Perché Amo LA muSIcA - Casa editrice Le Lettere

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Perché Amo LA muSIcA - Casa editrice Le Lettere
Lionello Sozzi
Perché amo la musica
Ricordi, riflessioni, emozioni
Le Lettere
INDICE
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 7
1. Una furtiva lacrima . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11
2. Canto di grilli e gridi di civette . . . . . . . . . . . . . . . » 15
3. Vento, vento… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 17
4. Méditation . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 19
5. Canta, carovaniere… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 22
6. Forse Debussy? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 24
7. Cortigiani, vil razza dannata . . . . . . . . . . . . . . . . . » 30
8. Barcarola veneziana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 34
9. La caduta di Varsavia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 36
10. Bach, il più grande . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 44
11. J’aime extrêmement la musique . . . . . . . . . . . . . . » 48
12. Come dei clavicembali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 56
13. De la musique encore et toujours . . . . . . . . . . . . . » 60
14. Brahms e Flaubert . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 62
15. Une barque sur l’océan . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65
16. La musique souvent me prend comme une mer . . » 68
17. La petite phrase . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73
18. Ai tuoi piedi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 79
19. Giocava della fluta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 87
20. Beethoven . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 90
21. La follia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 93
22. Sous le ciel de Paris . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 96
23. Quella sonata di Mozart . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »100
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indice
24. Les sanglots longs des violons de l’automne . . . . . p.106
25. Che abisso di pene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »107
26. Warum? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »109
27. O dolcezze perdute, o memorie . . . . . . . . . . . . . . »113
28. Un quintetto di Schubert . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »115
29. Un sestetto di Brahms . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »117
30. La “Pavane” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »120
31. Un “adagio” di Mozart . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »125
32. Due “siciliane” di Bach . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »126
33. Lacrimosa dies illa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »128
34. Il cavallo di Estremadura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »133
Bibliografia essenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »139
1. Una furtiva lacrima
Varietà infinita dei suoni, occasioni di piacere e diletto oppure
sorgenti di malinconia e di mestizia. Non solo le sublimi armonie
dei grandi creatori di musica, ma anche altri suoni, altre musiche
e persino i rumori del vivere – fruscii, bisbigli, parole: sono musica anche le voci della natura, le parole umane modulate in un
certo modo, e a volte anche i rumori della quotidianità e persino
i sovrumani silenzi: essi mi hanno sempre soggiogato, incantato.
Il silenzio degli spazi infiniti mi sgomenta, diceva Pascal. Sgomenta perché, in qualche modo, trasmette una sua musica indecifrabile, allude a un mistero che vorremmo sciogliere. Anche il
silenzio, infatti, ha a volte una sua eloquenza e una sua qualità
che definirei musicale, è come se racchiudesse, in sintesi, tutte
le possibili armonie, corrisponde a un linguaggio diverso, a una
voce fatta di nulla ma misteriosamente significante, a un vacuo
deserto ma carico di sottintesi, di messaggi possibili, di verità
assolute; sembra un’epifania. Hanno una voce amica anche i silenzi della luna che piacevano a Virgilio, come il silenzio del
pianista prima che inizi a suonare, e nella sala aleggia una tacita
aspettazione.
A volte ci sorprendono certi suoni inattesi, come accade a
Meursault, il protagonista dell’Étranger di Camus quando, in
quell’aula di tribunale, durante il processo che lo condannerà
a morte, gli giunge dalle finestre il suono della trompette di un
gelataio: allora gli tornano in mente i ricordi di tutta una vita, le
povere e tenaci gioie provate in passato, certi odori d’estate, il
quartiere più amato, un certo cielo della sera, il sorriso di una
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donna, e desidera solo andar via e tornare nella sua cella. Certi
suoni, infatti, sono teneri e cari perché risvegliano struggentemente la memoria. In altri casi, invece, possono anche suggerire
idee proiettate verso il futuro, cioè di attesa e di speranza, cui si
accompagnano immagini di infinito, di spazi interminati. Il vento
che stormisce tra le fronde, nell’Infinito leopardiano, fa nascere
per contrasto l’idea dell’infinito silenzio. Il canto di Silvia, invece
(Sonavan le quiete/Stanze, e le vie dintorno/Al tuo perpetuo canto…) da un lato è la voce dell’attesa e del sogno (…assai contenta/Di quel vago avvenir che in mente avevi), dall’altro si presta a
un estatico ascolto (Porgea gli orecchi al suon della tua voce…),
poi a un’idea contemplativa (Mirava il ciel sereno…) e alla coscienza dell’indicibile (Lingua mortal non dice…). Quei grandi
versi dicono, in altri termini, il saldo nesso che lega in unità l’armonia del suono, della voce e del canto, la gioia della speranza
che ne è insieme la sorgente e l’effetto, la contemplazione della
bellezza del mondo e l’insufficienza dell’umano linguaggio. Lo
dice anche Carducci in due versi famosi: Era una nota del poema
eterno/Quel ch’io sentiva, e picciol verso or è.
