzi del generale britannico Gordon, intenzionato a lottare con ogni mezzo disponibile per porre
fine all’ignominiosa pratica.45 Questo non vuol dire che ai sia pur lodevoli risultati raggiunti avesse
fatto seguito una immediata e radicale abolizione e della tratta e della schiavitù in genere, di fatto
ancora legale in Etiopia fino al 1923, anno in cui l’impero entra a far parte della Società delle
Nazioni. Lascia tuttavia quantomeno interdetti il fatto che i viaggiatori italiani tendano
generalmente, nei resoconti da loro redatti in questi anni, a contenere notevolmente le parole di
condanna, optando piuttosto per un atteggiamento di sia pur velata giustificazione. Nella visione di
Di San Marzano, allora, lo schiavo nero non viene trattato in modo peggiore di un qualsiasi animale
da lavoro, godendo dunque di una condizione tutt’altro che scandalosa, proprio in forza della non
problematica assimilazione dell’indigeno all’animale. D’altronde, se nonostante i numerosi e
reiterati tentativi è stato impossibile eliminare del tutto la pratica della schiavitù, ciò è dovuto anche
a una sorta di “predisposizione” naturale di coloro che ne sono soggetti, i quali, una volta assaggiata
la libertà:
han fatto alla bella Dea tanto di cappello, le han chiesto molte scuse di non potersi
ulteriormente trattenere con lei, e sono ritornati alla casa dell’antico padrone. […] Gli schiavi
non domandavano di meglio che rimanere schiavi. Perché infine, come in tutte le cose di
questo mondo, bisogna distinguere tra i varii sensi della parola “schiavitù”.46
Secondo Martinelli, dunque, la schiavitù è una sorta di condizione esistenziale da cui non solo non è
possibile liberarsi a proprio piacimento, ma di cui si sente persino la mancanza, qualora se ne venga
privati improvvisamente. Alla rigida separazione razziale tra bianchi e neri, tra colonizzatori e
44
Roberto Asinari Di San Marzano, Dal Giuba al Margherita, cit., p. 125.
Si veda, a questo proposito, il resoconto dell’impresa narrato dall’esploratore italiano Romolo Gessi, arruolato in
Sudan al seguito di Gordon Pascià: Sette anni nel Sudan egiziano. Esplorazioni, caccie e guerra contro i negrieri.
Memorie di Romolo Gessi Pascià, riunite e pubblicate da suo figlio Felice Gessi; coordinate dal cap. Manfredo
Camperio, Milano, Galli, 1891.
46
Renzo Martinelli, Sud. Rapporto di un viaggio in Eritrea ed in Etiopia, cit., pp. 520-1.
45
253
colonizzati, si associa pertanto una assoluta immobilità di livello sociale interna allo stesso gruppo
indigeno, al quale davvero ogni forma di evoluzione sembra essere preclusa.
Lo stesso concetto, peraltro, è alla base della rappresentazione singolare con cui Civinini dà
avvio ai propri quadri di ricordi africani, in cui mette in scena un fittizio dialogo con Cocò, uno
scimpanzé che ha ricondotto dal suo viaggio in Africa. Dopo essersi dilungato in manieristici
lamenti dovuti al fatto che l’animale non sembra più ricordarsi di lui, che pure lo ha accontentato
portandolo con sé in Italia, l’autore si sofferma a narrare il proprio tentativo, fallito, di staccarsi
dallo scimpanzé, sempre rivolgendosi al quale spiega:
Amavi troppo la tua schiavitù, che ti dava, sì, ore di catena, e frustrate, e dispetti di monelli, ed
altri fastidi, senza contare certe privazioni, ma anche tubetti di dentifricio da leccare, e
specchietti da rompere, e tante altre curiosissime e buonissime cose; e fors’anche, chi sa, nel
contatto con questi esseri così diversi da te e così somiglianti, così vicini e così lontani, come
un senso vago e primordiale della divinità […] Fui veramente stupido come un uomo, quel
giorno a Mai Scibinnì, quando pretesi che potesse ancora piacerti la libertà, dopo che avevi
assaggiato i comodi della schiavitù.47
Mi sembra lecito, se non necessario, ritenere che in questo frangente Civinini alluda piuttosto
scopertamente, attraverso la figura dell’animale per come egli stesso la delinea, alla generica
categoria del servo indigeno di cui immancabilmente gli europei si servivano durante la propria
permanenza nelle colonie: nei resoconti di viaggio è facile imbattersi nel racconto dello stupore
provato dal protagonista di fronte al rifiuto da parte del servo di essere liberato e quindi allontanato,
ossia di una situazione molto simile a quella appena descritta da Civinini con lo scimpanzé. Non
solo questo ci conduce ancora una volta nella direzione di una facile sovrapposizione tra
comportamento animale e comportamento indigeno, ma ribadisce anche la posizione che abbiamo
appena visto espressa da Martinelli, e verosimilmente condivisa da molti, secondo cui la schiavitù
diventa, per chi la prova, una specie di stato di necessità dal quale non c’è né possibilità né
desiderio di affrancamento. Va da sé che le implicazioni insite in una tale concezione sono tanto
pericolose quanto strumentali a una determinata rappresentazione delle popolazioni indigene tout
court come naturalmente predisposte ad accogliere i nuovi dominatori italiani; rappresentazione che
in questi anni è più che mai richiesta dalla svolta politico-ideologica segnata dall’avvento del
regime.
2.4 Fantasmi dal passato per un più glorioso presente
La formazione e la stabilizzazione di una nuova e matura coscienza coloniale, che proprio il
regime fascista persegue con tanta fermezza di intenti, passano infine attraverso una strumentale
rilettura delle vicende coloniali trascorse, le quali, opportunamente rifunzionalizzate, possono senza
47
Guelfo Civinini, Ricordi di carovana, cit., pp. 16-7.
254
dubbio contribuire a comunicare un senso di predestinazione e assoluta legittimazione italiana alla
conquista e al dominio sui popoli africani. In questo senso, è curioso come vengano sfruttati,
piegandoli ai propri fini propagandistici, persino episodi di per sé ben poco onorevoli: essi vengono
tuttavia trasformati, attraverso una consapevole distorsione della memoria, in momenti illuminanti,
dolorosi ma comunque necessari, di un percorso destinato a culminare nella celebrata impresa
attuale e in grado di far presagire un ancor più glorioso avvenire.
Già Rosalia Pianavia-Vivaldi, alla vista delle croci sparse sulla piana di Dogali in memoria dei
caduti per mano indigena, aveva retoricamente salutato in essi i nuovi eroi delle Termopili, nobili
vittime sacrificali intrepide di fronte al pericolo e alla morte. Tuttavia, come abbiamo notato a suo
tempo, nel rievocare la strage dei propri connazionali l’autrice mirava prima di tutto a mettere in
risalto se stessa e il suo ruolo tutto al femminile di “madre della Patria” e di unica possibile
intermediaria tra i caduti e le loro famiglie. Nel resoconto della missione di Calciati e Bracciani,
invece, il passaggio per la stazione di Dogali diviene occasione per una nuova ventata di altisonante
patriottismo, all’interno della quale è notevolmente ridimensionato lo spazio per il dolore e
amplificato, di contro, il senso di eroismo:
Nella Natura tutto è vita, persin fra lo squallore dei deserti! La morte per essa non è che un
semplice episodio secondario che appar ben piccola cosa al cospetto del quadro immenso del
monte, del piano, dell’oceano. Non importa, o Eroi, se i vostri corpi martoriati furono per
avventura inconsciamente profanati dalle luride fauci delle iene, o se il sole cocente ridusse in
polvere le vostre ossa sacre, affinché, poi, il vento ne spargesse le ceneri feconde sul vasto
territorio… Tutto ciò non è che un simbolo le cui tracce indelebili e gloriose rimarranno nella
storia eterna di Roma immortale! Grazie e gloria a Voi, fratelli conquistatori ai quali dobbiamo
le nostre gioie di oggi, le ricchezze del domani!48
Non c’è quasi più traccia, nel brano citato, della drammaticità reale dell’eccidio, la cui notizia aveva
suscitato in patria tanto profondo scalpore e indignazione per la sua evidente prevedibilità: il
contrasto tra vita e morte si risolve immediatamente a vantaggio della prima, laddove la seconda
assurge al rango di semplice incidente di percorso. Anzi, non viene nemmeno messa in discussione
(cosa che avveniva, sia pure tra le righe, nel racconto di Vivaldi) l’effettiva validità del sacrificio
compiuto, la cui visione è certo positiva in quanto interpretata tutta a posteriori. In questa
prospettiva, l’unica nota di rammarico riguarda i corpi dei giovani eroi nazionali, che non hanno
potuto ricevere il giusto culto e l’adeguata sepoltura; ma anche questo particolare perde ogni
rilevanza a fronte della gloria che è toccata in sorte a loro stessi, e che da essi si propaga intatta alle
generazioni presenti e future. Non c’è ovviamente posto, in una simile ricostruzione, per un
qualsivoglia sentimento di pietà o di commiserazione, in quanto la sofferenza patita dai singoli è
comunque stata ampiamente ripagata dal bene che ne è derivato per l’intera nazione. Da notare,
48
Cesare Calciati, Luigi Bracciani, Nel paese dei Cunama, cit., p. 8.
255
infine, il fatto che ai morti di Dogali gli autori si rivolgano con l’appellativo di conquistatori,
attribuendo loro, dunque, un primo impulso colonizzatore di cui l’Italia mussoliniana avrebbe
raccolto e messo a frutto l’eredità.
Se ai combattenti uccisi a Dogali spetta, dunque, l’onore di aver per primi dimostrato l’attitudine
italiana al sacrificio, aprendo da eroi la strada alle vicende coloniali della giovane nazione, una
celebrazione non da meno deve allora essere concessa anche a quei connazionali che persero la
propria vita nella piana di Adua. Anche in questo caso, abbiamo già notato come la funesta battaglia
del 1896, i cui fantasmi pure aleggeranno a lungo sulla coscienza comune contribuendo in parte a
determinare l’irresolutezza della politica coloniale di età liberale, avesse subito al tempo stesso una
rapida conversione da episodio vergognoso a esemplare, quasi mitico, banco di prova del coraggio e
del valore dei soldati italiani. In questo senso, come e più della vicenda di Dogali, essa si presta a
essere ricordata e celebrata come tappa formativa, anch’essa in qualche modo provvidenziale, nel
processo di conquista coloniale ancora in atto. Asinari di San Marzano sceglie, non a caso, di non
pronunciare in prima persona un giudizio commemorativo sulla battaglia, bensì di metterlo in
bocca, nella finzione narrativa del proprio resoconto, a un messo imperiale proveniente dallo Scioa:
Malgrado gli italiani si fossero dimostrati forti e coraggiosi, Iddio, dice l’ascaro etiopico,
aveva decretato la vittoria delle armi abissine e così quelli dovettero ritirarsi sconfitti. Queste
parole, pronunciate da un rozzo ascaro etiopico dal cui dire traspariva onestà di giudizio ed
ammirazione per l’eroismo dei miei Fratelli Caduti, furono per me motivo di viva
commozione.49
L’intento sotteso a un simile procedimento è lo stesso che abbiamo visto poc’anzi: l’attribuzione al
militare etiope, rappresentante effettivo delle forze nemiche che avevano decretato la sconfitta
italiana, di un’interpretazione del tutto mistificante e riduttiva della battaglia, contribuisce senza
dubbio a renderla più efficace agli occhi del potenziale lettore italiano. Nelle parole dell’ascaro,
infatti, la vittoria dei suoi connazionali viene presentata come un caso fortuito, imprevedibile, non
solo in alcun modo imputabile a impreparazione e imprudenza italiane (come fu in gran parte), ma
tantomeno a un presunto valore militare abissino, quanto piuttosto a una semplice imposizione della
volontà divina. Questo permette all’autore di comprendere, e di sottolineare, il sincero
apprezzamento etiope nei confronti degli eroi nemici caduti ad Adua, per quanto esso non sia in
alcun modo sufficiente a rivalutare l’indigeno in quanto tale: anzi, è proprio la sua naturale
ignoranza, che Di San Marzano non manca di evidenziare, a commuovere in quanto prova ulteriore
di quella sua schiettezza di giudizio che non può esimerlo dall’elogiare il coraggio dei combattenti
italiani.
49
Roberto Asinari Di San Marzano, Dal Giuba al Margherita, cit., pp. 84-5.
256
Nei passi dedicati al ricordo dei due episodi tragici più significativi di quella che si è soliti
definire la “prima guerra d’Africa” italiana, la rappresentazione finalistica degli eventi in sé, pur
togliendo loro buona parte di quella carica drammatica che dovevano ancora avere a livello di
memoria collettiva, non li priva tuttavia di un loro spessore concreto all’interno del racconto, che ne
fa piuttosto momenti fondativi dell’esperienza coloniale nazionale. Altrove, tuttavia, simili
circostanze commemorative sembrano invece perdere del tutto il contatto con il proprio referente
diretto, e fungere dunque da semplici spunti per un reiterato elogio del cammino compiuto.
