Smerilliana - Universität Bayreuth
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Smerilliana - Universität Bayreuth
«Smeril l i ana » luogo di civiltà poetiche a cura di Enrico D’Angelo © 2013 by Di Felice Edizioni Via C. Colombo, 67 – 64014 Martinsicuro (TE) www.edizionidifelice.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-97726-24-1 Smerilliana 15 Indice EDITORIALE Simone Gambacorta, Di sogni e di chimere Dalla parte dei lettori delle riviste di poesia p. 9 IN LIMINE Francesco Tomada, Qualcosa che so delle eclissi p. 15 P OET I ST R ANIERI Virgil Mazilescu, Diciotto poesie Traduzione dal romeno e cura di Clara Mitola p. 19 Harivam.ś Rāy “Baccan”, Quartine da La taverna Traduzione dall’hindi e cura di Thomas Dahnhardt p. 47 Jorge Pimentel, Tre poesie Traduzione dallo spagnolo di Emilio Coco p. 77 Faek Hweijeh, Sei poesie Traduzione dall’arabo e cura di Elena Chiti p. 93 Renato Sandoval Bacigalupo, Otto poesie da Nostos e Suzuki blues Traduzione dallo spagnolo di Emilio Coco p. 119 Johannes Bobrowski, Nove poesie Traduzione dal tedesco e cura di Davide Racca p. 133 P O E T I I TA L I A N I Paolo Gentiluomo, Fossa d’ispezione p. 157 Annalisa Teodorani, Undici poesie p. 165 Ada Sirente, Poesie da Le strade, gli inferi, la madre, il cane p. 179 Giovanni Zamponi, Il sentiero della terza balza p. 187 Fernanda Woodman, Poesie da Diario p. 197 Annelisa Alleva, Rose p. 207 IL R ACCONTO L’udo Zúbek, Fuliggine sulla neve p. 217 ARCIPELAG O Eros Baldissera, Sguardi undici fotografie p. 229 Luigi Francesco Clemente, Platone, prossimo mio Rileggendo Arte e Anarchia di Edgar Wind p. 235 Roberto Gaudioso, Il neoantico nelle poetiche di Ingeborg Bachmann ed Euphrase Kezilahabi p. 251 Massimo Raffaeli, Un compimento p. 277 Giovanni Zamponi, La solitudine del terminus p. 285 Federico Sanguineti, Filastrocca del popolo italiano p. 291 Ennio Brilli, Il congedo di Luigi Di Ruscio dal fermano nove fotografie p. 295 FINIS Enrico D’Angelo, Metrò p. 303 Roberto Gaudioso Il neoantico nelle poetiche di Ingeborg Bachmann ed Euphrase Kezilahabi Neoantico è il termine col quale Mario Perniola1 definisce la tendenza moderna e contemporanea alla ricerca di una, piú o meno mitica, origine. Il neoantico nasce con l’approccio etnologico ed etno-filosofico rispetto alla materia “occidentale”, approccio che finora era stato quello per le materie orientali e africane. In campo artistico gli autori del secolo scorso rispondono con una ricerca di forme rituali, ricerca spesso ossessiva o drammatica. Tali forme dovrebbero penetrare nella opera di questi artisti al fine di raggiungere un residuo sacrale, ormai visto come un’arcaica rovina, che permetterebbe di nuovo una riconciliazione tra l’arte e il mondo e tra l’uomo e la natura. In questo contesto occidentale si pone anche la singolarissima esperienza poetica dell’austriaca Ingeborg Bachmann (Klagenfurt 25 giugno 1926 – Roma 17 ottobre 1973); la poetessa austriaca, in questo lavoro, sarà metro di paragone costante al fine di delineare la poetica del tanzaniano Euphrase Kezilahabi (Namagondo, 13 aprile 1944). Questo 1 Mario Perniola, Il pensiero neo-antico, Milano, Mimesis, 1995. 251 confronto sarà permesso anche dall’ecletticità del poeta tanzaniano e dalla fortuna critica di due dei suoi romanzi Kichwamaji (“Lo spostato” 1974) e Nagona (nome di donna, 1990), che sono stati definiti rispettivamente il primo romanzo esistenzialista africano e il primo romanzo postmoderno africano; interessanti sono quindi i punti di contatto col mondo occidentale. Compito di tale lavoro non è pervenire a nuove classificazioni, né confutare né avvalorare quelle che gli sono già state attribuite, ma gettare un ponte tra poetiche lontane, senza intrappolare la poetica kezilahabiana in definizioni etnologiche, esaltando tuttavia le differenze. I. Tra Heimweh e Sensucht 2 Karibu ndani (1988) è il secondo canzoniere del poeta tanzaniano Kezilahabi. Il titolo di questo diwani non è facile da tradurre, può voler dire “entrare prego, benvenuti dentro, nell’intimo, quasi dentro, nei pressi dell’anima, del profondo”. Il tema del viaggio fa da cornice all’intera opera; il viaggio inizia quando le luci sono tutte spente, è l’io lirico a spegnerle: Wakati nisafiripo kwenda mawioni usiku Nitazichuma karanga zote zing’aazo angani Il tempo del mio viaggio albeggia la notte coglierò tutti i baccelli lucenti in cielo3 2 3 Termini tedeschi, Heimweh nostalgia per la patria e la casa, mentre Sehnsucht è di traduzione piú difficile per la sua lunga tradizione letteraria, viene di volta in volta tradotto come nostalgia per il futuro, nostalgica bramosia, rimpianto, struggente malinconia, etc. Euphrase Kezilahabi, Karibu ndani, Dar es Salaam, Dar es Salaam University Press, 1991, p. 7 (traduzione mia). 