Universit degli Studi di Milano

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Universit degli Studi di Milano
Università degli Studi di Milano
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Corso di Laurea in Educazione Professionale
Un’ombra sul cuore…
e una rete per illuminarla
Prevenzione primaria dell’abuso sessuale all’infanzia
Relatore: Prof. Giorgio Sordelli
Tesi di laurea di:
Laura Mozzi
Matr. n° 648820
Anno Accademico 2004 – 2005
A papà e mamma
a Roberto e Daniela
e a nonna Paola
1
INDICE
INDICE ........................................................................................................................................... 2
PREMESSA .................................................................................................................................... 4
1. L’ABUSO SESSUALE ALL’INFANZIA .............................................................................. 10
1.1.
Cos’è l’abuso sessuale? ...................................................................................10
1.2.
Caratteristiche dell’abuso ................................................................................12
1.3.
Fattori di rischio per i bambini .......................................................................15
1.4.
Chi è il pedofilo? ...............................................................................................16
1.5.
Fattori che favoriscono l’emergere e l’ampiezza dei comportamenti
pedofili .............................................................................................................................19
1.6.
Le conseguenze dell’abuso sessuale per il bambino ...................................21
1.7.
Il lungo percorso della rivelazione dell’abuso subito: fattori facilitanti ed
ostacolanti ..........................................................................................................................24
2. ABUSO SESSUALE: RICERCA ............................................................................................ 26
2.1.
Perché una ricerca epidemiologica sul fenomeno?......................................26
2.2.
“Non più vittime”.............................................................................................27
3. LA PREVENZIONE................................................................................................................. 36
3.1.
La prevenzione come produttrice di cultura ................................................36
4. LA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ ..................................................................................... 39
4.1.
La psicologia di comunità e i suoi obiettivi ..................................................39
4.1.1.
La psicologia di comunità e la prevenzione ........................................40
4.1.2.
Ostacoli alla strategia preventiva della psicologia di comunità ........41
4.2.
La psicologia di comunità e i suoi riferimenti teorici..................................42
4.3.
Il concetto dell’empowerment ........................................................................45
4.4.
Riassumendo .....................................................................................................46
2
5. IL LAVORO SOCIALE DI RETE ......................................................................................... 47
5.1.
Le reti sociali......................................................................................................47
5.2.
Il sostegno sociale .............................................................................................48
5.3.
Cos’è il lavoro sociale di rete?........................................................................49
5.4.
Reti come circuiti di benessere........................................................................51
6. ABUSO SESSUALE: PREVENZIONE................................................................................. 54
6.1.
Tipologie di prevenzione.................................................................................54
6.2.
Perché una rete di lavoro di prevenzione primaria all’abuso sessuale
all’infanzia?........................................................................................................................55
6.3.
Gli attori in scena ..............................................................................................56
6.3.1.
I bambini: vittime o protagonisti? ..........................................................56
6.3.2.
Il mondo adulto: impariamo a far dialogare adulti e bambini ..........58
6.3.3.
La scuola: l’osservatorio ..........................................................................62
6.3.4.
Il mondo giudiziario ................................................................................63
6.4.
Costruzione di una cultura preventiva .........................................................65
7. L’EDUCATORE PROFESSIONALE E LA PREVENZIONE DELL’ABUSO................ 68
7.1.
In che contesti l’educatore fa prevenzione?..................................................68
7.2.
Gli strumenti educativi per la prevenzione ..................................................69
7.3.
Come potremmo ridisegnare la prevenzione? .............................................71
7.4.
L’educatore professionale all’opera ...............................................................72
8. ANALISI DI UN’ESPERIENZA DI PREVENZIONE....................................................... 79
8.1.
“Parole non dette” ............................................................................................79
8.2.
Il percorso degli insegnanti .............................................................................81
8.3.
Il percorso dei genitori .....................................................................................82
8.4.
Il percorso dei bambini: un viaggio all’insegna della scoperta di sé ........83
CONCLUSIONI .......................................................................................................................... 91
BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................................... 97
G r a z i e ...........................................................................................................................101
3
PREMESSA
La scelta di questa tematica per la mia tesi è nata a conclusione del mio terzo anno
del corso di Educatore professionale, ma il mio primo interesse per questo
argomento è emerso sicuramente a partire dalla conclusione del secondo anno, dopo
aver svolto il tirocinio presso la comunità “Resistenza” della Cooperativa Comin.
L’area minori era ed è tuttora un’area che suscita il mio interesse e che ha
rappresentato per molto tempo il motivo per cui ho scelto di frequentare prima un
liceo socio-psico-pedagogico e in seguito questo corso universitario; ho sempre
creduto che l’ambiente comunitario fosse un ambito molto ricco di stimoli, contenuti
e possibilità educative. Proprio all’interno di questa esperienza in Comin posso
affermare di aver assistito alla mia prima vera maturazione educativa. Ciò che sono
stata chiamata a fare è stato un lavoro di rilettura e analisi a livelli profondi della
realtà in cui ero inserita. Allo stesso tempo ho imparato ad osservare me stessa,
raccogliendo le emozioni che nascevano in me durante il percorso, per imparare a
coniugarle al ruolo professionale, a farle diventare esse stesse azione educativa, a non
annullarle e nemmeno a farmi annullare da esse.
A conclusione dell’anno passato in comunità mi ero resa conto che il lavoro
dell’educatore di comunità ha poco a che fare con la cura del disagio; tutt’altro, si
configura come vera e propria prevenzione. Si lavora nel presente di un ragazzo e
della sua famiglia per garantire la possibilità di un futuro all’adulto di domani.
Questo mi ha fatto sorgere un nuovo interesse: la prevenzione, individuando in
essa quello che, a mio parere, dovrebbe essere ambito privilegiato del lavoro di
educatore.
Così nel corso dell’ultimo anno ho svolto tirocinio presso il Servizio Famiglia,
Infanzia, Età Evolutiva del Dipartimento ASSI, della ASL Città di Milano.
In questa sede ho affiancato Daniela Seregni, Educatrice professionale dipendente
della ASL Città di Milano, in due progetti di prevenzione primaria: “Parole non
dette”, progetto di prevenzione primaria dell’abuso sessuale, e “Coccole e Giochi per
crescere insieme”, progetto di prevenzione primaria rivolto al sostegno della
relazione genitore–bambino nel periodo 0-1 anno.
4
Proprio dall’esperienza con il progetto “Parole non dette” è nata l’idea di questa
tesi.
In questo contesto il mio ruolo di tirocinante è partito da una prima fase di
conoscenza del progetto e di osservazione del percorso con i bambini, fino
all’acquisizione di sempre maggiori competenze e autonomia nella gestione diretta
degli incontri con loro.
Entrando in contatto con questa realtà e imparando a conoscerla in tutti i suoi
molteplici aspetti, sono sorte in me sempre maggiori domande che avevano bisogno
di spazio per trovare risposta. Sicuramente la relazione di tirocinio di terzo anno e il
relativo esame sono stati due ottime occasioni per trovare le risposte ad alcune
domande e per dare spazio ad alcuni ragionamenti.
Eppure in me stavano maturando ulteriori riflessioni, prima fra tutte l’esigenza di
ripensare una prevenzione all’abuso sessuale sui minori, che fosse rivolta non più a
soggetti a rischio, ma all’intero tessuto sociale: allargare cioè il campo d’azione della
prevenzione, spostando da una dimensione privata ad una dimensione pubblica
l’interesse per il fenomeno.
Una prevenzione all’abuso con questi destinatari e con questa concezione
dovrebbe rappresentare una responsabilità dell’intera società e non solo degli esperti
del settore; dovrebbe essere portata avanti ad ampio raggio, prendendo in
considerazione tutti gli attori in scena, tutte le agenzie educative e le persone che nei
confronti dei minori hanno delle responsabilità educative.
In linea con tutto ciò un’altra riflessione mi portava a considerare la prevenzione
all’abuso prima di tutto come un’educazione alla sessualità, all’affettività e
all’emotività e non come una forma di difesa da qualcosa; una prevenzione che fosse
forza moltiplicatrice di potenzialità e risorse.
Lentamente le mie riflessioni mi stavano portando nella direzione di considerare
la prevenzione dell’abuso come una promozione della salute e del benessere
dell’intera società.
Il presente lavoro si snoda attraverso otto capitoli, con l’obiettivo di svolgere la
matassa di tutte queste riflessioni e ragionamenti.
Ho iniziato fornendo un quadro di conoscenza del fenomeno dell’abuso. Partendo
da una semplice – ma necessaria – definizione, che ponesse l’accento sulla grande
5
vastità di comportamenti che possono rientrare nel fenomeno e su come tutti
indifferentemente possano avere delle conseguenze sul minore; ho proseguito
evidenziando le caratteristiche dell’abuso, che permettono di riconoscerlo e
comprenderne la complessità. Il passo successivo è stato quello di individuare
l’eventuale presenza di fattori di rischio, che potrebbero aumentare la probabilità per
i bambini di essere abusati. In seguito ho posto l’attenzione anche sul pedofilo,
facendo cadere alcuni luoghi comuni che lo riguardano ed evidenziando invece le
sue caratteristiche comportamentali e mentali; inoltre ho cercato di individuare anche
per il pedofilo l’eventuale presenza di fattori di rischio che possano favorire
l’emergere e lo svilupparsi di comportamenti pedofili. A chiusura di questo primo
capitolo ho cercato di trattare il delicato e complesso argomento delle conseguenze
che il fenomeno dell’abuso comporta per il bambino ed il lungo processo di
rivelazione dell’abuso subito.
Nel secondo capitolo ho fornito dei dati statistici emersi dalla ricerca “Non più
vittime”, portata avanti nel 2002 dalla ASL Città di Milano; è una ricerca finalizzata
alla rilevazione del tasso di prevalenza di vittimizzazione sessuale, subita in infanzia
da un campione di studenti diciottenni, frequentanti le classi quinte delle scuole
superiori presenti nella città di Milano. Questa ricerca ha fornito dei risultati
interessanti, che hanno perfezionato le conoscenze sul fenomeno e che hanno
permesso di poter conoscerne realmente la diffusione.
Il terzo capitolo introduce il discorso della prevenzione che verrà poi ripreso,
accostato all’abuso sessuale, approfondito e tradotto in lavoro concreto nei capitoli
sei, sette e otto. In questo terzo capitolo la prevenzione è considerata non tanto come
una protezione da qualcosa o qualcuno, ma come una produzione di cultura, di
sapere, una moltiplicatrice di risorse.
Con i capitoli quattro e cinque vengono gettate delle basi teoriche di riferimento,
parlando della psicologia di comunità e del lavoro di rete. Piano a piano inizia a farsi
largo il concetto di lavorare ad ampio raggio, coinvolgendo il tessuto sociale per
poter far fronte al fenomeno dell’abuso.
Il capitolo sei crea un ponte fra tutto il discorso precedente ed il fenomeno
dell’abuso. Vengono analizzate nello specifico tutte le realtà educative all’interno
delle quali avviene lo sviluppo del minore; a queste agenzie educative e persone di
6
riferimento viene affidata la responsabilità di agire preventivamente nei confronti
dell’abuso.
Nel settimo capitolo si apre un ampio discorso sull’educatore professionale: sul
suo ruolo nel lavoro di prevenzione all’abuso, sulle sue caratteristiche professionali e
su come queste siano o meno funzionali al lavoro di prevenzione, concepito come
potenziamento delle conoscenze e delle capacità delle agenzie educative e delle
figure di riferimento, chiamate in causa dalla prevenzione all’abuso.
Il lavoro si conclude con il capitolo otto, dedicato interamente all’esperienza del
progetto “Parole non dette”, considerato come un esempio di intervento di
prevenzione primaria all’abuso sessuale.
7
Un’ombra sul cuore…
8
“Il gigante e la bambina” 1
Il gigante e la bambina
sotto il sole contro il vento
in un giorno senza tempo
camminavano tra i sassi
camminavano tra i sassi
camminavano tra i sassi.
Il gigante è un giardiniere
la bambina è come un fiore
che gli stringe forte il cuore
con le tenere radici
con le tenere radici
con le tenere radici.
E la mano del gigante
su quel petto di creatura
scioglie tutta la paura
è un rifugio di speranza
è un rifugio di speranza
è un rifugio di speranza.
Del gigante e la bambina
si è saputo nel villaggio
e la rabbia dà il coraggio
di salire fino al bosco
di salire fino al bosco
di salire fino al bosco.
Il gigante e la bambina
li han trovati addormentati
falco e passero abbracciati
come figli del Signore
come figli del Signore
come figli del Signore.
Il gigante adesso è in piedi
con la sua spada d’amore
e piangendo taglia il fiore
prima che sia calpestato
prima che sia calpestato
prima che sia calpestato.
Camminavano tra i sassi
sotto il sole contro il vento
in un giorno senza tempo
il gigante e la bambina
il gigante e la bambina
il gigante e la bambina.
Camminavano tra i sassi
sotto il sole contro il vento.
1 Lucio Dalla, “Il gigante e la bambina”.
9
1. L’ABUSO SESSUALE ALL’INFANZIA
Un’ombra sul cuore
1.1.
Cos’è l’abuso sessuale?
“Non v’è sole senz’ombra
ed è essenziale conoscere la notte.”
(Albert Camus)
“Per abuso sessuale a un minore si intende una qualsiasi interazione con
connotazione sessuale tra un adulto e un minore, finalizzata alla gratificazione
sessuale del primo” 2 .
Con questa definizione viene fornita un’idea del fenomeno piuttosto ampia,
perché include anche situazioni in cui non necessariamente si opera qualcosa sul
bambino; non si può, infatti, parlare di abuso sessuale solo in caso di penetrazione o
masturbazione reciproca, ma anche in caso di esibizionismo o di esposizione del
minore a materiali, scene o situazioni sessualmente espliciti.
Complessivamente si può fornire dell’abuso sessuale questo tipo di classificazione:
ƒ
Abuso sessuale che non prevede contatto tra le parti in causa e che include
conversazioni sessualmente esplicite, l’esibizionismo dei propri genitali e il
voyeurismo, da permettere la gratificazione sessuale dell’adulto;
ƒ
Contatti sessuali basati sul toccare parti intime del corpo della vittima o sulla
masturbazione, anche reciproca;
ƒ
Rapporti oro-genitali in cui il bambino subisce o è costretto a praticare rapporti
orali su adulti;
ƒ
Rapporti sessuali che prevedono penetrazione, anche effettuata con le dita o
con oggetti, e rapporti anali;
2 Alberto Pellai, “Le parole non dette – come insegnanti e genitori possono aiutare i bambini a prevenire
l’abuso sessuale”, 2004, Franco Angeli, Milano, pag. 17.
10
ƒ
Sfruttamento sessuale, in cui la persona responsabile potrebbe anche non avere
contatti sessuali diretti con il minore, ma utilizzarlo per ottenere guadagni
economici, attraverso il coinvolgimento del bambino in atteggiamenti di
pornografia o prostituzione.
Poco conta quale sia il tipo di abuso subito; è d’obbligo sottolineare e incominciare
a comprendere che di qualsiasi natura sia l’abuso sessuale subito, quest’ultimo
provocherà indubbiamente notevoli conseguenze per il bambino.
L’abuso sessuale è stato descritto come un’ombra sul cuore, un’ombra che avvolge
l’animo del bambino, il suo mondo interno e che nasconde tutto il suo tanto dolore. È
un’ombra che resta, anche con il passare del tempo, anche se il bambino compie un
percorso e riesce a passare alla luce.
È ugualmente importante sottolineare che non tutti i bambini abusati soffrono
nello stesso modo, e che ce ne sono alcuni che riescono a passare oltre l’ombra senza
che questa copra il loro cuore. È importante ricordarsi di questa possibilità, perché
altrimenti si rischia di considerare i bambini abusati solo come vittime e non come
esseri che possono reagire e superare il loro trauma.
“Sono una ragazza di 18 anni, mi riesce molo difficile scrivere queste righe ma lo farò
ugualmente. Ho subito diversi abusi e questo ha condizionato molto la mia vita, mi riesce
difficile trovare spunti per andare avanti, mi riesce difficile stare bene con me stessa. La mia
vita è stata segnata molto da questa cosa che spero un giorno si possa dimenticare, ma la ferita
sarà difficile da rimarginare.” 3
3 Tratto dai questionari della ricerca condotta dalla ASL Città di Milano, “Non più vittime”, marzo 2003.
11
1.2.
Caratteristiche dell’abuso
“Per tanto tempo da bambino, non mi sono reso conto di nulla. Capitava quasi tutte le
notti, eppure mi sembrava normale (…)
Durante il giorno, quando ci incontravamo, lui mi chiedeva della scuola, mi portava dal
barbiere, mi diceva di comprargli le sigarette, veniva a parlare con i professori. Non mi
toccava mai, ma pensavo fosse normale anche questo. Tra uomini non ci si tocca.” 4
Solitamente un minore vittima di abuso sessuale si trova all’interno di una
relazione caratterizzata dalla sua “soggezione” psicologica nei confronti dell’adulto,
spesso determinata anche dalla differenza d’età tra le parti in causa.
L’interazione tra adulto e bambino, connotabile come abuso sessuale, prevede di
operare comportamenti in cui sia evidente la mancanza di consenso, di uguaglianza
tra le parti (intesa come uguale capacità di autodeterminazione) e presenza di
costrizione.
Il bambino, infatti non conosce ciò che gli viene proposto dall’adulto abusante; tra
le due parti esiste una diversa conoscenza dei limiti impliciti in certi comportamenti
e anche delle conseguenze potenzialmente derivabili da un dato comportamento. Il
bambino non ha capacità di scegliere liberamente senza subire ripercussioni:
qualunque sarà la scelta che farà, avrà delle conseguenze da sostenere.
Tra adulto e bambino vi sono differenze di età, di dimensioni corporee, di capacità
intellettuale e di senso di responsabilità.
L’adulto ha una funzione che prevede potere e controllo sul bambino. Vi sono,
quindi delle differenze di potere, di popolarità, di percezione pubblica del valore del
bambino e dell’adulto. Vi sono differenze anche legate al ruolo sociale.
Nelle relazioni adulto-bambino caratterizzate da abuso sessuale, si evidenziano
atteggiamenti di manipolazione, imbroglio, pressione o ricatto. Si evidenziano anche
minacce di interruzione di relazione tra le parti oppure, al contrario, promesse di
potenziamento di relazione. In certi casi si evidenziano anche minacce con intervento
di forza fisica e intimidazioni.
4
Cristina Comencini, “La bestia nel cuore”, 2004, Feltrinelli, Milano, pag. 164.
12
A queste caratteristiche vanno aggiunte quella di ambivalenza e di segretezza, che
complicano indubbiamente la situazione e rendono difficile qualsiasi possibilità di
intervento in aiuto e supporto al bambino.
“A 13 anni sono stata toccata in parti intime da una persona molto intima a me, mio
fratello. Non avevo ancora conoscenza di cosa accadeva di preciso ed ero in conflitto: da un
lato le sensazioni che stimolava erano strane, nuove e piacevoli; dall’altro capivo che c’era
qualcosa di sbagliato e di anomalo perché non riuscivo a raccontare ai miei genitori cosa
lasciavo fare a mio fratello.” 5
L’ambivalenza è spesso presente nei casi di bambini che hanno subito abuso;
questi bambini indubbiamente sperano che l’abuso abbia un termine, ma
contemporaneamente sperano che continui, perché la condizione in cui si ritrovano
presenta per loro aspetti apparentemente e superficialmente positivi. Il bambino,
infatti spesso si sente destinatario di attenzioni particolari da parte dell’adulto e
quindi di essere un bambino “speciale”. Questa stessa percezione di aspetti positivi
sarà uno dei fattori coinvolti nel generarsi del senso di colpa, che vivrà il bambino
abusato quando crescendo cercherà di rielaborare l’esperienza.
“Parole non dette: questo è spesso l’abuso sessuale per molti adulti di oggi e bambini di ieri
che nel silenzio hanno subito violenze e nel silenzio hanno convissuto con un segreto che fa
male al corpo, al cuore, alla mente, insomma fa male dappertutto.” 6
Altro fattore costitutivo dell’abuso sessuale è la segretezza, il silenzio. L’adulto
abusante richiede sempre al bambino di mantenere il segreto e lo induce a farlo a
costo di compiere qualsiasi cosa per convincerlo. Nessun abuso potrebbe infatti
avvenire o perpetuarsi se gli adulti vicini al bambino ne fossero a conoscenza.
Questo silenzio imprigiona l’abuso, lo cristallizza. Lo imprime inesorabilmente
nell’animo della persona che lo subisce.
5 Tratto dai questionari della ricerca condotta dalla ASL Città di Milano, “Non più vittime”, marzo 2003.
6 Alberto Pellai, “Le parole non dette – come insegnanti e genitori possono aiutare i bambini a prevenire
l’abuso sessuale”, 2004, Franco Angeli, Milano, pag. 15.
13
Il bambino diventa prigione di se stesso. Imprigionando il segreto in sé,
imprigiona anche le sue emozioni e nasconde le sue ferite.
“Prima di partire non sono riuscita a dirti cosa mi tormenta, non riesco ad esprimerlo con
le parole. Sono venuta qui per parlarne con mio fratello, anche se ogni giorno che passa mi
rendo conto che non avrò mai il coraggio di dirlo a nessuno, meno che mai a Daniele. Forse
sarebbe possibile rivelarlo ad un perfetto estraneo, che non conosce la mia storia e non mi vede
già in un certo modo. Anche se Carla, l’eroina del libro, nel suo viaggio in incognito non
riesce a raccontare di sé a nessuno.” 7
Mantenendo il segreto, la persona abusata, imprigiona dentro di sé una bestia
feroce che logora, come un sasso che viene consumato dall’acqua; così è la sensazione
di chi porta dentro di sé un fardello così pesante.
“Di colpo mi è nata dentro una sfiducia terribile negli esseri umani. Le parole d’affetto mi
sembrano fasulle, gli impegni d’amore impossibili da mantenere. Non perché non lo vogliamo,
ma perché non possiamo. La nostra natura, i desideri, sono più forti e agiscono per loro conto,
inconoscibili, indisturbati, disturbando ogni altra promessa.” 8
Quando si arriva ad un culmine si ha bisogno si gettare fuori tutto quel che si
racchiude. L’immagine del viaggio è quella migliore per rendere idea di quello che
avviene. La persona abusata sente il bisogno di evadere da sé e da tutto ciò che la
coinvolge, perché in sé è racchiusa la propria sofferenza e per poter curare le proprie
ferite, per poter imparare a vedere bisogna allontanarsi da se stessi.
“Bisogna affrontare l’esterno per sentire com’è bello tornare a casa.” 9
7 Cristina Comencini, “La bestia nel cuore”, 2004, Feltrinelli, Milano, pag. 102.
8 Ibidem, pag.92.
9 Ibidem, pag. 101.
14
Dai dati raccolti 10 emerge che sia maggiore la difficoltà di raccontare il proprio
vissuto per i soggetti di sesso maschile. Questo si verifica perché il bambino che ha
subito abuso è più intimorito di una bambina a parlarne a qualcuno; egli non riesce,
infatti, a superare la paura e lo stigma, percepito da molti, che l’abuso subito porti a
identificarlo come soggetto debole o omosessuale, in contrasto con lo stereotipo socio
– culturale che vuole l’uomo potente, forte e sempre in grado di controllare ogni
situazione.
1.3.
Fattori di rischio per i bambini
“Quella posizione piace al girino, ha poco spazio ora. Lo chiama ancora così quando pensa
a lui. Loro due condividono il segreto, per questo non vuole che esca.
Lì dentro è protetto dai mali della terra.” 11
I casi di abuso conclamato, opportunamente analizzati, hanno rivelato che i
bambini che sono destinatari di abuso sessuale più frequentemente presentano dei
fattori di rischio comuni.
