Carlo Capone, vittorie e solitudine: il film e la storia vera del pilota di

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Carlo Capone, vittorie e solitudine: il film e la storia vera del pilota di
»VELOCE COME IL VENTO»
Carlo Capone, vittorie e solitudine: il film e la storia vera
del pilota di rally dimenticato da tutti
La «vita maledetta» di Carlo Capone che ha ispirato la pellicola interpretato da Stefano
Accorsi: il titolo europeo vinto quando nessuno credeva in lui, la morte della figlia e il buio della
depressione. Oggi a 58 anni vive in una casa di riposo in Piemonte
Alessandro Fullom
Certe amicizie importanti, quella di una
vita, nascono così, con una frase. «La
gente non mi parla volentieri, forse
perché balbetto». Parole a bassa
voce, nell'officina di un meccanico nel
Torinese capace di trasformare quelle
Autobianchi 112 - siamo agli inizi degli
anni Settanta - in «missili» stradali col
tachimetro non lontano dai 200 all'ora.
Carlo Capone. Oggi ha 58 anni
Ascoltandole, Carlo Canova non si
scompose, limitandosi semplicemente a pensare; «Con questo qui io ci vado a
genio». Davanti a lui c'era un ragazzo magro, segaligno, altezza media, capelli
piuttosto lunghi come andavano in quel periodo, lo sguardo intenso ma un filo di
malinconia sul sorriso. Nome e cognome: Carlo Capone. È il pilota automobilistico che
ha ispirato, sia pure con pennellate alla lontana, «Veloce come il vento», il film - già
record di incassi - diretto da Matteo Rovere e interpretato da Stefano Accorsi. Pellicola
che vede come protagonista un ex campione di rally- Loris «il ballerino», soprannome
arrivato in qualche modo da Capone -, tossicodipendente che si riscatta insegnando
alla sorella minore, ritrovata dopo anni alla morte del padre, i «trucchi» della guida
necessari per vincere il campionato italiano «Gran turismo».
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IL LORIS DEL FILM È ROMAGNOLO, CAPONE È PIEMONTESE
Chiariamolo subito: il Loris
di Accorsi è un romagnolo, Capone è invece piemontese. Loris era un imolese solare
e spaccone, Capone lo descrivono come un torinese nativo di Gassino introverso e
taciturno. Loris era tossicodipendente. Il «male» di Capone «è invece la depressione»
dice al Corriere della Sera uno degli amici più cari, il suo navigatore degli esordi Carlo
Canova. Che ritrae un pilota devastato dal «cancro» esistenziale che colpisce certi
talentuosi campioni i quali d'improvviso, per ragioni insondabili, non riescono più a
mordere il frutto della vittoria abituale. Difficile individuare un lieto fine nella storia
(quella vera) di Capone che oggi, all'età di 58 anni, vive in una casa di riposo - la
Residenza Anni Azzurri - immersa nella quiete di Tonengo, nell'Astigiano, assieme alla
madre novantenne. Una solitudine più che trentennale dopo che nel 1985 vide morire la
figlia di pochi mesi, portata via da un banale rigurgito. Tragedia spartiacque, nella vita
del pilota poi perso nell'oscurità di quel male maledetto.
LA MORTE DELLA PICCOLA DI POCHI MESI Soltanto l'anno prima della scomparsa della
piccola, nel 1984, a sorpresa, Capone aveva vinto il titolo europeo di rally, ultimo acuto
di uno che per Canova aveva le «stimmate del fuoriclasse». «Eravamo ventenni
spiantati, senza soldi, con la passione delle auto e delle corse» è il ricordo del
«navigatore», anche lui 58 anni e un'attività imprenditoriale legata alla lavorazione delle
nocciole: quelle comperate da clienti come Ferrerò e Nestlé. «Ci incontrammo in
un'officina a Cortemilia. Qui mettevano a punto le A112 per il campionato di categoria.
Un'Invenzione" di Cesare Fiorio -team manager della leggendaria Lancia iridata nei
rally- che disse: mettiamo i piloti l'uno contro l'altro su una stessa macchina. Emergerà
il più bravo». Duellarono qui futuri campioni come Attilio Bettega e Fabrizio Tabaton.
Senza contare la pubblicità riversata su quell'utilitaria venduta in tutto il mondo. «Erano
piccole trappole che chiamavamo "Mulinex", motori da 900 di cilindrata. Ma "truccate" a
dovere facevano prestazioni strabilianti, rivaleggiando con bolidi potenti il doppio».