252 perché le luci delle immagini generative, le metafore, divenute fioche non potevano piú essere seguite […] kwani taswira na sitiari zote za nuru Hazikutufikisha pasipo giza. […] tutte le immagini e le metafore della luce non ci hanno condotto dove non c’è oscurità.4 Comprensibile è, quindi, la disperazione per una metafora amputata, senza referenza, che non risponde piú: è una rivolta del segno – anche in questo senso Kezilahabi è vicino agli scrittori occidentali. Nel Novecento tale questione tormenta gli scrittori e il poeta tanzaniano risponde con un’ipertrofia del significante come i post-moderni. Tuttavia l’unità ideale e pura del segno è sempre ricercata, c’è una continua tensione al fine di raggiungerla, non c’è la disgregazione iridescente, piú o meno ludica, del postmoderno. A differenza degli autori occidentali, Kezilahabi non cerca un’origine esclusivamente mitica o mai esperita, egli rivolge il suo sguardo all’infanzia trascorsa nel villaggio, simbolo quindi di una patria esperita e poi perduta. Questa necessità di fare buio è forte, è il sentimento dello straniamento che, in qualche modo, è necessario perché spinge alla partenza. È quello che Freud chiama Unheimlich. Unheimlich è il sentimento del perturbante, è il contrario di qualcosa di familiare Un-heim-lich, dove Heim è casa, patria. In Karibu ndani lo straniamento si amplia e si radicalizza a causa delle vicende storico-politiche del suo paese. Nel 1988 l’Ujamaa di Nyerere era già finito e della gloriosa Dichiarazione di Arusha (1967) ne restano solo: […] punje za ulezi zilizosambazwa jangwani na mpandaji kipofu. 4 Euphrase Kezilahabi, Karibu ndani, cit., p. 7 (traduzione mia). 253 […] chicchi di miglio sparsi nel deserto da un seminatore cieco.5 Tuttavia se da una parte Karibu ndani rappresenta un ripiegamento nell’interiorità, dall’altra l’autore non rinuncia ad essere una guida. Il viaggio e la danza sono oltre se stesso, hanno dei referenti reali ed esperiti. Egli attinge anche da una tradizione nella quale gli elementi esoterici, rituali e mitici – propri di una società comune che ora è andata perduta – potevano davvero liberare. Se in “Namagondo” (villaggio dove è nato l’autore) in Kichomi (1974) c’è ancora spazio per il rimpianto Nakililia kijiji mahali nilipozaliwa Rimpiango il villaggio, il posto dove sono nato6 In “Namagondo II”, contenuta in Karibu ndani, l’Io lirico ricerca le tracce che gli facciano riconoscere il luogo dov’è nato ma Nimekuwa mgeni kijijini nilikozaliwa Straniero sono diventato nel villaggio dove sono nato7 Qui Kezilahabi ci comunica una Heimweh (nostalgia della casa, della patria) profonda. Tuttavia non si può definire semplicisticamente la tensione poetica dell’autore tanzaniano solo con Heimweh perché ha vissuto in un villaggio, quindi a contatto col rituale. La patria esperita si colloca al tempo dell’infanzia dell’autore, rappresenta anche il luogo perduto non solo a causa dei risvolti storico-politici della sua nazione, ma anche il mondo perduto a causa della pro5 6 7 Euphrase Kezilahabi, Karibu ndani, cit., p. 27 (traduzione mia). Euphrase Kezilahabi, Sofferenza, a cura di Elena Zúbková Bertoncini, Napoli, Plural, 1987, p. 79. Prima ed.: Kichomi, Nairobi, Heinemann Educational Book, 1974. Id., Karibu ndani, cit., p. 39. 254 pria crescita-corruzione col definitivo trasferimento in città. Tale tensione si rivolge, però, da una parte verso un passato reale, dall’altra ad un passato mitico e arcaico che rappresenterebbe l’origine della cultura swahili e sarebbe questa, a sua volta, l’unica possibilità di un vero futuro dove l’essere swahili non sia alienato da se stesso. Per Ingeborg Bachmann, invece, la sua Heim è sempre da venire; scrive in “Das erstgeborene Land” (La terra primigenia): In mein erstgeborenes Land, in den Süden zog ich und fand, nackt und verarmt und bis zum Gürtel im Meer, Stadt und Kastell. Nella mia terra primigenia, il Sud, sono emigrata, e ho trovato nudi e spogli e sommersi fino alla cintola nel mare città e castelli.8 «Nella mia terra primigenia sono emigrata» crea una contraddizione insolubile e una drammatica ricerca. In questo senso definisco tale sentimento Sehnsucht. Se da un lato il Sud Italia finisce per essere una seconda patria della poetessa austriaca, tanto da sceglierla come dimora, dall’altro la ricerca di una terra primigenia e incorrotta continua fino al suo viaggio in Egitto, lungo il Nilo fino in Sudan. Wieder wölbt sich mein Mund über Mitternacht. Eine dunkle Zunge rührt in mir einen Ton wach Mit dem ich schluchzend hing, an dir, nächtelang Tagelang laß ich Licht ein, und werde nicht rein. Meine Haut ist farbig von deiner geworden. Ach wie gut, daß niemand weiß, wie du heißt, daß meine junge Schwärze herrührt von deiner alten. 8 Ingeborg Bachmann, Poesie, a cura di Maria Teresa Mandalari, Parma, Guanda, 2006, pp. 106-107. 255 von deiner uralten, eingeborenen Du rufst mich wie die Königin vom Sambesi Ancor s’inarca mia bocca sulla mezzanotte. Oscura lingua mescola in me sveglie note singhiozzante legame, con te, per intere notti interi giorni luce accolgo, non mi fa schietta. La mia pelle s’è della tua colorata. Che bello, che nessuno sappia il nome tuo che la giovane negritudine mia discenda dalla tua antica. dalla tua antichissima, primigenia. Tu m’appelli regina dello Zambesi 9 Quindi nella Bachmann quello stato di grazia è sempre da venire, e la tensione è una Sehnsuch drammatica. Per la scrittrice di Klagenfurt e per lo scrittore di Ukerewe, però, la salvezza può arrivare dalla terra, da una terra primigenia dalla quale rinascere in qualche modo, attraverso la poesia. Il tentativo utopico sembra proprio quello d’incrinare il rapporto, tentando una sintesi, tra mondo e poesia; si figura cosí la poesia come luogo di rinascita e purificazione. II. Vichwamaji È questo senso di non appartenenza, questo senso di spaesamento nei confronti della propria società che spinge gli autori alla ricerca di un passato arcaico e fa di loro nella società, nella migliore delle ipotesi, degli outsider. Nel 1952 Ingeborg Bachmann scrive Wir, in die Zeit verbannt und aus dem Raum gestoβen, wir, Flieger durch die Nacht und Bodenlose. […] Wer weiß, ob wir nicht lange, lang schon sterben? 