atalogo 34° Premio Sergio Amidei 2015

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atalogo 34° Premio Sergio Amidei 2015
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Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica “Sergio Amidei” – XXXIV edizione
Comune di Gorizia - Assessorato alla Cultura
Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei”
Dams Gorizia - Università degli Studi di Udine
Presidente dell’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei”:
avv. sen. Nereo Battello
Giuria del Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura: Ettore Scola,
Marco Risi, Francesco Bruni, Silvia D’Amico, Giovanna Ralli, Massimo
Gaudioso, Doriana Leondeff
Direzione generale: Giuseppe Longo
Direzione artistica: Mariapia Comand
Segreteria di direzione: Martina Pizzamiglio
Coordinamento generale: Sara Martin
Coordinatore del programma e ricerca film: Simone Venturini, Martina
Pizzamiglio
Responsabile ospitalità e logistica: Marco Treu
Responsabili pubblicazioni: Mattia Filigoi, Margherita Merlo, Filippo Zoratti
Ufficio Stampa: ATEMPORARYSTUDIO di Samantha Punis e Giovanna
Felluga
Webmanager & Webdesigner: Tmedia Srl
Fotografo ufficiale: Andrea Tomasin, in collaborazione con Andrea Barbiero
Responsabile accrediti e Infopoint: Ylenia Gasparotto
Operatori tecnici: Ivo Mauri, Jacopo Renner, Sandro Zanirato
Progetto grafico: Remigio Gabellini
Impaginazione catalogo e programmi: Auro Accurso
Presentano: Karolina Cernic, Martina Pizzamiglio
Traduzione e trascrizione sottotitoli: Intertitula
Mostra Opere 2004-2015 di Maurizio Fava organizzata da: studiofaganel
Media Team: Greta Badolato, Nicola Bertone, Giada Bigot, Fiorella Cau
Mandolino, Laura Clinaz, Juan D’Auria, Sara De Leo, Giacomo Ferraro,
Angela Fulizio, Cindy Marcolina, Veronica Michelin, Andrea Penzo, Andrea
Rosasco, Laura Sacottelli, Valentina Vuk, Leonardo Zuppel
Staff Amidei: Samanta Agrate, Erika Milagros Antonini, Giorgia Bravin,
Federico Colmari, Agnese Costanzo, Jeena Cucciniello, Costanza De
Angelis, Karyna Karapetsian, Khadim Moroso, Giorgia Pastore, Andrea
Penzo, Nizam Pompeo, Eleonora Zaninello
Collaboratori: Maria Francesca Arcidiacono, Chiara Canesin, Enrico
Cavallero, Silvio Celli, Francesco Donolato, Gabriella Gabrielli, Iris MartínPeralta, Mario Milosa, Pierluigi Pintar, Igor Princic, Ignazio Romeo, Mirco
Santi
Si ringrazia per la preziosa collaborazione: Sabrina Baracetti, Giulia
Bernardi, Thomas Bertacche, Luigi Casalboni, Roberto Cevenini, Germana
De Bernardo, Cristiano Degano, Lorenzo Devetak, Adriano Durì, Elda
Felluga, Marco Fortunato, Livio Jacob, Alessandra e Mauro Mauri, Roy
Menarini, Chiara Omero, Adriano Ossola, Monica Paoletich, Boris Peric,
Robert Princic, Leonardo Quaresima, Manuela Salvadei, Matija Spinazzola,
Anna Tardivo, Daniele Terzoli, Antonella Velussi
Si ringrazia anche: Fondazione Palazzo Coronini Cronberg onlus Gorizia,
CEC – Centro Espressioni Cinematografiche, Cinemazero, La Cappella
Underground, La Cineteca del Friuli, Consorzio Turistico Gorizia e Isontino,
IAT – Ufficio del Turismo Friuli Venezia Giulia, Kinoatelje
“Addotta un accreditato”: Associazione Culturale èStoria, Biolab,
Farmacia “Al Corso” di Pierpaolo Marzini, Pizzeria Minimax, IOT Viaggi,
Caffè Garibaldi, Torrefazione Goriziana, Ricci Immobiliare
Partner Amidei
Agenzia Spada Viaggi
studiofaganel
ASSID – Associazione degli Studenti di Scienze Internazionali
Terra&Vini srl
Associazione Culturale Crisalide
Tmedia srl
Associazione Culturale èStoria
Transmedia Spa
Associazione di Promozione Sociale “Progetto Mediacritica”
Trieste Science + Fiction – Festival della Fantascienza
Azienda Agricola BorgosanDaniele
Azienda Agricola Livio Felluga
Media Partner
Azienda Agricola Primosic
MYmovies
Biolab
Confcommercio Gorizia
Consorzio Tutela Vini Collio
Festival del Cine Espanol
Fiat Aguzzoni Gorizia
KB 1909 Financna delniška družba – Società Finanziaria per Azioni
L’image Padova
Ludoteca comunale di Gorizia – Assessorato al Welfare
Mediateca.GO – Mediateca Provinciale di Gorizia “Ugo Casiraghi”
Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia
Qubik Caffè
Serimania
Mediacritica.it
Affaritaliani.it
Le retrospettive sono state realizzate in collaborazione con:
La Farfalla sul mirino, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca
Nazionale, Museo Nazionale del Cinema di Torino, Cineteca di Bologna,
Rai Cinema, Cineteca Lucana, 102 Distribution, Pinball London, SixSales,
Arabian Horses Productions, Tamasa Distribution, Lux, Jane Balfour
Services, MoMA, Sky TV, Circolo del Cinema “Immagini”, Kimuak –
Euskadiko Filmategia – Filmoteca Vasca, JamesonNotodofilmfest
Si ringraziano:
Carmen Accaputo, Laura Argento, Olivia Averso Pellis, Jane Balfour, Ilenia
Benetti, Massimo Benvegnù, Alan Berliner, Fatima Bianchi, Penelope
Bortoluzzi, Josip Brezovec, Dolores Calabrò, Andrea Catellani, Alessandro
Cattunar, Tommaso Cerqueglini, Leandro Chichizola, Maria Giovanna
Cicciari, Kitty Cleary, Juan F. Del Valle Goríbar, Agustina Figueras, José
Luis Garcia, Maria Luisa Giordano, Samuel La France, Nicola Lancellotti,
Alice Lea, Andrea Mariani, Txema Muñoz, Amélie Rayroles, Gladys Reyes,
Massimiliano Rossi, Andreina Sarale, Gianandrea Sasso, Santo Vizzini,
Julia Yago
Catalogo a cura di Mattia Filigoi, Margherita Merlo e Filippo Zoratti
Testi:
Nereo Battello, Diego Cavallotti, Silvio Celli, Mariapia Comand, Erasmo De Meo, Primo Lazzaro, Sara Martin, Ettore Romoli, Mirco Santi
e
Maria Cristina Andrian, Gabriele Baldaccini, Martina Bigotto, Nicole Braida, Leonardo Cabrini, Lisa Cecconi, Chiara Checcaglini,
Eleonora Degrassi, Martina Farci, Michele Galardini, Luca Giagnorio, Francesco Grieco, Stefano Lalla, Marco Longo,
Margherita Merlo, Andrea Moschioni Fioretti, Teresa Nannucci, Massimo Padoin, Vincenzo Palermo, Nicola Peirano, Edoardo Peretti,
Marcello Polizzi, Juri Saitta, Alex Tribelli, Filippo Zoratti
Mimesis Edizioni (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
[email protected]
Isbn: 9788857531090
© 2015 – Mim Edizioni SRL
Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
Fax: +39 02 89403935
PREMIO SERGIO AMIDEI
34ª edizione
PREMIO internazionale ALLA MIGLIORE SCENEGGIATURA
Organizzato da
Comune di Gorizia – Assessorato alla Cultura
Associazione di Cultura Cinematografica
“Sergio Amidei”
DAMS Gorizia – Università degli Studi di Udine
Con il contributo di
Con il patrocinio di
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Agis Tre Venezie
Associazione 100 Autori
Confcommercio Gorizia
Provincia di Gorizia – Assessorato alla Cultura
L’
edizione di quest’anno del “Premio Amidei” ha luogo a pochi giorni da una dolorosa perdita per la cultura
cinematografica italiana ed europea: la scomparsa di Callisto Cosulich, decano della critica cinematografica italiana,
autorevole membro di giurie nonché selezionatore di festival cinematografici italiani ed europei, nel corso della sua
lunga attività.
Nelle edizioni passate lo abbiamo onorato con la presentazione, curata da Roy Menarini, della prima antologia di sue recensioni
e contributi critici (Il cinema secondo Cosulich) e, successivamente, con la proiezione di un documentario sulla sua “educazione
sentimentale” al cinema (Una lunga vacanza di Claudio Costa). A lui, dunque, dedichiamo l’edizione di quest’anno 2015.
La quale edizione, pur nelle difficoltà di bilancio imposte dalle contingenze alle iniziative culturali (tutte, in misura maggiore o
minore) a partire dalla riduzione delle giornate di proiezione (da dieci a sette) continua nell’impostazione ormai consolidata:
Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura con sette film in concorso scelti dalla giuria presieduta da Ettore Scola e
costituita dal regista Marco Risi, dagli sceneggiatori Francesco Bruni, Massimo Gaudioso e Doriana Leondeff, dall’attrice
Giovanna Ralli e dalla produttrice Silvia D’Amico; Premio all’Opera d’Autore (quest’anno attribuito al regista spagnolo
Álex de la Iglesia, il quale ben si inserisce nella teoria dei prestigiosi autori già premiati negli anni passati, da Ken Loach ad
Abbas Kiarostami, da Paul Schrader a Patrice Leconte, dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani a Edgar Reitz e tanti altri) con
una completa rassegna di tutti i suoi film e lavori televisivi. Verrà presentata la prima monografia italiana a lui dedicata,
Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, curata da Sara Martin, edita da Mimesis. Seguirà una tavola rotonda
(Passione, cinefilia e ironia) con de la Iglesia ed Enrico Magrelli.
Infine, a completare i tre momenti costitutivi della struttura, c’è il Premio alla Cultura Cinematografica: il riconoscimento
andrà quest’anno a Irene Bignardi, critica cinematografica (si ricorda il suo volume: Il declino dell’impero americano) ma
anche studiosa di letteratura in generale (si ricorda, tra i numerosi altri, il suo libro Brevi Incontri), da sempre impegnata
nella divulgazione e diffusione della conoscenza del cinema. In suo onore verranno riproposti due straordinari gioielli
cinematografici: Barton Fink - È successo a Holllywood dei fratelli Coen e Clerks - Commessi di Kevin Smith. Ci sarà una
tavola rotonda (A favore del cinema: la critica, l’organizzazione e la proiezione della settima arte) con la partecipazione della
stessa Irene Bignardi, di Federico Poilucci (Presidente FVG Film Commission) e Paolo Vidali (Direttore del Fondo per
l’Audiovisivo del FVG).
Attorno a questa triplice struttura si collocano le ormai tradizionali sezioni: Spazio Off, proposta di opere realizzate da
filmmakers indipendenti italiani, giovani talenti che hanno trovato nel low budget terreno fertile per innovare, sperimentare e
raccontare. Ci sarà una tavola rotonda con Fatima Bianchi, Maria Giovanna Cicciari e Penelope Bortoluzzi.
Ma anche: una piccola antologia dell’humour nero (da Ciprì a Ettore Scola, passando per Monicelli, Comencini e Ferreri) e
una tavola rotonda con Daniele Ciprì e Pippo Mezzapesa.
E ancora: una sezione dedicata a vissuti personali capaci di trasformarsi in storia e memoria pubblica, un saggio poetico
dell’opera del filmmaker newyorchese Alan Berliner e, per converso, l’utilizzo di una raccolta privata goriziana (Fondo Pellis)
costituito dai lavori di Olivia Averso Pellis, documentari dedicati a feste della sua terra d’adozione (è invero nata a Tunisi nel
1925 e la sua formazione culturale è francese e magrebina insieme).
Infine, ma non meno importante (anzi), la sezione dedicata alla “scrittura seriale”, ormai parte importante dell’universo
audiovisivo, non più meramente sperimentale, che costituisce una delle manifestazioni del “cinema dopo il cinema” (ovvero:
oltre la fine del cinema classico e cioè quello del buio in sala, su cui anche il recentissimo libro di Francesco Casetti La galassia
Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene), in cui vedremo la serie Gomorra di Stefano Sollima. Ne parlerà anche il
prof. Quaresima presentando il suo recente libro (L’avventuriera di Montecarlo) dedicato alle recensioni cinematografiche
che negli anni Venti in Germania scrisse il romanziere Joseph Roth, il grande autore di La marcia di Radetzky e La cripta dei
Cappuccini.
Avv. Sen. Nereo Battello
Presidente dell’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei”
I
ncuriosito dalla creazione del nuovo sito dedicato al Premio “Sergio Amidei”, non ho potuto fare a meno di andare a visitarlo
appena divenuto attivo: non avrei mai immaginato di scoprire un programma così variegato e denso di appuntamenti!
Il sito è accattivante (molto interessante è il loop di tonalità che accompagna il visitatore lungo tutto il suo viaggio,
perfettamente in tema con il leitmotiv di quest’anno: per l’appunto I colori della scrittura), costruito con intelligenza, piacevole
e di facile lettura. Ma ciò che maggiormente mi ha colpito è proprio l’incredibile ricchezza degli eventi previsti per questa
34. edizione del Premio: film di ottima qualità in visione, sezioni tematiche in grado di esplorare i più originali percorsi
della cinematografia italiana e internazionale, Premi ambiti che affiancano lo storico e prestigioso Premio Internazionale alla
Migliore Sceneggiatura Cinematografica, testimonianze e incontri costruiti per coinvolgere pubblici di tutte le età e di tutti i
gusti, appuntamenti speciali per trasformare Gorizia in una vera e propria piccola “Cinecittà”.
Ecco perché, per almeno una settimana all’anno, Gorizia si immerge in un’atmosfera “magica”, quasi fuori dal tempo, fatta di
pellicole, di colonne sonore, di scenografie, di tecniche di ripresa all’avanguardia... tanto che tutti noi diveniamo, ognuno a
modo proprio, dei critici cinematografici.
È bello vedere Gorizia “colorata” da un’energia infaticabile, con studenti in continuo movimento per le strade e le piazze,
con appassionati o semplici curiosi intenti a non perdere nemmeno uno degli appuntamenti in programma e con ospiti
d’eccezione che si alternano tra il Palazzo del Cinema e lo splendido Parco di Villa Coronini-Cronberg (un connubio a
dir poco affascinante): e questo a evidente conferma di come il Premio Amidei sia divenuto ormai una parte integrante e
insostituibile della vita culturale di questa città.
Il Comune di Gorizia è profondamente legato a questa manifestazione, tanto da riservarle ogni anno un’attenzione speciale:
un impegno, questo, che condividiamo con l’Associazione di Cultura Cinematografica “Sergio Amidei” e che ci riempie di
orgoglio, in particolare quando, durante le rappresentazioni, il pubblico è costretto a sedersi sull’erba perché i posti sono tutti
esauriti, oppure quando sentiamo gli applausi scroscianti ed emozionati al termine di un film, oppure ancora quando gli ospiti
si compiacciono del calore e dell’entusiasmo con cui la città sa accoglierli.
Vi aspettiamo, dunque, numerosi e appassionati per rendere ancora più esclusiva questa 34. edizione del Premio!
Ettore Romoli
Sindaco di Gorizia
Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima.
Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde,
l’artista è la mano che con questo o quel tasto porta l’anima a vibrare.
Vasilij Kandinskij, Dello spirituale nell’arte
L
e parole che contano non si dimenticano. Quelle di Kandinskij mi sono ritornate in mente quando abbiamo iniziato a
progettare il Premio Amidei 2015, suggerendomi che i colori possono rappresentare una perfetta metafora per definire
e comprendere le diverse forme, le variopinte anime e le molteplici finalità della scrittura.
La critica, fin dalla notte dei tempi, ha fatto ricorso ai colori come chiave interpretativa della produzione di genere,
individuando – ad esempio nel giallo o nel noir – precise formule stilistiche e narrative in cui racchiudere motivi e modelli
codificati. Tuttavia il filo tematico dell’Amidei 2015 – che abbiamo intitolato appunto I colori della scrittura – non si ferma
a questo: perché le potenzialità allegoriche dei colori possono illuminare l’arte della scrittura attraverso altre interessanti
connessioni. La scala dei colori può esprimere la gamma delle emozioni e delle intenzioni che guidano la penna degli artisti: la
malinconia può trasformarsi grazie a mani esperte in racconti blues, oppure un’intenzione corrosiva può originare storie nere.
A tal proposito: alla celebre Antologia dello humour nero di André Breton del 1937 ci siamo ispirati per comporre la nostra
Piccola antologia dello humour nero, un percorso inedito nella storia del cinema italiano, comprensivo di opere d’autori molto
diversi (Scola, Monicelli, Comencini, Ferreri ecc.), tutti ugualmente alfieri di un’immaginazione che non ammette limiti,
tutti accomunati da un’irriverente volontà poetico-polemica. Vedremo quali sono le intenzioni che animano la produzione
delle filmmaker indipendenti italiane, protagoniste dello Spazio Off, che quest’anno si veste – guarda caso – di rosa.
Come i colori, le storie per il cinema possono essere calde o fredde, chiare oppure scure. Molti dei film in programma riescono
tuttavia a realizzare un sapiente equilibrio tra gli opposti; per esempio, dall’apparente algidità del bianco e nero dei lavori
di Alan Berliner si sprigiona un calore e una complessità narrativa davvero sorprendenti; abbiamo voluto proporle perché
potrebbero riallacciarsi idealmente al pensiero di Sergio Amidei, “ognuno ha una storia degna di essere raccontata”; in Berliner
quest’idea si incarna in una concezione originale e assai moderna della sceneggiatura come attività di ricerca d’archivio e come
composizione in sede di montaggio. Ragionare sulla scrittura significa, infatti, rileggere il passato e al tempo stesso riconoscere
il futuro, vale a dire le nuove possibilità, le nuove direzioni e funzioni che la sceneggiatura può assumere e assolvere: per
questo il Premio Amidei incomincia a occuparsi dal 2015 di scrittura seriale, visto il peso crescente della sceneggiatura in
quell’ambito produttivo e artistico. Iniziamo da Gomorra – La serie di Sergio Sollima perché, come ha scritto Aldo Grasso
sul Corriere della Sera, “più che una saga criminale, con quel certo andamento pletorico e in fondo prevedibile che appartiene
al genere, Gomorra potrebbe essere definita una serie metafisica dove i vivi e i morti sono come spinti da un turbine rapinoso,
sono fantasmi che ci perseguitano senza un attimo di sosta”. E aggiunge Grasso: “È bene ripeterlo: il primo dovere che una
serie deve porsi non è l’argomento trattato ma la scrittura, l’unica in grado di restituire la complessità del reale, di esplorare
temi centrali rispetto alla sensibilità condivisa, di costruire un ‘racconto mondo’ capace anche di rappresentare il Male”.
Parole da non dimenticare.
Il Premio all’Opera quest’anno viene assegnato ad Álex de la Iglesia con le seguenti motivazioni: “sperimentatore capace di
incursioni spregiudicate nei più diversi generi e linguaggi e nel contempo autore che persegue un preciso percorso intellettuale
e artistico; esploratore coinvolto nelle regioni dei sentimenti e osservatore attento del mondo contemporaneo; creatore di
visioni, invenzioni, provocazioni; autore di un mondo originalissimo, insieme colorato e nero: un universo ricco di omaggi
cinefili, riflessioni penetranti ed emozioni che non lasciano mai indifferenti”. Il cinema di de la Iglesia ci sembrava potesse
riassumere molti dei colori a cui la scrittura può anelare, molti dei colori che ritroveremo rifranti nelle singole sezioni. Tra
queste vanno ricordate anche il Premio alla Migliore Sceneggiatura e il Premio alla Cultura Cinematografica, attribuito
quest’anno a Irene Bignardi: omaggiata con due capolavori, vale a dire Barton Fink - È successo a Hollywood (1991) dei fratelli
Coen e Clerks – Commessi (1994) di Kevin Smith, intramontabili capolavori di e sulla sceneggiatura. Un tema sempre centrale
nella proposta del Premio Amidei.
Mariapia Comand
Indice
Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura 15
Premio all’Opera d’Autore: Álex de la Iglesia
31
Picccola antologia dello humour nero
41
Sceneggiatura seriale
69
Racconti privati, memorie pubbliche: Alan Berliner
77
Spazio Off 95
Premio alla Cultura Cinematografica: Irene Bignardi
107
Eventi Speciali 117
Indice dei film 129
Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura
ANIME NERE
Regia: Francesco Munzi; Soggetto: Francesco Munzi, Fabrizio
Ruggirello (liberamente tratto dal romanzo Anime Nere di
Gioacchino Criaco); Sceneggiatura: Francesco Munzi, Fabrizio
Ruggirello, Maurizio Braucci, Gioacchino Criaco; Fotografia:
Vladan Radovic; Montaggio: Cristiano Travaglioli; Scenografia:
Luca Servino; Costumi: Marina Roberti; Musiche: Giuliano Taviani;
Produzione: Cinemaundici, Babe Films, Rai Cinema; Distribuzione:
Good Films; Origine: Italia/Francia 2014; Durata: 103’
Premi: Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
(2014): Premio Pasinetti al Miglior Film, Premio Schermi di Qualità
– Carlo Mazzacurati (Francesco Munzi); David di Donatello
(2015): Miglior Film, Miglior Regia (Francesco Munzi), Migliori
Musiche (Giulio Taviani), Miglior Sceneggiatura (Francesco
Munzi, Fabrizio Ruggirello, Maurizio Braucci), Miglior Montaggio
(Cristiano Travaglioli), Miglior Fotografia (Vladan Radovic);
BIF&ST Bari Film Festival (2015): Premio Mario Monicelli per il
Miglior Regista (Francesco Munzi), Premio Franco Cristaldi per il
Miglior Produttore (Luigi Musini), Premio Roberto Perpignani per il
Miglior Montatore (Cristiano Travaglioli)
Interpreti: Marco Leonardi (Luigi), Peppino Mazzotta (Rocco),
Fabrizio Ferracane (Luciano), Barbora Bobulova (Valeria), Anna
Ferruzzo (Antonia), Giuseppe Fumo (Leo), Pasquale Romeo
(Ercole), Stefano Priolo (Nicola), Vito Facciolla (Pasquale),
Cosimo Spagnolo (Cosimo), Aurora Quattrocchi (Rosa), Manuela
Ventura (Giorgia), Domenico Centamore (Rosario), Sebastiano
Filocamo (Antonio Tallura)
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Tra le campagne dell’Aspromonte, nel piccolo paese di Africo, tre fratelli legati alla ‘ndrangheta calabrese si ritrovano
ad affrontare questioni sepolte e da troppo tempo irrisolte col
clan rivale dei Ferraro. Dopo uno sgarro commesso dal figlio,
l’allevatore di capre Luciano, distante dalla malavita, teme
il riaprirsi di una dolorosa faida. Timore che diviene realtà
quando Luigi e Rocco, coinvolti entrambi in attività criminose nel Nord Italia e all’estero, lasciano i loro commerci per
far ritorno alla propria terra ed affrontare per l’ultima volta
il proprio passato.
S
ono coscienze segnate, macchiate, tragicamente predestinate, le “anime nere” che popolano il terzo lungometraggio di Francesco Munzi. La vicenda dei tre fratelli si dispiega a tutti gli effetti sui tratti classici della tragedia greca, adattando al nostro presente l’antica lotta tra volontà e
predestinazione cara alla tradizione attica. Come accadeva
per l’Edipo sofocleo, il cammino intrapreso dai protagonisti è guidato da un destino già scritto, immutabile e frutto
di un peccato originario causa di inevitabili sofferenze e
versamenti di sangue. Sarà il gesto compiuto con eccessiva
inconsapevolezza dal giovane Leo a scatenare quella fatale
spirale di violenza attraverso cui il fato dell’intera famiglia
sarà definitivamente compiuto. Un’apparente ragazzata
dalla forza dirompente e capace di infrangere deboli equilibri, riacutizzando ferite sepolte e lasciando emergere sentimenti di orgoglio e vendetta. Il piccolo paesino di Africo,
verso cui Luigi e Rocco fanno ritorno, diventa dunque la
Colono dove essi chiuderanno il proprio ciclo, attratti non
più come Edipo da una profezia, ma da un profondo richiamo atavico che di profetico mantiene però il fine e la valenza. Il cuore dell’Aspromonte diviene infatti il palcoscenico
su cui recitare l’atto finale di una diatriba ormai da generazioni radicata come un cancro in quei luoghi e rappresentata dalla faida tra due famiglie della malavita calabrese, accesa dall’assassinio del padre dei tre fratelli. E proprio questa
condizione che scaturisce da un processo generazionale,
condizione tramandata dai padri ai figli senza via di scampo, racchiude l’intero messaggio di Anime nere. L’esistenza
di un profondo vincolo di sangue e il senso di appartenenza
a una terra e alle sue arcaiche leggi trovano la loro perfetta
espressione nelle azioni dei protagonisti, le cui diverse personalità, le sfumature d’animo e i conflitti interiori, con le
rispettive conseguenze, sono abilmente sfruttate da Munzi
nel mostrare quanto la loro condanna sia totalmente al di
sopra del loro stesso volere. Emblematica risulta così la figura del fratello maggiore, Luciano, detentore di una giusta
morale e dagli onesti propositi ma pur sempre segnato dalle
sue radici che proprio lui avrà il compito di recidere definitivamente attraverso una tragica catarsi finale che soffochi
per sempre nella violenza altra possibile violenza. Sulla riproposizione di una particolare arcaicità gioca anche tutto
il fascino della messa in scena e l’originalità del soggetto
della pellicola. Munzi volutamente racchiude la storia entro i confini di questo mondo lontano, distante eppure così
reale e concreto, creando un contrasto sul piano visivo tra
le sequenze iniziali girate ad Amsterdam e Milano e quelle
ambientate poi nelle campagne della Calabria, che si riflettono nei richiami cinematografici tra influenze alla Abel
Ferrara e ambientazioni prettamente neorealiste. L’intero
lavoro di scenografia contribuisce ottimamente a enfatiz-
zare tale scontro mostrando un profondo Sud avulso dal
tempo, congelato in una situazione in cui l’antico con la
sua storia e i suoi rituali ancora resiste mentre la modernità non avanza mai del tutto, simboleggiata dagli edifici
fatiscenti costruiti per metà. Spinto da una ricerca del vero,
il regista romano punta dunque alla ricostruzione di una
precisa quotidianità, chiudendosi nelle maglie dei legami e
delle regole familiari e di tutta una realtà irrimediabilmente
collusa. Una tensione all’isolamento che diventa riflessiva
e che mostra come in definitiva Anime nere suggerisca una
denuncia silenziosa e quasi intima, affrontando la questione dal suo più profondo interno e svelando l’anima nera di
un intero Paese.
Marcello Polizzi
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BANANA
Banana è un ragazzo convinto che nella vita sia necessario
sempre andare alla ricerca della felicità, se non per tutto,
almeno per qualcosa. Così, quando la ragazza di cui è
innamorato rischia la bocciatura, si impegnerà al massimo
per farle prendere voti alti. Per riuscire nell’impresa, sa che
può contare solamente su se stesso e sui proprio sacrifici. Ed è
pronto anche a soffrire, perché nella vita nulla si conquista
con facilità. Sa, però, che la regola è attaccare sempre, come
nel calcio brasiliano, di cui è grande tifoso.
“S
Regia: Andrea Jublin; Soggetto: Andrea Jublin; Sceneggiatura:
Andrea Jublin; Fotografia: Gherardo Gossi; Montaggio: Esmeralda
Calabria; Scenografia: Massimiliano Sturiale; Costumi: Francesca
Livia Sartori; Musiche: Nicola Piovani; Produzione: Good Films, Rai
Cinema; Distribuzione: Good Films; Origine: Italia 2014; Durata:
83’
Interpreti: Marco Todisco (Banana), Beatrice Modica (Jessica),
Camilla Filippi (Emma), Gianfelice Imparato (padre di Banana),
Giselda Volodi (madre di Banana), Anna Bonaiuto (professoressa
Colonna), Giorgio Colangeli (preside), Andrea Jublin (Gianni),
Ascanio Balbo (studente universitario)
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iamo tutti immersi nel fango, ma alcuni guardano
le stelle”, diceva Oscar Wilde. Ed è quello che
prova a fare Banana, il protagonista del film di Andrea
Jublin: guardare le stelle, sognare, cercare la felicità. Una
felicità raggiungibile auspicabilmente solo dall’innocenza
adolescenziale e da chi si crede invincibile. Ma cos’è
veramente la felicità? Difficile dirlo, difficile saperlo, ma
quantomeno è un obiettivo da porsi. Che poi sia fattibile o
meno è un altro discorso. Banana, quindi, ci immerge nella
vita di un ragazzino che non ha nulla da perdere, se non il
coraggio e la voglia di provarci. Quello che ne esce, però,
è un ritratto amaro dove l’ottimismo del protagonista è
messo a dura prova da familiari e insegnanti, caduti nel
grigiore e nella depressione della vita. C’è contrasto nel
film, ci sono due generazioni agli antipodi che si cercano
in quel barlume che sembra non dare loro speranza. Ma
Banana non si arrende e, come un eroe, si impegna contro
tutto e tutti per non fare bocciare l’amica Jessica, aiutandola
a ricordare Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry o
le lezioni sul Romanticismo. C’è tenerezza in quello che fa,
ci sono amore e vita; c’è l’innocenza di chi non ha ancora
affrontato le vere difficoltà dell’esistenza; c’è la purezza di chi
ha ancora il coraggio di sognare e “guardare oltre”. E allora
anche giocare a calcio diventa una sfida da reinterpretare
e vincere a testa alta. Lui, grande appassionato del calcio
brasiliano, usa costantemente la metafora di questo sport
per affacciarsi alla vita. Con la sua immancabile maglietta
gialla e il numero 10 sulle spalle, Banana gioca in porta, ma
immagina di fare goal, nella partita e nella sua vita. Vuole
e deve giocare in attacco, perché solo così si riescono a fare
cose importanti. “Le persone normali vogliono giocare in
difesa e fare catenaccio ma non sono felici”, dice Banana.
E lui quella felicità vuole raggiungerla a tutti i costi.
Grazie alla sua voce narrante presente in tutta la pellicola,
scopriamo i pensieri che lo tengono sveglio la notte o che
lo portano, palla al piede, a fare tutto il campo correndo,
uscendo così dagli schemi e dalle regole. Banana – per dirla
con Samuel Beckett – rischia, ci prova, fallisce e ci riprova
ancora. Cosa che non avviene con gli altri personaggi
del film. Banana, infatti, grazie anche alla sensibilità del
regista Andrea Jublin, già nominato all’Oscar nel 2008
per il cortometraggio Il supplente (premio poi andato
a Le Mozart des pickpockets di Philippe Pollet-Villard),
riesce a dipingere con diverse tonalità una sfera di persone
troppo segnate da delusioni per aver la forza di combattere
e andare avanti. Anche i dialoghi cambiano registro a
seconda di chi li pronuncia, denotando una certa sicurezza
nei propri mezzi e in quello che si vuol far arrivare. Il film,
infatti, grazie anche alla colonna sonora firmata da Nicola
Piovani, si dimostra un prodotto che riesce a conquistare
per la capacità di guardare con gli occhi sinceri di un
adolescente, pensare con la mentalità di un adulto e vedere
la vita per quello che è. Ovvero bella, difficile, amara,
cruda, impossibile, gioiosa, sognante. Perché la vita è una
sfida che va accettata a tutte le età e non è mai troppo tardi
per ricordarsi di alzare la testa e guardare le stelle. Bisogna
crederci, provarci. O, come fa Banana, almeno giocare in
attacco. Sempre. Comunque vada.
Martina Farci
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DUE GIORNI, UNA NOTTE
(Deux jours, une nuit)
Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne; Soggetto:JeanPierre Dardenne, Luc Dardenne; Sceneggiatura: Jean-Pierre
Dardenne, Luc Dardenne; Fotografia: Alain Marcoen; Montaggio:
Marie-Hélène Dozo; Scenografia: Igor Gabriel; Costumi: Maïra
Ramedhan-Levi; Produzione: Les Films du Fleuve, Archipel 35,
Bim Distribuzione, Eyeworks, France 2 Cinéma, Radio Télévision
Belge Francophone, Belgacom; Distribuzione: BIM; Origine: Belgio/
Francia/Italia 2014; Durata: 95’
Premi: Premio Magritte (2015): Miglior Film, Miglior Regia
(Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne), Miglior Attore (Fabrizio
Rongione); European Film Awards (2014): Migliore Attrice (Marion
Cotillard); Sydney Film Festival: Miglior Film
Interpreti: Marion Cotillard (Sandra), Fabrizio Rongione (Manu),
Pili Groyne (Estelle), Simon Caudry (Maxime), Catherine Salée
(Juliette), Baptiste Sornin (Sig. Dumont), Alain Eloy (Willy),
Myriem Akheddiou (Mireille), Fabienne Sciascia (Nadine), Timur
Magomedgadzhiev (Timur), Hicham Slaoui (Hicham), Philippe
Jeusette (Yvon), Yohan Zimmer (Jérôme), Christelle Cornil
(Anne), Laurent Caron (Julien), Franck Laisné (Dominique),
Serge Koto (Alphonse), Morgan Marinne (Charly), Gianni La
Rocca (Robert), Ben Hamidou (Kader), Carl Jadot (Miguel),
Olivier Gourmet (Jean-Marc), Sabine Raskin (segretaria Solwal),
Damien Trapletti (receptionist Solwal)
20
Sandra, dipendente presso una ditta di pannelli solari nel
quartiere operaio belga di Seraing, è costretta a mettersi in
malattia a causa di una depressione debilitante. Convinto
che non sarà più utile come prima, il capo dell’azienda mette
i suoi dipendenti di fronte ad una drastica scelta: mille euro
di bonus o il reinserimento della donna. Sandra, dopo una
prima fallimentare votazione, sarà costretta a convincere,
uno a uno, i suoi colleghi a scegliere lei e a dimenticarsi del
sostanzioso premio in denaro.