Spesso c’è concomitanza con una non convivenza con uno dei propri genitori
biologici, oppure
con l’assenza di entrambi i genitori per lunghi periodi della
giornata a causa di impegni di lavoro o malattia. L’appartenenza a nuclei famigliari,
in cui il bambino sperimenta conflittualità o grande infelicità coniugale, è un altro
fattore che si presenta in concomitanza con il fenomeno di abuso.
Quindi: supervisione educativa insufficiente, sensazione di abbandono, rifiuto e
trascuratezza emotiva vissute dal bambino, sono tutte condizioni che rendono più
vulnerabili i bambini e che incrementano il rischio che incorrano in situazioni di
abuso. Questo avviene perché in un contesto così povero dal punto di vista
10
Riferimento alla ricerca “Non più vittime”, condotta dalla ASL Città di Milano nel 2002, vedi
capitolo “L’abuso sessuale: ricerca – I numeri che nessuno sa né vuole sapere”.
11
Cristina Comencini, “La bestia nel cuore”, 2004, Feltrinelli, Milano, pag. 180.
15
relazionale ed emotivo per il bambino, l’adulto abusante riesce a trovare basi salde
per catalizzare l’attenzione, la fiducia e l’attrazione del bambino nei suoi confronti e
il fatto che non abbia intorno a lui figure di riferimento adulte presenti e significative,
renderà più facile la presenza della condizione di segretezza e quindi che l’abuso si
perpetui nel tempo.
Un altro dato molto significativo ma poco noto è che l’abuso sessuale perpetuato
tra le mura domestiche è veramente molto raro rispetto al fenomeno complessivo;
quel che finora ha portato a credere che sia un fenomeno molto diffuso è il fatto che
l’incesto è fra tutti l’abuso più denunciato e quindi il più conosciuto dalle autorità
giudiziarie.
In realtà non è nemmeno vero che l’abusante sia sempre e per forza di cose un
estraneo o uno sconosciuto; anzi l’epidemiologia del fenomeno porta alla luce il fatto
che la maggior parte dei bambini hanno subito l’abuso da una persona a loro vicina.
Tutto questo è un fattore che permette un maggiore sviluppo delle componenti di
fiducia, legame e segretezza che caratterizzano il fenomeno dell’abuso sessuale.
1.4.
Chi è il pedofilo?
“Togli il sonoro. Lo dice al fonico quando l’attore è pronto a sostituire la sua voce
all’originale. E se anche la voce doppiata fosse originale? Se ce ne fossero sempre, in ogni
individuo, almeno due, quella che percepiamo come giusta, veritiera, di ogni giorno, che a
forza d’abitudine ci sembra quella vera, e l’altra che esce fuori di tanto in tanto dall’abisso di
ognuno?” 12
Abbiamo già detto che il pedofilo spesso non è un genitore, che non è nemmeno
così spesso uno sconosciuto.
Un’altra credenza comune è che il pedofilo sia solo un uomo; anche una donna
può abusare di un bambino.
12 Ibidem,
pag. 197.
16
Fattore ancora più preoccupante, che comunica molto sull’ignoranza a riguardo di
questo fenomeno, è quello di considerare coincidente o tranquillamente confondibile
la figura dell’omosessuale, con quella del pedofilo.
Dobbiamo prendere atto anche del fatto che il pedofilo non è un “mostro”. Non
potremmo mai riconoscere un pedofilo camminando per la strada. Lombroso non
avrebbe avuto molto successo se avesse cercato di creare un vero e proprio identikit
del pedofilo; fronte alta, sopracciglia spesse ed unite, zigomi alti e corporatura
massiccia non sono certo d’aiuto.
Non si può additare una persona e decidere che si tratta di un pedofilo basandosi
sul suo aspetto esteriore o perché gli piace stare con i bambini.
La pedofilia è una vera e propria malattia e spesso non conosciuta. È un fenomeno
complesso e difficilmente schematizzabile, socialmente scomoda ed umanamente
inaccettabile. Sono questi i principali motivi che lasciano nell’ombra questa malattia,
la dimenticano come tale e portano a viverla solo come fenomeno sociale da cui
difendersi, il male oscuro della società, il cancro di cui sbarazzarsi.
Il pedofilo è una persona normale, come tante, con un problema da affrontare e da
superare. Questo non vuol dire legittimare e comprendere l’abuso, accettarlo: non
credo infatti sia possibile accettare e perdonare certi fatti, certe azioni. Quel che
bisogna fare è cercare di superare il problema, attraverso un intervento che non sia
solo sintomatico, ma che vada alla radice del problema.
Non esiste un profilo psicologico unico che connoti in modo unilaterale il soggetto
che compie azioni di pedofilia. Esistono infatti pedofili aggressivi (anche se sono la
minoranza), caratterizzati da un comportamento fortemente antisociale, ma esistono
anche pedofili dalla personalità immatura, per i quali operare atti sessuali sui
bambini costituisce un modo per esercitare controllo all’interno di relazioni sessuali,
che con persone di pari età non possono avvenire per un profondo quanto inconscio
senso di inadeguatezza.
Vi sono comunque cinque caratteristiche che connotano un soggetto pedofilo:
1. La negazione: quasi tutti pedofili negano le loro azioni; a volte in condizione
di impossibilità di negare alcuni sostituiscono la negazione con la
minimizzazione (“Non è stata poi una cosa seria”, “In realtà al bambino non
è successo nulla”). Questo tipo di negazione va subito fermata perché usata
17
dal pedofilo come difesa che non tiene conto delle reali conseguenze
psicologiche per l’abusato.
Tale meccanismo psicologico profondo viene usato dal pedofilo anche con
se stesso. In molti casi infatti i pedofili sono convinti di non causare alcun
problema alle loro vittime; il loro interesse sessuale per i bambini è la
massima dimostrazione di affetto e di amore che un adulto può avere per un
bambino;
2. Eccitazione sessuale legata alla visione di corpi nudi di bambini;
3. Fantasie sessuali, in cui i bambini sono i protagonisti di atti sessuali.
4. Distorsioni cognitive: con esse o con giustificazione il pedofilo si
autoassolve, convincendosi che le sue azioni non sono problematiche. Questi
autoconvincimenti spesso sono alla base della reiterazione dell’abuso,
perché impediscono all’abusante di comprendere la reale natura di ciò che
commette.
5. Altri problemi di natura psicologica e sociale: per esempio abuso di sostanze
ad azione psicotropa e alcool, depressione, scarsa capacità di autocontrollo.
Tutte queste caratteristiche riscontrate frequentemente nel profilo del pedofilo,
mettono in luce chiaramente come sia impossibile esternamente comprendere se una
persona è o meno un pedofilo.
Eppure l’immaginario collettivo ha imparato a nascondere in alcune tipiche paure,
quei fattori che mettono a rischio le solide certezze in cui siamo cresciuti, come quella
che gli adulti non possono fare del male ai bambini e che il loro compito è quello di
proteggerli. Quindi ecco che nascono il mostro, l’uomo nero, il lupo mannaro…
18
1.5.
Fattori che favoriscono l’emergere e l’ampiezza dei
comportamenti pedofili
La mancanza di rispetto nei riguardi dei bambini, il non-riconoscimento del valore
del loro specifico linguaggio emotivo e affettivo, troppo spesso appiattito sul
predominante linguaggio adulto (quello produttivo, quello del mercato, quello senza
fantasia e gratuità), l’indifferenza che regola sempre più le relazioni sociali e il
meccanismo perverso della pubblicità, sono solo alcuni dei fattori che favoriscono
l’emergere del fenomeno, connotandosi frequentemente come aspetti sociali e
culturali.
In molte famiglie bisogna osservare sempre più frequentemente il fatto che il
televisore resta acceso tutto il giorno, non perché viene visto, ma perché fa da
colonna sonora, da sottofondo ad un contesto improntato su un’incomunicabilità
onnipresente. Riempie un vuoto esistenziale e un’assenza di affetto all’interno di un
nucleo famigliare.
Non serve nemmeno ad unire i famigliari per discutere insieme di ciò che vedono
e sentono, perché vige il più totale silenzio a riguardo. L’assenza di comunicazione e
scambio rispetto ai messaggi televisivi, che tutti i componenti della famiglia
assorbono singolarmente, può proporsi indirettamente come modello di relazione, o
meglio come modello di non-relazione, dove si assorbe soltanto e non si dà nulla.
Inoltre, possiamo aggiungere che la televisione non rielabora ciò che propone, non
fornisce degli spunti di riflessione che poi i singoli possano sviluppare nella loro
solitudine. Fornisce solo delle informazioni, anzi le somministra come si somministra
uno psicofarmaco.
Le conseguenze sui singoli, oltre che fornire una modalità di non-relazione, sono
diverse a seconda delle fasce d’età e delle risorse delle singole persone o del contesto
in cui sono inserite.
Non voglio demonizzare la televisione, né renderla responsabile dell’insorgenza
di componenti pedofile nelle persone. L’intento è solo quello di portare alla luce
come sia stata determinante la televisione nel ridurre, e in alcuni casi nell’eliminare,
il confine tra animato ed inanimato, tra reale e virtuale. Questa caduta di confine ha
modificato notevolmente la percezione di sé e degli altri. Si è andati incontro ad una
19
deanimazione dell’uomo e ad una desimbolizzazione degli avvenimenti che lo
riguardano.
Probabilmente tutti questi fattori, uniti ad una sempre più diffusa condizione di
“analfabetismo emotivo”, come afferma Goleman 13 , pongono l’individuo in una
situazione in cui compiere scelte e adottare comportamenti idonei al contesto sociale
di riferimento, diventa estremamente difficile.
È un dato di fatto: stiamo favorendo una cultura a sostegno della pedofilia.
Il ruolo della cultura dominante, pur con minore intensità rispetto al passato,
ancora oggi presume il dominio dell’uomo adulto nei più diversi campi esperienziali.
Le frequenti sollecitazioni con connotazioni di tipo sessuale che saturano
l’esistenza dei bambini, dominata dai media, provocano in loro molti pensieri, molte
fantasie, curiosità, domande che un tempo non sussistevano in alcune fasce d’età.
Molti insegnanti, per esempio, si devono confrontare ogni giorno con bambini che
riferiscono episodi sessuali anche molto espliciti, spiati, visionati o ascoltati
frequentando il mondo dei grandi o semplicemente sbirciandolo e intuendolo.
Si riscontra un disorientamento culturale all’interno del turbolento mondo dei
mass media, dove la precoce sessualizzazione dei minori, il fenomeno del lolitismo e
la torpidità di alcuni messaggi pubblicitari sembrano un esplicito stimolo alla
pedofilia o, quanto meno, un’evidente violazione al rispetto e alla privatezza del
corpo dei minori
“Il problema non è chiedersi come mai sia successo, ma come mai si sia attratti da queste
cose.(…)
Meglio chiedersi perché gli uomini sono attratti dall’ingenuità, o dalla sopraffazione, che in
fondo è la stessa cosa.” 14
13
riferimento a Daniel Goleman, “Intelligenza emotiva – Che cos’è perché può renderci felici”,
2004, BUR, Milano.
14 Cristina Comencini, “La bestia nel cuore”, 2004, Feltrinelli, Milano, pag. 56.
20
1.6.
Le conseguenze dell’abuso sessuale per il bambino
“Non piango per me. Io vedo quel bambino. Non sono più io, ho dovuto ucciderlo. Ho
dovuto far fuori la sua bontà, la tenerezza per lo stronzo, l’accondiscendenza per uno sguardo
d’amore. Questo potere aveva su di me. Piango per quel bambino perché mi fa pena. Io non mi
faccio più pena, ho Anne, i bambini, la mia vita. Lui e la sua piccola vittima, li ho fatti fuori
insieme. Alla fine diventano la stessa persona, vittima e carnefice sono la stessa entità. Lui ti
chiama con voce supplicante, dipende da te calmarlo, farlo contento, che non si arrabbi con
mamma, ti alzi gli vai dietro, fai quello che ti chiede. Sei uguale a lui perché accetti il suo
gioco. Non è così, ovviamente, tu non hai metro di giudizio, non sai cosa sono quei gesti. La
guarigione completa è quando riesci a non vederli più uniti, li dividi finalmente, salvi il
bambino, te stesso bambino. Ma io non ho potuto, non ce l’ho fatta, per questo piango troppo,
anche se nessuno se ne accorge, riesco a farlo di nascosto. Ho dovuto ucciderli insieme.” 15
L’abuso sessuale può avere conseguenze sul minore a breve, medio e lungo
termine e non esiste una regola precisa legata ai diversi tipi di abusi. Ogni abuso
costituisce una storia a sé e ogni bambino presenta delle caratteristiche personali, che
rendono molto variabili le conseguenze per il bambino.
Certamente vi sono delle variabili correlate al fenomeno dell’abuso capaci di
incidere con maggiore o minore gravità sugli esiti che da esso derivano: incidono ad
aumentare la gravità delle conseguenze dell’abuso subito una elevata età della
vittima, una maggiore differenza d’età tra vittima e abusante, il fatto che l’abusante
sia un uomo, il ricorso alla forza fisica durante l’abuso, la ripetizione dell’abuso sul
bambino, la durata dell’abuso, la severità delle azioni operate dall’abusante, la
vicinanza e l’affetto tra aggressore e vittima, il numero di abusanti, l’eventuale
appartenenza a una famiglia multiproblematica.
Su un piano propriamente organico, le conseguenze per il bambino saranno
relative ad un elevato rischio di malattie a trasmissione sessuale, ad una eventuale
gravidanza e ad una precocizzazione dello sviluppo sessuale.
15
Ibidem, pag. 166.
21
Mentre su un piano psicologico, affettivo e relazionale le conseguenze più evidenti
sono: bassi livelli di autostima, difficoltà emotive, incubi e disturbi del sonno, ostilità,
rabbia repressa, depressione, disinteresse e disinvestimento dalle normali attività,
problemi scolastici, disturbi dell’attenzione, della memoria, della concentrazione,
ansia di piacere sempre agli altri, comportamenti aggressivi e regressivi. Tutte queste
conseguenze tendono a strutturarsi e cronicizzarsi nel bambino, disturbando
funzioni e compiti evolutivi.
Frequentemente la vittima di abuso sessuale presenterà disturbi capaci di
compromettere lo sviluppo di una sana sessualità, perché ad essa vi assocerà le
sensazioni di sofferenza fisica ed emotiva che hanno accompagnato la violenza
subita.
Spesso i bambini abusati si percepiscono come colpevoli della loro situazione ed
estendono questa percezione di autocondanna ad altri eventi avversi nella loro
esistenza, fino a giungere a sentirsi inadeguati nelle relazioni con gli altri e perciò a
isolarsi socialmente e a sviluppare di conseguenza una personalità “rinunciataria”.
Tale senso di colpa può poi sfociare in atteggiamenti, più o meno strutturati, di
autolesionismo (sperimentazioni con sostanze ad azione psicotropa, abuso di alcool,
automutilazione e disturbi del comportamento alimentare).
In più, il bambino tende a nutrire nei confronti degli adulti una scarsa fiducia,
perché categoria che invece di difenderlo e proteggerlo, lo ha aggredito.
I bambini che subiscono abuso interiorizzano un senso di impotenza e di
mancanza di difese. Non hanno diritti, limiti, privacy, dignità e controllo sul corpo,
sui desideri, sui sentimenti.
“Come hai potuto bastardo toccare mio fratello? Come ti sei permesso vigliacco! Tu e mia
madre dovete morire insieme, di nuovo, per sempre! Voi che ci avete fatti avete osato questo!
Dovevate proteggerci e ci avete assaliti nel sonno, uccisi, mutilati! Mi hai partorito per
questo, madre! Maledetti, esseri abbietti, orrori della notte, non voglio piangere, salterò e
riderò sulla vostra tomba con il mio bambino in braccio! Lo farò, smetterete di tormentarci,
non siete degni di abitare i nostri sogni, noi siamo senza genitori, nati dal nulla, figli di noi
stessi, unici genitori dei nostri figli.” 16
16
Ibidem, pag. 207.
22
I bambini abusati sono animali in gabbia; le sbarre del silenzio li isolano dal fuori e
li costringono a rigirare nello stretto spazio a loro concesso. L’unico modo per
mettersi in salvo, l’unica via sarebbe comunicare ad un adulto di fiducia il proprio
dramma, ma questo rimane l’evento più temuto della vittima.
A questo punto le possibilità che si verificano sono due:
1. La maggior parte delle vittime prova a vivere una vita normale in cui
incorpora in modo definitivo il proprio segreto; ci conviverà permettendogli
di disturbare la propria vita affettiva, relazionale, intrapsichica;
2. Alcuni non tollerano il dolore, provano inconsciamente a mettere a tacere la
memoria dello stesso dolore. In questo modo l’evento scompare dal ricordo
consapevole del soggetto che l’ha subito, viene rimosso e represso in una
memoria subconscia. Quest’ultima disturberà in modo inconsapevole
l’esistenza del soggetto, produrrà sintomi psichici e somatizzazioni sul
corpo. L’unico modo per sbloccare questo vano della memoria può avvenire
se le esperienze della propria vita, o una psicoterapia, daranno modo al
soggetto di accedere a quella stanza profonda del proprio mondo interno in
cui è rinchiuso il segreto.
“I collegamenti: il sogno, il bambino, il viaggio, il fratello, il libro del padre, la fanno
rabbrividire, pulsano, si connettono, invitano a percorrere il sentiero, a entrare nel bosco
scuro. Il girino la richiama al futuro procurandole una nausea insopportabile. Anche lui è nel
buio, forse partecipa del suo travaglio, ne è informato in modo cieco, inconsapevole, teme la
verità, non vuole intralci all’esistenza per cui lotta e si dà già da fare. Le associazioni però,
caro girino, vanno avanti da sole, impossibile fermarle. È buio pesto nel bosco, come nella
stanza del sogno.(…) Eppure il sogno ha ricalcato la realtà di una sera in cui ha
effettivamente dormito con lui. Dormire con il padre è già così strano. Il sogno illumina le
zone oscure di una cosa accaduta, anche se alla fine tutto torna nel buio, niente è più sicuro.
Forse se fosse stata una cosa vissuta realmente e non semplicemente un sogno, sarebbe
diventata pazza, ferita a morte, traviata. Da qualche parte la verità sarebbe uscita. O forse no,
proprio questo è il punto, ci si può convivere normalmente, seminarne frammenti
incomprensibili qua e là, trovare un accomodamento interno.
23
Sabina non vuole perdere la normalità, per questo esita a seguire i collegamenti.” 17
1.7.
Il lungo percorso della rivelazione dell’abuso subito: fattori
facilitanti ed ostacolanti
La via d’uscita dalla condizione devastante, in cui l’esperienza di abuso costringe i
minori, è quella della rottura del segreto, della rivelazione.
Per un bambino è difficile raccontare le proprie esperienze di abuso. Egli deve
richiamare alla mente qualcosa che ha cercato di rimuovere, episodi di cui non
conosce fino in fondo la gravità e per di più deve riferirli ad un adulto che considera
autorevole, ma del quale allo stesso tempo non sa quanto fidarsi. Tutto ciò è un
operazione complessa, che coinvolge numerose facoltà cognitive, affettive,
relazionali.
Essere consapevoli della complessità di questo procedimento è il punto di
partenza per noi operatori: ci permetterà di vedere meglio, di riconoscere e
comprendere il disagio del bambino e in questo modo di essergli d’aiuto per
superarlo.
Al centro dell’attenzione va posto il bambino e le sue emozioni. Con questo
particolare sguardo bisogna accompagnare il bambino in quello che a tutti gli effetti
può essere descritto come un vero e proprio processo. Un percorso fatto di fasi, con
un inizio probabilmente lento, durante il quale il bambino misura l’accoglienza
dall’adulto, la protezione che riceve, la credenza che viene data alle proprie parole.
Un susseguirsi di fasi che saranno caratterizzate da momenti di apertura e
confidenza e altre da momenti di chiusura.
Il processo di rivelazione è molto delicato: il bambino racconta la propria
esperienza e vive la sensazione di svelare un segreto, di tradire una fiducia; in più si
è talmente identificato con quella esperienza da credere di svelare se stesso. Inoltre il
bambino può sentire di trovarsi sul punto di perdere una situazione di privilegio,
17
Ibidem, pag. 119.
24
anche se ambigua, precaria ed inquietante, per entrare in un’altra situazione nuova
che non conosce e che non sa dove lo porterà.
L’operatore consapevole di tutto questo dovrà attendere che la rivelazione si
sviluppi spontaneamente, rispettando i tempi e i metodi che il bambino sceglierà.
Accettare che la rivelazione segua dei tempi e delle logiche proprie del bambino,
porrà l’operatore in atteggiamento di ascolto empatico: un ascolto che terrà in
considerazione tutte le dimensioni della personalità del bambino; un ascolto
completo, che diventerà strumento indispensabile di conoscenza e comunicazione.
25
2. ABUSO SESSUALE: RICERCA
I numeri che nessuno sa né vuole sapere
2.1.
Perché una ricerca epidemiologica sul fenomeno?
La letteratura internazionale presenta numerosi studi epidemiologici, mentre in
Italia fino a qualche anno fa era presente solo una ricerca in grado di quantificare per
un piccolo territorio il tasso di prevalenza di abuso subito durante l’infanzia.
Anche se su un territorio ristretto (la regione del Veneto), questa ricerca ha
permesso di osservare come la percentuale di vittime di abuso sessuale fosse
maggiore rispetto a quella riportata in letteratura per realtà straniere, fino ad allora
considerate fino a 40 volte più problematiche rispetto alla realtà italiana. Insomma,
prima di questa ricerca, l’Italia pareva, a confronto con gli Stati Uniti, un’isola felice,
un paese speciale.
In questo studio è emerso che il 24,4% delle ragazze e il 14,2% dei ragazzi è stato
abusato. Inoltre è emerso che gli abusi compiuti dagli sconosciuti sono in minoranza
rispetto a quelli compiuti da persone di fiducia e vicine ai bambini.
I limiti di questa ricerca sono da ricercarsi nell’esiguità del campione indagato (638
soggetti) e nella compilazione del questionario, avvenuta in ambiente pubblico e
secondo una modalità collettiva; entrambi elementi che possono disturbare una
ricerca rispetto ad una tematica così coinvolgente e intima e basata su ricordi della
propria infanzia.
È indubbio che questa ricerca ha posto alla luce il fatto di essere a conoscenza solo
di una piccola parte di un fenomeno molto vasto e fino ad ora sommerso.
E’ nata così l’esigenza di effettuare una nuova ricerca epidemiologica, finalizzata
alla rilevazione del tasso di prevalenza dell’abuso sessuale nell’infanzia.
La nuova ricerca si è svolta secondo modalità simili a quelle della letteratura
internazionale, usate anche per quella su territorio veneto, ma apportandovi delle
modifiche rispetto ai limiti riscontrati in quest’ultima.
26
Si è scelta la città di Milano per varie motivazioni:
-
la Città di Milano è da anni all’avanguardia nell’offerta di servizi
specialistici che prendono in carico le vittime di abuso sessuale;
-
la ASL Città di Milano attualmente gestisce il più avanzato progetto
sistematico, che “mette in rete” le risorse e i servizi del territorio insieme a
tutte le scuole presenti in città, con fini di prevenzione primaria e
secondaria;
-
la ASL Città di Milano è attualmente l’unica ASL italiana in grado di offrire
un progetto di prevenzione primaria dell’abuso sessuale a tutte le scuole
elementari presenti sul territorio di competenza, con componenti specifiche
rivolte a studenti, genitori e docenti;
-
una migliore programmazione e razionalizzazione dei servizi offerti dalla
ASL per il futuro potrà essere disponibile solo in base alla conoscenza di
dati attendibili e non di semplici stime del fenomeno, così come avviene
attualmente;
-
la reale valutazione di tutto ciò che è stato offerto ai cittadini in questi anni
sarà possibile esclusivamente attraverso il monitoraggio delle modifiche dei
tassi di incidenza e/o prevalenza del fenomeno.