9 Immer wieder Schwarz und Weiß, in Camilla Miglio, La terra del morso – L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann, Macerata, Quodlibet Studio, 2012, pp. 150151 (traduzione mia). 256 Noi, esiliati nel tempo, e dallo spazio scacciati, noi che voliamo nella notte, senza fondo. […] Chi sa se già non moriamo da lunghissimo tempo?10 La fusione tra la vita e la morte e la prima come attesa di quest’ultima è un tema dell’Esistenzialismo europeo. Il legame indissolubile tra vita e morte è uno dei temi fondamentali del secondo romanzo di Kezilahabi del 1974 Kichwamaji: Ukweli ni kwamba sisi wanadamu tunakufa pole pole. Watu wengi wanafikiri kwamba kifo kinakuja mara moja. Hili ni jambo la uwongo. Tangu mwanadamu anapozaliwa anaanza kufa pole pole ingawa yeye anajiona yu sawa. Siku zake zinakatwa moja moja. Kaburi ni hatua yetu ya mwisho tu. Kazimoto, tunapoishi tunakufa pole pole, kwa hiyo kufa ni kuishi. La verità è che noi uomini moriamo lentamente. Alcune persone pensano che la morte arrivi d’improvviso. Questa è una bugia. Da quando nasce l’uomo inizia a morire piano piano sebbene si reputi sano. I suoi giorni si accorciano uno ad uno. La tomba è solo il nostro ultimo passo. Kazimoto, mentre viviamo moriamo lentamente, per questo la morte è vita.11 Entrambi gli scrittori tematizzano in modo singolare l’unità di vita e morte. Per la Bachmann la morte non è solo un avvenimento tragico o una liberazione dal dolore (per altro sempre ricercato), come è stata già interpretata e come sarebbe facile sottolineare in contrapposizione con l’esperienza africana di Kezilahabi. La morte ha avuto un posto importante nella riflessione della poetessa austriaca, come abbiamo visto leggendo i versi del ’52 contenuti nella sua prima raccolta. Nella seconda silloge poetica, oltre alla 10 11 Ingeborg Bachmann, Poesie, cit., p. 145. Euphrase Kezilahabi, Kichwamaji, Dar es Salaam, East African Publishing House, 1974, p. 206 (traduzione mia). 257 palingenesi, della quale accenneremo in seguito, il legame tra vita e morte è molto forte: Wart meinen Tod ab und dann hör mich wieder, es kippt der Schneekorb, und das Wasser singt,[…] Die Liebe hat einen Triumph und der Tod hat einen, die Zeit und die Zeit danach. Wir haben keinen. Aspetta la mia morte e poi di nuovo ascoltami, si rovescia il cesto di neve e l’acqua canta, […] L’amore ha un trionfo e la morte ne ha uno, il tempo e il tempo che segue. Noi non ne abbiamo.12 Qui il legame tra vita e morte passa attraverso i riferimenti de “I Trionfi” di Petrarca e del mito di Orfeo; abbiamo quindi un altro elemento, la poesia, che si lega con l’ossimoro morte-vita. Questo è vero anche nell’ultimo periodo della vita della scrittrice, dove la morte non è solo liberazione e lamento provocati dallo stato psicologico in cui versava la Bachmann, anzi continuano ad essere presenti le istanze esistenzialiste, se non addirittura, almeno in nuce, ad un superamento di tali istanze attraverso una riflessione attenta e una vita tesa all’esperimento: so stirb weg und mach es leise, mild und leise, seht ihr nicht, seht ihrs Freunde, seht ihr nichts. Alle Feste enden anders, Todesfest im Lebensfest, […] Und ich höre:weitersterben, weiterleben, weitersterben, muori allora e fallo piano, piano e soavemente, non vedete, non lo vedete amici, non vedete nulla? 12 Ingeborg Bachmann, Invocazione all’Orsa Maggiore, a cura di Luigi Reitani, Milano, SE, 2002, pp. 136-137. Prima ed.: Anrufung des Großen Bären, 1956. 258 Tutte le feste finiscono altrimenti, festa dei morti nella festa della vita, […] E io ascolto: continuare a morire, continuare a vivere, continuare a morire,13 Il poeta tanzaniano, invece, partendo dalle stesse istanze esistenzialiste, approda nell’ultimo canzoniere ad un’idea di esistenza che superi questa dicotomia, attraversandola, dandole – attraverso la voce poetica – uno spazio in società: Kujua na kutojua wakati, kutegemea na kutotegemea twaishi kwa kujikongoja tukisema kimoyomoyo kwa akili sinzinzi wakati fulani utafika, hadi wakati wawa kifo. Kutojua ni kujua. Kuishi ni kufa. Il sapere e non sapere il tempo, dipendere e non dipendere viviamo per trascinarci se diciamo con tutto il cuore con la testa sognante arriverà un tempo, finché il tempo sia morte. Non sapere è sapere. Vivere è morire.14 Anche in Kezilahabi la vita, la morte e la scrittura sono collegate. Hatuogopi kufa Bali kutangulia Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, poesie postume a cura di Silvia Bortoli, Parma, Guanda, 2004, pp. 144-145. Prima ed.: Ich weiβ keine bessere Welt, München, Piper Verlag, 2000. 14 Euphrase Kezilahabi, Dhifa (Banchetto), Nairobi, Vide-Muwa, 2008, p. 16 (traduzione mia). 