Rivista numero 30 - SATURA art gallery

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Rivista numero 30 - SATURA art gallery
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SaTuRa
Trimestrale
di arte letteratura e spettacolo
Redazione
Giorgio Bárberi Squarotti,
Milena Buzzoni, Giuseppe Conte,
Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia,
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Guido Zavanone
Redazione milanese
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20129 Milano
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Anno 8 n° 30
secondo trimestre
Autorizzazione del tribunale
di Genova n° 8/2008
in copertina
Carlo Merello,
Reliquiario d'architettura, 2015,
grafite e acrilico su mdf, stampa
digitale su acetato, particolare
SATURA è un trimestrale di Arte
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sommario
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30
XXI FESTIVAL INTERNAZIONALE
DI POESIA A GENOVA
VENTI DI POESIA:
UN FESTIVAL, UN’ANTOLOGIA,
UN SOGNO
Claudio Pozzani
PLANÈTE
Issa Makhlouf
JE VEUX DIRE,
CE QU‘ÉCRIT LE TEMPS
Michel Thion
NERVURES
Hamid Tibouchi
L’HÔTE
Moncef Ouahibi
QUELLES LANGUES PARLEZ-VOUS?
Pierre Tilman
METS UNE ROBE
Viviane Ciampi
JE PENSE À TOI
Guido Zavanone
SULLE TRACCE
DI GEORGES SIMENON:
PASSAGGIO IN AFRICA
Giuliana Rovetta
LE SALMONELLE A RADO
Guido Zavanone
QUATTRO POESIE
Mary Cassatt
Lev Nikolaevic Tolstoj
William Orpen
Ivan Sergeevic Turghenev
Angelo Manitta
65
75
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82
86
88
90
92
94
96
98
CRITICA
CARLO MERELLO
ARCHETIPO/ARCHITETTURA
Le geometrie della mente
Flavia Motolese
SATURARTE 2015
Mario Napoli
STEFANO GRONDONA
VISIONARIO CONTEMPORANEO
Flavia Motolese
TIME TO TALK
± 100 contemporary artists from Iran
Mario Napoli
VETRINA
ALESSANDRO BERRETTA
FENOMENOLOGIA SOCIALE
Andrea Rossetti
STEFANO BORRONI
MEDITAZIONI
PITTORICO-FIGURATIVE
Andrea Rossetti
ORNELLA DE ROSA
SGUARDO RAVVICINATO
Elena Colombo
LOREDANA GAZZOLA
TRAME-TRAPPOLA
Andrea Rossetti
LUDOVICA LANCI
OLTRE LE FINESTRE APERTE
Elena Colombo
ALLA CHIARA LUZZITELLI
UNDER THE SKIN I DON’T LIVE IN
Elena Colombo
GIUSEPPE PALUMBO
FORMA COME ESSERE
Flavia Motolese
ROBERTA SIGNANI
RAZIOCINIO PITTORICO
Andrea Rossetti
32
ORO BIRMANO
Seconda parte
Milena Buzzoni
100
40
DIRITTI UMANI NEL MONDO:
SUCCESSI, ERRORI,
PASSI INDIETRO…
Aldo Forbice
102
ANDANDO PER MOSTRE
Wanda Castelnuovo
110
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
Elena Colombo
52
DUE POESIE
Genova come un malumore
Sono te
Milena Buzzoni
53
VERISIMILE, DILETTO
E GIOVAMENTO
Franca Alaimo
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PROSPEZIONI
POESIA COME UNICA FORMA
POSSIBILE DI CONOSCENZA
Renato Dellepiane
I PERCORSI FANTASTICI
DI GREENE
Giuliana Rovetta
SE IL DOPOGUERRA
È SENZA PACE
Giuliana Rovetta
LA VIA DELLA VERITÀ
Rosa Elisa Giangoia
TRE CITTÀ
Rosa Elisa Giangoia
MARTA GIERUT
TORNA A PIETRASANTA
Milena Buzzoni
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Pubblichiamo volentieri il comunicato che c’invia il valoroso organizzatore del XXi Festival genovese di poesia, manifestazione che si è svolta dal 10
al 21 giugno 2015.
Questo Festival, giunto alla sua ventunesima edizione, rappresenta sicuramente uno degli eventi culturali più importanti tra quelli che si svolgono a
Genova ed ha risonanza nazionale e internazionale richiamando poeti tra i più
significativi di ogni parte del globo.
SATURA è stata presente all’avvenimento, in modo particolare il giorno
12 giugno in cui si sono alternati sul prestigioso palco di Palazzo Ducale poeti francesi e francofoni le cui poesie sono state lette e prevalentemente tradotte da Viviane Ciampi, collaboratrice della nostra rivista.
Dopo il comunicato, ne riportiamo alcune particolarmente interessanti
anche per la varietà di contenuto e di forma espressa da poeti provenienti da
diversi luoghi della grande poesia francese.
XXi Festival internazionale di Poesia a Genova
XXI FESTIVAL INTERNAZIONALE
DI POESIA A GENOVA
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Claudio Pozzani Venti di poesia: un festival, un’antologia, un sogno
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VENTI DI POESIA:
UN FESTIVAL, UN’ANTOLOGIA, UN SOGNO
di Claudio Pozzani
La XXi edizione di “Parole Spalancate – Festival internazionale di Poesia
di Genova” si è chiusa con un ottimo riscontro di pubblico e critica.
Con 12 giorni consecutivi di programmazione, 70 poeti provenienti da
tutto il mondo, 100 eventi tra letture, concerti, performance, mostre, visite guidate e conferenze, “Parole spalancate” ha presentato ancora una volta lo stato dell’arte della poesia mondiale contemporanea, senza barriere di stile, di lingua o generazionali.
A riprova di questa prerogativa del Festival, nato esattamente venti anni
fa nel 1995, abbiamo anche pubblicato un’antologia con l’editore Liberodiscrivere che racchiude proprio questi quattro lustri della manifestazione e degli
ospiti che si sono succeduti sul palco di Palazzo Ducale e negli altri luoghi di
spettacolo.
il volume, di quasi 300 pagine, lungi dall’essere esaustivo su un evento
che ha visto nel tempo la partecipazione di oltre 1000 poeti e artisti, riunisce
oltre 120 autori che hanno fatto la storia della poesia contemporanea, dai premi Nobel Walcott, Soyinka, Milosz e Cootzee, a personaggi come Ferlinghetti,
Gelman, Mutis, Montalban, Simic, Armitage, Yang Lian, Ondaatje, Strand fino
agli italiani Sanguineti, Luzi, Guerra, Mussapi, Cucchi, Buffoni, Ruffilli, Majorino, Anedda e molti altri ancora, diventando un vero must per ogni amante
della poesia in tutte le sue forme.
Per quanto riguarda l’edizione del Festival appena conclusa, penso che
abbia segnato un’ulteriore svolta, con un fil rouge dettato dal sottotitolo “La
ricostruzione poetica dell’universo” che vuole riferirsi alla lotta necessaria contro lo scadimento etico, educativo e culturale nel quale stiamo affondando in
tutti i comparti della nostra vita quotidiana e dell’attività sociale.
Credo nel più profondo del mio animo che la poesia (e l’arte in generale) possa realmente dare una scossa e rappresentare una risorsa per invertire
questa discesa qualitativa della vita.
in un mondo nel quale arte, cultura, poesia, passioni, sogni sono considerati “inutili” perché non servono, in una società di massa che, come diceva
Hannh Arendt, non vuole cultura ma semplice svago, in un mondo in cui lo studio è visto soltanto come propedeutico a una professione e non come valore
e piacere in sé, dobbiamo ricostruire l’universo dentro e attorno ciascuno di
noi, partendo proprio dalla parola-elemento base di ogni comunicazione e convivenza della quale la Poesia è l’espressione più alta.
A questo proposito il XXi Festival internazionale di Poesia ha offerto molti spunti di riflessione, a cominciare dallo spettacolo di Andrea Nicolini dal titolo Uscito dalla trincea – Il fronte dei poeti, nel quale la Grande Guerra è vista e narrata attraverso le parole di grandi poeti e scrittori, come Ungaretti, Scotellaro, Sbarbaro, Gadda e altri.
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Claudio Pozzani Venti di poesia: un festival, un’antologia, un sogno
inoltre, come di consueto, “Parole Spalancate” non si è limitato ad accogliere poeti internazionali e italiani, tra i quali De Angelis, Buffoni, Mussapi,
Testa, Bocchiola, Zavanone, ma ha prodotto alcuni spettacoli come quello multimediale intitolato La ricostruzione poetica dell’universo, con Carlo Massarini, noto volto televisivo, e Giulio Casale, poeta e musicista. Con Letture soniche dell’inquietudine si è concretizzata poi una sinergia tra il Festival e il Teatro Carlo Felice, con i solisti dell’orchestra che hanno accompagnato mie letture di autori “inquieti” come Sbarbaro, Ungaretti, Poe, Baudelaire, Verlaine, Pozzi. infine con il reading-concerto con il mezzosoprano Susanne Kelling e il pianista Julian Riem, il Festival ha reso omaggio a Luciano Berio, per i 90 anni dalla nascita.
in sostanza, l’edizione 2015 del Festival internazionale di Poesia ha offerto un equilibrio fra tradizione e ultime tendenze, presentando anche la poesia in rapporto con altre arti, soprattutto musica e cinema, con presenze illustri come il regista israeliano Amos Gitai, e con nuove forme di comunicazione, con incontri con gli statunitensi Richard Stallman, teorico del software e
internet libero e Kenneth Goldsmith, creatore del più grande archivio web di
poesia contemporanea: Ubuweb.
Valeriu Butulescu diceva che la poesia è nata la notte in cui l’uomo ha iniziato a contemplare la luna, consapevole del fatto che non era commestibile.
“Parole spalancate” è nato proprio per non dimenticarsene …
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issa Makhlouf Planète / Michel Thion Je veux dire, ce qu‘écrit le temps
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ISSA MAKHLOUF
PLANÈTE
La terre est belle.
Beau le nuage qui s’en va seul dans le ciel, semblable à un oiseau perdu
et désorienté dans son vol. Beaux les astres, aux étranges, aux inquiètes lumières.
Gardiens de l’espace infini, ils t’observent de loin, te connaissent mais tu ne
les connais pas. Auraient-ils donc de la compassion pour toi qui ignores ce qui
t’attend dès le seuil ? À moins que ces étoiles n’oublient que leur sort est aussi
le tiens.
Tendre est la clémente brise touchant les fronts dans l’été lointain des
îles. Tendres les pluies, agiles sur l’herbe sèche. Tendre est le parfum de la femme
inconnue qui va son chemin près de toi.
Belle fut notre rencontre avant de trébucher sur les détails. Elle avait l’allure d’un croissant de lune auquel étaient suspendus nos rêves.
Belle est la terre lorsque l’âme la quitte. Tel un astronaute à travers sa
vitre, je la vois bleue. illuminée de l’intérieur, elle lève ses voiles blancs et me
précède là où je vais.
Belle planète, notre Terre, allant vers sa fin avec un étrange délice.
MICHEL THION
JE VEUX DIRE, CE QU‘ÉCRIT LE TEMPS
elle est l’oubli,
reste une trace du passé.
Elle disparaît,
Mais reste-t-il
une trace de l’oubli ?
Horloge de neige,
Une étoile,
une seconde,
ou peut-être…
un siècle.
il y a les voleurs de neige,
des mendiants aveugles,
de vieux renards,
blanchis
par le temps.
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Bella è la terra.
Bella la nuvola che se ne va sola nel cielo, simile a un uccello smarrito
e disorientato nel suo volo. Belli gli astri, dalle bizzarre inquietanti luci. Guardiani dello spazio infinito, ti osservano di lontano, ti conoscono ma tu non li
conosci. Hanno forse compassione per te che ignori ciò che ti attende appena
varcata la soglia? A meno che quelle stelle non dimentichino che la loro sorte
è anche la tua.
Tenera è la clemente brezza che lambisce le fronti nella lontana estate
delle isole. Tenere le piogge, snelle sull’arida erba. Tenero è il profumo della
donna sconosciuta che va per la sua strada vicino a te.
Bello fu il nostro incontro prima d’imbatterci nei dettagli. Pareva uno spicchio di luna al quale fossero sospesi i nostri sogni.
Bella è la terra quando l’anima l’abbandona. Tale un astronauta attraverso il vetro, la vedo azzurra. illuminata dall’interno, solleva i suoi bianchi veli
e mi precede laddove vado.
Bel pianeta, la nostra Terra, che s’avvia verso la fine con curioso diletto.
Traduzione dal francese di Viviane Ciampi
VOGLIO DIRE, CIÒ CHE SCRIVE IL TEMPO
Lei scompare,
lei è l’oblio,
resta una traccia del passato.
Ma resta
una traccia dell’oblio?
Una stella,
un secondo,
o forse…
un secolo.
Vi sono i ladri di neve,
mendicanti ciechi,
vecchie volpi,
imbiancate
dal tempo.
Traduzione dal francese di Viviane Ciampi
Orologio di neve.
issa Makhlouf Pianeta / Michel Thion Voglio dire, ciò che scrive il tempo
PIANETA
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Hamid Tibouchi Nervures / Moncef Ouahibi L’Hôte
HAMID TIBOUCHI
NERVURES
J’écris mais je n’ai rien à dire de précis
si je ne cesse d’écrire c’est sans doute pour
justement tenter de saisir ce pourquoi
j’écris
à moins que ce ne soit pour essayer d’éviter
que ne se comble le fossé qui me sépare
de la mort
oui je crois que j’écris pour rester en vie
un peu comme la sentinelle dans la nuit
fais les cent pas pour rester éveillée
Et si les mots n’étaient plus que des taches
et si les lignes n’étaient plus que des sentiers
les pages des paysages les chapitres des
géants de pierre de l’île du Silence
et les livres des grands oiseaux sauvages
annonçant la venue du printemps
Un fil
me relie
à mon enfance
le barbelé
MONCEF OUAHIBI
L’HÔTE
J’ai dressé la table
Mais ni ceux que j’ai conviés
Ni ceux que j’ai aimés
Ne sont venus
J’ai rempli mes cruches de vin
Et là j’ai attendu
Je me suis assis
dans l’obscurité, seul,
J’étais mon propre hôte
Qui buvait de ma propre main
Et disait
Gloire à celui qui dans la nuit,
A conduit cet enfant
d’une illusion
A une autre
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Scrivo ma non ho niente da dire di preciso
se non smetto di scrivere è probabilmente per appunto
tentare di agguantare ciò per cui
scrivo
a meno che non sia per tentare di evitare
che si colmi il fossato che mi separa
dalla morte
sì credo ch’io scriva per rimanere in vita
un po’ come la sentinella nella notte
fa i cento passi per rimanere sveglia.
E se le parole non fossero più che macchie e se le linee
diventassero sentieri le pagine paesaggi i capitoli
giganti di pietra dell’isola del Silenzio
e i libri grandi uccelli selvatici
che annunziano l’arrivo della primavera
un filo
mi riallaccia
all’infanzia
quello spinato
Traduzione dal francese di Viviane Ciampi
L’OSPITE
Ho apparecchiato
Ma né quelli che ho invitato
Né quelli che ho amato
Sono venuti
Ho riempito le mie giare di vino
E ho atteso
Mi sono seduto
Nel buio, solo
Ero il mio proprio ospite
Che beveva per mano propria
E diceva
Gloria a colui che, nella notte,
Ha condotto questo bambino da una illusione
All’altra!
Traduzione dall’arabo al francese da Abdul Kader El Janabi e Mona Huerta
Traduzione dal francese all’italiano di Viviane Ciampi
Hamid Tibouchi Nervures / Moncef Ouahibi L’ospite
NERVURES
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Pierre Tilman Quelles langues parlez-vous ? / Viviane Ciampi Mets une robe
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PIERRE TILMAN
QUELLES LANGUES PARLEZ-VOUS ?
À la question
quelles langues parlez-vous ?
je réponds :
je parle de temps en temps le rire,
je parle assez souvent le soupir,
je parle parfois le cri.
Le silence, je le parle couramment,
c’est ma seconde langue.
VIVIANE CIAMPI
Mets une robe.
Et par-dessus cette robe une autre robe.
Ne dis rien de ta nudité
des nuées du voyage.
Vois ce que tu étais et ce que tu es.
Maintenant tire sur toi le drap
tire-le tant que tu peux.
Le soleil a vu
les gens ont murmuré
les arbres ont allongé leurs doigts.
Tu auras une chambre à toi,
n’oublie pas de chanter.
Ne crains plus rien maintenant.
Tout va bien.
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Alla domanda
Quali lingue parli?
rispondo:
parlo ogni tanto la risata,
parlo assai spesso il sospiro,
parlo talvolta il grido.
il silenzio, lo parlo con scioltezza,
è la mia seconda lingua.
Traduzione dal francese di Viviane Ciampi
Metti un vestito.
E sopra il vestito un altro vestito.
Non dire della tua nudità
delle nubi del viaggio.
Vedi ciò che eri e ciò che sei.
Ora tira su di te il lenzuolo
tiralo finché puoi.
il sole ha visto
la gente ha mormorato
gli alberi hanno allungato le dita,
avrai una stanza tua,
non dimenticarti di cantare.
Non temere più niente ora.
Va tutto bene.
Pierre Tilman Quali lingue parli? / Viviane Ciampi Metti un vestito
QUALI LINGUE PARLI?
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Guido Zavanone Je pense à toi
GUIDO ZAVANONE
TI PENSO
Ti penso in quest’ora
che le saracinesche dei negozi
si schiantano nel petto, ghigliottinano
le nostre speranze.
Quali misteriosi paesi di confine
abita oggi il nostro spirito turbato
se scorgo figure ben salde
trascorrermi innanzi abbracciate a fantasmi?
Care sembianze, amici
troppo miti per trovare un posto
nelle pagine frettolose della storia,
fanno ressa poi si dissolvono
sullo schermo della memoria.
Tu resti. Come quella sera
sul terrazzo noi due soli a guardare
il cielo venirci incontro
uccello immenso che spalancava l’ali
azzurre fino all’orizzonte.
Mi restano i tuoi versi, che trascorre
una delicata brezza
Quell’aria di famiglia che s’avverte
tra poesia e tristezza.
Issa Makhlouf è nato in Libano, risiede a Parigi. Laureato in Antropologia Sociale e Culturale (Università della Sorbona), ha pubblicato in arabo e francese e ha tradotto autori francesi e latino-americani. La sua opera è al crocevia di culture diverse. È direttore dell’informazione a Radio Orient a Parigi. È stato consigliere speciale agli affari culturali all’ ONU, a New York, nel quadro della LXi sessione dell’Assemblea Generale (2006-2007). Autore di molte opere, citeremo solo le ultime: Lettre aux deux sœurs,
tradotto da Abdellatif Laâbi, Ed. José Corti, Paris, 2008 (Prix Max Jacob, 2009); Une ville
dans le ciel, Ed. Attanwir, Beyrouth 2012, Ed. José Corti, Paris, 2014.
Moncef Ouhaibi, nato nel dicembre 1949 a Hajeb El Ayoun è una delle più grandi voci della poesia tunisina e araba contemporanea. Docente di lingue e letterature arabe all’Università di Kairouan e alla facoltà di lettere e scienze umane dell’Università di
Sousse, pubblica diverse raccolte in arabo: Tables (1982), Table 2 (1991), Manuscrit de
Tombouctou (1998), dove interroga la storia dei miti delle città tunisine, Les Affaires
de la femme qui a oublié de grandir (2010) e Diwan al-Ouhaibi (2010). Pubblica in francese Que toute chose se taise (2011), Ed. Bruno Doucey. Autore di sceneggiature e cortometraggi documentari, direttore ad interim di Radio Monastir. Le sue opere sono state tradotte in diverse lingue.
Michel Thion, nato nel 1947 à issy-les-Moulineaux, si occupa prevalentemente di arte
nel campo della musica contemporanea. Crea nel 1986 il festival «Futurs/Musiques», ha un’attività di cronista e critico musicale al settimanale «Révolution» poi a «Monde de la Musi-
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Je pense à toi en cette heure
où les rideaux de fer des magasins
s’écrasent dans notre poitrine, guillotinent
nos espérances.
Quels mystérieux villages de frontière
habite
aujourd’hui mon esprit troublé
quand je vois des forms bien réelles
passer devant moi embrassant des fantômes?
De chères apparences, des amis
trop doux pour trouver une place
dans les pages hâtives de l’histoire,
se bousculent puis se dissolvent
sur l’écran de ma mémoire.
Toi tu restes. Comme le soir où sur la terrasse
nous étions seuls à regarder le ciel
venir à notre rencontre
immense oiseau ouvrant tout grand ses ailes
bleues jusqu’à l’horizon.
Me restent tes vers, que parcourt
une délicate brise
cet air de famille que l’on perçoit
entre poésie et tristesse.
que», e a «Lettres Françaises». Scrive poesie da 45 anni. Dal 2008 lavora all’associazione
«Arts Résonances» creata dalla poetessa Brigitte Baumié. È uno dei poeti-animatori del Festival « Voix Vives » di Sète. Partecipa a un gruppo di ricerche sui problemi inerenti il Laboratoire SFL (Sciences Formelles du Langage) del CNRS – Università Paris Viii.
Hamid Tibouchi, pittore e poeta, nato nel 1951 in Algeria, vive e lavora in Francia dal 1981. La sua produzione è proteiforme: poesia, pittura, disegni, incisioni, fotografie, scenografie teatrali. Ha collaborato a numerose riviste e antologie. Alcune sue
poesie sono state tradotte in varie lingue (arabo, inglese, spagnolo, ungherese, tedesco,
islandese…). È autore di una ventina di raccolte. Tahar Djaout dice di lui che è il poeta
più esigente e avventuroso della sua generazione.
Pierre Tilman ha cofondato la rivista «Chorus» con Franck Venaille, Daniel Biga
e Jean-Pierre Le boul’ch. Ha pubblicato più di una trentina di libri (editi da Guy Chambelland, Seghers, Galilée, Limage, Sixtus, Unes, Voix Richard Meier, Bernard Dumerchez).
Tra questi, vi sono libri d’arte e Tilman è anche un pittore che scrive su altri artisti tra
i quali Peter Klasen, Errò, Jacques Monory e Robert Filliou.
Numerose le sue personali in gallerie, musei e centri d’arte a Parigi, Tolone, la Seyne sur Mer, Saint-Fons, Montbéliard, Cavaillon, Avignone, Saint-Paul-de-Vence. Di lui, Claude Guilbert ha detto «scrittore, poeta, è innamorato delle parole. Artista di arti plastiche, ha preso le parole alla lettera e ha creato un universo in cui le parole sono diventate cose di cui è il grande orchestratore».
Guido Zavanone Ti penso
JE PENSE À TOI
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Giuliana Rovetta Sulle tracce di Georges Simenon: passaggio in Africa
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S U L L E T R A C C E D I G E O R G E S S I M E N O N : PA S S A G G I O I N A F R I C A
SULLE TRACCE DI GEORGES SIMENON:
PASSAGGIO IN AFRICA
Di Giuliana Rovetta
«Era il Balzac del Novecento. Solo chi crede
nella realtà può riuscire a disegnarla così»
Carlo Fruttero
Diverse città, in diversi Paesi, hanno fatto da cornice all’irrequieto e prolifico scrittore che ha genialmente creato, o meglio trasferito sulla pagina come proiezione della sua
conoscenza di vita, il personaggio di Maigret.
Non solo la Liegi natia, con le atmosfere plumbee dei suoi canali e le chiuse avvolte dalla
nebbia, ma soprattutto l’agognata Parigi dei
bistrot e dei viali periferici, diventata scenario d’elezione per il suo estro narrativo negli
anni 1922-1932. E poi La Rochelle, aperta verso il largo ma con vocazione a chiudersi nel
mistero, città di una luce così straordinaria
e affascinante da trattenere lo scrittore in Charente per circa dieci anni. Più avanti, dopo altre peregrinazioni alle isole Porquerolles e in
Vandea, Simenon tornerà in patria per affrontare il periodo bellico con l’incarico di assistere i connazionali rifugiati e, malgrado avesse subìto lui stesso sospettosi controlli per via del cognome dalla radice vagamente ebraica, alla Liberazione organizzerà una precipitosa partenza per gli Stati Uniti, ossessionato dall’incubo di
finire vittima di un’ingiusta epurazione. Le sue colpe erano evidentemente poco
dimostrabili: il precoce esordio giornalistico in un quotidiano reazionario, «La
Gazette de Liège», la collaborazione fortuita con una casa di produzione tedesca per l’adattamento cinematografico dei suoi romanzi, un fratello militante di
estrema destra1. il soggiorno americano, durato cinque anni, avrà come base strategica New York, città propizia ai grandi incontri, dove lo scrittore potrà costruire al meglio la sua fortuna editoriale grazie alle relazioni con esponenti della vita
artistica e intellettuale dell’epoca. incapace di reggere a lungo la routine in una
1
Su questo tema è interessante il capitolo La fuite de Monsieur Georges, in Pierre Assouline, Simenon, Gallimard, Parigi 1996, documentata biografia che si apre con questo interrogativo: “Chi potrà mai trovare una spiegazione al paradosso di Simenon, un uomo conosciuto soprattutto per la
sua fama?”. il titolo riecheggia il romanzo di Simenon La fuite de Monsieur Monde, Gallimard, Parigi 1944.
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Le notizie biografiche sul personaggio del commissario Maigret sono contenute in Georges Simenon, Les Mémoires de Maigret, Presses de la Cité, Parigi 1951; in italiano Le Memorie di Maigret, Adelphi, Milano 1957, traduzione di Marco Bevilacqua.
3
A segnare l’atto di nascita ufficiale del personaggio di Maigret è il romanzo poliziesco Pietr le Letton, Fayard, Parigi 1931, pubblicato in italiano col titolo Pietr il Lettone, Mondadori, Milano1933 traduzione di Marise Ferro. Così Simenon descrive l’estro di quel momento: “Mi rivedo, un mattino di
sole in un caffè…Un’ora più tardi, quasi vinto dal torpore, cominciai a scorgere davanti la massa
imponente e impassibile di un signore che -mi parve- sarebbe stato un commissario accettabile”.
4
Jean-Baptiste Baronian, Passion Simenon. L’homme à romans, Textuel, Parigi 2002 e Cahiers Simenon n. 2, Les Amis de Georges Simenon, Bruxelles 1988.
5
Le Pendu de Saint-Pholien, Fayard, Parigi 1931; in italiano (anche col titolo Maigret e il viaggiatore di
terza classe) L’impiccato di Saint-Pholien, Mondadori, Milano 1932, traduzione di Guido Cantini.
6
Pedigree, Presses de la Cité, Parigi 1948. Simenon prende lo slancio per scrivere questo testo al
seguito di una diagnosi, poi rivelatasi errata, di un medico di Fontenay-le-Comte che riteneva il suo
stato di salute minacciato da una grave cardiopatia.
7
il duraturo rapporto fra Gide e Simenon fu improntato, più che a una vera e propria amicizia, al
confronto fra l’influente maestro, riconosciuto come “le contemporain capital”, e il giovane aspirante letterato. in proposito citiamo la corrispondenza 1938-1950 tra i due pubblicata col titolo Sans
beaucoup de pudeur…, Carnets Omnibus, Parigi 1999 e in italiano Caro Maestro, caro Simenon, Archinto, Milano 1999, traduzione di Chiara Agostini, da cui si deduce l’ammirazione (un po’ invidiosa?) di Gide per la facilità e fluidità di scrittura di Simenon.
Giuliana Rovetta Sulle tracce di Georges Simenon: passaggio in Africa
stessa dimora (in questo caso un centralissimo hotel di Manhattan) Simenon prenderà spesso la via del Canada, intraprenderà il periplo della costa est degli Stati Uniti, si fermerà qualche tempo in Florida, raggiungerà il Messico e il Connecticut, sempre mantenendo la collaborazione con «France-Soir», il quotidiano diretto da Pierre Lazareff a cui invia regolarmente dei resoconti di viaggio. Tornato in Europa negli anni Cinquanta, si stabilisce prima in Costa Azzurra e poi, definitivamente, in Svizzera.
Ognuno di questi insediamenti, lunghi o brevi, ispirerà direttamente la
sua opera connotandola in modo specifico. Tanto per cominciare il francesissimo Jules Maigret, nato secondo i sommari dati biografici forniti dall’autore2,
a Saint-Fiacre in Alvernia, e venuto alla luce letterariamente nel settembre 1929
durante una navigazione lungo i canali dei Paesi Bassi3, viene subito spedito a
Liegi da un’inchiesta iniziata altrove (a Brema, poi a Reims) e questo già dal terzo libro della saga di Maigret, mentre ancora il personaggio in formazione sta
precisando le sue caratteristiche di base. Quella che Jean-Baptiste Baronian chiama Simenonville4 è per Simenon una Liegi del cuore, introiettata nell’infanzia
e ripercorsa a più riprese, a partire da Le Pendu de Saint-Pholien, romanzo in
cui i personaggi portano nomi e cognomi riconducibili alla città: vengono citati luoghi evocativi come la stazione da cui Simenon era partito per Parigi in
una sera di dicembre o il quartiere della Caque, ritrovo di artisti e bohémiens
frequentato a suo tempo anche dal giovane Georges5. All’altro estremo della
sua produzione Pedigree -libro di autofiction fondamentale nel suo percorso
di scrittore non maigrettiano- si presenta come l’opera di tutti i superlativi: maggior tempo per la stesura, maggior numero di pagine, scrittura emancipata dall’intreccio, registro autobiografico legato a infanzia e adolescenza e, per concludere, più intimo richiamo liégeois che in ogni altro scritto6. Nell’ampliare,
su consiglio perentorio di Gide7, l’accreditata eminenza grigia degli intellettuali dell’epoca, una serie di lettere scritte al figlio Marc a partire dal 1940, Simenon compone in Pedigree un grande romanzo familiare, ripercorrendo con rit-
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mo alterno le tappe della sua infanzia nella Liegi d’inizio secolo, senza dimenticare mai che le sue parole non sono soltanto memorie del suo vissuto ma anche un progetto di vita consegnato al figlio.
Altra città, altra cornice. i mille volti di Parigi, scrutati da Simenon nelle
differenze fisiche e antropologiche proprie dei diversi quartieri, torneranno nella sua opera in una sfilata campionaria di mestieri, di caratteri, di destini sparsi tra le scalinate della Butte Montmartre, il labirinto delle Halles, le piazze di periferia, i lungosenna. La sua è la Parigi degli ultimi fiacres, dei lampioni a gas “che
segnano i bordi della strada di una luce perlacea”, delle caves dove si suona il
jazz e dei locali che vedono Joséphine Baker (una delle sue moltissime conquiste) esibirsi vestita solo di uno scandaloso gonnellino di banane. “Ero affamato
di strada” viene detto dal protagonista di un romanzo a cui l’autore sembra prestare la propria curiosità e voracità 8. Dalle pagine del «New Yorker», di cui è stata storica collaboratrice per molti anni, Lis Harris sottolinea con queste parole
la dimensione di “paradiso perduto” della Parigi simenoniana: “Molti luoghi, se
non la maggioranza, di quelli che Simenon ha descritto, soprattutto nei libri degli anni Quaranta, sono già scomparsi o scompariranno in un futuro relativamente prossimo. Nessun antropologo culturale avrebbe potuto preservarli per i posteri meglio di lui”. Senza dunque entrare nel merito dei libri ambientati nella
capitale francese (che rappresentano, fra romanzi con Maigret e senza, circa un
terzo del totale dei 450 che sono attribuiti all’autore) ci limitiamo a riferire la singolare impressione riportata dal commissario nel visitare un palazzo nel corso
di una delle sue inchieste: “…era una specie di Parigi in formato ridotto, con gli
stessi contrasti, da un piano all’altro, che si trovano fra le strade e i quartieri…Arrivato al quarto piano a Maigret sembrava di aver visitato tutto un universo”9. E
ancora in Le Chat, ripercorrendo la passeggiata mattutina del protagonista, Monsieur Bouin, attraverso il suo quartiere della Santé: “Durante un giro di un quarto d’ora era passato davanti a un ospedale, una prigione, un ricovero, una scuola infermieristica, una chiesa e una caserma di pompieri. Non sembrava forse una
specie di riassunto dell’esistenza? Mancava solo il cimitero, che peraltro non era
molto distante”10.
Largamente presente nell’opera di Simenon (una quindicina di romanzi) è anche La Rochelle, città dall’austera impronta protestante, dove le antiche facciate aristocratiche sembrano voler custodire riti e tradizioni di un passato irrinunciabile. il libro in cui La Rochelle appare con maggiore nettezza è
Le Testament Donadieu, saga di una famiglia in piena crisi, scatenata dalla morte del patriarca. Così come in Le voyageur de la Toussaint 11 Simenon sceglie
8
il personaggio è Steve Adams in Passage de la ligne, Presses de la Cité, Parigi 1958; in italiano La
linea della fortuna, Mondadori, Milano 1961, traduzione di Roberto Cantini.
9
Vedi di Michel Carly, Simenon, la vie d’abord, Édition du Céphale, Liège 2002 e Maigret dans sa
ville, in «Magazine Littéraire», n. 417, febbraio 2003. il brano è tratto da La Patience de Maigret, Presses de la Cité, Parigi 1965, cap. iii. in italiano La pazienza di Maigret, Mondadori, Milano1968, traduzione di Elena Cantini.
10
Le Chat, Presses de la Cité, Parigi 1967, cap. ii; in italiano Il gatto, Mondadori, Milano 1969, traduzione di Gabriella Cioffi.
11
Le Testament Donadieu, Gallimard, Parigi 1937; in italiano Il testamento Donadieu, Mondadori,
Milano 1940, traduzione di Antonio Segre. Le voyageur de la Toussaint, Gallimard, Parigi 1941; in
italiano col titolo La cassaforte dei Mauvoisin, Adelphi, Milano 1963, traduzione di Elena Cantini.
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La posizione di Simenon a New York è abbastanza ambigua: arrivato nell’ottobre del 1945, penalizzato dalla scarsa padronanza della lingua, colloca
la famiglia nel Canada francofono, ma non può, né vuole, perdere l’occasione
di stringere nella città legami e frequentazioni che possono aiutarlo sul mercato editoriale americano. Tiene tuttavia un profilo basso, sempre preoccupato che i suoi libri possano essere esclusi dalla pubblicazione in patria com’è
accaduto a quelli di Céline. Molte foto di questo periodo (in cui stringerà il duraturo legame con la sua interprete Denyse, diventata la sua seconda moglie
nel 1950, dopo diversi anni di un tranquillo ménage à trois con la consorte in
carica) lo ritraggono sorridente ed elegante in mezzo alla folla o all’uscita di
locali alla moda. Nei reportage che continua a inviare a «France-Soir» esprime
il suo entusiasmo per il dinamismo e la libertà di costumi del paese che lo ospita, valorizzando agli occhi dei suoi compatrioti la generosità e l’aiuto economico che gli Stati Uniti avevano saputo dimostrare nei confronti dell’Europa.
in realtà la città per certi versi appare ostica a un provinciale con ambizioni
di affermazione com’è il quarantaduenne scrittore belga, arrivato a metà della vita col sogno ancora irrealizzato di ottenere, oltre al successo nelle vendi-
Didier Gallot, Simenon ou la Comédie humaine, France Empire, Parigi 2003.
Patrick Marnham, The Man Who Wasn’t Maigret, Bloombsury Publishing, London 1992; L’uomo
che non era Maigret, La Nuova italia, Firenze 1994, traduzione di Carla Della Casa.
