RABBIA arte.cdr - Campi estivi oratorio per ragazzi Oratori Diocesi

Transcript

RABBIA arte.cdr - Campi estivi oratorio per ragazzi Oratori Diocesi
Tigre assalita dal serpente, Antonio Ligabue.
Antonio Ligabue (alla nascita Antonio Laccabue, Zurigo, 1899 Gualtieri, 1965).
Figlio naturale di un'italiana emigrata, ha sempre ignorato il nome del padre. Nel
1913, entra in un collegio per ragazzi handicappati, dove si distingue subito per
l'abilità nel disegno e la cattiva condotta. Espulso dalla Svizzera, ritorna in Italia
dove vive come vagabondo. Nel 1937 viene internato in un manicomio in "stato
depressivo" e poi nuovamente ricoverato nel '45.
A riscattare tanta sofferta alienazione c'era una sorprendente genialità artistica, capace di
trasformare gli incubi di un uomo disturbato in incantate visioni colorate. Le opere figurative di Ligabue
traboccano di una violenza ancestrale. L'infanzia difficile e tormentata genera espressioni caratteriali fortemente
anomale, innescando in lui uno stato di perenne difficoltà a rapportarsi con l'esterno.
Tigri con le fauci spalancate, leoni nell'atto di aggredire una gazzella, leopardi assaliti da serpenti, cani in ferma e galli in
lotta: Ligabue sentiva gli animali come compagni, li comprendeva e li amava più degli uomini e ad essi, più che agli
uomini, voleva assomigliare. Animali esotici, feroci, domestici. In essi Ligabue identificava il proprio Sé - furore, rabbia,
aggressività- tradotti in risse o in stati di pacificato idillio, eccessi estremi di eccitamento maniacale o di malinconia. E
nel suo bestiario gli animali sono definiti da tratti nervosi, calcati, frammentati, deformanti il reale in masse e volumi,
luci e ombre, movimento e forza. Veri protagonisti restano i colori, in una vivida alchimia di tonalità: l'azzurro intenso
steso a pennellate larghe per i cieli, terra di Siena e ocre per il suolo, verde per gli arbusti.
Intense, vivide di colori, le belve di Antonio Ligabue ruggiscono ancora la rabbia e la ribellione del suo genio artistico.
Ruggito calato nel suo mondo offeso, di animale ferito, che sfugge agli umani, si difende isolandosi e dipingendo la sua
anima di tigre, leone, lupo in lotta per la vita.
LA RABBIA CHE DIVENTA VIOLENZA
Il Cristo deriso, Matthias Grünewald, 1505 circa, Alte Pinakothek, Monaco.
Mathis Gothart Nithart, meglio noto come Matthias Grünewald (Würzburg, ca. 1480 - Halle sul Saale, 31
agosto 1528), è uno dei più importanti e originali pittori tedeschi.
Il dipinto si caratterizza per l'impostazione asimmetrica della scena, che si discosta dalle tradizionali
composizioni, in cui Cristo è posto al centro della scena.
Il Cristo seduto, spossato, nell'angolo sinistro, rende la sensazione del tremendo dolore patito: la testa,
coperta da un panno e reclinata sul petto, esprime tutta la prostrazione e la disperazione di quel momento
della Passione. La cruda violenza dei gesti viene enfatizzata delle illustrazioni grottesche del volto dei
flagellatori, dalla distorsione del braccio destro dell'aguzzino alle spalle del Cristo e dall'«impossibile» gamba sinistra,
rappresentata di profilo, dello sgherro in primo piano: questi, il vero centro del dipinto, curvo nello sforzo di tirare la
corda con un braccio e di sferrare la frustata con l'altro, accentua la dinamica della rotazione della scena in un autentico
moto turbinoso. La derisione delle guardie viene accompagnata dai rulli di tamburo e dal suono del flauto di un
musicante, che si trova a sinistra, dietro Cristo, rafforzando così il senso del dolore per l'oltraggio.