13 259 Aliimba mshairi Na kuwaacha nyuma Hata mbwa waibao jikoni Naongeza Wauawe! Wote! Ni sauti ya kimya Non temiamo morire Ma precedere Cantò il poeta E lasciando dietro Perfino i cani che rubano in cucina Aggiungo Che siano uccisi! Tutti! È la voce del silenzio15 Questo legame è cifra della drammaticità della scrittura che non riesce a conciliarsi con la società, cosí com’è vissuta dai due poeti. In alcune lezioni tenute all’Università di Francoforte, la poetessa austriaca afferma: La letteratura, invece, non ha bisogno di un Pantheon, non s’intende di morte, cielo e redenzione, essa conosce soltanto il proprio intento fortissimo di influenzare ogni presente, quello attuale o quello prossimo venturo.16 Il poeta tanzaniano tematizza costantemente l’alienazione dell’intellettuale rispetto alla società, anche in Karibu ndani che esprime un ripiegamento su se stesso, l’alienato non manca. L’autore tanzaniano, infatti, ne fa quasi una maschera, ne fa una narrazione compiuta in Kichwamaji. Leggiamo l’interpretazione di uno tra i piú importanti studiosi e scrittori tanzaniani Mugyabuso Mulokozi: L’intellettuale africano è “Kichwamaji”. Egli è confuso perché ha accolto nella sua testa cose diverse che vengono da 15 16 Euphrase Kezilahabi, Dhifa (Banchetto), cit., p. 52 (traduzione mia). Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia – Lezioni di Francoforte, a cura di Vanda Perretta, Milano, Adelphi, 1993, p. 111. Prima ed.: Frankfurter Vorlesungen – Probleme zeitgenössischer Dichtung 1959. 260 fuori come fede, lingua, costumi, ecc… Egli è preso dalle cose straniere in grande misura. Come una pazzia. Sí [Kezilahabi] lo chiama “Kichwamaji”.17 In questo senso il dramma dello scrittore swahili del post-indipendenza e post-unità è profondamente attuale. Nella Bachmann, invece, questo sentimento di non appartenenza si trasforma, nell’ultima parte della sua lirica composta in Africa o che trae da lí l’ispirazione, in accusa contro la propria razza, definita “vile” e “borghese”. La poetessa austriaca tenta un salvifico riscatto degli uomini che vedeva piú vicini alla terra, uomini che, in senso nietzschiano, non l’avevano tradita: Ich habe ein Ende gemacht mit dieser stummen Meuterei im Besitz, habe euch verhöhnt, euren Besitz, den Krüppel den ihr besessen habt, mich nicht, nur diesen toten Rumpf, diese gelähmte Hand, mehr nicht – Ich atmete immer: mehr. Die Schmach ist aus mir gegangen in dieser Orgie, die bürgerliche Infamie mit ihren Demütigungen der Langweile und des raschschlüssigen Urteils über ein Fleisch, das so lebendig ist wie sein Geist. Ho messo fine a questa muta ribellione nella proprietà, ho deriso voi, la vostra proprietà, la carogna che avete posseduto, non me, solo questo torso morto, questa mano storpiata, niente di piú – Io respiravo sempre: di piú. La vergogna mi è venuta meno in quest’orgia, l’infamia borghese con le sue umiliazioni della noia e del rapido giudizio conclusivo su una carne che è viva come il suo spirito.18 Roland Barthes descrive in modo chiaro ed efficace ciò che definisce la tragicità della scrittura: Davanti alla pagina bianca, nel momento di scegliere le parole che devono segnalare con chiarezza la sua posizione Lutz Diegner, Allegories in Euphrase Kezilahabi’s Early Novels, Swahili Forum IX 2002, p. 62. 18 Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, cit., pp. 254-255. 17 261 nella Storia e attestare che egli ne accetta i dati, lo scrittore avverte una tragica disparità tra ciò che fa e ciò che vede; sotto i suoi occhi il mondo civile forma ora una vera Natura, e questa Natura parla, elabora linguaggi vivi da cui lo scrittore è escluso: al contrario, tra le sue mani, la Storia mette uno strumento decorativo e compromettente, una scrittura ereditata da una Storia passata e diversa, di cui egli non è responsabile, ma è la sola di cui possa far uso. Nasce cosí una tragicità della scrittura, poiché lo scrittore, ormai cosciente, si deve dibattere contro i segni ancestrali e onnipotenti che dal fondo di un passato estraneo gli impongono la Letteratura come un rituale e non come una riconciliazione.19 Il rituale di cui parla Barthes è formale, perché riferito all’atto stesso di produrre letteratura come rituale, quindi vuoto; non che non possano esistere dei rituali moderni, ma il posto occupato nelle società moderne dalla letteratura, a livello rituale, non ha niente a che vedere con quest’ultimo. Il rituale della letteratura è un rituale individuale, solipsistico, quindi svuotato di tutto, tranne che della coazione a ripeterlo. A questo rituale formale molti scrittori, tra i quali la Bachmann e Kezilahabi, rispondono lasciando penetrare l’idea rituale e il residuo sacrale che ne resta nella propria scrittura, sia a livello tematico che strutturale. Tale tendenza artistica è stata chiamata neo-antico o neo-sciamanesimo. Tuttavia è la distanza tra aspetto formale del rituale e residuo sacrale ad essere oggetto di una tensione artistica che mira ad una riconciliazione che sembra impossibile, l’arte moderna e post-moderna si è imprigionata, forse, in un’altra finzione. Per lo scrittore di Ukerewe, però, la ricerca di questa riconciliazione non è solo un rituale solipsistico, ma una riflessione concreta sulla sua poesia. Egli scrive nell’introduzione alla prima raccolta di poesie: 19 Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Torino, Einaudi, 1982, p. 63. Prima ed.: Le degré zéro de l’écriture, Paris, Éditions du Seuil, 1953. 