Ma altre volte i suoni ci sgomentano, sono non solo inattesi
ma anche insistenti, deprimenti. Un suono serale di campana,
ad esempio, genera mestizia, suscita desideri e rimpianti, sembra
piangere, come dice Dante, il giorno che si muore. Lo scampanio
proveniente da una chiesa annessa a un vicino istituto di Clarisse mi dava da bambino, a Bari, nell’alloggio di corso Cavour,
un’indicibile tristezza, un’angoscia, un’oppressione anche fisica,
da cui mi liberavo, ricordo, correndo in cucina e tracannando
un bicchiere d’acqua. Era, in quel suono, nel prolungarsi accorato di quei rintocchi, la mia prima scoperta della malinconia, di
una condizione dell’anima che mi dava sgomento e tremore ma
anche, forse, un sottile e inconfessato diletto, era segno di uno
smarrimento ma anche dell’affacciarsi d’un desiderio, come dire
che già allora sapevo che accanto alla malinconia tetra e amara
c’è quella dolce e gentile di cui parla Pindemonte e anche quella
che Alfieri e i romantici definiscono alta e sublime. È di questa
natura la malinconia che dà la musica, di una natura, cioè, in cui
lo sgomento del presente e l’ansia del futuro o, se si preferisce,
il desiderio supremo e il probabile o paventato disincanto s’in-
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trecciano in una sorta di dialogo, si saldano in un unico percorso
interiore che conduce, per altro, a orizzonti di luce.
Oggi, all’ascolto di tanti brani musicali amati in passato provo una duplice emozione: ritrovo il piacere di note che sono
per il mio animo un affascinante, convincente, confortante linguaggio; ma sono anche, quelle note, un ritorno, un recupero:
esse sono state per me il sottofondo musicale di tutta una vita
e ora acquistano un valore ancora più alto, è come se dicessero
le ragioni del mio essere al mondo, anzi quella vita può dirsi
che sia tutta risolta, ormai, nella riscoperta di un’armonia che
è sorgente, sempre, di una gioia immateriale e suprema. L’onda
avvolgente del suono di un violino o di un piano mi pare a volte
sia l’eco dell’onda fluente dei giorni.
Come tubavano i colombi, al mattino, a Lecce, nel giardino
della casa dei nonni! È passato tanto tempo, ma quella stagione
vive in me come età dell’oro, e il Salento splende nella memoria
con l’incanto di un paradiso terrestre o di una terra di utopia.
Era anche quella, per me, una soave, dilettevole musica, a tal
punto che ancora adesso il tubare dei colombi, tranquillo e placido come una confortante presenza, mi è caro come la voce di
persone amate. Era così diversa, quella voce, che tanti aborriscono, dal tubare lamentoso delle tortore che udii, molto più
tardi, dalle finestre dei miei alberghi parigini, specie la mattina
del giorno in cui dovevo riprendere il treno, quando mi affliggeva il senso amaro dell’abbandono, della fine di ogni ebbrezza,
l’ebbrezza con cui avevo per una settimana lavorato in biblioteca o in archivio sui temi a me cari, il mito di Amore e Psiche e,
ancor più, il culto del presente, il paese delle chimere, gli spazi
dell’anima, inseguendo significati e pensieri, fantasmi e immagini. I colombi della casa dei nonni, invece, non erano il segno
di nessuna malinconica fine ma, al contrario, modulavano un
annunzio, una mite e bonaria epifania.
Giungeva a me, il canto dei colombi, insieme col tintinnare
delle ore al campanile di un convento, col chiocciare delle galline
nel pollaio, con le prime voci dei passanti, sotto le finestre di
quella che a Lecce, allora, si chiamava via San Cesario: donnette
che già andavano al mercato e si scambiavano notizie, mercanti e
garzoni affaccendati e frettolosi; mi piaceva udire, dal caldo del
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mio letto, la voce di quel primo destarsi del mondo. Mi svegliavo
a quei suoni e a quelle voci mentre avvertivo, nel chiuso della mia
stanza, invitante, l’odore umido del rorido giardino. Quei suoni,
li attendevo e li amavo: era come se in essi si traducessero la gioia
del nuovo giorno e anche una sorta di ansiosa e trepida attesa.