Ma c'è più che la semplice rappresentazione dell'episodio evangelico, come dimostra l'uomo, in fondo al centro, che
pieno di compassione e bontà parla con calma e in modo conciliante con una delle guardie che invece rimane
indifferente. Quest'uomo pietoso, che la Scrittura non menziona, e che per la prima volta appare in una raffigurazione
della Passione, serve da esempio allo spettatore e da esortazione a imitarlo. Così il quadro diventa un'immagine di
devozione e, tramite la contemplazione, invita a partecipare alla sofferenza di Cristo.
Salita al Calvario, Hieronymus Bosch o imitatore, 1510-1516 circa, forse 1535, Museum
voor Schone Kunsten, Gand.
La Salita al Calvario (o Cristo portacroce) è un dipinto attribuito a Hieronymus Bosch (nome d'arte di
Jeroen Anthoniszoon van Aken, 's Hertogenbosch, 1453 - 1516).
Su uno sfondo scuro neutro sono rappresentate numerose teste (se ne contano diciotto, più quella
sul velo della Veronica), che si accalcano attorno al Cristo dagli occhi chiusi e abbassati, che sta
portando la croce con uno sguardo di malinconica rassegnazione.
In questa tavola, Bosch utilizza la deformazione per presentare la malvagità della scena. La sua composizione
«sovrasta la crudeltà, l'ira e l'odio degli uomini» (Carrassat), come si vede nei gesti e nelle mimiche facciali. L'intera
composizione è popolata da personaggi negativi, per lo più col volto scuro, come a simboleggiare i loro cattivi
sentimenti, deformati da un'intera gamma di smorfie e distorsioni caricaturali che cercano di rappresentare tutte le
malvagità e le bassezze dell'uomo.
La Salita al Calvario di Gand mette in scena la bestialità e la ferocia della folla di fronte all'umanità di Gesù Cristo. La
tavola, popolata da volti grotteschi, è costruita su due diagonali che, sviluppandosi lungo la croce e l'asse delle figure, si
incontrano in quello rassegnato di Cristo, che contrasta fortemente con i lineamenti caricati degli sgherri circostanti.
Ai quattro angoli si trovano figure significative della via Crucis. In basso a destra si vede il cattivo ladrone, che ringhia
agitato contro tre volti animaleschi che lo dileggiano. In quello in altro a destra si vede invece il buon ladrone, quasi un
moribondo, che viene confessato da un frate spaventoso. La presenza dei due ladroni, tipica anche di altre opere di
Bosch, è da mettere in relazione con l'esempio offerto al fedele, di possibile redenzione o di adesione totale al male.
Nell'angolo in basso a sinistra si vede la Veronica con la sindone, che volge la testa all'indietro e ha gli occhi socchiusi. In
alto a sinistra si distingue infine Simone di Cirene, col volto quasi rovesciato verso l'alto, il cui gesto di tenere la croce
pare più un ostacolo che un aiuto a Gesù. È curioso notare come i tre personaggi positivi: Gesù, la Veronica e il Buon
Ladrone, abbiano tutti gli occhi chiusi o semichiusi, come per estraniarsi dalla scena.
Studio di teste per la “Battaglia di Anghiari”, Leonardo da Vinci, 15045, Museo di Belle
Arti, Budapest.
La battaglia di Anghiari (copia dall'affresco di Leonardo), Peter Paul Rubens, 1603, Museo
del Louvre, Parigi
La battaglia di Anghiari fu un episodio degli scontri tra esercito fiorentino e milanese
del 1440; nel complesso la decorazione doveva celebrare il concetto di libertas
repubblicana, attraverso le vittorie contro nemici e tiranni. La Battaglia di Anghiari
doveva diventare una pittura murale di Leonardo da Vinci, situata nel Salone dei Cinquecento
di Palazzo Vecchio a Firenze. A causa dell'inadeguatezza della tecnica il dipinto venne lasciato
incompiuto e mutilo. In realtà, nonostante i disastri, l'opera era stata in gran parte completata, infatti
Leonardo ci aveva lavorato per ben un anno con sei assistenti. Per quanto danneggiata, quindi, questa
Battaglia di Anghiari rimase esposta a Palazzo Vecchio per diversi anni. Tra le migliori copie tratte dal
lavoro di Leonardo c'è quella di Rubens, che interpretò la parte centrale da una copia o forse dal cartone (sicuramente
non dai resti del dipinto, essendo nato nel 1577), offrendoci un'idea abbastanza chiara di cosa fosse l'affresco di
Leonardo.