262 Ciò che voglio portare nella poesia swahili è l’utilizzo della lingua quotidiana; la lingua utilizzata dalle persone nei loro discorsi di tutti i giorni. […] Credo che una rivoluzione di questo tipo sia una grossa occasione per la poesia swahili. Essa è stata per molto tempo un discorso tra pochi iniziati o un piccolo gruppetto. C’è bisogno che discenda in terra tra gli uomini comuni e si propaghi.20 Lo scrittore, ad ogni modo, continua ad essere straniero, folle, escluso. Nel lamento, però, di una patria perduta, Heidegger, commentando una poesia di Nietzsche, in Pensare e Poetare (1944-1945), scrive: Divenuto senza-dio e senza-mondo, l’uomo moderno è senzapatria. Nella mancanza del dio e nella rovina del mondo, dall’uomo storico-moderno ci si aspetta esplicitamente l’assenza di patria. […] Nella poesia è poetata l’assenza di patria, sí, ma qui c’è qualcuno che non sta semplicemente lamentandosi della perdita della patria: qui parla al tempo stesso colui che si sa al tempo stesso «a migrare» verso «il cielo piú freddo». Costui non guarda piú indietro e non fugge piú davanti all’«inverno» verso il mondo durato finora che egli ha interamente perduto e che considera perduto, per volgere il proprio «spirito» oltre, nel «libero» spazio aperto.21 È questo straniamento, è l’incontro con l’Unheimlich, che spinge Kezilahabi ad aprire la porta mlango22 e ad intraprendere questo viaggio, è lo straniamento che colpisce l’Io in Nagona (il romanzo è scritto in prima persona). Gli outsider, i senzapatria, i vichwamaji (plurale di kichwamaji), Euphrase Kezilahabi, Kichomi, Nairobi, Heinemann Educational Book, 1974, p. XIII. 21 Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia – Pensare e Poetare, a cura di Vincenzo Cicero, Milano, Bompiani, 2009, pp. 85-87. Prima ed.: Einleitung in die Philosophie – Denken und Dichten, 1944. 22 Mi riferisco alla poesia Apritemi la Porta, contenuta in Kichomi, che rappresenta, come lo stesso autore afferma, il punto di partenza per una nuova poetica. 20 263 non hanno scelta; queste le parole di Nietzsche riportate da Heidegger nel suo saggio: Noi, senzapatria fin dall’inizio – non abbiamo scelta, dobbiamo essere conquistatori e scopritori: forse ciò di cui ci siamo noi stessi privati lo lasciamo in eredità ai nostri discendenti, – gli lasciamo una patria.23 III. Le danze Com’è ripetibile per un eroe moderno la possibilità di aprire la porta? L’io lirico alla ricerca nella raccolta poetica Karibu ndani e nel romanzo Nagona approda quindi al rituale. I poeti contemporanei, quasi come dei novelli sciamani24, si affidano al rituale che grazie alla sua ripetizione estatica dovrebbe aprire una faglia e rendere possibili sintesi che nel mondo lineare e governato dalla logica non sono possibili nemmeno da pensare. Mircea Eliade descrive cosí il momento estatico: L’estasi sciamanica può essere considerata come il recupero della condizione umana prima della “caduta”. In altri termini, essa riproduce una situazione primordiale, [ora] accessibile al resto degli umani unicamente mediante la morte. [...] L’estasi sciamanica può essere considerata come una riattualizzazione di quell’illud tempus mitico nel quale gli uomini potevano comunicare in concreto con il Cielo. [...] Abbiamo scoperto nell’estasi sciamanica una “nostalgia del Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia – Pensare e Poetare, cit., p. 105. Sono parole di Nietzsche riportate da Heidegger. 24 Utilizzo qui il termine sciamano come inteso da Francesco Pellizzi nel suo saggio “Periferie del corpo artistico: l’incontro col coyote”, in Mario Perniola, Il pensiero neo-antico, cit. In tale saggio Pellizzi fa combaciare dal punto di vista artistico il neo-antico col neo-sciamanico, suggerendo come antico tutto ciò che è “rimosso” dalla moderna società occidentale, tra cui, quindi, anche lo sciamanesimo. 23 264 paradiso” che richiama uno dei tipi piú antichi d’esperienza mistica cristiana.25 Quindi l’estasi e la danza che ritroviamo a piú riprese nella poesia moderna e contemporanea non ci devono sorprendere, né ci deve sorprendere la relativa tematizzazione nei poeti africani. Anche il nigeriano Wole Soyinka fa penetrare il rito nella sua arte e cerca di accedere al momento sacrale al fine di fondere il dio Ogun della tradizione Yoruba con il leggendario sovrano guerriero dei Zulu Shaka, nel suo poema Ogun Abibiman: In time of race, no beauty slights the duiker’s In time of strength, the elephant stands alone In time of hunt, the lion’s grace is holy In time of flight, the egret mocks the envious In time of strife, none vies with Him of seven paths, Ogun, who to right a wrong emptied reservoirs of blood in heaven yet raged with thirst – I read His savage beauty on black brows, in depths of molten bronze aflame beyond their eyes’ fixated distances – and tremble! Now, before sad spaces recreate the loss before the shields are frayed that would protect the frail, now is true need of song and lyric, of festal gourds, libations, invocation of the Will’s transubstantion! – Ogun in the ascendant – let us now celebrate! Nell’ora della corsa, non c’è bellezza che competa con l’antilope nell’ora della forza, l’elefante si erge tutto solo nell’ora della caccia, la grazia del leone è sacra nell’ora della lotta, nessuno rivaleggia con Lui di sette sentieri, Ogun, che per raddrizzare un torto 25 Mauro Burzio, Viaggio tra gli dei africani, Milano, Mondadori, 2005, p. 224. 265 svuotò cisterne di sangue nel cielo e pure imprecava di sete – io vedo la sua bellezza selvaggia su fronti nere, in profondità di bronzo fuso e fiamme oltre le distanze su cui fissano gli occhi – e tremo! Ora prima che spazi tristi ricreino la perdita prima che si consumino gli scudi che proteggerebbero i piú deboli, ora davvero c’è bisogno di canto e poesia, di otri colmi a festa, di libagioni, invocazioni alla Volontà di transustanziarsi! – Ogun sta ascendendo – oggi dunque celebriamo! 