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CONVERSAZIONE CON PAUL RICOEUR I 70 ANNI DI RICOEUR
Il 27 febbraio 1983 il filosofo francese Paul Ricoeur ha
compiuto 70 anni. Conosciuto ed apprezzato in Italia anche per
le numerose traduzioni dei suoi lavori l, Ricoeur divide il suo
tempo molto impegnato tra l'insegnamento alla Sorbona e alla
Divinity School di Chicago e la ricerca filosofica 2. Nell'ultimo
periodo ha lavorato al libro uscito in Francia, dal titolo Le
temps raconté, per i tipi dell'editore Du Seuil 3. Per far conoscere
meglio l'Autore presentiamo brani di una conversazione avuta
con lui nel mese di novembre scorso, che tocca le tematiche del
citato libro ed altre tematiche da lui già indagate, come il
problema del male e quello del potere politico 4.
NOTE
I Questi i titoli in edizione italiana: L'interpretazione. Saggio su
Freud, Il Saggiatore, Milano 1967, 1979; Ricoeur P. - Drèze J. - Debelle
J., Progetto di università, Queriniana, Brescia 1969; Finitudine e colpa,
il Mulino, Bologna 1970; L'ermeneutica del sublime. Saggi per una
critica dell'illusione, Sortino, Messina 1972; La sfida semiologica,
Armando, Roma 1974; Il conflitto delle interpretazioni, Jaka Book,
Milano 1977; Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia,
Brescia 1977; Ermeneutica biblica. Linguaggio e simbolo nelle parabole
di Cesu, Morcelliana, Brescia 1978; Ricoeur P. - Jtingel E., Dire Dio.
Per un'ermeneutica del linguaggio religioso, Queriniana, Brescia 1978;
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Tradizione e alternativa. Tre saggi su ideologia e utopia, Morcelliana,
Brescia 1980; La metafora viva, Jaka Book, Milano 1981.
2 Nato a Valence il 27 febbraio 1913, Ricoeur insegnò dapprima
nei licei di St. Brieuc, Colmar, Lorient, Nancy e Reims sino al 1949,
quando prese il posto di Jean Hyppolite nella cattedra di filosofia
all'Università di Strasburgo. Nel 1956 divenne professore di filosofia
alla Sorbona di Parigi, sino al 1966 quando preferi insegnare nella
nuova Università di Nanterre, sempre a Parigi, di cui divenne anche
rettore durante gli anni caldi della contestazione studentesca (1968) .
Nel 1970 ricevette la laurea honoris causa in teologia dall'Università
di Nimega. Tornato alla Sorbona, attualmente insegna sei mesi a
Chicago e sei mesi a Parigi.
3 L'itinerario della ricerca di Ricoeur parte dall'esistenzialismo con
i due saggi: Karl ]aspers et la philosophie de l'existence (in collabora­
zione con M. Dufrenne, Du Seuil, Paris 1947) e Gabriel Marcel et
Karl ]aspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe
(Temps present, Paris 1948); attraversa la fenomenologia husserliana
dove si sofferma sui problemi della volontà con i saggi Philosophie de
la volonté. I. Le volontaire et l'involontaire (Aubier, Paris 1950),
Méthodes et tdches d'une phénoménologie de la volonté, in Problèmes
actuels de la phénoménologie (Desclée de Brouwer, Paris 1952). Si
interessa dei problemi politici (Histoire et vérité, Du Seuil, Paris 1955),
in particolare del problema del potere. Scandaglia il problema della
volontà per capire la limitatezza dell'uomo, la sua origine, la colpevo­
lezza e la debolezza che gli è propria, nei saggi Philosophie de la
volonté. Finitude et culpabilité. 1. L'homme faillible (Aubier, Paris
1960), Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité. 11. La symboli­
que du mal (Aubier, Paris 1960). Continuando l'approfondimento dei
limiti dell'uomo comprende che un campo d'indagine che può aiutare
a capire l'uomo è il linguaggio, come d'altronde la fenomenologia gli
suggeriva, specie quella francese di Merleau-Ponty (cf. Ricoeur P., New
Developments in Phenomenology in France: The Phylosophy of Lan­
guage, in «Social Research», n. 34, 1967). L'interesse per il linguaggio
non si limita ad una semplice filosofia del linguaggio perché egli è
convinto che per scoprire nelle strutture della narrazione e nei miti,
nei linguaggi religiosi e simbolici, le orme della finitudine e della colpa,
è necessario passare all'ermeneutica; in Francia d'altronde ci sono le
provocazioni dello strutturalismo, in particolare di Lévi-Strauss. Ri­
coeur cerca, nel dialogo con i contemporanei, una propria soluzione ai
problemi (cf. Herméneutique des symboles et réflexion philosophique,
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I., in «Archivio di filosofia», 1961, pp. 51-73; II., in «Archivio di
Filosofia», 1962, pp. 19-34; Symbolique et temporalité, in «Archivio
di filosofia», 1963, pp. 569-627; La structure, le mot et l'événement,
in «Esprit», 1967, pp. 801-821}. Nella ricerca ermeneutica Ricoeur non
poteva non imbattersi con la psicoanalisi e con la sua pretesa di
collegare religione, simboli e miti con la libido e il super-io; nel
confronto con Freud cerca una interpretazione dei segni in senso
ricostruttivo e demistifica sia la libido, come pure, nel confronto con
Nietzsche, la volontà di potenza (cf. De l'interprétation. Essai sur
Freud, Du Seuil, Paris 1965; L'ateismo della psicanalisi freudiana, in
«Concilium», n. 4, 1966, pp. 87-100; Religion, Atheism and Faith, in
Mac Intyre A. - Ricoeur P, The religious significance of Atheism,
Columbia University Press, New York and London 1969, pp. 57-98).