I
l terminus a quo del nuovo corso del cinema militante
dei fratelli Dardenne è da rintracciarsi ne Il matrimonio
di Lorna (2008), opus in cui la camera a mano, più
ferma del solito, e l’uso del formato 35mm rispetto al
consueto 16mm alteravano anche se di poco la singolarità
stilistica del loro cinéma vérité minimalista e privo di
intensificazione lirica. Spuntava anche un seppur vago
leitmotiv musicale a puntellare la sobria scena, alternato alle
tracce intradiegetiche per riempire i “silenzi” della giovane
immigrata albanese (in originale era Le silence de Lorna)
che per avere la cittadinanza paga un tossicodipendente
per sposarla. Con Due giorni, una notte la radicalità dei
loro tableaux vivants acquista uno spessore filosofico che
connette la resistenza operaia di segno universale alla
resistenza quotidiana di un’eroina proletaria di stanza a
Seraing, in Vallonia, abituale location dei loro film fin dai
tempi di La promesse (1996). L’unità di tempo, invece,
sono “i due giorni e una notte” che ha Sandra per salvare
il suo lavoro, la sua famiglia e il futuro reso incerto dalla
depressione e dalle massicce dosi di Xanax che la tengono
ancora a galla. Il cammino alla ricerca dell’archetipo su cui
i registi plasmano i loro quadretti morali della crisi è lungo
settant’anni, metaforicamente segnato dai “pedinamenti
zavattiniani” e dai racconti (neo)realisti in cui si inizia a
seguire l’uomo ma, contraddicendo Zavattini, “non si
buttano via i copioni”. Il fine cesello di scrittura, infatti,
si innesta in una messa in scena che “scompare” mentre
si crea, lasciando il posto alla spoglia realtà con sofisticati
accorgimenti tecnici e narrativi. Basti pensare ai pianisequenza, blocchi di tempo e di senso in cui una trasandata
ma sempre incantevole Marion Cotillard (candidata, per
questo ruolo, all’Oscar 2015 per il premio come Migliore
Attrice Protagonista, poi vinto da Julianne Moore per Still
Alice) si trascina stancamente oltre i bordi dell’inquadratura
e viene tallonata di tre quarti, mentre il suo dolore si
può solo immaginare quando, ricurva e dinoccolata, è
ripresa di spalle sotto un sole cocente che evoca terrori
panici e demoni meridiani. Per lei, cigno baudelairiano
che annaspa nel putrido serraglio, è lecito allontanare la
pietà, sentimento che implica una superiorità dell’altro
e una certa indulgenza, e provare compassione (cosentimento), massima condivisione emotiva tra gli esseri
umani. Tra le parole pronunciate come una preghiera laica
sull’uscio della casa dei colleghi presso cui compie la sua
peregrinatio, Sandra, divorata dallo spleen del malinconico,
è inizialmente un esubero, un numero fuori posto che
non quadra all’interno dell’azienda. Diventa poi, grazie
all’aiuto del marito Manu, eroina della lotta di classe che
non si arrende a una vita senza tutele sociali, alla triste
realtà dei contratti precari e dei capi sadici che fomentano
l’inarrestabile guerra fra poveri. “La vita è fatta di incontri”,
sentenziava il filosofo olandese Baruch Spinoza, e i
fratelli Dardenne sembrano fargli eco costruendo uno
spazio fisico misurabile, come già ne Il figlio, tra sé e il
prossimo, tra il proprio smarrimento e le ragioni dell’altro,
all’ingresso di porte e portoni, cancelli e garage delle case
che la protagonista Sandra visita come una mendicante
senza mai violare la sacralità degli ambienti domestici. Una
poetica della soglia in cui la dimensione della sofferenza è
riconoscibile, ma può essere colmata. Dall’altro.
Vincenzo Palermo
21
LA FAMIGLIA BéLIER
(La famille Bélier)
Paula Bélier ha sedici anni e divide il suo tempo fra la scuola
del piccolo centro della Normandia in cui vive e l’azienda
agricola gestita dalla sua famiglia. I genitori e il fratello
minore sono sordomuti, perciò la ragazzina è il tramite per
relazionarsi con l’esterno quando il linguaggio dei segni
risulta inefficace. Paula vive in bilico fra tranquillità e
monotonia, finché uno dei suoi insegnanti non scopre il suo
straordinario talento canoro. Mentre in famiglia le cose si
movimentano con la discesa del padre nell’arena politica,
Paula si trova a dover decidere cosa fare del suo futuro.
Regia: Eric Lartigau; Soggetto: Victoria Bedos, Eric Lartigau,
Thomas Bidegain (liberamente tratto dal romanzo Les mots qu’on
ne me dit pas di Véronique Poulain); Sceneggiatura: Victoria
Bedos, Stanislas Carré De Malberg; Fotografia: Romain Winding;
Montaggio: Jennifer Augé; Scenografia: Olivier Radot; Costumi:
Anne Schotte; Musiche: Evgueni Galperine, Sacha Galperine;
Produzione: Jérico, Mars Films, France 2 Cinéma, Quarante 12
films, Vendôme Production, Nexus Factory, UMedia; Distribuzione:
BIM; Origine: Francia 2014; Durata: 106’
Premi: Premio César (2015): Migliore Promessa Femminile
(Louane Emera); Premio Lumière (2015): Migliore Attrice (Karin
Viard)
Interpreti: Louane Emera (Paula Bélier), Karin Viard (Gigi Bélier),
François Damiens (Rodolphe Bélier), Eric Elmosnino (Fabien
Thomasson), Roxane Duran (Mathilde), Ilian Bergala (Gabriel),
Luca Gelberg (Quentin Bélier), Stephan Wojtowicz (il sindaco),
Bruno Gomila (Rossigneux), Céline Jorrion (giornalista),
Clémence Lassalas (Karène)
22
P
aula Bélier si trova in quell’età in cui il futuro non è
una bella pagina bianca tutta da scrivere, ma piuttosto
un guazzabuglio confuso, e soprattutto distante, di fumose
possibilità. Quell’arco di tempo in cui sembra quasi da
copione l’isolamento dalla famiglia: l’adolescenza. La
famiglia Bélier, invece, ha bisogno della sua presenza per
essere in costante contatto con il rumoroso mondo attorno
a loro e Paula, che si tratti di una visita dal medico per
problemi sessuali tra i genitori o la vendita di prodotti
caseari al mercato, è sempre presente, figura in bilico
fra desideri personali e senso di lealtà verso i suoi cari. Il
primo fattore ad aver decretato il successo di questo film,
in grado di commuovere schivando i patetismi e di far
ridere di cuore grazie alla perfetta alternanza di serio e
faceto nelle situazioni quotidiane, è l’aver avuto il coraggio
di parlare di “diversità” svelandola pian piano nella sfera
quotidiana fino ad annullare i confini tra normodotati e
sordomuti, mettendo in scena un’opera in cui alla fine tutti
si ritrovano ad avere la stessa dignità. Esattamente come
può accadere ai ragazzi della sua età che hanno famiglie
“normali”, i genitori di Paula la imbarazzano non perché
non in grado di apprezzare il coro della scuola o perché
ignorano il telefono, bensì per i loro atteggiamenti spesso
sopra le righe. Rodolphe e Gigi sono visti quasi attraverso
lo sguardo della figlia mentre si battono per tenere
compatta non solo la famiglia, ma anche la loro piccola
comunità cittadina. E ben lungi dall’essere dei despoti,
con il proseguire del film si sfaccettano, spiegano le loro
scelte, la consapevolezza che hanno di una figlia in grado di
accedere ad un mondo – quello dei suoni – loro precluso
e in cui quindi non possono proteggerla. Al contempo,
possiedono una loro voce fisica, attraverso un linguaggio
dei segni marcato e deciso, che evita di farli diventare figure
silenti cariche di patetismo, infondendo invece loro ironia
e umanità. Insieme al figlio Quentin, i Bélier si compattano
non per andare contro il mondo, ma per proteggere il loro,
di mondo: un universo che scavalca i confini familiari
per abbracciare l’intera comunità bucolica in cui vivono,
una Francia quasi atemporale e ben lontana dagli sfarzi
cittadini della capitale. Paula è comunque sempre la diversa
in ogni ambiente: divisa tra scuola e fattoria, udente tra i
non udenti e “figlia di…” tra i compagni di classe, finché
la sua particolarità non si concretizza con la scoperta del
suo straordinario talento canoro. Perfetto escamotage per
innescare il personale “Viaggio dell’Eroe” di vogleriana
memoria, il canto diventa la possibilità di un futuro diverso
rispetto a quello che sembrava snodarsi davanti a lei,
spezzando la quotidianità per costringere tanto lei quanto
il padre, con cui condivide passione e testardaggine, a porsi
delle domande in grado di scuotere la loro sfera emotiva.
Accompagnata dal mentore incarnato dal suo professore di
musica, Paula si trova spaccata fra ciò che vorrebbe e ciò che
ritiene giusto fare senza mai scadere nel dramma. Il secondo
segreto del successo di questo film giocato su continui
dualismi è infatti la capacità di evocare una straordinaria
empatia fra spettacolo e spettatore, creando situazioni
in cui, molto probabilmente, una qualsiasi famiglia si è
trovata almeno una volta. E ci si emoziona perché la regia
minimale e al contempo delicata di Eric Lartigau fa entrare
in risonanza con i sentimenti dei protagonisti, supportata
anche dalla recitazione straordinariamente spontanea di
Louane Emera e da quella marcata di François Damiens e
Karin Viard. Dunque proprio la famiglia diventa per Paula
fonte di ispirazione e banco di prova, mentre musica e suoni
si mescolano a pensierosi silenzi formando un’insolita
sinfonia in grado di fare il paio con le immagini di una
famiglia straordinariamente normale.
Maria Cristina Andrian
23
N-CAPACE
Tra Roma e Terracina, una donna vestita di bianco si muove
tra la campagna e la periferia intervistando ragazzi, anziani
e il proprio padre. Tra documentario e performance teatrale,
questa “Anima in pena” pone delle domande per riuscire
a raccontare il nostro presente, tra vuoti sociali e sinceri
imbarazzi: tutto ciò lascia intuire il luogo in cui alberga,
metaforicamente, la nostra salvezza.
Q
Regia: Eleonora Danco; Soggetto: Eleonora Danco; Sceneggiatura:
Eleonora Danco; Fotografia: Daria D’Antonio; Montaggio:
Desideria Rayner, Maria Fantastica Valmori; Costumi: Alessandro
Lai; Musiche: Markus Acher; Produzione: Bibi Film, Rai Cinema;
Distribuzione: Bibi Film; Origine: Italia 2014; Durata: 80’
Premi: Torino Film Festival (2014): Menzione Speciale della Giuria
Interpreti: Eleonora Danco (Anima in pena)
24
uando un regista si mette di fronte all’obiettivo corre
sempre sul filo di un rischioso senso narcisistico e
di una sincera sovraesposizione della propria intimità,
percorrendo a doppia corsia la vanitosa messa in scena
di se stesso e la visione “senza filtri” della realtà. Prodotti
di questo genere portano inevitabilmente a dividere
non solo l’opinione del pubblico, ma il senso stesso
dell’opera e la rappresentazione del proprio autore, messo
al giudizio che l’impulso a volersi rappresentare suscita
sintomaticamente. Egotismo e debolezza, finzione e realtà
sono i differenti poli del medesimo pianeta cui fanno tutti
riferimento alla medesima forza, un coraggio incosciente
che potrebbe mettere in ridicolo la propria figura tanto
quanto elevarla a un nuovo grado di sincerità. Lo deve
sapere bene chi fa teatro, perché la messa in scena di sé è
sempre un equilibrio, autentico e fittizio, tra le paure e le
emozioni che prova sul palco. E probabilmente lo sa molto
bene anche Eleonora Danco, che nel teatro non si limita a
essere attrice ma anche autrice e regista, artista che pensa al
proprio ruolo fin dalla sua stessa genesi. Questo potrebbe
essere il modo migliore per sintetizzare il suo esordio
cinematografico, N-Capace, film fondato su un equilibrio
volutamente instabile tra questi elementi. Costruito a metà
tra documentario composto da interviste e inframmezzi
tra l’onirico e il surrealismo buñueliano (come l’autrice
stessa afferma), in cui la composizione metafisica di De
Chirico si unisce all’accostamento inusuale di elementi
figurativamente lontani che ricordano Magritte. È proprio
in queste sequenze che compare spesso la protagonista
Eleonora Danco, performer di gesti e azioni fortemente
teatrali, inseriti però in un contesto reale tanto da farli
apparire volutamente abulici ed estranei al quotidiano. Da
questi inframmezzi si coglie quel rischio di cui si parlava
in precedenza, quello di una fragile sovraesposizione di
sé, cui vengono contrapposte le domande secche e vere
della Danco a ragazzi, anziani e al suo medesimo padre,
riguardanti la vita quotidiana, la morte, la religione e il
sesso, suscitando inevitabili – e divertentissimi – imbarazzi
negli intervistati. Il sottotesto ironico è la seconda anima
di N-Capace, il cui titolo gioca a suo modo sul suono
dialettale del termine “incapace” e internamente sottolinea
l’indefinibile soglia in cui un individuo diviene capace
di stare al mondo, spiazzando gli intervistati di fronte
ad alcuni temi che più per convenzione sociale vengono,
interiormente, poco interrogati per esser piuttosto
accettati. È questo il lato fragile e veritiero di un’opera che a
fianco di continue e surreali scenette, che vede protagonisti
anche gli stessi intervistati, ricerca un senso di realismo
sospeso e stranito, poetico per l’uso di oggetti ed elementi
raffigurati puramente, ma estratti dal loro contesto per esser
ricollocati così da sembrare alieni. Un letto in una piazza,
una vasca piena di biscotti, un astronauta al bar, ma anche
semplicemente il piede di un ragazzino lasciato a penzoloni
dal ramo di un albero, sono la rappresentazione figurativa
di un semplicità isolata, che nella sua purezza significativa
trova una valenza metaforica. Eleonora Danco con
N-Capace afferma di voler interrogare il nostro presente,
e per farlo sceglie la via meno diretta, perché del resto le
risposte che cerchiamo non potranno essere semplici e per
ottenerle occorre fare i conti con la vulnerabile esposizione
di sé, narcisistica quanto delicata e fuggevole.
Massimo Padoin
25
PRIDE
(Pride)
Regia: Matthew Warchus; Soggetto: Stephen Beresford;
Sceneggiatura: Stephen Beresford; Fotografia: Tat Radcliffe;
Montaggio: Melanie Oliver; Scenografia: Simon Bowles; Costumi:
Charlotte Walter; Musiche: Christopher Nightingale; Produzione:
Calamity Films Production, Pathé, BBC Films, Proud Films, BFI;
Distribuzione: Teodora Film; Origine: Gran Bretagna 2014; Durata:
120’
Premi: Festival di Cannes (2014): Queer Palm; Premio BAFTA
(2015): Miglior Esordio Britannico da Regista, Sceneggiatore
o Produttore (Stephen Beresford, David Livingstone);
British Indipendent Film Awards (2014): Miglior Film Inglese
Indipendente, Miglior Attrice Non Protagonista (Imelda Staunton),
Miglior Attore Non Protagonista (Andrew Scott)
Interpreti: Ben Schnetzer (Mark Ashton), Dominic West
(Jonathan Blake), Andrew Scott (Gethin Roberts), Joseph Gilgun
(Mike Jackson), George MacKay (Joe Cooper), Paddy Considine
(Dai Donovan), Bill Nighy (Cliff), Imelda Staunton (Hefina
Headon), Jessica Gunning (Sian James), Faye Marsay (Steph
Chambers), Jessie Cave (Zoe), Monica Dolan (Marion Cooper),
Liz White (Margaret Donovan)
26
Nel 1984 il governo Thatcher minaccia di chiudere settanta
miniere di carbone, e il Sindacato Nazionale dei Minatori
si difende con uno sciopero a oltranza. Il Movimento per i
Diritti delle Persone Gay e Lesbiche, che contemporaneamente combatte le proprie battaglie costantemente represse dalla
polizia, decide di supportare materialmente la difficile militanza dei minatori del Galles, in nome della ribellione alla
stessa oppressione subita da parte dello stesso nemico. È l’inizio di una duratura amicizia fondata sulla solidarietà l’uno
per l’altro e sul rispetto reciproco.
P
ride ha innanzitutto il merito di portare alla luce una
vicenda di solidarietà politica e sociale misconosciuta
ai più. La storia dell’improbabile legame tra il movimento
londinese per i diritti dei gay e delle lesbiche e una divisione del Sindacato minatori del territorio della valle di
Dulais, nel Sud del Galles, uno dei territori più produttivi
di carbone, ha il respiro dei racconti esemplari da tramandare di generazione in generazione. Accanto a personaggi
modellati sui reali attivisti coinvolti, tra cui Mark Ashton,
Mike Jackson, Dai Donovan e Sian James, lo sceneggiatore
Beresford inserisce personaggi inventati (e riduce per questioni drammaturgiche il numero di militanti coinvolti nel
LGSM, in realtà molti di più), come Joe “Bromley” Cooper. Se Mark è l’esplicita e trascinante voce delle istanze
del movimento, nonché vero ideatore della campagna “Lesbians and Gays Support the Miners”, il giovane Bromley,
proveniente dai suburbs e da una famiglia rigidamente benpensante, accoglie il punto di vista dello spettatore: guadagna il ruolo testimoniale di fotografo ufficiale, e la sua presa di coscienza della necessità di cominciare a combattere
per i propri diritti riecheggia quella dei minatori, molti dei
quali ritrovatisi a picchettare per la prima volta nella vita.
Lo scontro/incontro tra due realtà che rivendicano diritti
esistenziali oltre che sociali e politici (quello a vivere senza
essere discriminati e quello al lavoro e al proprio sostentamento) è scandito dalle tappe dell’avvicinamento, della
diffidenza, della conquista e del riconoscimento reciproco,
e supportato da caratteri e situazioni funzionalmente schematici, utili a definire traiettorie umane e politiche: il giovane omosessuale in fuga dalla famiglia che non lo capirà
mai, quello che infine può riconciliarsi con le proprie origini, la vita da sempre “closeted” – ovvero “velato”, relativamente a persone che non hanno comunicato apertamente
il loro orientamento sessuale – dell’uomo maturo, l’artista
flamboyant, lo spettro dell’AIDS. Dialogando con il cinema sociale di Ken Loach e Stephen Frears, Pride abbraccia
con leggerezza il nucleo profondo della storia, punteggiandosi di azzeccate connessioni che tornano a sottolinearlo
in ogni momento: ricorre il motivo delle mani laicamente
giunte in una stretta solidale che trascende i generi, le categorie, gli stili di vita, mentre la vicinanza immediata delle
donne del villaggio alle rivendicazioni del movimento LG
evidenzia la naturalità della condivisione delle battaglie.
D’altra parte Mark e Dai riconoscono espressamente le
contraddizioni della militanza, l’incapacità di fare fronte
comune rimanendo spesso fossilizzati nelle reciproche cause, e dimostrano che vi si può porre rimedio. E infatti anche
se il 4 marzo 1985 il Sindacato Nazionale dei Minatori votò
per la ripresa dei lavori, vanificando le rivendicazioni degli
scioperanti, l’eredità di quella strana congiuntura divenne
tangibile nell’immancabile appoggio delle organizzazioni
sindacali dei minatori di tutte le istanze dei movimenti inglesi LG e poi LGBT da lì in avanti, oltre che nella persona di Sian James, oggi parlamentare del Partito Laburista.
Così alla fine si resta con la sensazione che il film abbia
centrato in pieno l’obiettivo corroborante di ricordare che,
comunque vada, valga la pena lottare.
Chiara Checcaglini
27
SHORT SKIN - I DOLORI DEL GIOVANE
EDO
Edoardo è un diciottenne della provincia pisana come tanti,
ma con un problema in più: soffre di fimosi al pene. Questo
non solo gli procura dolore fisico nei momenti d’intimità, ma
contribuisce a ingigantire insicurezze, paure e tensioni più
generali. Lo si vede nel rapporto con Bianca: saranno proprio
le scelte di vita della ragazza, nell’arco di un’estate decisiva,
a spingere il protagonista a prendere di petto i suoi problemi
e la sua vita.
S
Regia: Duccio Chiarini; Soggetto: Duccio Chiarini; Sceneggiatura:
Duccio Chiarini, Ottavia Maddeddu, Marco Pettenello, Miroslav
Mandic; Fotografia: Baris Özbiçer; Montaggio: Roberto Di Tanna;
Scenografia: Ilaria Fallacara; Costumi: Ginevra De Carolis;
Musiche: Woodpigeon; Produzione: Le Règle Du Jeu, Asmara
Films; Distribuzione: Good Films; Origine: Italia/Iran/Gran
Bretagna 2014; Durata: 83’
Interpreti: Matteo Creatini (Edoardo), Francesca Agostini
(Bianca), Nicola Nocchi (Arturo), Miriana Raschillà (Elisabetta),
Bianca Ceravolo (Olivia), Bianca Nappi (Daniela), Michele
Crestacci (Roberto), Francesco Acquaroli (urologo), Anna Ferzetti
(Anna), Crisula Stafida (Pamela)
28
hort Skin – I dolori del giovane Edo è uno di quei film
che trovano il loro punto di forza nell’essere dichiaratamente senza troppe pretese, e che riescono a raccogliere il
massimo da questo paletto auto-imposto fin dalla partenza.
Il “senza pretese”, in questo caso, non è la scusa preventiva
che tanto – troppo – spesso viene usata da alcuni commedianti per, poco onestamente, mettere le mani avanti alle
accuse di volgarità o di umorismo convenzionale e stantio,
o per assumere posizioni trincerate con le quali rispondere
ai più o meno legittimi attacchi. Al contrario, il senso della
definizione, nel caso del film di Chiarini, si ritrova nella
volontà di raccontare una storia dalle atmosfere comunissime e quotidiane con un tono dichiaratamente sommesso
e poco urlato ma tutt’altro che anonimo e inefficace, con
un rapporto con la provincia di riferimento palese ma che
alla fine risulta per niente provinciale (non è un caso che
il film sia passato al Festival di Berlino 2015, nella sezione “Generation”; e lo confermano anche i riferimenti, dichiarati dallo stesso regista-sceneggiatore, a certe storie del
fumettista e illustratore italiano Gianni Pacinotti, in arte
Gipi). Volendo si potrebbe fare un paragone con le zone di
mare che fanno da sfondo a tante scene del film: non hanno
la fama né l’appeal un po’ costruito delle grandi spiagge e
delle località più celebri, ma portano con sé quel fascino,
umile e più sentito, meno evidente, di quei luoghi in cui,
proprio come nel caso di alcuni personaggi del film, si ritorna sempre per ritrovare persone, atmosfere e luoghi a cui si
è affezionati. Questo nonostante il tema principale – quello del problema al pene, delle relative paranoie e delle conseguenti problematiche di approccio sentimental-sessuale
del protagonista – non fosse un banco di prova facile, non
tanto per il rischio volgarità quanto per la possibilità di cadere in banalità o compiacimenti vari. Le problematiche
fisiche e sessuali, trattate sempre con estrema delicatezza
e con un umorismo anche in questo caso placido ma non
inerme, sono anzi lo strumento da cui parte il classico racconto di formazione adolescenziale: non proprio ai livelli
di un “MacGuffin” di hitchcockiana memoria, ma quasi.
Per il giovane Edo il problema all’organo riproduttivo diventa soprattutto un pretesto per poter esprimere inquietudini, paranoie e timidezze; una maniera per esorcizzare
le proprie paure e insicurezze. Anche un modo per giustificare quello che, man mano che il film scorre, pare sempre
più poter diventare un futuro rimpianto: l’amicizia che in
realtà è palesemente qualcosa di più con Bianca, amica di
infanzia e ora vicina di casa che il protagonista rischia seriamente di farsi irrimediabilmente sfuggire. È proprio lei, con
le sue scelte di vita, a spingere il Nostro a superare la fase di
stallo in cui per tutta la narrazione sembra condannato, e a
sconfiggere le sue paure. In fondo Short Skin è anche una
storia d’amore, anche in questo caso raccontata in maniera
velata e quasi sottotraccia. Il tono scelto non è lontano da
quello delle commedie indipendenti d’oltreoceano, con le
quali vi è in comune il voler descrivere un disadattamento e
un certo senso di inadeguatezza inserendoli in un universo
allo stesso tempo quasi sospeso ed estremamente realistico.
Insomma, nel suo incedere pacifico e rilassato, Short Skin
– I dolori del giovane Edo è una piacevole e rasserenante
ventata di aria buona nel panorama cinematografico italiano, esempio di un’idea di narrazione non pretenziosa ma
non per questo mediocre, lontana e libera dal ricatto della
commercialità banale e del finto autorialismo.
Edoardo Peretti
29
Premio all’Opera d’Autore
Álex de la Iglesia
I
l Premio all’Opera d’Autore, istituito per omaggiare quei grandi autori che si
sono cimentati nel cinema e nell’immagine, che hanno saputo distinguersi come
artisti completi, in particolare nell’ambito della scrittura, della sceneggiatura
e della narrazione, giungendo ad una umana e completa comprensione dell’arte e
della vita, viene quest’anno conferito ad Álex de la Iglesia.
Nato a Bilbao nel 1965, Alejandro de la Iglesia Mendoze è il più piccolo di cinque
fratelli di una famiglia che si nutre di cultura. Il padre è un docente universitario
di sociologia nella Facoltà di Economia nell’Università di Deusto. È inoltre critico
cinematografico e teatrale nel giornale La Gaceta del Norte. La madre è una pittrice
ritrattista e fra le fondatrici, nel 1945, della “Associacion Artistica Vizcaina”. I
fratelli di Álex, Agustin e Javier, lo iniziano alla passione per i fumetti, e durante
l’adolescenza si guadagna da vivere disegnando per diversi periodici e riviste. Negli
anni del liceo, inizia a collaborare con diverse riviste come Trokola, El Correo Español, Tribuna Vasca, Euskadi, La Ría del
Ocío. Si laurea in filosofia all’Università dei Gesuiti di Deusto e durante gli anni dell’università fa diverse conoscenze e
amicizie tra cui il professore di filosofia antica, Jesús Igal, studioso del filosofo Plotino.
Deciso a inserirsi nel mondo dello spettacolo, de la Iglesia lavora in televisione come scenografo ed è production designer
della nerissima crime-comedy Todo por la pasta (1991), opera seconda del regista basco Enrique Urbizu. Da questa
esperienza raccoglie le conoscenze necessarie per mettersi dietro la macchina da presa: il suo primo cortometraggio è
Mirindas asesinas (1991), subito un successo in Spagna. Girato in 16mm e in b/n, il corto parte da una situazione comica
che muta rapidamente in una commedia nera e surreale fino a trasformarsi in uno psico-thriller dalla tensione crescente.
Mirindas asesinas dichiara tutti gli intenti cinematografici del regista: emozione, tensione, attenzione alle aspettative del
pubblico e, soprattutto, la passione per un’idea che va portata avanti fino alla fine, non importa se difficile da visualizzare e
da rendere verosimile per lo spettatore. Il cineasta più affermato di Spagna, Pedro Almodóvar, colpito dal talento esplosivo
del giovane de la Iglesia, decide di sostenere, attraverso la sua casa produttrice El Deseo, il suo primo lungometraggio,
Acción mutante (Azione mutante, 1993). Da quel momento in poi la carriera del regista decolla e il successo non tarda ad
arrivare.
Álex de la Iglesia è oggi uno dei registi più internazionali di Spagna che ha all’attivo diverse coproduzioni europee, inglesi
e americane, pur rimanendo sempre fedele alla cultura e alla tradizione basca in cui si è formato. De la Iglesia è un autore
con una visione per nulla idilliaca dalla vita e dell’amore e il suo cinema è intriso di aspro cinismo, di domande sul senso
profondo del mondo e delle cose, ma è anche un regista capace – come pochi altri – di raccontare un universo che si tinge
di nero e del vermiglio di cui è fatto il sangue, facendo sempre divertire lo spettatore per il quale nutre un rispetto quasi
reverenziale. De la Iglesia è convinto che l’umorismo sia violenza; il cinema è il veicolo perfetto per mostrare entrambi gli
elementi e lui ha dimostrato, fin dal suo primo folle cortometraggio, di essere un maestro nel farli coabitare all’interno
della stessa opera.
32
Attraverso il suo cinema, de la Iglesia è capace di far fuggire lo spettatore dalla realtà perché lui per primo vive il cinema
come una fuga; e per questo motivo lavora a ritmo quasi febbrile sperimentando la scrittura e la regia di ogni genere
cinematografico, dal fantastico (Acción mutante, El día de la bestia, la serie Plutón B.R.B. Nero) al western (800 balas),
al road movie (Perdita Durango), all’horror (La habitación del niño), al thriller (The Oxford Murders), alla commedia
grottesca (Muertos de risa, La comunidad, Crimen ferpecto, Las brujas de Zugarramurdi), fino al documentario biografico
(Messi) e al dramma puro (Balada triste de trompeta, La chispa de la vida).
De la Iglesia fugge la realtà con il suo cinema e nel cinema che lo ha plasmato, quello di Hitchcock, Scorsese, Aldrich,
Hawks, F.F. Gómez, Berlanga, Tourneur, Buñuel, Spielberg, Scott, Truffaut, Peckinpah e di molti altri autori di ogni epoca
e scuola. Conosce ogni fotogramma delle opere dei cineasti a cui si rivolge, ama quelle opere in maniera viscerale e le
omaggia attraverso la scrittura, che avviene perlopiù in coppia con l’amico Jorge Guerricaechevarría, la messa in scena,
realizzata quasi sempre con la collaborazione della sua fidata troupe di professionisti (Kiko de la Rica alla fotografia, Arri e
Biaffra alle scenografie, Blanco al montaggio) e le interpretazioni affidate ai suoi attori feticcio (Álex Angulo, Terele Pávez,
Santiago Segura, Eduardo Antuña, Carolina Bang).
Le sue passioni non sono solo cinematografiche, ma anche televisive, letterarie, fumettistiche e filosofiche. Ha pubblicato
due racconti: Payasos en la lavadora (1997, riedito nel 2009) e Recuerdame que te odie (2014); ha realizzato una serie
televisiva (Plutón B.R.B. Nero) e un film per la tv (La habitación del niño); si è cimentato, a inizio carriera, anche con la
creazione di un videogioco live action, il cabinato laserdisc Marbella antivicio. La sua vastissima formazione culturale gli
permette di attivare processi di investigazione e documentazione molto laboriosi per la stesura delle sceneggiature delle sue
opere. È insidioso e al contempo affascinante il percorso di indagine del suo processo creativo; è una sfida capire a fondo le
sue opere, sempre ben mascherate dietro al genere apparentemente non impegnato della dark comedy, dell’horror grottesco
o del thriller. Solo rivedendole più e più volte riusciamo ad afferrare quel numero infinito di strati di cui si compongono.
Álex de la Iglesia si dimostra, attraverso le sue opere, un autore capace di lavorare con diversi generi e linguaggi, un
osservatore attento del mondo contemporaneo, un creatore di universi picareschi che rendono costantemente omaggio
al cinema e alle altre forme d’arte di ogni tempo, un regista che sa regalare allo
spettatore riflessioni penetranti ed emozioni appassionanti. Il Premio Amidei
propone in questa occasione la retrospettiva completa dell’opera del regista basco,
occasione unica per il pubblico italiano che non ha mai potuto vedere in sala (se
non all’interno di eventi festivalieri come la Mostra del Cinema di Venezia dove de
la Iglesia ha vinto il Leone d’Argento per il suo capolavoro Balada triste de trompeta)
molti dei suoi film, come Muertos de risa, 800 balas e La chispa de la vida.
Sara Martin
33
DE LA IGLESIA DIXIT
La televisione era il buco attraverso il quale vedevamo l’universo in quegli anni. Uno strano obiettivo faceva in modo che
convergessero all’interno della televisione cose impossibili da unirsi. Lì c’è il germe di questa specie di eclettismo o di
confusione mentale in cui viviamo da allora. […] Vedere in televisione i Chiripitifláuticos, Dreyer, Historias para no dormir,
senza alcun tipo di filtro, ci ha evidentemente dato una determinata forma mentale. La mancanza di una particolare direzione
è stata da un lato molto sana e dall’altro non tanto, ma io ne sono rimasto molto influenzato perché nessuno mi ha detto se
quello che vedevo era di buona qualità o no, se era importante o no.
Jordi Sánchez Navarro, Freak en acción. Álex de la Iglesia o el cine como fuga,
Calamar, Madrid 2005
[In Muertos de risa] Santiago (Nino) dà una festa falsa a casa sua perché Wyoming (Bruno) creda che lui stia bene. [...] In
quel momento genera un’allegria fittizia solo ed esclusivamente per danneggiare un’altra persona. E tutto passa attraverso la
convinzione che “lo odio perché lo amo e perché lo amo, lo necessito”. Questo è, secondo me, il fondamento ultimo dell’amore.
Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar,
Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012
In Balada triste de trompeta non sono a casa a fare i compiti, sto raccontando la mia storia e lo sto facendo per me e per chi ci
sarà dopo di me, ma allo stesso tempo voglio anche che lo spettatore si diverta e veda come io ho vissuto le cose.
Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar,
Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012
Muertos de risa e Balada triste de trompeta sono lo stesso film. Sono come El Dorado (id., Howard Hawks, 1966) e Un dollaro
d’onore (Rio Bravo, Howard Hawks, 1959) dove cambiano solo alcune componenti per raccontare la stessa storia […] anche
se ci sono alcuni elementi molto diversi. In Muertos de risa, per esempio, non c’è amore. Forse uno dei due protagonisti vuol
bene all’altro, all’inizio, ma quando si rende conto di aver bisogno di lui, allora comincia a odiarlo perché si accorge che da
quel momento non sarà mai più indipendente. Ha bisogno dell’altro per essere lui stesso: “se non do delle sberle non valgo
niente. Ho bisogno di qualcuno che prenda le sberle”. Il conflitto è tra due persone che si amano e, contemporaneamente,
si odiano. In Balada triste invece i due pagliacci sono innamorati di una terza persona e ognuno dei due la distrugge a suo
modo. È un triangolo amoroso drammaticamente distruttivo.
Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar,
Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012
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[Nella produzione internazionale Perdita Durango] mi hanno offerto per la prima volta l’opportunità di non raccontare le
avventure di poveri diavoli che si trovano ad affrontare situazioni tremende, che era diventata ormai la mia carta di identità
per i produttori. Perdita Durango è stata per noi una specie di pellicola della maturità, dove abbiamo potuto raccontare
un’altra storia. Una storia di cowboys dove il mio eroe si identificava per i suoi stivali di serpente. Un eroe che aveva il suo
mondo e la sua religione completamente diversi da tutti gli altri. E questo è il mio eroe nel film, quello che crea il suo mondo
come si fa in un gioco di ruolo, e lo impone a tutti gli altri, e questo provoca, inevitabilmente, delle frizioni. E il mio eroe va
avanti fino a che abbandona la veste di demiurgo del gioco e non vuole più vivere una vita dove non è lui quello che detta
le regole. Romeo è quello che dice come stanno le cose e quando la realtà non è conforme al suo mondo, allora si comporta
come James Cagney in La furia umana (White Heat, Raoul Walsh, 1949).
Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar,
Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012
Con The Oxford Murders sono entrato in un progetto che non avrei dovuto fare. Sinceramente. Ma, alla fine, ne sono stato
molto contento perché ho imparato moltissimo e, soprattutto, perché ho scoperto che potevo dirigere un film come quello
e se non lo avevo fatto prima non era per un problema di possibilità, ma di intenzioni. Grazie a The Oxford Murders ho
scoperto che cosa significa dirigere un film in un’altra lingua e, soprattutto, dirigere attori in un’altra lingua, che è qualcosa di
estremamente complicato perché ti devi fidare dell’intuizione e dar loro molta libertà, anche se quando c’è qualcosa che non
va in ogni caso te ne accorgi subito. Io sapevo il copione a memoria e l’avevo recitato varie volte con gli attori. E lo sai quando
ci sono degli errori, perché l’intonazione è uguale in qualsiasi lingua. Dovevo dirigere con molta delicatezza attori del calibro
di John Hurt ed Elijah Wood e dovevo essere molto sincero con loro: come potevo dire a John Hurt, che era stato professore
di interpretazione a Oxford, in che modo doveva recitare una battuta? Quando gli spiegai questa cosa John mi rispose che non
solo avrebbe recitato bene la sua parte ma che mi avrebbe aiutato in ogni modo ad ottenere il risultato che mi ero riproposto.
Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar,
Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012
Cercando di raccontare chi è il giocatore Messi, chi è il ragazzo che sta dietro a questa persona che sembra così timida, che
non vuole parlare con i media, che sembra nascondere qualcosa, che non vuole relazionarsi come il resto dei giocatori e del
mondo dello spettacolo, scopri che a lui interessa solo giocare a calcio e il suo modo di esprimersi è giocare a calcio. Avrebbe
preferito che non parlassimo di lui e io ho deciso di non intervistarlo per non rompere il mistero che si viene a creare attorno
a questo personaggio così schivo che, proprio nella sua riluttanza, ha qualcosa di cinematografico.
cineuropa.org, Intervista a Álex de la Iglesia,
71. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia
Sono ossessionato dagli arredamenti. In una scenografia c’è tutto. Sei come un demiurgo che controlla assolutamente tutta la
pellicola: la forma, il fondale, i personaggi e quello che sta dietro a loro […] tutto è esattamente come vuoi, hai più controllo
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e più potere e hai la troupe chiusa in un set al tuo servizio. Quando giri in esterni, questo potere si perde […] il set è un carcere
per i più. Ma per il regista è la libertà perché non sei obbligato a girare tutte le scene. Puoi andartene a casa senza aver girato
nulla perché sai di poter fare il giorno dopo quello che non hai fatto oggi. Nel set interno c’è la scenografia di oggi, quella
di domani che puoi raggiungere senza perdere tre ore nel traffico come avviene nei set esterni, e quella di ieri, in cui puoi
rettificare gli errori che hai trovato in sceneggiatura. Per questo mi affascina girare negli ambienti ricostruiti. E si tratta anche
di una concezione generale del cinema: credo infatti che il miglior cinema di sempre sia quello dello Studio System, quello
dell’epoca classica di Hollywood. E i migliori film sono quelli girati in studio, dove il regista controlla assolutamente tutto
e ha vicino a sé, o nell’edificio a fianco, il set, gli attori, i produttori, gli sceneggiatori […]. Il sistema produttivo dello Studio,
durante l’epoca d’oro hollywoodiana, non era casuale, era il prodotto di un metodo di lavoro. Le migliori pellicole sono di
quell’epoca perché coincidono con uno straordinario metodo di produzione.
Jordi Sánchez Navarro, Freak en acción. Álex de la Iglesia o el cine como fuga,
Calamar, Madrid 2005
La comunidad era girato in un solo piano dell’edificio. L’idea ci venne, a me e a Jorge [Guerricaechevarría], perché giungemmo
alla stessa conclusione di Hitchcock, che quanti meno elementi utilizzi, più potente è il film. La questione sta nel ridurre gli
elementi al massimo e fare uno sforzo supplementare perché lo spettatore, che non deve mai notare questo sforzo, né il modo
in cui succede, come nel caso di Nodo alla gola (The Rope, Alfred Hitchcock, 1948), si preoccupi solo della storia.
Javier Angulo, Antonio Santamarina, Álex de la Iglesia. La pasión de rodar,
Euskadiko Filmategia Fundación Filmoteca Vasca, San Sebastián 2012
Ho trovato il portatile, un Powerbook 150, in una fermata di autobus della Gran Via di Bilbao, nel cuore della notte, durante
la “Semana Grande”. Nel disco rigido c’era solo questa cartella, dallo strano nome: Payasos en la lavadora. Si tratta di una
raccolta di pensieri, esperienze e ricordi senza un apparente collegamento, salvo una misantropia cronica.
Non ha firma ma, leggendo alcuni dettagli del testo, sospetto che si tratti del computer di un mio vecchio vicino di casa, un
tipo magro e nervoso che non vedo da mesi. Nella cassetta delle lettere c’è scritto Juan Carlos Satrústegi. È uno scrittore.
Questa si potrebbe considerare la sua terza opera.
Ho parlato con la sua famiglia e mi hanno detto che è stato ricoverato in un ospedale psichiatrico. Col suo consenso mi faccio
carico della pubblicazione del testo, nella speranza che questo lo aiuti a guarire presto. L’ho diviso in capitoli, ho soppresso
la maggior parte degli insulti a persone e istituzioni, così come i paragrafi completamente incomprensibili – quindici righe
di consonanti, la parola froci ripetuta milleduecento volte – o irrilevanti – cinque pagine dedicate alla descrizione di diversi
tipi di cotiche . Ho inoltre ritenuto opportuno introdurre alcune citazioni che ho preso da un dizionario per dare al testo un
tono un po’ più accademico, dietro consiglio di sua madre.
Álex de la Iglesia, Introduzione di Payasos en la lavadora,
Seix Barral, Planeta, Barcellona 1997
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La tv è, attualmente, il mezzo d’espressione più ricco e fertile che possegga l’uomo. Dovevo dirlo così, senza giri di parole.
Il teatro, il cinema, la letteratura, la musica, la poesia – a parte la mia – sono morti, sono fossili, oggetti da museo di provincia,
esperimenti falliti di una cultura passata di moda. Oggi nessuno fa qualcosa di buono; quel poco che si poteva fare è stato
fatto. Rimangono soltanto alcuni pagliacci che fanno i ridicoli.
L’unica possibilità di trionfo è che i due tipi dello spot affoghino dentro la lavatrice e di poter prendere il loro posto.
Cosa succede? Vi scandalizza? Sciocchi arroganti!
Ascoltatemi bene: è un fatto evidente. Li abbiamo fatti morire da molto tempo. E puzzano già. Il teatro, per esempio,
un gruppo di persone che gridano in una scenografia squallida. Perché gridano sempre in teatro? Perché li ascolti quello
dell’ultima fila? Invece, amici miei, la televisione… la televisione è innovatrice, creativa, giovane, forte. La televisione rischia,
rompe i modelli e gli schemi.
Soprattutto quella privata. La pubblica ormai è perduta, finita, imita, come può, le private. È triste riconoscerlo, ma è così.
Álex de la Iglesia, Payasos en la lavadora,
Seix Barral, Planeta, Barcellona 1997
Quando ho cominciato a scrivere la serie tv Plutón B.R.B. Nero stavo guardando la serie completa di Star Trek, che mi
affascinava e avevo voglia di fare qualcosa di fantascientifico che in Acción mutante non avevo potuto fare e che oggi era
tecnicamente molto più facile da realizzare. Volevo costruire una nave spaziale, volevo gli extraterrestri e volevo divertirmi
mettendo in scena un mondo che in Acción mutante avevo intuito come poter realizzare, senza aver avuto l’opportunità di
portare a compimento. […]. È stato il momento migliore e peggiore della mia vita.
Intervista inclusa negli extra del cofanetto dvd di Plutón B.R.B. Nero,
Cameo Media SL, Spagna 2010
Giravamo ogni episodio in una media di quattro giorni e mezzo, cinque. Per un film ci avremmo messo più di due settimane
e mezzo. Avevamo pochissimi soldi per fare quello che volevamo fare e abbiamo sempre cercato di trovare un compromesso
tra ciò che volevamo e ciò che potevamo. E questo, a dire il vero, è il mio lavoro tanto nel cinema quanto nella televisione.
Ma qui le cose sono state più drammatiche, dovevamo preparare le scene, girare, produrre, montare e post-produrre quasi
contemporaneamente. La differenza fondamentale è questa: in un film hai il tempo per pensare, in televisione no. In tv
hai sempre bisogno di trovare le inquadrature giuste, quelle che ti servono per raccontare la storia nel modo più semplice
possibile. Il risultato deve essere dinamico, non deve essere piatto e noioso.
Intervista inclusa negli extra del cofanetto dvd di Plutón B.R.B. Nero,
Cameo Media SL, Spagna 2010
A cura di Sara Martin
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Filmografia
MIRINDAS ASESINAS (id.,
cortometraggio)
Regia: Álex de la Iglesia;
Sceneggiatura: Álex de la Iglesia, Jorge
Guerricaechevarría; Origine: Spagna
1991; Durata: 12’
Interpreti: Álex Angulo, Saturnino
García, José Antonio Álvarez, Ramón
Barea, Oscar Grijalba
AZIONE MUTANTE (Acción
mutante)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
Jorge Guerricaechevarría, Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge
Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia;
Origine: Spagna 1993; Durata: 97’
Interpreti: Antonio Resines, Álex
Angulo, Frederique Feder, Juan Viadas,
Karra Elejalde, Santiago Segura,
Saturnino Garcìa
IL GIORNO DELLA BESTIA (El
día de la bestia)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
Jorge Guerricaechevarría, Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge
Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia;
Origine: Spagna/Italia 1995; Durata:
103’
Interpreti: Álex Angulo, Armando
De Razza, Santiago Segura, Terele
Pávez, Nathalie Seseña, Maria Grazia
Cucinotta, Gianni Ippoliti
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PERDITA DURANGO (Perdita
Durango)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
Barry Gifford, dal suo racconto 59
Degrees and Raining: The Story of
Perdita Durango; Sceneggiatura:
Barry Gifford, David Trueba, Jorge
Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia;
Origine: Messico/Spagna/USA 1997;
Durata: 126’
Interpreti: Rosie Perez, Javier Bardem,
James Gandolfini, Demián Bichir,
Harley Cross, Aimee Graham, Don
Stroud, Alex Cox, Carlos Bardem
MUERTOS DE RISA (id.)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Álex de
la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría;
Origine: Spagna 1999; Durata: 113’
Interpreti: Santiago Segura, José
Miguel Monzón, Álex Angulo,
Carla Hidalgo, Jesús Bonilla, María
Asquerino, José María Íñigo Gómez
LA COMUNIDAD – INTRIGO
ALL’ULTIMO PIANO (La
comunidad)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
Jorge Guerricaechevarría, Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge
Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia;
Origine: Spagna 2000; Durata: 105’
Interpreti: Carmen Maura, Eduardo
Antuña, María Asquerino, Jesús
Bonilla, Marta Fernández Muro, Paca
Gabaldón, Ane Gabarain, Sancho
Gracia
800 BALAS (id.)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Álex
de la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría;
Sceneggiatura: Álex de la Iglesia, Jorge
Guerricaechevarría; Origine: Spagna
2002; Durata: 124’
Interpreti: Sancho Gracia, Ángel
de Andrés López, Carmen Maura,
Eusebio Poncela, Luis Castro, Manuel
Tallafé, Enrique Martínez, Luciano
Federico, Terele Pávez
CRIMEN PERFECTO - FINCHÉ
MORTE NON LI SEPARI (Crimen
ferpecto)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
Jorge Guerricaechevarría, Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge
Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia;
Origine: Spagna/Italia 2004; Durata:
105’
Interpreti: Guillermo Toledo, Mónica
Cervera, Enrique Villén, Luis Varela,
Fernando Tejero, Javier Gutiérrez, Kira
Miró
FILM PER NON DORMIRE LA STANZA DEL BAMBINO
(Películas para no dormir - La
habitación del niño, film tv)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
Jorge Guerricaechevarría, Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge
Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia;
Origine: Spagna 2006; Durata: 77’
Interpreti: Javier Gutiérrez, Leonor
Watling, Sancho Gracia, María
Asquerino, Antonio Dechent, Terele
Pávez, Ramón Barea, Eulalia Ramón,
Manuel Tallafé
OXFORD MURDERS –
TEOREMA DI UN DELITTO (The
Oxford Murders)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
tratto dal romanzo La serie di
Oxford di Guillermo Martínez;
Sceneggiatura: Álex de la Iglesia, Jorge
Guerricaechevarría; Origine: Spagna/
Francia 2008; Durata: 108’
Interpreti: Elijah Wood, John Hurt,
Leonor Waiting, Jolie Cox, Jim Carter,
Alex Cox, Burn Gorman, Dominique
Pinon, Anna Massey
PLUTÓN B.R.B. NERO (id., serie
tv)
Regia: Álex de la Iglesia, Domingo
Gonzalez; Creatori: Álex de la
Iglesia, Jorge Guerricaechevarría,
Pepón Montero, Juan Maidagán;
Sceneggiatura: Jorge Guerricaechevarría
(16 episodi), Eugenio Lasarte (3
episodi), Juan Maidagán (7 episodi),
Pepón Montero (7 episodi), Álex de
la Iglesia (9 episodi); Origine: Spagna
2008-2009; Durata: 35’ (episodio)
Interpreti: Antonio Gil, Carlos Areces,
Carolina Bang, Enrique Martinez,
Manuel Tallafé, Gracia Olayo, Mariano
Venancio, Enrique Villen
BALLATA DELL’ODIO E
DELL’AMORE (Balada triste de
trompeta)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Álex de la
Iglesia; Origine: Spagna/Francia 2010;
Durata: 107’
Interpreti: Carlos Areces, Antonio
de la Torre, Carolina Bang, Manuel
Tallafé, Paco Sagarzazu, Sancho Gracia,
Santiago Segura, Enrique Villén,
Alejandro Tejerías
LA CHISPA DE LA VIDA (id.)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
Randy Feldman; Sceneggiatura: Randy
Feldman, Álex de la Iglesia (non
accreditato); Origine: Spagna/Francia/
USA 2011; Durata: 94’
Interpreti: José Mota, Salma Hayek,
Manuel Tallafé, Blanca Portillo, Jean
Luis Galiardo, Antonio Garrido,
Fernando Tejero, Carolina Bang,
Antonio De La Torre, Santiago Segura
Segura, Gabriel Delgado, Macarena
Gómez, Carmen Maura, Carlos Areces,
Manuel Tallafé
WORDS WITH GODS - segmento
“THE CONFESSION” (id.)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto:
Jorge Guerricaechevarría, Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Jorge
Guerricaechevarría, Álex de la Iglesia;
Origine: Messico/USA 2014; Durata:
10’ circa
Interpreti: Juan Fernández, Paco
Sagarzazu, Pépon Nieto, Mariano
Venancio
MESSI - Storia di un
campione (Messi)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Jorge
Valdano; Sceneggiatura: Jorge Valdano;
Origine: Spagna 2014; Durata: 95’
Interpreti: Johan Cruyff, César Luis
Menotti, Jorge Valdano, Andrés
Iniesta, Gerard Piqué
LE STREGHE SON TORNATE
(Las brujas de Zugarramurdi)
Regia: Álex de la Iglesia; Soggetto: Álex
de la Iglesia; Sceneggiatura: Álex de
la Iglesia, Jorge Guerricaechevarría;
Origine: Spagna/Francia 2013; Durata:
112’
Interpreti: Hugo Silva, Mario Casas,
Pepón Nieto, Carolina Bang, Terele
Pávez, Jaime Ordóñez, Santiago
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Piccola antologia dello humour nero
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42
C’
Il filosofo, fiero di sé, passò subito a dimostrare che il bianco era nero,
e finì ucciso sulle prime strisce pedonali che incontrò
Douglas Adams, Guida Galattica per gli Autostoppisti
è un’immagine, in questa Piccola antologia dello humour nero, che colpisce più di altre: la ragazzina dagli stivali gialli che
cammina in bilico su un muretto, tra il grigio dei rottami e il marrone della fanghiglia che ricopre le borgate pestilenziali
di Brutti, sporchi e cattivi (Ettore Scola, 1976). Certo, lei si muove su quel muro “come sul baratro del proprio destino”,
ci ricorda giustamente Lisa Cecconi nella relativa scheda in questo catalogo, ma per noi che cercavamo di destreggiarci nel concepire
questa retrospettiva, quell’immagine era incredibilmente simbolica, rappresentava la nostra lotta con la ragione per definire confini e
caratteristiche dello humour nero. Ovviamente, siamo scivolati un sacco di volte. Troppe le incognite, troppe le variabili, strettissimi i
limiti che c’eravamo imposti, come quello di restare all’interno della filmografia italiana (quando maestri indiscussi del genere sono gli
anglofoni), o di proporre un solo film per ogni regista (sarebbe uscita una retrospettiva Monicelli/Ferreri), o ancora di coprire quante
più decadi del Novecento per offrire uno spaccato il più cronologicamente completo del “genere” (altrimenti restavamo intrappolati
negli anni Sessanta e Settanta). La nostra rete di sicurezza è stata André Breton e la sua Antologia dello humour nero. Nell’introduzione
al suo libro, lo scrittore surrealista spiega: “Per prendere parte al torneo nero dell’humour, bisogna infatti aver superato numerose prove
eliminatorie. L’humour nero è limitato da troppe cose, quali la stupidità, l’ironia scettica, la facezia senza peso [...] ma è soprattutto
il nemico mortale di quel sentimentalismo dall’aria eternamente braccata – quel sentimentalismo sempre all’acqua di rose – e di una
fantasia di corto respiro, che troppo spesso si spaccia per poesia”. Noi, le eliminatorie per il girone finale del nostro personale torneo, le
abbiamo fatte rendendoci perfettamente conto di come spesso gli elementi “neri” siano costantemente in bilico – pure loro! – con altri
elementi “rosa”, “gialli”, “blu” ecc. Ad esempio, il semisconosciuto Gente felice – Benvenuto, onorevole! (1957) di Mino Loy, decisamente
nero e fuori dall’ordinario (per i tempi), conserva comunque una fortissima componente sentimentale, così come il recente Pinuccio
Lovero – Yes I Can (2012) di Pippo Mezzapesa, che molti tratti ha in comune con il film di Loy (dalla tematica “cimiteriale” a quella
“politica” fino alla levità dei toni). Che fine ha fatto Totò Baby? (1964) di Ottavio Alessi [e Paolo Heusch] rischia davvero di rientrare
in quella “stupidità, ironia scettica” citate da Breton, soprattutto per l’idiozia (involontaria?) con cui tratta l’argomento sesso, droga e
rock’n’roll, ma Totò psycho-killer che mura la gente usando le braccia dei cadaveri come applique, come lo consideriamo? O Il gatto
(1978) di Luigi Comencini, commedia certo nerissima ma dall’indiscutibile (seppur originale) virata verso il “giallo” del thriller? E i
Mortacci (1989) di Sergio Citti, patchwork di funebri racconti brevi che di nero a volte hanno solo i contorni, come la storia del playboy
Scopone e degli infiniti primi piani di culi femminili che lo circondano? Nessun dubbio per quanto riguarda invece i maestri riconosciuti
del genere: La donna scimmia (1964) di Marco Ferreri è una delle più acute e ciniche riflessioni su un tema portante dello humour nero,
la mostruosità/diversità, così come l’esplosivo spappolamento dell’istituzione “famiglia” operato da Mario Monicelli in Parenti serpenti
(1992). Per non parlare dell’assoluto degrado fisico e morale di un’intera società messo in scena da Scola in Brutti, sporchi e cattivi, e in
parte ripreso da Daniele Ciprì in È stato il figlio (2011), o dell’incubo kafkiano cui è vittima il neocapitalista sfrenato Ugo Tognazzi nel
suo Il fischio al naso (1967), tratto da Dino Buzzati. Con questa Piccola antologia, noi pensiamo di essere rimasti in piedi su quello stretto
muretto che è lo humour nero, magari con qualche perdita di equilibrio, ma senza crolli rovinosi, e così come l’Antologia di Breton anche
la nostra è una provocazione, fatta per discutere. Occhio alle strisce pedonali, però…
Primo Lazzaro
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INTERVISTA A DANIELE CIPRì
Se questa fosse un’intervista di Cinico Tv (1992),
inizieremmo dicendo “Buonasera signor Ciprì” e
proseguiremmo, sempre citando il dialogo col tale
Filangeri Giuseppe, chiedendo “lei è un testimone di fede?”.
Naturalmente intenderemmo la fede nel cinema, nel potere
delle immagini e, perché no, nella loro capacità di raccontare
l’apocalisse italiana. Ma questa non è un’intervista di Cinico
Tv e Daniele Ciprì preferisce l’intuizione inconscia alla
citazione palese, il sogno ad occhi aperti rispetto all’analisi
delle sequenze del passato, soprattutto quando si tratta
dei suoi film, sia quelli realizzati assieme al compagno di
avventure Franco Maresco sia i due nati dopo il loro divorzio
artistico: È stato il figlio (2012) e La buca (2014).
Questo splendido 53enne, nato e cresciuto a Palermo
come fotografo e divenuto autore dopo le incredibili
sperimentazioni visive degli anni Novanta da un po’ di anni
riesce a malapena a passare una settimana consecutiva nella
sua casa di Siracusa, sempre rimbalzato in giro per il mondo
in veste di regista o di direttore della fotografia per altri
amici autori come Marco Bellocchio, col quale ha appena
finito di girare Sangue del tuo sangue. È proprio dal set del
suo ultimo film, Fai bei sogni, tratto dal libro di Massimo
Gramellini che Ciprì risponde alla chiamata, condividendo
alcuni momenti di una vita straordinaria.
necessità di rievocare il cinema di Mario, ma non di citarlo
perché sarebbe stata un’offesa, e così in È stato il figlio l’ho
appunto rievocato nella figura dell’avvocato che si gratta
la testa. Nel nostro cinema c’è sempre stato il desiderio
di rappresentare quella commedia cinico-amara di quel
periodo, tant’è vero che, quando ci siamo incontrati, lui
riconosceva questo nostro modo di rappresentare il vecchio
cinema italiano, pur facendo altro, cioè raccontando
l’apocalisse, il non-luogo. Personalmente continuo ad avere
un rapporto col cinema italiano e americano di quegli anni:
non sono un citazionista, sono uno che ha amato il cinema
ma non ha inventato niente. Nessuno di noi ha inventato
niente.
In questo 2015 si omaggia Mario Monicelli nel centenario
dalla nascita ma nel 2010, assieme a Maresco, realizzasti
un testamento-video sui generis con la complicità del
maestro. Cosa è rimasto dell’opera di Monicelli nel tuo
cinema?
Tanto. Dopo la separazione con Maresco ho sentito la
A quale film di Monicelli sei più legato?
Il film che ho amato di più è La grande guerra (1959) anche
se lui, quando ci siamo conosciuti, diceva di lasciarlo perdere
perché era più legato a L’armata Brancaleone (1966) che è un
capolavoro di film. Quella generazione si rifaceva al cinema
americano anni Cinquanta, quello più hard, che aveva una
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forma unica sull’immagine e che noi abbiamo rappresentato,
anche meglio per certi versi, ma che poi abbiamo perso e ora,
infatti, stiamo cercando di recuperarci. Ad esempio il film
di Matteo (Garrone, NdR) mi ha rievocato il cinema che ho
amato e con cui sono cresciuto, quello di Mario Bava, che
oggi è il trash. Monicelli è stato un genio, si rappresentava
come i suoi film. E poi c’è un episodio legato all’intervista
che gli abbiamo fatto al cimitero…
(Nella scena il giornalista Gregorio Napoli spiega cos’è
un “coccodrillo” nel gergo giornalistico raccontando che la
redazione scrive la data in cui il pezzo è stato terminato perché
l’autore dell’articolo potrebbe morire prima del personaggio
famoso protagonista del coccodrillo. A quel punto Monicelli gli
dice “Vuole scrivere lei il mio coccodrillo?”)
…Gregorio Napoli, che aveva fatto il coccodrillo, è morto
prima di Mario.
Quando lavori a un film, sia come regista che come
direttore della fotografia, operi in maniera inconscia
oppure, come fanno molti (ad esempio Tarantino), fai
una full immersion di film che pensi possano ispirarti?
Mi capita spesso di andare a rivedere delle cose ma solo per
avere un input, non per imitarle. Quando giro e sono sul set
mi capita di citare il cinema e dico, per esempio, “guarda
questa sequenza, mi ricorda L’invasione degli ultracorpi
(1956) di Don Siegel” oppure “questa te la faccio alla Orson
Welles” però sempre ridendo. Questa cosa, che condivido
con registi come Lucio Fulci, non voglio assolutamente
perderla e spero di non fare mai il citazionista. Non ho fatto
scuole di cinema, per questo mi do degli input attraverso
quello che ho visto, che è sempre un riferimento anche se è
stato fatto tecnicamente meglio o peggio. Mentre sono sul
set ricordo sempre qualche film e spero che questo si avverta
in tutto quello che faccio.
Non avendo fatto scuole di cinema, come hai mosso i
primi passi sul set?
Sono nato in una famiglia di immagini: mio padre riparava
le macchine fotografiche e aveva la passione per il cinema
ma, principalmente, faceva servizi per i matrimoni. In
una città come Palermo che non aveva nulla da offrire,
lavoravo con lui e, parallelamente, entrai nella cooperativa
di Tornatore. Poi mi sono chiesto a cosa mi servisse tutto
questo e son diventato un autore. Adesso insegno quello
che so, faccio tre scuole anche se ora non posso farne più
perché, ringraziando il cielo, lavoro molto e continuo a fare
cortometraggi per i giovani. Due sono a Cannes: Sotto Terra
di Mohamed Hossameldin e Sonderkommando di Nicola
Ragone che ha vinto il Nastro d’Argento 2015 come Miglior
Corto. Mi piace cambiare e lavorare con i giovani perché mi
sento un po’ vampiro: prendo da loro e loro prendono da
me. E poi anche John Ford era un grande artigiano: quando
Bogdanovich lo intervista e gli chiede “come ha fatto quella
scena?” e lui risponde, dopo cinque minuti di pausa, “con la
macchina da presa”: era un genio.
Qual è stata la tua prima esperienza cinematografica?
Giravo dei corti documentari con la CLCT (Cooperativa
Lavoratori Cinema e Teatro), ex cooperativa di Giuseppe
Tornatore, a capo della quale c’erano due soci: Sergio
Gianfalla e Giovanni Massa. Poi c’è stato l’incontro
fulmineo con Franco e da lì siamo cresciuti insieme,
continuando un’elaborazione e una scuola. Facevamo
montaggi di cinema, analizzavamo Kubrick, Welles, Ford,
e realizzavamo dei piccoli Fuori orario. La mia ex moglie
aveva una tv privata (anch’io ne avevo una) e così abbiamo
unito le forze, assieme anche alla cooperativa: da lì è nato
l’esperimento di Ai confini della pietà, che poi era Cinico
Tv. Poi, parallelamente, ho lavorato con Roberta Torre
45
perché era l’unica regista a cui tenevo, non solo perché
stava con Franco. Con lei sono cresciuto ancora di più
perché aveva un altro tipo di linguaggio e di scrittura con
i quali mi confrontavo, portandoli a casa mia. Roberta mi
ha dato grandi possibilità di sperimentare formule nuove,
nel bene e nel male: abbiamo fatto Angela (2002), Tano da
morire (1997), Sud Side Stori (2000), Mare nero (2006)
più i cortometraggi. Poi, dopo la separazione con Franco,
è successa una cosa strana: ho accettato di lavorare con i
colleghi, cosa che non avrei fatto in passato per rispetto della
nostra “coppia”, e c’è stato un incontro pazzesco con Marco
Bellocchio. Mi chiamò dalla produzione e mi propose il film
Vincere (2009). Confrontandomi con quella sceneggiatura
avevo un po’ di timore perché era un film abbastanza
complesso per quei tempi e per quel periodo della mia
vita. Poi mi hanno convinto a farlo e da lì, attraverso non
tanto Vincere ma delle persone che ho conosciuto durante
la lavorazione, si sono attivate una serie di situazioni che
mi hanno poi permesso di realizzare È stato il figlio. Mi
sono reso indipendente dalla coppia ma anche Franco lo sta
facendo: ha girato un bellissimo documentario, Belluscone
(2014), e ne sta girando un altro su Franco Scaldati.
Dividendo il tuo lavoro fra la regia dei tuoi film
e la fotografia per altri autori, cos’è che ti dà più
soddisfazione?
È una domanda che mi fanno sempre! Tutte le cose che ti
danno stimoli ed entusiasmo, secondo me, vanno fatte.
Essendo un autore, rimango un tecnico al servizio del mio
collega, non mi permetto mai di mettere bocca, a meno che
non me lo chiedano. Mi piace molto questo ruolo perché mi
stimola, come in passato con Roberta Torre, a fare e avere delle
idee, delle possibilità: questo è il compito dell’autore, avere
stimoli ed entusiasmo. Quando con Franco intervistammo
46
Antonio Margheriti, a microfoni spenti mi disse “io ho
smesso di fare film nel momento in cui mi dicevano:
riunioni, riunioni, riunioni!”: aveva semplicemente perso
l’entusiasmo. Fino ad ora mi trovo bene in questo doppio
ruolo, anche se non mi fa godere la mia casa a Siracusa, e lo
farò finché avrò entusiasmo. Sai, tutto questo non l’ho mai
preso come un lavoro ma come una passione che è nata da
un mestiere: pensa che avevo la passione per il biliardo e l’ho
abbandonata proprio perché avevo capito che il mio hobby
era diventato il mio mestiere, o meglio, la mia malattia.
Vent’anni dopo Lo zio di Brooklyn (1995) a che punto
siamo dell’apocalisse che hai evocato assieme a Franco?
È avvenuta! L’apocalisse era un nostro modo di interpretare
l’abbandono, la psicologia umana. Eravamo ovunque e da
nessuna parte, il nostro era un mondo dopo la guerra, dopo
il disastro, quindi non erano le macerie della fame ma quelle
della vita. Credo che la realtà di oggi ci dia conferma: non
siamo nel mondo in bianco e nero di Cinico Tv però siamo
in un disastro totale. Con Franco abbiamo sempre un po’
anticipato: per esempio al museo di Milano c’è un video
del nostro ciclista (Sbarbato) che dice che Berlusconi si
poteva comprare la Sicilia. Ancora non era in politica ma
noi avevamo anticipato questo suo ruolo. Quel tipo di
post-apocalittico veniva da un amore per il cinema fantasy,
soprattutto degli anni Cinquanta e Sessanta, e il nostro
desiderio è sempre stato quello di fare film di genere però
raccontando, attraverso un luogo astratto, una realtà che poi
era quella del popolo siciliano. Non avevamo le città ma le
periferie e per questo ci dicevano che eravamo pasoliniani:
con tutto il rispetto per Pasolini, sicuramente qualcosa
ricordava il suo cinema ma poi con Totò che visse due volte
(1998) abbiamo concluso quel percorso. Dopo è nato Il
ritorno di Cagliostro (2003) che è una commedia. Quel
ruolo del post-apocalittico era proprio dovuto al fatto che
noi arrivavamo in televisione da una Luna spezzata in due e
urlavamo vendetta.
Visto che la vostra apocalisse si è avverata ora servirà un
nuovo post-apocalittico.
Non sarò io a dirlo, non sono un predicatore, però siamo
messi male. Ci riprenderemo perché son sempre convinto
che, toccando il fondo, poi risali: questo fa parte della nostra
sicilianità.
Cosa funziona e cosa no nel cinema italiano di oggi?
Il cinema italiano ha avuto dei problemi che non sono
legati all’autore o alle opere in sé. Il cinema in generale sta
avendo seri problemi per quello che riguarda il viaggiare
con l’opera, avere l’immaginario dell’immaginario. Credo
che la nuova generazione si sia persa perché siamo in un
mondo di immagini, quindi andare al cinema è come stare a
casa: si chiudono le tende, si spengono le luci, ma cosa frega
più a tutti! Se i film non incassano, se ne faranno di meno
e questo è un problema, poi però c’è un atteggiamento da
parte di alcuni media di fare un cinema che, secondo me,
ormai ha perso molte stelle: la commedia. Infatti il mio
film La buca, che tanti non hanno apprezzato, è un’anticommedia che, pur raccontando una storia minimale, fa
una riflessione sulla fine del “luogo” del cinema e, infatti,
è una storia claustrofobica. Non l’hanno percepita così ma
come una commedia: l’avesse fatto un americano di sicuro
non avrebbe avuto tutte queste considerazioni. Quelli che
funzionano sono i personaggi che vanno in televisione e che
non è che fanno cinema ma danno degli input ai ragazzini,
un po’ alla maniera di Zelig (1983). Parlavamo all’inizio di
Monicelli e lui raccontava la vita delle persone, come ne La
grande guerra o Un borghese piccolo piccolo (1977) attraverso
storie drammatiche ma che ti facevano sorridere: ecco,
quello è il nostro cinema. Osservando il panorama penso che
ci sia una parte di cinema italiano di grande qualità che sta
cercando di recuperare, con film come Anime nere (2014) o
le opere di Garrone e Sorrentino. Il problema non sono gli
autori ma le sale: il cinema vive nelle sale e non può vivere
solo in televisione o su internet. Lo spettacolo è quello che
mancherà, gli americani lo faranno sempre meglio di noi,
permettendo così a questa generazione di evadere.
Sei molto legato al film di Matteo Garrone, Il racconto
dei racconti (2015)?
Il suo film è il contrario di questo spettacolo perché è un
ritorno alla fiaba. Quando l’ho visto ho pensato che tutte
le critiche fossero stupide perché è un film che rielabora il
cinema che noi abbiamo fatto, soprattutto quello di genere.
Sicuramente Matteo la pagherà perché quando fai un film
di evocazione te la fanno pagare, come è successo a me. Il
cinema non è in crisi di autori ma economica.
Nel documentario su Monicelli, a un certo punto lui dice
che sulla lapide vorrà scritto “muoiono solo gli stronzi”.
Sei d’accordo?
Sono un pessimista, parlo sempre della morte ma mi prendi
alla sprovvista. Monicelli diceva “una volta morto voglio
fare quello che non ho potuto fare prima, cioè mandare tutti
a cagare” o come dico io in È stato il figlio “ita a fari tutti
‘nto culu!”. È difficile rispondere, diciamo che mi rifaccio a
Mario.
A cura di Michele Galardini, 21 maggio 2015
47
GENTE FELICE - BENVENUTO,
ONOREVOLE!
Nel piccolissimo paese di Cerchiano (600 abitanti), la
popolazione è scossa da un’annosa questione: manca il
cimitero. I morti infatti vengono sepolti nel capoluogo
Capoduro, distante ben 16 chilometri. Una situazione
insostenibile in particolar modo per il factotum Tanino, che si
rivolge ad un onorevole del luogo per la concessione delle tanto
agognate autorizzazioni, ma c’è un problema: Cerchiano ha
un tasso di mortalità troppo basso, per legge non è possibile
costruire un camposanto. A meno che, nel minor tempo
possibile, un vegliardo non passi a miglior vita, raggiungendo
così il fatidico quorum dei trenta decessi richiesti.
D
Regia: Mino Loy; Soggetto: Giuseppe Loy Donà; Sceneggiatura:
Mino Loy, Adriano Baracco, Roberto Nardi; Fotografia: Amerigo
Gengarelli; Montaggio: Pino Giomini; Scenografia: Gianfranco
Marinoni; Musiche: Carlo Innocenzi; Produzione: Mondial Film;
Distribuzione: Titanus; Origine: Italia 1957; Durata: 80’
Interpreti: Arturo Bragaglia (Tanino), Lorella De Luca (Gioia),
Giulio Paradisi (Paolo), Walter Nazareno (Roberto), Scilla
Gabel (Gina), Memmo Carotenuto (don Luigi), Alberto Plebani
(onorevole), Armando Annuale (Anselmo “Cicoria” Maggio),
Amalia Pellegrini (signora Troina), Mario Riva (Francesco),
Riccardo Billi (Vincenzo), Pina Gallini (Rosalia), Renato Chiantoni
(Gabriele Troina), Luciana Paoli (Lidia), Carlo Mariotti (Matteo
Pasqua)
48
ell’esordio alla regia di Mino Loy (all’epoca
appena 24enne) nel corso degli anni si sono perse
progressivamente le tracce, fino a renderlo un piccolo cult
cinematografico non solo praticamente irreperibile ma
anche poco e male ricordato. I motivi di cotanta “amnesia
collettiva” non sono univoci, e sono frutto di svariate e
poco favorevoli congiunzioni produttive. Una buona
parte dell’oblio accumulato dal film deriva addirittura
dal suo stesso titolo: pare infatti che al momento della
schedatura al Pubblico Registro Cinematografico (attivo
dal 1944) l’opera venne indicizzata come L’incredibile
attesa, salvo poi diventare al momento dell’uscita in
sala Gente felice e passare in una successiva riedizione al
definitivo (?) Benvenuto, onorevole! Oggi, il lavoro di Loy
viene ricordato con entrambe le ultime due intitolazioni,
mentre la primigenia “incredibile attesa” è svanita nel
nulla. Eppure, è proprio di una grottesca e tragicomica
aspettativa che si parla nel film: tutto ruota attorno alla
“liberatoria” morte di un abitante del villaggio montano
di Cerchiano, evento che favorisce una ridda di assurde
conseguenze. A partire dalla bravura del giovane medico
Paolo, vista come sciagura – tutti gli ottuagenari godono di
ottima salute grazie a lui – invece che come dono propizio,
fino all’ansia (verrebbe da dire “da prestazione”) della
popolazione che scatena litigi e incomprensioni sulla caccia
al morituro. Come si evince da questi pochi indizi, siamo
dalle parti della commedia – che in alcuni gustosi sketch
sfocia persino nella comicità pura –, venata però da una
tendenza connaturata all’umorismo nero piuttosto insolita
per l’epoca: “L’idea iniziale che ha dato origine a questo
film è senz’altro buona e piuttosto fuori dall’ordinario”
(Ettore Fecchi, Intermezzo, 15 agosto 1957). Il merito è
da attribuire principalmente al sopraccitato Mino Loy, che
con Gente felice sembra sperimentare i tratti caratteristici
che ne costituiranno la futura carriera. Una carriera che ben
poco avrà a che fare col registro strettamente umoristico:
nei vent’anni successivi all’esordio (l’ultima regia, Questo
sporco mondo meraviglioso, risale al 1971, mentre l’attività
di produttore è proseguita fino al 2008, con L’allenatore
nel pallone 2) l’autore di origini sarde si dedicherà perlopiù
ai Mondo Movies (sottogenere che colpisce lo spettatore
mescolando documentario e immagini scioccanti, il cui
alfiere indiscusso è Mondo cane, 1962, del trio JacopettiCavara-Prosperi) e agli spaghetti western. Con Benvenuto,
onorevole!, quindi, siamo di fronte ad un’eccezione, ad
un’anomalia, che tuttavia contiene paradossalmente in
nuce tutte le peculiarità che regaleranno la popolarità a
Loy (e che faranno dimenticare questa sua prima prova nel
lungometraggio). A completare e incorniciare le lievi e al
contempo macabre peripezie del film, le misurate musiche
di un altro “sommerso” del cinema italiano che merita di
essere ricordato: Carlo Innocenzi, compositore attivissimo
dagli anni Quaranta agli anni Sessanta, sodale di Mario
Mattoli e Aldo Fabrizi, di Riccardo Freda e Luciano
Emmer, di Camillo Mastrocinque e financo di Lucio Fulci.