26 Questi versi toccano un altro punto fondamentale del momento estatico, quello della palingenesi. Soyinka, però, si occupa da sempre di mito e dramma, soprattutto connessi alla tradizione Yoruba, mentre Kezilahabi si occupa soprattutto di lirica e anche nella narrativa egli è decisamente piú intimista. Dal mondo interiore al rituale c’è una distanza notevole, attraverso le peregrinazioni di un Io-lirico, quello che è in fondo anche l’Io di Nagona, ci si vorrebbe purificare ed accedere ad una vita comunitaria piú vicina alla natura. In questo senso la Bachmann appare piú vicina a Kezilahabi, cosí come possiamo leggere nei suoi “Lieder von einer Insel” (“Canti di un’isola”), scritti ad Ischia nell’estate del 1953: Einmal muss das Fest ja kommen! Heiliger Antonius, der du gelitten hast, heiliger Leonhard, der du gelitten hast, heiliger Vitus, der du gelitten hast. Platz unsren Bitten, Platz den Betern, Platz der Musik, und der Freude! […] Honig und Nüsse den Kindern, volle Netze den Fischern, Fruchtbarkeit gen Gärten, 26 Wole Soyinka, Ogun Abibiman, Venezia, Supernova, 1992, pp. 58-61. 266 Mond dem Vulkan, Mond dem Vulkan! Unsre Funken setzten über die Grenzen, über die Nacht schlugen Raketen ein Rad, auf dunklen Flößen entfernt sich die Prozession und räumt der Vorwelt die Zeit ein, den schleichenden Echsen, der schlemmenden Pflanze, dem fiebernden Fisch, den Orgien des Winds und der Lust des Bergs, wo ein frommer Stern sich verirrt, ihm auf die Brust schlägt und zerstäubt. […] Dann wird er wiederkommen. Wann? Frag nicht. Es ist Feuer unter der Erde, und das Feuer ist rein. Es ist Feuer unter der Erde und flüssiger Stein. Es ist ein Strom unter der Erde, der strömt in uns ein. Es ist Strom unter der Erde, der sengt das Gebein. Es kommt ein großes Feuer, es kommt ein Strom über die Erde. Wir werden Zeugen sein. Una volta dovrà pur arrivare la festa! Sant’Antonio, tu che hai sofferto, san Leonardo, tu che hai sofferto, san Vito, tu che hai sofferto. Spazio alle nostre preghiere, spazio a chi prega, spazio a musica e gioia! […] Miele e noci ai bambini, reti colme ai pescatori, fertilità ai giardini, luna al vulcano, luna al vulcano! Le nostre scintille andarono oltre i confini, 267 oltre la notte i razzi lanciarono una ruota, in rivoli scuri si allontana la processione e fa spazio al tempo del mondo anteriore, alle lucertole sguscianti, alle piante voraci, al pesce febbricitante, alle orge del vento e del desiderio del monte, dove pia una stella si sperde, si lancia sul suo petto e si polverizza. […] Poi tornerà. Quando? Non chiedere. È un fuoco sotto terra e il fuoco è puro. È un fuoco sotto terra e pietra liquida. È un fiume sotto terra che scorre dentro di noi. È un fiume sotto terra e ustiona le ossa. Viene un grande fuoco, viene un fiume e scorre sulla terra. Noi saremo testimoni.27 I primi versi sono quasi un recitativo monotono, come una preghiera, per poi accedere, attraverso un rituale di comunione con la Natura di stampo cristiano, ad un momento estatico dove il fiume magmatico ha quasi il ritmo di una tarantella. Camilla Miglio parlando della stanza, dell’ultimo canto di Lieder von einer Insel, scrive: Qui l’io lirico non si dissolve piú in una polifonia di voci dissonanti, ma in un “Noi”, dal quale si distingue una traccia dell’unione, cosa che paradossalmente coincide con una 27 Camilla Miglio, La terra del morso – L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann, cit., pp. 54-55. 268 apocalittica distruzione, nella quale gli elementi superano tutte le loro simboliche codificazioni e ritornano ad uno stato elementare.28 Se nella Bachmann a danzare è la terra stessa, in Kezilahabi sono i corpi. Corpi, però, privi di involucro, corpi eterei, la cui vitalità si trasmette attraverso il movimento e il percepire, il “sentire col cuore”, kuhisi, verbo ricorrente nelle danze kezilahabiane. Ad essere quasi totalmente assente è anche la sensualità, forse nella misura in cui nella poetessa austriaca è costantemente presente. Ad avvicinare la Bachmann a Kezilahabi è il tema della frattura del tempo, un tempo che torna indietro. Nella poesia Karibu ndani, presente nell’omonima raccolta, l’Io lirico arriva proprio “lí dove non è ancora straniero” “passando per una porta adesso aperta” giungendo infine “all’interno del cerchio”. Descrive, poi, il momento estatico: Sasa tazama ukutani, masalia ya wako utu chagua ala moja, ukae juu ya kigoda tuna hamu ya kucheza, tupate kukoga karne. Nilichagua ala ya zeze, tuni nikairekebisha wimbo wangu wa kwanza, ulikuwa Chai ya Jioni vizee vilianza kucheza, cheza yao kujinyonganyonga kwa muziki ulowatonesha, vidonda vyao vya hisia machozi yakavitiririka, hali vikilialia nilirudia wimbo tena, vikaanza kutoka jasho jasho lenyewe damu, upeo wa hisia zao nyoka, panya, popo na mende, ulingoni walijitoma ndipo kizee kimoja, katikati kikasimama hali macho kimefumba, kikapiga kelele: Huu mdundo wenyewe, ngoma ya watu wazima Ai! Nani atalishikilia jua! usiku mmoja hautoshi! Ai! Nipigieni makofi, nivunje yangu mifupa! Ai! Mimi mmeza nyoka, kisha nyuma akatokea! 28 Camilla Miglio, Gedächtnis, Schrift, “Musica Impura”. Ingeborg Bachmanns Lieder von einer Insel, «ARCADIA» International Journal for Literary Studies, vol. 42/2, 2007, p. 364. 269 Ai! Ulikuwa wapi Kichwamaji! Ungelizaliwa mapema! 