Franchetti, come abbiamo detto, concepisce la propria avventura di esplorazione della Dancalia
anche e soprattutto come percorso di riappropriazione e reiterazione delle tracce lasciate nello
stesso territorio da spedizioni precedenti e meno fortunate, quelle guidate in particolare da Giulietti
e da Bianchi. Prima di dare avvio alla propria impresa, allora, egli ritiene opportuno compiere un
rito di omaggio nei confronti dei suoi due eroici predecessori, che si conclude con queste parole:
Da allora fino ad oggi la regione che abbiamo dinanzi è rimasta velata dal mistero. Noi
chiediamo agli spiriti immortali di questi nostri morti di indicarcene la via; noi giuriamo sulla
loro memoria di mostrarcene degni, per quell’Italia che essi amarono perché divenisse più
grande; per quell’Italia che noi, più fortunati, abbiamo veduta finalmente vittoriosa, stimata;
per quell’Italia che, per la mente eccezionale di un Duce, il valore del popolo disciplinato e
forte, ed il senno della monarchia di Savoia, sarà ancora e sempre fiaccola inestinguibile di
progresso civile nel mondo.50
Il brano è attentamente elaborato dal punto di vista retorico-celebrativo, ed è chiaro che al centro
della scena non ci siano affatto le vittime delle imboscate dancale, che pure sono state fonte di
ispirazione, con il loro coraggioso sacrificio, per le imprese attuali e future. Protagonista indiscussa
del discorso è l’Italia, il cui nome campeggia in triplice anafora all’interno del passo, e
specificamente l’Italia contemporanea, quella innalzata a gloria immortale dal fascismo, alla luce
della quale ogni sforzo compiuto acquista nuovo significato. Passato, presente e futuro sono infatti
condensati nelle tre frasi centrali (ognuna aperta dal reiterato sintagma “per quell’Italia”) tra cui,
non a caso, è quella finale a ricevere la più ampia elaborazione: il successo presente, in questo
senso, raggiunto anche grazie al sacrificio passato, è soprattutto garanzia di un avvenire glorioso, in
cui la giovane nazione sarà davvero agli occhi di tutti fulgido esempio di civiltà.
In questa stessa ottica si spiega anche il frequente richiamo nei resoconti di questi anni, talvolta
solo accennato ma altre volte invece piuttosto insistito ed elaborato, a quei primi esploratori cui non
a caso ho ritenuto necessario dedicare un intero capitolo, in quanto punti di riferimento essenziali e
imprescindibili tanto per le imprese compiute quanto − anche dal nostro punto di vista − per la
testimonianza scritta che di esse hanno lasciato. Proprio in conseguenza, infatti, dell’ampia
circolazione di cui godevano all’epoca i loro resoconti di viaggio, le loro figure erano per la
50
Raimondo Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., pp. 56-7.
257
maggior parte ben note al pubblico contemporaneo; soprattutto, com’è ovvio, dovevano essere ben
presenti nella memoria di coloro che, nell’intenzione di emularne le passate imprese, forgiavano il
proprio spirito d’avventura e arricchivano il proprio immaginario africano attraverso la lettura delle
loro opere. Quello che mi sembra interessante notare è che, anche in questo caso, l’elogio dei
pionieri è tutt’altro che fine a se stesso: prima di tutto, viene anch’esso inquadrato in un’ottica
finalistica, che mira a rileggere tutta la fase ottocentesca di esplorazione come il primo segno di una
chiara predestinazione all’espansione coloniale. Ad essere sottolineato è poi però soprattutto lo
scarto registrabile rispetto a quei primi incerti tentativi di penetrazione nel continente africano,
quando ostacoli umani, animali e naturali rendevano effettivamente, come sappiamo, difficile e
rischioso il viaggio: si tratta, in questo senso, di un’epoca sì gloriosa e anticipatrice, ma conclusa,
che ha lasciato il posto a una consapevolezza del tutto nuova dei propri mezzi e dei propri fini.
Annota Ravagli:
Ma domani, per tutti i deserti, passerà veloce il rombo dell’ala conquistatrice. Quest’Africa
immane che ha ricamato nei secoli una storia di languidi misteri e di paurose lontananze è
battuta per sempre. Il dramma degli esploratori erranti pei cammini della morte è finalmente
conchiuso.51
Il tema dei pionieri, d’altronde, era stato già sfruttato in occasione della guerra di Libia, e già in
quel caso avevamo notato come Corrado Zoli, per esempio, se ne servisse per evidenziare al tempo
stesso la continuità rispetto a un eroico passato ma anche le novità rese possibili da una raggiunta
maturazione sia pratica che ideologica. In questo momento, ossia a pochi anni ormai dalla a lungo
preparata aggressione all’Etiopia, il solco che separa i nuovi conquistatori dai predecessori è ancora
più profondo. Ravagli cita a proposito alcuni nomi celebri, quali Miani, Piaggia, Cecchi, Chiarini,
Robecchi-Bricchetti, Bottego ecc., ma il ritratto che ne fornisce tradisce, accanto all’indubbia e
inevitabile nota elogiativa, l’orgoglio di colui che sente di essere testimone e insieme attore di una
nuova era:
Adoratori del vero o viandanti del sogno, quando non caddero negli agguati della barbarie
furono consunti dalle febbri o abbattuti dalle fatiche. Pazienti e tenaci, innamorati dell’ignoto
per discoprirne i mistici veli, essi chiudono il ciclo eroico dei precursori della civiltà italica nel
continente nero. Sulla via del loro dolore passerà domani, come un saluto, il fremito impetuoso
del velivolo, simbolo di redenzione e araldo di civiltà.52
Non a caso, volutamente riduttivo è anche il quadro che di tutta una generazione di viaggiatori,
tanto diversi per indole, formazione e intenti, viene in appena due righe delineato: in modo di certo
strumentale a un preciso messaggio che l’autore intende comunicare, infatti, le loro imprese sono
celebrate tutte indistintamente come eroiche sì, ma anche fallimentari. Delle indiscutibili conquiste
51
52
Federico Ravagli, Sulle soglie del Continente nero, cit., p. 168.
Ivi, p. 169.
258
ottenute sul piano della conoscenza di un territorio pressoché ignoto, così come della positiva
riuscita e del successo almeno in termini di risultati scientifici di un buon numero di esse − peraltro
ampiamente acclamate all’epoca − non viene fatta alcuna menzione. Quello che preme a Ravagli
sottolineare in questo contesto è infatti l’enorme progresso raggiunto rispetto a una fase di
esplorazione pionieristica che viene di proposito presentata come animata esclusivamente da una
sete di conoscenza fine a se stessa e destinata inevitabilmente a fare i conti con la scarsità di mezzi e
di risorse al tempo disponibili. I viaggiatori ottocenteschi, allora, hanno potuto solo indicare una
strada, marcandola con i segni delle proprie sofferenze e dei propri sacrifici, lasciando in eredità
alla nuova generazione il compito di percorrerla fino in fondo: al significato metaforico
dell’espressione si unisce qui anche quello letterale, dato dalla coscienza di aver ormai a
disposizione mezzi di trasporto in grado di modificare in modo significativo il contatto e
l’appropriazione dei nuovi territori.
3. Una nuova percezione del paesaggio
Come abbiamo messo in luce nei due capitoli precedenti, la più immediata forma di alterità
riscontrata dagli europei che giungono per la prima volta in Africa è di tipo ambientale, nella misura
in cui scaturisce dall’improvvisa visione di un paesaggio, naturale ancor prima che umano, che reca
in sé caratteristiche nuove, conturbanti e affascinanti al tempo stesso, di cui è necessario trovare il
modo adatto per rendere conto. Nella nostra ricostruzione degli sviluppi del genere odeporico lungo
l’arco dell’avventura coloniale italiana, abbiamo del pari tentato di seguire una traccia evolutiva
nell’attitudine manifestata di fronte al paesaggio e nella parallela rappresentazione che di esso viene
di volta in volta fornita. Ci è sembrato possibile, in questo senso, individuare un’evoluzione,
graduale e comunque mai definitiva, da una modalità di percezione dell’ambiente che abbiamo
ritenuto di poter ricondurre all’estetica del “sublime”, in quanto tesa a indulgere su immagini di
spazi aperti e maestosi, dotati di una più intensa e coinvolgente bellezza e dunque potenzialmente
liberatori dalle costrizioni della società moderna53, a quella che abbiamo invece definito pittoresca,
che rivolge un’attenzione esclusiva alle qualità estetiche della natura circostante, giudicata sempre
secondo canoni strettamente europei.
Nel giro di anni di cui ci stiamo occupando, un ulteriore slittamento nella percezione e nella resa
dello spazio esterno è senza dubbio determinato dal parallelo consolidarsi di alcune modifiche
rilevanti che riguardano specificamente lo svolgimento del viaggio stesso: la diminuzione sia delle
difficoltà insite nel tragitto sia dei tempi di percorrenza delle diverse tappe si fa infatti sempre più
consistente grazie al progressivo miglioramento delle infrastrutture, che vede un notevole
53
Cfr. Remo Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, Bompiani, 2008.
259
incremento degli spostamenti attraverso nuove linee ferroviarie e strade carreggiabili. Ecco allora
che diviene sempre più facile imbattersi in quelli che Marc Desportes ha definito “paesaggi della
tecnica”, con cui oggi facciamo i conti quotidianamente, ma che all’epoca rappresentavano una
novità anche in patria: essi devono essere considerati non tanto «spazi contrassegnati
dall’onnipresenza delle infrastrutture dei trasporti, bensì gli sguardi indotti da queste stesse
infrastrutture sull’ambiente circostante».54
I viaggiatori che abbiamo presentato in questo capitolo non solo dimostrano di avere piena
consapevolezza dei mutamenti avvenuti, ma spesso indugiano nel descriverne le conseguenze in
prima persona, compiacendosi di mettere in luce quelle innovazioni tecniche che li hanno resi
possibili. Calciati, ad esempio, non nasconde minimamente al lettore la soddisfazione personale che
prova nel poter attraversare in treno la regione eritrea che separa Massaua, sul Mar Rosso,
dall’Asmara, situata nell’altipiano interno della colonia:
Infatti nulla si potrebbe desiderare di meglio: comodamente assisi fra due ampi finestrini, con
la carta topografica aperta sui tavolini pieghevoli del vagone, il treno procede ad una andatura
tale che permette di osservare le caratteristiche dello strano e variato paesaggio. Ci vengono
così sciorinate davanti agli occhi, in men di cinque ore, quasi tutte le zone altimetriche eritree,
e la flora e la fauna che le distingue, e le varie razze etniche che sono accorse alle piccole
stazioni, e le principali colture con alcuni dei loro prodotti offerti al passeggero, e le visioni più
inaspettate e pittoresche del tormentoso tragitto compiuto dal treno, inerpicantesi sui fianchi
scoscesi dell’altopiano, che svelano tutte le bellezze di un paesaggio ora deserto ed ora
lussureggiante di fitta vegetazione tropicale, ora disabitato e monotono, ed ora pullulante di
mandrie provenienti da lontano, in questa stagione di pascolo naturale!55
Pur essendo ancora definito estraneo a parole, in realtà qui il paesaggio non sembra suscitare nessun
reale moto di stupore, tanto che si stenta a capire quali siano, nella realtà dei fatti, le “inaspettate
visioni” che pare dover regalare. Senza dubbio, comunque, esso non genera più né timore né
tantomeno reverenza: la sua alterità non è sentita come una minaccia, bensì forse come uno stimolo
ancora maggiore a rivendicare una condizione di superiorità da cui dominarla. In questo senso,
infatti, il treno garantisce al viaggiatore una condizione privilegiata da cui osservare il paesaggio
nelle varie e diverse declinazioni che esso assume chilometro dopo chilometro, liberandolo al
tempo stesso dai rischi reali e immaginari cui andavano incontro i primi esploratori. Tuttavia, in
questo modo il confronto con la natura circostante perde la caratteristica di esperienza
multisensoriale che aveva in origine. L’impatto è ora esclusivamente visivo: le immagini scorrono
davanti agli occhi come in una sorta di galleria fotografica, accostate le une alle altre
dall’impassibile andatura del treno, finendo per perdere quasi del tutto il proprio spessore. Di
conseguenza, la stessa descrizione non è più riflesso di un qualsivoglia atteggiamento di
54
Marc Desportes, Paesaggi in movimento. Trasporti e percezione dello spazio tra XVIII e XX secolo, Milano, Libri
Scheiwiller, 2008, p. 12.
55
Cesare Calciati, Luigi Bracciani, Nel paese dei Cunama, cit., p. 7.
260
partecipazione nei confronti della natura - sia esso inteso come tentativo di immedesimazione o
piuttosto come manifestazione di potenza e rivendicazione di dominio - bensì risulta appiattita in
una successione di quadri osservati da uno spettatore qualsiasi. La velocità con cui essi si alternano
sotto lo sguardo rapito del passeggero è sottolineata dall’autore anche sintatticamente attraverso il
polisindeto, che concorre a comunicare un senso di rapida, e pertanto anche superficiale, fruizione
delle immagini a lui “sciorinate” attraverso il finestrino, ossia appunto distese, appiattite in una
assoluta bidimensionalità.