2.2.
“Non più vittime”
“Non più vittime” è una ricerca finalizzata alla rilevazione del tasso di prevalenza
di vittimizzazione sessuale subito in infanzia da un campione di studenti diciottenni
frequentanti le classi quinte delle scuole superiori presenti nella città di Milano.
Questa ricerca si presenta come studio epidemiologico retrospettivo, realizzato
attraverso
la
somministrazione
di
questionari
anonimi
ad
un
campione
rappresentativo della popolazione degli studenti frequentanti la quinta classe delle
scuole superiori, presenti sul territorio della Città di Milano.
Il referente scientifico della ricerca è il Dr. Alberto Pellai, medico e ricercatore in
Sanità Pubblica presso l’Istituto di Igiene e Medicina Preventiva dell’Università degli
27
Studi di Milano. I referenti ASL della Ricerca sono la Dr.ssa Anna Sacchetti e la
Dr.ssa Marisa Lanzi, del Servizio Famiglia Infanzia Età Evolutiva del Dipartimento
ASSI della ASL Città di Milano.
La ricerca ha perseguito diversi obiettivi:
- Definire il tasso di prevalenza di vittimizzazione sessuale all’interno del
campione degli studenti frequentanti le classi V delle scuole superiori presenti sul
territorio della città di Milano;
- Definire le caratteristiche degli episodi di vittimizzazione sessuale subiti in
infanzia dalle vittime, relativamente a questi parametri: natura dell’abuso, tipologia
dell’abusante, età della vittima al momento dell’abuso, svelamento dell’abuso ad
altra persona fidata, recidiva, eventuale intervento di operatori professionisti a
sostegno della vittima;
- Identificare le caratteristiche dell’autostima corporea nei soggetti diciottenni,
verificando se nel sottogruppo delle vittime di abuso sessuale esistano delle
differenze relative a tale aspetto;
- Verificare se i soggetti con pregressa storia di abuso hanno una maggiore
predisposizione all’assunzione di disturbi del comportamento alimentare.
Lo strumento utilizzato è stato un questionario strutturato in 4 parti:
1. presentazione finalizzata a motivare il rispondente, spiegare lo scopo dello
studio e le modalità di compilazione, fornire le garanzie di anonimato e
privatezza;
2. parte finalizzata a raccogliere le esperienze di pregresso abuso eventualmente
subito in infanzia;
1.
EAT 26, test finalizzato a rilevare la predisposizione ai disturbi del
comportamento alimentare;
2.
la scala corporea del Test Multidimensionale dell’Autostima di Bracken.
La ricerca si è costruita in cinque fasi:
1. Gennaio – Febbraio 2002 : preparazione dello strumento di indagine e studio
pilota sul 5% della popolazione da coinvolgere (circa 200 studenti),
28
finalizzato alla verifica dello strumento e della sua comprensibilità e
rispondibilità.
2. Gennaio – Marzo 2002 : programmazione dello studio con l’identificazione
delle 200 classi V da coinvolgere, definizione del protocollo operativo, messa
a punto della metodologia di somministrazione e raccolta dei questionari
compilati. Il campione di classi era rappresentativo dei diversi indirizzi e
tipologie di scuola superiore presenti sul territorio della città e della diversa
ubicazione delle scuole nell’ampio territorio cittadino.
3. Marzo – Maggio 2002 : somministrazione, raccolta e rinvio al gruppo di ricerca
dei questionari compilati dagli adolescenti.
4. Maggio – Ottobre 2002 : elaborazione di tutti i dati raccolti.
5. Novembre 2002 – Marzo 2003 : stesura di un report finale da inviare a tutte le
agenzie e i referenti territoriali che lavorano a diretto contatto con i bambini
all’interno del territorio cittadino.
Il campione di soggetti è stato scelto con caratteristiche quali: maggiore età (di
modo da poter autodeterminare la propria partecipazione allo studio senza alcun
bisogno di altra autorizzazione), frequentanti le classi quinte delle scuole superiori
cittadine.
La somministrazione dei questionari è avvenuta all’interno delle singole classi,
ma da parte di personale opportunamente addestrato e non appartenente al corpo
docente; il questionario è stato presentato e consegnato nel corso di una mattinata
scolastica da due operatori esterni alla scuola; gli stessi operatori si sono presentati la
mattina seguente a scuola a ritirare i questionari compilati dagli studenti e chiusi in
busta sigillata. Inoltre, per due giornate consecutive gli operatori si sono presentati
nelle classi, al fine di raccogliere i questionari non consegnati nella prima giornata
per i motivi più diversi.
La ricerca ha coinvolto: 46 istituti superiori, 212 classi quinte, 3313 studenti. 2935
sono stati i questionari consegnati (88,6%); di questi, 2839 sono stati ritenuti
questionari validi (85,7% : 56% F, 44% M; età media : 18,8 anni)
29
Il questionario era articolato, come abbiamo già detto, in più parti e i risultati
provenienti dalle domande principali sono stati i seguenti:
Con chi vivi?
13%
2%
2 genitori
1 genitore
altro
85%
Rapporti extra familiari
80
61,2
60
40
M-F
29,9
20
7,2
1,1
0
molto
soddisfatti
abbastanza
soddisfatti
poco
soddisfatti
Hai mai avuto un rapporto
sentimentale stabile?
insoddisfatti
Hai gà avuto un rapporto
sessuale completo?
Sì
25%
1%
3%
NO
Sì
39%
NO
60%
72%
Non risponde
Preferisco
non
rispondere
30
Età al primo rapporto
60
50
40
maschi
30
femmine
20
M-F
10
0
13 o
meno
14
15
16
17 o
più
Età media del partner del
primo rapporo sessuale
19
18,5
18
maschi
17,5
femmine
17
16,5
16
15,5
La prima esperienza è stata?
40
30
20
10
M-F
0
molto sodd.
abbastanza sodd.
poco sodd.
insodd.
maschi
femmine
Il tasso di prevalenza totale di vittimizzazione sessuale subito in infanzia
corrisponde a 415 casi (14,6 %), di cui 97 maschi (7,9%) e 318 femmine (19,9%).
Le tipologie di abuso emerse sono state:
Esposizione a materiale pornografico
Toccato in parti intime
abuso lieve – moderato 12,3%
Costretto a toccare parti intime
31
Costretto a masturbare
Penetrazione, sesso orale
abuso grave 2,3%
La probabilità di subire abuso lieve è 2,4 volte maggiore nelle ragazze rispetto ai
ragazzi e la probabilità di subire un abuso grave è 4,2 volte maggiore nelle ragazze.
L’età media al primo episodio di abuso cresce col crescere della gravità dell’abuso:
- l’esposizione a materiale pornografico: 11 anni
- l’essere toccato in parti intime : 13 anni
- l’essere costretto a toccare in parti intime : 12 anni M, 11 anni F
- l’essere costretto a masturbare : 13-14 anni M, 15,2 anni F
- penetrazione, sesso orale : 13,3 anni M, 15,2 anni F
L’esperienza dell’abuso incide sulle risposte date al test di valutazione del proprio
corpo, i valori medi dimostrano che la percezione di come si sentono coincide con
una condizione di sovrappeso e l’immagine di sé desiderata coincide con una
condizione di sottopeso.
L’esperienza dell’abuso incide anche fortemente sul rischio di adottare
comportamenti alimentari a rischio.
Le conclusioni della ricerca sono evidenti. L’abuso sessuale ai minori è una realtà
estremamente diffusa e sottostimata dai dati ufficiali.
Questo fenomeno è stato
definito “l’epidemia silenziosa” del nostro secolo.
In ogni classe esiste in media una vittima di molestia e/o abuso sessuale e,
comunque, ogni scuola ha al suo interno vittime di abusi sessuali gravi e conclamati,
mai riferiti ad alcuno, sofferti nel silenzio e rispetto ai quali nessuno ha mai attivato
un’offerta di aiuto o di presa in carico.
È necessario che si crei un elevato livello di consapevolezza pubblica
relativamente alla vittimizzazione sessuale dei minori e che la popolazione generale
possa in primo luogo comprendere lo stadio del fenomeno e agire di conseguenza.
32
La ricerca ha messo in evidenza che la vittimizzazione sessuale dei minori è
soprattutto messa in atto da persone vicine al bambino e alla sua famiglia. L’incesto
incide per il 10% della casistica totale rilevata nello studio. I dati rimodellano quindi
la percezione e l’analisi usualmente fatta del fenomeno abuso sessuale in base
all’osservazione dei dati ufficiali, dove c’è un numero eccessivo di casi di incesto
rispetto agli altri tipi di casi.
In nessun modo ha senso preventivo allertare un bambino verso questo o
quest’altro adulto, così come non ha senso interrogarsi su quali siano le
caratteristiche che connotano un pedofilo e come sia possibile riconoscerlo.
Quasi sempre il pedofilo è invisibile alla supervisione dell’adulto. Non assume
mai caratteristiche mostruose. Si muove nel raggio di azione e fiducia del bambino,
mimetizzandosi all’interno delle relazioni significative del bambino e della sua
famiglia.
Le uniche competenze preventive, che realmente aiutano il bambino a riconoscere
una situazione a rischio e perciò ad evitarla, sono quelle in cui il bambino comprende
e riconosce le emozioni scatenate dall’interazione con una persona più grande. Solo
in base al riconoscimento e alla comprensione delle proprie emozioni un minore può
comprendere che una persona più anziana di lui sta commettendo abuso.
La vittima non riferisce quasi mai ciò che ha subito. Il 50% degli abusi subiti,
indipendentemente dalla loro natura e dalla relazione esistente tra abusante e
abusato, non è mai stato riferito ad alcuno. Mediamente solo un abuso su quattro
viene riferito ad un adulto e nel caso degli abusi classificati come gravi la
proporzione si riduce a uno ogni sette.
Le vittime imparano a vivere con il proprio segreto, che coltivano come un
qualcosa di non condivisibile con nessuno.
Questo avviene perché i minori abusati hanno paura della reazione degli adulti,
della sofferenza che lo svelamento degli abusi subiti potrebbe generare in chi si
troverà ad ascoltare il loro segreto.
Solo nelle relazioni orizzontali, le vittime si sentono più libere di poter parlare del
loro problema, convinte che saranno ascoltate e comprese.
I bambini devono sapere di avere a disposizione adulti con cui confidarsi in caso
di difficoltà emotiva. Contemporaneamente gli adulti devono essere in grado di
33
poter far sperimentare ad ogni bambino quella sicurezza emotiva, unica condizione
in grado di aiutare un minore, che ha un problema che lo turba o lo mette a disagio,
ad aprirsi nel dialogo con una persona grande di cui si fida e che è in grado di
poterlo aiutare.
I dati dimostrano che l’età media delle vittime cresce con l’intensificarsi della
gravità della tipologia di abuso subito dalla vittima.
Sono soggetti già usciti
dall’infanzia e che si stanno affacciando al mondo dell’adolescenza, dotati di
maggiori competenze per comprendere e definire le situazioni di cui sono vittime,
ma che ciò nonostante scelgono la via del silenzio. Questo fa capire come sia forte il
patto di alleanza segreto che si viene a creare tra abusante e abusato.
Ciò che serve alla vittima non è dimenticare, ma elaborare e superare il trauma
legato alla propria storia e questo sarà tanto più possibile, quanto più le vittime
sentiranno di avere vicino a sé persone sensibili al tema della vittimizzazione
sessuale, che non innescano processi di negazione e censura. Spesso, infatti, la
vittima vede il suo problema in tutta la sua gravità, ma ha la percezione di dover fare
tutto da sola, perché nessuno mai potrà capirla ed aiutarla veramente. Questa
posizione porta la vittima a considerare tabù non solo la sua vittimizzazione, ma
anche la sua stessa richiesta d’aiuto, che potrebbe farle recuperare salute e fiducia in
se stessa, autostima e dignità.
È quindi importante favorire le condizioni di svelamento nella popolazione delle
persone abusate.
I risultati fanno emergere che i ragazzi che hanno subito abuso non considerano i
servizi di territorio una risorsa alla quale potersi rivolgere per chiedere aiuto. Di
conseguenza, risulta fondamentale che durante l’attività preventiva adolescenti e
preadolescenti vengano a conoscenza dei servizi presenti sul territorio a loro
disposizione in caso di aiuto.
Un fattore che ha sorpreso i ricercatori è che all’interno delle relazioni tra pari
possono concretizzarsi situazioni connotabili come abuso sessuale ad un minore. È
un fenomeno molto presente.
Esiste molta ignoranza, incompetenza emotiva, diseducazione sessuale nelle
relazioni affettive sessuali che avvengono tra adolescenti e questo rende possibile
34
praticare violenza e produrre vittimizzazione sessuale anche in situazioni
apparentemente non inquadrabili nel quadro classico di “abuso” a un minore.
La prevenzione all’abuso sessuale si basa proprio su un’educazione al
riconoscimento delle emozioni e alla loro validazione da parte del soggetto, che ne
riconosce il valore e la funzione; questo sembra essere ciò di cui hanno più bisogno i
ragazzi vittime di abusi.
Non potrà esserci prevenzione all’abuso sessuale senza una intensa opera di
prevenzione primaria, che veda nell’educazione alle emozioni la sua dimensione
prioritaria. Saper utilizzare la propria componente emotiva all’interno delle relazioni
interpersonali è una competenza innata nell’uomo, ma spesso soppressa dal contesto
socio–culturale in cui ogni bambino si trova a crescere. La famiglia e tutte le agenzie
educative frequentate dai bambini dovrebbero sostenere un percorso di educazione
emotiva.
35
3. LA PREVENZIONE
“IDEA DI PREVENZIONE:
Prevenire vuol dire agire anticipatamente e a vari livelli,
rispetto al verificarsi di un determinato evento.
La prevenzione diviene vera e propria parte del lavoro educativo, perché è strumento in
grado di moltiplicare l’orizzonte delle possibilità esistenziali, educative, riabilitative.” 18
3.1.
La prevenzione come produttrice di cultura
“Fare prevenzione, in altre parole, è produrre cultura con le nuove generazioni, perché la
cultura amplia il ventaglio delle opzioni e allarga gli spazi di libertà individuale e
collettiva.” 19
Spesso non ci rendiamo conto dell’enorme possibilità che abbiamo: possiamo
cambiare le circostanze, le situazioni, gli avvenimenti; addirittura possiamo imparare
ad agire prima che si verifichino, possiamo cercare di evitarli.
Non siamo di fronte a dei fenomeni come terremoti o valanghe che ci colgono
all’improvviso (per le quali comunque esistono degli indicatori che possono
avvertirci del loro avvicinarsi); bensì abbiamo a che fare con fenomeni comprensibili,
analizzabili, studiabili. È necessario addentrarci nella fitta rete sociale per
comprenderli e per agire su di essi, per modificarli, per aggirarli.
Questa fase di lettura dello scenario, in cui ogni fenomeno problematico si genera,
è ben poco trascurabile, è anzi fondamentale per collocare adeguatamente la propria
azione preventiva.
Viviamo in una società attraversata da macro-fenomeni culturali, economici, etici e
politici, che lentamente si sono inseriti stabilmente tra le unità di base del sistema e in
18
Tratto dal personale diario di tirocinio.
19
Franco Floris, “La prevenzione come ricerca culturale e partecipazione”, in Animazione Sociale,
aprile, 2003.
36
questo modo stanno minando la convivenza e la coesione sociale tradizionale,
indebolendo il legame sociale nelle sue diverse manifestazioni.
Possiamo osservare tra i giovani, ma non solo, la diffusione di stili di vita
improntati su
narcisismo, elitismo e tribalismo. Forme di comportamento che
azzerano ogni tensione all’apertura verso gli altri, verso il nuovo, verso il diverso da
sé; chiudendo al contrario le persone in mondi caratterizzati da legami fra simili,
dove forte è la coesione interna.
Il risultato di un quadro del genere è la compromissione della coesione sociale, con
il conseguente verificarsi di difficili esperienze di solitudine e isolamento sia per i
singoli, sia per interi gruppi. Inoltre possiamo renderci conto della presenza di una
tendenza sempre maggiore alla semplificazione dei problemi.
Se da un lato questa tendenza può essere considerata vero e proprio rifugio di
fronte alla complessità di significati, messaggi, stimoli, provenienti dalla nostra
cultura multimediale, dall’altro diviene facilmente solo una fuga, una rinuncia della
propria libertà e autonomia di pensiero.
Infine dobbiamo riconoscere la formazione e l’affermazione di un potere di
mercato, che vende stili di vita da consumare, delle “offerte” all’interno delle quali è
molto difficile orientarsi, perché difficilmente analizzabili e decifrabili. Questo tipo
di mercato persuasivo minaccia, ancora una volta, la libertà e l’autonomia delle
persone.
Contemporaneamente, all’interno di un tale contesto sociale e culturale, stanno
sorgendo interrogativi importanti che problematizzano questi stili di vita, ne
individuano i rischi connessi e portano avanti il bisogno di ideare delle strategie di
difesa della libertà di pensiero e della libertà di diritti, di cittadinanza e di
espressione. Sta forse nascendo uno spazio all’interno del quale la gente sta iniziando
a reagire, interrogandosi su democrazia e libertà, sugli affetti e sulle emozioni, sul
lavoro e sulla disoccupazione, sull’inclusione e sull’esclusione.
Proprio a partire da questo bisogno di produrre nuova consapevolezza deve
prendere avvio il cammino e il discorso della prevenzione.
In questo modo ci avvicineremo ancora un po’ di più al concetto chiave del lavoro
di prevenzione: prevenire non deve voler dire proteggere da qualcosa o qualcuno,
37
ma accompagnare la ricerca di nuovi stili di vita, una ricerca che parte dal basso, una
ricerca che le persone stanno compiendo nell’ambito della propria società.
La prevenzione è quindi in primo luogo una restituzione di spazi di pensiero,
all’interno dei quali le persone si interrogano, coltivano interiorità e producono
cultura.
La prevenzione prevede partecipazione. Nella partecipazione si traduce la
possibilità del singolo di evolversi, reagendo attivamente a forme di vita per le quali
il soggetto stesso non esiste come soggetto autonomo. Partecipare vuol dire
possibilità di pensare insieme il futuro e di produrre beni collettivi.
È all’interno del mondo quotidiano che ciascuno deve partecipare. La quotidianità
è infatti contenitore all’interno del quale ricercare il senso delle proprie scelte e
azioni. Contemporaneamente la partecipazione rappresenta anche la possibilità di
uscire da una quotidianità, che può essere anche opprimente e pesante, fonte di
separazione fra sé e il mondo circostante.
Essere partecipativi porta ad un incontro sempre più ravvicinato con gli altri esseri
umani: un incontro che interessa proprio le persone a noi più vicine. Proprio questi
rapporti, a causa di un forte narcisismo individuale o di gruppo, sembrano essere
faticosi e a volte distruttivi.
Un lavoro di prevenzione porterà a scoprire che l’aver cura degli altri, cioè
affermare se stessi senza usare gli altri o abbandonarli, dà una gratificazione che crea
spazi per una nuova libertà. Il rapporto con l’alterità porterà a una percezione di sé
come responsabili dentro la società. La prevenzione, quindi, crea spazi relazionali e
mentali in cui gli sguardi si possano aprire su orizzonti sempre più vasti.
Infine, la partecipazione è collegata alla capacità di auto-organizzarsi per risolvere
insieme i vari problemi. Infatti si considera che la risposta alle varie sfide, alle varie
problematiche, alle varie necessità, non possa provenire da un singolo esperto o
politico, quanto piuttosto da discussioni pubbliche, nelle quali ci si interroghi sul
futuro, e dall’attivazione di tutte le risorse formali ed informali.
38
4. LA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ
4.1.
La psicologia di comunità e i suoi obiettivi
Avviciniamoci alla psicologia di comunità, che ci fornisce un aiuto per
comprendere in quale direzione muoverci per costruire il nostro pensiero.
La psicologia di comunità si propone di studiare l’interazione tra l’individuo e le
strutture sociali; è suo interesse la relazione circolare esistente tra questi due livelli.
La psicologia di comunità ha una propria specifica unità di analisi che definisce la
persona nel contesto. Studiare l’individuo nel proprio contesto di vita quotidiana
permette di cogliere l’interdipendenza costante tra i campi della persona e i campi
dell’ambiente.
Focalizzarsi sulla interdipendenza tra individuo e ambiente modifica la
concezione di “disagio individuale” e di “problema sociale”. Il disagio non è più un
elemento considerato insito nell’individuo, né una condizione determinata
unicamente dalle strutture sociali.
Tra gli obiettivi della psicologia di comunità si trova, quindi, la prevenzione del
disagio.
Un altro interesse considerevole è riservato al concetto di promozione della salute e
del benessere. La psicologia di comunità, coerentemente con quanto affermato
dall’OMS 20 , sostiene una concezione di salute positiva, di tipo evolutivo, che assume
un modello dinamico di uomo e sottolinea la tensione dell’individuo verso il
soddisfacimento dei propri bisogni e il controllo attivo sulle condizioni di vita. In
quest’ottica la stessa prevenzione del disagio viene intesa non solo come
anticipazione e/o elusione del disagio, ma soprattutto come sviluppo di migliori
condizioni di vita.
20
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la promozione della salute come «quel
processo per cui la gente incrementa il controllo e la gestione diretta delle proprie condizioni di
benessere e/o di disagio» (1987).
39
La promozione della salute e il miglioramento della qualità della vita degli
individui rappresentano l’obiettivo principale e più generale della psicologia di
comunità.
Un terzo obiettivo consiste nella promozione dell’autoconsapevolezza e della
partecipazione dei membri della comunità, nello sviluppo della competenza della comunità.
Questa disciplina, infatti, si riconosce il compito di individuare i processi, mediante i
quali le comunità rafforzano oppure ostacolano il benessere psicologico delle persone
che vivono in esse.
Per perseguire questi obiettivi la psicologia di comunità punta sia a rinforzare le
risorse personali che a potenziare le competenze della comunità, poiché ritiene che lo
sviluppo della qualità della vita possa realizzarsi solo attraverso una coerente e
congiunta promozione sia delle capacità dei singoli che delle risorse presenti nella
comunità.
4.1.1.
La psicologia di comunità e la prevenzione
L’etimologia della parola “prevenzione” rimanda a una dimensione temporale:
“venir prima”. La psicologia di comunità interpreta la strategia preventiva in senso
ancor più radicale, tentando non solo di evitare o ridurre la manifestazione del
disagio, ma anche di migliorare le condizioni di vita della comunità e di favorire
l’integrazione dinamica tra individuo e ambiente.
La psicologia di comunità cerca di agire il più possibile in senso preventivo e sui
livelli più complessi della realtà sociale; cerca di privilegiare l’intervento sui gruppi,
sui sistemi organizzativi o sulle reti informali, piuttosto che l’intervento di cura o il
ricollocamento del singolo individuo.
La strategia preventiva in psicologia di comunità si identifica dunque soprattutto
con la prevenzione primaria.
Possiamo parlare inoltre di prevenzione primaria “proattiva” e di prevenzione
primaria “reattiva”, dove nel primo caso si sta parlando di migliorare la qualità di
vita dell’ambiente e nel secondo caso si mira a incrementare le competenze degli
individui.
40
4.1.2.
Ostacoli alla strategia preventiva della psicologia di
comunità
Esistono diversi fattori e difficoltà che ostacolano la strategia preventiva.