A differenza delle precedenti rappresentazioni di battaglie, Leonardo compose i personaggi come un turbine vorticoso,
che ricordava le rappresentazioni delle nubi in tempesta. Cavalieri e cavalli animati in una zuffa serrata, contorti in
torsioni ed eccitati da espressioni forti e drammatiche, tese a rappresentare lo sconvoglimento della "pazzia
bestialissima" della guerra, come la chiamava l'artista. I personaggi della scena lottano instancabilmente per ottenere il
gonfalone, simbolo della città di Firenze. Quattro cavalieri si stanno contendendo la massiccia asta: quello in primo
piano la prende di schiena, torcendosi animatamente; quelli centrali si scontrano direttamente sguainando le spade,
mentre i loro cavalli sbattono il muso l'uno con l'altro; un ultimo si scorge appena in secondo piano, col cavallo che
spalanca il morso come a strappare l'estremità dell'asta. Vasari notava ammirato la rabbia, la
furia, e la sete di vendetta che si percepiscono tanto negli uomini quanto nei cavalli, tra i quali
spiccano due con le zampe anteriori intrecciate, che combattono coi denti non meno fieramente
dei loro cavalieri che si disputano lo stendardo.
La scena riflette il pensiero dell'artista fondato su una visione pessimistica dell'uomo, che deve
lottare per vincere le proprie paure. Shearman parla di "un livello mai sognato di energia e
violenza" per la pittura storica.
La Guerra, Henri Rousseau, detto il Doganiere, 1893, Museo d'Orsay, Parigi.
A oltre venti anni di distanza dal conflitto franco-prussiano del 1870 e dalla Comune del 1871,
Henri Rousseau, detto il Doganiere, ancora scosso da questi avvenimenti, dipinge La Guerra.
Henri Rousseau era un pacifista: per questa tela aveva scritto un commento: ”La guerra passa
spaventosa, lasciando dappertutto la disperazione, i pianti e la rovina”.
L'opera era la più ambiziosa tra quelle eseguite fino ad allora. Per far fronte ad un così ampio
spazio, egli utilizzò la tecnica della stesura a piatto.
Nel dipinto la personificazione della guerra, un personaggio femminile col viso contratto in una smorfia, tiene in mano
una spada e una fiaccola e domina l'umanità dall'alto del suo cavallo mostruoso, diffondendo la morte col ferro e col
fuoco. La composizione presenta un ritmo monumentale. La figura della morte è sviluppata per diagonali, riprese nei
corpi umani e negli alberi, il suo atteggiamento s'ispira ad uno stereotipo della statuaria classica. Il cavallo al galoppo
ripropone una posa irreale.
Sul campo di battaglia, cupo di colore, vi sono feriti e cadaveri, già preda di corvi voraci. Anche la natura è coinvolta
nella strage. La terra è arida, gli alberi hanno i rami spezzati, le foglie annerite. Senza ricorrere ad elementi narrativi
l'artista ha perfettamente rappresentato la drammaticità dell'evento, soprattutto grazie alla scelta dei colori: il verde,
simbolo della speranza, è del tutto assente; predominano, invece, il nero e il rosso, colori del lutto e del sangue.
Rissa in galleria, Umberto Boccioni, 1910, Museo del Novecento, Milano.
È un'opera di spirito profondamente futurista, pur precedendo il vero futurismo pittorico di qualche anno.
Le figure risultano ben delineate e riconoscibili, tuttavia esse sono disposte in modo tale da conferire
dinamicità alla tela.