In modo alquanto simile reagisce allo spettacolo osservato dal vagone di un treno il missionario
Giovanni Ciravegna, che pure si trova, come abbiamo già ricordato, nella regione etiopica del
Caffa, non nella colonia Eritrea, e precisamente a bordo del treno che conduce da Gibuti ad Addis
Abeba. Egli sottolinea del pari l’alternanza di scenari che si succedono rapidi sotto i suoi occhi, in
un elogio entusiasta di quella varietà africana che sembra essere divenuta la caratteristica in sé più
attraente, ormai, per il viaggiatore straniero:
Panorami superbi dappertutto: l’Etiopia è veramente una “Svizzera sotto i tropici” e si capisce
ch’essa abbia avuto sempre tanto fascino su quelli che l’han visitata, pel contrasto
meraviglioso dei suoi immensi altipiani col resto dell’Africa tropicale e torrida. Monti e valli
da ogni parte, resi più belli e seducenti dal pensiero del deserto lasciato indietro; musiche di
ruscelli in fondo a tutte le valli; distese di pascoli fioriti fin dove l’occhio può arrivare.56
È particolarmente evidente, nel brano appena riportato, l’influenza che sulla resa del paesaggio
esercita il punto di vista in movimento: non ci troviamo infatti di fronte, come siamo più abituati,
all’immagine mozzafiato di un tramonto africano con il suo riverbero di colori, né a quella
rassicurante di un corso d’acqua che feconda e rende rigogliosa la vegetazione circostante. Al
contrario, il trionfo della natura sull’altipiano etiopico, cui è dato di assistere attraverso il finestrino
del treno in corsa, colpisce e dunque affascina ancora di più proprio in quanto viene rapidamente a
sostituirsi alla distesa desertica e desolante attraversata fino a qualche istante prima.
Talvolta, peraltro, è l’immagine stessa del treno che, superbo, impone la propria presenza sul
territorio a modificarne inevitabilmente i contorni e la percezione da parte del soggetto che lo
osserva, acquisendo anche una forte e spesso volutamente insistita valenza metaforica. Augusta
Perricone Violà apre nel modo seguente il secondo capitolo del proprio resoconto:
Le lucenti rotaie della piccola ferrovia tagliano la sterminata savana come due raggi sottili che
si confondono lontano in un solo bagliore, ed il carrello veloce, atomo di progresso lanciato fra
il grigiore opaco della steppa, corre stridendo, col palpito accelerato del suo cuore di acciaio.
Tutt’intorno è la grigia aridità dei cespugli spinosi che s’intrecciano, dei cactus aggrovigliati,
che pare stringano con le braccia nodose e contorte le rigide euforbie; degli sterpi secchi caduti
un po’ dappertutto; di tutte le cose morte, di tutte le cose inutili che formano la immensa
savana. Al rumore del convoglio balzano fuori fuggendo, sorpresi e spauriti, gli animali
56
Giovanni Ciravegna, Nell’impero del Negus Neghest. Viaggio di esplorazione apostolica, cit., p. 25.
261
selvatici e gli uccelli variopinti, sprazzi di vita, lampi di movimento fra tutta quella natura
morta immobile: […] Tutta la vita che si nasconde silenziosa fra il paesaggio di morte, balza
fuori un istante per perdersi ancora fra gli intrichi ed i grovigli del grande labirinto.57
In questo caso, l’autrice non guarda al paesaggio dalla posizione privilegiata del sedile del vagone,
bensì ne osserva dall’esterno l’implacabile corsa attraverso l’arida regione somala: protagonista
indiscusso è qui dunque non più tanto lo spazio naturale africano, quanto lo stesso mezzo di
trasporto che su di esso si impone, simbolo evidente del progresso apportato in colonia dalle
innovazioni tecniche provenienti dalla madrepatria e, più in generale, dal nuovo dominio italiano.
Non a caso, come d’altronde avveniva già in alcuni passi citati in precedenza, l’accento è posto su
una caratteristica specificamente visiva, ossia la luminosità delle rotaie che spezza la monotonia
cromatica del deserto (al “grigiore opaco della steppa” si aggiunge “la grigia aridità dei cespugli”)
e, al tempo stesso, infonde nuova vitalità a un ambiente di cui, per contrasto, vengono sottolineate
la desolazione e l’immobilità. Il convoglio si fa strada, infatti, attraverso la presenza ossessiva di
elementi naturali che sembrano fare di tutto per impedirne il passaggio: l’autrice insiste nel
costruire un’immagine della savana africana come luogo impenetrabile, dove i cespugli si
intrecciano, le piante si aggrovigliano e gli sterpi si ammassano sul terreno contribuendo a serrare
l’ambiente nel suo atavico mistero. Un mistero che però, come si diceva, non ha più nulla di
affascinante, bensì equivale ormai solo ad arretratezza, vanità e, in fin dei conti, morte (termine,
quest’ultimo, che ricorre per ben tre volte nello spazio di poche righe). L’unico segno di vita,
d’altronde, è costituito dalla presenza di esseri animati, i quali tuttavia si palesano solo nel momento
in cui sembrano poter essere anch’essi risvegliati, sia pure momentaneamente, dall’incedere
incurante e superbo del treno: si tratta, com’era facile a questo punto aspettarsi, di animali, e non di
uomini la cui completa assenza dal quadro risponde all’intenzione strumentale di mostrare un
paesaggio privo di qualsivoglia caratterizzazione locale, e dunque persino più disposto ad
accogliere i nuovi colonizzatori.
Se una simile esaltazione della potenza dei propri mezzi, e di conseguenza anche dell’inevitabile
soccombere della passività africana di fronte alla frenesia creatrice e costruttrice dei conquistatori
italiani, trova un saldo pilastro di sostegno nelle nuove potenzialità (in termini di collegamenti,
commerci, penetrazione) e prospettive (soprattutto come appropriazione estetica del paesaggio,
appunto) aperte dallo sviluppo delle linee ferroviarie, è naturale che un vero e proprio delirio di
onnipotenza tenga dietro a quelle che sono le prime esperienze di sorvolo del territorio africano,
rese possibili dalla recentissima nascita del trasporto aereo. L’opportunità di compiere un breve giro
a bordo di un velivolo suscita già di per sé in Ravagli, ad esempio, «un senso di sicurezza, di
57
Augusta Perricone Violà, Ricordi somali, cit., pp. 19-20.
262
mistica serenità, di gioia dell’anima che s’effonde nel libero cielo».58 Il paesaggio osservato, che è
un diverso e ulteriore esempio di quei “paesaggi della tecnica” cui accennavamo in precedenza, ne
esce inevitabilmente trasfigurato, eppure ancora meno caratterizzato nella sua essenza umana e
territoriale. A rapire l’attenzione del viaggiatore è ora solamente la nuova prospettiva visiva
consentita dalla posizione sopraelevata del proprio punto di osservazione, indipendentemente da ciò
che in effetti scorre sotto i propri occhi:
Fuggevole incanto delle piccole cose che vanno vanno, laggiù piccole e sole, in una parata
senza confini fatta per gioco: minuscola scenografia favolosa di silenzi su cui andiamo
roteando come dominatori. Laggiù laggiù sono i piccoli uomini col loro travaglio insonne: e le
cose che non hanno più forma. […] La visione geografica del territorio è perfetta. Il turista ha
un campo d’osservazione limitato e ristretto: è osservatore di un mondo troppo breve e
circoncluso.59
Qui, finalmente, l’eccitazione derivante dalla consapevolezza del pieno controllo sull’ambiente
sottostante si fa del tutto esplicita: visto dall’alto, il paesaggio non comunica più semplicemente
sensazioni di morte e di desolazione; al contrario, riacquista una nota di fascino nel momento in cui
si riduce ulteriormente a piatto e muto scenario, dove ogni cosa è privata di contorni e quindi di una
sua reale sostanza. In questo contesto, allora, persino la figura umana può essere reintrodotta, in
quanto anch’essa pedina inconsistente di un gioco da tavola, marionetta anonima le cui mosse sono
decise dall’alto, e che in quanto tale non costituisce la benché minima minaccia all’avanzamento
implacabile del progresso. Ciò che conta è ora la visione d’insieme, la massima apertura degli spazi
offerta dalla nuova potenza tecnica rappresentata dal velivolo in movimento, mentre i particolari
non sembrano più suscitare alcun interesse. Su questa scia viene del tutto ridimensionata
l’esperienza conoscitiva realizzabile nelle vesti di “turista” (che coincide, in pratica, con quella di
uno qualsiasi dei viaggiatori che abbiamo incontrato finora), il cui orizzonte non può allargarsi a
comprendere il territorio nella sua reale estensione geografica, e che pertanto finisce sempre per
avere una percezione limitata e parziale di quello che ha di fronte. Se la descrizione di Ravagli
riesce, di certo consapevolmente, a comunicare il profondo senso di orgoglio dell’autore derivante
da una sicura supremazia ideologica e fisica su un mondo presentato come attonito e impotente,
quest’ultimo al tempo stesso non può più aspirare nemmeno a rappresentazioni idealizzate e
stereotipiche di una sua più o meno radicale alterità, nel momento in cui davvero pare non meritare
più, in se stesso, alcuna considerazione.
Sarebbe tuttavia frutto di una generalizzazione eccessiva affermare che la descrizione di quelli
che abbiamo ritenuto opportuno definire “paesaggi della tecnica” divenga improvvisamente l’unica
forma di percezione del territorio messa in atto dai viaggiatori che si accostano al continente
58
59
Federico Ravagli, Sulle soglie del Continente nero, cit., p. 165.
Ivi, pp. 165-6.
263
africano e ne lasciano testimonianza tra gli anni Venti e Trenta del nuovo secolo. Si tratta, piuttosto,
di una tendenza e non di una regola, la cui contravvenzione può talvolta essere determinata
dall’intento di rendere omaggio a una tradizione di descrizione del paesaggio africano già piuttosto
corposa e consolidata: anche quando, come abbiamo visto, l’atteggiamento di fronte all’ambiente
naturale si è in buona parte modificato soprattutto in conseguenza dei nuovi apporti della tecnica,
modalità di rappresentazione di esso non più pienamente condivise possono comunque trovare
ancora alcuni spazi di espressione. L’attitudine pittoresca, in particolare, in cui si riflette un
avvenuto distanziamento del soggetto rispetto all’oggetto osservato che viene generalmente fatto
risalire al nuovo rapporto instaurato dall’uomo con lo spazio a partire dal Rinascimento (e con un
impulso decisivo dato proprio dallo sviluppo dell’arte pittorica) 60, è ancora quella prevalente
soprattutto nel momento in cui è l’elemento umano, immobilizzato all’interno di un quadro
assolutamente statico e senza prospettiva, a costituire il punto focale dell’osservazione:
Confesso che quella mia prima cavalcata africana, eseguita da solo, senza conoscere la
regione, con la responsabilità della parte più importante del bagaglio, aveva eccitato la mia
fantasia predisponendomi a gustare tutta la parte pittoresca e romantica contenuta nel quadro
magnifico composto dal bivacco dei nostri uomini e dei nostri cammelli […] L’ebano della
loro pelle [cammellieri], il bianco delle loro tuniche ed i riflessi delle fiamme coi loro effetti di
ombre, formavano i più fantastici contrasti di una scena indescrivibile svolgentesi tra statue di
nero bronzo, semoventi.61
Calciati è in questo caso preda di una sorta di auto-suggestione derivante dall’assunzione di un
ruolo da protagonista-eroe che amplifica inevitabilmente, per sua stessa ammissione, la percezione
della scena che si trova di fronte. Siamo perfettamente in grado di riconoscere che, in realtà, gli
elementi presentati dall’autore a sostegno dell’eccezionalità della propria impresa sono anch’essi
evocati più per ossequio a una tradizione di viaggiatori a sé antecedenti che non per una loro
effettiva consistenza: tanto l’ignoranza della regione visitata quanto l’onere del controllo sulla
carovana sono ampiamente bilanciati, infatti, dall’avvenuto miglioramento delle condizioni di
sicurezza e di trasporto. La millantata solitudine del viaggiatore, che vuole essere un ulteriore
motivo di orgoglio, si fonde allora con l’edificante e scoperta sensazione di dominio incontrastato
su tutto ciò che lo circonda, e che si esprime anche attraverso la resa − “pittoresca” appunto, ossia
del tutto incentrata sulle impressioni che trasmette a colui che la guarda − dell’immagine della
carovana a riposo nella quiete notturna. Le figure umane, infatti, sono pura parvenza, statue
immobili capaci di suscitare interesse esclusivamente per gli effetti cromatici che sono in grado di
produrre (anche grazie, si noti, al colore scuro della propria pelle, che contrasta marcatamente con il
60
61
Si veda Alain Roger, Breve trattato sul paesaggio, Palermo, Sellerio, 2009.
Cesare Calciati, Luigi Bracciani, Nel paese dei Cunama, cit., p. 33.