Un primo fattore è costituito dal predominio di una concezione “eccezionalistica”
nell’analisi e nella risoluzione dei problemi sociali. Ritenere un problema la risultante
di un difetto individuale, favorisce la produzione di interventi orientati all’individuo,
più che al sistema e alla cura, e alla riabilitazione, più che alla prevenzione del
disagio o alla promozione del benessere.
Altro ostacolo è che l’orientamento preventivo è meno ovvio e consolidato di
quello riparativo. La prevenzione richiede un’attività cognitiva e un’operatività in cui
gli interessi a lungo termine prevalgono su quelli a breve termine; a causa di un
crescente aumento di situazioni di disagio e della richiesta sempre maggiore di
interventi di cura, gli operatori sono portati a rispondere più all’emergenza presente
che non al disagio che si sta formando.
Ulteriore ostacolo è la scarsa domanda sociale di interventi di prevenzione, dovuta
al considerare la prevenzione del disagio come una componente esclusivamente
tecnica e specialistica. L’azione preventiva deve essere invece considerata come un
problema interdisciplinare.
Un altro ostacolo è rappresentato dal dover compiere interventi preventivi su
disturbi dall’eziologia oscura o complessa.
Infine l’azione preventiva della psicologia di comunità è ostacolata dalla poco
sviluppata competenza degli operatori nell’individuare i contenuti e gli indicatori del
cambiamento da progettare.
41
4.2.
La psicologia di comunità e i suoi riferimenti teorici
I concetti teorici più significativi che maggiormente hanno influito sullo sviluppo
concettuale della psicologia di comunità sono numerosi.
All’interno del quadro di riferimento concettuale troviamo la teoria generale dei
sistemi. La psicologia di comunità fa proprio il concetto di sistema e lo utilizza in
riferimento ai “sistemi sociali”, che vengono concepiti come un insieme di rapporti
tra elementi di complessità crescente: individui, piccoli gruppi, organizzazioni,
comunità. La comunità si configura come una rete di sistemi sia di tipo formale, sia
di tipo informale.
La prospettiva ecologica tende a riportare l’attenzione sull’osservazione dei fenomeni
nei loro setting naturali; tutto ciò è coerente con l’orientamento della psicologia di
comunità, poiché consente di enfatizzare la relazione tra persona e ambiente,
piuttosto che esaminare isolatamente le loro caratteristiche.
Trova spazio in questo quadro concettuale anche la teoria del campo di Lewin,
secondo la quale ogni evento è determinato dall’insieme di fattori presenti all’interno
del campo psicologico (totalità dei fattori individuali e ambientali in relazione di
interdipendenza in un dato momento). Per la psicologia di comunità è
particolarmente condivisibile la concezione del comportamento come funzione della
persona e dell’ambiente; un’eredità lewiniana è il concetto di “soggetto attivo”,
attraverso il quale viene riconosciuta l’importanza dell’azione trasformatrice
dell’uomo e il suo potere di intervento sulle variabili biologiche e sociali che
caratterizzano la sua esistenza. Ancora dalla teoria lewiniana viene ereditata la
concezione del “piccolo gruppo”: il gruppo è un insieme dinamico, qualcosa di
qualitativamente diverso dalla somma dei singoli elementi che lo compongono, tra i
quali esiste un forte legame di interdipendenza e di reciproca influenza; infine il
gruppo, secondo Lewin, ha grandi potenzialità trasformative sia a livello individuale
che sociale.
Erede
del
concetto
dinamico
individuo-ambiente
di
Lewin,
troviamo
Bronfenbrenner, il quale sottolinea l’inscindibilità dell’individuo dall’ambiente in cui
cresce e si sviluppa. Egli propone un modello di lettura del contesto a più livelli, con
attenzione al rapporto di interdipendenza degli elementi di un sistema.
42
Fra i diversi filoni della psicologia ambientale anche quello dell’approccio socioeconomico, che si propone di analizzare l’impatto degli ambienti fisici e sociali
sull’individuo, è rilevante per la psicologia di comunità.
Anche la psicologia umanistica, con autori come Rogers e Maslow, trova dei legami con
la psicologia di comunità; entrambe infatti pongono una vasta enfasi sulle
potenzialità e sulle risorse positive da valorizzare e sviluppare, piuttosto che sulle
disfunzioni e sui disturbi da curare.
Infine Murrell compie un’integrazione di tutti questi apporti e orientamenti
diversi, fornendo un quadro concettuale della psicologia di comunità.
Egli definisce la psicologia di comunità come «l’area all’interno della psicologia
che studia le transazioni fra reti di sistemi sociali, popolazioni e individui; che
sviluppa e valuta metodi di intervento che migliorino gli “adattamenti” (fits) personaambiente, che pianifica e valuta nuovi sistemi sociali; e che da questa conoscenza e
cambiamento cerca di aumentare le opportunità psicosociali dell’individuo.» 21
È evidente fin da questa definizione che Murrel pone l’attenzione non su uno dei
poli o dei livelli della realtà sociale, bensì sulla relazione circolare, sulle transazioni
reciproche fra comportamento individuale e sistemi sociali.
Murrel parte da un concetto di uomo complesso: l’uomo è motivato a partire dalle
esperienze, dalle aspettative e dai valori che ha sviluppato durante la vita,
incontrando problemi e cercando di risolverli.
Il benessere psicologico dipende dall’accordo psicosociale, cioè dalla coincidenza
più o meno stretta tra le richieste del sistema e le soluzioni che l’individuo ha
elaborato per soddisfare il proprio ordine di priorità.
Dato che un individuo appartiene a più di un sistema, Murrel utilizza il termine di
accomodamento intersistemico per riferirsi al grado di comparatibilità tra i diversi
sistemi sociali nell’interagire con l’individuo. Questo concetto descrive gli effetti
della rete di sistemi sul soggetto. Murrell cerca di offrire anche degli strumenti e delle
variabili idonee a descrivere i diversi livelli sociali (individuo, piccolo gruppo,
sistema, rete di sistemi): distribuzione del potere decisionale, clima organizzativo,
21
Riferimento a Donata Francescano, Manuela Tomai, Guido Girelli, “Fondamenti di psicologia di
comunità”, 2005, Carocci, Roma.
43
tipo di comunicazione. Fine ultimo di questa analisi è cogliere gli aspetti di
complementarietà e congruenza fra i diversi livelli sociali. Questo esame consentirà
in seguito di pianificare e realizzare gli interventi più idonei a migliorare l’accordo
psicososiale, scegliendo il livello sul quale agire nel modo più efficace.
Murrell descrive sei livelli di intervento:
1. Ricollocamento individuale: nessun individuo può inserirsi armonicamente in
tutti i sistemi sociali e nessun sistema sociale può facilitare la gestione dei
problemi di tutti gli individui. Quando l’interazione non prevede
miglioramenti da entrambe le parti, può essere consigliabile ricollocare un
individuo in un altro sistema.
2. Interventi sull’individuo: l’obiettivo è cambiare o sviluppare le risorse o le
strategie della persona, affinché possa
inserirsi meglio nel sistema. Il
rischio è quello di definire il problema focalizzando l’attenzione sul singolo
individuo; nella prospettiva di Murrell è preferibile tentare di intervenire su
livelli più complessi e sistemici della comunità. L’intervento sulla persona
può essere valido se concepito all’interno di un piano più ampio, in cui il
rapporto individuo-sistema è analizzato come scambio reciproco.
3. Interventi sulla popolazione: la strategia consiste nell’incrementare le risorse
di una popolazione o di un gruppo “a rischio”. In questo caso una difficoltà
potrà essere motivare e coinvolgere la popolazione a partecipare; anche
questi interventi vanno attuati in un quadro di sensibilizzazione dei
membri della comunità e di sviluppo della partecipazione e del sostegno
sociale.
4. Interventi sul sistema sociale: si tratta di operare mutamenti strutturali e
funzionali sui sistemi, in modo da facilitare la “gestione dei problemi “
degli individui. Il rischio è quello di proporre cambiamenti difficilmente
gestibili o addirittura incompatibili e dunque tali da creare una
destabilizzazione.
5. Interventi intersistemici: l’azione è diretta su più sistemi, fra i quali si cerca di
creare un migliore coordinamento e una connessione più funzionale. È un
livello di intervento complesso, ma pienamente in linea con l’approccio
ecologico della psicologia di comunità, che sottolinea l’interdipendenza fra i
44
diversi settori della società ed evidenzia lo scambio e la ciclicità delle
risorse. Proprio questo livello chiarisce come gli operatori non possono
lavorare isolatamente.
6. Interventi sull’intera rete sociale: Murrell si riferisce ai programmi rivolti alla
comunità nel suo insieme.
La sintesi concettuale di Murrell si pone come riferimento teorico fondamentale
della psicologia di comunità. Ciò che più ha lasciato un segno è la chiarezza delle
linee metodologiche e la visione complessiva e interattiva della realtà sociale.
4.3.
Il concetto dell’empowerment
La parola empowerment deriva dal verbo inglese to empower, che significa
“favorire l’acquisizione di potere, rendere in grado di”.
Questo concetto si sviluppa diventando principale oggetto di interesse della
psicologia di comunità, soprattutto nella seconda metà degli anni ottanta.
È un termine che indica contemporaneamente un processo e un risultato, viene
cioè riferito sia al percorso per raggiungere un certo risultato, sia al risultato stesso
che caratterizza lo stato empowered dell’individuo.
Fornire una definizione univoca del concetto di empowerment risulta un’impresa
piuttosto ardua. Uno dei primi tentativi di definizione è del 1981 ad opera di
Rappaport , che lo descrive come un processo che permette a individui, gruppi e
comunità di accrescere le capacità di controllare attivamente la propria vita. Da allora
si sono pronunciati numerosi autori e le definizioni di questo concetto sono state
svariate. Nel 2000 Zimmerman definisce l’empowerment come «un costrutto
multilivello, che ci richiede di pensare in termini di promozione della salute, auto e
mutuo aiuto e molteplici definizioni di competenza. È un costrutto di livello
individuale quando riguarda variabili intrapersonali e comportamentali; è un
costrutto di livello organizzativo quando riguarda la mobilitazione di risorse e le
45
opportunità di partecipazione ed è un costrutto di livello comunitario, quando
riguarda le strutture sociopolitiche e il cambiamento sociale.» 22
4.4.
ƒ
Riassumendo
La psicologia di comunità è indirizzata e interessata ai problemi umani e sociali
nell’interfaccia tra la sfera individuale e quella collettiva, tra la sfera psicologica
e quella sociale;
ƒ
La psicologia di comunità vede la persona umana come un soggetto attivo,
storicamente, culturalmente e socialmente situato, le cui competenze trovano la
loro possibilità di attuazione in uno specifico contesto ambientale, che pone
vincoli e impedimenti e offre opportunità e risorse in modo ineguale.
ƒ
L’ambiente sociale è un contesto gerarchico creato storicamente, le
disuguaglianze interne non sono naturali ma storiche e modificabili.
ƒ
Il contesto sociale può facilitare o limitare il singolo, il quale può a sua volta
modificare i setting sociali con cui interagisce.
ƒ
Le transazioni tra individui e contesto sociale avvengono a livelli multipli e
multidirezionali.
ƒ
La psicologia di comunità pone l’accento sulle esperienze positive, sui puntiforza, oltre che sui problemi, sui disagi, sulle esperienze negative.
ƒ
La psicologia di comunità sottolinea il senso costruttivo dell’azione come
processo che integra attività mentale e pratica, sfera individuale e sociale,
fornendo all’individuo la possibilità non solo di adattarsi al contesto, ma anche
di cambiarlo.
22
Ibidem
46
5. IL LAVORO SOCIALE DI RETE
5.1.
Le reti sociali
Le prime analisi sistematiche sulle reti sociali furono compiute da alcuni
antropologi sociali inglesi.
Inizialmente venne scelto il termine “rete personale” per riferirsi alla particolare
configurazione di legami che circondano un singolo individuo, riservando il termine
“rete sociale” all’insieme dei legami fra tutti i membri di una popolazione. A partire
dagli anni settanta si tende ad utilizzare indistintamente per entrambe le situazioni
l’espressione “rete sociale”.
Alcuni studiosi 23 sostengono che le reti sociali possono essere caratterizzate da
quattro dimensioni, ognuna delle quali comprende alcune variabili correlate fra loro:
ƒ
Struttura: questa dimensione comprende variabili morfologiche, quali
l’ampiezza, la densità, la frequenza di interazione e la posizione dell’individuo
nella rete.
ƒ
Interazione: questa dimensione è composta da variabili che descrivono la
relazione tra vari attori della rete, la reciprocità, la simmetria, la direzionalità,
la molteplicità.
ƒ
Qualità: vengono incluse in questa dimensione variabili che descrivono la
qualità affettiva dei legami. Le reti possono cioè essere rappresentate in termini
di amicizia, intimità, vicinanza affettiva.
ƒ
Funzione: questa dimensione descrive la specifica funzione svolta dai membri
della rete; le reti possono infatti fornire aiuto materiale o consigli per risolvere
problemi, oppure fornire informazioni ecc.
23
Donata Francescano, Manuela Tomai, Guido Girelli, “Fondamenti di psicologia di comunità”,
2005, Carocci, Roma, pag.102.
47
5.2.
Il sostegno sociale
«È possibile definire il sostegno sociale il supporto emotivo, informativo,
interpersonale e materiale che è possibile ricevere e scambiare nelle reti sociali». 24
È possibile distinguere due tipi di sistemi supportivi: il sistema informale e quello
formale. È dall’azione di questi due tipi di sistemi, spesso interdipendenti sebbene
non sempre integrati tra loro, che si origina il sostegno sociale in grado di
promuovere il sano sviluppo individuale e di rafforzare le capacità di reazione allo
stress.
Quali sono le modalità specifiche di relazione che caratterizzano certi rapporti in
senso supportivo?
La prima dimensione è quella del sostegno emozionale e comprende comportamenti
di ascolto, che esprimono interesse e comprensione. Attraverso questa forma di
sostegno espressivo e confidenziale, la persona che riceve l’aiuto si sente considerata
e accettata nonostante le proprie difficoltà, e la sua autostima cresce.
La seconda dimensione è definita come sostegno informativo, ovvero aiuto nel
definire, comprendere e affrontare gli eventi problematici.
La terza dimensione è relativa all’affiliazione sociale, esiste cioè una forma di
sostegno derivante dall’appartenenza a gruppi informali e associazioni più
formalizzate, o derivante dalla possibilità di avere rapporti sociali soddisfacenti.
L’ultima dimensione è quella del sostegno strumentale, ovvero l’offerta di servizi, lo
svolgimento di compiti, l’aiuto finanziario.
L’impulso più evidente è l’opportunità di utilizzare in modo ottimale e coordinato
le risorse provenienti dai sistemi formali e da quelli informali.
Naturalmente la collaborazione intersistemica che viene auspicata deve affrontare
alcune difficoltà connesse alle differenze di valori, conoscenze e culture dei due tipi
di sistemi. L’ideale sarebbe valorizzare le diversità nei modi di offrire il sostegno,
nelle motivazioni, nella disponibilità, nelle competenze.
24
Ibidem, pag. 103.
48
5.3.
Cos’è il lavoro sociale di rete?
Di cosa stiamo parlando quando utilizziamo i termini “lavoro sociale di rete”?
«Si dice “networking” un processo finalizzato, tendente a “legare” fra loro tre o
più persone tramite connessioni e catene di significative relazioni interpersonali.» 25
Stiamo parlando di un nuovo modello, di un nuovo orientamento dell’attività
pratica del lavoro sociale professionale.
È un modello piuttosto semplice, che richiede all’operatore un’attenzione e una
capacità di interazione particolare con le risorse delle reti informali della comunità.
Questo approccio presuppone come necessaria la riscoperta delle naturali capacità
autoprotettive del corpo sociale; all’interno di esso sono presenti, infatti, molte
intenzionalità orientate al raggiungimento del benessere sociale. Tra queste
intenzionalità troviamo sicuramente l’agire professionalizzato, ma troviamo anche
un lavoro non sempre chiaramente percepibile ma altrettanto essenziale.
Il lavoro di rete dovrebbe portare ad un welfare realizzato dalla collettività.
Le strategie del lavoro sociale di rete comprendono una serie molto ampia di
interventi sociali, alcuni specialistici ed altri tradizionali;
sono tutti finalizzati a
“legare” le persone con i propri nuclei relazionali di base e, dove non esistono, a
tentate di stimolarne la crescita.
Quando l’intervento di rete è rivolto a singoli utenti, l’obbiettivo è quello di
collegare la persona con i propri amici, parenti, vicini di casa; contemporaneamente
l’obbiettivo è anche di far in modo che tutte queste persone possano a loro volta
interagire fra loro in modo soddisfacente. Quindi l’intervento porrà particolare
attenzione al livello sistemico, accrescendo le potenzialità terapeutiche delle reti e dei
sistemi di sostegno.
Un intervento individuale di rete si fonda su un’analisi preliminare della struttura
delle connessioni sociali del soggetto su cui concentriamo l’attenzione. A partire da
questa analisi si possono evidenziare condizioni di marginalità e di notevole carenza
di legami e di sostegno sociale; in tali casi si pone l’esigenza di allargare, o
addirittura creare ex novo, una rete personale sufficientemente ricca ed estesa. In casi
25
Lambert Maguire, “Il lavoro sociale di rete – L’operatore sociale come mobilizzatore e
coordinatore delle risorse informali della comunità, Erickson, 1989, Trento, pag. 23.
49
meno radicali si può comunque presentare la necessità di ristrutturare una rete
personale, magari abbastanza densa, ma che offre un supporto inadeguato o
ambivalente; in situazioni come questa è essenziale che i sistemi formali di sostegno
intuiscano quali sono i “potenziali sostenitori” da stimolare, appoggiare o formare.
Quando invece l’idea di “rete” è estesa anche alle istituzioni e ai servizi sociali,
l’intervento si concretizza seguendo due modalità:
ƒ
Gestione unitaria tra i servizi dei casi in trattamento (case management);
prevede équipes o reti di professionisti che lavorano in coordinamento,
mettendo assieme le loro competenze e le loro risorse, per aiutare singoli utenti
a superare le loro difficoltà; questa modalità di lavoro si è sviluppata sia
all’interno di organizzazioni complesse, con al loro interno servizi diversi, sia
come raccordo fra distinte organizzazioni.
ƒ
Coordinamento fra i servizi sociali professionali di una particolare area; si
intende l’unione di un gruppo, coordinato e dinamico, dei dirigenti dei vari
servizi sanitari, di salute mentale e di sevizio sociale di una comunità; queste
reti organizzative possono essere strutturate in un comitato di coordinamento,
o come un’agenzia di segretariato e di informazione.
Il lavoro di rete così inteso, sia nella prospettiva del case management, che in
quello istituzionale, può dare un notevole aiuto per valorizzare e incrementare tutto
l’insieme delle risorse umane. Se applicato con attenzione, il lavoro di rete potrà
minimizzare le sovrapposizioni tra i servizi, incrementare la collaborazione fra gli
enti e fra gli operatori, evitare la contrapposizione e il conflitto fra progetti diversi e
potenziare le possibilità degli enti di individuare nuove risorse.
Infine è possibile parlare di lavoro di rete a livello comunitario; in questo caso
l’intervento è volto a stimolare la nascita di gruppi di azione sociale e ad
incrementare le risorse proprie della comunità, per conferirle sempre maggiore forza
ed autonomia. Il presupposto alla base di questo intervento è l’idea che la comunità
abbia di solito risorse eccezionali che non vengono percepite.
50
5.4.
Reti come circuiti di benessere
Lo star bene di ogni persona si immagina in primo luogo dipendente dalla
presenza di vitali e significative relazioni sociali; l’essere umano, infatti, privato di
contatti interpersonali, perde parte della sua forza interiore e della sua stessa
umanità. Con chi è loro relazionalmente vicino, le persone ricavano un
inconsapevole sostegno nel corso della vita e ricevono un aiuto diretto nei momenti
di difficoltà; la collettività dà luogo nel primo caso ad un lavoro di prevenzione
informale e nel secondo caso ad un sistema informale di aiuto.
Le relazioni e le solidarietà di base formano delle vere e proprie “reti” (network)
di supporto, le cui maglie possono essere più o meno strette; tanto più queste difese
sociali naturali sono valide, tanto più ciascuna persona può godere dei presupposti
idonei per il mantenimento autonomo del proprio benessere.
Il termine “rete” evoca un intreccio, le cui connessioni creano rapporti,
interdipendenze, vincoli di reciprocità; creano una trama di relazioni e nessi
protettivi, attivando nuove forme di sostegno, promuovendo la partecipazione e la
condivisione. Questo intreccio, queste connessioni permettono di intraprendere
percorsi innovativi, perché portano a nuove esperienze, a nuovi scambi, favorendo
l’accrescimento
delle
conoscenze,
del
sapere,
delle
informazioni
e
delle
comunicazioni.
Il termine “rete” è inoltre legato all’immagine di una struttura flessibile. Quando
parliamo di una rete parliamo di un sistema dinamico, capace di adattamento e di
interazione constante con il proprio ambiente.
Il sistema “formale” di aiuto alle persone è costituito da assistenti sociali,
psicologi, psichiatri, assistenti per l’infanzia, educatori, medici e terapisti di vario
genere.
Il sistema “informale” è composto da parenti, amici, vicini di casa, colleghi di
lavoro. È costituito da “terapeuti naturali” (natural helper), i quali si differenziano
dagli operatori del sistema formale perché non sono specificatamente formati e
addestrati per dare aiuto, non accettano forme di remunerazione, hanno quasi
sempre una relazione o qualcosa in comune con la persona alla quale è rivolto l’aiuto,
51
hanno solitamente una capacità innata per ascoltare e dare consigli e agiscono in
modo spontaneo.
Le persone trovano maggior vantaggio dai professionisti, quando necessitano di
servizi per i quali sono necessarie competenze specialistiche, mentre considerano più
adatte le persone appartenenti al sistema informale, quando si trovano di fronte a
problematiche che necessitano di disponibilità e interesse personale.
Entrambi questi due sistemi, formale e informale, possono diventare oggetto del
lavoro di rete. Sarebbe ideale sviluppare il proprio intervento basandosi su network
diretti e coordinati da professionisti, che utilizzano al meglio le potenzialità naturali
della comunità.
A chi spetta il compito di attivare e promuovere una cultura di rete? Alle
istituzioni, ai servizi, agli operatori?
Il lavoro di rete, anche se prima è stato definito come un modello e come un
orientamento dell’attività pratica del lavoro sociale professionale, è qualcosa di molto
più ampio rispetto ad una tecnica di lavoro sociale. Se fosse tale, infatti, gli operatori
potrebbero apprenderla facilmente, mentre invece è di più difficile acquisizione,
trattandosi di una forma mentis, una mentalità.
Nel lavoro di rete un operatore deve “assistere” una rete, che è di fatto la vera
protagonista dell’azione. Il ruolo dell’operatore è quello di generatore di reti e
connessioni. Sicuramente le prime connessioni dovranno avvenire tra i saperi, le
conoscenze possedute ed elaborate dalle diverse figure professionali.
Abbiamo abbondantemente evidenziato come il lavoro di rete sia positivo,
generando comunicazione, scambi simbolici e materiali, accrescendo le potenzialità
di comunicare, scambiare, conoscere. Così le reti sono definibili come circuiti di
benessere.
Un operatore di rete è necessariamente un attivatore di cultura di rete; di
conseguenza il concetto di rete non sarà più disgiunto da concetti quali quelli di
cultura dell’accoglienza, di cultura del benessere, di prevenzione, di comunità e
solidarietà, di reciprocità.
52
Filastrocca dei segreti che pesano26
Ho nascosto quella cosa in fondo a me,
perché se non la vedo, lei non c'è.
