A passo d`auto. Impresa e lavoro nel settore automobilistico

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A passo d`auto. Impresa e lavoro nel settore automobilistico
A PASSO D’AUTO
Impresa e lavoro nel settore automobilistico
A cura di Andrea Bardi, Francesco Garibaldo, Volker Telljohann
Indice
Introduzione
Francesco Garibaldo, Andrea Bardi, Volker Telljohann
5
Ristrutturare l’industria automobilistica e la sua forza lavoro: una
prospettiva a livello mondiale
di Ulrich Jürgens
11
Catene del valore e sistemi di fornitura
41
La riorganizzazione della catena del valore nella filiera automobilistica
Giuseppe Volpato
43
Audi e Bmw: le strategie di fornitura di due case automobilistiche di
successo
Rainer Greca
75
Il fornitore modulare nel settore automobilistico svedese
Peter Fredriksson
119
Sistemi locali e sviluppo regionale
145
Lo sviluppo della modularizzazione e il design di prodotti di nicchia in
Brasile
Mario Sergio Salerno, Ana Valéria Carneiro Dias
147
Il distretto automobilistico di Stoccarda – evoluzione e tendenze con
particolare riferimento alla cooperazione nei cluster virtuali
Joachim Warschat, Kristina Wagner, Christina Edelmann
167
Gli impatti dell’industria automobilistica sui modelli di sviluppo regionale
Andrea Bardi, Giuseppe Calabrese
203
Regolazione e condizioni del lavoro
245
Strategia aziendale globale – Rappresentanza globale dei lavoratori? I casi
Volkswagen e DaimlerChrysler
Torsten Müller, Hans-Wolfgang Platzer, Stefan Rüb
247
Processi di ristrutturazione e regolazione sociale - il caso tedesco
Volker Telljohann
275
Il Teamworking nel settore automobilistico negli U.S.A.: strategie ed effetti
sulle prestazioni produttive e sui risultati dei lavoratori
William Cooke, David Meyer, Christopher Huxley
297
Scenari di sviluppo del settore auto
341
L’auto, la mobilità, il lavoro
Francesco Garibaldo
343
Introduzione
di Francesco Garibaldo, Andrea Bardi, Volker Telljohann
L’industria automobilistica rappresenta, per tutte o quasi le economie
avanzate del mondo, la colonna vertebrale della struttura industriale dei
rispettivi paesi. Se a questo si associa il fatto che non esiste paese ad
economia avanzata che non sia anche leader industriale, per sillogismo
diviene evidente quanto importante risulta essere l’auto per la prosperità
passata, attuale e futura dei paesi appartenenti al cosiddetto primo mondo.
L’industria dell’auto è peraltro strategica anche per la quasi totalità dei paesi
emergenti, ovvero quelle nazioni che più recentemente si sono affermate sui
mercati globali come significative aree di produzione, anche grazie alla
capacità di attrarre ingenti investimenti da parte dei costruttori
automobilistici.
Questa pubblicazione parte da questo convincimento, ovvero
dall’importanza strategica del settore automobilistico, ed esce in un
momento di crisi e trasformazione dell’industria dell’auto in tutto il mondo;
la crisi pare essere particolarmente forte soprattutto in Europa e negli U.S.A
ma è tutt’altro che distribuita in modo omogeneo. Il libro vuole fornire ai
lettori, in particolar modo a non specialisti interessati al settore – ad
esempio gli studiosi di altri settori, i sindacalisti, i rappresentanti del mondo
dell’impresa e i policy maker ed i funzionari pubblici che si occupano di
industria, commercio e pianificazione pubblica - un’informazione ed una
valutazione aggiornata di quanto sta accadendo, con una particolare
attenzione alle aziende della sub-fornitura; quanto accade infatti nelle
aziende finali - quelle convenzionalmente chiamate OEM (Original
Equipment Manufacturers) in tutti i settori – è più noto.
Il testo offre innanzitutto uno spaccato di orizzonte internazionale, dal
momento che non può che essere questo il quadro di riferimento per un
ragionamento su questo settore. Il testo affronta le problematiche sia
strategiche sia organizzative che caratterizzano il settore automobilistico e
più in specifico analizza le scelte operate da alcuni tra i più importanti
produttori di automobili a livello globale.
In particolare, i saggi raccolti si concentrano su alcuni aspetti solitamente
meno indagati quali il legame tra OEM e fornitori di componenti, Original
Equipment Suppliers (OES), l’impatto dell’industria dell’auto sul territorio
di localizzazione, il lavoro e la sua regolazione, il rapporto tra auto e
mobilità.
Il testo è articolato in un saggio di apertura, tre diverse sezioni caratterizzate
da tre articoli ognuna e un saggio di chiusura.
Il libro illustra, attraverso il saggio di apertura di Ulrich Jürgens, le
connessioni tra processi di ristrutturazione industriale e lavoro a livello
globale, sottolineando peraltro l’esigenza di approfondire anche in una logica
di ricerca sul campo la natura di questo legame.
Seguono poi nove articoli suddivisi in tre diverse tematiche:
· Catene del valore e sistemi di fornitura
· Sistemi locali e sviluppo regionale
· Regolazione e condizioni del lavoro
Il capitolo conclusivo di Francesco Garibaldo chiude il testo, proponendo un
possibile scenario di sviluppo e rilancio del settore auto all’interno di una
più ampia prospettiva, quella della mobilità sostenibile.
L’approccio dei diversi saggi è differente sia nell’ampiezza dei temi trattati
che nella copertura geografica; alcuni affrontano il quadro complessivo dei
temi industriali e del lavoro su base nazionale, altri su base regionale,
naturalmente le localizzazioni strategiche dell’industria dell’auto; altri
ancora si soffermano su aspetti specifici, pur inquadrandoli nella dinamica
complessiva del settore. Il lettore attento può costruire dei percorsi propri di
comparazione delle tendenze in atto, cercando dei criteri interpretativi
dell’apparente “cacofonia” che ne risulta.
Il primo dei tre saggi della sezione dedicata alla catena del valore e i sistemi
di fornitura, intitolato “La riorganizzazione della catena del valore nella
filiera automobilistica” e curato da Giuseppe Volpato, esplora con approccio
longitudinale le implicazioni del processo di motorizzazione intervenuto sia
in Italia sia nel mondo, descrivendo l’impatto dell’evoluzione della domanda
(da primo acquisto a sostituzione) sulle strategie dei costruttori
automobilistici. L’articolo esamina in special modo le evoluzioni intervenute
all’interno del sistema di fornitura, approfondendo in particolare i rapporti
tra OEM e OES e attingendo a vari esempi tratti dalle esperienze avviate da
diversi costruttori e fornitori automobilistici europei, statunitensi e
giapponesi.
Questo tema è analizzato approfonditamente rispetto ai casi Audi e Bmw da
Rainer Greca, curatore del pezzo intitolato “Audi e Bmw – strategie di
fornitura di due produttori di successo”, il quale descrive in chiave
comparativa e longitudinale l’approccio strategico dei due costruttori
tedeschi rispetto ai rispettivi sistemi di fornitura, così come le implicazioni
organizzative, individuando peraltro le principali similarità e diversità.
Il tema della modularizzazione emerge chiaramente come strategia “forte”
perseguita da tutti i costruttori automobilistici presi in esame nei diversi
contributi. Ciò non di meno, come sottolinea Fredriksson nel suo pezzo “Il
fornitore modulare nel settore automobilistico svedese”, il quale analizza nel
dettaglio il modello organizzativo della fornitura di moduli degli stabilimenti
svedesi di Saab e Volvo, i costruttori automobilistici mondiali hanno spesso
seguito percorsi differenziati.
La seconda sezione: “Sistemi locali e sviluppo regionale”, anch’essa
composta da tre contributi, risulta essere fortemente connessa alla
precedente nel senso che esplorando la dimensione del rapporto tra settore
auto e territorio affronta inevitabilmente le problematiche relative ai sistemi
fornitura, in genere caratterizzati da una moltitudine di imprese
sub-fornitrici, contoterziste e di servizi di diverse dimensioni e concentrate
all’interno di aree geografiche delimitate, ovvero i sistemi produttivi locali.
Nel primo pezzo “Lo sviluppo della modularizzazione e il design di prodotti
di nicchia in Brasile”, curato da Mario Sergio Salerno e Ana Valéria
Carneiro Dias è descritto come la costruzione di un parco fornitori
attraverso l’investimento greenfield è in genere il percorso utilizzato per gli
insediamenti produttivi di nuova costruzione, non solo nei paesi in via di
sviluppo. La prossimità, spaziale e temporale, tra assemblatore finale e
fornitori di primo livello permette, nel caso dell’investimento greenfield, una
gestione ottimizzata e sincronizzata delle forniture di moduli, ma una
ricaduta modesta sul tessuto imprenditoriale autoctono. Il caso in questione
pare tuttavia essere una positiva eccezione.
Infatti, descrivendo il caso della sussidiaria brasiliana di Fiat Auto, Salerno
e Carneiro Dias dimostrano come le specificità di contesto del Brasile
(condizione delle infrastrutture stradali regionali, preferenze e abitudini
consolidate dei consumatori, ecc.) abbiano indotto il costruttore torinese ad
attribuire allo
stabilimento
brasiliano
una
forte
autonomia
(decentralizzazione) sia sul fronte dello sviluppo prodotto sia rispetto alla
selezione dei fornitori da utilizzare. Ciò ha permesso da un lato un forte
sviluppo delle competenze interne allo stabilimento brasiliano, dall’altro la
preferenza verso fornitori locali.
Nel loro contributo relativo al distretto di Stoccarda (Il distretto
automobilistico di Stoccarda – evoluzione e tendenze, con particolare
riferimento alla cooperazione nei cluster virtuali), Joachim Warschat,
Kristina Wagner e Christina Edelmann, introducendo il concetto di virtual
cluster, sottolineano come emergano in modo dirompente due effetti opposti,
ovvero da un lato l’espansione delle produzioni di auto a livello globale,
dall’altro il radicamento di tali produzioni all’interno di agglomerati
produttivi che vengono a concentrarsi all’interno di aree geograficamente
delimitate.
Gli autori, valorizzando le potenzialità della cooperazione a livello
locale come elementi di competitività su scala globale, evidenziano
l’esistenza di una possibile combinazione positiva tra le due
dimensioni, utilizzando il termine “glocalizzazione”.
Il ruolo del territorio, ovvero il contesto sociale “situato” e le competenze in
esso radicate, risulta essere centrale al fine di comprendere le capacità
innovativa e competitiva dei sistemi produttivi locali. In questo caso gli
attori locali quali le università, gli enti pubblici locali e le associazioni di
impresa rappresentano veri e propri attori dello sviluppo. Il loro ruolo
diviene cruciale in particolare in quei territori dove è forte e radicata la
presenza di un’imprenditorialità diffusa, ovvero un importante tessuto di
PMI.
A tal proposito Warschat, Wagner e Edelmann, delineando lo scenario di
sviluppo futuro, sottolineano che i processi di globalizzazione mettono a
dura prova gli equilibri socio-economici raggiunti all’interno dei sistemi
produttivi locali (regional network) dei paesi occidentali, con particolare
riferimento alle PMI. Ciò non di meno, nell’evidenziare la necessità che i
regional network si trasformino in virtual cluster, sottolineano come
all’interno di questo scenario gli elementi di cooperazione informale quali la
fiducia continuino a giocare un ruolo determinante.
L’ultimo contributo della sezione: “Gli impatti dell’industria automobilistica
sui modelli di sviluppo regionale”, curato da Andrea Bardi e Giuseppe
Calabrese, introducendo il concetto di filiera, compara le performance
economico-finanziarie delle imprese appartenenti alle filiere dell’automobile
piemontese e della motoristica emiliano-romagnola, evidenziando similarità e
diversità nei due modelli.
Il netto differenziale tra le due filiere in termini di indici di bilancio dimostra
che il modello multisettore e multiprodotto emiliano-romagnolo ha registrato
nel periodo analizzato risultati più performanti rispetto al sistema
monospecializzato piemontese nel quale la crisi del settore finale si è
riverberata inevitabilmente sulla sottostante struttura della fornitura,
soprattutto sui primi livelli della catena della fornitura.
La sezione “Regolazione e condizioni del lavoro” propone tre articoli:
Il primo: “Strategie d’impresa globali – rappresentanza degli interessi
globali dei lavoratori? I casi della Volkswagen e della Daimler-Chrysler”,
curato da Torsten Müller, Hans-Wolfgang Platzer e Stefan Rüb, riferisce di
due casi esemplari non solo perché sono esempi per gli altri ma anche perché
rappresentano situazioni idealtipiche.
Il pezzo di Volker Telljohann su globalizzazione e patti per l’occupazione
propone una valutazione critica di alcuni tra i più rilevanti patti per
l’occupazione e la competitività sottoscritti tra sindacato e i più importanti
gruppi tedeschi quali Siemens, DaimlerChrysler, Volkswagen, Bosch,
General Motors, Karstadt, Philips, Braun Melsungen, BASF e Deutsche
Bahn (Ferrovie tedesche). La valutazione complessiva porta a evidenziare
come in alcuni casi tali patti rischino di minare i fondamenti del contatto
collettivo di lavoro in Germania.
Infine, l’articolo dal titolo: “Lavoro di gruppo nel settore della fornitura
motoristica negli Stati Uniti: strategie ed effetti sull’esperienza nell’impresa
manifatturiera e conseguenze sui lavoratori”, curato da William Cooke,
David Meyer e Christopher Huxley, offre, attraverso i risultati di una
corposa indagine sul campo che ha coinvolto numerose imprese di fornitura
auto negli Stati Uniti, un quadro originale sulle finalità, le modalità e i
risultati dell’introduzione del teamworking in azienda, valutando al
contempo l’impatto sui lavoratori e sul loro grado di motivazione.
Il saggio conclusivo: “L’auto, la mobilità, il lavoro”, propone il terreno della
mobilità sostenibile come cantiere di lavoro, ovvero spazio di politica
pubblica in grado di combinare, facendo leva sia sulla domanda sia
sull’offerta di mobilità, l’interesse collettivo di un ambiente libero da un
inquinamento oramai divenuto emergenza vitale e l’interesse “privato” di un
settore industriale in crisi di sovrapproduzione ma in grado di rappresentare
un attore chiave all’interno di una nuova stagione di crescita, sviluppo e
benessere.
Ristrutturare l’industria automobilistica e la
sua forza lavoro: una prospettiva a livello
mondiale
di Ulrich Jürgens
1 Motore della crescita
L’industria automobilistica, durante il suo primo secolo di vita è stata
caratterizzata da una crescita quasi inesorabile, nonostante ci siano stati
periodi di recessione e di stasi e, in generale, lo sviluppo sia avvenuto in
modo ciclico. Il XXI Secolo vede l’industria automobilistica ancora prospera
a livello mondiale
Motore della crescita e dello sviluppo economico dei paesi industrializzati,
l’industria oggetto della nostra ricerca, si è diffusa in diverse aree
geografiche, ed in particolare, in epoca recente, ha raggiunto buoni risultati
nei paesi in via di sviluppo e nei paesi dell’ex blocco orientale. Tale
diffusione della produzione può aver attenuato le prospettive di crescita dei
paesi più industrializzati, ma fino ad ora ha portato soprattutto guadagno.
Nello stesso periodo, l’industria è stata caratterizzata da fasi di
riorganizzazione e ristrutturazione. Considerando solo la seconda metà del
secolo scorso ed il periodo del boom della ripresa post-bellica, la prima di
queste ondate di riorganizzazione ha riguardato il lavoro, la qualità del
lavoro e le relazioni industriali (fine anni ’60 e anni ’70); la seconda fase ha
riguardato l’acquisizione di nuove tecnologie,
robotizzazione,
computerizzazione delle fabbriche (seconda metà degli anni ’70 fino alla
metà degli anni ’80); la terza fase ha riguardato le sfide poste dal Giappone
in termini di concetti più elevati di management e produzione, sviluppo dei
prodotti, relazioni con l’indotto (gli anni ’80); e la quarta fase ha affrontato
la globalizzazione e la reingegnerizzazione delle catene del valore,
modificando radicalmente la divisione del lavoro nell’industria tra
organizzazioni e aree geografiche(gli anni ’90). La quinta ondata di
riorganizzazione è stata innescata da fusioni e acquisizioni e dal mercato dei
capitali guidato da nuovi modelli imprenditoriali (1997-2002).
Nell’affrontare il presente, l’immagine diventa confusa. Mentre le strategie
di riorganizzazione del periodo precedente proseguono tuttora, portando
risultati attesi ed inattesi, il futuro è più incerto che mai. L’incombenza di
una elevata sovracapacità minaccia gli attori e potrebbe imporre
ridimensionamenti ed esuberi; una serie di nuove tecnologie “rivoluzionarie”
sembrano annunciare un periodo di innovazioni dirompenti, permettendo a
nuovi attori di accedere all’industria a scapito di altri; e la ristrutturazione
della divisione del lavoro tra OEM (Original Equipment Manufacturers:
costruttori di sistemi originali) e fornitori nelle catene del valore
globalizzate continua a velocità costante, portando alterne sorti per i
dipendenti in diverse aziende e paesi.
Questo studio affronta le dinamiche centrali della ristrutturazione e l’impatto
che esse hanno avuto sulla forza lavoro. Si incentra in primo luogo
sull’orientamento dell’industria verso nuovi mercati in crescita,
particolarmente verso la Cina e l’Europa orientale all’inizio del nuovo
decennio, in secondo luogo su una maggiore intensità di innovazione nel
settore e sulle concomitanti modifiche alla base della conoscenza tecnologica
e nelle strutture di fornitura, e, in terzo luogo, su avvicendamenti nella
catena del valore, in particolare nelle relazioni tra produttori automobilistici
e fornitori (indotto). Il secondo capitolo descrive queste tendenze di sviluppo.
Il terzo capitolo riguarda l’impatto della ristrutturazione sui dipendenti
dell’industria automobilistica. L’articolo si conclude con un sommario e con
un capitolo conclusivo.
2 Ristrutturazione &C., riorganizzazione
Per l’industria automobilistica l’inizio del nuovo secolo ha portato grande
turbolenza, squilibri, e una spinta ininterrotta ed apparentemente unificante
verso la ristrutturazione. Questa situazione deriva dalle nuove opportunità
generate dagli sviluppi tecnologici e del mercato, dalle modifiche nel
posizionamento degli attori tra gli stakeholder dell’industria, da nuovi
concetti alla base della divisione del lavoro e dell’organizzazione industriale
–strategie e processi che sono stati avviati ed introdotti negli anni ’90.
1
Sviluppi del Mercato
Gli anni ’90 sono stati gli anni della globalizzazione. I produttori di
motoveicoli hanno svolto un ruolo guida all’interno di questo processo.
Come mostra la Tavola 1, tutte le principali aziende automobilistiche hanno
aumentato, nel giro di pochi anni, l’esportazione all’estero della propria
produzione, con un processo inizialmente rapido che tuttora sta continuando
con lo stesso ritmo. La Toyota, per esempio, ha recentemente annunciato che
avrebbe duplicato nel prossimo decennio la propria capacità produttiva fuori
dal Giappone (“Automotive News”, 8 novembre 2004: 3) così come altri
produttori stanno progettando di espandere all’estero le proprie capacità
produttive.
All’inizio degli anni 2000 e alla vigilia di cambiamenti macropolitici iniziati
con la liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati dei prodotti e dei
capitali, le opportunità di crescita nei mercati emergenti sono identificate in
primo luogo nell’Europa centrale, orientale e con la Cina, considerate sedi
per nuovi impianti di assemblaggio multinazionali. Questa tendenza
prosegue la corsa che aveva caratterizzato il decennio precedente alla
costruzione di impianti in America Latina, in particolare in Brasile. Se le
speranze di un di maggiori opportunità di mercato vengono deluse, restano
almeno i vantaggi della produzione a basso costo. La struttura dei costi sta
diventando una fattore chiave che determina la differenziazione tra vecchie e
nuove localizzazioni.
Tavola 1: Quote di Produzione all’Estero dei Principali Produttori
Automobilistici 2000 e 1993
Produttore
automobilistico
2000
1993
GM
48,1%
37,6%
Ford
48,7%
30,9%
Toyota/Daihatsu
30,2%
20,0%
VW
60,7%
53,3%
Fiat
40,0%
30,3%
Nissan
49,1%
35,8%
Renault
41,8%
15,6%
Honda
51,3%
37,1%
Fonte: Toyota Motor Company (2002): Profilo aziendale; Automotive News
Market Data Book 1994; Servizio Stampa VDA 31.1.1995; Toyota Motor
Corporation, The Automobile Industry 1994.
Negli anni ’90 l’industria automobilistica ha diretto gran parte dei propri
investimenti verso paesi con retribuzioni elevate, in particolare verso gli
Stati Uniti. Nella prima decade del 21° secolo invece l’attenzione si
concentra sulla Cina e sull’Europa centrale ed orientale (MOE), definite aree
a bassa retribuzione. In vista dell’allargamento dell’Unione Europea, i paesi
della MOE hanno offerto una combinazione unica di condizioni di
produzione a basso costo e mercati altamente redditizi per l’industria
automobilistica.
Il nuovo decennio è caratterizzato dunque dall’interesse verso la Cina e
l’Europa orientale. Il dinamismo dello sviluppo cinese è infinitamente
maggiore del boom latino-americano degli anni ’90. Con gli occhi puntati
sulle prospettive di crescita del mercato cinese, considerate immense a breve
e lungo termine (le tendenze di bolla di sapone gettano dubbi sul medio
termine), tutti i maggiori produttori automobilistici e fornitori di
componentistica, hanno iniziato a sviluppare progetti di joint venture per
costruire impianti ed espandere le proprie capacità produttive.
Si prevede che in Cina la capacità produttiva passi da 2,6 milioni nel 2003 a
6,4 milioni nel 2007; infatti solo per quanto riguarda la capacità di utilizzo
delle vetture passeggeri prodotte da aziende transnazionali è prevista una
crescita della domanda da 1,8 a 3,1 milioni (Federazione Internazionale dei
Metalmeccanici 2004: 38). Dal 1999 la capacità di utilizzo degli impianti
automobilistici brasiliani è stata circa del 50% (Nazioni Unite 2004: 123). In
23 province e città sono attualmente in costruzione nuove fabbriche
automobilistiche (Sieren 2003). “Guardare avanti”, afferma il Rapporto
sullo Sviluppo industriale in Cina, su Auto Industry in China 2003 si legge,
“le opportunità sono enormi per l’industria automobilistica. Nei prossimi
10–15 anni, la Cina diventerà il più grande mercato automobilistico del
mondo … In quel momento, la produzione annua potrebbe raggiungere i 17
milioni di unità e le auto immatricolate potrebbero essere 100 milioni di
unità” (Ministero della Scienza e della Tecnologia 2002). E’ chiaro che in
questa fase i dati possano essere considerati “gonfiati”
In vista della crescita economica cinese, lo sviluppo dell’industria
automobilistica era tarato sul mercato interno. Sono previsti tuttavia dei
cambiamenti. La Volkswagen (VW) si aspetta che, entro i prossimi tre anni,
il 10% della propria produzione in Cina possa essere esportata, e che le
esportazioni acquistino in futuro un ruolo sempre più importante.
Fondamentale risulterà l’esportazione della componentistica. General
Motors intende acquistare annualmente dalla Cina una quantità di
componenti pari ad un valore di10 miliardi di US$, mentre GM e Ford
stanno spingendo i propri fornitori ad aprire fabbriche in Cina. Le aziende
statunitensi intendono infatti approfittare dei bassi costi di produzione che
caratterizzano l’industria cinese . Effettivamente, l’esportazione di
componenti per automobili dalla Cina sta crescendo rapidamente. Nel 2003
il valore delle esportazioni di componentistica era pari a 2,4 miliardi di US$,
rispetto all’1,8 miliardi del 2002. Questo importo può apparire basso, se
viene confrontato con gli obiettivi di esportazione definiti dal Governo per il
2010, che dovrebbero raggiungere i 70- 100 miliardi di US$.
Il raggiungimento di questi numeri è condizionato dalla necessità
dell’industria componentistica cinese di migliorare sia il livello qualitativo
che i costi della propria produzione. Attualmente è difficile considerare
questa industria competitiva a livello globale. “La maggior parte delle circa
1500 imprese di componentistica del paese che producono ad un livello
accettabile ha libri paga gonfiati, equipaggiamento produttivo obsoleto o
poca esperienza nella produzione di massa di parti, a fronte dei rapidi
cambiamenti di design a cui sono abituati i produttori automobilistici
statunitensi ” afferma uno dei Big Three degli acquirenti, citato in un
articolo del “Wall Street Journal Europe” (Shirozu 2003). Un rapporto del
Boston Consulting Group colloca gli svantaggi derivanti da queste
inefficienze nei settori dell’indotto tra il 10 ed il 20%, per quanto riguarda
grandi joint ventures affermate, e fino al 40% per le aziende
automobilistiche minori . (The Boston Consulting Group 2002).
Una maggiore competitività sui mercati internazionali è uno dei principali
obiettivi della nuova Politica di Sviluppo dell’Industria Automobilistica
formalmente annunciata dal governo cinese nel 2004. Viene riaffermato
l’obiettivo di trasformare l’industria automobilistica in un’“industria
portante” per la nazione entro il 2010 e, come tale, rimarrà nell’ambito del
macro-livello di controllo da parte del governo centrale. Il programma
governativo prevede inoltre che l’industria automobilistica debba svilupparsi
per diventare competitiva, sia a livello nazionale che internazionale ed
eliminare inefficienza e bassa qualità (Auto Industry 2004).
La Cina offre considerevoli vantaggi dal punto di vista delle retribuzioni.
Nella Tav. 2 vengono indicati i dati sul costo del lavoro, che può essere
considerato l’aspetto principale dell’attuale supremazia cinese.
Tavola 2: Retribuzioni mensili di categorie professionali selezionate (
espresso in dollari USA), in India, Cina, Taiwan e Giappone
India
Cina
Singapore
Taiwan
Giappone
USA
D i r e t t o r e 1,764
Generale
2,865
11,131
13,638
18,300
31,200
D i r e t t o r e 937
Produzione
1,866
6,740
6.986
12,045
11,592
D i r e t t o r e 724
Impianto
1,399
4,639
6,036
7,992
8,052
I n g e g n e r e 490
Sistemista
746
2,290
2,573
4,663
5,460
Supervisore 384
Produzione
589
1,847
2,253
3,485
3,917
Segretaria/o
176
393
1,326
1,415
1,720
2,208
Autista
147
279
975
1,520
1,217
2,442
Il secondo ambito geografico di investimento che caratterizzerà il nuovo
decennio, è l’Europa dell’Est. Questa regione offre un’interessante
combinazione di aspetti positivi: un mercato europeo integrato e vantaggi in
termini retributivi.
Gli investimenti si concentrano attualmente, nella Repubblica Slovacca e
nelle regioni adiacenti nella Repubblica Ceca, in Polonia, in Ungheria, dove
la prossimità degli agglomerati automobilistici austriaci offre anche vantaggi
logistici. Un ruolo importante viene svolto dal fornitore austriaco-canadese
Magna Steyr, che offre non solo servizi ingegneristici, ma anche
l’assemblaggio completo di veicoli nel premium segment. La costituzione di
un centro di sviluppo Magna Steyr presso il sito produttivo di Audi a Györ
(Ungheria), conferma questo processo. Nonostante il trasferimento di
capacità produttive nell’Europa orientale, fin dall’inizio degli anni ’90 abbia
inteso principalmente trarre vantaggio dalle opportunità di mercato che si
sviluppavano nella regione (Richet/Bourassa 2000), di fatto buona parte
della produzione era destinata ai mercati occidentali, dato che, la
maggioranza dei mercati dell’Europa orientale continuano ad essere ancora
serviti da vetture usate provenienti dall’Europa occidentale.
La percentuale di auto tedesche prodotte all’estero ed immatricolate in
Germania è pari ad un quinto, ed è notevolmente aumentata negli ultimi
anni. (“Automobilwoche” 19, 13 settembre 2004). Nel 2003, la quota totale
di vetture per passeggeri prodotte in Polonia, nella Repubblica Ceca, nella
Repubblica Slovacca e in Slovenia (ndt: nel testo originale viene ripetuto
“Slovakia”), rappresentava il 18% di tutti i veicoli tedeschi prodotti
all’estero (VDA 2004: Tatsachen und Zahlen: 55). Il precursore è stato il
Gruppo Volkswagen, che tra il 1991 ed il 2001 ha integrato la Skoda ceca
ed ha aumentato lo sviluppo della produzione nella Repubblica Slovacca
(Podevins 2004). La sussidiaria della Volkswagen, Audi, produce sia i
motori che la vettura sportiva TT nella sede di Györ in Ungheria. Altri
produttori di veicoli a motore che avevano già costruito impianti in paesi
della MOE negli anni ’90, sono Fiat in Polonia, GN/Opel in Polonia e
Ungheria e Suzuki in Ungheria. Nel 2003, l’assicuratore crediti francese
Euler-Sfac, dopo la fine dei regimi comunisti, ha investito in Polonia,
Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca nel settore dei motoveicoli, per un
importo complessivo pari a 20 miliardi di US$.
All’inizio del nuovo decennio, la capacità produttiva è di nuovo fortemente
aumentata con la prospettiva dell’allargamento dell’UE. Il produttore
sud-coreano Kia, ha deciso di spendere 700 milioni di euro entro il 2005, in
uno stabilimento a Zilina (Repubblica Slovacca), con una capacità
produttiva pari a 200.000 veicoli. Un altro importante investimento è la joint
venture tra Toyota e PSA a Kolin (Repubblica Ceca), che ammonta a 1,5
milioni di euro entro il 2005. Inoltre, Opel e Fiat stanno investendo somme
considerevoli in Polonia, Suzuki in Ungheria, aumentando le capacità
esistenti. Nel 2006 i nuovi stati membri dell’UE, Polonia, Slovacchia,
Ungheria, Slovenia e la Repubblica Ceca, avranno 13 stabilimenti di
assemblaggio, 10 fabbriche powertrain e centinaia di impianti dell’indotto.
Sono inoltre previsti siti produttivi per Honda e MG Rover. Questo
investimento arriverà quasi a raddoppiare la produzione totale dei quattro
nuovi paesi membri Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e
Ungheria tra il 2004 ed il 2006 (Podevins 2004; Dudenhöffer 2004). La
tendenza a ricorrere all’outsourcing riguarda anche aree geografiche diverse
dai nuovi paesi UE. Nel 1999, Renault ha preso in carico il produttore
automobilistico rumeno Dacia, e, da settembre 2004, produce una vettura,
tecnicamente analoga a quelle costruite in Francia, che, seppure pensata per
il mercato dell’est e venduta a 5000 euro, certamente troverà acquirenti
anche in Europa occidentale. La retribuzione mensile degli operai è di 150
euro, ed è la metà delle retribuzioni dell’Europa centrale. I futuri mercati per
questa vettura sono l’Europa centrale ed orientale e la Turchia, i paesi del
Maghreb e l’Europa occidentale (“Automobilwoche”, 27 settembre 2004: 5).
L’industria dell’indotto è particolarmente attratta dal basso costo del lavoro
nei Paesi MOE, poiché, raggiungendo in media il 25% dei costi totali, in
questo settore superano il 15% del costo medio del lavoro nell’assemblaggio
finale (Dudenhöffer 2004: 3). Dato che l’indotto che ha sede in Europa
centrale raggiunge proprio l’assemblaggio finale, questo settore, come
suggeriscono le analisi, potrà registrare tassi crescita simili o superiori a
quelli dell’industria automobilistica nel suo complesso. Negli ultimi anni,
somme considerevoli sono state investite dai principali fornitori; il fornitore
statunitense Delphi ad esempio, soltanto in Polonia impiega attualmente
5000 persone. Qui gli investimenti totali ammontano a 250 milioni di US$.
Le piccole e medie imprese dell’indotto, spesso sono sottoposte a pressioni
particolari, dato che la loro struttura finanziaria le obbliga a generare
direttamente dai profitti il capitale necessario per espandere la competenza
tecnologica e la crescita.. Considerata la forte pressione sui costi da parte
dei produttori finali, rilocalizzare in Europa centrale e orientale, spesso
rappresenta l’unica soluzione.
Come mostra la tavola 3, sono enormi in Europa le differenze nelle
retribuzioni e nel costo del lavoro nel suo complesso. Considerato 100 il
livello di retribuzione tedesco, negli stessi paesi dell’Europa occidentale, i
valori arrivano al 50% del livello tedesco; e nei paesi dell’Europa orientale
variano dal 20% in Ungheria, fino al 13% nella Repubblica Slovacca, al 6%
in Romania e al 4% in Russia. I dati nella tavola 3 si basano sugli importi
retributivi annui e sul costo del lavoro pro-capite nell’industria
automobilistica; sono inclusi anche gli stipendi degli impiegati che in
proporzione spesso sono più alti, la 13° mensilità, ed altri pagamenti, che,
come spesso avviene, non vengono presi in considerazione quando si
mettono a confronto le paghe orarie.
Tavola 3: Scala delle retribuzioni annue (Germania=100) e costo del
lavoro per persona impiegata nelle industrie automobilistiche europee
2003
Stipendi e salari
Costo totale del lavoro
Germania
100,0
100,0
Regno Unito
75,9
69,9
Francia
70,2
78,3
Svezia
66,4
77,7
Spagna
55,6
59,6
Italia
49,5
57,4
Ungheria
20,3
22,0
Polonia
18,1
17,8
Repubblica Ceca
16,4
17,9
Slovenia
11,8
-
Slovacchia
12,9
13,9
Romania
5,6
6,2
Russia
4,0
-
Fonte: VDA: International Auto Statistics, edizione 2004, p.350f.; 361f., propri
calcoli. Il dato medio pro capite per stipendi e salari in Germania era di 45.700
euro; per il costo totale del lavoro 57.200 euro
La tavola 4 mostra la situazione dei fornitori tedeschi ed i loro progetti per
la realizzazione di nuovi stabilimenti o l’espansione della propria produzione
e lo sviluppo delle capacità produttive in aree geografiche diverse: dalla
tavola si evince come all’inizio del decennio anche l’Europa orientale avesse
un ruolo simile a quello della Germania (est e ovest), per quanto riguarda la
pianificazione di nuove capacità produttive oltre al fatto che le prospettive di
investimenti a medio termine nella regione erano già superiori a quelle
tedesche. La stessa cosa vale a medio termine, per la realizzazione di
capacità produttive in Asia. La tavola 4 mostra l’aumento dell’importanza –
molto minore – di queste zone di collocazione per finalità di sviluppo.
Tavola 4: Programmi di espansione di produzione e capacità di sviluppo
in nuove aree geografiche, a breve e medio termine dei fornitori tedeschi
Breve termine
Medio termine
2001-2006
2006-2011
%
Produzione
%
Sviluppo
%
Produzione
%
Sviluppo
RFT – vecchi stati
federali
15,8
27,1
9,6
29,0
RFT – nuovi stati
federali
7,3
7,5
5,1
6,5
Europa
10,3
9,8
8,8
11,2
Europa orientale
21,8
8,3
20,6
9,3
Russia
1,2
0,0
6,6
1,9
Nord America
14,5
14,3
10,3
10,3
Sud America
5,5
3,0
8,1
2,8
Asia
13,9
8,3
18,4
10,3
Altri
0,6
0,0
1,5
0,0
Non pianificato
9,1
21,8
11,0
18,7
Fonte: Dudenhöffer et
Deutschland, p. 17-18
al
2002:
Gemeinschaftsstudie
Automobilstandort
Come abbiamo visto, la combinazione tra basse retribuzioni ed integrazione
europea nella MOE, produce una configurazione particolare, che, con lo
sviluppo dell’industria automobilistica, può indebolire la situazione
precedente, di tutto guadagno, nelle relazioni tra paesi industrializzati e paesi
di transizione/sviluppo, attraverso la rapida ricollocazione di risorse a valore
aggiunto e posti di lavoro, a detrimento dei paesi industrializzati. Di contro, i
produttori automobilistici tedeschi, sviluppano capacità produttive in Cina,
in primo luogo per espandersi sul mercato cinese. I coreani ed i giapponesi,
in quell’area hanno una combinazione simile tra vantaggi in termini di costo
del lavoro e ingresso sul mercato – anche se manca la prospettiva europea di
integrazione politica ed economica. In vista delle differenze del costo del
lavoro, che rispetto alla Cina variano da un decimo ad un tredicesimo
dell’ammontare domestico, le aziende giapponesi e coreane hanno incentivi
considerevoli per l’outsourcing delle attività.
2
Innovazione
La tecnologia di innovazione del prodotto apre un’altra area di nuova
crescita e di cambiamento radicale nell’organizzazione industriale. La
regolamentazione nazionale e sopranazionale, è un’importante forza motrice
in questo campo. E lo sviluppo di nuovi sistemi propulsori, nuovi materiali,
parti elettriche ed elettroniche, e risultanti nuove funzionalità e
caratteristiche dei prodotti che facilitano la vendita, per quanto riguarda i
motoveicoli, offrono opportunità di crescita basate sulla conoscenza, che
generano richieste di nuove competenze e opportunità per l’ingresso di nuovi
attori nel settore.
Alla fine degli anni ‘90 ed all’inizio del 2000 e dopo il recesso della prima
ondata di globalizzazione, si è verificato un marcato aumento delle attività di
innovazione, in particolare in Europa ed in Giappone. In vista di un’intera
gamma di nuove tecnologie di cui era annunciata la messa in opera nella
prima decade del nuovo secolo, un rapporto McKinsey affermava:
“L’industria automobilistica affronta … una rivoluzione dell’innovazione
…” (McKinsey/VDA 2003: 69).
La metafora della rivoluzione era stata usata solo un decennio prima, con
riferimento a cambiamenti radicali nell’industria automobilistica. In quel
periodo si trattava dell’introduzione della “produzione agile”, incentrata in
primo luogo su nuovi concetti organizzativi – fornitura just-in-time, lavoro
di gruppo, miglioramento continuo, ecc. L’innovazione del decennio
successivo, è più fortemente determinata da sviluppi nella tecnologia di
prodotto e nuovi sistemi propulsori. Per quanto riguarda la gamma di nuove
tecnologie anticipate, un altro studio vede l’industria automobilistica come
“settore battistrada del futuro” e prevede che: “… sovracapacità,
diminuzione delle vendite, mancato rientro … presto apparterranno al
passato. Dopo i decenni della tecnologia informatica e della tecnologia della
comunicazione,
sta
iniziando
il
decennio
dell’automobile.”
(Hypovereinsbank/Mercer 2001: 2). Come mostra la tavola 5, modifiche
nella tecnologia di prodotto stanno spostando il baricentro nell’ambito delle
tecnologie di base nella produzione automobilistica, con conseguenze per le
competenze organizzative e per le aree operative di diverse aziende
specializzate. Mentre l’importanza delle tecnologie meccaniche ed idrauliche
è drasticamente diminuita, il contributo della pneumatica ed in particolare
dell’elettronica, stanno fortemente aumentando.
Tavola 5: Spostamento dell’importanza di tecnologie chiave dell’auto
2000
2010
Tecnologie meccaniche
61,0%
51,5%
Tecnologie idrauliche
14,0%
7,5%
Pneumatica
3,0%
4,0%
Elettronica
22,0%
37,0%
Fonte: Hypovereinsbank/Mercer 2001
La figura 1 mostra il percorso dell’innovazione per veicoli classe compact in
Europa. L’evidenziazione mostra tecnologie che contribuiscono in modo
particolarmente forte a modificare l’architettura del valore aggiunto. Come
regola, comportano tecnologie di produzione e competenze completamente
nuove, e, in certe situazioni, permettono a nuove aziende di prendere piede
nel settore.
Il percorso dell’innovazione si divide in quattro segmenti: interni,
powertrain, carrozzeria, scocca. Tutti questi segmenti, sottolineano gli
autori, sono fortemente influenzati da sviluppi nella parte
elettrica/elettronica.
Figura 1: Il Percorso dell’innovazione per veicoli classe compact in
Europa
Fonte: McKinsey & Company (2003): p. 20
Nel confrontare questi mercati regionali, si presuppone che molte
innovazioni siano introdotte in Nord America con un ritardo di tre/cinque
anni rispetto all’Europa (McKinsey/VDA 2003: 20ff.). La differenza di
fondo tra percorsi di innovazione europei e giapponesi, è l’introduzione della
propulsione elettro-ibrida, che in Giappone è avvenuta all’inizio del periodo
in questione, ma che lo studio (datato 2003!) non prevede per l’Europa fino
al 2011.
Tuttavia, una maggiore intensità innovativa, accompagnata dalla domanda
di maggiore sicurezza e comfort da parte degli utenti, produce un dilemma:
“Gli utenti vogliono macchine migliori ma non vogliono pagarle di più. Per i
produttori di veicoli, i costi che ne risultano e la pressione ad innovare,
premono sulla produttività. L’industria automobilistica affronta quindi una
rivoluzione nell’innovazione con conseguenze profonde sulla catena del
valore” (ibidem: 69).
Secondo gli autori dello studio, le possibilità offerte dall’elettronica per
controllare e caratterizzare il comportamento delle vetture, determinano
anche la natura delle innovazioni di prodotto in atto. “Le innovazioni dei
prossimi anni, differiscono fondamentalmente da quelle degli anni passati. I
moduli e processi esistenti, fino ad ora sono stati costantemente quasi solo
ottimizzati – mentre le innovazioni future rivoluzioneranno interi sistemi.
Porteranno alla sparizione di molte componenti meccaniche, … il loro
sviluppo richiede competenze completamente diverse … I ricercatori che
lavorano sull’interfaccia tra elettronica e meccanica di precisione, dovranno
essere esperti del nuovo settore della meccanotronica ... Per loro sarà
necessario avere conoscenze di programmazione complessive, per poter
scrivere software di controllo personalizzati del veicolo” (ibidem: 42f.).
Il boom dell’innovazione nell’industria automobilistica solleva interessanti
domande rispetto alle teorie del ciclo di prodotto e sulla classificazione del
settore auto come industria matura, dalla quale al più ci si possono aspettare
innovazioni di incremento, ma non innovazioni di radicale avanzamento –
almeno non per quanto riguarda gli attori affermati. È giusta questa
immagine di “old economy” dell’industria automobilistica? Le nuove
tecnologie saranno una fonte di “ringiovanimento”, premettendo a questo
settore di entrare in una fase nuova, “fluida” di maggiore intensità
innovativa?
Il fattore “regolamentazione” gioca un ruolo chiave nel determinare la
direzione e l’intensità nell’innovazione dei sistemi propulsori. Nei paesi della
triade, la regolamentazione è stata anche messa in campo in larga misura per
proteggere le industrie domestiche, ed ha avuto una rilevante influenza
sull’intensità e sulla tempistica dei processi innovativi. Ha anche contribuito
notevolmente ad aumentare il valore aggiunto per veicolo. Questo causa un
aumento dei prezzi di costo, che influenzano la situazione competitiva. Dal
punto di vista dell’occupazione, si tratta di un difficile atto di bilanciamento.
D’altro canto, la regolamentazione crea e garantisce area di attività ad altra
professionalità, per quanto riguarda ricerca e sviluppo e produzione, mentre
si rischia che l’aumento dei prezzi faccia diminuire la domanda. È rischioso
per il produttore andare avanti con lo sviluppo di tecnologia, anticipando la
regolamentazione, solo per poi scoprire che le funzionalità create non
vengono accettate, o che il mercato non mostra interesse o apprezzamento
per la loro utilità. In un contesto di lobbying, i produttori europei hanno
attribuito ai costi aggiuntivi dovuti alla regolamentazione, più di 5.000 euro.
3
Relazioni dei fornitori
Le spinte verso una reingegnerizzazione delle catene del valore e
frammentazione, specializzazione, consolidamento delle strutture e dei
modelli di business degli attori ad essa collegati, continuano ad essere un
processo dinamico di cambiamento, con molti tentativi e fallimenti e ripetute
riorganizzazioni (cfr. Jürgens 2004).
La necessità di chiudere il gap competitivo con i giapponesi, mettendo sul
mercato una gamma sempre più ampia di modelli, ad intervalli sempre più
brevi, stabilendo siti produttivi all’estero sull’onda della globalizzazione, ed
il farlo con risorse di capitali ristrette – un fattore che diventa sempre più
pesante a partire dagli anni ’90 – ha prodotto un cambiamento dinamico
nelle strutture industriali, un cambiamento che continua a dispiegarsi con
grande dinamismo nel nuovo decennio. Questo cambiamento è caratterizzato
anche da concentrazione societaria e frammentazione. Una prova lampante
della prima tendenza, è la caduta del numero di produttori automobilistici
indipendenti.
Anche tra le imprese dell’indotto, pochi attori sono stati in grado di venire a
capo della grande quantità di nuove richieste – di sviluppo e competenza
produttiva, mobilizzazione di capitali, competenza come fornitori di sistemi
e moduli. Entro un decennio, il settore della componentistica si è
trasformato, attraverso fusioni ed acquisizioni, in un terreno di conquista per
le imprese fornitrici multinazionali. Si sono costituiti megafornitori, che
operano su una base paritetica rispetto ai maggiori produttori, per quanto
riguarda consistenza finanziaria, forza lavoro, multinazionalità. La tavola 6
mostra la crescita dei primi cento a livello globale, nei soli quattro anni dal
1998 al 2002. I primi 25 sono posizionati meglio degli altri, con un turnover
medio tre volte più alto rispetto a quello del gruppo successivo. Tuttavia, le
25 piccole imprese tra le prime cento a livello globale, registrano i più alti
gradi di cambiamento, aspetto difficile da conciliare con la tesi
semplificatoria delle economie di scala e scopo.
Tavola 6: I primi cento fornitori a livello globale nel 2002 e 1998 per
turnover (in milioni di US$)
2002
1998
Quota
2002
Modifica
%
(1998) %
Turnover totale
367,
1
284,
3
100 (100)
29
1° quartile:
234,
0
178,
7
64 (63)
31
66,3
54,9
18 (19)
21
42,1
33,6
11 (12)
25
25,6
17,1
7 (6)
50
(da Delphi a Bridgestone)
2° quartile:
(da American
Automotive)
Axle
a
TI
3° quartile:
(da
Stanley
Flex-N-Gate)
Electric
4° quartile:
a
(da Webasto a F-Tech)
Fonte: “Automotive News Data Center”, Quotazioni dei principali fornitori,
http://www.autonews.com/datacenter.cms
La principale forza motrice alla base di questo processo, è l’outsourcing
degli OEM al fine di ridurre l’integrazione verticale nello sviluppo del
prodotto e nella produzione. Esperti finanziari prevedono che questa
tendenza continui, con il risultato che la quota dell’indotto nel valore
complessivo di un’automobile, aumenterà dal 60% al 70% entro il 2010. Un
aumento del 33% nel 2002 fino al 51% nel 2010, è atteso per la quota
dell’indotto nello sviluppo di nuovi prodotti (VDA 2000: 52).
L’outsourcing della produzione verso i fornitori avviene in parallelo con una
politica degli OEM tesa a ridurre il numero di fornitori diretti, stabilendo un
ordine nella filiera della fornitura. All’inizio degli anni ’90, questa tendenza
seguiva il modello giapponese di una “piramide”, con l’OEM al vertice,
seguito da un primo livello di fornitori, a loro volta serviti da un secondo
livello di fornitori, anch’essi a loro volta serviti da un terzo livello di
fornitori e così via fino alla base, che è costituita dai fornitori di materie
prime. Una simile piramide, riduce la complessità delle catene dell’indotto
per gli OEM. Nel frattempo essi hanno drasticamente ridotto il numero di
fornitori diretti, e si sta sviluppando una struttura multi-livello, con un
numero ridotto di aziende di primo livello, che forniscono direttamente gli
OEM. Queste aziende di primo livello sono servite da aziende di livelli
inferiori che non hanno più relazioni dirette con gli OEM. Andrebbe
aggiunto, che la tendenza verso la costituzione di una nuova gerarchia, è
visibile anche tra fornitori di equipaggiamento di processo, servizi
ingegneristici, ecc..
La modularizzazione determina una particolare tendenza alla strutturazione
a livelli del settore dell’indotto – non conosciuta in questa forma in
Giappone. Definire moduli in modo adeguato alle numerose e diversificate
richieste dell’industria (p.es. per quanto riguarda sviluppo, produzione,
logistica, ecc.), si è rivelato un processo difficile, che ha richiesto enormi
acquisizioni ingegneristiche da parte degli OEM ed ingenti sforzi per
acquisire le necessarie competenze da parte dei fornitori intenzionati a fare
affari. All’inizio degli anni ’90, la modularizzazione era in primo luogo un
progetto europeo, anche se oggi non è più così. La maggiore concentrazione
quantitativa di fornitori di moduli (e sistemi), è comunque ancora europea, e
quindi è lì che il cambiamento strutturale nell’industria della
componentistica per automobili è stato più significativo.
La tendenza verso una produzione a moduli e sistemi, favorisce fortemente
lo sviluppo di “megafornitori”. Gli esperti finanziari tedeschi Roland Berger
& Partner, affermano che il consolidamento in questo settore industriale, nel
2000 aveva già prodotto un oligopolio di sette – otto principali fornitori di
moduli e sistemi. Prevedono che questo quadro si riduca a cinque o sei entro
il 2005, ed a tre entro il 2010. Allo stesso tempo, il numero di moduli e
sistemi per vettura si è ridotto attraverso l’ulteriore integrazione di parti e
funzioni in moduli e sistemi più grandi. Mentre nel 2000 una vettura
conteneva da 18 a 20 moduli, Roland Berger prevede che entro il 2005si
riducano a 14 e 16, ed a circa 10 entro il 2010 (Roland Berger & Partner
GmbH 2000).
L’aspetto più eclatante dello sviluppo rispetto ad un modello piramidale, è
dunque la tendenza a ridurre il numero degli attori sia a livello degli OEM
che tra i fornitori di primo livello di moduli e sistemi. I cambiamenti
descritti, hanno trasformato il ruolo degli OEM e stabilito nuovi aspetti e
modalità di specializzazione tra gli attori nella catena del valore stessa.
Mentre l’integrazione verticale, nel tipico produttore automobilistico
nordamericano o europeo alla metà degli anni ’80 era ancora al 50 – 60%, e
produzione, ricerca e sviluppo e assemblaggio finale, erano considerati
competenze centrali, nel 1995 l’integrazione verticale era già scesa fino al 30
– 40%. I produttori di motoveicoli avevano già accettato il nuovo ruolo di
produttori automobilistici con competenze centrali per quanto riguarda il
design, lo sviluppo della tecnologia fondamentale e l’assemblaggio finale. In
futuro, i produttori automobilistici saranno integratori del marchio, con
meno del 20% di integrazione verticale e competenze centrali concentrate su
design, marketing e vendite.
Questo sviluppo avviene in parallelo con la frammentazione della catena del
valore determinata da aziende che acquisiscono funzioni specifiche. Mentre
gli OEM dominavano direttamente o indirettamente l’intera “piramide”,
dagli elementi e dalle tecnologie di base fino ai componenti, dai sistemi e
moduli fino all’integrazione definitiva ed all’assemblaggio, riservandosi
fondamentalmente il diritto di scegliere quali elementi dell’intero spettro di
attività dovevano essere prodotti internamente o messi sul mercato, cinque
gruppi specializzati formano ora:
-
specialisti della tecnologia che si focalizzano su parti e tecnologie
specifiche, specialisti per moduli e sistemi come il cofano, la cabina
di guida, ecc.;
-
specialisti dei servizi di sviluppo, aziende ingegneristiche per lo
sviluppo di veicoli e componenti di veicoli;
-
esperti di assemblaggio, che assemblano vetture per conto delle
aziende che detengono il marchio;
-
integratori del marchio, che limitano la propria competenza centrale
allo sviluppo concettuale, al design delle vetture ed a marketing e
vendite.
La figura 2 mostra le quote dei vari tipi di prodotti dell’indotto e degli OEM
nella catena del valore complessiva nel 1999 e la redistribuzione prevista tra
i diversi specialisti.
Figura 2: Modiche dell’incidenza attraverso catene del valore
segmentate
La tendenza verso la reingegnerizzazione di strutture a valore aggiunto
iniziata negli anni ’90, sembrava aver preso slancio. Secondo un recente
studio di Mercer Management Consulting in collaborazione con l’istituto
Fraunhofer (Future Automotive Industry Structure 2015 – “FAST 2015”),
l’incidenza del valore aggiunto dei produttori automobilistici a livello
mondiale, diminuirà dal 35,3% nel 2002 al 22,5% nel 2015 e la quota
dell’indotto del settore automobilistico aumenterà fino al 77%. Questo
studio, che esamineremo più in dettaglio, anticipa una crescita dinamica
nell’industria automobilistica globale a livello mondiale, per il periodo 2002
– 2015. Come mostra la tavola 8, è atteso un ulteriore aumento del volume
produttivo da 57 a 76 milioni di veicoli, portando una crescita totale del
valore aggiunto da 645 miliardi di euro a 903 miliari di euro. Tuttavia, i
produttori ed i fornitori parteciperanno a questa crescita complessiva, con
quote largamente differenziate. La quota dei produttori diminuirà in termini
sia assoluti che relativi, da 228 miliardi di euro a 203 miliardi di euro,
accompagnata, come previsto dallo studio, da una caduta del numero di
produttori automobilistici da 12 a 9. I fornitori saranno i beneficiari di
questo sviluppo. La loro quota aumenterà da 417 miliardi di euro a 700
miliardi di euro, accompagnata anche da un consolidamento nel numero di
fornitori, del quale si prevede una riduzione da 5500 a 2800 (Mercer
Management Consulting/Fraunhofer Gesellschaft 2003).
Tavola 7: Previsione di sviluppo del valore aggiunto nell’industria
automobilistica a livello mondiale* 2002- 2015 (FAST 2015)
2002 29915
Produzione di veicoli (milioni di unità)
57
76
Valore aggiunto OEM (miliardi di euro)
228
203
Valore aggiunto Indotto
417
700
645
903
% Modifica
(miliardi di euro)
Valore aggiunto Totale
(miliardi di euro)
*Automobile development/production, light vehicles
Fonte: Mercer Management Consulting, Fraunhofer Gesellschaft 2003
Secondo lo studio FAST, basato su indagini complessive dei più importanti
decision makers di produttori automobilistici, fornitori e aziende di servizi
ingegneristici in Germania, l’aumento enorme del volume totale di valore
aggiunto, riguarda i differenti segmenti dei veicoli in gradi profondamente
diversi. La tavola 8 mostra la previsione per le quote dei principali moduli
del veicolo.
Tavola 8: Valore Aggiunto per Principali Moduli del Veicolo 2002 –
2015 (FAST 2015 – Previsione)
2002
2015
Modifica
Carrozzeria
102
107
4,9%
Powertrain
54
90
66,7%
Motore e aggregati
115
135
17,4%
Struttura della scocca
50
50
0%
Scocca (esterno)
70
71
1,4%
Interno
128
133
3,9%
Elettrica/elettronica
127
316
148,8%
Fonte: Mercer Management Consulting/Fraunhofer Gesellschaft (2003): Future
Automotive Industry Structure 2015
I cambiamenti nella distribuzione del valore aggiunto tra i moduli principali,
riflettono in primo luogo l’influenza delle innovazioni descritte, specialmente
l’aumentata importanza dell’elettronica nella produzione di automobili.
Questo ha chiaramente portato a profonde modifiche nelle filiere
dell’indotto, offrendo a nuovi attori con competenze nell’elettronica, di
accedere al settore e, facendo ristagnare opportunità di business in altri
segmenti industriali. Non solo il segmento powertrain, ma anche quello della
parte elettrica/elettronica, che aveva già contribuito per la maggior parte al
volume di valore aggiunto nel 2002, si è rivelato un fattore importante di
crescita.
Si prevede che gli spostamenti nelle quote di valore aggiunto tra moduli di
veicoli e segmenti di tecnologia, saranno accompagnati da spostamenti
altrettanto forti per quanto riguarda la quota di valore aggiunto nell’industria
automobilistica tra le regioni del mondo. Lo studio FAST percepisce il
futuro andamento positivo, misurabile in base ai tassi di crescita in Cina e in
India, ed alla crescita del volume di valore aggiunto in Europa. I paesi del
NAFTA e il Giappone invece, probabilmente vedranno solo un moderato
aumento del volume di valore aggiunto.
Tavola 9: Quota delle regioni del mondo nel valore aggiunto
dell’industria automobilistica 2002 e 2015
Regione
2002
2015
Modifica
Europa
192,1
318,1
65,6
NAFTA
227,1
266,6
17,4
Sud America
80,9
29,5
-51,2
Giappone
115,4
127,6
10,6
Corea del Sud
25,9
30,9
19,3
Cina
12,1
43,5
259,5
India
2,5
10,7
328,0
ROW
39,5
66,1
67,3
Fonte: Mercer Management Consulting, Fraunhofer-Gesellschaft 2003
In breve, gli spostamenti delle quote regionali di produzione, e quindi di
occupazione, sono accompagnate da un altrettanto drastico spostamento di
incidenza all’interno delle strutture degli attori delle catene del valore. Gli
spostamenti nelle relazioni tra gli OEM ed i fornitori automobilistici nei
differenti livelli, si sovrappongono a spostamenti tra fornitori di differenti
moduli del veicolo e segmenti di tecnologia.
3 Le conseguenze per i dipendenti dell’industria
automobilistica
Ristrutturazione e riorganizzazione hanno chiaramente conseguenze di
ampia portata per i dipendenti dell’industria. Non esistono ad oggi studi
complessivi sul tema. Quindi ci limiteremo a delineare alcune tendenze. Ci
concentriamo quindi su aspetti quantitativi della ristrutturazione. Non
affrontiamo le nuove necessità di qualificazione e riorganizzazione delle
strutture della forza lavoro.
La tavola 10 mostra la struttura occupazionale dell’industria automobilistica
mondiale, ordinata per dimensione della forza lavoro per ciascun paese nel
2003. Il confronto tra il 1993 ed il 2003, mostra una leggera riduzione
dell’occupazione in alcuni dei paesi della triade. Nel caso del Giappone, la
recessione ha un impatto evidente. L’occupazione è scesa anche nei paesi di
transizione, anche se recentemente ha ripreso a crescere spiccatamente in
verso i livelli precedenti, mentre Ungheria e Repubblica Slovacca, già
denotano vigorosi tassi di aumento. Tassi di crescita particolarmente forti, si
registrano da parte dei paesi di nuova industrializzazione (NIC), Turchia e
Sud Africa.
Tavola 10: Occupazione nell’industria automobilistica mondiale per
Paese, 2003 (>10,000 dipendenti) 2003, 1993
2003*
1993
Differenza
1993-2003 in %
Cina*
1,850
1,894
-2,3
U.S.A.
1,126
1,14
-1,2
Germania
870
731
19,0
Giappone
721
800
-9,9
Fed. Russa
537
694
-22,6
Francia
280
315
-11,1
India
251
188
33,5
Brasile
250
200****
-
UK
216
205
5,4
Corea del Sud
198
193
2,6
Italia
172
177
-2,8
Spagna
169
143
18,2
Turchia
168
49
242,9
Canada
153
138
10,9
Messico
138
200****
-
Rep. Ceca
95
105
-9,5
Sud Africa
78
37
110,8
Svezia
75
64
17,2
Polonia
74
93
-20,4
Romania
61
219
-72,1
Indonesia
50
43,8
14,2
Belgio
44
52
-15,4
Ungheria
40
27
48,1
Austria
30
30
0,0
Olanda
27
32
-15,6
Rep. Slovacca
23
14
64,3
Portogallo
23
21
9,5
Altri*** (<10,000)
48
83
Totale
7,767
7,938****
-42,4
-2,2
*China 2000; Bulgaria 2001; Canada 2001; ** 1993: Canada 1992; India 1992
*** Estimated total of: Bulgaria, Denmark, Finland, Ireland, Norway,
Slovenia, Serbia-Montenegro, Switzerland
**** Own Estimations
Fonte:VDA 2004: International Auto Statistics; p. 349f; VDA 1995: International
Auto Statistics; p.319f.; VDA 1996: International Auto Statistics; p.313f.
I dati nella tavola 10 rappresentano i dipendenti dell’industria
automobilistica, definiti in base alla classificazione statistica NACE 34.
Comprendono però solo una parte rispetto al totale dei dipendenti. La
ragione non è legata solo a problemi nella registrazione della forza lavoro del
settore in determinati paesi, come la Cina o l’India, ma anche alla lunghezza
e alla complessità delle filiere dell’indotto in quest’industria. Un esame delle
matrici di rotazione (input-output matrices), fornisce informazioni più
dettagliate per stabilire il numero di dipendenti del settore a monte,
impegnati in attività che in definitiva rappresentano il valore aggiunto del
produttore automobilistico. Se prendiamo l’esempio dell’industria
automobilistica tedesca, troviamo che in base alla classificazione NACE, nel
2000 erano impiegate poco meno di 770.000 persone. Calcoli e stime degli
ingressi da settori industriali e dei servizi, per quanto riguarda i produttori
automobilistici, includendo il loro valore di produzione (valore aggiunto),
risultano in una forza lavoro totale di 1,8 milioni, il doppio dei dati
formalmente definiti per l’industria automobilistica. Circa 250.000 di questi
dipendenti lavoravano nei servizi ai produttori ed altri servizi per l’industria
dei motoveicoli.
L’industria automobilistica formale, è quindi solo la punta di un iceberg,
molto difficile da stimare nella sua totalità. Il confronto con analisi dei criteri
di rotazione relativi al passato, mostra che proprio la parte conosciuta (sotto
la superficie) è cresciuta. Questo dipende dallo spostamento delle tecnologie
di base citato in precedenza, in particolare dall’aumento della quota della
parte elettrica/elettronica nel valore aggiunto, e dalla crescente importanza
dei servizi. Rinforzati dall’outsourcing, essi vengono forniti in modo
crescente da aziende di altri settori. In alcuni paesi, come in Germania, le
relazioni industriali sono un altro fattore che influenza lo sviluppo. Dato che
l’industria automobilistica, con i suoi sindacati forti, gode di un livello alto
di retribuzione, il sourcing/outsourcing, tende a concentrarsi sulle industrie
meno organizzate, poco sindacalizzate e con bassi livelli salariali.
Negli ultimi anni, gli sviluppi dell’occupazione nelle industrie
automobilistiche nazionali, si sono caratterizzati per spostamenti rispetto al
peso degli attori nella catena del valore automobilistica. Come abbiamo
visto, questo vale per quanto riguarda spostamenti tra i fornitori, e per
differenti dinamiche di crescita nella tecnologia automobilistica e nei moduli
dei veicoli. Rispetto ai produttori automobilistici, lo studio FAST ha anche
presentato una previsione dettagliata degli effetti sull’occupazione in Europa
(vedi tavola 11).
In base a questo studio, l’industria automobilistica europea, nel 2002 aveva
una forza lavoro complessiva pari a 2,75 milioni. Il dato rappresenta la
forza lavoro direttamente coinvolta nel valore aggiunto nei motoveicoli,
incluso il settore dei fornitori a monte, fino al secondo livello. Sono
esaminati sviluppo, vendite ed attività di marketing. Non sono inclusi
(contrariamente ai sopraccitati dati relativi alla Germania) gli strumenti di
produzione, ecc. In base a questa previsione, il numero di dipendenti in
Europa, aumenterà fino ad un totale di 3,97 milioni entro il 2015. Come
mostra la tavola 11, metà di questi dipendenti lavorano nel segmento
elettrico/elettronico. Gli altri moduli principali mostrano una crescita
piuttosto moderata o, come nel caso dei moduli della scocca o della
stagnazione persino una diminuzione assoluta dell’occupazione.
Tavola 11: Modifica nelle strutture a Valore Aggiunto a Livello Mondiale ed
Effetto sull’Occupazione in Europa (UE 15) nello Studio FAST (2002-2015)
Crescita
(assoluta)
Quota
Europa
Dipendenti (1000)*
OEM Fornitori Totale
Telaio
+ € 13
miliardi
ND
–24
+161
+137
Powertrain
+ € 38
miliardi
ND
+1
+126
+127
Motore e aggregati
+ € 30
miliardi
ND
–16
+153
+137
Struttura scocca
+ € 19
milaridi
ND
–61
+36
–25
Scocca (esterno)
+ € 19
miliardi
ND
–65
+89
+24
Interno
+€7
miliardi
ND
0
+202
+202
Electrico/electtronico + € 157
miliardi
ND
+146 +466
+612
–18
+1.214
+ € 283
miliardi
+ € 126
miliardi
+1.232
* Stima; stessa produttività nei sette moduli principali.