Nel saggio Le conflit des interpretations, Du Seuil, Paris 1969, che
raccoglie diversi articoli già pubblicati, Ricoeur, attraverso l'ermeneuti­
ca, tenta di ripercorrere il cammino «dalla riflessione all'ontologia» o,
come spiega Rigobello nella prefazione all'edizione italiana, «l'erme­
neutica attinge l'ontologia come luogo ove spiegare il conflitto delle
interpretazioni». Le indagini sul linguaggio in Ricoeur non hanno una
valenza in sé conchiusa, ma sono sempre miranti a comprendere
fondamenti metafisici per 1'etica e 1'antropologia filosofica. In tale
direzione si colloca il lavoro sulla metafora e sulla poetica dopo quello
sulla semiologia (cf. Sur quelques connexions remarquables entre la
Théorie de l'action et la Théorie de l'histoire, in «Revue philosophique
de Louvain», n. 75, 1977, pp. 126-147; La sémantique de l'action,
CNRS, Paris 1977). Un'attenzione maggiore merita il saggio sulla
metafora La métaphore vive (Du Seuil, Paris 1975) che raccoglie otto
studi distinti, ciascuno dei quali anche costituisce «un momento di un
itinerario unico che inizia con la teoria classica, attraverso la semiotica
e la semantica, per arrivare alla fine all'ermeneutica» (tr. it., p. 1). Negli
studi degli ultimi anni (lnterpretation Theory: Discourse and the
surplus of Meaning, The Texas Christian University Press, Fort Wott
[Texas] 1976, pp. 1-23; The Narrative Form, The Metaphorical Process,
The specificity of Religious Language, in «Semeia», n. 4, 1975; Ideolo­
gy and utopia as cultural imagination, New York 1976; History and
hermeneutics, in «The Journal of Philosphy», n. 19, 1976, pp. 683-695;
L'herméneutique du témoignage, in «Archivio di Filosofia», 1972, pp.
35-61; Herméneutique de l'idée de Révelation, in AA.VV, La Révela­
tion, Bruxelles 1977) si può trovare il terreno preparatorio al lavoro
in via di pubblicazione sul «racconto» (le récit). Già in History and
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hermeneutics aveva sottolineato come paradosso della storia la sua
appartenenza da una parte, per quel che riguarda i dati, all'oggettività
metodologica delle scienze naturali, e dall'altra la sua estraneità e
irriducibilità ai dati per il valore comunicativo interpersonale e interge­
nerazionale che le è proprio. I due punti di vista, che non si escludono,
hanno spinto Ricoeur sulla seconda pista, quella della comunicazione.
Perciò ha focalizzato il suo studio su tutte le forme narrative sino al
romanzo, compreso il racconto storico (tema caro anche ad Erich Weil:
Valeur et dignité du récit historiographique,.in «Archives de Philoso­
phie», 1977, pp. 529-542). «Attraverso il racconto - ha detto Ricoeur
- si organizza il tempo umano, anzi il tempo diventa umano quando
è raccontato».
4 Cf. Vansina F.D., La problématique épochale chez P. Ricoeur et
l'existentialisme, in «Revue Philosophique de Louvain», n. 70, 1972,
pp. 587-619; Monconduit F., Paul Ricoeur et la problématique du
pouvoir, in AA.VV, Etudes offertes à Il Chevalier, ed. Cujas, Paris
1977, pp. 195-207; sempre sul problema del male connesso con la
finitezza umana cf. Renzi E., Una fenomenologia della finitezza e del
male, in «lI Pensiero) , 1960, pp. 360-371. Per una bibliografia piu
ampia si rimanda a Vansina D.F., Bibliographie de P. Ricoeur, in
«Revue Philosophique de Louvaim), 1961, pp. 394-413, e 1968, pp.
85-101; 1974, pp. 153-181; 1982, pp. 579-619; Grampa G., Introduzio­
ne a Ricoeur P. - Jungel E., Dire Dio - Per un'ermeneutica dellinguag­
gio religioso, cit.; Nebuloni R., Nabert e Ricoeur. La filosofia riflessiva
dell'analisi coscienziale all'ermeneutica filosofica, in «Rivista di filoso­
fia neoscolastica), n. 1, 1980, pp. 80-145.