Non ne parlo per non essere più triste,
perché se non la dico, non esiste.
Ma laggiù in fondo a me, nel buio denso,
anche se non la vedo, io ci penso.
E lei beve quel buio come inchiostro,
e cresce sempre più, diventa un mostro.
Ma io so cosa ai mostri fa paura:
il sole, che taglia in due la notte scura.
Apro la mia finestra a questo sole
ed apro la mia bocca alle parole.
Ne parlo con la mamma, con l'amico.
Tu mi spaventi, mostro?… E io ti dico!
E tu ti sciogli in un po’ di porcheria,
mi dai un ultimo morso, e fuggi via.
Mi rimane una bella cicatrice,
dov'è scritto: mostro morde, uomo dice.
26
Tratto dalla trasmissione televisiva “La Melevisione”.
53
6. ABUSO SESSUALE: PREVENZIONE
La rete da tessere
6.1.
Tipologie di prevenzione
Sono ormai notevoli e sofisticate le risorse che il nostro paese sa offrire a chi ha
vissuto abuso sessuale, dal punto di vista clinico e terapeutico. Al contrario è povera
l’offerta di servizi e di interventi preventivi di natura primaria, capaci cioè di
potenziare le competenze dell’individuo, affinché sia in grado di riconoscere ed
evitare le situazioni di rischio e sia capace, nell’eventualità, di sviluppare
comportamenti difensivi.
L’abuso è evitabile con la prevenzione primaria, secondaria, terziaria: la prima,
indirizzata alla popolazione, include l’insegnamento, l’educazione e il sostegno
sociale; la seconda, rivolta alle situazioni famigliari nelle quali l’abuso è
potenzialmente prevedibile, prevede di fornire un’adeguata assistenza; la terza è
volta ad evitare il ripetersi dell’abuso.
La prevenzione primaria viene realizzata a diversi livelli.
Nella scuola è necessario insegnare ai bambini a conoscere il proprio corpo, i
comportamenti sessuali appropriati, le modalità per fronteggiare un’eventuale
aggressione da parte di conoscenti o estranei e per richiedere aiuto in caso di
bisogno.
Sempre in quest’ambito d’intervento primario, occorre che gli adulti si informino e
che siano in grado di decodificare i segnali di disagio, che il bambino esprime
secondo modalità quasi mai verbali e che spesso assumono le caratteristiche di
messaggi “coperti”.
Occorre, più in generale, imparare a sviluppare una cultura di reale attenzione al
bambino e ai suoi bisogni. Possono essere d’aiuto per questo dei corsi di formazione
per operatori dei servizi sociali, sanitari ed educativi, associati ad un’adeguata
informazione dell’opinione pubblica sul problema dell’abuso all’infanzia.
54
La prevenzione primaria entra anche nelle famiglie attraverso campagne
pubblicitarie, spot per via radio o tramite materiale stampato.
La prevenzione secondaria è volta, invece, al riconoscimento precoce dei fattori di
rischio, consentendo un intervento immediato, diretto a quella situazione specifica. È
una funzione destinata alle istituzioni professionalmente coinvolte con l’infanzia; tra
queste agenzie si devono includere gli asili nido, le scuole di ogni ordine e grado, i
servizi consultoriali, pediatrici e sociali. Questa tipologia di interventi è destinata ad
una popolazione che contempli al proprio interno condizioni predisponenti o fattori
di rischio.
La prevenzione terziaria, infine, è quella più urgente e di immediato utilizzo nel
caso venga fatta diagnosi di abuso sessuale su minore.
6.2.
Perché una rete di lavoro di prevenzione primaria all’abuso
sessuale all’infanzia?
Prevenire la pedofilia è un obiettivo complesso.
L’abuso sessuale ha radici molto antiche, legate ad una cultura dell’infanzia di
interi popoli che considerano i bambini oggetto e non soggetto di diritti. Ancora oggi
questa problematica è viva, ma camuffata dietro un puerocentrismo non effettivo. Il
bambino viene posto al centro ma solo teoricamente; nel concreto la società si sta
inventando tutta una serie di limitazioni all’infanzia, che la restringono e la pongono
in una situazione di subalternità.
Ormai da più di un decennio la Convenzione ONU di New York sui diritti
dell’infanzia del 20 novembre 1989 esorta gli Stati parte “ad adottare ogni misura
appropriata di natura legislativa, amministrativa, sociale ed educativa per proteggere
il fanciullo contro qualsiasi forma di violenza…inclusa la violenza sessuale” (art.19).
Movimenti e associazioni sorti in molti paesi dopo la Conferenza mondiale di
Stoccolma del 27 – 30 agosto 1996 propongono una serie di azioni e di interventi a
vari livelli, che coinvolgono più attori sociali. Il Decalogo del Movimento Bambino ne
è un esempio.
55
Le indicazioni, che le varie istituzioni internazionali e nazionali forniscono su
come prevenire, affrontare e cercare di sconfiggere l’abuso all’infanzia, sono quelle di
fornire maggiore informazione per chi opera in favore dell’infanzia e in particolare
per genitori ed educatori; maggiore prevenzione a scuola e introduzione
dell’educazione sessuale in tutte le classi; maggiore ricerca, studio e dati aggiornati
sul fenomeno.
Prevenire l’abuso è possibile, anzi doveroso su più fronti; se non si crea una rete
solida intorno al bambino abusato, costituita di persone adulte di cui si può fidare e
in grado di aiutarlo a crescere, non potremo pensare di tutelare il bambino.
6.3.
Gli attori in scena
6.3.1.
I bambini: vittime o protagonisti?
Nel primo capitolo ci siamo lungamente soffermati sui bambini che incorrono in
abuso sessuale. Abbiamo già chiarito quali sono i fattori che li pongono o meno in
condizione di “rischio”; abbiamo parlato anche di quali caratteristiche, di quali
dinamiche si sviluppino tra abusato ed abusante; abbiamo, infine parlato anche delle
conseguenze per il bambino che l’abuso porta con sé.
Ciò che non abbiamo ancora detto sui bambini che subiscono abuso – e che forse
ora è il momento di approfondire – è che spesso i bambini abusati vengono chiamati
“vittime”; ma questo termine non è certamente il più indicato per parlare di questi
bambini. Evoca, infatti, qualcosa di finito, un capitolo chiuso; evoca l’idea di
irreparabilità, l’idea che quel bambino non potrà mai riscattarsi o rifarsi una vita.
Il bambino abusato deve avere come prima necessità la possibilità di un
cambiamento di vita, una rielaborazione degli eventi passati ed una sorta di
rinnovamento della sua personalità.
56
Il ricordo, e non la rimozione, di ciò che è avvenuto porta il bambino a diventare
protagonista della sua “ricostruzione” attraverso strumenti umani, psicosociali,
terapeutici e una relazione significativa con un adulto di cui si può fidare.
In linea con quanto detto fin’ora, parrebbe però più indicato parlare di tutti i
bambini e di non soffermarci solo su quelli che hanno subito abuso.
Un bambino è un soggetto in crescita, che fin dai primi anni di vita inizia a
conoscere, scoprire ed affermarsi. Il bambino è un soggetto che lavora assiduamente
e senza sosta al formarsi della propria personalità e identità. Per definizione il
periodo dell’adolescenza è considerato quello all’interno del quale il ragazzo crea e
definisce sé stesso; sicuramente questo periodo evolutivo è quello più critico e
all’interno del quale avviene il maggior lavoro dell’individuo per la definizione della
propria personalità. Ma come è vero che il processo di definizione della personalità è
un processo che prosegue anche da adulti per l’intero arco della vita, è anche vero
che il bambino negli anni precedenti all’adolescenza è impegnato su questo fronte e
che le esperienze che farà in questi anni influenzeranno enormemente ciò che
diventerà.
Crescere non vuol dire solo diventare più grande, raggiungere lo stato adulto in
seguito a sviluppo naturale. Così considereremmo l’infanzia come una fase
passeggera, un inizio che come tale ha scopo d’esistere solo in virtù di ciò che verrà
dopo. Con lo stesso criterio considereremmo più avanti l’adolescenza come un’epoca
di passaggio.
Il rischio è quello di spogliare di senso le varie fasi di vita delle persone.
L’infanzia ha senso proprio a prescindere dal mondo adulto.
Assumere questa posizione è fondamentale per uscire da un puerocentrismo
mascherato, per farsi carico fino in fondo realmente dei bisogni del bambino e per
stimolare a pieno le sue potenzialità.
Ridare dignità e senso all’infanzia è il primo passo per riportare l’attenzione su di
essa e per interessarsi a lei nel giusto modo, ridando spazio all’importanza che
rivestono il contesto di riferimento, le relazioni, gli stimoli per la sua crescita.
57
6.3.2.
Il mondo adulto: impariamo a far dialogare adulti e
bambini
Se pensiamo la nostra esistenza inserita in un sistema, dove le varie parti che lo
compongono si modificano e influenzano vicendevolmente, arriviamo a capire che
tutte le dimensioni della nostra vita sono condizionate dal contesto in cui viviamo. In
linea con questo discorso, anche la sessualità dei bambini risulta molto condizionata
dall’ambiente di vita nel quale crescono e acquisiscono valori, attitudini, norme, che
sosterranno le loro scelte comportamentali.
Scuola e famiglia vivono una notevole difficoltà nel gestire l’educazione dei
bambini, perché impegnati in un gioco di continua delega e rinvio di ruoli e
responsabilità.
In questo vuoto creato dagli adulti, spesso il ruolo principale viene assunto dal
gruppo dei pari, che diventa un sistema di socializzazione di informazioni e di
esperienze, frequentemente alterate dalla fantasia e dal mondo simbolico dei
bambini. In molte ricerche ed indagini i ragazzi hanno raccontato che la loro prima
fonte di informazione ed educazione sessuale è costituita dal gruppo dei pari e dai
mass media.
Questo vuol dire che in chi sta crescendo, facendosi domande e cercando risposte
ai propri dubbi, vige un atteggiamento di rinuncia a vedere nell’adulto un
interlocutore qualificato e appropriato per discutere e parlare anche di sessualità. È
così che, per un bambino che sta crescendo, la sessualità e l’affettività diventano una
serie di “parole non dette”, domande non fatte, risposte non date.
Per il bambino è difficile orientarsi nel mondo complesso della sessualità, perché
al vuoto del mondo adulto corrisponde un’esasperata ostentazione del sesso da parte
dei mezzi di comunicazione di massa, che, è ormai dimostrato, sono in grado di
influenzare enormemente il soggetto in fase evolutiva. Non si parla di sessualità ed
affettività, ma solo ed esclusivamente di sesso. Per di più il sistema dei mass media
non permette al soggetto ricevente di discutere il messaggio ricevuto, ma solo di
recepirlo passivamente.
I mass media sono tecnologie di comunicazione, dei mezzi artificiali, che
consentono di superare i limiti naturali e pongono in condizione di raggiungere
58
contemporaneamente un gran numero di destinatari sparsi sul territorio a varia
distanza. Nel complesso le comunicazioni di massa si configurano come un’agenzia
culturale, una realtà operativa impegnata nella produzione, riproduzione e
diffusione di conoscenze. L’azione culturale dei media non è casuale, improvvisata,
ma risponde a un complesso organico di norme formali e informali, giuridiche, etiche
e convenzionali. Il fenomeno sociale dei mass media appare a tutti gli effetti
un’istituzione: un complesso organico di norme, che coordina individui e gruppi
diversi, ha finalità sociali riconosciute ed ideologie per legittimarlo e sostenerlo.
I mass media intrattengono rapporti sia verso l’alto, con i centri del potere della
società, sia verso il basso, con il pubblico. Con altre istituzioni e gruppi socialmente
forti hanno legami formali, di tipo giuridico o economico. Il legame verso il basso,
con la base della società, non è dovuto solo al fatto che i media diffondono
conoscenze, ma anche ai ritorni, ai feed-back che ricevono dal pubblico. Nonostante
il fatto che i mass media ricerchino questi riscontri, in realtà sul pubblico si trovano
ad avere un ruolo prettamente dominante; il pubblico infatti non è organizzato per
far sentire la propria voce e i mass media operano in modo relativamente autonomo
nei riguardi del pubblico.
I mass media costituiscono una presenza costante e hanno grande capacità di
penetrazione e diffusione, per cui le persone difficilmente si sottraggono alla loro
influenza. Sempre più coloro che restano fuori dalla sfera d’attrazione di
quest’agenzia culturale sono minoranze e si configurano come outsiders, come
individui particolari che non si conformano alle regole correnti.
Ovviamente nella società esistono anche altre grandi agenzie culturali di rilievo,
come la scuola, ma la peculiarità dei mass media consiste nella loro tendenza
all’onnicomprensività: solo loro diffondono conoscenze di ogni tipo, si rivolgono a
chiunque, hanno carattere pubblico e pervadono capillarmente la società.
Proprio perché si rivolgono ad un pubblico così vasto, i mass media devono
utilizzare strumenti comunicativi accessibili al maggior numero di utenti e
consumatori possibili. Per la televisione questo ha comportato che il messaggio
debba essere semplificato al massimo, spesso banalizzato in modo da poter colpire
rapidamente, suscitare l’attenzione e sviluppare emozioni.
59
I media pongono però un ulteriore problema, quale che sia la loro modalità di
trasmissione e il tipo di motivazioni del pubblico. Essi hanno infatti degli effetti sugli
spettatori che sono stati studiati soprattutto nei bambini. Per esempio, lo psicologo
A.Bandura ha notato che, dopo la proiezione di un film caratterizzato da dinamiche
aggressive, i bambini manifestavano comportamenti più aggressivi, perché
imitavano alcuni dei personaggi e delle scene del film.
Questi effetti sono a breve termine, cioè seguono immediatamente la proiezione di
un filmato, ma vi sono anche delle conseguenze a lungo termine, che sono legate ad
una trasformazione della psicologia degli utenti e che hanno dei veri e propri effetti
di massa. Attraverso il piccolo schermo, che è presente in tutte le case, si possono
indurre non soltanto delle mode, ma anche delle aspettative, dei gusti, dei desideri
sociali.
I bambini si accostano alla televisione e la guardano con motivazioni diverse da
quelle degli adulti. Fra questi ultimi la maggior parte guarda la televisione per
divertimento. La maggior parte dei bambini, pur trovandola divertente, guarda la
televisione per capire il mondo. I bambini, pur apprezzando gli aspetti di
intrattenimento della televisione, hanno più difficoltà, a causa della loro limitata
comprensione del mondo, a distinguere i fatti dalla finzione. Sono più vulnerabili
degli adulti.
Gli influssi primari che i bambini subiscono, la famiglia, i coetanei, la scuola e la
televisione, operano tutti insieme; i bambini faticano a separare ciò che imparano in
questi diversi contesti. Senza il sostegno della famiglia, gran parte di ciò che succede
a scuola perderebbe di importanza. Se la scuola fosse più efficace, la televisione non
sarebbe tanto potente. I coetanei esercitano il loro influsso e il loro potere nella
misura in cui la famiglia e la scuola non esercitano il proprio.
L’influenza della televisione dipende da due fattori: l’esposizione e i contenuti.
Quanto maggiore è l’esposizione dello spettatore allo spettacolo televisivo, tanto
maggiore è, in genere, l’influenza esercitata dal mezzo. Oltre all’esposizione,
l’influenza sarà determinata anche dai contenuti.
Come educatori dobbiamo domandarci, rispetto alla sessualità, qual è la cultura
che il mondo dei media contribuisce a creare.
60
Un bambino che sta crescendo trova nel mondo mediatico una saturazione di
messaggi e situazioni sessualmente più o meno espliciti. In tale contesto fatica a
comprendere le reali differenze tra pensare, fantasticare sulla sessualità (processo di
per sé fondamentale nel percorso di crescita di ciascun bambino) e praticarla.
Sempre più spesso ci troviamo di fronte a ragazzi e ragazze che diventano
precocemente sessualmente attivi e solo in un secondo momento si interrogano sui
significati reali e profondi dei loro comportamenti. Questa è una situazione in cui il
comportamento è una risposta anticipatoria rispetto alle domande che dovrebbero
stare alla base.
La confusione presente nei pensieri ed azioni dei ragazzi rispecchia, almeno in
parte, l’ambivalenza di cui è impregnata l’intera società rispetto alla sessualità. Da
una parte il sesso non è che merce di scambio, da porre in copertina per aumentare le
vendite di un giornale; dall’altro lato questa ostentazione del sesso non procede di
pari passo con una prospettiva valoriale ed educativa che riesca a dimensionarlo.
Questa complessità rende difficile agli adulti e ai bambini comprendere cosa è
“normale” e cosa non lo è nell’agire sessuale di chi sta crescendo. Ma conoscere i
comportamenti dei bambini che necessitano di un intervento correttivo o
informativo, non è sufficiente per far sì che questi diventino adolescenti e giovani
capaci di autodeterminare le proprie scelte affettive e sessuali. È necessario ridefinire
ruoli e principi, che devono essere condivisi da tutti per una sana e positiva
educazione sessuale ed affettiva della società.
La pedofilia potrà essere combattuta solo se sapremo costruire una società che ha
imparato a parlare di sesso e amore, senza banalizzarli, strumentalizzarli. È
all’interno di una cultura di “consumo” e di silenzio educativo che la pedofilia trova
terreno fertile per germogliare.
“…ma voi genitori di sesso dovrete parlare e abbastanza precocemente, così come parlate di
cibo, di scuola, di corsi di nuoto. Perché se non parlate di sesso diventa un tabù, e volete che
un bambino abbia la forza di infrangere un tabù che il vostro silenzio ha elevato spesso come
un muro?” 27
27
Tratto da Umberto Galimberti, “Pedofilia e solitudine il dramma delle famiglie”, in La
Repubblica”, 24 maggio 2001.
61
6.3.3.
La scuola: l’osservatorio
La scuola costituisce un “osservatorio privilegiato” della condizione del bambino:
l’unica istituzione da cui passano tutti i minori e nella quale vi rimangono per
parecchie ore al giorno e per diversi anni. La scuola e gli insegnanti hanno la
possibilità di conoscere il bambino nella sua quotidianità, nel suo comportamento
immediato ed autentico; se adeguatamente attrezzati possono diventare capaci di
decodificare quei segnali di disagio che gli allievi evidenziano e che di fatto
funzionano come campanelli d’allarme, prima che la loro situazione diventi così
grave da rendere difficile o addirittura impossibile l’intervento di aiuto.
Essendo la scuola osservatorio privilegiato capace di captare tutto quanto descritto
finora, essa può giocare un ruolo fondamentale nella prevenzione dell’abuso sessuale
in età evolutiva, a tutti i livelli: primario, secondario e terziario.
Il progressivo diffondersi dell’educazione alla sessualità e alla salute in ambito
scolastico costituisce una premessa, che certamente consentirà nel prossimo futuro
una sempre maggiore sensibilità degli insegnanti nei confronti del problema
dell’abuso sessuale.
L’insegnante e il dirigente scolastico possono svolgere un ruolo particolarmente
importante e insostituibile nell’intervento di prevenzione primaria dell’abuso
sessuale: creando all’interno del gruppo classe un clima relazionale e comunicativo,
che sia in grado di accogliere e di stimolare la traduzione in parole del disagio e la
corretta elaborazione da parte degli allievi di alcuni problemi che gravano sulla loro
vita, e fornendo al gruppo una completa informazione sulle tematiche della
sessualità e sugli eventuali abusi di carattere sessuale.
Una corretta prevenzione dell’abuso sessuale può avvenire all’interno di un più
generale programma di educazione sessuale, aiutando i bambini a sviluppare una
sessualità più consapevole, meno degradata e degradante, come quella offerta da
mass–media, messaggi pubblicitari, film, riviste, e al contempo mettendoli in guardia
senza ipocrisie e terrorismi sui pericoli che derivano dagli abusi sessuali.
62
La scuola si occupa inoltre di prevenzione secondaria e terziaria 28 , anche se è nella
prevenzione primaria che esercita il suo ruolo principale. Per ciò che riguarda la
prevenzione secondaria, essa mira ad impedire che il disagio, già emerso e non
affrontato, degeneri; l’insegnante può individuare segnali sul piano fisico, psichico, e
comportamentale che potranno essere utili per una individuazione precoce
dell’abuso. Sul piano della prevenzione terziaria, che mira ad impedire la
reiterazione di una violenza già avvenuta, l’insegnante può raccogliere informazioni
importantissime che potranno portare ad una rilevazione precoce e ad una successiva
ed immediata segnalazione.
6.3.4.
Il mondo giudiziario
Nel corso della storia la protezione offerta al minore della società è variata a
seconda della epoche e dei luoghi. La scarsa attenzione dedicata dalle civiltà antiche
al problema è testimoniata dall’assenza, nelle leggi e negli ordinamenti, di ogni
riferimento alle violenze perpetrate nei confronti dell’infanzia, sull’esistenza delle
quali ci forniscono invece notizie, in maniera molto indiretta, altri tipi di fonti
storiche.
Più tardi il riconoscimento del problema dell’abuso minorile, seppur dapprima nei
suoi aspetti più eclatanti come l’abbandono, l’incuria, lo sfruttamento sul lavoro, si
traduce nella promulgazione di leggi volte a favorire un’attività di protezione
sempre più articolata e intensa. In ciascun paese vi è un rapporto di proporzionalità
diretta fra la conoscenza del fenomeno e la tutela offerta dalle leggi.
La risposta dell’ordinamento si traduce in un’attività di protezione attuata sotto il
profilo penale: le azioni e le omissioni commesse ai danni dei minori configurano
ipotesi di reato. Si afferma così il valore del bene fatto oggetto di tutela, ravvisato
nell’integrità della persona minore d’età e nella salvaguardia delle sue potenzialità, e
28
Per approfondire Donata Francescano, Manuela Tomai, Guido Girelli, “Fondamenti di psicologia
di comunità”, 2005, Carocci, Roma.
63
si attua una prima misura di prevenzione, impedendo indirettamente la commissione
di ulteriori reati attraverso la minaccia della sanzione penale.
La legge n. 66/96, contenente le nuove norme sulla violenza sessuale, afferma che
il reato di violenza sessuale è considerato reato contro la persona e non contro la
moralità e il buon costume, così come invece era stabilito dal Codice Rocco. Il vero
bene leso è la singola persona, la cui sfera di libertà viene gravemente violata dai
comportamenti sanzionati e la cui personalità finisce con l’essere fortemente
compromessa da una violenza così intrusiva e devastante.
Le nuove disposizioni in materia di tutela della libertà sessuale, che l’ordinamento
giuridico prevede, tendono a difendere da illecite e conturbanti invasioni nella sfera
di libertà di ogni persona, maschio o femmina, adulto o minore. Una particolare
attenzione è riservata a quest’ultimo la cui tutela è accentuata proprio a ragione della
sua inesperienza, dell’incapacità di esprimere un consenso autenticamente libero e
cosciente, degli effetti particolarmente dannosi per un equilibrato e armonico
processo di sviluppo umano che precoci esperienze sessuali possono provocare. Le
nuove norme si pongono come obiettivo principale di individuare e reprimere quei
comportamenti che ostacolano l’esercizio del diritto dell’autodeterminazione,
riconosciuto, in campo sessuale, a tutti gli individui, in modo da assicurare una tutela
più tangibile rispetto a quella garantita loro dalla precedente normativa in materia.
Nello stesso tempo mirano a tutelare la privacy e la dignità della vittima di violenza
sessuale in particolare se minorenne.
Il Tribunale per i Minorenni è il luogo esclusivo che può assicurare l’immediata
protezione del minore.
