Bianca Cappello e le ermetiche corretto 2

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Bianca Cappello e le ermetiche corretto 2
Bianca Cappello
e le ermetiche allegorie del suo Palazzo
(seconda parte)
L’itinerario per intraprendere il cammino
della perfezione procede a tappe e per
superare via via tutti gli incagli che si trovano
durante questo “viaggio verso il cielo”,
bisogna assicurarsi di avere una volontà
talmente forte e determinata da saper vincere
tutti gli ostacoli. E’ un itinerario da percorrere
dentro se stessi ed è fatto di attenzione, che è il
tentacolo della volontà.
“Il vincitore lo porrò come una colonna nel
tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più”,
dice Cristo nell’Apocalisse (3:7), facendo
capire che l’uomo e la donna, per portare a
felice compimento questo tipo di cammino,
dovranno riscoprire dentro di loro le qualità
del cavaliere che, rivestendosi dell’“armatura di
Dio”, pregando e vegliando, arriveranno - come ricorda San Paolo - a
“spegnere i dardi infuocati del maligno” e a vincere tutte le prove.
Le fasi fondamentali di questa salita
spirituale sono tre: purificazione,
illuminazione e perfezionamento. Tre
scalini o “tappe” che gli Ermetisti
riconobbero nelle tre Opere alchemiche e
che artisti come Bernardino Poccetti
hanno saputo velare sotto una trama di
simboli, miti e allegorie che suggeriscono,
a chi vuole intraprendere questo tipo di
viaggio, un prezioso messaggio.
Come già sappiamo, quel cammino
mistico-iniziatico-regale fu da lui
immortalato, con estrema maestria e
raffinatezza, sulla facciata del Palazzo di
Bianca Cappello adottando un metodo di
“grottesche a graffite”.
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La tecnica “a graffite”, che risale ai primordi della civiltà, si basava sulla
stesura di una tinta molto scura, posta a più strati, sulla quale poi si
interveniva con sottili asticciole acuminate di metallo o d’avorio o d’osso, per
“sgraffiare” quell’intonaco e far emergere, seguendo gli schemi decorativi
preventivamente definiti, lo strato di colore sottostante. In quei graffiti di
Palazzo Cappello, il chiaroscuro risulta ancora oggi così ben ripartito da far
risaltare le “grottesche” alla stregua di delicati merletti veneziani.
Quel metodo di “sgraffiatura” sul “nero”, utilizzato per far emergere il
“bianco” dell’intonaco, trova stretta relazione con l’intimo lavoro ascetico
che i nostri due ideali protagonisti - l’uomo e la donna - dovranno realizzare:
scendere all’inferno per poi salire al cielo.
La volta scorsa ho preso in esame le due
bande decorative verticali sinistra
e
destra del prospetto anteriore del palazzo,
che si riferivano all’itinerario spirituale di
due monaci-asceti che avevano scelto la
via “solitaria” per salire al Regno di Dio,
mentre adesso prenderemo in esame la
banda decorativa centrale, posta al centro
della facciata, per seguire l’itinerario di un
uomo e di una donna che hanno scelto la
via “a due” per raggiungere la stessa
grandiosa finalità.
Purtroppo la decorazione della parete che
sovrasta il portone al piano terreno è
andata irrimediabilmente perduta, ma
quella che è rimasta nei due piani
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superiori è ancora sufficiente per avere un quadro esauriente del viaggio
spirituale che vi è stato
scolpito.
Nel punto più basso della
banda decorativa centrale del
primo piano, notiamo due
piccoli cani strettamente
“uniti” da un nastro che lega
le loro zampe posteriori.
Entrambi sono inseriti dentro
una specie di anello e tra loro
appare un mascherone per
niente rassicurante.
Lo sguardo del cane posto a
sinistra è sveglio e compiaciuto, mentre l’espressione
degli occhi di quello posto a destra è sveglio ma quasi
distaccato, e guarda lontano. L’espressione dei loro
occhi mette subito in luce l’aspetto duale di questa
salita: il cane di sinistra fa riferimento all’elemento
maschile, solare e attivo,
simbolo di solerzia e di
iniziativa, mentre quello di
destra si riferisce all’elemento
femminile, passivo e ricettivo,
consapevole di dare inizio ad un cammino interiore
da vivere nel silenzio e nella segretezza.
Il cane, secondo i Filosofi ermetici, è il simbolo del
Mercurio dei Savi e rappresenta la parte volatile della
materia da tenere “ben ferma” affinché l’Opera si
possa realizzare.