Il soggetto/pretesto è una rissa tra due donne davanti a un caffè della Galleria Vittorio Emanuele II, nel
centro di Milano. È sera e, sotto la luce dei nuovi lampioni elettrici, una disordinata folla si assiepa intorno
alla piccola scena. La scelta dell'ambientazione in Galleria è caratteristica, così come quella del caffè
rappresentato, l'antico "Caffè Campari": un pezzo della storia ambrosiana, che lo stesso Boccioni e altri
artisti e letterati di quegli anni frequentavano quotidianamente.
A un livello più profondo il vero soggetto appare però più vasto: è la città, nella sua interezza, che esplode e implode di
modernità e movimento. Protagonisti infatti sono la luce (dalle lampade ad arco di coronamento e dall'interno del caffè)
e il dinamismo (quello dei personaggi antistanti, con il netto passaggio dalla rappresentazione del singolo a quella della
folla come entità viva e dotata di un'anima propria). Boccioni riesce a trasmetterci la concitazione dell'evento, con
un'ideale fusione tra la folla sovraeccitata e la vibrazione della città tutt'intorno.
"Rissa in galleria" è un'acuta testimonianza storica di quello che doveva essere il fervore di Milano alle soglie della
Guerra, riassumendo in sé i contrasti di una metropoli in profondo cambiamento.
CAINO E ABELE
Nella Bibbia, Caino viene ritratto come un peccatore e come il primo traditore della storia, poiché
assassinò suo fratello, Abele.
Gen 4, 4-5 “Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta”.
Nella mentalità del Vicino Oriente Antico, il sacrificio era un'offerta al Signore per la riuscita del proprio
lavoro, perché Egli benedicesse la vita umana. Dire che Dio gradì un'offerta e non un'altra, equivale a dire
che il lavoro di Abele fu prospero ed il lavoro di Caino non ebbe il guadagno sperato. Ecco allora il grande
dramma di Caino e Abele: uno sta bene e l'altro va in rovina; ecco che la possibilità di invidiare l'altro e di fargli il
male è in agguato. Il nostro insuccesso può destare in noi l'insofferenza verso chi è nel bene, nella pace, nella gioia. La
presenza radiosa del fratello è insopportabile per Caino: solo la scomparsa della gioia di Abele, smetterà di
ossessionarlo nella constatazione della propria difficoltà. In altri termini, l'incapacità di Caino di condividere il suo
dolore, la sua invidia, lo ha portato a uccidere il fratello. Non potendo trovare le parole per esprimere la sua rabbia, ha
dovuto rivolgersi alla forza fisica...
Tiziano, Caino uccide Abele, 1542, Chiesa di S. Maria della Salute, Venezia.
Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1480/1485 Venezia, 1576) è stato un pittore italiano della Repubblica
di Venezia. Artista innovatore e poliedrico, Tiziano Vecellio fu uno dei pochi pittori italiani titolari di una
vera e propria azienda. Il rinnovamento della pittura di cui fu autore, si basò, in alternativa al
michelangiolesco «primato del disegno», sull'uso personalissimo del colore.
Caino uccide Abele, Jacopo Robusti detto il Tintoretto, 1550 - 1553, Accademia di
Venezia.
Il gioco dinamico delle figure, in una complicata contrapposizione di direttrici delle membra
muscolose in tensione, si trasforma in una felice antitesi di luce e di ombra nelle contrapposizioni
di masse d'alberi scosse come da un fremito angoscioso.
LA RABBIA DEL “GIUSTO”
Cacciata dei mercanti dal tempio, Giotto di Bondone, 1303-1305, Cappella degli
Scrovegni, Padova.
Ogni volta che Gesù si reca a Gerusalemme nel tempio, è sempre una situazione di grande
conflitto: vengono in contrasto due immagini di Dio completamente differenti.
Gesù va nel tempio e non trova gente che prega, gente in adorazione, ma trova un grande traffico,
trova gente che vende buoi, pecore, colombe e i cambiamonete. Allora, scrive l'evangelista, Gesù fa
una frusta di cordicelle. Gesù se la prende particolarmente con i venditori di colombe, poiché la
colomba era l'unico animale che i poveri potevano permettersi di comprare per sacrificare a Dio. Gesù non tollera che
l'amore di Dio sia venduto: l'amore, quando viene venduto e quando viene comprato, si chiama prostituzione.