Capone chiese a Canova di correre con lui: «Se sali in macchina con me vinciamo». Il
navigatore non esitò un attimo: «Gli ho dato l'amicizia».
LO «SFASCIAMACCHINE» E IL TITOLO EUROPEO
Andarono subito fortissimo,
nonostante già dicessero che Capone fosse uno «sfasciamacchine» - come ricorda
uno strepitoso ritratto pubblicato a dicembre dalla storica rivista Autosprint- sempre
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pronto a rischiare tutto, a partire dalla vita: nel campionato giunsero primi a parimerito
con un altro equipaggio anche se il titolo venne assegnato a quest'ultimo per una
specie di «ordine di scuderia»: se rallenti all'ultima corsa - fu più o meno la sintesi della
proposta «indecente» - farai vincere il campionato a qualcun altro ma tu ti guadagni un
anno di contratto. Capone accettò, sia pure a malincuore. Ma Canova per questo lo
mollò: «Restammo amici. Però non avevo tempo da perdere e quell'episodio mi fece
capire che le corse non erano per me». Il pilota intanto diventa sempre più bravo. Gli
affidano un'auto di un team «satellite» della Lancia: il «Tre Gazzelle». Dietro c'è
sempre Fiorio che se da una parte lo tiene d'occhio, sia pure alla lontana, dall'altra si
dedica alla scuderia ufficiale: qui c'è il fuoriclasse finlandese Markku Alen - lo
chiamavano «Maximun attack» per lo stile di guida da battaglia - affiancato all'ultimo
momento dal connazionale Henri Toivonen, promessa del rally morto - intrappolato
nell'auto in fiamme - in un incidente nel 1986 in una gara in Corsica.
ALEN E TOIVONEN Capone sperava di essere chiamato nel team Lancia e concorrere
alla sfida mondiale. La scelta di Fiorio cadde invece su Toivonen: ma la rabbia per la
bocciatura gli diede la grinta necessaria per dominare il campionato europeo,
battendo lo stesso finlandese. Vittoria epocale: mai si era vista l'auto di un team
privato sorpassare le insegne ufficiali Lancia. Ma quel titolo - ottenuto con una serie di
gare condotte sempre al limite, «stringendo» le curve con cattiveria, proprio come negli
insegnamenti dati nel film da Loris alla sorella - fu al tempo stesso apice e crollo della
vita sportiva di Capone. All'indomani della vittoria il rallysta rilasciò delle interviste
pesantissime contro Lancia e Toivonen. Conclusione: venne emarginato dalle corse.
Dal suo mondo. Niente ingaggi, niente scuderie. Niente futuro. «Era un introverso, era
fatto così...», scuote la testa adesso Canova: «Per lui esisteva solo il rally. Nient'altro.
D'un tratto gli sparì tutto da sotto il naso: le gare e la bimba. Due mazzate ricevute dalla
vita da cui non si è più ripreso».
IL MECCANICO LEGGENDARIO
Ma quel «tutoraggio» dato al giovane pilota di cui si
parla nel film? Stavolta è il regista Matteo Rovere a svelare il retroscena: «Me lo disse
Antonio Dentini, leggendario meccanico - e altro personaggio vero a cui, al pari di
Capone, è dedicato il film, ndr-. Capone per un certo periodo credette di sconfiggere i
suoi incubi insegnando a un aspirante rallysta tutto quello che sapeva». Poi
naturalmente Rovere da questo racconto ha pescato quel che riteneva opportuno,
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rielaborando la storia con un altro timbro, quello del romanzo che non
obbligatoriamente deve attenersi alla realtà. Dando vita così a una storia già cult che fa
bene al cinema italiano, rinvigorito da un'altra bella prova colorata di fantasia, sulla scia
di «Lo chiamavano Jeeg Robot».
«L'HO GIÀ DETTO, È UN INTROVERSO...»
Capone oggi vive con poco, poche cose.
Poco di tutto. Solo ricordi. «Ha due tute, un paio di scarpe, una giacca a vento»
racconta Canova che periodicamente va a trovarlo. «Se gli chiedi delle gare, lui
sembra che te le voglia far rivivere con te. Poi d'un tratto s'ammutolisce. E non dice più
niente. Sì, è fatto così: l'ho già detto, è un introverso...»
Alessandro Fullonialefulloni
13aprile2016| 02:09
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