264
bianco delle vesti) e che concorrono già di per sé a creare uno scenario da favola, reciso ogni
legame con il referente reale.62
Se è peraltro così semplice per Calciati ridurre a piatte decorazioni da fondale di palcoscenico,
prive di spessore ma intriganti per un certo alone di mistero loro attribuito, le nere figure dei
cammellieri indigeni raccolti intorno al fuoco nel riposo serale che prelude a un’altra giornata di
marcia, ancora meglio si presta a una simile riduzione banalizzante la “fantasia”, ossia una sorta di
danza rituale eseguita da gruppi di uomini o donne locali, cui molti viaggiatori europei si trovano
spesso ad assistere. Anche in questo caso, infatti, quelli che dovrebbero essere i protagonisti dello
spettacolo osservato vengono rapidamente liquidati come «un gruppo eteroclito di esseri neri e
luccicanti al sole, spiccanti sullo sfondo bianco e luminoso dello scenario circostante», ridotti a
marionette di nuovo identificabili solo attraverso contrasti cromatici e movimenti che compiono,
alieni da ogni vera essenza umana, ma «di un effetto coreografico quanto mai primitivo e
selvaggio».63
Allo stesso modo, anche paesaggi allo “stato puro”, da cui cioè resta realmente esclusa la
presenza umana mentre lo sguardo si concentra esclusivamente sullo spettacolo naturale, vengono
ammirati per l’effetto diretto e immediato che hanno sul viaggiatore, il quale sembra ogni volta
scoprirli all’improvviso e restarne immancabilmente rapito:
Lo spettacolo che si gode da Gardulla è addirittura meraviglioso. Sotto di me i due laghi,
Ciamò e Margherita, divisi da una striscia di terreno e tutto l’orizzonte a perdita d’occhio,
circondato da alti monti pittoreschi, mi offrono un tale spettacolo da farmi dimenticare
stanchezza, fatiche, sofferenze…64
Qui Asinari Di San Marzano si trova, oltretutto, in una posizione sopraelevata, e dunque privilegiata
e dominante, rispetto al panorama che si offre al suo sguardo come un’immagine da cartolina, da
godere come meritato ristoro dalle fatiche del viaggio. In questo senso, la condizione di osservatore
indisturbato dall’alto di uno spettacolo “disteso” ai propri piedi è parte integrante dello stesso
godimento estetico, il quale evidentemente scaturisce non solo dalla bellezza del quadro in sé ma
anche dalla consapevolezza di una ormai indiscutibile superiorità, espressa anche attraverso il
dominio fisico su un territorio sottostante: «Salgo, salgo sempre, desideroso come sono di potermi
62
D’altronde, anche le fotografie, che intervallano numerose il racconto dello stesso Calciati andando a costituire un
apparato iconografico inteso ormai come sostegno irrinunciabile all’elaborazione memoriale, non garantiscono affatto
una resa ingenua e immediata della realtà. Al contrario, soprattutto in forza delle didascalie che le accompagnano,
mirano spesso allo stesso modo a comunicarne una visione nettamente orientata, che il lettore non deve far altro che
prendere per buona e accettare. Si veda, per esempio, la figura 52, ritraente alcune indigene e accompagnata dalla
notazione: «il quadro pittoresco delle donne, di nero bronzo», che conduce nella stessa direzione interpretativa del
brano che abbiamo appena commentato.
63
Cesare Calciati, Luigi Bracciani, Nel paese dei Cunama, cit., p. 61.
64
Roberto Asinari Di San Marzano, Dal Giuba al Margherita, cit., p. 162.
265
trovare più in alto possibile per dominare il terreno circostante che mi offrirà uno spettacolo sempre
più grandioso»65, annota lo stesso Di San Marzano nel suo diario.
Infine, se pure possiamo trovare tracce di residuo esotismo anche nei resoconti di questi anni,
esse appaiono non solo quanto mai sterili e posticce, ma spesso persino apertamente intese come
irrinunciabili caratteristiche del genere odeporico (specificamente riferito al continente africano)
che è pressoché obbligatorio rispettare. Annota di nuovo Calciati:
Si abusa spesso, nei viaggi, delle descrizioni di tramonti e di levar del sole; ma come sottrarsi
alla tentazione (vana senza dubbio per due poveri scrittori come noi) se ogni giorno eravamo
usi assistere all’uno e all’altro, subendone tutto il fascino, tutta la suggestione? Poiché nessuno
potrà mai contestare la potenza mistica che esercitano sull’animo umano questi due quotidiani,
perenni, fenomeni della Natura! […] a maggior ragione si rafforza per noi qui, che siamo
avvolti dalla maliarda suggestione delle terre d’Africa…66
Alle parole, in questo caso, non tengono nemmeno dietro i fatti, laddove l’evocazione del tramonto
e dell’alba africani, e dell’immancabile estasi che entrambi sono in grado di suscitare
nell’osservatore europeo, ne soppiantano poi l’effettiva descrizione. Quest’ultima, infatti, perde in
un certo senso anche la sua stessa ragion d’essere, in quanto si limiterebbe ad allinearsi a una
tradizione già ampiamente rappresentata, di certo ben nota anche al lettore, e dunque inutile da
riattivare nel dettaglio. Resta allora soltanto l’individualistica esaltazione delle proprie sensazioni,
della cui effettiva realtà non possiamo oggi fare a meno di dubitare.
4. La donna in colonia
La rappresentazione del paesaggio, nelle varie e complesse articolazioni e sfaccettature che
assume e di cui abbiamo tentato di ricostruire lo sviluppo, offre dunque un prezioso filo conduttore
attraverso cui seguire la parallela evoluzione, a un livello più ampio, nell’accostamento a un’alterità
territoriale ancor prima che umana, sulla quale i viaggiatori italiani dimostrano di voler imporre uno
sguardo sempre meno disincantato e di contro sempre più orientato in un’ottica di conquista e di
dominio. Abbiamo, in modo simile, ritenuto opportuno rendere conto della rappresentazione che gli
stessi protagonisti offrono di volta in volta della donna indigena, alla quale già a fine Ottocento
viene riservata una particolare considerazione derivante senza dubbio dal fatto di unire all’alterità
etnica una seconda forma di alterità di tipo sessuale. Ecco che, allora, nel generale disinteresse
accordato di per sé alla figura umana locale, la donna viene al contrario a costituire, nei resoconti di
viaggio, un imprescindibile elemento di riferimento, alternativamente fatto oggetto di compassione,
derisione, fastidio, ammirazione e via dicendo, ma comunque di rado ignorato nella sua ben marcata
e talora persino ossessiva presenza.
65
66
Ivi, p. 37.
Ivi, p. 70.
266
Com’era facile aspettarsi, e come abbiamo messo in luce nel capitolo precedente, la situazione
viene a modificarsi almeno in parte nel momento in cui alla prospettiva maschile comunque
dominante si affianca quella femminile, espressa autonomamente dalle prime donne italiane che si
trovano a viaggiare o a risiedere in colonia. Nelle scritture di Elena di Francia e di Rosalia PianaviaVivaldi, ad esempio, non trovano posto i più consueti ritratti, fascinosi e conturbanti, delle Veneri
africane; al contrario, le donne bianche, preoccupate di ritagliare per se stesse un ruolo all’interno
della nuova realtà umana e sociale, dimostrano nei confronti delle loro “sorelle” locali un
atteggiamento per lo più compassionevole e paternalistico, volto a sottolinearne la netta inferiorità e
a indicare contemporaneamente in se stesse delle potenziali educatrici.
Inoltre, come abbiamo brevemente accennato ancora in relazione alla figura della Vivaldi, nel
corso del Novecento si fa sempre più urgente la questione dei meticci, strettamente legata alla
scarsa presenza in colonia di donne italiane e al proliferare di unioni più o meno legittime tra
uomini italiani e donne locali. D’altronde, la preoccupazione, ma anche la necessità, di stabilire uno
statuto giuridico adeguato e coerente per un numero sempre più elevato di bambini, spesso peraltro
abbandonati dai rispettivi genitori, è testimoniata a partire dagli anni Trenta dal parallelo sviluppo
di una legislazione specifica a riguardo, per quanto inizialmente incerta e oscillante, destinata a
divenire sempre più aspra e contraddittoria nel giro di appena un decennio. 67 Com’è noto,
soprattutto all’indomani dell’avvenuta brutale conquista (almeno sulla carta) dell’Etiopia, Mussolini
si trova di fronte al problema di governare un territorio tanto vasto quanto ostile ai nuovi occupanti,
e per farlo sceglie di puntare prima di tutto sulla difesa del prestigio della razza italica, rinforzando
dunque la separazione teorica e pratica tra colonizzatori e colonizzati. 68 Nell’ottica politica e
ideologica del regime, infatti, il meticcio rappresenta non solo un problema ma una vera e propria
minaccia, un ostacolo tangibile all’intento portato avanti in maniera sempre più decisa di allargare
la comunità bianca, ovvero di “razza pura”, in colonia.
Anche se, ad ogni modo, il fascismo arriverà solo nella seconda metà degli anni Trenta a toccare
i vertici della propria politica razziale (e razzista) in Africa, ciò non toglie che fin dalla sua ascesa al
potere metta in atto una progressiva sensibilizzazione interna alla nazione, volta a suscitare e
consolidare, accanto alla coscienza coloniale già ricordata, una parallela consapevolezza di tipo
67
In seguito a quanto stabilito con l’Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia, del 1933, i meticci possono
aspirare alla cittadinanza italiana, purché rivelino di esserne degni; i figli di genitori ignoti possono chiedere la
cittadinanza, se si accerta che siano di razza meticcia; il padre italiano ha la facoltà di riconoscere i figli meticci, senza
dover per questo sposare la madre indigena. Tuttavia, già nell’Ordinamento emanato nel 1936 per l’amministrazione
dell’Africa Orientale Italiana questi stessi articoli sulla legittimazione dei meticci vengono per lo più omessi, finché
nuove leggi emanate negli anni successivi vietano le unioni miste così come il riconoscimento dei figli nati da queste.
Infine, nel 1940, specifiche Norme relative ai meticci equiparano questi ultimi ai nativi a tutti gli effetti, con il
paradosso della non retroattività. Per un approfondimento della questione si veda Barbara Sòrgoni, Parole e corpi.
Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), cit.
68
Sulla questione si veda anche Giulia Barrera, Dangerous liaisons. Colonial concubinage in Eritrea (1890-1941),
cit.
267
specificamente razziale, che coinvolge direttamente la figura femminile. Non dobbiamo
dimenticare, infatti, il complesso e mai del tutto univoco atteggiamento manifestato dal regime nei
confronti della donna, sempre oscillante tra tradizione e modernità, tra una visione di essa come
garante del focolare domestico e il suo contemporaneo inserimento nel percorso di mobilitazione
delle masse, tra una sua modernizzazione apparentemente perseguita e promossa e la sua sempre
negata e repressa emancipazione.69 Nella questione coloniale, in particolare, il suo intervento viene
a un certo momento a porsi come non solo auspicabile ma necessario, in quanto unico possibile
argine alla presunta degenerazione morale subita dagli italiani a contatto con le donne indigene:
ecco che l’italiana, già in patria moglie e madre di famiglia esemplare, viene sempre più
incoraggiata a seguire il proprio uomo in Africa, dove è chiamata esplicitamente a svolgere un
ruolo moralizzatore dei costumi e difensore dell’onore e della rispettabilità di razza.
Ora, è inevitabile che una simile, per quanto − vale la pena di ripeterlo − progressiva e a tratti
sfuggente, presa di posizione in materia si rifletta anche nel modo in cui gli italiani che si recano in
colonia negli anni del regime si relazionano all’elemento femminile africano che inevitabilmente
incontrano sulla propria strada. Prima di tutto, mi sembra innegabile che ci troviamo in questi casi
di fronte a un notevole ridimensionamento dello spazio stesso che viene accordato, nell’economia
dei vari resoconti di viaggio, alla donna indigena in quanto tale: rispetto, in altre parole, alla
molteplicità di atteggiamenti con cui essa veniva osservata, ritratta, ma anche ovviamente giudicata
(sui quali ci siamo soffermati nel secondo capitolo del presente lavoro) dai primi esploratori italiani,
ora al contrario sembra in effetti suscitare un interesse davvero scarso, e soprattutto divenire oggetto
di una valutazione, senza dubbio denigratoria, modulata sempre sui medesimi argomenti.
Della Venere Nera, capace con il fascino ammaliante della sua apparizione di turbare e
confondere il viaggiatore che se la trova di fronte spesso per la prima volta, non c’è sostanzialmente
traccia nei resoconti di questi anni. E in effetti, a ben guardare, una simile rappresentazione
stonerebbe non poco con quella che diviene invece la caratteristica dominante associata alla donna
indigena in colonia, ossia una forma di sostanziale sgradevolezza che davvero non sembra
possedere in sé alcuna attrattiva per l’uomo italiano. Delle dancale, ad esempio, cui Renzo
Martinelli riconosce se non altro il possesso di una certa «armonia estetica» ma solo in «età
giovanissima», in quanto «cosa fuggevole»70, Raimondo Franchetti dà un’immagine quanto mai
desolante, definendole «donne non brutte, ma consunte dagli stenti e dalla fame, coi loro piccoli
figli dagli occhi smarriti»,71 capaci dunque al più di suscitare un sentimento di pietà. D’altronde,
avevamo notato come già Ferdinando Martini, nel suo resoconto di viaggio nella primigenia colonia
69
Sull’argomento si veda almeno il fondamentale studio di Victoria de Grazia, Le donne nel regime fascista,
Venezia, Marsilio, 1993.
