Una sera d`agosto a Quattropani.

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Una sera d`agosto a Quattropani.
Una sera d’agosto a Quattropani.
di Pietro Lo Cascio*
Sabato sera sono salito a Quattropani, per la festa “A luna nova”. Arrivare a Chiesa Vecchia mentre
l’orizzonte era rosso del tramonto e interrotto soltanto dalle sagome grigie e lontane di Salina,
Filicudi e Alicudi, sarebbe stato già sufficiente per collocare la serata tra i migliori ricordi
dell’estate, quelli che riscaldano la memoria e il cuore nei mesi invernali. Ciò che si è presentato
dopo, tuttavia, renderebbe necessario uno spazio mnemonico supplementare, una sorta di hard disk
portatile dove conservare le sensazioni che in molti – credo – si sono ritrovati addosso tornando a
casa. Grazie alla generosità, all’intelligenza e alla passione degli organizzatori, ho potuto godere di
una bellissima e gratificante serata plasmata su due qualità, purtroppo rare: semplicità e buon gusto.
Cinema, teatro, arte, poesia, musica, cibo e vino, si sono alternati sullo sfondo dell’umile – e
splendida – sagoma dell’antico santuario, ma anche di un arcaico paesaggio di pietre monumentali,
al quale si accedeva lungo un percorso segnato da luci sobrie ed eleganti. C’era spazio per il
silenzio attento, e anche per il chiacchiericcio allegro, per scambiarsi convenevoli, pettegolezzi,
quattro chiacchere; c’era chi accennava qualche passo di danza al ritmo di un samba jazzato, chi si
interrogava sul perché un quadro di Stromboli fosse stato appeso all’ingiù, chi ridacchiava davanti
alle scene di “Arradio” o se riconosceva il vicino di casa tra gli attori di “Ciaula scopre la luna”, chi
faceva la fila due o tre volte per un piatto di insalata o si perdeva dietro ai nomi esotici declamati
nei versi di Davide Cortese.
Ognuno avrà certamente preferito un determinato momento, una tra le tante cose che la festa
proponeva alla nostra attenzione; tutti, sono convinto, abbiamo lasciato la piazzetta molto più ricchi,
però, di quando vi eravamo arrivati. Perché una festa, anche la festa di una contrada, può regalare
questa sensazione. “A luna nova” lo ha fatto sottraendoci per qualche ora alla banalità, e
restituendoci la bellezza attraverso cose apparentemente insolite e inconsuete per una festa
“tradizionale” che, in quanto nuove, ci rendevano protagonisti della loro scoperta. Così come era
bello percepire l’orgoglio della comunità che aveva lavorato per la sua riuscita, dei tanti che
avevano collaborato in mille modi diversi; e chi – come me – non aveva fatto nulla ma beneficiava
dei loro sforzi, si sentiva un ospite gradito, un’emozione antica che riempie di immenso piacere.
Certo, non c’erano le bancarelle con le noccioline tostate, i cd pirata di Brigantony a tutto volume o
la posateria da un euro, né il ronzio martellante dei gruppi elettrogeni; nessuno, quella sera, avrà
fatto pipì dietro le siepi o dormito in mutande su una panchina; e, soprattutto, qualche migliaio di
euro non è andato in fiamme in tre minuti scarsi di giochi pirotecnici. Un gran peccato, davvero.
Peccato, perché la loro assenza dimostra come anche una festa popolare dove prevalgono la cultura,
il buon gusto, le cose semplici ma allo stesso tempo ricercate, e magari – eresia! – costata pochi
soldi, possa essere gradita. In realtà, non credo che qualcuno ne abbia sinceramente avvertito la
mancanza. E questo insinua il dubbio che tante feste paesane, inesorabilmente scandite da un rituale
che le rende tutte uguali, perpetrato in nome della formula “tanto la gente vuole questo”, siano
soltanto un grottesco riflesso della nostra incapacità di vedere oltre, di pensare che stimolando
curiosità e intelligenza si possa crescere, migliorare, arricchirsi, essere soddisfatti e felici, sentirsi
più uniti. Oppure è proprio questo, il rischio che si vuole evitare?