Al contrario della magistratura ordinaria, quella minorile ha l’obbligo di segnalare
i casi di abuso sia alla giustizia penale, sia ai servizi sociali e svolge un ruolo
fondamentale per la tutela dei minori abusati e per l’aiuto della famiglia
in
questione. Esso può, infatti, disporre provvedimenti che limitino, sospendano o
facciano
decadere
la
potestà
genitoriale;
può
allontanare,
anche
solo
temporaneamente, il minore dalla famiglia e collocarlo in comunità e, qualora vi
siano le condizioni, dichiararne l’adottabilità.
La magistratura minorile, ancora, ordina gli accertamenti giudiziari, sociali e
psicologici necessari ad una piena comprensione della situazione e alla formulazione
64
di un programma d’interventi che dovrebbero essere svolti nel solo interesse del
minore, parallelamente e successivamente all’azione penale. Un’azione che, in una
prima fase, il Tribunale per i Minorenni svolge incaricando i servizi sociosanitari di
due fondamentali attività: l’accertamento e la valutazione.
6.4.
Costruzione di una cultura preventiva
Il concetto di “comunità” non richiama tanto dei confini o dei “territori” in senso
geografico, quanto piuttosto un insieme vasto di relazioni, legami interpersonali e
catene indirette di rapporti sociali. Il termine comunità ha la stessa radice di
“comune” e di “comunicazione”: il prefisso cum sottolinea l’aspetto di relazione, di
contesto condiviso, di globalità del sistema interattivo, che rappresenta una delle
dimensioni più caratteristiche e adeguate del concetto di comunità.
La definizione del termine comunità appare complessa anche perché affonda le
sue radici in scienze e prospettive diverse. Sarason definisce così il senso di
comunità: « la percezione della similarità con altri, una riconosciuta interdipendenza
con altri, una disponibilità a mantenere questa interdipendenza offrendo o facendo
per altri ciò che ci sia aspetta da loro, la sensazione di essere parte di una struttura
pienamente affidabile e stabile». 29
Questa definizione mette in evidenza la natura soggettiva e relazionale degli
elementi determinanti il “senso di comunità”; si tratta infatti di una percezione; il
senso di comunità non risulta così dato una volta per tutte, ma soggetto alle
mutazioni e alle influenze del vissuto dei soggetti.
Il senso di comunità può essere inteso sia come un vissuto, indicatore di una rete
supportiva, sia come una forza coesiva e motivante, che agisce all’interno della
comunità favorendone il benessere.
29
Riferimento a Donata Francescano, Manuela Tomai, Guido Girelli, “Fondamenti di psicologia di
comunità”, 2005, Carocci, Roma.
65
La comunità è composta di network e i network a loro volta sono composti di
persone in relazione tra loro. Quando questi circuiti relazionali arrivano a legarsi e
intrecciarsi fra loro, o almeno quando esiste la possibilità che tali legami si attivino
per l’aiuto reciproco, il “senso” comunitario ne risulta rafforzato e favorita la qualità
della vita dell’intera comunità.
La comunità sottende potenzialità di aiuto da parte di parenti, amici, vicini di casa,
colleghi, politici, insegnanti, sacerdoti e operatori professionale di ogni tipo.
Comprendendo questi network, capendo come agiscono, è possibile riuscire a
comprendere la comunità e aiutarla in modo adeguato.
Gli operatori sociali possono rendere un servizio alla comunità, identificando i
network di aiuto che in essa si trovano e aiutandoli a sviluppare ancor di più i loro
legami e a coordinare le loro catene di rapporti interpersonali e di contatti; devono
“aiutare” la comunità, perché questa si rinforzi ed acquisti un ruolo sempre più
centrale nella vita delle persone.
Un interessante metodo di lavoro comunitario è quello cosiddetto del
“potenziamento” della comunità (community empowerment approach). Questo
modello mette in risalto i punti di forza del network di vicinato ed individua
strategie per collegare assieme l’azione del sostegno sociale vicinale e dei servizi
professionali.
Lo sviluppo di comunità può essere definito come «un processo che mira a creare
condizioni di progresso sociale ed economico attraverso la partecipazione attiva della
comunità». 30 L’obiettivo che persegue questo processo è quello di creare una rete
sociale supportiva e integrata, fondata sulla mobilitazione e la partecipazione dei
cittadini. La strategia dello sviluppo di comunità muove infatti dall’assunto che il
cambiamento sociale può avvenire in modo più efficace e in una direzione di
maggiore libertà e uguaglianza, se si riescono a sviluppare l’iniziativa e il
coinvolgimento dei cittadini nella definizione degli obiettivi e delle prassi di
trasformazione.
30
Ibidem.
66
Le principali modalità di sviluppo della comunità sono 31 :
ƒ
creare
un
senso
di
coesione
sociale,
migliorare
le
relazioni
interpersonali e sviluppare l’appartenenza a livello di vicinato e di
quartiere;
ƒ
sostenere e stimolare le esperienza di auto-aiuto, di volontariato e di
aggregazione spontanea di altro tipo;
ƒ
sensibilizzare e informare i cittadini sulle problematiche più rilevanti
della comunità e proporre mete comuni per l’azione;
ƒ
identificare e promuovere le capacità dei leader locali;
ƒ
sviluppare la coscienza civica, il rispetto e lo scambio comunicativo fra
le diverse culture ed etnie presenti nella comunità;
ƒ
utilizzare
le
competenze
dei
professionisti
per
sostenere
la
mobilitazione di gruppi di pressione e cambiamento sociale;
ƒ
offrire formazione sulle tecniche di gestione dei conflitti e di soluzione
dei problemi;
ƒ
contribuire al coordinamento fra l’azione dei diversi servizi e la spinta
dei movimenti di opinione e di azione sociale.
Detto questo, come è possibile sviluppare un lavoro di rete comunitario volto alla
prevenzione primaria dell’abuso sessuale sui minori?
In primo luogo, cercando di creare una informazione omogenea del fenomeno,
non per creare un allarmismo dilagante, ma per dare modo alle figure adulte
appartenenti alla società di prendere coscienza e riflettere sull’abuso all’infanzia. In
seguito, cercando di individuare gli ambiti sociali che potrebbero disporre delle
risorse necessarie per aumentare le difese individuali e collettive atte a far fronte al
fenomeno. Sarebbe inoltre ideale raggiungere un livello di lavoro incrociato tra attori
professionisti e non professionisti.
31
Ibidem.
67
7. L’EDUCATORE PROFESSIONALE E LA PREVENZIONE
DELL’ABUSO
7.1.
In che contesti l’educatore fa prevenzione?
L’educatore professionale svolge numerosi interventi di prevenzione in diversi
setting educativi. La sua azione preventiva diventa immediata ed efficace data la
vicinanza costante con l’utente.
I contesti in cui l’educatore può fare prevenzione sono essenzialmente quattro:
♦ Il Cag e l’educativa di strada: luoghi che danno all’educatore la possibilità di
avere un’ampia panoramica dell’utenza al fine di individuare i segnali concreti di
rischio, instaurando con il ragazzo una relazione di fiducia che gli permette poi di
effettuare una segnalazione precoce.
♦ La scuola: luogo in cui l’educatore, integrato con altre figure professionali, quali
lo psicologo, i docenti, l’assistente sociale, mette in atto interventi preventivi
strutturati.
♦ L’AdM: l’assistenza domiciliare ai minori viene effettuata ove non sia stata
accertata una grave situazione di pregiudizio, nella quale l’educatore
professionale affianca il bambino.
♦ Inoltre l’educatore professionale lavora in progetti realizzati da Enti pubblici
locali (come nel caso del progetto “Parole non dette” 32 ).
32
Per approfondire vedi cap. 8 “Analisi di un’esperienza di prevenzione”.
68
7.2.
Gli strumenti educativi per la prevenzione
Perché la presenza dell’educatore professionale?
Come mai inserire una figura professionale come quella dell’educatore all’interno
di progetti di prevenzione?
Per esempio, all’interno del progetto “Parole non dette” 33 , nella prima fase di
attuazione portata avanti da Alberto Pellai e dai suoi collaboratori, non erano
previste le figure professionali dell’attuale équipe. Nel momento in cui l’ASL Città di
Milano ha deciso di occuparsi di questo progetto, ha costruito l’équipe, riunendo
tutte quelle professionalità che erano esperte nell’ambito dell’abuso: molti degli
psicologi e assistenti sanitari e sociali presenti sono esperti di educazione sessuale.
La scelta di impegnare determinate figure professionali ha avuto delle
ripercussioni sul progetto stesso, sulla sua struttura e sulla comparsa in particolar
modo di maggiori momenti di riflessione e rielaborazione con i bambini delle attività
portate avanti.
Il progetto “Parole non dette” è un progetto che si articola su una base educativa.
Un’équipe multiprofessionale è una ricchezza enorme per il progetto, per la sua
rimessa in discussione e per la qualità del servizio offerto. Questo perché ciascun
operatore è portatore della propria professionalità, che va ad unirsi a quella degli
altri.
La specificità dell’educatore, utile per questo progetto, è quella di avere uno
sguardo sul singolo e sul gruppo, tendente all’individuazione delle risorse che questi
presentano e possono utilizzare per superare delle difficoltà. Una figura educativa
serve a facilitare un lavoro di rete e di collaborazione con il tessuto all’interno del
quale è inserito il singolo.
Per permettere ai bambini di vivere in modo sereno esperienze d’educazione
affettiva e sessuale, occorre costruire una relazione adulto-minore in cui il secondo si
senta libero di essere veramente se stesso, di fare domande ed esprimere dubbi.
Occorre quindi, dimostrare ai bambini che l’adulto è disponibile a offrire loro un
33
Ibidem.
69
ascolto
caratterizzato
dall’accettazione
incondizionata
di
ciò
che
vogliono
comunicare.
Bisogna imparare ad “utilizzare” l’educatore professionale come strumento.
Nell’ambito delle attuali esperienze ed iniziative sulla problematica dell’abuso
sessuale, l’educatore professionale sembra essere una delle figure meno presenti, sia
a livello di ricerca teorica e di ipotizzazione di interventi, sia a livello della loro
realizzazione concreta sul territorio. L’educatore professionale è attualmente più
presente nell’ambito degli interventi di trattamento dell’abuso sessuale e le sue
funzioni in merito si esercitano essenzialmente nelle strutture residenziali. Solo
raramente invece viene coinvolto nel percorso di trattamento dell’adulto o del nucleo
abusante (nel caso di abuso intrafamigliare), percorso che è dominato invece da
professionalità e modalità d’azione tipiche del campo psicologico e psichiatrico
È una delle figure meno presenti negli interventi a livello preventivo, ma
procedendo con un’analisi delle peculiarità del suo profilo professionale ci si rende
conto del ruolo potenzialmente incisivo e pregnante che può rivestire all’interno di
interventi psicosociali di prevenzione e di intervento sull’abuso sessuale
intrafamiliare sui minori. Le caratteristiche di vicinanza, continuità e quotidianità,
specifiche della relazione che l’educatore ha la possibilità di instaurare con l’utenza,
appaiono infatti molto utili e confacenti nell’approccio con situazioni affettivamente
confuse e fortemente problematiche, quali si presentano le dinamiche relazionali
tipiche dei contesti abusanti. Ancora, le capacità relazionali, osservative e di
comprensione delle dinamiche relazionali, potrebbero essere facilmente d’aiuto
nell’ascolto, nella lettura e decodifica di messaggi e segnali di disagio di minori e
adulti e nella costruzione con loro di rapporti accoglienti ed empatici.
70
7.3.
Come potremmo ridisegnare la prevenzione?
La figura dell’educatore professionale, ricca di risorse, deve essere impiegata in
modo più consistente non solo all’interno dei servizi residenziali per minori, ma
anche nel lavoro di territorio con bambini, adolescenti, adulti, nuclei familiari. Ad
esempio si potrebbe dare maggiore spazio alla progettazione di interventi mirati di
educativa territoriale, attraverso i quali sensibilizzare ragazzi e adulti rispetto al tema
dell’abuso e affrontare con maggiore attenzione e consapevolezza la tematica
sessuale all’interno delle relazioni educative individuali e di gruppo.
Si tratterebbe di un’educazione all’affettività e alla sessualità impostata non tanto
con ritmi e incontri cadenzati e programmati, ma piuttosto costruita giorno per
giorno nella relazione interpersonale ed educativa, a partire dagli stimoli offerti dalla
quotidianità, con caratteristiche di vicinanza, confidenzialità, confronto e “scambio”.
Sarebbe un’educazione sessuale che si arricchisce delle esperienze di vita condivise
dall’adulto e dal minore; una educazione sessuale che ha la possibilità di offrire,
accanto a informazioni, occasioni di trasmissione concreta ed esperienziale di una
corretta
affettuosità
nel
rapporto
interpersonale
adulto/minore.
Sarebbe
un’educazione sessuale che si caratterizza per spontaneità e familiarità, senza
associarsi ad istintività e superficialità, e che si basa su una progettazione educativa
attenta e rispondente alle esigenze manifestate dai minori. Un’educazione sessuale
così concepita ha buone possibilità di funzionare efficacemente a tutti i livelli della
prevenzione: dalla sensibilizzazione culturale e dalla prevenzione primaria, alla
prevenzione secondaria, per la rilevazione dei bisogni e delle richieste d’aiuto e per il
riconoscimento precoce di ogni forma di abuso, fino alla prevenzione terziaria, per
predisporre validi aiuti ai minori che abbiano già subito abuso.
71
7.4.
L’educatore professionale all’opera
Per poter giungere ad una educazione all’affettività e alla sessualità così concepita,
profondamente intrecciata alle trame della rete sociale, entra in gioco la figura
dell’operatore sociale. Per far sì che l’azione educativa affettiva e sessuale giunga a
livelli quotidiani e famigliari, è necessario che determinate competenze e conoscenze,
riguardanti la sessualità e l’affettività, la comunicazione e l’ascolto empatico, siano
trasferite dai professionisti ai “natural helper”.
Il primo passo che deve essere fatto è quello di individuare i principali contesti di
vita dei bambini, quei luoghi che vedono il perpetuarsi del loro quotidiano sviluppo
emotivo, cognitivo, psicofisico, sociale. Capire e conoscere gli ambiti di vita del
bambino permette di concentrare l’attenzione del professionista nella ricerca delle
figure che potrebbero essere investite del ruolo di “natural helper”.
Abbiamo già detto che i principali luoghi di vita dei bambini sono la famiglia e la
scuola, poi ci sono oratori, ambienti sportivi; anche i mass media sono diventati
ormai una vera e propria agenzia educativa. All’interno di questi luoghi le principali
figure che possono diventare natural helper sono fondamentalmente i genitori, i
nonni o i fratelli e le sorelle maggiori per la famiglia, gli insegnanti per la scuola, gli
allenatori per il mondo sportivo, i sacerdoti e gli animatori per l’oratorio; il mondo
adulto insomma. Possiamo aggiungere che, vista l’importanza che ha il gruppo dei
pari nella socializzazione dei bambini, anch’esso può essere considerato un buon
potenziale luogo di aiuto e sostegno; inoltre, visto che l’abuso è caratterizzato
proprio dal mantenimento del segreto da parte del minore e da un sentimento di
sfiducia nei confronti dell’adulto, puntare sul gruppo dei pari potrebbe essere uno
strumento in più per rompere il silenzio.
Una volta individuate le figure che potrebbero essere sostenitrici attive della rete
creata, il professionista deve supportare queste figure e aiutarle a lavorare insieme
per creare una rete di prevenzione all’abuso, che si tradurrà in una educazione
all’affettività, alla corporeità, all’emotività e alla sessualità.
In virtù della competenza professionale ad operare all’interno del tessuto sociale
attraverso la relazione e in un clima di quotidianità, l’educatore sembra essere una
figura ideale per questo lavoro. Egli infatti ha la capacità di “entrare nelle case”, di
72
mescolarsi nella quotidianità e di agire all’interno di essa attraverso una continua
relazione.
L’educatore professionale svolge una funzione socio–educativa attraverso un
lavoro, il cui obbiettivo è quello di promuovere l’inserimento, l’integrazione e la
partecipazione delle persone alla vita sociale. I compiti che gli educatori sono
chiamati ad assolvere sono, quindi, complessi e vanno dalla capacità di leggere il
bisogno nella sua complessità individuale e sociale, alla capacità di intervenire
direttamente e di promuovere l’intervento di altre risorse e servizi per giungere al
soddisfacimento del bisogno individuato. Ciò richiede, all’interno della comunità, la
capacità di favorire dinamiche di accoglienza e di accompagnamento, la capacità di
orientarsi consapevolmente nel contesto sociale e istituzionale in cui la comunità è
inserita, la propensione al lavoro di gruppo, alla verifica, alla formazione continua.
Ponendosi in relazione con le persone, l’educatore riesce a individuare le capacità
insite in ciascuno e a lavorare insieme per potenziarle. Nel fare questo, vista la sua
posizione all’interno di una relazione di scambio attivo bidirezionale, egli non viene
percepito come “esperto” e la sua azione raggiunge il proprio obiettivo perché
accettata e condivisa.
Educare, infatti, non è trasmettere e trasferire dati e informazioni, bensì cercare e
trovare insieme significati condivisi. Educare significa aiutare l’altro a crescere,
recuperando e sviluppando la sua identità a partire dalle sue potenzialità.
L’educazione ha come unità di relazione la diade educatore-educando; questo crea
una continua ristrutturazione delle premesse del lavoro, delle aspettative, delle
interazioni. Il processo educativo, così inteso, richiede una compartecipazione, un
vivere insieme, che sono di per sé molto più importanti dei contenuti che potrebbero
essere trasmessi.
Il considerarsi facilitatore di cambiamento, piuttosto che agente o attore principale
di esso, aiuta l’educatore a definire, con più realismo e correttezza e con meno
onnipotenza, i limiti e il significato del ruolo che gioca nell’intervento educativosociale.
L’educatore, portatore consapevole di capacità e competenze nell’ambito della
comunicazione, dell’empatia, dell’educazione affettiva, dell’educazione emozionale e
dell’educazione alla sessualità, entrando in un così stretto legame e contatto con le
73
figure individuate come natural helper, creerà nei loro confronti una trasmissione di
quella consapevolezza e di quelle competenze di cui è portatore.
L’educatore professionale è quindi una risorsa importante per conoscere le realtà
di vita dei bambini, perché inserito nel tessuto sociale e abituato a lavorare con esso;
è un ottimo individuatore delle figure idonee al ruolo di natural helper, perché in
stretto contatto con loro; ed infine è un ottimo conduttore di quelle competenze
relative all’educazione emozionale e affettiva e alla sessualità, necessarie per la
prevenzione dell’abuso e, ancor prima, per la creazione di una migliore qualità di
vita.
Ovviamente, in primo luogo l’educatore dovrà essere formato a sua volta, perché,
anche se riveste un ruolo professionale all’interno del quale le competenze
comunicative, empatiche e di ascolto sono presenti, egli comunque appartiene allo
stesso tessuto sociale di cui si occupa e da esso può aver assorbito inevitabilmente
delle difficoltà comunicative proprio riguardo alla sessualità e alla corporeità.
Inoltre è necessaria una formazione degli operatori, specifica sia per l’educazione
alla sessualità, all’emotività e alla corporeità, sia per la prevenzione all’abuso, onde
instaurare una condivisione ed una comunità di azione.
Gli adulti e in particolare i genitori devono essere fra i primi e principali
“promotori” degli interventi di prevenzione primaria rivolti ai bambini. Per quanto
riguarda il lavoro che l’educatore può svolgere con i natural helper che ha
individuato, egli dovrà aiutare i genitori e gli adulti a facilitare la comunicazione sui
temi legati alla sessualità, cioè far sì che i bambini siano in grado di esprimere
emozioni, esplicitare domande e descrivere i propri bisogni; dovrà aiutare i genitori a
creare un clima empatico, che consenta ai bambini di riconoscere le emozioni e i
bisogni unici, loro e degli altri, in fatto di sessualità, anche attraverso la decodifica
dei messaggi non verbali usati dalle persone; dovrà aiutare i genitori a far
comprendere ai bambini che ogni persona è responsabile delle azioni da essa stessa
promosse e messe in atto.
74
Queste azioni, che possiamo considerare veri e propri obiettivi sono identificabili 34
a partire dai bisogni dei bambini, tra cui quello di sperimentare un senso di sicurezza
e di protezione psicologica; e a partire dalla capacità dei bambini di mostrare empatia
nelle loro interazioni, quando vengono coinvolti in relazioni significative in cui
possono concretamente sperimentare e osservare dimostrazioni di comportamento
empatico.
La non-comprensione del linguaggio del bambino sembra la causa principale della
non comunicazione adulto-bambino.
Le strutture mentali degli adulti, costituite da schemi cognitivi e da meccanismi
culturali automatizzati, sono molto diverse da quelle dei bambini. Anche se certe
esperienze legate all’infanzia sono ancora presenti nell’adulto, egli resta spesso
incapace di comprendere (da cum-prehendere, prendere con sé) o di accettare la
situazione che gli presenta il bambino. L’adulto angosciato di fronte al bambino che
non capisce, si rifugia spesso in uno dei seguenti comportamenti: si barrica dietro
l’autorità conferitagli dai sistemi esistenti o fugge dalle sue responsabilità, adottando
i cosiddetti “comportamenti non direttivi”.
Una delle difficoltà che gli adulti incontrano con i bambini, soprattutto in
riferimento alla sessualità, è quella di saper interagire e parlare con loro non solo
quando essi fanno domande, ma anche quando manifestano in modo esplicito
comportamenti o azioni a sfondo sessuale. È importante che gli adulti sappiano come
comportarsi e non ricorrano al semplice divieto o proibizione, che comprime le spinte
e gli impulsi del bambino senza dare direzione educativa e capacità rielaborative. Gli
adulti devono essere aiutati e guidati dall’educatore ad individuare una corretta
modalità di risposta nel momento in cui i bambini, interagendo con loro, rivelano
esplicite manifestazioni legate alla sessualità. I commenti degli adulti dovranno
essere volti non ad una proibizione come dicevamo prima, ma ad una definizione
chiara dei comportamenti che vengono manifestati dai bambini e che devono essere
chiaramente descritti ed enunciati dall’adulto; inoltre gli adulti dovranno imparare
ad esprimere apertamente le emozioni suscitate dal comportamento manifestato.
34
Per approfondire: Alberto Pellai, “Le parole non dette – Come insegnanti e genitori possono
aiutare i bambini a prevenire l’abuso sessuale”, 2004, Franco Angeli, Milano.
75
A cosa potrà servire agli adulti, utilizzare queste piccole accortezze nei loro modi
di rispondere? Non si tratta di un manuale di azione, non ne esiste di certo alcuno,
sono solo suggerimenti. A cosa possono servire dunque?
Innanzi tutto serviranno a investire di una luce diversa il loro modo di entrare in
relazione con i bambini. Inoltre è facilmente prevedibile che i bambini risponderanno
ai commenti degli adulti mostrando reazioni imbarazzate o difensive; proprio in
questo momento avverrà l’intervento più massiccio: l’educatore dovrà aiutare
l’adulto a facilitare la comunicazione e a promuovere l’empatia nell’interazione con il
minore. Se questo avverrà, la comunicazione potrà procedere e l’adulto potrà
valutare quali altre cose il bambino potrebbe avere bisogno di discutere o ascoltare,
in modo da correggere eventuali informazioni sbagliate e rinforzare il concetto di
riservatezza relativamente ai comportamenti sessuali e di limitazioni implicite in
molti di essi.
È importante per l’educatore insistere ed agire nella e sulla relazione, perché
quest’ultima non solo permette lo scambio di specifiche informazioni, ma anche
trasforma gli interlocutori, indipendentemente dalla loro volontà e dalla loro
consapevolezza. Quindi, se è vero che dal tipo di relazione, che l’educatore riesce ad
instaurare con gli adulti, quest’ultimi possono imparare automaticamente ed essere
trasformati, è anche vero che i bambini dalla relazione con gli adulti possono
apprendere automaticamente le stesse competenze e conoscenze ed esserne
trasformati.