INTERVISTA
1. Il racconto e la storia
D. Su che cosa lavora attualmente?
R. Lavoro sul racconto, cioè su tutte le forme narrative,
sulla storia e gli storici sino al romanzo, per mostrare che
attraverso il racconto organizziamo il tempo umano e che il
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tempo diventa tempo umano quando è raccontato. È il titolo
del mio prossimo lavoro: Le temps raconté. lo penso che l'arte
di raccontare non è solo questione per ragazzi, ma anche per
noi stessi che abbiamo bisogno di riunificare le nostre vite, le
nostre esperienze con la capacità di farne un racconto intelligibi­
le ed accettabile. Per esempio mi ha colpito molto il fatto che
i malati mentali psicotici o nevrotici non fanno che raccontare
sogni o storie della loro vita allo psicanalista o allo psichiatra
e la cura psicanalitica consiste proprio nel trasformare racconti
incomprensibili e illogici in racconti, come ho già detto, intelli­
gibili ed accettabili. Non si tratta della Storia dell'umanità, ma
è la nostra storia personale che possiamo elevare al rango di
Storia. Unificando la nostra esperienza in un racconto, noi non
facciamo solo un lavoro di espressione linguistica, ma di auto­
comprensione.
D. È il racconto del resto che rende possibile la comunica­
zione.
R. Sf, perché quando facciamo conoscenza con un amico,
cominciamo con un racconto, cioè risaliamo alla storia delle
nostre amicizie, alle esperienze trascorse ... La mia tesi è che per
quanto scientifica sia la storia (e occorre che lo diventi sempre
pili con la necessaria ricerca dei documenti e dei dati), essa resta
storia unicamente nella misura in cui esprime una filiazione, un
legame da persona a persona attraverso un racconto. Il mio
problema è come la storia prolunghi la memoria. In questi ultimi
tempi ho molto riflettuto su questa filiazione da una generazione
all'altra. Il nostro legame col passato si attua nella filiazione
(padre-figlio) lungo le generazioni e il legame concreto diviene
la memoria della memoria. Raccontando la storia del proprio
nonno, si passa progressivamente dalla memoria personale alla
memoria di ciò di cui ho memoria, e COSI di seguito verso il
passato umano. Penso d'altronde che la storia ha una funzione
del tutto particolare e mi discosto dalla critica di sinistra che
sostiene che essa è storia di potere e gloria senza vedere la sua
vera funzione. lo direi che essa è un debito che abbiamo nei
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riguardi dei morti. È un preservare la loro memoria e clO
sorpassa la critica della storia-potere, critica che ha del resto una
sua legittimità quando ci ricorda che noi conosciamo solo la
vita dei grandi, di quelli che hanno avuto potere. Ma oggi gli
storici tentano di ricostruire una storia del popolo e cosi facendo
ingrandiscono l'ambito della memoria dei morti. Questo mi
sembra molto importante. Non sono d'accordo nel vedere nella
storia solo la manipolazione della banca-dati, una costruzione
che non ha alcun rapporto con la memoria collettiva. Una tale
storia, in effetti, si riduce a scienza naturale che si alimenta
dell'informatica. Gli storici di questo tipo hanno paura di non
apparire cosi scientifici come i fisici.
D. Hanno perduto il senso del «Denkendergeschichtsfor­
scher» hegeliano, cioè dello storico che è tale in quanto pensa
i dati, che è anche maestro di pensiero. Occorre riscoprire la
storia «pragmatica» del XVIII secolo che si interessava anche
alla vita, ai costumi dei popoli. Il modo di porsi dinanzi alla
storia suppone una opzione fondamentale, specie se si crede alla
importanza delle piccole rivoluzioni di ogni giorno, di cui quelle
grandi e appariscenti sono l'esplosione nella continuità.
R. Si, io penso che oggi la tecnica documentaria rompe, se
si vuole, la continuità storica, lo stabilirsi dell'amicizia con i
nostri morti. Vede, dal punto di vista religioso, io collego questa
idea alla «comunione dei santi» che presuppone l'esaltazione
della linea di continuità. Su un altro versante si colloca ad
esempio tutta l'opera di M. Foucault retta dall'ipotesi che la
storia avanza molto piti attraverso le interruzioni e i balzi che
le continuità. Egli l'ha verificato in due o tre settori: la storia
della linguistica, della classificazione degli animali e dei vegetali
e la storia della moneta. Ha preso questi tre ambiti mostrando
come c'è una rottura tra il XVII e il XVIII secolo. Egli vede la
storia fatta da una serie di épistème, cioè un sapere coerente,
ma con passaggi da una épistème ad un'altra, senza legame di
continuità. lo non sono affatto d'accordo: egli distrugge l'idea
della memoria collettiva, anche se potrebbe aver ragione nel
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dettaglio, nel senso che se si prende un ambito determinato della
scienza si osservano effettivamente delle rotture. Ma mentre c'è
rottura in quella disciplina, in quell'ambito, c'è continuità in un
altro campo. La storia tutta intera non è fatta da rotture.
Pensiamo ad un periodo rivoluzionario: la vita quotidiana della
gente continua. Non si puo pensare il discontiuo che sullo
sfondo della continuità. È la continuità che permette di integrare
anche le rotture, come rotture di cui si ha memoria. Se invece
esse fossero assolute e totali, non sarebbero neanche oggetto di
ripensamento nella memoria. Questo problema del rapporto
continuità e discontinuità non è per me solo un problema
scientifico, ma profondo e spirituale.