12
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questa città, emblematica di una comunità che tende a dissimulare i suoi segreti, per comporre un affresco di tipo balzacchiano caratterizzato dalla lotta fra i deboli e i potenti. L’intreccio poliziesco sembra piuttosto un pretesto
per penetrare il noeud de vipères di una famiglia che vede il prevalere degli interessi e degli affari sui sentimenti, mentre i singoli lasciano libero corso alle
loro ambizioni. Quanto a Balzac12, a cui dedicò un saggio in occasione di una
trasmissione radiofonica negli anni Sessanta, Simenon lo immaginava come un
uomo ossessionato dal bisogno (forse lo stesso suo) di vivere tante vite quante erano quelle degli innumerevoli personaggi che dipingeva, nel tentativo di
eludere i limiti impostigli dall’esistenza reale13.
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te, anche il riconoscimento dei critici qualificati. E’ tuttavia in uno stato di grazia che si accinge a scrivere il suo primo libro americano. Trois chambres à Manhattan dove, per la prima volta, viene trattato il tema dell’amour fou, in una
trasposizione romanzata dell’incontro reale con Denyse. E’ anche la prima occasione che ha Simenon di utilizzare come scenario questa megalopoli carica
di energia vitale, ma anche socialmente problematica. L’azione, se tale si può
chiamare la lenta deriva di due esseri solitari che deambulano per le strade,
unico luogo in cui si sentono veramente “a casa”, ha per cornice Fifty Avenue,
Greenwich Village, Broadway. Passando da un anonimo albergo all’abitazione
di lui, e poi ancora alla stanza di lei, i due protagonisti consumano furiosamente il loro amore, ma ancor più mettono a confronto solitudine, disillusione, povertà morale14. Questo romanzo suscita delle reazioni interessanti: il regista Jean
Renoir si offre di metterlo in scena, Charles Boyer di recitare nella parte del
protagonista, Gide contesta a Simenon di aver sostituito la sua straordinaria
capacità di vivere nei panni di un’altra persona alla pura e semplice confessione di un’esperienza personale. L’autore stesso mantiene con questo libro un
rapporto ambiguo: nella fase della stesura, per la prima volta abdica al suo metodo che consiste nello scrivere di getto senza apportare correzioni. il risultato è un testo tormentato, che sembra scritto in preda a un incontrollabile nervosismo. Dapprima compiaciuto del risultato, trascorsi gli anni così Simenon
ridimensionerà il suo giudizio: “Non sono soddisfatto dello stile ma vi ho riscoperto la nascita del mio amore per Denise” (così lui aveva adattato ai suoi
gusti il nome di Denyse).
Dopo il primo “romanzo americano”, Simenon ritorna alle inchieste del
commissario con Maigret à New York. Mantiene come cornice gli stessi luoghi,
ma cambia registro e aggiunge qualche tocco di umorismo: farà viaggiare il povero Maigret, strappato ai piaceri della pesca praticata a Meung sur Loire, per
immergerlo nelle atmosfere gangsteristiche della Grande Mela dove, tra molti colpi di scena, avrà modo di mostrare un coté tipico del francese medio, molto critico verso le abitudini di vita americane.
Ancora una volta l’irrequietezza agita Simenon, in un momento in cui si
affacciano al suo orizzonte gli esiti di una prolungata assuefazione all’alcol,
una leggera depressione, disturbi dell’equilibrio e dell’udito: per mettersi al riparo cerca un posto che sia “tranquillo, organizzato, discreto”. Si orienta verso la Svizzera e sceglie il Cantone di Vaud. Qui, dal 1957 fino alla morte, trascorrerà una trentina d’anni, molti di più che in Belgio, suo paese natale, che
in Francia, patria d’adozione, che in Nord America, luogo di decisive esperienze di vita. Stabile in questa postazione ha scritto più di cinquanta romanzi e,
ad esclusione di Je me souviens 15, anche tutte le opere autobiografiche, da Quand
j’étais vieux del 1970 a Mémoires intimes del 198116 . Tuttavia il contesto elvetico risulta praticamente assente dall’opera: fa appena capolino la città di Losanna, ma solo come tappa di passaggio, in tre scritti di fiction17. Si può dare
una spiegazione a questo fenomeno ricordando che la scrittura di Simenon evolÈ questo il primo grande romanzo che non avrà per editore Gallimard, dalla cui tutela Simenon
gradualmente tende a svincolarsi mettendo al centro di una vera e propria “querelle de famille” i
suoi interessi economici. D’ora in poi avrà come editori Presses de la Cité in Francia e Brentano a
New York.
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Nella serie di traslochi, spostamenti e nuovi insediamenti familiari indotti certo dal suo animo inquieto ma anche dalla ricerca di nuove fonti d’ispirazione, s’inserisce, nell’estate del 1932, un viaggio particolare. Ancora sposato
con la prima moglie, Régine Renchon da lui rinominata Tigy, Simenon decide
di intraprendere con lei un periplo dell’Africa con partenza da Marsiglia della durata di due mesi. Visiterà brevemente l’Egitto, più lungamente il Congo
belga e farà ritorno navigando lungo la costa occidentale toccando diversi porti dell’Africa equatoriale francese. A questa decisione non è estranea la lettura approfondita di Voyage au Congo, un testo importante per l’epoca, in cui
l’autorevole amico Gide aveva riferito, in forma romanzata ma sulla base di un’oggettiva documentazione, il viaggio di sei mesi compiuto fra il 1925 e il ’26 in
compagnia del regista Marc Allégret19. Antecedente diretto di questa immersione esotica, Heart of Darkness di Conrad era stato uno dei libri più amati da
Je me souviens, Presses de la Cité, Parigi 1945. Da questo testo si svilupperà poi Pedigree.
Mémoires intimes, Presses de la Citè, Parigi 1981. Queste memorie si riferiscono al suicidio della figlia Marie-Jo e svelano per la prima volta una dimensione intima e sofferente dell’ormai anziano scrittore. Alcuni passaggi giudicati scabrosi saranno eliminati dalle successive pubblicazioni su
richiesta della moglie Denyse.
17
Si tratta di Maigret voyage, Le train de Venise, La disparition d’Odile, scritti nel periodo 1965-1971.
18
Secondo Pierre Assouline, Simenon, Julliard, Parigi 1992, l’editore americano decise di soprassedere alla pubblicazione di questo testo perché negli Stati Uniti alcune delle sue ammissioni sarebbero state valutate dannose alla sua reputazione.
19
André Gide, Voyage au Congo, Gallimard, Parigi 1927.
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ve spesso (non sempre: due casi di espressione riversata “a caldo” sulla pagina sono Trois chambres à Manhattan e Maigret à Vichy) a partire da memorie,
impressioni, reminiscenze che la sua sensibilità incamera, da acuto osservatore, mentre si trova in un luogo, per poi elaborare il tutto quando già si trova sotto un altro cielo. Molti dei romanzi di Maigret più tipicamente parigini
sono stati infatti redatti o negli Stati Uniti o proprio in Svizzera. in particolare Les Mémoires de Maigret, che riferisce l’emozionante scoperta da parte del
commissario di una Parigi fino ad allora soltanto immaginata, è stato scritto
durante il soggiorno nel Connecticut. Appare invece la Svizzera, con molti dei
suoi villaggi e piccole città, con molti dei suoi usi e costumi e alcune delle sue
problematiche (la secolare opposizione fra protestanti e cattolici) nell’opera Dictées scritta in ventuno parti e pubblicata fra il 1975 e il 1981. Si tratta di una
particolare autobiografia sentimentale, lontana dalla soluzione diaristica
scelta dai fratelli Goncourt, ma anche da una confessione in stile Rousseau, e
neppure somigliante al genere bloc-notes proprio di Mauriac. in queste “dettature” l’autore settantacinquenne, che ormai da qualche tempo ha chiuso con
la narrativa, premette la sua totale sincerità: “con i miei Dictées voglio solo analizzarmi e esprimere dei pensieri, delle sensazioni passeggere, i sogni, le gioie, le pene di un uomo come un altro…”. il risultato è una narrazione a tratti
confusa e un po’ ripetitiva, articolata in chiacchiere, aneddoti, pensieri sparsi, rimpianti frivoli o riflessioni gravi, a commento (ma non sempre a spiegazione) del suo modo di essere e di scrivere. Questo slancio di autenticità, cui
non è estraneo un larvato compiacimento, sembra esentarlo da qualsiasi critica al proprio comportamento18.
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Simenon, lettore in giovane età anche di Stevenson: su questi modelli, aiutandosi con cartine, fotografie e voci dell’enciclopedia il futuro padre di Maigret
aveva costruito i suoi primi romanzi brevi e racconti d’avventura, un po’ alla
maniera di Salgari e cioè lavorando molto di fantasia e puntando su certi ben
definiti caratteri. Si trattava però di romanzi popolari che poco avevano da spartire con lo stile rigoroso e il linguaggio denso di termini puntigliosamente appropriati, se non proprio tecnici, a cui Conrad aveva abituato i suoi lettori20.
Molto è stato detto sulle motivazioni che hanno spinto Simenon a compiere questo viaggio-lampo in cerca del presunto “uomo nudo”, cioè dell’uomo autentico, al netto delle sovrastrutture sociali e intellettuali dietro cui l’individuo
si dissimula e che, una volta rimosse, farebbero risaltare quanto la condizione
umana non si differenzi poi molto da un luogo all’altro, da un tempo all’altro.
Come sappiamo questo è uno degli assunti che reggono la sua esplorazione al
centro di un’umanità ordinaria (composta da soggetti che lui chiama les petites
gens, persone senza rilievo e senza aggettivi21) a cui in pratica è dedicata l’opera simenoniana nella sua interezza. Esiste anche una motivazione contingente
(il lancio molto reclamizzato della missione Dakar-Djibuti, preceduta dall’esposizione coloniale al parco di Vincennes dell’anno prima) e un’intenzione apertamente polemica: denunciare le menzogne della propaganda coloniale e rifiutare le lusinghe del facile esotismo22. Ne seguirà L’Heure du nègre, virulento scritto indirizzato contro lo stereotipo di un’Africa invitante e godibile nel suo trionfo di suoni e colori. Per Simenon, messo agli atti il fallimento economico e morale del processo di colonizzazione, il continente africano resta ancora un mistero non chiarito: la sua triste immensità e il suo insostenibile clima, non consentono all’uomo bianco di adattarsi e anzi producono su di lui un effetto demoralizzante. Sbarcato con un carico di mal riposte illusioni, finirà per esserne
espulso. il tenore di questo scritto, più simile a un pamphlet che a un reportage, uscito sulla rivista «Voilà» dall’8 al 12 novembre 1932, susciterà una certa perplessità, ma anche molta irritazione, nella comunità coloniale.
Dal copioso materiale riportato in patria, Simenon trarrà materia per diversi romanzi e racconti in cui il continente africano rappresenta lo spazio ambientale e il quadro d’azione. il lavoro più rappresentativo della svolta impressa allo scrittore dall’esperienza di questo viaggio è Le coup de lune, storia del
fallimento lavorativo ma soprattutto esistenziale del giovane Timar, giunto dalla Francia con molte aspettative e poi spinto ai limiti della follia da una serie
di impedimenti, ma anche di scontri con una realtà africana violenta, degradata e pervasa da ogni sorta di crudeltà. A parte il contesto esotico, il romanzo riproduce il processo di esplorazione dei meandri oscuri della mente in preda al disorientamento che sempre caratterizza le opere di Simenon: appare dun-
20
Joseph Conrad, Heart of Darkness, pubblicato come racconto in «Blackwood’s Magazine» nel 1899
e poi (1902) in volume; in italiano Cuore di tenebra, Sonzogno, Milano 1928, traduzione di Alberto Rossi.
21
in una lunga intervista di Jacques Lanzmann in «Lui», n. 42, giugno 1967, pp. 7-34, così si spiega Simenon su questo tema: “Quelli che io chiamo les petites gens stanno fra il proletariato e la piccola borghesia: operai, piccoli impiegati, artigiani, commessi viaggiatori, donne delle pulizie, portinaie, persone che in pratica sono poco considerate e hanno difese molto deboli”.
22
Vedi a questo proposito Benoît Denis, Á la découverte de l’homme nu, «Magazine Littéraire» 417,
febbraio 2003.
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Le coup de lune, uscì per la prima volta su «Candide» dal 19 gennaio al 9 marzo 1933, poi da Fayard lo stesso anno; in italiano Colpo di luna, Mondadori, Milano 1934, traduzione di H. Majnoni
d’intignano.
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que meno un racconto di viaggio che una storia di formazione in chiave negativa23. Più in generale, anche negli altri romanzi africani, il ruolo centrale è sempre lasciato alle persone comuni (in questo caso “les petits blancs”) vale a dire
a chi è rimasto indietro nella corsa alla colonizzazione. Si tratta di funzionari presso modesti uffici, impiegati subalterni senza avvenire, piccoli avventurieri, persone dal retroterra equivoco: tutto un microcosmo di gente mediocre,
sparsa in lontane piantagioni della brousse, com’è il caso di Le Blanc à lunette, o in viaggio per mare, come in 45° à l’ombre. Osserva Benoît Denis a proposito di Simenon in Africa, che “questa visione del fallimento coloniale -al netto delle contumelie- è stranamente simile a quella di Céline nell’episodio africano di Voyage au bout de la nuit” (uscito proprio mentre Simenon concludeva la stesura del Coup de lune). La vicinanza fra i due romanzi, più che nella
trama o nella scrittura, è proprio nello specifico punto di vista dell’autore, rivolto verso personaggi insignificanti che, credendo di sfuggire alla ristrettezza di una vita metropolitana da cui si sentono respinti, finiscono per accedere a un contesto dove le speranze di riuscita esistono solo per pochi fortunati. Ma così come Conrad prima e Gide poi, anche Simenon e Céline sembrano
attribuire la responsabilità del demoralizzante esito del tentativo di ricostruirsi una vita in Africa non alle singole persone o alla scarsa efficienza delle istituzioni coloniali, ma all’Africa stessa. L’inganno è quello di credere che un territorio possa essere civilizzato per forza, mentre le persone che dovrebbero
assumersi questo compito sono vinte dal malefico sortilegio che permea l’ambiente: e così “sudano, si lamentano, si trascinano da una parte all’altra e finiscono per odiare tutti, anche se stesse”. invece dell’uomo nudo, dell’uomo
autentico, in Africa Simenon ha incontrato il solito uomo bianco, un piccolo,
piccolissimo borghese alle prese con un’impotenza rabbiosa e un grande senso d’abbandono, così da confermarlo nell’idea che la vita non cambia mai: è sempre e dovunque uguale.
Sulla base delle impressioni e degli appunti riportati dal viaggio in Africa,
Simenon aveva congegnato un romanzo destinato ad essere inviso ai coloni e considerato diffamatorio. Era ben conscio di suscitare, con l’uscita di Le coup de lune,
reazioni contraddittorie. Non immaginava però che proprio da quella comunità
coloniale descritta come senza nerbo e quasi alla deriva, gli sarebbe stato presentato il conto, sotto forma di una causa intentatagli dalla proprietaria di un hotel
di Libreville offesa nel vedere il proprio nome, a suo dire onorato, applicato dall’autore alla tenutaria di una casa d’appuntamenti, e quindi in un contesto disdicevole e infamante. Alla vedova, dalla reputazione comunque incerta, che si era
riconosciuta nella figura di Adèle, non basterà il sostegno dell’irritata lobby locale: l’esito del processo è già scritto nella disparità fra la pretesa diffamazione e
la libertà artistica e creativa riconosciuta a uno scrittore di fama. A lui, Carlo Rim,
giornalista del periodico «Marianne», notando l’assopimento di un magistrato durante la prolissa esposizione dei fatti, rivolgerà questo divertito e lusinghiero commento: “È la prima volta che vedo qualcuno addormentato da un Simenon”.
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Guido Zavanone Le salmonelle a Rado
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LE SALMONELLE A RADO
LE SALMONELLE A RADO
di Guido Zavanone
Riassunto delle puntate precedenti
A Rado, centro agricolo-industriale della Repubblica di San Sulpicio, arriva il nuovo parroco, Don Sereno. È festa grande. Arriva purtroppo anche una grave epidemia di tifo, che ha cause facilmente individuabili in quanto, inizialmente, colpisce gli utenti di uno
degli acquedotti del paese, il “Cresci”, che prende il nome dal suo
proprietario.
Ha luogo un grottesco rimpallarsi di responsabilità tra lo stesso
Cresci, il Sindaco, il Commissario alla Sanità.
Anche la spedalizzazione degli ammalati si presenta ardua per gli
ostacoli, sovente pretestuosi, frapposti dagli ospedali viciniori ben
più attrezzati del “San Lorenzo” di Rado.
È in questa situazione che si verificano alcuni decessi. Le vittime:
Aldo Campo, appena tornato da una “missione di pace”, Anselmuccio, un ragazzo di soli otto anni, il maestro Zigoni, sacrificato sull’altare di un’assurda sperimentazione scientifica.
Presi alla gola da questi eventi e dal rapido diffondersi della malattia, le autorità comprendono che per loro non v’è salvezza nel
non fare. Adottano quindi ovvi quanto inadeguati provvedimenti
che si scontrano con la sconfortante mancanza d’ogni valido presidio terapeutico, quale la vaccinazione.
Solo Don Sereno appare all’altezza della situazione: una processione solenne, una predica memorabile per ricordare che, per l’intercessione della Madonna, il paese aveva superato negli anni, ogni
genere di afflizioni e di calamità, infine la proposta di una nuova
chiesa dedicata al patrono di Rado, San Barbanziano, doverosamente propiziata da generose offerte.
PARTE SECONDA
Capitolo IX
il vecchio castello medioevale, ove, da oltre un secolo, alloggia la Giustizia di prima istanza di Rado, apparteneva, ai suoi bei dì, ad una delle più cospicue e gloriose casate di “San Sulpizio”: i marchesi Limondi di Sassolungo,
noti dai tempi delle Crociate in Terra Santa: cui avevano, ovviamente, preso parte combattendo gloriosamente, cioè infilzando il maggior numero d’infedeli che
gli capitasse; ricavandone ricchezze oltre che benedizioni, avendo a tenere per
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LE SALMONELLE A RADO
Capitolo X
il dirigente, dott. Keres, lesse per la terza volta la denuncia e non poté
trattenere un’esclamazione indignata: che poi s’impigliò nell’intrico di un’operazione aritmetica: “un uomo che dà il pane a più di trecento operai, trecento
famiglie… due figli in media più i genitori… più di un decimo degli abitanti di
Rado… a non considerare l’indotto. Chiamò il giudice Sartori, che aveva l’ufficio nella stanza accanto: “Legga qui: un uomo che sfama buona parte del paese. Rifece ad alta voce il calcolo. “Sotto gli occhi dei famigliari”, soggiunse.
Sartori scorreva rapidamente l’esposto. “Erano alla finestra?” s’informò.
La domanda era forse senza malizia, ma stonava. “E’ scapolo, rifletté Keres, non
capisce l’importanza della famiglia”. “Quali aggravanti pensa che si possano
contestare?” chiese il dirigente. La caccia alle aggravanti era tra le passioni più
vive di quel vecchio magistrato.
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sperimentato che le benedizioni, da sole, non permangono in questo povero
pianeta, ma fatalmente risalgono alla loro patria celeste, mentre le ricchezze
senza benedizione sono farina del diavolo, soggette, alla prima occasione, ad
andare in crusca o, peggio ancora, in mani d’altri.
Tornando al glorioso castello, era avvenuto che i marchesi Limondi lo avessero ceduto al Comune, barattandolo, per così dire, con una promettente industria di paste alimentari. Le sale ostentavano ancora gli aurei stucchi e i gentilizi contrassegni, ma non potevano nascondere le profonde, corrucciate rughe del soffitto e lo stonacarsi progressivo delle pareti. i marchesi, o meglio i
loro illustri avi, adornavano, purtroppo soltanto in effigie, la grande scalinata marmorea dell’edificio: lungo la quale s’arrampicavano ogni giorno i bravi
magistrati radesi, amaramente confrontando i loro aspetti dimessi con la splendida solennità degli effigiati. Ora facevano ritorno, rinfrancati dalle loro ferie
bimestrali, al pauroso arretrato e trovavano il lavoro accumulatosi nel frattempo che reclamava la loro allarmata attenzione.
E fu proprio alla ripresa del lavoro, che sull’alta scrivania del magistrato dirigente, apparve un foglio munito del timbro dell’i.R.T.A. (industria radese tubi e affini) che conteneva una denuncia del titolare dell’impresa, il commendatore Paolo Cresci. il quale “rispettosamente” esponeva: che la sera del
venti settembre, mentre faceva ritorno alla propria abitazione, dopo una giornata faticosa di lavoro, era stato avvicinato da uno sconosciuto, poi identificato per Canzio Michele residente a Rado, fruttivendolo. Costui, afferratolo per
un braccio, aveva proferito le parole “farabutto, assassino”, cui era seguita - a
togliere ogni dubbio sul destinatario degli epiteti – una gragnuola di pugni in
faccia che aveva costretto il denunciante, previo intervento liberatorio – ab energumeno – da parte di alcuni passanti, al pronto soccorso: ove gli era stata riscontrata la frattura di uno zigomo, oltre a contusioni ed ecchimosi varie: il
tutto guaribile in giorni venti, salvo complicazioni, come da certificato medico allegato. “Eppertanto – così concludeva la denuncia – io sottoscritto Comm.
Cresci chiedo che si proceda penalmente nei confronti del Canzio per i reati
d’ingiurie, percosse, lesioni e ogni altro reato che la S.V. ill.ma ravviserà nel comportamento descritto: con espressa riserva per i danni materiali e morali “patiti e patiendi” dalla proditoria aggressione”.
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Sartori scosse il capo. Non scorgeva aggravanti all’orizzonte. intuiva il
disappunto del dirigente. “Ma quando la faranno questa riforma dei codici?”
invocò Keres. Per lui il maggior malanno che affliggeva la giustizia sansulpiciana era la penuria di aggravanti. Lui ne aveva proposte un centinaio in una
lunga e motivata relazione. Ma probabilmente nessuno l’aveva letta.
Dunque un galantuomo, un datore di lavoro che si sacrificava per i suoi concittadini, poteva essere assalito, a pochi metri dalla propria abitazione, da un facinoroso, e il legislatore non batteva ciglio, un’aggressione come tante altre.
Ma non era soltanto sdegno morale. Questo moto dell’anima che più ci
distingue dalle altre specie animali, non si trova in noi allo stato puro; come
invece avviene alle intelligenze celesti, per lo più angeli e arcangeli, che balzano di continuo dalle pagine della Scrittura, nonché dai dipinti sacri, il volto e
la spada fiammeggianti; e appaiono traboccanti d’ira, ma per nulla che personalmente li riguardi.
Purtroppo nelle regioni dell’animo umano l’indignazione, per sollevarsi e prender quota, abbisogna sempre della regolare pista di un interesse pratico e personale. in mancanza del quale sono soltanto sobbalzi e strattoni che
la Storia irride con il nome di utopie. Utopistica infatti è un’idea che in un dato
momento storico non è sorretta da interessi sufficienti.
Nel caso del dott. Keres, l’interesse pratico che lievitava il suo sdegno doveva, secondo i maligni, ravvisarsi nella cosiddetta “pendenza”; che tenteremo
di tradurre, per i profani, come “la quantità di lavoro gravante su un determinato ufficio”. Ora la competenza della magistratura di primo grado, rispetto
a quello di secondo grado, si determina, a “San Sulpizio”, in base al massimo
degli anni di reclusione che può infliggere il giudice. E una o più aggravanti,
inasprendo sensibilmente la pena, hanno l’effetto di lievitare il reato e di far
traboccare la competenza dal giudice inferiore a quello superiore; con sollievo del primo.
“A chi si potrebbe affidare questo processo?” chiese ancora il Dirigente
a Sartori.
Era un po’ come affacciarsi in una trattoria e chiedere dove si mangia bene
in paese. Keres se ne rese conto e si affrettò ad aggiungere: “Lei, Sartori, è troppo oberato di lavoro. Bisogna pure che facciano qualcosa i giovani”. in realtà,
sapeva che Sartori era un giudice esperto e capace, ma con un limite: non ascoltava i suggerimenti degli altri e non si lasciava influenzare da nessuno. in altre parole: non era affidabile.
“È un processo semplice – continuò il Dirigente – ma potrebbe anche complicarsi.
“Eh sì – approvò Sartori – Canzio accusa Cresci di avergli ucciso il figlio.
Per via dell’acquedotto…”.
“Ma sono sciocchezze belle e buone – esclamò Keres – Ha letto il “Corriere del Giorno”? Non c’è alcuna prova che le morti siano causate dal tifo. E
poi cosa c’entra il commendator Cresci? Mica ce l’ha messo lui il bacillo nell’acqua!”.
Sartori annuì, pensando intensamente alla sospirata promozione. Del resto il processo non sarebbe stato affidato a lui. E tuttavia provò un senso di
disagio. Per salire era necessario buttare a mare molta zavorra. Lo rattristava
che, troppo spesso, la zavorra fossero i buoni principi.
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L’aula ove si celebrano a palazzo Limondi i processi è una sala piuttosto ampia con una grande finestra rettangolare che, in origine, doveva essere
più che sufficiente ad illuminarla. Ora purtroppo impedita, in questa sua ragione d’essere e aspirazione, da un sovrapposto tendaggio, plumbeo per colore e pesantezza, che un’improvvisa paralisi dei gangli motori, e cioè del complicato meccanismo che ne consentiva l’elevazione verso il soffitto, ha immobilizzato per sempre. L’esperto in tendaggi visitando, qualche anno prima dei
fatti che si raccontano, il paralitico, non aveva saputo indicare altro rimedio
che la sostituzione, non senza porre in evidenza, com’è uso con i famigliari costernati, l’età dell’infermo: “Siamo giusti. Ha l’età di quello”, indicando un quadro tutto scrostato del Seicento.
Questa volta il Dirigente non aveva esitato ed aveva richiesto al Ministero la sostituzione del tendone o l’autorizzazione alla spesa relativa. Ma si era
ancora in attesa di una risposta. Così si era pensato di togliere semplicemente il drappone e riaprire il varco alla luce. Ma una più matura riflessione aveva sconsigliato tale semplice operazione. infatti non soltanto il sole, ormai senza ostacoli, avrebbe assalito i giudici con la luce diretta, in estate con un insopportabile calore, aggiungendo altro tormento a quello del giudicare, ma i
prospicienti balconi del palazzo di fronte, trasformati in altrettanti palchi di
teatro, si sarebbero, specie in occasione d’importanti processi, popolati di persone, magari in vestaglia, intente a godersi lo spettacolo; con disdoro della giustizia e pericolose distrazioni dei giudici.
Così da molti anni il sole non visitava l’aula giudiziaria di Rado. Del resto
avrebbe rappresentato una stonatura, una stupefacente intrusione della vita. Quell’agitarsi nero di toghe tra la decrepitezza dei banchi e degli scanni; lo svolgersi del rito processuale secondo tempi e modi e parole fissate per sempre da un
mondo defunto, la campeggiante scritta “La legge è uguale per tutti” sormontata e forse esemplificata da un sottostante crocifisso allargante sconsolatamente le braccia – “Vedete anche a me cos’hanno fatto”, - avevano trovato infine nella spettralità del neon la luce giusta, oltre che economica, del quadro.
L’aula era divisa in tre settori a mezzo di due transenne che la percorrevano in senso longitudinale. il primo settore era destinato ai giudici, al pubblico accusatore e al cancelliere, i quali sedevano sopra una sconnessa pedana dietro un grande tavolo a forma di ferro di cavallo.
il settore mediano era occupato da un lungo banco, con sedili retrostanti in cui trovavano posto gli avvocati. A un lato una rozza panca e dura riservata all’imputato: a richiamarlo alla sua condizione e pungolarlo all’umiltà.
infine lo spazio riservato al pubblico, spoglio d’ogni ornamento: ad eccezione di due grandi targhe d’ottone inchiodate nella parete di fondo recanti l’imperativo “non fumare, non sputare”; a luccicare piacevolmente, tutto il
giorno, davanti agli occhi dei giudici.
Erano le ore 9,30 quando il suono prolungato di un campanello elettrico e il trepestio degli avvocati in cerca del posto e della toga annunciarono al
numeroso pubblico presente l’ingresso in aula del giudice Regli. Subito gli si
avvicinò l’avv. Forioli, patrono di Paolo Cresci, inchinandosi, ossequiando, sorridendo: con un’arte che escludeva l’improvvisazione. Chiedeva che il processo nei confronti di Michele Canzio fosse celebrato per primo. il suo cliente era
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Capitolo XI
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atteso a un importante incontro con i sindacati. La comunicazione aveva anche il pregio di porre in rilievo l’importanza del personaggio. il giudice acconsentì e fece chiamare la causa.
L’imputato era un uomo esile, dall’aspetto dimesso. Si guardava intorno impacciato, non sapeva dove collocarsi. L’ufficiale giudiziario gl’indicò la
panca. “Sieda lì”, intimò, con il mal garbo riservato agli umili.
Sulla scia del Canzio una piccola folla di testi, spintisi, l’uno dietro l’altro, fin dentro all’emiciclo. il giudice, dopo essersi assicurato che non ne mancasse nessuno, “Sarete richiamati”, disse. Come stavano impalati, l’ufficiale giudiziario, a rendere esplicite le parole del giudice, prese a spingerli fuori dall’aula senza tanti complimenti.
Dal settore riservato agli avvocati si staccò, con voluta lentezza, il Cresci. Con aria infastidita, andò a collocarsi su una sedia presso la parete opposta a quella dell’imputato. Era un uomo alto e corpulento; elegante a metà, cioè
vestito da un buon sarto, che aveva però trascurato d’indicargli la cravatta e
il pullover da intonare all’abito.
Mentre il cancelliere dava lettura dei capi d’imputazione, Regli osservava comparativamente l’imputato e la parte lesa. incredibile che nello scontro
fosse stato Cresci ad avere la peggio.
Si volse all’imputato. La domanda di rito: “Ha inteso l’accusa… cos’ha da
dire a sua discolpa?”.
“Quello che è detto lì è tutto vero”, ammise a voce bassa il Canzio.
“È confesso”, proclamò l’avvocato Forioli. Sfoderò un sorriso, riservato,
questa volta, al difensore dell’imputato “Per non far perdere tempo al giudice, potremmo rinunciare ai testimoni”, propose.
il difensore, l’avvocato Paglieri, era giovane e combattivo. Difendeva il
Canzio gratuitamente, forse per incarico del partito in cui militava: “Chiedo –
replicò – che il giudice voglia interrogare l’imputato sulle circostanze e sui motivi che lo hanno indotto ad agire; e sentire su questo punto i nostri testi”:
“Mi devo opporre – si rammaricò l’avv. Forioli – Risulta dagli atti che il
commendator Cresci fu assalito mentre faceva ritorno a casa, alla sua famiglia.
Niente legittima difesa, niente provocazione. i motivi sono irrilevanti”. Esperto professionista, capiva la debolezza di questi argomenti. Li offriva tuttavia
al giudice un po’ nella speranza che questi abboccasse, magari per motivi metagiuridici, un po’ per dimostrare al suo cliente che non lasciava nulla d’intentato in suo favore.
Aveva, del resto, la coscienza a posto: a lungo aveva insistito presso Cresci perché ritirasse la querela e non si esponesse all’alea e alla pubblicità di un
processo. Ma Cresci era stato irremovibile: “Certa gente ha bisogno di una lezione – aveva enunciato – E poi mi do’ del tu con il Dirigente”; battendo una
mano sulla spalla al suo legale, a infondergli coraggio.
il dr. Regli prese tempo: “Sentiamo il parere del pubblico accusatore”.
“il pubblico accusatore non si oppone”, dichiarò con un filo di voce l’interpellato. A San Sulpicio, per ragioni di economia, la pubblica accusa, nei giudizi di primo grado, è rappresentata, volta per volta, da un avvocato officiato
all’inizio dell’udienza. Colto al volo mentre transita frettoloso per i corridoi del
palazzo di giustizia, distolto brutalmente dalle redditizie occupazioni professionali, questo coatto collaboratore del giudice sprofonda in un letargo che è,
ad un tempo, non resistenza e protesta contro la sopraffazione legale subita.
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Letargo o, piuttosto, sonno di felino se, all’incauto affacciarsi di un altro più
giovane avvocato, balza dal suo seggio e reclama, “a causa d’impegni professionali inderogabili”, la sostituzione.
“Allora – disse il giudice con tono bonario – se l’imputato vuole spiegarci i motivi…”.
Canzio si alzò di colpo dalla panca e puntando un dito accusatore contro Cresci: “ Quel signore lì ha ucciso mio figlio”, gridò. Negli occhi un lampo
improvviso di furore.
Cresci si sollevò a sua volta dalla sedia; enorme di fronte all’avversario
e tuttavia stordito dalla violenza dell’attacco; sembrava l’orso del tirassegno
centrato in pieno da un colpo di carabina. Tentò di ricomporsi. D’un tratto, portò la mano destra all’altezza della fronte e prese ad agitarne, unite nella reiterazione, le tre dita mediane. Voleva lumeggiare l’aberrante stato mentale da
cui solo poteva essere scaturita una siffatta accusa.
Scoppiò un parapiglia.
“Esigo rispetto per l’imputato”, urlò con quanto fiato in gola l’avv. Paglieri.
“Vergognatevi, anche qui siete venuti ad insultare”, replicò, con vibrazioni di altrettanta frequenza, l’avv. Forioli.
“Assassino, assassino”, gridò dal pubblico una voce femminile.
il giudice prese ad agitare freneticamente il piccolo campanello che teneva sempre a portata di mano. A differenza di quello elettrico, che si azionava dalla camera di consiglio e aveva un suono imperioso, questo spargeva un
suono dolce e festoso, poco adatto alla circostanza.
Due guardie accorsero verso il rumoreggiante settore del pubblico, afferrarono la donna che ancora urlava e si dibatteva e la portarono fuori.
“Faccio sgombrare l’aula!” minacciò Regli.
Ma il silenzio stava già tornando.
Ora anche gli avvocati ricuperavano la calma mai veramente perduta e facevano a gara a presentare le scuse – per loro, per i clienti, per il pubblico – al giudice; che le accoglieva di buon grado, visibilmente soddisfatto dell’ordine da lui
con prontezza ristabilito; e con mezzi, bisogna riconoscerlo, assai modesti.
“Procediamo ad interrogare i testi”, comandò.
Sfilarono per primi i testi dell’accusa. Avevano assistito all’aggressione
e, a stento, non senza personale rischio, erano riusciti a sottrarre Cresci alla
furia del suo aggressore. Era evidente il rispetto e la considerazione per la vittima, cui non mancavano d’offrire, all’uscita dall’aula, un cordiale tributo di beneauguranti sorrisi.
Fu poi la volta dei testi della difesa. “Presenti al fatto?”, chiese l’avv. Forioli.
“Riferiranno su circostanze precedenti”, chiarì non troppo l’avv. Paglieri. Cercava di far passare inosservato il suo carico d’esplosivo.
“Allora mi oppongo!”. L’avv. Forioli non era uomo da lasciarsi sorprendere. “Non vogliamo farci insultare un’altra volta!”.
“Ma cosa dovrebbero dire?” s’informò il giudice. Sentiva addensarsi di
nuovo la tempesta.
“Che Aldo Canzio è morto, nel settembre scorso, a causa – scandì Paglieri – di gravissima incuria e negligenza del qui presente signor Cresci”.
Dal settore del pubblico si levò un lungo mormorio.
“Ma è assurdo!” gridò rosso in volto e gesticolando l’avv. Forioli. “Assurdo”, echeggiò lugubre Cresci. “Qui – riprese il legale – si cerca d’intorbidire le
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acque di una causa molto chiara.”. Assunse un tono più composto e solenne:
“Denuncio il tentativo avversario di politicizzare questa causa”.