70
Renzo Martinelli, Sud. Rapporto di un viaggio in Eritrea ed in Etiopia, cit., p. 362.
71
Raimondo Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., p. 102.
268
Eritrea, insistesse proprio sull’aspetto degradato e quasi ripugnante delle donne incontrate, attribuito
allo stesso modo alle difficili condizioni di vita da loro sostenute. Martini, tuttavia, piegava
l’argomento ai propri fini, nell’intento di mettere in cattiva luce gli uomini locali, principali
responsabili dello sfruttamento e dunque del rapido declino fisico delle loro compagne. Franchetti,
invece, non fa distinzione di alcun tipo tra uomini e donne, entrambi chiamati in causa in quanto
unica forma di vita nell’imperante desolazione del deserto dancalo, e dunque implicita
testimonianza, nel loro evidente squallore, dell’opportunità di un intervento civilizzatore esterno,
che possa smuoverli da un’atavica arretratezza. In questo senso, tuttavia, nella donna viene spesso
riscontrato un adeguamento passivo alla condizione in cui è posta che, seppure apparentemente
sottolineato come elemento che stupisce l’uomo bianco, in realtà la rende ai suoi occhi il soggetto
ideale su cui esercitare la propria volontà di potenza. Una volta stabilito che «la maggiore felicità
per lei è sentirsi malinconicamente viva, sentirsi una proprietà altrui, rassegnata e delusa, senza
diritti, eccettuati quelli che la fanno ancora più schiava»72, ogni scrupolo nel mettere in atto
un’ulteriore forma di sottomissione può facilmente essere bandito.
Non privo di contraddizioni, e specchio evidente di un talora goffo tentativo di far risaltare per
contrasto quella italiana, ritenuta superiore a prescindere, è poi il modo in cui viene di frequente
giudicata la moralità indigena, e specialmente quella femminile, soprattutto in relazione alla
gestione dei rapporti affettivi. Nel momento in cui si trova costretto, per meglio proseguire il
proprio viaggio, a ridurre la carovana allo stretto necessario, Franchetti fa atto di stupirsi del fatto
che le donne abissine si dimostrino oltremodo restie ad andarsene, considerando disonorevole
tornare ad Asmara prima dei loro ascari:
Gente strana e sensibile queste abissine, con un senso di amor proprio tutto speciale e che
niente ha a che fare con la comune morale. Transigono molto su quest’ultima, o per meglio
dire hanno di essa un concetto diverso dal nostro, ma temono molto la critica.73
Il gesto di fedeltà delle indigene, che tradisce evidentemente un nobile e sincero sentimento di
preoccupazione per la sorte dei propri compagni, viene volutamente ridotto dall’autore a una
caparbia manifestazione di orgoglio personale, e dunque del tutto privato di quella valenza affettiva
e altruistica che traspare al contrario dalla descrizione del gesto stesso. Quest’ultimo viene anche
interpretato come una manifestazione che esula evidentemente da quelli che sono i canoni della
morale italiana (peraltro non meglio specificati), e per questo motivo ulteriormente sminuito del suo
valore originario, come se esso dipendesse appunto dalla minore o maggiore aderenza a un’etica di
matrice strettamente italiana. Lo stesso Franchetti, d’altronde, torna anche altre volte, nel corso del
testo, a insistere nel tentativo di presentare non solo come singolari, ma anche in un certo qual
72
73
Sem Benelli, Io in Affrica, Milano, Mondadori, 1936, p. 42.
Raimondo Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., p. 152.
269
modo sconvenienti, abitudini indigene legate alla sfera affettiva, le quali spesso rivelano peraltro un
senso di pudicizia e di decoro tutt’altro che indegno. Ecco che, allora, di fronte alla rigorosa
astensione in pubblico della donna da qualsiasi tipo di effusione sentimentale nei confronti del
proprio marito, in quanto «sarebbe considerato atto sconveniente e immorale», l’autore omette
qualsiasi ulteriore commento, lasciando cadere nel vuoto questo suo chiaro ma forse inavveduto
cenno a un comportamento eticamente ineccepibile della donna indigena.74
Scarti rispetto al quadro che abbiamo appena delineato sono davvero rari da trovare nelle pagine
dei viaggiatori italiani del ventennio fascista. Da un resoconto all’altro, i motivi per cui la donna
viene evocata si ripetono con una sostanziale invariabilità: se il suo atteggiamento è prova
immancabile della non esistenza presso i popoli indigeni di un sentimento di amore degno di questo
nome, le sue fattezze, quand’anche non brutte all’origine, sono irrimediabilmente corrotte dal
lavoro e dagli stenti; infine, manca ad essa ogni senso di pudore, al punto che i missionari, come
ricorda ancora Martinelli, faticano nel cercare di coprirla con misere vesti. Un simile ritratto,
d’altronde, doveva in buona parte essere funzionale all’intento di contenere, se non annullare del
tutto, la carica attrattiva che la donna indigena evidentemente continuava ad esercitare sull’uomo
italiano in colonia, la cui realtà e le cui conseguenze impensierivano sempre di più i vertici
governativi nazionali.
Non stupisce, allora, che anche il costume del madamato, la cui diffusione a questa altezza
cronologica doveva essere molto ampia e preoccupante (al punto che verrà esplicitamente
considerato un crimine e dunque vietato dalla politica sessuale razzista del regime a partire dal
1935) tenda nei resoconti dei viaggiatori a essere in un certo senso ridimensionato sia nella sua
effettiva portata che nella sua stessa ragion d’essere. Nel mettere in evidenza, ad esempio, il fatto
che tale unione ha solo agli occhi degli indigeni valore di matrimonio, in quanto i genitori della
donna pretendono in cambio il versamento di una somma in denaro, Martinelli sottolinea del pari
che l’abbandono «per l’africana in genere, non ha grande importanza; perché non ha importanza
l’amore. La donna nera soffre di cento malanni, ma di mal d’amore no […] La nera è mamma, non
è donna d’amore».75 Con la perentorietà di simili affermazioni l’autore vuole chiaramente rigettare
ogni eventuale biasimo nei confronti di quegli italiani (ed erano senza dubbio la maggioranza) che
non si facevano scrupoli di abbandonare, al momento del rientro in patria, la compagna indigena,
dopo averla ingannata mediante il formale rispetto delle usanze coniugali locali. Al tempo stesso,
Martinelli mira anche, come accennavamo, a distogliere lo sguardo dalla potenzialmente pericolosa
sensualità della donna africana, esaltata da numerosi viaggiatori delle generazioni precedenti,
74
75
Ivi, p. 225.
Renzo Martinelli, Sud. Rapporto di un viaggio in Eritrea ed in Etiopia, cit., p. 120.
270
sottolineandone, al contrario, l’attitudine spiccatamente materna, che dovrebbe essere garanzia
sufficiente di una sua scarsa propensione all’ars amatoria.
Lo scrittore Pietro Gerardo Jansen, che si reca in Abissinia meno di un anno prima della sua
conquista da parte italiana, dà del madamato una spiegazione del tutto utilitaristica, ugualmente
improntata a sminuirne il valore, privandolo di ogni minimo sostrato affettivo. Egli descrive infatti
la madama indigena come un semplice surrogato della donna italiana la quale, in forza della propria
costituzione fisica (ma è lecito presumere anche morale) delicata e raffinata, non può sopportare il
caldo infuocato e opprimente di Massaua. Una prova a supporto di tale interpretazione risiederebbe
per l’autore nel fatto che il madamato è meno diffuso per esempio all’Asmara, dove il clima più
salubre e temperato permette alle donne italiane di restare accanto ai propri mariti. Jansen si spinge
anche oltre nel processo di svalutazione della pratica in sé, e dunque di riflesso anche della donna
che ne è protagonista essenziale, già ben avviato da Martinelli. Prima di tutto, ci tiene a sottolineare
come la scelta della madama non sia mai casuale, bensì si indirizzi sempre su donne
particolarmente belle o dotate di specifici pregi; il che peraltro, a giudicare dall’immagine divulgata
in questi anni della donna indigena, doveva quantomeno rappresentare una rarità (condizione a sua
volta oltremodo improbabile, vista la diffusione del fenomeno da ogni parte testimoniata). Inoltre,
l’autore non solo si allinea con Martinelli nel respingere ogni potenziale accusa nei confronti
dell’uomo italiano che, dopo essersi impegnato con un’indigena e aver molto spesso avuto anche
figli da lei, sia poi pronto a liquidarla in un batter d’occhio, ma vuole persino dimostrare che un
simile comportamento finisce, in realtà, per tornare a vantaggio della donna stessa. Una volta,
infatti, che «il suo provvisorio marito sarà stanco e vorrà sbarazzarsene»76, di certo la madama sarà
poi contesa avidamente nel proprio villaggio, in forza dell’acculturamento e raffinamento acquisiti
attraverso il contatto prolungato con il compagno italiano. E non bisogna dimenticare che l’ipocrisia
malcelata in ragionamenti di questo tenore, se davvero oggi si offre a noi lettori disincantati in tutta
la sua evidenza, non doveva di certo essere altrettanto palese agli occhi dei fruitori contemporanei, i
quali
ricevevano
d’altronde
informazioni
sulle
società
coloniali
quantitativamente
e
qualitativamente ben selezionate dall’accorta opera di censura del regime.
Entrambi gli autori che abbiamo da ultimo considerato si dimostrano del pari “sensibili” alla
questione del meticciato: per quanto condividano su di essa un giudizio sostanzialmente negativo,
divergono tuttavia anche piuttosto significativamente nel modo in cui fanno mostra di reagire alla
sua effettiva presenza. Contrariamente a quanto saremmo portati a pensare, è Jansen che, sia pure
scrivendo il proprio resoconto di viaggio a ridosso della campagna mussoliniana d’Etiopia, e
dunque cronologicamente ben più vicino all’inasprimento delle politiche razziali ad essa
76
Pietro Gerardo Jansen, Abissinia di oggi. Viaggio in Etiopia, Milano, Marangoni, 1935, p. 44.
271
conseguente, liquida la questione in poche parole. Negando prima di tutto l’allarmante estensione
del fenomeno, evidentemente tale se in grado di scatenare a breve la drastica reazione legislativa del
regime77, è comunque fiducioso in una sua possibile “soluzione” per così dire naturale, derivante
semplicemente dall’opportuno inquadramento dei meticci stessi all’interno del nuovo ordine
instaurato dal fascismo, in modo tale che potranno anch’essi essere nobilitati «e resi italiani nel
senso più nobile ed elevato della parola».78 La posizione dell’autore è senza dubbio specchio del
clima di incertezza e confusione che ancora regnava, nel 1935, sulla questione: non possiamo
evitare di ricordare che in un ristrettissimo giro di tempo Mussolini proibirà in colonia ogni tipo di
intimità (almeno formale, ché la prostituzione, opportunamente regolata e controllata, continuerà ad
essere pratica legale) con le donne africane a quegli stessi uomini italiani che, proprio nel 1935,
avevano dato avvio alla campagna d’Abissinia al suono della rinomata canzonetta “Faccetta
Nera”. 79 È dunque verosimile supporre che lo scrittore, sulla scorta delle ultime disposizioni
emanate dal governo e risalenti al 1933, che prevedevano la possibilità per i meticci di ottenere la
cittadinanza italiana in seguito al riconoscimento da parte del padre, intenda consapevolmente farsi
portavoce e divulgatore dell’idea in base alla quale, almeno a determinate condizioni, i bambini nati
da unioni miste possano aspirare a elevarsi al rango dei loro simili “puri”.
Negli stessi anni, tuttavia, e proprio a sostegno e rafforzamento delle politiche eugenetiche
sempre più radicali (non solo, com’è noto, in ambito italiano), acquistano credito e prendono
rapidamente piede teorie pseudo-scientifiche volte a dimostrare l’intrinseca inferiorità, a livello sia
fisico che morale e intellettivo, delle razze non solo nere (come si andava dicendo già da tempo) ma
anche miste, comunque giudicate incapaci di colmare il divario che le separa irrimediabilmente da
quelle “pure”. La tenace e capillare diffusione di simili convinzioni basta allora, nelle parole di
Martinelli, come garanzia della loro veridicità:
Si dice che il mulatto, sveglissimo d’intelligenza nei primi anni, decade poi rapidamente, e che
lo stesso fenomeno avviene nell’ordine morale. Se si dice con tanta insistenza dev’essere
certamente vero.80
Da questo punto di vista dunque, e diversamente da come farà Jansen alcuni anni dopo, l’autore non
ripone grandi aspettative nelle potenzialità di miglioramento del meticcio: anche qualora egli
venisse, infatti, strappato all’ambiente di origine e inserito nella realtà nazionale italiana rinnovata e
resa grande dal fascismo, una sorta di non specificata tara ereditaria lo porterebbe comunque a una
77
Si veda anche Giulia Barrera, Mussolini’s colonial race laws and state-settler relations in Africa Orientale
Italiana (1935-41), «Journal of Modern Italian Studies», 8 (3), 2003, pp. 425-43.