Fonte: Mercer Management Consulting, Fraunhofer-Gesellschaft 2003
Una forte crescita europea in termini di occupazione è prevista in base
all’oscura supposizione, che il valore aggiunto in Europa crescerà di più
rispetto ad altre regioni del mondo produttrici di automobili. Un aspetto
ovvio tuttavia, è l’espansione dell’Europa occidentale, per includere i paesi
della MOE rispetto all’UE dei 15 del 2002.
Come mostra la tavola 11, gli OEM e l’indotto, traggono vantaggio in modo
assai differente dagli impatti ampiamente positivi, ma di diverse dimensioni,
che le strutture del valore aggiunto hanno sull’occupazione.
Complessivamente, si prevede che gli OEM attraverseranno un leggero calo
dell’occupazione (–18.000). La crescita della forza lavoro nell’indotto, è di
nuovo sproporzionatamente alta. Solo la forte crescita nel settore
elettrico/elettronico può bilanciare le considerevoli perdite di occupazione in
altri moduli di veicoli da parte degli OEM. Le modifiche del peso
dell’occupazione rispetto ai moduli, indicano rilevanti differenze nelle
prospettive di occupazione nei vari segmenti dell’industria.
In base alla previsione, ci saranno anche spostamenti nel peso
dell’occupazione tra le collocazioni regionali della produzione a livello
mondiale. Sulla base di stime generalmente ottimiste rispetto alla crescita di
volumi produttivi ed alla domanda per quanto riguarda i motoveicoli, si può
prevedere che tutte le regioni del mondo vedranno una crescita
dell’occupazione, che sarà però distribuita in modo molto differenziato. Per
il 2002, l’occupazione mondiale nell’industria automobilistica è stimata per
un totale di 8,8 milioni e se ne prevede una crescita a 11,8 milioni entro il
2015, un aumento di 3 milioni (25%). Queste sostanziose aspettative, sono
state già discusse per quanto riguarda l’Europa. Tassi di crescita piuttosto
deboli sono previsti per NAFTA e Giappone.
Tavola 12:
Modifica dell’occupazione nel settore automobilistico nelle
diverse regioni del mondo (2002-2015) (Mercer/Fraunhofer
Study)
La crescita complessiva dell’occupazione mondiale, continua ad essere
prevista anche qui, seppure con forti differenze. Un esame dettagliato di
queste stime, esula dallo scopo di questo studio. Ciò che è importante, è la
prospettiva di enormi spostamenti strutturali, con conseguenti, spesso
drammatici effetti sull’occupazione.
4 Sommario e conclusioni
Come abbiamo visto, la ristrutturazione di vasta portata e la
riorganizzazione complessiva nell’industria automobilistica iniziata negli
anni ’90, è proseguita a velocità costante nel nuovo decennio. Questa
ristrutturazione è guidata dall’emergere di nuove regioni e dallo sviluppo di
nuove capacità produttive, da maggiore intensità di innovazione e dalle
conseguenti modifiche nelle tecnologie automobilistiche centrali, così come
da aggiustamenti nelle catene del valore, in particolare nelle relazioni tra
OEM e fornitori.
Ristrutturazione e riorganizzazione hanno un impatto di vasta portata sulle
strutture occupazionali nel mondo dell’industria automobilistica. I limiti di
questo testo, hanno permesso di considerare solo brevemente le tendenze di
sviluppo quantitativo. Nonostante le dimensioni dell’industria e la sua
importanza per lo sviluppo economico in tutto il mondo, poco si sa della
dimensione e della struttura della forza lavoro nel settore automobilistico.
Come abbiamo visto, gli esperti prevedono un massiccio spostamento del
peso specifico dei siti produttivi automobilistici a livello mondiale ed
all’interno delle strutture degli attori delle catene del valore, per il periodo
fino al 2015. Nell’ambito di questo testo, si è solo potuto riferire
ripetutamente dell’ampiezza di questi sviluppi. Un’analisi approfondita di
queste modifiche strutturali e dei loro effetti sui lavoratori, sono quindi un
argomento sempre più urgente per ricerca e politica del lavoro a livello
pratico.
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Catene del valore e sistemi di fornitura
La riorganizzazione della catena del valore nella
filiera automobilistica
Giuseppe Volpato
1 La riorganizzazione della filiera automobilistica
europea negli anni ’80 e ’90
La filiera automobilistica, intesa come il complesso delle imprese che concorrono alla produzione delle parti componenti e all’assemblaggio finale
delle autovetture, ha conosciuto a partire dagli anni ’80 una profonda
riorganizzazione determinata dall’evolvere del confronto competitivo tra le
principali casi automobilistiche della “triade” composta da: Nordamerica,
Europa Occidentale e Giappone. In quegli anni l’acme competitivo era
rappresentato dall’offensiva sviluppata dalle case automobilistiche
giapponesi verso i mercati occidentali e gli Stati Uniti in primo luogo. Fra i
diversi elementi che spiegavano la maggior competitività dei costruttori
automobilistici giapponesi vi era un ampio ricorso alla fornitura esterna di
parti componenti (outsourcing) che era stata veicolata dal dualismo del
mercato del lavoro giapponese che prevedeva più elevati livelli retributivi
per i dipendenti delle grandi imprese (case automobilistiche) rispetto alle
piccole imprese (produttori di componenti). Su questa differenza di base le
case automobilistiche giapponesi, e soprattutto la Toyota, avevano in seguito
costruito a partire dal periodo immediatamente successivo al secondo
conflitto mondiale ulteriori vantaggi competitivi derivati da meccanismi di
fornitura basati sulla capacità di produrre in stretta connessione con il
variare della domanda nel tempo attraverso una programmazione della
produzione di tipo pull, in contrasto a quella di tipo push utilizzata dalle
case automobilistiche occidentali, e l’organizzazione della consegna dei
componenti da assemblare da parte delle aziende fornitrici basati su sistemi
just-in-time.
La risposta delle case automobilistiche occidentali prese corpo soprattutto
negli anni ’90 e si articolò su una molteplicità di fronti anche con sensibili
differenze tra le diverse case costruttrici, ma non c’è dubbio che per quanto
concerne le relazioni tra case costruttrici, solitamente indicate come Original
Equipment Manufacturers (OEM), e fra fornitori di componenti, Original
Equipment Suppliers (OES), prevalse la tendenza all’imitazione del modello
giapponese, per quanto consentito dalla diversità delle legislazioni e dalle
peculiarità nazionali vigenti in tema di relazioni sindacali. Imitazione che si
basò soprattutto su una riduzione del numero dei fornitori e una diminuzione
del livello di integrazione verticale degli OEM attraverso l’ampliamento del
ricorso alle forniture esterne di parti componenti.
2 Le nuove esigenze dei mercati maturi
Nel frattempo però si facevano sempre più evidenti anche i mutamenti
intervenuti nella domanda automobilistica mondiale. Da un lato il livello di
motorizzazione nei paesi più industrializzati aveva ormai superato la fase
della motorizzazione di prima dotazione per entrare largamente nella fase
della domanda di sostituzione, dall’altro anche i paesi meno industrializzati,
che ormai venivano indicati come Newly Industrialized Countries (NICs),
stavano raggiungendo la soglia di reddito che consentiva loro, e in una certa
misura esigeva, l’inizio di un processo di motorizzazione di massa.
Soffermandoci innanzitutto sui mercati più industrializzati, rappresentati
dalla “triade”, l’aspetto più rilevante era rappresentato dal fatto che il
completamento della prima motorizzazione aveva innescato un gioco
combinato basato su una pluralità di elementi:
a) Ormai in tutti questi paesi il numero di vetture circolanti era largamente
superiore alle 300 vetture ogni mille abitanti (Tabella 1) e ciò voleva dire
che ciascun nucleo familiare risultava dotato in media di almeno una
autovettura e cominciava quindi a manifestarsi anche il fenomeno della
multimotorizzazione delle famiglie;
Tabella 1 - Evoluzione del tasso di motorizzazione (vetture e veicoli circolanti
ogni 1000 abitanti)
1950
1960
1970
1980
1990 (1)
2000 (1)
2004 (1)
vetture vetture vetture vetture vetture veicoli vetture veicoli vetture veicoli
226
320
414
546
578
752
461
761
463
767
USA
11
73
216
417
479
512
532
577
541
584
Germania (2)
37
111
232
417
422
495
475
574
491
592
Francia
43
32
167
312
409
454
475
526
495
556
Regno Unito
6
98
210
330
499
507
563
629
588
657
Italia
Giappone
0
3
68
203
299
456
414
573
427
42
580
(1) Dal 1990 è opportuno tener conto del complesso dei veicoli in quanto, similmente a quanto
accade negli Stati Uniti e in Giappone, una parte crescente di veicoli classificati come commerciali
sono utilizzati come autovetture. Negli Stati Uniti questo processo è così avanzato da far segnare un
arretramento della densità di autovetture circolanti per effetto della immatricolazioni di pick-up e
SUV che sono considerati light truck.
(2) I dati a partire dal 1990 si riferiscono alla Germania unificata
Fonte: Nostre elaborazioni da OCDE ed Anfia.
b) Tra l’altro ciò significava che la domanda automobilistica era ormai
espressa dall’intera varietà della popolazione; se in precedenza gli
acquirenti di automobili erano prevalentemente di sesso maschile e di età
superiore ai 30 anni, con gli anni ‘90 tutti gli strati della popolazione
divennero protagonisti di questo tipo di acquisto senza rilevanti differenza
di sesso, età, condizione economica e professionale;
c) Inoltre si era generalizzato il passaggio da acquisto di prima dotazione ad
acquisto di sostituzione, tra l’altro questa diversa caratterizzazione della
domanda ebbe l’effetto di stimolare l’ampliamento dell’offerta e la
moltiplicazione dei modelli e delle versioni. Da un lato si assistette al
lancio di modelli aventi caratteristiche diverse da quelle tradizionalmente
offerte e rappresentati da citycar, da vetture di tipo crossover e da Sport
Utility Vehicle (SUV), dall’altro si produsse una ulteriore articolazione
dei singoli segmenti con differenti strategie di prezzo: modelli first entry e
modelli premium. Dopo questa radicale, anche se progressiva
trasformazione, la segmentazione del mercato viene fatta con almeno una
quindicina di categorie di veicoli e tutti i maggiori costruttori si stanno
attrezzando per proporre una gamma più vasta dei loro modelli, mirata
anche su sezioni quantitativamente più modeste della domanda
automobilistica tradizionalmente indicate con il termine di “nicchia”. Anzi
ormai si può dire che il complesso del mercato automobilistico di un
paese ad alta motorizzazione è un insieme di nicchie, alcune piuttosto
consistenti, altre decisamente più ridotte. Anche l’Italia mostra questa
tendenza. La Tabella n.2 indica che nel 1990 l’offerta di autovetture nel
mercato italiano comprendeva un totale di 148 modelli per 1352 versioni.
Nel 2002 il complesso dei modelli è cresciuto a 237 e quello delle versioni
a 2462, denotando un marcato ampliamento dell’offerta, anche se nel
medesimo intervallo di tempo i gruppi automobilistici si sono contratti di
numero per effetto di fusioni e assorbimenti.
43
Tabella 2 - Numero modelli offerti in Italia per segmento
Segmenti (1)
Segmento A
Segmento B
Segmento C
Segmento D
Segmento E
Segmento F
Totale Modelli
Totale Versioni
Descrizione
Utilitarie
Piccole
Medio inferiori (2)
Medio superiori (3)
Superiori (4)
Lusso (5)
1990
9
20
33
44
22
20
148
1352
1995
13
25
42
58
31
29
198
1540
2002
17
29
54
67
37
33
237
2462
(1) I segmenti considerati sono solo 6 per uniformarsi alla ripartizione esistente nel 1990.
(2) Comprensive anche dei piccoli Fuoristrada
(3) Comprensive anche dei medi Fuoristrada e dei piccoli Monovolume
(4) Comprensive anche dei grandi Fuoristrada, dei grandi Monovolume e delle Sportive
(5) Comprensive anche delle Supersportive
Fonte: nostre elaborazioni da “Quattroruote”, varie annate.
d) Infine la componente competitiva rappresentata dall’innovazione di
prodotto ha assunto un ruolo ancor più rilevante di quanto non avesse in
passato; in altre parole se in precedenza erano soprattutto i differenziali di
prezzo fra i diversi prodotti a guidare la scelta dei consumatori, con gli
anni ’90 sono soprattutto i contenuti innovativi (di stile, di tecnologia e di
prestazioni in chiave di guidabilità e di sicurezza) a polarizzare l’interesse
della domanda all’interno dei vari segmenti di mercato.
L’insieme di questi fattori di trasformazione ha comportato una profonda
modificazione tanto della struttura della domanda, che risulta enormemente
più variegata rispetto al passato, e che, come si è già sottolineato, si articola
in un numero sempre crescente di segmenti specifici, quanto del
comportamento degli acquirenti, che si mostrano molto più sensibili all’andamento della congiuntura economica e al tasso di novità espresso
dall’offerta delle case automobilistiche. Questo secondo aspetto può essere
espresso anche in termini analitici dicendo che si è sensibilmente ridotta
l’elasticità della domanda rispetto al prezzo a favore di una esaltazione della
elasticità della domanda rispetto alla varietà e all’innovazione.
44
3 Modalità di sviluppo dei mercati in fase di decollo
Negli anni ’90 si è anche rafforzata l’affermazione del processo di
motorizza zione dei NICs che in passato aveva già dato apparenti segni di
forte sviluppo seguiti però da fasi di recessione, ma che ora sembrano aver
imboccato una fase di crescita di non ritorno come mostrano i dati riportati
nella Tabella n.3.
Tabella 3 - Evoluzione del tasso di motorizzazione (veicoli circolanti per 1000
abitanti)
1985
1990
117
160
Polonia
27
37
Turchia
173
180
Argentina
86
87
Brasile
3
5
China
3
5
India
25
71
Corea del Sud
Fonte: Nostre elaborazioni da OCDE ed Anfia.
1995
229
65
167
89
8
6
177
2004
344
89
183
118
14
8
294
L’aspetto principale connesso a questa espansione della domanda è
rappresentata dal fatto che i Governi dei paesi interessati hanno mostrato un
notevole interesse a favorire questo processo di motorizzazione, ma a patto
che esso non creasse forti tensioni nelle rispettive bilance commerciali. In
concreto si sono limitate le importazioni mentre si è favorito la
localizzazione di nuove unità produttive tanto degli OEM che degli OES,
anche attraverso la concessione di notevoli agevolazioni: nell’acquisizione
dei suoli, nelle opere di urbanizzazione collegate alla realizzazione dei nuovi
stabilimenti e nella concessione di particolari agevolazioni fiscali soprattutto
nei casi in cui le nuove localizzazioni venissero realizzate attraverso
joint-venture con imprese domestiche.
4 Il
ri-orientamento
automobilistiche
strategico
delle
case
Ovviamente queste nuove caratterizzazioni della domanda non hanno
mancato di produrre riorientamenti progressivi, ma profondi, delle strategie
45
commerciali delle case automobilistiche. Tra i fenomeni più significativi va
certamente menzionato:
e) Un sensibile aumento degli investimenti rivolti alla R&D e all’innovazione
di prodotto, la cui incidenza rispetto al fatturato raggiunge oggi valori
nettamente superiori a quelli riscontrati in passato, che in generale si
collocavano al disotto del 3% e che attualmente superano
sistematicamente il 4% con qualche punta di eccellenza che tocca il 6%
sul fatturato come il Gruppo BMW (Tabella n.4 e 4 bis).
Fonte: Nostre elaborazioni dagli Annual Report
46
f) Una dilatazione della gamma offerta sia attraverso l’aumento delle
versioni, ma anche con un ampliamento del numero dei segmenti serviti,
con l’effetto che la tradizionale differenza tra case automobilistiche
“specialiste” e “generaliste” è ormai quasi priva di significato dal
momento che anche i principali marchi considerati “specialisti” come
BMW e Mercedes hanno esteso la propria offerta nei segmenti inferiori
della gamma e nei segmenti dei Multi Purpose Vehicle (MPV) e degli
Sport Utility Vehicle (SUV), anche attraverso l’acquisizione di nuovi
marchi. Nel contempo anche marchi un tempo specializzati nei segmenti
inferiori della gamma stanno dilatando la loro presenza commerciale
attraverso forme di up-grading della loro gamma, come nel caso dei
marchi coreani. Di qui un aumento del confronto competitivo in tutti i
segmenti e una forte dilatazione del numero dei modelli offerti.
47
Fonte: Nostre elaborazioni dagli Annual Reports
g) Un altro fronte di particolare impegno per gli OEM è rappresentato dal
processo di consolidamento nelle diverse aree di mercato, attuato sia
attraverso iniziative di assorbimento e di fusione, sia attraverso una
politica di apertura di nuovi siti produttivi soprattutto nei NICs. Per
quanto riguarda il primo tipo di strategia i casi più rilevanti sono quelli
rappresentati dall’assorbimento da parte di Renault di una quota
azionaria di riferimento del capitale Nissan che da anni stava
attraversando una fase di crisi pronunciata. L’iniziativa, varata nel marzo
48
del 1999, ha previsto l’assorbimento di una quota pari al 36,8% del
capitale della casa giapponese. Come è noto la riorganizzazione è stata
affidata a Carlos Ghosn che ha lanciato un programma di
razionalizzazione e di sviluppo molto incisivo, realizzato contro ogni
previsione addirittura in anticipo sulla tabella di marcia. Molto più
problematica invece la fusione realizzata tra la Daimler Benz e la
Chrysler che non sono ancora riuscite a concretizzare le sinergie che le
aziende partner si ripromettevano. Altri casi significativi di merger &
acquisition sono rappresentati dall’assorbimento da parte della Ford dei
marchi Jaguar, Land Rover e Volvo, della Daewoo da parte della General
Motors, per citare solo i casi più rilevanti. Questo tipo di politica ha, fra
l’altro, consentito una maggior equilibratura della capacità produttiva dei
gruppi consolidati sulle diverse aree produttive, che sono state seguite da
ulteriori iniziative di nuova localizzazione nelle aree potenzialmente più
interessanti come i paesi dell’Europa Orientale e dell’est Asiatico. In
concreto se si raffrontano le quote di produzione per aree dei principali
OEM riferite al 1996, al 2000 e al 2004, come sono riportate nelle tabelle
n.5 e 5 bis, si può notare che tale bilanciamento, che si è manifestato per
tutti i principali gruppi automobilistici, è avvenuto non solo per la
complementarietà produttiva generata dai casi di merger & acquisition,
come si è ampiamente verificato per l’inserimento della Renault nella
Nissan e per la fusione fra Daimler e Chrysler, ma anche per l’apertura di
nuovi siti produttivi in paesi a in fase di decollo della motorizzazione
come in Europa dell’est, in India, in Cina. In proposito, allo scopo di
verificare questo assunto il confronto tra i tre momenti è stato fatto
sommando le produzioni relative al complesso dei marchi controllati alla
data del 2004 qualora i marchi considerati fossero attivi anche nei
momenti precedenti. Ad esempio le produzioni di Volvo, Jaguar, Aston
Martin, Land Rover, sono state inserite nel gruppo Ford nel 1996 anche
se questi marchi a quella data non facevano parte del gruppo americano.
Altrettanto è stato fatto per marchi in analoga situazione come la
produzione Daewoo inserita in GM e quella dei marchi Daihatsu e Hino
inseriti nel gruppo Toyota prima dei rispettivi momenti di assorbimento.
Analogamente si è proceduto per il Gruppo Daimler-Chrysler che non era
ancora stato costituito nel 1996. Ovviamente marchi precedentemente non
operativi, come ad esempio Smart del Gruppo DC, sono stati aggiunti
solo successivamente alla loro attivazione.
49
h) Appare però indubbio che le strategie di riorganizzazione di maggior
rilievo hanno riguardato l’assetto complessivo della filiera e le modalità
dei rapporti tra OEM e OES solitamente indicate come
supply-chain-management, un tema sul quale occorre effettuare una
analisi più dettagliata che concerne i seguenti punti:
¨ La sistematica riduzione dei costi di fornitura della componentistica
anche attraverso la delocalizzazione dei fornitori in aree a basso
costo della manodopera;
¨ La delega ai fornitori diretti (First Tier Suppliers - FTS) di
organizzare la sottostante piramide della subfornitura allo scopo di
semplificare le relazioni commerciali della casa automobilistica e di
concentrare la responsabilità del FTS per quanto concerne la qualità
dei moduli forniti.
¨ La specializzazione della casa costruttrice nella progettazione
dell’architettura generale delle vetture delegando ai fornitori di
sistemi integrati il compito di produrre innovazione e di coordinare
la catena gerarchica di subfornitura;
¨ La condivisione di pianali e di componenti tra modelli differenti, sia
appartenenti a marchi controllati dallo stesso gruppo
automobilistico, sia fra modelli appartenenti a gruppi diversi,
attraverso la costituzione di piattaforme organizzative comuni;
¨ Il tentativo di generalizzare le modalità di fornitura just-in-time
come passaggio ad una organizzazione basata sul build-to-order
(BTO);
50
Tabella n. 5 - Produzione mondiale di veicoli per costruttore e per zona (1)
Anno
Gruppo
BMW
1996 BMW, Rover
2000 BMW
Gruppo
GM
BMW, Mini
4,45%
10,06%
11,44%
--
85,04%
--
--
--
3,52%
100%
71,67%
0,78%
23,71%
0,33%
--
--
3,51%
100%
67,20%
1,50%
30,70%
0,15%
--
--
0,45%
100%
61,22%
1,47%
33,33%
0,26%
2,57%
--
1,15%
100%
1996 GM, GM Daewoo
59,70%
5,33%
23,24%
2,24%
--
1,90%
100%
8.336
2000 GM, GM Daewoo
63,62%
4,25%
21,00%
1,79%
--
2,29%
100%
8.849
2004 GM, GM Daewoo
57,26%
7,17%
18,63%
3,64%
--
7,12%
100%
2004
Gruppo
DaimlerChrysler
Marchi Considerati
Nordame
rica
Incidenza
%
Eu
Altri
Core
Orienta
Paesi
Europa
Giappo a del
le e
Asia,
Totale
Sudamerica
Occidental
ne
Sud
Totale
Turchia
Africa e
Produzio
Incidenza
e
Inciden
Incidenza
Oceania
ne Unità
%
Incidenza
za
Incid
%
Inciden
(000)
%
%
enza
za
Incidenza
%
%
%
-93,81%
---1,74%
100%
1.147
-85,03%
---4,91%
100%
835
Mercedes, Chrysler,
1996 Jeep, Dodge,
Mercedes Trucks,
Mercedes, Chrysler,
2000 Jeep, Dodge, Smart,
Mercedes Trucks,
Mercedes, Chrysler,
Jeep, Dodge,
2004
Maybach, Smart,
Mercedes Trucks,
7,59
%
7,06
%
6,19
%
1.250
3.964
4.667
4.629
8.966
Gruppo
Fiat
Gruppo
Ford
Fiat, Lancia, Alfa
1996 Romeo, Ferrari,
Maserati, Iveco
Fiat, Lancia, Alfa
2000 Romeo, Ferrari,
Maserati, Iveco
Fiat, Lancia, Alfa
2004 Romeo, Ferrari,
Maserati, Iveco
Ford, Aston Martin,
1996 Jaguar, Land Rover,
Mazda, Volvo
Ford, Aston Martin,
2000 Jaguar, Land Rover,
Mazda, Volvo
Ford, Aston Martin,
2004 Jaguar, Land Rover,
Mazda, Volvo
--
21,16%
60,76% 16,56%
--
--
1,52%
100%
2.561
--
17,76%
64,22% 15,34%
--
--
2,69%
100%
2.641
--
20,94%
52,78% 21,32%
--
--
4,95%
100%
2.120
56,38%
1,86%
28,79%
0,50%
9,30%
--
3,17%
100%
7.971
57,72%
2,27%
27,02%
0,74%
9,44%
--
2,93%
100%
8.250
45,70%
4,45%
27,87%
2,90% 10,34%
0,01
%
8,73%
100%
7.919
52
Tabella n.5 bis - Produzione mondiale di veicoli per costruttore e per zona - segue (1)
Eu
Corea
Orienta
Europa
Giappo
del
Sudam
le e
Occident
ne
Sud
erica
Turchi
ale
Inciden
Inciden Inciden
a
Incidenz
za
Incide
za
za %
Inciden
a
%
%
nza
%
za
%
%
Norda
merica
Ann
o
Honda
Gruppo
PSA
Gruppo Renault
199
6
200
0
200
4
199
6
200
0
200
4
Marchi
Considerati
Honda
Honda
Honda
Altri
Paesi
Total Totale
Asia,
e
Produz
Africa e
Incid ione
Oceania
enza Unità
%
(000)
Inciden
za
%
100%
37,63%
--
5,11%
-- 52,53%
--
4,73%
40,82%
0,92%
2,99%
0,40% 48,84%
--
6,03% 100%
38,14%
1,91%
5,90%
0,49% 38,39%
0,95%
98,84%
0,20%
--
--
2,71%
92,39%
0,73%
--
--
3,47%
84,32%
0,50%
--
-- 11,72% 100%
1,48%
43,73%
1,05% 36,94%
Peugeot,
Citroen
-Peugeot,
Citroen
-Peugeot,
Citroen
-Renault,
D a c i a ,
199
N i s s a n , 12,52%
6
Infiniti,
Samsung
15,16%
0,07
%
--
2.073
2.506
100%
3.238
100%
1.990
4,17% 100%
4,21% 100%
2.879
3.405
4.583
53
200
0
200
4
199
6
Gruppo Toyota
200
0
200
4
Gruppo Volkswagen
199
6
Renault,
D a c i a ,
N i s sa n ,
Infiniti,
Samsung
Renault,
D a c i a ,
N i s sa n ,
Infiniti,
Samsung
T oyot a ,
Daihatsu,
Hino
T oyot a ,
Daihatsu,
Hino
T oyot a ,
Daihatsu,
Hino
A u d i ,
Ben t ley,
Bugatti,
Lamborghini
,
Seat,
Skoda,VW
14,15%
2,78%
47,76%
6,18% 26,24%
0,29
%
2,59% 100%
5.144
19,28%
2,12%
40,47%
7,49% 25,41%
1,43
%
3,80% 100%
5.663
14,99%
0,05%
2,25%
0,46% 71,88%
-- 10,36% 100%
5.598
18,52%
0,60%
2,99%
0,25% 69,73%
--
7,91% 100%
5.956
19,61%
1,04%
5,82%
1,75% 56,57%
-- 15,21% 100%
7.874
6,10%
16,77
%
67,31%
8,11%
--
--
1,72% 100%
3.787
54
A u d i ,
Ben t ley,
200 B u g a t t i ,
8,34%
0 Lamborghini
,
Seat,
Skoda,VW
A u d i ,
Ben t ley,
200 B u g a t t i ,
4,42%
4 Lamborghini
,
Seat,
Skoda,VW
Fonte: nostre elaborazioni da ANFIA e CCFA.
10,85
%
62,33%
11,47
%
--
--
7,01% 100%
5.107
11,84
%
55,78%
14,94
%
--
-- 13,03% 100%
5.095
55
¨ Lo sviluppo di una architettura del prodotto automobilistico dal
punto di vista dell’assemblaggio secondo uno schema a moduli
diretto alla riduzione degli investimenti negli impianti di
assemblaggio finale e alla abbreviazione dei tempi di montaggio
delle autovetture;
¨ L’aumento dell’importanza delle innovazioni di prodotto, operato
soprattutto a livello di componentistica per il passaggio a forme
competitive basate sul tempo come riduzione del time-to-market e la
contrazione del ciclo di vita del prodotto.
5 La pressione sui costi di fornitura
Nonostante che la competizione fra case automobilistiche per la difesa e
l’accrescimento delle rispettive quote di mercato tenda a giocarsi sempre più
sulla valorizzazione del prodotto automobilistico in termini di qualità e
innovazione, la pressione esercitata dalle case automobilistiche sulle proprie
reti di fornitura non cessa di essere spasmodica dal momento che i margini di
profitto della maggior parte delle case continua ad essere insoddisfacente.
Fra i meccanismi utilizzabili per ridurre i costi la delocalizzazione verso
paesi a minori costi della manodopera sembra una delle leve più efficaci. Se
si guarda ai differenziali di costo presenti nelle diverse aree (Grafico n.1) è
indubbio che le differenze appaiano estremamente rilevanti.
Fonte: Nostre elaborazioni su dati BGC (2004)
E in questo senso si indirizza anche il risultato di un recente sondaggio
realizzato dal Fraunhofer Institute, dal quale emerge che la ragione
prevalente addotta dai manager del settore, per la realizzazione di uno
stabilimento all’estero riguarda l’uso di lavoratori a basso costo, come
riportato nel Grafico n.2. Tuttavia la precisa quantificazione del valore
economico dei vantaggi e degli svantaggi associati alla delocalizzazione
verso paesi a basso costo della manodopera pone rilevanti problemi.
Infatti se da un lato il differenziale dei saggi salariali riconosciuti nei diversi
paesi è noto, la loro incidenza nel costo totale della produzione di un modello
di autovetture dipende da una molteplicità di variabili: il livello tecnologico
dell’impianto che si intende realizzare, il livello di competenza del personale
di nuova acquisizione, l’effettiva produttività della manodopera, che nei
paesi emergenti potrebbe risultare nettamente inferiore a quella del personale
utilizzabile negli impianti già localizzati nei paesi ad alta industrializzazione
riducendo per questa via il vantaggio dei più bassi saggi salariali. Senza
contare che in numerosi casi la scelta a favore di questa o quella soluzione
può essere profondamente influenzata da politiche pubbliche di sovvenzione
attuate a favore di localizzazioni green-field.
57
Grafico 2. Motivi prevalenti nella delocalizzazione degli stabilimenti
Fonte: Fraunhofer ISI, citato in VDA, 2004 Annual Report
Secondo una recente analisi basata su un confronto tra diversi tipi di
localizzazione è emerso che il vantaggio alla delocalizzazione da parte di
stabilimenti di assemblaggio finale di veicoli è molto contenuto per quanto
riguarda la compressione dei costi, derivante dal fatto che l’incidenza di
questa categoria di costo incide ormai solamente per qualche punto
percentuale del costo industriale di stabilimento (Tabella 6) e può essere
completamente ribaltato dai maggiori costi di natura logistica derivante da
localizzazioni lontane dagli altri centri decisionali ed operativi della casa
automobilistica come quelli di progettazione e di distribuzione. Del resto una
conferma di questo genere di evoluzione ci deriva anche dall’analisi
dell’incidenza del costo del personale sul totale del fatturato. Come già
evidenziato nella Tabella n.4, questa incidenza si colloca mediamente attorno
al 12-15% con situazioni che scendono persino sotto il 10% come nel caso
del Gruppo Fiat Auto. Se si considera che questo valore percentuale
comprende al proprio interno tutte le tipologie di addetti e non solo quelli
utilizzati nelle attività di produzione strettamente industriale (Personale
58
Amministrativo, Commerciale, di Progettazione, di Marketing, ecc.) si
capisce la parte strettamente produttiva rappresenta ormai una componente
di costo piuttosto modesta. Per contro cresce sempre più la parte di costo
relativa agli acquisti di componenti che ormai rappresentano mediamente
oltre il 70% del costo del venduto. Di conseguenza, la delocalizzazione
appare motivabile per questo genere di stabilimenti non tanto dalla esigenza
di ridurre il costo industriale quanto dalla necessità di operare all’interno del
mercato di sbocco rappresentato da un paese in fase di decollo della
motorizzazione. Una situazione che contribuisce grandemente a dare una
immagine “domestica” al prodotto offerto e a facilitare la sua affermazione
sul mercato, anche per la possibilità di ridurre i tempi di consegna, che
rappresenta un elemento sempre più importante dal punto di vista
competitivo, come esamineremo nel paragrafo successivo.
Discorso analogo vale per i produttori di componentistica operanti in
condizioni similari dal punto di vista della struttura dei costi, come ad
esempio per i fornitori di tecnologia elettronica. Al contrario per le
produzioni di componenti nelle quali si manifesta una alta incidenza del
costo del lavoro la delocalizzazione appare come una soluzione di notevole
rilievo.
6 La gerarchizzazione della catena di fornitura
L’efficacia del decentramento produttivo si basa sull’ipotesi che il sistema di
fornitura sia in grado di sostituirsi alla produzione diretta da parte degli
OEMs con una riduzione dei costi dei componenti. Le case automobilistiche
cercano di favorire il raggiungimento di questo obiettivo attraverso la
concentrazione delle forniture e l’adozione sempre più frequente di un
rapporto basato sul single supplier. Ciò ha prodotto una trasformazione del
sistema di fornitura da una struttura piatta, nella quale ogni singolo
fornitore, anche di piccola dimensione, intratteneva rapporti diretti con la
casa automobilistica, ad una struttura altamente gerarchizzata, in cui solo i
fornitori di primo livello hanno contatti diretti con l’OEM e sono incaricati
di organizzare a loro volta un sistema gerarchizzato di sub-fornitori di tipo
specialistico.
59
La nuova divisione del lavoro fra case automobilistiche e fornitori ha a sua
volta innescato nuove opportunità di merger & acquisition con una drastica
riduzione delle società specificatamente specializzate nelle produzioni
destinate al settore degli autoveicoli. Secondo una stima dell’Economist
Intelligence Unit il numero dei fornitori è destinato a ridursi
drammaticamente nei prossimi dieci anni proseguendo un trend che ha visto
il passaggio da circa 30,000 imprese nel 1988 a circa 8,000 in 1999.
Previsioni di analogo andamento, ma ancora più stringenti sono state
effettuate dalla Società di consulenza PricewaterhouseCoopers, secondo la
quale i fornitori di primo rango (1° tier suppliers), stimati pari a 5.600 nel
2002, dovrebbero passare a 2.800 nel 2015.
Ma questo rappresenta solo uno degli aspetti, anche se fra i più importanti,
del ciclo di trasformazione innescato, dal momento che i singoli fornitori
stanno anche ridefinendo le rispettive aree tecnologiche di competenza. Nello
schema “piatto” di fornitura, ogni singolo fornitore cercava di massimizzare
la gamma dei prodotti offerti, in quanto ciò tendeva a semplificare le
procedure di valutazione e di selezione dei buyer della casa automobilistica.
Ora, nella struttura gerarchizzata, questo aspetto non rappresenta più un
fattore di vantaggio, ma, anzi, un punto di debolezza, in quanto un catalogo
di prodotti molto ampio comporta investimenti troppo elevati e l’incapacità
di sostenere un adeguato livello di innovazione su tutto il fronte dei prodotti
offerti. Di qui un processo di focalizzazione dei fornitori di primo livello su
un più compatto ed omogeneo assieme di prodotti, realizzato attraverso lo
scambio tra fornitori, mirato alla cessione di attività in cui si è meno
competitivi e l’acquisizione da altri fornitori di quelle in cui si vanta già una
forte specializzazione.
Tra l’altro la concentrazione degli interlocutori risponde a precise esigenze
tecniche. Poiché i fornitori debbono essere attivati con tempi molto precoci,
se si vuole che essi siano messi nelle condizioni di fornire un efficace
sviluppo sulle parti da inserire nei nuovi modelli, è necessario attuare un
lavoro di forte scambio informativo con i progettisti della casa e la
costruzione di una vera e propria cultura di sostegno al co-design. Non a
caso è sempre più frequente il caso in cui tecnici delle aziende fornitrici
operano sistematicamente presso gli uffici di progettazione del costruttore
per realizzare l’integrazione necessaria ad assicurare il massimo dei risultati.
7 La specializzazione della casa costruttrice nella
progettazione dell’architettura
Come si è già sottolineato è prevedibile un ulteriore sviluppo del processo di
decentramento produttivo da parte delle case automobilistiche verso i
fornitori di componenti, non solo sul fronte della produzione di parti, ma
anche e soprattutto per quanto concerne gli investimenti in R&D. L’obiettivo
finale consisterebbe nel riservare alla casa automobilistica funzioni di
sviluppo dell’architettura complessiva dei modelli, delegando la completa
attività di ricerca innovativa e di sviluppo industriale ai fornitori. Una scelta
che in parte è motivata dal fatto che i fornitori, e soprattutto quelli
tecnologicamente più avanzati che possono contare su attività di fornitura ad
una pluralità di OEM, sono nella posizione migliore per sfruttare gli elevati
livelli di specializzazione che i moderni componenti richiedono e di ripartire
su una pluralità di commesse (e quindi di clienti) i notevoli investimenti e i
costi di sperimentazione che le attività in oggetto richiedono. Inoltre gioca
indubbiamente anche il desiderio degli OEM di cercare di ridurre al massimo
possibile il loro investimento, cercando di scaricare sul fornitore la quota e
soprattutto il rischio connesso ai processi di innovazione.
Ovviamente però questo genere di strategia non è priva di risvolti negativi
per gli OEM. In primo luogo la rinuncia all’innovazione nella
componentistica ha l’effetto di abbassare significativamente il livello di
competenze interne delle case automobilistiche. È facile immaginare che la
riduzione dei tecnici e dei ricercatori operanti alle dirette dipendenze delle
case produce un depauperamento che si manifesta sia nella valutazione
successiva della validità delle scelte tecnologiche proposte dal fornitore, sia
nella contrattazione dei prezzi d’acquisto delle forniture. In secondo luogo
l’ampliamento degli investimenti di ricerca e sviluppo richiesti agli OES,
accompagnati da una richiesta di riduzione dei prezzi di fornitura, comporta
nella generalità dei casi la concentrazione delle commesse su un numero
ristretto di fornitori allo scopo di consentire loro delle maggiori economie di
scala sulle quali fare leve per il ritorno degli investimenti. Il tutto si sta
traducendo in un processo di progressiva concentrazione dei fornitori che
tendono ad attuare politiche di assorbimento e di fusione reciproca nello
sforzo di raggiungere la massa critica a livello di singola linea di prodotto
necessaria ad assicurare la sopravvivenza futura. Di conseguenza la scelta
delle case automobilistiche, guidata in misura prevalente dal desiderio di
62
ampliare il loro potere contrattuale nei confronti dei fornitori, minaccia alla
lunga di produrre effetti opposti a quelli auspicati.
8 La condivisione di pianali e di componenti tra
modelli differenti
La ricerca di economie di scala e di scopo da parte dei fornitori può essere
adeguatamente valorizzato solo in presenza di forme di ulteriore
standardizzazione dei prodotti da parte delle case automobilistiche. Tuttavia
è ormai evidente che le forme di standardizzazione “semplici” basate sulla
proposta di uno stesso modello di vettura per una pluralità di mercati (world
car) si è rivelato un insuccesso. Ciò è già emerso di fronte alle difficoltà
sperimentate nel trasferimento di prodotti all’interno dei mercati più avanzati
rappresentati dalla “triade”, ma l’inadeguatezza della standardizzazione dei
modelli è destinata a risultare ancora maggiore via via che si consolideranno
i mercati a motorizzazione emergente.
Pertanto le case automobilistiche stanno sperimentando nuove forme di
standardizzazione, più raffinate e complesse, ma parziali in quanto mirate
all’utilizzo di parti comuni senza che ciò comporti anche la
standardizzazione dei modelli che devono mantenere dei margini di
customization sia riferita ai diversi mercati nazionali sia alle specifiche
esigenze del singolo consumatore finale.
Questo processo passa attraverso la progettazione di “common platforms”
in grado di utilizzare un numero rilevante di subsistemi comuni, lasciando
però la libertà di realizzare secondo modalità differenziate per i singoli
mercati la carrozzeria e altri elementi di più facile apprezzamento da parte
del consumatore. Si tratta di un passaggio tanto cruciale, ai fini
dell’ottenimento di forti vantaggi di costo, quanto difficile e complesso. Un
passaggio che nessuna casa automobilistica può dire di aver ormai realizzato
in modo soddisfacente, ma verso la quale tutte le case, senza eccezione, si
stanno orientando, consapevoli che solo in questo modo si riuscirà a
risolvere l’attuale contraddizione tra il vantaggio della varietà spendibile dal
lato del marketing e quello della standardizzazione postulato da una
produzione economica e di alta qualità.
Questo orientamento, iniziato da tempo dalle case automobilistiche
giapponesi, dotate di una gamma di modelli molto ampia che in molti casi
deve essere ulteriormente specificata in funzione di singoli aree di mercato, è
stata via via fatta propria da tutti gli altri costruttori, anche per effetto del
processo di concentrazione e consolidamento dei marchi in un numero
63
sempre più ristretto di global player. Dal punto di vista della filiera anche
questa evoluzione preme verso forme di concentrazione delle forniture, dal
momento che singole componenti, che un tempo venivano ottimizzate per un
singolo modello e presentavano quindi significative differenze con le parti
utilizzate per modelli similari dando luogo a commesse distinte, sono
attualmente condivise da una pluralità di autovetture e quindi concentrate in
blocchi di fornitura più ampi ed omogenei.
Questa tendenza è stata ulteriormente rafforzata dalla necessità indotta dal
confronto competitivo di dilatare la lunghezza del tempo di garanzia
assicurato ai propri prodotti. Non solo, ad esempio, la normativa europea
impone ormai alle case automobilistiche di assicurare alla clientela finale un
biennio di garanzia, ma è ormai sempre più frequente che vengano offerti a
scopo promozionale periodi di garanzia triennali ed ad anche quinquennali,
sia per ridurre i costi di mantenimento da parte della clientela, sia per
giovarsi dell’effetto comunicativo derivante dal fatto che una lunga garanzia
viene interpretata dal consumatore come una ulteriore forma di conferma
della qualità intrinseca del prodotto, dal momento che un significativo
aumento delle attività di riparazione eseguite in garanzia rappresentano un
onere non indifferente per il costruttore che va quindi controbilanciato
dall’ottenimento di elevati livelli di qualità. Infine la menzionata comunanza
di parti presenta il non trascurabile vantaggio di ridurre i livelli di parti di
ricambio da stoccare nei diversi mercati a parità di rapidità rifornimento
delle reti di concessionari e di servizio alla clientela finale. In complesso non
c’è dubbio che le forme di comunanza, pur se portatrici di complessità in
fase di progettazione e di maggiori difficoltà ai fini della necessaria
differenziazione tra prodotti, sono destinate a svilupparsi ulteriormente.
9 L’individuazione di un nuovo modello produttivo
basato sul BTO
L’evoluzione delle strategie di marketing dei costruttori stanno ponendo
nuove sfide all’organizzazione della produzione delle vetture. Infatti le
esigenze di mercato si stanno ponendo in contrapposizione con la
tradizionale strategia di derivazione fordista di standardizzare al massimo le
attività di produzione e montaggio, allo scopo di massimizzare le economie
di scala, semplificare il numero e le caratteristiche delle parti componenti,
utilizzare impianti dedicati a singoli modelli di vetture. Le reti di
distribuzione delle vetture stanno premendo sempre più affinché gli impianti
64
di produzione siano in grado di variare il mix della produzione ed
organizzarsi per passare dalla logica push alla logica pull. Come è noto in
una organizzazione della supply chain basata sulla logica push la
programmazione della produzione si basa su una previsione della domanda
e spetta alla rete commerciale compensare, attraverso meccanismi di
promozione delle vendite e di ribasso dei prezzi, eventuali differenze tra
quanto prodotto e quanto effettivamente richiesto dal mercato. Ma in un
mercato sempre più volubile e volatile, come si è precedentemente
sottolineato, questa impostazione sta diventando sempre più onerosa e
sempre meno capace di servire adeguatamente la clientela.
Di qui lo sforzo di passare ad una organizzazione della produzione di tipo
pull nella quale sono gli ordini di acquisto firmati dalla clientela a
rappresentare l’input del programma di produzione e di assemblaggio finale
sia degli stabilimenti della casa costruttrice che di tutta l’organizzazione a
monte della supply chain. Questa impostazione, indicata come
Built-to-Order (BTO) presenta notevoli vantaggi sul fronte della
distribuzione e della customer satisfaction, ma crea tensioni logistiche e
problemi di integrazione del flusso di informazioni e di materiali lungo la
supply chain che non sono facili da tenere sotto controllo. Ciò è tanto più
vero per il fatto che una delle condizioni necessarie, anche se non sufficienti
per attivare un produzione di tipo BTO, è rappresentata dalla disponibilità di
impianti produttivi di tipo flessibile, vale a dire in grado di assemblare
prodotti diversi in quantità variabile, in funzione dei cambiamenti della
domanda senza che questa variabilità a brevissimo termine dei programmi di
produzione (nella quantità delle vetture e nel loro mix) producano pesanti
riflessi negativi sui costi di produzione e sull’intera catena di fornitura e di
assemblaggio finale.
Tra l’altro, la realizzazione di sviluppi verso il BTO è strettamente legato ad
uno sviluppo delle forme di integrazione telematica della catena di fornitura
che sta procedendo a ritmi assai spediti nonostante le implicazioni che queste
applicazioni comportano circa il potere contrattuale dei soggetti coinvolti.
10 Lo sviluppo di una architettura del prodotto
automobilistico basata su moduli
Un altro elemento chiave della riorganizzazione strategica della filiera
automobilistica è rappresentato dalla progettazione dell’automobile per parti
o sistemi e dalla modularizzazione degli assemblaggi. Si tratta di fenomeni
diversi che è opportuno tenere distinti, anche se presentano degli evidenti
65
punti di contatto. La progettazione del veicolo per sistemi integrati al proprio
interno deriva dal fatto che il veicolo può essere descritto come un insieme di
gruppi funzionali, ciascuno dei quali è incaricato di svolgere determinati
compiti: la produzione di energia motrice e la sua trasmissione alle ruote, il
sistema frenante, il sistema di guida della vettura, il sistema di emissione dei
gas di scarico, ecc. In passato questi sistemi avevano, dal punto di vista della
loro progettazione, una bassa integrazione interna in quanto erano composti
di singoli elementi meccanici che potevano essere progettati con modeste
forme di interdipendenza. Attualmente tutti questi sistemi funzionali
presentano una fortissima integrazione interna, derivata dal fatto che il loro
funzionamento è controllato da circuiti elettronici. In sostanza, ogni sistema
funzionale non è più la somma meccanica di tante parti distinte, ma
rappresenta un complesso integrato che può, e deve essere progettato in
modo ottimale solo attraverso una regia unitaria svolta da un fornitore
avente il ruolo di system integrator. Uno degli esempi più significativi di
questa integrazione di sistemi attuativi della vettura, un tempo realizzati in
modo distinto, è rappresentato dall’Electronic Stability Program (ESP) che
sovrintende alla regolazione elettronica automatica della stabilità della
vettura e che agisce frenando singolarmente le ruote della vettura qualora i
rilevatori di imbardata e di accelerazione laterale evidenzino una situazione
di instabilità dinamica dell’auto. Questo sistema rappresenta l’integrazione
di singoli sistemi precedentemente regolati in modo singolo come il sistema
di antibloccaggio delle ruote in fase di frenata (Antilock Braking System ABS), quello di accentuazione della frenata in situazioni critiche (Brake
Assist System - BAS) e quello di controllo della trazione (Electronic
Traction System - ETS).
Per contro il fenomeno della modularizzazione non fa riferimento alla
progettazione delle singole parti componenti un sistema funzionale, ma si
focalizza sul suo assemblaggio e sulle attività di testing da realizzare nella
fase immediatamente antecedente il trasferimento sulla linea di assemblaggio
finale della vettura. Il modulo è quindi un macro-componente, composto da
più parti, ma fisicamente compatto, che è possibile e conveniente assemblare
e testare in blocco e non per singole parti fuori dalla linea di assemblaggio
finale della vettura, allo scopo di aumentare la semplicità delle operazioni di
assemblaggio nonché la velocità di esecuzione. In certi casi può quindi
succedere che un sistema funzionale coincida con un modulo, come nel caso
del power train o del sistema di emissione dei gas combusti, ma in altri casi
ciò può non avvenire. Ad esempio il sistema di illuminazione di una vettura
o il sistema di guida rappresentano certamente dei sistemi funzionali, ma la
66
loro complessità o la loro estensioni su una pluralità di parti della vettura
impedisce il loro pre-assemblaggio nella forma di moduli.
11 Forme competitive basate sul tempo
Il quadro competitivo nell’industria automobilistica risulta sempre più
basato su aspetti legati alla tempestività dell’offerta. Tale rapidità di
intervento può essere declinata su una pluralità di versanti tutti significativi.
Un primo aspetto riguarda la velocità con la quale la casa automobilistica è
in grado di passare dalla definizione del concept di una nuova vettura al
momento in cui ha inizio la produzione industriale della vettura stessa.
Questo intervallo di tempo, convenzionalmente denominato time-to-market,
svolge un ruolo critico nel confronto competitivo, in quanto di fronte alla
domanda di sostituzione, manifestata dai mercati più sviluppati le preferenze
dei consumatori denotano una elevata volatilità. Un time-to-market
compresso offre quindi la possibilità di cogliere per primi le nuove tendenze
di mercato avendo la possibilità di svolgere un ruolo di quasi monopolista
attraverso forme di offerta anticipatorie rispetto alla concorrenza.
Un altro fronte della battaglia contro il tempo riguarda l’accorciamento del
ciclo di vita del prodotto. Come è noto ogni singolo modello automobilistico
è destinato a subire la concorrenza di quelli presentatati dalle case
concorrenti in momenti successivi. Si genera quindi un invecchiamento
relativo in cui l’effetto in generale si manifesta attraverso la riduzione della
quota di vendita del modello più vecchio a favore di quelli più recenti.
Questo decadimento di competitività può essere contrastato attraverso
operazioni di rinnovo del modello sia di tipo estetico (restyling) sia di tipo
funzionale, ad esempio con l’introduzione di migliorie tecniche. Tuttavia si
tratta di operazioni costose in quanto hanno l’effetto di contrarre i tempi utili
per il recupero degli investimenti. Vanno quindi sapientemente dosati in
funzione di una pluralità di aspetti.
12 Conclusioni
L’analisi dell’attuale fase evolutiva nell’industria automobilistica mostra che
anche nei prossimi anni si manterrà particolarmente elevato il livello
competitivo in tutta la filiera automobilistica e che il ruolo della
componentistica assumerà una importanza ancora superiore a quella attuale.
La stima circa l’ammontare del valore aggiunto che sarà acquisito dal
complesso dei fornitori, ipotizza un valore pari al 77% dei 76 milioni di
67
veicoli che saranno prodotti nel 2015 per un ammontare in euro pari a 700
miliardi.
Le aree tecnologiche che beneficeranno di questa espansione sono
rappresentate soprattutto dall’elettronica, che godrà di una crescita di ordini
in valore dai 127 miliardi di euro del 2002 ai 316 miliardi del 2015, seguita
dalla componentistica riguardante i propulsori per i quali si stima una
crescita da 115 a 135 miliardi di euro e dalla componentistica per gli interni
dei veicoli, da 128 a 133 miliardi di euro.
Tuttavia è molto probabile che l’incremento del valore della componentistica
si ridistribuisca in misura assai differenziata tra le diverse aree produttive in
funzione delle tecnologie controllate. In altre parole, si stima che si assisterà
ad una polarizzazione della produzione su due estremi, rappresentati da
paesi altamente sviluppati per le tecnologie più sofisticate e da paesi NICs
per quelle meno sofisticate. Inoltre la possibilità di acquisire la crescente
domanda di componentistica richiederà la capacità di effettuare ingenti
investimenti in R&D. Secondo la società di consulenza Roland Berger già
per il 2010 occorrerà che la quota di investimento in R&D valutata
attualmente pari al 40% dovrebbe crescere al 60%.
In sostanza esistono interessanti possibilità di espansione per i fornitori, ma
solo al prezzo di una iniziativa particolarmente dinamica sul duplice piano
dello sviluppo di innovazioni e del controllo dei costi attraverso la
realizzazione di forniture di classe mondiale.
13
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71
Audi e Bmw: le strategie di fornitura di due case
automobilistiche di successo
Rainer Greca
1 Premessa
Due delle principali case automobilistiche di successo tedesche hanno sede
nella Baviera meridionale a distanza soltanto di un centinaio di chilometri
l’una dall’altra: la BMW e l’Audi. La sede principale della BMW è a
Monaco, la capitale della Baviera, mentre la sede principale e il centro di
ricerca e sviluppo dell’Audi sono ubicati a Ingolstadt, l’ex-residenza dei
Duchi di Baviera sul fiume Danubio. In Baviera la BMW possiede altri
stabilimenti produttivi a Dingolfing, Regensburg, Landshut e Wackersdorf;
nel resto della Germania altri due stabilimenti si trovano a Eisenach
(Turingia) e a Leipzig (Sassonia), mentre l’Audi ha solo un altro
stabilimento in Germania, a Neckarsulm nel Baden-Württemberg.
2 La storia della BMW e dell’Audi
Basta analizzare brevemente la storia della BMW e dell’Audi per rendersi
conto che a più riprese, nel corso della storia, entrambe queste imprese
hanno dovuto affrontare gravi problemi di natura tecnica, sociale,
economica, ma anche politica, per sopravvivere sul mercato automobilistico.
Talvolta delle circostanze favorevoli hanno sostenuto il loro sviluppo, ma si
sono anche verificate delle situazioni disastrose, che sono state affrontate,
permettendo a queste due aziende di superare e sopravvivere alla tempesta
causata dalla crisi economica e dalla concorrenza crescente.
L’Audi e la BMW sono state entrambe fondate da ingegneri dallo spirito
pionieristico. Nel 1899 August Horch fondò una società vicino a Colonia,
dove nel 1901 fu fabbricata la prima automobile. La società si trasferì
successivamente in Sassonia nel 1902 e fu trasformata in una società per
azioni nel 1904. Lo stesso anno fu costituita la società A. Horch & Cie.
Motorwagen-Werke AG. Nel 1932 l’Audi divenne parte della Auto-Union
AG, la fusione dei quattro precedenti produttori indipendenti di automobili e
motociclette: Audi, Horch, DKW (costituita nel 1907), e Wanderer
(costituita nel 1885). Quattro anelli d’argento collegati tra di essi divennero
il marchio commerciale di questo gruppo.
Nel 1916 fu fondata a Monaco la Bayerische Flugzeug Werke per la
costruzione di aeroplani. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la
crescente importanza degli aerei permisero alla società di prosperare, grazie
al sostegno dell’Impero austro-ungarico e del Reich tedesco per lo sviluppo e
la produzione di aerei da guerra. Tuttavia, in seguito al divieto di continuare
la produzione di aerei da parte delle Forze Alleate dopo la fine della guerra,
la società fu costretta a riconvertirsi, limitando la sua attività alla
fabbricazione di automobili e motociclette, ora in collaborazione con la
Bayerische Motorenwerke che nel frattempo era stata costituita a Monaco
nel 1917. Uno stabilimento produttivo fu rilevato dalla BM ad Eisenach nel
1928. Nuovamente, durante il regime nazista, gli stabilimenti furono
riconvertiti e destinati alla produzione di motori per velivoli per servire la
Luftwaffe tedesca di Monaco (1936), Eisenach (1937), e Berlino (1941 –
due stabilimenti).
Per entrambi i marchi, la fine della Seconda Guerra Mondiale rappresentò
l'inizio di un nuovo capitolo: nella Germania dell’Est, l’amministrazione
militare sovietica ordinò lo smantellamento di tutti gli stabilimenti produttivi
destinati alla riparazione, mentre la produzione di motori per velivoli fu
proibita sia nella Germania Est e Ovest. Oggi si potrebbe arrivare ad
affermare che il successo di queste due imprese è attribuibile proprio alla
coercizione alla riconversione e al ritorno allo sviluppo e alla fabbricazione
di automobili e motociclette.
L’Audi si trasferì a Ingolstadt, nella zona americana, dove diede inizio
all’attività di produzione di piccoli camion, automobili e motociclette; nel
1949 fu costituita la Auto Union GmbH. Diverse serie di automobili e
motociclette furono sviluppate e realizzate nei numerosi stabilimenti tedeschi
nelle regioni del Baden-Wurttemberg, della Baviera e del Nord
Reno-Westfalia; nel 1958, la Daimler rilevò il gruppo, che fu venduto
nuovamente nel 1964 alla Volkswagen. Nel 1969 l’Audi e la NSU (costituita
nel 1873) diedero vita, mediante una fusione, alla Auto Union AG.
Successivamente, il processo di concentrazione dell’industria automobilistica
della Germania Occidentale influenzò l’evoluzione della Auto Union GmbH:
gli stabilimenti produttivi furono gradualmente chiusi finché non restarono
aperti solo quelli di Ingolstadt e Neckarsulm. Nel 1985 fu costituita la Audi
AG e il simbolo aggiornato dei quattro cerchi collegati fra di essi fu
nuovamente utilizzato come marchio commerciale.
73
Anche gli stabilimenti BMW della Germania Orientale furono chiusi dopo la
fine della Seconda Guerra Mondiale e la produzione di motori per aerei fu
proibita. Ebbe inizio una nuova era incentrata sulla progettazione e sulla
produzione di automobili e motociclette. Nel 1947 fu progettata la prima
motocicletta BMW del dopoguerra, che divenne un successo grazie alle
condizioni economiche vigenti in quel momento. Durante questa fase di
ripresa economica in Germania furono progettati e realizzati nuovi modelli
automobilistici. Alla fine degli anni 1950, in seguito a una crisi, la BMW fu
sul punto di essere venduta alla Mercedes e fu solo grazie all’intervento di
una piccola minoranza di azionisti e concessionari, che si opposero
all’operazione di vendita e che posero il veto durante la votazione
nell’ambito dell’assemblea degli azionisti, che riuscirono finalmente a
convincere uno dei principali azionisti a tenere il controllo della BMW. Nel
1967, la BMW rilevò la Hans Glas GmbH e acquistò i due stabilimenti di
Dingolfing e Landshut. Dopo l’apertura di un nuovo stabilimento a
Dingolfing nel 1973, furono realizzati altri nuovi stabilimenti a Regensburg
nel 1987, a Wackersdorf nel 1990, a Eisenach nel 1992 (attrezzaggi), e a
Leipzig nel 2004.
3 La situazione attuale
Nel corso degli ultimi decenni, l’Audi e la BMW sono entrambe diventate
degli “attori globali”, con l’apertura di stabilimenti, linee di assemblaggio,
fabbriche per attività CKD/SKD (Complete Knock Down/Semi Knock
Down), e la costituzione di centri di distribuzione e marketing in tutti
principali mercati mondiali – in parte in collaborazione con imprese locali,
come ad esempio nel caso della BMW con Pretorius in Sud Africa, dell’Audi
con Cosworth Technology in Gran Bretagna e negli USA, e con
l’acquisizione da parte di entrambe le case automobilistiche di marchi esteri;
infatti il Gruppo BMW detiene Mini e Rolls-Royce in Inghilterra, mentre
l’Audi detiene la Lamborghini in Italia.
Attualmente, l’Audi produce automobili, motori e utensili in Ungheria, Cina,
Brasile, Thailandia, Inghilterra e Italia; la BMW ha stabilimenti produttivi
negli Stati Uniti, Sud Africa, Austria, Francia e Inghilterra; recentemente ha
costituito anche una joint-venture in Cina.
Una differenza fondamentale fra queste due case automobilistiche risiede nel
fatto che, nel caso del Gruppo BMW, il pacchetto azionario è totalmente
detenuto dal Gruppo, mentre l’Audi è di proprietà al 100% della
Volkswagen. Secondo la strategia organizzativa del gruppo, l’Audi fa parte
74
della divisione sportiva della Volkswagen. Il gruppo mette a disposizione di
questo settore, così come di altre divisioni, tutta la sua forza in termini di
R&S e di scambi, ad esempio per quel che concerne i motori ed altri
componenti con gli stabilimenti produttivi VW in Germania, Skoda nella
Repubblica Ceca o Seat in Spagna.
Entrambi i produttori competono nello stesso segmento di alta qualità del
mercato automobilistico internazionale – delle auto sportive e ad alta
innovazione tecnologica. Mentre l’Audi è concentrata nel settore
automobilistico, il Gruppo BMW produce anche motociclette e motori per
aerei. E’ interessante notare, in seguito ad un’attenta osservazione dello
sviluppo tecnico e organizzativo dell’altra azienda, come la vicinanza
geografica determini le condizioni di una cooperazione competitiva fra i
diversi livelli della catena del valore netta di entrambi i produttori
automobilistici. E’ in atto, inoltre, una stretta collaborazione con altri due
famosi produttori automobilistici della Germania Meridionale, nella regione
di Stoccarda e nel Baden-Württemberg: Mercedes e Porsche, per quel che
riguarda lo sviluppo congiunto di sistemi di gestione del traffico. Oltre a
questa concentrazione di OEM (Original Equipment Manufacturers), altri
importanti fornitori dell’indotto automobilistico hanno la propria sede nella
Germania Meridionale, tra cui Bosch, ZF Friedrichshafen, Siemens, BASF,
il che permette una così intensa collaborazione in questo distretto
automobilistico.
Nel corso degli ultimi anni, l’Audi e la BMW hanno ottenuto dei risultati in
media superiori rispetto al trend generale registrato nel settore dell’auto:
infatti, se gli altri produttori hanno incontrato dei problemi di sopravvivenza
di fronte alla competizione globale, entrambe queste imprese, nell’ultimo
decennio hanno, conseguito un record dopo l’altro, riuscendo così a
rafforzare la propria posizione sul mercato.
Il seguente grafico illustra le prestazioni economiche dell’Audi e della BMW
nel corso dell’ultimo decennio:
75
Fig. 1 – Il fatturato di Audi e BMW nel periodo 1994 – 2003
Si osserva che nel lasso di tempo fra il 1994 e il 2003, il fatturato annuale di
entrambe le società è costantemente migliorato: l’Audi è passata da 8.880
milioni di Euro nel 1994 a 52.689 milioni nel 2003 (+593%); la BMW è
passata da 21.538 milioni di Euro nel 1994 a 41.525 milioni di Euro nel
2003 (+193%) con un tasso di crescita annuale compreso fra il 3% e il 15%.
Solo per la BMW è stato registrato un calo fra il 2002 e il 2003 (–2,1%).
Tuttavia entrambe le società sono state in grado di aumentare ilo numero di
veicoli venduti, come illustrato dal grafico successivo:
76
Fig. 2 – Vendite di Audi e BMW nel periodo 1994-2003
Il numero di veicoli venduto da Audi fra il 1994 e il 2003 è passato da
378.180 a 1.003.791 (+265%) e quello della BMW è passato da 931.883 a
1.104.916 (+119%). Il declino dello sviluppo della BMW dopo il 1999 è
stato causato dai problemi derivanti dall’acquisto del Gruppo Rover da parte
della BMW nel 1994, che furono poi risolti con la vendita della società a un
prezzo simbolico; questa battuta d’arresto fu poi recuperata nei due anni
successivi.
Entrambe le imprese hanno un forte posizionamento nei principali mercati,
oltre che in quello nazionale, europeo e nordamericano, come illustrato nella
tabella successiva (Fig. 3).
Nel 2003 l’Audi ha venduto il maggior numero di automobili nei paesi
europei esclusa la Germania (324.254), la BMW nell’America del Nord
(294.900); mentre in Germania l’Audi ha venduto 237.786 veicoli, e la
BMW 255.800, ossia una quantità simile a quella venduta negli altri paesi
europei (263.600).
Nel mercato dell’America del Nord (86.421) e di altri paesi (121.431) l’Audi
ha avuto minore successo rispetto alla BMW (156.200).
77
Fig. 3 – Mercati di Audi e BMW, 2003
Il seguente grafico, che riguarda il numero di addetti alla fine di ogni anno
fra il 1994 e il 2003, illustra anch’esso un andamento positivo. Il numero
degli addetti degli stabilimenti Audi è aumentato in modo costante, passando
da 32.215 nel 1994 a 52.689 nel 2003 (+163%). Mentre se la BMW aveva
109.362 addetti nel 1994, dopo la crisi della Rover, il numero è sceso a
93.624, per poi risalire nuovamente a 104.342 nel 2003 (–4.6%). Questi dati
mostrano che, nel caso di gruppi automobilistici consolidati, la riduzione
della gamma verticale della produzione non comporta necessariamente una
perdita di posti di lavoro.