“Ma che c’entra la politica?” domandò Regli che sapeva fin troppo quanto c’entrasse. Ancora il giorno prima il Dirigente, allarmatissimo per il nome
del difensore nominato da Canzio, aveva intrattenuto a lungo Regli nel suo ufficio: “Condanni o assolva non m’interessa… sembra un processo molto semplice… Ma tagli corto, ha capito, tagli corto! Deve giudicare ingiurie, lesioni e
null’altro. E si ricordi: siamo in periodo preelettorale, la giustizia non deve prestarsi a speculazioni di nessun genere”.
“insisto per l’audizione dei testi – incalzò l’avv. Paglieri – non raccolgo
le insinuazioni avversarie. La difesa intende provare che Canzio agì nello stato d’ira provocato dal comportamento delittuoso di Cresci”.
Regli guardava l’imputato che si passava la mano sul volto come a trattenere le lacrime. “Poco o tanto”, pensò, “sono sempre loro a pagare”.
Volle fare un tentativo e chiamò a sé gli avvocati. “Avete considerato – chiese – la possibilità di risolvere pacificamente questo processo? Canzio fa una dichiarazione di rincrescimento e di stima; e Cresci rimette la querela. Sarebbe meglio per tutti”, concluse con forza. Detta da chi doveva decidere la causa, la conclusione suonava come un ammonimento per entrambi i contendenti.
Forioli se ne rese conto. “Provo a parlarne con il mio cliente” disse sollecito. Si avvicinò a Cresci e prese a confabulare con lui a voce bassa. Si capiva che incontrava una resistenza tenace. Alla fine si staccò dal suo cliente e ritornò al banco degli avvocati.
“il mio patrocinato – annunciò - acconsente a ritirare la querela. in ossequio all’invito del signor giudice” aggiunse.
“Così va bene – stabilì Regli – e avete fatto un piacere anche a me. Ho ancora sette processi oggi”.
Una considerazione banale: volta peraltro a scaricare la tensione che ancora si avvertiva nell’aria.
Senz’attendere la chiusura ufficiale, il pubblico scivolò via. Era un modo
di manifestare insoddisfazione. Di natura sportiva, è pur possibile, per un risultato in bianco. Ma forse era rimasta la sensazione deludente per qualcosa che si
era intravisto e non aveva avuto la forza di sbocciare. D’improvviso l’imputato,
s’alzò dalla panca e, rivolto al giudice, “È possibile non accettare?”, chiese.
“Non accettare che?” trasecolò l’avv. Forioli. La sua voce assunse un’intonazione di profondo disgusto.
“Non accettare, fare il processo”, chiarì Canzio, rivolto al giudice.
“Certo, ma non avete alcun interesse. Più che prosciolto non potete essere”.
“Vuole anche un premio per quello che ha fatto”, schernì Cresci.
“Noi non accettiamo”, dichiarò deciso l’imputato.
“Ci pensi bene, Canzio”, lo ammonì il suo difensore.
“Non accettiamo” ripeté l’imputato.
Era, pur in un uomo così dimesso e senza rendersene conto, un plurale
di maestà.
“Avanti i testi”, ordinò il giudice.
Sei volte, pur in versioni varie, Regli dovette ascoltare le malefatte di Cresci e dell’acquedotto. il racconto era di continuo interrotto dall’avv. Forioli con
domande e contestazioni varie con lo scopo fin troppo evidente di confondere le idee ai testimoni; ma ricucito poi, pazientemente, da Paglieri con brevi e
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calzanti domande: se il tifo aveva, almeno all’inizio, colpito esclusivamente gli
utenti dell’acquedotto Cresci; se da molti anni non si era più effettuata la pulizia della vasca; se questa era stata collegata con un rigagnolo apportatore di
acque putride; se Aldo Canzio aveva contratto il tifo ed era morto a seguito di
questa malattia. Ogni risposta una martellata a ribadire attorno a Cresci i chiodi acuminati delle responsabilità.
Forse fu per non assistere allo scempio della legge, sibilò – ma il giudice non vi fece caso – e per riprendere, spiegò, il controllo dei propri nervi, che
Forioli, senza chiedere autorizzazione, abbandonò, ad un tratto, l’aula giudiziaria, di corsa, in toga, in un nero fremito d’ali.
Le testimonianze volgevano intanto alla fine: fatti noti e arcinoti, ma che
adesso, sotto la scorta dell’angelo Paglieri, per la pazienza del giudice Regli e
in virtù dell’azzurra linfa trasfusa dalla biro veloce del cancelliere, non erano
più soltanto sofferenze e lacrime nelle case e per i marciapiedi del paese, ma
entravano purificati nella patria del diritto, dipartimento di Rado. Sullo sfondo poteva scorgersi il diavolo Forioli che fuggiva a rotta di collo, la toga tra le
gambe.
Ahimè queste fughe sono strategiche la maggior parte, e di breve durata!
Dopo solo dieci minuti d’assenza ecco l’avv. Forioli far ritorno in aula,
disteso in volto e persino sorridente. Chiese ed ottenne la parola esprimendo
il suo “accorato stupore” che il processo a carico di Canzio “un forsennato privo d’ogni facoltà critica e che in fondo ci fa una gran pena” si fosse trasformato, per la malizia del suo difensore, in un processo, senza garanzia alcuna,
a un galantuomo da tutti stimato quale Cresci. “Chiedo – aggiunse – un congruo rinvio per poter indicare testi non compiacenti”. Così dicendo, fece un gesto d’incoraggiamento all’usciere che sporgeva, titubando, dalla porta e chiamò a sé Cresci, dimentico ormai, nell’accorrere, del peso materiale oltre che
sociale della propria persona – gli sussurrò qualcosa nei penduli padiglioni auricolari e riportò lo sguardo sul giudice nel frattempo raggiunto dal claudicante messaggero.
Regli fece un gesto di fastidio. “Dica: appena terminato questo processo. Subito dopo questo processo”, scandì.
L’usciere schizzò via, trascinando per gl’insidiosi dislivelli, la gamba da
lui immolata, almeno in parte, alla Patria (in umiltà, nel corso di una razzia di
galline).
S’alzò il Pubblico accusatore. Riattivava la circolazione del sangue. “M’associo alla domanda di rinvio”. Senza malizia alcuna. Sperava soltanto d’essere liberato dal supplizio: le campane annunciavano a gran voce il mezzogiorno.
La decisione del giudice giunse inaspettata. Spiegava che i nuovi fatti emersi nel dibattimento erano collegati e influenti rispetto al processo a carico di
Canzio e però superavano la competenza del giudice di primo grado. Di qui la
necessità di rinviare tutto quanto “al superiore Tribunale di Mortola”.
Giuridicamente la soluzione era ineccepibile. Molti la giudicarono coraggiosa; anche se, nell’opinabilità delle cose umane, qualcuno, in quella decisione che apparentemente non decideva nulla, volle scorgere analogie con quella adottata in Palestina dal governatore romano; complice il bacile.
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Angelo Manitta Mary Cassat/ Lev Nikolaevic Tolstoj
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Q U AT T R O P O E S I E
QUATTRO POESIE
di Angelo Manitta
Mary Cassatt
La strada antica svapora
di colori lilla come cornice
che cerchia giochi segreti
di pittori. La tela è un plenilunio
di soli svaniti e rappresi
che evocano sortilegi, lievitati
da desideri: il battello si ferma
sulla battigia in remota afasia.
Lev Nikolaevic Tolstoj
«Non ho dimenticato la triste partenza,
immaginata come esilio perpetuo,
o Signore. Ora, quasi senza Dio,
non sento religione; ma non T’ho dimenticato
né ho dimenticato il volto rugoso
di mia madre, le cui guance si rigavano
di lacrime e il cuore mi si spezzava
col tremore delle membra, l’irrigidimento
delle ossa, il raggelamento del sangue.
il treno le portò via la speranza,
quel treno che mi dava speranza.
O Signore, è caro il prezzo
Della alsa ricchezza conquistata,
quando scopro i miei cibi
insapori e inodori. Ma tu come
hai fatto a sopravvivere così a lungo?»
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Q U AT T R O P O E S I E
il giornalista fissa sulla carta l’evento
quotidiano, lo storico approfondisce la connessione
delle azioni, dei gesti, delle parole. il pittore
rende perpetuo l’attimo in un unico
eterno fluire. i capi di stato
sono tutti lì. A guerra finita William Orpen
guarda in faccia Woodrow Wilson,
Lloyd George, Vittorio Orlando, e li immortala
Ivan Sergeevic Turghenev
Penetra cespugli con il fucile a tracolla.
Le anitre starnazzano sul lago e lunghe
scie d’ombra segnano lo specchio.
Voli d’uccello si alternano a corse
di cinghiali o a lepri sfuggite dai giacigli
per l’annusare dei cani. Botti
assordanti riempiono l’aria, mentre passi
silenziosi scrutano prede acquattate
che lanciano occhiate guardinghe. Silenzio
è intorno. Paura d’assoluto e di vuoto
astrae la mente del cacciatore, le cui pupille
feriscono l’aria di smalto: passi
nel bosco, rumore di foglie calpestate
a battiti lenti. Sussulta il cacciatore
e, avvolto dal verde degli alberi, si fa foglia,
si fa fiore, si fa frutto. il tempo non sonnecchia.
La preda scappa nell’oscurità delle fronde
e gli occhi corrono dietro inattesi fruscii:
rami mossi dal vento, scoiattoli
danzanti, raggi di luce multicolore.
Angelo Manitta William Orpen / Ivan Sergeevic Turghenev
William Orpen
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Milena Buzzoni Oro birmano
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ORO BIRMANO
ORO BIRMANO
di Milena Buzzoni
SECONDA PARTE
Causa maltempo il volo per Mandalay ha due ore di ritardo. Ne approfitto per un caffè (2 dollari!), per comprare qualche braccialetto di lacca in una
specie di free shop e per documentarmi un po’. A 700 Km da Yangon e con circa 700.000 abitanti, Mandalay fu l’ultima capitale prima dell’avvento dell’impero coloniale inglese e conserva un ruolo religioso e culturale. il penultimo
sovrano Mindon Min trasferì la capitale da Amarapura a Mandalay nel 1861 e
con l’occasione fece seppellire vive nelle fondamenta della nuova reggia 52 persone perché diventassero spiriti protettori. Allo stesso modo il successore re
Thibaw pensò di rafforzarli seppellendone altri 600 attorno al palazzo: tutto
questo in tempi non lontanissimi a conferma di quell’attitudine alla ferocia di
cui si diceva all’inizio. intanto l’ATR 72 della Yangon Airways è finalmente arrivato e un funzionario chiama i passeggeri ad alta voce facendo segno di affrettarsi.
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ORO BIRMANO
Milena Buzzoni Oro birmano
Arrivati a destinazione ci fermiamo subito in un laboratorio di intaglio
del legno dove ragazzi accucciati per terra lavorano con scalpelli e bulini: nascono bellissimi pannelli, statue, mobili a intagli e volute che costano davvero poco rispetto alla perizia che richiedono, anche se i prezzi migliori non si
trovano in questi laboratori ma in giro per mercatini.
Un salutino (per le donne solo da lontano!) al Budda alto 4 metri e coperto da uno strato di 15 centimetri d’oro del Mahamuni temple e siamo al Sedona Hotel con un elegante ingresso a colonnato affiancato da due vasche di
pesci rossi grossi come carpe che ci seguono fino nella hall. Camere belle e ampie, ma il bollitore, come spesso accade, non funziona, mentre in bagno non
manca nulla. Proprio davanti all’albergo si espandono le mura merlate del Forte suggestivamente illuminate, alle quali domattina vorremmo dare un’occhiata. L’acqua riempie il fossato che le cinge per una larghezza di 70 metri e riflette gli 8 km di mura che, con uno spessore di 3 metri, ne costituiscono il perimetro. Nel 1945 il palazzo reale che sorgeva all’interno, fu distrutto da un
incendio durante la battaglia tra gli inglesi e gli indiani da una parte e i giapponesi, che dal 1942 occupavano la Birmania, dall’altra. Vera e propria città fortificata, il palazzo è stato ricostruito ad opera dei carcerati, ma il calcestruzzo si è sostituito al legno e l’alluminio ai tetti! Delle tre porte per ciascuno dei
quattro lati ne è rimasta una per lato sormontata da un pyatthat, cioè un padiglione in legno originale di raffinata fattura.
È piacevole andarsene a letto con le immagini della giornata negli occhi
e stasera, quando li chiudo, rivedo il Monastero del Palazzo d’Oro, uno spettacolare tempio di legno dal fittissimo intaglio: pareti, porte, coperture sono
tutte un ricamo, mentre l’interno è interamente rivestito d’oro.
La struttura ha la fragilità degli edifici di questo materiale ma proprio
per questo è tanto più accogliente e caldo. in origine era l’appartamento reale che fu poi smontato e rimontato nel luogo dove si trova adesso per farne
un monastero. Un tempo sfavillava di mosaici di vetro ed era dorato anche
all’esterno: vento e pioggia lo hanno reso meno sontuoso ma più intimo e familiare.
Ci spostiamo per andare a vedere il Kuthodawpaya, l’altra delle immagini che riempiono il mio dormiveglia. È il “libro” più grande del mondo formato da 729 lastre di pietra fittamente incise dove sono riportati gli insegnamenti di Budda. Ognuna è conservata dentro uno stupa bianco, quindi le 729
costruzioni disposte simmetricamente attorno a un ottocentesco stupa centrale creano una specie di cimitero di cappelle contenenti non un corpo ma un
precetto. Quando il re Mindon convocò il V Sinodo Buddista ci vollero 6 mesi
ai 2400 monaci là convenuti per leggere tutte le tavole!
La cena di stasera, sempre davanti al forte illuminato, ha qualche variante: spiedini di maiale, pollo allo zenzero, gamberi al tamarindo e un dolcetto
di palline di gelatina con mais che non è male. Ogni tanto, come all’Ocean, il
centro commerciale dove siamo passati prima di cena, manca la luce che per
fortuna torna dopo pochi minuti.
È una scarpata sabbiosa e sporca quella lungo la quale scendiamo per raggiungere un barcone di legno che ci porterà a Mingun. La traversata sull’irawadi è un lento percorso di circa un’ora su un fiume senza corrente smosso solo
dai balzi dei delfini. All’arrivo ci aspetta un gruppo di carovane tirate da un paio
di maestosi buoi dal mantello grigio-verde come se fossero emersi dal muschio
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della terra. La capotte porta la scritta “taxi”! Usciamo da un breve sentiero e vediamo emergere dalla pianura quello che, se il suo committente re Bodawpaya
non fosse morto nel 1819, sarebbe diventato lo zedi più grande del mondo! Siamo sopraffatti da un’ imponenza che non ci saremmo aspettati: davanti a noi solo
il basamento di questo stupa incompiuto che avrebbe dovuto innalzarsi per 150
metri! È un enorme rossiccio parallelepipedo con un portale lavorato a bassorilievo su ognuno dei quattro lati, un gigante di mattoni ferito dal terremoto del
1838 con i fianchi sgretolati e spesse spaccature. Resiste con la sua forza solitaria come se dovesse restare testimone di una memoria: c’è in questa immane
presenza l’intenzione del suo ideatore di creare qualcosa di spettacolare ed eterno e c’è la fatica di migliaia di schiavi e prigionieri di guerra che vi lavorarono
per vent’anni! Poco lontano, vicino al fiume, al loro posto di guardia ci sono due
chinthe, in parte crollate, di cui resta la porzione posteriore con una traccia di
coda. Anche qui non sembra ci sia in corso alcun progetto di recupero: eppure
ognuno di noi vorrebbe che tutto questo avesse non solo un futuro ma una vita
eterna perché lo vedessero i nostri figli e i nostri nipoti, perché, appunto, fosse
un patrimonio dell’umanità, per sempre.
il Pahtodawgyi era anche munito di una campana di 90 tonnellate, la più
grande del mondo dopo quella di Mosca che pare sia venata e poggi a terra.
Conservata lì accanto e sorretta da una robusta struttura in ferro, fa da sfondo alle foto dei visitatori che la colpiscono con un tronco facendola risuonare. Si può entrare e uscire da sotto la campana e farsi avvolgere dal suo bronzeo mantello.
Comincia a piovere e, prima che diluvi, raggiungiamo un posto dove mangiare con una veranda coperta da una lamiera che amplifica il suono della pioggia. Nella strada le pozzanghere si allargano, l’acqua cola dal tendone che copre la veranda verso la strada e scava rivoli nel fango. La tenda stessa è bucata e dobbiamo spostarci a seconda delle gocce che cadono. Fede tenta di ordinare una pizza ma quando ormai tutti abbiamo finito il nostro spuntino, gli
dicono no tomato, il pomodoro non basta per la sua pizza; così ripiega su un
piatto di tempura croccante che non gli fa rimpiangere la Margherita mancata. Una donna, insolitamente alta rispetto alla media delle donne e degli uomini birmani dagli esili corpi di adolescenti, mi ha seguito fin qui con i suoi
longyi . Provo a darle i 5 dollari senza prendere il longyi che mi porge ma rifiuta e mi mette in mano una fantasia di fiori verdi marroni e neri e se ne va.
Per fortuna la pioggia cessa e cessa il frastuono che l’accompagna. Torniamo
verso il battello. Ritroviamo gli stessi “taxi” in attesa sull’argine del fiume e scendiamo per la scarpata di sabbia dove piante di zucchine corrono in mezzo a
cartacce e residui di plastica e risaliamo a bordo.
Anche se ne abbiamo visti tanti, i laboratori artigianali sono sempre interessanti come testimonianze di abilità, creatività, attenzione, pazienza. i manufatti arrivano a commuovere, come se custodissero una scintilla trascendente. i telai in legno intagliato della seteria nella quale ci fermiamo, sembrano piuttosto strumenti musicali, baldacchini sotto i quali una pianista intesse note,
creando disegni colorati come onde sonore. Ogni lavorante riceve 1000 kyat
per ogni spoletta lavorata il cui filo viene intrecciato sul rovescio del tessuto
per ottenere il motivo riportato su un canovaccio che ognuna ha davanti agli
occhi. Restiamo nei dintorni di Mandalay, la città del forte in mezzo all’acqua,
e raggiungiamo Amarapura.
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-Andatelo a vedere! Non ve lo perdete il ponte u Bein!- ci avevano detto due turisti italiani che all’aeroporto di Heho dividevano con noi l’attesa del
volo per Mandalay. in effetti il ponte in teck più lungo del mondo è una curiosa struttura fatta di pali piantati nell’irawadi che reggono una malferma passerella. La suggestione è data dal suo scheletro essenziale che si prolunga a perdita d’occhio sull’acqua, esile e sinuoso. È domenica e lo percorre una folla di
giovani che passeggiano su e giù, coppie per mano, famiglie.
La serata è al Green Elephant , un ristorante cinese con un bel giardino
a pochi passi dal Sedona al quale torniamo a piedi per godere ancora un po’
di queste mura merlate che si raddoppiano nell’acqua. Mura che la mattina successiva intravvederemo appena nella nebbia di questa ulteriore giornata nuvolosa. il programma è raggiungere Bagan con il pullman per evitare un altro volo
e guardare il paesaggio. Usciti dalla città, c’è solo un tratto di quella che sarebbe presuntuoso definire “autostrada”; la carreggiata è più larga e asfaltata e
passiamo un casello con un tavolo al quale sono sedute tre persone (dalla consegna dei bagagli allo smistamento delle valigie nelle hall ai lavori lungo le strade tutto viene fatto “in gruppo”!) che staccano una ricevuta e la consegnano
all’autista. Altre volte i caselli somigliano ai nostri; quello alle porte della città, poi, è costruito in mattoni rossi, come se fosse l’ingresso di un palazzo importante. La strada in realtà prosegue come una normale provinciale con animali che trotterellano ai bordi, rivendite lungo la corsia, persone che camminano. Una breve deviazione ci porta al Monte Popa, alto più di 700 metri su una
foresta pietrificata. Questa solitaria vetta posata in mezzo a una fertile pianura (popa in sanscrito significa “fiore”) e sormontata da una corona di pagode,
somiglia a un cappello a cilindro infiocchettato. Definito l’Olimpo del Myanmar, è considerato la dimora dei Nat ed è il principale centro di culto di questi numi tutelari simili ai Penati e ai Lari dei Romani. Qui sono rappresentati
da una serie di coloratissimi manichini ai quali si portano offerte. Secondo la
superstizione birmana non bisognerebbe indossare vestiti rossi o neri sulla montagna, né sparlare di altri né portare carne con sé per non offendere questi spiriti ricevendone cattiva sorte! il tempio di Mahagiri, in realtà, ha ben poco di
mistico o raccolto. Arrivati, dopo 777 scalini, alla cima che da lontano prometteva spazi dello spirito con le sue svettanti pagode, si scopre un posto molto
kich, da padiglione di Luna Park: Luci psichedeliche (quelle stesse, come osserva Terzani, che i militari regalavano ai monasteri per ingraziarsi gli abati e che
adesso «lampeggiano a mo’ di aureola dietro le teste di tantissimi Budda in tutta la Birmania»), manichini, fiori finti, bancarelle, stupa senza storia coperti di
bronzina. Dopo la fatica della salita, scalzi su sporchi gradini tra scimmie dispettose che frugano nella spazzatura, siamo veramente delusi!
Lungo la strada ci imbattiamo in una specie di laboratorio per l’estrazione del succo di palma con il quale vengono fatte caramelle, bevande, grappe, unguenti per massaggi. Per 3$ compro una bottiglietta di grappa rivestita da un involucro intrecciato con foglie di palma da regalare al mio futuro genero. Assaggiamo anche un aperitivo birmano preparato per accompagnare il tè o viceversa: noccioline, aglio abbrustolito, zenzero tagliato a fiammifero, fagioli secchi.
Arriviamo a Bagan per una strada che passa attraverso la pianura dei templi, un notturno pieno di suggestione con le luci che rischiarano dal basso questi stupa di mattoni, grandi, piccoli, a gruppi o isolati. Qualcuno vanta una cuspide dorata che scintilla nel buio. Arriviamo al nostro resort, il Tyripyitsaya
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Hotel che, dopo il basso edificio in legno della reception, si apre verso un prato con lampioni e aiuole fiorite. il tutto, a sua volta, scende verso una distesa
di sabbia aperta sul fiume. Un sogno! Purtroppo ci danno delle camere in due
edifici-dormitorio defilati, forse ex alloggi per il personale con camere squallide e bagni da palestra! Sollevazione generale visto che la nostra prenotazione prevedeva superior rooms! in breve scopriamo che quelle che ci hanno dato
sono superior rooms, ma niente da fare, la disputa si anima sempre di più e
dopo un’estenuante trattativa, per 20 $ in più a camera, spuntiamo 7 bungalows sul prato affacciato al fiume che delizieranno i nostri tre giorni di soggiorno! Siamo nel cuore della piana, circondati dagli stupa illuminati che spuntano tra gli alberi! La solita cena sotto il tetto in legno di un ristorante-giardino, è movimentata da uno spettacolo di marionette che muovono persino occhi e sopracciglia.
Visitiamo ancora templi magnifici, pagode d’oro che sfavillano finalmente in una giornata di sole pieno e tutta una serie di stupa in mattoni, a base
quadrata, rettangolare, rotonda, con copertura a cupola, a cuspide, a scudo. i
portali sono quasi sempre lavorati e coronati da formelle occupate da Budda
o da piastrelle; gli interni affrescati da minuziosi disegni a riquadri rappresentanti le fasi della creazione con i primitivi colori del nero, del bianco e del giallo. Lavori del 1100 a coprire una struttura in mattoni che si regge senza malta o alcun materiale tra un elemento e l’altro; qua e là i buchi provocati dagli
insetti attirati dal latte usato come collante nell’impasto dell’intonaco.
Gli stupa della pianura di Bagan nascono e crescono di diverse altezze
e forme come se una mano divina li avesse disordinatamente seminati. Germogliati in maniera spontanea, sono diventati una folla di guglie che al tramonto si trasformano in rosse fiamme tra le quali, dal Noro Guni temple, vediamo
scomparire il sole. Solitari come il Taj Mahal, sorprendenti come i mostri di Bomarzo, incredibili come i monumenti di Angkor, vivono tra le palafitte della
gente che coltiva orti ai loro piedi.
«Ci sono viste al mondo dinanzi alle quali uno si sente fiero di appartenere alla razza umana. Pagan all’alba è una di queste. Nell’immensa pianura
segnata solo dal baluginare argenteo del grande fiume irrawadi, le sagome chiare di centinaia di pagode affiorano lentamente dal buio e dalla nebbia: eleganti, leggere; ognuna come un delicato inno a Budda. Dall’alto del tempio di Ananda si sentono i galli cantare, i cavalli scalpicciare sulle strade ancora sterrate.
E’ come se una qualche magia avesse fermato questa valle nell’attimo passato della sua grandezza….. solo qua e là dal verde giada delle risaie spuntano
le vette bianche delle pagode, i tetti bassi di paglia delle case di legno….Niente è moderno, niente è del ventesimo secolo». Così, In Asia, Terzani descrive
questa pianura.
Anche mercoledì è una giornata splendida che si annuncia con colori d’acquerello. Giriamo con calessi che passano tra uno stupa e l’altro, sfiorano spigoli, sostano davanti ai templi incisi. Stiamo un po’ in bilico su questi sobbalzanti carretti a cui, come dice Orwel nel suo primo romanzo Giorni in Birmania, «raramente i carrettieri birmani ungono i mozzi delle ruote, forse pensando che quel rumore tenga lontano gli spiriti maligni». il pullman ci porta poi
nei siti principali : l’Ananda Temple è l’unico a croce greca con affreschi ancora visibili e quattro enormi Budda in piedi, uno per ciascun lato dell’edificio, il Tayokepyay Temple con portali ricamatissimi, il Payathozu Temple che
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si presenta lungo e basso e conserva minuziosi ininterrotti affreschi, con piccoli riquadri dove si moltiplicano le effigi di Budda formato tessera, motivi di
alberi, soffitti a volta finemente dipinti. il Nanphaya Temple è l’unico tempio
indù della zona, rinforzato all’interno con putrelle e sorretto da poderosi pilastri incisi sui quali compare l’immagine di Shiva. Non altrettanto suggestivo
e raccolto l’ultimo paya della mattinata intonacato di bianco e ingabbiato dalle impalcature di bambù, che conserva i Budda più grandi del paese, uno in piedi, gigantesco, sfavillante d’oro e l’altro all’interno di un ambiente angusto, interamente occupato da questo Budda disteso. È il tempio di Manuha indicato
dai Birmani «come il simbolo della loro condizione. il tetto del tempio gli preme sulla testa. Le pareti gli stringono le spalle. il suo petto è come se non avesse spazio per respirare. il suo corpo è come pressato in una cella. il Budda di
Manuha è lì da più di mille anni, prigioniero, col suo sorriso triste rivolto contro la parete. Lo fece costruire un re che aveva perso la libertà e che volle ricordare al suo popolo le pene di quella condizione» , così ancora dice Terzani nel suo libro.
Ad ogni sosta siamo assaliti da nugoli di venditori, soprattutto venditrici, di solito ragazze giovani, carine, a volte con bambini in braccio, disposte a
barattare una scatola di lacca con un rimmel o un rossetto.
il villaggio di Minanthu, conciliabolo di poche capanne, ha prezzi alti, donne che fumano grossi sigari e vecchiette che filano: un fasullo allestimento per
i turisti di passaggio. Anche oggi pausa-pranzo in piscina, sul prato tra i templi e il fiume.
«Alberi di Mohur, simili a grandi ombrelli di boccioli rosso sangue, frangipani con fiori color crema senza gambo, buganvillea rossa, hibiscus scarlatti e rosai cinesi, e tigli e tamarindi dalle foglie simili a piume. i colori vivi abbagliavano nella luce. Un mali quasi nudo, con un annaffiatoio in mano, si aggirava in mezzo alla giungla fiorita come un grande uccello che si nutrisse di
nettare»: le parole di Orwel si adattano a questo Eden asiatico dove vorrei fermarmi almeno una settimana!
Anche l’aeroporto di Bagan dal quale partirà il volo per Yangon, è poco
più di un capannone. Niente nastri, bagagli scaricati a mano e monitor che anziché riportare l’orario dei voli trasmettono pubblicità. A fungere da tabellone è un cartello scritto a mano davanti all’uscita sulla pista dove un uomo in
divisa chiama ad alta voce i passeggeri. Gli aerei della Yangon airwais sono piccoli ma non così male come qualcuno ci aveva detto e la rotta ci permette di
guardare dal finestrino le risaie sottostanti, i campi arati, il fiume lucido e sinuoso come la scia di una lumaca. Atterriamo in perfetto orario a Yangon per
prendere subito il pullman verso la Golden Rock. Dopo un’ora e mezza circa,
lasciamo il pullman per salire su uno dei camion che arrivano alla sommità della montagna. Sono mezzi da una ventina di persone e, dato che nel nostro c’è
ancora posto, salgono alcuni bambini usciti da scuola per approfittare del passaggio. Seduti su stretti sedili, con tubi di acciaio come schienali, iniziamo una
ripidissima salita a tornanti: l’autista prende le curve come Valentino Rossi sulla sua Honda incurante della strada sconnessa mentre noi, ne siamo certi, non
sopravviveremo alla prossima rampa! Per fortuna qualche volta ci fermiamo
per consentire la discesa ad altri camion superaffollati di pellegrini. Finalmente la corsa è finita ma domani dovremo tornare a valle! il nostro albergo, che
sapevamo sarebbe stata una sistemazione molto frugale, è inferiore alle aspet-
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tative con letti scrostati, lenzuola di dubbia freschezza e lavabo senza acqua
calda. in compenso c’è una tv piatta con due canali e una dotazione minima
di confort, tipo caffettiera elettrica, spazzolini, cuffie per la doccia.
Visto che l’ora del tramonto è prossima, ci affrettiamo verso la Golden Rock
dove sta avviandosi molta altra gente. Una breve scalinata porta a una terrazza
in fondo alla quale ai soli uomini è consentito di entrare su un piccolo belvedere proprio a ridosso della grande pietra che resta in bilico su un precipizio grazie, giurano, a un capello di Budda che fa da contrappeso!. Le donne devono accontentarsi di fotografarla dal percorso che le gira attorno. i pavimenti, sui quali, come sempre, camminiamo scalzi, anziché essere lindi e puliti sono invece sporchissimi dato che i pellegrini di solito passano qui la giornata intera mangiando e bevendo; ma la roccia, che sembra debba rotolare giù da un momento all’altro, nobilita tutto questo allestimento un po’ kich e si presenta a noi grande,
rotonda, rivestita d’oro con un piccolo stupa sulla sommità.
il tramonto è perfetto, persino oleografico con questa sfera d’oro in primo piano, il rosso sull’orizzonte, il verde ormai sfocato dei monti e delle colline che riempiono la vallata sottostante. Ci sentiamo un po’ a disagio a parlare ad alta voce e a girare con le fotocamere in mano tra questa gente che prega, ma nessuno sembra farci caso.
La cena a buffet consente una varietà che mancava alle nostre solite cene.
L’allestimento è da refettorio ma il mangiare buono. La mattina aspettiamo di scendere con uno di quei camion-ottovolante con i quali siamo saliti. Monaci in tunica bordeaux sfilano con le ciotole in mano per la questua quotidiana; alcuni
portano due cestini appesi a un bilanciere e un copricapo di cuoio, alto e piatto e, di tanto in tanto, suonano un gong procedendo lentamente. Ma la folla più
consistente è quella dei pellegrini e quella degli sherpa che si caricano incredibili pile di bagagli nelle gerle di bambù che portano sulle spalle. Uomini o donne chiedono ai turisti di affidare loro le proprie valigie o di farsi trasportare su
portantine fatte con grossi pali di bambù. Arriva il camion e comincia la discesa in caduta libera per i ripidi e ravvicinati tornanti. È tutto un inchiodare e accelerare tra le preghiere dei passeggeri affinché Budda protegga i freni con sguardo “illuminato”! E infatti, incredibile a dirsi, arriviamo incolumi e dopo tre ore
buone di pullman (il traffico e la durata dei semafori di Yangon mettono a dura
prova qualunque pazienza!) siamo di nuovo al Shangri-là Hotel. Doccia e riconcepimento dei bagagli in funzione del volo di domani che ci riporterà a Milano.
Mentre cerco di smistare le cose comprate, mi capitano in mano, oltre le ciotole di lacca, la vecchia scatola, la collana di giada e gli orecchini, il fermaglio a pettine e un imprecisato numero di parei e longji dalle fantasie irresistibili, i regali per Bianca, la mia nipotina di due mesi che non vedo l’ora di vedere: un pigiamino viola con alamari e colletto in piedi, una marionetta di legno con due codini in testa e una scatola fatta a pesce che contiene un micro-presepe. Poi apro
un foglio che avevo messo da parte insieme a queste cose per lei, del quale mi
ero completamente dimenticata : è una ninna nanna birmana da sussurrarle all’orecchio non so ancora su quale melodia …..
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Ninnananna
Sulla banchina rotonda della luna
una lepre dorata s’acquatta, occhi socchiusi……….
dormi………..
dormi……….
Un vecchio tutto ossa macina riso
guarda alla banchina rotonda della luna…….
dormi………..
dormi………..
Potrebbero essere spettacoli dorati,
le dolci mezze ombre dei Nat……
dormi…………
dormi…………
Pittura di sole calante che scorre,
per placare e chiudere i tuoi occhi……
dormi……
dormi……
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DIRITTI UMANI NEL MONDO:
SUCCESSI, ERRORI, PASSI INDIETRO…
di Aldo Forbice
Da seimila anni la guerra piace ai popoli
litigiosi. E Dio perde il tempo a fare le
stelle e i fiori.
Victor Hugo
(La poesia Depuis six mille ans la Guerre (1865) si trova incisa nella parete della cella 601del carcere di Scheveningen, L’Aia, dove erano stati rinchiusi i partigiani condannati a morte dalla Gestapo tra il 1940 e il 1945).
Ormai è noto, anche perché se ne è parlato molto, i media sono scarsamente interessati ai temi della tutela del diritti umani. Se ne discute raramente, perché vengono considerati “noiosi” e ripetitivi: argomenti da addetti ai lavori, da
minimizzare, nascondere, come la polvere sotto il tappeto, a meno che non si tratti di grandi catastrofi umanitarie (genocidi, massacri ripetuti, violazioni sui diritti umani per lo più perpetrati da paesi occidentali, soprattutto degli Stati Uniti: quelli della Cina, della Federazione Russa e della piccola Cuba non “fanno notizia”, così come le sistematiche violazioni sui diritti fondamentali che avvengono quasi quotidianamente in Africa, in Asia e in America Latina).
Anche la letteratura - mi riferisco soprattutto alla narrativa e alla poesia - è piuttosto avara di argomenti che abbiano come soggetto i bambini soldato, le vedove indiane che ancora oggi finiscono sul rogo, insieme al corpo
del marito, le donne pakistane col viso devastato dall’acido, le donne cinesi vittime della secolare schiavitù imposta dagli uomini, i bambini sottoposti a sevizie e sfruttati anche sessualmente, il nuovo schiavismo, le infibulazioni, ecc.).
Certo, non mancano i saggi e i libri di testimonianze, di nicchia, di denuncia,
ma si tratta di un fenomeno editoriale molto limitato, con la saggistica che risente pesantemente la crisi e che, soprattutto in questo campo, non “tira” più
come pochi anni fa.
Del resto, che cosa ci possiamo aspettare se persino un grande storico
scomparso di recente, Eric Hobsbawn, quando gli fu chiesto, nel 1995, se l’aver
appreso che il massacro di 15 o 20 milioni di uomini, donne e bambini avvenuto nell’Unione Sovietica, negli anni ’30 e ’40, gli avesse fatto cambiare opinione sul comunismo, rispose orgogliosamente di no. Ciò significa, insistette
l’intervistatore, che valeva la pena massacrare milioni di esseri umani? «Certamente», ribatté Hobsbawn.