D. Che rapporto ha lei col Vico e la sua convinzione
dell'importanza della storia come ambito privilegiato del cono­
scere, in quanto essa è fatta dagli uomini?
R. Mi rammarico di non conoscere meglio Vico, ma sto
già riparando. Personalmente ritengo che la storia non la faccia­
mo noi. Ogni azione nostra produce dei risultati e tutta la storia
è frutto non voluto delle nostre azioni. In tal senso noi ricevia­
mo come ereditieri la storia precedente. Per me è fondamentale
il senso della tradizione. Certamente occorre distinguere tempo
umano e tempo fisico. Nel tempo fisico tutti gli avvenimenti
sono uguali, non cosi nel tempo vissuto. Occorre poi una
tradizione da cui si riceve, ed infine un orizzonte d'attesa. Il
presente è in qualche modo il luogo di confronto tra l'esperienza
ricevuta e la speranza. Nel presente vi è un che di conflittuale
tra ciò che termina e ciò che comincia. Ecco perché non si può
andare solo nella direzione del futuro, come ha fatto ad es. E.
Bloch e tutte quelle filosofie della speranza che rifiutano il
pensiero della tradizione come deposito del passato. Come
negoziare allora tra passato, memoria e speranza?
D. È il presente, come dimensione privilegiata che l'uomo
ha da vivere, poiché il passato non c'è piu e il futuro non è
ancora...
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R. Si, però il passato non è semplicemente concluso, ma
viene preservato dalla memoria, dalla cultura della memoria che
è la storia. lo non credo piti molto alla vecchia nozione di storia.
Era Hegel che diceva che la sola lezione della storia è quella
che nessuno ha mai seguito. Al di là di questa impostazione
moralizzante delle lezioni della storia c'è di certo un apprendista­
to delle azioni e degli errori. È dalla storia che si riceve un
ingrandimento del nostro orizzonte di valori (vedere, ad es.,
come hanno vissuto altri uomini con altre concezioni, altre
speranze, altre memorie). Nella nostra memoria ci sono le
speranze degli uomini del passato, che erano futuro per loro e
passato per noi.
D. Penso in questo momento a Gesu che ha riassunto in
sé il passato. La sua memoria del passato ha significato ricapito­
larlo in sé e ricreare nuove realtà e progetti per il futuro.
R. Devo partecipare la settimana ventura ad una riunione
di esegeti sull'inizio dei Vangeli di Matteo e Luca che riportano
la genealogia di Giuseppe e di Maria. Formulare la genealogia
non è per loro scrupolosa attenzione alliesattezza della discen­
denza, ma significa porre concretamente Gesti nella continuità
di una promessa. Noi non abbiamo mai, infatti, un presente
puro, anche se dobbiamo sottolineare la novità del messaggio
di Gesti. La sua Parola «nuova» sarebbe stata incomprensibile
se non fosse stata anche reinterpretazione di una parola anterio­
re. Ecco perché bisogna riprendere il passato per proiettarlo in
maniera nuova nell'avvenire: questo è il presente.
D. Il passato per il presente, quindi, e non per mero culto
del passato. Ciò è confermato da molte esperienze di fede
esistenti nel mondo che incentrano l'attenzione sul «vissuto»,
raccontato durante gli incontri. La comunicazione interpersonale
si giova molto di tali racconti e, quando sono fatti sulla base
della fede, essi sono anche l'esaltazione del presente di Dio, dal
momento che si presta fede alla promessa evangelica «Dove due
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o ptU sono riuniti nel mio nome, là sono lo in mezzo a loro»
(Mt. 18, 20).
R. Mi sembra molto profondo, purché non divenga stereoti­
pato e ripetitivo. Occorre conservare la dimensione piccola dei
gruppi per approfondire l'esperienza della comunicazione. Essa
ha sempre una struttura temporale poiché ciò che si può
raccontare è: come qualcosa è cominciato, è durato, si è interrot­
to, continua ... Attribuisco molta importanza a questa nozione di
continuità che è perseveranza, fedeltà; doti estranee al mondo
contemporaneo che vive piu l'immediato, senza fedeltà, e non
ha la concezione né la capacità di tener fede allo sviluppo di un
germe attendendo che produca una pianta. Penso in questo
momento a tutte le parabole di Gesu che parlano di sviluppo
graduale, di crescenza. Il grano viene seminato, ma occorre
tempo per attendere la sua maturazione. Il concetto di tempo è
legato a questa maturazione. È un qualcosa che la teologia
protestante ha sviluppato soprattutto in Barth e Bultmann.
Viceversa, la tradizione che si riallaccia a Kierkegaard pone
l'accento, come lei sa, sull'istante, come rispetto dell'irruzione
verticale dell'eternità nel tempo. Anche il romanticismo tedesco,
con la sua estetica del genio, pone l'accento su ciò che comincia
come un primum. Ma qui non è sottolineata la continuità
dell'esperienza, la capacità di tenere nella lunghezza del tempo
che significa anche capacità di soffrire e sopportare. In francese
abbiamo il vocabolo «endurer» che sottolinea questo sodalizio
tra il durer e il sopportare, non so se è lo stesso in italiano.