Ricordo, poi, che nelle ore pomeridiane, negli istanti tranquilli della siesta, quando il démon de midi si aggira per il mondo, mi attardavo nel giardino, ascoltavo i lievi rintocchi delle
ore che giungevano, anche in quei momenti del meriggio, da
quel campanile, perle sonore che scendevano dal cielo, iridescenze luminose che davano all’aria come una lieta e argentina
trasparenza. Da un altro giardino giungevano voci di bambine
che cantavano: Ci sposeremo a maggio, con tante rose, con tante rose… Il nonno, in poltrona (si chiamava Rosario, ma per
tutti era nonno Saro), leggeva il giornale fumando il sigaro e
ogni tanto sbadigliava e guardava pensoso al di là dei vetri della
porta-finestra. Di fronte a lui la nonna sferruzzava; il gatto, sul
suo grembo, faceva le fusa, in cucina le zie e la domestica parlavano piano. Che quiete tranquilla, che pace. Gioivo in silenzio
di quell’armonia tutta interiore, vivevo istanti i rapimento, di
raccoglimento prodigioso e prezioso.
Di altri momenti musicali la mia memoria salentina mi fa
dono. Lunghi e vuoti, eppure, adesso, nel ricordo, gremiti di
pensieri e immagini, erano i pomeriggi che trascorrevo, specie la
domenica, nello studio di quella casa, con la porta-finestra che si
apriva sul giardino, mentre nonno Saro, sempre seduto sulla sua
poltrona, leggeva il giornale, un vecchio zio, a un tavolo, nella
contigua sala da pranzo, faceva parole incrociate e un altro zio,
più giovane e dalla bella voce (era un tenore mancato) si aggirava annoiato per le stanze ripetendo a mezza voce vecchie arie
d’opera o quel pezzo di Schumann che lui chiamava Ave Maria
e che invece è il suo Sogno. Lo rivedo e mi ripeto mentalmente
quelle note, il tono era dimesso, semplice, quotidiano, eppure
non ne alterava, per me, la tensione e la bellezza. Quante cose
del resto accadevano per me, allora e anni dopo, in quell’esiguo
spazio. Lì, nello studio del nonno, scopersi il suo “socialismo”,
o lessi le lettere che gli scriveva Napoleone Colajanni o quella
curiosa lettera di Mussolini che, allora socialista, lo invitava a
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impegnarsi di più, in Sicilia, in difesa della causa comune. Lì
trovai i saggi illuminanti di Labriola, lessi con sdegno le Stroncature di Papini e con commozione quello splendido Soliloquio di
Croce che è un po’ il suo testamento spirituale. Non scompare
dalla mia mente l’immagine di quella scrivania, col fermacarte
tondeggiante e iridato, il vecchio calamaio, i fascicoli della «Critica» e della «Nuova Antologia», i libri e le carte in disordine. Le
note del Sogno ne sono un po’ il segreto commento.
Mi affascinava, anche, la voce dei giovani tenori che prendevano lezione da un’insegnante di canto, al piano superiore.
Ce n’era uno, in particolare, che cantava magnificamente (così,
almeno, a me pareva) l’aria Una furtiva lacrima dall’Elisir d’amore di Donizetti. Come amavo quella musica, con che piacere mi
abbandonavo a quelle note! Soprattutto quando, dopo i primi
fraseggi, Nemorino dice: Che più cercando io vo’? Mi pareva di
essere, anch’io, come lui, stupendamente appagato.
2. Canto di grilli e gridi di civette
E poi c’era la voce dei campi. I nonni avevano una casetta in
campagna (la “casina”, a Monteroni di Lecce) dove anche noi
andavamo a trascorrere l’estate. Anche di quel mondo lontano
ricordo le voci ed i suoni. Nelle ore più torride, non un alito
scuoteva le foglie di mandorli e ulivi, il sole era implacabile. Tra
le stoppie bruciate la lucertola correva fulminea sotto la sferza
della canicola e tra i rami dei mandorli, dei fichi e degli ulivi,
sotto quel cielo impietoso, non si udiva che il frinire delirante
delle cicale. Era come se il mondo, sotto quel sole bruciante,
dicesse, con quelle modulazioni monotone e gracidanti, la sua
corale follia. La sera succedeva a quel grido il canto discreto
dei grilli: tenue, quasi timido, frutto di tremule vibrazioni, quel
canto s’interrompeva quando mi avvicinavo al cespuglio da cui
proveniva. Poi, a distanza, riprendeva, era un trillo anch’esso
monotono ma argentino, gentile, che invitava a pensieri dolci e
teneri, a riflessioni soavi.