78
Fig. 4 – Il numero degli addetti di Audi e BMW nel periodo 1994 - 2003
Soprattutto nel caso di Audi, la crescita del valore delle azioni ha avuto un
particolare rilievo, come illustrato dal grafico successivo:
Fig. 5 – Il valore delle azioni Audi e BMW nel periodo 1999 -2003
79
Se il prezzo delle azioni Audi è costantemente aumentato, passando da 24,03
€ nel 1999 a 225,00 € nel 2003 (+936%), il prezzo delle azioni BMW ha
seguito un andamento fluttuante, passando da 14,00 € a 36,95 €, ma
registrando allo stesso tempo un notevole utile durante l’intero periodo
(+264%).
Nel paragrafo successivo, l’accento è posto unicamente sullo sviluppo dei
rapporti di entrambe le società con i loro rispettivi fornitori nel corso degli
ultimi trenta anni, con particolare riferimento alle forme di collaborazione
con i mega-fornitori e alle strategie messe in atto per superare i rischi di
dipendenza. Gli altri importanti fattori alla base del successo di queste due
case automobilistiche possono essere brevemente riassunti qui di seguito:
· L’Audi e la BMW vendono i loro prodotti principalmente agli attori
vincenti del processo di globalizzazione, ossia a quei clienti che possono
permettersi di acquistare un’auto costosa e di qualità.
· Entrambe le case automobilistiche hanno ideato delle campagne
pubblicitarie di successo dei loro rispettivi marchi e hanno creato
un’immagine che esprime efficacemente i valori e i desideri dei ceti
elevati a livello globale.
· “Il mondo è il mercato” è la strategia vincente seguita da entrambi questi
attori globali, che sono riusciti ad affermarsi sia dal punto di vista della
80
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produzione che del marketing su tutti i principali mercati mondiali,
quali: gli Stati Uniti, l’Europa, la Cina, il Sud Africa e il Sud America.
Le attività di sviluppo e ricerca in campo tecnologico si basano sui
settori di nicchia e sulla tradizione in entrambi i casi aziendali; la
filosofia di entrambi i marchi riflette l’ambizione di essere sempre un
passo avanti rispetto agli altri concorrenti dal punto di vista tecnologico;
ma è stata proprio la rivalità fra l’Audi e la BMW (ed altri produttori
automobilistici nazionali) a stimolare entrambe le imprese a sviluppare
dei prodotti di notevole valore.
In entrambi i casi, tradizionalmente, la qualificazione del personale si
basa sia sulla preparazione ricevuta nell’ambito del sistema della
pubblica istruzione e della formazione professionale erogata all’interno
dell’impresa e questo costituisce uno dei punti di forza per entrambe le
società.
La riorganizzazione internazionale ed esterna della produzione sulla scia
del “modello giapponese” ha portato alla combinazione di nuove forme
di produzione (es. lavoro di squadra) con i punti di forza tradizionali (es.
l’assunzione di manodopera qualificata).
La collaborazione con i sindacati ha una lunga tradizione alle spalle e la
contrattazione fra i rappresentanti sindacali e la direzione si svolge da
decenni in una prospettiva di collaborazione interna; è stato proprio
grazie a questa collaborazione, che negli anni ‘70 l’Audi è riuscita a
superare la crisi del settore automobilistico, potendo contare sul
sostegno dei comitati aziendali; entrambe le società sono riuscite ad
elaborare delle strategie flessibili di produzione (“la fabbrica che
respira”) con il sostegno attivo del sindacato dei metalmeccanici IG
Metall nel corso degli anni 1990.
Anche la collaborazione con il governo, sia a livello locale che
nazionale, è stata sviluppata bene. Entrambe le società interagiscono
positivamente con gli enti e i governi regionali e locali, come ad esempio
nel caso della costruzione di nuove infrastrutture di trasporto di strutture
produttive, ma anche per la realizzazione di nuove università con facoltà
tecniche.
I servizi finanziari sono stati sviluppati da entrambe le imprese; tale
strategia è stata introdotta come copia della strategia di altri concorrenti
che hanno ottenuto dei risultati di successo non soltanto derivanti dalla
produzione di automobili, ma anche dall’offerta di servizi assicurativi,
finanziari, bancari, ecc.
81
Se analizziamo tali strategie “vincenti” potremmo dedurre che la chiave del
successo in entrambi i casi è rappresentata da un mix di “isomorfismo” e
“polimorfismo”. Il termine isomorfismo descrive i processi dell’identità
strutturale delle organizzazioni nell’ambito dello stesso campo di
appartenenza. Potremmo distinguere tre principali meccanismi fra le cause
del cambiamento organizzativo verso l’isomorfismo.
(1) L’isomorfismo basato sulla pressione esterna (isomorfismo coercitivo)
può derivare sia da pressioni formali e informali che le organizzazioni
possono esercitare su altre organizzazioni dipendenti o dalle aspettative
dell’ambiente sociale a cui appartengono tali organizzazioni. La portata
dell’impatto strutturale sulle organizzazioni dipende dalle risorse
ricevute dalle potenti istituzioni centrali.
(2) L’isomorfismo basato sull’imitazione (isomorfismo mimetico) è
caratterizzato dalla copia di elementi strutturali di modelli organizzativi
che sono ritenuti legittimi e di successo. L’incertezza è un fattore
estremamente rilevante nell’isomorfismo per imitazione. L’insicurezza
può derivare dall’eventuale ambiguità degli scopi dell’organizzazione o
dai cambiamenti intervenuti nella relazione mezzi-fini.
(3) L’isomorfismo basato sugli obblighi (isomorfismo normativo)
contraddistingue il presunto dovere di conformarsi allo “stato dell’arte”
in una certa comunità professionale che utilizza una base cognitiva
comune nello stabilire norme e modelli.
D’altra parte, il “polimorfismo” si riferisce all’evoluzione di strutture basate
su tradizioni regionali o culturali e deriva dall’impatto di determinati
ambienti intellettuali, legali, sociali ed economici.
Vale la pena osservare come nel corso degli ultimi venti anni non tutte le
strategie adottate da entrambi i gruppi abbiano avuto successo, benché
seguissero i comuni modelli di riferimento, ma è anche vero che entrambi
hanno messo a punto dei sistemi individuali propri. In entrambi i casi, le
strategie scelte si sono rivelate per alcuni versi giuste e per altri errate: ad
esempio, l’Audi ha progettato una piccola utilitaria notevole dal punto di
vista tecnico – la A2 – che però non è stata presa in considerazione dal
mercato; d’altra parte, la BMW ha riscosso un grande successo nello stesso
segmento con la Mini. La decisione di non conformarsi alla filosofia
prevalente di mercato in alcuni casi è stata corretta, ma anche l’impostazione
basata sul modello “mainstream” si è rivelata errata: ad esempio, la BMW
ha fatto la scelta giusta negli anni 1980 quando ha deciso di non seguire una
“strategia di diversificazione”, come invece ha fatto senza successo la
Mercedes; ma è anche vero che la BMW si è ritrovata in serie difficoltà dopo
82
l’acquisizione del Gruppo Rover, benché in quel momento questa decisione
era stata presa sulla scia della strategia diffusa a livello mondiale e seguita
dai diversi produttori automobilistici.
Il grafico seguente riassume in cinque dimensioni – tecnologia,
organizzazione del lavoro, struttura organizzativa e mercato – i principali
sviluppi avvenuti nel settore automobilistico dal 1920 al 1980 ed oltre:
Fig. 6 –Sviluppi relativi alla tecnologia, l’organizzazione del lavoro, la
struttura e l’orientamento del mercato nel settore automobilistico
Agli inizi del 1900, le automobili erano prodotte su piccola scala e le poche
unità erano costruite principalmente secondo i criteri della produzione
artigianale. I componenti necessari per la produzione erano forniti da
fabbriche che erano solitamente ubicate in prossimità degli stabilimenti dei
produttori automobilistici.
Negli anni ‘20, avvenne un radicale cambiamento con l’introduzione della
produzione di massa e della produzione basata sul sistema della catena di
montaggio nella fabbrica della Ford negli Stati Uniti d’America, ad opera di
Womack, che rappresentò la prima rivoluzione nell’industria
automobilistica.
Il concetto fondamentale alla base della produzione di massa è
l’assemblaggio su vasta scala dei singoli pezzi costruiti dai fornitori esterni.
La tecnologia usata può essere caratterizzata come meccanizzazione e
83
automazione rigida; l’organizzazione del lavoro, tradizionalmente di tipo
Tayloristico-Fordistico, si basa sul concetto dell’ingegnerizzazione
scientifica, che comprende tutta una serie di specifiche funzioni e
segmentazioni alla catena di montaggio con mansioni monotone e ripetitive.
Sia l’Audi che la BMW hanno adottato tale modello di produzione
(isomorfismo mimetico) e applicato con successo il concetto della
produzione di massa.
Tra il 1925 e il 1930, a Berlino, fu assemblata la prima BMW.
Successivamente, la produzione fu trasferita ad Eisenach nella Turingia,
seguita dallo slogan: “La BMW Dixi rappresenta per l’Europa ciò che la
Ford è per l’America.”
A partire dal 1931, fu realizzato il modello DKW Audi nello stabilimento di
Zwickau: fino al 1942 oltre 250.000 modelli uscirono dalla fabbrica.
I cambiamenti avvenuti nella produzione automobilistica nel dopoguerra
sono stati simili sia per l’Audi che per la BMW e hanno seguito le strategie
adottate dalla maggior parte dei produttori automobilistici:
· dal punto di vista tecnologico, a partire dagli anni ‘80, la
meccanizzazione e l’automazione sono state sostituite dalla
computerizzazione, dal controllo numerico (NC) e dall’automazione
flessibile.
· l’introduzione del lavoro di squadra nell’organizzazione del lavoro ha
sostituito il concetto tradizionale del lavoro di fabbrica gerarchico. E’
stato adottato il “modello giapponese”, ma in combinazione con la
tradizione culturale di entrambi i gruppi.
· per quanto riguarda il lato dell’offerta, è avvenuto un processo
d’integrazione verticale. Tale processo d’integrazione si è fermato negli
anni ‘90 quando Ford e General Motors furono le prime ad
esternalizzare la produzione di alcuni componenti, seguite poi da altre
case automobilistiche che copiarono tale concetto. La struttura aziendale
divenne multidivisionale e gerarchica. Benché le automobili fossero
vendute in tutto il mondo, i mercati e le interdipendenze fra i fornitori
mantengono ancora un carattere regionale. La struttura aziendale è
cambiata, passando dal concetto originario di “fabbrica unitaria” –
descritta in teoria come un sistema chiuso – a una struttura gerarchica
multidivisionale – concettualizzata come un sistema aperto – verso la
costituzione di reti d’imprese e dei loro fornitori con un integrazione
verticale e orizzontale e con interconnessioni transfunzionali – che
possono essere interpretate al meglio facendo riferimento alla teoria
ecologica o neo-istituzionale.
84
·
l’area di azione delle imprese e delle reti assume caratteristiche sempre
più globali. Il termine chiave “glocalizzazione” si riferisce al fatto che
entrambi i tipi d’imprese hanno messo a punto delle strategie adeguate
per soddisfare le esigenze dei diversi mercati nazionali, seguendo allo
stesso tempo delle strategie globali (es. Audi in Cina, BMW in Sud
Africa).
4 Relazioni fra fornitori
Per quel che concerne lo sviluppo delle relazioni fra produttori e fornitori nel
settore automobilistico, possiamo distinguere brevemente quattro fasi nella
ristrutturazione del rapporto fra l’Audi e la BMW e i rispettivi fornitori, a
partire dal 1980:
1. un tipo di esternalizzazione (outsourcing) prevalentemente a livello
nazionale;
2. la concentrazione dei fornitori a livello regionale e una crescente
gerarchia fra di essi e l’internazionalizzazione della catena di fornitura;
3. la costituzione di parchi di fornitori e una crescente importanza dei
cosiddetti “mega-fornitori” e dei “campioni nascosti”;
4. tentativi di recuperare il controllo sulla catena di fornitura; lo sviluppo
d’imprese virtuali.
Riassumendo, potremmo affermare che tali sviluppi indicano degli effetti
opposti: da una parte, l’espansione globale della produzione e dall’altra il
suo crescente radicamento in reti regionali. Durante l’ultima fase, hanno
assunto una crescente importanza i luoghi virtuali e la collaborazione in
tempo reale, mentre i luoghi “reali” della produzione automobilistica restano
sempre al centro della produzione.
Nel 1990 una ricerca sugli effetti regionali della riorganizzazione
dell’industria automobilistica incentrata sulla regione di Ingolstadt ha messo
in luce come all’epoca l’Audi avesse una rete di 1.200 fornitori
contemporaneamente, che assicuravano la continuità della fornitura di
componenti agli stabilimenti di Ingolstadt e Neckarsulm, per la maggior
parte provenienti dalla Germania stessa. La maggior parte delle imprese era
ubicata nelle regioni del Nord Rhein Westphalia, del Baden-Württemberg e
della Baviera, mentre altri pezzi di ricambio e componenti provenivano dalle
altre regioni dell’Assia, della Bassa Sassonia, Rheinland-Pfalz, Berlino,
Amburgo, Schleswig-Holstein, Saarland e Brema. Ulteriori componenti
erano importati da Austria, Italia e Francia, diretti allo stabilimento di
Ingolstadt (provenienti dagli stessi produttori in parte per l’Audi e in parte
85
per la BMW), e di Neckarsulm, ma anche da Gran Bretagna, Paesi Bassi,
Belgio, Stati Uniti, Svezia, Yugoslavia, Lussemburgo, Norvegia e Giappone.
Oltre 11.000 singole imprese offrivano, producevano, consegnavano o
costruivano utensili, macchine, edifici, trasporti, ecc. Nella stessa regione di
Ingolstadt circa 350 imprese in 51 diverse località lavoravano per l’Audi
AG, di cui la maggior parte costituita da piccole e medie imprese.
In questa fase, l’Audi e la BMW lavoravano con il sistema degli spedizionieri
regionali. Tutti i componenti erano trasportati presso un interporto, dove
erano smistati e caricati su TIR destinati a percorrere lunghi tragitti notturni
per consegnare puntualmente la merce agli stabilimenti produttivi la mattina
successiva. A uno degli spedizionieri era affidato il compito di organizzare i
trasporti giornalieri.
Per migliorare e stabilizzare la catena della fornitura era data più
responsabilità ai singoli fornitori affinché essi stessi organizzassero il flusso
dei materiali e delle informazioni.
In tal modo si è evoluta in modo continuativo la piramide gerarchica della
fornitura. Il numero dei fornitori di primo livello variava fra gli 800 e i
2.000; a sua volta ogni fornitore di primo livello poteva contare su una
struttura di 200 - 800 subfornitori. Alla fine l’indotto era composto da
160.000 unità di fornitura e fino a 1.600.000 imprese nella cascata totale di
fornitori.
A tale proposito, il fatto che questo sviluppo si sia verificato
simultaneamente per tutti i produttori automobilistici, ha provocato degli
effetti collaterali indesiderati derivanti da tali strategie, ossia l’enorme
crescita del traffico per il trasporto merci in Europa centrale e una notevole
crescita del settore logistico.
Nel corso degli anni ‘90, è avvenuta una profonda ristrutturazione di questo
sistema di produzione e fornitura, che potrebbe essere caratterizzato dai
seguenti elementi:
· nell’ambito di ogni trust è stato ideato il concetto di
piattaforma-produzione; all’interno dei gruppi è stata messa a punto una
specializzazione e una divisione funzionale dei prodotti; diverse serie
sono state prodotte nei singoli stabilimenti utilizzando componenti e
sistemi prodotti in altre fabbriche; ad esempio, l’Audi assemblava il
modello TT a Györ, i modelli A2 e A8 a Neckarsulm, A3 e A4 a
Ingolstadt e produceva diversi tipi di motori per il Gruppo Volkswagen;
inoltre, una linea di assemblaggio motori fu aperta a Györ in Ungheria,
mentre gli spedizionieri locali consegnavano pezzi del motore a
Ingolstadt o a Györ, ed era stato istituito un treno che ogni notte
86
trasportava avanti e indietro fra i due stabilimenti pezzi e motori
completi;
· le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione sono state
implementate su vasta scala a supporto della produzione all’interno della
fabbrica e delle relazioni con i fornitori esterni;
· furono, inoltre, sviluppati e adottati i concetti di automazione
intelligente;
· all’interno della fabbrica fu avviato un processo continuo di
riorganizzazione e di miglioramento mediante l’introduzione di
tecnologie sociali ;
· furono messi a punto vari strumenti come l’outsourcing, l’insourcing e
la subfornitura per riorganizzare le relazioni interne ed esterne;
· esternamente, le relazioni con i fornitori erano costantemente
riorganizzate; agli spedizionieri si chiedeva di offrire dei servizi logistici
supplementari; alcuni furono in grado di soddisfare questo tipo di
domanda e di rivoluzionare totalmente la gamma di servizi offerti,
mentre altri rinunciarono e si ritirarono dal mercato;
· i fornitori reagirono ai cambiamenti che stavano avvenendo all’interno
del settore automobilistico offrendo nuovi prodotti; ad esempio, un
ex-produttore di pompe ubicato vicino allo stabilimento dell’Audi a
Ingolstadt avviò la produzione di tettucci apribili, che erano venduti
anche al Gruppo Volkswagen.
La complessità e la varietà crescenti della produzione automobilistica
avevano bisogno di essere gestite; un’automobile Audi normalmente presenta
non meno di 35.000 componenti diversi di notevole varietà; la consegna di
tali componenti non poteva avvenire unicamente a partire da alcuni
magazzini. Da ciò consegue il riconoscimento dell’importanza e del
miglioramento crescente dei sistemi logistici; i fornitori erano coinvolti in
tutti i passaggi del processo produttivo e si fecero carico dei servizi logistici,
oltre al trasporto o alla produzione hardware come parte delle loro attività.
La disintegrazione verticale è la ragione alla base della crescita della catena
della fornitura.
Già negli anni ‘90, il giro d’affari dei servizi logistici in Europa si aggirava
intorno a un volume di oltre 80 milioni di ECU. La maggior parte di questo
volume riguardava i servizi logistici convenzionali – oltre 60 milioni di ECU
– per il deposito e il trasporto. Un esempio che illustra chiaramente la
crescita di questo settore è costituito dal Gruppo Thyssen che entrò nel
mercato dei servizi logistici nel 1967. Nel 1988 Thyssen Trans aveva un
fatturato di 500,000 DM e impiegava 2.000 addetti. Alla fine degli anni
87
1990 impiegava 8.000 addetti con un fatturato di oltre 3,2 milioni DM. Il
gruppo contava 300 sedi in oltre 30 paesi diversi, sia all’interno che
all’esterno dell’Unione Europea, come, ad esempio, a Singapore.
Nell’ambito del gruppo di fornitori, avvenne un processo di concentrazione,
ma talvolta la motivazione alla base del processo di fusione ed acquisizione
era semplicemente quella di voler sfruttare altre imprese di successo, come
ad esempio il caso della Peguform che si ritrovò in gravi difficoltà dovute al
fatto che le American Venture Industries avevano prelevato fondi dalla
consociata tedesca, provocando un debito di oltre cinquanta milioni di Euro
e mettendo a rischio circa 5.500 posti di lavoro.
Le ragioni che portarono a tale processo di concentrazione fra i fornitori
sono le seguenti:
· “Il mondo è la fabbrica”: era possibile sopravvivere alla crescente
concorrenza solo costituendo delle reti di produzione internazionali;
· “Il mondo è il mercato”: solo una rete globale consolidata di fornitori era
in grado di seguire gli OEM nel processo di trasformazione in “attori
globali”.
I fornitori di maggiore successo sono stati in grado di occuparsi delle
funzioni chiave dell’approvvigionamento e della consegna di componenti e
sistemi piuttosto che singoli componenti, mentre gli OEM si sono concentrati
sulle competenze chiave. I maggiori fornitori mondiali del settore
automobilistico sono elencati nella tabella seguente (Fig. 7):
Nel 2001 il maggiore fatturato annuale (in miliardi di Euro) è stato
conseguito dai seguenti mega-fornitori: Delphi Automotive Systems (28,7),
Robert Bosch (23,2), e Visteon Automotive Systems (19,98), seguiti da
Denso (17,87), Lear (14,99), Johnson Controls (14,98), Magna
International (11,55), TRW (11,12), Faurecia (9,61), Alsin Seiki (9,31),
Dana (8,48), Valeo (8,08), ZF Friedrichshafen (7,8), Yazaki (6,77), Arvin
Meritor (6,37), Thyssen Krupp Automotive (6,21), DuPont (5,72), Siemens
VDO Automotive (5,7), Michelin (5,06), GKN (4,84), Autoliv (4,39),
Magneti Marelli (4,2), Koyo Seiko (4,06), Calsonic Kansel (4,0),
Bridgestone/Firestone (3,83), Takata (3,63), Goodyear Tire Rubber (3,56),
BASF (3,5), e American Axle Manufacturing (3,42).
Cinque dei maggiori mega-fornitori europei sono tedeschi (Bosch,
Continental, ZF Friedrichshafen, Thyssen Krupp, Siemens), tre francesi
(Valeo, Faurecia, Michelin), uno inglese (GKN), e uno italiano (Magneti
Marelli).
Le conseguenze della crescente importanza dei fornitori per l’Audi e la BMW
sono state:
88
·
·
·
·
·
le operazioni di produzione, ricostituzione delle scorte e distribuzione
sono state organizzate a livello globale; i fornitori di primo livello si
sono assunti la responsabilità di sostenere la rete di distribuzione
globale;
i servizi erogati dai fornitori di software hanno acquisito una maggiore
importanza;
la precisione nelle consegne (Just-in-time) e la consegna alla linea
(Ship-to-line) sono state costantemente migliorate;
l’innovazione continua dei cicli di produzione ha richiesto un
coinvolgimento dei fornitori fin dalle prime fasi delle attività di R&S;
la flessibilizzazione e il decentramento nei rapporti di fornitori OEM
hanno creato una maggiore domanda di metodi e strumenti per orientare
la collaborazione.
89
Fig. 7 - I 30 principali mega-fornitori mondiali del 2001
In breve, si possono distinguere tre tipi di fornitori, la cui strategia è stata
“vincente” durante la fase di ristrutturazione per il Gruppo BMW:
1. Mega-fornitori con un fatturato annuo di oltre 2,5 miliardi di Euro; il
vantaggio di queste imprese è determinato dalla loro presenza globale,
dal potere finanziario, dalla capacità produttiva e dalla forza di
partecipazione alle attività di R&S degli OEM;
90
2. I fornitori piccoli e medi con un fatturato annuo di meno di 500 milioni
di Euro; i vantaggi di queste imprese sono: la flessibilità, la prontezza e
le soluzioni ad hoc, interesse nel produrre solo piccoli volumi;
3. I grandi fornitori con un fatturato annuo di meno di 2,5 miliardi e di
oltre 500 milioni di Euro, che riescono a combinare i vantaggi degli altri
due tipi di fornitori.
Sono stati adottati nuovi concetti e strumenti per la cooperazione fra OEM e
fornitori. Ad esempio, l’Audi ha lanciato il processo KVP2 (il processo di
miglioramento continuo quadrato) che comprendeva fabbriche congiunte con
risultati integrati e progetti di consegna orientati, focalizzate all’aumento
degli utili dei clienti e alla riduzione degli sprechi, l’ottimizzazione dei
metodi di lavoro e l’ottimizzazione della qualità.
La BMW ha richiesto ai suoi fornitori di assicurare la gestione della qualità e
la trasparenza lungo tutti i processi, compresi tutti i subfornitori. I fornitori
sono stati così costretti a stabilire per ogni cliente il proprio sistema di
elaborazione dati relativo al controllo qualità.
5 Effetti regionali
Poiché questi nuovi concetti richiedevano una collaborazione più stretta fra
Audi e BMW e i fornitori, sono stati costituiti sofisticati sistemi regionali di
fornitura e preassemblaggio nei pressi dei siti produttivi della Baviera del
Sud e degli stabilimenti BMW e Audi. In questa regione, i fornitori hanno
stabilito delle linee di preassemblaggio che servivano solo a questo scopo,
mentre i pezzi di ricambio e i componenti erano prodotti in paesi a basso
costo salariale, come la Repubblica Ceca, la Slovacchia o la Polonia.
Attualmente, circa 80 fornitori Audi hanno la loro sede in Baviera, dove la
direzione Audi sostiene l’insediamento di siti produttivi.
In Baviera si è costituita, con il sostegno del governo regionale, una rete
denominata BAIKA, di cui fanno parte: Audi, BMW, DaimlerChrysler,
Ford, Honda, Opel, Peugeot, Porsche, Renault, Toyota, Volkswagen, i 10
gruppi di fornitori più importanti, Aisin Seiki, Bosch, Delphi Automotive
Systems, Denso, Faurecia, Johnsons Controls, Lear, Magna International,
TRW, Visteon, 850 imprese della Baviera e 1.450 fornitori di 34 paesi..
La rete BAIKA collabora con partner internazionali nell’ambito di reti di
fornitori a livello europeo e negli USA: Automobilcluster Österreich (258
membri), Detroit Regional Chamber, ACS – Il Distretto Automobilistico
della Slovenia (50 membri), AFIA – La Società Portoghese dei Produttori
di Componenti per Automobili (48 membri), ZAP SR – l'Associazione
91
dell'Industria Automobilistica della Repubblica Slovacca (157 membri),
l'Associazione dell'Industria Automobilistica della Repubblica Ceca (14
OEM-115 fornitori), NEVA – Settore Automobilistico Olandese (280
membri), l'Associazione Ungherese dei Produttori di Componenti per
Automobili (205 membri).
Altri gruppi internazionali simili sono, ad esempio, AFAC (Argentina),
Sindipecas (Brasile), Acma (India), Japia (Giappone), e INA (Messico)
AMICA (Marocco), MEMA/OESA (USA).
E’ interessante notare come nella maggior parte di queste reti di fornitori
regionali o nazionali sono presenti i “mega-fornitori”; ciò rappresenta una
prova del fatto che costituiscono una rete interna globale all’interno delle
loro strutture.
Nel vecchio schema organizzativo dello stabilimento Audi le linee di
assemblaggio erano circondate da zone di consegna di parti e componenti. In
questa zone i componenti erano preassemblati e poi portati alle linee di
assemblaggio finale. Nel caso dello stabilimento Audi di Ingolstadt ad
esempio, le parti anteriori erano consegnate da una fabbrica specializzata nel
preassemblaggio ubicata a 500 metri di distanza, le strumentazioni
provenivano da un fornitore ubicato a 3 chilometri di distanza, i cruscotti e i
circuiti interni del cofano da un altro fornitore ubicato a 5 chilometri di
distanza, i paraurti da due fornitori ubicati a 24 e 25 chilometri di distanza, i
pannelli di rivestimento interno degli sportelli da fornitori ubicati a una
distanza di 26 chilometri, i sedili da fornitori ubicati a una distanza di 27
chilometri e i serbatoi da altri fornitori ancora ubicati a una distanza di 103
chilometri.
La realizzazione di un parco fornitori (Güterverkehrszentrum), ubicato
direttamente all’ingresso dello stabilimento Audi, dove attualmente si sono
insediate 17 ditte fornitrici con oltre 2.500 addetti, costituisce una nuova
formula organizzativa che consente il preassemblaggio di moduli e impianti
in perfetta sincronia, grazie alla produzione all’interno dello stabilimento.
Possono costituire un esempio il modulo anteriore e la batteria. Nel primo
caso, la parte anteriore è montata nella linea di assemblaggio del parco
fornitori e portata esattamente in sequenza con la linea di assemblaggio
Audi; nel secondo caso, la batteria è montata direttamente dagli addetti del
fornitore presso la linea di assemblaggio all’interno dello stabilimento Audi.
Questo modello permette l’applicazione del concetto della “fabbrica che
respira” stabilendo una collaborazione variabile con i fornitori; inoltre,
migliora il controllo dell’intera catena di produzione, mediante il
monitoraggio dell’intero ciclo produttivo e delle singole sequenze.
92
Il sistema del parco fornitori è stato realizzato da Audi anche a Neckarsulm,
(15 fornitori), e da BMW a Regensburg (10 fornitori) e Lipsia. Altri OEM
hanno introdotto questo sistema, come illustrato nella Tabella seguente.
Tab. 1 - Parchi di fornitori
Audi
BMW
Fiat
Ford
GM
Jaguar
MCC (Smart)
Mercedes
Opel
Renault
SEAT
Volkswagen
Volvo
Località
Neckarsulm
Ingolstadt
Regensburg
Leipzig
Melfi
Colonia
Valencia
Saarlouis
Ellesmere Port
Halewood
Hambach
Rastatt
Bochum
Rüsselsheim
Anversa
Vauxhall
Sandouville
Martorell
Arbrera
Mosel
Bruxelles
Palmela
Torslanda
Numero di fornitori
15
17
10
18
11
41
10
3
15
13
10
80
7
3
7
26
9
13
7
14
8
Nel caso del parco fornitori Audi di Ingolstadt (GVZ –
Güterverkehrs-zentrum) la nostra ricerca mostra come il sistema sia stato
sviluppato gradualmente – e non pianificato all’interno di un programma
generale prestabilito. In seguito alla costruzione dei primi edifici del parco,
l’esperienza ha permesso di migliorare la collaborazione e quindi sono state
costruite ulteriori strutture e si sono insediati nuovi fornitori.
93
6 Riorganizzazione della catena della fornitura
Questo modello non è stato ideato da Audi o BMW, ma dalla Fiat di Melfi, a
cui le imprese tedesche si sono riferite; ci troviamo di fronte a d un esempio
di isomorfismo mimetico. Entrambi i produttori hanno creato anche delle
strutture polimorfiche, basate sulle loro specifiche opportunità, esperienze e
tradizioni locali.
I fattori di successo alla base di questo modello possono essere descritti
come segue:
· i rischi d’investimento sono ridotti; ad es. il parco fornitori è stato
finanziato dal governo regionale; gli edifici adibiti all’assemblaggio e
all’immagazzinamento possono essere affittati solo dai fornitori e gli
investimenti necessari devono essere sostenuti totalmente da essi; solo in
alcuni casi l’Audi ha assistito finanziariamente la realizzazione
d’infrastrutture per la produzione o per la fornitura di servizi logistici;
· la collaborazione fra l’Audi e i fornitori è migliorata e i contatti diretti
possono essere immediatamente attivati se necessario;
· l’Audi ha un controllo diretto in tempo reale sulla situazione produttiva
dei fornitori; i problemi di produzione possono essere evidenziati sul
nascere.
Uno degli obiettivi della ristrutturazione dei rapporti fra OEM e fornitori
consiste nell’affrontare l’organizzazione verticale della produzione per
abbassare i costi di produzione. Il grafico seguente illustra il rapporto di
produzione netto reale fra BMW e DymlerChrysler che attualmente è a circa
il 30 %, mentre per l’Audi è al 20 %. La Porsche ha il rapporto più basso a
circa il 18 %.
94
Fig. 8 – Organizzazione verticale della produzione
Ci si potrebbe aspettare che le aspettative sui fornitori si amplino
notevolmente. In futuro gli OEM si concentreranno sempre di più sulle
proprie competenze chiave, mentre i fornitori si occuperanno sempre di più
di altre mansioni, quali la costruzione, la produzione, il coordinamento dei
subfornitori, la funzionalità e la qualità dei sistemi nella loro totalità.
Per l’anno 2010 si prevede che il rapporto di produzione netto reale per gli
OEM scenderà nuovamente al 20 %, la quota dello sviluppo al 50 %e la
quota totale al 25 %.
Sviluppi già in atto possono essere riscontrati in:
· Cooperazione in R&S;
· produzione e logistica;
· Gestione della catena della fornitura.
La cooperazione in attività di R&S costituiva già un elemento del concetto di
produzione snella. Le squadre di sviluppo con membri degli OEM e dei
fornitori rappresentavano un concetto noto come ingegneria simultanea
(simultaneous engineering) (SE). Nello sviluppare nuovi prodotti, le
95
squadre SE si riunivano regolarmente per l’ideazione, per discutere i vari
problemi o per mettere a punto delle soluzioni.
Se distinguiamo quattro fasi nello sviluppo di un nuovo modello di
automobile, prendendo come esempio la serie 3 della BMW, possiamo
osservare che oggi i fornitori sono coinvolti sin dalle prime fasi del processo
e gli vengono assegnati molti più incarichi rispetto al passato.
Negli anni ’90 la pianificazione strategica, la fase preliminare dello svilppo
della serie e lo sviluppo vero e proprio erano di competenza della BMW; i
fornitori intervenivano solo alla fine dello sviluppo e durante la produzione
della serie. Mentre, i fornitori intervenivano solo alla fine dello sviluppo
della serie e durante la produzione della serie. Nel 1998 i principali fornitori
erano coinvolti sin dall’inizio nella fase di sviluppo della serie, mentre per
quanto riguarda la serie del 2005, il coinvolgimento inizia sin dalla fase
preliminare.
Attualmente, la modalità più frequente prevede che degli ingegneri lavorino
direttamente all’interno degli stabilimenti Audi e BMW durante lo sviluppo
di un progetto per migliorare la comunicazione fra i partner. Il risultato è
una maggiore dipendenza fra le imprese.
Le interviste effettuate alla fine di questa fase di ristrutturazione hanno
messo in rilievo dei nuovi problemi emergenti nella cooperazione fra gli
OEM e i fornitori dal punto di vista della gestione dei produttori e dei
fornitori, quali:
4. I problemi logistici fra i produttori automobilistici e i fornitori erano
spesso dovuti a difficoltà di comunicazione, discrepanze sociali e
differenze culturali piuttosto che a difficoltà tecniche; molto spesso gli
addetti e soprattutto i proprietari delle ditte fornitrici si lamentavano
dell’arroganza e delle abitudini autoritarie dei dirigenti della ditta OEM;
5. Sono state individuate differenze di qualifiche e salari fra le persone
coinvolte (dirigenti e lavoratori); gli addetti delle ditte fornitrici che
lavoravano all’interno e all’esterno dello stabilimento OEM hanno
reagito esprimendo la loro insoddisfazione con un alto tasso di mobilità
di lavoratori sia in posizioni dirigenziali che come operai;
6. Sono emerse delle strategie di contrapposizione nascoste da parte dei
lavoratori dell’OEM, derivanti dalla paura di perdere posti di lavoro a
causa della strategia di outsourcing;
7. La combinazione fra le strategie di insourcing e outsourcing, nel caso ad
esempio in cui un componente veniva ancora prodotto direttamente nello
stabilimento, mentre altre parti erano realizzate da un fornitore esterno,
96
allora gli addetti della ditta OEM non cercavano di risolvere gli
eventuali problemi d’interfaccia;
8. L’alto tasso di mobilità di lavoratori non era fonte di preoccupazione per
la direzione del mega-fornitore, che ha sede negli USA, poiché la loro
competitività è garantita da una strategia globale di produzione e
fornitura; inoltre, i dirigenti del mega-fornitore non sono interessati a
migliorare il capitale umano che risiede in regioni lontaei o in paesi
stranieri.
Sotto la pressione costante della concorrenza globale, alcuni fornitori hanno
sviluppato ulteriori capacità funzionali, che si sono rivelate di grande
successo, tanto che ad esempio nel 2003 ZF Friedrichshafen ha registrato
un fatturato annuo di 8,9 miliardi di Euro, 53,500 addetti in 119 stabilimenti
in 25 paesi (27 stabilimenti in Germania, 13 negli USA, 9 in Cina, 7 in
Francia, 5 in Brasile, Spagna e Italia, 4 in Sud Africa, 3 in India, 2 in
Corea, Slovacchia, Turchia e Austria, 1 in Argentina, Australia, Algeria,
Belgio, Ungheria, Iran, Tailandia, Taiwan).
Alcuni “campioni nascosti” – anche fra le piccole e medie imprese – hanno
sviluppato delle applicazioni e delle conoscenze chiave e, dunque, si sono
create nuove dipendenze per gli OEM.
7 Mega-fornitori
Alcuni dei fornitori di primo livello sono diventati essi stessi degli operatori
globali e si sono trasformati in imprese ancora più grandi degli stessi
produttori automobilistici. Questi “mega-fornitori” attualmente forniscono
diversi componenti a quasi tutti i produttori automobilistici sulla piattaforma
di una strategia globale di produzione e in qualsiasi località mondiale; alcuni
potrebbero avere già raggiunto la capacità di produrre essi stessi
un’automobile, sulla base delle conoscenze raccolte nell’ambito della
collaborazione con tutte le più importanti case automobilistiche.
Un’ulteriore differenziazione fra i gruppi di fornitori si riferisce alla capacità
di fornire solo parti, componenti, sistemi, o moduli. Mentre alcuni autori
descrivono queste caratteristiche come il risultato di un processo evolutivo,
le interviste realizzate mostrano in realtà uno scetticismo crescente riguardo
al concetto della modularizzazione a causa dei costi e degli sforzi crescenti
di coordinamento.
Le tendenze descritte hanno cambiato il rapporto fra produttori
automobilistici e i loro fornitori a causa della mutata natura della relazione
97
fra produttori e fornitori (ossia il potere fondato su conoscenze strategiche,
competenze di R&S, legami globali).
Ciò vale, in particolare, per il rapporti fra gli OEM e i mega-fornitori.
I mega-fornitori sono spesso definiti in base alla loro “massa critica”: il
numero e la dimensione degli stabilimenti, la presenza globale, il fatturato, il
capitale, e il numero di addetti, come illustrato nei seguenti grafici, con
l’esempio del Gruppo BMW e dei suoi mega-fornitori.
Fig. - Fatturato
Il Gruppo BMW con oltre 42.200 milioni Euro ha il più alto fatturato
rispetto a Delphi (oltre 24.200 milioni Euro), Bosch (23.300 milioni Euro),
Lear (oltre 12.700 milioni Euro), Johnson controls (oltre 17.700 milioni
Euro), Magna International (oltre 14.400 milioni Euro), Faurecia (9,900
milioni Euro), e Siemens VDO (oltre 8.500 milioni Euro).
98
Fig. 9 - Addetti
La maggior parte degli addetti lavora per Bosch (oltre 225.000 a livello
mondiale), seguito da Delphi (192,000), Lear (120.000), Johnson Controls
(113.000), dal Gruppo BMW con 101.365 addetti, mentre Magna
International (73.000), Faurecia (59,000), e Siemens (43.000) hanno un
minore numero di addetti.
E’ interessante notare come alcuni dei “mega-fornitori” sono più
internazionalizzati, come illustrato dal grafico successivo.
99
Fig. 10 - Mega-fornitori e siti nei vari paesi
Mentre il Gruppo BMW è presente in 30 paesi (con 50 stabilimenti), Bosch
opera in 50 paesi (236 stabilimenti), Delphi in 41 paesi (41 stabilimenti),
Siemens in 34 paesi (137 stabilimenti), Lear in 33 paesi (300 stabilimenti),
Johnson Controls in 30 paesi (500 stabilimenti). Solo Faurecia (27 paesi,
160 stabilimenti), e Magna International (22 paesi, 245 stabilimenti) sono
meno “globalizzati”.
Il Gruppo BMW stima in una proiezione una crescente importanza dei
fornitori di primo livello (fornitori di sistema), come illustrato dal grafico
successivo.
100
Fig. 11 – Fornitori di primo livello per dimensione (BMW)
Nell’anno 2000, 35 mega-fornitori avevano una quota di fatturato pari al 36
% (= 4.7 miliardi di Euro), con circa 200 grandi imprese partecipanti in
qualità di fornitori di sistema con il 29 % del fatturato, (= 3.8 miliardi di
Euro), con circa 700 piccole e medie imprese coinvolte con il 35 % (= 4.5
miliardi di Euro). Entro il 2006, la quota dei mega-fornitori è destinata a
salire al 50 %, con le grandi imprese che resteranno a circa il 30 %; mentre
la quota delle PMI si ridurrà al 20 %.
Il grafico successivo mostra che i fornitori hanno già assunto il ruolo di
imprenditori nel settore automobilistico considerando il numero di
innovazioni da loro sviluppate:
101
Fig. 12 – Settore d’Innovazione
Nel 2001 in un campione rappresentativo di progetti di pre-sviluppo di
ricerca, le piccole e medie imprese (PMI) BMW hanno conseguito lo stesso
numero d’innovazioni significative (3 su 18; 16,7 %) delle grandi imprese; lo
stesso numero proveniva da innovazioni interne; 9 (50 %) sono state
presentate da mega-fornitori. Tre innovazioni con una USP - unique selling
position sono state sviluppate da PMI e grandi imprese (ognuna con una
quota del 17,5 %), mentre 8 (82,5 %) sono state realizzate da
mega-fornitori; in questa categoria non è stata presentata nessuna
innovazione interna.
Per quel che concerne questi dati, si potrebbe dire che uno degli effetti
collaterali non previsti delle strategie di fornitura degli OEM negli anni ‘90 è
stata la crescente dipendenza degli OEM dai “mega-fornitori” e dai
“campioni nascosti”: con un conseguente mutamento dell’equilibrio di
potere.
Gli OEM hanno, quindi, cercato delle alternative e dei cambiamenti nelle
loro strategie e nella gestione della catena della fornitura:
102
La risposta della BMW al potere crescente dei mega-fornitori è di:
· Creare un mix di fornitori: ossia, obbligare i fornitori di primo livello a
collaborare con i fornitori scelti dall’OEM senza permettere loro di
assumere il controllo sulle attività dei fornitori di secondo livello;
· Costruire delle reti di fornitori: reti integrate per la modularizzazione e
reti integrate per partenariati strategici con fornitori autonomi a diversi
stadi della catena di fornitura.
8 Imprese virtuali
Un concetto evolutivo della strategia di partenariato consiste nello sviluppo
delle imprese virtuali (VE), ossia reti di OEM e fornitori con collegamenti
fra i diversi stadi della cascata di fornitura, mediante l’utilizzo delle
tecnologie dell’informazione avanzate (IT), messe a punto dall’industria
automobilistica, per migliorare la cooperazione fra OEM e fornitori.
Il networking attraverso strutture virtuali può essere interpretato come una
reazione alla pressione dei costi, per ottimizzare la catena del valore
aggiunto e per integrare partner, clienti e fornitori. Poiché le strategie di
risparmio sui costi mediante la riorganizzazione interna della produzione di
massa sono estremamente sfruttate e poiché le potenzialità di risparmio
derivanti dalla spremitura dei fornitori sono limitate e mettono in pericolo la
qualità della produzione, il processo di ottimizzazione della catena della
fornitura è diventato il fattore più importante nella competizione globale, in
quanto determina la qualità delle interfacce ed è essenziale per la
determinazione del prezzo del prodotto finale e dell’utile delle imprese. Solo
un’organizzazione della catena della fornitura basata sulle tecnologie IT è in
grado di offrire la possibilità di ridurre i costi, migliorando la trasparenza
dei processi e automatizzando la struttura del contenuto.
VE sono anche considerate come uno strumento utile per contenere il potere
dei mega-fornitori, in quanto grazie alla rete di numerosi partner
indipendenti gli OEM possono riassumere il controllo e la guida della catena
della fornitura.
Le interviste effettuate con i dirigenti durante il periodo in cui tale strategia
era appena stata lanciata illustrano chiaramente come questa sia stata la
strada scelta nel caso dell’Audi per “riprendere il controllo sull’intera catena
della fornitura ed avere quindi la possibilità di reagire tempestivamente in
caso di interferenze”, mentre il responsabile della BMW era indeciso
riguardo ai risultati attesi dal programma VE che era stato intrapreso,
103
secondo la sua opinione, semplicemente “perché altri lo facevano e dunque
anche noi dovevamo farlo se non volevamo arrivare troppo tardi.”
Per riassumere, si potrebbe affermare che le strutture VE sono realizzate
dagli OEM al fine di:
· Monitorare e controllare la catena della fornitura;
· Sostenere l’integrazione orizzontale e verticale dei fornitori;
· Riaggiustare l’equilibrio di potere a favore degli OEM;
· Individuare in tempo reale eventuali problemi nella catena della
fornitura;
· Evitare i problemi per l’intera catena della produzione;
· Migliorare la gestione dei rischi anche per il singolo fornitore.
Il termine “impresa virtuale” (VE) è utilizzato con varie sfumature di
significato, come ad esempio:
· Impresa Virtuale;
· Azienda Virtuale;
· Organizzazione Virtuale;
· Fabbrica Virtuale.
Nella letteratura e nella pratica del management il termine VE descrive vari
oggetti e strutture, come ad esempio:
· Telelavoro;
· Squadre Virtuali;
· Uffici Satellitari;
· R&S su base IT;
· Reti intra- e inter-aziendali su base IT;
· Lavoro tramite Internet di liberi professionisti;
· Gestione della conoscenza.
Più precisamente, l’impresa virtuale (VE) può essere definita come un
insieme di forme ibride di collaborazione fra il mercato e la gerarchia basate
su condizioni giuridiche e tecnologiche mutevoli. Le piattaforme delle VE
sono delle reti d’imprese, la cui collaborazione può essere definita come una
rete temporanea.
Le “strutture virtuali” possono prendere il posto delle “strutture reali”
nell’industria automobilistica in molteplici dimensioni, come illustrato dal
grafico successivo.
104
Fig. 13 - Le imprese virtuali nell’industria automobilistica
Le strutture virtuali possono aiutare a migliorare la gestione della catena
della fornitura mediante:
· L’integrazione della catena delle informazioni e sostituendo le strategie
“push” con quelle “pull”;
· Il miglioramento della trasparenza della gestione del processo.
La “strategia del mercato virtuale automobilistico” utilizza nuovi metodi di
distribuzione e gestione.
I vantaggi della VE per la produzione sono:
· Riduzione dei costi mediante il miglioramento delle pratiche di
variazione, minori spese di viaggio e trasporto;
· Risparmio di tempo grazie all’accesso ai documenti da parte di tutti i
partner coinvolti;
· Migliore inserimento dei nuovi addetti;
· Risparmio di tempo di viaggio;
· Tempi ridotti d’immissione di un prodotto sul mercato;
· Riduzione dei rischi grazie a una migliore sicurezza dei dati e dei
processi, procedure più affidabili e razionali e trasparenza delle attività;
· Migliore flusso d’informazioni grazie all’accesso di tutti i partner allo
stesso livello d’informazioni, all’accesso simultaneo ai documenti
effettivi e evitando un sovraccarico d’informazioni;
105
·
Risparmio di tempo derivante dall’utilizzo dello stesso software (TTC) e
dalla standardizzazione degli strumenti;
· Migliore flessibilizzazione delle attività.
Alcuni esempi di VE già costituite nell’ambito della cooperazione fra OEM
e fornitori:
Audi: “Integrierte Audi-Prozessdatenbank”: IADP supporta la connessione
fra prodotto, processi e risorse.
BMW: l’integrazione della gestione dei dati e messa in rete in tempo reale.
Tutti gli attori che partecipano ai processi di pianificazione e produzione
devono essere in grado di utilizzare gli stessi dati, compreso il libero accesso
al patrimonio informativo dei fornitori.
DaimlerChrysler: la pianificazione della fabbrica digitale e programmi di
qualificazione per gli addetti.
Presso lo stabilimento di Tuscaloosa, test virtuali permettono di simulare
delle realtà già simulate, con un risparmio di tempo di almeno 1/3 per i
controlli dei dati.
Opel: la fabbrica virtuale consiste in un portale informativo di
pianificazione, costruzione, visualizzazione, ottimizzazione e unità
standardizzate per assicurare la riusabilità. La realtà virtuale sarà integrata
nel lavoro quotidiano.
European Network Exchange “ENX”: una piattaforma di comunicazione
europea del settore automobilistico su cui avvengono tutte le comunicazioni
relative alla catena della fornitura fra tutte le imprese partecipanti.
Presso la BMW le serie future sono sviluppate sulla base di modelli VR. La
VR non riguarda soltanto i processi interni, ma anche la collaborazione con i
fornitori. Un fornitore di sistema dunque deve essere in grado di produrre e
lavorare con dei programmi VR compatibili. Un modello di riferimento
digitale relativo ad un nuovo modello di automobile è prodotto, comunicato e
discusso in maniera interattiva fra gli OEM e i fornitori. I principali obiettivi
sono: la progettazione, la costruzione della carrozzeria e il packaging.
Utilizzando la stessa piattaforma software possono essere prese le decisioni
relative alla progettazione e possono essere effettuate anche le prove d’urto.
Non vi è dunque più bisogno di conversioni e trasferimenti fisici, dunque
possono essere evitati eventuali problemi d’interfaccia e perdite di dati .
L’Audi ha inoltre sviluppato la configurazione completa di una nuova
fabbrica mediante i programmi VR. “Attraverso la trasposizione diretta
negli attuali progetti di auto, abbiamo raggiunto un alto grado di
accettazione e di utilizzo produttivo”, ha affermato Gerhard Grabmaier,
coordinatore e leader di progetto della fabbrica digitale presso l’Audi. “In
106
ogni progetto di sviluppo, aumentiamo la profondità della funzionalità
utilizzata, l’integrazione e il legame con i nuovi fornitori.” Il processo
effettivo di sviluppo e ottimizzazione è incentrato sulla rete nell’intera
formazione del processo di produzione; ad esempio, i progettisti del reparto
carrozzeria sviluppano le strutture nel loro insieme, che saranno
successivamente dettagliate dai fornitori addetti all’installazione. Presso la
linea di assemblaggio l’Audi usa gli strumenti di Delmia, nel reparto
carrozzeria i prodotti Tecnomatix. Tutti i fornitori devono lavorare con gli
stessi metodi e strumenti. Con la nuova Audi A6 i fornitori coinvolti
condividono di già gli stessi processi e modelli di dati.
Il concetto di fabbrica digitale ha rafforzato la collaborazione fra i vari
reparti Audi.
La VE richiede che tutti i fornitori utilizzino gli stessi strumenti e programmi
degli OEM. Il know-how dello sviluppo virtuale di un’automobile è offerto
ai fornitori dalla BMW grazie a particolari programmi di qualificazione. La
formazione relativa ai metodi, ai processi e alle procedure di applicazione
preferita dalla BMW mira a stabilire una base di conoscenza comune. I
fornitori, tuttavia, hanno dei costi molto alti costi dovuti al fatto che sono
obbligati a utilizzare nuovi software e hardware. Poiché gli OEM lavorano
con sistemi diversi, i fornitori devono utilizzare piattaforme diverse, costose
e complesse se vogliono evitare di dipendere da uno o l’altro produttore.
Solo le grandi aziende possono permettersi di acquistare il know-how
necessario e le soluzioni dalle imprese IT come SAP, Oracle, i2, Commerce
One ma anche IBM o Siemens, e possono così definire standard e
automatizzare i processi globali. Tutti sono a favore di una tecnologia
commerciale, che sia condivisa dai propri reparti, dai fornitori e dalla
logistica. L’interesse per l’automazione e la razionalizzazione da parte degli
OEM, è condizionata dal fatto che in questo modo risulta più semplice
organizzare meglio i propri reparti tenendo conto sia dei mercati e sia della
possinilità
di
costruire
un
solido
partenariato
ai
fini
dell’approvvigionamento. L’integrazione dei fornitori non solo ne riduce il
numero ma offre anche la possibilità di produrre a dei costi più bassi. La
seconda fase consiste nell’integrare i nuovi partner nella rete di cooperazione
che realizza prodotti, componenti, sistemi o servizi simili. I fornitori e i loro
partner condividono gli stessi contenuti, il che significa che tutto ciò che
offre il mercato è organizzato in basi di dati. Ne consegue che una rete
trasparente si evolve secondo degli standard uniformi ad ogni livello.
Eventuali problemi sociali e comportamentali, che possono derivare da
questa nuova strategia sono elencati di seguito:
107
·
·
·
·
I fornitori temono che i dirigenti OEM possano perseguire delle strategie
non dichiarate, finalizzate a difendere i propri interessi e dunque
agiscono di conseguenza senza comunicare.
La collaborazione si basa sulla comunicazione; benché dal punto di vista
del management OEM, il partenariato sia realizzato in gruppi di lavoro
congiunti, i partecipanti e i dirigenti delle ditte fornitrici spesso si
lamentano del fatto che non sentono di avere l’auto-controllo ma di
essere controllati; ecco perché nelle interviste hanno espresso una
sensazione di “doppio legame” (“double bind”);
La gestione delle interazioni nelle relazioni OEM-fornitori può essere
considerata da un punto di vista intenzionale e strutturale e può essere
descritta in termini di mettere in grado (“enabling”) (interdipendenza) e
controllo (“control”) (interpenetrazione) , mentre in tali interazioni il
mettere in grado è la filosofia mentre il controllo è la realtà e il risultato
è spesso di “mimetismo” (“mimicry”);
La pressione esercitata sui fornitori è trasmessa anche agli addetti, e ciò
non crea solo diverse condizioni di lavoro, ma ad esempio nelle
fabbriche degli OEM e delle imprese fornitrici i lavoratori si sentono
spesso schiacciati dal concetto di “ottenere di più con meno”; Il
desiderio dilagante “di cambiare schieramento” è un chiaro indicatore di
un’identificazione negativa e di una minore motivazione al lavoro, che
potrebbe costituire la ragione per una riduzione della produttività e della
qualità.
9 Conclusioni
Nel ricostruire la storia di BMW e AUDI è difficile individuare un’unica “via
alta” che ha portato queste aziende al successo odierno. A più riprese,
entrambe le società sono state sul punto di essere eliminate dal mercato
automobilistico, com’è successo per la maggioranza dei concorrenti in
passato. Entrambe le imprese sono riuscite a sopravvivere grazie a delle
circostanze politiche favorevoli, alla competenza tecnica, al capitale umano
e alla fiducia degli investitori, come ad esempio dopo la crisi avvenuta alla
fine della I e della II Guerra Mondiale, ma anche nel dopoguerra. L’Audi e
la BMW sono sopravvissute nel mercato automobilistico globale, benché
abbiano seguito due percorsi diversi: se la BMW ha conservato la sua
indipendenza avvantaggiandosi del fatto di non essere subordinata alle
decisioni di nessun consiglio di amministrazione, l’Audi ha scelto la strada
della dipendenza – in quanto in possesso prima della Mercedes e
successivamente della Volkswagen – anche se la leggenda Audi vuole che sia
108
il gruppo Volkswagen a dover riconoscere il merito della sua sopravvivenza
all’Audi, in quanto negli anni ‘60 gli ingegneri dell’Audi misero a punto a
porte chiuse e contro la volontà espressa dal consiglio, una nuova tecnologia
di successo, che è alla base di una nuova automobile, piuttosto che il
contrario. Entrambi i gruppi hanno adattato delle strategie isomorfiche in
seguito al profilarsi della “minaccia giapponese”, ma hanno anche messo a
punto dei programmi polimorfici, facendo affidamento alle proprie forze e
tradizioni e ai propri ambienti sociali, economici e politici, ad esempio
collaborando con i sindacati o con i governi regionali.
Durante l’ultimo decennio, entrambi i gruppi sono stati favoriti allo stesso
modo dal processo di globalizzazione, in quanto la crescente differenziazione
economica e sociale aumenta la domanda da parte dei nuovi ceti alti a livello
internazionale di “segni distintivi”, ed ecco che le automobili di classe Audi e
BMW sono portatrici di quel forte valore simbolico e senza tempo.
Almeno per quanto riguarda l’Audi e la BMW, i risultati della ricerca
sollevano seri dubbi riguardo alla possibilità di ridurre le attività delle
imprese globali alla produzione di marca. Probabilmente solo nel settore
automobilistico di punta sembra essere necessario avere una cosiddetta
posizione di vendita unica (USP - unique selling position) poiché i
consumatori non saranno disposti a pagare prezzi troppo elevati per delle
smarties; ciò richiede delle competenze chiave, di sviluppo e progettazione
tecnica ad esempio, come dimostrato dall’Audi in passato con lo sviluppo
dell’Audi Quattro.
Già in passato le strategie condivise da entrambe le case automobilistiche
con altri produttori hanno avuto degli effetti collaterali indesiderati. Se gli
OEM potevano esternalizzare alcuni degli impatti di tali risultati, ad esempio
ai governi o ai fornitori, così com’è accaduto nel caso della crescita del
traffico merci o dei rischi d’investimento, altri effetti collaterali si sono
riversati sugli OEM stessi costringendoli a cambiare strategia, come è
avvenuto nel caso del potere crescente dei mega-fornitori. E’ stato Max
Weber che per primo ha fatto riferimento agli effetti collaterali indesiderati
derivanti dalle condizioni imposte dall’economia capitalista, nel libro
“Gehäuse der Hörigkeit”, che obbliga gli attori coinvolti a contribuire alle
condizioni che hanno creato ma che non possono assolutamente più
cambiare.
La nuova controstrategia degli OEM contro il potere crescente dei
mega-fornitori e dei “campioni nascosti” crea nuovi problemi nella
comunicazione fra produttori e fornitori, benché la fiducia sia un elemento
fondamentale per una proficua collaborazione: a livello micro, i cosiddetti
109
“double-binds” (doppi legami) sono il risultato di una comunicazione
strategica; a livello strutturale, il “mimetismo” (“mimicry”) e il “linguaggio
ambiguo” (“double-speak”) derivano da un atteggiamento misto teso a
facilitare e rendere le cose possibili, da una parte, e di controllarle, dall’altra,
nelle interazioni.
Poiché non è possibile prevedere le conseguenze di tutte le decisioni, la
capacità degli “attori razionali” sui mercati è limitata. Nel caso della
produzione automobilistica, le strategie di mercato scelte dagli OEM– com’è
stato d’altronde dimostrato – hanno comportato dei nuovi problemi
inaspettati. Si potrebbe argomentare che le strategie descritte sono un
tentativo di controllare il mercato, ma nel momento in cui tali tentativi
falliscono essi danno vita a nuove condizioni a cui gli attori devono reagire,
non solo a causa dell’effetto boomerang dei risultati derivanti dalla riduzione
dei prezzi che si traduce in minore qualità e minore controllo sulla catena del
prodotto, ma anche perché dobbiamo affrontare diversi tipi di razionalità
economica. In altri termini, il mercato della produzione automobilistica può
essere paragonato a un mondo sommerso in cui nuotano diversi tipi di pesci
che devono trovare delle strategie diverse per sopravvivere: ci sono quelli
che lottano e competono da soli contro altri pesci per assicurarsi il
sostentamento, altri formano dei gruppi o delle alleanze o delle simbiosi di
varie nature. Poi ci sono gli squali che adottano una strategia completamente
diversa e il cui unico interesse consiste nel mangiare altri pesci. Se
trasferiamo questa immagine al settore automobilistico possiamo dire che
alcune delle aziende che rilevano le ditte fornitrici non sono interessate alla
produzione automobilistica ma soltanto ai profitti. Una volta raggiunto
questo obiettivo, lasciano il mercato e rivolgono il proprio interesse altrove,
alla ricerca di altre vittime da sfruttare in altri comparti. Questo
comportamento strategico limita la collaborazione comunicativa, in quanto
non solo può creare dei buchi pericolosi nella catena della fornitura ma, cosa
ancora più importante, dimostra che l’idea di una razionalità economica
uniforme è sbagliata. Perseguire delle strategie orientate unicamente al
profitto può distruggere le catene di produzione, che sono state costruite in
maniera razionale per perseguire degli obiettivi economici differenti:
realizzare utili producendo automobili.
10
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112
113
Il fornitore modulare nel settore automobilistico
svedese
Peter Fredriksson
1 Introduzione
Il presente capitolo descrive il modo in cui la Volvo Car Corporation ha
progettato e come adesso opera e sviluppa i suoi sistemi di fornitura
modulare, ossia le reti di fornitori che inviano dei moduli completi alla linea
di assemblaggio finale. Inoltre, fa riferimento ad alcune esperienze della
Saab Automobile per descrivere come il concetto di fornitura modulare è
applicato al settore automobilistico svedese. Benché i concetti di modularità
e di soluzioni sofisticate di fornitura non siano completamente nuovi per la
Volvo, la Saab, o per il settore in generale, il concetto di fornitura modulare
è ora applicato in maniera più ampia e diversa da prima. Il presente capitolo
intende partire dalle esperienze maturate da questi due costruttori
automobilistici svedesi per analizzare e discutere il concetto di fornitura
modulare.
Tuttavia, bisogna innanzitutto delineare il quadro del settore automobilistico
“svedese” e delle due principali società “svedesi”, la Volvo e la Saab.
L’ondata di fusioni e acquisizioni, che ha attraversato il settore
automobilistico globale attuale, ha interessato moltissimo anche la Svezia.
La General Motors ha acquistato il 50% delle azioni della Saab Automobile
nel 1990 e il restante delle azioni nel 2000. La Volvo Car Corporation è
stata rilevata dalla Ford Motor Company nel 1999 e ora fa parte della fascia
alta del gruppo automobilistico Ford insieme a Land Rover, Jaguar, Lincoln
e Aston Martin. Molti dei precedenti fornitori svedesi fanno anch’essi parte
di multinazionali globali, come la Lear, o si trovano adesso a competere su
un mercato globale, come, ad esempio, il fornitore specializzato nella
sicurezza Autoliv. Le strategie, le risorse e le attività delle aziende svedesi
sono molto influenzate dagli attori e dai proprietari stranieri così come dalle
condizioni locali e dalla cultura svedese.
Un aspetto importante tipico della cultura svedese è rappresentato dagli
sforzi dei due costruttori automobilistici nel progettare dei sistemi di
assemblaggio in grado di garantire sia la “qualità della vita lavorativa” degli
operatori addetti alle linee di assemblaggio, sia l’efficienza delle aziende.
L’esempio più rappresentativo di tali esperienze è quello relativo allo
stabilimento Volvo di Uddevalla, in cui piccoli gruppi semiautonomi di
operatori assemblavano delle autovetture complete secondo una
configurazione fissa (Berggren 1994). Altri esempi sono costituiti dallo
stabilimento Volvo di Kalmar e dallo stabilimento Saab di Malmö, che
utilizzava dei veicoli a guida automatica invece delle linee per trasportare le
autovetture da una stazione di assemblaggio all’altra con cicli di lavoro
relativamente lunghi (Ellegård et al. 1992). Dei sistemi sofisticati di
organizzazione del lavoro permettevano ai gruppi di operatori di questi
stabilimenti di variare il ritmo della produzione a seconda delle proprie
esigenze e preferenze, a condizione che rispettassero i parametri produttivi
giornalieri fissati. Tuttavia, per motivi dovuti alle capacità produttive, questi
stabilimenti relativamente piccoli sono stati chiusi fra la fine degli anni 1980
e gli inizi degli anni 1990. La Volvo e la Saab ora concentrano le proprie
attività, rispettivamente, soprattutto nei principali stabilimenti svedesi di
Gothenburg e Trollhättan. Assicurare delle buone condizioni di lavoro per
gli operatori addetti all’assemblaggio continua ad essere un tratto distintivo
delle due società, benché sotto altre forme, ad esempio, attraverso l’utilizzo
di un sistema di assemblaggio modulare, che sarà descritto più avanti.
Un altro tratto essenziale tipico della cultura svedese è rappresentato dal
fatto che la Volvo e la Saab hanno un piccolo mercato interno. Oltre alle
difficoltà di raggiungere grandi volumi su altri mercati, ciò ha limitato la
crescita della Volvo e della Saab. Nel 2003, la Volvo ha venduto circa
415.000 automobili, mentre la Saab poco più di 130.000. Le loro rispettive
capacità di dotarsi di risorse interne erano, dunque, limitate e i fornitori
hanno sempre svolto un ruolo importante per entrambe le case
automobilistiche. Hanno così instaurato delle strette relazioni con molti
fornitori svedesi e stanno ora cercando di utilizzare queste esperienze anche
nei loro rapporti con i fornitori globali che sviluppano, preassemblano e
forniscono i moduli completi. Benché il settore automobilistico svedese sia
ora fortemente influenzato dalla globalizzazione all’interno dell’industria,
queste importanti caratteristiche nazionali influenzano ancora questi due
costruttori automobilistici.
Il prossimo paragrafo di questo capitolo fornirà una breve panoramica
sull’utilizzo della fornitura modulare nel settore automobilistico nel suo
insieme. L'utilizzo della fornitura modulare da parte di Volvo e Saab sarà
descritto nei due paragrafi seguenti. I tre paragrafi finali del capitolo si
riferiscono alle esperienze dei casi svedesi e illustrano come la fornitura
modulare contribuisca all’evoluzione organizzativa nel settore
115
automobilistico. In particolare, bisogna sottolineare come la collaborazione,
il conflitto e la competizione coesistono nelle reti di fornitura modulare e
alimentano l’evoluzione organizzativa.
