Tocqueville - Liceo Classico Romagnosi

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Tocqueville - Liceo Classico Romagnosi
Alexis de Tocqueville
Promesse e problemi della democrazia,
in America e oltre
L’aristocrazia era già morta quando cominciai a vivere, e la democrazia non esisteva
ancora; il mio istinto non poteva dunque spingermi ciecamente né verso l’una né
verso l’altra. Abitavo in un paese che nell’arco di quarant’anni aveva tentato di tutto
senza arrestarsi definitivamente a niente (…). Facendo io stesso parte dell’antica
aristocrazia della mia patria, non avevo alcun rancore verso di essa, ed essendo
questa aristocrazia distrutta, non le portavo più alcun amore, poiché non ci si lega
fortemente che a ciò che vive. Le ero assai vicino per poterla conoscere bene,
lontano abbastanza per giudicarla spassionatamente. Direi altrettanto per la
democrazia (…). Non ne avevo, per parte mia, risentito alcuna offesa, non avevo
alcun motivo particolare di amarla né di odiarla, indipendentemente da ciò che mi
consigliasse la ragione.
(Lettera del 22 marzo 1837 a H. Reeve, traduttore delle opere di Tocqueville in inglese;
in Giuseppe Bedeschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Bari, Laterza 1996, pp. 51 – 52)
Ci sono tre uomini coi quali io vivo un poco ogni giorno:
sono Pascal, Montesquieu e Rousseau.
(Lettera a Louis de Kergolay, 10 novembre 1836)
Ho per le istituzioni democratiche un gusto di testa,
ma sono aristocratico per istinto.
(In Giuseppe Bedeschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Bari, Laterza 1996, p. 32)
mariano vezzali
liceo Romagnosi 2012
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1. La democrazia, dall’America al mondo
Nell’aprile del 1831 Alexis Charles Henri Clérel de Tocqueville, giovane
magistrato del tribunale di Versailles, si imbarca a Le Havre alla volta di New
York; lo accompagna l’amico e collega Gustave de Beaumont, e l’obiettivo
del viaggio è approfondire la conoscenza del sistema carcerario degli Stati
Uniti. Il soggiorno americano dura dal maggio 1831 al febbraio dell’anno
successivo, quando i due amici iniziano in senso inverso la traversata
atlantica. Nel corso di una permanenza protrattasi per dieci mesi, oltre che
dall’ispezione alle carceri (e i due magistrati pubblicheranno all’inizio del 1833
l’esito delle loro osservazioni nel volume Il sistema penitenziario degli Stati
Uniti e la sua applicazione in Francia), i visitatori francesi sono attirati dal
funzionamento della nuova società americana, dai suoi ritmi, dalle modalità
più libere dei rapporti interpersonali, dal ruolo della religione, dal problema
della schiavitù, insomma sono rapiti da un modo di vivere ben diverso da
quello usuale nella loro vecchia Europa.
Così, mentre Gustave de Beaumont esprime in un romanzo, Maria, o la
schiavitù negli Stati Uniti, le sue impressioni ed i suoi ricordi, Alexis de
Tocqueville mette mano ad un’opera di grande respiro, La democrazia in
America. Un primo volume, dedicato prevalentemente alla descrizione dei
poteri, dei partiti, della libertà, dei costumi e delle razze umane presenti negli
Stati Uniti, compare nel 1835 ed ottiene un successo travolgente, al punto
che ben tre sono le edizioni nello stesso anno.
Nel 1840 esce poi il secondo volume della Democrazia, accolto però in
modo molto più tiepido del primo, giunto nel frattempo all’ottava edizione: non
si tratta più, infatti, di un’opera descrittiva, perché Tocqueville, esaminando le
promesse e le incognite della democrazia in America, si sforza di prevedere
quali potranno essere, nel lungo periodo, le conseguenze e le degenerazioni
del sistema democratico, in qualsiasi luogo esso si affermi. Presentando con
largo anticipo alcune delle degenerazioni più gravi dell’attuale società di
massa, il volume costituisce invece un testo di enorme valore per gli studiosi
attuali. Indubbiamente, nel 1840 una panoramica sulle potenzialità negative
della democrazia avrebbe risposto molto bene agli intenti polemici di un
sostenitore dell’ancien régime, ma Tocqueville non è affatto un nostalgico
dell’assolutismo e, al contrario, osserva che il mondo moderno procede
inarrestabilmente verso l’eguaglianza delle condizioni tra tutti gli uomini. Se
questo processo è sicuramente più avanzato negli Stati Uniti, alla democrazia
intesa tanto dal punto di vista politico (instaurazione di un sistema
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rappresentativo) quanto dal punto di vista sociale (fine dei privilegi ed
eguaglianza tra gli uomini) tende perciò anche l’Europa:
fra le cose nuove che attirarono la mia attenzione durante il mio soggiorno negli
Stati Uniti, una soprattutto mi colpì assai profondamente, e cioè l’eguaglianza delle
condizioni. Facilmente potei constatare che essa esercita un’influenza straordinaria
sul cammino della società, dà un certo indirizzo allo spirito pubblico e una certa
linea alle leggi, suggerisce nuove massime ai governanti e particolari abitudini ai
governati. Compresi subito, inoltre, che questo fatto estende la sua influenza anche
fuori della vita politica e delle leggi e domina, oltre al governo, anche la società
civile (…). Così, a misura che studiavo la società americana, mi accorgevo che
l’eguaglianza delle condizioni era il motivo generatore di ogni fatto particolare che
in essa riscontravo, per cui tutte le mie osservazioni risalivano e approdavano a
quel fenomeno come a un punto centrale. Allora, ripensando al nostro emisfero, mi
parve distinguere qualcosa di analogo allo spettacolo offertomi dal nuovo mondo.
Anche qui l’eguaglianza delle condizioni, pur senza spingersi come negli Stati Uniti
fino all’estremo limite, vi si avvicina ogni giorno e la democrazia, che ormai regna
sovrana nelle società americane, avanza a grandi passi verso il potere anche in
Europa.
(Alexis de Tocqueville, La democrazia in America,
trad. it. Milano, Rizzoli 1992, p. 19,
Introduzione)
Tocqueville intitola dunque la sua opera La democrazia in America non
tanto per descrivere una dinamica presente in esclusiva oltre l’Atlantico,
quanto piuttosto per sorprendere un nuovo assetto sociale e politico che
dall’America è destinato a diffondersi a livello mondiale.