Quello storico era di formazione marxista e, come dimostra un saggio pubblicato da “Nuova storia contemporanea” (diretta da Francesco Perfetti), giustificò i massacri stalinisti, l’attacco dell’Urss alla Finlandia e persino la repressione russa della rivolta ungherese. Massacri che, lo diciamo per inciso, non erano
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ascrivibili solo all’era di Stalin, ma che risalivano, anzi iniziarono con la rivoluzione russa per volere di Lenin. Citiamo solo un esempio: il leader carismatico
dei Soviet, l’11 agosto 1918, ordinava ai comunisti di Penza: «impiccate assolutamente e pubblicamente non meno di cento kulak, ricchi e succhiatori del sangue del popolo, e pubblicate i loro nomi, togliete loro tutto il grano e preparate
delle liste di ostaggi». Tutta l’operazione veniva fatta “in via amministrativa”, senza cioè processi o alcuna garanzia legale. in quei giorni le vittime della repressione ordinata da Lenin furono almeno 20 mila. Ecco da chi aveva imparato quel
“galantuomo” di Stalin, che –secondo Hobsbawn – “non era totalitario”.
La saggistica, in generale, sulla violazione dei diritti umani non è in alcun modo paragonabile alla vasta letteratura sulla Shoah, che ogni anno si arricchisce, per fortuna, di nuovi testi.
Nella narrativa le cose cambiano sensibilmente. infatti, dopo il definitivo tramonto del “romanzo ideologico”, tipico dell’impegno politico e sociale
dell’immediato dopoguerra, gli scrittori italiani hanno dimostrato di essere sempre più “ reticenti” sui temi sociali e su quelli roventi dei diritti degli esseri umani, e troppo spesso si rifugiano nelle eterne tematiche dell’amore, dei sentimenti, delle passioni e dell’evasione.
Eppure scrittori, come ignazio Silone, ebbero molto da dire negli anni ’70,
in proposito: «il primo dovere di uno scrittore – scrisse - è la sincerità. E il primo dovere di una società verso i suoi artisti e scrittori è di rispettarne la sincerità. Sono pertanto lontanissimo da ogni velleità di far prevalere tra gli scrittori una mia particolare concezione delle relazioni tra letteratura e politica. Personalmente io mi sono sempre sentito ‘impegnato’, direi quasi nel senso più
rigoroso del termine: “impegnato”, direi quasi nel senso che il termine ha nel
gergo del Monte di Pietà o Monte dei Pegni. Ma sono assolutamente avverso a
farne una norma o una misura di valore. Non credo raccomandabile indurre
altri scrittori, che spontaneamente non se la sentono, ad attenersi al medesimo criterio. Ogni scrittore deve esprimersi con la sua voce: non deve parlare
o cantare in falsetto».
Questa l’opinione di uno scrittore che era stato un importante dirigente politico comunista, ma che poi aveva rinunciato al marxismo per il cristianesimo e un socialismo umanitario.
Vi sono però saggisti e storici contro corrente, come Steve Pinker, autore de Il declino della violenza, che ha scritto un libro di quasi 900 pagine per
dimostrare che oltre 100 milioni di morti, fra le due guerre mondiali, la Shoah, le vittime dei gulag, i genocidi, i massacri interetnici, la criminalità, il terrorismo, ecc. non sono una gran cosa, in un contesto di oltre 15 miliardi di persone. in realtà, la cifra andrebbe moltiplicata per due se consideriamo anche
le vittime dello stalinismo e del maoismo. Ma lo scrittore Vincenzo Cerami cita
questa cifra ricavandola da un saggio di Charles S. Maier per dimostrare che
in realtà il complesso delle vittime (100 milioni di esseri umani) rappresenta
appena l’1% della popolazione mondiale vissuta nel corso del Novecento. Ma
dobbiamo essere contenti per questo, come fa Pinker? «È probabilmente vero
che l’1% dei delitti è poca cosa, ma è altrettanto vero che le immagini ancora
vive dello sterminio ebraico ci raccontano il contrario: di un’epoca di abominio e di crudeltà inaudite» (Cerami).
Nel suo saggio Pinker osserva: «Bisogna guardare i dati. E i dati ci dicono che nelle guerre ai tempi delle società non statuali (società tribali, quelle do-
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minate dai signori della guerra, ecc.) periva circa il 15 % della popolazione, mentre oggi non si arriva neppure all’1%. Quanto agli omicidi siamo passati dai 110
su 100 mila abitanti nella Oxford del XiV secolo all’1 della Londra di metà del
XX secolo.
Se ci riferiamo ai giornali ricordiamoci che le notizie sono le cose che accadono, non quelle che ‘non accadono’.
La tendenza è cambiata. innanzitutto “la pacificazione”, ovvero il passaggio dalle società basate sulla caccia a quelle agricole, di circa 5000 anni fa,
con cui si registrò un calo di cinque volte delle morti violente. il “processo di
civilizzazione”, tra il Medioevo e il XX secolo con cali negli omicidi tra le 10 e
le 50 volte. Poi c’è stata la “rivoluzione umanitaria”, che coincide con l’illuminismo, in cui si formano movimenti per l’abolizione della schiavitù, della tortura, delle uccisioni per superstizione. La “lunga pace”, dopo la Seconda Guerra Mondiale. E poi la “nuova pace”, dalla fine della guerra fredda. Da allora conflitti, genocidi e attacchi terroristici sono diminuiti rispetto al passato. infine
le “rivoluzioni del diritto”, che hanno portato a meno violenze contro gli omosessuali, le donne, le minoranze etniche.
Ma tutti questi argomenti sono sufficienti a farci tollerare le attuali gravi violazioni dei diritti umani?
Cerchiamo di capire quali sono oggi le più gravi violazioni dei diritti umani nel mondo. Lo facciamo con degli esempi.
Scena prima. Di recente si è diffusamente parlato sui media del ventesimo anniversario del genocidio in Rwanda, che, come è noto, a partire dell’aprile 1994, in poco più di cento giorni, ha rappresentato il caso più clamoroso di
sterminio di esseri umani del dopoguerra, dopo quello della Cambogia dei kmer
rossi (due milioni di vittime). in Rwanda furono fra 800 mila e un milione i tutsi (ma anche migliaia di hutu) lasciati a pezzi sul campo, oltre ai mutilati e a
più di tre milioni di profughi nei paesi vicini. Se ne è parlato soprattutto per
le polemiche sulle responsabilità della Francia. il presidente Kagame ha accusato Parigi di “complicità e connivenza” dei francesi con le bande di assassini hutu, che erano a conoscenza del genocidio in corso. Ci sarebbero prove sulla vendita delle armi agli hutu e cablogrammi che confermerebbero che l’Eliseo veniva sistematicamente informato sui massacri. La Francia aveva, sotto
l’egida dell’Onu, 2500 soldati, poi vi erano i militari del Belgio e di altri paesi.
Ma il contingente francese, in nome di una dichiarata “neutralità”, non si mosse per impedire gli assassinii di massa. il generale Romeo Dallaire, canadese,
capo della forza militare Onu, venne ostacolato in tutti i modi. in un’intervista (contenuta nel libro di Daniele Scaglione Rwanda, Istruzioni per un genocidio (infinito edizioni, 2010), il generale dichiarò: «Se in me c’è una parvenza
di serenità penso sia grazie alle nove pillole al giorno che prendo. Credo sia
impossibile fare come Ponzio Pilato e lavarsi le mani della morte di 800 mila
persone, di cui 300 mila bambini. Non puoi allontanarti da tutto quel sangue,
da tutte quelle ferite sanguinanti, da tutti quei lamenti… Non puoi dire ‘bene,
è successo tutto e io ho fatto quello che potevo’. Davvero ho fatto tutto quello che potevo? Sarei dovuto andare da Kofi Annan o da Boutros Ghali, gettare
davanti a loro il mio incarico e dire: ‘Andate all’inferno. Nessuno è venuto a sostenermi e io me ne vado’. Avrei dovuto aprire il fuoco? Mi fu subito chiaro che
se avessi dato l’ordine di sparare saremmo diventati il terzo belligerante nel
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Scena seconda. i talebani non amano le donne istruite. Da tempo utilizzano il gas nelle aule scolastiche per cacciar via le bambine. Sono molte decine le scuole prese di mira con armi chimiche: centinaia di alunne sono state
ricoverate in ospedali. L’obiettivo è la chiusure di tutti i centri scolastici. Nausea, vomito, svenimenti, le membra semiparalizzate. il “gas dei talebani” sta
mietendo centinaia di vittime anche a Kabul, ma la maggior parte degli attentati si registra a Kunduz, vicino al confine con l’Uzbekistan. Un recente rapporto di “Save the Children” afferma che, tra il 2006 e il 2008, si sono registrati
2.450 attacchi alle scuole, in cui sono stati uccisi dai fondamentalisti islamici
235 persone, fra studenti, insegnanti e altro personale scolastico. Almeno 300
mila bambine non potranno accedere all’istruzione a causa delle violenze degli “studenti di Allah” nelle zone controllate dai talebani. Del resto che cosa
ci si può aspettare da musulmani educati a deridere e schiavizzare le donne?
Da una parte, infatti, c’è la nuova Costituzione (approvata nel 2004), dall’altra
il “codice di comportamento” deciso dal Consiglio degli Ulema nel 2012. E prevale sempre quest’ultimo: le donne afghane continuano ad essere picchiate dai
mariti, sono costrette ad essere sempre accompagnate, non possono parlare
con gli estranei, sono sottoposte ad angherie e violenze inaudite. Lo esigono
i fondamentalisti afghani a dispetto della conclamata parità tra donna e uomo
di fronte alla legge. E così tra i grandi problemi che ancora affliggono le donne afghane tre risultano di particolare importanza: i diritti individuali, l’istruzione e la salute. Ma la lunga guerra non ha risolto questi problemi di tutela
dei diritti delle donne. Le intellettuali di genere femminili sono sempre odiate, combattute e uccise. È accaduto a una donna simbolo di 49 anni, Sushmita Banerjce, una scrittrice che lavorava in ospedale come ostetrica nel villaggio di Daygan Soraia. Un gruppo di uomini l’ha cercata a casa, hanno legato il
marito e l’hanno trascinata in strada: le hanno sparato venti colpi, le hanno strappato i capelli, buttando il suo corpo davanti a una scuola coranica.
Scena terza. Ancora le donne protagoniste, ma sempre vittime degli uomini, dei regimi totalitari e, talvolta, delle stesse donne… quelle potenti del sistema, succube della cultura tribale e del fondamentalismo religioso.
Basta spostarsi in india per trovare orrori simili che ci ricordano che lì
le donne vivono ancora in stato di schiavitù. il 17 maggio 2013 in india, nello
Stato dell’Uttar Pradesh, due donne musulmane sono state arrestate perché avevano ucciso le loro due figlie, colpevoli di essere fuggite con due uomini hindu contro la volontà delle famiglie. Le vittime, amiche fra di loro (si chiamavano Zahida, di 19 anni, e Husna, di 26 anni), si erano innamorate di due manovali di fede hindu, conosciuti nella loro cittadina di Baghpat. Nonostante l’opposizione dei genitori, si erano sposate ugualmente. in india i matrimoni interreligiosi, come quelli fra caste diverse, sono ancora vietati. Le due ragazze,
dopo pochi giorni, erano tornate a casa con l’intenzione di riconciliarsi con i
genitori, ma le madri le hanno strangolate nel sonno. E, sempre in india, il 2014
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conflitto. Ma con le forze che avevo a disposizione non c’era modo di partecipare agli scontri e garantire la sicurezza dei miei soldati». E così, con la complicità dell’Onu, della Francia, del Belgio, degli Stati Uniti e persino della Cina
(da dove provenivano un milione di machete) si è compiuta l’ultima tragedia
umanitaria del “secolo breve”.
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si è aperto come il 2013, con una ragazza morta dopo un brutale stupro di gruppo, a cui è seguita la rabbia e l’indignazione di migliaia di persone in piazza.
Le aggressioni sessuali si ripetono con maggiore frequenza del passato. Questa volta hanno preso di mira una ragazza di appena 16 anni e per di più incinta. La ragazza aveva trovato il coraggio di sporgere denuncia alla polizia e
quasi sicuramente è stata “punita” anche per questo. Nei primi dieci mesi del
2013 sono stati denunciati 1330 casi di stupro a New Delhi (dati della Corte
Suprema) e 7200 i bambini stuprati ogni anno in india (dati Unicef).
Del resto nel vicino Pakistan le donne vengono condannate a morte anche per blasfemia. il caso più clamoroso è rappresentato da Asia Bibi, una donna cristiana di 45 anni, di un villaggio del Punjab, condannata alla pena capitale per avere pronunciato, nel corso di una lite con delle compagne di lavoro, delle frasi ingiuriose nei confronti del profeta Maometto. Del suo caso si
era interessato Shahbas Bhatti, ministro per le minoranze religiose; aveva sostenuto la liberazione di Asia e l’abolizione della iniqua legge sulla blasfemia.
Ma il cristiano Bhatti, com’è noto, è stato assassinato. Grazie alla campagna di
“Zapping”di qualche tempo fa (che raccolse in sei mesi oltre 160 mila firme inviate al presidente del Pakistan), Asia si è salvata dalla pena capitale, ma è ancora in carcere in attesa di un nuovo processo.
Nel vicino Bangladesh si trovano le bimbe drogate delle città bordello.
Ad esempio, a cento chilometri da Dacca, a Tangail, vi sono 17 case di tolleranza con baby prostitute di 12-13 anni (ve ne sono oltre 1000). Queste bambine, per guadagnare peso e curve, vengono costrette a ingoiare la cow pillo,
la pillola per le mucche, uno steroide che si dà alle mucche per farle ingrassare. Questo “trattamento” produce effetti devastanti sull’organismo: provoca il
diabete e attacca il fegato, alza la pressione e crea forte dipendenza.
Ma la violenza sulle donne non ha confini. il caso più emblematico in America Latina è quello di Ciudad Juarez, una città messicana ai confini con gli Stati Uniti, tristemente nota per lo stillicidio continuo di uccisioni di giovani donne: migliaia in pochi anni. il numero esatto non è noto; quasi ogni giorno si ritrovano corpi di donne violentate e abbandonate nel deserto. E non si riesce
mai a individuare i responsabili. L’impunità impera in una città dominata dai
clan dei narcotrafficanti. Ma il “femminicidio” non è diffuso solo in Messico.
A Città del Messico una trasmissione televisiva quotidiana intitolata “Laura”,
dal nome della giornalista che lo conduce, denuncia ogni giorno sparizioni, violenze e assassinii di giovani donne.
La persecuzione di genere da anni ha oltrepassato i confini di questo Stato e si è estesa a tutta l’America centrale, in particolare negli Stati di El Salvador, Honduras e Guatemala. Lo chiamano il triangolo della violenza, dove una
donna può essere uccisa solo per il fatto di essere uscita di casa per andare a
lavorare o a scuola (negli ultimi dieci anni più di 5 mila donne del Guatemala
sono state stuprate e poi uccise).
Amareggia profondamente l’impunità di cui, nella gran parte dei casi, godono i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani: né i governi, né le Nazioni Unite riescono a fronteggiare con efficacia l’escalation della violenza. Eppure gli strumenti sovranazionali esistono, a cominciare dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, attualmente diretto da Navanethen Pillay, che
di recente ha celebrato i venti anni di vita. Proprio la signora Pillay, in un intervento al Senato (10 marzo 2010), ha ribadito che l’italia ha svolto un ruolo fon-
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Scena quarta. La Repubblica popolare cinese sta per superare gli Stati Uniti nella crescita economica. Se anche nel 2014 la Cina registrerà un incremento del pil vicino al 10%, il sorpasso con l’economia americana diventerà una realtà. Ma la Cina (un miliardo e 300 milioni di abitanti) continua a rimanere ai
gradini più bassi nel mondo per la tutela dei diritti umani (pena di morte, tortura, persecuzione delle minoranze etniche e religiose: tibetani, musulmani, cristiani, uiguri, ecc.). La Cina continua ad occupare il 174° posto nella graduatoria della libertà d’espressione su180 paesi.
Scena quinta. O l’inferno, come si potrebbe definire. Ci riferiamo alla Corea del Nord, col presidente-tiranno sanguinario Kim Jong-Un, che non ha avuto alcun riguardo neppure per i suoi parenti (di recente ha fatto uccidere suo
zio con tutta la famiglia, compresi i bambini piccoli). Ogni anno nei lager si registrano non meno di 10 mila prigionieri politici assassinati o fatti morire di
fame. Ve ne sono rinchiusi oltre 200 mila; vengono sottoposti a torture e a denutrizioni: la razione di base è di 14 fagioli al giorno. Si calcola che dal 1948
in Corea del Nord siano stati uccisi o fatti sparire circa due milioni di persone nel vasto arcipelago gulag del regime comunista di Pyongyang.
Scena sesta. il Darfur è un paese dominato da molti anni da una dittatura sanguinaria (Omar Hassan Al Bashir, presidente del Sudan) e sostenuto
dalla Cina (scambio di armi con materie prime, come il petrolio). Le Nazioni Unite hanno dimostrato un’impotenza ed incapacità di grandi dimensioni. Ban KiMoon non ha mai trovato il coraggio di definire quello nel Darfur un “genocidio” (anche se il Tribunale Penale internazionale ha chiesto da tempo l’arresto
di Al Bashir per crimini contro l’umanità) e di agire per fermare le stragi, promosse dal regime sudanese di Khartoum. Ma Ban Ki –Moon il 16 giugno del 2007
ha dato una stupefacente spiegazione per le 400 mila persone, assassinate da
bande di guerriglieri arabi (che hanno bruciato villaggi, distrutto pozzi, piantagioni, allevamenti, stuprato donne, abusato di bambini e bambine, vendendoli poi come schiavi). il segretario delle Nazioni Unite ha commentato, purtroppo, seriamente: «il conflitto in Darfur è parte del surriscaldamento globale». in altre parole, le fosse comuni, gli orrori avvenuti – e ancora in corso- sarebbero da attribuire al deserto che avanza, ai cambiamenti climatici!
Ma cerchiamo di “avvicinarci” il più possibile alla definizione di tutela
dei diritti umani. Lo scrittore Alessandro Baricco ha provato a spiegare a suo
figlio, di 11 anni, che cosa siano questi diritti fondamentali degli esseri umani, ma non senza difficoltà, nonostante si fosse avvalso di un opuscolo di Amnesty international. Ha scritto: «Gli [al figlio] ho spiegato che a noi non piace
il fascismo perché c’erano le autostrade ma non la libertà. -Libertà di fare cosa?-,
mi ha chiesto mio figlio. Molte libertà, ho cercato di spiegargli, ma se vogliamo andare al cuore del problema non c’era una reale, effettiva libertà di pensare quello che volevi e di esprimerlo ad alta voce. A parte il fatto che se trovavi da ridire sul regime ti ritrovavi senza lavoro o in galera, o peggio, ma a
parte questo, il problema era che proprio ti si impediva di avere un cervello
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damentale nell’inserire il tema della lotta alla violenza alle donne nell’agenda del
G8, «esplicitamente definita una violazione dei diritti umani e, per certi versi, anche un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità».
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tuo, con dei pensieri, delle tue idee, magari anche sbagliate, o un po’ grulle, ma
tue. Tutti in fila a imparare le parole d’ordine del capo, e fine della libertà di
pensare, gli ho detto.»
Peccato che Baricco si sia limitato a parlare del regime fascista, senza estendere il discorso a Hitler, a Stalin, a Mao, a Pol Pot, a Fidel Castro e a tutti gli
innumerevoli dittatori e dittatorelli che ancora oggi dominano tanti paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Non solo, ma non ha saputo spiegare
a suo figlio che i diritti fondamentali degli esseri umani non sono costituiti dalla generica (anche se importante) libertà. Per far capire questo concetto ha fatto l’esempio di Cuba dove si può navigare col computer, ma si può entrare “solo”
in 15 siti. E suo figlio è rimasto esterrefatto dai limiti imposti dal regime. Ma
Baricco non ha detto nulla sul fatto che i giovani non possono uscire dall’isola, né per vacanza, né per motivi di studio e di lavoro e neppure se devono farsi curare o operare in un ospedale.
Quel vento di libertà nel Nord Africa e nel Medio Oriente fa sperare per
il meglio in direzione di una vera democrazia e dei diritti umani. Ma non si può
essere troppo ottimisti; talvolta le rivoluzioni portano ad altri regimi autoritari e ancora più illiberali dei precedenti, che avevano negato la libertà, la democrazia vera e i diritti dei cittadini. i regimi a partito unico sono tuttora numerosi nel mondo: vi sono quelli che ancora si definiscono comunisti o del “socialismo reale”, come Cuba, Cina, Vietnam, Corea del Nord, e quelli influenzati o dominati dall’islam fondamentalista, come l’iran .
A oltre 65 anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, i paesi di tutto il mondo registrano un bilancio tutt’altro che positivo. Lo vedremo dopo.
intanto prendiamo atto del fatto che la lotta per la tutela dei diritti umani avviene in un mondo caratterizzato da conflitti e tensioni interne molto roventi in diverse aree del mondo. Non solo, ma i governi dei paesi in via di sviluppo devono affrontare sfide molteplici: dalla crisi economica globale, al cambiamento climatico, al crescente degrado ambientale, alla instabilità politica,
alla fame, alle pandemie e, come si è detto, in molti casi, anche ai conflitti armati. Lo si è visto tragicamente nei Balcani, con la disgregazione della ex-Jugoslavia e le tragedie che ne sono seguite, anche con gravi crimini di guerra e
contro l’umanità (in Bosnia, nel Kossovo, in Serbia). Per non parlare dei massacri e dei genocidi asiatici e africani: dalla Cambogia di Pol Pot (due milioni
di vittime per decisione dei kmer rossi), al Rwanda nel 1994 .
Fra i diritti fondamentali degli esseri umani le Nazioni Unite riconoscono
da tempo il diritto all’alimentazione. Lo ribadiscono spesso anche tutte le organizzazioni internazionali (Oms, Fao, Commissariato per i rifugiati, Oil, Unicef, ecc.),
visto che almeno due miliardi di esseri umani vivono nella povertà: non sono in
grado, cioè, di soddisfare necessità primarie, come disporre di un alloggio dignitoso, di cibo, assistenza sanitaria, istruzione per i figli, acqua, e quasi 900 mila
patiscono letteralmente la fame. D’altra parte ormai sappiamo che esiste l’altra
faccia della medaglia: un miliardo e 400 milioni di persone che abusano di cibo,
lo sprecano, lo buttano via. Mezzo miliardo di persone sono obese.
il costo della malnutrizione - ha denunciato di recente la Fao - pesa per
500 dollari a persona, per ciascun cittadino del mondo, compresi i neonati. Giustamente ha osservato qualche tempo fa Kofi Annan (segretario delle Nazioni Unite dal 1997 al 2006): «La povertà è la nostra più grande vergogna. Fin-
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ché tra ricchi e poveri continueranno ad esistere grosse disuguaglianze, non
potremo dire di aver fatto sufficienti progressi verso la realizzazione degli ambiziosi ideali espressi 60 anni fa. il problema della povertà esige la nostra attenzione non solo per il numero degli individui coinvolti (oltre due miliardi che
soffrono la fame ) ma anche perché, se non riusciremo a contrastare le altre
minacce globali, saranno i poveri a subire le peggiori conseguenze.»
Ora anche la povertà – e giustamente - è entrata a pieno titolo nella tutela dei diritti degli esseri umani. Lo sostiene anche irene Khan, una donna bengalese che è stata, nel 2001-2009, segretaria generale di Amnesty international, nel libro Prigionieri della povertà (Bruno Mondadori). Ha osservato la Khan
che quasi metà della popolazione mondiale vive in condizioni di povertà -dall’Egitto al Messico, all’Angola, al Pakistan, al Bangladesh, al Darfur- e nel suo
libro dimostra con argomenti solidissimi che la povertà è la causa prevalente
delle violazioni dei diritti umani. Per queste ragioni non è concepibile oggi una
strategia di difesa dei diritti degli esseri umani senza mettere al centro la “guerra” alla povertà. Nell’ultima relazione come segretaria di Amnesty (2009), irene Khan ha insistito molto sul rapporto povertà-violazioni dei diritti umani. Ha
detto: «Come nel caso dei cambiamenti climatici, così accade per quanto riguarda la recessione economica globale: i ricchi sono responsabili della maggior parte delle azioni dannose, ma soni i poveri a subirne le peggiori conseguenze. Dai
lavoratori migranti in Cina ai minatori della regione del Katanga, nella Repubblica Democratica del Congo, la gente che cerca di tenersi fuori dalla povertà
subisce conseguenze terribili. La Banca Mondiale ha stimato che nel 2014 altri 53 milioni di persone saranno diventate povere andando ad aggiungersi ai
150 milioni già colpite dalla crisi alimentare del 2008, annullando di conseguenza i progressi conseguiti nel passato decennio. Secondo l’Oil (Organizzazione
internazionale del Lavoro), tra i 18 e i 51 milioni di persone potrebbero perdere il lavoro. L’aumento vertiginoso dei prezzi dei prodotti alimentari è causa di fame, malattie, sgomberi forzati, ipoteche su beni personali, mancanza
di abitazione e disperazione.» È inevitabile l’impatto di tutto questo sui diritti umani.
La situazione non è migliorata negli ultimi anni. Anzi, il Rapporto 2012
di Amnesty international (con l’analisi dei diritti umani in 198 paesi) documenta casi di restrizioni della libertà in 89 paesi, casi di dissidenti (“prigionieri di
coscienza”) in 48 paesi, denuncia torture e altri maltrattamenti in almeno 98
paesi e riferisce di processi iniqui in almeno 54 paesi.
in Cina le autorità fanno capire che le esecuzioni ogni anno si aggirano
sui 1000 casi, ma le ONG sui diritti umani sostengono che bisogna almeno decuplicare quella cifra. il regime, infatti, non rivela ufficialmente il numero dei
giustiziati, anzi lo definisce ancora un “segreto di Stato”. Allo stesso modo si
comportano la Corea del Nord, il Vietnam e la Malaysia. Al secondo posto troviamo l’iran (314 esecuzioni), seguito da iraq (129, raddoppiando il numero rispetto al 2011), Arabia Saudita (79), Stati Uniti (43, anche se il Connecticut è
diventato il 17° Stato abolizionista), Yemen (28), Sudan (19), Afghanistan (14),
Gambia (9) e, al decimo posto, il Giappone (7). La pena di morte viene ancora
comminata, anche per reati non di sangue, in Cina, india, iran, indonesia, Pakistan, Arabia Saudita, Singapore, Thailandia, Yemen, Malaysia, Emirati arabi
(traffico di droga); in Pakistan e iran (blasfemia, apostasia, ostilità verso Dio,
adulterio, sodomia); in Cina (reati economici); in Kenya, Zambia, Arabia Sau-
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dita (furto aggravato, stupro e stregoneria).
Come si vede, nel terzo millennio si può essere ancora condannati al patibolo per stregoneria, adulterio e furto.
Sulla nascita del concetto di diritti umani vi è sempre stato storicamente un grande dibattito (ma anche polemiche infuocate ) tra gli studiosi liberali, quelli di matrice socialista e quelli di ispirazione cristiana. È vero che la prima grande teoria espressa nel mondo moderno dei diritti inviolabili e imprescrittibili degli esseri umani è stata elaborata da un pensatore cristiano, John
Locke, la cui dottrina ha avuto un grande rilievo nella civiltà occidentale. Nel
Secondo trattato sul governo (1690) Locke afferma che il potere politico, che
viene istituito dagli uomini al fine di proteggere la loro vita, la loro libertà e i
loro beni, non può avere più diritti di quelli che gli vengono trasmessi. Vita,
libertà e beni sono infatti diritti umani insopprimibili e le «obbligazioni della
legge di natura - dice Locke - non cessano nella società, ma in molti casi diventano più coattive». Gli stessi concetti li ritroviamo nei filosofi marxisti e negli
intellettuali e politici del filone socialista libertario e anarchico (da Turati, a Prampolini, alla Kuliscioff, alla Balabanoff, a Bakunin, a Errico Malatesta, sino a Buozzi, Silone, Nenni, Pertini e Saragat).
Ma quando si parla di diritti umani il nostro pensiero va subito alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dell’89 a Parigi. C’è però da ricordare che quello storico documento ha alle spalle i Bill of Rights sugli stati
americani (Massachusetts, Virginia, North Carolina, Maryland, ecc.) che i rivoluzionari francesi conoscevano molto bene. infatti, senza la Dichiarazione dei
diritti degli Stati americani, sicuramente non ci sarebbe stata la Dichiarazione francese dell’89. Lo hanno confermato gli studi di George Jellinek, nel suo
saggio La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Jellinek ha osservato che «l’idea di fissare in forma di legge i diritti innati, inalienabili e sacri
dell’individuo non è di origine politica, bensì religiosa». Ovviamente, come si
è detto, gli intellettuali di cultura liberale e socialista la pensano diversamente. Ma non credo che questo confronto di idee sulle radici storiche dei diritti
umani sia oggi molto importante. Forse è più significativo ricordare che, dopo
la Shoah, con i processi di Norimberga ai gerarchi nazisti, condannati per crimini contro l’umanità, è nata la Dichiarazione Universale del Diritti dell’Uomo
del 1948 e, successivamente, la Carta europea dei diritti dell’uomo del 1950,
una Convenzione ratificata dai 47 Stati membri che salvaguarda i diritti dell’uomo e protegge le sue libertà fondamentali. Grazie a questo trattato, l’Unione Europea ha il potere di intervenire per combattere le discriminazioni, basate su sesso, razza, origine etnica, età e orientamento sessuale. Una “Carta”
che è stata ampliata e arricchita di nuovi diritti il 18 dicembre 2000. Nei suoi
54 articoli si parla di dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, con
alcune “disposizioni finali”. Principi che prefigurano quelli della Costituzione
Europea, ispirata ai più alti obiettivi della convivenza. Ma, anche nella conquista dei diritti umani, purtroppo non c’è nulla di irreversibile. Sono diversi i paesi europei, fra cui la Gran Bretagna, che considerano sempre più la Convenzione come un “fastidio” e, di tanto in tanto, minacciano di uscirne. Secondo il premier David Cameron la “Carta” impedisce il rapido espatrio di “soggetti indesiderati”, come sospetti terroristi, che per evitare l’espulsione si appellano proprio ai principi sanciti dalla Convenzione. È lo stesso “fastidio” che hanno por-
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tato gli Stati Uniti a non aderire al Tribunale Penale internazionale, per il timore di possibili incriminazioni di propri militari nelle operazioni di guerra nelle diverse aree del mondo.
Con questi importanti documenti di principi ha cominciato tuttavia ad
avviarsi quella “cultura” dei diritti individuali e collettivi delle persone che in
passato non erano mai stati tenuti in alta considerazione. C’è però da osservare che le “Carte dei principi”, sottoscritte dalla maggior parte degli Stati del
mondo, non sempre hanno trovato applicazione. Anzi, in molte aree della Terra, sono sempre state considerate assolutamente teoriche e comunque “non applicabili”. Le guerre locali, di indipendenza, di liberazione dal colonialismo, di
occupazione, di conquista, di “difesa”, asimmetriche, ecc. non hanno mai ceduto il passo alla diplomazia, al confronto, alla pace, al rispetto dei diritti degli esseri umani. Non solo, ma in questi ultimi decenni il coinvolgimento deliberato e pianificato delle popolazioni civili nei conflitti è stato costante, con
la conseguenza che sono state oggetto di violenze e di attacchi da parte dei combattenti armati (come confermano anche le nefaste “pulizie etniche”). Donne,
anziani, bambini sono diventati spesso l’obiettivo primario degli eserciti e degli altri gruppi armati. Gli studiosi stimano che ormai le vittime civili nei conflitti superino l’80%, rispetto al 20% di quelle militari. Fra le vittime bisogna anche considerare lo “stupro di guerra” nei confronti delle donne e dei bambini
(violentati, torturati, uccisi, ma in diverse regioni - come l’Africa, l’Asia e l’America Latina - vengono utilizzati anche come schiavi e soldati). Le donne e i bambini sono sicuramente “l’anello debole” di una catena di odio, di scontri armati, che si traducono in orrori indescrivibili, soprattutto in Africa, dove le guerre sono ancora numerose e influenzate dai vecchi e nuovi colonialismi (fra questi ultimi ormai spicca particolarmente la Cina).
Oggi esistono numerose Convenzioni internazionali e, dal 2002, la Corte internazionale dell’Aja. Ma i paesi su cui ha giurisdizione questo Tribunale sui crimini contro l’umanità non è stato riconosciuto da molti paesi (fra cui,
come si è detto, gli Stati Uniti, ma anche iran, Sudan, israele, Russia, india, Cina).
Di conseguenza i suoi poteri sono, purtroppo, ancora limitati.
Pensiamo che le dichiarazioni di principi, le Convenzioni delle Nazioni
Unite e delle sue agenzie per essere rispettate (come la moratoria sulle esecuzioni capitali) devono essere tradotte in leggi dai paesi firmatari. Se questo non
avviene, le convenzioni e le delibere assembleari dell’Onu si traducono in semplici esortazioni, totalmente inefficaci o semplici denunce all’opinione pubblica, che lasciano il tempo che trovano, con un valore persino meno significativo di quelle di Amnesty international, dell’Unicef, di Save the children e delle
altre ONG umanitarie. Tuttavia l’impegno sistematico nella denuncia, le insistenti iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica possono portare col tempo a risultati molto positivi. Ad esempio, grazie alla continua mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, è diminuito il numero dei paesi che fanno
ricorso alla pena di morte. in un decennio, infatti, grazie anche alle moratorie
sulle esecuzioni decise a partire dal 1999, i boia sono stati mandati in pensione in 31 paesi, mentre - come si è detto - Cina, iran, Arabia Saudita, Stati Uniti e Yemen restano tra i paesi che più frequentemente ricorrono alle esecuzioni. Ma, mentre le esecuzioni degli Stati sembrano essere in declino, un numero crescente di paesi continua a emettere condanne a morte per reati legati alla
droga, di natura economica, per relazioni sessuali tra adulti consenzienti e per
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blasfemia (il caso di Asia Bibi), violando il diritto internazionale dei diritti umani che indica l’uso della pena capitale solo per i reati più gravi.
Nel complesso il bilancio delle Nazioni Unite non è stato molto entusiasmante nell’ultimo decennio. Nel 2004, ad esempio,13 Stati su un totale di 53,
della vecchia Commissione dei Diritti Umani dell’Onu, non erano governati da
sistemi democratici. Oggi sono addirittura 21 i paesi membri del rinnovato Consiglio dei Diritti Umani giudicati dittatoriali o comunque illiberali. Se la situazione al tempo del segretario generale Kofi Annan era contrassegnata da corruzione, nepotismo e irresponsabilità politica, oggi col segretario Ban Ki-Moon
è anche peggio. Ma non è della gestione del Palazzo di Vetro e delle agenzie
Onu che vogliamo occuparci, ma piuttosto dello smarrimento, delle difficoltà
nel mettere in atto in ogni parte del mondo direttive e principi universali che
facciano compiere progressi reali ai diritti delle donne, dei minori, degli anziani e, con loro, a quelli delle minoranze etniche e religiose. infatti non passa giorno senza che da qualche parte del mondo non giungano notizie di pulizie etniche, stupri, assassinii politici o detenzioni illegali (dall’Africa, alla Birmania,
alla Cina, all’iran, alla Corea del Nord, all’America Latina).
in quest’ultimo subcontinente ricordiamo le gravi e sistematiche violazioni che avvengono in Venezuela, da parte del presidente Nicolas Maduro. il
successore del dittatore Chavez, che guida una nazione considerata il quarto
produttore di petrolio nel mondo, sta portando il paese sull’orlo della bancarotta. Non solo, ma Maduro ha ristretto gli spazi di libertà, bandendo persino
le telenovelas perché – ha commentato - «fomentano l’odio e lo spirito negativo di emulazione».