Questo operato dell’educatore si deve rivolgere alla famiglia, ma anche
all’istituzione scolastica. La scuola deve diventare il luogo dell’ad-prehendere, il
luogo in cui si pongono in rapporto le persone e le conoscenze, il luogo in cui fare
esperienze per crescere insieme, per pensare e costruire insieme l’esistere. La scuola
può diventare un luogo di pensiero e di domande, luogo di progettazione.
In questo tipo di scuola insegnare non vorrà solo dire istruire il bambino su ciò che
deve conoscere e pensare, o trasmettergli delle conoscenze e delle tecniche; ma
piuttosto educare significherà facilitare al bambino il rapporto con il mondo.
L’azione educativa perseguirà un doppio fine: favorire lo sviluppo di tutti gli aspetti
della persona, del bambino e fornirgli i mezzi per integrarsi con il mondo. In queste
due finalità ritroviamo i due modi complementari per lo sviluppo della personalità.
76
Le difficoltà del nostro insegnamento attuale provengono spesso dal fatto che
l’azione educativa sia pensata solo in funzione dell’apprendimento e del
mantenimento di relazioni normalizzate e sistematizzate.
Per il bambino e per il suo sviluppo, ciò che conta veramente, non è tanto
l’acquisizione di relazioni normalizzate e socializzate, quanto la crescita del suo IO e
l’organizzazione di quest’ultimo nei confronti del mondo. Durante tale sviluppo,
l’educazione corporea e l’educazione sessuale devono occupare un posto prioritario
all’interno del curriculum scolastico. Infatti, più il bambino avrà coscienza e
padronanza del proprio corpo, più potrà stabilire contatti con il mondo che lo
circonda; più sarà padrone del proprio IO, più potrà dare significato ai vari
comportamenti sociali, quali gli apprendimenti scolastici, affrontandoli con la
pienezza dei suoi mezzi.
Il bambino cresce proprio cercando di elaborare un sapere a partire dal puro
corpo, in quanto corpo sessuale. Molti adulti invece evitano di affrontare la tematica
a causa del disagio o dell’imbarazzo che tali argomenti suscitano in loro, oppure
perché non disponendo di strumenti validi si sententono inadeguati.
Occorre aiutare i ragazzi a sviluppare un’analisi critica dei valori culturali, ad
acquisire informazioni e conoscenze che permettano loro di scegliere in modo
adeguato e personale. I valori dai quali deve prendere avvio questo percorso
educativo sono il rispetto, l’accettazione, la libertà, la responsabilità. I ragazzi
possono appropriarsi di questi valori sperimentandoli nel rapporto educativo con gli
adulti di riferimento.
Gli adulti di riferimento, gli insegnanti, potranno a loro volta venire in possesso di
competenze,
conoscenze
e
valori
attraverso
un
rapporto
con
l’educatore
professionale. L’idea di fondo è quella di stimolare i natural helper, far emergere da
loro le competenze e le capacità, le risorse presenti per potenziarle e metterle al
servizio di colleghi e bambini. Lo stesso significato etimologico del termine educare,
dal latino ex-ducere, “trarre fuori”, ci fornisce un buon esempio di ciò che opera
l’educatore.
Concretamente il tutto si può tradurre in un programma di educazione alla
sessualità non solo per i bambini, ma anche per gli insegnanti, in modo da fornire a
quest’ultimi le competenze per poter continuare il lavoro di educazione alla
77
sessualità anche a conclusione dei programmi portati avanti dagli educatori e dagli
esperti del settore. In questo modo si getteranno le basi per un lavoro di educazione
alla sessualità ad ampio respiro, che deve essere vista all’interno di un contesto di
educazione socio-affettiva globale.
Per quanto riguarda il lavoro che l’educatore può svolgere con i genitori, anche in
questo caso un esempio può essere quello dei programmi di educazione sessuale.
Quest’ultimi possono diventare un ottimo modo per gettare le basi di un lavoro che
verrà in seguito portato avanti dagli stessi genitori, che avranno potenziato o in
alcuni casi acquisito le proprie capacità. Intervenire a livello informativo prima, e
formativo poi, diventa più “semplice”, meno allarmante se contestualizzato in un
ambito ben preciso: l’ambiente scolastico crea un contesto di riferimento non solo per
i bambini ma anche per i genitori stessi, che si ritrovano inseriti in un’unica cornice
che li contiene; si possono sentire in qualche modo tutelati, accompagnati, sostenuti
dalla struttura istituzionale; infine la presenza di altri genitori permetterà loro di
confrontarsi con altri adulti, di creare legami e quindi reti di sostegno vicendevole.
Riassumendo, la figura dell’educatore professionale entra in campo inizialmente
per ricevere una formazione specifica nell’ambito della educazione alla sessualità. In
seguito, in un primo momento l’educatore cerca di comprendere all’interno del
tessuto sociale gli ambiti di vita dei bambini, quei contesti all’interno dei quali si
snoda il loro intero processo di crescita; in un secondo momento l’educatore si
occuperà di individuare quali figure presenti in questi contesti di vita, possono essere
natural helper, quelle persone in grado di rivestire un ruolo di aiuto e sostegno per i
bambini. Infine con i natural helper – genitori, insegnanti, allenatori, sacerdoti ed
animatori – l’educatore instaurerà una relazione educativa all’interno di corsi di
educazione alla sessualità, dove oltre ad un passaggio di informazioni e alle nozioni
relative alla materia in questione, si assisterà ad un vero e proprio scambio e
potenziamento delle capacità comunicative, empatiche, affettive degli adulti in
questione.
78
8. ANALISI DI UN’ESPERIENZA DI PREVENZIONE
8.1.
“Parole non dette”
Un esempio di lavoro di prevenzione primaria all’abuso sessuale è il progetto
“Parole non dette” 35 , portato avanti dalla Azienda Sanitaria Locale della Città di
Milano in collaborazione con l’Istituto di Igiene e Medicina Preventiva
dell’Università degli Studi di Milano.
Questo progetto prevede il coinvolgimento di operatori sociali, insegnanti,
genitori, alunni. Comprendo due aree di vita molto importanti per un bambino: la
famiglia e la scuola.
Lo scopo principale è quello di favorire uno sviluppo e una crescita armonica dei
bambini e degli adolescenti, nonché dei cittadini. Non si mira in primo luogo a
parlare di abuso sessuale, ma a trovare maggiore spazio in questo progetto sono: la
conoscenza del proprio corpo; il saper ascoltare e riconoscere le sensazioni che il
corpo trasmette; la consapevolezza di poter esprimere le proprie emozioni e di poter
parlare delle cose che stanno più a cuore, comprese ansie e paure, con persone di
fiducia. Tutto ciò è volto ad aiutare il bambino ad avere un contesto in cui instaurare
relazioni significative essenziali per la sua crescita.
Alberto Pellai è medico e ricercatore in sanità pubblica presso l’Istituto di Igiene e
Medicina preventiva nell’Università di Milano. Si occupa di educazione alla salute e
prevenzione in età evolutiva, conducendo corsi di formazione, progetti e ricerche con
insegnanti, genitori e bambini. Ha collaborato negli Stati Uniti con il National
Committee for Prevention Child Abuse e proprio in questa sede ha potuto prelevare
numerosi spunti di intervento di prevenzione verso il fenomeno dell’abuso sessuale
all’infanzia: spunti che ha riadattato alla realtà italiana, in particolare a quella
milanese.
35
Il progetto “Parole non dette” è stato largamente trattato e approfondito all’interno della
personale relazione di tirocinio di terzo anno.
79
Così è nato il progetto di prevenzione primaria “Parole non dette”, proposto
inizialmente in due scuole elementari milanesi.
Nell’ottobre 2000 il Servizio Famiglia Infanzia Età Evolutiva della ASL Città di
Milano ha deciso di proporre tale progetto a tutte le scuole elementari della città
Gli imput che hanno stimolato la sua ideazione sono:
- Ricerca condotta dalla ASL Città di Milano nel 1995: sono stati intervistati 3352
ragazzi tra i 13-15 anni. Da questa ricerca risulta che il 6,2% dei ragazzi tra 13 e 15
anni è stato oggetto di molestia sessuale;
-
Episodi di cronaca riportati dai media che allarmano i genitori.
Il progetto è stato delineato sulla base delle esigenze emergenti dalle ricerche
epidemiologiche condotte sul fenomeno.
Quindi sono stati interessati dall’intervento le classi quarte elementari,
individuando questa fascia d’età come maggiormente a rischio riferendosi ai dati
delle ricerche effettuate; sono stati interessati genitori e scuola, per rispondere alla
principale caratteristica del fenomeno dell’abuso: la solitudine in cui verte il bambino
abusato e la mancanza di figure adulte di riferimento. Produrre un intervento
educativo con genitori e scuola avrebbe aumentato l’efficacia, perché avrebbe
permesso di tessere la rete necessaria per combattere l’abuso.
Gli obiettivi da raggiungere sono in linea con ciò che è emerso dalle ricerche. I
bambini abusati hanno spesso una carente autostima, quindi sono state create
specifiche attività volte all’innalzamento della stessa personale e di gruppo e ad
individuare delle figure adulte di riferimento.
Tra il 2000 e il 2002 sono stati coinvolti: 60 scuole elementari, 5500 bambini, 930
insegnanti, 4000 genitori
Il progetto “Parole non dette” si articola in tre fasi principali:
1. percorso con gli insegnanti;
2. percorso con i genitori;
3. percorso con i bambini.
80
8.2.
Il percorso degli insegnanti
Questa parte di percorso è rivolta agli insegnanti di IV elementare, che
successivamente saranno coinvolti anche nei laboratori didattici con i bambini.
Si articola in tre incontri teorici di formazione, il cui scopo è trattare il tema
dell’abuso sessuale, l’avere un’occasione di confronto su come affrontare ciò che
potrà emergere nel corso degli incontri con i bambini e successivamente, e il
trasmettere loro competenze per proseguire in autonomia la realizzazione di
laboratori didattici coi bambini.
I temi principalmente trattati sono:
-
Il fenomeno dell’abuso sessuale e le sue conseguenze;
-
L’ascolto delle confidenze e l’osservazione del comportamento dei bambini;
-
La prevenzione dell’abuso nella continuità educativa.
Questa attività con gli insegnanti è supportata nel V anno da un’altra proposta, un
kit di schede e proposte, utili per proseguire nell’ultimo anno del percorso scolastico
nel lavoro con i bambini previsti dal percorso. In questo modo si cerca di supportare,
sostenere e supervisionare il lavoro futuro degli insegnanti.
Gli insegnanti vengono anche interessati da due ulteriori momenti di incontro con
gli operatori: un primo di programmazione che si svolge prima di iniziare i laboratori
con i bambini, all’interno del quale si definiscono le modalità comuni di intervento e
il materiale necessario e si ha una presentazione della classe e delle sue eventuali
problematiche; un secondo momento di verifica al termine del percorso con i
bambini, per scambiare e rimandare l’andamento del gruppo classe.
“La figura degli insegnanti ho avuto modo di sperimentarla sia su un versante negativo, sia
positivo. Alcuni insegnanti si sono rivelati più di una volta un ostacolo al lavoro portato
avanti dagli operatori, ma al contempo in altri casi si sono rivelati una vera e propria risorsa
al lavoro del progetto. Di fatto sono fondamentali per il raggiungimento dell’obbiettivo di
prevenzione. Se intendiamo creare intorno ai bambini una rete di sostegno e di riferimento
dobbiamo lavorare contemporaneamente con i bambini e con gli insegnanti. Il fatto che siano
presenti anche quest’ultimi agli incontri serve a consentire ai bambini e agli insegnanti di
81
vivere la stessa esperienza, creando una base comune incentrata sulla condivisione, che pone
le premesse per un futuro rapporto di fiducia e ascolto vicendevole su temi come quello della
sessualità.” 36
8.3.
Il percorso dei genitori
Il percorso dei genitori si struttura in cicli di quattro incontri a carattere
informativo-formativo, della durata di due ore ciascuno; si svolgono solitamente
nella sede della scuola e in orario serale, rivolti a gruppi di massimo quaranta
persone; possono accedervi genitori di tutti i bambini della scuola senza distinzione
di classe.
I contenuti degli incontri sono: concetto di prevenzione distinta in primaria e
secondaria, concetto di salute e benessere della persona, aspetti della sessualità
umana, sviluppo psicosociale del bambino, concetto d’abuso, prevenzione del
fenomeno dell’abuso.
La metodologia utilizzata consiste in attivazioni, lavori di gruppo, realizzazione di
cartelloni, piccole simulazioni e discussioni guidate.
Obiettivo degli incontri è affrontare in una situazione di gruppo il problema
dell’abuso sessuale sui minori per conoscerlo meglio, confrontarsi su quale sia la
situazione reale del fenomeno, riflettere sui fattori di protezione e sugli interventi
preventivi che la famiglia può attivare nel rapporto con i propri bambini. In relazione
a quest’ultimo punto, infatti, gli incontri vogliono indurre ciascuno alla riflessione su
quali siano le proprie attitudini e le proprie difficoltà nell’affrontare temi concernenti
la sessualità con i bambini, ma anche sui temi forti della vita su cui ruotano tanti tabù
individuali e sociali; ancora invitano a riflettere e prendere consapevolezza su quale
sia l’atteggiamento di reale ascolto ed empatia nei confronti del proprio bambino e
dei messaggi che invia.
36
Tratto dalla personale relazione di tirocinio 2004/2005, svolto presso l’Azienda Sanitaria Locale
Città di Milano, Dipartimento ASSI, Servizio Famiglia, Infanzia, Età evolutiva.
82
Gli incontri permettono ai genitori di ripensare alla propria storia e alla propria
infanzia, e di capire come queste esperienze influiscano sulla relazione con i loro
figli. Evidenziare il clima culturale nel quale si è vissuti, i valori che hanno sotteso i
messaggi educativi ricevuti, fa comprendere cosa facilita o ostacola il proprio essere
genitori oggi; mentre il confronto con altri aiuta a stemperare il proprio senso di
inadeguatezza.
8.4.
Il percorso dei bambini: un viaggio all’insegna della
scoperta di sé
“Vedere questi bambini avvicinarsi a questo “nuovo mondo”, mi ha dato delle sensazioni
molto piacevoli: un po’ di tenerezza e non nascondo anche un briciolo di invidia. Per loro
infatti è stato un gran passo in avanti, una scoperta unica con tutta la gioia che porta con sé il
semplice scoprire e la sensazione di essere diventati più grandi.” 37
L’intervento con la classe è preceduto da un incontro di programmazione con gli
insegnanti delle classi, in cui si precisano e definiscono le modalità comuni di
intervento e il materiale necessario; inoltre in questa sede gli operatori vengono a
conoscenza della fisionomia e delle problematiche della classe. Precede l’intervento
anche un incontro di presentazione del percorso rivolto ai genitori dei bambini, per
presentare il percorso, i suoi obiettivi, il metodo usato e i contenuti trattati; questo
momento diventa un’occasione anche per parlare del tema dell’abuso sessuale sui
bambini, delle preoccupazioni dei genitori.
Il percorso con i bambini, intitolato “Grido no, scappo via, corro a dirlo a
qualcuno”, è articolato in cinque incontri di due ore ciascuno. Gli incontri hanno sede
nella palestra della scuola o nell’aula di psicomotricità, spazi che permettono ai
bambini di muoversi liberamente e che consentono di mettere al centro la
dimensione corporea e ludica del percorso.
37
Tratto dal personale diario di tirocinio.
83
I cinque incontri sono organizzati in modo tale da rispondere ai seguenti obiettivi
generali:
-
Rafforzare nel bambino il proprio livello di autostima;
-
Aumentare le conoscenze del proprio corpo e valorizzare le differenze;
-
Fornire al bambino le conoscenze per riconoscere un abuso sessuale;
-
Imparare ad ascoltare le proprie emozioni, importante segnale per
riconoscere situazioni di agio e disagio;
-
Sviluppare le sue capacità critiche, affinché sia in grado di reagire di fronte
ad una situazione di disagio per non restarne vittima;
-
Imparare a richiedere l’aiuto dei genitori o di adulti di cui si fida;
-
Modificare eventuali comportamenti di eccessiva fiducia verso persone
sconosciute e conosciute che si comportano in modo anomalo.
Questi macro obiettivi sono stati poi in seguito scomposti in sotto obiettivi
intermedi per portare i bambini ad acquisire le competenze e a prendere coscienza di
alcune situazioni ed esperienze vissute.
I° incontro:
-
Prendere coscienza del proprio corpo;
-
Riconoscere le differenze tra maschio e femmina;
-
Approfondire le conoscenze sulle modificazioni corporee nelle varie fasi
dello sviluppo.
II° incontro:
-
Aumentare il proprio livello di autostima;
-
Imparare a rispettare e valorizzare il proprio corpo e quello degli altri.
III° incontro:
-
Riconoscere le varie modalità di relazione corporea con le altre persone;
-
Sottolineare le differenze tra “tocco positivo” e “tocco negativo”.
IV° incontro:
-
Riconoscere le situazioni a rischio;
-
Prevenire le situazioni a rischio;
-
Scegliere il comportamento adeguato per affrontare le situazioni a rischio.
84
V° incontro:
-
Capire l’importanza di raccontare quanto accaduto liberamente, senza paura
o imbarazzo;
-
Identificare le figure di riferimento a cui chiedere aiuto.
Tutti gli incontri si sviluppano seguendo una struttura di base.
Per iniziare hanno tutti un proprio slogan, cioè un proprio titolo, che viene
comunicato ai bambini all’inizio dell’incontro e che serve per focalizzare meglio
l’argomento trattato.
La prima fase è quella dell’accoglienza. I bambini, gli operatori e le insegnanti si
ritrovano in cerchio per salutarsi, per riguardare le attività svolte a casa o in classe
dai bambini tra i vari incontri, per rispondere alle eventuali domande della scatola
delle confidenze e per introdurre l’incontro.
“Seduti a terra (compresa l’insegnante che nel corso dell’incontro sono diventate due),
abbiamo iniziato con un giro di presentazioni per conoscerci: insieme al nome dicevamo una
cosa che ci piace e una che non ci piace.
A conclusione Daniela e Adriano hanno introdotto e spiegato il senso di questi cinque
incontri a partire da ciò che i bambini si aspettavano dal percorso. Così, pian piano è emerso il
motivo per cui ci trovavamo lì: per giocare, muoversi, lasciare spazio al proprio corpo, per
imparare cose nuove relative a noi stessi e agli altri.
In seguito è stata spiegata la funzione di due oggetti che li accompagneranno durante
l’intero ciclo dei cinque incontri:
- il Caro diario: ogni bambino avrà un quadernone a quadretti (non ad anelli), che
diventerà il proprio diario personale di viaggio, all’interno del quale ogni bambino
raccoglierà il materiale fornitogli durante il percorso, le varie attività da svolgere a casa o
in classe. In questo modo documenterà il proprio percorso.
Questo diario è personale, privato e saranno i bambini a decidere a chi farlo vedere e a
chi no, con l’eccezione che i due operatori devono vederlo per assicurarsi che tutti i
bambini seguano il percorso.
- la Scatola delle confidenze: è una scatola chiusa con una fessura sul lato superiore
presente all’interno della classe, decorata e abbellita a piacere dal gruppo classe; lo scopo
sarà quello di permettere ai bambini di inserirvi le domande che non sono riusciti a
rivolgere agli operatori durante gli incontri o che emergono nel corso della settimana; su
85
ogni bigliettino sarà necessario che l’autore specifichi se la natura del biglietto è
“pubblica” o “privata”; nel primo caso la lettura e la risposta verrà fornita dagli esperti di
fronte a tutti i compagni, e nel secondo caso la lettura e la risposta verranno fornite al
diretto interessato singolarmente e in altra seduta.” 38
Durante tale fase viene attuata la prima attività: sono giochi di movimento su base
musicale; svolgono una funzione di riscaldamento e aiutano i bambini ad entrare
nello spirito dell’incontro. La musica, in tutto il percorso educativo, è utilizzata quale
elemento che promuove e favorisce la capacità relazionale.
“Dopo questa prima parte di spiegazione c’è stato il primo gioco: “Il gioco dei gemelli”. Ai
bambini viene chiesto di correre e ballare per la palestra a ritmo di musica (scelta e portata
dagli operatori), quando questa viene fermata, i bambini si devono raggruppare intorno agli
operatori per ascoltare le consegne; dopo aver eseguito le richieste viene fatta ripartire la
musica e i bambini ritornano a ballare. Gli operatori scelgono di far raggruppare i bambini per
colore di capelli, per altezza, per colore degli occhi, per numero di scarpe, per colore della
pelle…ogni volta che i bambini si dividono in gruppo viene chiesto loro di prestare attenzione
e di osservare i propri compagni (in alcuni casi può tranquillamente succedere che qualcuno
una volta o più non sia in gruppo con nessuno). A conclusione delle divisioni si ragiona
insieme sul fatto che spesso non si è in gruppo con le stesse persone, questo vuol dire che
ciascuno di noi è diverso dagli altri, e quindi siamo unici, le cose uniche sono rare e quindi
preziose e bisogna rispettarle.” 39
La seconda fase è quella delle attività educative, durante questa fase ai bambini
vengono proposte attività di drammatizzazione, gioco, compilazione di cartelloni,
realizzazione di disegni e opere grafiche. Sono attività che vengono svolte dall’intera
classe oppure in piccoli gruppi.
“Il secondo gioco “Cartellone delle differenze”, vede i bambini divisi in due squadre;
devono a turno superare un percorso al termine del quale si trova un cartellone, su cui i
38
Ibidem.
39 Ibidem.
86
bambini dovranno scrivere quello che a loro parere sono le differenze che permettono di
distinguere fra maschio e femmina” 40
La terza fase è quella della rielaborazione e si accompagna a tutti i giochi fatti;
viene effettuata al termine di tutte le attività educative che vengono svolte, per
riprendere e sottolineare i vari obiettivi specifici all’interno di ogni singolo incontro.
“Terminato il gioco, tutti i bambini sono stati radunati intorno ad un cartellone che
riportava tre colonne intitolate: piacevole, indifferente, spiacevole.
I bambini hanno completato il cartellone inserendo i vari tocchi sperimentati nel gioco del
“Semaforo impazzito”nelle varie colonne, a seconda che avessero vissuto i tocchi come
piacevoli, spiacevoli o indifferenti.
La situazione che è emersa è che tutti i tocchi erano in tutte le colonne. Insieme ai bambini
si è ragionato, cercando di capire come fosse possibile che uno stesso tocco potesse essere sia
piacevole che spiacevole e indifferente contemporaneamente. La conclusione a cui si è giunti è
che un tocco assume una connotazione a seconda di molteplici fattori: a seconda di chi ce lo
dà, di quando ce lo dà, del perché che lo dà, di come stiamo noi in quel momento…Siamo
sempre noi, con il nostro corpo a determinare se un tocco è piacevole o meno.” 41
L’ultima fase è quella del rilassamento, i bambini si sdraiano nella palestra e
guidati dagli operatori e dalla musica concludono gli incontri con degli esercizi di
rilassamento, che aiutano i bambini ad uscire dall’incontro e a scaricare l’eventuale
tensione ed eccitazione accumulata durante le attività.
La metodologia del progetto è basata sul coinvolgimento in prima persona dei
bambini e sulla sperimentazione concreta di sentimenti ed emozioni, attraverso la
discussione collegiale e nel gruppo aperto delle percezioni derivanti dalle attività.