Verso la globalizzazione
Come la democrazia è destinata a diffondere a livello mondiale un’organizzazione
culturale, sociale e politica, allo stesso modo il capitalismo è destinato a diffondere a livello
mondiale un’organizzazione economica. Le parole che seguono provengono dal Manifesto
del 1848 scritto da Karl Marx (1818 – 1883):
la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione ed al consumo in tutti i
paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con grande rammarico
dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state
distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da
industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le
nazioni civili (…). Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del Paese, subentrano
bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei Paesi e dei climi più
lontani. All’antica autosufficienza ed all’antico isolamento locali e nazionali
subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E
come per la produzione materiale, così anche per quella intellettuale. I prodotti
intellettuali delle nazioni diventano bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza
nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e
locali si forma una letteratura mondiale. Con il rapido miglioramento di tutti gli
strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia
trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue
merci sono l’artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi,
con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari.
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2. Origini e caratteristiche delle colonie americane e degli Stati
Uniti
Descrivendo la nascita delle colonie americane, Tocqueville parte dalla
scoperta del nuovo continente all’inizio dell’età moderna e rileva acutamente
le peculiarità di una nuova terra offerta all’umanità ormai civilizzata:
quando la terra fu data agli uomini dal Creatore, era giovane e inesauribile, ma gli
uomini erano deboli e ignoranti; quando impararono a trar partito dai tesori che
essa nascondeva, essi ne coprivano ormai la faccia e presto dovettero combattere
per avere il diritto di possedervi un asilo e vivervi liberamente. Allora fu scoperta
l’America del Nord, come se Iddio l’avesse tenuta in serbo, come se emergesse
proprio allora dalle acque del diluvio. Essa offre, come ai primi tempi della
creazione, fiumi la cui sorgente non si esaurisce mai, campi senza fine non ancora
toccati dalla vanga del lavoratore. In questo stato essa si offre non all’uomo isolato,
ignorante e barbaro dei primi tempi, ma all’uomo civile, padrone dei segreti della
natura, unito ai suoi simili, istruito da un’esperienza di cinquanta secoli.
(Ivi, p. 283; dal capitolo
“Cause principali che contribuiscono alla conservazione
della repubblica democratica degli Stati Uniti”)
La colonizzazione dell’America prosegue nel corso dell’epoca moderna e,
continua Tocqueville,
nel momento in cui scrivo, tredici milioni di europei si diffondono tranquillamente
per fertili deserti di cui essi stessi non conoscono ancora esattamente l’estensione
e le risorse. Tre o quattromila militari spingono innanzi a sé la razza errante degli
indigeni, dietro agli uomini armati avanzano i boscaioli, che tagliano le foreste,
respingono le bestie feroci, esplorano il corso dei fiumi e preparano la marcia
trionfale della civiltà attraverso il deserto. (…) L’europeo che sbarca negli Stati Uniti
vi arriva senza amici né risorse di alcun genere ed è obbligato, per vivere, a offrire i
suoi servigi; sicché raramente egli oltrepassa la grande zona industriale che si
stende lungo l’oceano. Non è possibile dissodare il deserto senza un capitale o
senza credito; inoltre, prima di arrischiarsi in mezzo alle foreste, bisogna che il
corpo si sia abituato ai rigori di un clima nuovo. Sono dunque gli americani che
abbandonano quotidianamente il luogo in cui sono nati per andare a crearsi lontano
vasti domini. Perciò, mentre l’europeo abbandona la sua capanna per andare a
stabilirsi sulle rive transatlantiche, l’americano, nato su queste coste, si porta a sua
volta nelle solitudini dell’interno del continente. Questo doppio movimento
migratorio non si arresta mai: esso comincia nel fondo dell’Europa, continua
sull’oceano, prosegue attraverso le solitudini del nuovo mondo.
(Ibidem)
Proprio nella genesi delle colonie Tocqueville riconosce il rilievo che
l’eguaglianza acquisirà sempre più nella storia successiva del continente
nordamericano:
tutte le colonie europee contenevano, se non lo sviluppo, almeno il germe di una
completa democrazia. Due cause portavano a questo risultato: si può dire che, in
generale, alla loro partenza dalla madre patria, gli emigranti non avevano alcuna
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idea di una qualunque superiorità degli uni sugli altri. Non sono i potenti e i felici
che vanno in esilio, e la povertà, come le disgrazie, sono i migliori fattori di
eguaglianza fra gli uomini. Tuttavia è avvenuto che a parecchie riprese grandi
signori siano passati in America in seguito a lotte politiche o religiose. Si fecero
allora delle leggi per stabilirvi la gerarchia delle classi, ma presto si comprese che il
suolo americano respingeva assolutamente l’aristocrazia terriera. Si vide che per
dissodare quella terra ribelle occorrevano gli sforzi costanti e interessati del
proprietario stesso; poiché i prodotti di un fondo non erano bastanti per arricchire
un padrone e un contadino, il terreno si spezzettò naturalmente in piccole proprietà
coltivate dal proprietario stesso. Ora è sulla terra che fa presa l’aristocrazia: essa
non si costituisce soltanto per privilegio o per nascita ma deriva dalla proprietà
fondiaria trasmessa ereditariamente. Una nazione può presentare immense fortune
e grandi miserie; ma se queste fortune non sono territoriali, in essa si vedranno
bensì poveri e ricchi, ma non vi sarà un’aristocrazia propriamente detta.
(Ivi, p. 43; dal capitolo
“L’origine degli angloamericani e l’influenza che essa ha avuto sul loro avvenire”)
Due civiltà a confronto
Appena una popolazione europea comincia ad approssimarsi al territorio abitato da
una nazione selvaggia, il governo degli Stati Uniti invia comunemente a questa
un’ambasciata solenne; i bianchi radunano gli indiani in una grande pianura e, dopo
aver mangiato e bevuto con loro, dicono: “(…) La contrada che voi abitate è forse
meglio di un’altra? Solo qui forse vi sono boschi, paludi e praterie? Al di là di
queste montagne che voi vedete all’orizzonte, al di là di questo lago che limita
all’Ovest il vostro territorio, vi sono tante contrade in cui le bestie selvatiche sono
ancora numerose; vendeteci le vostre terre e andate a vivere felici in quei luoghi”.