La notte, invece, si levava nel buio il grido stridulo e ripetuto
delle civette: rannicchiato nel mio letto, mi tappavo le orecchie
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per non udirlo, ma quel grido mi giungeva lo stesso, ostile, minaccioso, inquietante. Mi sembrava che annunciasse sventura,
ricordo che mi chiedevo se porte e finestre fossero ben sprangate, se fossero in grado di impedire l’ingresso di quegli uccelli che
immaginavo perversi, che volassero attorno alla casa appunto
alla ricerca di uno spiraglio, di un’apertura che permettesse loro
di penetrare e di infierire su di noi.
Si accompagnava all’angoscia suscitata da quel grido un altro
timore: dalle fessure delle finestre mal chiuse entravano a volte,
e correvano per le pareti, delle orride, grosse lucertole, i gechi,
che nel linguaggio del luogo si chiamano lucertole “fracitane”,
forse nel senso (una metatesi?) che cercano il fradicio, il bagnato:
mi sembravano ripugnanti specie per quelle zampette rigonfie
all’estremità e per la grossa, mostruosa testa; mi pareva che con
la loro presenza avessero il dannato compito di annullare la gioia
della quiete campestre. Una di esse, una sera, spaventata dalle
nostre grida si avventurò per il soffitto e di lì cadde con un tonfo
rumoroso sul mio letto: poi fuggì, scomparve, non se ne seppe
più nulla. Il gridìo delle civette e lo scorrazzare delle lucertole
resero quei momenti invivibili: per tutta la notte restai seduto,
tremebondo, su una sedia, senza riuscire a prender sonno.
Cicale, grilli, civette, lucertole… Si dirà: questo non c’entra
con la musica. E invece c’entra, c’entra. Tra la vera musica e le
voci e i rumori del mondo c’è un sottile e indefinibile rapporto.
Traggo un esempio dal romanzo contemporaneo Tous les matins
du monde. Nel capanno che si è costruito lungo le rive della
Bièvre il sieur de Sainte-Colombe, musicista dell’età di Lulli di
cui Pascal Quignard ha, in quel romanzo, immaginato e raccontato la vita, compone la sua musica ma dà anche ascolto a
un’altra musica, quella delle cose e della vita, che scandisce lieve
le ore e gli istanti e che è fatta dei suoni che sempre ci accompagnano e ci sorprendono, il fruscio delle foglie, il mormorio
dell’acqua, l’incanto armonioso che tesse anche la trama del più
assoluto silenzio: la musica, pensa Sainte-Colombe, compensa
tutte le insufficienze del vivere e rende intensa anche un’esistenza apparentemente grigia e spenta. Negli accordi della sua viola
egli intende imitare tutte le inflessioni della voce umana: il sospiro di una giovane donna, i singhiozzi di un uomo che ha perso
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la giovinezza, il grido di guerra di Enrico di Navarra, la dolcezza
del respiro di un bambino, il gemito del piacere, la muta gravità
di chi prega.
Presenza e bellezza dei suoni: la musica li traduce e sublima.
È negli uomini, ovunque, un’ansia di armonia. La folla che ha
gremito piazza Grande a Bologna per l’ultimo addio al cantautore Lucio Dalla non dice solo la simpatia per la persona e le sue
doti umane ed artistiche, dice anche il bisogno di musica che
arde nel cuore di tutti.
3. Vento, vento…
Ma altri suoni, gradevoli e attraenti, riempivano le nostre giornate. Si udivano a distanza, per la strada sassosa e polverosa che
costeggiava la nostra casa, lo scalpiccio di cavalli, muli, asinelli,
il cigolio delle ruote dei carri. A poco a poco quei rumori crescevano, si vedevano apparire, al di là del muricciolo a secco e
della siepe di fichi d’India, carri, cavalli e profili umani. Passavano per lo stradone contadini che tornavano dal lavoro, voci e
canti giungevano fino a noi, attutiti dalla distanza. Vento, vento,
portami via con te…: era la canzone allora in voga. Nonna Irene,
seduta in poltrona sul poggiolo, commentava: «Tutti cantano:
vento, vento…», e la sua frase rimaneva sospesa, vagamente interrogativa, come se la nonna volesse chiedersi il perché di quel
canto, perché tanti invocassero il vento, che cosa fosse quel desiderio di fuga, quella voglia, di tutti, di staccarsi dal mondo, di
andare altrove, di volare tra le nuvole, di librarsi verso il cielo.