2 La fornitura modulare nel settore automobilistico
I principi alla base del concetto di fornitura modulare sono sempre più
utilizzati e studiati da esperti ricercatori e operatori del settore. Tuttavia, il
concetto in quanto tale non è totalmente inedito nel settore automobilistico. I
flussi di moduli sono esistiti sin dall’esistenza del settore stesso. Le industrie
automobilistiche hanno sempre suddiviso i complessi processi di
assemblaggio in parti, o moduli gestibili (Baldwin e Clark 1997). Motori e
sedili sono tipici moduli di prodotti che sono stati realizzati e preassemblati
in flussi separati prima di essere inoltrati verso la linea principale per
l’assemblaggio finale. I moduli di prodotti che sono oggi generalmente
preassemblati e consegnati in sequenza sono elencati nella Tabella 1. Si
tratta di ciò che Wilhelm (1997) definisce i moduli di primo livello, il che
significa che si trovano al secondo livello più alto nella struttura di prodotto,
mentre l’autovettura completa si posiziona al livello più elevato.
Tab. 1 – Tipici moduli di primo livello nel settore automobilistico
Avantreno
Retrotreno
Paraurti
Abitacolo
Portiera completa
Pannello della porta
Motore
Sistema di scarico
Parte anteriore
Serbatoio del carburante
Leva del cambio
Cambio/scatola del
cambio /
Due volumi
Rivestimento padiglione
Strumentazione
Fari
Pedaliera
Parte posteriore
Sedili
Soft top
Piantone del volante
Sistema di guida /sterzo
Tetto apribile
Sospensioni
Ruote
Tergicristallo
Cablaggio elettrico
Fonte: Mercer 1995, McAlinden et al. 1999, Salerno 2001.
Tuttavia, un nuovo elemento è rappresentato dal fatto che le varianti del
modulo ora sono preassemblate e fornite nella stessa sequenza come varianti
auto sulla linea di assemblaggio finale (vedere ad es. Doran 2002). Sako e
Warburton (1999) mettono in rilievo che alcune case automobilistiche
europee hanno cominciato a preassemblare i moduli in sequenza verso la
metà/fine anni ‘80. Salerno (2001) descrive com’erano preassemblati in
sequenza i cruscotti della Ford Escort in uno degli stabilimenti brasiliani nel
116
1983. Da allora, il preassemblaggio sequenziale dei moduli è diventato
sempre più diffuso, nonostante vi siano differenze rilevanti su come e fino a
che punto li utilizzano i diversi produttori automobilistici. Il motivo
dell’utilizzo crescente del preassemblaggio sequenziale dei moduli consiste
nel fatto che gli sforzi di personalizzazione effettuati dai costruttori
automobilistici hanno portato a una forte varietà di prodotto e incertezza
oltre a un tentativo di ridurre i costi logistici (Sako e Warburton 1999,
Salerno 2001, Doran 2002). Nell’industria automobilistica europea, ad
esempio, il numero totale dei modelli automobilistici è aumentato dell’84%
dal 1990 al 1999 (Sako e Warburton 1999). Il preassemblaggio sequenziale
e la consegna dei moduli sono, dunque, usati come uno strumento per la
creazione efficiente di varietà di prodotto.
Un ulteriore aspetto consiste nel fatto che i fornitori (ancora una volta) si
sono assunti la responsabilità dello sviluppo e del preassemblaggio
sequenziale dei moduli (Doran 2004). Automotive News Europe rivela che
un numero crescente di costruttori automobilistici con stabilimenti di
assemblaggio in Europa acquistano i moduli da fornitori esterni (vedere ad
es. Wright 1999 e 2000, Wright Curtis 2001). Per ridurre il lead-time di
consegna e permettere di sequenziare i moduli di grandi dimensioni, i
fornitori hanno realizzato le cosiddette Unità di Assemblaggio Moduli
(MAU), che sono delle unità relativamente piccole ubicate in prossimità
degli stabilimenti di assemblaggio auto. Molte delle MAU che riforniscono
uno degli stabilimenti automobilistici sono inoltre ubicate in un distretto
comune, dando così vita a un parco fornitori (vedere Tabella 2). Uno dei
parchi europei più noti è quello destinato alla produzione delle automobili
Smart a Hambach, Francia. Otto su dieci fornitori di moduli sono insediati
all’interno dello stabilimento della Smart, mentre gli altri due sono
all’esterno dell’area dello stabilimento ma sempre a una breve distanza. I
principi operativi e la progettazione variano fra i vari parchi fornitori
(Morris et al. 2004), in base alle condizioni locali vigenti in quella regione,
alla società e ai prodotti in questione.
Un analogo sviluppo, relativo alla fornitura modulare e all’uso delle MAU
può essere osservato in America Centrale e del Sud (Tabella 3). Numerose
case automobilistiche hanno esternalizzato i flussi di moduli, a partire dal
momento in cui hanno ristrutturato vecchi stabilimenti o costruito nuove sedi
in questa regione (McAlinden et al. 1999, Salerno 2001, Lung 2001). Nel
Nord America, tuttavia, sono stati principalmente gli stabilimenti BMW e
DaimlerChrysler del tipo green field (consistenti cioè nell’apertura dal nulla
di nuove unità produttive) che utilizzano delle MAU di proprietà dei
117
fornitori per il preassemblaggio e la consegna di moduli (McAlinden et al.
1999). A causa delle loro relazioni sindacali e con i fornitori, Ford e GM
hanno deciso di non esternalizzare ulteriormente la responsabilità dei moduli
al di fuori degli stabilimenti USA (Lung 2001, Morris et al. 2004). Tuttavia,
la Ford e alcuni dei suoi fornitori di moduli hanno recentemente costituito un
parco fornitori in prossimità dello stabilimento di Chicago (Wilson 2002). I
costruttori automobilistici USA hanno, quindi, scelto strategie diverse per i
loro stabilimenti nazionali rispetto agli altri stabilimenti esteri di loro
proprietà. I costruttori automobilistici giapponesi hanno, in generale,
mantenuto al proprio interno le attività di preassemblaggio di grandi moduli
sia per quel che riguarda i loro stabilimenti nazionali e quelli con sede
all’estero (Chew 1998, Sako e Warburton 1999, Fredriksson 2002, Morris
et al. 2004). Le uniche eccezioni rilevate riguardano il parco fornitori della
Toyota in Messico (Chappell 2003) e della Nissan nel Sunderland e in Gran
Bretagna (Cullen 2002).
Tab. 2 - Parco fornitori in Europa per stabilimento di assemblaggio
automobilistico
Casa automobilistica
Audi
BMW
DaimlerChrysler
Fiat
Ford
Jaguar
Nissan
Opel/Vauxhall
Renault
Seat
Smart
Volkswagen
Parco fornitori
Ingolstadt
Neckarsulm
Monaco
Leipzig
Rastatt
Melfi
Cassino
Valencia
Saarlois
Genk
Colonia
Halewood
Sunderland
Anversa
Ellesmere Port
Saragozza
Sandouville
Abrera
Hambach
Palmela
Bruxelles
Poznan
# MAU
11
11
10
7
10
18
?
15
8
9
11
15
?
7
3
11
5
26
10
11
7
16
118
Mosel
Gent
Torslanda
Volvo
13
12
10
Fonte: Wright Curtis 2001, Cullen 2002, Miel 2002, Frink 2003a, 2003b, Morris et al.
2004.
Le Tabelle e gli esempi di cui sopra illustrano chiaramente che l’uso della
fornitura modulare è estremamente diffuso nel settore automobilistico.
Indicano, inoltre, che vi sono differenze nelle modalità di attuazione e nei
diversi gradi di applicazione del concetto da parte delle case
automobilistiche. Appare chiaramente che ogni singola casa automobilistica
ha scelto delle soluzioni diverse per i diversi stabilimenti, le linee di
prodotto, i moduli e i fornitori. Queste differenze riguardano il modo e la
misura in cui la fornitura modulare è utilizzata e indicano che non esiste
un’unica soluzione ideale d’ideazione e attuazione. Risulta, invece, chiaro
come questo concetto generale deve essere adattato ad ogni situazione
specifica.
Intendiamo ora analizzare il modo in cui queste due case automobilistiche
svedesi, la Volvo e la Saab, hanno attuato il concetto di fornitura modulare.
Tab. 3 – L’uso della fornitura modulare nell’America Centrale e del Sud
C
a
s
automobilistica
DaimlerChrysler
Fiat
Ford
GM
Renault
VW
a
Descrizione
Daimler ha uno stabilimento e Chrysler un altro. Entrambi gli
stabilimenti sono ubicati in Brasile e ricevono i moduli dalle
MAU dei fornitori.
Detiene due stabilimenti di assemblaggio, uno in Brasile e uno
in Argentina. Entrambi ricevono i moduli dalle MAU, alcune
delle quali sono ubicate in un parco fornitori adiacente.
Detiene uno stabilimento in Brasile dove le MAU di proprietà
dei fornitori sono ampiamente utilizzate per la consegna dei
moduli in sequenza. Alcuni fornitori sono ubicati all’interno
dello stabilimento Ford, mentre altri sono ubicati in un parco
fornitori adiacente.
Detiene uno stabilimento in Brasile dove le MAU sono
ampiamente utilizzate per la consegna dei moduli in sequenza.
Tutti i fornitori sono insediati all’interno della sede.
Detiene uno stabilimento in Brasile che utilizza i fornitori per
la consegna dei moduli. I fornitori sono ubicati in un parco
fornitori adiacente allo stabilimento.
Detiene due stabilimenti di assemblaggio auto in Brasile.
119
Entrambi gli stabilimenti ricevono i moduli in sequenza da un
certo numero di MAU.
Fonte: McAlinden et al. 1999, Salerno 2001, Lung 2001
3 La fornitura modulare nella Volvo Car Corporation
La Volvo Car Corporation applica il concetto della fornitura modulare
presso i suoi due principali stabilimenti di assemblaggio con sede
rispettivamente a Gothenburg in Svezia e a Gent in Belgio. Questo paragrafo
è dedicato all’analisi dello stabilimento di Gothenburg che, nel 2003,
produceva circa 160.000 automobili su un’unica linea finale di
assemblaggio. La Volvo ha cominciato ad utilizzare il sistema di fornitura
modulare verso la metà degli anni ‘90.
S’intende ora illustrare la situazione attuale e analizzare come è progettato,
attuato e migliorato il sistema industriale.
1
L’emergere della strategia modulare presso la Volvo
La Volvo ha lanciato il modello S80 nell’estate del 1998, primo modello
basato sulla nuova piattaforma P2, divenuto a sua volta la base dei modelli
S60, V70, XC70, e XC90. Quando sono stati messi a punto la piattaforma
P2 e il modello S80, la Volvo ha attuato la strategia modulare con
conseguenze molto ampie che hanno interessato anche le relazioni con i
fornitori e la struttura industriale.
Questo processo è avvenuto in una fase molto critica, successiva alla rottura
fra Volvo e Renault nel 1994. Durante un periodo di poco più di due anni, le
aziende avevano investito molte risorse in una piattaforma comune. Quando
si è conclusa la collaborazione tra le due aziende, la Volvo si è ritrovata
senza una piattaforma propria e scarsissime risorse finanziarie. La
situazione si rivelò molto grave, data anche l’esigenza propria del settore
automobilistico di rinnovare frequententemente la gamma dei prodotti –
soprattutto perché a quell’epoca la Volvo era una delle più piccole case
automobilistiche ‘indipendenti’ del mondo.
La Volvo si rese dunque conto che aveva bisogno di ideare un nuovo modo
di lavorare per sviluppare una nuova piattaforma entro tempi ragionevoli.
Suddividendo il modello S80 in un certo numero di moduli, la Volvo poteva
esternalizzarne alcuni e allo stesso tempo procedere in parallelo e accorciare
i tempi di sviluppo del prodotto. I fornitori avrebbero, dunque, potuto
contribuire con proprie risorse finanziarie e di tempo. La Volvo poteva,
120
inoltre, avvantaggiarsi dell’esperienza acquisita da questi fornitori globali
quando doveva collaborare con altri costruttori automobilistici nello
sviluppo di progetti. La Volvo ha organizzato il progetto di sviluppo
secondo delle squadre modulari transfunzionali, in cui i fornitori giocavano
un ruolo importante.
Inoltre, i cambiamenti continui nella struttura industriale erano evidenti. Vi
era un gran numero di fornitori che consegnava tradizionalmente alla Volvo
uno o più componenti, ognuno dei quali a sua volta faceva assemblare
questi componenti presso una stazione di preassemblaggio o una linea finale
di assemblaggio. Attualmente, i moduli completi sono subappaltati a
fornitori globali che hanno costituito delle Unità di Assemblaggio di Moduli
(MAU) locali in prossimità dello stabilimento Volvo.
Il prossimo paragrafo fornisce una descrizione della struttura industriale
derivante da quest’impostazione e della modalità di gestione adottata dalle
MAU per consegnare in sequenza i moduli di grandi dimensioni fisiche.
2
La struttura industriale della fornitura modulare
Prima dello sviluppo del modello S80 e della piattaforma P2, due fornitori di
moduli erano dotati di MAU, che preassemblavano e consegnavano i moduli
in sequenza allo stabilimento di assemblaggio finale della Volvo. Uno era
ubicato nell’ex-area del cantiere navale di Arendal, a soli dieci minuti di
distanza dalla sede della Volvo. L’altra MAU era ubicata a 200 km a nord di
Gothenburg. Le MAU non facevano parte di una strategia modulare
appositamente studiata e predisposta dalla Volvo; tuttavia, questa soluzione
si rivelò essere particolarmente adatta ad affrontare diversi problemi pratici.
Numerose MAU di fornitori s’insediarono nell’area Arendal, costituendo
così un parco fornitori vero e proprio per la produzione del modello
automobilistico S80 modularizzato (Tabella 4). La società produttrice di
componenti della Volvo costituì due unità di assemblaggio all’esterno dello
stabilimento, mentre altre furono realizzate all’interno. Dal punto di vista
della produzione, la Volvo aveva interresse ad utilizzare le MAU e le unità
interne di preassemblaggio per i seguenti scopi: (i) ridurre la lunghezza della
linea di assemblaggio del 50% allo scopo di diminuire i tempi di produzione
e aumentare il controllo, (ii) anche al di fuori del carico di lavoro alla linea
mediante la creazione di gran parte dell’immensa varietà di prodotto fuori
linea, (iii) migliorare la qualità mediante dei sistemi di controllo più
efficienti, (iv) realizzare metà delle attività di assemblaggio interne fuori
linea per ragioni ergonomiche, e (v) sfruttare le competenze tecniche di
121
pre-produzione dei fornitori, acquisite attraverso la collaborazione con altri
costruttori automobilistici.
Lo sviluppo della struttura industriale per il modello S80 ha dunque
rappresentato un enorme impegno per la Volvo, per quel che concerne il suo
utilizzo sistematico della fornitura modulare. Infatti, le MAU elencate nella
parte superiore della Tabella 4 occupavano nel loro complesso praticamente
lo stesso numero di addetti della Volvo nel suo stabilimento di assemblaggio.
Ulteriori moduli, MAU e fornitori di moduli si sono aggiunti nel corso degli
ultimi anni, come illustrato nella Tabella. Ciò è dovuto al fatto che altri tre
nuovi modelli automobilistici sono ora prodotti presso lo stabilimento della
Volvo e sono necessari nuovi moduli, ad esempio i portelloni posteriori per i
modelli delle familiari. Importanti cambiamenti strutturali sono, inoltre,
avvenuti in seguito all’esternalizzazione di alcune stazioni di
preassemblaggio interne da parte della Volvo, es. l’operazione di
preassemblaggio dell’abitacolo, e l’acquisizione di alcuni fornitori, es.
Becker rilevato da Johnson Controls Incorporated. Il concetto di fornitura
modulare della Volvo si sta dunque evolvendo attraverso le azioni e le
strategie Volvo e le iniziative dei fornitori.
122
Tab. 4 - Fornitori di moduli le cui MAU sono ubicate in prossimità dello
stabilimento Volvo di Gothenburg.
Fornitura modulare agli inizi degli anni 1998
MAU
Moduli
Becker
Rivestimento padiglione, console
centrale
Borgers
Coprivano bagagliaio
Delphi
Cablaggi elettrici
Lear Interior
Strumentazione, Pannelli delle porte
Raufoss
Paraurti posteriore, Rivestimenti in
plastica, Softnose (paraurti anteriori
antishock)
Rieter
Tappetini
Tenneco
Sistema di scarico
Walbro
Serbatoio del carburante
Lear Seating
Sedili anteriori e posteriori
Collins & Aikman
Tappetini extra
CCT***
ECT***
Asse posteriore, tirante della molla
Gruppo di alimentazione
Ruote
VKF***
Fornitura modulare alla fine del 2003
MAU
Moduli
Johnson Controls
Rivestimento padiglione console
centrale
Borgers
Coprivano bagagliaio, Pannelli laterali,
Copertura del pianale
Delphi
Cablaggi elettrici
Lear Interior
Strumentazione, Pannelli delle porte
Plastal
Rieter
Tenneco
TI Automotive
Lear
Lear EEDS
Lear
Paraurti posteriore, Rivestimenti in
plastica, Paraurti Softnose
Tappetini
Sistema di scarico
Serbatoio del carburante
Sedili anteriori e posteriori
Cablaggi elettrici
Abitacoli
Sequrit
Inoplast
CCT***
Q-window
Portellone posteriore
Asse posteriore, tirante della molla
Collins & Aikman
Sedili extra, Copertura del pianale
Autoliv
Sede
Arendal
Arendal
Arendal
Arendal
Arendal
Arendal
Arendal
Arendal
Bengtsfors*
Frölunda**
Bulycke**
Bulycke**
Kungälv**
Sede
Arendal
Arendal
Arendal
Arendal, Tanum*
Arendal
Arendal
Arendal
Arendal
area Volvo
area Volvo
Bergsjön**
Arendal
area Volvo
Bulycke**
Frölunda**
Volante, IC, airbag, cinture di sicurezza area Volvo
123
KTS
ECT ***
MCP
3
Lista delle finiture
Gruppo di alimentazione
Ruote
Arendal
Bulycke**
Kungälv**
Funzionamento dei flussi di moduli
I principi operativi di ogni flusso di moduli sono illustrati nella Figura 1.
Quando la Volvo preleva una carrozzeria dal buffer (polmone) dopo la
verniciatura e la immette nella linea finale di assemblaggio, quella
carrozzeria si riferisce a uno specifico ordine di acquisto e a una specifica
identità. Tutte le opzioni scelte dall’acquirente in termini di colore, tipo di
motore, rifiniture interne, ecc. sono collegate a questa identità. Le varianti di
moduli specifici devono, dunque, essere disponibili in ogni stazione lungo la
linea quando arriva la carrozzeria. Quindi, quando la carrozzeria è immessa
nella linea di assemblaggio, gli ordini delle necessarie varianti di moduli
sono inviati alle MAU. Le MAU che devono rifornire la prima stazione di
assemblaggio hanno circa quattro ore a loro disposizione, mentre le unità
che intervengono alla fine della linea hanno circa dodici ore. Per essere in
grado di preassemblare e consegnare i moduli in un tempo così breve, tutte
le MAU devono essere ubicate in prossimità dello Stabilimento Volvo.
Fig. 1 – L’assemblaggio sincronizzato delle varianti di moduli e automobili
immagine:
carrozzerie nella linea finale di assemblaggio della Volvo
- In questo punto sono immesse le carrozzerie nella linea di assemblaggio ed è stabilita la sequenza delle
automobili da costruire. Sarà inviato un ordine alle MAU più o meno nel momento in cui saranno richieste
le varianti dei moduli.
- Le varianti dei moduli di cablaggio sono consegnate nella giusta sequenza
124
- Le varianti dei moduli dei sedili sono consegnate nella giusta sequenza
Fornitori di componenti
Fornitori di componenti
~ 4 ore
La Volvo è responsabile del trasporto dei moduli dalle MAU alla linea finale
di assemblaggio. I camion fanno la spola fra lo stabilimento e le MAU e i
prelievi sono effettuati una o due volte l’ora in ogni MAU. La frequenza dei
prelievi varia a seconda del ritmo di lavoro dello stabilimento Volvo e la
densità d’imballaggio di ogni tipo di modulo. La densità d’imballaggio è, in
generale, abbastanza bassa poiché i moduli richiedono degli spedizionieri
speciali per assicurare la protezione da eventuali danni che possono
verificarsi durante il trasporto e per facilitare l’accesso agli operatori. I costi
di trasporto verso lo stabilimento Volvo non aumentano, tuttavia, nella
stessa misura. Anzi, sono diminuiti rispetto alla precedente generazione di
automobili, in quanto gli ingegneri addetti alla logistica della Volvo hanno
messo a punto un sistema in grado di soddisfare allo stesso tempo la
domanda di costi bassi e di consegne frequenti dei moduli con una bassa
densità d’imballaggio.
4
Coordinamento dei flussi di moduli
Allo scopo di coordinare la fornitura dei moduli, la Volvo invia le
informazioni dal sistema di pianificazione della produzione alle MAU. Le
informazioni saranno utilizzate per pianificare i processi di ricostituzione
delle scorte e di produzione, assicurando così la consegna delle diverse
varianti di moduli come richiesto dalla Volvo. Una volta al mese, con un
anticipo di sei settimane, è inviata una previsione di produzione. Questa
costituisce la base dei processi di pianificazione delle MAU, poiché gli
ordini effettivi della Volvo possono deviare dalle previsioni solo entro
determinati limiti specificati nei contratti.
Inoltre, ogni MAU riceve due piani di produzione con una diversa
tempistica. Il piano aggregato di lungo termine è aggiornato e fatto circolare
una volta la settimana e riguarda le 62 settimane successive di produzione.
Si basa sul calendario degli ordini e sulle previsioni delle vendite della
Volvo. Benché un po’ incerto, questo piano è complementare alle previsioni
di produzione per la pianificazione di lungo termine dei fornitori. Le MAU
ricevono un piano ancora più dettagliato relativo ai rispettivi tipi e varianti
di moduli. Questo piano è aggiornato e fatto circolare quotidianamente e
riguarda le 12 settimane successive di produzione. Sono fissati i primi otto
giorni di questo piano dettagliato, nel senso che la Volvo s’impegna ad
125
assemblare le varianti specifiche di automobili in una certa sequenza. A
partire dal nono giorno in poi, il piano diventa una previsione e può variare
notevolmente in quanto la Volvo assembla un’automobile solo nel momento
in cui parte l’ordine da parte del cliente specificando tutti gli optional del
caso, che possono essere variati praticamentefino all’ultimo momento prima
dell’inizio della produzione.
Per coordinare il preassemblaggio delle varianti di moduli specifici con la
loro necessità d’immissione nella linea finale di assemblaggio, le MAU
ricevono delle istruzioni di sincronizzazione che costituiscono gli ordini
effettivi della Volvo. Un ordine di sincronizzazione è inviato ad ogni MAU
ogni volta che una carrozzeria è immessa nella linea finale di assemblaggio e
che specifica esattamente il tipo di variante di modulo richiesto. E’ proprio
l’ordine di sincronizzazione che dà il via alle attività di preassemblaggio
presso le MAU, poiché la richiesta di una variante di modulo specifica non è
totalmente certa finché le carrozzerie non saranno immesse nella linea finale.
L’invio degli ordini di sincronizzazione dipende anche dal sistema
finanziario che regola la fatturazione da parte delle MAU nei confronti della
Volvo.
5
Soluzione di problemi nei flussi di moduli
A causa della stretta integrazione delle attività delle MAU con la linea finale
di assemblaggio della Volvo, la gestione delle deviazioni dalla norma è molto
importante. Le eventuali deviazioni di qualità devono essere gestite
rapidamente poiché tutti i moduli sono dedicati ad una specifica autovettura
e non sono disponibili sostituzioni. Se uno degli operatori della Volvo addetti
all’assemblaggio scopre una certa deviazione su un modulo di abitacolo, ad
esempio, il responsabile MAU sarà immediatamente informato e potranno
essere intraprese tre azioni diverse. La prima consiste nel verificare che gli
abitacoli preassemblati e trasportati non presentano difetti. La seconda
consiste nell’inviare un ingegnere addetto alla qualità allo stabilimento della
Volvo per analizzare il difetto. La terza azione consiste nell’inviare un
modulo sostitutivo o solo dei sottocomponenti. In caso di un grave difetto di
qualità o di se è difficile risalire alle cause, gli addetti delle MAU e della
Volvo agiscono congiuntamente. Ciò potrebbe comportare la necessità di
analizzare le modalità secondo cui sono gestiti i moduli all’interno della
Volvo, durante il trasporto, all’interno delle MAU, o nei processi di un
fornitore di componenti. Nell’ambito di tale azione congiunta, vi sono alcuni
difetti che non possono essere esattamente definiti, ad es. se la sfumatura di
un colore effettivamente è una deviazione dallo standard specificato o no,
126
così come le contromisure appropriate, ad es. se la lucidatura manuale dopo
la verniciatura è sufficiente o se il processo di verniciatura deve essere
corretto.
Le eventuali deviazioni di consegna sono ugualmente importanti da gestire,
in quanto dei problemi presenti in alcune MAU possono ripercuotersi
negativamente e arrestare la linea della Volvo. Ciò è dovuto al fatto che
alcuni moduli possono essere montati sulle automobili solo in una
determinata stazione di assemblaggio come ad esempio quelli dell’abitacolo,
che possono essere montati nelle carrozzerie solo da un particolare robot.
Dunque, se non sono disponibili le giuste varianti per l’abitacolo, la linea
della Volvo si fermerà e, conseguentemente, anche quelle delle altre MAU.
Alcuni moduli, ad es. i paraurti, possono essere montati nelle carrozzerie
solo dopo che le automobili sono uscite dalla linea, che non dovrà essere
fermata in caso di problemi che possono verificarsi in questi flussi. Tuttavia,
le conseguenze economiche sono gravi in entrambi i casi, così come gli
effetti sulla capacità della Volvo di mantenere le sue promesse di consegna.
Per evitare eventuali deviazioni di consegna, alcune MAU sono invitate a
dare un input ai processi pianificazione della Volvo. Conseguentemente, i
piani di produzione che ne derivano saranno più consoni alle condizioni delle
MAU e così alcuni problemi di consegna potranno essere evitati. Le MAU
sono autorizzate a fissare dei limiti nel sistema di pianificazione della
produzione della Volvo. Ciò implica che se una MAU prevede o deve
affrontare dei problemi di consegna riguardanti una certa variante di
modulo, ad es. se la Lear non riesce a consegnare gli abitacoli per le
automobili con guida a destra, la Volvo eviterà di assemblare le automobili
che richiedono la variante in questione. Il piano di produzione e
l’ordinazione dei moduli saranno dunque limitati finché il problema della
MAU in questione non sarà stato risolto. Benché tali restrizioni possano
essere introdotte anche soltanto alcune ore prima per evitare degli arresti di
linea molto costosi, si fa ricorso ad una soluzione di questo tipo con estrema
cautela in quanto si ripercuoterà su tutte le altre MAU. Se una restrizione
appare duratura o se i problemi in un flusso di moduli causa effettivamente
un arresto della linea, allora la Volvo e la MAU interessata intraprenderanno
delle azioni comuni. Nella maggior parte dei casi ciò consiste nel sostenere e
nell’esercitare pressione su un fornitore di componenti che si trova ad
affrontare dei problemi con una certo tipo di componente.
127
6
Miglioramenti nei flussi di moduli e nella struttura
industriale
Oltre alle attività ordinarie e interattive di soluzione dei problemi nei diversi
flussi di moduli, la Volvo e le MAU s’incontrano per discutere dei
miglioramenti necessari in maniera più generale e proattiva. I dirigenti delle
MAU si riuniscono regolarmente per discutere dei piani e delle istruzioni
della Volvo e delle eventuali risposte congiunte da dare. Discutono, inoltre,
del modo per migliorare l’interfaccia comune con la Volvo e per ottimizzare
l’uso delle risorse. Non è certamente facile raggiungere delle economie di
scala per delle MAU relativamente piccole in quanto ognuna di esse gestisce
solo uno o pochi moduli e serve solo un cliente. Questo problema è stato
parzialmente risolto grazie a questi incontri e discussioni fra manager, in
quanto alcune delle MAU ora si rivolgono alle stesse società a cui affidano
la gestione delle infrastrutture, dello smaltimento dei rifiuti, della
manodopera occasionale, dell’assunzione di esperti di manutenzione, dei
trasporti, ecc. Un ulteriore forum di discussione delle MAU è organizzato
dalla Volvo. In queste sede, le MAU presentano i loro punti di vista comuni
alla Volvo, e sono informate dei piani di produzione, di come procede il
lavoro di miglioramento e di problem-solving, dei nuovi modelli introdotti,
dei restyling, ecc. Queste riunioni sono importanti perché contribuiscono a
stabilire le modalità d’interazione fra la Volvo e le MAU e a migliorare le
prestazioni.
4 La fornitura modulare della Saab Automobile
Il presente paragrafo descrive la modalità di applicazione del concetto di
fornitura modulare da parte della Saab. Nel 2003, la Saab produceva circa
130.000 automobili dei modelli 95- e 93- nel suo stabilimento di Trollhättan
in Svezia. Data la sua dimensione ridotta, la Saab ha attuato il concetto di
fornitura modulare in un modo leggermente diverso rispetto alla Volvo,
come ulteriormente illustrato in una relazione della Saab alla direzione della
General Motors (GM), di cui fa parte.
1
I rapporti fra Saab e General Motors
GM ha una grande influenza sull’organizzazione e la gestione della Saab e
della sua catena di fornitori. Ad esempio, la Saab non dispone di un proprio
128
Ufficio Acquisti, ma è la GM che se ne occupa direttamente. In particolare,
è soprattutto la GME, GM Europa, he detiene il controllo sulla Saab. oltre
all’influenza sulla Saab attraverso i modelli di auto basati sulle piattaforme
Opel, la GM interviene anche sulla progettazione dei processi. Il Global Bill
of Process della GM è uno standard che stabilisce le modalità secondo cui
devono essere fabbricate tutte le automobili GM, es. l’ordine di
assemblaggio dei componenti nella carrozzeria. Il processo standardizza
anche l’uso delle misure di performance. Ad esempio, la GM utilizza lo
standard di “ore/uomo per automobile” per effettuare il confronto di
produttività fra gli stabilimenti e questa misura è alla base della decisione di
esternalizzazione alcune attività di assemblaggio. Questo processo standard
stabilisce, inoltre, che i moduli di grandi dimensioni, come ad esempio i
sedili, dovrebbero essere esternalizzati ad un fornitore dotato di una MAU
insediata nei pressi dello stabilimento automobilistico. L’uso della fornitura
modulare da parte della Saab è quindi notevolmente influenzato dagli
standard della GM.
2
Fornitura modulare nella Saab
La Saab ha di recente esteso l’utilizzo del sistema di fornitura modulare e
riceve numerosi moduli da MAU di proprietà di fornitori (Tabella 5). Queste
MAU sono ubicate in prossimità della Saab e sono gestite più o meno
secondo gli stessi principi delle MAU della Volvo. Ossia, ricevono le
previsioni di produzione a lungo termine relative alle varianti di moduli che
saranno necessari, mentre gli ordini effettivi sono trasmessi solo alcune ore
prima della consegna prevista. Le attività di problem-solving sono svolte in
stretta collaborazione con le MAU e i rappresentanti dell’assemblaggio,
della logistica e degli acquisti della Saab. Tuttavia, le MAU non sono
ubicate nella stessa area limitata e non costituiscono da quel punto di vista
un parco fornitori.
Tab. 5 - Fornitura modulare della Saab.
Paraurti (forniti da Sapa)
Pannelli delle porte (forniti da Lear)
Sistemi di scarico (forniti da terzi)
Serbatoio del carburante (fornito da terzi)
Cablaggi elettrici (forniti da terzi)
Rivestimento padiglione (fornito da Lear)
Strumentazioni (fornite da Lear)
Sedili (forniti da Lear)
Ruote (fornite da MPC)
129
Come illustrato dalla suddetta Tabella, alcuni dei fornitori di moduli Saab
utilizzano una ditta di logistica esterna per il preassemblaggio dei propri
moduli. Dati i piccoli volumi della Saab e la quantità relativamente limitata
del lavoro di preassemblaggio richiesto su questi moduli, i fornitori di
moduli coinvolti non potevano permettersi di realizzare delle MAU distinte.
Hanno, invece, affidato tali operazioni a una ditta di logistica esterna, in
maniera, dunque, da utilizzare le risorse per i diversi flussi di moduli. Oltre
alla riduzione dei costi derivante da una migliore ottimizzazione delle
risorse, questa soluzione si è rivelata ideale per la Saab, in quanto ha solo un
contatto per i numerosi flussi di moduli. Se, da una parte, la Saab intende
aumentare i volumi di produzione e il numero di varianti di prodotto per
ottimizzare al meglio le scarse risorse, la società, d’altra parte, intende
ampliare l’utilizzo della fornitura modulare.
5 I ruoli strategici delle MAU nella catena della
fornitura
Le Unità di Assemblaggio dei Moduli (MAU) costituite in prossimità di uno
stabilimento di assemblaggio automobilistico servono ovviamente per uno
scopo logistico ben preciso, come illustrato dai casi di Volvo e Saab. Ossia
le unità MAU preassemblano e consegnano le varianti di moduli di grandi
dimensioni fisiche in tempi brevi e in base alle esigenze di qualità e consegna
del cliente. Inoltre, le MAU servono come buffer (polmone di riserva) o
interfaccia con lo stabilimento produttivo, contribuendo così alla efficienza e
allo sviluppo del costruttore automobilistico e del fornitore di moduli. Questi
due ruoli strategici di tamponamento e d’interfaccia sono illustrati
maggiormente nei dettagli nelle sezioni seguenti, anche in relazione
all’esistenza di casi di collaborazione e conflitto nei flussi di moduli.
1
I ruoli d’interfaccia e di tamponamento
Dal punto di vista dello stabilimento di assemblaggio automobilistico, le
MAU svolgono un ruolo di buffer (tamponamento), rendendo così più
efficiente la linea finale di assemblaggio. Ciò è dovuto al fatto che la varietà
totale di prodotto è realizzata dai moduli del prodotto e, dunque, una quota
corrispondente di varietà nelle attività di assemblaggio è gestita dalle MAU.
Il lavoro che rimane sulla linea è dunque più standardizzato e le perdite
relative alla varietà sono relativamente basse nonostante siano realizzati più
modelli automobilistici diversi (Kinutani 1997, Wilhelm 1997). Il lead-time
alla linea sarà anche più corto man mano che sarà svolto un numero sempre
130
più limitato di attività (Salerno 2001). Un’unità MAU contribuisce, così,
alla realizzazione più efficiente di varianti automobilistiche nella linea finale
di assemblaggio gestita dal costruttore automobilistico. Per questo motivo,
com’è anche chiaramente illustrato in letteratura, Volvo e Saab sottolineano
il ruolo strategicamente importante svolto dalle MAU per le proprie
rispettive capacità di personalizzazione dell’offerta sul mercato.
Un ragionamento simile vale anche dal punto di vista del fornitore. Se le
MAU non esistessero, non sarebbe possibile soddisfare a pieno le richieste
dei costruttori automobilistici di tempi di consegna brevi e di forniture di
varianti di moduli specifici e si posizionerebbero più indietro lungo la supply
chain, fino a retrocedere agli stabilimenti principali dei fornitori. A quel
punto dovrebbero affrontare delle esigenze ben diverse rispetto alle
condizioni esistenti di produzione di lotti di componenti, alcuni dei quali
sono standardizzati, mentre altri sono propri esclusivamente dei prodotti
specifici di una data casa automobilistica. Ciò vale soprattutto nel caso di
una casa automobilistica che regola la produzione sulla base degli ordini dei
clienti, come nel caso della Volvo, poiché la domanda resta incerta fin quasi
al momento dell’inizio della produzione. Le richieste degli acquirenti di
automobili di varianti specifiche ricadrebbero indietro lungo la catena sulla
produzione di componenti, se non ci fosse la funzione di buffer svolta dalle
MAU. I principali stabilimenti avrebbero dunque bisogno d’interagire
direttamente con i vari costruttori automobilistici con tutte le loro diverse
esigenze di pratiche operative e d’impostazione di sistemi informativi, ecc.
Le MAU contribuiscono, invece, alla standardizzazione e all’efficienza
all’interno degli stabilimenti di produzione di componenti, svolgendo così un
ruolo strategicamente importante dal punto di vista dei fornitori di moduli.
Le MAU sono, inoltre, degli attori importanti in quanto fanno da ponte con
tutti gli altri membri della rete. Dal punto di vista di un costruttore
automobilistico, una MAU può contribuire con nuove idee derivanti
direttamente dai fornitori dei componenti e/o dagli altri costruttori
automobilistici. Una MAU può anche mediare i contatti fra la casa
automobilistica e i fornitori di componenti. Un esempio può essere
rappresentato dalla MAU della Delphi che ha aiutato la Volvo a stabilire i
contatti con uno dei propri fornitori di fusibili e che alla fine è diventato il
fornitore preferenziale, contribuendo così alla riduzione dei costi dei fusibili
della Volvo. Il ruolo d’interfaccia può naturalmente essere svolto in
entrambe le direzioni, in quanto una MAU può aiutare il fornitore di moduli
a entrare in contatto con nuove società, idee, strumenti, ecc., attraverso la
casa automobilistica.
131
I ruoli di tamponamento e d’interfaccia delle MAU le rendono delle
componenti essenziali per creare efficienza e sviluppo, mediante l’inibizione
o la creazione di legami fra la casa automobilistica e i punti nevralgici
operativi dei fornitori (Thompson 1967). Questi ruoli comportano delle
difficoltà in relazione a delle semplici considerazioni di performance, in
quanto, ad esempio, le attività interne delle MAU possono essere soggette a
delle economie di scala solo in una certa misura (von Corswant et al. 2003).
Di conseguenza la performance di una MAU non può essere pienamente
valutata mediante le misure che sono tradizionalmente utilizzate nel settore
automobilistico, es. ‘ore/uomo per modulo’ o ‘difetti/ppm per modulo’
(Schmitz e Platts 2003). Tali misure si basano sul tentativo di isolare una
MAU dal suo contesto nell’ambito della supply chain.
La performance di una MAU, invece, deve essere considerata rispetto al
contributo che dà alla performance generale della casa automobilistca e del
fornitore.
2
Cooperazione e conflitto
I ruoli di tamponamento e d’interfaccia delle MAU implicano la necessità di
collaborazione fra le società. Anzi, l’esistenza stessa di una MAU si basa
sulla cooperazione fra un fornitore di moduli e una casa automobilistica.
Senza un orientamento reciproco comune di lungo periodo, non potrà essere
effettuato nessun investimento in una MAU. La collaborazione fra ogni
MAU e il cliente è fondamentale anche dal punto di vista della produzione. Il
caso della Volvo illustra chiaramente che ogni MAU e l’organizzazione
dell’assemblaggio finale hanno bisogno d’instaurare uno stretto rapporto di
collaborazione in questioni come la pianificazione della produzione e il
problem-solving. Ecco perché la MAU costituisce un esempio
rappresentativo di ‘relazioni di partenariato’ e della modalità di sviluppo
delle relazioni fra gli attori nel settore automobilistico (Doran 2003).
Potrebbero, inoltre, esistere disaccordi nelle relazioni fra i fornitori di moduli
e la casa automobilistica. Alcune delle tematiche operative che i costruttori
automobilistici in questione e le loro rispettive MAU hanno frequentemente
discusso riguardano i costi, le condizioni di consegna, i requisiti di qualità, i
piani di produzione, ecc. (Morris et al. 2004 per esempi simili). Un altro
tipo di conflitto riguarda il fatto che la casa automobilistica pretende che le
MAU si adattino alla situazione e alle esigenze del caso. Il fornitore di
moduli, da parte sua, pone delle richieste opposte alle sue unità MAU
chiedendo loro di soddisfare le esigenze dei centri di produzione e sviluppo
centralizzati del fornitore, che servono diversi costruttori automobilistici.
132
Ecco dunque che la MAU si ritroverà “schiacciata” fra le richieste
contrastanti dei suoi due principali interlocutori. Una MAU si ritrova
dunque intrappolata in una struttura di conflitti che assomiglia al cosiddetto
‘paradosso della rete di fornitura’ descritto da Ford et al. (2003). Questi
autori sostengono che se un’impresa detiene il controllo totale, allora la
flessibilità e l’innovatività della rete dei fornitori ne risentiranno. Alla fine,
sia il cliente sia il fornitore hanno bisogno di acquisire un certo grado di
controllo ed è qui che le MAU possono svolgere un ruolo importante nel
controbilanciare le richieste contrastanti.
La cooperazione e il conflitto riguardano diverse questioni esistenti allo
stesso tempo nelle relazioni fra fornitori di moduli, MAU e costruttori
automobilistici. Trovare il giusto equilibrio fra le diverse richieste
contrastanti è una parte importante del ruolo di tamponamento e interfaccia
svolto dalle MAU, che permetterà ai fornitori di moduli e ai costruttori
automobilistici di realizzare e sviluppare le rispettive strategie.
6 Evoluzione della rete di fornitura
attraverso la cooperazione e la competizione
modulare
I casi di Volvo e Saab hanno dimostrato che le loro rispettive MAU hanno
collaborato reciprocamente sulle varie questioni in atto. La struttura
industriale a cui appartengono le MAU presenta, tuttavia, anche alcuni
elementi di competizione. Il presente paragrafo intende analizzare la
coesistenza di elementi di cooperazione e competizione nelle reti di fornitura
modulare.
Cooperando in diversi flussi di moduli, alcuni dei fornitori di moduli della
Saab hanno utilizzato la stessa ditta esterna di logistica per lo svolgimento
delle attività di preassemblaggio. In tal modo sono state realizzate, almeno in
una certa misura, delle economie di scala, che non sarebbero state altrimenti
raggiunte se i fornitori di moduli avessero semplicemente creato delle proprie
MAU. L’unità MAU che fornisce i moduli alla Volvo ha collaborato per
aumentare l’utilizzo delle risorse e allo stesso tempo per elaborare delle
strategie comuni per affrontare alcune problematiche della Volvo. Inoltre,
alcune di queste MAU hanno fornito componenti ad altre MAU su base
reciproca, ad es. Delphi ha fornito i cablaggi elettrici alla Lear e ha
collaborato per migliorare diversi aspetti nelle loro relazioni commerciali. La
cooperazione fra gli attori coinvolti nei diversi flussi di moduli ha dunque
contribuito a sviluppare le proprie reciproche prestazioni oltre alla struttura
industriale.
133
Allo stesso tempo, poiché la cooperazione fra i flussi di moduli può
apportare vantaggi, alcuni degli attori coinvolti possono anche diventare dei
diretti concorrenti. Ad esempio, i fornitori di moduli, Johnson Controls e
Lear, della Volvo sono entrambi fornitori di componenti e moduli interni,
quali ad esempio sedili e abitacoli a livello globale. Anche Delphi è in grado
di offrire abitacoli, mentre la Lear ha un reparto distinto per l’elettronica e i
cablaggi elettrici. La Volvo invita questi fornitori a competere per acquisire
la commessa degli stessi moduli quando sono avviati dei nuovi progetti di
automobili. Benché le MAU interessate siano principalmente impegnate in
questioni operative, le loro rispettive prestazioni saranno valutate dalla
Volvo e avranno un peso sulla scelta del fornitore. Quindi, utilizzando dei
fornitori con offerte di prodotto abbastanza simili a livello globale, la Volvo
ha inserito l’elemento di competizione all’interno della propria rete di
fornitura modulare. Tali soluzioni sono molto comuni all’interno
dell’industria automobilistica ed esistono a vari livelli in tutti i parchi di
fornitori precedentemente illustrati nella Tabella 2.
Ecco, dunque, che elementi di competizione e cooperazione sono insiti nelle
reti di fornitura modulare che coinvolgono le MAU. Alcune questioni sono di
fondamentale importanza per la competitività degli attori, mentre altri aspetti
sono più neutri e richiedono cooperazione. Anche l’orizzonte temporale
scelto dagli attori ha un impatto notevole sui modelli di cooperazione e
competizione. La cooperazione a breve termine attraverso la condivisione
delle risorse può rivelarsi un vantaggio per le prestazioni operative delle
MAU, mentre una cooperazione a lungo termine andrà a vantaggio di solo
una o poche MAU. La gestione delle relazioni, come osservato da Medlin
(2004), richiede la ricerca di un continuo equilibrio fra le diverse prospettive
temporali. Poiché i fornitori di moduli, le MAU e i costruttori
automobilistici gestiscono e utilizzano la competizione e le opportunità di
cooperazione relative a diversi aspetti e orizzonti temporali, nel far ciò
sviluppano se stessi e le loro rispettive relazioni. Questi sono alcune volte
notevoli, ma prevalentemente di carattere continuo nella gestione delle
diverse questioni di routine quotidiana. Le tensioni incanalate nelle reti di
fornitura modulare che coinvolgono le MAU contribuiscono, dunque, a una
graduale evoluzione della società interessata.
134
7 Considerazioni finali da una prospettiva tipicamente
“svedese”
Quando Volvo e Saab erano piccoli costruttori automobilistici
“indipendenti” hanno tratto notevoli vantaggi dallo sviluppo di stretti
rapporti con i loro rispettivi fornitori. E’ stato, dunque, possibile
raggiungere delle economie di scala e acquisire delle risorse per lo sviluppo
attraverso la costituzione di relazioni con i fornitori. Ciò ha permesso ai due
costruttori automobilistici svedesi di sopravvivere in un settore
estremamente competitivo come quello automobilistico. La fornitura
modulare può, quindi, essere considerata come un’estensione naturale dei
processi messi in atto da Volvo e Saab prima che Ford e GM entrassero in
scena.
Tuttavia, Volvo e Saab possono ora godere i vantaggi di scala e gli sviluppi
tecnologici realizzati all’interno di Ford e GM. Anche i maggiori volumi di
acquisto sui componenti comuni rappresentano un vantaggio per Volvo e
Saab nelle trattative di acquisto con i fornitori di moduli. Ma è anche vero
che Volvo e Saab continuano a trarre beneficio dall’utilizzo della fornitura
modulare. Infatti, oggi sono molto più dipendenti dai fornitori di moduli che
in passato. La progettazione dei prodotti e le decisioni di
approvvigionamento sono diventate tuttavia molto più complesse. Le
condizioni e le esigenze della Volvo e della Saab devono ora essere correlate
rispettivamente a quelle della Ford e della GM. Le decisioni finali di
fornitura modulare devono, dunque, essere più o meno adattate alle esigenze
e alle condizioni locali dei due costruttori automobilistici “svedesi”
rispettivamente di Gothenburg e Trollhättan. I ruoli di logistica,
tamponamento e interfaccia svolti dalle MAU sono dunque cambiati e sono
ora diventati molto più complessi a causa delle strutture organizzative
globali.
Un ulteriore importante cambiamento per le MAU ma anche per Volvo e
Saab è dovuto al fatto che l’utilizzo di piattaforme comuni da parte di Ford e
GM permette di delocalizzare la produzione di diversi modelli di auto in
altre sedi senza la necessità di effettuare dei forti investimenti. S’introduce,
così, la competizione per acquisire i volumi di produzione fra i diversi
stabilimenti all’interno del gruppo, es. fra la Saab a Trollhättan e l’Opel a
Rüsselsheim in Germania, coinvolgendo ovviamente le MAU. Essendo la
Saab e le sue MAU a Trollhättan un piccolo stabilimento di assemblaggio
automobilistico, hanno dunque bisogno d’instaurare un rapporto di
135
collaborazione reciproca per essere insieme competitivi rispetto ad altri
stabilimenti del gruppo GM. Lo stesso ragionamento vale per lo stabilimento
Volvo di Gothenburg e le sue MAU. La cooperazione è allo stesso tempo
necessaria fra questi stabilimenti in competizione, comprese le MAU, poiché
le multinazionali automobilistiche e i fornitori globali tendono a
standardizzare molti aspetti diversi per ridurre i costi.
Riuscire a instaurare una buona cooperazione e gestire al meglio i conflitti
con gli altri attori della rete di fornitura modulare sembra, dunque, essere
una delle sfide più importanti che dovrà essere affrontata in futuro dai
fornitori, dai costruttori automobilistici e dalle MAU.
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138
Sistemi locali e sviluppo regionale
Lo sviluppo della modularizzazione e il design
di prodotti di nicchia in Brasile
Mario Sergio Salerno, Ana Valéria Carneiro Dias
1 Introduzione
Il Brasile è un paese particolare per l’industria automobilistica. Gli
stabilimenti di assemblaggio sono di proprietà delle multinazionali, ma il
paese ha avviato alcune innovazioni inter-aziendali basate sulla modularità e
sui centri di sviluppo per vetture utilitarie (livello entry). In questo senso,
contrariamente alla maggior parte dei paesi non-Triade, il Brasile è un caso
esemplare per studiare l’innovazione organizzativa nell’industria dell’auto e
la ripartizione internazionale delle attività di design e progettazione.
Iniziamo con una breve caratterizzazione dell’industria, per poi esplorare i
temi della modularità e del design. Analizzeremo lo sviluppo del modulare e
il ruolo dei centri di progettazione di nicchia nell’industria mondiale. Verrà
poi esplorato il concetto di sede centrale (headquarter) di progetto, come
elemento organizzativo essenziale al radicamento dell’industria locale.
2 L’industria dell’auto in Brasile: quadro generale
Con poche eccezioni, i principali attori globali del settore hanno stabilimenti
in Brasile: Daimler-Chrysler (autocarri, A-class/Smart 4-porte in
programma), Fiat, Ford, GM, Honda, International (autocarri), Iveco
(autocarri),
Mitsubishi
(commerciali
leggeri),
Peugeot-Citroen,
Renault-Nissan, Scania, Toyota, VW, VW (veicoli commerciali) e Volvo
(autocarri) hanno 32 impianti nel paese; sono presenti inoltre grandi imprese
del settore motori diesel, telai per autobus e macchine agricole.
L’industria di autoassemblaggio rappresenta il 10% circa del PIL
industriale, con vendite pari a US$16 miliardi. Si calcola che la capacità
produttiva si attesti a 3,2 milioni di veicoli/anno. Le previsioni per la
produzione 2004 indicavano 2,4 milioni di veicoli. L’export ha raggiunto i
US$ 6 miliardi nel 2003; US$10 miliardi, se si comprendono componenti e
pezzi di ricambio. 80.000 addetti sono occupati negli impianti di
assemblaggio, con altri 12.000 occupati nel settore dei macchinari agricoli.
Le entrate dell’industria componentistica si aggirano attorno a US$12
miliardi, con 177.000 occupati. Il Brasile è il primo paese nel settore
141
automotive della regione Mercosur; l’Argentina ha prodotto 160.000 veicoli
nel 2002 e l’Uruguay appena 2.000. Solo per fare un raffronto, il Messico
ha prodotto 1,8 milioni di veicoli nel 2001 e nel 2002; il suo mercato interno
arriva a 1,1 milioni, ma sono stati importati più di 500.000 veicoli nel 2002.
L’industria brasiliana può vantare alcuni degli impianti produttivi più
efficienti al mondo, resi tali soprattutto dal loro assetto organizzativo, che
comprende la fornitura modulare e l’integrazione del fornitori negli
stabilimenti di assemblaggio. Oltre a queste caratteristiche, il paese è
all’avanguardia anche nel campo dei carburanti alternativi (alcool), motori
ibridi (multi-fuel ad alcool, benzina, metano) e capacità ingeneristiche per la
progettazione di derivati a bassissimo costo.
Una di queste caratteristiche altamente innovative è rappresentata dallo
sviluppo di motori a carburanti ibridi, che utilizzano miscele con percentuali
variabili di benzina e alcool (metanolo). L’alcool usato come carburante
presenta diversi vantaggi. Meno inquinamento, ridotta dipendenza dal
petrolio, risorsa rinnovabile, con enormi opportunità di crescita produttiva e
molti centri di ricerca dedicati alla canna da zucchero e alla sua
trasformazione in alcool.
In Brasile l’alcool è utilizzato come carburante per le vetture fin dagli anni
’70. Il programma era finanziato da sussidi, ma quando la crisi debitoria
dello Stato si aggravò, ci furono tagli ai sussidi e il programma subì un
rallentamento. Uno dei principali problemi del sistema era la fluttuazione dei
prezzi. Infatti, quando i prezzi internazionali dello zucchero aumentano,
crescono anche quelli dell’alcool, dal momento che gli stessi produttori
lavorano entrambi i prodotti; i consumatori dipendevano dai produttori
locali, che erano in grado di fissare i prezzi. Il risultato fu un calo
consistente delle vendite di vetture alimentate ad alcool.
Molti attori della catena automotive hanno iniziato a considerare le
possibilità per un rilancio delle vetture ad alcool. I reparti ingegneristici delle
aziende costruttrici di iniettori in Brasile si sono lanciate in una corsa allo
sviluppo di motori ibridi a due carburanti, in grado di funzionare con
qualsiasi miscela benzina-alcool. La VW ha lanciato la prima vettura con
questo sistema nel marzo 2003; Fiat e GM seguirono a ruota. Oggi, tre
aziende producono il sistema ibrido bi-fuel: Marelli (la prima e leader di
mercato, con il 65% delle vendite), Bosch e Delphi.
I consumatori possono miscelare il carburante e la benzina a piacere, con
percentuali dallo 0 al 100%; il sistema identifica in ogni istante la miscela di
carburante presente nel motore. Il consumatore si può proteggere dalle
fluttuazioni dei prezzi del petrolio o dell’alcool; in un certo senso può
142
addirittura controbilanciare gli aumenti di prezzo: un vantaggio rilevante
quando i prezzi del petrolio sono in salita. Attualmente i motori ibridi
rappresentano il 25% delle vendite totali di vetture private e la domanda è
ancora in crescita: tutte case assemblatrici con esperienza locale di
ingegneria dei motori ad alcool sono in grado di adattare rapidamente i loro
modelli e lanciare così nuove versioni ibride.
Il prossimo passo consisterà nel finalizzare lo sviluppo di un sistema ibrido
tetra-fuel: benzina pura, benzina brasiliana (che contiene il 25% di alcool
assoluto), alcool (idratato, con motori alimentati ad alcool) e metano.
Nell’agosto del 2004 la GM ha lanciato l’Astra ibrida tri-fuel: benzina
brasiliana, alcool e metano. Il sistema tetra-fuel fornirebbe un’enorme
autonomia, fino a 900 km e potrà essere adattato ai sistemi a sola benzina
presenti in quasi tutti i paesi.
3 Modularità negli impianti brasiliani
La modularità è attualmente al centro dell’attenzione dell’industria. La
diffusione dei concetti di modularità nella catena automotive brasiliana ha
trasformato le relazioni interaziendali e quelle con l’indotto e i fornitori.
Probabilmente il primo documento dedicato alla modularità nel settore
automotive è stato presentato nel 1996 al Colloquio internazionale Gerpisa
(Marx, Zilbovicius & Salerno, 1996; pubblicato nel 1997); in esso si
analizzava il pionieristico consorzio modulare collegato all’impianto di
autocarri VW.
Qui, i fornitori svolgono tutte le operazioni di montaggio; la VW si occupa
della progettazione e della personalizzazione di prodotto, della qualità, della
commercializzazione, della pianificazione e del controllo produttivo. La
produzione di autocarri e autobus della VW ha riscosso un grande successo;
l’azienda è leader in Brasile e nella regione per alcuni prodotti (autocarri
leggeri e di medie dimensioni). Si può attribuire questo successo alla logica
d’impianto e alla riduzione dei costi, ma forse, e in maniera più sostanziale
alla progettazione ingegneristica della VW, capace di personalizzare gli
autocarri in base alle esigenze dei clienti (percorsi, merchandise per il
trasporto, peso, ecc.), una performance che i concorrenti non sono in grado
di replicare appieno. Ovviamente, design personalizzato nella fornitura
modulare si traduce in una forte integrazione con i fornitori, per avere le
specifiche giuste per il motore, la trasmissione, il telaio e la cabina di
ciascun veicolo.
143
Di solito con modularità s’intende un fenomeno fisico. Ad esempio, è
abbastanza comune che si ricorra alla modularità nella progettazione, in
produzione e in categorie d’uso (Baldwin e Clark, 1997; Sako e Murray,
2000). Vorremmo ipotizzare un altro approccio, che prende in esame
l’attività d’impresa.
Anche se la modularità è connessa a strategie di progettazione e di
produzione, nonché all’organizzazione, i programmi modulari attuati in
Brasile sono principalmente legati alla ridefinizione dell’attività e alla sua
gestione, alla ridefinizione degli ambiti di pertinenza delle aziende, al nuovo
ruolo dei fornitori e a una nuova forma di relazioni con le aziende
assemblatrici, caratterizzate non solo da una fornitura materiale, ma anche
da speciali relazioni di servizio.
La fornitura di sub-assemblaggi non è una novità nemmeno nell’industria
automobilistica. Se pensiamo al sub-assemblaggio interno, il processo è
vecchio quanto la produzione in serie. I motori, ad esempio, sono sempre
arrivati già assemblati in un punto specifico della catena di montaggio, come
anche i sedili, i cruscotti e gran parte dei “moduli” di oggi: l’unica differenza
risiede nel soggetto che li fabbrica/assembla, la casa automobilistica o il
fornitore. Se però con modularità s’intende un intero sistema organizzativo e
finanziario e relazioni interaziendali, i moduli rappresentano solo la parte
visibile del sistema.
Con modularità intendiamo quindi non solo una strategia progettuale
(design modulare), una fornitura o montaggio modulari, o una manutenzione
(utilizzo) modulare, ma piuttosto una nuova forma di relazione tra aziende
assemblatrici e fornitrici che riplasmano i contorni dell’industria e, fino a un
certo limite, perfino la definizione dell’attività d’impresa e i rischi collegati.
Il concetto di modularità che trattiamo qui ha ovviamente una dimensione
fisica e funzionale (il “modulo”, il “sistema” ecc.), ma è anche molto più di
questo. È un’opzione connessa a un particolare gioco competitivo e una
strategia commerciale adottata da alcune case assemblatrici per trovare una
risposta alla necessità di internazionalizzazione delle proprie attività
produttive, grazie a risparmi negli investimenti.
Nei programmi modulari, rischi e investimenti sono condivisi con alcuni
fornitori selezionati. Questi ultimi investono in installazioni dedicate
all’interno degli impianti dell’azienda assemblatrice, talvolta all’interno dello
stesso stabilimento di assemblaggio. Le case assemblatrici pagano in due
modi, secondo un contratto specifico: a) in parte fisso, indipendentemente
dai volumi produttivi, come ammortamento del capitale investito, in parte
144
variabile, in base alla produzione; b) solo in base alla produzione finale (il
veicolo finale) accettato dalla casa assemblatrice (variabile pura).
In tal senso, l’equazione finanziaria dell’attività è mutata. L’impresa
assemblatrice necessita di meno capitale per controllare impianto e attività e
ha introdotto il pagamento in base alla produzione realizzata e non secondo
quella programmata, trasformando quindi i costi fissi in variabili.
La Chrysler, ad esempio, ha ammesso di aver investito in Campo Largo solo
il 32% dell’intera somma che un impianto totalmente integrato richiederebbe
(Automotive Industries, 1998) per produrre il veicolo commerciale leggero
Dakota. Anche se scontiamo il palese intento pubblicitario dell’annuncio di
Chrysler e di Dana, che in quel momento intendevano espandere la
produzione di autotelai ad altri clienti, in particolare negli Stati Uniti, è pur
vero che i fornitori erano responsabili della produzione di parti, quali il
montaggio motore e l’autotelaio con 300 componenti (telaio, assali anteriori
e posteriori, albero motore, sospensioni, sistema sterzante e frenante,
serbatoio, circuiti elettrici e ruote/pneumatici), con questi ultimi che
contribuivano per un terzo al costo del veicolo.
Persino la decisione di chiudere lo stabilimento – come si è puntualmente
verificato a seguito di una strategia di prodotto sbagliata e scarse vendite –
assume modalità differenti rispetto a quanto avviene negli impianti
tradizionali.
In tal modo, la casa assemblatrice necessita di investimenti ridotti per
installare gli impianti, lanciare nuovi modelli e così via. Minori investimenti
d’installazione si traducono in maggiori possibilità di far fronte all’esigenza
di insediare stabilimenti in continenti/regioni/paesi diversi, e in rischi minori
in termini di redditività.
Le nostre indagini mostrano però che altre realtà strategiche sono altresì
importanti: la VW non voleva che una singola azienda controllasse la
maggior parte delle operazioni dell’impianto consortile modulare di
autocarri; infatti decise di rifiutare la proposta della Dana relativa agli
autotelai. La decisione di terziarizzare un modello rispetto a un altro è
ovviamente di natura strategica, legata alla definizione delle competenze
chiave dell’assemblatrice, oltre ad altre e analoghe considerazioni di ordine
strategico.
E’ opinione comune che la modularità richieda la prossimità fisica tra
impresa assemblatrice e fornitori, come vediamo in molti dei nuovi impianti
automobilistici in Brasile e in altri paesi. Tuttavia, in molte regioni
automobilistiche tradizionali – come Detroit, Torino o São Bernardo do
Campo (regione ABC in Brasile), aziende assemblatrici e fornitori operano
145
fianco a fianco, indipendentemente dalla modularità. Infatto, negli anni 90,
più del 75% dei fornitori dello stabilimento VW di São Bernardo – la sede
centrale della VW brasiliana, il più vecchio impianto industriale
automobilistico del paese, un’icona dell’industria dell’auto in Brasile, come
lo è la fabbrica di Wolfsburg in Germania – si trovavano a non più di 50 km
dalla fabbrica. Oggi nessuno considererebbe quell’impianto un “modello”.
Bisogna andare oltre la prossimità fisica.
La prossimità è cruciale per alcuni sub-assemblaggi/moduli essenziali, ma
non per tutti i componenti. Ricevere sub-assemblaggi invece di componenti
isolati si traduce in problemi logistici, costi, programmi di linea e controllo
di qualità diversi. Un abitacolo con pedali comporta costi logistici diversi dai
suoi componenti; i sedili sono un altro tipico esempio. Alcuni processi hanno
economie di scale e/o l’esigenza di capitale fisso che non rende possibile
decentrare la produzione in ogni nuovo stabilimento di assemblaggio. Poiché
la casa assemblatrice richiede l’esclusività per le installazioni all’interno del
proprio complesso (o condominio), i fornitori tendono a investire il meno
possibile, concentrando le operazioni principali negli stabilimenti centrali
che producono per tutti i clienti. Questo è maggiormente evidente quando ci
sono importanti costi fissi nell’operazione, come lo stampaggio di sedili, la
produzione di componenti della sospensione, iniezione e stampaggio del
sistema illuminante, gli scappamenti, ecc. I fornitori producono quindi i
componenti nei propri stabilimenti, li assemblano nel modulo del complesso
dell’azienda assemblatrice. Di norma, gran parte del valore aggiunto si
realizza negli stabilimenti centrali del fornitore.
Riteniamo che la modularità sia molto più di una prossimità fisica e che
comprenda anche altre attività, oltre alla partecipazione dei fornitori nella
progettazione o nel sub-assemblaggio. Ciò si traduce nella responsabilità dei
fornitori di primo livello per alcuni servizi, quali l’assistenza tecnica del
sub-assemblaggio e la partecipazione diretta alla risoluzione dei problemi
afferenti alla linea di montaggio, per affrontare e rispondere a cambiamenti
di programma, a piccole modifiche nel design di prodotto e così via. Ciò è di
estrema importanza per ridurre le fragilità di un sistema a basso inventario:
rimandare l’ordine di un sub-assemblaggio specifico aumenta la possibilità
di modificare la tempistica di produzione per far fronte a variazioni di
produzione dovute vuoi a problemi di fornitura o a trasformazioni del
mercato. La prossimità fisica ha quindi una sua importanza, mediata però da
questi altri elementi di servizio; in altre parole, l’efficienza di consegna e
relazioni di servizio day-to-day si traducono in prossimità allo stabilimento
di assemblaggio, ad esempio, all’interno di un consorzio. Se queste relazioni
146
di servizio non sono presenti, l’importanza della prossimità tra case
assemblatrici e fornitori di primo livello si riduce.