Quest’affermazione è in stretta sintonia con il significato del laccio o nodo
che lega quelle zampe, perché un “legame” può essere inteso sia come
vincolo che costringe ed imprigiona, ma
anche come forza benefica che unisce,
rinsalda e protegge per il buon
proseguimento dell’Opera.
La forma circolare dentro alla quale i due
cani sono inseriti, evoca l’ “annus” o anello,
la ruota dell’esistenza che continuerà
inesorabile il suo ciclico divenire se per
l’asceta non interverrà un cambiamento
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sostanziale capace di interromperlo: la purificazione interiore.
Nelle antiche Tradizioni, quando il Sole
coincideva con il primo grado di Ariete, iniziava
il tempo della Grazia, il momento in cui vi erano
le condizioni ecologiche adatte affinché l’anima
potesse svegliarsi e uscire dal cerchio della vita
per iniziare nuove straordinarie esperienze.
La testa di Ariete, presente nel piano inferiore
della facciata del Palazzo, alla quale ho già
accennato nel precedente articolo, può far
riferimento proprio a questo importante messaggio.
Lo spaventoso mascherone, posto tra i due cani, ricorda i combattimenti che
hanno dovuto sostenere Profeti, Santi ed Iniziati per vincere le aggressioni da
parte del “Maligno”, e l’importanza di
saper sviluppare una volontà così forte da
riuscire a vincere ogni malefica insidia.
Sopra a quella maschera si eleva una
struttura rettangolare che contiene due
raffinati cigni bianchi che stanno
nutrendosi di generosi frutti. Il bianco
delle loro piume ricorda il candore dei
bianchi solitari cigni presenti sulle bande
verticali sinistra e destra della facciata, e
riporta all’idea del buon lavoro ascetico realizzato: l’ Opera al bianco degli
Alchimisti, il preludio a un nuovo stato di superiore salita verso il Regno di
Dio.
Salendo con lo sguardo oltre quei cigni, si staglia netto un allegorico angeloarpia con le ali spiegate, seduto frontalmente, le cui estremità ricordano
ancora quelle delle arpie,
mentre il volto ha assunto
l’aspetto rassicurante di un
angelo.
Il suo torace mette in
evidenza sette punti che si
riferiscono ai sette Centri
di forza di cui si parla nella
Kabbalà ebraica.
Dal centro in basso, il
Centro sacrale, sembrano
partire due raffinate spirali
che vanno a terminare in
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due fiaccole: una metafora per far capire che il fuoco
generatore di vita, o “fuoco sacro”, è stato trovato e
trasmutato. Dalla sommità del cranio, che
corrisponde al Centro psichico coronale, s’innalza
invece una specie di corona-diadema che fa intuire
che anche quel Centro è stato opportunamente
risvegliato.
Il volto di quell’essere alato è sereno ed i monili che
porta al collo ed alle orecchie testimoniano il
“cambiamento di stato” avvenuto.
Sopra a quest’essere angelico, inseriti all’interno di
una solida struttura rettangolare, appaiono due uomini con in testa una
specie di copricapo con piuma, inginocchiati e con gli arti inferiori incrociati
fra loro a formare una X. L’insolita posizione ricorda quella già riscontrata
nelle due figure presenti sulle bande verticali sinistra e destra, simbolo delle
analogie che uniscono le tre bande decorative ad un’unica finalità da un
punto di vista ascetico.
Quei due personaggi, che stanno soffiando dentro un grande vaso-urna da
cui fuoriescono fiamme ardenti, ricordano i cultori del Fuoco Filosofale, “un
fuoco dirigente, continuo, non violento, ma avvolgente” che, se saputo tenere
al giusto “regime”, conduce a straordinarie esperienze spirituali. Infine il loro
cappello con piuma, simbolo di Sapienza e Giustizia, ricorda altri due Centri
psichici corrispondenti alla mano destra e sinistra che sono stati risvegliati.
L’aspetto regale è reso ancora più evidente dal grande Stemma Mediceo che
si erge imponente al centro di quella banda decorativa e dall’immagine
allegorica presente nel riquadro che lo sovrasta.