Erano gli anni della guerra, una minaccia sembrava incombere su di noi, come dimenticare quei momenti, e il canto che li
accompagnava? A volte la nonna tornava al passato, raccontava ad esempio di quel viaggio a Milano col marito che, giovane socialista, andava a trovare Mussolini, direttore del «Popolo
d’Italia» che portava, allora, la dicitura: «quotidiano socialista».
Il nonno le chiese se desiderava salire con lui e farsi presentar
quell’uomo, ma lei preferì attenderlo per strada, in via Paolo da
Cannobio. Disse in siciliano: Chi n’aju a fari? che è come dire:
«Che cosa vuoi che me ne importi?». Non amava la politica,
la nonna, anche se conosceva bene la storia, anzi, forse, pro-
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prio per questo: sapeva tutto, ad esempio su Richelieu e sui suoi
maneggi e progetti reconditi. Amava, invece, la letteratura e la
poesia: ricordo con che foga mi lesse, una sera, il saggio di De
Sanctis su Francesca da Rimini. Sdegnava le frasi fatte e i luoghi
comuni, ad esempio non credeva che la donna dovesse essere
l’angelo del focolare, diceva: «La donna non è né angelo né demonio, è donna». A volte esclamava: «Quanto parla la gente che
non ha niente da dire!», oppure: «Nel branco degli sciocchi,
l’uomo saggio è sempre ridicolo», parole che ora, a distanza,
mi fanno pensare all’albatros di Baudelaire, stupendo quando
vola verso l’alto, ridicolo, agli occhi dei marinai, quando cade
sulla tolda delle navi. Raccoglieva in un’agenda del 1935 pensieri e massime di autori prediletti o che, in ogni caso, le sembravano interessanti e condivisibili: quell’agenda, la custodisco
gelosamente, come una preziosa reliquia. Vi trovo ad esempio
queste parole di Anatole France, tratte da non so quale opera:
«Divina è la parola del poeta… felice chi, per rendere il suo
intimo sogno, sa chiudere lo splendore del suo pensiero in bella
forma e nel cristallo dei ritmi». Era sensibile, la nonna, al ritmo
poetico, alla musica della poesia. Trovo anche, tra le citazioni,
questo pensiero, tratto da La fontana di Charles Morgan: «Noi
siamo come le corde di uno strumento che, allentate, sono morte; non possiamo produrre nessun’altra musica se non quella che
si adatta alle nostre corde e, per di più, soltanto quando la loro
tensione è giusta, equilibrata, corretta». Ritroveremo più avanti
la similitudine tra le anime degli uomini e gli strumenti musicali:
certo non poteva sapere, la nonna, che si richiamava, con quelle
parole, a un topos musicale e letterario su cui, più tardi, mi sarei
chinato con assiduo interesse. Non feci in tempo a parlargliene.
Si spense, oltre sessant’anni fa, mentre ero a Firenze: preparavo la mia tesi di laurea, cercavo dei documenti sui rapporti tra
letterati minori del secondo Ottocento e i loro contemporanei
francesi. Così, non andai a darle il mio ultimo saluto e questo è
rimasto, per me, un cocente rimorso: avevo preferito, balordamente, l’erudizione all’amore, la smania di un modesto sapere
all’ardore della caritas. Ricordo che, quando morì, mi chiesi a
lungo dove fossero finite la cultura, l’intelligenza, la saggezza, di
cui lei era stata, per me, un memorabile esempio. Possibile che
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tutto fosse, così, svaporato nel nulla? Avevo un bel ripetermi che
il vero paradiso, quando scompare una persona cara, è il cuore
di chi rimane: questo vale, tutt’al più, per una, due generazioni.
E dopo? È per questo che, della saggezza di nonna Irene, cerco di lasciare una traccia in queste povere pagine. E aggiungo,
per confortarmi, che certi brani “funebri” su cui mi fermerò più
avanti, ad esempio di Chopin o di Ravel, forse hanno anche questa funzione, di esaltare ed eternare il ricordo delle persone che
abbiamo amate e che non ci sono più.