Dopo aver tenuto questo discorso, i bianchi mostrano agli indiani armi da fuoco,
vestiti di lana, barili di acquavite, collane di vetro, braccialetti di stagno, orecchini e
specchi. Se alla viste di tutte queste ricchezze essi esitano ancora, i bianchi fanno
loro osservare che non potranno rifiutare il loro consenso e che quanto prima lo
stesso governo americano sarà impotente a garantire il godimento dei loro diritti.
Che fare? Mezzo convinti e mezzo costretti, gli indiani si allontanano e vanno ad
abitare nuovi territori dove i bianchi non li lasceranno in pace nemmeno per dieci
anni. (…)
Gli indiani dell’America del Nord non avevano che due vie per salvarsi:
la guerra o la civiltà; in altri termini essi avrebbero dovuto
o distruggere gli europei o divenire loro eguali.
(Ivi, pp. 324 – 325; dal capitolo
“Considerazioni sullo stato attuale e sull’avvenire delle tre razze
che abitano il territorio degli Stati Uniti”)
3. Problemi dell’eguaglianza: individualismo, tirannide della
maggioranza, dispotismo paterno
Se per un verso approva il cammino verso l’eguaglianza di tutti gli uomini,
non più sudditi ma cittadini, Tocqueville non si nasconde, come detto, le
possibili implicazioni negative di questa dinamica:
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ci si meraviglierà forse che, pur essendo fermamente persuaso che la rivoluzione
democratica di cui siamo testimoni è un fenomeno irresistibile contro cui non
sarebbe desiderabile né prudente lottare, io abbia spesso in questo libro rivolto
parole tanto severe alle società democratiche sorte da questa rivoluzione.
Risponderò semplicemente che, appunto perché non sono un avversario della
democrazia, ho voluto essere sincero verso di essa. Gli uomini non accettano la
verità quando è loro detta dai nemici, mentre gli amici non gliela espongono; perciò
l’ho detta io. Ho pensato che molti s’incaricano di annunciare i nuovi beni promessi
agli uomini dall’eguaglianza, ma che pochi oseranno mostrare da lontano i pericoli
di cui essa li minaccia. E perciò ho diretto lo sguardo principalmente verso questi
pericoli e, avendoli scoperti chiaramente, non ho avuto la viltà di tacerli.
(Ivi, p. 420;
dall’ “Avvertenza dell’Autore”
in apertura al secondo tomo dell’opera)
In particolare, l’eguaglianza (e quindi la democrazia) è esposta a due
degenerazioni, una è palese e facilmente contrastabile, l’altra occulta ed
operante sulla lunga distanza:
l’eguaglianza produce effettivamente due tendenze: una che conduce direttamente
gli uomini all’indipendenza e può spingerli improvvisamente all’anarchia; l’altra che
li conduce per un cammino più lungo e nascosto, verso la servitù. I popoli vedono
facilmente la prima e le oppongono resistenza; si lasciano trascinare dall’altra
senza vederla; rivelarla è quindi particolarmente importante.
(Ivi, p. 705; dal capitolo
“L’eguaglianza ispira naturalmente agli uomini il gusto delle istituzioni libere”)
La degenerazione più pericolosa della democrazia, quella che la espone
ad una servitù di tipo nuovo, si annida nel fatto che la società perde i suoi
caratteri solidaristici ed organici, con il venir meno delle dipendenze
personali tipiche delle età antica e medievale, e si frammenta così in
singolarità autonome e spesso reciprocamente conflittuali:
presso i popoli democratici (…) la trama del tempo si spezza ogni momento e la
traccia delle generazioni scompare. Si dimenticano facilmente quelli che hanno
preceduto e non si ha alcuna idea di quelli che seguiranno. Solo i vicini interessano.
(…) L’aristocrazia aveva fatto di tutti i cittadini una lunga catena, che andava dal
contadino al re; la democrazia spezza la catena e mette ogni anello da parte. A
mano a mano che le condizioni si eguagliano, si trovano sempre più individui che,
pur non essendo più abbastanza ricchi e potenti da esercitare una grande influenza
sui loro simili, tuttavia hanno acquistato o hanno conservato abbastanza cultura e
beni per poter bastare a se stessi. Costoro non debbono nulla a nessuno e non
aspettano, per così dire, nulla da nessuno; si abituano quindi a considerarsi sempre
isolatamente e immaginano volentieri di aver interamente in mano il proprio destino.
Perciò la democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo gli avi, ma gli nasconde i
discendenti e lo separa dai contemporanei: lo riconduce continuamente verso se
stesso e minaccia di rinchiuderlo tutto intero nella solitudine del proprio cuore.
(Ivi, pp. 515 – 516;
dal capitolo “L’individualismo nei Paesi democratici”)
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Considerato equivalente a tutti i suoi simili e rimasto privo di relazioni
costitutive, ciascun individuo rischia di chiudersi nel cerchio ristretto dei suoi
interessi di corto respiro, perdendo così ogni tensione alla grandezza ed
all’universalità. Tocqueville considera l’individualismo una minaccia per la
democrazia e lo definisce
un sentimento riflessivo e tranquillo, che dispone ogni cittadino ad isolarsi dalla
massa dei suoi simili, a mettersi da parte con la sua famiglia ed i suoi amici.