Gesù, accompagnato dai suoi apostoli, caccia i profanatori dal tempio (eloquente è il gesto minaccioso del Cristo
infuriato che alza il pugno), impugnando delle corde come flagelli. Questa è una immagine tradizionale con la quale si
identificava il messia (il messia alla sua venuta era raffigurato con una frusta in mano con la quale avrebbe dovuto
fustigare i peccatori). Ebbene, polemicamente l'evangelista ci fa vedere che Gesù con questa frusta non si mette a
cacciare i peccatori, quelli che sono esclusi dal tempio, quelli che non ci possono entrare, ma quelli che sono la stessa
anima del tempio (sulla destra i sommi sacerdoti Caifa e Anna commentano la scena).
La Libertà che guida il popolo, Eugène Delacroix, 1830, Museo del Louvre, Parigi.
Quest'opera fu realizzata nel 1830 per ricordare la lotta dei parigini contro la politica reazionaria di
Carlo X di Francia. Nel dipinto è rappresentata la lotta per la libertà di varie classi sociali, incitate da
una figura femminile che incarna la Libertà. Ella indossa il berretto frigio, simbolo di libertà, stringe
nella destra la bandiera repubblicana francese e nella sinistra un fucile. Questa donna ricorda la
Venere di Milo, scoperta nel 1820, ed è un omaggio a questo ritrovamento.
Benché la rivolta del 1830 sia stata una rivoluzione prettamente borghese, l'autore inserisce nel
dipinto tutte le classi sociali: il borghese (probabile autoritratto di Delacroix), il proletario, il soldato, il bambino (cui
probabilmente si ispirò lo scrittore Victor Hugo per il personaggio di Gavroche nel suo romanzo I Miserabili). Sullo
sfondo si intravedono le torri della Cattedrale di Notre Dame, che stanno a suggerire una collocazione ben predefinita, e
i soldati nemici in rotta. I colori scuri sono resi più vivaci da quelli brillanti della bandiera della Francia repubblicana.
Quest'opera risulta essere non soltanto la prima composizione politica di Delacroix ma della pittura moderna: l'arte
romantica cambia rotta lasciando le antiche tematiche per partecipare ai grandi avvenimenti della vita contemporanea.
Delacroix, grazie a La libertà che guida il popolo, è riconosciuto come il leader della scuola romantica francese. Egli
respinse l'ideale classico e i canoni dell'arte accademica del suo tempo. Realizzato da bozzetti disegnati dall'autore fin
dal settembre 1830, il lavoro è non è più una "pittura di storia". L'artista riflette il fervore romantico degli eventi
rivoluzionari di cui è contemporaneo.
Il personaggio della Libertà è sia un'idea che una persona reale; riunisce i popolani e la borghesia in un unico moto
rivoluzionario. Riducendo volontariamente la sua tavolozza cromatica ai soli tre colori della bandiera nazionale,
Delacroix produce un effetto di identificazione: il pubblico si sente chiamato, si sente parte del popolo, incarna il
rivoluzionario ideale e la lotta per la libertà.
Guernica, Pablo Picasso, 1937, Museo Nacional Reina Sofia, Madrid.
« Ha fatto lei questo orrore?»
«No, è opera vostra »
(Risposta di Picasso ad un ufficiale tedesco alla visione di Guernica)
Il dipinto fu realizzato dopo il bombardamento aereo della città di Guernica, durante la guerra civile
spagnola, da parte della Legione Condor della Luftwaffe tedesca, il 26 aprile 1937. L'artista prese
spunto in modo particolare da un articolo in cui il giornalista descrisse la brutalità dell'evento
evidenziando anche attraverso una fotografia che la città era stata completamente rasa al suolo. Il quadro era
destinato a diventare un simbolo della resistenza al nazismo.