Forse lo stabilimento auto più “modulare” è quello della Ford a Camaçari
(Bahia), che produce la nuova Fiesta e l’Ecosport, una sport utility basata
sulla piattaforma della Fiesta. Qui, la verniciatura, la rifinitura degli
sportelli, il pannello frontale (con la colonna dello sterzo), i sedili, la selleria,
i paraurti, il cruscotto, il montaggio ruote, il pannello anteriore
(raffreddamento, fari), l’assemblaggio motore e scatola del cambio e parti
dello stampaggio vengono realizzati dall’indotto. Tredici fornitori hanno
installazioni all’interno dell’impianto produttivo della Ford e altri dieci nelle
vicinanze. In altri stabilimenti modulari, ciascun ‘modulista’ gestisce il
proprio impianto e rifornisce il proprio modulo; alla Ford Camaçari è
presente una linea che assembla il “fondo” della vettura. In uno speciale
AGV, la parte anteriore, gli scarichi e la sospensione vengono assemblati
passando attraverso diversi impianti dei fornitori. Poi l’AGV entra nella
linea finale di assemblaggio della Ford, in cui il fondo viene montato insieme
alla carrozzeria. Qui il sincronismo diventa cruciale, la tempistica produttiva
è attivata dal carrello, gli investimenti sono condivisi e le relazioni di
servizio entrano a pieno titolo nel sistema.
Poiché i modulisti si occupano di trasformare i costi fissi in variabili, di
ridurre il capitale investito, facilitare il cambiamento del programma di
produzione per far fronte alle incertezze del mercato e della fornitura, di
effettuare consegne just in sequence, essi offrono non solo un prodotto ma
anche un servizio… A parte tutte queste novità, la modularità ha limiti ben
delineati. Il consorzio modulare VW non è il modello vincente nel caso di
una produzione di autovetture. Le forniture modulari sono concentrate solo
in alcuni sub-assemblaggi. La relazione tra impresa assemblatrice e
modulisti non è omogenea; ci sono quindi modulisti strategicamente più
importanti di altri. La fornitura è circoscritta al primo livello (Graziadio,
2004); alcune indicazioni sembrano ipotizzare che gli inventari siano stati
ridotti ai livelli più bassi della filiera (Salerno, Marx e Zilbovicius, 2002).
Alcune aziende hanno inoltre deciso di non utilizzare la modularità in alcuni
sub-assemblaggi dopo un’analisi dei costi – abbiamo studiato il caso di
un’importante casa assemblatrice che ha deciso di produrre internamente un
modulo anteriore, perché i prezzi richiesti dai potenziali fornitori erano più
elevati del target. Analogamente, un’altra azienda assemblatrice non è stata
in grado di esternalizzare le operazioni di stampaggio per le stesse ragioni –
e in quel caso, il contratto era stato annunciato pubblicamente, ma il
fornitore aveva rinunciato, sostenendo che l’investimento era elevato e i
147
ricavi modesti – non si erano accordati sui prezzi e sulle condizioni della
fornitura. Rimane inoltre aperta la questione se, e fino a che punto, la
terziarizzazione di operazioni chiave di assemblaggio renda più difficile
gestire la qualità e gli elementi sistemici della performance di prodotto per
l’azienda assemblatrice.
Abbiamo già brevemente accennato alla relazione tra modularità e
prossimità fisica. Durante la fase di sviluppo di una vettura, con prossimità
si intende la localizzazione che si trova vicino al centro di sviluppo, nel
centro direzionale o altrove: la co-progettazione realizzata parzialmente da
Fiat (modello Palio), GM (Meriva; Celta/Blue Macaw) e VW (Fox) in
Brasile si è sviluppata negli stabilimenti locali delle principali aziende di
componentistica. Anche nei casi di co-progettazione per l’adattamento ai
mercati locali o per lo sviluppo di derivati per i mercati regionali, ciò si
traduce nella prossimità con le sedi direzionali locali. Nella sezione seguente
presentiamo il tema dello sviluppo di prodotto in Brasile.
4 Strategie di sviluppo del prodotto: il Brasile come
polo periferico di progettazione
In merito alle attività di sviluppo, ultimamente si può osservare un
cambiamento apparente delle strategie adottate precedentemente, sia nelle
case assemblatrici di vetture, che in quelle di autocomponentistica: se
all’inizio degli anni ’90 una strategia di prodotto globale, o più
specificatamente della vettura globale, era l’obiettivo esplicito di gran parte
delle aziende, con implicazioni rilevanti a livello di attività di sviluppo del
prodotto realizzate in Brasile, nel 2000 è emersa una strategia alternativa; le
aziende hanno preferito sviluppare modelli locali o regionali, oppure modelli
mirati ai mercati emergenti, invece di modelli unici per il mondo intero.
Questo cambiamento è avvenuto a causa della percezione che le differenze
nazionali e culturali esistono, anche se la diffusione delle tecnologie
informatiche e la liberalizzazione dei mercati hanno contribuito a dare una
certa omogeneità ai gusti e alle preferenze dei consumatori nei diversi paesi;
inoltre, le situazioni locali – per esempio le condizioni stradali e climatiche,
la polvere – potrebbero influire sull’utilizzo dei prodotti e generare esigenze
diverse da un luogo all’altro.
La Fiat è stata una delle prime aziende a scegliere, dopo l’apertura del
mercato brasiliano negli anni ’90, di sviluppare una vettura mirata ai paesi
emergenti, la famiglia della Palio. Attualmente, la General Motors (GM) e la
Volkswagen (VW) hanno in portafoglio modelli destinati ai mercati locali,
148
regionali o emergenti – la Celta, nel caso della GM, la Fox per la VW. Che
sia una coincidenza o meno, queste case produttrici detengono la leadership
nelle vendite interne brasiliane per le autovetture.
La scelta di sviluppare prodotti adattati alle condizioni locali o regionali
comporta alcune implicazioni per la distribuzione delle attività di sviluppo di
prodotto nei diversi paesi. Anche se è possibile sviluppare o adattare il
prodotto regionale nelle sedi centrali di progettazione, l’esigenza di
apportare modifiche genera, secondo molti autori (Dunning, 1993), un
maggiore decentramento delle attività di sviluppo del prodotto verso altre
unità, dato che la prossimità al mercato finale sarebbe necessaria per captare
i gusti, le preferenze e le condizioni d’uso. Questo decentramento non è
indiscriminato; in altre parole, solo alcune unità sono scelte per partecipare a
queste attività. Ecco perché possiamo definire il decentramento delle attività
di sviluppo del prodotto un decentramento selettivo (Carneiro-Dias, Salerno,
2003). In questo scenario, le filiali brasiliane delle case assemblatrici di auto
stanno emergendo come polo di sviluppo del prodotto secondario, dopo un
periodo di riduzione dei team ingegneristici negli anni ’90, a seguito di
strategie auto globali.
L’unità brasiliana della Fiat è responsabile degli adattamenti delle
piattaforme alle condizioni locali o regionali e dello sviluppo di derivati. Per
esempio, le sedi centrali hanno sviluppato, insieme ai team ingegneristici
brasiliani, la famiglia della Palio, concepita per raggiungere i mercati
emergenti. Durante le fasi di definizione del concetto di prodotto, del design
avanzato e dello styling della vettura, gli ingegneri e i direttori degli acquisti
brasiliani si sono recati in Italia. Successivamente, il processo di
progettazione è stato centralizzato in Brasile, sotto il coordinamento di Fiat
Italia. La sussidiaria brasiliana era inoltre responsabile dello sviluppo dei
derivati tre-volumi e pick-up. I modelli della famiglia Palio sono attualmente
prodotti in nove paesi, tutti in via di sviluppo, e commercializzati in più di
un centinaio di paesi; il Brasile è stato scelto tra questi paesi per integrare lo
sviluppo del prodotto, in ragione della sua importanza per il gruppo. A parte
lo sviluppo di piattaforme e derivati, in Brasile ci sono due dei “centri
d’eccellenza di sviluppo del prodotto” della società – gli altri quattro centri
sono tutti in Italia. I centri brasiliani sono responsabili dello sviluppo di
alcuni specifici componenti per motori (per risolvere problemi di carburante
di bassa qualità o alternativi, come l’alcool) e per lo sviluppo dei moduli
delle sospensioni. Ciò significa che anche se le sedi direzionali stanno
sviluppando un prodotto non mirato al mercato brasiliano o sudamericano,
possono comunque delegare all’unità brasiliana la responsabilità di sviluppo
149
di questi moduli o componenti specifici, sempre con il coordinamento di Fiat
Italia. I dirigenti della sede centrale Fiat in Italia, come anche i manager
della sussidiaria brasiliana, affermano che il successo è in gran parte dovuto
al decentramento dell’engineering.
La VW fornisce un altro esempio interessante del cambiamento di strategie
per la dislocazione delle attività di sviluppo del prodotto nelle diverse unità
del gruppo. Dopo gli anni ’90 la VW decise di snellire la sua struttura
ingegenristica locale, al fine di ridurre i costi e i tempi di sviluppo. I prodotti
destinati a nicchie di prezzo medio-alte erano sviluppati centralmente e
prodotti localmente o importati dai centri produttivi centrali. Per quanto
riguarda i modelli per il mercato a livello entry, la VW decise di continuare
la produzione del suo vecchio modello Gol, dopo averlo sottoposto a un
re-styling. L’azienda aveva però iniziato a risentire della concorrenza di altre
case assemblatrici che seguivano strategie di progettazione più decentrate, in
particolare nella nicchia del livello entry; la principale minaccia era
rappresentata dalla crescita della sussidiaria brasiliana della Fiat. I
concorrenti con capacità locali di progettazione – quali la Fiat e la GM –
erano in grado di ridurre il time to market dei nuovi lanci, riuscendo quindi a
conquistare fette di mercato. Questo scenario indusse la VW a modificare la
propria strategia e a reintegrare l’unità brasiliana all’interno delle sue
attività di sviluppo del prodotto.
Di recente la sussidiaria brasiliana della VW ha partecipato attivamente allo
sviluppo di tre modelli. Il primo è la New Polo e i suoi derivati, la versione
con portellone e la berlina. La piattaforma è stata sviluppata in Germania; il
modello con portellone, prodotto e venduto in Spagna, Slovacchia, Brasile e
Cina, è stato sviluppato con la supervisione dell’unità tedesca. Per il secondo
derivato, la berlina Polo Sedan, prodotta e venduta in Brasile, Cina e
Sudafrica, è stata la sussidiaria brasiliana ad essere responsabile dello
sviluppo; in particolare durante la fase di definizione dell’ideazione e della
programmazione di prodotto in Germania, erano presenti esperti brasiliani
dei settori ingegneristica, acquisti e qualità e inoltre una parte dell’attività
ingeneristica di processo e di prodotto è stata realizzata in Brasile. Essere
responsabile dei derivati significa anche che la sussidiaria brasiliana è
chiamata a gestire il processo di sviluppo, con l’obiettivo di raggiungere i
target di costo e il time-to-market; in questo rappresenta il concetto di
“direzione generale, o headquarter, di progetto” sul quale ritorneremo più
avanti.
Il caso del terzo prodotto, la Fox, è particolarmente interessante. Si tratta
anch’esso di un derivato della piattaforma Polo, ma il suo sviluppo è stato
150
proposto dalla sussidiaria brasiliana per occupare la nicchia delle vetture a
basso costo, a sostituzione del modello Golf ormai molto vecchio. La
sussidiaria brasiliana ha dovuto lottare per ottenere l’autorizzazione a
procedere dalla casa madre e in questo processo il fatto che il Brasile
rappresenti la seconda migliore unità in termini di volume produttivo, la
miglior terza nelle vendite e la più vecchia unità straniera della
multinazionale ha avuto un suo peso. Durante il processo di sviluppo del
prodotto, la Fox era chiamata “Tupi”, il nome di una tribù indigena del
Brasile – per sottolinearne la nazionalità. Si tratta di un modello più piccolo
e semplice, sviluppato in Brasile, con la casa madre che si è limitata ad
apporre il timbro finale di approvazione; in base a quanto ci è stato riferito
dai rappresentanti della VW che abbiamo intervistato, ciò è dovuto non tanto
al fatto che l’ingegneristica brasiliana mancasse di tecnologia o di
competenze, ma ad una questione politica: la casa madre doveva mostrare di
avere il controllo sul progetto.
Alla VW come alla Fiat, la decentralizzazione è maggiore per le vetture a
basso costo, che sono le più importanti per il mercato locale. Nelle due case
assemblatrici, l’ingegneristica brasiliana partecipa anche allo sviluppo di
altri modelli, ma in questo caso il personale locale è assegnato ai rispettivi
centri di sviluppo, vicini alle sedi direzionali.
Anche l’unità brasiliana della GM ha da poco aumentato le proprie attività
ingegneristiche. Nella seconda metà degli anni ’90 aveva sviluppato derivati
locali per la famiglia della Corsa (pick-up, berlina e station wagon); inoltre,
questi sforzi di sviluppo del prodotto avevano dato vita a un modello locale,
la Celta, un entry-level sviluppato su una piattaforma Corsa modificata. In
seguito, all’inizio del 2000, la sussidiaria brasiliana aveva pertecipato allo
sviluppo della monovolume Meriva. Lo sviluppo è stato realizzato dalla
Opel e dalla sussidiaria brasiliana; gran parte delle attività ingegneristiche
sono state realizzate in Brasile, con la partecipazione di ingegneri tedeschi.
Tutte le decisioni relative al prodotto, così come la gestione del progetto,
sono state assegnate ad un comitato d’indirizzo composto da dirigenti sia
brasiliani che tedeschi. In ultima analisi, l’unità brasiliana ha anche tratto
profitto da questa esperienza in quanto ha visto crescere le proprie capacità
di sviluppo del prodotto e consolidare il proprio centro locale di sviluppo del
prodotto. La Meriva è stata lanciata sul mercato brasiliano nel 2002.
Questi casi dimostrano che sono diverse le ragioni utili a spiegare perché le
unità brasiliane di Fiat, GM e VW siano state scelte per realizzare attività di
sviluppo del prodotto localmente. Come abbiamo detto in precedenza, la
necessità di adattarsi alle condizioni locali potrebbe essere una; ma abbiamo
151
anche sostenuto che questo fattore non è sufficiente a garantire che le
sussidiarie locali sviluppino (o adattino) localmente i modelli che producono
o vendono. Prendiamo ad esempio le sussidiarie brasiliane che sono
responsabili dello sviluppo di modelli che altre sussidiarie in America
Latina, nell’Europa dell’Est o in Asia sono chiamate a produrre e/o a
commercializzare. In questi casi la prossimità non era una ragione
abbastanza forte da sostenere la decisione di decentrare le attività di
sviluppo del prodotto in Cina, Turchia, Messico o Sudafrica. La strategia di
decentralizzare le attività attinenti alla progettazione trova altre motivazioni
oltre alla prossimità ai mercati. Una di queste è rappresentata dalle risorse
che una sussidiaria possiede in materia di progettazione; in questo senso,
come abbiamo dimostrato nella sezione precedente, le sussidiarie brasiliane
sia di case assemblatrici di auto che di autocomponentistica hanno
sviluppato grandi competenze ingegneristiche nel periodo di chiusura del
mercato, soprattutto nell’industria metalmeccanica. Tali competenze sono
state riconosciute dalle sedi centrali delle società e potrebbero rappresentare
l’elemento distintivo delle sussidiarie brasiliane rispetto ad altre realtà. I
responsabili dell’engineering della VW affermano che fu scelto il Brasile
come sede direzionale del progetto della Polo Sedan proprio per la sua
comprovata esperienza e competenza nello sviluppo di prodotto, durante il
periodo in cui il mercato locale era chiuso.
D’altra parte, queste risorse non sono poi così diverse da quelle che si
riscontrano nelle case madri, tranne per gli aspetti correlati a regolamenti
locali o a nuove condizioni di mercato, quali l’utilizzo di alcool come
carburante (come nel caso di multi-fuel, già precedentemente discusso), le
cattive condizioni delle strade o persino la capacità di sviluppare
un’autovettura a costo ridotto ma con una buona tenuta di strada. Ne è
l’esempio la sussidiaria brasiliana della Fiat, riconosciuta dall’azienda stessa
come uno dei centri di competenza per lo sviluppo di sospensioni, il che è
dovuto anche al cattivo stato del manto stradale in Brasile.
Un’altra spiegazione dell’integrazione brasiliana nello sviluppo di prodotto è
data dal fatto che molti centri di progettazione e design delle case madri sono
sottoposti a superlavoro, connesso alla concorrenza spietata dei mercati
centrali e alla conseguente necessità di aumentare il numero di nuovi modelli
e di diminuire al contempo il loro time-to-market. In tal senso quando si
presenta la necessità di apportare adattamenti sostanziali a un modello, le
case automobilistiche preferiscono delegare tali attività ad altre unità,
lasciando quindi il centro progettazione libero di dedicarsi ai mercati
centrali. Ciò spiega almeno in parte perché la decentralizzazione è maggiore
152
quando si tratta di sviluppare modelli destinati a paesi emergenti, dove in
generale i modelli entry-level sono molto più economici di quelli
commercializzati nella Triade e, di conseguenza, anche molto diversi, con
numerosi adattamenti o caratteristiche speciali, come vediamo nel caso della
famiglia Palio (Fiat), nella Fox (VW) e nella Celta (GM).
La decisione di condividere le attività di sviluppo del prodotto con altre unità
aggiunge flessibilità al processo di sviluppo dei prodotti destinati ai mercati
centrali e a quelli per i mercati emergenti, con la possibilità di compensare i
costi di una doppia struttura di engineering. In effetti, come indicato dagli
intervistati presso la Fiat, la decentralizzazione dello sviluppo del prodotto
ha generato una riduzione del time-to-market, con conseguente vantaggio
per la Fiat in quanto prima azienda a entrare nella nicchia delle vetture
entry-level, pur in presenza di altri modelli che però erano o troppo vecchi
(la Gol della VW) o più costosi (la Corsa della GM), al lancio della famiglia
Palio. Secondo la Fiat, si è realizzata anche una riduzione dei costi di
sviluppo, dato che la struttura brasiliana per lo sviluppo del prodotto, pur
comprendendo anche gli stipendi degli ingegneri, era meno onerosa della
controparte italiana. Il fatto che l’unità brasiliana sia un centro di
competenza per alcuni moduli è altresì importante perché, come sottolineato
da alcuni intervistati, talvolta la casa madre italiana non è in grado di
sviluppare un modulo o un componente per mancanza di capacità fisiche,
mentre invece quando l’engineering brasiliano partecipa al processo il tempo
di sviluppo si riduce.
L’esempio dello sviluppo della space-wagon Meriva della GM conferma
questo punto. I responsabili dello sviluppo di prodotto della GM hanno
dichiarato che la logica principale della ripartizione dell’attività di sviluppo
tra il Brasile e la Germania era quella di ridurre i tempi, dato che la struttura
ingegneristica della Opel operava già a pieno regime; visto che l’unità
brasiliana aveva una certa esperienza ingegneristica e una struttura adeguata
(con software di analisi virtuale, laboratori di prototipizzazione, laboratorio
di crash test, ecc.), si era deciso di sviluppare il nuovo modello in Brasile,
proprio per trarre vantaggio dalla struttura esistente.
La scelta dell’unità che andrà a integrare le attività di sviluppo del prodotto
tiene conto anche delle relazioni con la casa madre, come appare chiaro nel
caso della Fox della VW. L’importanza dell’unità, spesso misurata in
termini di vendite totali, è anch’esso un fattore essenziale. In questo caso,
l’andamento e le prospettive di mercato sono considerate nella valutazione
dell’importanza di una sussidiaria. Ancora una volta possiamo citare
l’esempio della sussidiaria brasiliana della VW, alla quale è stata assegnata
153
la responsabilità delo sviluppo della Polo Sedan, anche perché il Brasile era
considerato il mercato più importante per il modello a tre volumi.
Abbiamo già fatto riferimento in questa sezione al concetto di “sede
(centrale) di progetto”. Si tratta di un concetto analogo a quello di “mandato
di prodotto”, nel quale una sussidiaria è pienamente responsabile del
processo di sviluppo di un dato prodotto, comprendendone anche la gestione.
Ne consegue che le decisioni relative al budget e alla tempistica sono di
responsabilità della sussidiaria (ora “sede di progetto”). Inoltre, la “sede di
progetto” è responsabile della scelta di alcune aziende di
autocomponentistica, che si occuperanno delle forniture per il nuovo modello
e talvolta ne svilupperanno alcune parti in collaborazione con l’azienda
assemblatrice. È una posizione diversa rispetto a quella richiesta quando si
tratta di adattare localmente dei modelli globali, o di partecipare allo
sviluppo di un modello della casa madre. Nel caso del Brasile, la VW e la
GM erano le sedi di progetto per lo sviluppo della Fox e della Celta,
rispettivamente; la Fiat può essere considerata una sede di progetto per i
derivati della famiglia della Palio e può essere considerata una “co-sede”,
insieme all’Italia, nel caso della prima Palio. Questa situazione ha avuto
delle conseguenze a livello di attività di progettazione realizzate in Brasile
anche per le aziende di autocomponentistica, poiché quando c’è co-design
tra le case assemblatrici e le aziende di autocomponentistica, questo
realizzerà in Brasile, dove si trova il capo progetto (la sussidiaria brasiliana
dell’azienda assemblatrice). Ciò accade perché, anche se gli strumenti
informatici permettono di sviluppare un prodotto in co-design con un
partner localizzato ovunque, talvolta la prossimità fisica tra attori è
estremamente necessaria, in particolare quando nel processo sono presenti
elementi taciti (Carrincazeaux e Lung, 1997).
Abbiamo osservato empiricamente che quanto maggiori sono le attività di
progettazione realizzate localmente dalle case assemblatrici, maggiore è il
numero di produttori di componenti che svolgono queste attività localmente.
Durante il processo di sviluppo della Palio, ad esempio, aziende come la
sussidiaria brasiliana della Lear Corporation e la Metagal, un’azienda
brasiliana di specchietti, hanno partecipato alle attività di sviluppo,
rafforzando così i propri team ingegneristici locali. Nel caso delle unità
brasiliane di multinazionali, spesso lo sviluppo viene realizzato in Brasile,
con il supporto tecnico dei centri principali di progettazione, se necessario.
Un altro importante effetto delle sussidiarie brasiliane che diventano sedi di
progetto è il consolidamento della locale industria autocomponentistica.
Quando l’unità brasiliana di una casa assemblatrice di auto è il capo
154
progetto, sarà anche responsabile della scelta di (alcuni) fornitori; di
conseguenza è più probabile che la scelta cada su un fornitore operativo in
Brasile, per ragioni che vanno da relazioni storiche di lunga data alla
garanzia di una presenza fisica durante il processo di sviluppo del prodotto e
nelle fasi successive, durante la produzione (compresa l’assistenza tecnica),
ecc.; se, per ragioni tecniche, viene scelto un fornitore che non è presente in
Brasile, talvolta la casa assemblatrice pretenderà che quest’ultimo apra delle
installazioni nel paese, data l’importanza della prossimità nel co-design e
nella fornitura, come abbiamo già visto nel presente capitolo.
Nell’industria dell’autocomponentistica brasiliana possiamo però riscontrare
esempi di team ingegneristici la cui sopravvivenza non dipende dal livello di
attività di sviluppo del prodotto ottenuto dalle case assemblatrici; in altre
parole, in queste unità si realizzeranno attività legate all’innovazione, anche
se le aziende assemblatrici di auto non trasferiscono in Brasile attività di
sviluppo di nuovi prodotti. Le loro attività di engineering e i prodotti o le
tecnologie generate sono destinati ad altri mercati, a parte quello brasiliano,
oppure a mercati emergenti; queste unità sono ritenute centri di competenza
all’interno dei loro gruppi e quindi forniscono nuovi prodotti o tecnologie
all’intera multinazionale e/o ai clienti indipendentemente dalla loro
localizzazione.
Questi centri di competenza sono in massima parte nati da aziende che
hanno sviluppato competenze locali di progettazione nel periodo di chiusura
del mercato; a loro volta queste competenze erano strettamente connesse alle
condizioni locali: sospensioni adatte al pessimo stato delle strade, polvere,
alcool come carburante, preferenze locali di mercato, come piccoli modelli di
pick-up, ecc.. Quando si aprì il mercato ed emersero strategie globali, queste
aziende furono oggetto di acquisizioni o di fusioni con società transnazionali,
ma mantennero alcune competenze al loro interno, pur trasferendone altre
alle case madri o ai centri principali di progettazione. Talvolta la
competenza mantenuta in Brasile non era detenuta dalla nuova azienda
controllante. Un esempio: quando Mahle acquisì Metal Leve do Brasil,
assegnò alla sussidiaria brasiliana il mandato relativo allo sviluppo di
cuscinetti, dato che questo prodotto non era precedentemente contemplato
nel portafoglio della Mahle e nel frattempo la Metal Leve aveva sviluppato
una forte competenza locale di engineering. Attualmente, la sussidiaria
brasiliana della Mahle è responsabile di tutte le attività di R&S relative ai
cuscinetti, integrata agli altri tre centri di R&S di proprietà della
multinazionale, tutti e tre localizzati nella Triade – Stoccarda (Germania),
Detroit (USA) e Tokyo (Giappone).
155
Anche il caso di Eaton illustra questo punto. La principale sussidiaria
brasiliana di Eaton fa parte della divisione Light & Medium Duty
Transmissions ed è formalmente riconosciuta all’interno del gruppo come
centro di competenza per lo sviluppo di trasmissioni leggere. Ciò significa
che l’intero processo di sviluppo del prodotto, compresi la definizione di
concetto e la pianificazione di prodotto, viene realizzato in Brasile, anche se
il processo segue le procedure aziendali sviluppate e controllate dalla casa
madre e i materiali e i componenti sono condivisi tra diverse unità. Come nel
caso della Mahle, questa situazione ha ragioni storiche; negli anni ’80,
quando l’unità faceva parte della società Clark, iniziò a sviluppare prodotti
locali per rispondere alle esigenze dei clienti, in particolare la General
Motors, che richiedeva lo sviluppo di trasmissioni leggere da montare sui
suoi modelli di pick-up in Brasile, diversi da quelli americani in quanto
avevano un profilo di vetture per la città (modelli ‘car-like’) e non per la
campagna. Questo ha inaugurato una nuova fase dell’ingegneristica
brasiliana della Eaton, che fino a quel momento era responsabile
dell’adattamento dei prodotti del gruppo alle esigenze locali. Il centro di
sviluppo del prodotto della Eaton in Brasile è uno dei quattro centri di R&S
del gruppo; gli altri sono il centro principale negli USA e quelli di
Amsterdam (Olanda) e Manchester (GB).
Il panorama che abbiamo illustrato in questa sezione, che ha preso in esame
le strategie messe in atto sia dalle aziende di componenti che dalle aziende
assemblatrici per la distribuzione mondiale delle attività di sviluppo del
prodotto, sottolinea il fatto che il Brasile sta emergendo come un polo
secondario di sviluppo del prodotto all’interno dell’industria automotive e
come polo principale tra i paesi esterni alla Triade. Finora il paese ha
consolidato le proprie risorse ingegneristiche, con solo poche eccezioni, nello
sviluppo di modelli e caratteristiche destinate ai mercati emergenti; cioè
veicoli a costi molto contenuti, ma abbastanza confortevoli, con materiali
robusti e design moderno. In tal senso, dal punto di vista dei paesi
sviluppati, questi sono ritenuti prodotti di “nicchia”, nonostante la loro
importanza in termini di mercato potenziale. Resta da vedere se la strategia
di costruzione di un polo secondario di engineering in Brasile verrà seguita
da gran parte delle aziende nei prossimi anni, nonostante la crescente
importanza di altri paesi emergenti, quali la Cina. Va quindi sottolineata
l’importanza delle competenze locali di engineering, che si sono consolidate
in Brasile a partire dalla prima installazione dell’industria automobilistica
nel paese negli anni ’50, insieme al loro riconoscimento da parte delle
multinazionali; queste ultime continuano ancora a fare la differenza, quando
156
si tratta di scegliere dove assegnare le attività di progettazione di nuovi
prodotti.
5 Conclusioni
L’industria automotive brasiliana presenta caratteristiche molto speciali e
diverse rispetto ad altri paesi periferici o emergenti, tra cui la modularità,
l’ideazione e il design di prodotto. Il Brasile è il principale centro di
progettazione esterno alla Triade; formalmente, le società controllanti
ritengono le aziende di assemblaggio e autocomponentistica unità di
progettazione locale nella ripartizione globale delle attività. Si è sviluppato
un settore specialistico, dietro la spinta del mercato, che comprende i veicoli
a prezzo contenuto di entry-level, una nicchia che esula dalle priorità di gran
parte dei gruppi che controllano le aziende assemblatrici. La
razionalizzazione degli impianti di assemblaggio e delle relazioni di
fornitura, realizzate mediante la modularizzazione e i suoi componenti, quali
il just in sequence, i servizi, ecc., ha contribuito a costruire una struttura
produttiva a basso costo, agile e flessibile.
Il concetto di “sede di prodotto” è cruciale. Diverse indagini hanno
dimostrato che una progettazione su base locale rende più facile innovare
all’interno della relazione di fornitura e introdurre i fornitori locali nel
mercato globale, almeno finché la scelta dei fornitori viene realizzata
localmente.
In ogni caso, una forte gerarchia caratterizza il settore automotive.
L’autonomia locale in materia di design è sottoposta a supervisione stretta
della casa madre, mentre alcune decisioni centrali sono prese in base a
motivazioni di ordine politico, quando per esempio si opta per una
produzione centralizzata per mantenere i posti di lavoro, oppure preesistenti
divisioni internazionali dei mercato, e così via. Il futuro di queste nuove
realtà è strettamente collegato allo sviluppo delle attività e all’abilità
dimostrata dalle sussidiarie locali nelle relazioni con le sedi direzionali delle
società controllanti.
6 Riferimenti
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1998, pp. 34-43
Baldwin C.Y., Clark K.B., Managing in the age of modularità, “Harvard
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157
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158
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p.10-23.
Il distretto automobilistico di Stoccarda –
evoluzione e tendenze con particolare
riferimento alla cooperazione nei cluster virtuali
Joachim Warschat, Kristina Wagner, Christina Edelmann
1 Struttura del distretto automobilistico di Stoccarda –
situazione ed evoluzione
1
Sviluppo
Stoccarda è la città della prima produzione automobilistica al mondo e può
vantare una tradizione ininterrotta di 115 anni di storia automobilistica. Nel
1886 Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach montarono il loro motore a
benzina su uno chassis per dimostrare le potenzialità della loro ideazione.
Contemporaneamente, nella vicina città di Mannheim, Carl Friedrich Benz
ottenne il brevetto per il suo veicolo a motore a tre ruote, chiamato “Benz
Motorwagen”. Le imprese che fondarono, rispettivamente la “Daimler
Motorengesellschaft” e la “Benz & Cie.”, si fusero nella “Daimler-Benz” nel
1926 dopo la morte di Daimler. Erede diretta di questa prima fabbrica è la
DaimlerChrysler AG, uno dei più importanti gruppi industriali del settore
automotive.
Un’altra personalità strategica in questa storia è Ferdinand Porsche, che
aveva lavorato alla Mercedes Benz come Direttore tecnico, entrando anche a
far parte del suo consiglio di amministrazione. Nel 1931 aprì l’ufficio
Porsche di consulenza ingegneristica a Stoccarda, gettando così le basi per
la Dr.Ing.h.c. F. Porsche AG, la più famosa casa produttrice di auto
sportive tedesca.
Insieme ad altri, questi personaggi eccezionali gettarono le basi per lo
sviluppo della regione economica di Stoccarda, in particolare nella
produzione metalmeccanica e automobilistica. Oggi Stoccarda è una delle
quattro capitali dell’automotive nel mondo, insieme a Toyota in Giappone,
Detroit negli Stati Uniti d’America e Torino in Italia.
160
2
Partecipanti
La regione di Stoccarda è la sede di due importanti case automobilistiche e
di un gruppo diversificato di fornitori, con conseguente sviluppo dell’indotto
soprattutto nel settore dell’ingegneria meccanica; va inoltre segnalata la
presenza di istituti di ricerca e di consulenza ingegneristica, specializzati nel
prodotto auto e servizi. L’industria automobilistica della regione si avvicina
alla conformazione ideale di un cluster produttivo molto diversificato e
interconnesso. La struttura del distretto automobilistico di Stoccarda
comprende le seguenti tipologie di partner:
·
·
·
·
·
Produttori
DaimlerChrysler AG (Stoccarda), http://www.daimlerchrysler.com
Dr. Ing. h.c. F. Porsche AG (Stoccarda), http://www.porsche.com
Micro Compact Car smart GmbH (Böblingen), http://www.smart.com
Ernst Auwärter Karosserie– und Fahrzeugbau KG (Steinenbronn),
http://www.auwaerter.de
NEOPLAN Bus GmbH (Stoccarda), http://www.neoplan.de
L’indotto è ovviamente composto da un gran numero di aziende indipendenti
di dimensioni variabili:
Mega-fornitori
La regione ospita le sedi centrali di quattro fornitori automobilistici che
fanno parte dei Top-100 al mondo:
· Robert Bosch GmbH (Stoccarda), http://www.bosch.de
· Mahle GmbH (Stoccarda), http://www.mahle.com
· Behr GmbH & Co. (Stoccarda), http://www.behr.de
· J. Eberspächer GmbH & Co. (Esslingen), http://www.eberspaecher.de
Nella regione è inoltre presente un gruppo di consociate e filiali delle 100
migliori aziende di fornitura. Tra queste: TRW Inc. (Alfdorf), Valeo SA
(Bietigheim), Rheinmetall AG (Hirschmann) (Neckartenzlingen),
Continental AG (Benecke-Kaliko AG) (Eislingen), ZF (Bietigheim).
Le principali aziende fornitrici hanno inoltre avviato rapporti di
collaborazione, compartecipazione e joint-venture con i produttori della
regione (p.es. Recaro/Johnson Controls Inc., Bosch GmbH/Magneti Marelli
SPA, ZF AG/Zexel Corp.).
161
Fornitori di piccole e medie dimensioni
Nonostante l’attuale tendenza del settore verso una politica di fusioni e
acquisizioni, si stima che circa 250 fornitori di medie dimensioni (2o livello)
producano componenti, assemblaggi e sistemi complessi per l’OEM e per i
mega-fornitori (1o livello). Numerose piccole imprese, solitamente
indipendenti, producono parti e componenti (3o livello). A seguito della
crescente tendenza a trasferire ai fornitori l’attività di sviluppo, la
produzione just-in-time e i servizi logistici, il numero delle imprese
indipendenti è destinato a ridursi nei prossimi anni.
Istituti di ricerca e fornitori di servizi ingegneristici
Numerosi istituti di ricerca e fornitori di servizi, sia pubblici che privati, si
affiancano e sostengono l’industria automobilistica; essi sono: Bertrandt
AG, Xcellsis GmbH, HP Divisioni Soluzioni Auto (ASD), Istituto Motori a
combustione e Motorizzazioni dell’Università di Stoccarda (ricerca di base)
e l’Istituto di ricerca Motorizzazione e Veicoli a motore (FKFS, ricerca
applicata). Diversi Istituti Fraunhofer hanno sede a Stoccarda, tra cui
l’Istituto Fraunhofer di Ingegneria industriale (IAO) e quello di Ingegneria
Produttiva e Automazione (IPA), che mantengono stretti rapporti con
l’industria automobilistica.
Vista la massiccia concentrazione di impianti produttivi e di aree funzionali
della catena produttiva automobilistica, la regione di Stoccarda è diventata il
“cluster automobilistico più esteso, compatto e potente d’Europa”.
3
Sviluppo economico
Gli anni Novanta, dopo un decennio di prosperità, hanno portato a una fase
di contrazione, legata agli adeguamenti imposti dalle trasformazioni in atto
nell’economia. “Nella regione di Stoccarda... l’industria automobilistica ha
conosciuto un periodo di stagnazione... con un calo dell’output del 5,6% e
un’occupazione quasi statica, rispetto agli aumenti del 21% e 4,1%
rispettivamente, nella totalità della RFT” (Morgan 1999). Si è inoltre
registrata una crescita negativa in vari settori industriali, nella produzione di
veicoli, nella meccanica e nell’ingegneria elettrica.
Nuovi processi produttivi e tecnologie hanno ridotto la domanda di
lavorazioni semplici. Una crescente competitività nel segmento superiore del
mercato delle vetture ha portato alla scomparsa di concorrenti; inoltre una
rigida politica di prodotto si è tradotta in una grande sovracapacità
produttiva a livello internazionale.
162
La conseguenza per l’industria automobilistica è stata una crisi profonda che
si è prodotta tra il 1992 e il 1994, con drastiche riduzioni nel numero degli
occupati, il trasferimento di rami d’azienda organizzativi e la chiusura di
interi impianti e linee produttive. A seguito della ristrutturazione del settore,
si è registrata una ripresa graduale che ha prodotto un boom economico
all’interno del cluster automobilistico di Stoccarda dalla metà degli anni
Novanta fino ad oggi, solo attenuato in tempi recenti dalla generale tendenza
verso un rallentamento dell’economia mondiale.
Quasi un quinto dell’1,2 milioni di occupati nell’industria nello stato
federale di Baden-Württemberg (BW) lavora nel settore produttivo
direttamente correlato all’auto. Se si considerano tutti gli occupati nella
produzione, nelle vendite, nella distribuzione e nell’utilizzo di veicoli a
motore, si può affermare che una persona su sei dipende direttamente o
indirettamente dal settore automobilistico. L’industria dell’auto rappresenta
una percentuale del 20,8 del PIL nazionale e rappresenta la più importante
classe di attività della Germania. Un quarto dei 920.000 dipendenti
dell’industria automobilistica tedesca è collocato nel Sudovest del paese. Nel
2002 il settore dell’auto, per quanto riguarda la produzione, ha registrato
nella regione di Stoccarda una percentuale di fatturato pari a circa il 50%
(cfr. Fig. 1).
Fig. 1 – Percentuale del fatturato del settore automobilistico rispetto al
settore produttivo generale.
Fonte: Ufficio statistico federale, Enti statistici regionali; Calcoli IMU.
Fatti e cifre
Riportiamo di seguito alcuni fatti e alcune cifre.
163
·
·
·
Fatturato totale della produzione automobilistica nella regione di
Stoccarda nel 2002: €36,7 miliardi, pari a un 1/7 (14,2%) del fatturato
nazionale di settore, o, in altre parole, a circa il 59% del fatturato di
settore nel BW (cfr. Fig. 2).
La Regione di Stoccarda non è mai stata così dipendente sia sul piano
industriale che economico dall’automobile come alla fine del XX secolo.
Nel 2001 i 234.000 occupati del settore automobilistico nel BW hanno
generato entrate totali di circa €60 miliardi. Rispetto all’anno
precedente, questo rappresentava un aumento del 6,3%, mentre il tasso
di occupazione era cresciuto del 3,5%.
Fig. 2 - Percentuale di fatturato e tasso di esportazione nel settore della
produzione di veicoli in miliardi di Euro negli anni 1998-2002.
1998
2001
2002
Fatturato Fatturato Fatturato Fatturato Fatturato Fatturato
nazionale
estero nazionale
estero nazionale
estero
RFT-Ovest*
Baden-Württember
g
Regione di
Stoccarda
95,28
105,1
(52,40%)
21,27
23,01
(52,0%)
11,04
14,43
(56,7%)
102,14
24,44
12,9
150,64
(59,6%)
35,47
(59.2%)
23, 41
(64,5%)
104,56
25,37
13,23
154,18
(59,6%)
36,50
(59,0%)
23,44
(63,9%)
*ex Germania Ovest
Fonte: Ufficio statistico federale, Enti statistici regionali; Calcoli IMU
4
Supply chain e struttura collaborativa
Nessun altro settore industriale ha sperimentato una trasformazione
strutturale analoga a quella dell’automotive nell’ultimo decennio. Il calo
rilevante nel volume di vendite all’inizio degli anni Novanta ha portato alla
ristrutturazione delle realtà esistenti per rispondere in modo più rapido e
flessibile alle richieste del mercato. Le case automobilistiche hanno adottato
procedure che spostano una mole rilevante delle pressioni e dei rischi sulla
supply chain.
Attualmente, i produttori e i principali fornitori operano sostanzialmente con
i loro partner in base a contratti a breve termine per lo sviluppo e la
produzione. L’utilizzo di piattaforme di collaborazione e di scambio
business to business (B2B) su internet ha fortemente accentuato la dinamica
del cambiamento e probabilmente contribuirà allo sviluppo di connessioni
164
più flessibili e agili tra i produttori di primo equipaggiamento (OEM) e i loro
fornitori (Batz et al. 1999).
Un numero limitato di produttori automobilistici organizzati in reti
internazionali serve il mercato globale, ma questo numero continua a
diminuire. I fornitori sono obbligati a seguire questa tendenza e quindi si
associano in reti internazionali. Quelli che possiedono le competenze
necessarie per lo sviluppo, la produzione e la logistica, oltre alla
disponibilità dei fondi necessari possono riuscire a diventare “partner di
sistema” e lasciarsi alle spalle i fornitori meno attrezzati.
Le strutture di cooperazione tra OEM e fornitore e quelle tra fornitore e
fornitore sono caratterizzate da tendenze diverse. Il capitolo seguente le
prende in esame.
2 Sfide e strategie per fornitori e OEM – tendenze
L’industria automobilistica sta attraversando una drastica e dinamica fase di
riorganizzazione, che finirà per generare strutture organizzative e funzioni
completamente nuove nella catena di valore. Tale sviluppo costringe i
produttori, così come i fornitori, a migliorare processi e procedure sia interni
che esterni, con un’azione concertata.
La tendenza generale verso la globalizzazione ha portato alla concentrazione
delle case automobilistiche attraverso processi di acquisizione interni al
settore. Nel 1990 le imprese costruttrici indipendenti presenti sul mercato
erano 25. Dieci anni più tardi, ne erano rimaste solo 16, tutte, tranne
quattro, impegnate in alleanze strategiche con altri competitori. Jürgens
afferma: “Nel 2000, gli europei sembrano essersi reinventati: sono loro il
motore di nuove fusioni & acquisizioni. L’industria automobilistica
statunitense, di conseguenza, non è più rappresentata dai Big Three, dopo la
fusione tra Chrysler e Daimler, e tre dei Big Five giapponesi sono ora
passati sotto il controllo di aziende automobilistiche europee”.
Recenti proiezioni industriali ipotizzano che per l’anno 2010 rimarranno
soltanto otto OEM indipendenti. La massa critica globale dei produttori
crescerà, passando da 1,0 nel 2000 a 3,0 milioni di unità all’anno, nel 2010.
Se queste previsioni saranno confermate, il potere d’acquisto potenziale dei
restanti attori si attesterà a 100 miliardi di euro per produttore (Grammel,
Dispan, Stieler 2000).
Gli effetti sinergici dei processi di fusione sono essenzialmente di natura
economica e fondati su interventi di razionalizzazione nello sviluppo di
veicoli e piattaforme, nella produzione di motori e sistemi di trasmissione,
165
nonché su effetti di economie di scala che producono un aumento del potere
di acquisto ed effetti di economie di ambito nelle vendite/marketing e nella
manutenzione.
I processi di ristrutturazione all’interno dell’industria s’incentrano
principalmente sullo sviluppo e sullo sfruttamento di competenze chiave,
accompagnati dall’esternalizzazione o outsourcing di funzioni non essenziali
e dall’implementazione di linee di produzione, gestione e amministrazione
più snelle. Di conseguenza, il numero dei siti produttivi e del personale è
oggetto di un calo costante.
Dal momento che tali procedure vengono adottate su scala globale, anche i
fornitori ne subiscono gli effetti. Appare chiaro come i mega fornitori siano
destinati a prosperare, grazie ai vantaggi dei centri di ricerca e sviluppo su
larga scala e di una rete internazionale di sedi produttive e commerciali.
I fornitori o le imprese di piccole e medie dimensioni (PMI) devono
fronteggiare forti pressioni per rispondere alle richieste di OEM e
mega-fornitori. Anche i fornitori hanno intrapreso azioni nell’ambito delle
competenze chiave e dell’ottimizzazione dei processi interni. Oggi, la
produzione just-in-time, gli elevati standard di qualità (sei sigma), i servizi
di logistica e warehousing/immagazzinaggio, insieme a una gestione dei costi
più efficiente, sono diventati una necessità per le imprese di medie
dimensioni. Competenze future dovranno contemplare l’eccellenza
nell’innovazione e la partecipazione attiva in collaborazioni per affrontare
con successo le attività di ricerca e sviluppo (R&S) a sostegno degli obiettivi
dei produttori, finalizzati a cicli di sviluppo del prodotto più brevi.
Tuttavia, data l’entità di tali attività, i fornitori del settore automobilistico di
piccole e medie dimensioni sono sottoposti a un carico eccessivo. Hanno a
disposizione possibilità limitate di essere presenti sull’arena internazionale.
Si può inoltre verificare un processo di concentrazione nell’industria delle
forniture. Nell’anno 2010 i fornitori che operano a livello globale
rappresenteranno il 95% del volume di acquisti dell’industria
automobilistica. A lungo termine, sopravviveranno al massimo 50 mega
fornitori globali, che rappresentano il primo livello dell’intero settore della
fornitura, alle condizioni generali descritte più sopra. I programmi di
fornitura di Chrysler e Ford confermano tale tendenza: tra il 1997 e il 2000
hanno ridotto il numero dei fornitori diretti di circa il 40% (Grammel,
Dispan 2000).
I fornitori, in particolare le PMI, sono chiamati a fronteggiare queste
tendenze, che pesano in modo sostanziale sulla loro struttura organizzativa e
166
sulle loro modalità di cooperazione. Di seguito verranno prese in esame le
diverse possibilità per affrontare tali sviluppi.
1
La cooperazione motore dell’azione
I produttori si aspettano e pretendono dai fornitori che si trovino a breve
distanza dal loro centro di produzione e sviluppo. Questo non è soltanto una
grande sfida per i fornitori, ma rappresenta anche un forte onere finanziario.
Forme di cooperazione sono una possibilità per venire incontro alle esigenze
dei costruttori. Attraverso la collaborazione i fornitori sono in grado di
rispondere a richieste che, da solo, il singolo produttore o fornitore non
potrebbe accogliere. Dietro la spinta della globalizzazione, le aziende devono
abbinare due tendenze. Da un lato l’azienda deve essere localizzata a livello
regionale, dall’altro è indispensabile che adotti una strategia globale per
poter competere sul mercato.
Per avere successo ed essere competitivi sul mercato globale, sono essenziali
orientamento e relazioni locali. Questa apparente contraddizione si palesa
nel termine “glocalizzazione”. Questa tendenza genera nuove sfide per le
aziende e per le loro reti. In particolare sono state identificate tre sfide, che
interessano soprattutto per le PMI:
· Le PMI usano il potenziale regionale e globale solo in maniera limitata;
· Le PMI non identificano il potenziale regionale in maniera olistica;
· Le PMI dispongono di risorse limitate e devono quindi sfruttare le
possibilità di un orientamento e di un mercato globali .
La forma di collaborazione organizzativa dei cluster offre molti vantaggi alle
PMI. Si definisce cluster una concentrazione geografica di imprese e
organizzazioni interdipendenti. I partecipanti ai cluster affrontano
opportunità e sfide comuni e condividono un’infrastruttura, mercati del
lavoro e servizi specializzati. I cluster promuovono quindi sia la
competitività che la collaborazione.
I vantaggi dei cluster sono:
· Maggiore produttività rispetto ad altre reti o collaborazioni;
· Maggiori innovazioni rispetto ad altre strutture geografiche con strutture
più allargate;
· Le opportunità di nuovi sviluppi riguardanti il mercato vengono
riconosciute con maggiore rapidità;
· Le innovazioni sono trasferite e trasformate in modo più efficiente e più
rapido;
· Attività di start-up sono realizzate in maniera più agevole grazie alla
concentrazione geografica di esperti, clienti e mercati. Inoltre, si può
167
·
2
costruire molto più facilmente la catena di valore. L’ingresso nel
mercato con nuovi prodotti e produzioni è altresì reso più facile;
I fattori di successo più sostanziali dei cluster sono le relazioni fondate
sulla fiducia reciproca, le strutture ravvicinate di comunicazione e lo
scambio di conoscenze, in particolare quelle tacite, sul piano regionale.
La condivisione di conoscenze ha più a che fare con la messa in
connessione delle persone che con la raccolta di saperi espliciti in un
database. Nuove forme di sviluppo regionale si concentrano
maggiormente sulla messa in relazione dei rapporti esistenti, piuttosto
che sulle attività di richiamo per nuove organizzazioni o aziende in una
data regione.
Abbinare due tendenze: radicamento regionale e azione
globale
Per restare competitive, le aziende devono continuare a migliorare dietro la
spinta di crescenti pressioni e influenze internazionali. Malgrado i vantaggi
dei cluster, le reti regionali e le collaborazioni tra imprese locali si
frantumano a seguito della tendenza verso la globalizzazione
(Hirsch-Kreinsen, Schulte 2000). Ora più che mai però, il fattore di fiducia
nelle collaborazioni è un importante indicatore di successo . La Fig. 3
illustra le due tendenze che le PMI sono chiamate a fronteggiare. Da un lato
un’azienda ha la propria rete a livello regionale, mentre nell’altro deve essere
presente in un contesto globale per restare competitiva.
Fig. 3 – Le tendenze: Regionalizzazione e globalizzazione
È emersa quindi la necessità di una nuova forma di cooperazione, chiamata
“cluster virtuale”. In particolar modo nei settori dove forte è la presenza dei
fornitori, quale quello automobilistico, i cluster virtuali sono già stati
implementati, almeno in parte. Queste due tendenze si traducono per i
168
fornitori di piccole e medie dimensioni nella necessità di localizzarsi vicino
ai produttori nella loro area geografica e nel contempo di essere proiettati
verso il resto del mondo (Lay 1999). Secondo Marceau un cluster virtuale
può essere descritto come un luogo di cooperazione virtuale, al quale
partecipano gli attori di un cluster regionale (cfr. Fig. 4).
Fig. 4 – Modello di cluster virtuale
In un cluster virtuale imprese e organizzazioni, quali università e istituzioni
pubbliche, collaborano su piani diversi della rete. Mentre operano in un
cluster virtuale le PMI affinano la loro capacità di cogliere nuove
opportunità di cooperazione (Grammel, Dispan, Stieler 2000). I cluster
virtuali sostengono quindi la posizione e la competitività delle PMI.
La caratteristica principale di un cluster virtuale consiste nel fatto che la
cooperazione tra i componenti del cluster si concentra sulle competenze
chiave. Lo sviluppo di un cluster virtuale è la virtualizzazione della supply
chain. In presenza di un ambiente improntato alla fiducia, la collaborazione
in un ambiente virtuale è caratterizzata da una scambio di know-how e
saperi.
I vantaggi dei cluster virtuali per le aziende partecipanti sono:
· Fattiva collaborazione di esperti in un ambiente virtuale
· Un rapido feedback durante tutte le fase del progetto (quindi si possono
realizzare rapidamente idee e innovazioni)
169
·
Migliore coordinamento di progetto che genera una migliore
implementazione del progetto stesso
· Riduzione dei costi, determinata da un’organizzazione più snella e
rapida dei progetti
· In generale, gli incontri in presenza possono essere sostituiti dal ricorso
a un software di comunicazione
· Si può utilizzare una base comune di conoscenze relativa ai clienti,
costruita da tutti i partecipanti del cluster virtuale.
Il terreno comune di un cluster virtuale è una piattaforma internet, nella
quale avviene lo scambio di informazioni, di saperi e di esperienze. Secondo
Rallet e Torre, la vicinanza organizzativa porta a uno scambio migliore di
conoscenza implicita, rispetto alla sola vicinanza geografica.
I primi esempi di cluster virtuali esistono già, ma non c’è ancora un
approccio o un modello comune per la creazione di un cluster virtuale. Il
sostegno offerto da strutture e modalità di comunicazione per un’operatività
efficace, fondata sulla conoscenza, non è ancora stato oggetto di
un’adeguata analisi; mancano inoltre metodi e strumenti operativi
informatici (software), per questa nuova forma di co-operazione. Essa
tuttavia rappresenta la base comune per un’efficiente ed efficace
collaborazione tra produttori e fornitori a livello mondiale e a lungo termine.
3 Fattori di successo e i rischi delle collaborazioni
Nell’ambito dei Cluster tedeschi dell’automotive il tema della cooperazione e
della comunicazione è stato identificato come una delle principali aree di
miglioramento e di intervento per lo sviluppo del settore automobilistico in
Germania (raffrontare con Grammel, Dispan, Stieler 2000; Bullinger 2003).
In tal senso, l’Istituto Fraunhofer di Ingegneria industriale (IAO) a
Stoccarda (Germania) e l’Istituto di Cibernetica d’impresa (IfU) a Mühlheim
(Germania) hanno avviato uno studio empirico sulla cooperazione
knowledge-intensive in particolare nel settore automobilistico. Lo studio ha
evidenziato e analizzato gli elementi importanti, le potenzialità e i rischi della
cooperazione regionale. La ricerca si è svolta nell’ambito del progetto del
Ministero federale tedesco dell’Istruzione e della Ricerca (BMBF)
“Integrazione della conoscenza eterogenea nelle reti produttive flessibili in
specifiche strutture industriali di distretto” (numero di ricerca: 02PP1001).
170
1
Collaborazioni knowledge-intensive nelle reti regionali
Uno degli obiettivi del progetto di ricerca tedesco è stato la realizzazione di
un’indagine sulla “cooperazione knowledge-intensive nelle reti regionali”. Il
progetto ha inoltre svolto un’analisi approfondita, con interviste a esperti del
settore e l’organizzazione di diversi workshop con i rappresentanti
dell’industria. Per prendere in esame la rilevanza a livello europeo di queste
tematiche, sono stati realizzati dei workshop con la partecipazione dei
rappresentanti delle imprese industriali. Questi workshop si sono svolti in
Italia, nella regione Emilia-Romagna (il cluster motore), e in Slovenia, a
Lubiana, dove si trova un cluster di ingegneria meccanica. Il questionario
tedesco è stato adattato per i partner EUREKA italiani e sloveni.
L’indagine ha esplorato le seguenti tematiche:
· Informazioni generali sull’azienda e/o il partner intervistato
· Rilevanza e tipologica della collaborazione
· Struttura della collaborazione
· Aspetti organizzativi della collaborazione
· Metodi e sistemi a sostegno della collaborazione
L’indagine si è soffermata in particolare sui settori dell’auto, dell’elettronica,
dell’ingegneria meccanica e dell’ingegneria delle centrali elettriche.
2
Risultanze dell’indagine
Di seguito presentiamo una sintesi dei punti principali emersi dal
questionario, dai workshop e dalle interviste in Germania:
· La maggioranza delle imprese coinvolte sono fornitrici dell’industria
automotive per i settori elettronici e metalmeccanici. Più di metà delle
aziende che hanno risposto al questionario appartengono al gruppo delle
PMI.
· Le risposte alle domande relative alla cooperazione erano fortemente
polarizzate. Metà delle aziende intervistate collabora su base
permanente o almeno con regolarità, mentre l’altra metà solo raramente
o mai. La rilevanza delle collaborazioni sembra destinata ad aumentare
sostanzialmente, in quanto il 75% delle aziende ha affermato di voler
attuare forme più accentuate di cooperazione in futuro.
Le risposte alle domande relative a quali informazioni e strumenti/dispositivi
sarebbero necessari per sostenere le collaborazioni sono riportate in Fig. 5:
Fig. 5 – Informazioni e strumenti ritenuti importanti per le collaborazioni
171
·
·
·
Quando si sceglie la forma di cooperazione, gli aspetti regionali non
svolgono il ruolo importante che ci si potrebbe attendere. La
cooperazione in ambito produttivo viene implementata principalmente a
livello globale, la cooperazione in R&S soprattutto a livello nazionale.
L’intenzione di avviare collaborazioni è determinata da ragioni diverse.
Forze di mercato, sviluppo di mercati strategici o di produzioni
mostrano sempre aspetti motivazionali diversi. Nel progetto di cui sopra,
i principali aspetti motivazionali che spingono alla collaborazione sono:
riduzione dei costi (45%), effetti sinergici (33%), utilizzo del know-how
(31%) di altre imprese. Queste affermazioni sono essenzialmente
confermate da altre indagini.
La mancanza di affidabilità dei partner è indicata come la maggiore
difficoltà (64%) nelle collaborazioni (cfr. Fig. 6). Il coordinamento
dell’ordine/progetto di lavoro potenziale è causa di problemi nel 51%
delle collaborazioni. Ma il 76% delle aziende indica che una
preparazione organizzativa, quali un piano di progetto o la definizione di
processi, è realizzata prima dell’avvio della cooperazione.
Fig. 6 – Difficoltà nelle collaborazioni
172
Una scambio insufficiente di informazioni e comunicazione è un altro
aspetto che emerge durante le collaborazioni, infatti solo il 56% delle
aziende che hanno risposto al questionario scambia documenti e
informazioni prima dell’avvio della cooperazione.
· Il 49% delle imprese richiede un sostegno per la ricerca di partner e
l’identificazione di una cooperazione efficace
· Nelle svariate fasi della cooperazione i criteri organizzativi sono più
importanti degli aspetti tecnici.
· Nell’area della gestione delle conoscenze, dell’utilizzo legale dei risultati
durante l’attività di cooperazione e successivamente ad essa, si riportano
numerose difficoltà nel trovare soluzioni condivise e comuni.
La rilevanza delle collaborazioni e dell’elemento competizione è certamente
destinata ad aumentare in maniera rilevante in futuro. Ciò è chiaramente
dimostrato da studi e indagini già realizzati. Così, aumenta non solo la
frequenza delle collaborazioni, ma anche la loro intensità. Tale tendenza può
essere dimostrata dal cambiamento registrato nella divisione organizzativa
del lavoro. A titolo di esempio, nel settore auto l’esternalizzazione è
cresciuta passando dal 40% nel 1989 all’80% del 1999.
Anche se l’aspetto regionale svolge un ruolo secondario, le imprese
denunciano la mancanza di metodi e strumenti che solitamente sono forniti
da reti regionali, tra cui procedure rapide, strutture informali ben funzionanti
o comportamenti fortemente improntati alla fiducia reciproca, e quindi
173
manifestano l’intenzione di intervenire in questo senso con forme di
sostegno.
Un’ulteriore esigenza emersa fa riferimento al sostegno ideale a processi
meno strutturati e dinamici. Si possono trovare questi processi
knowledge-intensive non standardizzati distribuiti lungo tutta la catena di
valore nell’intero ciclo vitale delle collaborazioni. Le imprese richiedono
inoltre un ambiente che sia in grado di supportare l’attivazione di scambi
spontanei formali e informali delle conoscenze di processo. L’integrazione
dei processi di cooperazione all’interno del workflow delle imprese mediante
una tecnologia informatica adeguata faciliterebbe e offrirebbe un sopporto al
processo di sviluppo di prodotto.
L’approccio basato sui cluster offre al mercato una nuova tipologia di
relazioni. L’innovazione e lo sviluppo di nuovi prodotti non rappresentano
più l’attività di una sola impresa e inoltre le reti regionali non sono la
soluzione migliore per affrontare il mercato globale. L’integrazione di queste
due tendenze ci porta al nuovo modello dei cluster virtuali.
Mancano meccanismi, metodi e strumenti per la “virtualizzazione” della
conoscenza implicita di processo, rispetto alla comprensione dei conflitti e
alla loro risoluzione all’interno del processo di cooperazione distribuito nei
cluster virtuali.
3
Azioni da intraprendere
La necessità di forme di sostegno da realizzarsi mediante metodi e strumenti
adeguati interessa in particolar modo l’utilizzo delle conoscenze, gli aspetti
legali e la gestione del progetto, la creazione di una cultura della fiducia e lo
scambio di saperi e informazioni. Abbiamo già sottolineato la necessità di
sviluppare un modello economico per i “cluster virtuali”. La sfida è
rappresentata dal sostegno offerto a processi distribuiti, meno strutturati e
altamente dinamici, quali ad esempio i processi di risoluzione dei problemi.
L’accesso alla conoscenza orientato al processo è una delle principali fonti
motivazionali che spingono le aziende a intraprendere attività di
cooperazione. Alla base di azioni innovative si trova inoltre lo scambio di
conoscenze. In particolare lo scambio e l’integrazione di esperienze e di
know-how sull’identificazione e la risoluzione di conflitti è in questo
contesto un’abilità critica per l’innovazione.
In sintesi, sono state identificate le seguenti azioni da intraprendere:
174
·
·
·
·
·
·
·
Azioni da intraprendere all’interno dell’industria:
Trasparenza delle informazioni e delle conoscenze ponendo l’accento
sull’integrazione del know-how di processo nelle collaborazioni
Integrazione di processo relativa al sostegno di processi di
coordinamento spontanei (interfacce)
Cultura della cooperazione con particolare attenzione alla creazione di
una base collaborativa di fiducia reciproca.
Azioni da intraprendere nell’ambito della ricerca:
Sviluppo di un modello economico di “Cluster virtuali”
Sostegno ottimale ai processi distribuiti per la risoluzione dei problemi
Coordinamento della conoscenza esperta e della sua integrazione in
processi di cooperazione distribuita
Creazione di una cultura collaborativa improntata alla fiducia attraverso
reti informali
Ciò richiede lo sviluppo di un ambiente che sostenga l’attivazione, lo
scambio spontaneo e informale di conoscenze di processo e l’integrazione
all’interno del processo di cooperazione. Questo ambiente deve mirare ad
accompagnare le imprese nell’offerta di prodotti e servizi di mercato in
collaborazione con altre imprese. Allo stesso tempo deve mirare a sfruttare
al massimo le potenzialità delle catene di valore collaborative.
L’approccio TRUST è stato messo a punto partendo da queste esigenze.
TRUST intende fornire alle aziende, che vogliono e sono in grado di
impegnarsi in attività di collaborazione, l’ambiente e gli strumenti necessari
per comunicare e sostenere la produzione in un contesto virtuale distribuito,
senza dover stabilire connessioni dirette locali o regionali, permettendo così
alle strutture collaborative o alle joint-venture tra partner o ex competitori,
che intendono intensificare la loro collaborazione o semplicemente unire le
forze, di rispondere alle esigenze dei mercati del futuro. TRUST è impegnato
a facilitare l’integrazione delle due tendenze - il radicamento regionale e
l’azione globale - non solo per gli attori globali, ma soprattutto per offrire
queste opzioni alle piccole e medie imprese del settore automotive.
4 L’approccio TRUST
Per rispondere all’esigenza di fornire nuovi metodi e strumenti a sostegno
della collaborazione tra le aziende in strutture a cluster, è stato avviato il
progetto EUREKA TRUST (Utilizzo delle potenzialità regionali rispetto ai
175
processi di risoluzione dei problemi nella produzione – progetto EUREKA
S! 2736 factory). Le aziende industriali che hanno contribuito al progetto
facevano parte del Cluster Automotive di Stoccarda: DaimlerChrysler AG
(OEM), KEIPER GmbH & Co (2o livello, sedili per auto), Cirp GmbH (3o
livello, prototipizzazione), Invenio GmbH (3o livello, servizi ingegneristici).
L'obiettivo strategico di TRUST era quello di sostenere collaborazioni
virtuali interne ed esterne alle aziende e gettare le basi per la collaborazione
delle aziende in un cluster virtuale (cfr. Fig. 7).
Fig. 7 – Progetto TRUST obiettivo Eureka
Durante il progetto è stato elaborato un nuovo modello di cooperazione per
descrivere le potenzialità di sviluppo nell’ambito delle collaborazioni (come
spiegato nel capitolo 2.1). L’obiettivo di questo approccio consiste
nell’accompagnare l’aziende nel percorso che parte da una cooperazione
interaziendale a una cooperazione tra imprese all’interno di un cluster
virtuale. Il modello comprende tre fasi. Esse sono:
· Livello 1
La collaborazione si sviluppa all’interno dell’azienda. I processi di
cooperazione verranno sostenuti da reti interne (centro virtuale di
competenze interno). Ciò porta, ad esempio, a una migliore
collaborazione tra siti aziendali diversi.
· Livello 2
Il secondo livello sostiene la collaborazione esterna all’azienda (centro
virtuale di competenza esterno). Si focalizza l’attenzione sullo sviluppo
e il supporto alle reti di partner aziendali.