(Ibidem)
La Democrazia in America e L’antico regime e la rivoluzione
Abbandonata ben presto la magistratura, Tocqueville viene eletto deputato nel 1839 e nel
1841 diviene membro dell’Académie française. Deputato all’Assemblea costituente seguita
alla rivoluzione del febbraio 1848, che aveva rovesciato la monarchia di Luigi Filippo
d’Orléans, nella primavera del 1849 diviene ministro degli esteri della nuova repubblica
presidenziale francese di Luigi Napoleone. Quando Luigi Napoleone, con il colpo di Stato
del 2 dicembre 1851, si impadronisce del potere e fonda il secondo impero assumendo il
nome di Napoleone III, Tocqueville lascia la politica attiva e torna agli studi. In particolare,
si dedica ad un’opera di vasto respiro dal titolo L’antico regime e la rivoluzione, di cui nel
1856 esce il primo volume ma che sarebbe rimasta incompiuta. L’Autore osserva che i due
sistemi politici, quello assolutistico e quello uscito dalla rivoluzione, rivelano un elemento di
continuità nella centralizzazione del potere e nel primato dell’eguaglianza sulla libertà: e
proprio dell’ideale della libertà il decennio 1789 – 1799 rivela la degenerazione:
la rivoluzione francese propriamente detta (…) comprendeva due parti di durata assai
ineguale e di natura differentissima. La prima era circoscritta al 1789, e anzi poteva dirsi
conclusa, al più tardi, con le giornate di ottobre: era la rivoluzione della libertà, compiuta
dalla nazione contro il dispotismo; essa culminava nella convocazione degli Stati generali,
nello sbocciare di un nuovo spirito pubblico nazionale, nella Dichiarazione dei diritti
dell’uomo. Tocqueville la amava e la descriveva come uno spettacolo di incomparabile
bellezza. Tutto l’opposto per quanto riguardava la seconda, trattandosi della rivoluzione
dell’odio tra le classi e dell’eguaglianza a scapito della libertà; essa occupava un periodo
assai più lungo, dall’autunno del 1789 (…) all’autunno del 1799.
(François Furet, Dizionario critico della rivoluzione francese, 1988;
trad. it. Milano, Bompiani 1988, p. 993, voce Tocqueville)
Riportando il pensiero di Tocqueville, François Furet si riferisce ad un momento
fondamentale del primo periodo della rivoluzione, quando fra il 5 ed il 6 ottobre 1789 un
corteo di donne, esasperate dalle persistenti difficoltà economiche e dalla crisi del mercato
del lavoro, costrinse il re a lasciare la reggia di Versailles ed a tornare a Parigi, al palazzo
delle Tuileries: la libertà perde il ruolo primario nella rivoluzione, a vantaggio
dell’eguaglianza.
La degenerazione del 1789, dalla libertà verso l’eguaglianza (…) costituiva l’illustrazione di
quella verità generale, elaborata nella seconda parte della Democrazia in America, essere la
passione dell’eguaglianza più facilmente accessibile, e d’altronde più universale, di quella
della libertà.
(François Furet, op. cit., p. 994)
I cittadini liberi, eguali ed isolati l’uno dall’altro, possono progressivamente
cedere alle tentazioni della gregarietà e del conformismo nei confronti delle
idee generali, delle opinioni comuni, dei “si dice”. In modo impercettibile, per
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questa via, può nascere e consolidarsi una nuova tirannide, una tirannide
della maggioranza:
l’opinione comune non è soltanto l’unica guida rimasta alla ragione individuale
presso i popoli democratici, ma ha anche presso questi popoli un potere
infinitamente più grande che presso tutti gli altri. Nei tempi di eguaglianza, infatti, gli
uomini non hanno più alcuna fede gli uni negli altri a causa della reciproca
somiglianza, ma questa somiglianza dà loro una fiducia quasi illimitata nell’opinione
pubblica: poiché non sembra loro verosimile che, avendo tutti un’eguale cultura, la
verità non si trovi dalla parte della maggioranza. (…) Quella stessa eguaglianza, che
rende l’uomo indipendente da ogni concittadino, lo abbandona isolato e senza
difesa all’azione della maggioranza. Presso i popoli democratici il pubblico ha
dunque una singolare potenza di cui le nazioni aristocratiche non potevano
nemmeno farsi un’idea. Esso non diffonde le sue credenze con la persuasione, ma
le impone e le fa penetrare nelle anime per mezzo di un’immensa pressione dello
spirito di tutti sull’intelligenza di ognuno.
(Ivi, p. 429; dal capitolo
“La fonte principale delle credenze presso i popoli democratici”)
La tirannide della maggioranza è una forma di dominio che la società
esercita sui suoi membri e quindi, in qualche modo, su se stessa, ma
Tocqueville ipotizza anche un nuovo dispotismo, quindi una nuove ed inedita
struttura politica, che potrebbe egemonizzare le società dell’eguaglianza.
Dato che la società sarebbe già di per sé caratterizzata da comportamenti
omologati, e perciò facilmente prevedibili e controllabili, il nuovo dispotismo
potrebbe presentarsi con le fattezze rassicuranti del tutore. E su questo
dispotismo paterno Tocqueville scrive:
se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo,
vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri
piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da
parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli ed i suoi amici formano
per lui tutta la specie umana. (…) Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e
tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’
assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe
all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla
virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente all’infanzia, ama che i
cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro
benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore; provvede alla loro
sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali
affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non
potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?
(Ivi, pp. 732 – 733; dal capitolo
“Quale specie di dispotismo devono temere le nazioni democratiche”)
L’emergere di un nuovo dispotismo come possibile corruzione intrinseca
della democrazia costituisce una prospettiva inquietante, tanto più se si
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pensa che la democrazia si era affermata proprio nel rifiuto e nel
sovvertimento dell’assolutismo, assimilato ad un potere, appunto, dispotico.