2. Il negativo e il male nella storia
D. Il problema si riallaccia al ruolo del negativo e del male
nella storia, problema che Lei ha trattato piu volte.
R. Proprio ieri ho avuto un colloquio molto interessante
con un filosofo che è pessimista sull'avvenire (ha scritto un libro
il cui titolo è L'amour meme) e che ha un pensiero con
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significato religioso basato sull'idea che una libertà risveglia
un'altra libertà e cosi via, con ampia possibilità di male. Ma io
gli ho sottolineato che il male c'è, ma non fa sistema, non so
cosa lei ne pensa. Certo gli interventi del male fanno fallire i
progetti, deviare le buone intenzioni, ma sono caratterizzati da
discontinuità. Direi che il male è discontinuo e il bene continuo.
Assumendo il punto di vista non morale ma biologico, per es.
la malattia del cancro, anche li interviene il male con la distru­
zione dell'opera della vita, ma non presenta il carattere organiz­
zato di un organismo vivente. Per es. l'occhio, col suo sistema
ottico, nervoso, ecc., risulta essere una convergenza di piu
sistemi in uno. Il male porta divergenze in quella unità organiz­
zata della vita. Non vorrei che si considerasse come ottimista la
mia posizione, ma quantomeno mi pare la maniera di presentare
in forma moderna, comprensibile ai contemporanei, l'idea di
Provvidenza. L'ottimismo semplicistico non spiega il male, ma
un ottimismo realistico constata che i progressi evolutivi attuati­
si, dall'alga marina all'uomo, testimoniano che il bene si è
accumulato. Anche all'interno dell'esperienza umana, tecnologica,
morale, politica, avviene la stessa cosa. Sono convinto, ed è il
mio modo di fare teologia della storia, che il segno di Dio è
che il bene si accumula.
D. Oggi avvertiamo l'esigenza di non accentuare la rottura
tra il bene e il male. Pur mantenendo la necessaria distinzione
non si può approfondire il legame che intercorre tra essi e che
fa si che spesso il male concorre pur esso al bene?
R. È quello che pensavano gli scolastici come san Tomma­
so, che vedevano nel male il cattivo uso del bene. Ma se si tratta
del principio del bene e del male occorre pur pensarli distinta­
mente. Certo la vita li mescola. Pensiamo alla parabola di Gesu
del grano mescolato alla zizzania che si può distinguere solo al
raccolto. Dobbiamo applicare il discernimento relativo, poiché
la zizzania non è certo il buon grano.
D. Si, ma è importante approfondire il rapporto dialettico
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tra di essi nella filosofia e teologia come pure nella natura (il
fiore che si nutre della melma) e nella storia personale e
collettiva (alcune scelte oggettivamente sbagliate alla lunga risul­
ta che hanno prodotto per noi un bene).
R. Lei vuoI dire che il bene non continua solo attraverso
il bene, ma riprende e ricicla il male?
D. Si, e trionfa su di esso. Il male devia, ritarda, ostacola
la realizzazione lineare del bene, ma non è tale da impedirlo,
anzi spesso il bene, passato attraverso il male, finisce con l'essere
superiore e si prende una rivincita maggiore. Penso ad Agostino
ed alla «felix culpa», o al «venerdi santo», alla «immane
potenza del negativo» di cui parla Hegel.
R. Si, ma ciò che resta il mistero del male e che resterà
tale sino alla fine del mondo è che noi non possiamo vedere
tutto il negativo come recuperato. Lo vediamo qualche volta,
ma il male che è veramente tale è quello di cui non vediamo
alcun esito positivo. È là che tocchiamo il mistero del male e
soffriamo. Viceversa, la posizione di Hegel è razionale ed
ottimista perché attraverso la ragione noi dominiamo e recupe­
riamo il negativo, ma solo attraverso la ragione che subentra in
un momento successivo.
D. È la famosa nottula di Minerva.
R. Si, ma mi sembra un tentativo di dominare l'accaduto
con la ragione. Se non erro, comunque, i nostri punti di vista
sono differenti, ma convergenti. lo vedo che il bene si accumula
mentre il male disperde ma non forma sistema. Lei sottolinea
che Dio ricava il bene anche dal male, tema teologico centrale.
Occorre guardare le due posizioni nello stesso tempo. La secon­
da, forse, è troppo ottimista, poiché non tutto il male si converte
in bene o almeno non durante la nostra vita e non visibilmente.
E qui occorre guardare alla prima posizione, cioè che il male
che non riusciamo a çomprendere come cammino del bene resta,
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ma è in qualche modo localizzato. A ciascun livello dell'evoluzio­
ne universale c'è stato una sorta di avversario tendente a far
fallire il cammino verso la perfezione dell'uomo ad immagine di
Dio, ma a ciascuno stadio l'avversario è stato vinto; c'è stata
sempre una soluzione positiva. Prenderei per modello, nell'Anti­
co Testamento, l'idea del «resto d'Israele». C'è un «resto» che
ha salvato tutta l'impresa, tutto il disegno. È forse cosi che le
cose umane progrediscono segretamente. Non per le grandi cose
visibili, ma per questo «resto» che porta il germe di cose nuove.