176
·
Livello 3
Intende sostenere lo sviluppo di cluster virtuali. Diversi centri virtuali di
competenze affiancano un cluster virtuale specificatamente a un settore,
p.e. il cluster automotive.
L’elemento portante del modello è un centro virtuale di competenze (CVC),
che può essere definito come un’unità organizzativa virtuale. Nel CVC,
informazioni, conoscenze e competenze sono raggruppate e integrate insieme
in argomenti, o topic, specifici (p.e. qualità, TI, robotica meccanica). I
diversi argomenti sono elaborati e decentrati all’interno di strutture a rete di
risorse umane, per poi essere ridistribuiti attraverso i servizi. Il CVC può
comprendere forme di collaborazione sia interne che esterne, non
necessariamente afferenti a connessioni locali, come descritto nel capitolo
2.2.
All’interno dell’approccio TRUST, la caratteristica principale di un cluster
virtuale consiste nel fatto che è composto da diversi centri virtuali di
competenze, che si incentrano su competenze chiave o di supporto.
Gli aspetti principali e più importanti dell’ambiente di lavoro in un CVC
sono (cfr. Fig. 8):
· Scambio attivo di idee e conoscenze per l’attuazione e
l’accompagnamento di progetti, tra i detentori di know-how critici
(collegamento tra esperti)
· Interventi per colmare le lacune di conoscenze nei progetti, nella
gestione del know-how
· Risoluzione dei problemi efficiente e orientata all’innovazione, nella rete
di competenze
· Apprendimento professionale orientato alle mansioni e ai problemi
177
Fig. 8 - Operatività in un centro virtuale di competenze
Un sostegno costante e basato sulle informazioni era dunque necessario per
rispondere alle seguenti domande:
· Come può un CVC reperire contenuti rilevanti e aggiornati?
· Com’è possibile trovare un esperto competente?
· Com’è possibile risolvere i problemi?
1
Le soluzioni TRUST
Nei capitoli seguenti vengono presentate le soluzioni TRUST.
Come può un CVC reperire contenuti rilevanti e aggiornati?
Il concetto di CVC
L’operatività del CVC richiede la definizione dell’infrastruttura
organizzativa e tecnologica. Si dovranno inoltre definire le interfacce per le
strutture esistenti, integrandole al concetto di CVC. Senza una comprensione
chiara delle infrastrutture e delle ripercussioni sui processi aziendali, non
sarà possibile attuare una corretta implementazione di una piattaforma
virtuale. Occorre prevedere un concetto di ruolo, che integri esperti
autorevoli al centro competenze, insieme a importanti promotori per il centro
di competenze, p.es. amministratori delegati (CEO). I processi del CVC
dovranno essere definiti fin dall’inizio, animati e portati a regime. La Fig. 9
riporta ruoli e relativi processi.
178
Fig. 9 – Processi nel CVC
Il CVC offre contenuti approfonditi, connessi sul piano semantico a un
argomento specifico o a un campo di competenze. Ciò si raggiunge mediante
l’offerta e l’amministrazione di un database di conoscenze. Le competenze
esistenti vengono visualizzate attraverso profili di competenze, che mostrano
le competenze che i partecipanti del CVC già detengono. I contenuti e i
profili di competenze mettono in connessione gli esperti in rete e i detentori
di competenze nelle varie postazioni, dando così avvio all’integrazione di
know-how tecnico, ad esempio, o di conoscenze relative a partner o clienti.
Un altro elemento distintivo del CVC risiede nei servizi e nel sostegno
offerto da esperti per l’elaborazione di task complesse e specialistiche e
l’accompagnamento al processo decisionale. Il CVC mette a disposizione
strumenti per lo sviluppo di soluzioni ai problemi, come verrà descritto in
uno dei capitoli seguenti.
Il concetto di CVC s’incentra sugli obiettivi dei dipendenti e le finalità
strategiche dell’azienda.
Per quanto riguarda i collaboratori dell’azienda, gli obiettivi sono:
· Accesso alle nuove tecnologie
· Accesso agli esperti e ai loro saperi e competenze
· Accesso all’informazione esperta
· Agevolare i contatti con i referenti a disposizione
Per quanto riguarda l’azienda, le finalità strategiche sono:
· Sviluppo di competenze
179
·
Maggiore rapidità d’azione degli esperti (personale altamente
specializzato)
· Garantire uno sviluppo continuo delle conoscenze e la crescita delle
competenze
· Valorizzare le capacità innovative
Per sostenere i processi di lavoro, i concetti qui descritti sono stati elaborati
sotto forma di software modulare. Questi moduli vengono integrati nella
piattaforma per il centro virtuale di competenze. Di seguito vengono
illustrati i profili di competenze e l’approccio adottato per la risoluzione dei
problemi.
Com’è possibiie reperire un esperto competente? Realizzazione dei
Profili di Competenze
Alla base del concetto di profilo di competenze sta la definizione di
argomenti (topic) collegati alle competenze dell’azienda e dei suoi
collaboratori. In TRUST il profilo di competenze comprende la competenza
professionale, quella legata al metodo e l’abilità sociale. Quest’ultima si
riflette nel collegamento con diverse reti e organizzazioni.
In TRUST si costruisce l’arbero degli argomenti (topic tree) in una prima
fase, mediante tassonomia. Quest’ultima si basa sull’analisi degli argomenti
rilevanti per i partner industriali di TRUST. La visualizzazione avviene
inizialmente mediante la classica struttura ad albero. La gestione è realizzata
da un gruppo specifico di componenti del CVC (amministratore e
responsabile dei diversi CVC).
Il profilo di competenze è composto dagli argomenti che fanno parte
dell’albero, dal livello di esperienza del partecipante del CVC, dalle reti e
organizzazioni alle quali è collegato il personale dell’azienda e dalla parte
contenutistica. La Fig. 10 riporta una parte del profilo di competenze. Il
profilo di competenze viene aggiornato manualmente dal detentore del
profilo di competenze, in modo semi-automatico dagli utenti del centro
virtuale di competenze, che valuta i contenuti, e in modo automatico dalla
piattaforma stessa.
I quattro campi principali del profilo di competenze sono descritti di seguito:
· Argomenti (p.es in Fig. 10: “Kompetenzprofile”)
All’interno del CVC un soggetto può scegliere dall’albero i diversi
argomenti che gli/le interessano o quelli sui quali sta già lavorando.
Dopo aver risposto alle domande sulle qualifiche ed esperienze relative
all’argomento specifico, si può accedere all’argomento prescelto su tre
180
·
·
·
livelli di esperienze. Questo campo visualizza le competenze
professionali del soggetto all’interno del CVC.
Livello di esperienze
TRUST definisce tre livelli: interessato, competente ed esperto. I livelli
possono essere assegnati dal soggetto stesso, da un collega nel CVC, un
superiore e dal sistema. Se l’argomento è valutato come “esperto”,
diventa una competenza. Il passaggio da argomento a competenza viene
visualizzato sull’albero degli argomenti. L’argomento è evidenziato.
Reti (Fig. 10: “Mitarbeit in Projekten/Gremien”)
Il campo delle reti visualizza le attività del soggetto che fa parte del
CVC all’interno degli ambiti del CVC. Il profilo permette quindi di
avere una visione più approfondita delle attività all’interno di progetti,
circoli, reti o raggruppamenti, ecc. Il campo visualizza una parte delle
competenze personali di un membro del CVC.
C
o
n
t
e
n
u
t
o
Questa parte del profilo di competenze mostra l’input o i contenuti
forniti dal componente del CVC. Contenuti e detentore sono direttamente
collegati. I componenti del CVC possono trovare agevolmente un
esperto, sia facendo una ricerca tra i contenuti in memoria, oppure
navigando nel profilo di competenze di un componente del CVC e del
suo contenuto già valutato.
Fig. 10 – Profilo di competenze
181
Il profilo di competenze aiuta a trovare facilmente l’esperto giusto per un
problema o una questione aperta. Se non si trova un esperto o non è
disponibile, si prevede che l’assistente alla risoluzione dei problemi trovi una
soluzione.
Com’è possibile risolvere i problemi? Realizzazione dell’Assistente alla
Risoluzione dei problemi
L’approccio TRUST per la risoluzione dei problemi offre la possibilità di
sviluppare le competenze esistenti per la risoluzione dei problemi dei
collaboratori, mediante un apprendimento situazionale e orientato al
problema, all’interno delle reti di conoscenza. L’obiettivo di questo
approccio consiste quindi nell’ottimizzare il processo di risoluzione dei
problemi, che di norma è molto intuitivo e non strutturato. Per far ciò si
prendono in considerazione tre elementi:
· L’assistenza per lo sviluppo strutturato della risoluzione dei problemi
mediante l’offerta di approcci, dispositivi e strumenti rilevanti
(assistente alla risoluzione dei problemi)
· La messa a disposizione di esperti e persone di riferimento nella rete di
conoscenze, che possono contribuire a una rapida elaborazione di
soluzioni, mediante il trasferimento e l’adeguamento delle proprie
182
esperienze e di esempi, o sostenere lo sviluppo distribuito delle soluzioni
dei problemi, grazie alle proprie competenze individuali (derivate dai
profili di competenze)
· L’offerta sistematica e intelligente di conoscenze rilevanti (knowledge
based), necessarie al risolutore per lo svoluppo di soluzioni adeguate al
proprio problema.
Un presupposto per una risoluzione rapida e certa di problemi è
rappresentato da un modello di processo per la risoluzione dei problemi, così
come dalla documentazione e dall’attivazione di problemi e soluzioni. Al
centro dell’intervento sta l’offerta di “know-how” e di collegamenti al
“know-what”.
All’interno del progetto TRUST, è stato sviluppato un sistema per
progettare il processo di risoluzione dei problemi in modo sistematico e
strutturato e per implementare e integrare questo processo nelle attività e
nelle collaborazioni dell’azienda. Il processo di risoluzione di problemi si
avvia, una volta identificata la tipologia del problema. Il processo TRUST di
risoluzione dei problemi è composto dalle fasi di identificazione del
problema, di ricerca di soluzioni esistenti, analisi della situzione, adozione di
soluzioni o sviluppo di nuove soluzioni, verifica delle soluzioni,
implementazione e valutazione della soluzione. Le diverse fasi sono
suddivise in sotto-elementi, che forniscono, a titolo d’esempio, una
descrizione strutturata della fase, tabelle, consigli, esempi, ecc. Per passare
da una fase all’altra, occorre soddisfare alcuni requisiti, in base al modello
del portale di qualità (cfr. Fig. 11).
Fig. 11 – Processo di risoluzione dei problemi
183
In questo contesto il processo di risoluzione dei problemi viene considerato
come micro-logico, a supporto del processo operativo di base. Ciò significa
che il processo di risoluzione dei problemi può essere applicato a qualsiasi
tipologia di problema, progetto o fase di progetto, nonché a qualsiasi
situazione non relativa a processi nell’attività lavorativa. La gestione di un
problema può dunque richiedere da alcuni minuti (soluzione ad-hoc) a
diversi giorni (soluzione a lungo termine).
Quando si parla della risoluzione dei problemi in questo contesto, occorre
distinguere due aspetti: soluzione preventiva e soluzione ad hoc dei
problemi. La risoluzione situativa dei problemi intende sostenere il soggetto
coinvolto direttamente nel contesto in cui si verifica un problema. Spesso la
rimozione delle cause non rappresenta il primo passo verso una soluzione,
ma piuttosto ci si limita a una semplice gestione dei sintomi. La soluzione
preventiva dei problemi intende invece evitare la ricomparsa di un problema
mediante il ricorso a conoscenze adeguate. Questo comporta spesso una
re-ingegnerizzazione dei processi aziendali coinvolti per rimuovere
definitivamente le cause di un problema. Soprattutto se un problema si
ripresenta più volte, comportando ulteriori ed elevati costi aggiuntivi, è
necessario prevenire il problema a lungo termine, rimuovendone le cause.
L’approccio TRUST sostiene sia la risoluzione di un problema contingente,
quando si presenta, che la prevenzione di un problema.
Il vantaggio dell’approccio TRUST per chi è chiamato a risolvere un
problema è rappresentato da una maggiore trasparenza e abilità nel campo
di pertinenza del problema. Con un approccio sistematico, il risolutore è in
184
grado di elaborare soluzioni in modalità strutturate sia individualmente che
in collaborazione con altri. Il risultato del processo di risoluzione del
problema non è soltanto la soluzione documentata, ma anche la trasparenza
dell’approccio e la conoscenza necessaria per prevenire che il problema si
ripresenti. In tal modo si rafforzerà la competenza relativa alla risoluzione
dei problemi.
Soluzione informatica: Assistente alla risoluzione dei problemi
Il supporto informatico permette di accelerare il processo di risoluzione
distribuita dei problemi nella rete di conoscenze. All’interno di TRUST è
stato messo a punto uno strumento software, per sostenere da un lato i
processi collaborativi nella rete di conoscenze e, dall’altro, lo sviluppo
distribuito di risoluzioni di problemi e il (ri)utilizzo di soluzioni esistenti.
L’Assistente alla risoluzione dei problemi (ARP) intende accompagnare
l’utilizzatore in tutte le fasi del processo di risoluzione dei problemi,
fornendo conoscenze approfondite, sotto forma, ad esempio, di liste di
controllo, metodiche, suggerimenti, esempi o referenti (cfr. Fig. 12).
Fig. 12 – Assistente alla risoluzione dei problemi
L’Assistente alla risoluzione dei problemi è stato integrato sotto forma di
modulo nel software per il Centro Virtuale di Competenze e può essere
185
collegato agli strumenti software per la prevenzione dei problemi, come i
tool FMEA o altri applicativi quali i sistemi informativi di progetto o i
sistemi per la gestione della qualità, ecc.
2
I vantaggi di TRUST
In sintesi, i vantaggi del CVC sono:
Riduzione dei costi grazie a
· Risoluzione rapida e agevole dei problemi
· Riduzione dei costi di tempistica (co-ordinamento, incontri in presenza)
· Messa a disposizione di processi e contenuti digitali
Riduzione dei tempi di sviluppo grazie a
· Accesso rapido alle competenze
· Migliore e più rapida comunicazione
· Soluzione diretta e specifica dei problemi
· Sostegno di esperti
Rafforzamento dell’innovazione grazie a
· Collaborazione tra il personale di diverse unità organizzative
· Ampia collaborazione di progetto su un argomento specifico
· Sviluppo di conoscenze e competenze mediante la comunicazione con
esperti
· Distribuzione di conoscenze che supera frontiere fisiche
Il CVC è stato analizzato ed elaborato, insieme alle sue parti, attraverso un
attento processo di sviluppo, concertato insieme all’utente industriale e al
partner per lo sviluppo di software. Nella fase di discussione e durante le
interviste, i partner tedeschi non solo stati i soli a proporre input relativei a
metodi, concetti e approcci nell’ambito di TRUST. I prototipi di software
sono stati elaborati mediante un approccio a due fasi. Il secondo prototipo
sarà sottoposto a ulteriori ampiamenti fino alla fine dell’anno.
3
Validazione dei risultati
I risultati di TRUST aviluppati dai partner sono:
· Modello economico per i Cluster Virtuali (CV)
· Concettualizzazione dei Centri Virtuali di Competenze (CVC) interni
all’azienda e tra imprese
· Concettualizzazione di un modello di risoluzione dei problemi
knowledge-based
· Prototipo software di soluzione per CV e CVC
· Moduli software per profili di competenze e assistente per la risoluzione
dei problemi
186
·
Sempre all’interno del progetto, è stato allestito un Centro Virtuale di
Competenze presso KEIPER GmbH & Co KG. Questo centro intendeva
sostenere la competenza trasversale del Servizio CED del gruppo
(Circolo IT del CVC), che è distribuito in tutto il mondo. È stata
realizzata un’altra installazione pilota per un Centro Virtuale di
Competenze inter-aziendale per lo sviluppo di una rapida
Prototipizzazione knowledge based da parte di Cirp GmbH, Invenio
Engineering Services GmbH.
La motivazione per il Circolo IT del CVC prevedeva essenzialmente il
miglioramento della comunicazione e del coordinamento tra il CED del
gruppo in Germania e le sedi indipendenti all’estero. L’obiettivo perseguito
era quello di ridurre i costi (p.es. causati da soluzioni moltiple o dal mancato
utilizzo di standard), mediante il coordinamento di standard e approcci e il
miglioramento della trasparenza dei requisiti e dei progetti informatici interni
delle unità operative a livello internazionale.
Un altro importante obiettivo consisteva nell’accelerare la realizzazione di
requisiti mediante l’utilizzo di abilità ed esperienze che coprano l’intera
organizzazione.
Ad affiancare l’implementazione organizzativo, è stato utilizzato il portale di
conoscenze Circolo IT del CVC per organizzare fin dall’inizio la
preparazione e l’elaborazione di documenti, nonché l’attività di
coordinamento e animazione del Circolo IT (Fig. 13).
187
Fig. 13 – Esempio di Circolo IT del Centro Virtuale di Competenze
Le esperienze dimostrano che:
· l’integrazione del portale di conoscenze nei processi organizzativi
· l’integrazione di sistemi informatici esistenti
· l’accettazione dello strumento da parte dei dipendenti dell’azienda
· l’aggiornamento e la pronta somministrazione dei contenuti
sono i fattori essenziali di successo per l’ultilizzo del software. Poiché la
concettualizzazione e il software rappresentano un approccio promettente
per raggiungere l’insieme degli obiettivi strategici, i risultati ottenuti si
estendono al di là della durata del progetto.
Nel sintetizzare la validazione dei risultati e le esperienze raccolte nelle
interviste con gli esperti, il centro virtuale di competenze risponde alle
esigenze dei nostri partner commerciali per collaborare e unire le
competenze con succcesso, sia all’interno di un’impresa che all’interno di
reti aziendali. I partner industriali hanno riconosciuto un elevato valore
potenziale nell’utilizzo dell’ARP e dei profili di competenze. La piena
implementazione dei risultati della ricerca per lo sviluppo di competenze
richiede un grande impegno di consulenza. Tale approccio assicura che gli
strumenti e le metodiche informatiche elaborate vengano applicate in
maniera corretta ed efficiente.
188
5 Visione
Per il prossimo futuro sembra ragionevole prevedere una costante
intensificazione delle condizioni generali del settore customer nell’industria
automobilistica. La competizione nei mercati pressoché saturi dell’Europa
occidentale, degli USA e del Giappone richiede un’innovazione costante e
anche i clienti nei mercati in espansione della Cina e dell’Europa orientale
non saranno disposti a spendere il loro denaro in automobili del passato. Ciò
nonostante i prodotti vanno adattati ai mercati locali e alle richieste dei
consumatori.
La competizione incombente nella localizzazione della R&S rappresenta un
rischio per l’industria automobilistica in Germania. I nostri standard elevati
relativi ai costi del lavoro possono essere giustificati soltanto dalla migliore
performance best-in-class in ogni suo possibile aspetto. Nel 2002 il direttore
di una importante casa automobilistica tedesca ha preteso un aumento di
efficienza del 30% dai suoi partner R&S. Può sembrare una pretesa
esagerata, ma come dimostra un recente studio sull’industria automobilistica
tedesca, esiste una realistica probabilità che questa richiesta possa venire
esaudita, grazie all’ottimizzazione dell’efficienza di procedure e processi. In
ogni caso per raggiungere gli effetti desiderati, tutti i partner organizzativi,
includendo esplicitamente gli OEM, dovranno lavorare insieme,.
L’unica soluzione è la seguente: il futuro risiede nella rete dei centri
regionali per l’innovazione all’interno di un cluster virtuale che opera sul
piano internazionale e globale. Un primo passo nella giusta direzione è stato
compiuto grazie al progetto EUREKA TRUST con la messa in rete dei
partecipanti al cluster di Stoccarda e al cluster della regione
Emilia-Romagna all’interno del cluster virtuale di TRUST. Per
l’integrazione dell’intero cluster e dei suoi partecipanti, occorre realizzare
strutture e presupposti essenziali. A lungo termine, imprese e istituzioni
collegate potranno sopravvivere nel mercato globale solo all’interno di
cluster virtuali.
„La fiducia è il più grande sacrificio di sé”
Christian Friedrich Hebbel
189
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Gli impatti dell’industria automobilistica sui
modelli di sviluppo regionale
Andrea Bardi, Giuseppe Calabrese
1 Premessa
Il vantaggio competitivo è frutto della combinazione positiva e coerente tra
fattori tecnologici, organizzativi, sociali e istituzionali, sia interni sia esterni
all’impresa. Tra questi ultimi, la natura e la configurazione dell’agglomerato
produttivo all’interno del quale l’impresa opera e più in generale il contesto
“istituzionale” di localizzazione dell’impresa, ovvero il sistema di
governance, rappresentano elementi chiave per comprendere le ragioni del
successo o dell’insuccesso di un’azienda e di un territorio.
Rispetto alla tematica dello sviluppo regionale, la conformazione della
struttura produttiva nazionale ha rappresentato da un lato un prolifico
terreno di analisi, dall’altro un cantiere all’interno del quale si sono
sviluppati modelli interpretativi in grado di dare visibilità e importanza a
quei fattori esterni all’impresa in grado di rappresentare un driver per la
crescita e lo sviluppo economico.
In particolare, la scuola dei “distrettualisti” ha offerto sia alla comunità
scientifica sia agli attori pubblici e associativi una ricca serie di strumenti e
criteri di lettura in grado di descrivere e interpretare quelle peculiari
traiettorie dello sviluppo in grado di spiegare il successo storico della piccola
impresa diffusa italiana nei mercati internazionali.
All’interno del dibattito teorico il modello “distrettuale”, definito di
specializzazione flessibile, è venuto a contrapporsi con l’organizzazione
produttiva fordista, propria delle regioni di prima industrializzazione.
Non da oggi questa chiave di lettura ci pare insoddisfacente in quanto non in
grado di inquadrare fenomeni nuovi, portatori di profondi cambiamenti sia a
livello di impresa sia di contesto regionale.
Inoltre, il modello della specializzazione flessibile si è spesso associato a
quei settori più propriamente riferibili al cosiddetto “Made in Italy”. Nella
realtà sono anche altri i comparti cresciuti in virtù dei benefici derivanti
dalla presenza di esternalità positive di localizzazione o economie di
“agglomerazione”. Tra questi ritroviamo non pochi comparti industriali a
medio-alto contenuto tecnologico quali macchine e apparecchi meccanici,
macchine e apparecchi elettrici, motociclette, autoveicoli, ecc..
195
Il presente contributo di prefigge di descrivere alcuni aspetti caratterizzanti i
modelli di sviluppo regionale, offrendo al contempo una descrizione degli
elementi che connotano tre possibili impatti idealtipici, a livello locale,
dell’industria automobilistica e dei settori ad essa connessi.
I tre idealtipi sono:
il parco fornitori;
il distretto industriale;
la filiera produttiva.
Posto che gli idealtipi rappresentano, come ovvio, una semplificazione, nella
realtà si ritrovano più frequentemente delle forme ibride, le quali, in genere,
mescolano i caratteri di due idealtipi. In nessun caso si ritrovano invece
elementi propri di tutti e tre gli idealtipi, viste le spiccate diversità tra gli
estremi.
Partendo da questa classificazione, verranno messe a confronto due strutture
produttive regionali, il Piemonte e l’Emilia-Romagna, caratterizzate
entrambe dalla presenza di un’importante industria motoristica. Nel caso del
Piemonte, tipicamente legata alla produzione di autoveicoli, in
Emilia-Romagna, come vedremo in seguito, maggiormente articolata e
differenziata.
Le profonde diversità tra i due modelli di sviluppo regionale, descritte nella
parte iniziale del presente contributo, verranno poi lette attraverso l’analisi
di alcuni tra i più importanti indicatori economico-finanziari tratti dai bilanci
aziendali e il confronto tra cluster omogenei di imprese riconducibili alla
motoristica. La metodologia utilizzata segue il modello tradizionale
dell’analisi dei bilanci disaggregato in indicatori di sviluppo e attività
industriale, struttura finanziaria ed equilibrio patrimoniale, redditività
industriale.
Pur consapevoli delle forzature, relativamente al settore auto, la regione
Piemonte risulta essere caratterizzata da una struttura produttiva
“monoprodotto” e “monosettore”, con la presenza di un grande OEM
(original equipment manufacturer) e una componentistica concentrata sul
settore automobilistico, nonché localizzata prevalentemente all’interno del
territorio della provincia di Torino, seppur fortemente orientata all’export.
La regione Emilia-Romagna ci pare invece caratterizzata da una struttura
produttiva “multiprodotto” e “multisettore”, con una componentistica in
grado di indirizzarsi verso diversi comparti verticali quali l’automobile, il
motociclo e le macchine agricole, solo per citarne alcuni; e con la presenza
196
di imprese committenti finali (OEM) spesso di non grandi dimensioni e
appartenenti a diversi settori produttivi.
In questo senso ad una filiera piemontese tendenzialmente monosettore
(auto) si contrappone una filiera emiliano-romagnola tipicamente
multisettore (auto, motociclo, ciclomotore, macchine agricole, motori, ecc.).
Non a caso, così come dimostrato da recenti ricerche, l’area torinese, anche
evidentemente in ragione della presenza di uno stabilimento di assemblaggio
Fiat Auto, è stata maggiormente colpita dalla recente crisi dell’assemblatore
torinese rispetto a quanto non sia per le imprese dell’auto localizzate nella
regione Emilia-Romagna.
Di seguito sono descritti gli elementi principali caratterizzanti i tre diversi
modelli idealtipici sopra citati.
2 Le tipologie prevalenti di insediamenti produttivi
locali nel mondo
Il settore auto ha storicamente forgiato non solo le possibilità di mobilità dei
singoli ma anche le politiche dei governi nazionali, le tecniche di
management adottate dai dirigenti di impresa, così come la fisionomia delle
realtà territoriali all’interno delle quali l’industria dell’auto veniva a
localizzarsi.
Posto che l’evoluzione storica dei sistemi locali rappresenta un elemento
determinante al fine di comprendere la natura del legame tra un’industria e il
suo territorio di riferimento, l’analisi seguente non include valutazioni di
carattere “longitudinale” ma tende piuttosto a descrivere gli elementi di
diversità tra gli idealtipi richiamati.
Cionondimeno, i territori sono “corpi” in movimento; la lettura delle
traiettorie di sviluppo di un’area produttiva locale non può pertanto
prescindere dalla considerazione della variabile storica e dall’utilizzo di
criteri analitici volti a interpretare le traiettorie evolutive del sistema nel suo
complesso.
Posto che in alcune aree del paese il modello del distretto sembra
trasformarsi in un sistema più aperto e interconnesso come è quello della
filiera, i tre idealtipi descritti non rappresentano in nessun modo un percorso
di sviluppo sequenziale e lineare.
1
Parchi fornitori e varianti
Il parco fornitori, così come le sue innumerevoli varianti (condominio,
consorzio, ecc.), si caratterizza normalmente come un investimento
197
greenfield, ovvero un’iniziativa di localizzazione industriale all’interno di
un’area geografica sostanzialmente priva di consistenti insediamenti urbani e
produttivi.
Si caratterizza non a caso per essere un investimento guidato da un
costruttore finale che, insieme ad un numero contenuto di fornitori in genere
di grandi dimensioni (mega-supplier), promuove un investimento estero
diretto e destinato in genere verso paesi in via di sviluppo, oppure indirizzato
verso aree svantaggiate di paesi sviluppati. L’unico caso italiano di parco
fornitori “puro” è localizzato a Melfi.
I rapporti tra fornitori e assemblatore finale, nel caso del parco fornitori,
risultano essere particolarmente stretti. Oltre alla prossimità geografica tra
committente e fornitori si assiste a una forte integrazione dei processi e della
gestione della qualità. I fornitori sono in genere chiamati a rifornire
l’assemblatore di moduli personalizzati direttamente sulla linea di montaggio
attraverso schemi di certificazione e accreditamento formalizzati (free-pass).
Si rende pertanto necessaria una forte sincronizzazione tra la
programmazione della produzione del committente e quella dei fornitori, i
quali sono responsabili dell’organizzazione degli approvvigionamenti dei
componenti e delle materie prime messe a disposizione da fornitori di
secondo e terzo livello.
Alla fornitura di moduli si associa quindi una gerarchizzazione spinta del
sistema di fornitura nella sua completa articolazione.
La portata dell’investimento rende la “partita” un gioco ristretto tra grandi
fornitori, denominati per l’appunto mega-fornitori
Dal momento che i parchi fornitori sono funzionalmente progettati allo
scopo e costruiti tendo conto delle specifiche esigenze produttive e di
logistica, i dati sulla produttività sono in genere particolarmente elevati.
Rispetto invece all’impatto sul territorio è chiaro che il parco fornitori
comporta delle ricadute significative sia dal punto di vista occupazionale sia
per quanto concerne le reti infrastrutturali di collegamento.
L’attore pubblico ha tuttavia un ruolo “passivo”, ossia di pura
incentivazione all’insediamento industriale che a volte, a seconda dei casi,
trascina un co-investimento pubblico sulle reti di viabilità stradale,
ferroviaria o portuale. L’effetto spillover, ovvero la ricaduta
sull’imprenditorialità locale, sulla cultura d’impresa, sulle professionalità,
pare invece essere modesto, ovvero circoscritto alle sole attività di servizio
indiretto e di supporto alla produzione o più frequentemente al
funzionamento del parco (portineria, servizi di sicurezza, servizi di pulizia,
ecc.).
198
2
Distretti industriali e sistemi produttivi locali
I distretti industriali e i sistemi produttivi locali si caratterizzano per essere
aree produttive geograficamente circoscritte ad elevata presenza di piccole e
medie imprese. Sono solitamente cresciuti in modo rilevante ma
relativamente graduale, ovvero nell’arco di un periodo di tempo piuttosto
lungo. Le imprese distrettuali risultano essere specializzate in una o più fasi
di un processo produttivo e sono funzionalmente collegate all’interno di reti
verticali, orizzontali e miste. Le imprese appartenenti al distretto sono inoltre
in genere connotate dall’intessere rapporti informali e fiduciari con gli altri
attori appartenenti al contesto locale.
In questo senso, risultano essere evidenti le differenze rispetto al caso
precedente.
Il modello in questione viene pertanto a sostenere l’esigenza di
specializzazione, combinandola a una flessibilità sistemica in grado di
permettere al contempo controllo dei costi (bassi costi di transazione e di
coordinamento) e personalizzazione dell’offerta.
È evidente che con i distretti viene a nascere un percorso di sviluppo diverso,
alternativo rispetto a quello schema rigido che vede la gerarchia in antitesi al
mercato. Fiorisce per l’appunto quel modello divenuto poi noto come di
“specializzazione flessibile”.
Il distretto è un sistema chiuso sia verso l’esterno sia verso l’interno. Le
consistenti quote di export sono trainate da poche imprese finali interne
all’agglomerato produttivo e i fenomeni di internazionalizzazione in entrata
sono pressoché assenti.
Diversamente dal caso precedente, il distretto si caratterizza per la presenza
di grandi imprese committenti e al contempo per l’esistenza di una vasta rete
di fornitori locali cresciuti in larga parte grazie alle commesse messe loro a
disposizione da parte delle imprese finali localizzate nell’area. Sia le imprese
committenti sia quelle fornitrici sono organizzate intorno a un settore
produttivo specifico, ovvero partecipano con ruoli diversi alla fabbricazione
di un particolare prodotto finale, e sono racchiuse all’interno di un sistema
chiuso, sia verso sia dall’esterno.
Ad una connessione in genere diretta tra committente e fornitori piuttosto
che segmentata su livelli differenti, come invece è nel caso della
modularizzazione, si abbina un modello fondato sulla fornitura di
componenti e semilavorati “sciolti” piuttosto che di moduli e sistemi
complessi.
199
Ancora, contrariamente al caso precedente, si assiste, all’interno del
distretto, alla presenza di forti processi di spillover, in grado di diffondere,
attraverso la gemmazione di piccole imprese originate dalle grandi e medie
aziende committenti locali, una diffusa cultura dell’imprenditorialità.
Infine, diversamente dal caso precedente, nell’esempio del distretto, il policy
maker ricopre un ruolo determinante, in quanto promotore di esternalità
positive, anche e soprattutto attraverso la creazione di centri di servizi reali
all’impresa a controllo pubblico. Tali centri, nell’esperienza italiana, oltre ad
aver fornito al distretto una dignità identitaria in quanto attore dello
sviluppo, hanno altresì contribuito ad una prima qualificazione della
struttura e delle competenze delle piccole imprese interne al distretto,
attraverso la costruzione di un’offerta di servizi legati alla qualità, la
formazione, l’acquisto di nuovi macchinari e l’innovazione tecnologica.
Nel settore automobilistico si è parlato di sistema produttivo locale piuttosto
che di vero e proprio distretto. Nell’auto si è infatti assistito al nascere di un
vero e proprio indotto, cresciuto intorno allo stabilimento di un costruttore
finale, come è stato nel caso di Torino.
Quel meccanismo virtuoso del distretto che è stato in grado di generare al
contempo specializzazione, flessibilità e controllo dei costi, si inceppa nel
momento in cui un mix di elementi di carattere macro, meso e cascata micro,
vengono a mutare lo scenario di riferimento. All’interno del nuovo scenario
competitivo non tutti i settori e non tutti i territori reagiscono tuttavia nel
medesimo modo.
Ai settori cosiddetti del “Made in Italy”, fortemente colpiti dal massiccio
irrompere sui mercati europei di prodotti fabbricati in paesi a un minor costo
del lavoro, si affiancano comparti in grado di imboccare un nuovo percorso
di sviluppo. Questo percorso impatta sul sistema dell’impresa ma anche sul
sistema istituzionale locale, si tratta dell’emergere di filiere produttive
regionali.
3
Filiere produttive locali
La filiera produttiva emerge spesso dalle ceneri del distretto. L’industria
diffusa si trasforma aprendo le porte ad una media impresa globale, attore
protagonista del modello in questione.
La filiera è un sistema aperto, non solo in chiave di export così com’era nel
distretto, ma anche e soprattutto in termini di internazionalizzazione attiva in
uscita, in grado di permettere, diversamente dal modello del distretto, una
maggiore capacità di penetrazione sui mercati internazionali attraverso la
200
creazione di filiali commerciali all’estero e la costituzione di unità operative
dedicate all’assistenza tecnica presso il cliente.
La filiera produttiva si caratterizza anche da una maggior
internazionalizzazione in entrata ed è un sistema aperto anche in termini di
settore, dal momento che combina imprese appartenenti a diverse categorie
merceologiche, seppur localizzate in larga parte all’interno di un’area
geografica circoscritta, quale è un contesto regionale.
In Emilia-Romagna si sono infatti sviluppate dal dopoguerra ad oggi una
serie di competenze trasversali a diversi settori quali l’auto, il motociclo, le
macchine agricole, ecc.; che a loro volta hanno generato quella domanda
locale in grado di far crescere e progredire una serie di comparti collegati
quali quello della produzione di macchine e attrezzature per la produzione
prima e in un secondo momento dei servizi avanzati all’impresa. È cresciuta
in questo modo una vera e propria filiera orizzontale, trasversale a diversi
settori collegati alla produzione di motori; è quella che chiameremo filiera
della motoristica, sottolineando in tal modo il carattere intersettoriale della
filiera .
L’ibridazione di competenze orizzontali ha in parte contribuito ad accelerare
processi di innovazione di processo e di prodotto. In quest’ultimo caso si
assiste ad una incorporazione di innovazione generata in altri settori
all’interno dei prodotti tradizionali.
L’integrazione tra tecnologie differenti e comparti diversi che consegue alla
ridefinizione del contenuto di innovatività del prodotto e della sua
complessità, ricompone il sistema delle conoscenze nel quale l’impresa
opera, comprese anche le imprese terze, sia di produzione sia di servizio,
collegate.
In Emilia-Romagna questa riconfigurazione emerge con particolare
chiarezza in alcuni comparti legati alla meccanica avanzata.
Il settore automotive, da questo punto di vista, ci sembra essere una delle
esperienze più d’avanguardia, dal momento che integra meccanica avanzata,
elettronica, tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC), così
come tecnologie legate ai nuovi sistemi di propulsione per veicoli non
convenzionali (elettrici, a idrogeno, metano, Gpl).
In questo senso la filiera pare contrapporsi al distretto, tipicamente
imperniato su un solo settore produttivo.
Alla vocazione intersettoriale tra comparti tecnologicamente prossimi tipica
della filiera produttiva si affianca, come detto, una struttura produttiva
regionale caratterizzata dalla presenza di numerosi committenti appartenenti
a diversi settori, non necessariamente di grandi dimensioni e connessi a un
201
sistema di fornitura e sub-fornitura radicato localmente. Tale sistema, oltre a
non essere più riconducibile ad un indotto largamente dipendente da un
numero ristretto di settori di destinazione e di committenti finali, risulta
essere in grado di produrre beni intermedi differenti, operando
contemporaneamente su diversi livelli della catena di fornitura. La stessa
impresa può pertanto agire come fornitore di primo livello per un produttore
di motocicli e come fornitore di secondo livello per un’azienda che destina i
suoi prodotti (moduli, sistemi e gruppi pre-assemblati) a un produttore di
auto sportive.
La filiera è pertanto caratterizzata da un sistema di fornitura:
·
·
·
·
Multicliente;
Multiprodotto;
Multisettore;
Multilivello.
Non a caso, all’interno della filiera, pur permanendo rapporti diretti tra
committenti e fornitori di componenti e lavorazioni, emergono processi di
gerarchizzazione della catena di fornitura che viene ad articolarsi su diversi
livelli. Si tratta di un processo cosiddetto di modularizzazione.
Ancora, diversamente dal modello del distretto, all’interno della filiera
paiono essere più accentuati processi di creazione di reti autonome e gruppi
orizzontali di PMI, in prevalenza localizzate all’interno dell’area regionale
seppur aperte verso l’esterno.
In ultimo, la filiera si caratterizza per un più attivo rapporto tra mondo
dell’Università e mondo della piccola e media impresa, così come per un
ruolo diverso dell’attore pubblico locale, anche in ragione di
un’accelerazione dei processi di devoluzione di poteri in materia di politiche
industriali, avvenuti in Italia a partire dai primi anni novanta.
In questo caso all’azione diretta del pubblico, volta a promuovere un primo
percorso di qualificazione delle strutture produttive, tipica del modello del
distretto industriale, si sostituisce un’azione indiretta, ovvero di facilitazione
e di messa a sistema degli attori dello sviluppo, sostenendo l’avvio di un
secondo stadio dello sviluppo, maggiormente orientato alla ricerca e
l’innovazione di prodotto, di processo e organizzativa.
3 Metodologia di indagine e selezione delle imprese
La metodologia utilizzata in questa indagine è stata quella del bilancio
somma su campioni chiusi tramite benchmarking tra raggruppamenti di
imprese su base territoriale, dimensionale e di attività produttiva. Per
202
bilancio somma si intende che le voci dello stato patrimoniale e del conto
economico di ciascun raggruppamento di imprese vengono sommate come se
si trattasse di un’unica impresa. Tale metodologia se da un lato consente di
creare serie storiche coerenti, dall'altro lato esclude a priori le imprese
costituite o cessate successivamente l'anno di inizio dell'analisi.
L’acquisizione dei dati si è basata sulle banche dati AIDA dalle quali sono
stati estratti i bilanci contabili delle società di capitale che risultano
attualmente attive. L’analisi è stata effettuata su gli ultimi bilanci
disponibili. Il periodo di osservazione è stato il quadriennio 2001-2004. Per
assicurare omogeneità dei dati ed evitare discontinuità aziendali, sono stati
esclusi i bilanci consolidati e le holding industriali.
Sono stati costruiti in questo modo due campioni chiusi, uno relativo alle
imprese appartenenti alla filiera dell’auto piemontese e l’altro alla filiera
motoristica emiliano-romagnola (auto, motociclo, ciclomotore, macchine
agricole, motori, ecc.). I due campioni sono stati a loro volta ripartiti
secondo i seguenti criteri:
·
·
Dimensionale. La ricerca ha seguito la normativa comunitaria,
recentemente modificata, che prevede tre raggruppamenti – micro
imprese (meno di 2 milioni di Euro di fatturato), piccole imprese
(da 2 a 10 milioni di Euro di fatturato), medie imprese (da 10 a 50
milioni di Euro di fatturato) – al quale è stato aggiunto il
raggruppamento delle grandi imprese (maggiore di 50 milioni di
Euro di fatturato). Le imprese dei campioni analizzati in questa
ricerca sono state classificati secondo i valori registrati nel 2001.
Settoriale. Le filiere dell’auto e della motoristica sono state
suddivise in otto raggruppamenti in modo da individuare le
imprese il cui core business è direttamente connesso ai settori
oggetto dell’analisi, tra cui rientrano:
· gli original equipment manufactures (OEM vale a dire
assemblatori di autoveicoli, motocicli, ciclomotori, trattori,
ecc.; costruttori di carrozzerie e rimorchi)
· i componentisti di parti e accessori per autoveicoli,
motocicli, ciclomotori, trattori, motori, ecc.;
· le
imprese
dei
settori gomma-plastica-chimica
(pneumatici, parti e accessori in gomma e plastica per auto e
motoristica);
· e le imprese appartenenti ai settori funzionali e connessi
203
·
·
·
·
·
come:
lavorazione metalli (stampaggio lamiera a caldo e a
freddo);
produzione di metalli (essenzialmente fusione di metalli e
leghe);
meccanica specializzata (macchine utensili, meccanica
strumentale, macchine elettriche, costruttori di stampi);
servizi e studi di ingegneria (progettazione, collaudo,
costruzione prototipi, etc.);
altri comparti (tessitura, pelletterie, lavorazione vetro,
etc.).
Nel momento in cui è stata effettuata l’elaborazione è stato possibile
costruire, per il quadriennio analizzato, la serie storica dei bilanci di 598
imprese piemontesi della filiera dell’auto e 453 nella filiera motoristica
emiliano romagnola. La metodologia del campione chiuso se da un lato
assicura il confronto temporale, dall’altro lato riduce sensibilmente il
numero delle imprese selezionabili sia perché al momento dell’elaborazione
molti bilanci del 2004 non erano ancora presenti nella banca dati, sia perché
i cambiamenti societari avvenuti nell’arco temporale analizzato comportano
l’esclusione dal campione di tali imprese. Come era atteso i due campioni
presentano una distribuzione dimensionale sostanzialmente diversa con una
maggiore prevalenza di medie e grandi imprese nella filiera auto piemontese
rispetto all’Emilia-Romagna (tabella 1).
Tabella 1: Distribuzione dei campioni per dimensione aziendale
PIEMONTE
N
Micro impresa
Piccola impresa
Media impresa
Grande impresa
Totale
97
303
149
49
598
EMILIA-ROMAGNA
%
16,2
50,7
24,9
8,2
100,0
N
%
111
235
85
22
453
24,5
51,9
18,8
4,9
100,0
Fonte: Elaborazioni Ceris-Cnr e IPL
Le medie e grandi imprese sono rispettivamente il 24,9% e l’8,2%, e il
18,8% e il 4,9%.
204
Nella tabella 2 è stata riportata la percentuali di copertura delle due filiere
incrociando la classificazione dimensionale con quella settoriale. In
particolare si segnala che:
·
·
·
·
·
le imprese appartenenti al comparto dei componentisti
costituiscono il raggruppamento maggiore e sono in totale 166 in
Piemonte (27,8% del campione) e 216 in Emilia-Romagna (47,6%
del campione) con una netta prevalenza di grandi imprese;
la lavorazione metalli e le imprese della meccanica sono i comparti
più rappresentati dopo i componentisti;
non sono presenti grandi imprese nella produzione di metalli e
negli studi di ingegneria in entrambe le regioni, e altresì nella
gomma-plastica-chimica e nella lavorazione di metalli in
Emilia-Romagna;
la micro e piccola dimensione prevale nella lavorazione dei metalli
e negli studi di ingegneria;
gli OEM sono poco rappresentati in Piemonte avendo escluso tutto
il gruppo FIAT che produce in massima parte al di fuori dei confini
piemontesi.
Tabella 2:
Distribuzione dei campioni per dimensione aziendale e
settore industriale (valori in percentuale)
PIEMONTE
EMILIA-ROMAGNA
Micro Piccola Media Grande Totale Micro Piccola Media Grande Totale
OEM
1,0
Componentisti
18,6
Gomma-plastica-chimica 12,4
Lavorazione metalli
29,9
Produzione metalli
2,1
Meccanica
21,6
Studi di ingegneria
9,3
Altri comparti
5,2
Totale
100,0
2,0
27,4
13,9
27,1
1,7
18,2
5,0
5,0
100,0
1,3
26,8
11,4
25,5
6,0
21,5
1,3
6,0
100,0
6,1
51,0
4,1
12,2
0,0
20,4
0,0
6,1
100,0
2,0
27,8
12,2
25,9
2,7
19,7
4,3
5,4
100,0
4,5
40,5
4,5
24,3
5,4
10,8
9,9
0,0
100,0
6,0
44,4
3,8
16,2
6,8
18,8
2,1
1,7
100,0
8,2
63,5
1,2
9,4
4,7
10,6
1,2
1,2
100,0
36,4
54,5
0,0
0,0
0,0
4,5
0,0
4,5
100,0
Fonte: Elaborazioni Ceris-Cnr e IPL
4 Analisi economica-finanziaria
Il presente paragrafo contiene l’analisi delle caratteristiche
economico-finanziarie delle imprese appartenenti alla filiera dell’auto
piemontesi e della motoristica emiliano romagnola tra gli anni 2001 e 2004.
7,5
47,6
3,3
16,2
5,8
14,6
3,8
1,3
100,0
205
La finalità è quella di fornire un quadro dettagliato della situazione del
comparto in oggetto attraverso la specificazione di indicatori tradizionali di
bilancio. Inoltre, laddove è stato ritenuto opportuno, alcune variabili sono
state incrociate al fine di segnalare eventuali relazioni di causa-effetto.
Le tabelle e i grafici presentati in questo paragrafo forniscono una
valutazione completa sul settore e sul posizionamento delle imprese dell’auto
nelle due regioni. Come precisato nel capitolo precedente, le unità oggetto di
osservazione sono state inoltre suddivise per classi omogenee sulla base di
criteri dimensionali e settoriali.
1
Indicatori di sviluppo
In questo paragrafo verranno presi in considerazione i principali indicatori di
sviluppo delle imprese basati sul volume di valore aggiunto generato, sul
costo del personale quale proxy dell’andamento occupazionale e sul valore
delle immobilizzazioni tecniche. Le immobilizzazioni tecniche sono state
calcolate come somma delle immobilizzazioni materiali e immateriali al netto
dei rispettivi fondi di ammortamento. Inoltre, è stata effettuata la
scomposizione delle principali voci di bilancio relative alle immobilizzazioni
tecniche, vale a dire ricerca e sviluppo, impianti e immobili, confrontando, la
loro evoluzione con le immobilizzazioni di tipo finanziario.
Innanzitutto l’analisi condotta sul campione di imprese della filiera dell’auto
ha messo in luce come la dimensione aziendale delle imprese piemontesi
risulti sensibilmente superiore a quella imprese emiliano romagnole (tabelle
3, 4 e 5). Ciò è evidente per tutti gli indicatori di sviluppo utilizzati in questa
ricerca e che misurano in senso statico la capacità produttiva media nei due
raggruppamenti regionali. In particolare osservando i valori medi relativi al
2004 le imprese piemontesi eccedono del 60% rispetto alle pari imprese
emiliano romagnole per il valor aggiunto e le immobilizzazioni tecniche e del
75% per il costo del personale. Nella regione subalpina, ad esempio,
l’occupazione media nel relativo campione di imprese è di 135,2 addetti,
mentre in Emilia-Romagna è circa la metà (73,1).
Tale netta distinzione si ripresenta in tutte le stratificazioni dimensionali e
settoriali utilizzate in questa ricerca. Le uniche eccezioni riguardano le medie
imprese, che sono dimensionalmente pressoché simili nelle due regioni, e i
produttori di metallo emiliano romagnoli nelle immobilizzazioni tecniche. In
particolare per quanto riguarda i produttori OEM, i componentisti, i
produttori di particolari in gomma-plastica-chimica, le imprese della
meccanica specializzata e gli studi di ingegneria il gap dimensionale varia da
2 a quattro volte.
206
Nel quadriennio analizzato il valore aggiunto delle imprese della filiera
dell’auto piemontese è aumentato in misura sensibilmente minore rispetto al
campione emiliano romagnolo (rispettivamente +2,4% e +6,3%). Come è
evidenziato dalla figura 1 l’evoluzione di tale indicatore è risultato difforme
nelle due regioni. In Piemonte si è assistito ad un iniziale calo nel 2002 e a
successive crescite moderate, mentre in Emilia-Romagna la riduzione dei
volumi produttivi interni si è verificata nel 2003 ed è stata controbilanciata
da una forte crescita nell’ultimo anno (+8,6%).
Rispetto ai valori medi, in entrambe le regioni le performance migliori
derivano dalle micro imprese, rispettivamente per il Piemonte +17,7% e per
l’Emilia-Romagna + 22,0%, e i risultati peggiori per le grandi imprese,
addirittura in calo in Piemonte (-1,6%) e stazionario in Emilia-Romagna
(+1,2%). Difforme è risultato, invece, tra le due regioni l’andamento del
valore aggiunto nelle classi dimensionali intermedie, in forte crescita per le
piccole imprese in Piemonte (+17,4%) e per le medie imprese in
Emilia-Romagna (+13,3%), e sui valori medi regionali per le altre rispettive
pari dimensionate.
È da osservare che in entrambi i campioni circa il 40% delle imprese hanno
ridotto il valore aggiunto e che le imprese piemontesi presentano una
maggior variabilità. In Emilia-Romagna prevalgono le crescite moderate,
mentre in Piemonte quelle elevate in particolar modo per le grandi imprese.
Questo risultato indica che rispetto alle valutazioni medie in alcuni casi non
incoraggianti esistono, tuttavia casi aziendali che registrano performance
ragguardevoli.
Figura 1: Evoluzione del valore aggiunto e delle immobilizzazioni tecniche
nette
207
Anche per quanto concerne gli investimenti tecnici al netto degli
ammortamenti, la filiera dell’auto piemontese (-6,1%) denota una evoluzione
decisamente negativa rispetto alle lieve incremento registrato dalle imprese
emiliano romagnole (2,4%). In Piemonte, la riduzione degli investimenti
verificatesi nelle medio (-6,8%) e grandi imprese (-9,6%) non è stata
compensata sufficientemente dalle buone performance realizzate dalle micro
(+20,4%) e piccole imprese (+14,3%). In Emilia-Romagna, invece, il calo
delle immobilizzazioni tecniche si è verificato unicamente nelle grandi
imprese (-3,3%).
La dinamica di sviluppo delle imprese, ovvero l’incremento o il decremento
dei volumi di attività come conseguenza degli effetti della domanda di
mercato, non può prescindere dalla politica di investimento. A livello
settoriale la diversità di comportamento in termini di sviluppo delle imprese
può essere opportunamente colta incrociando i saggi di variazione del valore
aggiunto e dell’attivo immobilizzato.
La figura 2 riporta le variazioni congiunte di valore aggiunto e
immobilizzazioni tecniche lungo il quadriennio compreso tra il 2001 e il
2004 ed evidenzia il differenziale di performance settoriale nelle due diverse
regioni. Ad eccezione dei produttori di metalli e i componentisti della gomma
e plastica, i rispettivi comparti regionali si collocano sul grafico in posizione
ravvicinata segno di una comune tendenza congiunturale anche se si possono
distinguere, in qualche modo, alcuni fattori distintivi. È il caso delle OEM
piemontesi il cui sensibile incremento in investimenti in immobilizzazioni
208
tecniche nette (+21,0%), rispetto alla media regionale e alle pari
specializzate emiliano romagnole (+12,1%), non si è tradotto in un
immediato incremento del valore aggiunto, anzi è diminuito (-4,0%).
Valutazioni simili nelle due regioni possono essere effettuate per le imprese
della meccanica, in forte calo per entrambi gli indicatori, per i componentisti
e le imprese specializzate nella lavorazione dei metalli, in aumento la
produzione interna ma in calo gli investimenti tecnici. Ad eccezione degli
studi di ingegneria, tendenzialmente i comparti della filiera motoristica
emiliano-romagnola performano meglio dei settori piemontesi soprattutto in
termini di crescita del valore aggiunto. Infatti, nel primo quadrante, in cui
sono collocati i settori con variazioni positive per entrambi gli indicatori,
rientrano quattro settori emiliano-romagnoli e uno solo piemontese.
È interessante osservare che i comparti ai vertici della filiera, gli OEM e i
componentisti, in entrambe le regioni ottengano risultati contrapposti. I
primi forti aumenti degli investimenti e scarsi risultati in crescita del valore
aggiunto, i secondi al contrario, crescita dei volumi e riduzione degli
investimenti.
Figura 2: Variazioni del valore aggiunto e delle immobilizzazioni tecniche
nette (2001-2004)
209
La scomposizione delle principali voci di bilancio relative alle
immobilizzazioni tecniche nette con l’aggiunta delle immobilizzazioni di tipo
finanziario segnala una evoluzione pressoché similare per quanto riguarda
gli investimenti in immobili e impianti (figura 3). Il valore netto a bilancio di
queste voci si è ridotto in entrambe le regioni in particolar modo per gli
impianti. Se per quanto concerne gli investimenti in immobili tale riduzione
era un risultato atteso in quanto la tendenza attuale è quella di concentrare le
risorse negli investimenti più meramente produttivi, la diminuzione delle
immobilizzazioni in impianti segnala, invece, una mancanza di fiducia nelle
prospettive di crescita interna tramite ulteriori industrializzazioni nei
specifici territori e di conseguenza di possibili delocalizzazioni esterne.
Infatti, tale situazione coinvolge le medie e soprattutto le grandi imprese, i
componentisti e gli OEM piemontesi. Le piccole imprese, invece, in
entrambe le regioni denotano propensioni favorevoli a tali investimenti.
Valutazioni dissimili riguardano, invece, gli investimenti in ricerca e
sviluppo e le immobilizzazioni finanziarie. Se in questo ultimo caso tra le
due regioni si può osservare una simile evoluzione, anche se più pronunciata
in Emilia-Romagna, per quanto riguarda la capitalizzazione delle spese in
ricerca sviluppo, sebbene spesso sia dovuto a opportunità di tipo fiscale, il
netto divario maturatosi nel quadriennio analizzato, +49,1 in
Emilia-Romagna e -38,9%% in Piemonte, desta non poche preoccupazioni
210
per la filiera dell’auto subalpina in particolar modo perché è causata
unicamente dalle grandi imprese e dai produttori OEM e componentisti che
dovrebbero essere maggiormente deputati ad effettuare tali investimenti.
FiguraErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.: Evoluzione di alcune
componenti dell’attivo immobilizzato (2001=100)
Il costo del personale riportato in tabella 5 evidenzia una crescita del 6,6%
nella filiera dell’auto piemontese e del 13,5% nella filiera motoristica
emiliano romagnola. La trasposizione in termini occupazionali deve,
tuttavia, considerare l’aumento delle retribuzioni contrattuali orarie degli
operai e degli impiegati che a livello nazionale, secondo dai Istat, è stato per
l’intera industria del 11,5 e per i mezzi di trasporto del 12,4. Dalla
comparazione dei due dati si può dedurre che l’occupazione in Piemonte è
diminuita del 4-5%, mentre in Emilia-Romagna è leggermente aumentata
dell’1-2%.
La ripartizione dimensionale e settoriale conferma le valutazioni riportate
nell’analisi del valore aggiunto. In Piemonte le uniche situazioni favorevoli
riguardano le micro e piccole imprese, i componentisti e gli studi di
ingegneria, in Emilia-Romagna ad eccezione della meccanica e in parte della
gomma-plastica-chimica non si riscontrano situazioni negative.
2
Indicatori di attività industriale
Il presente paragrafo intende fornire indicazioni più dettagliate in merito alla
produttività dei fattori lavoro (valore aggiunto su costo del lavoro) e capitale
211
fisico (valore aggiunto su immobilizzazioni tecniche nette). Un ulteriore
elemento distintivo delle imprese riguarda il rapporto tra capitale circolante
operativo e fatturato in modo da evidenziare la relazione che lega il livello
dei fabbisogni finanziari correnti ai volumi di attività dell’azienda e di
conseguenza il cambiamento delle politiche gestionali.
Inoltre è stata condotta l’analisi del livello di integrazione verticale
attraverso la discriminazione dei costi sostenuti per la produzione interna e i
costi sostenuti per l’affidamento della produzione a soggetti esterni: l’indice
di riferimento è dato dal rapporto tra costi “interni” e il totale dei costi di
produzione. Tale misura risulta più elevata laddove la struttura produttiva
sia maggiormente verticalizzata, ovvero sia più esteso il controllo interno
sulle fasi produttive, e più ridotta nel caso contrario.
L’indicatore relativo alla produttività del fattore lavoro mette in risalto una
dinamica negativa per entrambe le filiere produttive, la debole crescita della
produzione interna è stata sostenuta da input di fattore lavoro in valore
superiori(figura 4).
FiguraErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.: Evoluzione della
produttività del lavoro e del capitale
Il Piemonte, in particolare denota valori costantemente in calo e inferiori
rispetto all’Emilia-Romagna, anche se il divario si è leggermente ridotto nel
periodo analizzato. In tutti i raggruppamenti dimensionali e settoriali le
imprese emiliano romagnole registrano valori superiori di produttività del
212
lavoro. Contrariamente alle attese e alla filiera motoristica, la produttività
del lavoro delle imprese piemontesi non è correlata positivamente con la
dimensione aziendale, ma presenta i valori massimi nella media e micro
impresa. Quest’ultima classe dimensionale è l’unica ad aver incrementato
l’indicatore in entrambe le regioni.
La produttività del capitale, al contrario, evidenzia un sostanziale
miglioramento in particolar modo se si considera la circostanza che nel 2001
e nel 2002 le immobilizzazioni tecniche avevano beneficiato delle
rivalutazioni consentite dalla lg. 342/00. A livello complessivo le valutazioni
inerenti il confronto territoriale sono simili a quelle relative alla produttività
del lavoro. L’Emilia-Romagna registra valori superiori, ma la crescita
maggiore si è manifestata in Piemonte. Per quanto concerne la ripartizione
dimensionale le medie e grandi imprese hanno registrato le performance
migliori in entrambe le regioni.
La figura 5 mostra la relazione tra variazioni di produttività del lavoro e del
capitale fisico in termini di immobilizzazioni tecniche nette. Il
posizionamento della maggior parte dei comparti lungo la linea tratteggiata,
che rappresenta le medesime variazioni dei due indicatori, mostra una sorta
di relazione stabile tra le due misure di produttività. I settori posti al di sotto
della linea tratteggiata evidenziano incrementi minori del costo del personale
rispetto all’impiego del capitale immobilizzato tecnico, ma tale situazione si
è verificata significativamente solo in due casi: i settori OEM e
gomma-plastica-chimica piemontesi. Considerazioni opposte valgono per i
settori al di sopra della linea tratteggiata, in particolare per i componentisti e
le imprese specializzate nella lavorazione dei metalli per entrambe le regioni.
Figura 5: Variazioni della produttività del lavoro e del capitale (2001–2004)
213
Ad eccezione degli studi di ingegneria piemontesi e i produttori della
gomma-plastica-chimica emiliano romagnoli, unici a incrementare
contemporaneamente entrambi gli indicatori, i rimanenti comparti delle due
filiere ricadono negli stessi quadranti e con una relativa prossimità, segno di
una comune politica operativa. Come evidenziato dalla figura, i comparti in
cui il Piemonte eccede in entrambi gli indicatori di produttività sono gli studi
di ingegneria e i componentisti, mentre l’Emilia-Romagna prevale nei
produttori di gomma-plastica-chimica e di metalli.
In figura 6 è stato riportato il rapporto capitale circolante netto operativo su
fatturato all’inizio e alla fine del periodo analizzato. La linea tratteggiata
indica situazioni di invarianza dell’indicatore tra il 2001 e il 2004, il
posizionamento ravvicinato a tale linea di gran parte dei settori che
compongono
le
filiere
dell’auto
piemontese
e
motoristica
emiliano-romagnola, evidenzia una sostanziale costanza delle politiche
complessive di gestione riguardanti le scorte di magazzino, i crediti e i debiti
operativi, vale a dire le politiche commerciali, di gestione dei processi e dei
programmi produttivi, di approvvigionamento, gestione degli acquisti e dei
materiali.
Figura 6: Rapporto circolare netto operativo su fatturato
214
I settori collocati al di sotto della linea tratteggiata hanno registrato
miglioramenti nel fabbisogno finanziario corrente, vale a dire unicamente il
comparto miscellaneo e la gomma-plastica-chimica del Piemonte. In
posizione opposta si collocano le imprese della meccanica
emiliano-romagnola, gli OEM e i produttori di metallo piemontesi. È da
osservare che gli OEM piemontesi registrano sensibilmente il minor
fabbisogno finanziario corrente in relazione al volume di fatturato,
addirittura nel 2001 tale rapporto era negativo, vale a dire che i debiti
operativi erano superiori al valore del magazzino e dei crediti operativi.
Rispetto alle precedenti analisi degli indicatori di bilancio su base settoriale,
la valutazione delle politiche gestionali presenta una netta differenziazione
territoriale solo in parte dovuta alle economia di scala maggiormente
presenti nella filiera dell’auto piemontese. Il fabbisogno finanziario corrente
per sostenere l’attività produttiva e di vendita è sensibilmente inferiore in
tutti comparti piemontesi rispetto ai pari classificati emiliano-romagnoli.
Nella tabella 6 sono presentati i divari tra i livelli di integrazione verticale
dei singoli raggruppamenti. Si tratta di indicazioni assai utili al fine di
215
comprendere le politiche di organizzazione della produzione industriale. Si
osserva, inoltre, che il modello adottato per la misurazione del grado di
integrazione verticale dipende dall’entità degli ammortamenti e, quindi, dalle
scelte di rivalutazione monetarie dei cespiti adottate dalle imprese.
Il grado di integrazione delle imprese dell’auto e della motoristica ammonta
a circa 23–24%. Ciò significa che il 23–24% circa dei costi di produzione
sono di natura interna, ovvero riflettono processi di trasformazione
controllati e gestiti internamente. In Piemonte l’indicatore risulta stabile nel
tempo per cui non si evidenzia una tendenza specifica alla verticalizzazione
o deverticalizzazione, nemmeno in conseguenza dell’inizio delle difficoltà
congiunturali nel 2001. In Emilia-Romagna, invece, soprattutto nell’ultimo
biennio, si è registrata una sensibile propensione a trasferire parte del
processo produttivo verso l’esterno.
Come era atteso il grado di integrazione si riduce al crescere delle
dimensioni aziendali. Il divario di aggira su un significativo 10%, con dati
tendenziali non molto significativi, eccezion fatta per le micro imprese che
hanno ridotto in entrambe le regioni la quota di produzione interna.
Data la natura di servizio, il raggruppamento degli studi di ingegneria
dovrebbero essere il comparto più integrato verticalmente, dal momento che
tali imprese non presentano nei loro conti economici, o solo in minima parte,
costi per l’acquisizione di materiali e materie prime. La maggior parte dei
loro costi si riferisce a fattori interni alla gestione operativa, come il costo
del lavoro. Tale risultanza si verifica solo in Piemonte, con valori intorno al
45%, in Emilia-Romagna gli studi di ingegneria, pur essendo di dimensione
minore, tendono in misura maggiore ad assegnare verso l’esterno parti delle
commesse ottenute. Tra gli altri comparti significativi differenziali si
registrano per le imprese della gomma-plastica-chimica e la lavorazione dei
metalli in cui le imprese emiliane-romagnole registrano gradi di integrazione
superiori di circa 6-7 punti percentuali. In particolare è da segnalare il
comportamento degli OEM. Nel 2001 sia in Piemonte che in
Emilia-Romagna erano stati registrati valori simili e sensibilmente inferiore
ai valori medi, rispettivamente 16,5% e 18,4%. Al termine del quadriennio
analizzato, gli OEM piemontesi hanno attuato processi di insorcing,
incrementando il grado di verticalizzazione di 6,6 punti percentuali, le OEM
emiliano romagnole hanno, invece, ulteriormente sviluppato le politiche di
outsourcing. Per quest’ultime imprese solo il 17,5% dei costi è di natura
interna.