Se di Gente felice (o Benvenuto, onorevole! che dir si voglia)
troppo poco si è parlato in questi anni, non ne va tuttavia
sottovalutata l’influenza, tramandata nel corso dei decenni
e arrivata fino ai giorni nostri: vedere per credere l’epopea
del Pinuccio Lovero (Sogno di una morte di mezza estate,
2008; Yes I Can, 2014) di Pippo Mezzapesa, luminoso
esempio di come la realtà possa a volte superare di slancio
la finzione.
Filippo Zoratti
49
CHE FINE HA FATTO TOTò BABY?
Totò e Pietro sono due fratelli dai caratteri opposti, tiranno
il primo, succube il secondo. Vivono di espedienti, soprattutto
di furtarelli: un giorno rubano una valigia in cui scoprono
esserci un cadavere, che decidono di abbandonare in
campagna. Durante il tragitto in macchina scambiano
la valigia con quella di due autostoppiste tedesche: per
recuperarla penetrano nella villa dove sono ospiti le due
ragazze e un gruppo di fumatori di marijuana. Per sbaglio,
Totò fa una scorpacciata di droga e, impazzendo, commette
omicidi surreali.
Regia: Ottavio Alessi [e Paolo Heusch, non accreditato];
Soggetto: Ottavio Alessi, Bruno Corbucci, Giovanni Grimaldi;
Sceneggiatura: Ottavio Alessi, Bruno Corbucci, Giovanni
Grimaldi; Fotografia: Sergio D’Offizi; Montaggio: Licia Quaglia;
Scenografia: Nedo Azzini; Costumi: Nedo Azzini; Musiche:
Roman Vatro [Armando Trovajoli]; Produzione: P.C.M.
[Produzioni Cinematografiche Mediterranee]; Distribuzione:
Cineriz; Origine: Italia 1964; Durata: 110’
Interpreti: Totò [Antonio de Curtis] (Totò Baby), Pietro De Vico
(Pietro), Mischa Auer (barone Mischa), Ivy Holzer (Helga),
Alicia Brandet (Inge), Gina Mascetti (moglie di Mischa),
Mario Castellani (direttore dell’orfanatrofio), Alvaro Alvisi
(commissario di polizia), Peppino De Martino (maresciallo dei
carabinieri), Stelvio Rosi, Paolo Giusti, Edy Biagetti, Olimpia
Cavalli (ospiti della villa), Renato Montalbano (postino)
50
I
l film di Alessi (in realtà diretto da Paolo Heusch, ma
non accreditato per problemi personali con la giustizia)
è una specie di parodia di Che fine ha fatto Baby Jane?
(1962) di Aldrich, a cui si rifanno l’incipit e il finale, oltre
ad alcune scene che ne ricalcano lo scheletro del plot.
Rimane una delle poche pellicole anomale per “il Principe
della risata”, dopo le venature giallo/thriller di Totò
Diabolicus di due anni prima. Totò, infatti, qui diventa un
personaggio totalmente negativo che gioca, come sempre,
con una mimica caratteristica ma la applica alla follia e
alla violenza. Se nella prima parte si ripetono alcuni tòpoi
delle commedie classiche, tra cui la spalla comica ridotta
a vittima (in questo caso De Vico) e gli spassosi giochi di
parole, una volta arrivati alla villa le cose cambiano. Lo
humour passa ad argomenti più seri e inconsueti per gli
anni in cui è stata girata la pellicola, un cambio di registro
dettato dalla materia trattata, che si può ben pensare possa
aver “scioccato” gli spettatori dell’epoca. Tutto ciò può
essere compreso se si pensa alla virata surrealista in cui
si piomba nella seconda parte del film, così lontana dalla
verosimiglianza cabarettistica, a favore invece dell’elogio
dell’assurdo. Una sfida vinta grazie al mestiere. Si propone
allo spettatore una commedia che, pur mantenendo gli
attributi classici, può far ragionare anche su argomenti
profondi. E così, sbeffeggiando le comunità in voga
negli anni Sessanta tutte “sesso, droga e rock’n’roll”, si
sottolinea la digressione a cui portano i comportamenti
deviati e alterati. Totò mangiando le foglie di marijuana
non si sballa, ma impazzisce e commette degli omicidi:
una sorta di tipico ammonimento paternalistico, nonché
(involontaria?) parodia di quel Reefer Madness (Louis J.
Gasnier, 1938) che negli anni è diventato manifesto del
più becero, didascalico e reazionario proibizionismo verso
le “nuove” droghe. Totò poteva essere, grazie anche alle
sue doti interpretative, il perfetto testimonial per questa
battaglia e, anche se la critica dell’epoca lo denigrò, non si
può che riconoscerne la brillante crudeltà interpretativa.
Alessi, o chi per lui, non interferisce in alcun modo con
i suoi personaggi, se non dilatando in alcuni punti le gag
quasi slapstick con artifici di montaggio. Si parla di morte
e di essa si ride, ma soprattutto la si collega anche al sesso,
come spesso accade nelle narrazioni di genere. I due fratelli
sono spinti a entrare in villa alla ricerca sì della valigia
scambiata, ma anche delle due avvenenti tedesche. Almeno
tre degli omicidi sono finalizzati e infarciti di morbosità:
il conte Mischa Auer fa morire di crepacuore la moglie
per potersi godere la “vacanza” con le bionde teutoniche,
e loro, nell’atto di morire, sono svestite e giocano ad
ammiccare al loro omicida. Un rapporto confidenziale che
portò a vietare il film ai minori di 14 anni. Una piccola
postilla merita anche la gestualità utilizzata da Totò per
imitare Bette Davis, fatta tutta di occhi sgranati, ghigni
sinistri e amplificazioni delle torture che fa patire al povero
fratello infermo Pietro. Una raffigurazione che può ancora
insegnare qualcosa a chi oggi, soprattutto nel cinema
americano, si appresta a parodiare le pellicole di successo,
fallendo miseramente.
Andrea Moschioni Fioretti
51
LA DONNA SCIMMIA
Antonio Focaccia vive di espedienti, ma un giorno incontra
Maria, una ragazza che ha il corpo completamente coperto di
peli. Riesce a convincerla a esibirsi in un bizzarro spettacolo
come donna scimmia, con grande successo, e per assicurarsi di
non perdere la preziosa fonte di guadagno, Antonio la sposa.
Dopo aver entrambi accettato un lavoro a Parigi, Maria si
accorge di attendere un figlio. Tornati a Napoli, durante il
parto madre e figlio muoiono. Antonio mostrerà i due corpi
imbalsamati nel solito spettacolo da baraccone.
I
Regia: Marco Ferreri; Soggetto: Rafael Azcona, Marco Ferreri;
Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri; Fotografia: Aldo
Tonti; Montaggio: Mario Serandrei; Scenografia: Mario Garbuglia;
Costumi: Piero Tosi; Musiche: Teo Usuelli; Produzione: Compagnia
Cinematografica Champion, Les Films Concordia, Cocinor, Les
Films Marceau; Distribuzione: Intercine; Origine: Italia/Francia
1964; Durata: 92’
Premi: Nastri d’Argento (1965): Miglior Soggetto (Marco Ferreri)
Interpreti: Ugo Tognazzi (Antonio Focaccia), Annie Girardot
(Maria), Achille Majeroni (Majoroni), Filippo Pompa Marcelli
(Bruno), Ermelinda De Felice (Sorella Furgonicino), Elvira Paolini
(Cameriera), Ugo Rossi (Ponszoner)
52
l cinema del Ferreri della prima metà dei Sessanta è
un cinema senza ombra di dubbio trasversale. Lo è in
quanto non dispone il suo sistema stilistico in una sola
dimensione, ma cerca di tastarne con grande capacità
almeno due. È un cinema che si colloca infatti tra realismo
e leggiadro surrealismo, tra naturalismo e grottesco. Come
è stato giustamente scritto, “sviluppando all’estremo una
situazione comune, Ferreri mostra come la vita quotidiana
sia immersa in una sorta di fantascienza ordinaria.
Inquietante nella sua familiarità, nel suo riempire lo schermo
di mostri quotidiani, [il suo cinema] funziona come un
sistema tra i più coerenti e si muove come un’astronave su
una quota differente rispetto a quella tenuta da tutti gli
altri autori coevi” (Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano
contemporaneo. Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Laterza,
Roma-Bari 2007). La storia di Antonio e Maria diventa
così la perfetta esemplificazione di tutto ciò: in quello che
è essenzialmente una sorta di divertissement neorealista, si
innestano forti dosi di bizzarro, di curioso, di bislacco, che
fanno lentamente perdere al film – soprattutto nelle sue
sfumature – il contatto con il suo referente reale. Sta allora
sicuramente nella costruzione dei due personaggi principali
la caratteristica più interessante de La donna scimmia, nel
suo riuscire a contenerli in qualche modo sempre con
una notevole dose di ambiguità. Antonio infatti sfrutta
Maria ma, con il trascorrere del tempo, riesce a dare quasi
l’illusione di volerle un bene sincero; nelle lacrime versate
immediatamente dopo la morte della moglie a causa del
parto, c’è una sorta di strana affezione, quasi autentica, che
poi naturalmente si dimostrerà falsa e dunque apparente,
ma che in quel momento riesce perfettamente a ingannare lo
spettatore e a trascinarlo, anche se brevemente, in uno spazio
dalle sembianze onestamente drammatiche. Lo stesso vale
per Maria: è timida, scontrosa e schiva, ma nella scena dello
spogliarello nel cabaret francese, la sua sensualità esplode
più prorompente che mai. Ferreri comprende benissimo
che per rendere una storia simile avvincente e allo stesso
tempo malsana, bisogna agire sui dettagli impercettibili,
sugli aspetti non immediatamente visibili, sul non detto o
sul non rivelato. Cerca perciò logicamente di giocare tutto
questo sul campo dei caratteri dei personaggi, dimostrando
di riuscirci come pochi altri hanno saputo fare prima di
lui. Il film in Francia fu montato con un finale differente,
nel quale Maria perde la peluria, salva il figlio e Antonio
è costretto a trovarsi un lavoro per mantenere tutta la
famiglia. Questo però non è il cinema di Ferreri, perché i
dubbi, le confusioni e le ambiguità – quelle appunto di cui
parlavamo prima – si dimostrano una solida impalcatura
che fin dall’inizio è pensata dal regista milanese come
qualcosa da distruggere. Il finale della versione italiana
(quello voluto dallo stesso Ferreri) è costruito e concepito
proprio per far cadere tutte quelle minime certezze che lo
spettatore credeva ingenuamente di essersi “guadagnato”,
per demolire insomma quei caratteri ambigui che lo
tenevano ancora in sospeso facendogli sperare che tutto, in
qualche maniera, avrebbe avuto un lieto fine. Ma così non
è: il film si chiude con la donna e il bambino imbalsamati
e resi ennesimo spettacolo da baraccone; lo spettatore però
non potrà vederli, dimostrando quanto Ferreri sia stato
uno dei pochi ad aver compreso l’essenza primigenia del
più spietato tra i gesti che il cinema possa compiere: quello
del non mostrare.
Gabriele Baldaccini
53
IL FISCHIO AL NASO
Giuseppe Inzerna è un grosso industriale che opera nel settore
della carta. Negli ultimi tempi, il suo lavoro è reso difficile da
un fastidioso fischio al naso che accompagna ogni suo respiro.
Stanco di questa situazione, Giuseppe si reca in una prestigiosa clinica privata dove il fischio è curato rapidamente ma
i dottori gli diagnosticano una grave malattia e lo spostano
in un reparto differente. Nuove complicazioni intervengono
ogniqualvolta la condizione di Giuseppe sembra migliorare
e l’industriale rimbalza da un piano all’altro della clinica,
perdendo sempre più i contatti col mondo esterno.
Regia: Ugo Tognazzi; Soggetto: tratto dal racconto Sette Piani
di Dino Buzzati; Sceneggiatura: Alfredo Pigna, Giulio Scarnicci,
Renzo Tarabusi, Ugo Tognazzi, Rafael Azcona; Fotografia: Enzo
Serafin; Montaggio: Eraldo Da Roma; Scenografia: Giancarlo
Bartolini Salimbeni; Costumi: Emilio Pucci; Musiche: Teo Usuelli;
Produzione: Sancro International; Distrubuzione: Cineriz; Origine:
Italia 1967; Durata: 113’
Premi: Premio Saint-Vincent per il Cinema Italiano (1967): Grolla
d’Oro (Ugo Tognazzi)
Interpreti: Ugo Tognazzi (Giuseppe Inzerna), Tina Louise (Dr.
Immer Mehr), Olga Villi (Anita), Alicia Brandet (Gloria Inzerna),
Franca Bettoja (Giovanna), Gildo Tognazzi (Gerolamo Inzerna),
Gigi Ballista (dottor Claretta), Marco Ferreri (dottor Salamoia),
Riccardo Garrone (il barbiere), Alessandro Quasimodo (Roberto
Forges), Cesare Gelli (dottor Paul Denning), Federico Valli (dottor
Naga), Ermelinda De Felice (suora del sesto piano)
54
R
icco, laborioso e dalla mentalità pragmatica, Giuseppe
Inzerna è un dirigente di nuova concezione, quasi fantascientifico. Ha una moglie e una figlia bellissime e sfreccia su un’auto sportiva mentre la sua segretaria gli elenca
gli appuntamenti della giornata. La sua compagnia vende
prodotti usa e getta perché essi generano una domanda
continua e inesauribile, infatti sta tentando di ampliare il
proprio mercato brevettando biancheria e lenzuola fatte
di carta. Inzerna sarebbe un vero superuomo capitalista
se non avesse il volto italianissimo di Ugo Tognazzi, con
tutte le sue movenze ilari e piene di umanità. È il 1967 e la
commedia all’italiana è già una creatura politicizzata, dominata com’è dai mattatori che fanno ridere con amarezza.
Il fischio al naso è la seconda regia di Ugo Tognazzi, che
tenta la difficile impresa di adattare un racconto di Dino
Buzzati. Ci riesce abbastanza bene, alleggerendo i toni
drammatici e scegliendo una regia senza pretese particolari. Nonostante i temi trattati, Il fischio al naso è un film
popolare e molto legato ai suoi tempi, soprattutto da un
punto di vista formale. Inzerna si ritrova in ospedale quasi
per caso, in un momento di pausa tra un impegno e l’altro.
Non ne uscirà più perché rimarrà impigliato nelle maglie di
un sistema kafkiano. Libero di andarsene quando vuole ma
a discapito della propria salute, Inzerna tenta una morbida
ribellione, poi comincia a sentirsi male per davvero e s’indebolisce come per magia. Nel frattempo, i membri della
sua famiglia, fino allora succubi della sua figura autoritaria,
acquistano nuove forze e prendono in mano l’azienda togliendola dal controllo del patriarca. A Inzerna questo non
interessa perché è ormai l’ombra di un uomo. Egli pende
dalle labbra dei dottori che lo fanno rimbalzare da un reparto all’altro in un susseguirsi di diagnosi contraddittorie.
Quel che è certo è che Inzerna si avvicina sempre più al fatidico ultimo piano, dal quale non si fa ritorno. Il fischio al
naso è un film esistenzialista ma (relativamente) leggero. È
anche un incubo kafkiano ma continuamente stemperato
dall’anima comica di Tognazzi e dalle musiche beat di Teo
Usuelli. Il film è un campo di battaglia tra le due anime della
commedia all’italiana, quella comica e quella di commento
sociale (quest’ultima sembra avere la meglio; la presenza
tra gli attori di Marco Ferreri non è casuale). L’introduzione di alcuni elementi fantascientifici va ad alimentare il
senso del grottesco e dell’onirico che caratterizzano il film
di Tognazzi, oltre a visualizzare, grazie all’iperbole, gli esiti
del neocapitalismo sfrenato che già alimentavano gli incubi
dell’Italia negli anni Sessanta. Si tratta di elementi tipici di
un certo cinema italiano socialmente attivo, si guardi, ad
esempio, La morte ha fatto l’uovo (Giulio Questi, 1968).
Il fischio al naso sfiora una grande quantità di temi sensibili
ma non perde la propria identità di commedia divertente e
commerciabile. È comunque un’ottima prova per il regista
Tognazzi che, al secondo film, ha scelto un adattamento
tutt’altro che facile.
Stefano Lalla
55
BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI
Migrante pugliese alla periferia di Roma, Giacinto
Mazzatella vive con la famiglia tra le baracche delle
borgate. Despota avido e violento, provvede ogni giorno a
nascondere ai parenti il milione riscosso per la perdita di un
occhio. Quando impone loro anche la presenza dell’amante
prostituta, moglie e figli complottano di ucciderlo con mezzo
chilo di veleno per i topi. Italia reietta e lasciata a se stessa,
che si trascina nell’indifferenza a pochi passi dal boom
economico.
Regia: Ettore Scola; Soggetto: Ruggero Maccari, Ettore Scola;
Sceneggiatura: Ruggero Maccari, Ettore Scola; Fotografia:
Dario Di Palma; Montaggio: Raimondo Crociani; Scenografia:
Luciano Ricceri, Franco Velchi; Costumi: Danda Ortona; Musiche:
Armando Trovajoli; Produzione: Champion Cinematografica;
Distribuzione: Gold Film; Origine: Italia 1976; Durata: 115’
Premi: Festival di Cannes (1976): Miglior Regia (Ettore Scola)
Interpreti: Nino Manfredi (Giacinto), Francesco Anniballi
(Domizio), Maria Luisa Santella (Iside), Maria Bosco (Gaetana),
Giselda Castrini (Lisetta), Franco Merli (Fernando), Giancarlo
Fanelli (Paride), Ettore Garofolo (Camillo), Luciano Pagliuca
(Romolo), Linda Moretti (Matilde), Giuseppe Paravati (Tato),
Francesco Crescimone (commissario), Alfredo D’Ippolito
(Plinio), Adriana Russo (Dora), Clarisse Monaco (Tommasina),
Zoe Incrocci (madre di Tommasina)
56
A
ll’inizio è un rantolio indistinto di grugniti. Un
affannarsi sordo e gutturale, come quello di bestie
spaventose. Poi la macchina da presa svela una matassa
oscura, quasi un unico corpo mostruoso con volti e
membra ammassati nel buio. I vagiti di un neonato
ne sovrastano il russare. Scola, i Mazzatella, li presenta
così. Un po’ animali stipati nel recinto, un po’ dannati
affossati nel Girone. E sopra tutti lui, il guercio Giacinto,
pater familiae armato di fucile con la protervia di un
perfido Caronte. L’inferno è quello fin troppo reale delle
borgate dei primi anni Settanta, di quella Roma misera
e dimenticata a un passo dal San Pietro che si staglia
sullo sfondo. L’Italia degli ultimi e dei migranti, quel
campionario di (dis)umanità abbrutita dai morsi della fame
e dagli agi di un boom economico che ammiccano lontani
come sogni indecenti. Non stupisce che Brutti, sporchi e
cattivi abbia avuto un’accoglienza controversa, accusato,
al momento dell’uscita, di aver dipinto il sottoproletariato
attraverso una lente deformante, volta a esaltarne i tratti
più abietti con impietoso compiacimento. Ma la critica
sociale di Scola non avrebbe avuto la stessa portata senza
il filtro di un cinismo grottesco, scevro dai freni della
retorica. La bruttezza amorale dei protagonisti, lontana
dall’innocenza dei poveri di Pasolini o dalla nobiltà di
quelli di Zavattini e De Sica, ricorda piuttosto il Buñuel
di Viridiana (1961) o de I figli della violenza (1950).
Ritratto scomodo e poco edificante di una migrazione
tutta italiana, il film mette a fuoco le conseguenze di una
condizione di totale abbandono. Nel feroce squallore
dell’accampamento non può brillare magnanimità, non
perché la brutalità sia appannaggio delle classi indigenti
(si pensi, dieci anni prima, a I mostri di Dino Risi),
semmai perché qui si manifesta al netto di affettazione
e ipocrisie. I “brutti e cattivi” di Scola non dissimulano
affatto le meschine perversioni. Anzi, se ne fanno scudo,
come Giacinto con il fucile, ossessionato dalla paranoia
che i parenti si approprino del suo milione. In questo
passato così vicino, che l’Italia ha relegato al rimosso, non
c’è speranza di salvezza per la comunità che brulica tra
le baracche e la distanza delle istituzioni si rivela in tutta
la sua inadeguatezza: dalla pensione della nonna presto
dispersa tra mille nipoti ai soldi dell’assicurazione negati e
nascosti dal capofamiglia, dal commissario che suggerisce
a Giacinto di eliminare tutti i parenti ai programmi
educativi della Rai destinati a “emancipare” soltanto la
vecchia. La sommità del colle che ospita le famiglie è uno
spaccato di sconfortante degrado, dove i protagonisti
arrancano a fatica senza peraltro riuscire ad affrancarsene
(“La via di casa la ritrovano sempre...”). Nel quadro
uniforme di mirabile lordume, in cui l’orrore è eletto
a cifra estetica, spiccano gli stivali gialli della bambina-
chioccia. Seguita a ruota dallo stuolo dei più piccoli, che è
solita rinchiudere in una specie di pollaio, è lei ad aprire e
chiudere il film, camminando in bilico sul muretto come
sul baratro del proprio destino.
Lisa Cecconi
57
IL GATTO
Regia: Luigi Comencini; Soggetto: Rodolfo Sonego; Sceneggiatura:
Rodolfo Sonego, Augusto Caminito, Fulvio Marcolin; Fotografia:
Ennio Guarnieri; Montaggio: Nino Baragli; Scenografia: Dante
Ferretti; Costumi: Danda Ortona; Musiche: Ennio Morricone;
Produzione: Rafran Cinematografica; Distribuzione: United Artist
Europa; Origine: Italia/Francia 1977; Durata: 115’
Premi: David di Donatello (1978): Miglior Attrice (Mariangela
Melato)
Interpreti: Ugo Tognazzi (Amedeo Pegoraro), Mariangela Melato
(Ofelia Pegoraro), Michel Galabru (il commissario), Dalila Di
Lazzaro (Wanda Yukovich), Philippe Leroy (don Pezzolla), Jean
Martin (l’avvocato Legrand), Aldo Reggiani (Salvatore), Adriana
Innocenti (la “principessa”), Armando Brancia (il capo della
polizia), Mario Brega (killer con la barba), Pino Patti (il portiere),
Fabio Gamma (guardia del corpo di Garofalo), Franco Santelli (il
brigadiere), Amedeo Matacena (don Vito Garofalo), Nerina Di
Lazzaro (la signora Tiberini), Bruno Gambarotta (Luigi Balestra
Mugnozzo), Luigi Comencini (il vecchio violinista), il gatto Fuffi
58
Amedeo e Ofelia Pegoraro sono due fratelli che hanno
ereditato dal padre un palazzo romano, per il quale
un’impresa ha offerto loro un miliardo di lire, a condizione
però che al momento della vendita non vi abiti più nessuno.
I due cercano in ogni modo di sfrattare i diversi inquilini
che abitano lo stabile, ma proprio quando avranno sloggiato
quasi tutti, il loro gatto verrà ucciso da uno dei condomini
ancora rimasti. Così, ad Amedeo e Ofelia non resta altro da
fare che cercare il colpevole.
Q
uasi completamente ambientato negli interni di un
palazzo romano, Il gatto, prodotto da Sergio Leone
e diretto da Luigi Comencini, unisce commedia, farsa e
giallo per raffigurare una serie di personaggi avidi e amorali,
e realizzare così un ritratto amaro e graffiante di un’Italia
cinica e antietica, concentrata unicamente sui propri
interessi. Se l’atmosfera generale, le singole situazioni
paradossali e i dialoghi spesso frizzanti costituiscono il
carattere umoristico della pellicola, l’intreccio formato
in parte da indagini, spionaggi e omicidi appartiene
sicuramente al giallo. Ma mentre la comicità si evince
fin dall’inizio, la struttura thrilling emerge gradualmente
attraverso il proseguimento della narrazione. Infatti, se
nella prima parte il genere emerge quasi di soppiatto tra
le righe della commedia di costume, nel secondo tempo
la trama poliziesca si fa evidente e preponderante con la
scoperta di intrighi e delitti di varia natura. Un genere di cui
Comencini rispetta anche alcuni particolari (inseguimenti,
morti nel bagagliaio, sparatorie, ecc.), ma avvolgendoli
sempre in un’atmosfera comica e quasi farsesca, volutamente
paradossale e sopra le righe, realizzandone così una sorta di
parodia. E anche i due gruppi investigativi presenti nel film
risultano volutamente poco credibili: da un lato vi è quello
ufficiale della polizia che viene continuamente sbeffeggiato
in quanto pigro e spesso poco incisivo, mentre dall’altro vi
è quello borderline di Amedeo e Ofelia, che invece prende
l’iniziativa e guida le investigazioni. Ma i due protagonisti
sono dei detective a dir poco sui generis, non solo e non
tanto perché si detestano tra di loro e non hanno nessun
titolo riconosciuto per svolgere le indagini, ma soprattutto
per i motivi e lo sguardo che guidano le loro azioni. I due
personaggi non agiscono né per giustizia né per vendetta
ma unicamente per pura avidità e utilità pratica, e il loro
sguardo non è né disgustato né rassegnato ma soltanto
cinico e amorale, indifferente a ciò che sta succedendo
sotto i loro occhi. Ed è proprio in tale aspetto che si cela il
carattere più amaro e pessimista dell’opera. Se le indagini
servono a rivelare i vizi più o meno gravi e più o meno
illegali dei diversi inquilini, i protagonisti che li scoprono
sono altrettanto sgradevoli e disonesti, mossi soltanto da
desideri materiali e carnali. In tale pellicola (quasi) tutti si
odiano e (quasi) nessuno si salva: non i poliziotti incapaci;
non i vicini criminali; nemmeno i protagonisti odiosi e
amorali, che non casualmente vengono interpretati in
modo farsesco da Mariangela Melato e Ugo Tognazzi.
Infatti, il secondo è autoironico a partire dall’aspetto
fisico (esilaranti i bigodini con cui entra in scena e la
poco credibile capigliatura riccioluta) e la prima ha degli
atteggiamenti volutamente teatrali e sopra le righe. A metà
strada tra farsa, commedia e thriller, Il gatto non solo fa un
omaggio e una parodia a un genere (il giallo), ma unisce la
sua tipica struttura narrativa ai toni sarcastici e ai significati
profondamente amari della commedia all’italiana, proprio
in un periodo (la fine degli anni Settanta) in cui questa
stava tramontando.
Juri Saitta
59
MORTACCI
In un cimitero, dove il custode ruba alle salme i beni
preziosi, le anime dei defunti si incontrano nell’oscurità,
per raccontarsi le loro storie. Un soldato ammazzato dai
compaesani che lucravano sulla sua memoria, credendolo
morto in missione. Un’attrice uccisa per errore dal compagno,
che ogni notte la va a trovare sulla tomba. Un playboy morto
al mare per una congestione. Un americano il cui corpo viene
trasportato per sbaglio in Italia. Due ladri investiti da un
treno. E il marchese del Grillo, reso immortale dai proverbi
che ha inventato.
P
Regia: Sergio Citti; Soggetto: Sergio Citti; Sceneggiatura: David
Grieco, Vincenzo Cerami, Ottavio Jemma, Sergio Citti; Fotografia:
Cristiano Pogány; Montaggio: Ugo De Rossi; Scenografia: Mario
Ambrosino; Costumi: Mario Ambrosino; Musiche: Francesco De
Masi; Produzione: Unione Cinematografica; Distribuzione: Warner
Bros. Italia; Origine: Italia 1989; Durata: 108’
Interpreti: Vittorio Gassman (Domenico), Carol Alt (Alma
Rossetti), Malcolm McDowell (Edmondo), Galeazzo Benti
(Tommaso Grillo), Mariangela Melato (Jolanda), Sergio Rubini
(Lucillo Cardellini), Nino Frassica (la guida), Aldo Giuffrè
(l’impresario di pompe funebri), Andy Luotto (Scopone), Alvaro
Vitali (Torquato), Eraldo Turra (Felice), Luciano Manzalini
(Giggetto), Donald O’Brien (Archibald Williams), Michela Miti (la
barista), Gina Rovere (Ada)
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rogetto rimasto a lungo in sospeso, perché poco
vendibile, sin dal titolo, Mortacci è un film in cui
ritornano molte delle caratteristiche più facilmente
riconoscibili del cinema di Sergio Citti. Come in Casotto,
(1977) e come a teatro, i personaggi sono confinati in un
luogo preciso e il film è costruito sulle loro interazioni,
in particolare sulle conversazioni, ricche di comicità e
spiritosaggini. L’influenza della narrazione orale, che già era
evidente nel pasoliniano Storie scellerate (1973), si ritrova
anche in Mortacci, nei flashback introdotti da ciascuno dei
protagonisti, che ricostruiscono, così, le cause della loro
morte. Sono sequenze dal tono eterogeneo: paradossale
quella dell’attore di teatro responsabile, senza volerlo, della
morte della compagna e da allora condannato a infiniti,
fallimentari tentativi di suicidio; inquietante e paranoica,
invece, la vicenda dell’Eroe mandato a morire dagli abitanti
del suo paese, all’unanimità; grondante umorismo nero
il bel duetto Vitali-Giuffrè; farsesca e quasi barzellettiera
nei dialoghi l’assurda e fatale disavventura del cascamorto
inseguitore di veneri callipigie; truffaldinamente
boccaccesche le scene con una danzante Mariangela Melato
e i sornioni Gemelli Ruggeri come finti ciechi. Eppure, non
manca la coesione nel film e Citti conferma la rara qualità
di far sembrare realistiche anche le situazioni sulla carta più
inverosimili. Sarà la sua regia invisibile e classica, da amante
di “un cinema che non distrugge la verità” (Antonio
Maraldi, a cura di, Il cinema di Sergio Citti, Cesena, Centro
Cinema Città di Cesena, 1984). O quel velo di vitalistico
pessimismo per le sorti dell’umanità che il sensibile Citti,
rifiutando le etichette di naïf e moralista, stende con
pietà sulle miserie dei suoi antieroi, morti o ancora vivi,
eternandone le debolezze, senza snobismo, così come si
manifestano spontaneamente nei momenti quotidiani.
Un cinema umanista, di osservazione antropologica e di
grande rigore etico, un “percorso entro e attraverso il nero,
inteso come magma esistenziale, come matrice pulsionale e
germinale delle cose, della natura delle cose, della vita e del
cinema dell’autenticità, nemico delle false idee pretestuose”
(Giuseppe Turroni, “Il cuore della luce”, Filmcritica, n. 394,
aprile 1989). Un cinema alieno già negli anni Settanta, che
nel decennio successivo sembra ancora meno riconciliato,
e più solitario, quasi donchisciottesco nella purezza
cristallina del gesto filmico. Sognato da chissà quale entità,
il mondo alla rovescia dei non morti di Mortacci si offre
come chiara metafora di una civiltà ormai in estinzione,
la nostra. Nel vuoto di valori, nel denaro come unico re,
nell’indifferenza verso la morte, che ha perso ogni sacralità,
Citti identifica i presagi dell’Apocalisse e ci ride sopra.
Soltanto la struttura corale del film, fatta di una cornice
e di tanti racconti, può restituire una parvenza di ordine
a questa materia così caotica e sfuggente. Sulle note di un
boogie woogie, soltanto il cinema, esaltazione non ingenua
della vita in tutti i suoi aspetti, può dare la salvezza.
Francesco Grieco
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PARENTI SERPENTI
Per le vacanze natalizie, una tradizionale famiglia italiana
si ritrova a Sulmona nella casa dei nonni Saverio e Trieste
per i consueti festeggiamenti. Se in un primo momento tutto
sembra andare per il meglio, l’inattesa richiesta da parte dei
genitori anziani di essere ospitati da uno dei figli scatena
un’agguerrita diatriba tra i quattro fratelli Lina, Alfredo,
Milena e Alessandro: nessuno, infatti, vuole farsi carico dei
genitori. Messi da parte i litigi, troveranno insieme una
soluzione poco ortodossa.
P
Regia: Mario Monicelli; Soggetto: Carmine Amoroso;
Sceneggiatura: Carmine Amoroso, Suso Cecchi D’Amico, Piero
De Bernardi, Mario Monicelli; Fotografia: Franco Di Giacomo;
Montaggio: Ruggero Mastroianni; Scenografia: Franco Velchi;
Costumi: Lina Nerli Taviani; Musiche: Rudy De Cesaris;
Produzione: Clemi Cinematografica; Distribuzione: CDI Compagnia
Distribuzione Internazionale; Origine: Italia 1992; Durata: 105’
Premi: Nastro d’Argento (1993): Migliori Costumi (Lina Nerli
Taviani)
Interpreti: Marina Confalone (Lina), Alessandro Haber (Alfredo),
Tommaso Bianco (Michele), Cinzia Leone (Gina), Eugenio
Masciari (Alessandro), Monica Scattini (Milena), Paolo Panelli
(nonno Saverio), Pia Velsi (nonna Trieste), Renato Cecchetto
(Filippo), Riccardo Scontrini (Mauro), Eleonora Alberti (Monica)
62
arenti serpenti rappresenta uno degli ultimi film
inscrivibili nel filone della “commedia all’italiana”, sia
perché diretto da uno dei suoi maestri, sia perché ne rispetta
pienamente lo stile e le caratteristiche principali. Infatti, il
soggetto preso di mira da Monicelli è ancora una volta la
società italiana e, in questo specifico caso, il microcosmo
famigliare. Quest’ultimo ruota attorno ai nonni Saverio e
Trieste i quali ospitano ogni Natale i quattro figli assieme
ai rispettivi consorti e ai due nipotini. E com’è nella
tradizione vengono derisi vizi e difetti degli italiani. Il
film può essere suddiviso in due parti nettamente distinte.