L'artista spagnolo esprime in Guernica la sua opposizione ai regimi totalitari che si diffusero in Europa nel corso del XX
secolo. Nell'opera però non ci sono elementi che richiamino al luogo e al tempo; niente ci indica che si tratti di un
bombardamento, ad eccezione di quello che a destra può sembrare un palazzo in fiamme. È piuttosto una protesta
contro la violenza, la distruzione, la guerra in generale. Il toro che appare nella parte sinistra del quadro viene
interpretato come Minotauro, figura mitica e simbolo di bestialità. La lampada ad olio in mano ad una donna che scende
le scale, al centro dell'opera, rappresenta la ragione che non comprende la distruzione. La colomba a sinistra, simbolo
della pace, ha un moto di strazio prima di cadere a terra, mentre il cavallo agonizzante simboleggia il popolo spagnolo
degenerato. La violenza e la sofferenza traspaiono esplicitamente guardando sulla sinistra dell'opera la madre che grida
al cielo, disperata, con il figlio senza vita tra le braccia. Da contraltare ad essa, l'altra figura, apparentemente
femminile, a destra, che alza disperata le braccia al cielo. In basso nel dipinto c'è un cadavere con una stigmate sulla
mano sinistra, come simbolo di innocenza verso la crudeltà nazi-fascista, mentre nella mano destra stringe una spada
spezzata da cui sorge un pallido fiore quasi a dare speranza per un futuro migliore.
L'alto senso drammatico nasce dalle deformazioni dei corpi, dalle linee che si tagliano vicendevolmente, dalle lingue
aguzze che fanno pensare a urli disperati e laceranti, dall'alternarsi di campi bianchi, grigi, neri, che accentuano la
dinamica delle forme contorte e sottolineano l'assenza di vita a Guernica. Le enormi dimensioni furono scelte perché
questo quadro doveva rappresentare un manifesto contro la crudeltà e l'ingiustizia delle guerre.
3 maggio 1808, Francisco Goya, 1814, Museo del Prado, Madrid.
Il 3 maggio 1808 è uno dei quadri storici più drammatici che siano mai stati realizzati.
Goya rappresenta la ribellione delle passioni popolari; la sua espressione va al di là della
rappresentazione dell'evento, assumendo una dimensione umana universale, un simbolo della
rivolta dei popoli contro le oppressioni di altri popoli. Il sentimento che emana l'opera è l'amore per
la libertà e la patria; un sentimento che diviene storicamente una rivolta contro la crudeltà delle
esecuzioni in massa del popolo ad opera dei soldati francesi.
La drammaticità dell'evento è fissata dal contrasto tra le vittime e i carnefici nell'atto di premere il grilletto dei fucili. I
soldati francesi di Goya stanno fucilando un gruppo di civili indifesi arrestati a Madrid dopo la rivolta contro l'esercito di
occupazione. L'accento è posto sulle vittime, e su di esse viene attirata la simpatia dello spettatore, specialmente
sull'uomo in camicia bianca che si contrappone a braccia tese all'anonimo plotone di esecuzione. Quest' uomo è in una
posizione che ricorda il crocifisso e inoltre, osservando le sue mani, si possono osservare le stigmate. Tutto ciò vuole far
capire che quell' uomo con la veste bianca si sacrifica per il popolo, così come Gesù muore in croce per salvare gli
uomini. La sola fonte di luce è la gigantesca lanterna ai piedi dei soldati, forse un simbolo della logica rigorosa
dell'illuminismo nella quale gli intellettuali spagnoli, Goya compreso, avevano posto le proprie speranze di salvezza.
Goya esalta la scena rendendo il terrore con ditate di colore e volti di uomini appena abbozzati. Egli capovolge in questo
dipinto la tradizione occidentale dell'eroismo, facendo emergere una nuova visione della storia in cui le strutture ideali,
morali e politiche dell'Occidente sono destrutturate a favore del conflitto anonimo tra uomini.