Ricordiamo poi anche il regime castro-comunista di Cuba. Si sperava che
il cambio della guardia, da Fidel al fratello Raul Castro, potesse rappresentare un cambiamento reale nell’allargamento degli spazi di libertà e di tutela dei
diritti umani. Una pia illusione, subita svanita. il rinnovamento è stato timido
e scarsamente efficace: le carceri continuano a riempirsi di dissidenti e le proteste vengono messe a tacere, con la sempre più rigida repressione di ogni forma di libertà di stampa e di opinione.
Non si registra dunque una vera tregua nelle violazioni dei diritti umani.
E, come si è detto, non bastano le leggi, le convenzioni, i trattati e le raccomandazioni dell’Onu e dei parlamenti sovrannazionali, come quello europeo. Non sono
sufficienti neppure i “controlli”, le indagini, le ispezioni di organizzazioni internazionali, come Amnesty e Human Right Watch, che tuttavia svolgono un fondamentale lavoro di “sentinelle” dei diritti, con denunce e campagne internazionali. Talvolta però singoli testardi “cacciatori di dittatori” compiono temerarie operazioni di gran lunga superiori a quelle fatte da grandi e attrezzate ONG; operazioni individuali che rimarranno nella storia delle “imprese” umanitarie. Come quelle realizzate dall’avvocato Reed Brody, che ha trascorso trent’anni per inchiodare alla sbarra dittatori terribili, come il cileno Augusto Pinochet, l’haitiano “Baby
Doc” Duvalier, il chadiano Hissène Habrè, col seguito di stuoli di aguzzini responsabili di atrocità inaudite in America Latina, Africa e Asia. Ha dichiarato di recente questo “cavaliere dei diritti umani”: «Per farcela, servono una volontà tetragona, corvées snervanti di ricerche e di viaggi e soprattutto la profonda convinzione che anche un semplice cittadino possa cambiare il mondo».
La sensibilizzazione umanitaria dell’opinione pubblica è cresciuta molto in questi ultimi anni. Una constatazione che contrasta nettamente con l’al-
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Aldo Forbice Diritti umani nel mondo: successi, errori, passi indietro…
to prezzo di sangue e di sofferenze (citiamo, ad esempio, la persecuzione costante dei cristiani in diversi paesi dell’Asia e dell’Africa) che continuiamo a
registrare. E questo perché le istituzioni, internazionali e nazionali, i partiti politici, i sindacati e le stesse strutture religiose, non sempre si impegnano con
decisione e continuità, promuovendo leggi e iniziative efficaci, al fine di superare la fase delle semplici e inconcludenti esortazioni.
C’è, infine, una riflessione che vorremmo tentare, prendendo in prestito anche il contributo di un lucido intellettuale, che ha ormai superato i cento anni. Nel suo libro Irritazioni (Castelvecchi), Gillo Dorfles scrive: «Stupisce
e indigna il fatto che di fronte a delle situazioni penose, sgradevoli addirittura estreme, come stupri, omicidi, fondamentalismi religiosi, la gente sia, non
dico del tutto indifferente, ma poco partecipe. Come è anche incredibile la smania di avvicinare cose strepitose, occasioni eccezionali. in fondo, rispetto a questo aspetto sociale molto negativo, una ‘catastrofe’, nel senso di qualcosa che
smuove sin dalle basi la nostra stessa esistenza, potrebbe essere in un certo
senso anche positiva. O forse l’unica soluzione. Perché sia il fanatismo che l’indifferenza, complementari come sono, si rivelano entrambi molto perniciosi.
Da una parte attentati ed eccidi terribili, dall’altra si vedono persone passare
come se niente fosse, nella completa assenza di partecipazione, di fronte alla
miseria, alla povertà, alla sporcizia, di cui abbiamo esempi continui… Cinquanta o sessant’anni fa c’era meno indifferenza? Quando erano meno sviluppati
i mass media, l’uomo era più sensibile alle sventure altrui? io credo di sì… Ho
la sensazione che oggi ci sia una certa anestesia indotta sicuramente dall’assuefazione. il nostro video quotidiano è il grande corruttore etico, e la videocrazia è l’oggetto di tante mie irritazioni. Attraverso la televisione siamo ormai abituati ad assistere ogni giorno a spettacoli molto spesso clamorosamente negativi. Pensiamo soltanto al dramma degli incidenti sul lavoro. Oggi avvengono ogni giorno e l’indomani si è dimenticato tutto ( ma questo vale per
ogni sorta di tragedia umanitaria n.d.a). La tv ha anestetizzato la sensibilità».
Concordo pienamente con quanto afferma un grande saggio come Gillo
Dorfles, ma sono convinto che gli esseri umani possono fare molto di più oggi,
a condizione che riescano a muoversi al di fuori di ogni fanatismo politico e religioso; se riescono a far prevalere la ragione, anteponendo l’azione per combattere ogni forma di violenza al fine di “costruire” un nuovo umanesimo, che veda
al centro di ogni iniziativa la libertà, la crescita civile e culturale dell’uomo e della donna, come individui, con i loro diritti e i loro doveri verso la comunità.
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Milena buzzoni Genova come un malumore /Sono te
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DUE POESIE
DUE POESIE
di Milena Buzzoni
GENOVA COME UN MALUMORE
Camminando per vicoli bui
seguo la mappa del mio umore:
affiora l’umidità sulle pareti
sconnesse le pietre del selciato
la luce sembra lontana
come un’infanzia dimenticata.
San Matteo, vico del Filo, Canneto:
prendo fiato
nello slargo di una piazza
che somiglia a un cortile.
Senza cielo
mi perdo
tra colonne lasciate come relitti su una facciata,
archi ciechi, portoni spenti, madonne mutilate.
Svolto, faccio un passo, torno indietro.
Uscirò mai
a contare i raggi dell’alba?
Poi di colpo
Banchi e Caricamento.
i bagliori dell’acqua in piedi sul porto,
l’odore del sale che ha vinto la muffa,
il colore del vento che adesca la luce.
Rinasco nella città rinata.
SONO TE
Sono te
nello specchio
che il tempo deforma,
nella voce un po’ roca,
nella pronuncia della stessa parola,
nella spalla ricurva,
nel braccio abbronzato e smagrito,
nell’anello
che germoglia tra le dita
come un fiore
su una radice appassita,
nel sopracciglio all’ingiù.
Sono te
e forse qualcosa di più:
sono una figlia pentita
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di Franca Alaimo
La modernità di un’antica ricetta poetica nel romanzo Il libro e l’anima
di Davide Puccini
A pag. 92 del romanzo Il libro e l’anima (LietoColle, Faloppio (Co) 2015,
pp. 209, € 13), l’autore Davide Puccini cita un’ottava dal canto iV dell’Orlando
furioso di Ludovico Ariosto, nella quale si legge di un singolare duello tra Bradamante e Atlante, entrambi muniti di armi magiche: rispettivamente un anello e un libro. Quest’ultimo ha il potere di trasformare, una volta letti, nomi e
verbi relativi all’arte della guerra in gesti ed eventi concreti. Si tratta, come scrive lo stesso autore, di una metafora che “svela i grandi poteri del libro”; e di
fatto, al di fuori di ogni dimensione fantasiosa, molti lettori conoscono l’esperienza di una fascinazione profonda subita da un qualche libro, al quale devono, se non addirittura un mutamento di rotta esistenziale, una risposta importante a certe personali ed irrisolte domande.
Dante cade “come corpo morto cade”, dopo avere ascoltato Francesca raccontare la sua drammatica esperienza d’amore e morte (nel canto V dell’Inferno), non solo perché mosso da compassione, ma anche perché si sente come
sopraffatto dal peso di un dilemma relativo alla sua precedente produzione letteraria e, in generale, al ruolo dell’intellettuale nella società. infatti, la famosa
autodifesa di Francesca, che esclama accoratamente: “Galeotto fu ’l libro e chi
lo scrisse” - in quanto spinse lei e l’amante Paolo ad abbandonarsi alla passione, imitando il modello comportamentale degli adulteri Lancillotto e Ginevra
- investendo globalmente una concezione della donna e una letteratura amorosa, di fatto moralmente devianti, solleva il problema della corresponsabilità etica dello scrittore. Alla luce di questa antica e vexata quaestio può essere letto il titolo Il libro e l’anima che Puccini ha scelto per il suo romanzo, anticipando ai suoi lettori i termini di una relazione che si svilupperà con una serie di colpi di scena fino alla tormentata decisione del protagonista di gettare
tra le fiamme un libro che potrebbe arricchirlo e renderlo celebre, ma che gli
costerebbe quella che Francesco d’Assisi chiama nel suo celebre Cantico “la morte secunda”, cioè quella dell’anima.
La presenza dell’elemento magico e di quello meraviglioso all’interno della trama del romanzo, nonostante il palese realismo e le caratteristiche di contemporaneità della vita quotidiana del protagonista, nonostante la vivida descrizione (solo di poco alterata per ovvie esigenze narrative) dei luoghi in cui
essa si svolge, facilmente identificabili con quelli della cittadina di Piombino
in cui ha dimora l’autore, fa di esso un testo non catalogabile, che probabilmente è stato concepito da un insieme di intenzioni prima che da una pura necessità narrativa. È chiaro, infatti, che tra i due termini della relazione libro-anima a Puccini interessa il secondo, come si evince dal lungo dialogo (nel capitolo finale) fra il protagonista del romanzo e la moglie intorno al problema, for-
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se il più delicato e dibattuto, del rapporto fra Dio e l’uomo: quello della prescienza divina e del libero arbitrio umano, a cui sempre Dante dà una risposta: “La contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra matera non si stende, / tutta è dipinta nel cospetto etterno; / necessità però quindi non prende
/ se non come dal viso in che si specchia / nave che per torrente in giù discende” (Paradiso, XVii, vv. 37-42); problema quasi parallelo all’altro già ricordato
del rapporto fra autore e lettore.
Che all’elogio della fede umana e della grazia divina, e perciò alla funzione etica della scrittura, sia finalizzata l’intera vicenda, è cosa che il lettore
comprende presto (al di là della suspence che lo tiene per tutti i capitoli avvinto alle vicende narrate da Puccini con un’innegabile bravura paragonabile
a quella dei maestri del thriller - e, fra l’altro, anche in questa storia ci scappa
l’immancabile morto), per la larga parte affidata all’introspezione morale ed
alla graduale rinascita della dimensione spirituale del protagonista, il cui stesso cognome Visdomini, cioè forza del Signore, è di per sé una lode alla misericordia divina, alla quale pure si deve lo scioglimento del dramma. Per questo motivo l’elemento magico rimanderebbe più che a Ariosto, arioso e ironico narratore di favole e storia insieme commiste senza pressanti finalità educative, al più dolente e travagliato Tasso, che, obbedendo alle regole del Tribunale dell’inquisizione, sceglie per “ornamento” della sua fabula il meraviglioso di natura religiosa. Certamente nessuna pressione di qualsivoglia natura ha
indotto il romanziere Puccini a questa scelta, se non un’autentica sensibilità
spirituale, che ben conosciamo, perché viva e presente in tutta la sua produzione letteraria.
Ma se l’oggetto magico che dà vita alle vicende narrate è proprio un libro, non lo si deve né ad Ariosto, né alla conoscenza di certe antichissime leggende sull’esistenza di un segreto ed incredibile Liber librorum, ma alla straordinaria passione del filologo Puccini, la quale anima tutte le pagine del romanzo, a cominciare dalla dedica : “Ai tanti libri amati nella vita, muti compagni pieni di parole”. il primo capitolo si apre con la descrizione del libro magico motore dell’intera vicenda (la qual cosa sottolinea la volontà del narratore di immettere immediatamente i suoi lettori in medias res), ed essa è così dettagliata che se ne ricava l’impressione che l’autore stia descrivendo un libro che
tiene tra le mani: “Il libro sembrava molto antico: di piccolo formato, appena
in sedicesimo, ma piuttosto alto di spessore, era rilegato in piena pelle di un
colore chiaro e caldo che poteva ricordare il miele, liscia al tatto eppure porosa come viva”. Ma è il capitolo X quello in cui la passione per la letteratura diventa traboccante, appassionata, quasi ossessiva, quando Vladimiro Visdomini sogna di diventare, grazie all’enorme quantità di denaro che potrebbe ricavare dalla vendita del libro magico, un grande editore in possesso della più ricca e sontuosa e mirabile biblioteca esistente al mondo, descritta con tale, affollatissima messe di particolari, di cui nessun lettore comune, ma soltanto uno
studioso potrebbe disporre.
il lettore informato sull’attività di filologo che ormai da anni svolge Puccini troverà, infatti, nelle pagine del romanzo i nomi degli autori intorno ai quali con paziente amore egli ha lavorato per le più prestigiose case editrici italiane; e potrà quasi mettere insieme una mini-antologia di passi celebri tratti
dai loro capolavori, nonché una serie di sobri e acutissimi giudizi critici. L’elemento autobiografico è a tal punto presente nel personaggio di Vladimiro che
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sogna di possedere una biblioteca universale, che si fa fatica a separarlo dal
suo autore. Vladimiro Visdomini è Davide Puccini quando gioisce per il ritrovamento di un codice antico, di un’edizione rara, quando legge faticosamente e febbrilmente un documento in cattivo stato di conservazione ma che tuttavia promette di svelare un enigma, quando prende in mano un bel libro e ne
guarda e tasta la fisicità e l’eleganza, quando emette un giudizio, quando svela le sue personali antipatie o perplessità nei confronti di certi autori e testi.
L’avidissimo e scrupoloso studioso di testi che è Puccini sembra, inoltre, avere trovato un secondo modo di rendere onore ai suoi autori amati, inserendo all’interno della trama del suo romanzo qualche elemento e qualche
trovata narrativa che rimandano a ciascuno di loro: il recupero di un manoscritto antico ricorda l’ identico stratagemma narrativo usato da Manzoni e da Cervantes; il sogno della biblioteca universale sembra un omaggio a Borges; il libro magico, come s’è detto, fa pensare a quello usato dal mago Atlante nell’Orlando Furioso di Ariosto; lo stesso gesto di bruciare il libro che rischia per
i suoi poteri di corrompere l’anima ci richiama alla mente il proposito
di Boccaccio - assalito negli ultimi anni della sua vita da forti dubbi etico-religiosi - di distruggere il suo Decameron.
Ma certamente il modello dominante è il celeberrimo Faust di Goethe. Anche Faust scorge in un libro il segno del macrocosmo, la totalità della creazione. Faust, pur cedendo alla magia, salverà egualmente la sua anima solo perché l’angelo della morte terrà conto della sua sete d’infinito. infatti “erra l’uomo finché cerca” e soltanto errando egli s’avvicina alla Verità. La storia di Valdimiro Visdomini è meno drammatica di quella di Faust, perché egli non si persuade come quello, sebbene assai tentato, a sottoscrivere patto alcuno con il
diavolo (che gli si manifesta assumendo le sembianze di un vecchio signore elegante, ironico, ed apparentemente gentile), e si salva in tempo dal precipitare
nell’abisso, aiutato anche da un misterioso libraio che fa le veci del saggio e
pacato Wagner, amico di Faust nel romanzo di Goethe. C’è pure, giusto per sottolineare l’influenza del modello goethiano, un episodio che dal Faust, passa,
sebbene modificato, a Il libro e l’anima di Puccini, e che riguarda l’incontro di
Vladimiro con la bellissima Elena di Troia, che rappresenta la tentazione diabolica della lussuria fra le altre a cui egli è sottoposto dal Diavolo.
in altri termini Puccini ha voluto raccontare in chiave moderna la più antica ed irrisolta storia della lotta fra il Bene ed il Male e richiamare i suoi lettori al senso della piena responsabilità delle proprie azioni, che va sempre distinta dalle occasioni o dalle ragioni estetiche. il ricorso alla magia, probabilmente, vuole solo essere uno strumento suasivo, capace di catturare l’attenzione dei lettori, secondo la poetica del Tasso che mette insieme gli ingredienti del “verisimile, del diletto e del giovamento”. Certo la presenza fisica del diavolo in una storia per molti versi contemporanea solleva una questione teologica assai delicata circa l’esistenza fisica del Male, che ormai viene da molti liquidata come inconcepibile ed antiquata. Ma a questo punto scivoleremmo in
un campo che non compete alla scrittura critica. Siamo in presenza di un’invenzione letteraria che va giudicata solo in quanto tale e dunque, in quanto tale,
meritoria di un giudizio più che positivo per l’armonia della sua struttura che
si tiene in perfetto equilibrio fra l’indagine psicologica e la descrizione della
dimensione quotidiana dei personaggi, fra la materia magico-esoterica e quella religiosa; fra l’accumulo dei colpi di scena e il graduale mutamento interio-
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re del protagonista. Ma soprattutto va lodata la bellezza della lingua, pulita,
elegante, toscaneggiante specialmente nei dialoghi, ma sempre con misura, che
si adatta perfettamente alla personalità dei personaggi e alle situazioni descritte; e non ultimo va apprezzato il dono di tanta cultura disseminata nei capitoli come un ornamento in più che mette addosso la voglia di leggere o approfondire quei capolavori a cui accenna l’autore.
Se infatti lo scopo consapevole del romanzo vuole essere quello eticoreligioso dettato dalla fede profonda dell’autore nei valori del cattolicesimo,
lo scopo secondo, che è quello di una laica fede nel libro, anche se non direttamente argomentato, è talmente straripante che il lettore del romanzo ne viene investito con la stessa forza persuasiva dell’altro. Ora, a ben considerare,
tra le due “fedi” non c’è quella distanza che si potrebbe, a prima vista, supporre: se Dio è il Verbum per eccellenza, chi se non lo scrittore, che traffica con
le parole e crea opere per mezzo di esse, è a Lui più simile? E se lo scrittore,
finita la sua opera, potrà dire di essa che è buona, come lo dice Dio nel libro
della Genesi di fronte ad ogni cosa creata, concorrerà a quel progetto di santità e di bene e di armonia che è la promessa più grande fatta all’umanità. Dunque, Davide Puccini mettendo la sua elegante scrittura al servizio della fede cattolica, ricompone il binomio del bello e del bene nell’ambito della letteratura,
e ricalca le orme di molti grandi scrittori italiani e no, tra i quali il più popolare, quantomeno perché lo si studia a scuola da generazioni, è certamente l’Alessandro Manzoni dei Promessi sposi. Per ultimo c’è da dire che Puccini, nell’andare controcorrente, poiché ormai sono ben altri i temi della narrativa contemporanea più in voga, fa una scelta coraggiosa, coerente, ed assolutamente libera da motivazioni economiche, che non può che suscitare la nostra ammirazione.
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PROSPEZIONI
di Milena Buzzoni, Renato Dellepiane, Rosa Elisa Giangoia, Giuliana Rovetta
POESIA COME UNICA FORMA
POSSIBILE DI CONOSCENZA
di Renato Dellepiane
Lunghi anni di frequentazione con la letteratura, ed in particolare con la poesia,
in quanto docente di italiano, mi hanno
sempre più convinto che la poesia del
‘900 e di questi primi decenni del 2000
sia caratterizzata da un particolare atteggiamento del poeta di fronte al mondo
(la natura, la società, la storia) che gli sta
intorno. Questa caratteristica è forse propria del poeta di ogni tempo, ma si è certamente accentuata in quest’epoca in cui
il decadentismo, liberato ormai di ogni
accezione negativa, ha lasciato l’eredità
più profonda di una poesia intesa come
unica forma possibile di conoscenza nel
mistero che ci circonda, nei dubbi che ci
assillano, in una natura “foresta di simboli”. Mi pare infatti di poter dire che, da
un lato, il poeta si sente vivere, dall’altro si vede vivere, nel senso così chiaramente e drammaticamente espresso da
Pirandello nel suo saggio sull’Umorismo.
Si pensi, nel primo caso, ai due estremi
del senso panico del poeta quale si
esprime in D’Annunzio (La pioggia nel pineto) e, meglio ancora, in Ungaretti (I fiumi in cui il poeta si sente “una docile fibra dell’universo”). Nel secondo al già citato Pirandello o a Gozzano (che, ne
L’ipotesi si vede nonno nel 1940, lui vissuto solo fino al 1916) oltre, ovviamente, al correlativo oggettivo di Montale.
Questa lunga premessa per dire che ho
trovato questi elementi nell’ultima raccolta di Luigi De Rosa Fuga del tempo a
suggello di un discorso poetico che si
svolge da lungo tempo e che mi era capitato di seguire per una semplice curiosità iniziale e poi per vero interesse. Egli
era stato infatti uno dei miei primi superiori quando ho iniziato ad insegnare
e, in seguito, lo ritrovavo nell’ambito di
quei poeti liguri contemporanei verso i
quali ho provato sempre un grande interesse. Già nella raccolta Il volto di lei
durante ed in particolare nella poesia che
le dà il titolo avevo colto una delicata sensualità in un estatico abbandono che lasciava però il posto alla consapevolezza
di “ore della solitudine”. C’era, insomma,
quella capacità di creare immagini e contemporaneamente di inserire elementi
meditativi che caratterizza la poesia di
De Rosa.
Nella raccolta di cui stiamo parlando questi elementi si fondono molto bene tra
di loro, creando un linguaggio tutto
particolare. il sentirsi vivere permette al
poeta di creare immagini che indicano
una sorta di assaporamento della natura e del paesaggio, in cui la nostalgia lascia talvolta il posto ad un attimo di felicità. Nel contempo, il suo vedersi vivere non è solo il vedersi protagonista di
momenti della sua esistenza come individuo in mezzo ai suoi simili, ma anche
di sentirsi protagonista, come tutti gli uomini, della grande Storia collettiva, pur
nella loro piccola storia individuale . Ecco
che allora si passa dalla contemplazione alla meditazione ed anche ad un atteggiamento di giudice disincantato e severo in cui facit indignatio versus.
Dati questi elementi dell’ispirazione, il
linguaggio varia di conseguenza, muovendosi su diversi registri espressivi.
Questi traducono talora in immagini un
atteggiamento contemplativo, quasi estatico, come si è accennato: si pensi al trittico dedicato alle rose (rosa, bianca, rossa) che esprime proprio quella simpatia
(in senso etimologico) con la natura di cui
si diceva. il cromatismo delle immagini
esprime una sorta di identificazione
col fiore, quasi il poeta ne vivesse la vita
breve ed intensa. La rosa rosa “che pen-
Renato Dellepiane Poesia come unica forma possibile di co-
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Renato Dellepiane Poesia come unica forma possibile di conoscenza
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zola nel vento/nevoso di gennaio”, è così
“fuggevole promessa di bellezza/ nella
fredda illusione/ che tutti ci circonda”.
La rosa bianca si identifica col presente
dell’uomo in quanto “solitudine splendida/ sospesa/ sul futuro e sul passato”.
Nel caso specifico, ci sia concesso di notare, sul piano del significante, il rilievo
dell’allitterazione sulla /s/ che sembra
portare l’attenzione del lettore sul tema
del passato, della nostalgia e di un futuro a cui ci si avvia “come un funambolo/ che ésita/ sopra una corda tesa”.
Quella sensualità controllata e casta cui
abbiamo accennato si esprime con chiarezza nella poesia un po’ più lunga dedicata alla rosa rossa in cui il poeta va
ben oltre il topos letterario. La rosa infatti, con i suoi “baci dolci, di velluto/offre la sua bellezza/(pur irta di spine)/sperando di sopravvivere/ in altre rose
rosse” e richiama così alla vita che è ancora lunga, mentre “Domani si potrà anche iniziare/ ad appassire”. Come si vede,
il sentirsi vivere del poeta è sempre collegato ad una meditazione su se stesso
e la vita. Talora questa meditazione nasce dal ricordo di un momento, assaporato creando una sorta di brevissimo idillio: si vedano Treno fermo in campagna
e Sera in montagna che sono forse le
espressioni più compiute della capacità
“pittorica” del poeta che riesce ad immergersi nel paesaggio ed a ritrovare una comunione profonda e rasserenante con la
natura. Quella natura che talvolta diventa vera metafora della vita, come in quel
Sottobosco, in cui bisogna “inoltrarsi con
passi cauti ma decisi” per arrivare a scoprire, alla fine del cammino, “un sogno
che insperatamente/ si avvera”. Quando
i versi di De Rosa si muovono sul filo della contemplazione e del ricordo, occhieggia qua e là la rima, come se la poesia volesse trovare un suo breve ritmo, una sorta di acuto delicato (mi si passi questa
sorta di ossimoro….) come prosa-rosa
cosa nella bella poesia dedicata a Giorgio Caproni (omaggio e meditazione
sulla funzione del poeta) oppure nella
contrapposizione cielo-tremulo altissimo
stelo della rosa rossa. Così, non a caso,
contemplare rima più sotto con lungomare nella poesia Genova è ancora la superba? che intrisa di nostalgia e speranze mosse nell’animo del poeta da una
contemplazione, appunto, della città
“in certe mattinate di cristallo”.
Come si diceva, il poeta si vede vivere anche nel ricordo di un momento, come
quello dell’abbandono “in una Milano del
dopoguerra” che lascia un segno indelebile per tutta la sua esistenza. Ma se il
poeta si rivede “bambino spaurito” che
guarda attraverso “occhiali da sole soffocanti” la “madre che si allontana/per
sempre”, non manca di dedicare al padre una poesia di grande dolcezza, capace di esprimere tutto il “non detto”, nel
raccogliere “in questo cuore angosciato
dai dissidi” tutto quanto di immateriale e materiale il padre ha lasciato. Nella
poesia Caro papà si stabilisce una comunicazione che va al di là del tempo, delle incomprensioni, dei drammi stessi della vita. Allora il concetto, un po’ carducciano, La poesia non è cosa per allocchi
assume un significato che va ben oltre
il senso che ha nella poesia con questo
titolo, ma diventa un misterioso veicolo di comunicazione, un modo per attingere l’eterno insieme con i propri cari.
“Non omnis moriar” era l’aspirazione dei
classici e lo è di ogni poeta, non solo perché gli altri lo ricordino (si veda Human
destiny in cui De Rosa esprime tale
speranza) ma perché egli stesso possa
tramandare i suoi ricordi e gli oggetti dei
suoi sentimenti.
Proprio nella poesia sopra citata emerge con forza l’aspetto di un poeta che si
vede vivere all’interno di un preciso contesto storico, di cui coglie inaccettabili
aspetti negativi collegati al dominio del
“dio denaro”, e pertanto dichiara con forza “Poeti ed artisti non restino sempre
a guardare”. Confesso che, partendo da
una posizione crociana quale la mia, inserirei questa composizione nell’ambito
dell’oratoria. Ma si tratta di una oratoria
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PROSPEZIONI
Luigi De Rosa, Fuga del tempo, Genesi,
Torino 2014, pp. €
I PERCORSI FANTASTICI
DI GREEN
di Giuliana Rovetta
Julien (o Julian) Green, uno dei maggiori scrittori cattolici del Novecento, passò la sua lunga vita in frequenti viaggi,
seguendo poli di attrazione sentimentale e culturale diversi: americano di ori-
gini gallesi, nato a Parigi nel 1900, si appassionò alla letteratura francese spaziando da Rousseau a Renan e si integrò,
utilizzando il francese come lingua di
scrittura, fino a ottenere un seggio all’Académie Française, che poi abbandonò per sdegno verso gli Immorteles, da
lui definiti “uno sciame di maleducati”.
Quanto basta per tratteggiare un personaggio inquieto, a cui Carlo Bo riconobbe le qualità allucinate ma divinatorie di
un “profeta inattuale”. La ricerca dell’io
più profondo, del suo, ma anche di
quello che quasi tutti gli uomini tengono ostinatamente nascosto, rappresenta la bussola del girovagare di Green, con
la missione di scandagliare i limiti della condizione umana in un contesto
mobile, contrastato. “Per trovare la verità occorre lavorare contro se stessi,
contro la propria inclinazione, contro la
facilitazione consentita dalle abitudini,
contro il successo, contro il pubblico: bisogna eliminare tutte le pagine in cui il
divertimento del lettore è diventato
l’unico obiettivo”, lasciò scritto nel suo
ponderoso Journal, un diario diventato
famoso come quello di Gide, suo grande
ammiratore, in cui tra molte riflessioni
aveva espresso anche il suo credo artistico.
Col cuore diviso fra felicità e tragedia e
gli occhi rivolti sempre a un altrove, Julien Green ha lasciato una vasta opera all’insegna della dualità: non solo in nome
del praticato bilinguismo e dell’appartenenza tanto alla cultura francese quanto a quella “sudista” e georgiana di derivazione materna, ma anche per via della precoce conversione dal protestantesimo al cattolicesimo.
Quasi tutti gli elementi che lo scrittore
svilupperà nel corso della sua esistenza
sono rintracciabili nella raccolta di cinque racconti Le voyageur sur terre, scritti a partire dal 1924 e usciti prima sulla «Nouvelle Revue Française» e poi in volume, a cominciare dalla sensazione
che il mondo non è come appare ma ne
dissimula un altro, invisibile e più vero.
Giuliana Rovetta I percorsi fantastici di Greene
sincera che nasce dall’indignazione di un
poeta che non vuole estraniarsi dalla storia, chiudersi nel solipsismo dell’introspezione o nel puro sperimentalismo linguistico di chi, giocando con la parola, fa di
essa l’unico vero contenuto di una composizione. Nella poesia che dà il nome
alla raccolta, il poeta confessa, iniziando la poesia con un “E” che dà il senso
della conclusione di un ragionamento, di
una meditazione interiore: “E può arrivare il giorno del rimpianto / per frammenti di vita autentica perduti a miliardi / in illusioni inconsistenti”, nella consapevolezza che cultura, sensibilità e forse anche il riconoscimento dei propri errori non rendono felici. Tuttavia resta una
certezza: quella di continuare “ad amare la vita / per continuare a viverla”. E
amare la vita vuole dire per De Rosa amare intensamente la poesia. Questo anche
perché egli ha continuato a praticarla fin
dagli anni giovanili, pur avendo avuto incarichi di responsabilità, ponendosi semmai qualche interrogativo sul senso che
oggi ha la poesia, di fronte a grandi catastrofi (E dopo Fukushima; Alluvione a
Monterosso) con un tono che sembra riecheggiare il “come potevamo noi cantare” che tutti abbiamo nella memoria.
in una delle poesie in cui la confessione
si fa più personale, De Rosa si rivolge alla
signora Senectus per dirle con chiarezza che “il suo cuore, i suoi sogni, la sua
poesia” non saranno mai preda di lei.
Questa raccolta ne è certamente la prova più evidente.
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Giuliana Rovetta Se il dopoguerra è senza pace
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PROSPEZIONI
È questo il fulcro del racconto eponimo,
in cui il protagonista, in preda a ossessioni e a una latente follia, si sdoppia fino
a perdere la sua prima identità senza peraltro riuscire a imporre agli altri la figura artificiosamente costruita in cui tenta di proiettare le sue ambizioni e le sue
debolezze. Anche il testo è presentato ad
arte come un doppio, cioè come l’elaborazione di uno scritto nato in un’altra lingua e poi tradotto da un soggetto terzo
che non è il vero autore. Un escamotage
simile è all’origine del secondo racconto (qui l’estensore finge di completare un
manoscritto interrotto trovato in un
cassetto), Le chiavi della morte. La figura di Odile, imperscrutabile oggetto di
fantasie amorose fin dall’infanzia, così
come la giovanissima Christine del racconto omonimo, niente più che una tormentosa, evanescente visione, sono personaggi fittizi, al limite della vita vera e
conosciuta, di cui percorrono i margini
con una sorta di volontà allucinata che
sempre allude al rifiuto della vita. Alla
stregua del passeggero di L’inutile traversata (Leviatano), tutti questi personaggi
sono in cammino su una terra che sfiorano appena con la levità di corpi inconsistenti, salvo poi scomparire, più che
morire, attraverso il passaggio nello
specchio del visibile: dall’altra parte li
aspetta il mondo cosiddetto immaginario, per loro l’unico veramente reale.
il racconto conclusivo, Maggie Moonshine, non sfugge all’atmosfera straniante
che caratterizza tutta l’opera di Green ed
è forse quello in cui risulta più riuscito
l’intreccio fra dimensione fantastica e ipoteca di un destino finale che attiene alla
sacralità dell’uomo e della natura che lo
avvolge. in più, è questa la sede in cui lo
scrittore introduce l’allusione a uno
stigma che determina il destino di due
personaggi, nell’ombra e nel silenzio dei
rispettivi contesti sociali: se su Maggie,
abbandonata in fasce sui gradini di una
casa, incombe il segreto di una nascita
infamante, Percival nel passato si è dovuto allontanare in extremis da una
giovane fidanzata per mancanza di vero
interesse verso il genere femminile. il
dato accertato di una solitudine interiore è letto da Green in chiave d’ineluttabilità e non di melodramma, attraverso
il filtro di una scrittura rarefatta che riesce ad essere incisiva e tagliente in ogni
dettaglio.
Julien Green, Il viaggiatore in terra, Nutrimenti, Roma 2015, pp. 222, € 17,00.
SE IL DOPOGUERRA
È SENZA PACE
di Giuliana Rovetta
Romanzo potente e spettacolare, Au revoir là-haut, ora tradotto per Mondadori da Stefania Ricciardi, è dovuto alla penna di un docente di letteratura convertito alla scrittura, una scrittura classica alla
Dumas, avventurosa e consapevole, premiata con un Goncourt. Lo scenario è
quello della Prima Guerra Mondiale, ma
qui a interessare non sono gli scontri bellici o le gesta eroiche (“l’eroismo non è nel
nostro patrimonio genetico, afferma l’autore Pierre Lemaire, tutt’al più è la coincidenza fra un’occasione che si presenta e un buon riflesso”) bensì la fase che
segue all’azione e che prelude al lento ritorno alla normalità. Di quale “normalità” si tratti il libro darà conto nel corso
della vicenda, ma già le prime cinquanta pagine trascinano il lettore in un’atmosfera di bruciante allucinazione. Due
giovani che non si conoscono, sopravvissuti per quattro anni nelle trincee, poco
prima dell’armistizio nel novembre 1918,
sono obbligati da un tenente ambizioso
e folle a compiere un’azione militare senza speranza. Albert, un modesto impiegato con poche risorse, si troverà a salvare la vita a Édouard, uno spavaldo e cocciuto figlio di papà, rimasto intrappolato in una buca dallo scoppio di una bomba che gli sfigurerà per sempre il volto.
incentrato sul destino dei reduci, che siano come in questo caso “gueules cassées” o uomini resi inabili o individui os-
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PROSPEZIONI
ironico fatalismo così viene narrato il momento tanto atteso della smobilitazione:
“Fin dalla mattina, si urlavano tutti addosso in un baccano permanente. il
Centro di smobilitazione era un continuo
risuonare di grida e imprecazioni e, all’improvviso, a fine giornata, lo sconforto sembrò invadere quel gran corpo
agonizzante. Gli sportelli si chiusero, gli
ufficiali andarono a cena, i sottufficiali,
esausti, soffiavano per abitudine sul
loro caffè peraltro tiepido, seduti su alcuni sacchi. i tavoli dell’amministrazione erano sgombri. Fino all’indomani. i treni che non c’erano non sarebbero più arrivati. Per oggi, niente da fare. Forse domani.”
Pierre Lemaitre, Ci rivediamo lassù,
Mondadori, Milano 2014, pp. 456, €
17,50.