Nella prima si assiste alla presentazione da parte del
piccolo Mauro della sua famiglia, del paese in cui vivono
i nonni (Sulmona) e della loro casa. Seguendo un ordine
ben preciso e consolidato arrivano i vari parenti e, una volta
al completo, essi ripetono gli stessi “rituali” di ogni anno.
I chiacchiericci tra sorelle e cognata, la cena della Vigilia,
la Tombola, la Messa di mezzanotte, lo scambio dei regali,
ecc. Tutte tradizioni tipiche che ogni italiano ha vissuto
nella sua esistenza. L’impressione che si ha è quella di una
famiglia unita e amorevole soprattutto verso i due anziani,
anche se non mancano le invidie e le rivalità tra parenti.
In poche parole, la classica famiglia italiana. E ciò è ancor
più vero se si prende in considerazione la seconda parte del
film. Il clima di festa che pervade la reunion famigliare è
improvvisamente interrotto dalla richiesta di nonna Trieste
di esser ospitata assieme al marito presso uno dei figli, in
quanto loro ormai troppo avanti con l’età per vivere da
soli. E qui cade il palco. Tutto l’amore che i figli provano
nei confronti dei genitori si sgretola all’idea di doversi far
carico di loro, e nasce una serie di diatribe inconcludenti
tra i fratelli su chi debba assumersi tale responsabilità.
Ecco che saltano fuori vecchi rancori e si svelano segreti:
come l’omosessualità di Alfredo e il rapporto clandestino
tra i cognati Gina e Michele. Tutto il veleno possibile e
immaginabile sgorga dalla lingua di questi parenti serpenti,
ognuno interessato ad uscirne vincitore e scaricare il barile
addosso agli altri. Come ogni commedia all’italiana che si
rispetti, se l’intero film mantiene un registro prioritariamente
comico, il finale assume toni maggiormente tragici o, più
appropriatamente, grotteschi. Infatti, grazie ad una tragica
notizia appresa al telegiornale, figli e consorti si accordano
all’unanimità e trovano l’unica soluzione possibile: togliere
di mezzo i genitori! E far sembrare il tutto un malaugurato
incidente. Lo stile del film è piuttosto semplice poiché il
tutto deve essere in funzione della vicenda rappresentata –
sempre straordinariamente attuale –, la quale è raccontata
dall’innocente voice over del nipote che assiste impotente
agli accadimenti e che, al termine delle vacanze natalizie,
deve fare un tema scolastico proprio su quanto accaduto.
Con Parenti serpenti Monicelli compie una dissacrazione
della famiglia italiana frantumando l’apparenza di amore
e fratellanza ed evidenziando la meschinità dei suoi vari
componenti, soprattutto dei figli nei confronti dei genitori.
Del resto è sempre stato così: l’amore verso i primi da parte
dei secondi non è mai pienamente ricambiato.
Alex Tribelli
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È STATO IL FIGLIO
Regia: Daniele Ciprì; Soggetto: Daniele Ciprì, Massimo Gaudioso
(dall’omonimo romanzo di Roberto Alajmo); Sceneggiatura:
Daniele Ciprì, Massimo Gaudioso, Miriam Rizzo; Fotografia:
Daniele Ciprì; Montaggio: Francesca Calvelli, Alfredo Alvigini;
Scenografia: Marco Dentici; Costumi: Grazia Colombini; Musiche:
Carlo Crivelli; Produzione: Passione, Babe Films, Rai Cinema,
Palomar; Distribuzione: Fandango; Origine: Italia 2011; Durata:
90’
Premi: Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
(2012): Premio Osella per il Migliore Contributo Tecnico
(Daniele Ciprì), Premio Marcello Mastroianni per l’Attore
Emergente (Fabrizio Falco); Globi d’Oro (2013): Miglior Regia
(Daniele Ciprì)
Interpreti: Toni Servillo (Nicola Ciraulo), Giselda Volodi
(Loredana Ciraulo), Fabrizio Falco (Tancredi Ciraulo), Aurora
Quattrocchi (nonna Rosa), Benedetto Raneli (nonno Fonzio),
Alfredo Castro (Busu), Piero Misuraca (Masino), Alessia
Zammitti (Serenella Ciraulo), Mauro Spitaleri (avvocato Modica)
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In una desolata periferia di Palermo immersa nel cemento
vivono i Ciraulo: padre, madre, due figli e nonni al seguito.
Il capofamiglia Nicola tenta come può di barcamenarsi
recuperando ferri vecchi dalle navi in disarmo, lamentando
lo scarso aiuto del primogenito, ragazzo timido e svampito.
Un giorno un proiettile vagante uccide la piccola di casa,
Serenella. In seguito all’evento si prospetta un risarcimento
milionario da parte dello Stato: la famiglia, lavando il
dolore col denaro, si prepara a una nuova vita, ma nulla
andrà come previsto.
D
opo il pluriennale sodalizio artistico con Franco
Maresco, dalla televisione – gli sketch di Cinico
TV (1992) al cinema – Lo zio di Brooklyn (1995), Totò
che visse due volte (1998), e una brillante carriera da
direttore della fotografia, Daniele Ciprì esordisce da
solo al lungometraggio con È stato il figlio, dal romanzo
omonimo di Roberto Alajmo. Nel tratteggiare la famiglia
protagonista, Ciprì dà libero sfogo alla sua feroce ironia:
dal nonno che racconta solo storielle dialettali, passando
per l’inerte figlio Tancredi, succube della personalità
paterna e preoccupato solo del funzionamento del vecchio
televisore, alla madre, casalinga lamentosa, prona al volere
e agli umori del marito. Nella galleria di figure grottesche
spiccano soprattutto il capofamiglia Nicola, la nonna
Rosa e l’affettato e laido usuraio cui si rivolgono i Ciraulo,
oberati dai debiti dopo aver speso, ancora prima di
riceverlo, parte del risarcimento in seguito alla sciagurata
morte “per mafia” della figlia piccola. Al primo dà forma
Toni Servillo, dalla perfetta cadenza siciliana, a suo agio
nello spingere sul pedale del grottesco sbizzarrendosi in un
campionario di espressioni facciali irresistibili e riuscendo
a rendere il suo personaggio un concentrato di bassezze
e squallore che, pur essendo l’unico a lavorare in casa, è
causa ottusamente inconsapevole della rovina di quella
stessa famiglia che conta per lui (solo apparentemente) più
di ogni cosa. Poi la nonna, figura inizialmente secondaria
che diventa a sorpresa fondamentale nel tragico finale: il
viso scavato e gli occhi penetranti di Aurora Quattrocchi
assumono connotati mefistofelici, la perfetta chiosa della
cupa disperazione che pervade la scena madre del film.
In È stato il figlio Ciprì palesa la sua ispirazione verso
quel filone della commedia all’italiana anni Settanta che,
attraverso la lente deformante della farsa e del grottesco,
lanciava in profondità il suo atto d’accusa verso una larga
parte di italiani: non più simpatiche canaglie come nei
film anni Cinquanta – à la I soliti ignoti (1958) – dove
ancora lo sguardo era carico di umana comprensione, ma
ora vittime e al contempo complici di una discesa morale
che coinvolgeva non solo la media e piccola borghesia,
ma anche le classi più popolari, abbruttite dall’ignoranza
e dai miti del consumo e del guadagno facile. Evidente il
richiamo di Ciprì a Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Scola
e a Un borghese piccolo piccolo (1977) di Monicelli, citato
direttamente nella scena dell’avvocato dei Ciraulo che
contempla il notevole quantitativo di forfora accumulatosi
sulla sua scrivania, come il Dottor Spaziani interpretato
da Romolo Valli sotto lo sguardo attonito di Giovanni
Vivaldi/Alberto Sordi. Allo stesso tempo però, pur
rimanendo lontano da qualunque suggestione realistica
(grazie anche a una fotografia, sempre di Ciprì, straniante e
giocata sui contrasti) e sconfinando in qualche invenzione
simbolica di troppo, È stato il figlio vuole raccontare anche
dell’Italia contemporanea: l’insopprimibile familismo, la
violenza connaturata alla società e non a essa estranea, la
rincorsa a un benessere economico squallido e incurante
di ogni rispetto umano, le lungaggini della burocrazia,
la ricchezza come obiettivo fine a se stesso e non come
mezzo per assicurare un futuro più dignitoso ai propri cari.
Memorabile a questo proposito la scena in cui i Ciraulo
discutono su come spendere i soldi del risarcimento: sordo
alle richieste più concrete dei familiari, il padre sceglie di
sperperare l’intera somma per una lussuosa Mercedes,
in modo che tutti gli abitanti del quartiere si accorgano
che sono diventati ricchi e quindi persone importanti.
Una scelta assurda che segnerà il destino della famiglia:
l’inutile, luccicante vettura diventerà un’ossessione per
Nicola tanto da scatenare la sua reazione violenta alla
scoperta di un graffio sulla fiancata causato dal figlio dopo
una bravata. Un evento che tramuterà la farsa in tragedia,
il grottesco in drammatico, l’amoralità scanzonata in
mostruosa cattiveria priva di qualunque barlume di
riscatto e di speranza.
Luca Giagnorio
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PINUCCIO LOVERO - YES I CAN
Pinuccio Lovero è il becchino del cimitero di Mariotto, una
piccola frazione di Bitonto. Insoddisfatto delle condizioni
del camposanto, decide di candidarsi alle elezioni comunali
di Bitonto nella lista di Sinistra Ecologia e Libertà,
organizzando una campagna elettorale sui generis, con
un programma “cimiteriale” e slogan come “Pensa al tuo
domani”.
L’
Regia: Pippo Mezzapesa; Sceneggiatura: Pippo Mezzapesa;
Fotografia: Michele D’Attanasio; Montaggio: Andrea Facchini;
Musiche: Gabriele Panico; Produzione: Fanfara Film, Vivo Film,
Wakeup; Distribuzione: Microcinema; Origine: Italia 2012; Durata:
72’
Interpreti: Pinuccio Lovero, Anna Pappapicco, Nicola Cambione,
Giuseppe Germano, Giuseppe Modesto, Nichi Vendola
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Italia è un Paese strano, complesso, paradossale.
L’Italia è assonnata, nemica di se stessa e dei suoi figli,
spesso parossistica e altrettanto spesso non ce ne rendiamo
neppure conto. Ci arrabbiamo con la Madre perché
ci delude, ci tiene lontani, svilisce tutto ciò che siamo
e che potremmo essere. Non ci accorgiamo di ciò che
nasconde il nostro Paese tra le sue piaghe e le sue pieghe.
Ci sono personaggi forti, capaci, pronti, ci sono eroi con
milioni di super poteri. Ci sono soprattutto però, e sono
la maggioranza, gli antieroi, figure ingenue e delicate,
poetiche e piene di vitalità, gente come Pinuccio Lovero,
il becchino di Bitonto. Il giovane regista Pippo Mezzapesa
con i due docu-film Pinuccio Lovero – Sogno di una morte
di mezza estate (2008) e questo Pinuccio Lovero – Yes I
Can, mira a svelare il paradosso e a farci sorridere di noi
stessi, delle nostre debolezze. È una maschera grottesca e
malinconica quella di Pinuccio, riuscita proprio perché
reale e specchio di una vis comica che rende Lovero simile ai
caratteristi del miglior cinema. Sotto il simbolo di Sinistra
Ecologia e Libertà – diretto e semplice il messaggio di
Pinuccio, arzigogolato e verboso quello di Nichi Vendola
–, il becchino buono dalle braccia “vigorose” e “solerti”,
amante della notorietà (viene intervistato da Paolo Bonolis,
Giancarlo Magalli e Fabrizio Frizzi), dello spettacolo e
del cinema, presenta il suo programma “cimiteriale” –
più loculi, ossari, verde, panchine per gli anziani – con
l’irruenza di chi in quello che dice ci crede veramente. “Yes
I Can” è il sottotitolo del film ed è anche il “retropensiero”
del nostro candidato, oltre che motivo di “somiglianza” con
Obama secondo i suoi colleghi/sostenitori, conoscitori
dell’imponderabile che regna nel segreto dell’urna. Pinuccio
ama ciò che fa, vuole veramente migliorare Bitonto e crede,
perché si affida e confida negli altri, di poter vincere grazie
al visionario e metaforico slogan “Pensa al tuo domani”,
riferito ovviamente a quell’aldilà di cui le tombe sono
simbolo in terra della vita oltre la morte. Sembra un gigante
rispetto ai suoi rivali e a certi politici a cui siamo abituati,
non si lancia in voli pindarici, promette qualcosa che può
dare realmente, circostanza quasi impossibile oggi; vive
la politica a misura d’uomo, incarnandone il significato
etimologico, ed è proprio per questo che alla fine umiliato
dice “Mi hai votato? No, e allora non lamentarti se non
trovi nessun loculo libero”. L’occhio vigile di Mezzapesa
segue la sua “anima bella” e insiste su di lei e sul suo paesino
con la leggerezza di chi è capace di parlare del quotidiano
e delle piccole cose. Il regista con forza genuina entra ed
esce tra finzione e documentario, utilizzando a volte il
tono amaro, a volte quello lieve. Grazie ad un personaggio
tanto “eccezionale” ed esilarante quanto normale, riesce a
trattare due tematiche difficili, morte e politica – e anche
forse la morte di una certa politica, maneggiona, lontana
dal cittadino e incapace di comprenderne i bisogni –,
con semplicità e garbo. Lo spettatore impara a conoscere
Pinuccio, sia il “politico”, alla ricerca di voti, sia l’“uomo”,
prossimo al matrimonio con Anna, l’amore di una vita
intera – a lei sono riservate le sequenze più delicate, quelle
del Tango delle capinere per esempio –, e lo ama proprio
grazie all’occhio del regista schietto e amorevole, ironico e
umano.
Eleonora Degrassi
67
Sceneggiatura seriale
O
rmai otto anni fa Aldo Grasso pubblicava un saggio controverso, provocatorio, illuminante: Buona maestra. Perché i
telefilm sono diventati più importanti dei libri e del cinema (Mondadori, 2007). Il famoso docente e critico televisivo,
tracciando la storia del genere della fiction tv, dimostrava, contro ogni luogo comune e ogni pregiudizio sugli
spettacoli televisivi, come le nuove serie avessero assunto il ruolo di “feuilletons” della contemporaneità, di grandi narrazioni
pubbliche, diventando spesso importanti come e forse più della letteratura.
Oggi le serie televisive sono entrate a far parte del vivere quotidiano; spesso ci troviamo a esprimere opinioni e a fare congetture
sul destino di Carrie Mathison (Homeland) o sulle prossime decisioni politiche che prenderà lo spietato Frank Underwood
(House of Cards). Oppure ci siamo trovati a vivere una sensazione di vuoto quando il personaggio di Walter White/Heisenberg
nel settembre del 2013 ha concluso la sua folle parabola (Breaking Bad) o quando – in tempi recentissimi – il mondo patinato
di Mad Men si è congedato dai suoi spettatori. Nel tempo i running plot si sono via via complicati sempre di più, trame e
dialoghi sono diventati progressivamente più azzardati e coinvolgenti, i personaggi sono stati scritti in maniera così intensa
e credibile da diventare delle vere e proprie icone dell’immaginario contemporaneo, pensiamo per esempio a Tony Soprano
(The Sopranos), a Jack Bauer (24), a Carrie Bradshaw (Sex and the City) al Dr. House (Dr. House – Medical Division).
Parlare di scrittura seriale ora è diventato quanto mai importante. La figura dello sceneggiatore in ambito televisivo è
stratificata, complessa. Non parliamo più di “autore”, “sceneggiatore”, “produttore”, “regista”. Oggi è lo show runner la figura
principale nella realizzazione di un prodotto seriale. Gli show runner sono “un curioso ibrido di artisti visionari […]. Non sono
solo sceneggiatori; non sono solo produttori. Essi assumono e licenziano sceneggiatori e membri della troupe, sviluppano la
trama, scrivono copioni, assegnano le parti agli attori, si occupano del budget e gestiscono le interferenze tra lo studio ed i capi
dell’emittente […]. Gli show runner fanno, e spesso creano, le serie, ed oggi più che mai, le serie televisive sono le uniche cose
che contano. Nella “lunga corsa” dell’economia dell’intrattenimento, gli spettatori non guardano le reti televisive […]. Loro
guardano le serie. Non gli importa di come le ottengono” (Scott Collins, Los Angeles Times, 23 novembre 2007).
Il Premio “Sergio Amidei”, il cui interesse principale è la scrittura in tutte le sue forme, non poteva non aprire il suo ambito
di interesse a quello che oggi è il terreno più fertile. La nuova sezione, intitolata Sceneggiatura seriale, è uno spazio inedito
che indaga – attraverso incontri, tavole rotonde e proiezioni – l’universo della scrittura long running, dove la forza della
sceneggiatura si fa sentire con sorprendente intensità. Inauguriamo la sezione partendo dal contesto nazionale: l’Italia, anche
se un po’ in ritardo, vive un momento creativamente molto vivace in ambito televisivo e lo dimostra, soprattutto, l’interesse
internazionale – fino ad ora praticamente inedito – per l’eccellente produzione nostrana Gomorra – La serie, perfetto punto
di partenza per una sezione che, ne siamo certi, diventerà negli anni uno degli appuntamenti più interessanti del Premio.
Sara Martin
71
INTERVISTA a stefano BISES
Stefano Bises, classe ‘68, vena partenopea, è uno dei più
importanti sceneggiatori del panorama italiano. Sono sue,
solo per citarne alcune, le sceneggiature di Un’altra vita,
Questo nostro amore, Una grande famiglia. Il suo ultimo
lavoro, che ha conquistato pubblico e critica, è Gomorra –
La serie di cui è headwriter. Nell’intervista ci racconta la sua
esperienza lavorativa – che abbraccia vari generi e vari tipi
di audience – e ci dà anche un quadro felice della serialità
italiana.
[NdR: l’intervista contiene spoiler!]
Sue sono le sceneggiature di Questo nostro amore, Un’altra
vita, oltre che di Gomorra - La serie, narrazioni diverse
per argomento e per pubblico. Il suo lavoro si modifica a
seconda dell’argomento?
Sì, evidentemente il genere, una commedia sentimentale
piuttosto che un crime, influenza il tipo di scrittura, ma
anche la destinazione di un prodotto impone un tipo di
lavoro diverso. La scrittura per il pubblico di Sky è diversa
rispetto a quella per l’audience di una grande rete generalista.
Hai davanti un pubblico diverso e la narrazione deve tenerne
conto. Questo non significa si lavori con più o meno cura o
serietà, è l’applicazione di una professionalità differente e,
oltre al piacere che mi dà frequentare generi lontani tra loro,
provo una certa soddisfazione quando riesco a intercettare il
gradimento di audience così diverse.
Gomorra - La serie non è un’opera semplice, parla di
una realtà cocente, violenta, è materia viva, è abitata da
personaggi voraci, lupi, iene, avvoltoi. Come ha gestito
72
questo magma creativo, e come si è trovato a lavorare con
più autori?
La fatica più grande è stata superare il senso di inadeguatezza
di fronte a una realtà così complessa. E dopo averla conosciuta
profondamente, per restituirla nella sua autenticità, cercare
di non restarne intrappolati emotivamente e creativamente.
E, ancora, è stato difficile trovare le chiavi per raccontare
quell’umanità dolente senza esaltazioni, moralismi o giudizi.
Affrontare questa fatica con i miei colleghi – Leonardo
Fasoli, Filippo Gravino, Maddalena Ravagli e Ludovica
Rampoldi – con Roberto Saviano e soprattutto con il regista
Stefano Sollima è stato di fondamentale aiuto.
Ciò che colpisce nella serie Gomorra - La serie sono i
personaggi che con ogni gesto, movimento, parola danno
corpo alla voglia di successo, danaro, potere. Genny,
Donna Imma, il Boss Savastano sono perfettamente
caratterizzati, eccessivi e crudeli, eppure la sensazione
dello spettatore è di non voler fuggire da loro, bensì di
far parte della Famiglia. La scrittura ha creato un affresco
di un mondo senza morale, degerato, violento, privo di
speranza e bontà. Perché sembra non esserci spazio per il
bene?
Perché abbiamo voluto raccontare il male e solo il male.
E quando abbiamo fatto affiorare il bene è stato solo per
raccontare le capacità di contagio che ha il male. Quel male,
in quella realtà. Il che non significa che in quelle zone non vi
sia il bene o chi lotta per esercitarlo e diffonderlo, ma eravamo
e siamo convinti che il male non dovesse essere raccontato
per contrasto, come ha quasi sempre fatto la fiction quando
affronta i temi della criminalità, ma nella sua essenza. La sfida
era proprio quella di mettere in scena solo personaggi negativi
senza farne degli eroi che non fossero però respingenti. E
credo che se ci siamo riusciti è perché in fondo ognuno di quei
personaggi ha una sua verità, riconoscibile e comprensibile,
ed è in fondo una vittima.
In questo periodo stanno girando la seconda stagione di
Gomorra. Come si è modificata la scrittura dalla prima
alla seconda stagione?
La fase di scrittura dei copioni è stata più semplice perché i
personaggi erano già in campo, li conoscevamo e sapevamo
come parlavano e agivano, e perché conoscevamo già quel
mondo e i suoi meccanismi. Più complicato è stato costruire
un nuovo arco narrativo portante che sostenesse la seconda
stagione, senza ripetersi, e con il problema di aver perso per
strada molti personaggi importanti, come donna Imma, una
figura chiave della prima stagione, che portava con sé alcuni
temi narrativi forti: il ruolo della donna nelle organizzazioni
criminali, e quello della famiglia.
Facendo il grande salto, realizzando progetti
internazionali, il panorama della serialità italiana sta
vivendo un periodo d’oro. Si spinge oltre i confini
nazionali, tentando di rompere gli argini, quel collo di
bottiglia in cui il prodotto sembra spesso intrappolato,
basti pensare al successo di Gomorra - La serie, venduto
anche all’estero così come in precedenza Romanzo
criminale, e alla realizzazione di ZeroZeroZero, tratto da
un altro romanzo di Roberto Saviano. Cosa ne pensa di
questa “età dell’oro” della serialità italiana?
Penso che sia un’occasione straordinaria per dimostrare
che anche l’Italia ha produttori, registi, attori, tecnici e
narratori capaci di realizzare serie di alto livello in modo
non casuale. Con la fortuna, o la sfortuna, di vivere in un
paese che ha un patrimonio narrativo unico al mondo.
Un’occasione di sviluppo artistico ed economico che non
dobbiamo assolutamente sciupare; e che non sciuperemo
se continueremo ad attingere alle nostre storie con onestà,
autenticità, senza pudori e senza inchiodarci al racconto
consolatorio o edificante, e impiegando gli unici tre
ingredienti che, purtroppo in modo imprevedibile, danno
vita a un successo: il talento, il coraggio e la libertà creativa.
A cura di Eleonora Degrassi, 28 maggio 2015
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GOMORRA - La serie
Regia: Stefano Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini;
Ideazione/Soggetto: Roberto Saviano, Stefano Bises, Leonardo
Fasoli, Ludovica Rampoldi, Giovanni Bianconi (liberamente
tratto dal romanzo Gomorra di Roberto Saviano); Sceneggiatura:
Roberto Saviano, Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica
Rampoldi, Giovanni Bianconi, Maddalena Ravagli, Filippo Gravino;
Fotografia: Paolo Carnera, Michele D’Attanasio; Montaggio:
Patrizio Marone; Scenografia: Paki Meduri; Costumi: Veronica
Fragola; Musiche: Mokadelic; Produzione: Sky Atlantic, Fandango,
Cattleya, LA7, BetaFilm; Distribuzione (televisiva): Sky Atlantic,
Sky Cinema 1; Distribuzione (cinematografica): The Space
Movies, Universal Pictures Italia; Origine: Italia/Germania 2014;
Durata: 55’ (Stagione 1, 12 episodi)
Premi: Roma Fiction Fest (2014): Miglior Prodotto Italiano,
Miglior Attrice Italiana (Maria Pia Calzone), Menzione Speciale
della Giuria (Salvatore Esposito), Premio Scardamaglia alla
Migliore Sceneggiatura (Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica
Rampoldi, Filippo Gravino, Giovanni Bianconi, Maddalena
Ravagli), Premio L.A.R.A. al Miglior Attore di una Fiction (Salvatore
Esposito)
Interpreti: Marco D’Amore (Ciro Di Marzio), Fortunato Cerlino (Don
Pietro Savastano), Salvatore Esposito (Gennaro Savastano),
Maria Pia Calzone (Immacolata Savastano), Marco Palvetti
(Salvatore Conte), Domenico Balsamo (Massimo), Enzo
Sacchettino (Daniele), Elena Starace (Noemi), Antonio Milo
(Attilio Diotallevi), Fabio De Caro (Malammore), Ivan Boragine
(Michele Casillo)
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Il boss di Secondigliano Don Pietro Savastano affida al
braccio destro Ciro il compito di preparare suo figlio Genny,
giovane e inesperto, al ruolo di capoclan. Quando Pietro
viene arrestato, il potere passa a Imma, moglie di Pietro.
La donna spedisce Ciro – di cui ricambia l’antipatia – in
Spagna per trattare con il boss rivale Salvatore Conte, mentre
Genny viene inviato in Honduras, a gestire gli affari coi
trafficanti di droga. Quando torna a Napoli, Genny appare
profondamente cambiato nel fisico e nel carattere, e decide di
prendere per sé il comando, rompendo gli equilibri interni
al clan.
Non ci sono né santi né diavoli nell’universo gangster
della serie tv Gomorra. L’aver sopraffatto i rivali in guerra
non distingue i vincitori dai perdenti: nessun trionfo,
bensì pura sopravvivenza, ma anche nessuna tregua per
chi è superstite, ovvero nessuna possibilità di salvezza
e redenzione. È in questa zona grigia, così ben espressa
anche a livello fotografico da Paolo Carnera e Michele
D’Attanasio, che ritroviamo lo spirito di un prodotto che
sceglie di raccontare la complessità del reale, piuttosto che
appiattirsi in una consolante antitesi tra bene e male. Non
da subito la Secondigliano di Ciro, Genny e Don Pietro si
squaderna davanti ai nostri occhi come un mondo senza
vere opportunità di fuga: soprattutto nelle prime puntate,
avvertiamo un bagliore di inconsapevole innocenza
nel volto spaurito di Genny, e dal portamento di Ciro
sembra trasparire più di un dubbio sulla volontà di aderire
completamente alla logica del crimine. È come se l’invito
a “stare senza pensieri” evocasse la presenza di una cortina
di sottili inquietudini, dietro le quali affiora l’umanità di
personaggi che non sono ancora passati al “lato oscuro”, per
dirla alla George Lucas. Tuttavia è proprio per la mancata
adesione allo schema, caro a una certa serialità italiana, in
cui non esiste confusione tra buoni e cattivi, che nessuno
di questi uomini può elevarsi sugli altri. Anzi, proprio nel
momento in cui siamo spinti a fare il tifo e sostenere Ciro
e la sua famiglia affinché scampino dai pericoli, o soffriamo
per la solitudine di Don Pietro tra le sbarre del carcere,
ecco sopraggiungere un senso di distanza nei confronti di
personaggi che, anche quando non commettono il male,
non appaiono mai come modelli positivi. Il racconto
sprigiona tutta la sua forza dirompente senza lasciare vie di
fuga narrative, singole occasioni di conforto né tantomeno
l’illusione di una conciliazione finale. Ci ritroviamo così
prigionieri in un universo segnato dalla necessità e dalla
contingenza, in cui la camorra non è soltanto oggetto
da denunciare, ma rappresenta piuttosto uno spiraglio
parziale, attraverso cui ci si affaccia sul mondo secondo un
punto di vista unico, quello dei malavitosi. I criminali di
Gomorra – La serie inseguono primati di potere e denaro
non perché siano mossi da un fato invisibile, bensì perché
non appaiono mai liberi da se stessi, ancor prima che dagli
obblighi che li legano alle loro famiglie e alla comunità
mafiosa. Grazie a una narrazione che racconta con coerenza
quasi impeccabile il male dal suo interno, Gomorra non
spersonalizza la figura del camorrista, ma lo rende un
umano tra gli uomini, né eroe né antieroe. Tuttavia,
perfettamente consci dell’impossibilità di aderire a questa
realtà, non siamo spinti a solidarizzare né a immedesimarci
fino in fondo, anche quando inconsciamente l’empatia ci
avvicina ai caratteri dei personaggi. Dopo esserci sentiti
accanto a uno di loro, subito ne veniamo allontanati,
seguendo ora il capoclan ora l’ultimo dei suoi sottoposti.
Continuamente si viene rimandati al quadro d’insieme,
fondato anche su una straordinaria uniformità stilistica, in
cui Napoli assume la portata di un racconto universale.
Nicola Peirano
75
Racconti privati, memorie pubbliche
Alan Berliner
I
l cinema amatoriale e di famiglia ormai da decenni è entrato a far parte degli strumenti creativi a disposizione di registi e artisti
dell’audiovisivo interessati al potere di testimonianza intrinseco a queste fonti provenienti dal basso.
Il cinema inedito è una memoria mediale che partendo dalle esperienze private vissute può permettere l’emersione di un contesto
storico-politico complesso, articolato e inedito. È quello che traspare per esempio nello straordinario lavoro di messa in relazione di
sfera privata e pubblica operato da Peter Forgacs in Private Hungary (1988-2002) o ancora quello che vediamo nel magnifico Soul of a
Century (2002) di Michael Kuball.
Anche Alan Berliner, filmmaker americano attivo fin dalla fine degli anni Settanta, che il Premio Amidei omaggia con un’ampia
selezione di film, si concentra sul ri-uso creativo del found footage, anzi buona parte del suo lavoro parte dall’archivio. E, proprio
dell’archivio, Berliner ha in un certo senso fatto il fulcro della sua attività, del suo metodo di lavoro.
L’archivio è in questo caso lo spazio fisico del deposito, il luogo del riordino e della minuziosa catalogazione dei contenuti. Uno
strumento complesso che omogeneizza e accoglie quello che l’artista ha negli anni cercato, acquistato, rilevato, ottenuto: film inediti
girati da altre persone, ossia memorie filmiche private di famiglie che nel Novecento d’Oltreoceano si sono auto-rappresentate in
16mm. Ma il documentarista ha inserito nella sua raccolta di oggetti e documenti anche contenuti educational, film che oggi definiamo
orfani, musiche e suoni di ogni tipo, cartoni animati e pellicole di edizione.
Da buon archivista, meglio ancora da buon montatore qual è, Berliner in The Family Album (1986) gestisce e implementa il casellario
che contiene il footage ritrovato. Con ironia, eleganza e notevole abilità tecnologica, esercita il suo tocco sferzante e trasforma il
significato originario delle collezioni private accostando anni e luoghi fisicamente lontani, suoni e registrazioni fatte da persone che
non si sono mai conosciute, in “attori” del film che sembrano ben relazionarsi fra loro sul set in cui si trovano a “recitare”. L’eterogeneità
dei materiali di partenza non indebolisce la volontà di far convivere intrecciando fra loro i destini di molti in un’operazione che al
contrario risulta di messa in valore della memoria collettiva americana.
Una lettura documentaria dei film inediti in formato ridotto frutto della passione di cineamatori e padri di famiglia è infatti possibile
grazie alla “decontestualizzazione” delle immagini che hanno fissato ricordi privati o manifestazioni locali. Il film di famiglia in sé
afferma una funzione ideologica di rafforzamento dell’istituzione, lavora al consolidamento del senso di integrazione a quel nucleo.
Nel passaggio all’archivio questa modalità si trasforma e agisce in uno spazio di comunicazione diverso, pubblico. La memoria filmica
privata è da un lato traccia oggettiva della realtà, dall’altro, intrinsecamente, espressione intimistica e memoriale.
Per questo troviamo che i lavori di Berliner funzionino come atlanti della memoria filmica intima e amatoriale, opere universali e
contemporaneamente sperimentali, film collage fatti di ricerca e collezione, di accumulo e dispersione.
L’opera di Alan Berliner si nutre del tempo, dell’accantonamento selettivo, dell’artefatto culturale depositato sulla pellicola, ma è
anche frutto di un abile lavoro di montaggio, di una raffinata selezione e di un effervescente accostamento delle fonti.
Ma ci piace pensare anche che il meccanismo della memoria audiovisiva sintetizzi l’universalità dell’esperienza e, a Gorizia, presso
la Mediateca Provinciale, come a Bologna, presso Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia, e altrove in Italia e nel
mondo, la raccolta di queste testimonianze filmiche inedite permette di allargare la portata del passaggio di memoria fra generazioni.
La trasmissione è infatti il fondamentale processo di mediazione che permette il passaggio dei contenuti culturali fra generazioni
diverse e fra la dimensione personale della memoria e quella collettiva.
Mirco Santi
79
BERLINER DIXIT
Se non altro, il mio film (First Cousin Once Removed, 2013)
prova che la memoria è la chiave per la formazione dell’identità. Se non si tiene presente questo, non è possibile trarre elementi di comprensione e di senso dal passato. In altri termini,
non è possibile imparare dal passato. E se non comprendiamo
le conseguenze dell’esperienza, non possiamo far emergere le
loro implicazioni nel presente. L’identità è certamente una
funzione della capacità di viaggiare nel tempo. Ma questo viaggio non ci porta solo dal passato al presente. Queste idee di
apprendimento, di senso, di analisi dell’esperienza riguardano
la possibilità di immaginare un’idea di futuro e di farsi ispirare
da essa preparandosi e riponendovi le proprie speranze. Sapete,
c’è sempre una ragione per vivere un altro giorno, ci sono sempre cose da fare. Si è sempre in crescita, in evoluzione.
La verità è che ognuno di noi è un insieme di multipli. Anche se siedo qui, adesso, posso ricordare le esperienze fatte a
undici anni. Oppure richiamare alla mente ciò che facevo a
venticinque anni. Siamo tutti il compendio di differenti età
e abilità cognitive, di diverse “consapevolezze cognitive” [...]
La vita non è semplice; la vita non è lineare; essere umani è
una questione complessa e imprevedibile.
(Fonte: Rob Dickie, Alan Berliner talks about “First Cousin Once Removed”, www.mhfestival.com/news/interview/item/42-alan-berliner-talksabout-first-cousin-once-removed, ultima visita il 5 giugno 2015)
Che cosa possiamo imparare dalla vita di una persona ordinaria? Ecco una domanda davvero interessante. Qual è il punto? Sto facendo film su persone che sono vissute e che sono
80
morte. Come tutti noi, hanno fatto esperienza della gioia e
della tristezza. La gamma dell’esperienza umana è inscritta in
ogni vita.
Io, in sostanza, faccio collage. Mi circondo di cose che, secondo me, hanno una forte energia potenziale. Cose che mi
piacerebbe vedere, toccare o percepire. Oppure immagini che
mi interessano anche se non so esattamente che cosa farci.
Capisco istantaneamente che un giorno potrei lavorarci sopra. O spero di poterci lavorare sopra. Quando ho portato
a termine il film, tutte le immagini che, prendendo avvio dal
mio vasto archivio, ho utilizzato e di cui mi sono appropriato
non tornano in una scatola, come se non avessi più alcun tipo
di rapporto con loro. Tornano nell’archivio: tutto torna in
orbita, tutto torna da dove è venuto. Ciò significa che queste immagini sono di nuovo in gioco, che tutto è di nuovo
in gioco. Così, da un’opera all’altra, se si tiene in particolare
considerazione la forte continuità data da temi, personaggi e
ossessioni che attraversano il mio lavoro, capita spesso che io
richiami le stesse cose, perché nel nuovo contesto assumono
un significato diverso, diventando una nuova metafora.