78
Pietro Gerardo Jansen, Abissinia di oggi, cit., p. 49.
79
Non a caso, come ricorda Giorgio Rochat (Il colonialismo italiano. Documenti, Torino, Loescher, 1973) la
canzone stessa venne poi violentemente attaccata dalla stampa italiana, in quanto inneggiante a comportamenti
immorali e incompatibile con la costruzione di un prestigioso impero che il fascismo si proponeva.
80
Renzo Martinelli, Sud. Rapporto di un viaggio in Eritrea ed in Etiopia, cit., p. 123.
272
più o meno precoce degenerazione, cui non sarebbe possibile porre freni. Eppure anche Martinelli, e
forse non potrebbe essere altrimenti, dimostra in fondo una certa oscillazione di pensiero, la quale
non può fare a meno di rivelarsi nel momento in cui l’autore si trova al cospetto della presenza reale
e ravvicinata di un meticcio: «Ecco un bimbo quasi bianco, quasi nostro, mezzo nudo sulla porta
d’un tucul o in un sacchetto sulle spalle d’una donna nera: come un bimbo rapito…».81 La visione
diretta suscita non solo compassione, ma anche un sottile rigurgito d’orgoglio nazionalistico, unito a
un moto di insofferenza, per la condizione “inferiore” cui un bambino, in apparenza quasi in nulla
diverso da quelli nati e cresciuti nella madrepatria, è destinato. Martinelli, infine, si rivela
decisamente più realista di Jansen nell’ammettere l’effettiva rilevanza, a livello quantitativo, del
fenomeno, che giudica nettamente più incisivo di quanto non sia nelle colonie degli altri Paesi,
laddove i meticci nascono per lo più da unioni instaurate dai coloni: al contrario, il problema per
l’Italia è aggravato dal fatto che la maggior parte degli amministratori coloniali devono restare per
lungo tempo sul luogo di lavoro senza poter beneficiare dell’accompagnamento delle proprie mogli,
e si vedono pertanto “costretti” a soddisfare con gli unici mezzi disponibili le lusinghe del corpo.
Senza dubbio, dunque, la consapevolezza delle conseguenze tutt’altro che banali non tanto per
l’individuo in sé, quanto per il prestigio dell’intera nazione di cui egli è rappresentante, derivanti
dall’eccessiva intimità con la donna indigena, fa sì che si riduca sensibilmente l’attenzione ad essa
rivolta dai viaggiatori italiani in questi anni (almeno nei resoconti scritti, poiché possiamo
presumere che ben diverso fosse il loro comportamento effettivo in colonia), i quali tendono per lo
più, come abbiamo visto, a insistere sulla sua presunta immoralità, oltre che sulla sua scarsa
bellezza, soprattutto se paragonata a quella delle donne bianche lasciate in patria. Se poco o nulla,
d’altronde, ci è dato sapere su quale fosse la posizione di queste ultime, dal momento che non
possediamo testimonianze veramente affidabili al riguardo, vale la pena se non altro di soffermarsi
brevemente a ripercorrere il pensiero espresso in merito da una donna in particolare, ossia quella
Augusta Perricone Violà che abbiamo già incontrato come esempio di prolifica e ben orientata
scrittrice coloniale. In due momenti distinti del proprio testo, l’autrice dedica infatti alcune
riflessioni significative alla figura della donna rispettivamente italiana e indigena, dalle quali esse
emergono sì profondamente diverse l’una dall’altra, ma al tempo stesso irrimediabilmente
intrecciate, in quanto l’una acquista luce e significato a contatto e a confronto con l’altra. La donna
locale, che campeggia sul panorama coloniale animandolo con la sua parvenza timida e sfuggente,
contrasta agli occhi di Violà con quella «d’importazione, chiara pennellata di civiltà e di
modernismo che si stacca dal fondo un po’ statico che la circonda dando però a tutto il quadro un
81
Ivi, p. 125.
273
necessario risalto».82 Allo stesso tempo, tuttavia, la scrittrice non può nascondere anche un lieve
moto di ammirazione per le donne africane, appartenenti alle razze più svariate, che incontra nel suo
viaggio attraverso la regione libica, le quali conducono una vita libera, senza morale sì, ma in grado
di offrire «ogni tanto profondi spunti drammatici e sentimentali, che rivelano coscienza, mente e
cuore».83
Questa evidente forma di malcelata oscillazione tra fede cieca nella donna bianca come
exemplum massimo di virtù anche in colonia e rivalutazione di alcuni aspetti di spontaneità e libertà
dalle costrizioni esterne propri della condizione femminile locale affonda le radici, a mio parere,
nella complessa situazione che la stessa donna italiana si trova ad affrontare in patria sotto il regime
fascista. A prescindere dal fatto che ci troviamo in questo caso di fronte a una intellettuale
perfettamente integrata, per molti versi, con la politica di regime, ciò non toglie che anch’essa, in
quanto donna, abbia in qualche modo sperimentato sulla propria pelle le amare contraddizioni di
un’ideologia che mirava sostanzialmente a sfruttare quanto più poteva la figura femminile (basti
pensare alla perseguita normalizzazione della sessualità, presupposto indispensabile per l’auspicato
incremento delle nascite, a sua volta inteso come sostegno alla nuova politica di potenza84) evitando
al massimo di concedere ad essa ampi margini di iniziativa. In questo senso, è verosimile
immaginare che quegli stessi comportamenti della donna africana che pure venivano condannati
come immorali e impudichi fossero poi in grado di suscitare un sottile senso quasi di invidia
derivante se non altro dal confronto, forse inconsapevole ma sempre operante, con la propria
condizione. Ecco allora che si comprende il tono risentito e un po’ astioso con cui l’autrice afferma:
«Dentro i grigi tucul, dai tetti spioventi di paglia, non abbiamo ancora saputo trovare che la
femmina; l’anima della donna, la sua personalità, il suo vero cuore ci restano ancora, se ci sono,
ignoti»85, giudizio che evidentemente contrasta con quanto detto solo poche pagine prima, ma che si
sforza di insistere sulla natura tutta sensuale, e poco sentimentale, della donna indigena.
Soprattutto credo che vadano inquadrate in questa stessa ottica anche le rivendicazioni altrettanto
determinate con cui Violà intende non tanto denigrare le figure femminili locali, quanto spingere il
proprio lettore a rivalutare nel modo giusto quelle italiane impegnate in colonia, spesso a torto
considerate figure di abbellimento, accusate di frivolezza, dimenticate nei loro sentimenti più puri,
laddove invece si auto-condannano alla rinuncia e al sacrificio. Facendo mostra di allinearsi
strettamente alla retorica di regime, dà di queste ipotetiche compagne degli italiani in colonia, come
loro votate a un eroismo forse meno eclatante ma altrettanto costante e fermo, il ritratto ideale:
82
Augusta Perricone Violà, Ricordi somali, cit., p. 167.
Ivi, p. 204.
84
Si veda ancora Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit.
85
Augusta Perricone Violà, Ricordi somali, cit., p. 207.
83
274
Non suffragette, per carità, o pedanti e pedagoghe che vadano incontro ad altre donne più
deboli, più infelici, più ignoranti, ma madri che vadano in contro ad altre madri per sorreggerle
ed ammaestrarle nella difficile missione.86
Con quest’ultima perentoria affermazione l’autrice che non fa altro che rinchiudere la donna italiana
nello stretto ruolo di madre, con il quale d’altronde la stessa ideologia fascista intendeva
identificarla, in quanto sembra l’unico in grado di garantirle, in colonia di certo più che in patria, un
raggio minimo di azione, se non altro laddove può in queste vesti esercitare il proprio magistero
sulle indigene. Paradossalmente infatti, Violà capovolge qui il quadro proposto da Martinelli, che,
in una prospettiva maschile e maschilista, rinfacciava piuttosto alle donne africane l’attitudine
esclusivamente materna, di contro a una loro presunta incapacità di vivere con pienezza di
sentimento un amore di tipo coniugale. D’altronde, è chiaro che qui la scrittrice voglia porre
l’accento più sulle capacità delle italiane, che non sulle mancanze delle indigene africane. E tuttavia
traspare dalle sue parole, e anche da quel fuggevole riferimento in apertura alle connazionali che già
lottavano in patria per l’estensione del diritto di voto, un senso ultimo di inadeguatezza per la
peraltro volontaria assunzione di un compito incapace di soddisfare appieno le proprie legittime
velleità di donna.
5. Ciro Poggiali: scrittura e riscrittura
Mi sembra doveroso, nel chiudere la lunga rassegna di personaggi, diari e situazioni attraverso
cui abbiamo tentato di seguire e ricostruire una linea di sviluppo ideologico e culturale che
accompagna l’evolversi della politica coloniale italiana, dedicare almeno un breve cenno a un caso
interessante se non altro per la sua unicità. Si tratta della doppia redazione del diario del giornalista
Ciro Poggiali, il quale si trova a trascorrere alcuni mesi in Etiopia proprio all’indomani
dell’avvenuta conquista italiana della regione. Il resoconto ufficiale della propria esperienza,
risalente al periodo a cavallo tra il 1936 e il 1937, viene pubblicato nel ’38, dunque
immediatamente a ridosso del suo rientro in patria. Tuttavia, solo dopo la morte dell’autore, e
precisamente nel 1971 ovvero a più di trent’anni di distanza dagli avvenimenti osservati e descritti,
vede la luce una seconda versione dello stesso resoconto, sensibilmente diversa dalla precedente:
essa contiene infatti una serie di appunti presi evidentemente in concomitanza al viaggio stesso
(scanditi con assoluta precisione diaristica attraverso date progressive di riferimento), ritenuti non
solo inadatti, ma anche e soprattutto impossibili da rendere pubblici in quegli stessi anni in cui il
regime fascista, all’apice del suo potere e ormai forte di un vasto consenso, non aveva di certo
allentato le maglie del controllo censorio su ogni forma di espressione pubblica.
86
Ivi, p. 173.
275
Prima di scendere in concreto non tanto a stabilire un confronto tra le due redazioni, che davvero
poco hanno in comune sia nella struttura che nei contenuti, quanto a cercare di cogliere gli aspetti
più significativi rintracciabili all’interno di una scrittura esplicitamente pensata come privata e
segreta, e dunque immune dalla ferrea censura fascista, ritengo opportuno ridimensionare fin da
subito le aspettative che un testo del genere potrebbe verosimilmente suscitare nel lettore odierno.
Sarebbe infatti vano, e semplicistico anche, pensare che esso voglia e soprattutto possa offrire una
descrizione in tutto e per tutto oggettiva della realtà, di contro alla massa degli altri scritti del
tempo, tra cui ovviamente i resoconti di cui ci siamo occupati in questo capitolo, etichettabili
piuttosto come esercizi di pura retorica, nel loro smaccato adeguamento alla politica coloniale di
potenza portata avanti dal regime. La situazione, come peraltro dovrebbe risultare evidente alla luce
dell’intero percorso compiuto fin qui, è in generale molto più complessa, laddove all’interno di un
tipo di produzione di natura autobiografica ma profondamente intrecciata con le vicende storicopolitiche contemporanee (qual è tutta quella che abbiamo preso in esame in questo lavoro) è sempre
e comunque in atto una difficile negoziazione tra sfera pubblica e sfera privata, tra desiderio di
perpetuazione del ricordo personale e volontà di contribuire alla più ampia memoria nazionale, tra
tensione individualistica e tentato annullamento del soggetto nella massa spettatrice degli eventi.
Se, pertanto, il diario di Poggiali ha potuto usufruire dell’opportunità di sottrarsi, a prezzo della sua
ritardata pubblicazione, alla scontata forma di censura cui inevitabilmente non sfuggivano tutte le
altre opere edite in quegli stessi anni, ciò non vuol dire che esso offra automaticamente una visione
del tutto disincantata o tantomeno progressista della realtà di cui rende testimonianza. Proprio per
questo, tuttavia, può risultare ancora più interessante indagare quale ricostruzione di questa stessa
realtà il testo consapevolmente fornisca, al fine di misurare lo scarto effettivo rispetto a testi simili
su cui abbia tuttavia agito il peso delle dirette mediazioni ideologiche della politica mussoliniana.
Prima di tutto, è chiaro che l’opera riveste un’importanza particolare dal punto di vista
strettamente storico, in quanto consente di guardare da vicino, attraverso gli occhi di un testimone
del tempo, contraddizioni, difficoltà, errori e atrocità celate all’epoca dei fatti dal regime.