Il razzismo come controspinta reattiva alla libertà ed all’eguaglianza
Individuando le possibili degenerazioni della democrazia, fondata sui valori diversi,
spesso complementari ed a volte antitetici, della libertà e dell’eguaglianza, Tocqueville ha
anticipato alcuni degli scenari problematici del Novecento; ma gli è stato possibile anche
cogliere quella che si potrebbe definire una controspinta reattiva alla politica moderna. Egli
fu infatti amico del diplomatico e scrittore Joseph De Gobineau (1816 – 1882), che nel
1853 – 1855 pubblicò il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, opera che influenzò
il razzismo europeo e, da ultimo, il nazismo. Nello scambio di lettere tra i due personaggi,
Tocqueville si oppose alle idee di Gobineau con argomentazioni che rivelano una
consapevolezza critica della modernità e del suo progetto culturale e politico:
il secolo scorso aveva una fiducia esagerata e un po’ puerile nel potere che l’uomo può
esercitare su se stesso e in quello che i popoli possono esercitare sul proprio destino. Era
l’errore del tempo, nobile errore dopo tutto, che, se ha fatto commettere molte sciocchezze,
ha fatto anche fare cose grandissime, a paragone delle quali i posteri giudicheranno noi
molto piccoli. La stanchezza delle rivoluzioni, la noia delle emozioni, l’abortire di tante idee
generose e di tante vaste speranze ci hanno precipitato ora nell’eccesso opposto. Dopo
aver creduto di poterci trasformare, ci crediamo incapaci di poterci riformare, dopo aver
avuto un eccessivo orgoglio, siamo caduti in un’umiltà non meno eccessiva; abbiamo
creduto di potere tutto, crediamo oggi di non potere nulla e ci piace abbandonarci al
pensiero che la lotta e lo sforzo siano ormai inutili, e che il nostro sangue, i nostri muscoli e
i nostri nervi saranno sempre più forti della nostra volontà e della nostra virtù. E’ proprio
questa la grande malattia del tempo, malattia del tutto opposta a quella dei nostri genitori. Il
vostro libro, in qualsiasi modo accomodiate le cose, la favorisce invece di combatterla:
esso, contro la vostra volontà, spinge alla mollezza l’animo dei vostri contemporanei già
troppo molle. (…) Quale interesse ci può essere a persuadere dei popoli vili, che vivono
nella barbarie, nella mollezza o nella schiavitù, che, essendo tali per la natura delle loro
razze, non possono fare nulla per migliorare la loro condizione, cambiare i loro costumi o
modificare il loro governo? Non vedete che dalla vostra dottrina derivano tutti i mali che
l’ineguaglianza permanente produce, l’orgoglio, la violenza, il disprezzo dei propri simili, la
tirannia e l’abiezione sotto tutte le forme?
(Tocqueville – Gobineau, Del razzismo – Carteggio 1843 – 1849, Roma, Donzelli 1995;
lettera a Gobineau, 20 dicembre 1853)
Vi confesso che dopo aver letto la vostra opera, io resto, come prima, all’estremo opposto
di queste dottrine. Le credo molto verosimilmente false e, con assoluta certezza,
perniciose. E’ certo che vi sono, in ciascuna delle differenti famiglie che compongono la
razza umana, certe tendenze, certe attitudini proprie, che provengono da un’infinità di
cause diverse. Ma che queste tendenze, che queste attitudini siano invincibili, non soltanto
non è mai stato provato, ma di per se stesso non è provabile, perché per provarlo
bisognerebbe avere a propria disposizione non soltanto il passato ma anche l’avvenire.
Sono sicuro che Giulio Cesare, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe scritto volentieri un
libro per provare che i selvaggi che aveva incontrato nell’isola di Gran Bretagna non erano
affatto della stessa razza umana alla quale appartenevano i romani, e che, mentre questi
erano destinati dalla natura a dominare il mondo, gli altri erano destinati a vegetare in un
angolo di quello stesso mondo.
(Tocqueville – Gobineau, trad. it. cit., lettera a Gobineau, 17 novembre 1853)
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4. L’eguaglianza come opportunità: partecipazione politica,
consapevolezza della persona, apertura degli orizzonti
Questa possibile metamorfosi della democrazia in dispotismo (tirannide
della maggioranza e dispotismo paterno) risulta però tanto meno minacciosa
quanto più all’interno delle società democratiche gli uomini sviluppano una
partecipazione alla vita associata, si riuniscono, fanno progetti, creano
iniziative. Da questo punto di vista, Tocqueville ammira il modo di fare degli
americani, e lo indica come antidoto per tutti i popoli che giungeranno
progressivamente alla democrazia:
gli americani di ogni età, di ogni condizione, di ogni tendenza, si uniscono
continuamente. Essi non hanno solamente associazioni commerciali e industriali
cui tutti prendono parte, ma anche di mille altre specie: religiose, morali, serie, futili,
generali, particolari, grandissime e piccolissime; gli americani si associano per
organizzare feste, fondare seminari, costruire alberghi, fabbricare chiese, diffondere
libri, inviare missionari agli antipodi, come per fondare ospedali, prigioni, scuole.
(…) Ovunque, alla testa delle iniziative nuove, allo stesso modo che in Francia
troverete il governo e in Inghilterra qualche grande signore, in America troverete le
associazioni. (…) La prima volta che ho inteso dire negli Stati Uniti che ben
centomila uomini si erano impegnati a non far uso di bevande alcoliche, la cosa mi
è sembrata più divertente che seria, e da principio non comprendevo perché questi
cittadini così temperanti non si contentavano di bere acqua nell’intimità delle loro
famiglie. Ma poi ho finito per comprendere che questi centomila americani,
preoccupati dei progressi che faceva intorno a loro l’ubriachezza, erano sorti in
difesa della sobrietà e avevano agito esattamente come un grande signore che si
vestisse in modo semplice per ispirare ai cittadini il disprezzo del lusso. E’ da
credere che, se questi centomila uomini fossero stati francesi, ognuno di essi si
sarebbe rivolto individualmente al governo per pregarlo di sorvegliare tutte le
osterie del regno.
(Ivi, pp. 523 – 526, con molti tagli; dal capitolo
“L’uso che gli americani fanno dell’associazione”
Oltre alla pratica dell’associazione e dell’iniziativa politica da parte dei
cittadini associati, per scongiurare la prospettiva dell’individualismo e dei
connessi pericoli di dispotismo è essenziale che nelle società democratiche si
consolidino posizioni culturali ed in senso lato educative capaci di praticare e
diffondere un’immagine autentica della persona. In controtendenza, quindi,
alla visione ridotta e caricaturale che tende a darne l’individualismo, il
soggetto umano potrebbe così recuperare la piena coscienza del suo reale
spessore, e con questo anche la sua ambizione ed il suo orgoglio:
credo che ai nostri giorni sia necessario purificare, regolare, proporzionare il
sentimento dell’ambizione, ma che sarebbe molto pericoloso volerlo impoverire e
comprimere oltre misura. (…) Mi sembra meno temibile per le società democratiche
l’audacia che la mediocrità dei desideri; ciò che mi sembra più pericoloso è che, in
mezzo alle piccole ed incessanti occupazioni della vita privata, l’ambizione perda il
suo slancio e la sua grandezza. (…) I moralisti lamentano continuamente che il
peccato favorito della nostra epoca sia l’orgoglio. Ciò è vero in un certo senso, in
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quanto non vi è nessuno che non creda effettivamente di valere più del suo vicino,
ma è falso in un altro senso, poiché questo stesso uomo, che non può sopportare la
subordinazione né l’eguaglianza, disprezza se stesso al punto che si crede di
essere fatto solo per gustare piaceri volgari. Si ferma volentieri in desideri mediocri,
senza osare di intraprendere grandi iniziative: le immagina appena. Lontano,
dunque, dal credere che occorra raccomandare ai nostri contemporanei l’umiltà,
vorrei che ci si sforzasse di dare loro un’idea più vasta di se stessi e della loro
specie; l’umiltà non è sana per loro; ciò che loro manca di più è, a mio avviso ,
l’orgoglio. Cambierei volentieri molte nostre piccole virtù con questo vizio.