Il dipinto trova il suo profondo significato come martirio laico. Tutto sembra essere fallito, l'illuminismo come la Chiesa,
rappresentata dai campanili sullo sfondo e dal monaco tonsurato che figura tra i condannati. A dar significato a un
mondo caotico restano soltanto l'artista e la sua visione, e quella di Goya era già troppo amareggiata e violenta per
concedere sollievo o distrazione dall'orrore del soggetto con la delicatezza delle pennellate o l'armonia dei colori.
La Vergine che sculaccia il Bambino Gesù davanti a tre testimoni: Andrè Breton, Paul Eluard e
l'Artista, Max Ernst, 1926, Museum Ludwig, Colonia.
La correzione corporale è oggi avvertita come un atto di violenzao; sappiamo però che è una sensibilità
maturata solo da pochi anni e in aree circoscritte del globo terrestre.
Se Maria e Gesù furono immuni dal peccato, com'è possibile che il bambino abbia commesso un errore
meritevole di tanta punizione, che la madre si sia arrabbiata al punto tale di colpire il frutto benedetto del
suo seno? Assimilare una disubbidienza infantile a un peccato è un'esagerazione: le correzioni materne
potrebbero essere momenti inevitabili, anzi salutari, di crescita, per il fanciullo come per la genitrice. Se crediamo nella
serietà dell'Incarnazione - il Figlio di Dio non ha fatto finta di farsi uomo, - perché escludere “banali” quadretti di vita
come questo? è forse blasfemo rappresentare un rimprovero materno, per quanto severo?
Per questo dipinto Max Ernst ricevette la scomunica dalla Chiesa cattolica, ma il soggetto non sembra finalizzato ad
offendere, bensì a scuotere candidamente la società nel suo complesso. Il pittore tedesco in effetti, non pensava certo a
fare teologia, né ad esaltare l'umanità della Santa Famiglia, quando dipinse quest'opera. Max Ernst aderiva al
Surrealismo, un movimento culturale dissacrante in molte sue espressioni, che volentieri esplorava l'inconscio, di cui
Freud aveva cominciato a scoprire i segreti. Non per niente questo quadro è stato letto anche in chiave psicanalitica.
Sicuramente non è casuale che l'artista, abbia apposto la sua firma all'interno dell'aureola caduta. Quasi a dire: quello
non è Gesù, sono io.
Ci sono casi in cui una sculacciata vale mezzo Vangelo.
ALTRE OPERE
Convergence, Jackson Pollock,1952, Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, USA.
Paul Jackson Pollock (Cody, 1912 Long Island, 1956) è stato un pittore
statunitense, considerato uno dei maggiori rappresentanti dell'Espressionismo
astratto o Action painting.
Pollock era stato introdotto all'uso del colore puro nel 1936, durante un seminario
sperimentale tenuto a New York dall'artista messicano specializzato in murales David
Alfaro Siqueiros.
Iniziò a dipingere stendendo le tele sul pavimento del suo studio e sviluppando quella che venne
in seguito definita la tecnica del dripping (in italiano sgocciolatura). Per applicare il colore si serviva di pennelli induriti,
bastoncini o anche siringhe da cucina: il colore viene fatto sgocciolare spontaneamente, lanciato o macchiato sulle tele.
Pollock generalmente aveva un'idea precisa dell'aspetto che una particolare opera avrebbe dovuto avere e per
ottenerlo si serviva del viscoso scorrere del colore, della forza di gravità e del modo in cui la tela assorbiva il colore. Si
trattava dell'unione del controllabile e dell'incontrollabile. Si muoveva energicamente attorno alle tele spruzzando,
spatolando, facendo colare e sgocciolare quasi in una danza e non si fermava finché non vedeva ciò che voleva in origine
vedere.
Pollock dipinge in modo impulsivo e istintivo: «Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in
questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente "dentro" al dipinto.
Questo modo di procedere è simile a quello dei "Sand painters" Indiani dell'ovest. » (Jackson Pollock). Questa forma
d'arte era praticata da stregoni nativi americani, che erano usi a versare sabbie colorate su di una superficie piatta che
potevano avvicinare da ogni lato, in uno stato di estrema concentrazione, simile a quello di trance.
L'estrema espressione dell'istinto, del gesto.