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Dentro ad una doppia cornice bianca, appoggiati su
una struttura a forma di grande coppa, appaiono un
Re e una Regina alati, solenni, con corona sul capo e
gioielli al collo. Il loro aspetto ermafrodita ricorda
l’androgenia realizzata, mentre i loro diademi e
monili sono sintomo di grande santità e potere. I loro
corpi si elevano leggeri su una serie di archi che
tanto ricordano i resti di un antico tempio o di una
segreta cripta.
La cripta rappresenta lo stato interiore più doloroso e profondo, che gli
Ermetisti chiamavano “Saturno”, le “ossa”, nel quale il pellegrino spirituale
doveva entrare al fine di “morire” ad una vita ordinaria, per “rinascere” a
quella Divina.
Il Re e la Regina adesso si
guardano soddisfatti e tra
loro si inter pone un
raffinato calice dalla foggia
alquanto insolita perché
for mato da un dragoserpente che termina con
due piccole teste, come il
mitico serpente Anfesibena.
Quel calice regale, che
testimonia il lavoro di
trasmutazione del cuore che
l’uomo e la donna hanno
compiuto, sembra sancire il loro “matrimonio spirituale”.
Basilio Valentino, monaco benedettino e alchimista, vissuto tra la fine del
XIV secolo e l’inizio del XV, afferma che i
due Sposi devono spogliarsi delle loro vesti,
devono apparire “ben puliti e lavati” prima
di entrare in quel talamo nuziale. L’idea
della purificazione è dunque fondamentale,
e gli alchimisti asseriscono che senza tale
operazione, Opera al Nero, la Grande
Opera non potrà mai avvenire.
San Giovanni della Croce afferma che
l’amore arriva ad essere perfetto solo
quando i due “amanti”, lo Sposo e la
Sposa, diventano uguali, “si trasfigurano
uno nell’altro”: soltanto allora l’amore sarà “pienamente sano”.
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Il Divino scende nell’uomo e nella
donna che s’innalzano verso di Lui, e
quando questa forza si inserisce nel
loro cammino duale, l’unione diventa
stabile e duratura perché è governata
dall’amore e dall’intelligenza
suprema: un “matrimonio” che
porterà i due Sposi a raccogliere i
frutti del loro lavoro, nutrendosi
dell’Albero della Vita.
Le fatiche e le amarezze sopportate
sono ormai dimenticate, adesso
l’anima può procedere per una “via
unitiva” nella quale lo Sposo di entrambi, cioè il Cristo, elargirà loro molti
doni e molte grazie.
Sopra all’immagine del Re e della Regina appaiono anche due raffinate
spirali che terminano
in fiaccole ardenti, per
ribadire il concetto
che un cammino
m i s t i c o - i n i z i at i c o regale si percorre solo
se il proprio cuore è
riscaldato da quel
fuoco d’Amore che fa
dire a Gesù nel
Vangelo di Luca (12:49): “Io sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e
come vorrei che fosse già acceso!”
Questo fuoco è il Fuoco celeste che gli ermetisti chiamano “Fuoco dei
Filosofi”, capace di conferire ad un uomo ed una donna, non proprio
comuni, una forza spirituale divina che li farà
uscire dall’eterno cerchio della vita che
governa inesorabilmente i destini dell’umanità.
Sicuramente, come ho già accennato nel
precedente articolo, in quell’uomo e quella
donna posti ai lati del portone del palazzo, si
era voluto auspicare l’itinerario ascetico-regale
personale e duale di Francesco I e di Bianca
Cappello.
Secondo documenti convalidati, la loro storia
d’amore non fu certo comune, ma ricalcò le
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orme dell’ “amore cortese” dei Troubadours
provenzali e l’Amore mistico dei Fedeli d’Amore.
L’Ordine iniziatico dei Fedeli d’Amore, a cui
anche Dante Alighieri appartenne, ricercava
nella Donna le caratteristiche celestiali della
Sapienza Santa, capaci di accendere nell’uomo
quel “mistico risveglio” che può condurre verso
grandi realizzazioni spirituali.
“Io mi senti’ svegliar dentro a lo core/un spirito
amoroso che dormia:/e poi vidi venir da lungi
Amore...” scriverà Dante nella Vita Nuova.
Probabilmente fu quello stesso “spirito amoroso”
che la vista di Bianca seppe ridestare in Francesco.
“Oltre il merto mio tal m’honorate/ Bella Donna
cortese (...) vero atto gentile è il vostro dono”
scriverà Francesco I in un madrigale per Bianca,
ringraziandola del primo biglietto galante che la
giovane veneziana, dopo mesi di assiduo
corteggiamento, finalmente gli inviò. In un’altra
poesia a lei dedicata, Francesco la chiamerà
“Donna gentile e degna” espressione poetica che
tanto ricorda i versi utilizzati dai Fedeli d’Amore.