(Ivi, p. 663; dal capitolo
“Perché vi sono negli Stati Uniti tanti ambiziosi e sono così rare le grandi ambizioni”)
La seconda parte della Democrazia in America, proiettata nell’indagine
delle future possibili corruzioni delle società democratiche ed egualitarie, non
si conclude perciò nella condanna della democrazia in quanto tale, ma nel
riconoscimento della responsabilità dei gruppi umani e degli Stati che, spinti
da un irresistibile movimento della storia nella democrazia e nell’eguaglianza,
dovranno adeguatamente attrezzarsi per evitarne le possibili degenerazioni:
le nazioni del nostro tempo non potrebbero far sì che nel loro interno le condizioni
non siano eguali, ma dipende da esse che l’eguaglianza le conduca alla servitù o
alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria.
(Ivi, p. 747; dal capitolo conclusivo “Sguardo generale”)
L’eguaglianza può condurre le società umane alla civiltà ed alla prosperità,
ma può anche spingerle sulla china della servitù e della barbarie.
Presentando dunque gli ideali di una politica moderna tesa a superare un
assetto tradizionale non più rispondente a mutate sollecitazioni culturali,
sociali ed economiche, la riflessione di Tocqueville condivide questi ideali
senza nascondere i rischi degenerativi impliciti nella loro traduzione pratica
ed istituzionale.
Libertà e religione
Quando presso un popolo la religione è distrutta, il dubbio di impadronisce delle parti più
elevate dell’intelligenza e semiparalizza tutte le altre. Ognuno si abitua ad avere nozioni
confuse e mutevoli sulle materie che più interessano se stesso ed i suoi simili; ognuno
difende male le proprie opinioni e le abbandona e, poiché dispera di poter risolvere da solo
i più grandi problemi del destino umano, si riduce a non pensarci affatto. Un simile stato di
cose indebolisce le anime, attenta al vigore della volontà e prepara i cittadini alla servitù.
Non solo avviene allora che questi si lasciano portare via la libertà, ma spesso che
l’abbandonano. Quando non esiste più autorità in materia di religione come in materia
politica, gli uomini si spaventano di fronte a questa indipendenza illimitata. Questa perpetua
agitazione li inquieta e li stanca. Poiché tutto si agita nel mondo dell’intelligenza, essi
vogliono almeno che tutto sia fermo e stabile nell’ordine materiale e, non potendo
riprendere l’antica fede, si danno un padrone. Per parte mia, credo che l’uomo possa mal
sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un’intera libertà politica e sono
portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda.
(Ivi, p.438; dal capitolo
“Come negli Stati Uniti la religione sa servirsi dell’istinto democratico”)
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Movimento e stasi
Via via che esamino più da vicino i bisogni e gli istinti dei popoli democratici, mi
persuado che, se l’eguaglianza arriverà a stabilirsi in modo generale e permanente nel
mondo, le grandi rivoluzioni intellettuali e politiche diverranno molto più difficili e rare di
quanto si suppone generalmente. Siccome gli uomini delle democrazie sembrano sempre in
moto, incerti, ansanti, pronti a mutare di volontà e di posto, ci si immagina che essi
vorranno abolire improvvisamente le loro leggi, adottare nuove fedi e assumere nuovi
costumi. Non si pensa affatto che l’eguaglianza, se porta gli uomini ai mutamenti,
suggerisce nondimeno a loro interessi e gusti che hanno bisogno di stabilità per essere
soddisfatti; essa li spinge e nel tempo stesso li ferma, li sprona e li attacca a terra, infiamma
i loro desideri e limita le loro forze. (…) Se i cittadini continuano a rinchiudersi sempre più
strettamente nella cerchia dei piccoli interessi domestici e ad agitarsi senza riposo, si può
temere che essi finiscano per diventare quasi inaccessibili alle grandi e potenti passioni
politiche, che turbano i popoli, ma che li sviluppano e li rinnovano. Quando vedo la
proprietà divenire tanto mobile e l’amore della proprietà così inquieto e ardente, non posso
non temere che gli uomini giungano al punto di vedere ogni nuova teoria come un pericolo,
ogni innovazione come un turbamento noioso, ogni progresso sociale come un passo
verso una rivoluzione e che rifiutino interamente di muoversi per timore di essere trascinati.
Io temo, lo confesso, che essi si lascino infine dominare da un fiacco amore per i beni
presenti, che l’interesse per il loro avvenire e per quello dei loro discendenti scompaia e
che preferiscano seguire pigramente il corso del loro destino più che fare, all’occorrenza,
uno sforzo energico e improvviso per rimetterlo sulla giusta via.
Si crede generalmente che le società nuove tendano a mutare di faccia ogni giorno; per
parte mia, ho paura che finiscano per essere troppo invariabilmente fissate nelle stesse
istituzioni, negli stessi pregiudizi, negli stessi costumi; in modo che il genere umano si
fermi e si limiti; che lo spirito si pieghi e si ripieghi eternamente su se stesso, senza
produrre idee nuove; che l’uomo si esaurisca in movimenti solitari e sterili e che, pur
muovendosi continuamente, l’umanità non avanzi più.
(Ivi, pp. 676 – 677; dal capitolo
“Perché le grandi rivoluzioni diverranno rare”)
Un’immagine di Filadelfia che, al tempo del viaggio di Tocqueville, era la seconda città degli Stati
Uniti con circa 160.000 abitanti, dopo New York con circa 200.000.