The Family Album (1986) è stato il mio primo film ad avere
veri e propri titoli e ringraziamenti. Tra questi compare la parola “serendipità”. Non è una casa di produzione. Non è una
persona. È l’energia, è la “cosa”. Io ho semplicemente risposto
a una cartolina affissa su un “ballon board” in cui si annunciava la vendita di home movies. Non ho idea da quanto tempo
quell’avviso fosse lì. Quando ho chiamato, mi hanno detto
che ero il primo a rispondere.
E ancora, è centrale la serendipità connessa al ritrovamento
di footage anonimo (che poi ho utilizzato in The Family Album) e all’attrazione magnetica che esercita su di me il tema
della famiglia, verso cui mi sento costantemente spinto. Questo soggetto è sempre stato – ed è ancora adesso – ben radicato nel profondo della mia psiche: col tempo ho capito che
questo è il mio tema.
Non riuscirei a dire quanti garage e mercatini delle pulci ho
girato. Di solito trovavo sempre nastri magnetici che riuscivo
a comprare per un nichelino o per dieci centesimi. Chi me li
vendeva pensava che io li usassi per la segreteria telefonica e
che io fossi troppo spilorcio per comprare una cassetta nuova
per un dollaro. Spesso non c’era alcuna registrazione, a volte
non si capiva nulla, altre volte era possibile avvertire una sensazione di pura familiarità.
energie non sono strettamente indirizzate al film successivo,
mi dico spesso: “Questo è il momento giusto per lavorare a
un progetto di installazione o a una scultura”. Questo, di solito, è il ritmo del mio processo creativo.
Ogni film è il più difficile e il più tremendo da fare. Aleggia
un imperativo che, seppur inconscio, è vincolante: si tratta
di portare le forme e le modalità del film saggio e del film
personale al loro punto di massima (e anche più oscura)
tensione. Percorrere questo cammino implica molti rischi e
molte paure, legati principalmente al non sentirsi al sicuro e
alla necessità di andare fino in fondo. Forse ciò è successo in
maniera più marcata con The Sweetest Sound (2001) e Wide
Awake (2006), in cui mi sono ritrovato nell’imbarazzante,
complicata e rischiosa posizione di essere il soggetto presente
nel film e il filmmaker. E anche una serie di figure presenti
tra queste due polarità. In altri termini, mi sono ritrovato a
“spigolare” nel loro campo metaforico.
Bisogna essere abbastanza aggressivi, stupidi, intelligenti e
modesti per fare questi viaggi. Perché sono viaggi a tutti gli
effetti: ogni film lo è.
(Fonte: Yance Ford, Filmmaker Interview: Alan Berliner, www.youtube.
com/watch?v=p4YYzjOnAhs, ultima visita 5 giugno 2015)
A cura di Diego Cavallotti
Non sono un filmmaker che può dire: “Beh, ora sto girando
questo, montando quest’altro e facendo la post-produzione
di quest’altro ancora”. Non riesco a fare quattro o tre film alla
volta. Nemmeno due. Sono decisamente monogamo: posso
lavorare solo su un film alla volta. Nei periodi in cui le mie
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THE FAMILY ALBUM
(The Family Album)
Una raccolta di filmati familiari in 16mm realizzati negli
Stati Uniti tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. Ne emerge un collage di esistenze private e una narrazione di vite,
dall’infanzia alla maturità. Alan Berliner assembla autentici documenti di vita vissuta e racconta l’America del passato, tra ritualità, cultura e riflessioni sulla memoria.
R
Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Montaggio: Alan
Berliner; Suono: Rick Dior; Produzione: Alan Berliner; Origine: USA
1986; Durata: 60’
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agionando sulle modalità operative di Alan Berliner,
si può ben comprendere il sostrato teorico che sta alla
base di The Family Album. Il principio di fondo – dichiarato dall’autore stresso – risiede nella volontà di assemblare
materiale eterogeneo proveniente dagli archivi di svariati
cineamatori, e di tesserlo recuperandone un intreccio. Non
vi è, in questo caso, l’intento di pensare a una sequenza,
scriverla e montarla secondo un’idea di causalità che sottostà al processo produttivo canonico, ma di lasciare che
il film “esca fuori” nel momento in cui il regista si ritrova
a dover dirimere il materiale a disposizione. Nel suo mediometraggio d’esordio Berliner opta per la reviviscenza
di filmati legati alla memoria individuale e di allargarne la
consistenza redigendo un saggio audiovisivo sulla memoria collettiva dell’America che fu. Un processo dal particolare al generale che fa scaturire riflessioni di largo interesse,
che spaziano dalla realizzazione di un universo narrativo a
partire dal found footage, alle determinazioni etnologiche
derivanti dai meccanismi di costruzione del ricordo e da
ciò che ne deriva nelle pratiche di fissazione della realtà.
La struttura narrativa di The Family Album è determinata
da una consequenzialità cronologica che agisce – nel più
classico dei modi – ad imitazione della vita stessa. Pertanto, i primi minuti del film coincidono con riprese di idilli
familiari legati alle performance dei bambini nei loro primi
anni di età: vagiti, ninne nanne, trastulli e attenzioni da
parte degli adulti. A seguire, il centro delle inquadrature
si allarga e coinvolge situazioni più complesse, che riguardano divertimenti, feste, inserimenti in società. Ma c’è una
ragione in tutto ciò: la tendenza – nelle famiglie dei cineamatori – di archiviare, con grande precisione, i rulli relativi
ai primi anni di età dei figli, e di monitorarne i progressi.
In seguito, i protagonisti crescono e acquisiscono maggiore indipendenza; i progressi divengono meno interessanti
e meno individuabili e, conseguentemente, l’oggetto delle
riprese si rivela più fumoso. Da ciò emerge un punto fondamentale: lo spettatore non riconosce precisi attori, e la
storia non si concentra su un preciso nucleo familiare. Al
contrario, la dimensione corale affiora nell’evidenziazione
della moltitudine di protagonisti che agiscono come personaggio collettivo. In altri termini, il narratore assembla i
numerosi home movies recuperati e, agendo per conformità, li “racconta” sfruttando un unico filo conduttore. Correlata al visivo, in The Family Album la dimensione sonora
risulta di capitale importanza. A descrivere le immagini, e
a raccontarne ciò che vi sta “dietro”, sono le registrazioni
audio delle memorie di altri protagonisti (non necessariamente i medesimi che vediamo sullo schermo). Come le
riprese, anche le registrazioni – che potremmo chiamare
found recordings – hanno subìto un processo di recupero e
assemblamento alla maniera del collage. Tra racconti, pianti, canti, semplici gorgoglii onomatopeici, il suono acusmatico – ovvero quello di cui non percepiamo la fonte – ha
una doppia valenza descrittiva e narrativa. Talvolta si limita
a narrare quanto lo schermo riporta, talaltra finge di “dialogare” con le immagini, imitando una correlazione diretta
tra quanto viene detto e quanto viene mostrato. Altre volte
ancora, le voci narranti raccontano quello che le immagini
non possono dire. È in quest’ultimo frangente che emerge
lo snodo di senso che rende The Family Album un prodotto
estremamente importante. È difatti la dimensione sonora a
fungere da elemento rivelatore e a determinare la pregnanza del fuori campo nella dimensione memoriale degli home
movies. L’album di famiglia è qui visto come un insieme
di ricordi felici, che decidono – comprensibilmente – di
censurare quanto di triste vi sia dietro le immagini mostrate. Dietro la maschera di feste, risate e scherzi esibiti con
tanta euforia vi è un controcanto di storie di alcolismo, di
matrimoni di facciata e, soprattutto, di perdite. È la manovella della cinepresa che ci “obbliga” a vedere e ricordare.
Ricordare cose e persone che, magari, avremmo preferito
dimenticare o conservare chiuse nei cassetti della memoria.
Leonardo Cabrini
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INTIMATE STRANGER
(Intimate Stranger)
La vita di Joseph Cassuto, nonno materno del regista Alan
Berliner, commerciante di cotone per il Giappone in Egitto,
raccontata attraverso gli occhi di parenti e amici che l’hanno
conosciuto da vicino. Dopo il dramma della Seconda Guerra
Mondiale e il ritorno in America con la famiglia, non crolla il desiderio di ricongiungersi con una cultura in lotta per
rialzarsi, quella giapponese, da sempre nel suo cuore. Quella
che ne emerge è un’eredità fatta di amorevoli ricordi e risentimenti, la costruzione di una biografia per immagini tra le
più originali e le più sfuggenti.
P
Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Alan
Berliner; Montaggio: Alan Berliner; Produzione: Alan Berliner;
Origine: USA 1991; Durata: 60’
Premi: International Documentary Association (1993): Premio
IDA; American Film/Video Festival (1992): Primo Premio Blue
Ribbon; USA Film Festival (1992): Primo Premio, categoria “NonFiction”; Cinéma du Réel Film Festival (1992): Premio Speciale
della Giuria; San Francisco Int’l Film Festival (1992): Premio del
Pubblico; Black Maria Film Festival (1991): Menzione Speciale
della Giuria
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er dare forma a questo suo secondo film, Alan Berliner decide di utilizzare una storia per raccontarne due,
dipingere un eroe moderno mentre tratteggia i doppi contorni della sua anima. L’amato Mr. Cassuto o il comune
Signor Nessuno, uomo d’affari o padre di famiglia, amico
caro o straniero in casa propria: è l’intera vita di Joseph
Cassuto a esser messa in scena, le sue esperienze, le sue scelte, le sue contraddizioni. A narrarla è la sua stessa famiglia,
tre figli e una figlia, parenti, amici, lo stesso Berliner: allo
spettatore sembra di entrare nel comodo salotto di casa,
dove tutti si sono riuniti quasi per caso per poi decidere
di aprire un vecchio album di fotografie e ricordare insieme. Mentre vengono girate le pagine del libro lungo una
vita, ognuno si fa portavoce della sua visione dei fatti, ricordi felici e cicatrici mescolate in modo che si rafforzino
gli uni con le altre, collaborando nella costruzione di un
uomo. In tale ordinata confusione è presente un ritmo tenace, dato dal battere sui tasti di una vecchia macchina da
scrivere: ogni battuta corrisponde a uno stacco, un cambio
dell’immagine, non fluido come potrebbe esserlo quello di
una serie di diapositive, ma un colpo molto più secco, martellante, come a volersi imprimere fermamente nella pellicola e nella mente di chi osserva. Tutto si conserva, tutto
ha un suo posto nella memoria, tutto una sua importanza.
Prendendo a prestito le stesse parole del regista, “Intimate
Stranger cammina sul filo del rasoio tra lo smistare i panni
sporchi di famiglia e lucidare i suoi preziosi gioielli”: Berliner insiste a tutti i costi nel non dividere questi due aspetti,
lasciando il minutaggio scorrere nella naturalezza di una
vita eccezionalmente ordinaria. Il rispetto, la gratitudine,
l’amicizia, la fiducia di un popolo antico che sa ricordare, si
amalgamano indistinti alla tristezza del punto di vista della
dolce Rose, moglie devota e paziente, capace di “guardare
oltre” gli undici mesi all’anno in cui il marito poneva un
oceano di distanza tra loro, oltre le sue crisi, le sue attese, la
sua vita “non normale”. Legarsi a quest’anima cosmopolita
ha richiesto sacrificio: in Giappone era conservato un frammento del suo cuore gentile, in America la famiglia, la sicurezza lasciata per rincorrere il richiamo di dolci sirene. Ma
non si parla mai di cattiveria nelle azioni di Joseph Cassuto,
le parole dei figli più che essere piene di astio sono farcite
di amarezza, di rimpianto per i tanti anni passati lontano
dalla figura paterna, incapace di lasciare il proprio lavoro,
il proprio modo di vivere, suo soltanto. Intimate Stranger
racchiude nel suo stesso titolo quel sapore agrodolce che
accompagna l’intero documentario: questo letterale “intimo straniero” non ha nazionalità, né religione, è un ossimoro, un paradosso apparente raccontato nel suo precario
equilibrio emotivo. Alla fine del film rimane la sensazione
leggera di essere entrati nella vita del protagonista per ri-
manerne comunque al di fuori, noi curiosi estranei colti a
leggere le pagine di un racconto privato, una memoria pubblica composta per il giovane Alan, per nessun altro.
Margherita Merlo
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NOBODY’S BUSINESS
(Nobody’s Business)
Il regista Alan Berliner intervista l’anziano e scontroso padre, Oscar. Davanti alla cinepresa si attraversano le tappe di
una intera vita: dalla storia dei nonni – ebrei dell’Est Europa emigrati in America – alla carriera militare, dal matrimonio alla nascita dei figli. Fino al divorzio e ai recenti
anni di solitudine. Padre e figlio si incontrano, si confrontano
e soprattutto si scontrano: Oscar non ne vuole sapere di ricostruire le vicende familiari dei propri avi, lo ritiene un esercizio privo di significato; Alan al contrario indaga, riuscendo
a mettersi in contatto con i primi, i secondi e i terzi cugini.
Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Alan
Berliner, Phil Abraham, David Leitner, Mick Worthen; Montaggio:
Alan Berliner, Leslie Neblett; Suono: Joe Judd, Steve Robinson;
Musiche: Roger Phenix; Produzione: Alan Berliner; Origine: USA
1996; Durata: 60’
Premi: Festival dei Popoli (1997): Premio per l’Innovazione nel
Documentario; Jerusalem International Film Festival (1997):
Miglior Documentario; Florida Film Festival (1997): Premio del
Pubblico per il Miglior Documentario; San Francisco International
Film Festival (1997): Golden Spire Golden Gate Award; Festival
Internazionale del Cinema di Berlino (1997): Premio Caligari,
Premio International Film Critics Association; Charlotte Film
and Video Festival (1998): Premio Director’s Choice; National
Academy of Television Arts and Sciences (1998): Emmy Award;
Chicago Silver Images Film Festival (2000): Visionary Award
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“L
a mia vita non è diversa da quella di altre milioni
di persone!”: Oscar Berliner non ne vuole proprio
sapere, si agita sulla sedia e fulmina con lo sguardo il figlio
Alan, che ha avuto l’ardire di interrogarlo sulla storia della
loro famiglia. Sono due generazioni a confronto, animate
da sentimenti opposti: mentre Oscar è nato in un’epoca in
cui l’etnia era uno svantaggio (tutti volevano essere yankee e
dimenticare per convenienza la propria provenienza), Alan
vive in un Paese in cui le identità culturali si mescolano,
e sempre più persone sono alla ricerca delle proprie radici
e delle proprie origini. In questo caso l’albero genealogico
parla chiaro: i Berliner vengono dalla Polonia. Ancora più
precisamente sono ebrei, e la primigenia emigrazione fu
quella di Salomon Isaac, antenato di Alan e di Oscar. “È venuto qui in America solo perché pensava sarebbe stato pagato in oro”, chiosa l’anziano (e duro d’orecchi) genitore. E
ricomincia, fra i due, la battaglia. Nobody’s Business riprende le fila di un discorso già iniziato con The Family Album
(1986) e Intimate Stranger (1991), riuscendo nuovamente
nella non facile impresa di assumere al contempo i connotati di un documento privatissimo e di un racconto universale e condivisibile. Un risultato più complesso di quanto
possa apparire, veicolato dalla capacità del regista di Brooklyn di creare una eccezionale empatia e un immediato coinvolgimento in chi guarda. Non conosciamo lo scorbutico
Oscar, ma è come se lo avessimo sentito parlare altre mille
volte; non sappiamo nulla della genesi del nucleo familiare
dei Berliner, ma ci sentiamo fin da subito parte del discorso.
Un discorso che avviene in un brevissimo lasso di tempo –
appena 60 minuti, per un girato totale di quattro ore – e
che si conclude quando ci sarebbero ancora molte cose da
dire e sulle quali ragionare. Ma se è vero, come afferma lo
stesso Alan Berliner, che “quando si dà il via ad un progetto non si dovrebbe mai sapere dove si sta andando”, risulta
altrettanto realistica la consapevolezza che il cerchio non si
deve chiudere, e che parte della riflessione deve restare in
nuce e in mano allo spettatore. “Ogni film che faccio inizia
con una sorta di lieve, debole battito cardiaco, e finisce con
una forte personalità”: ecco ancora una volta nelle parole
del medesimo cineasta la migliore definizione di Nobody’s
Business, testimonianza commovente, bizzarra, illuminante
e triste. E anche innegabilmente comica, vedere per credere
il montaggio “analogico” che alterna i battibecchi del duo
– Alan dietro la macchina da presa, Oscar davanti – alla
sequenza in bianco e nero di un incontro di boxe. Il titolo
(che letteralmente suonerebbe come “affare di nessuno”) fa
riferimento in particolare all’argomento del divorzio del
patriarca Berliner, parte per il tutto che sottolinea ancora
una voltà l’omertà giocosa e al contempo cocciuta di un essere umano che ama nascondersi nelle grandi folle, gioen-
do del proprio anonimato. Ogni assalto viene stoicamente respinto: “Non ti interessa essere ricordato? Che i tuoi
discendenti sappiano chi sei stato?”; “Quando sarò metri
sottoterra cosa vuoi che me ne interessi”. E in effetti, nella
piccola e a suo modo insignificante esistenza di Oscar, chi
mai potrebbe trovare alcun motivo di interesse? Nessuno,
tranne un figlio, che in direzione ostinata e contraria – in
una missione che lo porta fino alla Biblioteca Genealogica
di Salt Lake City – dà vita sì ad un saggio cinematografico
e ad un’opera d’arte, ma prima di tutto scrive una esclusiva
lettera d’amore al proprio intrattabile padre.
Filippo Zoratti
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THE SWEETEST SOUND
(The Sweetest Sound)
Alan Berliner è un avvocato di Columbus, Ohio. Alan Berliner è un assistente sociale di Seattle, Washington. Alan
Berliner è un fotografo di celebrità a Los Angeles, California.
Stanco di essere confuso con queste persone e con chiunque altro possa avere il suo nome, Alan Berliner, il filmmaker di
New York – da non confondersi col filmmaker belga Alain
Berliner – decide di farla finita con la temuta Same Name
Syndrome (Sindrome di omonimia). La sua soluzione: invitare tutti gli Alan Berliner del mondo a casa sua per cena.
Q
Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Richard
Dallett; Montaggio: Alan Berliner; Suono: Bill Seery, Ian Douglas
Vollmer; Produzione: Alan Berliner; Origine: USA 2001; Durata: 60’
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uello del proprio nome per molti non sembra essere
il suono più dolce. A molti non piace, molti lo cambierebbero, altri rifiutano l’idea di condividere qualcosa
di così personale con degli sconosciuti. Ma cosa c’è dietro
a un nome? Davvero un nome può cambiarci la vita, può
renderci qualcuno? Da qui parte Alan Berliner per una
ricerca profonda, attentissima ai dettagli, quasi paranoica, sui nomi degli statunitensi. Giornali, archivi tv, basi
di dati online, tutto è setacciato, selezionato, raccolto. Su
questa solida struttura di numeri e statistiche costruisce
la sua indagine lungo tre itinerari che si sovrappongono: data un’immagine, un volto, possiamo attribuirle un
nome? Dato un nome possiamo desumerne degli aspetti
caratteriali cui quel nome, quel suono, ci ricollega intuitivamente? Messi insieme più individui omonimi troveremo qualcosa che li accomuna e che quindi è legato a quel
nome in maniera assoluta? Berliner intervista persone di
qualsiasi età, fa visita alle società di omonimi, poi restringe
il campo e si focalizza sul suo di nome. Chiede ai genitori
il perché di tale scelta ma scopre che non c’è una spiegazione sufficientemente significativa, tranne la musicalità. È
allora un nome solo una questione di suono? Rifiutando
questa semplificazione contatta tutti gli Alan Berliner con
lo scopo di trovare ciò che li accomuna, la loro intersezione.
I risultati sono vaghi, insoddisfacenti, forse dei legami ci
sono ma è difficile trovarne con poco tempo a disposizione.
Emergono allora altri interrogativi, più critici, più profondi. Se il nome non avesse un reale significato riscontrabile allora ha senso averne uno? E se il senso sta solo nella
musicalità, perché lasciar esistere nomi difficili anche solo
da pronunciare? Il documentario si stacca dal particolare
ed entra nella Storia, cita An American Romance (1944) di
King Vidor, recupera immagini di Ellis Island indagando
sul cambio di nome che si sospetta subirono in molti tra gli
immigrati, e arriva al New England Holocaust Memorial
dove, a più di due milioni di individui identificati con un
numero, può essere riconsegnata una personalità attraverso
la lettura di nomi e cognomi. Ma ancora non otteniamo
risposte prive di ambiguità. L’unica certezza cui si giunge
è che un nome non corrisponde a un’identità ma viceversa, un’identità non esiste senza nome, senza un suono. Ciò
riconduce al Berliner regista: nelle sue opere il suono, il
montaggio sonoro, il ritmo, hanno sempre contato quanto
le immagini, con un approccio tipicamente avanguardista.
I suoni hanno sempre identificato, descritto, commentato,
molto più che in altri autori. Si “ascolti” la scena in cui degli intervistati riempiono un modulo sulle caratteristiche
che si aspettano da un individuo chiamato Alan Berliner:
le voci si sovrappongono e danno l’idea del risultato prima
che una croce sia tracciata nelle caselle. C’è un suono che
identifica l’attesa, uno che identifica la morte o il passato o
ciò che è fissato per sempre, uno che identifica la ricerca o
l’interrogarsi. Non è un caso che tra i tanti titoli pensati per
il documentario e mostrati sullo schermo quello scelto è
proprio “Il suono più dolce”. Aveva allora ragione la madre
del regista? Il significato è il suono? L’opera si chiude con
un’orchestra in procinto di suonare e una proposta: dare a
ciascuno un sito web che contenga tutta la propria vita e
conferisca a tutti noi una cyber-eternità non vincolata alla
pronuncia del nostro nome. Era il 2001, tre anni dopo sarebbe nato Facebook.
Erasmo De Meo
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WIDE AWAKE
(Wide Awake)
Il videoartista e documentarista Alan Berliner sfida a viso
aperto la sua insonnia. Malattia che per lui è un’ossessione
affrontata un po’ ambiguamente: da un lato vengono messi
in risalto i problemi fisici e nervosi, dall’altro si sottolinea
l’innegabile fascino del disturbo. Il documentario mescola
testimonianze reali e biografiche con una serie di fantasiose
immagini di repertorio, rafforzate da un vivace uso del
montaggio visivo e sonoro.
C
Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Ian
Vollmer; Montaggio: Alan Berliner; Suono: Steve Beganyi,
John Haptas, John Kashuk, Ramón Rivera-Moret, Chris Ward;
Scenografia: Gene Hyfler, Sarah Lipkin; Produzione: Alan Berliner;
Origine: USA 2006; Durata: 79’
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on Wide Awake il documentarista Alan Berliner ci
accompagna in una delle sue ossessioni, comune a
molte persone per le quali la notte non è tempo del sonno
ristoratore, ma dei pensieri, delle angosce, dei progetti
e della creatività: l’insonnia. Malattia affrontata in
maniera funambolica e ambigua, cogliendo sia gli aspetti
più negativi di sofferenza fisica e nervosa, sia quelli più
affascinanti, legati alla libertà e alla rilassatezza creativa
e di pensiero che chi è abituato a lavorare e a creare di
notte conosce bene. Il regista originario di Brooklyn ci
accompagna in questa discesa negli inferi dell’insonnia
– o se preferiamo in questa salita verso un luogo malsano
ma estremamente affascinante – con un documentario, al
solito, fantasioso, complesso, vivace e stratificato, ambiguo
come l’approccio dell’autore verso il proprio disturbo.
È certamente un documentario autobiografico con le
dichiarazioni dell’autore e le considerazioni dei medici
specialisti da lui frequentati, così come non mancano le
cronache in presa diretta (che ricordano le atmosfere di
genere horror in stile Paranormal Activity, 2007) delle
notti passate a girarsi nel letto, con relative reazioni
infastidite della moglie, svegliata in piena fase REM
dalla luce della cinepresa. Wide Awake è però soprattutto
una sorta di flusso di coscienza ravvivato da continue
selezioni di immagini di repertorio che, rafforzate dal
sagace e fondamentale uso del montaggio visivo (curato
dallo stesso Berliner) e sonoro, raccolgono da vecchi film,
cartoni animati, servizi televisivi, documentari e spot
pubblicitari le sequenze che diventano specchio e simbolo
dell’ossessione del regista. Lo si nota fin dalle primissime
scene, quando una velocissima carrellata di immagini
di repertorio vede protagonisti di film spegnere la luce
prima di dormire, seguita da uno scatenato susseguirsi
di primi piani, sempre tratti da vecchi spezzoni, di
sveglie che suonano. Alla realtà dell’autobiografia e dei
tormenti personali si sovrappongono continuamente
le testimonianze della finzione, soprattutto grazie al
comparto sonoro che continuamente sconfina nel “campo”
della realtà biografica; così, per esempio, il ticchettio delle
lancette di una vecchia sveglia e il canto di un gallo in un
cartone animato degli anni Venti diventano il sottofondo
delle dichiarazioni e delle testimonianze del regista. Alan
Berliner realizza in questo modo un’affascinante opera
d’arte che non dà punti di riferimento né “narrativi” né
d’impostazione, e che proprio in questo caos, simile a
quello del fiume di pensieri che aggredisce nelle veglie
notturne, trova il suo fascino e la sua efficacia. Pure con una
giusta dose di divertimento, attraversato da una costante
vena ironica e autoironica, Wide Awake coglie appieno
l’essenza di un’ossessione e del rapporto ambivalente
che chi ne diventa vittima prova verso l’ossessione stessa.
Assolutamente consigliabile a questo punto la visione
di Wide Awake di notte, proprio quando magari non si
riesce a dormire; o forse è meglio di no?
Edoardo Peretti
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FIRST COUSIN ONCE REMOVED
(First Cousin Once Removed)
Alan Berliner realizza un personalissimo ritratto di Edwin
Honig, il suo “buon amico, cugino e mentore”, attraverso un
viaggio sulla perdita di memoria e sull’Alzheimer. Honig,
prima di essere cugino di Berliner, è stato un poeta, traduttore, critico e docente, e la sua carriera lo ha portato a ricevere numerose onorificenze soprattutto grazie alle traduzioni
inglesi dei libri di García Lorca e Calderòn de la Barca. Berliner intervista Honig negli ultimi anni di vita, combattendo
contro l’avanzare della malattia che porterà alla morte lo
scrittore all’età di 91 anni nel 2011.
A
Regia: Alan Berliner; Soggetto: Alan Berliner; Fotografia: Ian
Vollmer; Montaggio: Alan Berliner; Musiche: Miranda Hentoff;
Suono: Doug Dunderdale, Ian Vollmer; Produzione: Shari Spiegel,
Alan Berliner, Lisa Heller; Origine: USA 2013; Durata: 79’
Premi: International Film Festival Amsterdam (2012): Gran
Premio per il Miglior Documentario
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lan Berliner con First Cousin Once Removed riesce a
realizzare un documentario sofferto e tragico, senza
però scadere nel patetismo e nella commiserazione. Ci fa
conoscere Edwin Honig, scrittore e docente, attraverso un
racconto originale seppur nella sua dolorosa realizzazione.
Una cronaca monca, o meglio priva di linearità come è la
vita di chi convive con una malattia degenerativa. Scegliere
di non mostrare solo il decadimento del corpo, ma reiterare le risposte alle domande nei vari stadi della malattia
saltando negli anni, è una formula che, se all’inizio destabilizza, man mano che la narrazione procede acquista sempre
più forza comunicativa. È quasi dichiarato l’imbarazzo iniziale nell’affrontare la vicenda, un imbarazzo lecito e comprensibile che chiunque potrebbe misurare sulla sua pelle.
I dubbi arrivano subito, all’inizio del film, attraverso le parole dei parenti e degli amici, che a più voci sottolineano
la possibile umiliazione riconoscendo però la fascinazione
del trattamento. Berliner supera tutte le titubanze in modo
elegante, senza nascondere le sproporzioni della vita; Honig risponde alle domande ogni giorno, ma l’iniziale routine del gesto viene ammazzata dalla forza della malattia.
C’è solo una certezza: l’Alzheimer cancella tutto ma, come
ogni tipologia di Arte, il Cinema è un mezzo per non far
dimenticare e produrre una testimonianza per il futuro.
L’impossibilità di ricordare viene vinta dalla realtà: durante
le conversazioni, quando la mente non ricorda vengono utilizzate le foto, i video sul computer, le parole scritte, come
a dimostrare che “se non ci credi non resta che provartelo”.
Una battaglia contro gli scherzi del cervello: toccante a tal
proposito la sequenza in cui Honig non ricorda il significato della parola “amore”, lui che nella vita ha dimostrato
di averne a profusione sia per i suoi cari che per il proprio
lavoro. Sembra scontato dirlo, ma una delle componenti
più interessanti che fuoriescono dalla visione di First Cousin Once Removed è il rapporto che cresce tra infanzia e vecchiaia. L’uomo malato, peggiorando, si vede regredire quasi
alla fanciullezza, riuscendo a rapportarsi al meglio con il
figlio del regista che, come lui, sta imparando a vivere e a
conoscere il mondo. Berliner non censura, anzi ci mostra
la “cattiveria” della vita quotidiana, in cui anche una semplice mossa può scatenare il dramma, e per sottolineare
questo usa un montaggio nervoso, quasi avanguardistico,
che si serve di suoni e immagini simboliche (crolli, fulmini,
tuoni) per raffigurare il crepuscolo. First Cousin Once Removed è però soprattutto la storia di un uomo attraverso
le testimonianze di chi gli è stato accanto. L’infanzia, gli
onori, gli oneri, l’amore, lo studio, la vecchiaia, la gioia e il
sopravvento della rabbia e della solitudine: tutti tasselli di
un ideale puzzle che forma la figura di Honig attraverso,
ironico dirlo, il ricordo. Un trattato su come un individuo
possa perdere la memoria del passato, ma allo stesso tempo
riesca a formulare pensieri importanti sul mondo e sulla
variabile umana, come se non fosse successo mai niente. Un
progetto personale e intimo ma che parla a tutti, soprattutto a chi ha perso la speranza nel genere umano.
Andrea Moschioni Fioretti
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Assieme ai film, durante il 34. Premio “Sergio Amidei” saranno proiettati tutti i cortometraggi firmati da Alan Berliner:
Patent Pending (id., 1975, b/n, 11’, v.o.)
Four Corner Time (id., 1976, b/n, 40’, v.o.)
serie di quattro cortometraggi: Line (b/n, 8’), Perimeter (b/n, 11’), Traffic Light (b/n, 10’), Intersection (b/n, 11’)
Color Wheel (id., 1976, col., 20’, v.o.)
Lines of Force (id., 1979, col., 7’, v.o.)
City Edition (id., 1980, b/n, 10’, v.o.)
Myth in the Electric Age (id., 1981, col., 13’, v.o., commento di Marshall McLuhan)
Natural History (id., 1983, col., 13’, v.o.)
Everywhere at Once (id., 1985, col., 10’, v.o.)
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Spazio Off
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N
el XX Secolo l’umanità ha generato una quantità di registrazioni – fotografiche, video, audio – prima inimmaginabile.
Spesso a scopi di documentazione o a scopi artistici, spesso per l’industria, culturale e non, spesso per puro divertimento, ma ogni volta un uomo, più o meno coscientemente, ha sottratto un istante irripetibile al fluire del tempo.
Trasferendolo su di un supporto, sottoponendolo a una codifica, ciascuno di quegli istanti è stato “desensibilizzato”, non potrà
mai più essere ri-vissuto come esperienza reale, ma solo attraverso una rappresentazione.
Esplorare oggi questo mondo di tracce vuol dire rinunciare all’idea che ciò che ci precede sia definitivamente passato: tutto può
essere reso “presente”, revitalizzato. Nel Fedro di Platone si legge che la scrittura “ingenererà l’oblio”: affidandosi alla parola scritta, gli uomini “cesseranno di esercitare la memoria”, dove con scrittura si intende ogni tipo di memorizzazione esterna all’uomo
che si ritiene affidabile. Tutte le registrazioni, questo enorme archivio di passato che non vuol passare, aiutano quindi la memoria, “luttuosa per essenza” (Derrida), o la delegano a passivi supporti extra-umani poco visitati? E visitandoli saremmo capaci
di ridare al ricordo i contorni esatti necessari alla comprensione? Possiamo insomma davvero dialogare con ciò che è assente?
I tre documentari dello Spazio Off di questa edizione del Premio Amidei cercano fortemente questo dialogo. La sezione, come
sempre incentrata sul cinema italiano indipendente, quest’anno parla al femminile con le opere di Penelope Bortoluzzi, Fatima
Bianchi e Maria Giovanna Cicciari. Tre giovani autrici che hanno spaziato dal documentario più puro, a forme più simboliche,
alla video arte. Le tre opere qui presentate differiscono molto per approccio e mezzi: c’è chi punta tutto sull’immagine, chi sulla
parola come testimonianza o sulla potenza dei suoni, chi fa rivivere video d’archivio o immagini fotografiche. Tutte però sono
accomunate da un vuoto da riempire, una certa paura di perdere qualcosa, una volontà ingenita di trattenere ciò che svanisce.
Non siamo su terreni distanti dall’Alan Berliner cui è dedicata la retrospettiva nella sezione parallela. Nella sua poetica tutto
attinge o fa riferimento all’archivio di memorie “acquisite senza essere comprese” (Freud) che, grazie a un montaggio sopraffino, riesce a resuscitare barthesianamente. In quest’operazione la memoria individuale, ombra di quella collettiva custodita
nell’archivio suddetto, prende sostanza e si universalizza. L’archivio privato di Berliner, visibile in Wide Awake (2006), è un
capolavoro di ordine ma allo stesso tempo un’esteriorizzazione di qualcosa di compulsivo, qualcosa di simile a un horror vacui
dell’uomo contemporaneo nell’atto di guardarsi indietro o di guardarsi dentro.
In quest’accezione fotografare, fare cinema, trattenere in archivio, sono operazioni postmoderne di conservazione della specie,
di salvezza dal vuoto. Il paese di Erto, che si aggrappa alla sua Passione per sentirsi vivo e solido, ha la stessa delicatezza e lo stesso
timore degli archeologi che in Hyperion (2014) alzano un’antica colonna; la silente attesa del viaggio in traghetto della Cicciari
è la stessa che si respira nella casa di Fatima Bianchi. Sono tutti tentativi di salvezza dal vuoto, cui si oppone una ricerca di senso
e di realtà realizzabile. Ecco allora il fascio di luce che in Tyndall (2014) scandaglia il buio dei boschi con la stessa testardaggine
di Berliner nel convincere il padre, in Nobody’s Business (1996), che anche la sua vita può essere interessante. Il found footage
elimina la distanza tra assente e presente, esaltandone la continuità e la possibile convivenza: è lo strumento principe per recuperare le memorie “scritte” e ridar loro efficacia. In un certo senso possiamo, con queste opere, confutare Platone e dar ragione
al Proust de La Recherche secondo cui “la realtà non si forma che nella memoria”. Quindi sì, dialogare con l’assente è possibile, e
anzi, in questo caso, è fecondissimo.
Erasmo De Meo
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INTERVISTA a maria giovanna CICCIARI
L
a milanese Maria
Giovanna Cicciari
realizza un filmviaggio, personale e rigoroso, che rielaborando un
illustre spunto letterario,
viene messo a confronto con le fascinazioni del
found footage e dell’home
movie. Capace di trasfigurare la percezione di un
tempo e di un luogo, quella Grecia classica culla della civiltà europea, Hyperion punta a interrogare la crisi del
presente e a offrire, tra le trame di una struttura sperimentale,
una proposta di riscatto per l’individuo contemporaneo, un
viatico di conoscenza che passi per il rispetto dell’umanità
tutta e l’amore per la natura.