Giustamente note sono, ad esempio, le pagine in cui Poggiali narra l’episodio, cui assiste in prima
persona e di cui redige un lungo rapporto (pur ammettendo a se stesso di non poterlo inviare al
«Corriere»), dell’attentato a Graziani nel 1937, sulle cui immediate reazioni da parte italiana dà un
quadro eloquente e lucido:
Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba, in mancanza di una organizzazione militare o
poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più
autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando
quanti indigeni si trovano ancora in strada. Vengon fatti arresti in massa; mandrie di negri sono
spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono
seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di
276
mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si
abbatte contro gente ignara ed innocente. Senza questa pronta reazione dell’elemento
borghese, feroce ma tempestiva, i centomila abitanti indigeni di Addis Abeba (i bianchi non
arrivano a tremila) avrebbero potuto insorgere e fare di noi un macello, spiegheranno poi. A
notte inizio del bruciamento dei tucul a solo scopo di rappresaglia […] La popolazione
indigena è tutta sulla strada. Impressionante indifferenza dei capannelli di donne e di bambini
intorno alle masserizie fumanti. Non un grido, non una lacrima, non una recriminazione. Gli
uomini si tengono nascosti, perché rischiano di essere finiti a randellate dalle orde punitive.
Episodi orripilanti di violenze inutili.87
Come si vede, pur senza indulgere in effetti di drammaticità gratuita e persino riducendo al minimo
i commenti personali sulle scene che descrive, l’autore sceglie di adottare uno stile davvero
cronachistico nella sua sobrietà per comunicare comunque in maniera piuttosto evidente la propria
disapprovazione nei confronti dei comportamenti di cui si trova ad essere, suo malgrado, testimone.
Alcuni elementi emergono con particolare, e agghiacciante, chiarezza dal suo resoconto: l’assoluta
disorganizzazione degli apparati preposti al ristabilimento dell’ordine, la violenza inaudita che si
abbatte senza distinzioni su vittime innocenti e si accanisce su di esse per il semplice gusto di farlo;
di contro, dal lato opposto della barricata, la stupefacente fierezza e l’impassibile dignità con cui gli
indigeni affrontano, o meglio sopportano, lo scempio perpetrato a loro discapito. Il racconto è
spoglio, quasi scarno − si diceva − di certo affatto influenzato dai numerosi esempi contemporanei
della roboante retorica fascista; tuttavia Poggiali non manca di inserire un sottile riferimento a
quella stessa propaganda di regime, la cui voce si cela dietro l’espressione “spiegheranno poi”, che
si era evidentemente limitata a liquidare con poche parole, in patria, le rappresaglie compiute in
Etiopia. Se con questa mossa l’autore intende mantenere le distanze da una presa di posizione
sull’accaduto che, in quanto spettatore diretto dei fatti per come realmente si erano svolti, non
avrebbe potuto a cuor leggero sottoscrivere, è pur vero che egli si dimostra davvero poco eloquente
nel sottolineare i capi d’accusa imputabili ai responsabili fascisti: non dobbiamo dimenticare,
infatti, che ci troviamo di fronte a un diario pensato, almeno in termini immediati, esclusivamente
per se stesso, in cui dunque ogni tipo di selezione e orientamento del materiale presentato risponde
a scelte, ed eventuali remore, del tutto personali.
D’altronde, fin dall’apertura del testo l’atteggiamento di Poggiali si rivela ai nostri occhi
sottilmente ambiguo. È vero, infatti, che egli non manca di sottolineare apertamente la propria
consapevolezza della censura vigente, che lo costringe appunto a una doppia stesura dei propri
ricordi, e di denunciare l’atteggiamento illogico, se non addirittura paradossale, del regime in quegli
anni, che si preoccupava «di nascondere l’esistenza di un ribellismo perdurante oltre la vittoria delle
armi, oltre l’annessione, oltre la sottomissione degli indigeni» 88 e delle difficoltà nella
valorizzazione economica delle terre. Tuttavia, e sia pure nell’asserita volontà di testimoniare con
87
88
Ciro Poggiali, Diario A.O.I. (13 giugno 1936 - 4 ottobre 1937), Milano, Longanesi, 1971, pp. 182, 184.
Ivi, p. 13.
277
maggiore aderenza possibile alla realtà quanto accaduto - requisito indispensabile ai fini
dell’intrinseco valore della propria opera memoriale - egli stesso non sembra poi affatto
misconoscere, a parole, l’opportunità in sé dell’impresa fascista in Etiopia, nel momento in cui la
definisce una «mirabile gesta italiana». 89 Quello che, al contrario, davvero condanna è la
disorganizzazione assoluta regnante in colonia, di cui si rende conto fin dal suo sbarco a Massaua:
non c’è bisogno di mettere piede nell’Etiopia appena conquistata per capire che il regime non è
stato in grado di stabilire un minimo di ordine nemmeno nella colonia primigenia, figuriamoci in un
territorio molto più vasto, sottomesso sì con la forza ma ancora lungi da un assoggettamento
effettivo. Eppure, ancora una volta, le accuse sono quanto mai blande soprattutto nei toni, dimessi e
impersonali, con cui vengono pronunciate: anzi, stenterei persino a definirle accuse, piuttosto
semplici constatazioni, impassibili nella loro asettica giustapposizione, di una realtà senza dubbio
irrimediabilmente negativa.90
Dovrebbe far riflettere il fatto che gli unici attimi in cui si avverte una variazione tonale siano
quelli dedicati non a far luce sulle contraddizioni della politica coloniale, bensì a evidenziare quanto
di positivo è comunque riscontrabile, se non altro, nel comportamento dei comuni soldati italiani,
impegnati con la massima fedeltà di patria a svolgere il compito che viene loro assegnato. Le loro
azioni, coraggiose e intraprendenti, suscitano infatti nell’autore la seguente riflessione, in cui non si
può non sentire un’eco della contemporanea retorica fascista: «Penso che è ancora il popolo vero
che ritrova in se stesso nei momenti del pericolo le sue migliori virtù e le sa piegare alle necessità
contingenti con intuito prontezza efficacia». 91 Nel momento in cui, poi, la situazione sembra
degenerare, e sfuggire sempre più a ogni forma di superiore controllo, Poggiali pone a se stesso e
all’eventuale lettore domande retoriche cui cerca in prima persona di fornire risposte:
Trattamento superlativamente brutale da parte dei carabinieri che distribuiscono scudisciate e
colpi di calcio di pistola come fossero zuccherini. È opportuno? Non sarebbe eventualmente
meglio fucilare i colpevoli e lasciare in pace gli incolpevoli? Ma questo presupporrebbe tatto,
intuito, investigazione, psicologia, umanità: tutte cose molto difficili, specialmente in
colonia.92
89
Ibid.
Annota Poggiali, in stile quasi telegrafico, arrivato a Massaua: «Caos, disordine, confusione, menefreghismo,
mancanza di facchini, bagagli scaricati ossia gettati sopra un tappeto di polverone. Luce scarsissima. Di
sovrabbondante, pletorico, enorme, non c’è che il caldo. Indigeni lustri come l’ebano e nudi fuor che nel posto della
foglia di fico». E poi, ancora, all’Asmara: «Caos sensazionale dell’albergo rispecchiante la situazione di una città nella
quale prima della guerra c’erano duecento italiani civili ed oggi ve ne sono cinquemila. E in realtà non s’è fatto gran che
per ospitarli». Infine, così descrive il viaggio in treno da Gibuti ad Addis Abeba, che abbiamo visto salutato con toni
entusiastici da viaggiatori antecedenti: «Ogni tanto una stazioncina con intorno un cimiciaio di catapecchie. In una sosta
in una landa calva dove il caldo è terribile, indigeni nudi sbucati non si sa da dove offrono tazze di tè tiepido. Il tè è
eccellente, ma non bisogna guardare alla cuccuma perché ci sarebbe il pericolo di vomitare» (Ivi, pp. 28, 30, 47).
91
Ivi, p. 64.
92
Ivi, p. 73.
90
278
Come si vede, la posizione assunta è in fondo quanto mai cauta: se la violenza delle forze armate è
definita “superlativamente brutale”, l’alternativa viene indicata, in modo alquanto timido, attraverso
l’uso del condizionale rafforzato dal pleonastico avverbio. Inoltre, le qualità che vengono elencate
come necessarie per ristabilire un ordine adeguato sono al tempo stesso, per sua esplicita
affermazione, “difficili” da applicare soprattutto in ambito coloniale, considerazione atta a
ridimensionare la presunta colpa degli organi militari italiani che ne sono evidentemente privi in
questo frangente. Anche nel dare conto del processo-farsa intentato all’abuna Petros, il giovane
vescovo di Addis Abeba rapidamente messo a morte sulla pubblica piazza, Poggiali non condanna
l’uccisione in sé, limitandosi a biasimare l’irresolutezza delle posizioni assunte in merito, evidente
nel divieto imposto dalle autorità di telegrafare in patria la notizia.93
Possiamo dunque essere sostanzialmente d’accordo con Charles Burdett nell’affermare che
«while never questioning the basic assumptions of the invasion, Poggiali proves a caustic observer
of the incompetence and brutality that typified Italian rule».94 Allo stesso tempo, ci sentiamo in
grado di aggiungere che egli si dimostra perfettamente figlio del suo tempo non solo nella costante
oscillazione tra fiducia nell’impresa e sdegno per la sua errata condotta, tra accuse latenti e palesi
rimpianti, ma anche per alcune considerazioni che fornisce, per esempio, a proposito degli indigeni
con cui entra in contatto. Anche sotto questo punto di vista, in realtà, la sua posizione si rivela
fondamentalmente priva di adeguata coerenza. Se, infatti, egli prova quasi vergogna nel poter
godere, dopo tanto tempo, di una cena ristoratrice, pensando che a pochi metri da lui centinaia di
abissini sono stipati nelle celle senza cibo e quasi senza aria, ciò non gli impedisce altrove di
esprimere considerazioni improntate al più radicale razzismo, che quasi contraddicono le sue stesse
parole: «Mi convinco sempre più che gli abissini sono come le scimmie. Finché hanno il collare
sono innocue e possono anche divertire: se si liberano mettono a soqquadro la casa».95 Su questa
scia, Poggiali si spinge anche oltre, arrivando a mettere in atto una forma di razzismo interno che lo
porta ad avanzare dubbi sulla missione civilizzatrice, a partire dalla constatazione di una
ipotizzabile inferiorità dei meridionali, i quali costituiscono la maggioranza degli italiani in colonia,
rispetto agli stessi indigeni:
È doloroso dirlo, ma in Etiopia abbiamo mandato troppi meridionali. Son troppo arretrati per
avere autorità, per imporre quella che si chiama civiltà europea. Taluni di essi si trovan
perfettamente a loro agio nella sporcizia dei tucul, perché nel loro paese pugliese o calabrese
non ebbero mai nulla di meglio. Fa ridere di sentir parlare di prestigio della razza. Se togli il
93
Si interroga, a proposito, l’autore: «Era colpevole? Era necessario ucciderlo? Ed allora conclamiamo virilmente
dinanzi al mondo, assumendo tutte le responsabilità, quella necessità. Non era colpevole? Era inopportuno ucciderlo?
Ed allora perché procedere con tanta fretta e poi aver l’aria di pentirsene?» (Ivi, p. 78).
94
Charles Burdett, Journeys through fascism. Italian travel writing between the wars, New York, Berghahn Books,
2007, p. 138.
95
Ciro Poggiali, Diario A.O.I., cit., p. 80.
279
colore della faccia, che differenza c’è tra certi nostri scalcinatissimi connazionali, veri ruderi
fisici, mandati qui chissà perché, e i contadini, etiopi che per contro sono di forme e d’aspetto
bellissimi?96
Conclusione, quella appena presentata, davvero paradossale, se si considera che di tutte le possibili
accuse imputabili al regime fascista per il modo in cui ha portato avanti la propria politica coloniale,
culminata nella brutale aggressione all’Etiopia e nelle atrocità ad essa seguite, l’autore finisce per
porre l’accento su quella capace solo di convertire il razzismo etnico in uno di tipo socio-culturale,
biasimando la scelta di servirsi per lo più di coloni provenienti dal Sud della penisola.
Non mi sembra necessario, a questo punto, soffermarmi sulla redazione ufficiale del testo,
inviata dal giornalista al «Corriere» contemporaneamente alla sua stesura e pubblicata nel 1938 con
il titolo Agli albori dell’impero. Basti notare che, se non trovano in essa posto gli ampi stralci, di cui
abbiamo parlato, miranti a descrivere i più brutali episodi di violenza perpetrati, vi si impone
comunque con simile acutezza (e simile mancanza di drammaticità) la visione della netta
sproporzione tra l’immaginazione del popolo, alimentata da propaganda e letteratura, e la realtà
della situazione. Quello su cui mi preme, invece, richiamare l’attenzione in chiusura del capitolo è
la di certo non casuale assonanza tra alcuni aspetti della posizione critico-ideologica manifestata da
Poggiali alla fine degli anni Trenta e quella degli scrittori degli anni Cinquanta da cui siamo partiti
nell’introduzione del lavoro. Sia pure, infatti, nell’innegabile difformità di toni (neutro ed asettico il
primo, amaro e sarcastico, spesso, il secondo) spiegabile in buona parte con la frattura storicopolitica del 1945, trapassa dall’uno agli altri una medesima forma di cautela nel giudicare una realtà
cui si assiste o si è assistito pochi anni prima; cautela peraltro ingiustificata, qualora si consideri la
natura privata della scrittura nel primo caso, e la posteriorità rispetto agli eventi narrati nel secondo.