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Teoria e pratica
Se la democrazia non porta gli uomini a coltivare le scienze per se stesse, d’altra parte
aumenta immensamente il numero di coloro che le coltivano. (…) Questi stessi americani,
che non hanno scoperto una sola delle leggi generali della meccanica, hanno introdotto
nella navigazione una macchina nuova che cambia la faccia del mondo. (…)
“Walk in the Water”
Her tonnage was 338 tons, her length 135 feet.
She was the first steamer on Lake Erie. Built in 1818
at Black Rock, near Buffalo, served on the upper lakes.
La diseguaglianza permanente delle condizioni porta gli uomini a rinchiudersi nella
ricerca orgogliosa e sterile delle verità astratte, mentre lo stato sociale e le istituzioni
democratiche li dispongono a domandare alle scienze solo applicazioni immediate e utili.
(…) Ai nostri giorni occorre trattenere lo spirito umano nella teoria, alla pratica esso corre
da se stesso e, invece di ricondurlo incessantemente verso l’esame dettagliato degli effetti
secondari, è opportuno qualche volta distrarlo, per elevarlo alla contemplazione delle cause
prime.
Perché la civiltà romana è morta in seguito all’invasione dei barbari, siamo forse troppo
inclini a credere che la civiltà non potrebbe morire in altro modo. Se la civiltà che ci illumina
venisse a spegnersi, si oscurerebbe a poco a poco e quasi da se stessa. A forza di
rinchiudersi nelle applicazioni, si perderebbero di vista i princìpi e, quando si fossero
completamente dimenticati questi, (…) si impiegherebbero senza intelligenza e senza arte
sapienti procedimenti che non si comprenderebbero.
Quando gli europei approdarono trecento anni fa in Cina, vi trovarono quasi tutte le arti
arrivate a un certo grado di perfezione e si stupirono che, essendo arrivate a quel punto,
non avessero più progredito. Successivamente scoprirono le vestigia di alcune vecchie
cognizioni che s’erano perdute: la maggiorparte delle applicazioni scientifiche si era
conservata, ma la scienza non esisteva più. Ciò spiegò loro la natura della strana
immobilità, nella quale avevano trovato lo spirito di questo popolo. I cinesi, seguendo le
orme dei loro padri, avevano dimenticato le ragioni che li avevano diretti, si servivano
ancora della formula senza ricercarne il senso, custodivano lo strumento ma non
possedevano più l’arte di modificarlo e di riprodurlo; essi non potevano dunque cambiare
nulla, dovevano rinunciare a migliorare, erano costretti ad imitare sempre e in tutto i loro
padri (…). La sorgente delle conoscenze umane era pressoché inaridita e il fiume, sebbene
scorresse ancora, non poteva più ingrossare le sue onde o mutare il suo corso. Tuttavia la
Cina sussisteva tranquillamente da secoli, i suoi conquistatori avevano preso i suoi
costumi, l’ordine vi regnava, un certo benessere materiale si scorgeva da ogni parte, le
rivoluzioni vi erano rarissime, la guerra sconosciuta.
Non bisogna, dunque, sentirsi sicuri al solo pensiero che i barbari sono ancora lontani
da noi perché, se vi sono dei popoli che si lasciano togliere di mano la civiltà, ve ne sono
altri che la soffocano essi stessi sotto i loro piedi.
(Ivi, pp. 461 – 462; dal capitolo
“Perché gli americani si attengono più alla pratica delle scienze che alle teorie”)
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Rossi, neri, bianchi
Mi ricordo che, percorrendo le foreste che coprono ancora lo stato dell’Alabama, giunsi un
giorno vicino alla capanna di un pioniere. (…) Mentre mi trovavo in quel luogo vi giunse
un’indiana (ci trovavamo allora vicino al territorio occupato dalla nazione dei Creek), che
teneva per mano una bambina di cinque o sei anni, appartenente alla razza bianca, che
supposi essere la figlia del pioniere. Una negra li seguiva. Si notava nel costume
dell’indiana una specie di lusso barbarico: dalle sue narici e dai suoi orecchi pendevano
anelli di metallo, i suoi capelli, mescolati a grani di vetro, cadevano liberamente sulle sue
spalle; vidi che essa non era sposata, perché portava ancora la collana di conchiglie che le
vergini usano deporre sul letto nuziale; la negra invece era vestita con abiti europei quasi a
brandelli. Esse vennero a sedersi tutte e tre (…) e la giovane selvaggia prendeva la bambina
sulle braccia, le prodigava carezze che potevano sembrare materne; la negra, per parte sua,
cercava di attirare l’attenzione della piccola con mille innocenti artifici. La bambina
mostrava nei suoi minimi movimenti un sentimento di superiorità che contrastava
stranamente con la sua debolezza e la sua età; si sarebbe detto che essa usasse una certa
condiscendenza nel ricevere le cure delle sue compagne. Accoccolata davanti alla
padroncina, spiando ogni suo desiderio, la negra sembrava divisa tra un attaccamento
quasi materno e un timore servile; mentre nell’effusione della selvaggia regnava un’aria
libera, fiera, quasi feroce. Mi ero nel frattempo avvicinato e contemplavo silenzioso quello
spettacolo, ma la mia curiosità dispiacque all’indiana che si alzò bruscamente, spinse
lontano la bambina con una certa rudezza, e lanciandomi uno sguardo irritato si nascose
nel bosco. Mi era accaduto spesso di vedere riuniti negli stessi luoghi individui
appartenenti alle tre razze che popolano l’America, e avevo già notato mille diversi effetti
della preponderanza dei bianchi; ma nel quadro che ho descritto vi era qualcosa di
particolarmente toccante: un legame di affetto riuniva gli oppressi agli oppressori e la
natura, sforzandosi di avvicinarli, rendeva più evidente ancora lo spazio immenso che i
pregiudizi e le leggi avevano messo tra loro.