216
3
Analisi della struttura finanziaria e dell’equilibrio
patrimoniale
Il presente paragrafo si concentra inizialmente sull’analisi della dinamica
della struttura finanziaria, intesa come composizione delle fonti di
finanziamento suddivise in capitale proprio (o patrimonio netto) e debito.
Quest’ultimo aggregato, data la sua composizione eterogenea, è stato
ulteriormente scomposto sulla base dei seguenti due criteri:
natura delle fonti di finanziamento: finanziaria o operativa;
durata delle fonti di finanziamento: breve termine (scadenza entro
l’anno), lungo termine (scadenza oltre l’anno).
La dinamica delle voci componenti il passivo patrimoniale può essere
sintetizzata nell’indice di consolidamento del debito (debiti a lungo termine
su totale debiti) e l’indicatore di dipendenza finanziaria (totale mezzi
finanziari di terzi su totale passività) che mette in evidenza il grado di
esposizione finanziaria complessiva delle imprese.
L’analisi dell’equilibrio patrimoniale trae, invece, spunto dalla
considerazione di due indicatori: indice di copertura delle immobilizzazioni e
indice di liquidità. Il primo (passività consolidate su capitale fisso) attiene
all’equilibrio delle componenti patrimoniali a lungo termine, ed, in
particolare, fornisce indicazioni in merito alla capacità delle imprese di
garantire un’adeguata copertura finanziaria del capitale immobilizzato
attraverso passività consolidate (patrimonio netto e debiti a medio-lunga
scadenza). Il secondo (liquidità immediate e differite su passività correnti)
attiene, invece, alla gestione delle voci correnti patrimoniali, verificando,
nello specifico, se le risorse liquide immediate e differite siano in grado di far
fronte agli impegni a breve scadenza.
La considerazione congiunta di questi indicatori permette di offrire un
giudizio sull’equilibrio della struttura patrimoniale. Tale giudizio si articola
nelle seguenti quattro categorie di imprese:
equilibrate: caratterizzate da indice di copertura delle
immobilizzazioni compreso tra 1 e 3 ed indice di liquidità
compreso tra 0,6 e 1,4;
· sbilanciate: caratterizzate da indice di copertura delle
immobilizzazioni superiore a 1 ed indice di liquidità superiore a 1,
con esclusione delle imprese già definite equilibrate;
·
217
instabili: caratterizzate da indice di copertura delle
immobilizzazioni superiore a 1 ed indice di liquidità inferiore a 1,
con esclusione delle imprese già definite equilibrate;
· squilibrate: caratterizzate da indice di copertura delle
immobilizzazioni inferiore a 1.
·
I grafici riportati in figura 7 utilizzano come base l’anno 2001 (fatto pari a
100) e mostrano una dissimile evoluzione delle diverse componenti
finanziarie in particolar modo per quanto concerne la durata dei
finanziamenti esterni e il capitale di rischio.
In Piemonte emerge chiaramente una forte propensione al consolidamento
del debito per entrambe le componenti, mentre in Emilia-Romagna la
dilazione del debito ha interessato solo e in misura limitata i debiti finanziari.
Nel quadriennio considerato, infatti, i debiti di lungo periodo sono aumentati
nella filiera piemontese del 37,1% rispetto al 6,5% dell’Emilia-Romagna,
mentre i debiti di breve termine sono cresciuti solo del 4,6% in Piemonte
contro il 13,1% della filiera motoristica emiliano romagnola. Tale difforme
dinamica delle diverse componenti del debito ha portato ad una convergenza
tra i due campioni di imprese, riducendo il differenziale del rapporto di
consolidamento del debito. Nel 2001 il rapporto debiti a lungo termine su
totale debiti era circa la metà in Piemonte rispetto all’Emilia-Romagna
(rispettivamente 8,3% e 16,0%). Nel 2004 è leggermente aumentato in
Piemonte (10,7%) ed è, invece, diminuito in Emilia-Romagna (15,2%).
218
Figura 7: Dinamica delle componenti del passivo patrimoniale
Come anticipato, in Piemonte il consolidamento del debito ha interessato
entrambe le fonti di finanziamento e in particolar modo i debiti finanziari;
quelli a breve scadenza sono diminuiti dell’8,3%, mentre quelli di lungo
periodo sono aumentati del 27,2%. Tale risultato ha interessato tutte le
classi dimensionali e in particolare i componentisti e i produttori della
gomma-plastica-chimica. Il consolidamento del debito finanziario si è
manifestato, invece, solo in parte in Emilia-Romagna, che ha registrato una
minima diminuzione dei debiti finanziari di breve periodo (-1,8%) e un
ridotto incremento di quelli di lungo periodo (+7,7%), ed è stato inficiato
dalla maggiore crescita delle fonti di natura commerciale. Infatti, i debiti
operativi sono aumentati del 15,4% contro il 10,4% del Piemonte.
Mediamente i debiti commerciali sono cresciuti in misura maggiore rispetto
ai debiti finanziari in entrambe le regioni. È interessante osservare che la
dinamica evolutiva delle fonti debitorie è stata simile nelle classificazioni
dimensionali e settoriali delle due filiere. Nelle medie e grandi imprese e nei
comparti della componentistica, gomma-plastica-chimica e lavorazione
metalli è prevalsa la crescita delle fonti operative rispetto ai debiti finanziari.
Le uniche eccezione riguardano gli OEM e gli studi di ingegneria che in
Piemonte hanno beneficiato ampiamente del sostegno del mercato
finanziario, evenienza che non si è manifestata in Emilia-Romagna.
La filiera motoristica emiliano-romagnola evidenzia in particolar modo una
maggior propensione verso la ricapitalizzazione del patrimonio netto
cresciuto del 17,7%, mentre nella filiera dell’auto piemontese il capitale
proprio è aumentato solo del 3,6%. Tale divergenza, tuttavia, è da attribuire
219
interamente alla grande impresa piemontese che ha registrato una
diminuzione del capitale di rischio del 6,5%, mentre gli altri raggruppamenti
dimensionali hanno denotato performance simili alle pari imprese emiliano
romagnole.
La figura 7 evidenzia, inoltre, che in Piemonte i debiti, sia a breve che a
lungo termine, sono aumentati in misura maggiore rispetto al capitale
proprio, mentre in Emilia-Romagna si è verificata la situazione opposta.
Tale evoluzione è sintetizzabile dall’indice di indipendenza finanziaria che è
peggiorato in Piemonte di 0,5 punti percentuali, dal 70,5% a 71,0%, mentre
in Emilia-Romagna è migliorato di un punto percentuale, dal 66,1 al 65,1%.
Le imprese della filiera dell’auto piemontese dipendono maggiormente dalle
fonti esterne rispetto alle imprese della filiera motoristica emiliano
romagnola, circa 6 punti percentuali. Il gap è evidente soprattutto nella
grande impresa, 71,2% in Piemonte, 62,2% in Emilia-Romagna.
L’evoluzione delle fonti patrimoniali nelle sue diverse componenti non può
essere svincolata dal confronto della dinamica del capitale investito,
immobilizzato e circolante, al fine di valutare complessivamente l’equilibrio
patrimoniale di breve e di lungo periodo.
Nella tabella 7 vengono riportate le frequenze relative ai vari giudizi di
equilibrio patrimoniale negli anni 2001 e 2004. La maggioranza relativa
delle imprese delle due filiere mostra condizioni patrimoniali equilibrate nel
2004 (40,8% in Piemonte e 34,5% in Emilia-Romagna) e rispetto al 1999 in
crescita soprattutto nella regione subalpina. Il miglioramento dell’equilibrio
patrimoniale è particolarmente evidente nella forte riduzione delle imprese
che presentano squilibrio strutturale, circostanza che si è manifestata in
forma più marcata e diffusa in Piemonte. Le imprese che presentano
insufficienza di fonti di finanziamento stabilmente legate all’impresa, tale da
generare un indice di copertura delle immobilizzazioni inferiore ad 1, si sono
ridotte in Piemonte dal 29,9% al 21,2%, e in Emilia-Romagna dal 24,8% al
18,1%. In linea di massima si è assistito ad un passaggio dalle situazioni più
critiche con squilibri patrimoniali generalizzati o limitati al breve periodo, a
posizioni più rassicuranti. È da segnalare, tuttavia, la presenza in entrambe
le filiere, e soprattutto in Emilia-Romagna, di un cospicuo, e in sensibile
aumento, numero di imprese che utilizzano in modo smisurato le fonti
consolidate non per la copertura degli investimenti immobilizzati, ma per
finanziare impropriamente le attività di capitale circolante.
Malgrado i sensibili miglioramenti, in Piemonte le aziende più a rischio sono
le grandi imprese e i componentisti (circa il 30% del raggruppamento). In
Emilia-Romagna, invece, presentano le strutture più squilibrate le micro
220
imprese e i produttori di metalli. Tra i più virtuosi troviamo gli OEM
piemontesi, i componentisti emiliano romagnoli, e, indifferentemente dalla
regione di localizzazione, i produttori della gomma-plastica-chimica.
4
Analisi della redditività industriale
Il presente paragrafo è focalizzato sulla redditività industriale (ROI; margine
operativo netto su capitale investito netto operativo), relativa all’attività
caratteristica delle imprese, ed in particolare sull’analisi delle componenti di
tale redditività, e sulla redditività del capitale proprio (ROE; risultato
d’esercizio su capitale proprio e fondi rischi).
La redditività industriale viene normalmente scomposta in:
il ROS, margine sulle vendite (margine operativo netto su
fatturato), che misura il grado di efficienza delle imprese;
· il ROT, indice di rotazione del capitale investito (fatturato su
capitale investito netto nell’area industriale), che indica le velocità
di trasformazione del capitale investito in introiti derivanti dalla
vendita dei prodotti e/o servizi.
·
L’analisi della redditività evidenzia le maggiori discordanze tra le due filiere.
Infatti, per entrambi gli indicatori si è determinata una dinamica divergente
ampliando il già consistente gap iniziale (figura 8). In Emilia-Romagna il
ROI industriale è rimasto pressoché costante, recuperando interamente le
difficoltà manifestatesi nel 2003, e il ROE è aumentato di 2,2 punti
percentuali. In Piemonte, invece, sia il ROI industriale che il ROE sono
diminuiti rispettivamente di 1 e 1,9 punti percentuali. In tal modo per la
filiera dell’auto piemontese la dinamica reddituale ha determinato che
complessivamente i pressoché nulli profitti di inizio periodo si siano
tramutati in valori negativi. In particolare hanno contribuito a questo
risultato le grandi imprese (ROE2004= -5,42%), i componentisti
(ROE2004= -1,23%), la meccanica (ROE2004= -27,4%). Tutti i
raggruppamenti dimensionali e settoriali piemontesi, con eccezione dei
produttori di metalli per entrambi gli indicatori e la gomma-plastica-chimica
per il ROI industriale, denotano risultati inferiori a quelli della filiera
motoristica emiliano-romagnola.
Figura 8: Evoluzione della redditività del capitale investito netto operativo
e del capitale proprio
221
Rispetto ai relativi valori medi regionali eccellono in entrambi i campioni le
micro imprese, le imprese specializzate nella gomma-plastica-chimica e gli
studi di ingegneria, nonché le piccole imprese e i produttori di metalli in
Piemonte, le medie imprese e le aziende specializzate nella lavorazione di
metalli in Emilia-Romagna. Tranne che per i produttori di metallo non si
registrano in Emilia-Romagna posizioni reddituali particolarmente
sfavorevoli (Tabelle 8 e 9).
In tutti gli anni analizzati e in entrambe le filiere i valori di ROI industriale
risultano indirettamente proporzionali rispetto alla dimensione aziendale. Ad
esempio nel 2004, il ROI delle micro imprese era in Piemonte pari al 6,2% e
in Emilia-Romagna del 7,7%, nelle piccole e medie imprese erano
rispettivamente circa il 5% e il 6,5%, nelle grandi erano pari all’1,5% e il
5,1%. Tale relazione si verifica in Piemonte anche nel caso della redditività
del capitale proprio, mentre in Emilia-Romagna solo le micro imprese si
differenziano sensibilmente dalla media regionale.
La scomposizione del ROI industriale consente di analizzare più in
profondità i fattori che hanno condizionato la redditività delle filiere
analizzate. Il ROS esprime la politica economico-gestionale dell’impresa
tramite la capacità dell’impresa di estrarre profitti dalle proprie vendite,
attraverso un adeguato contenimento dei costi operativi. Il ROT, invece,
sintetizza la velocità di recupero del capitale investito nella gestione
operativa.
222
Come evidenzia la figura 9, nel 2004, ad eccezione dei produttori di metalli e
degli studi di ingegneria, tutti i comparti della filiera motoristica
emiliano-romagnola, evidenziano, rispetto alle pari specializzate imprese
piemontesi, livelli superiori di margine superiore delle vendite e inferiori
nella rotazione del capitale investito segno da un lato di una migliore
efficienza nella gestione dei costi e di un apprezzamento da parte del
mercato, e dall’altro lato di un minor capacità di trasformazione del capitale
investito in ricavi di vendita. Unanime giudizio positivo per entrambi gli
indicatori, in confronto al rispettivo benchmark regionale, spetta solo ai
produttori di metalli piemontesi e agli studi di ingegneria emiliano
romagnoli.
Figura 9: Composizione della redditività industriale (2004)
La dinamica delle due componenti della redditività industriale è meglio
evidenziata nella figura 10 la quale presenta le variazioni quadriennali del
ROS e del ROT per tutti i raggruppamenti settoriali di imprese.
223
Il posizionamento ravvicinato sulla figura dei comparti delle due filiere
aventi medesima specializzazione segnala l’attuazione di medesime strategie
operative. Tale situazione si è manifestata in particolar modo per le imprese
della gomma-plastica-chimica e i componentisti che sono stati gli unici
settori ha ottenere performance positive per entrambi gli indicatori, i
produttori di metallo e in parte le imprese specializzate nella lavorazione di
metalli.
I rimanenti settori evidenziano gap considerevoli in un solo indicatore:
gli OEM in entrambi i campioni registrano una variazione del ROS
minima mentre nella rotazione del capitale investito gli OEM
piemontesi denotano un forte calo (-24,7%) e quelli
emiliano-romagnoli un leggero incremento (+4,3%).;
· gli studi di ingegneria, simile calo per il ROT ma incremento del
ROS per gli studi di ingegneria piemontesi (+1,4 punti percentuali)
e sensibile calo per gli emiliano romagnoli (-4,9 punti percentuali);
·
o in entrambi gli indicatori:
·
la meccanica dove per i piemontesi il considerevole calo del ROS
(-5,7 punti percentuali) è stato compensato da un aumento
dell’indice di rotazione del capitale investito operativo, mentre per
i meccanici emiliano romagnoli il calo di redditività è stato
determinato da entrambi gli indicatori.
Figura 10: Variazioni del ROS e del ROT (2001–2004)
224
5 Conclusioni
Le valutazioni riportate nel capitolo precedente in merito alla dinamica
economico-finanziaria evidenziano una situazione complessivamente più
favorevole per la filiera motoristica emiliano-romagnola rispetto alla filiera
dell’auto piemontese, soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione
dell’attività produttiva e in misura minore per quanto concerne la posizione
finanziaria.
Lo scarto è particolarmente evidente negli indicatori di sviluppo quali la
crescita del valore aggiunto, degli investimenti tecnici netti, soprattutto quelli
in ricerca e sviluppo, e dell’occupazione, e gli indici della produttività del
lavoro e della situazione reddituale sia in termini assoluti che dinamici. Le
imprese piemontesi eccellono unicamente nella relazione tra capitale
circolante netto operativo e fatturato e in un miglior equilibrio fonti-impieghi
di lungo e di breve periodo. Quest’ultimo risultato è stato ottenuto in
Piemonte grazie al progressivo consolidamento del debito, in particolar
modo quello di natura finanziaria, tale da ridurre il gap tra le due regioni nel
rapporto tra debiti a lungo termine e debiti a breve.
225
Il netto differenziale tra le due filiere in termini di indici di bilancio induce a
ritenere che il modello multisettore e multiprodotto emiliano-romagnolo
abbia registrato nel periodo analizzato risultati più performanti rispetto al
sistema monospecializzato piemontese nel quale la crisi del settore finale si è
riverberata inevitabilmente sulla sottostante struttura della fornitura,
soprattutto sui primi livelli della catena della fornitura.
I risultati in cui la filiera dell’auto piemontese denota performance minori
sono in larga parte condizionati dalla grande impresa che registra variazioni
degli indicatori sensibilmente inferiori rispetto alle altre classi dimensionali.
In merito sempre al confronto dimensionale nei due campioni di imprese, in
generale, le micro imprese si equivalgono e denotano complessivamente i
risultati migliori, le piccole imprese ottengono performance superiori in
Piemonte, mentre le medio imprese e, ovviamente le grandi imprese, in
Emilia-Romagna. È da segnalare, altresì, che i dati relativi al campione
piemontese evidenziano una maggior variabilità, il dato medio è la risultante
di un numero maggiore di imprese con risultati estremamente negativi o
positivi.
In generale il presente contributo mette in discussione l’equazione per la
quale la piccola dimensione di impresa rappresenta un limite strutturale
rispetto alla possibilità di puntare sull’innovazione attraverso l’investimento
in ricerca e sviluppo. Così come sopra descritto sono al contrario proprio le
PMI, spesso distanti dal mercato di sbocco, a rappresentare una delle leve
centrali a sostegno degli investimenti in ricerca e sviluppo all’interno delle
filiere di prodotto.
Per quanto riguarda la classificazione settoriale gli indicatori di bilancio
evidenziano nelle due filiere risultati generalmente simili segno di una
comune tendenza e simili politiche operative, le principali eccezioni sono
relative ai produttori di gomma-plastica-chimica e agli original equipment
manufactures.
Rispetto ai pari specializzati, in termini dinamici i comparti piemontesi che
hanno registrato i risultati migliori sono stati unicamente gli studi di
ingegneria e, con un differenziale minore, i componentisti. Nei rimanenti
settori prevalgono le imprese emiliano-romagnole.
È doveroso segnalare che per quanto concerne i produttori di
gomma-plastica-chimica e agli original equipment manufactures, per i quali
si registrano i risultati più discordanti nelle due filiere, le limitate
performance piemontesi non interessano gli investimenti in immobilizzazioni
tecniche nette segno di una profonda trasformazione in atto e di una
significativa fiducia riposta nel futuro.
226
La ripartizione settoriale tra comparti il cui core business è direttamente
connesso ai settore automobilistico e motoristico, tra cui rientrano (OEM,
componentisti e gomma-plastica-chimica) e comparti funzionali (lavorazione
metalli, produzione metalli, meccanica specializzata, servizi e studi di
ingegneria) consente di evidenziare alcuni aspetti di particolare interesse
nella comparazione tra le due filiere.
Come anticipato le principali divergenze riguardano i comparti
maggiormente dipendenti dalla natura merceologica delle filiere, vale a dire
quelli al vertice della catena della fornitura. Gli OEM e i componentisti della
gomma e plastica prevalgono in misura evidente in Emilia-Romagna, mentre
i componentisti, sebbene in proporzione minore, in Piemonte. Tale risultato
dipende inevitabilmente dalla struttura produttiva dei sistemi regionali messi
a confronto. La filiera emiliano-romagnola è più diversificata di quella
piemontese e consente in questo modo di mediare la performance economica
complessiva. La soddisfacente performance dei componentisti piemontesi
evidenzia il ruolo di preminenza assunto da questo comparto rispetto agli
assemblatori finali.
Tra i settori funzionali, invece, i cui rientrano principalmente i fornitori di
secondo e terzo livello, l’unico comparto che si differenzia è quello relativo
ai servizi e studi di ingegneria in cui eccellono le imprese piemontesi. Per gli
altri comparti tale risultato è congruente. I settori meno funzionali alle filiere
dell’automotive e della motoristica hanno maggiori possibilità di seguire
politiche di diversificazione e, in situazioni di crisi, cercare nuovi mercati di
sbocco. La distinzione per i design piemontesi è dovuta essenzialmente alla
capacità di queste imprese di operare a livello globale e di dipendere in
misura minore dalle alterne circostanze locali.
L’analisi economica-finanziaria delle imprese appartenenti alla filiera
dell’auto piemontese e della filiera motoristica emiliano-romagnola ha
interessato la serie storica dei bilanci aziendali degli ultimi quattro anni
disponibili, dal 2001 al 2004. Tale periodo è stato indubbiamente
condizionato dalla situazione congiunturale dei mercati finali, e in Piemonte
in particolar modo dalla situazione finanziaria di Fiat Auto.
Nel momento in cui questo testo è stato consegnato alla stampa, il gruppo
automobilistico torinese sta sperimentando una prolungata e favorevole fase
produttiva sostanzialmente superiore a quella dei suoi principali concorrenti.
Sarà interessante valutare in futuro le possibili ripercussioni sulla filiera
piemontese e soprattutto verificare se perdura una stretta concordanza nei
risultati economici, come si è avuto modo di verificare in questo contributo,
innanzitutto con i primi livelli della catena della fornitura.
227
Tabella 3: Valore aggiunto (valori medi per impresa)
Totale
Micro imprese
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
OEM
Componentisti
Gomma-plastica-chimica
Lavorazione metalli
Produzione metalli
Meccanica
Studi di ingegneria
Altri comparti
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
2001
2002
2003
2004
6.559
3.939
591
543
1.577
1.535
5.753
5.585
51.632
40.401
21.757
11.191
9.341
4.563
8.293
1.405
3.569
1.983
3.517
2.122
5.247
2.052
2.271
1.195
6.803
6.943
6.457
3.964
627
592
1.699
1.548
5.902
5.729
49.105
39.970
21.311
11.266
9.387
4.600
8.024
1.501
3.520
1.980
3.107
2.280
4.899
1.976
2.594
1.276
6.894
6.812
6.655
3.857
651
615
1.708
1.555
5.808
5.739
51.710
37.535
20.903
10.514
10.036
4.544
7.543
1.541
3.582
1.975
3.196
2.220
5.154
1.759
2.568
1.336
7.219
7.427
6.714
4.189
695
662
1.851
1.646
6.030
6.330
50.781
40.880
20.256
11.641
10.422
4.959
8.156
1.676
3.734
2.166
3.187
2.395
4.317
1.768
2.837
1.325
7.306
7.675
D04–01 D04–03
2,4%
6,3%
17,7%
22,0%
17,4%
7,3%
4,8%
13,3%
-1,6%
1,2%
-6,9%
4,0%
11,6%
8,7%
-1,6%
19,2%
4,6%
9,3%
-9,4%
12,9%
-17,7%
-13,9%
24,9%
10,9%
7,4%
10,5%
0,9%
8,6%
6,9%
7,6%
8,4%
5,9%
3,8%
10,3%
-1,8%
8,9%
-3,1%
10,7%
3,8%
9,1%
8,1%
8,7%
4,2%
9,7%
-0,3%
7,9%
-16,2%
0,5%
10,5%
-0,8%
1,2%
3,3%
Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio
Tabella 4: immobilizzazioni tecniche nette (valori medi per impresa)
Totale
Micro imprese
Piccole imprese
Medie imprese
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
2001
2002
2003
2004
5.234
2.928
451
375
1.091
1.002
4.367
3.794
4.903
2.851
475
414
1.171
1.005
4.179
3.751
5.072
2.955
505
436
1.246
1.072
4.121
3.882
4.917
3.000
543
446
1.246
1.120
4.072
4.037
D04–01 D04–03
-6,1%
2,4%
20,4%
18,7%
14,3%
11,8%
-6,8%
6,4%
-3,1%
1,5%
7,5%
2,1%
0,0%
4,4%
-1,2%
4,0%
228
Grandi imprese
OEM
Componentisti
Gomma-plastica-chimica
Lavorazione metalli
Produzione metalli
Meccanica
Studi di ingegneria
Altri comparti
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
42.963
33.040
19.202
9.771
8.499
3.366
4.103
1.180
3.245
1.402
1.870
2.353
3.766
955
980
480
5.835
2.464
38.951
31.396
16.640
9.743
7.922
3.232
4.274
1.177
3.028
1.322
2.037
2.596
3.489
916
1.183
489
5.033
1.997
40.659
32.184
20.172
10.666
7.847
3.190
4.479
1.186
3.027
1.408
1.840
2.554
4.026
910
1.231
694
4.865
4.659
38.844
31.959
23.228
10.952
7.810
3.278
5.136
1.287
2.573
1.305
1.827
2.680
3.330
921
1.187
616
4.324
3.842
2001
2002
2003
2004
4.441
2.384
426
370
1.118
978
3.851
3.493
34.441
23.115
14.594
5.998
6.597
2.887
5.649
986
2.280
1.184
2.158
1.451
3.547
1.231
1.835
4.449
2.484
445
401
1.201
1.015
3.931
3.672
33.743
23.935
14.289
6.332
6.776
3.024
5.547
992
2.300
1.209
1.966
1.531
3.378
1.244
2.063
4.646
2.561
456
422
1.239
1.044
4.009
3.818
35.634
24.541
14.805
6.463
7.186
3.141
5.567
1.014
2.331
1.240
2.134
1.547
3.664
1.250
2.065
4.736
2.706
479
449
1.305
1.104
4.158
4.049
35.830
25.841
14.288
6.868
7.523
3.329
5.468
1.070
2.479
1.301
2.211
1.671
3.474
1.255
2.211
-9,6%
-3,3%
21,0%
12,1%
-8,1%
-2,6%
25,2%
9,1%
-20,7%
-6,9%
-2,2%
13,9%
-11,6%
-3,5%
21,1%
28,4%
-25,9%
55,9%
-4,5%
-0,7%
15,1%
2,7%
-0,5%
2,8%
14,7%
8,5%
-15,0%
-7,3%
-0,7%
4,9%
-17,3%
1,3%
-3,6%
-11,3%
-11,1%
-17,5%
Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio
Tabella 5: costo del lavoro (valori medi per impresa)
Totale
Micro imprese
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
OEM
Componentisti
Gomma-plastica-chimica
Lavorazione metalli
Produzione metalli
Meccanica
Studi di ingegneria
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
D04–01 D04–03
6,6%
13,5%
12,4%
21,3%
16,8%
12,8%
8,0%
15,9%
4,0%
11,8%
-2,1%
14,5%
14,0%
15,3%
-3,2%
8,5%
8,7%
9,9%
2,5%
15,2%
-2,1%
1,9%
20,5%
2,0%
5,7%
5,1%
6,5%
5,4%
5,8%
3,7%
6,1%
0,6%
5,3%
-3,5%
6,3%
4,7%
6,0%
-1,8%
5,6%
6,3%
5,0%
3,6%
8,0%
-5,2%
0,4%
7,1%
229
Altri comparti
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
605
3.977
4.320
674
4.003
4.112
770
4.036
4.164
826
4.270
4.442
36,5%
7,4%
2,8%
7,3%
5,8%
6,7%
Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio
Tabella 6: grado di integrazione verticale (valori percentuali)
Totale
Micro imprese
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
OEM
Componentisti
Gomma-plastica-chimica
Lavorazione metalli
Produzione metalli
Meccanica
Studi di ingegneria
Altri comparti
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
2001
2002
2003
2004
24,0
25,3
39,4
33,0
29,0
27,9
26,1
23,3
22,5
25,1
16,5
18,4
24,5
27,7
24,2
30,8
23,8
31,5
27,7
31,3
26,0
26,2
47,6
24,5
23,7
30,1
24,1
25,0
34,8
31,5
30,0
27,4
26,7
23,1
22,4
24,9
18,7
18,4
23,7
27,0
24,2
31,8
25,5
31,7
26,6
30,8
26,2
27,6
49,1
24,0
22,9
30,2
23,9
24,8
33,8
30,4
29,7
27,3
27,0
23,1
22,1
24,6
18,3
18,5
23,7
26,7
23,9
30,8
24,3
31,1
28,6
29,1
26,1
27,2
44,7
23,0
23,0
31,3
24,1
23,6
32,1
28,7
29,0
26,4
25,5
22,0
22,8
23,1
23,1
17,5
24,4
25,3
21,0
29,4
23,3
28,7
26,7
28,3
26,5
26,8
44,1
23,4
23,1
30,5
D04–01 D04–03
0,1
-1,7
-7,3
-4,3
0,0
-1,4
-0,6
-1,3
0,3
-2,0
6,6
-1,0
-0,1
-2,4
-3,2
-1,4
-0,6
-2,9
-1,1
-3,0
0,6
0,6
-3,5
-1,1
-0,5
0,4
0,2
-1,3
-1,7
-1,6
-0,7
-0,9
-1,5
-1,1
0,8
-1,5
4,8
-1,0
0,7
-1,4
-2,9
-1,4
-1,0
-2,4
-2,0
-0,8
0,5
-0,4
-0,7
0,4
0,2
-0,8
Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio
Tabella 7: equilibrio fonti-impieghi (percentuali di imprese)*
Squilibrate
2001 2004
Instabili
2001 2004
Sbilanciate
2001 2004
Equilibrate
2001 2004
230
Totale
Micro imprese
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
OEM
Componentisti
Gomma-plastica-chimica
Lavorazione metalli
Produzione metalli
Meccanica
Studi di ingegneria
Altri comparti
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
29,9
24,8
38,1
36,0
28,1
22,6
24,8
21,2
40,8
4,5
41,7
20,6
30,7
27,0
34,2
40,0
25,2
17,8
25,0
34,6
30,5
21,2
34,6
23,5
31,3
16,7
21,2
18,1
22,7
23,4
19,8
19,7
20,1
9,4
30,6
9,1
16,7
20,6
27,1
18,6
13,7
20,0
22,6
11,0
12,5
34,6
16,9
18,2
23,1
17,6
21,9
0,0
10,9
15,3
9,3
15,3
13,2
15,0
10,1
18,8
2,0
4,5
0,0
14,7
18,1
15,3
2,7
13,3
6,5
8,2
12,5
3,8
13,6
24,2
11,5
35,3
6,3
0,0
9,2
11,7
10,3
14,4
11,6
10,3
6,7
14,1
0,0
4,5
8,3
17,6
12,0
14,9
9,6
0,0
3,9
2,7
6,3
3,8
11,9
16,7
7,7
5,9
12,5
0,0
24,4
25,7
29,9
24,3
24,1
27,8
23,5
23,5
18,4
18,2
16,7
26,5
17,5
18,1
28,8
6,7
32,9
42,5
31,3
26,9
21,2
31,8
19,2
29,4
25,0
50,0
28,8
35,6
34,0
37,8
26,1
34,2
30,9
38,8
28,6
27,3
25,0
38,2
19,3
26,5
26,0
33,3
34,8
52,1
50,0
26,9
33,9
40,9
30,8
52,9
25,0
83,3
34,8
34,3
22,7
24,3
34,7
34,6
41,6
36,5
38,8
72,7
41,7
38,2
33,7
39,5
34,2
40,0
35,5
31,5
31,3
34,6
34,7
22,7
34,6
11,8
37,5
33,3
40,8
34,5
33,0
24,3
42,6
35,9
42,3
37,6
40,8
59,1
50,0
23,5
41,6
40,0
50,7
46,7
38,7
34,2
31,3
34,6
37,3
24,2
38,5
23,5
40,6
16,7
* Totale riga per anno = 100
Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio
Tabella 8: redditività industriale (valori percentuali)
Totale
Micro imprese
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
OEM
Componentisti
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
2001
2002
2003
2004
3,8
6,1
4,6
8,2
5,6
7,4
4,6
5,9
3,2
5,6
4,5
4,6
1,5
6,2
3,3
5,7
5,9
8,2
5,4
7,1
5,2
5,6
2,2
5,1
4,7
4,5
0,9
5,6
3,4
4,6
5,6
7,0
4,5
6,3
4,2
4,8
2,9
3,6
3,2
3,0
2,2
5,0
2,8
5,8
6,2
7,7
5,0
6,6
4,7
6,3
1,5
5,1
2,6
4,4
1,6
6,4
D04–01 D04–03
-1,0
-0,3
1,6
-0,5
-0,5
-0,9
0,1
0,4
-1,7
-0,5
-1,9
-0,2
0,0
0,1
-0,6
1,3
0,7
0,7
0,6
0,3
0,5
1,5
-1,4
1,5
-0,6
1,4
-0,6
1,4
231
Gomma-plastica-chimica
Lavorazione metalli
Produzione metalli
Meccanica
Studi di ingegneria
Altri comparti
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
8,4
4,9
4,6
7,9
8,7
4,1
3,7
9,5
4,2
15,3
6,9
4,8
8,7
7,0
3,3
7,2
6,2
5,1
3,8
8,0
4,7
15,1
8,4
8,0
3,8
7,1
4,3
6,3
6,0
3,8
2,9
4,6
3,7
12,6
11,5
4,4
10,7
9,2
3,6
7,8
5,6
3,6
-3,1
5,0
5,6
9,1
11,9
6,0
2,3
4,3
-1,0
0,0
-3,1
-0,5
-6,8
-4,5
1,3
-6,2
5,0
1,2
6,9
2,1
-0,8
1,5
-0,5
-0,1
-6,1
0,4
1,8
-3,5
0,4
1,6
Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio
Tabella 9: redditività del capitale proprio (valori percentuali)
Totale
Micro imprese
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
OEM
Componentisti
Gomma-plastica-chimica
Lavorazione metalli
Produzione metalli
Meccanica
Studi di ingegneria
Altri comparti
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
Piemonte
Emilia-Romagna
2001
2002
2003
2004
0,1
5,9
1,6
9,2
3,3
9,5
0,4
6,8
-0,5
4,4
6,0
1,7
-5,8
6,4
16,3
6,9
3,5
7,9
10,9
6,9
-3,6
14,1
-3,4
29,3
6,1
1,1
0,1
6,0
6,6
15,6
4,5
8,5
0,7
7,6
-0,8
4,1
7,3
1,5
-7,0
6,6
13,2
10,1
-0,2
9,6
4,7
7,9
5,8
10,3
-0,2
25,6
7,6
6,0
-0,8
3,4
5,2
8,9
1,3
5,4
1,8
4,8
-2,2
1,9
3,2
0,8
-0,9
3,8
-2,9
9,5
2,4
7,2
5,6
1,7
-12,8
3,0
1,2
24,3
10,9
2,7
-1,8
8,1
10,7
12,2
5,4
7,0
3,7
9,3
-5,4
7,7
0,9
9,4
-1,2
7,7
11,9
17,1
4,1
9,5
5,7
3,7
-27,4
8,5
8,0
10,9
17,2
1,0
Fonte: Elaborazione Ceris-Cnr e IPL su dati di bilancio
D04–01 D04–03
-1,9
2,2
9,1
3,0
2,1
-2,5
3,4
2,6
-4,9
3,3
-5,0
7,7
4,6
1,2
-4,4
10,1
0,6
1,6
-5,2
-3,2
-23,8
-5,5
11,4
-18,4
11,1
-0,1
-1,0
4,7
5,4
3,3
4,1
1,6
1,9
4,5
-3,2
5,8
-2,3
8,6
-0,3
3,8
14,8
7,6
1,7
2,3
0,1
2,0
-14,6
5,5
6,8
-13,3
6,3
-1,6
232
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Regolazione e condizioni del lavoro
Strategia aziendale globale – Rappresentanza
globale dei lavoratori? I casi Volkswagen e
DaimlerChrysler
Torsten Müller, Hans-Wolfgang Platzer, Stefan Rüb
1 Introduzione
Nell’ambito del dibattito allargato sul tema della globalizzazione, da qualche
tempo ci si interroga se, e con quale entità, una nuova qualità della
globalizzazione aziendale, le cui caratteristiche specifiche vengono prese in
esame di seguito, abbia ostacolato, trasformato o svuotato di significato i
dispositivi nazionali per la regolamentazione della conflittualità nelle
strutture delle relazioni industriali. E se inoltre un tale sviluppo richieda e al
contempo promuova la creazione di regolamenti e istituti transnazionali.
Il dibattito verte su alcuni interrogativi centrali:
· Quali sono i meccanismi e le relazioni di causa che legano la dinamica
evolutiva della transnazionalizzazione economica e aziendale e quella
della rappresentanza dei lavoratori e le strategie sindacali?
· Quali fattori (e a quale livello) sono utili a determinare la
transnazionalizzazione delle relazioni industriali nelle aziende
internazionali e quanto sono efficaci?
· Fino a che punto sono diffusi gli strumenti esistenti per la
rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale globale?
· Quali requisiti preliminari, in termini sia di struttura che di attori,
devono essere presenti perché si realizzi un sistema di norme del lavoro
che “travalichino i confini nazionali”?
Il progetto di ricerca condotto dagli autori e basato sulla comparazione di
studi di caso, persegue l’obiettivo di delineare alcune risposte iniziali a
queste domande, certamente complesse. La ricerca ha esaminato due aziende
che operano a livello globale in quattro settori industriali. Esse sono:
· Due aziende chimiche tedesche: Bayer e BASF.
· Due aziende alimentari: Nestlé (Svizzera) e Kraft Foods (USA).
· Due società tedesche di servizi finanziari: Deutsche Bank e Allianz.
236
·
Le due case automobilistiche tedesche, Volkswagen e DaimlerChrysler,
su cui si incentra il presente contributo.
Dopo una breve esposizione per contestualizzare lo sviluppo delle relazioni
industriali transnazionali a livello globale, abbiamo messo a confronto
Volkswagen e DaimlerChrysler, che possiamo considerare come pionieri nel
campo delle relazioni industriali globali.
In entrambi i casi, le strutture corporate transregionali hanno incentivato lo
sviluppo di dispositivi globali nelle relazioni industriali a livello aziendale. In
particolare, quasi contemporaneamente nelle due aziende sono stati siglati
accordi per la creazione di comitati aziendali mondiali (world works
councils) e un impegno per l’adozione di standard sociali minimi nell’intera
struttura. Ci sono tuttavia differenze significative tra le due aziende per
quanto riguarda l’importanza e la configurazione delle relazioni industriali a
livello di gruppo, il che riflette le differenze esistenti nella strategia
corporate e nella tradizione delle relazioni industriali.
All’inizio degli anni 90, il gruppo Volkswagen si era già dato una struttura a
rete composta da di società integrate globalmente. Questo cambiamento
fondamentale di assetto nel suo profilo transnazionale ha prodotto due effetti
rilevanti: in primo luogo, una crescente competizione all’interno del gruppo
tra i diversi impianti produttivi per assicurarsi investimenti, nuovi modelli e
allocazione di produzioni; in secondo luogo, una trasformazione
dell’organizzazione delle funzioni e delle responsabilità all’interno del
gruppo. In particolare, dai primi anni 90, la strategia di piattaforma e la
conseguente standardizzazione globale della produzione e degli standard
delle tecnologie di processo hanno eliminato il tradizionale gap di
‘modernità’ esistente tra le unità operative del gruppo in Germania e nel
resto del mondo, esponendo quindi tutti gli impianti, all’interno della rete
produttiva integrata globalmente, a una competizione sistematica su costi,
produttività e modernizzazione.
In contrasto, il gruppo DaimlerChrysler è più tedesco-americano che
globale. Lo sviluppo e l’espansione del gruppo DaimlerChrysler-Mitsubishi
rappresentano una strategia da triade, per la quale i tre mercati principali
vengono riforniti con marques diverse e da aziende che operano
sostanzialmente in autonomia. Mercedes-Benz persegue principalmente una
strategia di esportazione globale con una rete distributiva mondiale; solo
raramente apre installazioni produttive all’estero e in massima parte solo per
eludere tariffe penalizzanti. Sebbene l’azienda abbia tentato di stabilire
forme di collaborazione e sinergie con società precedentemente indipendenti,
gli esiti non sono stati soddisfacenti. Tale approccio non è stato tuttavia
237
adottato per la marque Mercedes-Benz, considerata il gioiello del gruppo,
gestito, per ragioni di marketing, come un’attività produttiva totalmente
indipendente dal punto di vista tecnico.
2 Globalizzazione economica, aziende
relazioni industriali transnazionali
globali
e
Fermo restando le continue controversie sulla natura della globalizzazione e
l’interrogativo se questa rappresenti un fenomeno qualitativamente nuovo di
costruzione sociale transnazionale – e se sì, da quando – intendiamo
presentare di seguito le conclusioni da noi elaborate a partire dai risultati
della nostra ricerca e dagli studi di caso.
In base a una serie di tendenze evolutive della globalizzazione sia economica
che aziendale, appare evidente che, a partire dagli anni 80, si è avviata una
nuova fase di globalizzazione più intensa e dinamica. Tali tendenze
comprendono un significativo aumento degli investimenti diretti e in
portafoglio, come espressione e conseguenza di un processo nel quale la
competizione tra le aziende non si sviluppa più soltanto (o principalmente)
sui mercati dei beni di consumo, ma anche, e sempre con maggiore
rilevanza, sui mercati finanziari e dei capitali. Le società globali e
transnazionali sono il motore propulsivo di questo processo, ma ne sono a
loro volta controllate.
La tendenza verso la ‘finanziarizzazione’ delle decisioni aziendali è spesso
accompagnata da cambiamenti di ampia portata nell’organizzazione, che,
oltre al mutamento delle logiche decisionali in merito alle localizzazioni
internazionali, vengono espressi in termini di trasformazione qualitativa delle
forme transnazionali di controllo interno e della strategia corporate.
Le recenti innovazioni nella strategia corporate sono inoltre caratterizzate
dalla rapida crescita di nuovi processi di razionalizzazione transnazionale
(riconfigurazione di catene di valore), da una strategia di unità operative
flessibili, dall’importanza di modelli produttivi comprovati, o benchmark, e
dal predominio di un approccio basato sul valore dell’azionista, solo per
citare alcune delle principali tendenze. Infine, questi cambiamenti della
struttura e della strategia aziendali sono stati accompagnati, ormai da più di
due decenni, da una crescita significativa nel numero di società multi e
transnazionali.
Sebbene il contesto così mutato possa essere una condizione necessaria per
una rapida e intensa transnazionalizzazione della rappresentanza dei
238
lavoratori, sul singolo luogo di lavoro e, laddove pertinente, delle
organizzazioni sindacali in generale, non è tuttavia sufficiente.
La transnazionalizzazione delle relazioni industriali non segue un semplice
modello di risposta (le relazioni industriali) a una stimolo (economico). Il
modello, o pattern, di causazione è molto più complesso e fortemente
contraddittorio, oltre a essere contrassegnato da numerosi ostacoli
strutturali. Per quanto riguarda il periodo necessario per adeguarsi a un
contesto in mutazione, è anch’esso caratterizzato da numerosi elementi di
inerzia istituzionale.
La transnazionalizzazione delle relazioni industriali e lo sviluppo di strutture
e norme a livello aziendale globale subiscono l’influenza di fattori
determinanti di ordine politico ed economico, che sono specifici dell’azienda
stessa. Allo stesso tempo, e in aggiunta a fattori strutturali ‘obiettivi’,
svolgono un ruolo cruciale anche fattori ‘soggettivi’, in particolare quelli
correlati all’approccio specifico e alla gestione dei problemi, da parte di
attori significativi.
I fattori politici determinanti e i contesti legislativi svolgono anch’essi un
ruolo importante nello sviluppo delle relazioni industriale in un contesto
sopranazionale, come dimostrano gli sviluppi a livello UE (Direttiva
EWC/CAE, istituzionalizzazione del dialogo sociale, ecc.). Sul piano
globale, le condizioni per la creazione di strutture transnazionali per la
rappresentanza degli interessi dei lavoratori nelle aziende globali, al
momento e in un prossimo e prevedibile futuro, corrispondono alle misure
presenti e prevalenti in Europa prima dell’adozione della Direttiva
EWC/CAE. Il numero ridotto di forum europei d’informazione e consulenza
transnazionali nella cosiddetta ‘fase pre-Direttiva’ corrisponde al numero
ridotto di strutture globali per il dialogo, nonostante il ritmo accelerato della
globalizzazione aziendale negli ultimi decenni. In altre parole, senza
l’impulso politico dato dal dispositivo legislativo europeo in materia di
occupazione e lavoro, che ha strutturato, sostenuto e richiesto la
contrattazione su basi obbligatorie, qualsiasi crescita importante delle
strutture transnazionali, come appare evidente nella copertura ‘estensiva’ di
grandi aziende europee da parte dei Comitati Aziendali Europei, sarebbe
inconcepibile. Senza questo impulso politico per sviluppare le relazioni
industriali europee-transnazionali a livello aziendale (di gruppo), è
virtualmente
inconcepibile
che
il
processo
organizzativo
dell’europeizzazione delle organizzazioni sindacali nazionali o il
rafforzamento dei sindacati a livello europeo avrebbero potuto svilupparsi.
In contrasto, né gli strumenti normativi dell’OIL né le linee guida dell’OCSE
239
sulle multinazionali offrono un quadro normativo–regolatorio, né un
trampolino di lancio per la creazione di strutture transnazionali a livello
aziendale: in altre parole, la creazione di strutture bilaterali per il dialogo
globale dipende totalmente da condizioni iniziali puramente volontaristiche e
dal contesto della contrattazione in ciascuna azienda, come analizzato di
seguito. Il contesto politico è in un certo senso favorevole alla negoziazione e
all’accordo sulle condizioni, in altre parole gli accordi aziendali globali, per
garantire standard sociali minimi sulla base di strumenti internazionali
rilevanti (convenzioni fondamentali dell’OIL, linee guida OCSE).
Nonostante si tratti solitamente di leggi ‘soft’, questi strumenti costituiscono
un quadro, regolamentato politicamente, e un insieme di valori a livello
internazionale, che può essere attivato per sostenere la contrattazione
aziendale. Infine, le corrispondenti norme internazionali sono adottate
direttamente e indirettamente attraverso l’impegno e l’auto-regolamentazione
unilaterali delle aziende sotto forma di responsabilità sociale delle imprese.
Tali approcci si sono diffusi in maniera rilevante sotto la spinta di
un’opinione pubblica che si mostra preoccupata per l’impatto della
globalizzazione; ora hanno ora trovato una più stabile rappresentanza
attraverso il Global Compact del Segretario Generale dell’ONU.
Pur lasciando da parte le controversie sul valore politico, sulla sostanza,
l’entità e la sostenibilità di questi approcci volontari, occorre dire che essi
sono ambivalenti dal punto di vista della transnazionalizzazione e della
rappresentanza sul posto di lavoro e sindacale: sebbene in linea di principio
possano promuovere l’inclusione, cioè la partecipazione istituzionale o
procedurale, del lavoratore e da qui rappresentare un elemento o un veicolo
per la transnazionalizzazione delle relazioni industriali a livello aziendale,
possono altresì servire a precludere o ad ostacolare la
transnazionalizzazione, se il management si serve delle iniziative volontarie
per cercare di eludere urichieste o impegni ben più pressanti.
In sintesi, rispetto a quanto fin qui osservato, siamo in presenza di alcune
spinte politiche ufficiali che potrebbero stimolare, sostenere o promuovere lo
sviluppo di relazioni industriali transnazionali in un contesto globale,
indipendentemente dal fatto che ciò si realizzi effettivamente a livello della
singola azienda o con la partecipazione delle organizzazioni sindacali.
Le conseguenze possibili sono due. La prima consiste nel fatto che mai come
ora la via per affrontare i problemi della globalizzazione, o lo sviluppo di
una forma di regolamentazione del lavoro nel contesto globale, da parte delle
organizzazioni sindacali, dovrà sempre più passare attraverso società che
operano a livello globale. La seconda, che soluzioni a livello aziendale, con
240
la creazione di strutture o di accordi sulle regole, sono possibili soltanto
sulla base delle interazioni delle forze in campo e attraverso contrattazioni e
accordi di tipo ‘volontario’.
Qual è quindi la relazione esistente tra questi sviluppi a livello d’impresa e il
più ampio contesto economico e strutturale, tra i fattori afferenti a una
specifica azienda e le percezioni e le strategie degli attori?
1. Le percezioni degli attori nel posto di lavoro e nelle organizzazioni
sindacali, in altre parole il loro punto di vista e la valutazione della
globalizzazione, in termini di opportunità, rischi e necessità di
intervento, variano sostanzialmente, sia tra i nostri otto studi di caso,
che all’interno di una singola azienda, tra i rappresentanti aziendali
(responsabili dei comitati aziendali) e gli attivisti di base, tra i sindacati
nazionali dell’industria e infine tra i sindacati nazionali e le Federazioni
Sindacali internazionali (GUF).
2. A sua volta, la presa di coscienza dell’esigenza di un’azione
transnazionale, a seguito della globalizzazione (del corporate) dipende
dal grado (o valutazione) delle possibilità di compensare o fronteggiare
la pressione verso il cambiamento creato dalla globalizzazione per
mezzo di istituzioni nazionali e forme di regolamentazione della
conflittualità. Raffronti tra gli studi di caso sembrano ipotizzare che da
solo l’elemento spaziale delle unità operative globalizzate di un’azienda
non rappresenta il principale fattore per determinare se la
rappresentanza dei lavoratori sarà riconfigurata su base transnazionale.
Piuttosto, l’identificazione della necessità di un’azione sul piano
transnazionale a seguito della globalizzazione aziendale è il prodotto di
due insiemi specifici di circostanze:
· In primo luogo, una ricollocazione delle decisioni centrali fuori della
portata delle istituzioni nazionali per la co-determinazione e la
partecipazione dei lavoratori;
· In secondo luogo, una centralizzazione transnazionale delle decisioni
e
dell’implementazione
di
strategie
sopranazionali
di
razionalizzazione, insieme al benchmarking delle unità operative, la
competizione tra queste operazioni e la ricollocazione delle unità
operative o la minaccia di agire in tal senso.
3. Anche in presenza di questi fattori e della consapevolezza di dover
intervenire di conseguenza, un’idea specifica di ciò che potrebbe essere
una risposta strategica adeguata varia tra gli organismi di
rappresentanza aziendale e le organizzazioni sindacali. Le risposte
variano da una strategia nazionale di assorbimento (mantenimento di
241
un’attività nel contesto attuale, in cambio di concessioni negoziate), una
risposta vissuta o come prioritaria e fondamentale o semplicemente
come sintomatica di un’assenza di alternative politiche, a una strategia
di transnazionalizzazione limitata della rappresentanza aziendale dei
lavoratori o a una strategia di ampia transnazionalizzazione della
rappresentanza aziendale dei lavoratori. Anche se la strategia di
transnazionalizzazione limitata riconosce l’esigenza di interventi
sopranazionali, non giunge al punto di adattare la sua intera strategia
nazionale verso una compiuta transnazionalizzazione e di cedere risorse
e poteri alla dimensione transnazionale: solo una sfera circoscritta e
limitata viene aperta alla transnazionalizzazione, lasciando così il ‘core
business’ essenzialmente intatto. In contrasto, una strategia
transnazionale ampia considera lo sviluppo di un livello transnazionale
dell’attività, indispensabile per la strategia globale della rappresentanza
aziendale e sindacale. I settori nazionali di attività vengono fortemente
transnazionalizzati con la messa a disposizione di risorse adeguate; si
tende e si è disposti a mettere in comune e condividere il potere, la
strategia persegue la finalità di permettere al livello transnazionale di
influire sulle politiche e sulle attività nazionali.
Indipendentemente dal fatto che un’azienda si trovi o meno a operare
globalmente, le diverse varianti di strategie transnazionali posso o
correlarsi solo sul piano europeo ai Comitati Aziendali Europei
(determinazione delle priorità in presenza di risorse limitate,
accettazione delle barriere strutturali che influiscono sullo spazio
globale) ed estendersi a spazi transregionali, o diventare globali per una
serie di considerazioni strategiche.
4. La scelta specifica della strategia da adottare e la sua implementazione
sono fortemente influenzate da modelli preesistenti, che fanno
riferimento alle relazioni industriali dell’impresa (rapporti di potere, stili
e procedure collaborativi o confrontazionali/antagonistici, legalistici o
pragmatici-informali per la risoluzione dei problemi). Le variazioni
riconoscibili di questi fattori nelle società controllanti presentano
relazioni di causa, non certo scevre da ambiguità, nei confronti della
pratica aziendale di transnazionalizzazione. Tuttavia, emergono
indicazioni che relazioni industriali tradizionalmente collaborative nella
società capogruppo, basate sui principi della co-gestione, a loro volta
supportate da attività altamente professionali dei comitati aziendali e da
corrispondenti posizioni di forza dei lavoratori (densità di
242
sindacalizzazione in azienda, ecc.) sono una condizione essenziale per lo
sviluppo di strumenti e istituti transnazionali.
5. Si può distinguere l’emergere di un modello strategico di base da parte
dei lavoratori, all’interno dei diversi tentativi di estendere percorsi
nazionali, testati e consolidati, per la risoluzione del conflitto e la
creazione del consenso verso una direzione transnazionale. Questo
modello di base – il tentativo di delineare una forma di
transnazionalizzazione ‘dipendente dal percorso‘ – può essere messo in
pratica soltanto se si soddisfano ulteriori condizioni. La nostra ricerca
ha evidenziato la presenza di pionieri e ‘imprenditori politici’ tra i
lavoratori: per questi individui, lo sviluppo di strutture unilaterali o
bilaterali negoziate con il management diventa un progetto (personale).
In presenza di accordi bilaterali sulle strutture transnazionali di dialogo
o strumenti normativi a portata globale, è altresì un elemento sine qua
non che le aziende, da parte loro, siano aperte, in linea di principio, alle
soluzioni negoziate su base volontaria e considerino loro interesse
adottare forme specifiche di cultura aziendale transnazionale e di
partecipazione dei lavoratori.
Questa serie di fattori determinanti che abbiamo derivato e generalizzato dal
nostro studio, insieme all’importanza di ciascun fattore e delle sue
interazioni, serve a sottolineare i numerosi ostacoli e le diverse barriere che
si frappongono allo sviluppo di relazioni industriali transnazionali. Si
devono verificare diverse condizioni favorevoli, che si rafforzano
reciprocamente, prima che si possano creare strutture e accordi globali con
un certo grado di sostanza e di qualità innovativa, come evidenziato dai due
casi della Volkswagen e della Daimler Chrysler, che abbiamo analizzato e
raffrontato e che presentiamo di seguito.
3 I casi di Volkswagen e Daimler Chrysler
1
Il World Group Council della Volkswagen
La Volkswagen (VW), la multinazionale automobilistica tedesca, conta circa
320.000 dipendenti in tutto il mondo, di cui la metà in Germania, circa
70.000 nel resto d’Europa e i rimanenti ripartiti tra Brasile, Messico,
Sud-Africa e Argentina. Una Commissione internazionale per il gruppo VW
è stata istituita dall’International Metalworkers’ Federation (IMF) fin dal
1979. Questo organismo, che si è riunito raramente (nel 1986 e
243
successivamente nel 1993), perseguiva la finalità principale di sostenere lo
scambio di esperienze.
Tuttavia, oltre al dibattito interno al World Company Committee
(Commissione Aziendale Mondiale) dell’IMF, siamo in presenza di una
radicata e continua tradizione di collaborazione internazionale tra i
lavoratori della VW, esemplificata negli sforzi compiuti sia dai
rappresentanti dei lavoratori che dai lavoratori stessi in Germania, in
particulare nella sede centrale di Wolfsburg, per organizzare azioni di
solidarietà e fornire e far circolare informazioni in tutti gli impianti VW nel
mondo. Tali attività comprendevano: contratti bilaterali tra rappresentanti
dei lavoratori tedeschi e rappresentanti locali di lavoratori nelle consociate
straniere; viaggi di studio e scambio per i rappresentanti dei lavoratori nelle
consociate straniere per permettere loro di comprendere la pratica sindacale
e l’attività dei comitati aziendali della VW in Germania; raccogliere fondi
dei lavoratori tedeschi per sostenere organizzazioni sindacali indipendenti in
Brasile e Sudafrica. Agli inizi degli anni 80 è stato inoltre istituito un
‘gruppo di lavoro per la solidarietà internazionale’ composto da delegati di
fabbrica, maestranze iscritte al sindacato tedesco of IG Metall e membri dei
comitati aziendali. Questo gruppo mantiene stretti contatti con i
rappresentanti dei lavoratori della VW negli altri paesi, offre sostegno
pratico e organizza seminari internazionali e programmi di intrattenimento
per i rappresentanti stranieri che vengono in Germania per incontri o
seminari.
Alla fine degli anni 80, in presenza di questa lunga tradizione di contatti
internazionali tra lavoratori e dopo che una terza unità operativa era venuta
ad aggiungersi alle altre già presenti in Europa, con l’acquisizione della
SEAT, i rappresentanti dei lavoratori tedeschi decisero di affrontare l’idea di
istituire un CAE con l’avvio di trattative con i rappresentanti dei lavoratori
belgi e spagnoli. La prima riunione di un Comitato di Gruppo Europeo si è
tenuta il 31 agosto 1990 – senza un accordo formale, ma con la
partecipazione della direzione centrale. Nel febbraio 1992, fu siglato un
accordo di CAE, cioè circa due anni prima dell’adozione della Direttiva
EWC/CAE.
Il Comitato di Gruppo Europeo fu un passo intermedio verso la creazione di
un Comitato Mondiale del Gruppo VW. La transizione avvenne senza
scosse. Inizialmente, a partire dal 1995, uno dei due incontri annuali del
CAE si allargò fino a diventare una ‘Conferenza mondiale dei lavoratori’
alla quale furono invitati i rappresentanti delle unità operative VW in
Brasile, Messico, Sudafrica e Argentina, per presentare i loro rapporti e
244
ricevere informazioni, insieme ai delegati europei. La terza conferenza,
tenutasi nel maggio 1998 nella sede direzionale della consociata VW Skoda
a Mlada Beleslav nella Repubblica Ceca, sancì la costituzione del Comitato
Mondiale del Gruppo VW (WGC). Un accordo scritto, che venne a
cementare l’intesa con il management, fu siglato un anno più tardi nel
maggio 1999.
Punti chiave dell’accordo per World Group Council Volkswagen
(WGC)
Il preambolo dell’accordo di WGC della Volkswagen definisce una serie di
principi guida essenziali per il ruolo del WGC e le sue relazioni con il
management del gruppo. Essi sono: compatibilità tra responsabilità sociale e
competitività; garantire che tale compatibilità sia un obiettivo del dialogo
sociale globale; impegno da parte del WGC per la condivisione collaborativa
della responsabilità; impegno da parte del management per il riconoscimento
globale di organizzazioni sindacali libere, libertà di associazione ed elezione
libera e diretta dei rappresentanti dei lavoratori, in tutti gli impianti del
gruppo VW.
Il WGC si riunisce almeno una volta all’anno e i temi da affrontare, in base
all’importanza per le diverse realtà produttive, sono i seguenti: salvaguardia
dell’occupazione e dei siti produttivi; sviluppo delle strutture del gruppo;
produttività e strutture di costo; relazioni di fornitura all’interno del gruppo;
condizioni del lavoro (p.e. orari di lavoro, struttura salariale e del lavoro);
indennità sociali aziendali; nuove tecnologie produttive; nuove forme di
organizzazione del lavoro; salute e sicurezza; protezione ambientale; effetti
rilevanti delle decisioni e sviluppi politici sul gruppo VW; sviluppo di un
quadro politico ed economico per l’attività internazionale. Il WGC deve
essere consultato con regolarità in merito a trasferimenti programmati della
produzione, se questi hanno effetti interregionali, per far sì che la posizione
di WGC sia presa in considerazione durante il processo decisionale.
I 27 seggi del WGC sono distribuiti come segue:
Tab. 2 – Distribuzione dei 27 seggi del WGC
Paese
Germania
Spagna
Belgio
Repubblica Ceca
Slovacchia
No. di componenti
11
3
1
1
1
Per marque
8 Volkswagen, 2 AUDI, 1 VW Sachsen
2 SEAT, 1 VW Navarra
1 VW Bruxelles
1 Skoda
1 VW Slovacchia
245
Polonia
RU
Portogallo
Totale Europa
Messico
Brasile
Argentina
Sudafrica
Totale Non-Europa
1
1
1
20
1
4
1
1
7
1 VW Poznan
1 Rolls-Royce/Bentley
1 AutoEuropa
1 VW de Mexico
4 VW do Brazil
1 VW Argentina
1 VW Sudafrica
Il WGC elegge un consiglio esecutivo responsabile dell’organizzazione degli
incontri. Ogni marque della VW e ogni regione in cui la VW è presente
hanno almeno un delegato rappresentato nel consiglio.
Consulenti interni ed esterni possono essere chiamati a partecipare agli
incontri del WGC, previa risoluzione del consiglio esecutivo. Il management
del gruppo VW fornisce un budget annuale per il WGC. Le spese di viaggio
dei delegati WGC vengono coperte dalle rispettive società del gruppo. Oltre
a questo sostegno finanziario per il WGC, le società del gruppo forniscono
anche le infrastrutture necessarie affinché i componenti del WGC possano
espletare i propri compiti, ivi compresa un’adeguata formazione.
Struttura e attività del WGC
L’accordo che ha istituito il Comitato Aziendale del Gruppo europeo è
servito da modello per il WGC, tanto da essere adottato quasi parola per
parola, con alcune variazioni nel preambolo e nelle indicazioni relative alla
nomina dei delegati. L’accordo per WGC è valido solo per le società di cui
la VW è socia di maggioranza. I componenti devono essere ‘rappresentanti
delle maestranze, eletti liberamente e legittimati democraticamente’. Poiché
sono presenti strutture di rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale in
tutti gli impianti della VW nel mondo, le procedure per la nomina dei
delegati non hanno mai incontrato alcun problema. Con più di 40 unità
produttive in tutto il mondo, non è stato ritenuto fattibile avere un
rappresentante per ciascun impianto e il numero di delegati è stato limitato a
27. Questo rappresenta uno scostamento dalla formula utilizzata dal
comitato europeo, che comprende un rappresentante per ciascun impianto.
Il WGC ha un presidente, un segretario generale e un consiglio esecutivo.
Sia l’attuale presidente che il segretario generale provengono dalla sede
centrale della casa madre tedesca. Il presidente è la figura centrale della
rappresentanza dei lavoratori nel gruppo VW e ricopre anche la carica di
presidente del comitato del gruppo europeo, del comitato aziendale del
gruppo VW in Germania, del comitato aziendale centrale di Volkswagen
246
AG, del comitato aziendale di Wolfsburg ed è membro del comitato
esecutivo del consiglio di sorveglianza della società.
La composizione del consiglio esecutivo del WGC comprende i
rappresentanti delle singole marques e/o regioni, come segue:
Tab. 3 – Composizione del consiglio esecutivo del WGC
Marque/Regione
VW
AUDI
SEAT
Skoda
Nord America
Sud America
Totale
Competenza
Unità operative VW in Germania, Belgio, RU,
Spagna, Polonia, Slovacchia a Sudafrica
Unità operative AUDI in Germania e Ungheria
Unità operative SEAT in Spagna
Unità operative Skoda nella Repubblica Ceca
Impianto VW in Messico
Unità operative VW in Brasile e Argentina
Numero
2
1
1
1
1
1
7
Un funzionario sindacale a tempo pieno ha il diritto di partecipare alle
riunione sia del WGC che del suo consiglio esecutivo. Lo statuto del WGC
istituisce enti di coordinamento a livello regionale per garantire uno scambio
reciproco ed efficace di informazioni tra gli impianti e il consiglio esecutivo.
Gli enti regionali di coordinamento nominano un delegato che siede nel
consiglio esecutivo.
L’istituzione del WGC è stata l’espressione della filosofia del top
management VW che persegue una più stretta collaborazione con i
rappresentanti dei lavoratori e le organizzazioni sindacali, nonché una
maggiore trasparenza nei confronti delle maestranze. Tutto ciò è collegato
all’esperienza messa in atto in passato, al fine di un’adeguata risoluzione dei
conflitti grazie al coinvolgimento e al sostegno dei rappresentanti dei
lavoratori. L’accordo del WGC fa dunque esplicito riferimento al principio
ampiamente consolidato e testato nei comitati aziendali tedeschi (ed europei)
della VW per la ‘risoluzione collaborativa dei conflitti’ e cerca di allargarlo
alla collaborazione tra il management centrale e il WGC.
Un esempio concreto dell’applicazione del principio ‘di risoluzione
collaborativa del conflitto’ a livello globale risale alla fine del 1998, quando
si risolse una ‘crisi’ nelle unità operative brasiliane della VW grazie
all’organizzazione sindacale brasiliana CUT che accettò l’introduzione della
settimana lavorativa di quattro giorni e un piano di prepensionamenti, in
cambio di una garanzia occupazionale di cinque anni a favore dei lavoratori
di VW do Brazil. Tali misure, che richiamavano quelle concordate tra IG
Metall e la VW in Germania nel 1993, furono rese possibili solo grazie a un
247
grado elevato di fiducia personale, di trasparenza nelle informazioni e al
grande e continuato sostegno dei colleghi tedeschi per tutto il permanere
della crisi.