29 Adesso osserva la parete, le tue preghiere umane scegli uno strumento, siedi sullo sgabello desideriamo tanto danzare, festeggiare l’arrivo del secolo. Scelsi lo zeze, la melodia cavalcai il mio canto d’inizio era “Il tè della sera” i vecchietti iniziarono a danzare, danzavano contorcendosi per la musica che aggravava le piaghe del loro percepire lacrimavano i loro occhi mentre si lamentavano tornai a suonare di nuovo, iniziavano a sudare sudore e sangue all’apice della loro percezione serpente, topo, pipistrello e scarafaggio irruppero nel capanno lí un vecchietto, al centro ed immobile ad occhi chiusi, urlò: è proprio questo il rullo, il tamburo degli uomini integri Ahi! Chi afferrerà il sole! una notte non basterà! Ahi! Schiaffeggiatemi, frantumatemi le ossa! Ahi! Sono colui che inghiotte il serpente ed uscirà dal didietro! Ahi! Dov’eri Kichwamaji! Fossi nato per tempo! 30 Ci apprestiamo quasi danzanti alla porta aperta e intoniamo un canto che coinvolge in una danza estatica. Nell’estasi le differenze e il principio di non contraddizione vengono sospesi, bisogna accedere a sintesi che paiono impossibili da raggiungere in uno stato di “normalità”, bisogna esorcizzare il male e diventare cenere per purificarsi e ricrearsi. Tuttavia, anche nella forza di questa tensione, il corpo è appena accennato, ed anche il dolore, è nominato senza il minimo compiacimento “Ahi! Schiaffeggiatemi, frantumatemi le ossa!”. I versi kezilahabiani anche nella tensione tellurica, ctonia, sono piú simili alla poesia pensante di Leopardi o Hölderlin che non all’esaltazione bacchica (a volte sadica e orgiastica) di alcuni poeti occidentali del Novecento. Nei due poeti presi in analisi la danza e l’incrinare l’asse tempo29 30 Euphrase Kezilahabi, Karibu ndani, cit., pp. 36-37. Traduzione mia. 270 rale appaiono essere elementi di matrice nietzschiana: Tutte le cose buone si avvicinano ricurve alla loro meta. Esse fanno la gobba come i gatti, e dentro di sé le fusa per l’approssimarsi della loro felicità, – tutte le cose buone ridono. L’andatura rivela, se uno procede già per la sua strada: perciò guardatemi camminare! Ma colui che si approssima alla sua meta, danza.31 Certo la danza estatica descritta da Kezilahabi ha qualcosa d’esoterico, apre le porte, eccita le bestie, fa urlare i vecchi desiderosi di una palingenesi, apre le faglie del tempo e ci invita in un nuovo secolo. Il momento estatico descritto, oltre che mimare quello rituale con la musica e l’estasi corporea, è carico di simboli letterari, come il morso al serpente e “Kichwamaji”. La presenza di quest’ultima figura ci dice qualcosa sul ruolo che ha questa danza all’interno della produzione del poeta swahili e sulla necessità d’essere un “Kichwamaji” per accedere a tale momento. Notiamo prima di tutto l’insistere sul tema del tempo, che è sia mezzo d’accesso e condizione necessaria sia fine. L’Io di Nagona è tra il gruppo di danzatori e musicisti del Caos ed è l’ultima danza prima che si apra la porta verso la luce. La follia e il caos sono necessari alla rivoluzione. Nietzsche afferma: Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante.32 In questo senso la lettura positiva del “Kichwamaji”. La lingua del folle, dell’escluso, è necessaria, viene percepita come unica possibile. Al poeta non resta che questa lingua, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 2008, p. 342. Prima ed.: Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, 18821885. 32 Ivi, p. 10. 31 271 quella di un folle, nella quale le parole e le cose vivono in una drammatica distanza, una lingua ebbra, fatta di grida e canti. L’elemento estatico, però, lascia spazio al silenzio. Questo è vissuto in modo molto drammatico da Ingeborg Bachmann: Meine Schrei verlier ich wie ein anderer sein Geld verliert, seine Moneten, sein Herz, mein großen Schreie verlier ich in Rom, überall, in Berlin, ich verlier auf den Straßen Schreie, wahrhaftige, bis mein Hirn blutrot anläuft innen, ich verlier alles, ich verlier nur nicht das Entsetzen, dass man seine Schreie verlieren kann jeden Tag und überall Grida mie perdo come un altro i soldi perde, le sue monete, il suo cuore, perdo mie grandi grida a Roma, ovunque, a Berlino, perdo per strada grida, veraci, fino al rossosangue del cervello mio dentro, perdo tutto, non perdo soltanto l’orrore che si perdano le sue grida ogni giorno e ovunque33 33 Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, cit., p. 208 (traduzione mia). 272 Il silenzio, forse vero orrore per Bachmann, si può scampare soltanto attingendo al residuo sacrale del mito di Orfeo che passeggia per Napoli in Lieder auf der Flucht (Canti lungo la fuga): Nur Sinken um uns von Gestirnen. Abglanz und Schweigen. Doch das Lied überm Staub danach wird uns übersteigen. Solo tramontare intorno a noi di stelle. Riflesso e silenzio. Ma il canto sulla polvere dopo, alto si leverà su di noi.34 In Kezilahabi il suono è cifra immanente della sua filosofia, mentre nel primo canzoniere nella poesia Fungueni Mlango (Apritemi la porta) grido, sangue e scrittura sono associati in una poesia che ha già il ritmo di una danza: Mlango wa karatasi uko mbele yangu Ninaugonga kwa mikono Kichwa na mabega Mlango unatoa mlio kilio, Lakini mwanadamu hatanifungulia. Damu Damu puani, damu mdomoni, Damu kichwani itumikayo kama wino. […] Ninaona kizunguzungu Ninapiga kelele kama Ng’ombe machinjioni: Fungueni mlango! Mlango fungueni! Lakini mwanadamu hatanifungulia.35 Non vedo finestre ma una porta di carta mi sta davanti ci batto con mani testa e spalle la porta sibila un sinistro lamento 34 35 Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, cit., pp. 136-137. Euphrase Kezilahabi, Kichwamaji, cit., p. 23. 