(Ivi, pp. 318 – 319; dal capitolo
“Considerazioni sullo stato attuale e sull’avvenire
delle tre razze che abitano il territorio degli Stati Uniti”)
La tirannide europea, indebolendo fra gli indiani il sentimento di patria, disperdendo le loro
famiglie, oscurando le loro tradizioni, interrompendo la catena dei ricordi, modificando le
loro abitudini ed accrescendo oltre misura i loro bisogni, li ha resi più disordinati e meno
civili di quel che non fossero prima. La condizione morale e lo stato fisico di quei popoli
sono peggiorati di pari passo ed essi sono divenuti più barbari via via che divenivano più
sfortunati. Tuttavia gli europei non hanno potuto interamente modificare il carattere degli
indiani; essi sono riusciti a distruggerli, non a sottometterli o a civilizzarli. Mentre il negro è
posto al limite estremo della servitù, l’indiano è al limite estremo della libertà. La schiavitù
non produce tra i primi effetti più funesti che l’indipendenza tra i secondi. (Ivi, p. 317)
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Non solo elezioni
La democrazia in Tocqueville e in Amartya Sen
Gli americani hanno combattuto per mezzo della libertà l’individualismo che
l’eguaglianza fa nascere e l’hanno vinto. I legislatori dell’America non hanno
creduto che per guarire una malattia così funesta, ma così naturale al corpo sociale
nei tempi democratici, bastasse accordare alla nazione intera una rappresentanza,
ma hanno pensato che convenisse dare una vita politica a ogni parte del territorio,
così da moltiplicare all’infinito per i cittadini le occasioni di agire insieme e per far
loro sentire ogni giorno che dipendono gli uni dagli altri. Ciò è stato molto saggio.
(p. 520; le sottolineature non sono nel testo originale)
La centralità della riflessione pubblica nella concezione della giustizia dovrebbe
essere chiara fin dai primi capitoli di questo libro. Questo elemento ci porta al nesso
tra l’idea di giustizia e la pratica della democrazia, perché per la filosofia politica
contemporanea l’idea che il modo migliore per comprendere la democrazia sia
concepirla come “governo per mezzo del dibattito” gode ormai di ampio consenso.
(…) C’è sempre, ovviamente, la concezione più antica e formale che intende la
democrazia in termini di urne ed elezioni, anziché inquadrarla nella prospettiva più
ampia del governo per mezzo del dibattito. Ma, nella filosofia politica
contemporanea, l’idea di democrazia si è dilatata enormemente, ed essa non è più
vista come il terreno delle pubbliche votazioni, ma è intesa nei più ampi termini di
quello che John Rawls chiama “l’esercizio della ragione pubblica”. (…) In Jürgen
Habermas la riflessione pubblica ha uno spazio per molti versi ancora più ampio di
quello di cui gode in Rawls. (…) Habermas ha contribuito in modo decisivo a
chiarire l’enorme importanza della riflessione pubblica e, in particolare, la duplice
presenza nel dibattito politico delle “questioni morali della giustizia” da un lato e
delle “questioni strumentali del potere e della coercizione” dall’altro. (…) Malgrado il
generale mutamento nella comprensione concettuale della democrazia avvenuto in
seno alla filosofia politica, spesso la storia della democrazia viene ancora oggi
presentata in termini angustamente organizzativi e si concentra prevalentemente
sui risvolti procedurali di votazioni ed elezioni. (…) [Tuttavia] la stessa efficacia
delle elezioni dipende da ciò che ad esse si accompagna: libertà di parola, accesso
all’informazione e libertà di dissenso. Da solo, il voto può rivelarsi del tutto
insufficiente, come hanno ampiamente dimostrato i trionfi elettorali dei tiranni alla
guida di regimi autoritari, tanto nel passato quanto nel presente, per esempio
nell’odierna Corea del Nord.
(Amartya Sen, L’idea di giustizia, 2009; trad. it. Milano, Mondadori 2010, pp. 330 – 333)
Amartya Sen
(Santiniketan, India, 1933; premio Nobel per l’economia 1998;
rettore del Trinity College a Cambridge)
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Osservazioni critiche
[Tocqueville è un pensatore liberale che difende] i diritti dell’individuo –
cittadino (…) non solo sul piano giuridico – costituzionale dei diritti civili e
politici, ma anche su quello culturale. Egli, infatti, condanna il panteismo, le
filosofie della storia, le sociologie che pongono il primato del Tutto, della
Storia, della Società, sull’individuo. (…) La condanna di questa cultura
dominante è radicale e durissima. E’ interessante però notare come essa non
abbia ascendenze illuministiche né lockiane. Questa condanna ha una sola
fonte, Blaise Pascal. [In forza delle sue] ascendenze pascaliane, Tocqueville
invita l’uomo a sentire la propria “grandezza” nonostante le proprie “miserie”.
(Nicola Matteucci, Alexis de Tocqueville – Tre esercizi di lettura,
Bologna, Il Mulino 1990, pp. 107 – 108)
Il “gusto di testa” di cui Tocqueville parla sta a indicare la sua
consapevolezza che senza democrazia, cioè senza eguaglianza delle
condizioni sociali e giuridico – politiche, anche la libertà può esistere solo
come privilegio di pochi, non come patrimonio di tutti. D’altro canto, dalla
circostanziata e acutissima analisi che Tocqueville dà della democrazia
americana, egli ricava la certezza che eguaglianza e libertà sono, in una
società democratica, sempre in equilibrio assai precario, e che l’eguaglianza
minaccia continuamente la libertà (…). Da buon liberale, Tocqueville è assai
più interessato alla libertà che all’eguaglianza, anche se egli è consapevole
che senza eguaglianza (sociale e giuridico – politica) non ci può essere
libertà e che quindi l’eguaglianza è non solo ineluttabile dal punto di vista
storico, ma è anche indispensabile dal punto di vista politico; il che, d’altro
lato, non gli impedisce di vedere (…) che l’eguaglianza è il presupposto di
processi sociali e politici che minacciano gravemente la libertà.
(Giuseppe Bedeschi, Il pensiero politico di Tocqueville,
Bari, Laterza 1996, p. 33)
All’individualismo dissolvente delle nuove società democratiche, Tocqueville
contrappone (…) un ethos comunitario che ha il proprio fondamento in una
democrazia diretta praticata alla base della società civile. Ancora una volta
possiamo apprezzare tutta l’importanza dell’ispirazione rousseauiana del
pensatore normanno.
(Bedeschi, op. cit., pp. 72 – 73)
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