Non viene mai utilizzato il metodo della lezione frontale, privilegiando, invece,
una modalità interattiva che permette ai bambini di avere un ruolo attivo e diventare
dei veri protagonisti delle attività proposte. Gli operatori si pongono come facilitatori
40
Ibidem.
41 Ibidem.
87
del percorso di apprendimento, fornendo proposte, stimolando e guidando il
confronto.
Questo tipo di approccio educativo pone il bambino in un ruolo attivo nel
processo di apprendimento, portandolo a provare in prima persona emozioni e
sensazioni, che più facilmente rimarranno vive nella sua memoria e avranno modo di
essere utilizzate operativamente in caso di bisogno reale.
Per favorire nei bambini la capacità di esprimere emozioni piacevoli o spiacevoli
inerenti la sessualità, sono stati scelti come strumenti educativi e linguaggi espressivi
il gioco, la drammatizzazione, l’espressione grafica.
“C’era una volta una bambina perduta nel bosco.
Non aveva paura di essersi persa, e nemmeno del bosco.
Erano altre le cose che le facevano paura…” 42
Una fiaba può raccontare cose importanti e difficili con parole leggere. Può aiutare
grandi e piccoli a parlare.
Non bisogna confondere lo stile “astratto” della fiaba con le sue fonti
d’ispirazione, che possono essere molto concrete. Nel registro della fiaba, con le sue
caratteristiche formali di “leggerezza” e di capacità di fascinazione, sono conservate
le esperienze più dolorose e sconvolgenti dell’esperienza umana.
La fiaba comunica fin dall’inizio che stiamo abbandonando il riferimento alla
realtà per entrare nel mondo della fantasia (“C’era una volta…”), un mondo dove è
possibile far vivere ciò che di solito viene relegato nello spazio mentale del bambino,
come per esempio le sue paure e i suoi desideri più nascosti.
Spesso dai racconti dei ragazzi traspare che essi hanno ricevuto molte
informazioni sulla violenza sessuale, ma che non hanno gli strumenti per combattere
tali forme di abuso qualora si verifichino nella loro vita.
In particolare il tema della sessualità, se non vi sono momenti di rielaborazione
con l’adulto, è possibile che porti al rinforzo di “sesso uguale violenza”. In questo
caso la fiaba può essere d’aiuto; infatti il suo sviluppo narrativo, finalizzato alla
42 Beatrice
Masini, Daniela Villa, “Anna ritrova i suoi sogni”, Carthusia, 2004, Milano.
88
risoluzione dei conflitti, offre sempre un percorso di crescita. Nella fiaba è presente
una speranza di cambiamento e viene data al protagonista sempre la possibilità di
trasformare la propria vita. Tale possibilità parte dalla consapevolezza che chiunque
dispone delle forze sufficienti per volgere le situazioni al meglio.
Nel progetto non sono presenti fiabe, ma filastrocche, che accompagnano i
bambini, attraverso immagini appartenenti alla fantasia, nel mondo dell’abuso e
della difesa da esso.
Questa funzione simbolica esercitata dalla fiaba viene svolta anche dal gioco e
proprio questo strumento viene assunto come principale dagli operatori per
avvicinare i bambini al raggiungimento degli obiettivi, perché questo metodo
permette ai bambini di ritualizzare dei temi altrimenti troppo complessi e ansiogeni,
permette loro di dargli parola, permette loro di affrontare questi discorsi ed
argomenti e di giungere a gestire anche delle competenze di difesa.
L’équipe di lavoro è multiprofessionale, composta da: assistenti sociali, assistenti
sanitari, psicologi, psicomotricisti, educatori.
Ciascuno porta al gruppo di lavoro notevoli contributi per la lettura delle
situazioni che si vengono a creare nel corso del progetto. Ognuno utilizza la propria
peculiarità professionale per leggere gestire e modificare il progetto, quando questo
lo richiede.
“ …Abbiamo individuato come ognuno di noi abbia delle personali teorie di riferimento,
più o meno consapevoli.
Nessuno si trova nella condizione di essere in grado di conoscere la realtà, ma solo una
rappresentazione della realtà.
Se accettiamo e consideriamo possibile questo, allora comprendiamo anche che non esiste
un’unica premessa, che non esistono premesse vere e premesse false, ma solo molteplici punti
di lettura della realtà. Questo presupposto è l’unico in grado di permettere alle varie figure
professionali di lavorare insieme. Essere consapevoli delle proprie premesse permette di agire
con intenzionalità, di riuscire ad esplicitarle, di sostenerle e di basare il proprio intervento su
un progetto condiviso da tutti e quindi che non fallisca.” 43
43
Tratto dal personale diario di tirocinio.
89
L’équipe si ritrova una volta al mese durante l’anno e più di una volta all’inizio e a
conclusione del percorso, per fare un bilancio del percorso annuale, per rielaborare
gli ostacoli incontrati e i punti di forza del progetto, per decidere eventuali
cambiamenti, per ricondividere il focus dell’intervento.
La verifica dell’intervento è stata portata avanti durante il primo anno di
attuazione del progetto.
La verifica consisteva nella somministrazione di un test in entrata, per valutare la
situazione iniziale e il livello di conoscenze rispetto al problema dell’abuso sessuale.
Tale questionario è stato somministrato sia ai bambini delle classi prescelte, sia a
bambini di classi parallele che non avrebbero partecipato al progetto pilota.
Il questionario, composto da domande a risposta chiusa o a risposta aperta,
presentava anche alcune situazioni a rischio, per indagare quale fosse la capacità dei
bambini di fronteggiarle e le specifiche competenze da essi messe potenzialmente in
atto in situazioni di questa natura.
Analogo questionario è stato somministrato al termine del percorso. Ciò che è
emerso è stato un netto miglioramento dopo l’intervento e una notevole differenza
tra i bambini che hanno seguito il percorso e quelli che non vi hanno partecipato.
Per quanto riguarda, invece la verifica del gradimento dell’intervento, gli
operatori sono ricorsi a tre strumenti: un questionario per le insegnanti, uno per i
genitori e un tema (sottoforma di lettera ad un amico) che i bambini svolgono a
conclusione del percorso.
Solitamente il livello di gradimento espresso è elevato.
90
CONCLUSIONI
Sono giunta alla conclusione di questo lavoro, un lavoro che è partito da alcune
mie domande di senso.
Si è trattato di un vero e proprio percorso che ha portato me, e spero anche
chiunque abbia letto il mio lavoro, a conoscere più da vicino il fenomeno dell’abuso
sessuale ed a comprenderne la complessità.
Mi sono interrogata sulle modalità necessarie per poter far fronte al fenomeno,
sulla responsabilità di ciascun cittadino relativamente al diffondersi di una cultura
fertile per la pedofilia, sulle capacità professionali dell’educatore necessarie per
instaurare un lavoro di prevenzione primaria, basato sul lavoro di rete e sul sostegno
sociale che ne deriva.
Abbiamo visto come supervisione educativa insufficiente e sensazione di
abbandono, di rifiuto e di trascuratezza emotiva, siano tutte condizioni che rendono i
bambini più vulnerabili e che incrementano il rischio che incorrano in situazioni di
abuso.
Questo avviene perché, in un contesto così povero dal punto di vista relazionale
ed emotivo per il bambino, l’adulto abusante riesce a trovare basi salde per
catalizzarne l’attenzione, la fiducia e l’attrazione nei suoi confronti, e perché, non
essendo presenti intorno al bambino figure di riferimento adulte e significative, ciò
renderà più facile l’instaurarsi di un’opzione di segretezza, che faciliterà il
perpetuarsi nel tempo dell’abuso.
La pedofilia non è da considerare solo come un male oscuro che affligge la società;
bisogna cercare di conoscerla, non per legittimarla, ma per capirla e per intervenire
alla sua radice.
Il primo passo è distruggere tutti i falsi miti riguardo alla pedofilia: non
esisteranno più il “mostro”, l’uomo nero e altri fantasmi sociali. Se le credenze
comuni nascono dalla paura che si può avere nei confronti di qualcosa, e se la paura
di solito s’incontra nel momento in cui non si conosce ciò in cui ci si imbatte, allora
conoscere la complessa realtà della pedofilia, che non si esaurisce nell’atto di
violenza ma che porta con sé ulteriori messaggi, servirà quanto meno a ridurre
l’alone di paura e ignoranza che l’avvolge.
91
Perché, per affrontare questo complesso discorso, non ci si può limitare a dire ai
propri figli di non accettare le caramelle dagli sconosciuti, come si è sempre fatto?
Semplicemente perché le denuncie non rivelano numeri elevati di casi in cui è un
estraneo l’abusante, mentre, se escludiamo alcune notizie di cronaca, mostrerebbero
maggiore frequenza di casi di incesto.
Anche quest’ultimo dato però non è realistico. Lo può dimostrare la ricerca “ Non
più vittime”, che la A.S.L. Città di Milano ha svolto nel 2002 e che ha dimostrato che
la maggioranza di abusi verificatesi sono ad opera non di sconosciuti e neppure di
genitori, ma di adulti di riferimento per i bambini.
Fine della ricerca è stato arrivare alla rilevazione del tasso di prevalenza di
vittimizzazione sessuale, subito in infanzia da un campione di studenti diciottenni,
frequentanti le classi quinte delle scuole superiori presenti nella città di Milano. Si
tratta di uno studio retrospettivo del fenomeno, che ha fornito dei dati interessanti
ponendo il problema pedofilia in primo piano.
Ciò che è stato evidenziato da questa ricerca è che il fenomeno dell’abuso sessuale
è definibile come un “fenomeno sommerso”, nascosto, taciuto. Quella che è una delle
caratteristiche principali per il verificarsi ed il perpetuarsi delle situazioni di abuso, il
silenzio, è risultata essere il motivo principale per cui l’affiorare del fenomeno,
tramite denuncia alla pubblica autorità, è limitato. Molti ragazzi e ragazze parlavano
per la prima volta della propria esperienza nel questionario somministrato nel corso
della ricerca.
È evidente che non basta più limitarsi a prevenire i propri figli dagli sconosciuti:
gli adulti abusanti non sono mai delle figure educative poco significative, anzi hanno
nelle proprie mani la piena fiducia dei bambini.
Come affrontare il problema? Rivolgendosi ai soggetti “a rischio”, alle loro
famiglie? Bisogna andare ad individuare quelle condizioni di abbandono,
trascuratezza emotiva vissute dai bambini, per sostenerle? Lo scopo è solo ridurre
l’incidenza del fenomeno? Questo è un discorso che interessa solo quelle famiglie e
quei bambini più esposti?
Se rispondessimo affermativamente a tutte queste domande, lasceremmo il
problema della pedofilia esclusivamente agli individui che direttamente ne sono
92
coinvolti: abusati, familiari e abusanti (anzi quest’ultimi sarebbero addirittura la
parte marcia, con cui non si vuole avere molto a che fare).
Ma il problema della pedofilia appartiene all’intero tessuto sociale, in quest’ultimo
è inserito e partendo da quest’ultimo è necessario intervenire.
L’abuso sessuale ai minori ha bisogno di maggiore luce, di maggiore
considerazione nella sfera di interesse sociale. È infatti questa una realtà largamente
presente e che finora è rimasta celata dietro a tabù e ad una scarsa conoscenza del
fenomeno, tutti elementi che non hanno fatto altro che creare un terreno fertile per il
suo diffondersi. L’abuso sessuale all’infanzia è l’epidemia silenziosa del nostro
secolo.
Si tratta di smuovere le trame del tessuto sociale per riportare l’abuso da una
dimensione individuale e privata ad una pubblica e collettiva. Scopo: alleviare i
diretti interessati dal peso psicologico che si accompagna alla violenza subita,
moltiplicando i punti di contatto con la comunità e riducendo le distanze; creare una
rete unita che uniformemente si divida compiti e responsabilità, una comunità che
prenda a cuore se stessa, diventando oggetto e soggetto di cambiamento.
Solo nel momento in cui l’intera società se ne farà carico, sarà possibile farvi
fronte; l’abuso sessuale è un problema sociale e come tale deve essere trattato.
Fondamentalmente si tratta di ampliare il concetto di prevenzione, per abbracciare
il concetto di promozione della salute. Mentre preveniamo l’abuso sessuale non
stiamo più difendendoci solo da qualcosa o qualcuno, ma stiamo cercando di creare
un nuovo contesto culturale, all’interno del quale prenda corpo un’educazione
all’affettività, alla sessualità e all’emotività.
Non si parlerebbe più di trattare il problema della pedofilia in ambito specialistico,
sanitario, ma in ambito quotidiano, andando ad intervenire su tutti i poli della rete:
famiglia, scuola, associazioni sportive, oratori… Ciascuno di questi ambienti deve
partire dalle proprie competenze, dalle proprie capacità e dalle proprie risorse,
potenziandole ed utilizzandole per adempiere alle responsabilità preventive cui sono
tenuti.
La figura dell’educatore professionale nasce nella prevenzione. Il lavoro
dell’educatore professionale è impregnato di prevenzione.
93
Anche in questo ambito, così particolare e specifico, la sua presenza ha senso.
Nell’ambito dell’abuso sessuale le competenze richieste sono spesso state identificate
con quelle di psicologi ed esperti del settore. Ma è giunto il momento di parlare
anche di educatori professionali.
L’educatore professionale è una figura poliedrica, con molteplici caratteristiche e
sfaccettature. Le caratteristiche principali dell’educatore sono quelle di agire
all’interno di una relazione e in un contesto di quotidianità. Riesce ad entrare nella
quotidianità delle persone e a farne parte e quindi, partendo da un punto di vista
condiviso, può conoscere a fondo la realtà in cui esse sono inserite ed eventualmente
facilitare dei cambiamenti. Attraverso la relazione, e quindi attraverso un continuo
scambio bidirezionale, riesce a non essere considerato come un esperto e quindi la
sua azione riesce a raggiungere il proprio obiettivo, perché accettata e condivisa.
Come può concretamente agire l’educatore professionale nell’ambito della
prevenzione all’abuso sessuale, così come l’abbiamo concepita finora?
Inizialmente sicuramente sarà necessaria una formazione specifica nell’ambito
della educazione alla sessualità, senza la quale difficilmente sarebbe in grado di
essere un valido aiuto.
In seguito, in un primo momento l’educatore cercherà di comprendere dall’interno
del tessuto sociale gli ambiti di vita dei bambini, quei contesti nel cui ambito si snoda
il loro intero processo di crescita. In un secondo momento l’educatore si occuperà di
individuare quali figure, presenti in questi contesti di vita, possano essere natural
helper, quelle persone cioè in grado di rivestire un ruolo di aiuto e sostegno per i
bambini. Infine con i natural helper – genitori, insegnanti, allenatori, sacerdoti ed
animatori – l’educatore instaurerà una relazione educativa all’interno di corsi di
educazione alla sessualità, dove oltre ad un passaggio di informazioni e alle nozioni
relative alla materia in questione, si assisterà ad un vero e proprio scambio e
potenziamento delle capacità comunicative, empatiche, affettive degli adulti in
questione.
Il progetto “Parole non dette”, che tra il 2000 e il 2002 ha già coinvolto 60 scuole
del territorio milanese e che si presenta come ideale mezzo di prevenzione primaria,
rivela che alcuni passi sono già stati fatti. Diverse scuole si stanno impegnando e
94
attivando per partecipare alla costruzione di una cultura diversa, più attenta ai
bambini e ai loro bisogni.
Piano a piano si sta sviluppando una sensibilizzazione della comunità sul tema e
sulle responsabilità collettive.
In conclusione la comunità sociale deve giungere alla consapevolezza di essere
contemporaneamente oggetto e soggetto di cambiamento, destinataria e allo stesso
tempo autrice del cambiamento.
95
“Allora, le voglio trasmettere una sola, ultima idea.
Me la lascia dire o no?
Finalmente!
C’è solo una cosa da fare, oggi come sempre,
gli artisti sono gli unici ad averla capita:
Non tacere mai,
a costo della vita, della reputazione , dello scandalo, del dolore.” 44
44 Cristina Comencini, “La bestia nel cuore”, 2004, Feltrinelli, Milano, pag. 114.
96
BIBLIOGRAFIA
TESTI:
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Torino;
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ARTICOLI :
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Prospettive Sociali e Sanitarie, n°9/10/11 2000;
Anna Sacchetti, Alberto Pellai, “Dossier: Pedofilia – L’abuso sessuale ai danni
dei minori pone problemi di prevenzione, di cura e repressione. Essenziale è non
confondere i piani, perché un tema sociale così complesso non può essere affrontato
con soluzioni superficiali, improvvisate e semplicistiche. L’esperienza della ASL di
Milano”, in Vivereoggi, settembre 2000;
Antonio Nappi, “Alcuni prerequisiti per l’attivazione di una cultura di rete”,
in Prospettive Sociali e Sanitarie, n°2 1999;
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Franco Floris, “La prevenzione come ricerca culturale e partecipazione”, in
Quaderni di Animazione Sociale, n°4 2003;
Gianni Garena, “Lavorare insieme nei servizi”, in Quaderni di Animazione
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Giorgio Sordelli, “Una prevenzione che sa costruire strumenti di lavoro”, in
Quaderni di Animazione Sociale, n°6/7 2004;
Maria Stella Conte, “Abusi sessuali, l’allarme sommerso – uno studente su 7
rivela violenze subite nell’infanzia”, in La Repubblica, sabato 20 novembre 2004;
Marinella Malacrea, “L’abuso sessuale all’infanzia”, in Prospettive Sociali e
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98
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Prospettive Sociali e Sanitarie, n°3 2001;
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promozione”: un paradosso solo apparente”, in Prospettive Sociali e Sanitarie,
n°15/17 2003;
Umberto Galimberti, “Pedofilia e solitudine il dramma delle famiglie”, in La
Repubblica, 24 maggio 2001;
LEGISLAZIONE:
L. 285/97, “Disposizioni per la promulgazione di diritti e di opportunità per
l’infanzia e l’adolescenza”;
Piano d’azione del Governo a favore dell’infanzia e dell’adolescenza 20002001, dicembre 1999, Roma;
Coordinamento Nazionale dei Centri e dei Servizi di prevenzione e
trattamento dell’abuso in danno ai minori, 21 marzo 1998, Roma “Dichiarazione di
consenso in tema d’abuso sessuale all’infanzia”;
Movimento Bambino, 27 agosto 1996, Stoccolma, “Il decalogo del Movimento
Bambino”;
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interventi in materia di maltrattamenti, abusi e sfruttamento sessuale dei minori
settembre 1998, “Proposte di intervento per la prevenzione e il contrasto del
fenomeno del maltrattamento”;
Delibera regionale n. 34678 del 20 febbraio 1998, “Approvazione – ai sensi
dell’art. 8, comma 10, della l.r. 11 luglio 1997 n. 31 – del regolamento di
funzionamento del dipartimento per le attività socio-sanitarie integrate delle Aziende
sanitarie locali”;
Delibera Azienda Sanitaria Locale Città di Milano n. 1962 del 30 settembre
1999, “Approvazione del Regolamento del Dipartimento ASSI dell’ASL Città di
Milano;
99
VIDEO:
“L’albero della vita - Corso di Informazione Sessuale per Bambini”, La
Repubblica, L’Espresso, 2004;
FILM:
Cristina Comencini regia, “La bestia nel cuore”.
100
GRAZIE
Questa credo sia una delle parti più lette della tesi! E allo stesso tempo una delle parti più
difficili da scrivere!
Bhè, cominciamo.
Grazie al mio papà…(quante lodi hai preso!), per aver sempre camminato avanti a me
mostrandomi il cammino. La tua perseveranza, la tua intelligenza, la tua etica, mi hanno
sempre mostrato un modo di vivere.
Grazie alla mia mamma, alla dolce e disponibile donna a cui spero di poter, anche solo in
minima parte, assomigliare nel mio futuro.
Grazie a Daniela che non smette mai di dimostrarmi il bene che mi vuole; grazie perché ci
sei sempre; grazie perché se chiudo gli occhi ci vedo anziane con la copertina sulle ginocchia di
fronte al camino a guardare insieme ai nostri nipoti vecchi album di famiglia.
Grazie a Roberto…ops! A Don Roberto perché riesci sempre ad esseremi vicino, tu presente
nei miei pensieri e preghiere e io presente nei tuoi pensieri e preghiere.
Grazie alla mia nonna per avermi cresciuta accudita, coccolata; per tutti i ricordi, gli odori
e i sapori che custodisco nel cuore; per tutti i racconti ascoltati sdraiata sul divano, con la
testa sulle tue gambe, la tua mano fra i miei capelli.
Grazie a Nicola, perché insieme siamo cresciuti “La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua
destra mi abbraccia”.
Grazie al professore Giorgio Sordelli, per avermi seguito con grande disponibilità in tutte
le tappe di stesura di questo lavoro, districando i miei complessi ragionamenti.
Grazie ai professori dell’E.S.A.E. che ci hanno guidati fino a questo punto, dedicandosi
anima e corpo alla nostra formazione di educatori professionali.
Grazie a 40 folli ragazzi che tre anni fa si sono ritrovati in quelle quattro mura; grazie
soprattutto a quelli che sono rimasti, perché con loro ho trovato il mio posto.
Grazie a Sara, Elisa, Eleonora, Anita compagne di viaggio insostituibili…vi ho detto tante
di quelle volte quanto vi voglio bene che… basta è troppo mieloso!! (ricordatevi che il don mi
ha detto che devo coltivare le amicizie che mi permettono di esprimermi in tutta me stessa…)
Grazie a Daniela S. e a Marisa perché dopo l’anno passato insieme ho inevitabilmente
legato ricordi, emozioni e insegnamenti al mio cuore.
Grazie alla Michi, una della cose più belle che sono sbocciate dal liceo.
Grazie a don Federico e a don Costantino che mi hanno pazientemente ascoltata e
accompagnata in questi anni.
Grazie alla comunità giovani, a don Giuseppe, e al gruppo educatori, perché so che mi
hanno sempre presente. (qui però devo proprio scendere nel particolare e ringraziare Ilaria,
per le sue scelte coraggiose)
Grazie a Marzia che mi ha insegnato che le cose nella vita possono cambiare…”Può forse
una distanza materiale separarci davvero dagli amici? Se desideri essere accanto a qualcuno
che ami, non ci sei forse già?”
Grazie alla Valentina P. per la sua inesauribile bontà e pazienza.
Grazie a Laura, Valentina, Simona e Beatrice che sono state sicuramente ben più di
“amiche della sorella”: compagne di viaggio, di serate, di chiacchierate.
Grazie agli amici del Santa Francesca Romana e del San Gregorio Magno, per avermi fatto
riscoprire il valore del decanato; per aver condiviso insieme la fantastica esperienza della XX
Giornata Mondiale della Gioventù a Köln (a questo punto però devo inserire anche gli amici
della Santissima Trinità).
Grazie a Francesco, che mi ha insegnato la generosità del cuore e la semplicità delle scelte.
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GRAZIE ALLA VITA
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato due stelle che, quando le apro,
io vedo e distinguo il nero dal bianco
e nell’alto del cielo il fondo stellato
e in mezzo alla folla l’uomo che io amo.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato il suono e l’abecedario,
come le parole che penso e proclamo:
figlio, madre, amico e cammino chiaro,
e la dolce voce di colui che io amo.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato la marcia dei miei piedi stanchi,
con essi ho varcato pozzanghere e spiagge,
città e deserti, montagne e pianure,
e la strada tua, la casa, il cortile.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato il cuore che vuole fuggire
quando guardo il frutto della mente umana,
quando guardo il bene lontano dal male,
quando vedo dentro il tuo sguardo chiaro.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto:
mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto;
così io distinguo la pena e la gioia,
i due elementi che fanno il mio canto,
e il canto di tutti, il mio stesso canto.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto.
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