LA VIA DELLA VERITÀ
di Rosa Elisa Giangoia
Tutti noi nella nostra vita ci incamminiamo lungo il corso dell’esistenza, seguendo, dapprima inconsapevolmente, le
orme di altri, innanzitutto dei nostri genitori, dei nostri fratelli maggiori, poi, a
mano a mano che acquistiamo consapevolezza, scegliamo le persone di cui seguire le orme, maestri ed amici, a cui
guardiamo per ragioni affettive e intellettuali, persone capaci di dare delle risposte ai nostri interrogativi, uomini e
donne che suscitano la nostra ammirazione e che riescono a coinvolgerci emotivamente. Ma ad un certo punto del nostro esistere, prima o poi, ci rendiamo
conto che, per dare pieno compimento
alla nostra vita in una prospettiva escatologica, dovremmo individuare e seguire altre orme, orme che per noi diventano difficili da individuare e soprattutto
da calcare per cui le possiamo definire
“intangibili”. Sono naturalmente le orme
di Dio, i segni del percorso che dalla nostra dimensione terrena ci possono portare nell’Oltre dell’infinito, dell’immen-
Rosa Elisa Giangoia La via della verità
sessionati mentalmente dal fantasma degli orrori passati, il romanzo indaga sul
colpevole rifiuto della società alla cura
e al reinserimento degli scampati, complice il generale bisogno di oblio che plana sul dopoguerra con un effetto di stordimento. A questo rigetto fa da contraltare il giustificato risentimento degli
esclusi, disingannati dal perdurare delle iniquità che la guerra avrebbe dovuto
rimuovere. Saranno proprio la delusione
e il senso di rivalsa ad attrarre i protagonisti in una spirale esistenziale che li
condurrà a trasformarsi in astuti truffatori, escogitando una sequela di colpi nel
settore dei monumenti funebri. La storia passa in crescendo attraverso liti familiari e tentativi di riconciliazione, affari condotti in modo amorale da corrotti e delatori e comportamenti segnati da
avidità e ingratitudine, ma anche col contrappunto di scoppi d’intensa voglia di
vivere, in una galoppata che sfiora lo
scandalo delle esumazioni militari, questo sì, realmente avvenuto nel 1922. Lemaitre mostra qui la sua spericolata capacità di orchestrare con mano ferma
uno scenario vasto e movimentato, utilizzando con finezza lo scandaglio dell’approfondimento sociale non meno
che “la cassetta degli attrezzi” (questa la
sua definizione) che già aveva sperimentato nella stesura dei suoi primi romanzi, tutti ascrivibili, e fra questi il notevole Irène, al genere noir, basandosi sulla
capacità di trascinare il lettore in un turbine di avvenimenti a cui la Storia, o più
semplicemente la realtà, forniscono
spessore e sostanza.
Facendo sua l’affermazione di Anatole
France secondo cui i soldati s’illudono di
andare in guerra per salvare la patria,
mentre fanno invece sempre gli interessi di qualcuno, Lemaitre lascia che a dominare il suo lungo racconto bellico e postbellico sia un sentimento di collera per
la stonatura fra commemorazioni e onori militari da una parte e emarginazione
e irriconoscenza dall’altra. Con un senso di suprema stanchezza ma anche con
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Rosa Elisa Giangoia Tre città
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PROSPEZIONI
so, dell’eterno.
il fatto che il poeta abbia scelto proprio
il termine “orme” è significativo e importante; infatti le orme si determinano attraverso un contatto fisico, di conseguenza danno l’impressione di trattenere in
sé qualcosa di chi le ha impresse, di cui
non si limitano a suggerire un’immagine o un ricordo, ma ne suscitano direttamente la “presenza”.
Queste “orme intangibili” che possono
indicarci la strada da percorrere con fatica e impegno per trovare Dio sono quelle che Alessandro Ramberti persegue in
questa sua nuova raccolta di liriche, in
cui con grande tensione creativa, sostenuta da una ricca esperienza e consapevolezza intellettuale e fortificata dalla
personale adesione alla Fede, cerca di
dare concretezza di parole alla fenomenologia del divino nel nostro mondo.
Per questo le sue liriche assumono una
valenza di θῆλος con la sapienza biblica,
con le pagine conclusive e più alte della Commedia dantesca e con altri pochi
testi che hanno osato affrontare il tema
arduo ed affascinante di “dire Dio”.
Come si può “dire Dio” e, nello stesso tempo, cosa si può dire di Dio? La prima questione Ramberti l’affronta e risolve a livello creativo e culturale, in quanto si impegna in un tessuto poetico complesso e coeso, prima di tutto dal punto di vista metrico per l’organizzazione dei versi in quartine intercalate da un verso tra parentesi,
occasione di sospensione, ma anche di approfondimento e di apertura di nuovi ulteriori orizzonti. D’altra parte Ramberti,
per costruire questa sua opera come un insieme compatto ed unitario, tutto incentrato puntualmente sul tema dell’unicità
di Dio, fa ricorso alla sua cultura, caratterizzata dalla conoscenza di diverse lingue,
tra cui il cinese, e da molte letture. Così
ogni poesia è chiusa da una parola in ideogrammi cinesi, traslitterata e tradotta, e i
testi in poesia vengono in un certo qual
modo approfonditi e quasi dilatati dal collegamento con citazioni da altri testi di autori appartenenti ad esperienze culturali
molto diverse (Matteo Ricci, Albert Camus,
immanuel Kant, Enzo Bianchi, Dietrich Bonhoeffer e altri ancora), che possono essere interpretati come compagni di viaggio
nella ricerca delle “orme intangibili”. Sono
tutti autori con cui evidentemente Ramberti ha consuetudine di frequentazione
per essere sempre riuscito ad individuare punti di piena consonanza con il suo
dire poetico. Si viene così a creare una mappa con dei segnali, degli indicatori, ma anche potremmo dire una polifonia di riflessioni, una coralità di espressioni che tutte convergono per individuare e illuminare quelle “orme tangibili” che il poeta ricerca ed evidenzia con le sue parole per
sé e per gli altri in una dimensione di affratellamento pedagogico.
Questo impegno letterario di Ramberti vuole anche dimostrare che le “orme intangibili” sono fatte, per noi uomini, di parole. infatti di Dio non abbiamo alcuna concretezza: è un templum in senso etimologico, un’area ritagliata nella nostra mente da riempire con il non-umano, con l’Altro, o meglio l’Oltre, per il quale abbiamo
soprattutto le immagini e le parole speciali, forti, connotate ed espressive, capaci di
aprire orizzonti illimitati e di comunicare con il massimo di efficacia. Ma tra le parole e le immagini privilegiamo le seconde, perché sono le parole il mezzo che Dio
ha usato per comunicare a noi la Sua Rivelazione, per cui possiamo dire che la parola, il λλλλλ, è stata sacralizzata perché
Dio se ne è servito per il nostro bene.
Un libro di poesia costruito con originalità, abilità e finezza intellettuale, che può
essere di molto aiuto a chi cammina sulla strada della ricerca della Verità.
Alessandro Ramberti, Orme intangibili,
FaraEditore, Rimini 2015, pp.78, € 10,00.
TRE CITTÀ
di Rosa Elisa Giangoia
Quando si ha tra le mani un nuovo libro
di poesia, scritto da chi per la prima volta nella vita si cimenta con questa forma
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PROSPEZIONI
della vita, tra emozioni del momento e riemergere di ricordi, sulla linea in certo qual
modo delle Occasioni montaliane: sono immagini della memoria riflesse nello specchio del testo. Per questo potremmo dire
che si tratta di una poesia che nasce dal
realismo, ma che, per una sorta di magia,
va oltre la realtà.
Ad animare i testi è soprattutto un’energia intellettuale, pervasa da una sottile e
incisiva inquietudine che determina la dinamica interna al discorso poetico. Un discorso che emerge dal profondo sulla spinta di un’urgenza esistenziale, che induce
l’autore anche alla considerazione compassionevole degli altri (In morte di Mingo
Smeraldo, La casa sul ponte, La visita,
Down, L’amore malato).
Quella di Pulei Russo è una poesia dall’andamento piano, dal tono colloquiale, dalla modulazione narrativa, con venature elegiache, senza velleitarie torsioni espressive sperimentali, ma che sa trovare una sua
voce originale ed autentica per la capacità di intessere nei versi espressioni e figure originali. Basta un esempio: «Della
triade di amici / che sorride nella foto
d’istantanea / sotto i portici d’accademia
/ rimane l’immagine del superstite // che
parla ai fantasmi. » (Album). Una voce personale che si viene progressivamente
sempre meglio configurando nella sintesi espressiva fatta di concisione analogica ed allusiva.
Giuseppe Pulei Russo, Liturgia del dolore
– diario di un osservatorio sentimentale,
De Ferrari, Genova 2015, pp. 191, € 12.
MARTA GIERUT
TORNA A PIETRASANTA
di Milena Buzzoni
il ritorno di Marta Gierut a Pietrasanta,
a dieci anni dalla scomparsa, avviene attraverso una retrospettiva essenziale, se
non esaustiva come quella del 2013 a Palazzo Panichi, certamente esemplare e
mirata a concentrare nella varieta’ dei
pezzi presentati, l’eclettismo di un’ ar-
Rosa Elisa Giangoia Tre città
espressiva, ci si sorprende sempre per la
fiducia che la poesia continua a riscuotere ed anche per la fiducia che chi scrive
poesia ha nei confronti degli altri, dell’ascolto e
della comprensione da parte loro.
La silloge Liturgia del dolore – diario di un
osservatorio sentimentale di Giuseppe Pulei Russo appare subito, come rivela fin dal
titolo, un itinerario esistenziale protratto
nel tempo all’insegna dell’analisi di se stesso, della percezione della realtà, dell’osservazione degli altri, portate avanti con un
particolare ésprit de finesse che induce
l’autore a svelare innanzitutto la sua interpretazione dell’esistenza sub specie doloris, come indica il titolo. il poeta, infatti,
ripercorre la sua vita evidenziando innanzitutto l’averla trascorsa in tre città, Messina, dove è nato e ha vissuto l’infanzia,
Napoli, città dell’adolescenza e degli studi, e Genova, città del lavoro e della maturità, rappresentate in copertina con i loro
monumenti e scorci panoramici simbolo:
«… vivo a Genova / parlo con l’accento di
Napoli / e sono nato a Messina» dice il poeta in Predestinazione. Tre città, accomunate dalla configurazione geografica simile, che ha determinato la loro storia, poste di fronte al mare, motivo di unione tra
di loro, ma anche simbolo di quello spaziare con libertà e spirito d’avventura verso l’infinito che la poesia richiede.
Genova è la città privilegiata come soggetto poetico, osservata dal mare e dai forti,
di cui si cantano la Lanterna, i Caruggi e
il Righi (Vento del Righi, Autunno del Righi), mentre Napoli è lo sfondo di sfumati ricordi dell’adolescenza in tempi marcati dalle vicende del secondo conflitto
mondiale (dal Vesuvio, Una ferita di guerra, Il campo Yankee, Il pallone di carta) e
Messina riemerge come ricerca delle radici (da Scilla a Cariddi, Gente peloritana).
il poeta Pulei Russo per rapportarsi alla realtà si avvale anche degli strumenti della
sua ampia cultura giuridica e letteraria che
creano occasioni di maggiore sensibilità e
di ampliamento degli orizzonti. Ne viene
fuori una poesia ispirata dai piccoli fatti
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Milena Buzzoni Marta Gierut torna a Pietrasanta
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PROSPEZIONI
tista matura, nonostante i suoi ventotto
anni, elaborata, sfaccettata. A ospitarla
e’ la fondazione “La Versiliana”, nella quale disegni e parole si mescolano in un gioco espressivo che ingloba olii, sculture,
fotografie; una serie di ritratti in bianco
e nero la presentano nella sua dimensione reale, fisicamente autentica come se
il percorso attraverso le opere esposte
fosse destinato a comporre la sua persona in carne e ossa. Di solito siamo curiosi di vedere chi si nasconda dietro una
poesia, un testo, un quadro e di solito restiamo delusi perche’ l’arte ci propone
un contatto extrasensoriale, un incontro
di anime. Con lei non sarebbe successo
perche’ la sua sensibilita’ artistica era totalizzante e connaturava l’intera persona. La sua opera cosi’ ricca e varia offre
migliaia di aspetti per comporre la sua
personalita’: non abbiamo avuto bisogno
di conoscerla perche’ lei si e’ lasciata scoprire attraverso cio’ che ha scritto, dipinto, disegnato, scolpito. Ricordo, solo a titolo esemplificativo, il monumento in
marmo “ il volto e la maschera” a Marina di Pietrasanta all’interno di quel Parco della Scultura che vede opere di Botero, Cascella, Finotti, Folon, Mitoraj. Ma,
come osserva Giovanni Faccenda “ Marta oggi sopravvive nelle sue opere e, in
modo particolare, nelle liriche”. Le poesie infatti sono imprescindibili e indimenticabili sentieri di accesso al suo essere:
quei “sonagli della luna” non smettono
di tintinnare nella mente e “ l’eco che mi
somiglia” risuona a replicare mille Marte. Trovarla qui in questa sequenza di
grandi foto, e’ un’ emozione che non si
dimentica: non si dimenticano quegli occhi densi come quelli di tutti gli individui tormentati ne’ la grazia dei suoi ge-
sti. il suo volto e il suo corpo sono quelli di un’adolescente impensierita da
un’ombra che le passa sullo sguardo ma
nello stesso tempo divertita dal gioco della seduzione, dalla malizia di quella pennellata tirata sul petto. Anch’io, come
molti, ho guardato a fondo quella figura per capire il mistero di quella morte
volontaria, per scoprire un segno del tragico epilogo della sua vita. Ma era una verifica inutile: frugare tra i riccioli neri dei
suoi capelli, osservare la bocca, sperare
in un sorriso che potesse cambiare gli
eventi, una luce negli occhi che scongiurasse la morte. Quelle foto non ci dicono di lei nulla piu’ di quanto svelino le
poesie ( e di vera poesia si tratta, come
nota anche Manlio Cancogni, non di
prove adolescenziali, di tentativi ). Esse
insinuano il disagio di un’attesa. Marta
e’ immortalata proprio cosi’, con quello
sguardo, con quei gesti che sarebbero rimasti insignificanti se avesse continuato a vivere ma che sono diventati emblematici per la scelta che poco dopo
avrebbe fatto: leggiamo in essi la sospensione di ogni altra funzione in vista di
quell’epilogo, la preparazione, l’attesa appunto di quel destino. E il grande quadro posto sul fondo della sala intitolato “ Un abbraccio è per tutti ,” con le due
figure che si stagliano a concludere il percorso, diventa il suo commiato, il suo
modo di lasciarci ancora una volta con
un atto d’ amore, estinto nel rosso e nel
blu dei colori come in mezzo a braci che
ardono.
Marta Gierut Poesie e opere dal 2 al 12
luglio 2015 Fondazione “La Versiliana”
Spazio “Geen House”
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CRITICA
di Flavia Motolese
C’è una memoria antica che attraversa l’operato di Carlo Merello e poi
c’è una mente moderna e razionale. La consapevolezza di una temporalità tutta umana contrapposta al perdurare di schemi e leggi che sovrastano la vita degli uomini e dei suoi manufatti e che in questo li accomunano.
Carlo Merello, artista acuto e sperimentale, è solito affermare che i suoi
lavori procedono per progetti con linguaggi espressivi e tecniche autonome con cui cerca di indagare e risolvere, attraverso soluzioni estetiche, problematiche teoriche, ma, guardando dall’esterno il suo lavoro, si può affermare che la costante delle sue opere sia rivelare una traccia dell’anima spirituale e dell’essenza materiale.
L’essere architetto ha influenzato, sia nel procedimento sia nelle modalità espressive, il suo approccio con l’arte visuale in cui è sempre presente lo studio delle relazioni tra i valori estetici dell’architettura, quelli con-
Reliquiario d'architettura, 2000, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60x100
Carlo Merello
CARLO MERELLO
ARCHETIPO / ARCHITETTURA
Le geometrie della mente
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CRITICA
Carlo Merello
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tenutistici dell’arte e le loro reciproche modalità rappresentative.
L’arte è il risultato di un’attività speculativa e interpretativa: il punto di partenza è l’analisi di un’idea e della sua rappresentazione iconica, è il desiderio di costruire un’immagine in grado di rendere
e dare forma simbolica e sintetica a
questo concetto.
La premessa più diretta di questo atteggiamento concettuale va individuata nell’assioma per cui, essendo impossibile inventare qualcosa di nuovo in pittura, l’unica strada per apportare un contributo personale significativo sia quello di superare i risultati già raggiunti, realizzando una
pittura “ideale”: una rappresentazione di
essa attraverso la sua apparenza, utilizzandone lo stesso involucro concettuale, compositivo e mnemonico.
Da questo deriva la tendenza di innestare nelle sue opere riproduzioni pittoriche
da citazioni storiche che, estrapolate
dal loro contesto e sospese in uno spa-
zio di memoria, creano un effetto straniante e dissertativo sulla complessità di
istanze che vertono intorno al ruolo
dell’arte e dell’immagine contemporanea.
La sua ricerca segue percorsi complessi
di ibridazione di pensiero e modus operandi, ma riconducibile ad un’unica matrice “Il tema fondamentale è il rapporto tra l’essere in noi e l’essere nel mondo; ovvero il senso dell’esistere rispetto
all’ambiente creato”. Ogni tematica affrontata riconduce alla dialettica tra il contenuto e l’involucro concettuale, che ne è
esternazione visibile; come la riflessione
costante e mai risolta insita nel parallelismo tra il corpo umano inteso come contenitore di vita e di anima e la costruzione architettonica di per sé inanimata, inerte, ma resa viva dall’agire umano che interagisce con essa e all’interno di essa
(“Vuoti a perdere”, “Il Respiro di Genova”,
“Fessure di Genova”).
La vita è decodificata sotto forma di geometrie razionalizzanti per sublimarla
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CRITICA
te”. Un rigido schema formale che replica poche figure geometriche - matrici evocative di cultura, significato, sapere - infondendo un senso di mistero alla composizione. Viene così creato dall’artista
il “tipoide” che è un elemento grafico reiterato, mutuato dall’architettura, antropomorfo, totemico, grammaticale. Questi moduli, variamente costituiti da simboli schematizzati, si ricollegano in qualche modo alle modalità della scrittura: altra tematica che si ripresenta in diversi
progetti; in parte intesa come traccia che
attraversa il tempo ed in parte per la sua
caratteristica di evocare, attraverso il suo
Reliquiario d'architettura, 1999, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60x80
Carlo Merello
ad un livello superiore puramente mentale, moduli ripetibili in grado di fornirci un più razionale approccio sistemico
alle leggi del mondo e allo stesso tempo
evocativi del potere della simbologia. È
presente anche una certa aspirazione ad
un processo catartico di purificazione della realtà attraverso una raffigurazione
estetica essenziale che trova alcuni punti di contatto con il fondamento utopico
dell’Astrattismo. Merello reinterpreta il
passato e traccia le coordinate di un ipotetico futuro in un susseguirsi di linee,
frammenti, segni, sfere, portali come in
“Frammenti di città ideale” o “Casa limi-
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Carlo Merello
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aspetto, contenuti non espliciti assimilandosi all’architettura - struttura portante
del pensiero umano e contenitore di significato.
L’elemento razionale meditato trova un
contrappunto gestuale, più irrazionale e
libero nelle pennellate e colature di colore, molto spesso utilizzando il rosso per
questo tipo di intervento pittorico, quasi a voler richiamare una matrice sanguigna ed alchemica.
Bisogna, inoltre, sottolineare una continua
ricerca di sintesi formale, di essenzialità
a cui contribuisce la quasi totale esclusione del colore, fatta qualche rara eccezio-
ne, e della riduzione degli sfondi nel rigore disegnativo di una sublimazione metafisica degli spazi, fino talvolta all’annullamento. Nel suo approccio disegnativo
minimalista, anche una semplice linea diviene parte costitutiva deputata ad una
funzione espressiva ben precisa: se le sue
linee nell’aspetto richiamano i giochi ottici delle “Costellazioni strutturali” di Joseph Albers, nella sostanza si caricano di
un elemento simbolico più profondo attraversando lo spazio e congiungendo virtualmente idee e tempi distanti tra loro.
È il contenuto a dare la forma al contenitore e non viceversa, è molto importan-
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CRITICA
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Carlo Merello
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te per capire il lavoro di Merello il ruolo
fondamentale che gioca la forma, intesa
non come aspetto, ma come rappresentazione concettuale e simbolica. La forma è la realtà immediata con cui si può
esprimere l’esperienza, l’anima, il pensiero scatenando nello spettatore processi
cognitivi complessi e di interpretazione
non univoca. L’opera agisce sempre su più
livelli, investendo ambiti diversi e complementari, un continuo gioco di accostamenti e contrapposizioni: struttura archi-
tettonica o urbana e corpo umano, fotografia e sperimentazione pittorica, passato e presente, pittura e architettura, riproduzione documentaristica e interpretazione allegorica, spazio fisico e
spazio mentale.
Bene riassume la sua poetica il ciclo dei
“Reliquiari d’architettura” che coniugano
scultura, pittura e design: opere tridimensionali basate sulle forme primarie di rettangolo, ovale, tondo e triangolo costruite in MDF. Sulle superfici interamen-
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CRITICA
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Carlo Merello
Reliquiario d'architettura, 2001, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 90x60
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CRITICA
Carlo Merello
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Omaggio a San Vitale di Ravenna, 1999, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60x100
Reliquiario d'architettura, 2000, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 40x80
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CRITICA
introitarla. L’occhio riporta anche ad un senso di memoria, aggiungendo un’ulteriore
suggestione emotiva a questa serie di
opere e riallacciandosi alla funzione reale insita nel fenomeno della venerazione
delle reliquie e cioè la credenza in una vita
ulteriore e in una continuità di azione del
defunto. Ritorna l’elemento della memoria, ciò che perdura di noi e si tramanda,
riportandoci anche ad un'altra questione
centrale nel lavoro dell’artista e cioè la riproduzione mnemonica di immagini.
Così come culturalmente, le reliquie
possono essere considerate il più antico
oggetto di rilevanza antropologica, ancora prima dell'immagine, della parola e della scrittura, così l’opera di Merello si può
considerare in sé perfetta espressione di
un’arte complessa e autonoma che ridefinisce il rapporto tra l’arte e la comunicazione contemporanea, in cui il significato e la parvenza trovano un perfetto
equilibrio armonico.
Reliquiario d'architettura, 2000, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60x80
Carlo Merello
te giocate sul binomio nero-argento, con
motivi a meandro e ad ellissi, le teche lasciano apparire su un fondo oro, riprodotti in grafite su acetato, occhi e mani
tratti anche dall’Encyclopédie di Diderot
e d’Alembert.
I Reliquiari ripropongono la dialettica tra
significato e significante. Il termine in sé
indica i contenitori adibiti alla custodia per
la conservazione e l’esposizione di resti sacri. L’attenzione dell’autore, come di consueto, si focalizza sul contenitore, trasposizione architettonica della casa anch’essa contenitore di elementi sacri come la vita.
Il reliquiario diventa così elemento di
un’architettura concettuale: al suo interno
Merello vi custodisce, non qualcosa di materiale, bensì l’idea della pittura, rappresentata attraverso tre simboli: la luce, le mani
e l’occhio. La luce è raffigurata dall’oro, la
mani sono l’operosità che costruisce, crea
e l’occhio è la percezione, ricorda il senso
che ci permette di ammirare la pittura, di
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BIOGRAFIA
Biografia Carlo Merello
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BIOGRAFIA
Carlo Merello è nato a Genova nel 1950. Architetto, lavora nel complesso delle arti visive. Dalla metà degli anni Settanta ad oggi la sua ricerca ha attraversato i valori della
pittura neo-espressionista, con particolare attenzione al tema dell’autoritratto, fino a
giungere, a metà degli anni Ottanta, ad una sintesi figurativa espressa da un simbolismo geometrico di forte valenza etico-spirituale.
Nei lavori dei primi anni Novanta lo studio del simbolismo criptico degli archetipi della visione viene elaborato mediante il disegno di improbabili case di apparente e fredda memoria neo-classica.
Nascono così i “Plastici”, che mettono in luce le contaminazioni tra scultura e architettura e poi le “Cattedrali”; alla fine del decennio iniziano le sperimentazioni per il così
detto “Libro dei tipoidi” e i “Reliquiari d’architettura”, dove il riferimento è alla casa,
come contenitore di elementi viventi e dunque sacri.
A seguito dei tragici eventi del G8 del 2001 nasce la serie omonima, mentre tra 2004
e 2005 l’artista produce i “Vuoti a perdere”, che pongono l’attenzione sugli edifici pubblici ormai in disuso. Le sperimentazioni continuano negli anni successivi con le “Tavole sinottiche” (2008), “Il respiro di Genova” (2010-2011), “I capricci italiani” (2012-2013),
fino ad arrivare agli ultimi lavori sulla “Città combusta”, in cui gioca con il parallelo tra
la forza evocativa del fuoco e quella dell’arte.
Nel corso della sua carriera Carlo Merello ha dato vita e numerose mostre personali in
tutto il territorio ligure e ha partecipato anche a esposizioni di rilievo nazionale e internazionale, come "Crossing Borders" al Fine Arts Center di Irvine in California nel 1992;
"Arte postal: a Festa" presso la Biblioteca municipal do Barreiro, in occasione del 5° Expo
Internacional di Spagna nel 1993; "L'objet reconnu” presso la Galleria Etage di Munster
nel 1995, "BUIO, sottovetro" a Madrid nel 2015, la Biennale di Chiasso nel 2010 e la Biennale di Genova nel 2015.
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S AT U R A R T E
2015
20° Concorso Nazionale d’Arte Contemporanea
a cura di Mario Napoli
204 artisti finalisti in mostra
SATURA art gallery - Genova, Palazzo Stella - 12 - 23 settembre 2015
Con il Patrocinio di:
Regione Liguria
Città Metropolitana
di Genova
Comune di Genova
Municipio 1 Centro Est
La celebrazione delle 20 edizioni del Concorso Nazionale d’Arte Contemporanea – SaturARTE, più che un riconoscimento per SATURA art
gallery, che l’anno scorso ha festeggiato il ventennale di attività, è la
riprova del ruolo svolto in questi anni nella ricerca e nella promozione di artisti di talento. La manifestazione vede la partecipazione di 200
artisti nazionali ed internazionali selezionati tra le oltre 1000 iscrizioni da tutta Italia. E se i numeri non sono certo l’unico aspetto da considerare per valutare la qualità di un’iniziativa, almeno in questo caso
vanno reputati come un segnale esclusivamente positivo. In primis per
l’affetto e la stima dimostrata dai tanti artisti che hanno voluto essere presenti e poi per il costante trend positivo che registrano le proposte del ricco programma espositivo di SATURA in termini di collaborazioni e di crescita per importanza e ambizione. Basti pensare alla
Biennale di Genova da poco conclusasi con grande successo, che ha
coinvolto, oltre a Palazzo Stella, cinque diverse location museali ed istituzionali o la presenza a Photissima Art Fair presso il prestigioso Chiostro dei Frari di Venezia in concomitanza alla 56^ Biennale d’Arte. Un
percorso in continua ascesa dalla prima edizione, quando i concorsi in
1° Premio Fotografia Alessio Belloni
1° Premio Pittura Pauline Zenk
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2015
Italia dedicati all’arte contemporanea erano ancora pochi. Nel 1995 è stata una vera
scommessa quella di istituire SaturARTE
che voleva essere un’occasione reale di visibilità per gli artisti, di confronto tra di
loro e con il pubblico. Il concorso rappresenta al meglio la missione di SATURA nel
dare impulso all’arte contemporanea e valorizzare i giovani artisti, incentivandoli a
realizzare i loro progetti. È cresciuto
anno dopo anno, consolidando la sua fama
grazie alla trasparenza e alla professionalità dimostrate. Si è trasformato in un marchio sinonimo di apertura, creatività e dialogo, in cui sono solo le opere a parlare.
Un vero e proprio circuito ad ampio raggio che nella comunicazione e multidisciplinarietà fonda il suo punto di forza per
generare un ambiente intellettualmente
dinamico che mantenga alta l’attenzione
del pubblico e degli addetti ai lavori. SaturARTE è il nostro appuntamento annuale con l’arte capace di mostrare una
raccolta di idee in tutte le sue forme, il
baricentro per saggiare lo stato dell’arte contemporanea in Italia: quest’anno c’è
stata una grandissima adesione di giovani emergenti di talento che utilizzano
e sperimentano i mezzi più innovativi,
ma dimostrano anche grande studio e padronanza delle tecniche pittoriche e fotografiche. Affiancati come di consueto
da artisti professionisti, con una carriera consolidata: è una grande ricompensa andare a ritroso e vedere quanti di loro
si sono affermati nel panorama italiano
crescendo insieme e parallelamente al
concorso. Voglio ringraziare gli artisti per
la loro adesione e la fiducia accordata in
tutti questi anni e per aver condiviso con
noi l’ambiziosa volontà di non subire la
scena contemporanea, ma di avere un ruolo culturale attivo e scriverne una pagina
in prima persona.
LA GIURIA DI SATURARTE 2015
Marino Anello collezionista, Silvia Canepa grafico, Wanda Castelnuovo critico
d’arte, Elena Colombo critico d’arte, Mi-
2° Premio Fotografia Lorenzo Mini
3° Premio Fotografia Roberto Bordieri
lena Mallamaci architetto, Marta Marin art
curator, Yolanda Mora art advisor, Flavia Motolese art curator, Giuditta Napoli designer, Mario Napoli presidente associazione Satura, Mario Pepe critico d’arte, Andrea Rossetti critico d’arte e Maria
Valacco critico letterario.
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S AT U R A R T E
ARTISTI PREMIATI
Rosario Abate, Andrea Agrati, Guido Alimento, Alessio Bandini, Lello Bavenni,
Maria Bertolino, Tiziano Bonanni, Silvia
Brambilla, Stefano Cacciatore, Lorenzo
Castello, Franco Dallegri, Alessandro
De Michele, Ornella De Rosa, Giustino De
Santis, Enzo Forgione, Anna Gamberini,
Massimo Gilardi, Pia Labate, Jessica Marangon, Mirella Marini, Pasquale Martino,
Attilio Maxena, Antonio Milana, Roberto Miraglia, Anna Momini, Sarvenaz
Monzavi, Massimo Motta, Pablo Muñoz
Montaner, Luca Paramidani, Francesca
Pompei, Aldo Righetti, Luca Salvetti,
Gio Sciello, Andrea Simoncini, Santi Sindoni, Gennaro Totaro, Giovanni Vecchi,
Stefano Zangara.
Premio Giuria Tullio De Pietro
ARTISTI SEGNALATI
Laura Baiu, Mattia Baraldi, Antonio Biagiotti, Stefano Boschetti, Francesco Bruzzo, Paolo Cau, Renato Dametti, Anna
Dennis, Francesco Falace, Sibilla Fanciulli, Amedeo Fernandes, Carlotta Fortuna,
Sergio Franzosi, Silvia Fucilli, Gianni
Gianasso, Giorgio Gioia, Andrea Granchi,
Giovanni Ignazzi, Maria Kasakova, Lucia
Maio, Umberto Marangoni, Luca Maria
Marin, Marlen Und Marlen, Mauro Martin, Andreas McMuller, Martha Meza, MIG,
Flavio Montagner, Nikolinka Nikolova,
Ada Nori, Simone Paccini, Paola Pappalardo, Marjo Riitta Paunonen, Roberto Pestarino, Andrea Pollastro, Alessandro
Rossi, Cristiano Salinardi, Rossella Sartorelli, Lara Sarzola detta Pandora, Renzo Sbolci, Maria Tcholakova, Federico Tinti, Gabriella Vinciguerra, Xavier Yarto.
ARTISTI FINALISTI IN MOSTRA
Guido Adaglio, Salvatore Affinito, Giulio
Agostino, Aurelia Albertocchi, Lucio
Alessio, Paolo Ambrosio, Annamaria Angelini Chiarvetto, Enzo Angiuoni, Domenico Arces e Lucia Macrì, Vittoria Arena,
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ARTISTI VINCITORI
1° Premio Pittura Pauline Zenk, 1° Premio
Fotografia Alessio Belloni, 2° Premio
Pittura Paola Pastura, 2° Premio Fotografia Lorenzo Mini, 3° Premio Pittura Maria Guida, 3° Premio Fotografia Roberto
Bordieri, Premio della Critica Roberto Antelo, Premio della Giuria Tullio De Pietro.
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S AT U R A R T E
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Premio Critica Roberto Antelo
Grazia Badari, Cinzia Bassani, Carla Battaglia, Manuela Bausone, Fabrizio Bellè,
Tiziana Benvenuto, Alessandro Berretta,
Lisa Bertè, Amedeo Besana, Marinida
Biagini, Raffaella Bisio, Francesco Blaganò, Ivo Bonsi, Moreno Bottauscio, Rosamaria Brioschi, Cristina Calderara Jaime,
Barbara Callio, Sara Cancellieri, Matteo
Cannata, Mario Caraffini, Luigi Carpineti, Antonio Casali, Caterina Cataldi, Maurizio Ceneviva, Venere Chillemi, Valeria
Crisafulli, Francesca Cristini, Graziella De
Poli, Massimo Di Bacco, Natalia Esanu, Sergio Fassan, Ida Fattori, Stefano Favaretto, Patrizia Fazzari, Daniele Fedi, Carolina Ferrara, Nicla Ferrari, Milena Ferruzzi, Leonardo Fiaschi, Ishmael Florez,
Carla Freddi, Monica Frisone, Angela
Furciniti, Francesca Galleri, Antonello Gangemi, Moreno Gasparetto, Lena Giannieri, Ada Giaquinto, Isabella Giovanardi, Alberto Giudici, Iolanda Giuffrida, Giulia
Gorlova, Mara Grimaldi, Valeria Gubbati, Gisela Hammer, Anna Icardi, Florkatia
Libois, Elisa Lovati, Francesca Lupo, Pierpaolo Mancinelli, Cristina Mantisi, Mariki, Antonella Marini, Silvana Mascioli, Silvana Mellacina, Me-Né, Edjola Merxhushi,
Bruna Milani, Elvio Miressi, Giulia Monteverde, Valeria Morasso, Giacomo Mozzi, Not so popular, Adriana Olivari, GiBi
Peluffo, Claudio Pesce, Giorgio Luigi Piana, Patrizia Poli, Raimund Prinoth, Elvi
Ratti, Luana Resinelli, Agostina Ribaldone, Rossana Rigoldi, Patricia Rodriguez
Pastor, Mariangela Rosso, Beatrice Salvadori, Antonio Scaramella, Giorgia Scoma,
Monica Spicciani, Maurizio Stragapede,
Lada Stukan, Giuseppina Taddei, Marialuisa Tedeschi, Carlo Terenzi, Antonella
Tomei, Mario Tonino, Giuseppina Tonto,
Alfredo Torsello, Luisella Traversi Guerra, Daniela Traverso, Rita Vitaloni, Claudia Vivian, Alice Voglino, Laura Zilocchi.
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CRITICA
di Flavia Motolese
Le idee migliori non vengono dalla ragione,
ma da una lucida, visionaria follia.
Erasmo da Rotterdam
Stefano Grondona osserva il mondo con estrema lucidità e ne rappresenta con divertito disincanto tutta la follia e le contraddizioni. Unico nel panorama italiano, realizza opere tridimensionali grazie ad un
procedimento di stratificazioni di cartoncini intagliati e distanziati da
un materiale semi plastico che gli permette di infondere profondità
alla composizione e accentuarne l’effetto drammatico. La scelta della sequenza cromatica dei cartoncini non è prestabilita nella fase progettuale/disegnativa, ma improvvisata in fase di montaggio seguendo l’ispirazione e ricercando gli accostamenti che rendano al meglio
contrasti e armonie o accentuino le volumetrie.