273 ma terra e sangue l’uomo non m’aprirà. Sangue sangue dal naso, sangue dalla bocca, sangue dalla testa usato come inchiostro. […] Estraniato barcollo urlo come un bue al macello aprite la porta! la porta aprite! ma terra e sangue l’uomo non m’aprirà.36 In Karibu Ndani il silenzio diventa l’unica possibilità poetica. Si tratta della lingua capace di conciliare scrittura e mondo, la lingua utopica del vento, degli animali, dei santi. Tale lingua emerge chiaramente nella poesia Ngoma ya kimya (La danza del silenzio): Watazamaji hawayakumbuki maneno ya nyimbo zote zilozoimbwa. Zilizobaki ni taswira hai na vivuli. Lakini labda miti hii michache yakumbuka. Nitaviokota nitengeneze vazi langu kisha nitacheza ngoma yangu kimyakimya katika uwanja huu mpana ulioachwa wazi bila watazamaji nao upepo ukinifundisha lugha ya kimya maana yule mwanamke amekwishajifungua.37 Traduzione mia. Traduco “mwanadamu” con “terra e sangue l’uomo”, anziché con la giusta traduzione “uomo”, perché in questa poesia e in tutta la raccolta Kichomi la parola “sangue” ritorna spesso e ha enorme importanza. In questa poesia questa parola ritorna quattro volte come parola, tre volte in “mwanadamu” e una volta associata alla parola “macello”, inoltre contribuisce sensibilmente a creare un ritmo incalzante nei versi centrali che accompagnano l’urlo finale e richiudono col verso ritornello. “Mwanadamu” vuol dire “uomo”, ovvero “figlio” (mwana) di Adamo (Adamu), l’unica soluzione che ho trovato per rendere la complessità di quel verso è esplicitare l’etimologia di Adamo (terra rossa), quindi “terra e sangue”. 37 Euphrase Kezilahabi, Karibu ndani, cit., p. 43. 36 274 Gli spettatori non ricordano le parole di tutti i canti cantati. Ciò che resta è viva immagine ed ombra. Ma forse questi pochi alberi ricordano. Raccoglierò e accomoderò le mie vesti poi danzerò celebrando silenziosamente nell’ampia piazza lasciata aperta dall’assenza degli spettatori e se il vento mi insegnerà la lingua del silenzio vorrà dire che quella donna ha già partorito.38 Per entrambi gli scrittori l’elemento fondamentale per la liberazione è la partecipazione del corpo. L’elemento fisico e anche violento è l’aspetto vitalistico di questi rituali letterari e artistici che Perniola chiama neoantico. Il corpo è un tema fondamentale dell’arte del Novecento occidentale: è investito di valenze identitarie prima taciute. Il corpo diventa rivendicazione sociale, politica e artistica, viene messo in scena ed indagato nelle situazioni limite: nella sua piú disarmante nudità, nel piú violento dolore e nell’eros piú vischioso. Seppure sia riscontrabile un interesse per alcuni spettacoli raccapriccianti, nella poesia di Euphrase Kezilahabi non ho riscontrato un’indagine sul corpo fine a se stessa. Il poeta, anche nell’estasi danzante, non descrive i corpi, accenna solo al loro movimento; allo stesso modo, quando 38 Traduzione mia. La donna a cui si fa riferimento negli ultimi versi è probabilmente Nagona, figura femminile enigmatica che compare nell’omonimo romanzo di Kezilahabi. L’ultima cosa che farà Nagona è partorire e l’ultima cosa che farà il protagonista è osservare il suo sorriso. Compare anche nella poesia Neno (Parola, 1988) come bene custodito dai poeti. N.B. Nell’ultimo canzoniere Dhifa (2008), invece, si risolve anche tale istanza e il poeta, avendo ritrovato “un posto in società”, può cantare con la voce del mondo, ovvero solo con un’omatepeia. In PA !: Pa! Pa! Pa! (silenzio) Pa! 275 parla delle percosse, non c’è una particolare attenzione per questi elementi, sembrano quasi assenti eppure sempre presenti come movimento e percezione, quest’ultimi, movimento e percezione, questi ultimi, sempre e costantemente richiamati. René Girard descrive in questo modo il momento estatico: Il tema della differenza abolita o rovesciata si trova nell’accompagnamento estetico della festa, nella mescolanza di colori discordanti, nel loro abbigliamento variopinto e i loro perpetui vaneggiamenti. […] L’annullamento delle differenze, come ci si può aspettare, è spesso associato alla violenza e al conflitto. […] Se la crisi delle differenze e la violenza reciproca possono essere oggetto di una commemorazione gioiosa, è perché appaiono come antecedente obbligatorio della risoluzione catartica in cui sfociano. Il carattere benefico dell’unanimità fondatrice tende a risalire verso il passato, a colorire sempre piú gli aspetti melefici della crisi, il cui senso è allora rovesciato. L’indifferenziazione violenta acquista la connotazione favorevole che ne farà, in fin dei conti, ciò che chiamiamo festa. […] La funzione della festa non è diversa da quella degli altri riti sacrificali. Si tratta, e Durkheim l’ha capito bene, di vivificare e rinnovare l’ordine culturale ripetendo l’esperienza fondatrice, riproducendo un’origine che è percepita come la fonte di ogni vitalità e fecondità: è in quel momento, infatti, che piú stretta è l’unità della comunità, piú intensa la paura di ripiombare nella violenza interminabile.39 Incrinare, invertire l’ordine sociale e naturale è quello che descrivono Ingeborg Bachmann e Euphrase Kezilahabi nelle loro danze estatiche, tendendo all’indifferenziazione; è la tensione volta a rifondare il corpo del poeta e la sua voce all’interno del sistema sociale e naturale. 39 René Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 2005, pp. 171-172. Prima ed.: La Violence et le sacré, Paris, Grasset, 1972. 276