Il tuo documentario si propone, a un tempo, come rielaborazione e omaggio all’omonimo romanzo epistolare del poeta tedesco Friedrich Hölderlin (1770 - 1843).
Qual è il tuo rapporto con l’Hyperion di Hölderlin e quali
ragioni interne al testo hanno ispirato il film?
Ho letto Iperione – L’eremita in Grecia per la prima volta circa due anni fa. Conoscevo Hölderlin come autore per la sua
opera poetica, e attraverso i film di Straub e Huillet. La lettura di Iperione, che è il primo e unico romanzo di Hölderlin,
è arrivata grazie ad un articolo di Godard dedicato a Mediterranée di Jean-Daniel Pollet raccolto nel volume curato da
Roberto Turigliatto e Michel Demopoulos, per la retrospet-
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tiva dei suoi film che si era tenuta a Torino. Godard definiva Pollet un moderno Iperione, perché capace di creare “un
mondo che si accorda con i suoi desideri”. Da qui si è smosso
qualcosa, volevo fare un film che parlasse della Grecia, non
di quella contemporanea che in quel periodo era l’occhio del
ciclone della crisi economica, ma di quel luogo immaginario
dove la nostra civiltà ha trovato una casa accogliente per le
sue fantasie più nobili e anche più irreali. Volevo parlare di
un luogo che esiste e non esiste, che ha confini spaziali che
sono percorribili ma non corrispondono quasi mai alle parole che nei secoli li hanno descritti: la Grecia di Iperione
è questo luogo, sospeso fra il reale e l’immaginario, e da qui
sono partita.
Un aspetto fondamentale del film è il suo impianto sperimentale, che colpisce per la profonda integrità poetica
con cui si dispiega. Quali sono i materiali che compongono il lavoro e quali i criteri con cui hai progettato la sua
struttura?
La prima parte del film è fatta di inquadrature di diversa
provenienza geografica e temporale dedicate al paesaggio e
alla storia greca. La seconda è il piano sequenza dedicato alla
tratta di mare fra Salamina e Perama. Nella prima parte le immagini si mescolano, si perdono, ritornano e si riordinano: è
il tempo della memoria. La seconda parte è un piano sequenza, in cui l’esperienza dello spazio e del tempo coincidono,
riportando (forse) al presente. Ispirandomi al romanzo ho
pensato che il mio Iperione, il mio sogno della Grecia, potesse
partire dalle fonti iconografiche di Hölderlin e potesse passare attraverso la memoria non ufficiale, la memoria filmica
“amatoriale” della Grecia. Così ho filmato le illustrazioni del
libro Voyage pittoresque de la Grèce e le ho messe a confronto con due film di found footage: un film “archeologico” che
si intitola Triumph Over Time (1947) e un home movie di
viaggio, in cui si riconoscono i meravigliosi colori della pellicola Ektachrome. Queste immagini della “Grecia vista dallo
straniero” sono unite da immagini dedicate alla natura, la cui
contemplazione è il cuore portante del romanzo. Ho poi infine lavorato sul testo, utilizzando alcune parti del romanzo e
alcuni stralci di corrispondenza che Hölderlin scrisse durante la sua lavorazione.
Dalla storia di Iperione emerge il dissidio dell’uomo moderno, alla ricerca di una piena armonia con le forme del
mondo: in che modo questa riflessione riguarda anche la
contemporaneità?
Se penso al romanzo, al di là del film, e lo riporto all’unica
contemporaneità che posso illudermi di comprendere, che è
quella della mia vita, credo che l’aspetto che trovo più attuale
sia soprattutto la forte e necessaria attenzione alla natura, alla
terra in cui viviamo. La natura è ciò che salva l’anima ferita
del protagonista del romanzo, ed è quello che, lo stiamo forse comprendendo, salverà anche noi come specie. Il secondo
aspetto è forse quello più difficile da spiegare. Hölderlin parla di una “nuova umanità”, una nuova era dell’uomo che sta
per arrivare. Questa idea di una “nuova umanità” nel romanzo è stata interpretata in diversi modi nel tempo: durante il
nazismo, migliaia di copie di Iperione, epurato dagli aspetti
più scomodi, erano state inviate ai soldati tedeschi sul fronte
di Stalingrado per incitarli alla battaglia. Per fortuna questa
“nuova umanità” non è stata sconfitta, e le inquadrature di
Straub e Huillet ai “figli della terra” ne La morte di Empedocle
sono state capaci di ridarvi un senso nuovo, tutt’ora per me
vivo: l’amore per l’essere umano e di conseguenza l’amore
per la natura; è la possibilità di fallire e di rialzarsi, è l’elogio
della debolezza come via di conoscenza.
Quali sono gli snodi della tua formazione?
Io ho una formazione soprattutto teorico-letteraria, che ho
poi completato a Brera (Milano) nel corso di Cinema e Video. A livello tecnico posso dire di essere un’autodidatta,
verso la tecnica vivo una certa continua forma di soggezione
attiva che sto cercando di comprendere ed analizzare attraverso la lettura di testi di pratica cinematografica femminista.
Il Filmmaker di Milano è stato il festival che ho frequentato
di più, essendo il miglior festival di cinema della città in cui
abito e quello che ha supportato e mostrato i miei primi lavori. Le persone che lavorano a Filmmaker, oltre che gestire un
evento, sono degli interlocutori presenti e disponibili per chi
fa cinema a Milano. Per me che lo faccio quasi da sola è sempre importante avere un confronto con chi può comprendere
e conosce dall’inizio il mio percorso.
Qual è la tua idea di cinema?
Questa è una domanda che mi mette davvero in crisi. Se devo
rispondere come spettatrice, dico che il cinema mi piace tutto, dai suoi usi più selvaggi a quelli più raffinati, da quelli più
domestici a quelli più avveniristici, dalla pellicola al digitale.
Se poi penso ai miei film, non saprei, sto cercando di sviluppare un linguaggio provando ad essere il più possibile fedele
a me stessa, alla mia felicità nel lavorare con le immagini tentando, anche nella sperimentazione, di non allontanarmi da
un possibile contatto comunicativo con un eventuale pubblico. Sono solo all’inizio, credo di essere ancora giovane e poco
esperta. Posso dire che il cinema è un meraviglioso momento
di uscita da sé e dal tempo quotidiano e guardare e sognare
sono sempre state le mie due attività preferite.
A cura di Marco Longo, 6 dicembre 2014
99
HYPERION
Iperione, nell’omonimo romanzo epistolare di Friedrich
Hölderlin pubblicato a fine Ottocento, torna in Grecia dopo
lunghe peregrinazioni, profondamente cambiato. Quel suolo
suscita in lui “gioia e dolore”, vi ritrova la soprannaturale
bellezza ma ne avverte l’irrimediabile decadenza. La regista
Maria Giovanna Cicciari compie quello stesso viaggio ideale,
alla ricerca di quella Grecia che abita solo l’immaginario
occidentale, consapevole della sua irraggiungibilità. Un
luogo e un tempo che hanno lasciato più tracce negli uomini
che sulla terra.
L’
Regia: Maria Giovanna Cicciari; Soggetto: Maria Giovanna Cicciari;
Sceneggiatura: Maria Giovanna Cicciari; Fotografia: Vassily
Bourikas, Maria Giovanna Cicciari; Montaggio: Maria Giovanna
Cicciari; Suono: Yannis Yaxas, Massimo Mariani; Musiche: Gérard
Pesson; Produzione: Maria Giovanna Cicciari, LabA; Origine: Italia/
Grecia 2014; Durata: 40’
100
azzurro del cielo e delle acque, il mare ed i fiumi che
tanta parte prendono in quest’opera, secondo la
mitologia greca discendono tutti da Oceano, il dio-fiume
che avvolge il mondo, indicato da Omero come l’origine
di ogni presenza divina. Ma Oceano è una divinità relegata
a distanze disumane, ai confini di ogni cosa, sempre al di
fuori di ogni vicenda divina e terrena. Qualcuno pone
l’isola di Ogigia, dove Odisseo risiedette per lunghi anni
con Calipso prima di riprendere il suo viaggio, nello stesso
luogo indefinito di Oceano. Quante volte da lì lo sguardo di
Odisseo scruta l’orizzonte verso la propria terra, le proprie
origini, con quel dolore legato alla voglia di ritorno che noi
moderni chiamiamo nostalgia. È con lo stesso sguardo che
Hölderlin guarda alla Grecia che non visitò mai, affidando
le proprie osservazioni al viaggiatore Iperione. Il nome è
ripreso da un altro Titano, fratello di Oceano, il cui nome
sta per “colui che si muove più in alto”, legato al sole, alla
luce, alla visibilità. Ma l’Iperione di Hölderlin non può
semplicemente guardare, è costretto a guardare oltre: per
sfuggire dal “pantano”, dalla “bara”, dalla solitudine, il suo
sguardo raggiunge il sogno, la memoria. Maria Giovanna
Cicciari sfida questo paradosso: si mette in viaggio guidata
da un personaggio che non vorrebbe guardare, verso un
luogo lontano e irraggiungibile come il fiume Oceano
o come Ogigia stessa. Apre l’opera l’immagine di un
frammento di un’iscrizione greca, un dito scorre il testo
corrotto dal tempo con la sicurezza di chi stia leggendo
agevolmente. Sembrano essere le indicazioni del viaggio,
l’inizio del racconto, l’oggetto della ricerca. Nell’immagine
successiva siamo su una piccola nave, l’occhio è puntato
sulla scia che increspa il mare e confonde il riflesso del
sole: siamo partiti ma stiamo lasciando qualcosa, forse la
comprensibilità di quel testo e le istruzioni per raggiungere
“quella” Grecia. L’acqua consuma, scava, muta forma alle
cose, la sua onnipresenza in Hyperion indica probabilmente
questa funzione erosiva di ogni cosa che è stata. La regista
tenta più itinerari: il film d’archivio amatoriale, un antico
libro, delle riprese di uno scavo archeologico. Raccoglie
tutti questi passi in un unico cammino, un’unica direzione,
un unico rullo di pellicola, per eccellenza materia soggetta
al tempo, all’erosione, alla dimenticanza. Ad ogni materiale
viene dato il giusto spazio, il giusto tempo: il tempo
che richiede una stampa densa di dettagli, il tempo che
richiede una ripresa fissa in un ambiente naturale, il tempo
che richiede un volto di donna antica. Tutto è placido,
sospeso, misterioso, persino olimpico. Nella seconda parte
dell’opera la Cicciari rinuncia alla pluralità e si affida ad un
unico piano sequenza in cui una telecamera fissa mostra
il viaggio tra Paro e Salamina all’imbrunire. L’occhio è
rivolto a prua, si guarda avanti, non si sta lasciando, si sta
conquistando, ma la luce ora descrive, ora trasfigura con
uno sviluppo che vira sul verde, ora viene a mancare fino a
rendere il tutto inconoscibile: il blu di Oceano è diventato
il nero del Tartaro in cui ogni memoria muore. Il viaggio,
come per Iperione, ci ha ridato una vista meno capace, ma
ora sappiamo guardare in faccia l’incolmabile distanza tra
noi e una memoria possibile. La Grecia Antica ha una voce
che non sappiamo più ascoltare – quando il voice over è
assente non resta che silenzio – ma di cui da secoli sentiamo
il bisogno, il vuoto che reclama attenzione.
Erasmo De Meo
101
LA PASSIONE DI ERTO
Erto, un paese delle Alpi friulane. Alla fine degli anni
Cinquanta, nella sua valle impervia viene costruita la diga
del Vajont. Nel 1963 un versante del monte Toc precipita nel
lago artificiale della diga, provocando un’ondata che uccide
quasi duemila persone. Gli ertani non hanno mai smesso di
mettere in scena la Passione di Cristo. Ogni anno, da tempo
immemorabile, la sera del venerdì santo un Cristo ertano
viene tradito, condannato e crocifisso, mentre la Storia va
avanti con le sue costruzioni e distruzioni, le sue vittime e i
suoi sopravvissuti, i suoi calvari reali e immaginari.
L
Regia: Penelope Bortoluzzi; Soggetto: Penelope Bortoluzzi;
Sceneggiatura: Penelope Bortoluzzi; Fotografia: Penelope
Bortoluzzi, Stefano Savona; Montaggio: Penelope Bortoluzzi;
Suono: Jean Mallet, Xavier Thibault; Produzione: Picofilms, À Vif
Cinémas, Dugong Production; Origine: Francia/Italia 2013; Durata:
78’
102
e strade di Erto, riprese dall’occhio oggettivo della
macchina da presa, sono vuote, buie, spoglie. Molte
volte nel cinema un luogo vuoto presume una sorpresa,
una forma di vita che spunti qui o lì, invece le gialle luci
dei lampioni di Erto sono immote come le pietre delle
case, non verranno interrotte così come il silenzio. Ci sono
poche cose drammatiche, dolorose, che inducono alla
riflessione quanto un paese abbandonato, ma Erto è di più,
è un paese che non si è arreso: la tremenda onda del Vajont
fu una condanna a morte, ma le fondamenta delle case,
delle chiese erano radicate in quel luogo, conficcate come
i chiodi nelle mani del Cristo. Gli abitanti di Erto hanno
sfidato e superato la legge, la predestinazione, hanno tenuto
stretta la loro vita fatta di terra e miseria e sono scesi dalla
croce con le proprie gambe, hanno ripreso il cammino
con il pesante legno sul dorso, verso un Calvario ancora
più lontano e alto, quello del ricordo e della memoria
evanescente. La perpetuata tradizione della Passione, la
tenacia con cui è stata portata avanti, con orgoglio e dignità,
sono state un simbolo potente di unità e di reazione dopo
la tragedia, quasi da trasferire nella passione cristiana le
proprie sofferenze in cerca di liberazione, realizzando nella
rappresentazione un involontario atto catartico. Tanto più
che la spùa (così in dialetto è nominata la Passione) vista
la sua tradizione secolare si era già così mimetizzata nel
paese, nel suo popolo, da aver assunto nel tempo caratteri
non solo religiosi. Una parte del documentario è affidata
infatti a immagini amatoriali e alla lettura di scambi
epistolari tra parroci, vescovi e autorità civili, che mettono
in luce il carattere più folcloristico e meno ortodosso
che ha avuto nel passato la rappresentazione, più volte
interrotta, criticata, ritenuta non conforme e poi riabilitata
grazie alle pressanti richieste degli abitanti di Erto. Basti
confrontare gli abiti, in passato vistosi, improvvisati, dove
non mancano attributi del tutto fuori luogo, con quelli
della attuale rappresentazione, così studiati da permettere
una riproduzione in quadro vivente della leonardesca
Ultima cena. Oppure si può guardare a quegli elementi che
la tradizione ha aggiunto attraverso la creazione schietta
e collettiva tipica dei fenomeni popolari, come il perenne
battere di tamburi che accompagna gli attori lungo la Via
Crucis. “È il tormento di Cristo” spiegano gli ertani, quello
stesso tormento rabbioso che accompagna le interviste
d’epoca alle donne e agli uomini che volevano restare in
paese e vivere “nelle fatiche dei padri”. Bortoluzzi organizza
i materiali alternando la ricostruzione della triste vicenda
alla costruzione della spùa filmando le prove degli attori,
i preparativi e i momenti di pausa. Colpisce il volto dei
personaggi, capace di passare dalla distensione della
quotidianità all’impassibile serietà di chi quel ruolo l’ha
fatto così tante volte da sentirlo naturalmente proprio. I
ragazzi assistono alle prove, qualcuno recita il labiale delle
battute già con un’intensità che prefigura i futuri interpreti.
Una delle preghiere che si ascoltano nel documentario
recita “Chi casca in acqua non potrà annegare”. Lentamente
le memorie dirette del disastro si affievoliranno, verranno
ricoperte da un banco di nuvole, il calvario sarà raggiunto
ma per pattinarci su, come fa una ragazza nell’ultima
inquadratura, e la finestra di legno resterà chiusa su quella
croce portata nella casa assieme ai tamburi. Gli ertani non
sono annegati.
Erasmo De Meo
103
TYNDALL
Sulle montagne di Brunate, nel comasco, un faro illumina il
paese e il lago. Tra le case che la luce individua nella notte,
quella della famiglia Bianchi è abitata dal silenzio e dalla
sospensione: padre, madre e figli attraversano lentamente
il quotidiano, fra gesti minimi e tempi morti, ciascuno
testimoniando il proprio rapporto con un’assenza, quella di
Francesco, primogenito, costretto in carcere da un periodo di
reclusione. A lanciare l’ipotesi di una comunicazione sono
le lettere che ogni membro della famiglia scrive a Francesco,
nell’attesa del suo ritorno a casa.
L’
Regia: Fatima Bianchi; Soggetto: Fatima Bianchi; Sceneggiatura:
Fatima Bianchi, Daniela Persico; Fotografia: Fatima Bianchi;
Montaggio: Fatima Bianchi, Paolo Ranieri; Suono: Nicola Ratti;
Musiche: Tilde; Origine: Italia 2014; Durata: 29’
Premi: Filmmaker Film Festival (2014): Primo Premio Sezione
“Prospettive”
Interpreti: Francesco Bianchi, Benedetta Bianchi, Pietro Bianchi,
Fatima Bianchi, Maddalena Bianchi, Giacomo Bianchi, Emma
Romanelli, Ermenegildo Bianchi
104
effetto Tyndall è quel fenomeno fisico, noto ai più ed
eternamente gravido di mistero, dovuto alla presenza
di particelle luminose nell’aria. Restituito spesso in
fotografia, nel film di Fatima Bianchi alimenta un intento
ben lontano dalla semplice fascinazione sensoriale: è un
baluginio, un flare che dà forma al racconto, ne individua
l’area di azione, scandisce il suo processo. È, a suo modo,
la via attraverso cui l’invisibile, con tutto il suo carico di
profonda ineffabilità, dolcemente si palesa e apre uno
spiraglio al possibile cinematografico. Partendo dal faro che
sopra Brunate illumina il lago di Como, la notte si concede
al mattino e lo sguardo si restringe, entra nella casa della
famiglia Bianchi e ne ritrae i componenti. Nessuno parla: il
padre fa colazione, la madre indossa gli orecchini, i figli e le
figlie praticano lo yoga, suonano il violino, si rasano i capelli,
stendono lo smalto sulle unghie, intonando a mezza voce
le canzoni di un passato felice. Il quotidiano perde presto
la rassicurante parvenza della cronaca, perché ogni gesto,
ogni minima relazione con la casa e con gli altri familiari,
appare cristallizzato e rarefatto: le musiche e il suono, spesso
attento al fuori campo, spingono il materiale filmico verso
l’astrazione, mentre la messa in quadro ribadisce il proprio
discorso, trasformando l’ordinario in un fiabesco fatto di
riflessi luminosi, specchi, superfici opache, intorno a cui le
ombre dei personaggi sembrano testimoniare la disarmante
solitudine di un vivere a vuoto. L’assenza del primogenito
tra i figli di casa Bianchi, Francesco, la sua reclusione in
carcere per il periodo di un anno, sono il primo motore di
questa fantasmatica sospensione, che non riguarda soltanto
la dinamica interna alla consuetudine, ma un senso di fatale
immobilità che il labirintico accumulo degli oggetti, feticci
e rituali del tempo, tende a sottolineare. C’è qualcosa
dell’Interno italiano di Luigi Ghirri nell’organizzazione
visiva di certe inquadrature, ma in Tyndall l’uso della
profondità di campo e del dettaglio, più che preservare
l’immediatezza caotica dello spazio privato, sembra nutrire
la messinscena di una crisi, di uno stallo. Le brevi, silenziose
lettere che ciascun componente della famiglia scrive a
Francesco, offrendo un punto di vista differente e un dolore
personale rispetto alla sua condizione, portano dunque con
sé il tentativo di fare ordine, di non attendere passivamente
il ritorno a casa dell’amato figlio e fratello, di lanciare un
messaggio nello spazio e nel tempo che sia punto di partenza
per una rinascita. Anche la parola è fatta di luce, proiettata
sulle pareti della casa, deformata dal passaggio di un suo
abitante, ugualmente viva e resistente. Fatima Bianchi
riprende il materiale più che intimo del suo racconto con
una tecnica volontariamente amatoriale, fatta di incertezze
nei movimenti di camera e rapidi cambi di fuoco: è la forma
di una confessione a metà tra la biografia e la videoarte, fatta
di tableaux vivants catturati senza la forzatura dell’artificio.
Quando la testimonianza dell’intera famiglia si è esaurita,
di nuovo la notte è scesa a ricoprire il paese. Lo sguardo è
pronto a uscire dalla villa e tornare sul faro, sul suo raggio
luminoso cui, magicamente, è connessa la voce limpida e
chiara di Francesco: le sue parole tranquillizzano e placano
lo smarrimento dei familiari. Prima ancora del ritorno a
casa, la consapevolezza della sua presenza è la cura a ogni
malinconia, il ponte per immaginare nuovamente il futuro.
Marco Longo
105
Premio alla Cultura Cinematografica
Irene Bignardi
108
I
l Premio alla Cultura Cinematografica 2015 viene attribuito a Irene Bignardi, storica firma de La Repubblica, da considerarsi
uno degli esempi più rappresentativi del giornalismo cinematografico puro, lontano dalle riflessioni teoriche della critica
accademica ma, al contempo, in grado di emergere quale punto di riferimento orientativo e interpretativo per larghe fasce
di spettatori.
Al suo lavoro critico, Irene Bignardi ha coniugato la direzione artistica di importanti kermesse cinematografiche come il
MystFest (1986 - 1989) e il Festival di Locarno (2001 - 2005), compresa la sua partecipazione nella commissione degli esperti
della Mostra del Cinema di Venezia durante la direzione di Gillo Pontecorvo (1992 - 1996).
Come omaggio, il Premio Amidei, partendo dal suo volume Il declino dell’impero americano: 50 registi e 101 film, propone
il film dei fratelli Coen Barton Fink – È successo a Hollywood, originale riflessione sul processo creativo alla base di una
sceneggiatura cinematografica, e Clerks – Commessi di Kevin Smith, che proprio alla sagacia dei suoi dialoghi e del suo script
deve lo status di piccolo grande cult.
109
INTERVISTA a IRENE BIGNARDI
Critica cinematografica (collabora con La Repubblica dal
1976), saggista, selezionatrice per la Mostra del Cinema di
Venezia, direttrice artistica di festival (MystFest, Locarno),
Irene Bignardi è celebre per il suo sguardo idiosincratico
e appassionato (molto discussi furono i suoi strali contro
Cronenberg), cui tuttavia non manca una visione analitica
precisa e attenta all’interdisciplinarità, che la rende un
personaggio chiave nella storia della critica cinematografica
italiana.
Lei appartiene a una generazione di critici la cui
formazione non deriva da specifici corsi di laurea, ma
– almeno in molti casi – dal lavoro sul campo. Ci può
raccontare da dove nasce la sua passione per il cinema
e quali sono i colleghi che più hanno influenzato il suo
lavoro?
Passione? Amore, forse. O meglio, vista la non esclusività
del mio rapporto con il cinema (è una vita che me la faccio
anche coi libri), amicizia. Anni fa sono stata accusata da un
celebre e premiatissimo regista di non essere una “cinefila”. È
vero. Sono una curiosa. Di cinema, ma anche di letteratura,
di musica, di arte, di realtà, di tutte le cose che compongono
quel prodotto speciale che chiamavamo film e che continua
a chiamarsi così anche se, avendo perso il suo supporto
fisico, dovrebbe cambiare nome. E sì, da “piccola” ero
ahimé circondata da pericolosi cinefili, che non vedevano
al di là dello specifico filmico, delle carrellate e di altre
finezze che impediscono di vedere il film come è e sempre
sarà: comunicazione popolare, romanzo, melodramma del
110
Novecento. E per questo riconosco come maestro un critico
come Tullio Kezich, capace di incantare con la sua prosa, il
suo modo di raccontare, la densità di ciò che sapeva mettere
in una recensione anche piccola. Forse qualche volta si è
sbagliato (ma chi lo stabilisce?). Ma certo non si sbagliava nel
suo modo di dircelo.
Lei ha ricoperto ruoli importanti in numerose
manifestazioni cinematografiche: ha diretto il MystFfest
di Cattolica e il Festival di Locarno e ha fatto parte della
commissione di esperti della Mostra del Cinema di
Venezia. Quanto è stata rilevante per la sua carriera e la sua
formazione l’esperienza in questi festival, e quale ruolo,
secondo lei, ricoprono attualmente i festival nel sistema
distributivo cinematografico? A un film, per potersi
metter in mostra, conviene di più passare per un festival
o puntare sulle potenzialità (soprattutto economiche) del
web?
Una domanda che è una traccia per una tesi di laurea? Prima
di tutto io non ho avuto una carriera, ma tanti anni di lavoro
spesso felice. E ogni giorno mi sono messa nella posizione
di chi stava studiando e imparando. Cosa piace al pubblico.
Cosa piace ai colleghi. Come mettere insieme quello
smörgåsbord, per dirla gastronomicamente, che è il palinsesto
di un festival. E sì, i festival sono il motore della curiosità,
il circuito più importante per la promozione. Ma forse sto
parlando così perché sono ormai una vecchia signora che usa
il computer solo per scrivere e trasmettere mail.
Le sue pubblicazioni sono spesso dedicate agli autori:
penso a Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo
Pontecorvo (Feltrinelli, Milano 2000) o al recente Brevi
incontri (Marsilio, Venezia 2013). Secondo la sua
opinione, la vicinanza con l’autore rappresenta il punto
di partenza fondamentale rispetto all’analisi del film
oppure vi sono altre istanze parimenti importanti?
Assolutamente no. La vicinanza del critico con l’autore è
pericolosissima, e porta a travisamenti e deformazioni del
giudizio. E non faccio esempi perché sono una brava ragazza.
La biografia, però, di un autore che ha fatto in tutto cinque
film e mezzo (il mezzo è Giovanna) e che è diventato regista
dopo una vita di altre cose, è un caso a parte.
che quindi per una volta il critico ha il diritto/dovere di fare
il moralista. Mi diverte comunque vedere che con venti righe
su un mito cinefilo mi sono fatta ricordare per sempre dalla
tribù dei suoi ammiratori.
Il cinema oggi sta sconfinando verso nuove forme di
esperienza spettatoriale che oltrepassano la classica
visione in sala (penso ad esempio alla pratica dello
streaming). Andare al cinema è ancora la modalità
migliore di vedere un film?
Sì. Al buio, con uno schermo grande, seduti non troppo
lontani dallo schermo, ben in asse, e con un amico con
cui confrontare le emozioni. Vi racconto questa: David
Robinson, critico del London Times, biografo di Chaplin,
direttore delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone e, per
fortuna mio amico, venne una volta a Roma per selezionare
dei film per il Festival di Edimburgo che allora dirigeva. E mi
chiese “in prestito” mio figlio, allora decenne, per vedere con
lui un film comico. È difficile ridere da soli. Come applaudire
con una mano sola. Il cinema non è un paese per solitari.
A cura di Leonardo Cabrini, 13 giugno 2015
In una sua discussa recensione lei ha scritto, riguardo a un
famoso regista, “Non c’è dubbio [...] che faccia parte dei
diritti del critico e dello spettatore trovarlo presuntuoso,
pomposo e ripugnante”. Secondo lei quanto è necessario
per un critico conciliare la parzialità dello sguardo
spettatoriale con l’obiettività di quello analitico? Quale
delle due componenti è più importante?
Se parliamo del signore che penso e del film che penso, beh,
continuo e continuerò a pensare che è un grande cineasta e un
cattivo maestro, e che il cinema ha delle responsabilità serie, e
111
BARTON FINK - È SUCCESSO
A HOLLYWOOD
(Barton Fink)
USA, 1941. Barton Fink è un giovane commediografo
di New York di ormai discreto successo. In virtù del suo
interessamento ai temi sociali e all’uomo comune, decide
di trasferirsi temporaneamente a Hollywood per scrivere
la sceneggiatura di un film di boxe di serie B, tentato da
un ottimo compenso. Sebbene opti per la scelta di un hotel
decisamente poco mondano, Barton viene distratto dal
rumoroso vicino di stanza Charlie e non riesce a concentrarsi:
si trova così in difficoltà nella stesura del soggetto.
Regia: Joel Coen, Ethan Coen; Soggetto: Joel Coen, Ethan
Coen; Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen; Fotografia: Roger
Deakins; Montaggio: Roderick Jaynes [Joel Coen, Ethan Coen];
Scenografia: Dennis Gassner; Costumi: Richard Hornung;
Musiche: Carter Burwell; Produzione: Circle Films, Working Title
Films; Distribuzione: FilmAuro; Origine: USA 1991; Durata: 116’
Premi: Festival di Cannes (1991): Palma d’Oro al Miglior Film,
Miglior Interpretazione Maschile (John Turturro), Miglior Regia
(Joel Coen, Ethan Coen); David di Donatello (1992): Miglior Attore
Straniero (John Turturro)
Interpreti: John Turturro (Barton Fink), John Goodman (Charlie
Meadows/Karl Mundt), Judy Davis (Audrey Taylor), Michael
Lerner (Jack Lipnick), John Mahoney (William Preston Mayhew),
Tony Shalhoub (Ben Geisler), Jon Polito (Lou Breeze), Steve
Buscemi (Chet), Richard Portnow (detective Mastrionotti),
Christopher Murney (detective Deutsch)
112
I
l film di Joel ed Ethan Coen, che vinse nel 1991 la Palma
d’Oro al Festival di Cannes, è il racconto onirico della
frustrazione di un autore in preda ad un “blocco creativo”.
I fratelli Coen mescolano come al solito vari generi
cinematografici: noir e commedia si intrecciano attraverso
l’horror o l’onirico. Il protagonista Barton si fa tentare
dall’ingente somma di denaro offertagli dal produttore
Jack Lipnick (un magnate analfabeta) e per questo
lascia le sue sicurezze newyorkesi per la sciatta società
hollywoodiana, dedita ai party e lontana dalle sofferenze
dell’uomo comune. La sua presunzione di interesse per
l’uomo semplice fa però in modo che venga preso in
giro dal vicino Charlie, nonostante cerchi di mettersi
letteralmente “nelle sue scarpe”. Non solo, si fa anche
sedurre dalla bellezza algida di Audrey, donna d’altri tempi
che ricorda Lauren Bacall e ghostwriter di un marito di
successo, dipendente dall’alcol. L’idea dello scrittore genio
(che invece piace tanto al “filisteo” Lipnick) viene smontata
e ridicolizzata: W.P. Mayhew (ispirato liberamente allo
scrittore, poeta e drammaturgo William Faulkner) vomita,
urina in pubblico, schiaffeggia la moglie e impreca in preda
alla sbornia. Lo stesso Barton è un individuo privo di verve,
incapace di confrontarsi e di esprimersi direttamente.
Charlie, figura all’apparenza bonaria e sincera, lo tratta da
subito come se fosse un amico, piuttosto invadentemente
si insinua nell’intimità della sua camera d’albergo e gli
racconta la sua ordinaria vita. Gli incontri tra i due, vicini di
stanza, avvengono però solo in quella di Barton, un luogo
che è il corpo orrorifico di tutta la vicenda. Il grottesco
qui, nell’intimità della stanza (o della mente, in maniera
simbolica), trasuda attraverso sensazioni costruite con l’uso
attento del sonoro e dell’immagine: l’atmosfera si riscalda
pian piano lasciando che dalle pareti si sciolga la colla e si
stacchino le carte da parati, si sentono rumori continui e
forti: una zanzara (che però ad Hollywood non dovrebbe
esserci), la ventola, la coppia che geme in una stanza, lo
stesso Charlie che ride con una risata mefistofelica. L’Hotel
Earle che accoglie Barton è una specie di luogo infernale
– Steve Buscemi infatti arriva alla reception direttamente
da sottoterra – apparentemente vuoto, fatta eccezione
per gli stessi Charlie e Barton. Forse siamo allora dentro
la testa di Barton, o in un suo sogno: questi infatti trova
una Bibbia (e il testo sacro non poteva mancare ai Coen)
in cui la Genesi inizia esattamente come la sua pièce teatrale
di successo: “Fade in [...] Lower East Side...”. Il calore
continua a salire fino a che non esplode letteralmente:
Barton crede di avere scritto “la” sceneggiatura, ma questa
(che inizia e finisce esattamente come la sua opera teatrale)
non piacerà. Non riuscirà dunque a fare la differenza,
poiché non è nel cinema che Barton potrà trovare il suo
pubblico impegnato. Nell’incipit sentiamo recitare la sua
commedia: qui si dice che la stessa luce del giorno può
essere un sogno, se la si è vissuta ad occhi chiusi. Barton,
nella sua incapacità di vivere e agire, di ascoltare veramente
(Charlie glielo urla contro), vive come in un sogno. E se gli
attori della sua rappresentazione parlano di un uomo di cui
un giorno si sentirà parlare, e non grazie ad una cartolina,
paradossalmente la fine di Barton è proprio questa: finire
dentro una cartolina.
Nicole Braida
113
CLERKS - COMMESSI
(Clerks)
Il commesso di alimentari Dante e il collega Randal passano
le proprie giornate cercando di affermare se stessi, senza impegnarsi e pensarci troppo. Assieme ad un gruppo di strambi
amici vivono la routine che riguarda lavoro, frequentazioni
varie e amori (o presunti tali) andando a caccia di un modo
per sentirsi realizzati. I diversi capitoli che si susseguono rappresentano un variegato ventaglio di accadimenti e circostanze che nel giro di ventiquattro ore accompagnano i giovani,
finendo col forgiare – volenti o nolenti – le loro esistenze.
K
Regia: Kevin Smith; Soggetto: Kevin Smith; Sceneggiatura:
Kevin Smith; Fotografia: David Klein; Montaggio: Scott Moisier,
Kevin Smith; Musiche: Scott Angley; Produzione: View Askew
Productions, Miramax; Distribuzione: Mikado; Origine: USA 1994;
Durata: 92’
Premi: Festival di Cannes (1994): Premio Mercedes-Benz al
Miglior Film della Settimana della Critica
Interpreti: Brian O’Halloran (Dante Hicks), Jeff Anderson (Randal
Graves), Marilyn Ghigliotti (Veronica Loughran), Lisa Spoonauer
(Caitlin Bree), Jason Mewes (Jay), Kevin Smith (Silent Bob),
Scott Mosier (William Black), Al Berkowitz (vecchietto), Ernest
O’Donnell (Rick Derris), Kimberly Loughran (Heather Jones),
Ed Hapstack (Sanford), John Henry Westhead (Olaf), Scott
Schiaffo (rappresentante), Thomas Burke (operaio), Ken Clark
(funzionario)
114
evin Smith esordisce alla regia con Clerks – Commessi nel 1994, nello stesso anno del cortometraggio di
Wes Anderson Bottle Rocket. Non è un caso, dopo tutto,
questa coincidenza cronologica: è solo la Generazione X
che inizia a guadagnarsi un posto di rilievo nell’immaginario collettivo. Come la generazione dei giovani ribelli della
Nouvelle Vague francese negli anni Sessanta ha proposto
una serie di pietre miliari della storia del cinema, cercando
di affermare prima di tutto se stessa, così a metà degli anni
Novanta negli Stati Uniti d’America un gruppo di ragazzi
in preda alle grandi domande della vita tentano di trovare
una via di accesso ad un’esistenza che li soddisfi. La ricorrenza del bianco e nero, dei cartelli francofili e di alcune
sequenze ricorrenti (corse a perdifiato, dialoghi vuoti a
proposito di film e serie tv) richiamano quella ricerca di libertà e affermazione personale che costituisce una chimera
per gli stessi protagonisti del film. I personaggi si nutro-
no, in senso figurato e non solo, di pellicole campioni di
incassi e icone culturali contemporanee, non riuscendo ad
assumersi le proprie responsabilità, preferendo nascondersi
al buio e nella solitudine (unico modo per avere rapporti sessuali soddisfacenti) piuttosto che confrontarsi con il
mondo esterno e il cambiamento della crescita. Lontano
dalla raffinatezza di enunciazione visiva e sonora del sopraccitato Wes Anderson, Kevin Smith produce un film
spietato nella creazione dei suoi episodi, continuamente
correlati all’inettitudine e all’ignavia dei suoi personaggi principali. Incapaci di vivere rapporti umani e compiti
quotidiani in maniera adeguata, i giovani si barcamenano
arrivando, ora dopo ora, a fine giornata. In questa ricerca di
senso realistico e non edulcorato, il regista compone un panorama di immagini e caratteri tra i primi del genere a imporsi nell’immaginario collettivo cosciente del pubblico.