L’atto creativo è totalmente libero, risponde solo alle sue esigenze narrative ed espressive, ma nelle sue opere nulla è casuale: come un esperto regista Grondona immagina la trama, predispone la scena e la fotografa, incidendola nella carta – il procedimento elaborato è frutto di anni
di sperimentazione in campo fotografico.
Artista visionario e geniale, è capace di tratteggiare scene di perfetta
orchestrazione, stilizzando le figure e riducendo al minimo gli elemen-
Gesù Cristo inchiodato al muro di casa, 2015, cartoncini intagliati, 70x100
Stefano Grondona
STEFANO GRONDONA
VISIONARIO CONTEMPORANEO
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CRITICA
Stefano Grondona
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Section one, 2015, cartoncini intagliati, 100x70
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CRITICA
Non sarà forse l'esuberanza di cibo a creare il dissidio
tra i popoli, 2015, cartoncini intagliati, 100x70
Stefano Grondona
Direttiva primaria, 2015, cartoncini intagliati,
100x70
ti compositivi. Interessato all’attualità,
tratta solo tematiche contemporanee, illuminando come un faro la verità, ritraendo le incoerenze umane, e rendendole manifeste. Questa aspirazione realista
lascia affiorare la sua personale interpretazione della società, sarcastica e spietata, da cui sembra essere esclusa ogni
possibilità di sottrarsi ad un destino beffardo e crudele.
La lama che incide con chirurgica perizia
i cartoncini colorati corrisponde alla
lama intellettuale che disseziona la mente e l’anima senza lasciare margini di fuga
a soluzioni consolatorie. Ma più il soggetto è grave, più i colori devono attrarre lo
spettatore, affascinarlo in un gioco di antitesi: la gamma cromatica volutamente
vivace determina un effetto di straniamento rispetto alla tematica trattata e genera un forte impatto psicologico. Le opere di Grondona si possono ricondurre a
filoni tematici la cui ispirazione spazia dal
campo letterario, a quello cinematografico: l’immagine sacra, la città nuda, gli strumenti musicali, i Cristi, i vizi, le scene dell’Apocalisse. Influenzato dal Surrealismo, dalla Pop Art, dall’Espressionismo
e, in particolare, dall’opera di Bacon e
Munch, se ne discosta attraverso l’elaborazione di un linguaggio del tutto originale che non è possibile relegare nella definizione di una sola corrente artistica.
La sua analisi della condizione umana lascia emergere la visione di uomo consapevole del dramma esistenziale, in cui
gioca un ruolo fondamentale la percezione dell’identità. Grondona ha saputo rappresentare i tormenti della società contemporanea in cui verità oggettiva e capacità immaginative si mescolano in
una concezione filosofica simile a quella che Herzog definiva “verità estatica”:
più profonda di quella apparente, banale e superficiale, che si ottiene riproducendo i fatti reali, una verità che scuote
l’anima e che si può raggiungere “solo attraverso invenzione e immaginazione e
stilizzazione”.
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Time to talk
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T I M E T O TA L K
TIME TO TALK
± 100 Contemporary Artists From Iran
a cura di Sarvenaz Monzavi e Mario Napoli
Sabato 17 ottobre 2015 ore 17:00
Palazzo Stella - inaugurazione
aperta fino al 28 ottobre 2015
da martedì a sabato ore 15:00 – 19:00
Genova, SATURA art gallery
SATURA art gallery ha il piacere di ospitare nei propri spazi espositivi una grande mostra dedicata all’arte iraniana contemporanea. 100 artisti, membri dell’Associazione dei Pittori Iraniani, presenteranno in anteprima assoluta per l’Italia le loro opere dando corpo alla mostra “TIME
TO TALK. ± 100 contemporary artists from Iran”. La rassegna offre un
punto di vista sulla storia dell’arte e della cultura visiva iraniana contemporanea, senza proporne una lettura unitaria, ma sottolineando la
varietà e la complessità di un immaginario artistico che arricchisce la
nostra visione offrendo molti spunti di riflessione.
“TIME TO TALK” nasce con l'obiettivo di favorire lo scambio artisticoculturale tra l'Italia e l’Iran, un paese dalle solide tradizioni artistiche
ancora poco conosciute fuori dai suoi confini: la pittura è una delle arti
più coltivate nella cultura persiana, in cui confluiscono elementi deri-
Amin Rostamizadeh
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T I M E T O TA L K
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Time to talk
Mahshid Rahim Tabrizi
vati dalla raffinata perizia della miniatura, dal ricercato e fastoso gusto estetico
mediorientale e, oggi, dalla globalizzazione del linguaggio espressivo.
L’esposizione assegna ai dipinti il compito di esprimere e comunicare lo spirito del
tempo, disvelando allo spettatore un ricchissimo universo in cui ai soggetti e alle
formule compositive di stampo più tradizionale si intrecciano soluzioni innovative e sorprendenti (giochi di prospettiva,
rare essenzialità di forme e astrazioni geometriche). Un viaggio alla scoperta di un
Paese che si sta aprendo al mondo per far
conoscere ad un pubblico più vasto la sua
immensa cultura in cui la modernità convive con l'eredità culturale di un incredibile immaginario di storie e poesia.
La mostra sarà un’opportunità unica
per ammirare le opere che rappresentano le impressioni intellettuali e personali di alcuni maestri dell’arte iraniana, tra
cui spiccano i nomi degli artisti contemporanei più importanti e quotati a livello internazionale – Hadi Jamali, Behzad
Shishehgaran, Reza Bangiz - insieme
con i giovani talenti che stanno scrivendo la storia attuale.
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T I M E T O TA L K
Time to talk
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Niloofar Ghaderi Nejad
ARTISTI IN ESPOSIZIONE:
Afsaneh Akhoondi, Ahmad Nasrollahi,
Alaleh Amini, Ali Taraghi Jah, Amin Rostamizadeh, Armineh Negahdari, Arta
Sharif, Atash Shah Karami, Atefeh Mehrvarz, Atefeh Rezaei, Azadeh Keyghobadi, Azadeh Teymourian, Azim Morakabatchi, Azin Alavi, Badri Meraji, Bahar Binesh
Marvasti, Bahareh Zali, Behshid Farhangian, Behzad Shishehgaran, Elaheh Nasiri, Elham Aghili, Fariba Rahnavard, Farshid
Shiva, Fatemeh Abdollahzadeh, Fatemeh
Pakdel, Fereshteh Yamini Sharif, Golnar
Habibi, Golnaz Anbari Attar, Hadi Jamali, Haleh Hassani Kia, Haniyeh Forootan,
Hekmat Rahmani, Helia Azmi, Hermineh
Keshish, Hesam Poloei, Homa Tavakoli, Jamileh Vosoughi, Jina Shamsolvaezin, Kiana Mirhaghani, Leila Gholoubi, Leila Taherian, Leyli Derakhashani, Mahin Lotf Mohammadi, Mahnaz Ahmadi, Mahshid Rahim Tabrizi, Mahvash Joorabchi, Manijeh
Sehi, Manouchehr Motabar, Maryam Aghaee, Maryam Mohammadi, Maryam Mojta-
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T I M E T O TA L K
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Time to talk
Behzad Shishehgaran
hedi Moghadam, Maryam Seraj, Maryam
Sharifi, Masoumeh Mozafari, Mehrdad Fallah, Milad Mahmoudi, Mina Naderi, Mitra
Kharestani, Mohammad Hadi Fadavi, Mohammad Ishaghi, Mohammadreza Ahmadzadeh, Mohammadreza Pour Farzaneh, Mohsen Nazari Khanmiri, Mojdeh Mehrafarin, Mojgan Hosseini, Mojgan Rohani, Mona Khodadad Pour, Mona Zand Kiani, Nazanin Allah Verdi, Negin Javaheri Far,
Niloofar Ghaderi Nejad, Niloufar Torabi,
Nima Petgar, Parvaneh Razaghi, Pegah Ja-
mali, Pouneh Oshidari, Pooya Jamali,
Pouran Harati Pour, Rahman Ahmadi
Maleki, Reza Bangiz, Ronak Farhangian,
Rozita Sharaf Jahan, Sabrineh Toopchi, Samaneh Ahmadi, Sanaz Eskandari, Sanaz
Haeri, Sarah Ameri, Sarvenaz Monzavi, Setareh Dehdari, Shabnam Tolou, Shahin
Ghaffari, Shirin Boriyaei Doost, Sima
Amani, Sima Novin, Sirous Aghakhani, Somayeh Hedayat, Sousan Ettehad, Yaghoob Amamepich, Zahra Khalil Zadeh, Zeinab Sadeghi Kaji.
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Alessandro Berretta
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VETRINA
ALESSANDRO BERRETTA
FENOMENOLOGIA SOCIALE
di Andrea Rossetti
Diretta su un immaginario collettivo è la posizione di chi i piedi a terra sa come tenerli. Alessandro Berretta va contestualizzato nell'ascendenza che un certo concettualismo tutt'ora ha su una larga fetta della produzione artistico-contemporanea, quasi come lascito propedeutico - quando non fondamentale - all'introduzione dell'artista verso
un'azione espressiva centripetamente basata su sistemi di relazione sociale. E pur se l'arte in quanto pratica per Berretta non arriva ad essere quel sinonimo sintomatico di “ricatto sociale” ipotizzato da Massimo Grimaldi (artista in molti casi protagonista di soluzioni decisamente più “borderline”, ma che per inciso col torinese condivide una forma di arte-denuncia giostrata nei confini di un teorizzazione compartecipata dal valore razionale dell'oggetto-immagine), si trova comunque a significare una forma di “contatto sociale”.
Contrapposizioni (complemetari), 2014, tecnica mista, 18,5x11,5
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VETRINA
Ognuno a suo modo ha lasciato qualcosa, 2015,
tecnica mista su tela, 35x50
Quindi si pone una domanda che rischia
d'essere banale, per alcuni forse lo sarà
sicuramente, tuttavia apparentemente necessaria: quale è il ruolo (vero e non presunto) dell'artista? Questione che si tira
dietro una riflessione molto meno banale, perlomeno se si tiene conto del ruolo sociologico maturato dall'arte direttamente (e indirettamente) nel tempo, e che
fa da volano affinché l'artista non precluda dalle proprie azioni il contatto con
la realtà di un quotidiano vissuto, o vivibile anche a distanza. In Berretta ciò si
riduce ad una sintesi minimal di fatti e
Ne risponderemo, 2005, tecnica mista su legno,
28x23
Alessandro Berretta
misfatti (di cui l'uomo è “self maker” assoluto) condizionanti a livello planetario,
ricorrendo all'uso meta-evocativo di oggetti istantaneamente riconoscibili, non
manipolati fisicamente quanto sviluppati concettualmente. Decontestualizzati
nella loro iconicità per far si che essa sia
messa in rima con la loro totemica modernità. Berretta così attesta il ricorso ripetuto alla linea nei codici a barre, sbarre di un'omologazione imperante, come
all'insolenza di quella “mascherina”
eletta ad oggetto globale, multiplo passato per una catartica pop-art, (forse) finito nel più perfetto autoritratto di un
artista auto-elettosi membro egalitario di
una popolazione mondiale. Tra universalità condita di veemenza ieratica e la
stoccata nazional-popolare del “siamo
tutti sulla stessa barca”.
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Stefano Borroni
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VETRINA
STEFANO BORRONI
MEDITAZIONI PITTORICO-FIGURATIVE
di Andrea Rossetti
Mossa vagamente underground - o pensata fuori dalla frenesia di un rapporto tra la contemporaneità e le immagini basato spesso sull'immediatezza - coltivare la quiete fino a farne una situazione pittorica “ambientale”, coercitiva fino al punto di poter essere considerata conditio sine
qua non per buona parte della produzione di un artista. Ma è seguendo
questo procedimento “improprio” che Stefano Borroni s'è ritrovato protagonista in una pittura di netta evidenza meditativa, nella quale
l'espressività pura è già stata superata da una tracciatura riflessiva spandente, che dai luoghi rimbalza su soggetti e complementi narrativi. Fissandosi in ultimo sul tempo, divenendo immagine di una melanconia non
appassita, fatta di situazioni vivibili e persone in cui riconoscersi, mo-
Per l'ultima volta, 2013, olio su tela, 80x80
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VETRINA
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Stefano Borroni
Tutte le mattine, 2015, olio su tela, 70x70
vimenti-attimi che si guadagnano la loro
meritata eternità ripetendosi giorno per
giorno.
È quel sentore d'eterno, immutabile e imperturbabile alla vista, che si riflette in un
grigiore (virato talvolta ad una fotografica tonalità seppia) in cui non c'è negazione cromatica, ma la facoltà dell'artista di
gelare l'istante preso, bloccarlo nella visione collettiva, lasciarlo immobile nell'invariabilità delle sue marcate luci e ombre.
Tono seppia che chiede nuova attenzione,
poiché coerente con una pittura tesa a catturare fotograficamente l'istante dato,
da cima a fondo, riportando con precisione l'immagine; e doppiamente coerente
quando, allargato il proprio spettro cromatico, l'artista mette la stessa immagine alla
funzione di una misura tonalmente poco
satura, in verità perfettamente ghirriana.
Svicoliamo subito da ogni sorta di equivoco: definire “fotografica” la pittura di
Borroni non comprende solo fattori connessi a situazioni stilistiche, opinabili
quanto si vuole; al contrario tale aggettivazione è determinante per tracciare
l'ipotetica “filiera concettuale” delle sue
immagini. Ghirriano (quindi legato ancora all'istantanea d'autore) infatti è il piacere di selezionare una complessità visiva tale da mettersi in condizione di
“parlare per immagini”, cercando modalità di visione allegorico-contemporanee che arrivino a formare percorsi in cui
la figurazione sia affare di pubblico dominio, e non solo di chi la fa.
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Ornella De Rosa
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ORNELLA DE ROSA
SGUARDO RAVVICINATO
di Elena Colombo
Lo sguardo femminile di Ornella de Rosa nasce da un approccio iperealistico e da una scelta cromatica che, avvicinandosi alle tavolozze minime del fumetto statunitense e alla grafica, ricorda la verosimiglianza fotografica del cinema. Arte di consumo, dunque, cioè immagine che contribuisce a orientare il gusto livellando i canoni estetici. Si tratta forse del
trionfo dell’apparenza; ovvero, che senso ha la pittura descrittiva nell’era
del digitale? Allo stesso modo dell’obiettivo, il pennello agisce come una
Oltre lo sguardo, 2014, acrilico su tela, 60x60
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VETRINA
La scelta, 2015, acrilico su tela, 90x60
spatola anestetizzante ma varia l’intensità pratica dell’azione. Sociologi e giornalisti – per non parlare dei blogger – hanno notato il passaggio dalla tela al selfie,
salutandolo come abbattimento dell’estetica d’élite o viceversa come manifestazione di una “Sindrome Narcisista”. Cellulari e macchine hanno il dono della rapidità dell’occhiata di superficie, mentre il pennello impone ancora tempi di lavorazione lunghi e una diversa abilità tecnica. C’è
però un fattore che accomuna le due dimensioni, ossia la funzione standardizzante che prescinde da un racconto per creare icone ad hoc. L’artista lombarda unisce
a queste visioni quella del fotogramma,
grazie a un approccio confermato dalla se-
Semplicemente stupore, 2014, acrilico su tela,
50x100 (particolare)
Ornella De Rosa
quenzialità che restituisce l’idea di movimento anche in un contesto che apparentemente richiede meditazione. La donna
è ripresa in tutte le sue sfaccettature, secondo inquadrature e tagli graffianti, dall’efficacia pubblicitaria: troviamo la vamp
e la ragazza comune; quella sicura di sé
e la sognatrice che ci porta in un mondo
di introspezione. Così, mentre creiamo
un’ipotetica sfilata di volti, dobbiamo
sempre tener presente il filtro attraverso
il quale stiamo guardando, uno specchio
che restituisce una percezione particolare del soggetto. In alcuni casi il personaggio è colto di sorpresa, in un momento di
riflessione o di assoluta spontaneità - e
allora si ha una sensazione di freschezza,
come se l’occhio passasse attraverso un vetro – in altri pare che si sia volutamente
messo in posa per mostrare una certa idea
di bellezza, un distacco che ha a che fare
con la concezione patinata dell’algida
perfezione fisica. Come nel ritratto di Natasha Gilman firmato da Diego Rivera le
linee seducenti della figura sono riprese
e sottolineate dall’ondulazione bianca
delle calle, qui i tratti somatici si riverberano nella vaporosità degli scolli o nell’increspatura lattea di uno sfondo neutro.
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Loredana Gazzola
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LOREDANA GAZZOLA
TRAME-TRAPPOLA
di Andrea Rossetti
Destabilizzano quelle parole tese nello spazio, aperte, troppo libere d'essere un intreccio ampliato alla rinfusa. Toglie il fiato la loro infinita potenzialità estensiva, sulla carta non quantificabile o direttamente percepibile, così come il loro ruolo di unica immagine tronca e ridondante, sovra-estetica in tutti i suoi strutturali punti di saldatura che ne avallano
l'inscindibilità. Una cortina ostica, difficilmente penetrabile, con cui Lo-
Reti antigrandine, 2012-2014, fotografia bn, 49x49
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VETRINA
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Loredana Gazzola
Solo il cielo lo sa, 2012-2014, fotografia bn, 49x39
redana Gazzola sembra fotograficamente avanzare una domanda cruciale: c'è ancora voglia (e possibilità) di attivare un
qualsiasi tipo di comunicazione in questo
fitto intreccio privo di senso logico-grammaticale, che sembra destinato a non avere inizio o fine? Forse, o forse il gioco della fotografia sarà solo l'ennesimo reticolo costrittivo, ingabbiamento disposto a
modificare la nostra conoscenza del mondo, un filtro attraverso cui la realtà è presa come dato di fatto, quasi involontariamente, come non ci si rendesse conto che
sentirsi “dall'altra parte” significa assumere quell'intreccio snervante a condizione
primaria del quotidiano.
Una rete già impiegata in proporzione
concettuale e che la Gazzola riprende nella libera interpretazione dei suoi termini, con l'intenzionale duplicità percettiva di una maglia realmente intessuta o di
una sommatoria fittizia tra elementi
eterogenei, equivocando le immagini secondo la legge dell'inganno più che mentale. Non blocco, ma interferenza in grado di condizionare la percezione individuale, di un individuo obbligato dalla Gazzola (per prima, ma non da sola) ad osservare (quindi ad una presa di coscienza sul proprio esistere) da dietro la
semi-penetrabilità delle sue maglie larghe,
fitte o piegate dal passare del tempo.
Di nuovo sul concetto d'interferenza,
quella che si trasforma in abitudine, entra in circolo nella sua dimensione decorativo-aggiuntiva, agendo sulla comprensione delle immagini, sulla loro iconografia, ma senza intaccarne la base iconologica. Con alcuni passaggi in analogia al
percorso video-installativo della statunitense Trisha Baga, la Gazzola colpisce al
cuore il nostro “saper vedere”, vittima tanto delle incidenze esterne quanto della sua
logica frammentazione.
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Ludovica Lanci
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LUDOVICA LANCI
OLTRE LE FINESTRE APERTE
di Elena Colombo
Ludovica Lanci riflette sulla permeabilità tra Interno ed Esterno nella percezione dello Spazio. Questo approccio fondamentale è dato non solo dalla scelta degli oggetti da rappresentare ma anche e soprattutto dai colori, ossia dall’uso calcolato della luce che di volta in volta crea sgranature
o saturazioni sulla retina. Se dal punto di vista tecnico ritroviamo il gu-
Green light, 2013, fotografia digitale su forex
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sto di Childe Hassam e Edward Hopper per
le finestre, filtri trasparenti tra un Noi osservante e una realtà pregnante. La letteratura aveva già esplorato queste possibilità utilizzando una serie di metafore: dalla famosa “Stanza tutta per Sé” di Virginia
Woolf alle “Finestre aperte” di John Irving
nel romanzo “Hotel New Hampshire”. Attraverso i vetri si può spiare il mondo senza essere visti, costruendosi una dimensione che sarà privata e al contempo sociale.
Nella sua Teoria dei Sistemi, Nikolas Luhamnn evidenziava tre piani di lettura: il
materiale, il temporale e il sociale ricombinati secondo la personale percezione dei
fattori ambientali, cronologici e psicologici. Le immagini propongono una simile elaborazione del rapporto tra Ego e Alterego,
situando la scena in luoghi che non sarebbero considerati come location privilegiate e soffermandosi sui particolari. Nell’immagine, la modernità convive con la solidità dell’antico, il calore del mattone si affianca alla schematicità di tubi e ringhie-
Sadness, 2013, fotografia digitale su forex
Ludovica Lanci
Riflessi, 2013, fotografia digitale su forex
re malferme. Le inquadrature lasciano intuire un’ascensione anche quando sono
semplicemente statiche o mere trascrizioni della geometria; pare infatti che il gusto
contemporaneo trovi sempre il modo di
spezzare la linearità in favore del movimento. Si tratta chiaramente di scorci di periferia urbana – laddove il termine “periferia” viene messo in discussione dalla centralità che il luogo assume sul momento.
Si evidenzia così l’importanza dei linguaggi metropolitani, specie se posti in relazione con la presenza spontanea della Natura. Nella logica in cui l’ecosistema etra nell’architettura e ne diventa parte, il graffitismo ha il valore semiotico di un albero,
grazie a un processo che deriva direttamente dal Post-Impressionismo violento di Vincent Van Gogh. Per Ludovica Lanci a emozione è quindi una fiammata fredda o una
tag spezzata, mentre il soggetto nascosto
nelle proprie inquietudini come un nuovo
Noferatu di Munch o come i ragazzini foto
fobici ma foto-generati di “The Others”.
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Alla Chiara Luzzitelli
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ALLA CHIARA LUZZITELLI
UNDER THE SKIN I DON’T LIVE IN
di Elena Colombo
Ritratti che qui traducono il senso di teatralità che è implicito in ogni
“scena della vita”, ovvero l’idea di movimento che si cela dietro al distacco dei gesti . Quelle di Alla Chiara Luzzitelli sono foto che vanno
viste in sequenza, cercando la ragione dinamica dietro alla posa assunta nella transitorietà dell’istante. Come in una coreografia, ciascun
movimento racconta una storia e ha un’armonia, ma trova collocazione in una struttura narrativa complessa, che dipana le due principali coordinate: è il Tempo che viaggia all’interno dello Spazio. Il soggetto può essere uno e compiere un’azione lungo i vari scatti posti in successione, svelandosi o nascondendosi allo sguardo – e allora la sensibilità è quella che si ritrova anche nelle performance della danza contemporanea che si chiude sul singolo e gli dà corpo, mostrandolo come
unico attore. Non più la coralità che si ricercava nello sfarzo, ma piut-
Surgical hide under 2, 2014, fotografia bn, 50x70
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Alla Chiara Luzzitelli
Surgical hide under 4, 2014, fotografia bn, 50x70
tosto l’essenzialità ridotta fino all’annullamento dell’Altro e la conseguente cancellazione di qualsiasi sfondo o riferimento. Avvicinandosi all’individuo – e quindi alla sfera privata che analizza il corpo e lo rende tramite dell’emozione –
s’inaugura un percorso di conoscenza
che ci spinge a interrogarci nella smania
di zumare sempre di più. In ogni caso,
l’esperienza è straniante quanto il kamikakushi. Si ha la sensazione che i nuovi Ego, prodotti dalla post-modernità e
nati per ciò dalle contrazioni di teatro Butoh siano stati rapiti restituiti dagli Spiriti e che restino egosintonici, incapaci
di rapportarsi con realtà esterne. Abbandonato nella neutralità fittizia di un palco, Uomini e Donne devono fronteggiare le paure relazionali e reinterpretare
una condizione di pre-artificialità riscritta sulla non-riconoscibilità oggetti-
va di un Io dai mille volti che non è più
un Eroe ma un essere dimezzato dalla
promessa di una finitezza di là da venire. In “Time” di Kim Ki-Duk, i protagonisti vogliono cambiarsi per potersi accettare nel rinnovamento. Come le figure di René Magritte erano standardizzate dal completo grigio con bombetta, questi soggetti declinano l’incomunicabilità
– e il conseguente bisogno di oltrepassare il Muro nichilista – nell’interpretazione psicosociale della fascinazione contemporanea per le bende: non più simbolo di sottomissione come nella moda
delle ragazze kega-doru, ma espressione d’isolamento. Se ci si apre alla possibilità offerta dal panorama, se si affronta l’esplorazione dei luoghi oltre che del
fisico l’ignoto diventa una dimensione avvolgente, brumosa, nella quale punti cardinali sono stati inghiottiti.
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Giuseppe Palumbo
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GIUSEPPE PALUMBO
FORMA COME ESSERE
di Flavia Motolese
Giuseppe Palumbo riesce a coniugare nelle sue opere tutta la forza della materia ed un profondo sentimento di liricità. Ha iniziato il suo percorso artistico, dedicandosi alla scultura e dimostrando uno spiccato interesse per la plasticità dei corpi: l’utilizzo di diversi materiali denota la volontà di indagarne la struttura interna con un approccio di
meditato verismo per cogliere l’interazione della luce con la materia,
la corporeità delle cose.
Le sculture di Palumbo mostrano chiaramente come sia centrale nella sua ricerca la questione della forma, quale elemento fondante e enigma da dirimere con cui l’artista deve confrontarsi per arrivare a comprenderne la realtà. La concretezza della materia e la scelta di definire solo per sommi capi la figura, lasciando alcune parti abbozzate, accentua l’intensità espressiva dell’opera. Le figure femminili in terracotta in cui non sono definiti volti e dettagli, ma l’attenzione è focalizzata sui volumi, sembrano derivare da un impeto creativo subita-
Mucca, 1981, gesso, garza e filo di ferro, 47x100x20
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Ritratto di ragazza con sottoveste nera, 2003, olio
su tela, 95x70
neo, scaturito per cogliere la loro essenza e dominare i segreti della forma e dei
volumi. In altre sculture prevale la sintesi formale, come negli animali, in cui
la figura è definita da una struttura metallica avvolta da garze immerse nel gesso. L’artista esegue una sorta di scarnificazione del corpo dal suo interno, lo
evoca come apparenza, lasciandone intuire l’ineluttabile caducità, fino ad approdare ad opere in cui l’estrema sintesi delle forme rende l’illusione del movimento e della contemporaneità dei piani prospettici.
Approdato, in un secondo momento, alla
pittura, Palumbo richiama con i suoi ritratti un senso di rarefatta atemporalità, la materia pittorica è di classica memoria, mentre i soggetti e l’indagine psicologica che trapela sono figli della
contemporaneità. La purezza delle forme e la linearità della composizione denotano la dimestichezza con la statuaria, le tonalità diffuse, a tratti opache e
Ritratto di uomo con maglia rossa, 2005, olio su
tela, 110x85
Giuseppe Palumbo
gli scarti tonali richiamano atmosfere sospese di morandiana memoria. La riduzione degli sfondi a campiture uniformi,
quasi monocrome, concentra l’attenzione sul soggetto prediligendo il taglio
fotografico della rappresentazione e intensificando la modellazione dei personaggi in senso plastico.
Palumbo si dedica anche alle nature morte e al paesaggio: i giochi chiaroscurali,
la luminosità diffusa, gli impasti materici nelle tonalità dell’ocra e del verde restituiscono immagini di un universo interiorizzato senza perdere il contatto con
l’elemento naturalistico reale che le ha
ispirate. L’artista dimostra come sempre
una grande sensibilità, approdando ad
esiti figurativi di ieratica purezza e armoniosa composizione.
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Roberta Signani
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VETRINA
ROBERTA SIGNANI
RAZIOCINIO PITTORICO
di Andrea Rossetti
In origine era il paesaggio. Senonché i bisogni che sottendono la ricerca
di un artista possono cambiare le sue scelte, anche di molto, prestando
il fianco alla delineazione di spartiacque che non prevedono ritorno. Così
per Roberta Signani è arrivato il tempo di dedicarsi ad un nuovo modo
d'intendere la pittura, e di trainare lo sviluppo paesaggistico verso una
netta razionalizzazione di ogni tratto pittorico maturato nell'osservazione della realtà, prevedendo perciò una riduzione primaria sulla comple-
Da uno a cinque, 2014, acrilico su tela, 40x40
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VETRINA
mentarietà di colori e forme. È la libera entrata dell'artista spezzina nella cultura visiva promossa dal Movimento Arte Concreta, dove Bruno Munari fu personalità di
punta attenta ad un ritorno al significato
effettivo, in qualche modo “crudo”, di una
pittura messa nelle condizioni di dar valore per prima cosa ai suoi componenti. Un
arte che non ha bisogno della realtà (ma
nemmeno di eccessivi afflati poetici) per
esistere, ma anzi in cui giochi illusori e isterismi soggettivanti hanno cessato di essere necessità.
Non per nulla questo attuale rapporto di
coesione pittorica tra la Signani e
l'artista/designer milanese (come anche
con la figura “similare” dello svizzero Max
Bill) nasce da un background comune, che
s'identifica nella passione per la progettazione oggettuale. L'arte così congetturata
Spirale policentrica, 2013, acrilico su tela, 60x60
Roberta Signani
Spirale Fibonacci 1, 2014, acrilico su tela, 100x80
diviene un vero luogo di strutturazione, la
pittura passa da istintualità libera a progetto precostituito, quindi a farsi valere in
quanto tecnica e controllo del proprio esercizio. È il raziocinio che porta l'azione pittorica ad essere metodo applicato, dove il
colore (acrilico non a caso) steso con dovizia di precisione tuttavia è un'appendice colour field tirata a lucido, incontrando alcuni stilemi prediletti da artisti quali Noland o Stella; con la loro stessa intenzionale precisione la Signani “delega” a
stretti rapporti geometrico-numerici la costruzione dell'opera, districando quindi
munariamente transizioni cromatiche
pseudo-motorie, teorizzate a mo' di cinetici movimenti di superficie.
Geometria e colore trattati da unici elementi costituenti, e il dosaggio di un esigenza concreto-pittorica (svincolata da ogni
inganno dimensionale, ma non percettivo)
con quella anti-espressionista dell'astrazione post-pittorica americana, sono questi i termini con cui la pittura andrà a riformulare “signanamente” la sua universale concretezza.
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
ANDANDO PER MOSTRE
Bell’Italia
La pittura di paesaggio dai Macchiaioli ai
Neovedutisti veneti 1850-1950
Luci e colori di affascinanti paesaggi
raccontati da sensibili artisti che tra il 1850 e
il 1950 hanno eternato tra Toscana e Veneto
suggestioni di ieri che scivolano intense
nell’animo di chi oggi ammira le circa 120
opere (in cinque sezioni) che nella tranquilla
cittadina di Caorle (dal suggestivo centro
storico) descrivono territori di notevole
bellezza. Capolavori con acque vibranti,
campagne rilassanti e monti incappucciati di
candida neve testimoniano magie del passato,
spesso ancora realtà odierne.
Una laguna variegata con la vita che pulsa e
freme in Giorno di vento a Venezia di Ettore
Tito capace di adornarla con il viso raffinato e
sognante di Donna sul molo e di contemplare
con tenerezza Il tuffo entusiasta di ragazzi
pieni di gioia di vivere, quasi dinamica
metafora di rinnovata libertà, placida e
sorniona in Vele al sole di Guglielmo Ciardi
che ne scopre angoli silenti e ricchi di fascino
in Rio verso le zattere o vanitosa e fiera nella
Luce di maggio che si frange nell’acqua grazie
alla sapienza pittorica di Emma Ciardi: l’opera,
affascinante icona della mostra, è un sogno in
cui tuffarsi.
Emma Ciardi, Luce di maggio
Acqua che diventa mare impetuoso ancorché
generoso in La raccolta delle conchiglie a
Castiglioncello di Luigi Bechi e palpitante di
operosità umana in Golfo di Trieste di Pietro
Fragiacomo o scorre in un corso fluviale
intorno a cui si affollano laboriose Lavandaie
di Aversa sul fiume Lori dai colori luminosi di
Angelo Dall’Oca Bianca, memoria di un antico
mestiere femminile sostituito da ben più
di Wanda Castelnuovo
ecologiche lavatrici.
Una campagna in cui fervono i lavori agricoli
come in La raccolta delle pannocchie in
Lucchesia di Ruggero Focardi o in La
vendemmiatrice, fiera figura di donna, di
Arturo Faldi o ci si può confidare con
tranquillità come nelle Bambine in
conversazione di Augusto Tommasi e una
montagna ben resa da Guglielmo Ciardi e a
una sezione dedicata a Luigi De Giudici,
artista capesarino che rielabora con stile
personale gli stimoli del suo tempo
completano la mostra.
↪ Caorle/VE, Centro Culturale ‘A. Bafile’, Rio
Terrà
10 – 18 venerdì, sabato e domenica
Fino al 25 ottobre 2015
Biglietto: ingresso € 7, ridotto € 5/4
Informazioni: 0421 219254,
www.comune.caorle.it,
www.civitatrevenezia.it
Prenotazioni: 199757519
Catalogo Marsilio Editore
Da Chagall a Malevitch
La rivoluzione delle avanguardie
Il Grimaldi Forum presenta ogni estate
un’esposizione di ottima qualità dedicata
quest’anno, in occasione dell’Anno della
Russia a Monaco, alle avanguardie russe (tra il
1905, domenica di sangue al Palazzo
d’Inverno, e il 1930 ‘suicidio’ di Majakovskij) i
cui artisti più emblematici rompendo in modo
radicale con la tradizione danno vita a Mosca
e a San Pietroburgo a un’affascinante
modernità con un diverso modo di osservare
e riprodurre una realtà mutata anche dai nuovi
mezzi di comunicazione.
Sorgono così movimenti e scuole
anticonvenzionali che colgono e incanalano
queste dinamiche pulsanti in ‘avanguardie’
(futurismo, cubo-futurismo, raggismo,
suprematismo, costruttivismo…) che si
pongono contro accademismo e convenzioni
come raccontano in modo esaustivo e
intrigante i circa 200 pezzi (pitture, sculture,
disegni e documenti) provenienti dai principali
musei russi ed europei grazie alla competente
scelta di Jean-Louis Prat, curatore della
mostra.
Un percorso completo, ben articolato,
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ANDANDO PER MOSTRE
Malevitch, Portrait perfectionné d’Ivan Klioune
affascinante, illuminante e imperdibile con
opere straordinarie come l’allegra e ludica
Introduction au théâtre juif, uno dei sette
pannelli decorativi di Marc Chagall per il
Teatro ebraico statale Karmeny di Mosca
dipinto dopo che l’artista dalla pittura
figurativa con elementi fantastici e poetici ha
abbandonato la natia Vitebsk e l’Accademia
per essersi scontrato con Kazimir Malevitch
(che vi insegna), sostenitore di un rigoroso e
austero astrattismo geometrico, ma che come
altri attraversa varie avanguardie: splendido il
suo Portrait perfectionné d’Ivan Klioune
venato di vivace cromatismo, uno degli
esempi più significativi del cubo-futurismo
russo.
E Ivan Klioune suo amico e adepto a sua volta
figura come autore di una raffinata ed
equilibrata Composition sphérique sans-objet
dai tratti suprematisti.
Tra le opere futuriste seduce Le Vélocipédiste
(Le Cycliste) di Natalia Gontcharova in cui la
staticità delle lettere in cirillico contrasta con
la dinamicità della figura che pedala.