4. Méditation
A volte, non di rado, nella “casina” non un cigolio di carri si udiva, ma il rombo lontano del motore di un’auto. Quel suono mi
era gradito, suscitava in me ansia e attesa: speravo che venissero
da noi persone amiche. Ma di solito anche quel rombo, dopo
essersi avvicinato come un’allegra promessa, passava veloce; se
era tardi, i fari dell’auto non giravano in direzione del cancello
ma proseguivano, il ronzio del motore gradatamente si allontanava e si spegneva e nel cuore mi restava un gran vuoto, mentre
all’intorno iniziava a incombere il silenzio sovrano della sera.
A volte veniva a trovarci, non in auto ma in un elegante calesse, un’anziana signora francese, suocera di un ricco proprietario che era amico dei nonni e la cui villa non era lontana. Mi
piacevano, di quella signora, i modi amabili e garbati, eco di un
mondo così diverso dal nostro. A noi bambini insegnava la Marsigliese, ce ne spiegava l’origine e il significato, ci parlava, e gli
occhi le brillavano, di liberté, égalité, fraternité. Noi ripetevamo
con lei Allons enfants de la patrie…, a bassa voce perché il clima,
già allora, non era propizio a simpatie per la Francia. Quel canto
mi affascinava, mi dava i brividi, lo trovavo bellissimo, avrei voluto impararlo per intero, invece sapevo dirne malamente solo
l’inizio.
Nella calura del solleone, dopo la siesta, nel salotto della “casina” si usciva dal torpore: nonno Saro, fuori, ai piedi dei gradini
del poggiolo che dava direttamente sullo slargo antistante la villa, apriva la sedia a sdraio, accendeva il suo sigaro, s’immergeva
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nella lettura dei giornali, la nonna metteva gli occhiali e riprendeva il suo eterno lavoro a maglia. A volte i nonni e la mamma si
mettevano a parlare, evocavano la loro Sicilia. La mamma ricordava i suoi soggiorni d’infanzia a Erice, presso Trapani, da cui,
diceva, si contempla un panorama meraviglioso. Oppure parlava di Palermo, descriveva Monreale, per farci divertire ripeteva,
con quella sua inflessione ironica, il vecchio adagio: «Chi va a
Palermo e non vede Monreale, ci va bestia e ritorna animale».
Più spesso, zia Lilia e zia Iole, ancora un po’ assonnate, un po’
assorte, uscivano in vestaglia dalla loro camera, sempre pronte al
sorriso, al vezzo tenero, alla carezza affettuosa. Un silenzio sereno ci fasciava, aleggiava, poche parole si scambiavano in quella
specie di sopore felice: era un silenzio denso di armonia. Con
premura le zie servivano il caffè, a noi bambini ne versavano
pochi cucchiaini nel piattino. A volte rompevano il silenzio e ci
raccontavano gustose storielle, come quella del matto che dà a
un oste esoso una saggia lezione: l’oste pretende che un poveraccio che ha annusato il suo arrosto lo paghi, e il matto-saggio
lo risarcisce col suono delle monete; oppure quella della contadinella che va al mercato a vendere il latte e immagina con gioia
tutti i guadagni che farà: il signore del luogo per strada la saluterà, lei fa l’inchino e così il latte, che porta in un bricco sul capo,
si rovescia per terra. Non potevo prevedere, allora, che quelle
due storielle sarebbero state per me, ben più tardi, il punto di
partenza di assidue e gradite ricerche: la prima sulla saggezza dei
folli, alla luce di Erasmo e di San Paolo il quale dice, come tutti
sanno, che i folli agli occhi degli uomini spesso sono i saggi agli
occhi di Dio, la seconda sulla favoletta di La Fontaine La laitière
et le pot au lait e sul tema, che ne è l’anima segreta, delle illusioni
perdute. Per l’esattezza, per altro, devo precisare che la contadinella delle zie non portava sul capo del latte ma della ricotta:
era, la loro, la variante meridionale di un antichissimo racconto.
Sovente tu, zia Lilia, dicevi, con lieve enfasi: «Che ne direste
di un po’ di musica?». Il vecchio grammofono gracchiava un
po’, strideva. Tu sola sapevi sistemare il disco, cambiare la puntina, poggiare il braccio per l’ascolto. Poi l’armonia ci avvolgeva o
si levava un canto. Erano, a volte, motivi di vecchie canzonette,
un po’ sciocche e infantili come quella che diceva: Era alto così,