La vera donna, come evidenziano le Sacre
Scritture, è capace di capire certe sottigliezze
teologiche che non subito sono comprensibili
all’uomo, ecco perché in un intimo cammino
sapienziale la figura femminile assume un ruolo
fondamentale anche per l’uomo.
“Grazie alla reciproca
unione, la donna acquisisce la forza dell’uomo e
l’uomo si rilascia in un languore femminile”
affermerà Ermete Trismegisto nel Corpus
Hermeticum, mettendo in evidenza l’importanza
dell’aspetto femminile e maschile in un percorso
di ascesi spirituale in due.
Beatrice diventerà per Dante colei che saprà
elargire ogni beatitudine e nella Divina
Commedia apparirà come “maestra di verità”,
capace di condurre il divino poeta in Paradiso e
predisporlo alla contemplazione della Rosa
Mistica con tutte le Gerarchie Angeliche.
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Anche per Francesco I Bianca doveva possedere qualità simili, come
testimonia la scritta posta sul prospetto del
Palazzo di via Maggio: “Famosa dama veneziana
che divenne maestra e poi moglie del Granduca
Francesco I”. Il termine “maestra”, dal latino
“magister” fa pensare al compito di “musa
ispiratrice”, guida e consigliera: termini che
avvicinano Bianca alla figura di Beatrice.
“Bianca non fu mai una donna che potesse dirsi
comune, ma una virtuosa e buona sovrana; e
forse l’unica che tenesse propriamente un trono
a lei dovuto, e meritatamente imperasse su un
popolo attivo ed industrioso di mercati e letterati
insieme, come fu quello di Firenze”, scriverà lo
storico fiorentino Gargano Gargani nel 1870, nel
commento ai cinquanta madrigali che Torquato
Tasso scrisse per Bianca Cappello.
In effetti se lo scrittore Francesco Bembo nutrì per lei una “dichiarata
passione platonica”, se Torquato Tasso lodò in ben cinquanta carmi il
candore della sua carnagione e scrittori come Aldo Manuzio, Francesco
Sansovino, Vincenzo Belli, Giovan Battista Strozzi, Giovan Battista Tebaldi,
Andreuccio delle Pomarance dedicarono alla giovane veneziana la maggior
parte delle loro opere letterarie, voleva dire che quella donna nascondeva
nella sua semplicità delle doti non certo comuni, capaci di ispirare grazia,
saggezza e sentimenti elevati.
Nel 1579 Bianca Cappello venne riconosciuta
Granduchessa di Toscana ed in occasione della
celebrazione del suo matrimonio con Francesco I de’
Medici, a titolo di autorevole e pubblica riconciliazione
con la sua città natale, arrivarono da Venezia due
ambasciatori per porre sul di lei capo la corona ducale.
Anche papa Sisto V fu incantato dal candore del suo
cuore e le inviò come importante riconoscimento il
“ramo d’oro” sormontato da una rosa, un’onorificenza
che la Chiesa Romana aveva elargito solo a pochissime
personalità, un omaggio regale la cui simbologia
ermetica è molto antica e colma di intimi significati.
In quel giorno gli ambasciatori inviati dalle maggiori
corti europee la descrissero come una donna “bella
d’anima e di corpo” e notarono che “il granduca
appariva a tutti innamoratissimo”.
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Così Paolo Galletti, commentò il loro amore:
“Stupendo ci si presenta lo spettacolo di certi
miracoli del Dio Amore, oggi raramente
capace d’ispirare affetti forti e durevoli
quanto la vita”.
Guardando oggi con nuovi occhi le raffinate
grottesche del Palazzo di Bianca Cappello,
possiamo anche intuire che nell’allegoria di
quella coppia regale che tra mille difficoltà
aveva portato a compimento il proprio intimo
cammino spirituale, il Poccetti avesse voluto
auspicare per Francesco e Bianca Cappello
quel medesimo felice epilogo.
Sopra allo Stemma Mediceo, al centro della parete di quel Palazzo di Via
Maggio, un Re e una Regina si guardano intensamente e quello sguardo
sembra ricordare il momento in cui Francesco e Bianca “si giurarono eterno
affetto”.
Re e Regina
Palazzo di Bianca Cappello
(particolare della facciata )
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