Il demone della modernità
Pittori visionari all’alba del secolo breve
Tra fine del 19° secolo e inizio del 20° complice un progresso galoppante
determinato da numerose innovazioni
tecnologiche - si affaccia prepotente sulla
scena mondiale una modernità varia,
sfaccettata e dirompente attraverso
illuminazioni e visioni tradotte dalle diverse
sensibilità artistiche in soggetti, forme e colori
differenti.
La sfera onirica estatica, l’inconscio
primitivo e indocile, gli incubi arcani, le
ossessioni mostruose, le nevrosi
angoscianti e i più sconcertanti e alienanti
moti irrazionali danno luogo ad apparizioni
di angeli e demoni messaggeri di destini
diversi e fluttuando dalla psiche turbata si
materializzano nelle opere simboliste e
surrealiste, presaghe di un secolo dagli
eventi catastrofici e luttuosi tra cui due
conflitti mondiali e in grado di indurre
emozioni, turbamenti, inquietudini… in chi
le guarda.
La modificazione dei linguaggi artistici
sovverte gli schemi della classicità e le abituali
relazioni spazio-temporali portando a una
contaminazione di generi con esiti diversificati
e a volte sconvolgenti che in un intersecarsi
fra varie discipline radicano anche
nell’esaltazione delle idee innovative di
Charles Baudelaire che ne Les Fleurs du Mal
intepreta i turbamenti di un passaggio
epocale.
Paradigmatico Mikalojus Konstantinas
iurlionis, elegante pittore e musicista
sinestetico e raffinata la produzione di
Gennaro Favai che parte da atmosfere
notturne, brumose e decadenti della sua
Venezia dove non riesce ad affermarsi, si
impone a livello internazionale e accesa la sua
Andando per mostre
↪ Principato di Monaco, Grimaldi Forum
Monaco, Avenue Princesse Grace 10
10.00 – 20.00 tutti i giorni salvo giovedì
fino alle 22.00
Fino al 6 settembre 2015
Biglietto: intero € 15, ridotto € 8, gratuito
fino a 18 anni
Informazioni e prenotazioni/Biglietteria:
tel. 00 377 99993000,
www.grimaldiforum.com
Catalogo Editions Hazan/Grimaldi Forum
Monaco
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
tavolozza nel sud dell’Italia arriva agli
stupendi esiti delle opere dipinte oltreoceano
come New York (1930 ca.), icona della mostra,
dall’atmosfera incantata. I suoi lavori
concludono l’esposizione dialogando
armoniosamente con il moderno cinema
impressionista di fine anni ’20 il cui
rappresentante più significativo è il regista
Fritz Lang con il celeberrimo Metropolis
connotato da una folla e da ritmi angoscianti
che anticipano quelli di alcune metropoli
odierne.
Gennaro Favai, New York
↪ Rovigo: Palazzo Roverella, Via Laurenti
8/10
9.00 – 19.00 martedì, mercoledì, giovedì e
venerdì, 9.00 – 20.00 sabato e festivi
Fino al 14 giugno 2015
Biglietto mostra (inclusa audioguida): intero €
11.00, ridotto € 9.00
Informazioni e prenotazioni: tel. 0425
460093, www.palazzoroverella.com
Catalogo: Marsilio Editore
Jackson Pollock, Murale
Energia resa visibile
In quella che fu la splendida dimora veneziana
di Peggy Guggenheim, ora affascinante
Museo, si ammira in anteprima europea
un’esposizione itinerante dedicata al
monumentale Murale di Jackson Pollock
(Cody/Wyoming 1912 – Springs/New York
1956), geniale artista americano,
rappresentante dell’Espressionismo astratto e
in particolare dell’action painting, corrente
americana dell’informale.
Jackson Pollock, figura chiave dell’arte del XX
Gennaro Favai, New York
secolo e di forte impatto su quella americana,
ha elaborato un modo originale di comunicare
il proprio inconscio trattando la tela con ampi
e violenti movimenti del pennello e
utilizzando la tecnica del dripping
(sgocciolamento) che consiste nel fare
gocciolare il colore sulla tela attraverso gesti
rituali - mediati dagli Indiani d’America - con
risultati apparentemente irrazionali.
Murale, lungo 6 metri (la più grande opera
realizzata da Pollock) - dipinto tra l’estate e
l’autunno 1943 per l’appartamento
newyorkese di Peggy Guggenheim che
affascinata dal suo estro, dopo averlo
scoperto, sostiene e promuove il suo lavoro
tanto da organizzargli nel 1950 la prima
personale in Europa al Museo Correr - dopo un
accurato intervento di conservazione e
pulitura durato 18 mesi, è giunto a Venezia e
successivamente sarà esposto alla Deutsche
Bank Kunsthalle di Berlino e al Museo Picasso
di Malaga.
Lo accompagnano altre opere dello stesso
autore tra cui Alchimia e di altri artisti quali
Lee Krasner (sua moglie), David Smith e
Robert Motherwell con Elegia alla Repubblica
spagnola N.126 posta di fronte al Murale
quale tributo a Pollock di cui sono
approfonditi fonti, significati, influenze e i
suoi rapporti con la fotografia d’azione di
autori quali Herbert Matter, Barbara Morgan,
Aaron Siskind e Gjon Mili.
Lo studio di Murale, sorta di labirinto
tumultuoso, ha evidenziato come dietro
l’apparente disordine vi sia un movimento da
destra a sinistra, cioè uno spostamento verso
ovest (tema da lui già iniziato con Verso
l’Ovest) tipico della cultura americana.
↪ Venezia, Collezione Peggy Guggenheim,
Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 701
10.00 – 18.00 da mercoledì a lunedì
Fino al 16 novembre 2015
Biglietto (consente di visitare tutti gli eventi in
corso): ingresso € 15, ridotto € 12/9
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ANDANDO PER MOSTRE
Jing Shen The act of painting
in contemporary China
Un’originale mostra che permette di penetrare
attraverso opere d’arte contemporanee nella
mentalità di un popolo vario e sfaccettato e
tuttavia unito dalla singolare scrittura che
rappresenta una forma d’arte e di
comunicazione legata alla filosofia e allo
spirito ed è fonte d’ispirazione della collettiva
di venti artisti cinesi di tre generazioni diverse
presentati al Pac e in due installazioni esterne:
nella Soglia Magica (spazio che collega la
stazione ferroviaria all’aeroporto di Malpensa)
Forward di Wang Gongxin con persone che
camminano verso il futuro e presso Feltrinelli
Duomo nella Galleria della città meneghina un
allestimento site specific.
Qiu Zhijie
Una diversità fondamentale quanto a canoni
estetici e stilistici in una Cina in cui dipingere
è scrivere e viceversa; non a caso ‘Jung Shen’
significa ‘consapevolezza del gesto’ e insieme
‘forza interiore’ e nella pittura classica anche
di matrice buddista o taoista è propedeutico
alla produzione di un’immagine.
L’esposizione non è solo una rassegna di
opere (quadri, grandi installazioni, disegni,
rituali, sculture e video), ma anche un’analisi
sul rapporto tra pittura e altri linguaggi in un
dialogo tra passato e presente arricchito con
apporti dall’Occidente sui cui movimenti
d’avanguardia l’arte cinese esercita a sua volta
un’influenza.
Un mondo complesso, affascinante e
misterioso da esplorare, conoscere,
approfondire, capire… a cominciare dagli
artisti: Kan Kuan con il suo scrivere, cancellare
e riscrivere, Liao Guohe con il mescolare
grafica e pittura, Qiu Zhijie, uno dei più
prolifici e comunque emblema dell’uomo di
cultura di oggi, con i suoi cinque libri illustrati
con disegni a inchiostro di oggetti, invenzioni,
sogni… come da Jinling Chronicle Theater
Project lo spaventapasseri abbigliato alla
cinese con sullo sfondo alti monti mentre con
una calamita va raccogliendo solitario
viandante un nugolo di chiavi di tutte le forme
e fogge, Yan Pei-Ming che con ampie e rapide
pennellate di grigio fonde figure e ambiente…
↪ Milano, PAC (Padiglione d’Arte
Contemporanea), Via Palestro 14
9.30 – 19.30 martedì, mercoledì, venerdì,
sabato e domenica, 9.30 – 22.30 giovedì
Fino al 6 settembre 2015
Biglietto: ingresso € 8, ridotto € 6.50/4
Informazioni e prenotazioni: 02 88446359,
www.pacmilano.it
Catalogo Silvana Editoriale
La Grande Guerra
I luoghi e l’arte feriti
Una grande mostra organizzata da Intesa
Sanpaolo con 500 opere (da Musei pubblici e
collezioni private italiani e stranieri con più di
100 restaurate dalla Banca) articolata in tre
città Milano (Arte e artisti al fronte), Napoli
(Società, propaganda, consenso) e Vicenza (I
luoghi e l’arte feriti) per raccontare - allo
scopo di ricordare e non ripetere - aspetti
diversi di un tragico evento come la Grande
Guerra di cui ricorre il centenario.
La sede di Vicenza descrive la guerra in sé
attraverso le numerose testimonianze di vita
quotidiana di soldati spesso volontari - artisti
poco conosciuti o reporter in veste ufficiale che anonimi eroi in prima linea hanno
combattuto patendo, soffrendo e sacrificando
spesso la vita.
Circa 130 tra dipinti e disegni offrono un
resoconto dettagliato dei luoghi del fronte
italiano ormai entrati nella memoria collettiva
del popolo come i grandi fogli con ampie
Andando per mostre
Informazioni e prenotazioni: 041
2405440/419, www.guggenheim-venice.it
Catalogo Thames & Hudson
105
106
ANDANDO PER MOSTRE
Andando per mostre
30-2015 colore_Layout 1 02/10/15 16:36 Pagina 106
panoramiche del Montello, Monte Grappa,
Vittorio Veneto, San Michele del Carso e il
mitico Piave disegnati dal bravissimo
Innocente Cantinotti, artista dalla mano felice
anche nei Ritratti di prigionieri austriaci
melanconici e dolenti, le cui testimonianze
ricordano tanti quadri della tradizione
ottocentesca.
Innocente Cantinotti, Ritratto di prigionero
Né sono da meno quanto a icasticità le
rappresentazioni di solitari quanto affascinanti
panorami alpini - luoghi in cui secondo i
manuali di strategia militare del tempo si
doveva combattere la guerra - di Achille
Beltrame, il più noto degli illustratori di
giornali dell’epoca, capace di rendere l’impari
fatica dei soldati sul Monte Pasubio.
Toccanti le testimonianze del quotidiano come
le manovre raccontate dalle tavole di Italico
Bross, dalle litografie di Aldo Carpi e dai
disegni di Michele Casciello e delle distruzioni
violente che non hanno risparmiato niente,
neanche la grande arte come evidenzia la
Gipsoteca di Possagno con i numerosi gessi di
Antonio Canova dolorosamente mutilati e
ricordati dagli scatti di Luca Campigotto: uno
scempio di vite umane, valori e tesori.
↪ Vicenza, Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni
Montanari, Contra’ Santa Corona 25
10.00 - 18.00 da martedì a domenica (ultimo
ingresso ore 17.30)
Fino al 23 agosto 2015
Biglietto: intero € 5.00, ridotto € 4.00,
gratuito per le scuole
Informazioni: 800.578875 (numero verde),
www.gallerieditalia.com
Catalogo Intesa Sanpaolo
Antonio Ligabue in Museo della Follia
Vivace e provocatoria azione culturale quella
di organizzare in occasione di Expo 2015 nel
Palazzo della Ragione (risalente all’11°-12°
secolo) - risanato come il resto della città di
Mantova dai danni del recente sisma con una
tempestività e un’operosità encomiabili - una
mostra che induce a riflettere sul rapporto tra
arte e salute attraverso sei sezioni con opere e
testimonianze sulla tematica degli scompensi
nervosi da cui il titolo Museo della Follia.
Cuore dell’iniziativa - mostra nella mostra - è
l’originale dialogo tra le 190 opere, di cui 12
dipinti e 2 disegni inediti, di Antonio Ligabue
(Zurigo 1889 – Gualtieri/RE 1965) e i 37 lavori
(alcuni mai esposti e pubblicati) di Pietro
Ghizzardi (Viadana/MN 1906 – Boretto/RE
1986), due esponenti del ‘900 i quali
malgrado le condizioni di vita sono riusciti
grazie all’arte a trovare un rapporto con la
natura e l’umanità evitando di perdersi nelle
nebbie della follia e raggiungendo notevole
affermazione personale.
Antonio Ligabue, Paesaggio con cani
Toccante la dolorosa vita di Ligabue, figlio di
un’operaia bellunese emigrata in Svizzera e
legittimato dopo due anni da Bonfiglio
Laccabue, pare il vero padre, non amato
dall’artista che muta il cognome. Segnato nel
corpo e nello spirito da un’alimentazione
insufficiente, ha rapporti difficili con la
30-2015 colore_Layout 1 02/10/15 16:36 Pagina 107
ANDANDO PER MOSTRE
Mondi a Milano
Culture ed esposizioni 1874 - 1940
Il Museo delle Culture - che risale all’acquisto
negli anni ‘90 da parte del Comune di Milano
con l’intento di destinarle ad attività culturali
delle fabbriche dismesse dell’Ansaldo (esempi
di archeologia industriale): modificate da un
mirato intervento architettonico, queste sono
divenute un polo multidisciplinare di 17.000 m²
dedicato alle differenti culture e sede espositiva
delle civiche Raccolte Etnografiche - inaugura i
suoi spazi con due mostre, una sull’Africa e
l’altra sui Mondi a Milano raccontati con le
grandi esposizioni dal 1874 (Esposizione
storica d’arte industriale) fino al 1940.
Una Milano alacre, cosmopolita e
interculturale che al pari dell’Occidente scopre
le diverse culture come qualcosa di esotico e
man mano ne approfondisce la conoscenza a
volte allontanandosi dalla realtà: opere d’arte,
architetture, oggetti di design, documenti e
arredi testimoniano l’affascinante percorso
dall’esotismo all’ansia di modernità.
Dal successo nel 1874 dei manufatti bronzei
dell’estremo oriente in particolare di Cina e
Giappone all’Esposizione nazionale del 1881
ricca di suggestioni di altre culture (russa,
turca, persiana, moresca…) che influenzano
gli artisti dell’epoca fino alla tragica avventura
coloniale italiana in Africa e alla singolare
esposizione egiziana del 1891 con tanto di
carovana beduina e villaggi-spettacolo.
È tuttavia la prima Esposizione Internazionale
del 1906 in occasione dell’apertura del
Sempione a stupire con la ricostruzione di un
villaggio eritreo e di un quartiere del Cairo
come raccontano fantastiche cartoline con
Figure e volti che animavano “Il Cairo a
Milano”. Né si attenua, pur essendo
aumentata la possibilità di viaggiare,
l’influenza degli altri mondi sulle manifatture
italiane: dai mobili ai soprammobili nelle
Esposizioni di Monza e nelle successive Fiere
Campionarie con rievocazioni favolose delle
colonie attraverso la Sedia Tripolina e alla
Triennale del 1933 un modello di Casa
coloniale che diverrà smontabile e
prefabbricabile.
Figure e volti che animavano “Il Cairo a Milano”
↪ Milano, Mudec (Museo delle Culture), Via
Tortona 56
14.30 – 19.30 lunedì, 9.30 – 19.30
martedì, mercoledì, venerdì e domenica,
9.30 – 22.30 giovedì e sabato
Fino al 19 luglio 2015
Biglietto: ingresso con audioguida inclusa €
15, ridotto € 13/11/7/6.
Informazioni e prenotazioni: 02 54917,
www.mudec.it
Catalogo 24 Ore Cultura
Nelle antiche cucine
Nella suggestiva Villa edificata - su progetto di
Giuliano da Sangallo per Lorenzo de’ Medici e
terminata alcuni decenni dopo - sulle pendici
del monte Albano all’interno di un’ampia
proprietà agricola tra Firenze, Prato e Pistoia,
Andando per mostre
famiglia adottiva che lo denuncia per la sua
aggressività con il risultato di farlo estradare a
forza dalla Svizzera e spedire a Gualtieri (da
cui era giunto Laccabue) aumentandone
solitudine e isolamento anche perché il
giovane parla solo lo zurighese.
Emarginato in modo drammatico, riesce a
riscattarsi grazie anche all’aiuto dello scultore
Mazzacurati dipingendo e scolpendo e
creando uno stile personale dominato da
cromatismo, vitalità, forte senso della natura
consolatoria nei confronti di questo fanciullo
dolce e violento, ‘bambino selvaggio’
cresciuto nell’indifferente ‘giungla’ sociale.
E tra le splendide opere l’inedito Paesaggio
con cani con gli amati animali e il ricordo della
natia Svizzera nella forma del campanile.
↪ Mantova, Palazzo della Ragione,
Piazza Erbe
14.00 - 19.00 lunedì; 10.00 – 19.00 da
martedì a venerdì e festivi; 10.00 – 22.00
sabato
Fino al 22 novembre 2015
Biglietto: intero € 10, ridotto € 8.50/6/4.50
Informazioni: tel. 0376 1505892/223810,
www.csaligabue.it
Catalogo Augusto Agosta Tota
107
30-2015 colore_Layout 1 02/10/15 16:36 Pagina 108
ANDANDO PER MOSTRE
Jacopo Chimenti e l’elegante Natura morta con
verdura, pane, testa di vitello e oggetti da
cucina del fanese Carlo Magini.
Orari variabili: consultare il sito
Fino al 25 ottobre 2015
Ingresso gratuito
Info e prenotazioni: tel. 055 877012,
www.polomuseale.firenze.it/musei/?m=poggi
ocaiano
Catalogo Sillabe
Andando per mostre
108
Carlo Magini, Natura morta con verdura, pane,
testa di vitello e oggetti da cucina
un’affascinante mostra in sintonia con Expo
2015 focalizza l’attenzione sulla cucina, fulcro
della casa e del nucleo familiare, attraverso la
pittura di genere del Sei e Settecento.
Interni di cucine, cuochi e dispense sono le
intriganti tematiche delle tre sezioni in cui
oltre a dipinti sono presenti anche vari oggetti
d’uso domestico (ceramiche, recipienti e
strumenti in rame e vetri) che hanno ispirato
gli artisti del passato oltre a famosi manuali di
cucina quali l’Opera di Bartolomeo Scappi a
indicare come dal Seicento la maggiore
attenzione delle arti figurative verso le ‘cucine’
sia concomitante a una serie di innovazioni
relative allo svilupparsi di un’arte culinaria,
della figura del cuoco professionista e di
nuove progettazioni delle cucine.
È possibile visitare (su prenotazione) per la
prima volta nella Villa le cucine “segrete” fatte costruire da Cosimo II de’ Medici e
destinate all’esclusiva preparazione dei cibi
per il Granduca - che conservano intatto il
fascino del passato.
Un percorso avvincente a cominciare dalle
prime rappresentazioni cinquecentesche (di
ascendenza fiamminga) di cucine con echi
religiosi, allegorici e moraleggianti che
scompaiono nelle nature morte del ‘600
ambientate in cucine come quella del Nord
Europa di Scene di vita domestica in una
cucina dell’olandese Monsù Teodoro.
Di piccole dimensioni La cuoca intenta a pulire
una conca di rame, opera straordinaria per
l’aura di dolcezza melanconica, dell’olandese
Caspar Netscher mentre di rara efficacia sono
alcune nature morte classificate ‘dispense’ per
l’eccezionale varietà e abbondanza di cibi e
stoviglie come le Dispense del fiorentino
Surfaces et correspondences
Enrico Castellani e Lee Ufan
Inserita nel progetto Arte Milano - che in
occasione di Expo 2015 riunisce cinque
gallerie e due storiche Fondazioni tutte attive
a livello internazionale e vede risorgere
l’omonima pubblicazione (distribuita
gratuitamente) ricalcando un’analoga
iniziativa del 1971 quando sette gallerie
hanno dato vita alla rivista in grado di
vivacizzare l’informazione sull’arte nazionale e
internazionale - un’intrigante mostra mette a
confronto Enrico Castellani e Lee Ufan, due
esponenti di spicco della contemporaneità
lontani per ambiti e percorsi culturali, ma
accomunati da corrispondenze quali il rigore
concettuale e il linguaggio sintetico e rarefatto
dalla forte incisività.
Enrico Castellani, Superficie bianca
Nato a Castelmassa (Rovigo) nel Polesine
nel 1930, Castellani, che lavora e vive a
Celleno (sito tra i laghi di Bolsena e di
Alviano), studia tra Novara, Milano e
Bruxelles. Tornato a Milano, nel 1959
fonda con Piero Manzoni la rivista Azimuth,
crea la sua prima superficie a rilievo
(estroflessione) dando origine a una poetica
30-2015 colore_Layout 1 02/10/15 16:36 Pagina 109
ANDANDO PER MOSTRE
successive acquisizioni e donazioni.
Numerosi pittori ticinesi sono stati legati al
capoluogo lombardo avendo frequentato
l’Accademia di Brera ed esposto i propri lavori
a partire dalla mostra del 1886 (anno in cui è
inaugurata la nuova sede progettata da Luca
Beltrame) alla Permanente, all’epoca punto di
riferimento per il mercato italiano dell’arte e
per la promozione di molti giovani artisti.
L’esposizione approfondisce le tematiche della
‘natura’ tra Naturalismo e Simbolismo fino al
paesaggio astratto del dopoguerra con
Guglielmo Ciardi dall’incantato Paesaggio
lagunare o locustre, Alberto Pasini dal Monte
Bianco visto da Courmayeur con nevai e
ghiacciai oggi arretrati ed Emilio Longoni il cui
onirico Ghiacciaio richiama altri climi e della
‘figura’ con ritratti che vanno da fine ‘800
come lo Studio di testa di grande intensità di
Giuseppe Pelizza da Volpedo e la Giovane
donna tra candore giovanile e sbocciata
sensualità e il raffinato Ritratto della Signora
Tina Ruffini Rocca di Cesare Tallone.
Tra sogno e realtà
Ottocento e Novecento dalle collezioni del
Museo Civico della Città di Bellinzona
Una magnifica opportunità lo scambio di una
settantina di opere d’arte tra il Museo Civico
Villa dei Cedri di Bellinzona e il Museo della
Permanente di Milano, frutto di un progetto
volto a mettere in luce le comuni radici
linguistico-artistico-culturali tra Lombardia e
Canton Ticino.
In particolare la mostra esplora la storia del
Museo ticinese iniziata più di quarant’anni fa
nel 1971 grazie a Emilio Sacchi, medico, e
Adolfo Rossi, banchiere, i quali, donando
opere di artisti di area ticinese e lombarda
soprattutto tra fine Ottocento e inizio
Novecento, determinano la nascita del primo
nucleo di 73 opere cui si sono aggiunte
Interessante la presenza di opere di esponenti
della Scuola del Paesaggio svizzero tra cui
Friedrich Zimmermann e Gustave Eugène
Castan che testimoniano la complessità della
terra ticinese a cavallo tra sud e nord e di
esemplari di fondi monografici su singoli
artisti (Italo Valenti, Giuseppe Bolzani…) dei
quali esaminano in modo approfondito la
poetica.
↪ Milano, Museo della Permanente, Via
Filippo Turati 34
10.00 – 13.00 e 14.30 – 18.30 da lunedì a
sabato
Fino all’11ottobre 2015
Ingresso libero
Informazioni: 02 6599803,
www.lapermanente.it
Catalogo Skira
Enrico Castellani, Superficie bianca
Andando per mostre
rigorosa definita dalla critica “ripetizione
differente” e approfondisce temi come
spazio, ritmo e tempo. Esposizioni e
successi si susseguono in Italia e all’estero
tra cui il prestigioso Praemium imperiale
della Japan Art Association.
Poco più giovane Lee Ufan nasce (1936) a
Kyongnam in Corea, dove soffre gli esiti di
un regime che arresta il padre per la sua
attività di giornalista. Dopo il liceo si
trasferisce in Giappone approfondendo
anche la filosofia e realizzando nel 1968 a
Tokio la sua prima esposizione con un
linguaggio artistico, da lui chiamato
yohaku (vacuità), aperto a uno spazio
poetico vuoto nei dipinti e nella realtà.
Apparsi sulla scena a una decina d’anni
l’uno dall’altro e presenti in tutto il mondo
in collezioni permanenti e musei, i due
artisti oggi dialogano attraverso le opere
come di Castellani i vari Superficie Bianca
con un alternarsi serrato tra pieno e vuoto
e gli ampi spazi bianchi di dipinti e sculture
in cui occhieggiano le pennellate
meditative di Hufan.
↪ Milano: Lorenzelli Arte, corso Buenos
Aires 2
10.00 – 13.00 e 15.00 -19.00 da martedì a
sabato, lunedì su appuntamento, festivi
chiuso
Fino al 16 luglio 2015
Ingresso libero
Informazioni: tel. 02 201914,
www.lorenzelliarte.com
Catalogo: lorenzelli arte n. 146
109
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I libri di Elena Colombo
110
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
I LIBRI
di Elena Colombo
FIORI ARTIFICIALI
Luiz Ruffato
La Nuova Frontiera, 166 pp.,
15.50 €
Luiz Ruffato si conferma una
delle voci più promettenti
della letteratura brasiliana
contemporanea portando
avanti il gioco della finzione
che trasforma lo scrittore in
semplice testimone della
narrazione e depositario dello
stile prima ancora che libero
inventore. Se in “Di me ormai
neanche ti ricordi” la voce
narrante passava per le lettere
di un ragazzo emigrato dalle
campagne alla città, in “Fiori
artificiali” il testo originale
pare giungere da un certo
Dório Finetto, ingegnere della
Banca Mondiale: è un altro
registro, un’altra visione che si
dipana sulla pagina. Anche se
dobbiamo riconoscere il
medesimo punto di partenza
(São Paulo – ovvero Il Mostro)
le memorie del protagonista
allargano la lente fino a
comprendere scorci dei diversi
Paesi che si affacciano sulla
globalizzazione, questo a
indicare che non è possibile
scrivere di se stessi senza
sommare i ritratti di cento
persone che si sono incontrate
lungo il cammino: è come
rivedere Chaucher in chiave
moderna. La lente si allarga, il
linguaggio piano di Célio lascia
il posto alla citazione colta e
alla riflessione filosofica che
trae origine dalle cronache di
formazione e dalle
impressioni di Almeida
Garrett. Niente paura. Non è
necessario conoscere i classici
portoghesi, T. S. Eliot o
Osvaldo Soriano per
apprezzare il poliedrico dono
della lingua che si unisce alla
molteplicità dei quadri per
arricchirli senza appesantirli.
La vita di ciascuno si ricostruisce in un mosaico che
va da Buenos Aires a Beirut,
dall’Avana a Timor, ultimo
angolo sperduto delle Terre
Altrui. I personaggi entrano
nel racconto regalando
cammei.
LE CASE DEGLI ALTRI BAMBINI
Luca Tortolini e Claudia Palmarucci
Orecchio Acerbo, 48 pp., 14.50 €
“Si lasciano mai le case
dell’infanzia?” si chiede
Ferzan Ozpetek; e la risposta è
no, mai. Le stanze in cui siamo
stati bambini restano sempre
dentro di noi, anche quando
vengono distrutte. Luca
Tortolini e Claudia Palmarucci
disegnano queste splendide
architetture dei sentimenti
raccontandoci i vari tipi di
casa che esistono, ognuna con
la sua storia di persone che
vivono e condividono gli spazi
e i tempi di ciascuna; il
realismo dei personaggi
ricorda gli scorci urbani rubati
da Edward Hopper. C’è Lorena
con la sua villa antica e c’è
Sindel che vive in una baracca;
c’è Lillo che sta in villeggiatura
e persino Claudia che un
giorno si dedicherà alle
illustrazioni. C’è Ottavio che
sta sopra a un cinema e
immagina i suoi film e Simone
che è circondato dal silenzio,
ma c’è sempre la fantasia a
creare nuove geometrie
d’incontro che consentono
d’individuare una sequenza.
Lo stile grafico è volutamente
schematico, ma ricco di
particolari: ogni camera è un
riquadro in cui inserire un
frammento per costruire una
narrativa, suggerita e non
imposta dalla brevità del testo,
come in un gioco di bambole
al quale aggiungere sempre
nuovi dettagli da scoprire. Le
persone sono colte da uno
sguardo esterno e si mostrano
nel loro privato uscendo dalle
cornici fisse per muoversi
sulla pagina. I colori vividi
riempiono l’occhio: l’azzurro
del cielo che entra dalle
finestre senza profondità è
talmente intenso che quasi
ferisce, il grigio trasmette la
malinconia ma la rende
trattabile, appena venata da
una nostalgia d’altri tempi.
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
Martínez – autore e
personaggio – una delle voci
più importanti del Cono Sur,
portata in Italia grazie a
queste splendide edizioni.
Simón è scomparso dopo
l’arresto durante i primi
giorni dal golpe. Sua moglie
Emilia è scampata alla tortura
grazie alla posizione del
padre, consigliere
d’immagine di una Giunta di
personaggi da operetta. Lei
non si rassegna alla morte
del marito e continua a
cercarlo ovunque fino a
convincersi di averlo
ritrovato trent’anni dopo, ma
il suo è il dialogo con un
fantasma che riallaccia i fili
della memoria nel tentativo
di colmare il bisogno d’amore
– fisico ed emotivo – rimasto
inappagato. È dunque così
che inizia il delirio di una
donna che però mostra anche
realtà di un Paese ancora
diviso, in cui la percezione si
costruisce sulla base
dell’apparenza e del racconto
mediatico. La narrazione
passa da un piano all’altro:
dalla cartografia che inventa
gli spazi annullandoli (come
nel mondo Attraverso lo
Specchio), alla magia
bugiarda del cinema di
Welles che diventa base della
propaganda, al presente –
ibrido di sogno e disillusione.
Un mosaico espresso con uno
stile luminoso che lascia il
lettore sul ciglio del dubbio.
TENTATIVI DI FUGA
Miguel Ángel Hernández
Guanda, 231 pp., 16 €
Se preconizzare la Fine delle
Grandi Narrazioni è forse
troppo catastrofista, è
comunque vero che siamo
nell’era della post-immagine
che dà all’apparenza una
veste primaria diversa. Oggi
Michele Smargiassi riflette
sul ruolo dominante
dell’immagine nella
costruzione di una
percezione manipolabile.
Cosa si deve fare per essere
davvero trasgressivi? La
strada è trasformare il corpo
in creazione in modo da
entrare nel reale, descrivere
dall’interno le situazioni
marginali diventandone parte
operante. Le performance di
Jacobo Montes – come quelle
di Santiago Sierra, suo
eponimo reale – sono cinismo
allo stato puro, il capitalismo
I libri di Elena Colombo
PURGATORIO
Tomás Eloy Martínez
Edizioni Sur, 283 pp., 15 €
“Tutte le famiglie felici si
somigliano” diceva Anna
Karenina “ogni famiglia
infelice è invece disgraziata a
modo suo”. La citazione di
uno dei più noti incipit della
letteratura si applica
tragicamente in senso
inverso alle dittature. Se si
pensa alla Storia recente
dell’America Latina, è facile
confondere gli orrori del Cile
di Pinochet con quelli
dell’Argentina di Videla. A
portarci in questo contesto di
cruda finizione è Tomás Eloy
111
d’élite che si guarda e
sovverte se stesso fino alle
estreme conseguenze. Allo
spettatore – e a Marcos,
studente dell’accademia e
aspirante critico – il compito
di capire e filtrare. La
ripetizione diventa copia.
Pagare un immigrato per
rischiare la vita ed essere
parte di un’opera non è più
amorale di contrattarlo per
un salario da fame nella
logica schiavista del
caporalato che raccoglie
manodopera all’alba. Come
assistente della sua
affascinante professoressa,
Helena, Marcos scopre questi
meccanismi e li mette in
dubbio, chiamandosi fuori da
un progetto che minaccia di
passare qualsiasi limite
allontanandosi dall’idea
originaria, incentrata
sull’attività come narrazione.
Quello di Miguel Ángel
Hernández è un excursus nel
lato oscuro, la decostruzione
dell’idea platonica attraverso
l’apparato teorico dell’arte
degli ultimi decenni; ma
“Tentativi di Fuga” non è un
manuale: una poetica
tagliente genera un giallo che
tiene incollati fino all’ultimo.
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I libri di Elena Colombo
112
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
TOKYO ORIZZONTALE
Laura Imai Messina
Edizioni Piemme, 264 pp.,
14.50 €
“Tokyo Orizzontale” è una
dichiarazione d’amore che
nasce dal cuore e da un vero
talento letterario che ha
superato meritatamente i
confini della rete. È il libro
perfetto per chi conosce la
capitale giapponese e i suoi
quartieri, che sono città
nella città e hanno un loro
carattere e una loro logica:
Shibuya e Shinjuku - i
luoghi che connotano Tokyo
nelle cartoline – e poi i posti
dove si lavora e basta, i posti
che si svuotano con la notte
e quelli che invece di notte si
riempiono di persone e di
storie. In questa moltitudine
che si sgrana sulle strade ci
sono Sara e Carmelita,
adottate dal Sol Levante per
il loro desiderio di scappare
sempre più in fretta, Hiroshi
e suo fratello, che non
possono lasciarsi alle spalle
il loro trauma e poi Jun e
Masako, impegnati a
costruirsi una personalità.
Sono le maglie che
costituiscono il blog Tokyo
Orizzontale, una piattaforma
che pubblica le foto dei
salary man ubriachi stesi sui
marciapiedi; non è solo
derisione, ma la ricerca di
una prospettiva più vera che
trova nel cielo le radici della
metropoli-melograno. Laura
Imai Messina ha uno stile
poetico e viscerale,
immediato ma pieno di
immagini evocative che si
annodano alla fantasia di chi
ha già visto quel panorama
multiforme, ma che
catturano anche chi non lo
conosce e ne ha solo sentito
parlare con curiosità. I
tasselli si incastrano alla
perfezione nella forma di
questo romanzo che si
svolge in tre giorni decisivi,
rapidi, scanditi come in
“After dark” di Haruki
Murakami.
UOMINI SENZA DONNE
Haruki Murakami
Einaudi, 222 pp., 19 €
Sette storie di uomini che
non odiano le donne ma
anzi che ne hanno bisogno
perché sono loro il filo che
cuce insieme i frammenti
della memoria ed è proprio
grazie ai ricordi che si
sopravvive, si può diventare
un’altra persona sanando le
scissioni interne o si scrive
la propria (auto)biografia.
Seguendo le tracce dei multi
versi di Haruki Murakami ci
si ritrova qui a scegliere tra
una serie di crocicchi che
conducono alla dimensione
più “realistica” dell’autore
giapponese, quella cioè che
discende naturalmente da
Norwegian Wood,
strizzando sempre l’occhio
al vecchio jazz e i Beatles.
Tornano i personaggi-attori
che dello scrittore
conservano i tratti, lo stile e
che si reinventano nella
cornice di una tragedia
russa cercando qualcosa.
Attraverso l’apparato
simbolico di Jirô taniguchi e
di Takashi Hiroade, ciascuno
si collega intimamente alla
Natura trasformandosi in un
elemento che va letto in
base al Tempo; alberi e
animali sfuggenti delineano
un Tempo diacronico che
scorre diversamente dal
normale e che ha nella
figura femminile assente il
suo fulcro. Gli scambi
amorosi si sviluppano solo
fino a un certo punto
arrivando a una cesura che
crea un vuoto, un
allentamento della tensione
in cui mettono radici le
contraddizioni e si fa strada
il dubbio: che cos’è
necessario al cuore e cosa
non lo è; quale deve essere il
ruolo del corpo
nell’approccio con l’altro –
parlando delle divergenze
culturali prima che
dell’aspetto fisico?
Trascendendo fino allo
stadio di pura metafora. È il
racconto a fare da ponte
sull’abisso, le parole sono il
passaggio di un viaggio
conoscitivo.