Nel microcosmo autonomo a sé stante del “View Askenverse”, Jay e Silent Bob (interpretato dallo stesso regista)
e i loro compagni di avventure/sventure diventano parte
di un universo cinematografico ante litteram, sviluppato
all’interno di una casa di produzione come solo nelle ultime produzioni Marvel si è visto. Innovazione e realismo
al punto giusto, considerati come appartenenti a stereotipi
culturali molto lontani da quelli presentati da Clerks e soprattutto da quelli perseguiti da Smith nei film successivi
(almeno fino alla distorsione intellettuale di Tusk, 2014),
hanno fruttato al regista riconoscimenti di alto livello. Ricorrendo all’idea del regista e della troupe che si occupa in
toto di più aspetti della produzione filmica, Clerks si fa portavoce della generazione presentata sia fuori che dentro lo
schermo, avvalendosi di richiami aulici e letterari (dalla già
nominata Nouvelle Vague all’Inferno dantesco) che acuiscono ancora di più la giustapposizione tra aspirazioni e
realtà, tra ambiente quotidiano e progetti da realizzare. La
forza con cui Clerks si è impresso nella collettività è proprio
dovuta a questa vicinanza con la generazione posta di fronte allo schermo e a una potenza visiva che, oggettivamente,
è difficile ritrovare anche nei film successivi del regista. In
altre parole, Clerks codifica come difficilmente prima di allora era successo il disagio di una generazione, un malessere
quasi inedito per il cinema indipendente americano dell’epoca.
Teresa Nannucci
115
116
Eventi Speciali
117
Amidei Kids
Un film fuori dal gregge
C
ome da tradizione, l’edizione 2015 del Premio “Sergio Amidei” propone al pubblico di bambini e ragazzi un’esperienza
cinematografica che li avvicina all’emozionante mondo del cinema. Nell’anno in cui il Premio, per la prima volta, dedica
una sezione alla serialità televisiva, la scelta non poteva che ricadere su Shaun, vita da pecora – Il film, sbarcato su grande
schermo dopo ben 120 episodi televisivi. I pupazzi in plastilina animati in stop motion dai maestri dello Studio Aardman
(Galline in fuga, Wallace & Gromit) conquistano tutti con le loro gag comiche senza bisogno di parlare. Perché il vero cinema
sa emozionare e divertire anche senza effetti digitali.
Martina Pizzamiglio
SHAUN, VITA DA PECORA - IL FILM
(Shaun the Sheep Movie)
Regia: Mark Burton, Richard Starzak; Soggetto: Nick Park, Mark
Burton; Sceneggiatura: Mark Burton, Richard Starzak; Fotografia:
Charles Copping, Dave Alex Riddett; Montaggio: Sim EvanJones; Musiche: Ilan Eshkeri; Produzione: Aardman Animations,
StudioCanal; Distribuzione: Koch Media; Origine: Gran Bretagna/
Francia 2015; Durata: 85’
118
Nella fattoria Mossybottom la vita è piuttosto noiosa: la
sveglia all’alba, la tosatura, il pascolo, i pasti, e di nuovo a
nanna. Ogni giorno la stessa storia! Shaun e il gregge escogitano allora un astuto piano per prendersi una giornata di
meritato riposo: saltano ripetutamente la staccionata e fanno
addormentare il fattore, portandolo in una vecchia roulotte
parcheggiata nel campo. Ma qualcosa va storto: la roulotte
inizia a muoversi, e senza neanche rendersene conto il contadino si ritrova nella Grande Città. Inizia la missione di salvataggio, ma addentrarsi nella metropoli per Shaun e i suoi
amici non sarà facile come previsto.
I
ntraprendente, carismatica, geniale ed estremamente intelligente. Trattasi di Shaun, una pecora che letteralmente “non segue il gregge” guidandolo al contrario attraverso
avventure eccezionali e spericolatissime. Anche per chi
fosse a totale digiuno della serie animata britannica creata
da Nick Park (120 episodi della durata di 7 minuti l’uno,
prodotti a partire dal 2007), il passaggio al cinema risulterebbe rapido e indolore. Ci vuole poco per conoscere – e
amare – i componenti della fattoria Mossybottom: dal sopraccitato Shaun al resto del gruppo ovino formato da Hazel, Nuts, Shirley e Timmy, passando per il tollerante cane
pastore Bitzer e per i disordinati maiali, fino ovviamente
al pacioso fattore, spesso (suo malgrado) protagonista di
scorribande slapstick degne del miglior cinema muto. Al
contrario, è praticamente impossibile non aver mai avuto
a che fare con lo stile e la tecnica che caratterizzano Shaun:
la claymation utilizzata (personaggi di plastilina animati in
stop motion) è la stessa di Galline in fuga (2000), Wallace
& Gromit – La maledizione del coniglio mannaro (2005,
Premio Oscar al Miglior Film d’Animazione) e Pirati!
Briganti da strapazzo (2012). Tutti prodotti dello studio
britannico Aardman Animations, di cui citiamo ancora volentieri il rivoluzionario – per l’epoca – videoclip di culto
Sledgehammer (1986) di Peter Gabriel e il cortometraggio vincitore di un Academy Award Una tosatura perfetta
(1995). Più relegati allo sfondo Giù per il tubo (2006) e
Il figlio di Babbo Natale (2011), che passano apertamente
all’animazione digitale perdendo lo spirito delicatamente
“materico” degli originali. Può sembrare una questione di
lana caprina (ehm... si perdoni il gioco di parole!), ma per
apprezzare appieno lo humour irresistibile e il nonsense
delirante degli avvenimenti che si susseguono è necessario
anche comprenderne l’artigianalità di fondo, che riduce
squisitamente la distanza con lo spettatore rispetto all’asettica e inattaccabile computer grafica. Questa Vita da pecora
trasposta al cinema è un “ritorno al futuro” che riduce al
minimo i compromessi e crea di continuo un legame em-
patico con chi guarda, grande o piccolo che sia. A partire
dalla mancanza di dialoghi, sostituiti da un campionario
di versi e mormorii anarchici e trascinanti, capaci di dare
senso e persino intenerire, ammaliare, commuovere. Come
già successo nel recente Minuscule – La valle delle formiche
perdute (2013), anch’esso tratto da una serie di straordinario successo in patria (la Francia). Ma dietro all’attrazione
visiva c’è molto di più, la ricetta di Shaun è più elaborata
di quanto si possa pensare: una sceneggiatura coerente e
ritmata ad esempio (caratteristica che molti film live action
non possono permettersi), la cinefilia squisita delle citazioni (e qua si passa con nonchalance da Mars Attacks!, 1996,
a Il silenzio degli innocenti, 1991), la critica alla “modernità” coatta dei social network e più in generale delle mode
passeggere. A proposito di mode passeggere: pare che questo, cinematograficamente parlando, sia stato l’anno di
Cinquanta sfumature di grigio, vero “peso massimo” degli
incassi distribuito nello stesso periodo di Shaun. Sarà, ma
per chi scrive non c’è storia: alle “cinquanta sfumature di
gregge” non si può davvero resistere!
Filippo Zoratti
119
I
deale proseguimento della retrospettiva La Grande Guerra. L’occhio del cinema (proposta durante il 33. Premio “Sergio
Amidei”) e legato alla sezione Piccola antologia dello humour nero, l’edizione 2015 del Premio presenta La paura degli aeromobili nemici, cortometraggio di André Deed (Cretinetti) che esorcizza con l’ironia il terrore dei bombardamenti durante la
Prima Guerra Mondiale. La proiezione sarà accompagnata da musiche dal vivo.
LA PAURA DEGLI AEROMOBILI NEMICI
Cretinetti, il celebre personaggio creato e interpretato da André Deed, convola finalmente a nozze con l’amata Dulcinea.
Scioccato dalle norme da seguire in caso di bombardamento lette su un comunicato affisso per strada, si lascia cogliere dall’ansia interpretando ogni minimo e casuale rumore
come conferma di un reale attacco aereo in corso. Ben presto
il panico diventa collettivo ma l’ordine viene ristabilito da
due gendarmi, giunti per scortarlo al fronte. La destinazione
militare è quella che teme di più: l’aeronautica.
È
Regia: André Deed; Soggetto: André Deed; Sceneggiatura: André
Deed; Fotografia: Segundo de Chomón; Montaggio: André Deed;
Scenografia: André Deed; Produzione: Itala Film; Distribuzione:
Itala Film; Origine: Italia 1915; Durata: 12’
Interpreti: André Deed (Cretinetti), Léonie Laporte (Dulcinea),
Felice Minotti (l’autista e fidanzato della portinaia), Domenico
Gambino (invitato al pranzo di nozze)
120
già passato più di un secolo ma l’ombra spettrale della Grande Guerra continua a trascinarsi mestamente nella memoria collettiva contemporanea. Fin dal suo
scoppio l’attenzione mediatica, storica e sociale non è mai
scemata, dimostrando la necessità di ribadire alle nuove
generazioni l’orrore che allora scosse non solo il Vecchio
Continente ma il mondo intero, reo di essersi lasciato
sedurre dalla falsa chimera di una guerra lampo e dall’eccessiva fiducia dell’alto livello raggiunto nel campo dello
scibile tecnologico-scientifico, che per la prima volta ci si
accingeva a impiegare massicciamente nell’ambito militare. La Storia purtroppo insegna che nulla sarà più lo stesso: proprio perché prima di annientare non guardano in
faccia niente e nessuno, novità come le bombe aeree o le
armi chimiche si riveleranno tanto efficaci quanto subdole, spazzando via una tradizione bellica millenaria, quella
della guerra preindustriale che, seppur sanguinosa, era però
più “a misura d’uomo”, poiché regolata da comportamenti
e strategie cavalleresche (in tutti sensi del termine). I nefasti effetti si manifestarono immediatamente non solo tra i
soldati imprigionati nelle logoranti trincee ma anche nelle
retrovie e nei lontani centri abitati dove la gente, già gravata dalla crisi economica e dall’assenza degli uomini partiti
per il fronte, doveva ora temere pure possibili attacchi. Un
altro triste primato di questo conflitto è la trasformazione
di quei luoghi prima risparmiati dalla furia bellica in potenziali e insicuri teatri di battaglia, nei quali imperversano scene di panico collettive. Proprio come quelle che si
vedono nel corto di Deed dove, pur in assenza di espliciti
combattimenti, è chiaro che il contesto nel quale si snoda la
tragicomica avventura post matrimoniale è, pur passando
attraverso il filtro dell’ironia, proprio la pesante atmosfera
che si respirava in Italia nel 1915 quando, dopo l’iniziale
neutralità il nostro Paese decise di entrare in guerra. La dimensione aeronautica – a cui ci si riferisce indirettamente
nel film, molto in auge comunque sia nella letteratura che
nella cinematografia del primo Novecento – non è poi così
campata in aria come si potrebbe pensare: oltre agli episodi
storicamente attestati dei primi bombardamenti su obiettivi civili (i raid degli Zeppelin tedeschi sui villaggi del Norfolk risalgono proprio al gennaio dello stesso anno), la popolazione di Torino – dove appunto risiedeva l’Itala Film
– doveva quotidianamente fare i conti anche con la presenza in città della neonata squadra capostipite dell’aviazione militare italiana voluta dal generale Giulio Douhet, i
cui aerei non di rado avranno sfrecciato nelle vicinanze del
centro, atterrendo col loro frastuono gli animi della gente
già colpita da quanto riportato nei quotidiani e dalle crude
immagini provenienti dal fronte. Fu per l’appunto in questo conflitto che, dopo un iniziale scetticismo nei confronti
della Settima Arte, i governi ne intuirono la potenzialità
comunicativo-persuasiva sull’immaginario collettivo. Tra
l’enorme quantità di pellicole italiane girate a scopo propagandistico, questo film risulta particolarmente interessante
proprio perché si pone in una non comune posizione neutrale rispetto alla guerra che era in corso. Una peculiarità
ripresa poi pure da de Chomón ne La guerra e il sogno di
Momi (una produzione targata Itala Film del 1917 in cui
recitò anche la moglie di Deed), che dimostrò vividamente
– in stop motion – come, pur lontano dal fronte, nessuno si
sentisse più al sicuro. Bimbi compresi.
Martina Bigotto
121
Olivia Averso Pellis, l’“africana” di Gorizia con la macchina da presa
F
rancese di nascita ma italiana per matrimonio, Olivia
Averso – coniugata Pellis – ha da sempre dimostrato,
grazie alla sua curiosità e alla sua sete di sapere, di
potersi perfettamente integrare nella comunità goriziana, di
cui fa parte dal 1946. La sua formazione culturale, francese e
magrebina insieme – è nata infatti a Tunisi nel 1925 – le ha
consentito di mantenere la “giusta distanza” nell’osservare,
con la macchina da presa o con quella fotografica, le feste e
le tradizioni popolari della sua terra d’adozione.
La passione per il “cinema fatto in casa” sorge in lei
osservando i lavori realizzati dai soci del Cineclub Fedic
di Gorizia. Quando in famiglia fa la sua comparsa una
cinepresa 8mm. Olivia, affidandosi alle scarne istruzioni
che il produttore allega all’apparecchio e “rubando” con gli
occhi quanto facevano i cineamatori più esperti, compie le
prime, timide prove da regista. Insieme ad amici goriziani
fonda il Circolo Cinematografico Goriziano che organizza
in città una rassegna annuale di film non professionali.
122
Tuttavia, Olivia Averso Pellis fornisce le prove più
convincenti quando lavora su commissione, come avviene,
per esempio, quando il marito (presidente della Pro Loco
di Gorizia), l’incarica di riprendere le parate folcloristiche
che ogni anno animano il centro città o, ancor più, quando
la Società Filologica Friulana le chiede di documentare i
riti e le feste del Friuli Venezia Giulia. Olivia Averso Pellis
confeziona così documentari etnografici di straordinario
rigore e interesse, ove la regista lavora in connubio con
studiose di tradizioni popolari come Andreina Nicoloso
Ciceri (ecco allora Las Cidules; Il Pan e Vin; La festa dei
vent’anni, ecc.) e Novella Cantarutti (suo il commento di
Croci sul Vajont).
Girati una quarantina d’anni fa, tali documentari assumono,
col tempo, un interesse, se possibile, maggiore. In essi
si rivela il talento di una donna che, giunta alla soglia dei
cinquant’anni, avendo i figli ormai cresciuti, si allontana con
sempre più frequenza da casa per esplorare con la cinepresa
i più remoti paesi del Friuli, al fine di registrare i riti, i canti,
le preghiere di popolazioni che una pervasiva civiltà della
comunicazione trasformerà rapidamente. E se in un primo
tempo non pochi guardarono a lei con diffidenza, in quanto
“straniera”, in quanto donna e in quanto cineasta autodidatta,
la sua costanza e la sua chiara voglia di conoscere seppero
vincere ogni ingiustificato timore.
Olivia Averso Pellis si dimostra, naturaliter, documentarista
preoccupata soltanto di mettere lo spettatore in condizione
di vedere (e comprendere) quanto si compie davanti alla
macchina da presa. Per fare questo, la regista giunge sui
luoghi senza annunciarsi, si accosta “in punta di piedi” agli
eventi da riprendere, evita di interferire con essi, cerca per
quanto possibile di rendersi invisibile agli “attori”. Il fatto
che, anno dopo anno, si disponga a filmare la stessa festa
o tradizione popolare, le conferisce nel tempo una sorta di
“invisibilità” agli occhi delle persone riprese, che si abituano a
considerarla quasi un elemento del paesaggio. Nel suo modo
di girare è evidente la repulsione per la “bella inquadratura”
fine a se stessa, per la ripresa che non racconta nulla. Con
grande lungimiranza la regista ­– in un’epoca in cui la maggior
parte dei documentaristi fece un uso indiscriminato di
musiche classiche o di brani folcloristici per la composizione
della colonna sonora – scelse di registrare e di restituire
nei suoi film il suono e le voci catturati in presa diretta.
Questo patrimonio sonoro “sporco” costituisce uno dei più
importanti lasciti, oggi disseminato in parecchie decine di
nastri magnetici, che Olivia Averso Pellis ci ha tramandato.
Silvio Celli
Il progetto di recupero dell’Archivio Olivia Averso Pellis
Olivia Averso Pellis ha conferito l’intero archivio fotocinematografico all’Associazione Palazzo del Cinema – Hiša Filma,
che gestisce Mediateca.GO “Ugo Casiraghi”. Si contano circa 300 unità archivistiche, fra film e nastri magnetici con
registrazioni in presa diretta. Si devono poi considerare le fotografie e le diapositive (circa 40.000), la biblioteca con gli
scritti di Olivia Averso Pellis su riviste di storia locale (Ce Fastu?; Sot la Nape; Borc San Roc) e il copioso materiale tecnico
(cineprese, macchine fotografiche, registratori audio, moviole, ecc.).
A partire dal 2014 è stato avviato un progetto di inventariazione e catalogazione dei materiali, nonché di preservazione e
digitalizzazione dei film e dei nastri audio. Il progetto è sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia e si avvale
della consulenza e delle lavorazioni del Laboratorio “La Camera Ottica” (DAMS Gorizia).
L’obiettivo finale di tale lavoro è di rendere le fotografie e i film del fondo Pellis accessibili a tutti, in formato digitale,
affinché questo patrimonio possa essere pienamente goduto dalla comunità goriziana.
123
OGNI SINGOLO GIORNO
Più di un milione di persone vive nella cosiddetta “Terra dei
fuochi”, ovvero nelle province tra Napoli e Caserta, zone ora
conosciute per il problema dello sversamento dei rifiuti tossici.
Il medico Antonio Marfella e il parroco di Caivano Maurizio
Patriciello, simboli della lotta contro l’inquinamento illecito
del territorio, narrano la loro esperienza di vita in questa
terra martoriata; a loro si affiancano altre voci, dal fotoreporter all’agricoltore, testimoni di un disastro ambientale e
umanitario.
A
Regia: Thomas Wild Turolo; Soggetto: Thomas Wild Turolo, Ornella
Esposito; Sceneggiatura: Thomas Wild Esposito, Ornella Esposito;
Fotografia: Vincenzo Sbrizzi; Montaggio: Thomas Wild Turolo;
Musiche: Poja; Produzione: Rogiosi Film; Origine: Italia 2014;
Durata: 53’
Interpreti: Maurizio Patriciello, Francesco Castaldo, Vincenzo
Castaldo, Vincenza Cristiano, Tina Zaccaria, Mauro Pagnano,
Enzo Tosti, Antonio Marfella, Giuseppe D’Ambrosio
124
volte per comprendere un’immagine c’è bisogno di
una spiegazione appropriata; altre volte, invece, il messaggio dell’autore arriva ancora prima di averla visualizzata
interamente. Questo succede nell’arte, nella fotografia, nel
cinema. Una singola scena o sequenza può essere percepita
in diversi modi, a volte lascia spazio all’immaginazione, a
volte esplicita una realtà fin troppo chiara. È quello che
avviene in Ogni singolo giorno, il documentario di Thomas
Wild Turolo che analizza la “Terra dei fuochi”, ovvero il
territorio tra le province di Napoli e Caserta. Apparentemente il tema sembra fin troppo semplice, le inquadrature
con la sola musica di sottofondo non hanno bisogno di descrizione, ma pian piano ci si addentra in una profondità
dalla quale è impossibile fuggire. Sono gli uomini i protagonisti di una storia che gradualmente si trasforma in una
testimonianza tanto vera quanto dura. Il documentario di
Turolo, infatti, cambia punto di vista e i rifiuti – inizial-
mente in primo piano – si ritrovano a far da cornice a un
territorio inquinato illecitamente dall’uomo stesso. Un territorio che ha perso la propria bellezza, la propria dignità,
la propria storia, provocando la morte di persone che quel
posto l’hanno sempre continuato a chiamare casa. Ogni singolo giorno dà voce a coloro che sono stati feriti nel corpo
e nell’anima, ma che seguitano, fermamente, a credere in
un futuro migliore. A prendere la parola sono un’attivista,
un fotoreporter, un agricoltore, una madre, un ragazzo con
il proprio padre e una giovane donna, che sulla loro pelle,
se non peggio, hanno pagato le conseguenze. Parlano per
loro, ma anche per tutti quelli che non possono più farlo
o che stanno ancora lottando contro la malattia. Perché sì,
parte della popolazione che vive nella “Terra dei fuochi”
incappa in quello che viene definito tumore “da inquinamento”. E, ovviamente, non risparmia nessuno: donne e
bambini, ragazzi e uomini. Genitori che sopravvivono ai figli, impotenti mentre li vedono soffrire e morire, senza comunque mai perdere l’occasione di lottare contro un Paese
che dovrebbe impedire questo biocidio a prescindere e che
invece ne sa poco o nulla. Così il parroco Maurizio Patriciello, grazie a convegni e libri, si muove per l’Italia intera
nella speranza di far apprendere un problema che giorno
dopo giorno diventa sempre più serio. Ogni singolo giorno
non è solo un film di denuncia sociale, è una testimonianza
oculare e umana di quello che sta accadendo quotidianamente in un territorio martoriato dalla tossicità delle industrie e dall’insensibilità umana. Si fa fatica a vivere, si fa
fatica a lavorare, come ci spiega un agricoltore che, in tutto
questo, si vede diminuire costantemente la vendita dei propri prodotti per la paura che siano contaminati. È questo
vivere? È per questo che si muore? Il diritto alla vita non
dovrebbe dipendere da ingiustizie come questa. Lo scrittore e filosofo russo Fëdor Dostoevskij diceva che “solo
la bellezza salverà il mondo”, ma nella “Terra dei fuochi”
l’unica bellezza è quella dell’anima delle persone che, ogni
singolo giorno, continuano a lottare, e a vivere, come se
non ci fosse un domani.
Martina Farci
125
YOUTH - LA GIOVINEZZA
(Youth)
In un lussuoso resort svizzero, si ritrovano una serie di
personaggi. I principali sono un anziano compositore che ha
ormai abbandonato la musica, struggendosi nel ricordo della
moglie morta, e un altrettanto attempato regista che, per
girare il suo film testamento, aspetta il sì di una vecchia star
del cinema. C’è anche un giovane attore che cerca di liberarsi
del ruolo che l’ha reso popolare, e persino Diego Armando
Maradona. Tutti sono più o meno in difficoltà, in balìa di
problemi professionali, famigliari, psicologici.
D
Regia: Paolo Sorrentino; Soggetto: Paolo Sorrentino;
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino; Fotografia: Luca Bigazzi;
Montaggio: Cristiano Travaglioli; Scenografia: Ludovica Ferrario;
Costumi: Carlo Poggioli; Musiche: David Lang; Produzione: Indigo
Film, Barbary Film, Pathé, France 2 Cinéma, Number 9 Films,
C-Films; Distribuzione: Medusa; Origine: Italia/Francia/Gran
Bretagna/Svizzera 2015; Durata: 118’
Interpreti: Michael Caine (Fred Ballinger), Harvey Keitel (Mick
Boyle), Rachel Weisz (Lena Ballinger), Paul Dano (Jimmy Tree),
Jane Fonda (Brenda Morel), Mark Kozelek (se stesso), Paloma
Faith (se stessa), Sumi Jo (se stessa)
126
alla Roma di estenuante splendore architettonico de
La grande bellezza (2013) Paolo Sorrentino passa alla
più anonima Svizzera, sempre fotografata dall’impeccabile
Luca Bigazzi, che sovente isola i solitari protagonisti
in pittorici campi lunghi dove il paesaggio, naturale o
no, sovrasta l’umano. Dall’ammiccante descrizione del
neocafonal capitolino nel film precedente, si passa nel più
intimista Youth, che è anche film di attese, di sguardi e primi
piani, ai problemi esistenziali di un gruppo di artisti (anche
del pallone: Maradona! O della levitazione: il monaco
buddista) in crisi o in declino – compreso il giovane
attore (un convincente Paul Dano) prigioniero del ruolo
di un robot in un film commerciale –, tutti in vacanza nel
lussuoso hotel svizzero dov’è ambientato quasi tutto il film.
Come si capiva anche dal sottovalutato This Must Be the
Place (2011), nelle coproduzioni internazionali Sorrentino
non perde minimamente il suo stile, caratterizzato
soprattutto dalla forte presenza di musiche eterogenee,
dai dialoghi ricchi di frasi ad effetto e continuamente
oscillanti tra aforismi, citazioni letterarie, cazzeggio
filosofeggiante e banalità, infine – ed è probabilmente ciò
che più infastidisce i suoi feroci detrattori, che preferiscono
cineasti più rigorosi e sobri – dal gusto spettacolare,
formalista delle immagini e dai movimenti di macchina
virtuosistici. Non mancano le scene oniriche, in Youth: c’è
un videoclip di Paloma Faith che, come fanno qui nelle loro
performance musicali Mark Kozelek e Sumi Jo, interpreta
se stessa; c’è anche un’allucinazione del regista Mick, che
vede davanti a sé, nei loro abiti di scena, tutte le attrici dei
film di vario genere che ha diretto. Insomma, i momenti
di fuga dalla realtà, principalmente verso il passato, dove
Sorrentino visivamente si può sbizzarrire, ci sono, ma
anche nella concreta e quotidiana routine dell’hotel – il
tempo, tema chiave del film, che sembra non passare mai o
che si ripete sempre uguale – la cinepresa spesso si diverte a
soffermarsi, con sguardo circense, sui corpi degli individui,
inquadrati in azioni grottesche, come la massaggiatrice
giovanissima, con l’apparecchio ai denti, che balla She
Wolf di David Guetta e Sia. La stessa ragazza che, in questo
film dove la maggior parte dei personaggi, pessimi padri,
coniugi glaciali o figli allo sbando che siano, non riesce a
esprimere le proprie emozioni nemmeno in presenza dei
propri cari, spiega al compositore Fred l’importanza del
contatto fisico come forma di comunicazione più potente
della parola. Qualche scena dopo, non a caso, si ascolta la
voce, extradiegetica, del grande Bill Callahan che all’inizio
di The Breeze canta proprio “I’d like to touch you, but I’ve
forgotten how”. L’apatico Fred, che ha fatto di tutto per non
diventare un intellettuale e nella vita riesce a comprendere
solo la musica, dice a un certo punto “le emozioni sono
sopravvalutate”, mentre per il suo amico/doppio Mick, che
vuole girare il film L’ultimo giorno della vita, le emozioni
“sono tutto quello che abbiamo”. E con sottile sadismo
cinefilo, è una cover della Reality de Il tempo delle mele
(1980) a diagnosticare in musica ai protagonisti – vecchi
che forse non sono mai cresciuti – l’incapacità di vivere la
realtà e il presente, la nevrosi di una nostalgia mutatasi in
cronico e rassegnato disadattamento.
Francesco Grieco
127
MAURIZIO FAVA
26 GIUGNO/17 LUGLIO
OPERE 2004-2015
L’
esposizione di Maurizio Fava dal titolo Opere 2004-2015 è una selezione di 24 opere relative a
diversi cicli pittorici. La ricerca di Fava vede, dalla seconda metà degli anni 2000, una progressiva
affermazione di un linguaggio geometrico-astratto.
Le molteplici e possibili combinazioni di geometria e colore da un lato risolvono l’aspetto compositivo
– la struttura dell’opera – dall’altro soddisfano la libertà espressiva dell’artista.
Geometria e colore di certo sono aspetti centrali ma non esaustivi a definire la pittura di Fava che comprende anche opere in bianco e nero, un esordio figurativo e una fase gestuale.
Piuttosto “il nucleo genetico di tutta la sua produzione (…) è costituito dalla continua, inesausta ricerca dell’equilibrio o – per usare una parola più pregnante e densa di suggestioni – dell’armonia”. Una ricerca declinata in una dimensione soggettiva,
personale, esistenziale che concerne il superamento dei contrasti tra “mondo interiore
e realtà esteriore, irrazionalità e razionalità, slanci dello spirito e leggi della materia” (F.
Meroi, 2015).
La 34. edizione del Premio “Sergio Amidei” è l’occasione per una prima collaborazione
tra Palazzo del Cinema/Hiša Filma – Kinemax e la galleria d’arte studiofaganel. L’esposizione di Fava, infatti, si svolge in due spazi espositivi: il periodo “geometrico” sarà
presentato al Palazzo del Cinema/Hiša Filma – Kinemax, mentre le cosiddette “trame”
saranno esposte presso la galleria studiofaganel. In quest’ultima sede, inoltre, saranno
esibite le più recenti “strutture parallele” che intendono suscitare una percezione tridimensionale, quale quella evocata dall’architettura.
A cura di Sara Occhipinti e Marco Faganel
Inaugurazione venerdì 26 giugno:

ore 18.00 presso studiofaganel

ore 19.30 presso Palazzo del Cinema/Hiša Filma - Kinemax
Testi a cura di Fabrizio Meroi, Luigi Di Dato e Claudio Meninno
Presentazione a cura di Fabrizio Meroi
Progetto grafico: Andrea Occhipinti aka MaggotBrain
128
info:

studiofaganel
Viale XXIV maggio 15/c, 34170 Gorizia
www.studiofaganel.com
+39 0481 81186

Palazzo del Cinema/Hiša Filma - Kinemax
Piazza della Vittoria, 41, 34170, Gorizia
www.amidei.com
+39 0481 534604
Indice dei film (titoli in ordine alfabetico)
800 balas
38
Lines of Force
Anime nere
Azione mutante
16
38
Messi – Storia di un campione
39
Mirindas asesinas 38
Mortacci60
Muertos de risa
38
Myth in the Electric Age
94
Ballata dell’odio e dell’amore
39
Banana18
Barton Fink – È successo a Hollywood 112
Brutti, sporchi e cattivi
56
Che fine ha fatto Totò Baby?
Chispa de la vida, La
City Edition
Clerks - Commessi
Color Wheel
Comunidad - Intrigo all’ultimo piano, La
Crimen perfecto - Finché morte non li separi
50
39
94
114
94
38
38
Donna scimmia, La
Due giorni, una notte
52
20
È stato il figlio
Everywhere at Once
64
94
Famiglia Bélier, La
Family Album, The
Film per non dormire - La stanza del bambino
First Cousin Once Removed
Fischio al naso, Il
Four Corner Time
22
82
38
92
54
94
Gatto, Il
Gente felice – Benvenuto, onorevole!
Giorno della bestia, Il
Gomorra – La serie
58
48
38
74
94
Natural History 94
N-Capace24
Nobody’s Business
86
Ogni singolo giorno
Oxford Murders - Teorema di un delitto
124
39
Parenti serpenti
62
Passione di Erto, La
102
94
Patent Pending
Paura degli aeromobili nemici, La
120
Perdita Durango
38
Pinuccio Lovero – Yes I Can
66
39
Plutón B.R.B. Nero
Pride26
Shaun, vita da pecora - Il film
Short Skin - I dolori del giovane Edo
Streghe son tornate, Le
Sweetest Sound, The
118
28
39
88
Tyndall104
Wide Awake
Words with Gods
Youth - La giovinezza
90
39
126
Hyperion100
Intimate Stranger
84
129
130
Il Premio “Sergio Amidei”
Il 1992 vede la nascita dell’Associazione di Cultura
Cinematografica “Sergio Amidei”. Tra gli obiettivi fissati l’organizzazione, in tutti i suoi aspetti – culturale,
regolamentare, finanziario, sociale e di sviluppo – del
Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura
Cinematografica “Sergio Amidei”.
In quest’ottica, la creazione di un oggetto che in sé
rappresentasse lo spirito della manifestazione e ne
diventasse elemento caratterizzante fu uno dei primi
cambiamenti rivelatori del nuovo corso che l’Associazione volle dare al Premio.
L’oggetto raffigura idealmente un foglio, supporto di
quella scrittura cinematografica che tanto amiamo,
foglio che su di un lato è percorso dalla foratura della
pellicola, supporto delle immagini che da quella iniziale scrittura nascono.
Volendo dare a questo oggetto un titolo lo si potrebbe
chiamare “dalla scrittura all’immagine”.
Il progetto del Premio, come l’immagine della manifestazione, è stato in tutti questi anni curato da Remigio
Gabellini, da sempre membro dell’Associazione.
I volumi, i saggi, gli omaggi a registi e personaggi di spicco dell’arte cinematografica, pubblicati dal Premio “Sergio Amidei”
Franca Marri, Marta Macedonio (a cura di)
Premio Sergio Amidei – Vent’anni
(Associazione Sergio Amidei, Gorizia, 2001)
Giorgio Bacchiega (a cura di)
Miklòs Jancsò. L’uomo di fronte alla storia
(Transmedia, Gorizia, 2007)
Giovanni Di Vincenzo
Le incrinature dell’anima. Il cinema di Fabio Carpi
(Grafica Goriziana, Gorizia, 2002)
Béla Balàzs
L’uomo visibile
(Lindau, Torino, 2008)
Ilaria Borghese, Mariapia Comand, Maria Rita Fedrizzi (a cura di)
Sergio Amidei, sceneggiatore
(Transmedia, Gorizia, 2003)
Roy Menarini (a cura di)
Italiana Off. Pratiche e poetiche del cinema italiano periferico 2001-2008
(Transmedia, Gorizia, 2008)
Simone Venturini (a cura di)
Nelo Risi. Scritture in movimento
(Transmedia, Gorizia, 2004)
Mariapia Comand, Stefania Giovenco, Sara Martin (a cura di)
Il personaggio cinematografico
(Transmedia, Gorizia, 2008)
Remigio Gabellini
Amarcord, Federico, amarcord!
(Transmedia, Gorizia, 2005)
Roy Menarini (a cura di)
La luce della scrittura. Paul Schrader critico, sceneggiatore, regista
(Transmedia, Gorizia, 2009)
Roy Menarini (a cura di)
Il cinema secondo Cosulich
(Transmedia, Gorizia, 2005)
Ugo Casiraghi
Naziskino, ebrei ed altri erranti
(Lindau, Torino, 2010)
Mariapia Comand (a cura di)
Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia
(Lindau, Torino, 2006)
Ugo Casiraghi
Vivement Truffaut! Cinema, libri, donne, amici, bambini
(Lindau, Torino, 2012)
Autori Vari
Omaggio a Edgar Reitz
(Transmedia, Gorizia, 2007)
Nereo Battello (a cura di)
Omaggio a Marcel Pagnol
(Transmedia, Gorizia, 2012)
Maria Serena Vastano
Il cinema di Sandro Petraglia e Stefano Rulli
(Transmedia, Gorizia, 2007)
Ugo Casiraghi
Storie dell’altro cinema
(Lindau, Torino, 2012)
Alice Autelitano, Roy Menarini (a cura di)
Dentro la critica. Testimonianze, materiali, analisi
(Transmedia, Gorizia, 2007)
Sara Martin
Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia
(Mimesis Cinema, Milano-Udine, 2015)
Finito di stampare nel mese di giugno 2015
da Digital Team - Fano (Pu)