Attualizzando il discorso al giorno d'oggi, prendiamo, ad es., i
dissidenti dell'Europa dell'Est. Sono pochi, forse alcune centi­
naia, ma sono loro che portano la speranza nel mondo comuni­
sta, alimentando la fede in un nuovo socialismo umano. Penso
sia un aspetto importante della fede l'idea del «resto» che semina
la speranza nella storia. Essa non passa a livello delle grandi
folle o di individui isolati, ma di gruppi comunitari di vario
tipo. Lei mi ha parlato di gruppi che mi paiono tipici in questo
senso, in cui si rivive la realtà del «Dove due o piu ... ».
D. Nello stesso tempo oggi si avverte fortemente il bisogno
di andare al di là delle divisioni di ogni tipo per costruire
concretamente una piattaforma ideale unitaria per tutta l'umani­
tà, al di là della esperienza pilota dei piccoli gruppi. Il «resto»
ha tuttavia un compito piu grande relativamente alla speranza
da infondere nella storia.
R. Ciò mi fa pensare ai miei sforzi di ermeneutica del
peçcato originale che, interpretato popolarmente, può apparire
per certi versi scandaloso (pensare, cioè, ad un primo uomo che
pecca e trascina tutti nella colpa: risulta che si è colpevoli per
eredità, senza aver commesso alcuna colpa). lo credo che l'idea
del peccato originale sia la maniera di dire che l'umanità deve
pagare molto caro i progressi spirituali. C'è qualcosa di misterio­
so in questo prezzo da pagare. Guardiamo agli avvenimenti
recenti. C'è stato bisogno di una guerra per uccidere Hitler. È
stato un prezzo terribilmente alto per mettere fine al nazismo.
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E quale sarà il prezzo da pagare per l'Unione Sovietica, per
mettere fine un giorno a quella tirannia?
D. Un monaco russo tempo fa mi confidava il desiderio di
una terza guerra mondiale per poter liberare il popolo russo
dalla tirannia e dalle deportazioni ...
R. Comprendo la situazione, perché l'anno scorso sono
stato in Cecoslovacchia come turista, ma nello stesso tempo
volevo incontrare i colleghi universitari. Molti di essi sono
attualmente operai, perché dissidenti che han perduto il loro
posto. Anche gli studenti perdono le borse di studio e la
possibilità di proseguire le ricerche. Molti mi dicevano: «Voi in
Occidente fate pa~are a noi il vostro progresso, Ia'vostra libertà
e la tranquillità. E necessario per voi che noi restiamo schiavi
perché possiate conservare la pace». Ciò è spaventoso. Occorre
riflettere sul fatto che il prezzo della nostra tranquillità è pagato
per es. dai polacchi che stanno perdendo la speranza. Certo
l'umanità non può augurarsi oggi la guerra, oggi che essa' sarebbe
dieci volte piti spaventosa dell'ultima guerra mondiale ... Si può,
però, tirare almeno questa conlcusiont': noi dobbiamo impegnar­
ci a fare l'uso migliore della nostra libertà. Ciò che ci rattrista
è che invece in Occidente la libertà è divenuta banale, inutile,
consumistica.
3. Il problema del potere
D. È molto importante a tale proposito il ruolo degli
intellettuali e degli «opinion makers» nel tenere alti ideali e
interessi. Spesso, invece, essi utilizzano la loro professione nella
direzione del potere, problema tanto dibattuto in Italia e in
Francia.
R. C'è certamente una trappola della cultura. Si crede di
essere semplici trasmettitori di cultura, ma si esercita il potere
che dona il sapere. Il problema del potere credo che sia oggi
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Conversazione con Paul Rlcoeur
centrale e phi importante del problema economico-sociale. lo
insisto su questo perché nelle discussioni sul marxismo negli
anni 1945-1950, anni in cui ho conosciuto bene E. Mounier,
tutto era orientato a studiare i problemi sociali nella prospettiva
economica. Oggi, con i Gulag sovietici e la critica del sistema
mossa da Solgenitzin, constatiamo che la questione della pro­
prietà non è la questione principale, o piuttosto che il capitali­
smo non è ammissibile perché, oltre il monopolio dei mezzi di
produzione, dà potere ai possessori di denaro. TI denaro è visto
come fonte di potere. Anche una società come quella sovietica,
che concentra tutto nello Stato, non risolve il problema del
potere, anzi lo aggrava, poiché almeno in una società liberale
nel doppio significato (economico e politico) il potere non è
concentrato nelle stesse mani. TI fatto stesso che nello Stato
liberale ci sono conflitti tra i diversi gruppi sociali garantisce
una maggiore libertà. Anzi esso si caratterizza proprio perché
.organizza il conflitto, i mezzi di espressione e le procedure che
rendono i conflitti negoziabili. Sono persuaso che siamo stati
finora troppo affascinati dal problema della proprietà, senza
accorgerci che essa era solo uno dei modi di esercitare il potere.