Soprattutto, l’intenzione di deresponsabilizzare i singoli individui, e dunque implicitamente anche il
se stesso ora scrittore, ma al tempo spettatore o attore degli eventi narrati, additando con più o meno
veemenza i vertici gerarchici del regime come diretti e unici responsabili di quanto avvenuto,
accomuna senza dubbio Poggiali a Flaiano, Berto e Tobino. Affinità, questa, che è per noi
oltremodo significativa nella misura in cui ci riconduce al punto da cui questo lavoro ha preso
avvio, a quel mito degli “italiani brava gente” tanto duro a morire proprio in quanto, evidentemente,
radicato in un filone di pensiero nato ben prima del rapido crollo dell’Africa Orientale Italiana.
96
Ivi, p. 127.
280
Conclusioni…
… e prospettive
La natura stessa del tema su cui si è focalizzato il mio lavoro, ossia la percezione e la relativa
rappresentazione dell’alterità umana e ambientale africana ricostruibili attraverso i resoconti di
viaggio e la memorialistica italiana a cavallo tra XIX e XX secolo, mi ha imposto (come dovrebbe
peraltro risultare evidente da scelte e riferimenti bibliografici proposti di volta in volta) di
muovermi su un terreno, talvolta scivoloso, al confine sempre labile tra storia e letteratura,
all’interno del quale una rilevanza specifica ha assunto il prezioso contributo apportato da teorie e
scienze sociali e antropologiche. D’altronde, il fenomeno coloniale in quanto tale sfugge alla
delimitazione in una griglia troppo angusta, prestandosi al contrario alla lettura in una chiave che
sia al tempo stesso concreta e astratta, ancorata all’evidenza materiale senza per questo perdere di
vista un più ampio quadro teorico d’insieme. Sebbene, infatti, l’espansione territoriale prima e la
vera e propria conquista coloniale poi si siano sempre basate, com’è ovvio, su un potere di tipo
militare, politico ed economico, esse hanno fin dagli esordi richiesto la messa in atto di una
complessa gamma di strategie culturali volte a fornire loro un imprescindibile e prezioso supporto
ideologico. La stessa violenza coloniale, che abbiamo imparato a conoscere come parte
ineliminabile, per quanto talora ridimensionata o addirittura negata a parole, di ogni processo di
acquisizione territoriale condotto dalle diverse potenze europee nell’“Età degli imperi”1, non si
riduce affatto ai suoi aspetti materiali (sui quali peraltro non dovrebbe più ormai essere lecito
avanzare dubbi). Essa, al contrario, acquista nuovo e più maturo spessore nel momento in cui ne
viene finalmente riconosciuto il lato che potremmo definire “epistemologico”, ossia il ruolo non
accessorio, bensì fondamentale nell’elaborazione culturale che di questa stessa violenza si fa a sua
volta portatrice: «Representation in the colonial context was violent; classification a totalizing form
of control».2
All’interno dello specifico ambito coloniale italiano di cui mi sono occupata, ho ritenuto
possibile rintracciare lo stretto legame tra sviluppo storico-politico e formazione di una sua
indispensabile base ideologica nel composito panorama dei testi di viaggio e di esplorazione che
costellano tutto il percorso coloniale nazionale. Alcune caratteristiche del genere odeporico in
quanto tale, ingiustificatamente poco indagato proprio dal punto di vista coloniale, lo rendono a mio
1
2
Il riferimento è a Eric Hobsbawm, L’Età degli imperi - 1875-1914, Bari, Laterza, 2005.
Nicholas Dirks, Colonialism and culture, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1992, p. 5.
281
parere particolarmente interessante ed eloquente nel momento in cui, come ho tentato di fare, ci si
voglia interrogare su modalità di accostamento e meccanismi di interiorizzazione e rimodulazione a
livello testuale delle realtà “altre” che l’esperienza coloniale di per se stessa rivela. Scrittura nella
maggior parte dei casi “non professionale”, eppure proprio per questo destinata ad avere un impatto
molto forte su una coscienza collettiva ancora incerta e oscillante (qual è senza dubbio quella
italiana tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento), quella di viaggio è anche
fondamentalmente ibrida, alla continua ricerca di un equilibrio, spesso precario, tra orgogliose
istanze autobiografiche e personalistiche e desiderio di esemplarità della propria testimonianza.
Proprio in questo senso essa si pone a metà strada tra una diretta forma di percezione della realtà,
empirica, contingente e dunque mai riattualizzabile appieno nel testo scritto, e la mediazione più
scoperta ed evidente di essa, messa in atto dalla cosiddetta letteratura di finzione.
Ciò non vuol dire, peraltro, che viaggiatori ed esploratori forniscano ritratti di ambienti e persone
con cui entrano in contatto automaticamente più realistici o affidabili di quelli offerti dalla
contemporanea, e ben nutrita, produzione romanzesca: al di là del diverso grado di elaborazione
specificamente letteraria che i vari testi rivelano, forme di censura e auto-censura contribuiscono
comunque a minare la presunta genuinità della visione originaria. Inoltre, sarebbe fuorviante, come
dimostrano i molteplici esempi affrontati nel corso del lavoro, concepire il genere come un tutto
organico, operando piatte e semplicistiche riduzioni antologiche dei testi in questione, talora
giustamente ritenuti privi di significativo valore letterario, ma non per questo catalogabili in massa
come anonimi ricettacoli e ripetitori di immagini e giudizi stereotipati. Il rischio infatti, in questo
caso, è quello di lasciarsi sfuggire irrimediabilmente le specificità sia dei testi sia dei contesti cui
essi appartengono, finendo per operare un arbitrario annullamento di importanti distinzioni
attribuibili alla soggettività del protagonista, ai luoghi visitati o al preciso momento storico in cui il
viaggio si colloca.
Seguendo, dunque, la parabola evolutiva dell’imperialismo coloniale italiano attraverso le
testimonianze di quanti si trovarono, per varie ragioni e finalità, a percorrere i territori africani su
cui si appuntava − e consolidava poi − l’interesse espansionistico della nazione, ho ritenuto
opportuno aprire quante più prospettive possibili, individuando distinti nuclei tematici (la
contrapposizione tra civiltà e barbarie, la condizione femminile, la resa del paesaggio), geografici
(l’Eritrea, la Libia, l’Etiopia), ma anche diversi profili umani, professionali (esploratori, letterati,
uomini politici, giornalisti) e di genere (mediante l’introduzione di alcune viaggiatrici donne). Il
quadro così tracciato, pur non vantando illegittime pretese di esaustività, ambisce tuttavia a mettere
in luce, in ultima istanza, le radici di quell’atteggiamento di rimozione, o forse sarebbe più corretto
dire di mistificante declinazione in chiave positiva della memoria coloniale, che non a caso è
282
l’argomento da cui siamo partiti. Rimozione, dunque, laddove alcuni aspetti sono stati negli anni del
tutto messi da parte, e mistificazione, nella misura in cui i ricordi sono stati spesso, più o meno
consapevolmente, manipolati e compromessi. Eppure, memoria e oblio sono entrambe parti
costitutive dell’identità in quanto tale; identità, d’altronde, che la nazione italiana, dai tempi
dell’unificazione a oggi, si è sempre affaticata a costruire per se stessa, talvolta piegandosi a una
selezione arbitraria degli eventi del proprio passato.
Se, allora, la memorialistica letteraria degli anni Cinquanta (da cui il presente lavoro ha preso
avvio), ossia successiva all’inglorioso crollo dell’Africa Orientale Italiana, ha in fondo dimostrato
l’incapacità dei propri autori di pronunciare giudizi di aperta condanna e di liberarsi del tutto dal
retaggio di sentimenti almeno in parte assolutori, senza dubbio le premesse di un simile
atteggiamento sono sapientemente gettate e consolidate nel decennale percorso che abbiamo inteso
seguire. I resoconti degli esploratori ottocenteschi infatti, preoccupati di dare una parvenza di
giustificazione morale a una missione “civilizzatrice” di sfruttamento e di conquista − ancora di là
da venire, ma già prevedibile almeno per i più accorti − abbondano di ipocriti pretesti dal vago
sapore umanitario. Con il volgere del nuovo secolo, a questi ultimi si sovrappongono, fino a
renderli superflui, ben più decise pretese di legittimazione dell’operato italiano, basate sull’autorità
materiale e spirituale dell’eredità di Roma e progressivamente sostenute da un’ideologia di
supremazia razziale che si fa sempre più pressante sotto il regime fascista, soffocando ogni rigurgito
di tolleranza e di vera umanità. Così, da un testo all’altro, sorvolando su contraddizioni e spesso
misconoscendo la realtà dei fatti di cui si è stati peraltro testimoni, gli autori mascherano se stessi e
la Patria di cui sono rappresentanti dietro un alone di “bontà”, tutta specificamente italiana appunto,
che sembra qualificare la condotta dei connazionali in colonia, distanziandola in maniera sempre
più profonda, quanto immaginaria, da quella delle altre nazioni europee. Ecco dunque poste le basi
ideologiche di quella retorica degli “italiani brava gente” destinata a protrarsi per lungo tempo, e di
cui ancora oggi, almeno a livello di percezione comune e diffusa, permangono tracce sul suolo
nazionale.
Ripensare dunque il fenomeno coloniale italiano anche e soprattutto in un’ottica comparata, in
grado davvero di porlo a confronto con quello degli altri Paesi europei, in genere da più tempo e
con più profondità indagati, è presupposto indispensabile per una sua consapevole e matura
comprensione. Questo implica, di necessità, il rifiuto di archiviarlo come un qualcosa di
storicamente definito e concluso e, al contrario, la tenace volontà di rileggerlo e reinterpretarlo
anche alla luce del presente, a partire dalla considerazione dell’enorme, ma spesso sottovalutato,
peso che la stessa eredità coloniale ha avuto e continua ad avere nell’instaurazione e nella gestione
dei complessi rapporti e legami con le ex-colonie. In questo senso, allora, il successivo passo da
283
compiere consisterà nell’uscire dal circolo vizioso eurocentrico cui, mio malgrado, anche il presente
lavoro ha dovuto uniformarsi: dovrebbe essere abbastanza chiaro infatti, ad analisi terminata, che la
stessa scrittura di viaggio al centro della mia ricerca non ci dice poi tanto su territori, ambienti e
popolazioni visitati e incontrati, quanto piuttosto sull’Italia stessa, da cui i viaggiatori provengono,
con tutto il proprio bagaglio culturale e ideologico. La letteratura coloniale, in questo modo, finisce
per riaffermare i propri presupposti, mantenendo e dando persino nuova forza alle strutture della
propria mentalità, costituendosi come “letteratura speculare”, immagine riflessa di se stessa. 3
Interrogare davvero l’“altro”, farne un interlocutore attivo e non più un soggetto passivo di
rappresentazione, è la nuova sfida che il presente ci impone.
3
Cfr. Abdul JanMohamed, The economy of manichean allegory. The function of racial difference in colonialist
literature, «Critical Inquiry», 12 (1), 1985, pp. 59-87.
284
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Routledge, 1994.
TODOROV TZVETAN, La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, Torino, Einaudi,
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ID., Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Torino, Einaudi, 1989.
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315
Sarò breve, non solo perché così richiedono le circostanze, ma anche perché ritengo che solo qualora
rispecchino gli spontanei sussulti del cuore i ringraziamenti siano davvero sinceri.
Grazie, Massimo Bonafin, per aver creduto in me al primo sguardo, offrendomi l’occasione unica di
seguire un percorso umano e intellettuale straordinariamente intenso e formativo.
Grazie, Laura Melosi, per avermi aperto il campo a una ricerca che si è rivelata interessante e feconda, e
per aver seguito e incoraggiato il mio lavoro strada facendo.
Grazie, Karen Pinkus, per la disponibilità e la gentilezza con cui mi hai accolto alla Cornell University,
aprendomi le porte di una biblioteca incredibile e di un dipartimento ricco di persone straordinarie che
porterò sempre nel cuore.
Grazie, Lidia e Teodoro, per aver condiviso con me le ansie della scrittura. E anche per quel bicchiere
di spumante con cui abbiamo insieme brindato all’inizio di un 2013 che spero possa portare qualcosa di
bello e di atteso ad ognuno di noi.
Grazie, Favorita, per non avermi fatto mancare il calore costante di un’amicizia che dura ormai da 23
anni, e che rappresenta per me sempre un porto sicuro cui approdare.
Grazie, Adam, Cristina, Christina, Geraldine e Valeria, perché avete reso speciale e indimenticabile il
mio anno a Ithaca, e per essere sempre riusciti tutti, persino a distanza e ognuno a suo modo, a
strapparmi un sorriso anche nei momenti di sfiducia.
Grazie, Mirco, per esserci sempre stato, lottando con me nel costruire, dalle ceneri di un rapporto
finito, un qualcosa di nuovo, di bello, e di vivo, che spero possa durare a lungo.
Grazie, mamma e papà. E qui tralascio le motivazioni, per mancanza di spazio sufficiente.
Grazie a te, infine, che vegli su di me, mi ispiri e mi proteggi.