Perciò la questione del potere è diventata il nostro problema.
Un problema politico ed etico piuttosto che etico ed economico
in quanto riguarda la distribuzione del potere nelle società.
D. Quindi il dialogo culturale è meno centrato su Marx
oggi. Credo che bisogna fare i conti piuttosto con Hegel.
R. Si, il nostro dibattito è molto piti da fare con Hegel
che con Marx. Non voglio dire che il problema del marxismo
sia inesistente o risolto ma che oggi riusciamo ad avere un
rapporto piti libero con Marx al di là delle interpretazioni
ufficiali dei partiti comunisti e dell'URSS. È un autore che
leggiamo con la stessa libertà di spirito che abbiamo nei con­
fronti di un Kierkegaard o di uno Spinoza. Lo possiamo
utilizzare tranquillamente, precisamente perché il centro del
dibattito si è spostato verso il «politico», il potere, dove
incontriamo Hegel piuttosto che Marx. Penso sempre piti che
Conversazione con Paul Rlcoeur
103
la debolezza del pensiero di Marx per noi oggi è che egli non
ha avuto un vero pensiero politico o piu esattamente che ha
creduto che con la soppressione del capitale la società sarebbe
divenuta automaticamente buona. Ma oggi abbiamo esempi di
regimi, come le democrazie popolari, dove è stato soppresso lo
sfruttamento del capitale ma si è aggravato il problema del
potere.
D. Credo che il problema del potere non sia solo relativo
all'organizzazione politica, ma riguardi, a livello micro-sociale,
la posizione del rapporto tra l'io, il tu e il noi.
R. Non so allora se lei è d'accordo con me. lo sono alla
ricerca di una soluzione intermediaria tra lo Spirito oggettivo
di Hegel, che non procede dal noi, e la relazione io-tu-noi. Si
pone il problema delle istituzioni: come evitare che esse divenga­
no lo Spirito oggettivo di Hegel e non siano dunque piu
. riducibili al noi. Ho trovato molto interesse in un sociologo di
origine tedesca, che è divenuto americano, A. Schutz, e partico­
larmente nei suoi Collect papers e nella grande opera dal titolo
La fenomenologia del mondo sociale. Egli ha molto riflettuto
sul passaggio dal «noi» a l'«esso». È il problema dell'anonimato:
tra tutti i rapporti che stabilisco quotidianamente, solo pochi
possono divenire personali, mentre una gran parte restano legati
ad un ruolo sociale e quindi «anonimi» (per es., il rapporto che
ho col postino si riduce alla mia attesa che egli faccia la sua
funzione di distribuire la posta: non è dunque un «noi»).
Occorre allora riflettere sulla posizione intermediaria delle istitu­
zioni tra lo Spirito oggettivo hegeliano e il «noi» che suppone
i rapporti interpersonali. Conosco pochi autori che si sono posti
lo stesso problema con la stessa intelligenza di Schutz, che
proviene dalla scuola d'ella fenomenologia tedesca di Husserl.
C'è anche un'altra fonte, che è Heidegger con tutta la riflessione
sull'anonimato.
D. Certo il problema dell'anonimato è fondamentale nella
vita feriale dell'uomo d'oggi. La difficoltà, cioè, che egli ha a
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Conversazione con Paul Ricoeur
stabilire dei «noi» entro istituzioni che non favoriscono la
personalizzazione dei rapporti. Occorre trovare strutture istitu­
zionali in cui ci sia posto per il rispetto della persona e dei
piccoli gruppi, in cui essa possa realizzare momenti di comunio­
ne.
R. Certamente la comunione è un qualcosa di raro e
prezioso che non possiamo attenderci da tutti i nostri rapporti
sociali. È la «persona di persone» come diceva Mounier. Ma la
maggioranza dei nostri rapporti sono incapsulati entro ruoli
anonimi. Il problema mi sembra come personalizzare i rapporti
anonimi. Occorre partire dell'anonimato, perché la persona è
quella che esce dall'anonimato.
D. Come far si che le istituzioni siano fonte di personalizza­
zione e non di alienazione?
R. Non si può certo pensare che una grande fabbrica o un
apparato amministrativo possano essere una «persona di perso­
ne». Ma ciò che possiamo attenderci è che si favorisca la
partecipazione alle decisioni e ciò offra una chance a rapporti
piu personalizzati. Lo scopo è personalizzare, per quanto è
possibile, i rapporti anonimi, anche se noi sappiamo che una
gran parte dei rapporti anonimi resterà tale. Per es. al Metro il
rapporto è anonimo, ma sappiamo bene che dietro c'è sempre
una persona con cui potremmo stabilire un rapporto vero. Noi
possiamo lavorare per delle istituzioni personalizzabili per quan­
to è possibile. Occorre mantenere la disponibilità a che i
rapporti anonimi siano per noi sempre virtualmente personaliz­
zabili (se avessimo tempo, la necessaria apertura all'altro, la
generosità...). Il problema, preso dall'altro punto di vista, quello
istituzionale, ci riporta alla partecipazione alle decisioni come
modalità di personalizzazione di questi centri anonimi. Avrei la
tendenza a definire la democrazia come il regime nel quale il
piu gran numero di persone prende parte alla decisione.
D. Ma lo Stato democratico attuale è formale e impedisce
Conversazione con Paul Rlcoeur
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ai piu di partecipare alle decisioni. Anche la grandezza delle
istituzioni rende difficile lo stabilire rapporti comunitari, facili­
tati nei piccoli gruppi. Credo che Mounier parlasse appunto per
questo di «decentralizzazione e federalismo».
R. Infatti, uno dei testi di Mounier che amo di piti è quello
sull'anarchia (Anarchie et personnalisme, 1937), dove egli prende
posizione confrontandosi con la tradizione anarchico-perso­
nalista, particolarmente spagnola, che appariva qualcosa come il
contrario del marxismo centralizzatore. Forse l'anarchia presa nel
senso che proprio tutti debbano prendere parte alla decisione,
è un'utopia; ma la sua esistenza è proprio quella di prendere
decisioni dal basso e che tutti vi siano coinvolti. Il suo limite
è che ci sarà sempre una maggioranza e una minoranza, a meno
che non si pensi all'unanimità che è del resto ugualmente
dannosa perché tipica delle folle del totalitarismo. Ci vorranno
sempre delle regole che riconoscano dei limiti e assicurino il
rispetto delle minoranze. Certo il personalismo di Mounier è
nato come risposta ad una crisi ed era il rifiuto di qualcosa di
intollerabile. Il problema per noi è l'intollerabile di oggi che è
del resto diverso da quello del 1932 o del 1945-1948. Torno a
dire che oggi è divenuto intollerabile per noi il potere comunista
nell'Est. Proprio oggi abbiamo ascoltato che la polizia sovietica
ha sequestrato libri e documenti a Sakarov. Parimenti non siamo
soddisfatti delle forme di oppressione dell'imperialismo america­
no e cosi pure delle dittature militari del Terzo Mondo. Oggi
. abbiamo un triplice intollerabile: primo, secondo, terzo mondo.
Occorre esplicare qual è la domanda contenuta in questo intolle­
rabile. Qui ritroviamo il problema del potere e il suo aspetto
teorico: qual è la mediazione tra il «noi» e lo Spirito oggettivo
hegeliano.
D. Il «noi» ci fa pensare agli studi di Curvitch sul
pluralismo sociale e giuridico.
'R. È un autore straordinario. È li che possiamo trovare un
legame tra il «noi» e l'istituzione. A livello piccolo si attua la
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Conversazione con Paul Rlcoeur
pratica della vita comunitaria e delle istituzioni «leggere». Credo
che a questo proposito sia da abbandonare la pista hegeliana
con la sua illusione che «solo il tutto è vero» e quindi della
comunità che assorbe la persona, sia essa la nazione, lo Stato,
la razza.
D. Il problema riguarda il rapporto tra i due limiti estremi
dell'anarchia e del totalitarismo.
R. Si, siamo tra i due limiti. lo penso sia molto importante
la nozione dell'arbitraggio dei conflitti su cui lavora molto un
sociologo francese, A. Touraine. Sono interessato a lui perché
ho l'impressione che la sua idea di democrazia riguardi un
regime nel quale il conflitto possa esprimersi.
D. In merito a tali problematiche, quale il ruolo del
personalismo a cinquant'anni da,lla nascita, soprattutto riguardo
alla «terza via» tanto cercata dal 1930 ad oggi?
R. Occorre soprattutto non pensare al personalismo come a
qualcosa di compiuto. Del resto la vita pubblica di E. Mounier
è stata molto breve ed egli non ha avuto il tempo necessario
per sviluppare le sue idee, ma ha lasciato delle idee-guida,
direttrici spirituali. Soprattutto mettendo al centro la persona,
ha indicato in essa anche il punto di riferimento della vita
politica e sociale. Per quel che egli non è riuscito a definire,
facciamo noi la sua parte. Non serve certo fare dell'archeologia
mounierista, perché il personalismo, io credo, è pili davanti a
noi che dietro.
Forse il lavoro intellettuale che c'è da fare, e che anche lei
fa sul problema dell'etica e della politica e sul ruolo delle
istituzioni, passa per uno sforzo di mediazione tra il segreto
della vita spirituale (azione contemplativa) e il carattere pubblico
dell'impegno (engagement).
D. Si, d'altra parte già in Mounier c'è questa mediazione.
Quando parla di «persona di persone», esprime, in termini laici,
Conversazione con Paul Ricoeur
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un concetto religioso che si riferisce in qualche modo alla Trinità
(non a caso]. Lacroix nel Convegno di Dourdan - 30.10-1.11
- ha parlato di «mistica») per poterla riflettere nei rapporti e
nelle istituzioni. È compito degli studiosi rendere concreto tutto
questo sulla pista della «terza via»; vedere cioè se è possibile
interpretare il personalismo e la sua idea di società e Stato come
una reale «terza via». Occorre che gli uomini del duemila
abbiamo delle piste di società personalista e comunitaria.
R. Sono completamente d'accordo. Ai nostri successori,
anzi ai miei, il compito di prepararle.
ATTILIO DANESE