Il WGC è un forum informativo e consultivo che si occupa in particolare dei
problemi strategici collegati allo sviluppo del gruppo su scala internazionale.
In pratica l’attività informativa e consultiva del WGC non differisce da
quella dell’EWC/CAE, il che significa che tutto il consiglio del gruppo VW
partecipa alle riunioni del WGC e condivide informazioni con trasparenza e
completezza, un segno dell’importanza che il management assegna a questo
istituto.
L’accordo per il WGC alla VW sancisce un preciso diritto di consultazione,
nell’eventualità di ricollocazioni programmate con effetto sopraregionale. Il
WGC o il suo consiglio esecutivo devono essere informati delle
ricollocazioni programmate il più rapidamente possibile. Essi hanno il diritto
di esprimere un parere entro un periodo di tempo concordato. Il WGC ha
inoltre il diritto di richiedere riunioni consultive formali relative alle proposte
di ricollocazione.
I delegati del WGC intendevano inoltre sviluppare l’istituto ben oltre il suo
ruolo informativo e consultivo, trasformandolo in un organismo in grado di
negoziare e concludere accordi con il management del gruppo. Un passo in
questa direzione è stato intrapreso nel giugno del 2002 con la conclusione di
una ‘dichiarazione sui diritti sociali e le relazioni industriali alla
Volkswagen’, che definisce una serie di standard concordati su diritti sociali
e linee guida per relazioni ‘accettabili’ tra i rappresentanti dei lavoratori e il
management.
Il WGC della VW continuerà con ogni probabilità a svolgere un ruolo
centrale all’interno del sistema generale di rappresentanza dei lavoratori.
Poiché la VW è una rete mondiale integrata, in futuro sarà necessario
trasferire per quanto possibile la discussione e la negoziazione al livello di
comitato di gruppo. Il CAE della VW, come istituto regionale, rappresenterà
un elemento all’interno di un sistema generale ‘multi-level’. In un sistema
pienamente sviluppato, la sua funzione consisterà nel rappresentare gli
interessi a livello regionale. Questa interazione dei diversi forum deve essere
ancora sviluppata appieno.
248
2
Rappresentanza
DaimlerChrysler
globale
dei
lavoratori
della
La DaimlerChrysler è una delle maggiori case automobilistiche del mondo,
con circa 370.000 dipendenti. A metà degli anni 90, l’allora Daimler Benz
AG (sede centrale in Germania), modificò sostanzialmente la propria
strategia aziendale, passando da una diversificazione orientata all’export a
un approccio ‘multiregionale’ che identificava nella divisione automotive il
core business dell’azienda, nell’intento di fare della Daimler Benz AG una
casa automobilistica globale. A seguito di questo mutamento strategico, la
società non solo dismise quelle attività che non erano più ritenute parte del
core business, ma estese in maniera consistente la sua divisione automotive,
grazie alla fusione con l’americana Chrysler Group, per fondare la
DaimlerChrysler AG (con sede legale in Germania) nel 1998 e alle alleanze
strategiche con Mitsubishi Motors e Hyundai Motor Company nel 2000-01.
DaimlerChrysler divenne socia di minoranza delle due società, con il 34%
della Mitsubishi e il 10% della Hyundai.
Questo cambiamento di strategia, in particolare la fusione tra Daimler e
Chrysler, che portò a un fortissimo aumento dei dipendenti della
multinazionale nel Nord America, spinse i dirigenti del comitato aziendale
centrale della DaimlerChrysler in Germania a cercare di creare strutture di
rappresentanza mondiale dei lavoratori. I rappresentanti dei lavoratori
tedeschi decisero di stabilire strutture mondiali di rappresentanza non certo
in ragione del potenziale pericolo di ‘razionalizzazione’ a seguito della
fusione. Dato che le due aree di attività, Mercedes-Benz e il Chrysler Group,
coprivano regioni e segmenti di mercato diversi e il management aziendale
aveva dichiarato esplicitamente di voler mantenere la Mercedes-Benz come
marque di punta, le due componenti dell’azienda appena fondata non
entravano in una situazione di concorrenza tale da giustificare una più
stretta collaborazione transnazionale tra i lavoratori. Piuttosto, la
motivazione principale per i rappresentanti tedeschi era la loro
preoccupazione che la fusione potesse condurre a uno spostamento delle
strutture decisionali e di potere sia per il management che per le maestranze.
In tal senso, le loro pressioni per la creazione di strutture mondiali di
rappresentanza erano dettati dall’esigenza di cementare la loro posizione di
forza, estendendone l’ambito di intervento sul piano internazionale.
Prima della fusione del 1998, lo sviluppo di contatti transnazionali non era
ritenuto un obiettivo essenziale nelle attività del comitato aziendale tedesco
249
della Daimler Benz. Tuttavia, contatti transnazionali informali tra singoli
delegati di comitati aziendali e rappresentanti sindacali in Germania e
sindacalisti delle unità operative dell’azienda in Brasile e in Sudafrica si
erano mantenuti costanti a partire dai primi anni 80. Questi contatti
informali hanno rappresentato un punto di partenza per lo sviluppo di una
rete sindacale transregionale ‘non ufficiale’ alla DaimlerChrysler, che
ancora esiste e riunisce gli attivisti e i delegati sindacali dei siti produttivi
dell’azienda in Europa, Nord e Sud America e Sudafrica.
Relazioni industriali transregionali ‘ufficiali’ hanno invece conosciuto una
rapida crescita, slegata a questa rete informale di attivisti, a seguito della
fusione e in presenza di tre diversi aspetti:
Nel primo, la rappresentanza a livello di consiglio fu assegnata alla
dimensione transnazionale nel 1998, destinando un seggio del consiglio di
sorveglianza della DaimlerChrysler a un funzionario del sindacato dei
lavoratori del settore auto in USA (International Union, United
Automobile, Aerospace and Agricultural Implement Workers of America,
UAW);
Nel secondo, furono create strutture mondiali di rappresentanza a livello
aziendale, con il ‘Gruppo di lavoro internazionale per l’automotive’, che,
dopo un periodo di prova di quattro anni fu trasformato nel Comitato
mondiale dei lavoratori (WEC) nel luglio del 2002;
Nel terzo, nel settembre del 2002, fu siglato un accordo globale sui
principi della responsabilità sociale della DaimlerChrysler, gettando così
le basi per la definizione di standard minimi di lavoro da adottare in tutto
il mondo.
Le diverse fasi che hanno portato allo sviluppo della rappresentanza
mondiale dei lavoratori della DaimlerChrysler vengono descritte e analizzate
in dettaglio di seguito.
Estensione transregionale della co-determinazione
Immediatamente dopo la fusione tra Daimler Benz e Chrysler nel 1998, i
principali rappresentanti del comitato aziendale tedesco e del sindacato
metalmeccanici tedesco, IG Metall, si incontrarono per discutere insieme in
merito alla risposta strategica più appropriata da dare e in particolare come
migliorare la collaborazione con l’UAW. Inizialmente, la proposta di
assegnare un seggio nel consiglio di sorveglianza all’UAW fu ritenuta
alquanto controversa (il diritto societario tedesco stabilisce una struttura
amministrativa a due livelli, che prevede un consiglio di sorveglianza, con la
presenza di rappresentanti dei lavoratori, che controlla un consiglio di
250
gestione responsabile della gestione routinaria). In particolare, IG Metall era
preoccupato che ciò potesse costituire un precedente, che portasse ad
analoghe richieste in altre aziende. Dopo lunghe discussioni, l’allora
presidente di IG Metall, Klaus Zwickel, prese la decisione finale di offrire
all’UAW uno dei seggi di IG Metall nel consiglio di sorveglianza a
dimostrazione della solidarietà con i lavoratori americani.
Anche se l’UAW finì per accettare l’offerta, i rappresentanti sindacali
americani reagirono dapprima con alcune riserve, anche perché il concetto di
rappresentanza in stile tedesco, declinato in consiglio di sorveglianza e
co-determinazione, era loro totalmente estraneo. Anche qui la questione
venne gestita ai massimi livelli dell’organizzazione sindacale. In un primo
momento, Stephen P. Yokich, presidente UAW, entrò nel consiglio.
Successivamente, il ruolo fu assunto da Nate Gooden, vice presidente UAW
con competenze generali per la Chrysler negli USA.
A seguito della fusione, non furono solo i delegati dei lavoratori nel consiglio
di sorveglianza a ‘transnazionalizzarsi’. La composizione della delegazione
del management nel consiglio di sorveglianza fu anch’essa modificata, con
metà dei seggi assegnati a membri del consiglio della Chrysler: anch’essi
furono inizialmente molto sospettosi nei riguardi del concetto di consiglio di
sorveglianza. La loro principale preoccupazione era che la presenza dei
rappresentanti dei lavoratori potesse precludere una discussione aperta e
critica della politica aziendale, durante le assemblee del consiglio di
sorveglianza.
Per quanto riguarda la composizione del consiglio di sorveglianza dopo la
fusione, esso comprendeva, come in precedenza per la Daimler Benz, 20
seggi, assegnati in linea con il principio di pari rappresentanza: 10 seggi
ciascuno per il management e i lavoratori. Se la delegazione del management
è composta da cinque americani e cinque tedeschi, la composizione della
delegazione dei lavoratori è un po’ più complessa. Secondo la legge tedesca i
10 rappresentanti dei lavoratori che siedono nel consiglio di sorveglianza
devono comprendere tre rappresentanti sindacali e sette lavoratori
dell’azienda, occupati in Germania. In tal senso, l’unico modo per assegnare
un seggio nel consiglio di sorveglianza a un rappresentante americano era
che IG Metall lo offrisse volontariamente all’UAW. La delegazione dei
lavoratori che siede nel consiglio di sorveglianza è quindi composta da sette
dipendenti dell’azienda (la componente tedesca), due funzionari di IG Metall
e un delegato UAW.
Fu inoltre istituita una ‘commissione lavoro’, che comprendeva i
rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza, più altri delegati
251
di UAW e CAW. L’idea di istituire la commissione lavoro fu concepita in
risposta alla volontà espressa dai rappresentanti del management
nordamericano nel consiglio di sorveglianza di tenere tra loro incontri
preparatori alle riunioni del consiglio di sorveglianza, per potere così avere
una discussione aperta sulle politiche aziendali e includere quei membri del
consiglio di amministrazione della Chrysler senza un seggio nel consiglio di
sorveglianza. Il management Daimler cercava un’intesa su questo punto con
i rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza; questi ultimi
concordarono su questa soluzione, perché permetteva loro di tenere incontri
preparatori allargati a un numero maggiori di partecipanti.
La commissione lavoro, che si riunisce da quattro a sei volte l’anno, ha
accesso alle stesse informazioni che il consiglio di sorveglianza riceve dal
management. Le funzioni principali della commissione sono: in primo luogo,
garantire che i delegati dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza parlino
con una voce sola; in secondo luogo, garantire la partecipazione dei
rappresentanti dei lavoratori nordamericani in tutte le decisioni del
management, che interessano le maestranze nordamericane, offrendo loro
accesso diretto alle informazioni del management centrale nel consiglio di
sorveglianza.
Strutture globali di rappresentanza
L’iniziativa d’istituire un sistema di rappresentanza globale dei lavoratori fu
avviata nel 1998 dal comitato aziendale centrale in Germania, che prese
contatti con la direzione centrale, sostenendo che questo passo era necessario
a seguito del ‘balzo verso la transnazionalizzazione’ rappresentato dalla
fusione. Sebbene il management riconoscesse la legittimità della richiesta, si
rifiutò di chiamare questo istituto ‘comitato aziendale’. Le due parti
concordarono invece di istituire un Gruppo di lavoro Internazionale per
l’Automotive su base informale e per un periodo di prova di quattro anni.
Dopo la scadenza del periodo di prova nel luglio del 2002, il Gruppo fu
formalizzato ufficialmente con un accordo scritto sotto forma di una
Commissione Mondiale dei Lavoratori (WEC), senza modifiche sostanziale
alla sua composizione, funzioni e attività.
L’accordo WEC applica il modello dell’intesa per i Comitati Aziendali
Europei della DaimlerChrysler (EWC/CAE) – concluso originariamente nel
1996 – ed è una versione annacquata di quest’ultimo. In base all’accordo,
l’obiettivo generale della WEC consiste nel promuovere una cultura
collaborativa delle relazioni industriali e facilitare il processo d’integrazione,
permettendo ai rappresentanti dei lavoratori di tutte le unità dell’azienda nel
252
mondo di scambiarsi informazioni e opinioni e promuovendo il dialogo con il
management centrale su temi economici e sociali di portata globale. L’intesa
prevede un’assemblea annuale tra WEC e management del gruppo. Tutti i
costi necessari alla gestione della WEC e del consiglio esecutivo sono
coperti da DaimlerChrysler AG. Le spese di viaggio e pernottamento,
insieme alle compensazioni per il mancato guadagno dei membri WEC sono
coperti dalle varie società del gruppo. Nei costi coperti è prevista anche la
traduzione nelle diverse lingue.
La WEC è un organismo informativo e consultivo istituito per la promozione
del dialogo con il management aziendale su temi economici e sociali di
importanza globale, nonché per l’intensificazione degli scambi di opinioni ed
esperienze tra i rappresentanti delle unità operative in tutto il mondo.
Attualmente la WEC è composta da 13 membri, sei dalla Germania, tre
dagli USA e uno ciascuno da Canada, Brasile, Sudafrica e Spagna. Il
numero limitato di delegati, in particolare rispetto al CAE, che ha 30
membri, riflette da un lato la volontà del management di mantenere i costi
della WEC entro limiti ragionevoli e, dall’altro, la scelta dei rappresentanti
dei lavoratori tedeschi di creare un organismo snello ed efficiente.
È importante osservare che non tutti i siti della DaimlerChrysler nel mondo
hanno trovato rappresentanza nella WEC. L’accordo non contiene né una
formula per l’assegnazione dei seggi, né criteri specifici di inclusione. In
pratica, la selezione dei paesi da rappresentare nella commissione tiene conto
di due considerazioni fondamentali: la prima è che i paesi rappresentati
contino su una forza lavoro numerosa; la seconda che nel paese siano
presenti strutture ‘accettabili’ di rappresentanza dei lavoratori. Di
conseguenza, tanti paesi, quali l’Argentina, l’Indonesia, il Messico, la
Turchia e il Giappone non sono rappresentati.
Ogni quattro anni, la WEC elegge un consiglio esecutivo con un presidente e
un vicepresidente, che serve da primo punto di contatto per il management,
nell’eventualità che emergano rilevanti problematiche globali nel periodo che
intercorre tra un’assemblea e l’altra. Attualmente a ricoprire l’incarico di
presidente della WEC è Erich Klemm, che è anche presidente del CAE, del
comitato aziendale centrale tedesco e del comitato aziendale del maggiore
impianto produttivo tedesco della DaimlerChrysler a Sindelfingen. Nate
Gooden, vice-presidente di UAW, è vice presidente della WEC. Klemm e
Gooden, oltre al ruolo che svolgono nel contesto nazionale delle relazioni
industriali, siedono anche nel consiglio di sorveglianza e sono figure centrali
della rappresentanza dei lavoratori alla DaimlerChrysler. In contrasto con
l’intesa per il CAE, l’accordo WEC non contiene alcun riferimento alla
253
possibilità che esperti esterni, quali ad esempio funzionari sindacali
dell’International Metalworkers’ Federation (IMF), partecipino agli incontri.
Di conseguenza, IMF partecipa solo quando è ritenuto necessario, ad
esempio, per stabilire contatti con i rappresentanti di paesi senza delegati
ammessi alla WEC.
Sebbene l’intesa WEC specifichi solo un elenco alquanto generale dei temi
da affrontare durante le normali assemblee (struttura aziendale, situazione
economico-finanziaria dell’azienda, prospettive di sviluppo, produzione e
vendite, sviluppo della situazione occupazionale), la condivisione delle
informazioni è la stessa del CAE. Ciò significa che i membri del consiglio di
gestione partecipano alle riunioni della WEC e condividono apertamente ed
esaurientemente le informazioni. Al momento, l’interazione tra la WEC e il
management centrale e tra i delegati WEC si limita soprattutto allo scambio
di pareri e informazioni.
Con la definizione dei ‘principi di responsabilità sociale delle
DaimlerChrysler’ nel settembre 2002, che furono negoziati parallelamente
all’intesa WEC, quest’ultima compì un passo importante verso
l’ampliamento del suo ruolo al di là della funzione informativa stipulata
nell’accordo, trasformandosi così in un organismo di negoziazione. Gli attori
principali della rappresentganza dei lavoratori tedeschi considerano la
conclusione dell’accordo sui principi sociali una ‘fortunata coincidenza’ per
la WEC, perché i principi rappresentano uno strumento concreto grazie al
quale la WEC si poneva come controparte collettiva nei confronti del
management.
Accordo sui principi della responsabilità sociale
L’accordo sui ‘principi di responsabilità sociale della DaimlerChrysler’ era
stato avviato dai responsabili della rappresentanza dei lavoratori tedeschi,
senza consultare la WEC. La ragione dell’iniziativa era l’annuncio di una
strategia globale per le risorse umane a favore del personale direttivo, da
parte del consiglio di gestione. La controparte dei lavoratori la considerò
un’opportunità per chiedere analoghi principi standardizzati a livello globale
per tutti i lavoratori e le loro strutture di rappresentanza.
La prima bozza fu formulata da un alto delegato tedesco sulla base del
modello IMF di ‘accordo quadro internazionale’, adattato alle circostanze
specifiche della DaimlerChrysler. La prima bozza fornì la struttura di base
per le negoziazioni tra i rappresentanti dei lavoratori e il management.
Quando, durante le trattative, fu reso pubblico che il presidente del consiglio
di amministrazione dell’azienda aveva firmato il Global Compact delle
254
Nazioni Unite, un’iniziativa in base alla quale le aziende sottoscrivono di
rispettare una serie di diritti umani e del lavoro fondamentali e principi
ambientali, esso venne immediatamente assunto dai delegati dei lavoratori e
integrato nell’intesa. Il preambolo dell’accordo fa riferimento al Global
Compact: ‘DaimlerChrysler riconosce la propria responsabilità sociale e i
nove principi che stanno alla base del Global Compact. Per raggiungere
questi obiettivi condivisi, la DaimlerChrysler ha concordare di attenersi ai
suddetti principi con i rappresentanti internazionali dei lavoratori’.
La conclusione di questa intesa si è rivelata controversa per i delegati dei
lavoratori. Se i delegati sudamericani erano a favore, i loro colleghi
statunitensi erano più scettici. Temevano che un accordo di questo genere
potesse avere effetti deleteri per la loro posizione ngli USA, dato che la voce
dell’accordo a sostegno della libertà d’associazione poteva essere utilizzata
come grimaldello per scardinare il controllo di alcune sigle sindacali in
alcuni settori industriali (closed shop). Alla fine, l’accordo siglato affermava
che ‘organizzazioni sindacali e azienda adotteranno i principi democratici
basilari e faranno sì che i lavoratori possano esprimere le loro scelte
liberamente’. L’opposizione iniziale dei delegati nordamericani fu superata e
si costituì un gruppo di lavoro comprendente un delegato ciascuno per
Brasile, Germania e USA, per gestire le negoziazioni con il management. Il
processo negoziale durato nove mesi, che è servito anche a istituire la WEC,
fu completato nel luglio del 2002.
Nell’intesa, DaimlerChrysler riconosce la propria responsabilità sociale e i
nove principi che stanno alla base dell’iniziativa ONU Global Compact, nei
cui confronti si era impegnata nel 2001. I principi specifici concordati
nell’intesa vanno nella direzione delle convenzioni dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro (OIL) ed esprimono l’impegno della
DaimlerChrysler a: rispettare i diritti umani; condannare tutte le forme di
lavoro forzato e infantile; sostenere pari opportunità; astenersi da ogni forma
di discriminazione contro i lavoratori. Oltre a questi impegni di carattere
generale, presenti in gran parte degli accordi globali di questo genere, i
principi sociali della DaimlerChrysler contengono anche una serie di
elementi che riguardano nello specifico problematiche relative alle relazioni
industriali:
· la DaimlerChrysler rispetta il principio di pari salario per lavoro di pari
valore (entro i limiti della legislazione nazionale);
· l’azienda riconosce il principio di libertà di associazione, il che significa
che durante le campagne dei sindacati l’azienda e i suoi dirigenti si
manterranno neutrali;
255
·
DaimlerChrysler rispetta il diritto alla contrattazione collettiva:
l’applicazione di questo diritto umano è soggetta alle normative
statutarie nazionali e agli accordi già in vigore;
· la collaborazione con i dipendenti, i rappresentanti dei lavoratori e le
organizzazioni sindacali sarà costruttiva per garantire un ‘giusto
equilibrio tra gli interessi commerciali dell’azienda e gli interessi dei
lavoratori’;
· la salute e la sicurezza del posto di lavoro saranno garantiti a un livello
non inferiore a quanto previsto dalla legislazione nazionale e l’azienda
sostiene il miglioramento continuo delle condizioni di lavoro;
· l’azienda onora il diritto a una ‘compensazione ragionevole’, a un livello
non inferiore al salario minimo stabilito per legge e pagato sul mercato
del lavoro locale;
· provvedimenti e accordi nazionali riguardanti gli orari di lavoro e le
ferie regolarmente retribuite saranno rispettati.
L’accordo contiene anche un’affermazione dell’intenzione della
DaimlerChrysler di sostenere e incoraggiare i propri fornitori ‘a introdurre e
implementare principi equivalenti nelle loro aziende. DaimlerChrysler si
aspetta che i fornitori incoraggino questi principi come base per le relazioni
con DaimlerChrysler’.
Le trattative sono andate avanti senza apparenti ostacoli. L’aspetto più
conflittuale riguardava le norme che estendevano i principi dell’intesa ai
fornitori; da parte loro i delegati dei lavoratori non sono riusciti a inserire
regole più severe per la compliance. Alla fine, dato che il management è
riuscito a convincere i rappresentanti dei lavoratori che era impossibile
monitorare tutti i fornitori, le due parti hanno concordato una formulazione
aperta: ‘DaimlerChrysler sostiene e incoraggia i suoi fornitori a introdurre e
implementare principi equivalenti nelle proprie aziende’. Data l’assenza di
una procedura stringente di monitoraggio all’interno dell’accordo, i
rappresentanti dei lavoratori hanno previsto di affidare a consulenti esterni il
compito di rilevare e scoprire eventuali violazioni dei principi. Sperano di
ottenere un sostegno in questo senso dall’IMF e dalle sue affiliate da un lato,
e dall’altro da organizzazioni non governative (ONG) e dalla cittadinanza.
Anche se siamo agli inizi di queste nuove forme di rappresentanza globale
dei lavoratori alla DaimlerChrysler, la pratica sembra suggerire che una
relazione tra le strutture transnazionali di rappresentanza dei lavoratori e un
contesto normativo internazionale, che si rafforzano vicendevolmente (in
altre parole, attraverso i principi concordati di responsabilità sociale) ha
256
contribuito a migliorare la cooperazione internazionale tra i rappresentanti
dei lavoratori, che va ben aldilà di un semplice scambio di informazioni.
3
Raffronto dei casi
Si osservano differenze significative nella funzione e nella pratica dei due
comitati aziendali mondiali, collegate a contesti aziendali differenziati per lo
sviluppo di strutture globali; inoltre, emergono differenze associate alle
ragioni che hanno spinto la leadership dei comitati aziendali tedeschi, in
entrambi i casi esaminati, a riconoscere l’esigenza d’intervenire in questo
settore .
Entrambi gli organismi sono forum informativi e consultivi che hanno
accesso a informazioni esaurienti sui programmi strategici del gruppo. Oltre
a ciò, una distinzione chiave risiede nel ruolo strategico che questo
organismi hanno ricoperto per la regolamentazione transnazionale del
conflitto. Laddove nel caso di DaimlerChrysler, il ridotto livello di
competizione diretta tra gli impianti significava che non c’era l’esigenza di
ricorrere alla WEC per questo scopo, la funzione centrale di WGC della
VW, dal punto di vista sia dei funzionari dei comitati aziendali tedeschi che
del management del gruppo, risiede nell’estendere la pratica attuale di
risoluzione collaborativa del conflitto, praticata dalla Volkswagen in
Germania (e ora anche in Europa) a un livello internazionale. In vista della
competizione interna al gruppo, a seguito della transnazionalizzazione, si
ricorre deliberatamente al WGC per creare una serie di regole utili agli
scambi reciproci sia tra i membri del WGC che tra i rappresentanti dei
lavoratori e il management, per tutte le unità operative del gruppo distribuite
globalmente.
In considerazione dei diversi interessi dei lavoratori in ciascuna realtà, in
merito alle funzioni e alle attività degli organismi, si riscontrano differenze
sostanziali per quanto riguarda le funzioni interne alla rete nei due casi. Se
la WEC alla DaimlerChrysler è orientata verso lo scambio di informazioni
ed esperienze tra i rappresentanti dei lavoratori, in linea con l’esigenza della
leadership del comitato aziendale tedesco di mantenere il controllo e ridurre
l’incertezza, alla Volkswagen invece traspariva fin dall’inizio un evidente
interesse da parte della leadership dei comitati aziendali a sviluppare
procedure e posizioni comuni, per riuscire a parlare in maniera univoca al
management, nel contesto di un approccio collaborativo per la risoluzione
del conflitto.
Di conseguenza, le relazioni sia formali che informali della rete dei
rappresentanti dei lavoratori della Volkswagen sono molto più sviluppate
257
rispetto alla DaimlerChrysler. Questo è dimostrato dal fatto che, a differenza
della DaimlerChrysler, la leadership dei comitati aziendali della Volkswagen
partecipa direttamente al processo di risoluzione del conflitto. Anche se il
WGC della VW non partecipa direttamente, svolge comunque un ruolo
importante nella necessaria costruzione di fiducia tra i delegati. Sono inoltre
presenti seminari e programmi di scambio per i rappresentanti dei lavoratori
di diverse regioni, allo scopo di migliorare le relazioni della rete.
Poiché la competizione tra le unità operative all’interno del gruppo si
traduce nella maggiore importanza assegnata al coordinamento da parte dei
rappresentanti dei lavoratori alla Volkswagen rispetto alla DaimlerChrysler,
assicurarsi che il WGC fosse il più rappresentativo possibile era essenziale
per la leadership del comitato aziendale tedesco. Se nel caso della
DaimlerChrysler diversi paesi non sono rappresentati nel WGC a causa delle
condizioni restrittive imposte dal comitato aziendale tedesco, in quello della
Volkswagen sono rappresentanti tutti i paesi in cui l’azienda è presente.
Il raffronto tra WGC in Volkswagen e WEC in DaimlerChrysler evidenzia il
carattere divergente dei due organismi in relazione alla loro funzione
partecipativa e di rete, il che a sua volta riflette il contesto specifico
all’interno di ciascun gruppo e gli interessi conseguenti della leadership del
comitato aziendale tedesco in entrambi i casi.
Se fin dall’inizio il WGC tendeva ad ampliare il ruolo strategico del
Comitato Aziendale Europeo del gruppo VW sul piano internazionale, la
leadership del comitato aziendale in DaimlerChrysler non aveva recepito
l’esigenza di sviluppare il ruolo partecipativo della WEC. Tuttavia, anche
alla DaimlerChrysler, la conclusione di un accordo sui principi sociali, oltre
alla richieste sollevate successivamente dai rappresentanti dei lavoratori,
esterni alla casa madre, suggerisce che questa struttura abbia sviluppato una
sua dinamica propria, al di là delle funzioni previste di scambio di
informazioni e di esperienze.
Gli accordi globali per garantire standard sociali minimi in Volkswagen e
DaimlerChrysler, che sono pressoché identici, sono importanti per almeno
quattro ragioni.
La prima è che essi contribuiscono allo sviluppo dei comitati aziendali
mondiali, perché avviano un processo di impegno e comprensione reciproci
sia sul piano interno, che su quello esterno, anche grazie al fatto che fin
dall’inizio si sono connotati come ‘attori’ importanti.
La seconda è che hanno generato processi interni per le due componenti
aziendali: il management e la rappresentanza dei lavoratori. Da un lato, ciò
ha comportato l’adozione di misure e processi per implementare l’accordo:
258
per il management, ciò significa, ad esempio, nominare propri
rappresentanti, introdurre criteri sociali negli audit aziendali, discussioni sui
nuovi meccanismi contrattuali con i fornitori, indagini da parte dei direttori
del personale del gruppo sull’aderenza all’accordo da parte del personale
locale delle risorse umane; per i lavoratori, significa lo sviluppo di strategie
per comunicare la sostanza dell’accordo ai rappresentanti locali e alle
maestranze, indagini svolte dal comitato aziendale tedesco sull’aderenza
all’accordo, indagini presso le ONG su possibili sviluppi e cooperazioni.
Dall’altro, il cambiamento culturale insito in questi processi di discussione,
che si è venuto a concretizzare, insieme a misure effettive, ha significato che
i provvedimenti sociali hanno acquisito una maggiore importanza
nell’azienda e influenzato l’interazione tra management e rappresentanti dei
lavoratori.
La terza è che gli accordi hanno assunto un’importanza pratica in diverse
aree: l’accordo della DaimlerChrysler, per esempio, a seguito del ritiro del
management dal tavolo delle trattative in un impianto brasiliano (con
riferimento alla clausola dell’intesa che, nel caso di disaccordo, ‘l’obiettivo
sarà sempre quello di elaborare una soluzione che permetta la collaborazione
costruttiva a lungo termine: cfr. lo studio di caso della DaimlerChrysler);
l’intesa Volkswagen a seguito della conclusione degli accordi con i sindacati
pro-azienda di un fornitore messicano (con riferimento alla garanzia di
libertà di associazione nell’accordo).
La quarta è che contribuiscono direttamente o indirettamente alla definizione
degli accordi globali in altre aziende e da qui alla diffusione di questo
strumento per la rappresentanza globale dei lavoratori. Gli accordi globali
alla Volkswagen e alla DaimlerChrysler hanno rappresentato importanti
precedenti nell’industria tedesca. Nel caso delle aziende che riforniscono la
DaimlerChrysler o la Volkswagen, gli accordi hanno una rilevanza molto
diretta, che può comportare un esito positivo sia per il management che per i
comitati aziendali. Per questa ragione, i fornitori dell’automotive sono un
target prioritario per il sindacato IG Metall nei suoi sforzi per siglare altri
accordi globali.
4 Conclusioni
Le circostanze aziendali specifiche, le coalizioni di interessi e le valutazioni
di utilità da parte degli attori delle relazioni industriali a livello di gruppo
non sono soltanto cruciali nel determinare se i comitati aziendali mondiali
debbano essere istituiti, ma servono anche a plasmarli e ne influenzano lo
259
sviluppo nella pratica. Per necessità, i comitati aziendali mondiali sono
strumenti di cooperazione, o piuttosto della ‘risoluzione collaborativa del
conflitto’, per citare l’accordo VW. Il loro sviluppo e progresso può
avvenire soltanto in presenza di un accordo comune, che può essere rescisso
in qualsiasi momento. Nondimeno, l’interazione tra i diritti consolidati di
partecipazione e di accesso alle risorse per la costruzione delle reti sta a
significa che i comitati aziendali mondiali godono di una considerevole
rilevanza pratica. In particolare, garantiscono accesso al top management
per i rappresentanti dei lavoratori di unità operative non europee e
migliorano il livello delle informazioni messe a disposizione.
Come nel caso dei CAE/EWC, i comitati aziendali mondiali possono
ampliare il proprio ambito di partecipazione verso procedure consultive più
formalmente regolate e per la conclusione di accordi con il management del
gruppo. Le capacità di negoziazione dei comitati aziendali mondiale alla
Volkswagen e alla DaimlerChrysler sono già state riconosciute formalmente
dal management del gruppo, con la definizione degli accordi globali sugli
standard sociali minimi.
I limiti dello strumento degli accordi globali risiedono anch’essi nella loro
base volontaria. Non si possono concludere senza l’assenso del management.
La sostanza degli accordi rispecchia il fatto che le negoziazioni sono iniziate
e si sono concluse su una base puramente volontaria. Essi definiscono
standard minimi molto al di sotto degli standard occupazionali e sociali
dell’Europa occidentale. Ne consegue che gli accordi globali non sono uno
strumento per ridurre la competitività tra i lavoratori nelle unità produttive
sia centrali che periferiche, pur delineando alcuni limiti assoluti ai tagli
sociali.
Ciò si applica anche agli accordi globali della Volkswagen e della
DaimlerChrysler. Essi però si differenziano dalla maggior parte delle altre
aziende che hanno siglato accordi di questo tipo per una caratteristica
fondamentale: in entrambi i casi, c’era una struttura globale preesistente per
la rappresentanza dei lavoratori, sotto forma di comitati aziendali mondiali.
Gli accordi sono stati sì concepiti e utilizzati come strumenti per far
conoscere i dispositivi di rappresentanza esistenti a tutta la forza lavoro nel
mondo e quindi legittimarli, ma anche e principalmente per ampliare e
consolidare gli ambiti e il raggio d’azione dell’istituzione stessa.
260
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Processi di ristrutturazione e regolazione sociale - il caso
tedesco
Volker Telljohann
1 Introduzione
Partendo dall’analisi della nuova generazione dei patti per l’occupazione e la
competitività vorremmo, con questo contributo, approfondire le riflessioni
sull’impatto di queste tendenze di decentramento della contrattazione
collettiva sulle relazioni industriali a livello locale e centrale in Germania.
Il 2004 è stato l’anno in cui si è accesa la discussione sul presunto crollo di
competitività della Germania. Le imprese e le loro associazioni sostengono
che l’orario di lavoro settimanale e i livelli di retribuzione minano la
competitività della Germania come luogo di produzione. Inoltre, viene
criticata la rigidità del sistema di contrattazione collettiva perché secondo le
imprese non dà sufficientemente spazio a soluzioni flessibili che tengano
conto delle specifiche esigenze delle singole realtà produttive.
I gruppi multinazionali minacciano sempre più spesso di delocalizzare parte
delle loro attività o di spostare investimenti futuri in paesi con un minore
costo del lavoro. In molti casi queste minacce portano alla stipula di accordi
caratterizzati sia da concessioni da parte dei consigli di azienda, sia da
garanzie del management rispetto al mantenimento dei siti produttivi per un
determinato periodo di tempo. Per i dipendenti questi accordi spesso
implicano un deterioramento delle condizioni di lavoro e dei livelli
retributivi. Il sindacato tedesco guarda con sospetto la crescente tendenza
con cui le aziende ricorrono a questo tipo di accordi perché in sempre più
casi i compromessi fra management e rappresentanti dei lavoratori implicano
deroghe agli standard definiti dal contratto collettivo di categoria. Ormai la
crescente decentralizzazione della contrattazione collettiva in Germania sta
portando anche a adeguamenti a livello dei contratti collettivi di categoria
come dimostra il contratto collettivo di categoria dell’industria
metalmeccanica del 2004.
263
2 I patti per l’occupazione e la competitività
1
Il livello centrale: il contratto collettivo di categoria
dell’industria metalmeccanica tedesca
A livello centrale il contratto collettivo di categoria dell’industria
metalmeccanica firmato a febbraio 2004 ha allargato ulteriormente le
possibilità di utilizzo delle cosiddette clausole di apertura e, ha portato
inoltre ad un’ ulteriore flessibilizzazione delle regolazioni in materia di
orario di lavoro. Viene fra l’altro stabilito che al fine di migliorare in modo
durevole lo sviluppo dell’occupazione le parti contrattanti potranno
derogare, temporaneamente, agli standard minimi contrattuali.
Successivamente questa clausola ha portato numerose aziende ad avanzare
le loro richieste di deroga. L’interesse delle imprese riguarda soprattutto
l’allungamento dell’orario di lavoro, la variabilità delle retribuzioni e
l’abbassamento del salario. È comunque importante che l’impiego delle
clausole di apertura presupponga l’approvazione del sindacato. Inoltre, il
sindacato chiede la possibilità di verificare e controllare l’applicazione degli
accordi.
2
Il livello locale: l’ultima generazione dei patti per
l’occupazione e la competitività
È interessante osservare che proprio l’anno che ha visto sancire
l’allargamento dell’Unione europea è stato caratterizzato da una nuova
ondata dei cosiddetti patti per l’occupazione e la competitività. Sono gli
accordi stipulati da gruppi multinazionali come Siemens, DaimlerChrysler,
Volkswagen, Bosch, General Motors, Karstadt, Philips, Braun Melsungen,
BASF e Deutsche Bahn (Ferrovie tedesche) che hanno fatto discutere
maggiormente anche a livello europeo. Per la maggior parte si tratta di
gruppi altamente redditizi che minacciano processi di delocalizzazione in
caso non si riuscisse a ridurre in modo significativo il costo del lavoro.
A giugno 2004 alla Siemens è stato firmato un accordo in cui si prevede che
in due stabilimenti tedeschi l’orario di lavoro settimanale passi per due anni
da 35 ore contrattuali a 40 senza aumento di salario. La tredicesima e la
quattordicesima vengono sostituite da un bonus legato all’andamento
aziendale. Attraverso queste misure il reddito lordo dei dipendenti si riduce
di circa il 14 %. In seguito a questo accordo il gruppo ha rinunciato alla
264
delocalizzazione della produzione in Ungheria. L’accordo ha quindi
permesso il mantenimento di circa 4.000 posti di lavoro in due stabilimenti
di produzione finale di telefoni cellulari e di telefoni cordless. L’azienda
rinuncia per 2 anni a licenziamenti per motivi aziendali. Secondo l’IG Metall
si tratta di una regolazione speciale e temporanea provocata dai problemi
economici che caratterizzano attualmente questo tipo business. Questa
soluzione mirata non dovrebbe danneggiare altre imprese concorrenti poiché
la Siemens è l’unica azienda con produzione finale profondamente radicata
in Germania. L’occupazione non dovrebbe essere assicurata solo per la
durata dell’accordo integrativo visto che sono state garantite misure di
investimento per circa 30 milioni di Euro nella produzione di telefonia
mobile in Germania fissate nello stesso accordo. Inoltre è previsto lo
sviluppo di capacità aggiuntive per la nuova generazione di cellulari
(UMTS). Dal punto di vista dell’occupazione viene concordato l’insourcing
di prestazioni consulenziali esterne.
Nel marzo del 2005 la Siemens-VDO, una delle aziende leader a livello
mondiale nell’ambito della fornitura di elettronica per autovetture, ha messo
in discussione il futuro dello stabilimento di Würzburg (Baviera) con 1.600
dipendenti. Lo stabilimento di Würzburg è uno dei 14 stabilimenti tedeschi
della Siemens-VDO che occupa complessivamente 44.000 dipendenti, di cui
19.000 in Germania. La motivazione per la minaccia del management
sarebbe il bisogno di ridurre i costi di produzione e di aumentare in questo
modo la redditività. Per raggiungere quest’obiettivo sono stati sviluppati due
scenari di cui il primo prevederebbe la chiusura dello stabilimento di
Würzburg e lo spostamento dell’intera produzione ad Ostrava nella
Repubblica Ceca entro il 2007. Nel secondo scenario lo stabilimento di
Würzburg subirebbe tagli occupazionali del 50 %. I rimanenti 800
dipendenti dovrebbero inoltre accettare concessioni rilevanti a livello delle
retribuzioni e dell’orario di lavoro per poter raggiungere l’obiettivo di
risparmiare 50 milioni Euro. In particolare, l’azienda mira anche in questo
caso ad un allungamento della orario di lavoro da 35 a 40 ore senza
conguaglio. Per quanto riguarda le retribuzioni la Siemens chiede ai
dipendenti di rinunciare per cinque anni ad aumenti salariali. L’azienda
chiede inoltre di non dover più pagare una maggiorazione per gli
straordinari. Verrebbero abolite inoltre le pause rimunerate. Misure di
questo genere significherebbero una deroga agli standard definiti dal
contratto collettivo di categoria. Al contrario delle aziende che operano
nell’industria della telefonia mobile l’azienda di fornitura dell’industria
automobilistica di Würzburg è redditizia al punto da corrispondere agli
265
obiettivi prefissi dal gruppo stesso che chiede rendite fra il 5 e 6 %. Nel
2004 Siemens-VDO ha prodotto infatti utili per 562 milioni Euro che
corrisponde ad una rendita di 6,2 %. Oltre allo stabilimento di Würzburg
anche lo stabilimento di Karben (Assia) con 1.900 dipendenti sarà esaminato
dal management centrale. L’obiettivo sarebbe sempre l’aumento della
redditività attraverso la riduzione del costo del lavoro e l’allungamento del
orario di lavoro. Solo nell’ottobre del 2004 era stato firmato un accordo
aziendale per lo stabilimento di Karben che prevedeva la flessibilizzazione
dell’orario di lavoro. Secondo il management Siemens-VDO è esposta alle
pressioni dell’industria automobilistica che chiede ai fornitori riduzioni dei
prezzi fino a 15 %. Per poter mantenere allo stesso tempo la propria
redditività la Siemens-VDO sarebbe costretta a ridurre i propri costi di
produzione.
Anche nel settore automobilistico sono stati firmati vari patti per
l’occupazione e la competitività. Nel 2004 la Volkswagen dichiarò di voler
indirizzare futuri investimenti verso altri paesi se non fosse stato possibile
ridurre in modo significativo il costo del lavoro in Germania. Il calo di
vendite che ha colpito il gruppo Volkswagen nel corso del 2004, dovuto ad
un erroneo sviluppo di nuovi modelli, ha determinato una riduzione degli
utili del 12 % rispetto al 2003. L’accordo raggiunto per i 103.000 dipendenti
in Germania è caratterizzato da uno scambio che prevede da un lato il
congelamento dei salari per 28 mesi – dal 1 ottobre 2004 al 31 gennaio 2007
– e dall’altro lato la rinuncia a licenziamenti per motivi aziendali fino al
2011. Inoltre è stato definito un piano dettagliato di investimenti per le sei
fabbriche tedesche sulla base del quale dovrebbe essere garantita la
sicurezza dei posti di lavoro in futuro. È comunque da sottolineare che
l’accordo include anche una clausola di revisione con la quale le garanzie
occupazionali vengono relativizzate. Inoltre, la garanzia occupazionale è
legata alla possibilità di ricorrere alla mobilità interna. Per quanto riguarda
lo sviluppo retributivo è prevista l’erogazione di un bonus una tantum da
1.000 € a marzo 2005, che corrisponde ad un aumento del 1,35 %. È inoltre
previsto che a partire dal 1 gennaio 2005 le retribuzioni dei nuovi assunti ed
apprendisti si possono orientare ai livelli del contratto collettivo di categoria,
inferiori del 10 al 20 % rispetto al precedente contratto collettivo del gruppo
Volkswagen. Con questa clausola viene quindi introdotta una
differenziazione rispetto ai trattamenti economici dei dipendenti e, di
conseguenza, una segmentazione del mercato del lavoro interno. In
compenso il gruppo si impegna a creare 185 nuovi posti per apprendisti.
266
L’accordo stipulato prevede inoltre che a partire dal 2006 l’erogazione di
una parte della tredicesima sarà collegata all’andamento dei risultati
aziendali. Mentre in passato la tredicesima veniva erogata in forma di una
somma fissa che superava i 2.000 € a partire dal 2006 la parte fissa sarà
ridotta a 1.191 €. Essendo composta da una parte fissa e una parte variabile
ci saranno due momenti di erogazione, ovvero novembre e maggio dell’anno
successivo. La somma complessiva rimarrà comunque sotto il livello
precedente di 2.000 €. In materia di orario di lavoro è stata definita una
maggiore flessibilità poiché il corridoio viene raddoppiato da 400 a 800 ore
annue. Questo raddoppiamento rende più flessibile la gestione degli
straordinari e allo stesso tempo contribuisce ad una riduzione del costo del
lavoro. L’accordo introduce poi per 4.200 dipendenti la possibilità di
avvicinarsi alla pensione attraverso il tempo parziale. Infine, l’accordo
raggiunto definisce un nuovo strumento a livello di codeterminazione che
funge da strumento di controllo di applicazione dell’intesa.
Nel 2004 anche la DaimlerChrysler aveva minacciato di spostare la
produzione dallo stabilimento principale di Sindelfingen in Sudafrica o ad un
altro stabilimento tedesco più economico se non fosse stato possibile ridurre
il costo del lavoro pari a 500 milioni di euro annuali a partire dal 2006. La
minaccia di spostamento della produzione riguardava circa 6.000 posti di
lavoro. Anche la DaimlerChrysler nel 2004 ha subito una riduzione degli
utili rispetto al 2003, imputabile soprattutto alle perdite della Mercedes Car
Group che ha dovuto affrontare problemi sostanziali di qualità di prodotto.
L’accordo raggiunto prevede una riduzione del 2,79% della retribuzione
extracontrattuale e fa esplicitamente riferimento al contratto collettivo di
categoria che aveva esteso le possibilità di introduzione di clausole di
apertura. Tale riduzione dovrebbe consentire di avvicinare i livelli retributivi
della DaimlerChrysler agli standard definiti dal contratto collettivo di
categoria. Nella divisione ricerca e sviluppo si potrà lavorare
volontariamente e con conguaglio fino a 40 ore la settimana. Per alcune
attività di servizio, ad esempio la mensa, verrà applicato un contratto
collettivo integrativo che prevede un allungamento graduale dell’orario fino
a 39 ore, in questo caso senza conguaglio. Infine, una parte delle pause sarà
convertita in un giorno supplementare di aggiornamento professionale. Il
management, da parte sua, rinuncia a licenziamenti per motivi aziendali fino
al 2012 e garantisce investimenti adeguati sia per il comparto dell’auto, sia
per il comparto dei veicoli commerciali. Viene stipulata inoltre la rinuncia a
processi di outsourcing nell’ambito dei servizi. Il management garantisce
267
inoltre che fino al 2012 tutti gli apprendisti saranno assunti al termine del
loro periodo di apprendistato. Viene concordato inoltre che per altri 3.800
dipendenti ci sarà la possibilità di avvicinamento alla pensione attraverso il
tempo parziale.
L’accordo del luglio 2004 è il risultato di un negoziato particolarmente duro
fra management e consiglio di azienda. Ha avuto luogo, fra l’altro, una
giornata di protesta organizzata a livello nazionale dal coordinamento di
gruppo alla quale hanno partecipato 60.000 dipendenti. È interessante
osservare che nel caso della DaimlerChrysler ci sono state delle divergenze
anche all’interno delle strutture di rappresentanza, e in particolare fra il
coordinamento del consiglio di azienda (Gesamtbetriebsrat) e la direzione
regionale dell’IG Metall, da un lato, ed i consigli di azienda locali e le loro
maestranze, dall’altro. Le tensioni fra il livello centrale e il livello periferico
si sono manifestate anche durante le azioni di protesta; in questa occasione
né il coordinamento di gruppo, né la direzione regionale del IG Metall sono
riusciti a controllare e a canalizzare la protesta. I consigli di azienda locali
infatti hanno favorito una certa radicalizzazione della protesta entrando in
questo modo in conflitto sia con il coordinamento del consiglio di azienda,
sia con la direzione regionale dell’IG Metall. Il dissenso riguardava non solo
i risultati del negoziato ma anche la mancanza di procedure democratiche di
coinvolgimento delle strutture di rappresentanza a livello decentrale durante
la negoziazione.
Per quanto riguarda la General Motors Europe, la situazione è
caratterizzata da perdite continue dal 1999. Nel 2003 le perdite
ammontavano a 384 milioni di Euro per aumentare nel 2004 a circa 600
milioni di Euro. Di fronte a questa crisi di competitività il gruppo ha
presentato un programma di ristrutturazione che prevede una riduzione dei
costi del lavoro di 500 milioni di Euro all’anno. Il piano iniziale prevedeva
processi di delocalizzazione con la chiusura di almeno un sito produttivo, la
riduzione dei livelli occupazionali e la riduzione dei livelli retributivi. Per
massimizzare i risultati del piano di ristrutturazione il gruppo ha cercato di
mettere in competizione vari stabilimenti fra di loro.
Come già avvenuto nel 2000 e 2001 attraverso la cooperazione fra il
Comitato aziendale europeo (Cae) della General Motors e la Federazione
europea dei metalmeccanici (Fem) viene organizzata una giornata di azioni a
livello europeo per contrastare la strategia aziendale. La giornata di protesta
alla quale hanno aderito gli stabilimenti situati in Germania, Svezia, Gran
268
Bretagna, Belgio, Polonia e Spagna ha contribuito a dimostrare una certa
compattezza delle strutture di rappresentanza a livello europeo. La
dimostrazione di solidarietà fra i vari stabilimenti e il ruolo di coordinamento
assunto dalla Fem hanno costretto il management ad accettare un negoziato
con i rappresentanti dei lavoratori a livello europeo. Questo negoziato ha
portato l’8 dicembre 2004 alla stipula di un accordo quadro fra il
management centrale della GM Europe e il Cae che prevede la rinuncia a
chiusure di stabilimenti ed a licenziamenti per motivi aziendali. Il numero dei
dipendenti negli stabilimenti tedeschi, che si aggira intorno a 35.000 persone
viene ridotto di 6.000 invece dei 10.000 previsti inizialmente. La riduzione
dei livelli occupazionali che dovrebbe costare al gruppo circa 750 milioni
Euro prevede l’applicazione di diversi strumenti, fra cui il pagamento di
liquidazioni per una parte dei lavoratori e per gli altri il passaggio a
cosiddette società occupazionali che prevedono la riqualificazione del
personale uscito dalla Opel per 12 mesi. Inoltre è previsto l’avvicinamento
alla pensione per 3.000 dipendenti attraverso il tempo parziale o il passaggio
a joint-ventures o spin-offs, vale a dire ad attività di cooperazione con altre
aziende. Fra i vari casi del settore automobilistico la GM Europe
rappresenta l’unico caso in cui vengono effettuati tagli occupazionali.
L’accordo quadro firmato dal Cae doveva poi costituire la base per i
negoziati più dettagliati a livello nazionale.
Il 4 marzo 2005 è stato firmato il cosiddetto ‘contratto per il futuro’ per gli
stabilimenti tedeschi a Rüsselsheim, Bochum e Kaiserslautern. Punto
centrale dell’accordo è la garanzia di attività per tutti gli stabilimenti europei
fino al 2010. Vengono quindi evitate chiusure di stabilimenti; inoltre si
rinuncia fino al 2010 a licenziamenti per motivi aziendali. Da parte dei
dipendenti viene concessa una riduzione dei livelli salariali che finora
superavano gli standard del contratto collettivo di categoria per il 18 %.
L’obiettivo è un successivo avvicinamento ai livelli salariali definiti dal
contratto collettivo. Per questo motivo viene concordata una rinuncia ad
aumenti salariali fino al 2005. In seguito fino al 2010, gli aumenti alla Opel
dovrebbero essere inferiore di 1 % rispetto agli aumenti stabiliti dal contratto
collettivo. È prevista inoltre una riduzione della tredicesima dal 130 % al 70
% a partire dal 2006. In caso di pareggio o utile è prevista un’erogazione del
100 %. Per quanto riguarda l’orario di lavoro viene concordata una
flessibilizzazione attraverso un allargamento del “corridoio” sulla base del
quale la settimana lavorativa può oscillare fra le 30 e le 40 ore. Sarà
consentito inoltre il lavoro al sabato con un limite di 15 volte all’anno.
269
Infine, nel ‘contratto per il futuro’ vengono definiti anche gli investimenti e
l’assegnazione dei nuovi modelli ai vari stabilimenti. Allo stabilimento di
Rüsselsheim viene assegnato lo sviluppo della nuova classe media di Opel
(Vectra) e Saab (9-3), a partire dal 2008, ed il nuovo modello Astra. Inoltre
viene confermato il ruolo del centro di ricerca e sviluppo dello stabilimento
di Rüsselsheim nell’ambito del gruppo. Alla Saab di Trollhättan, che era in
competizione con Rüsselsheim per la produzione della classe media, dal
2006 saranno prodotti da 8.000 a 10.000 esemplari della Cadillac BLS così
come altri modelli della Saab come per esempio la 9-3 station wagon. Allo
stabilimento di Bochum viene invece assegnata a partire dal 2006 la
produzione del modello Astra a cinque porte. Inoltre sono previsti degli
investimenti per 20 milioni di dollari. Complessivamente c’è da constatare
che il ‘contratto per il futuro’ non implica un’erosione del contratto
collettivo di categoria ma solo un avvicinamento agli standard definiti dal
contratto collettivo.
Quanto sia difficile sviluppare una strategia e raggiungere accordi condivisi
a livello europeo lo dimostrano le proteste dei rappresentanti dei lavoratori in
Gran Bretagna ed in Belgio che nella fase finale del negoziato hanno
formalmente protestato presso la Federazione europea dei metalmeccanici
denunciando la violazione del principio di trasparenza da parte dei loro
colleghi tedeschi dello stabilimento di Bochum.
Come già menzionato, anche nel caso della General Motors il negoziato era
accompagnato da scioperi ed azioni di protesta. Visto che in Germania i
consigli di azienda non hanno il diritto di indire degli scioperi, le attività di
protesta contro i licenziamenti previsti dal management sono state dichiarate
delle “iniziative di informazione” per i dipendenti. In particolar modo a
Bochum, dove la lotta si era più radicalizzata e dove lo sciopero è durato più
giorni c’era bisogno di ricorrere alle “iniziative di informazione” per
giustificare l’astensione dal lavoro. Quanto alle dinamiche interne né l’IG
Metall, né il consiglio di azienda sono mai riusciti a controllare del tutto il
movimento di protesta. A Bochum si sono infatti manifestati orientamenti
divergenti all’interno del sindacato, del consiglio di azienda e delle
maestranze. Da un lato c’era la posizione che condivideva le concessioni per
rendere più sicuro il futuro dello stabilimento di Bochum, dall’altro c’era
invece il rifiuto di una politica delle concessioni.
Queste contraddizioni si sono manifestate anche durante la fase di
consultazione sull’accordo raggiunto con il management. Il corpo dei
270
fiduciari, cioè la struttura aziendale dell’IG Metall, si è espresso infatti
negativamente sull’accordo e ha consigliato di non approvarlo visto che
l’accordo non dà una prospettiva per lo stabilimento di Bochum per il
periodo successivo al 2010. Con questa posizione il corpo dei fiduciari si è
messo in opposizione sia rispetto alla maggioranza del consiglio di azienda
dello stabilimento di Bochum, che alle strutture locali e regionali dell’IG
Metall. Anche il presidente del Cae, che è anche il presidente del consiglio
dell’azienda di Rüsselsheim, ha condannato la posizione del corpo dei
fiduciari di Bochum come un atto irresponsabile, visto che in caso di non
approvazione il futuro dello stabilimento di Bochum sarebbe fortemente
messo a rischio.
L’accentuata conflittualità e la disapprovazione dell’accordo da parte dei
fiduciari dimostrano probabilmente che anche i patti per l’occupazione e la
competitività che del resto vengono firmati ad intervalli sempre più brevi,
non riescono più a dare la necessaria fiducia ai dipendenti. Esiste quindi
anche il rischio che la mancanza di credibilità si trasformi in una crisi di
legittimità delle strutture di rappresentanza.
3 Le motivazioni, le caratteristiche ed i contenuti dei
patti per l’occupazione e la competitività
Alla base di tutti questi casi sta la minaccia di trasferire la produzione e/o di
indirizzare investimenti futuri verso paesi con un minore costo del lavoro. In
alcuni casi si tratta di una competizione con stabilimenti all’interno dell’Ue
15, nella maggior parte, comunque, con stabilimenti situati nei nuovi Stati
membri o fuori dall’Europa. A prendere l’iniziativa è sempre il management
che richiede un abbassamento dei costi per migliorare o riacquisire la sua
competitività a livello internazionale. Questo è l’argomento non solo di
gruppi come la General Motors Europe che devono affrontare una situazione
di perdite sostanziali nel corso degli anni recenti ma anche di gruppi come la
Audi e la Porsche che nel 2004 hanno realizzato risultati decisamente
positivi. La stessa Siemens nel 2004 ha occupato in Germania il primo posto
nella classifica delle imprese con i maggiori utili. Al protagonismo del
management che si trova in una posizione di forza potendo utilizzare in
modo offensivo una politica di benchmarking a livello globale corrisponde
una posizione difensiva del sindacato e dei consigli di azienda che in genere
cercano di limitare gli effetti negativi della globalizzazione della
competizione.
271
Gli accordi firmati possono riguardare singoli stabilimenti, l’insieme degli
stabilimenti di un gruppo in un paese così come nel caso della General
Motors tutta la parte europea del gruppo. A seconda del livello di
contrattazione anche gli attori cambiano. Mentre in imprese di minore
dimensioni gli accordi possono essere firmati dal consiglio di azienda nel
caso dei grandi gruppi gli accordi possono essere firmati dal coordinamento
di gruppo a livello nazionale o anche dal sindacato come nel caso della
Volkswagen. Solo nel caso della General Motors abbiamo anche il
coinvolgimento degli attori europei, sia da parte del gruppo, sia da parte dei
dipendenti.
Dal punto di vista del contenuto, per quanto riguarda le misure che
dovrebbero contribuire ad un miglioramento della competitività troviamo
· la flessibilizzazione e l’allungamento dell’orario di lavoro,
· la riduzione dei livelli salariali,
· la riduzione dei bonus annuali, il legamento del loro calcolo a parametri
aziendali e la flessibilizzazione delle modalità della loro erogazione,
· la riduzione dei livelli occupazionali.
Il risultato di queste misure consiste in un aumento della produttività del
lavoro che per il singolo lavoratore significa in genere un peggioramento sia
delle condizioni di lavoro, sia della sua situazione economica. E’ da
evidenziare inoltre che queste misure spesso portano ad una differenziazione
dei trattamenti all’interno delle maestranze e quindi ad un processo di
segmentazione del mercato del lavoro interno.
Come contropartita il management può concedere
· delle garanzie per i siti e i livelli occupazionali,
· degli investimenti e l’assegnazione di futuri ordini di produzione,
· la rinuncia a processi di outsourcing.
Per quanto riguarda le garanzie dei livelli occupazionali che vengono date
anche per 5–7 anni è comunque da tener presente che le imprese in genere si
riservano la possibilità di rinegoziare gli accordi in caso di andamento di
mercato negativo.
Le stesse garanzie dei livelli occupazionali vengono quindi concesse
utilizzando clausole di revisione. Visto la durata delle garanzie
occupazionali che può arrivare anche a sette anni è piuttosto probabile che le
imprese facciano ricorso alle possibilità di rinegoziare gli accordi. In questo
272
caso l’effetto di un’ulteriore perdita di credibilità della politica delle
‘alleanze aziendali’ sarebbe inevitabile.
Questa tendenza implica, di fatto, un nuovo tipo di scambio. Si può
sostenere che è vero che avviene tuttora uno scambio fra il management e le
strutture di rappresentanza, ma è anche vero che in genere non si tratta di
scambi equi. Con l’orientamento prevalente all’incremento della
competitività delle imprese vengono concordati delle concessioni da parte dei
dipendenti che hanno un carattere definitivo. Abbiamo quindi, da un lato,
concessioni chiaramente definite per quanto riguarda i livelli remunerativi, la
flessibilizzazione e l’allungamento dell’orario di lavoro che hanno un
impatto concreto sugli aspetti organizzativi ed economici delle condizioni di
vita e di lavoro, dall’altro lato invece, i dipendenti ottengono garanzie e
diritti meno tangibili, meno certi e di conseguenza anche meno esigibili. Si
può quindi avanzare la tesi che questi accordi aziendali sono caratterizzati
da un carattere iniquo dello scambio. Alla certezza della perdita di
posizioni, da un lato, corrisponde l’incertezza delle conquiste, dall’altro. Di
fronte a questo quadro non sorprende che da parte dei lavoratori diminuisce
la convinzione che i patti per l’occupazione e la competitività possano
rappresentare uno strumento adatto per garantire in prospettiva la sicurezza
dei posti di lavoro.
Infine, diminuisce la fiducia reciproca fra gli attori a livello aziendale che in
passato era una delle caratteristiche della politica di ‘modernizzazione
cooperativa’. Dal punto di vista dei dipendenti tutti gli attori a livello
aziendale tendono a perdere di credibilità. Il risultato spesso consiste in un
aumento di conflittualità che da parte sua indica un peggioramento generale
delle relazioni industriali. Per quanto riguarda il sindacato la perdita di
credibilità si può leggere nell’andamento di sindacalizzazione. Da un lato, i
sindacati perdono fra gli iscritti tradizionali che non si sentono più tutelati
dal sindacato; dall’altro lato, il sindacato fatica sempre di più a
sindacalizzare i neoassunti. Anche questo non sorprende poiché sono proprio
i neoassunti che spesso pagano il prezzo maggiore quando vengono negoziati
i patti per l’occupazione e la competitività come dimostra per esempio
l’accordo firmato alla Volkswagen. In questo contesto caratterizzato da una
ridotta legittimità diventa sempre più difficile per il sindacato, ma
soprattutto per i consigli di azienda, creare un consenso sul quale si possano
reggere le ‘alleanze aziendali’
273
4 Partecipazione e conflitto
1
Il coinvolgimento nei processi di ristrutturazione
Per migliorare l’efficienza della gestione dei processi di ristrutturazione si
cerca di favorire il coinvolgimento dei sindacati e delle strutture di
rappresentanza a livello aziendale per poter arrivare a soluzioni consensuali.
Il dialogo sociale rappresenta quindi uno strumento strategico nell’ambito
delle politiche occupazionali.
Il fatto che in molti casi le strutture di rappresentanza dei lavoratori abbiano
subito una perdita di potere negoziale e siano, quindi, costrette ad accettare
degli scambi iniqui per poter difendere i livelli occupazionali, non significa
necessariamente che anche il loro ruolo istituzionale si sia indebolito. Il
coinvolgimento delle strutture di rappresentanza nelle strategie aziendali di
ristrutturazione può, al contrario, portare ad un consolidamento del loro
ruolo istituzionale. Dal punto di vista del management le strutture di
rappresentanza servono per garantire la legittimità delle strategie di
ristrutturazione e per organizzare il consenso fra i dipendenti. Se, da un lato,
questo tipo di approccio può implicare un’estensione delle esperienze di
partecipazione, dall’altro, deve essere chiaro che il coinvolgimento dei
rappresentanti dei lavoratori avviene di solito in una situazione di crisi
aziendale, dove si trovano in una posizione difensiva e dove la loro
rappresentatività e quindi la capacità di organizzare il consenso diventa un
fattore importante per la qualità del risultato del loro coinvolgimento. La
capacità di difesa delle posizioni conquistate nel passato è stata, infatti,
superiore nel settore automobilistico, caratterizzato da elevati livelli di
sindacalizzazione e da una forte capacità di mobilitazione, piuttosto che alla
Siemens dove il sindacato e le strutture di rappresentanza a livello aziendale
sono relativamente deboli. L’accordo molto discusso della Siemens sembra
confermare che, per ottenere accordi complessivamente accettabili serve,
oltre alle capacità di partecipazione e negoziazione, anche una consolidata
capacità di mobilitazione.
In sintesi la logica che sta alla base dei patti per l’occupazione e la
competitività consiste nella necessità di una concertazione efficace per poter
gestire i processi di ristrutturazione. Attraverso il coinvolgimento delle
strutture sindacali il management riconosce i limiti delle regole del mercato
‘puro’. Se per il sindacato il suo coinvolgimento rappresenta da un lato una
274
fonte di riconoscimento, dall’altro implica la sfida di dover confrontarsi con
le ragioni del management. Dal punto di vista delle rappresentanze dei
lavoratori diventa quindi decisivo saper interpretare e valutare i progetti
manageriali.
Esistono anche dei casi di crisi aziendali in cui i patti per l’occupazione e la
competitività dopo periodi relativamente brevi non sono più in grado di
garantire l’adeguamento dell’impresa al contesto di competizione in rapido
mutamento, e vi è la necessità di ridefinirne i contenuti. Se, in generale, tali
patti sono anche una garanzia di legittimità sia per i rappresentanti dei
lavoratori che per il management, è evidente che la necessità di un
riadeguamento e quindi di ulteriori concessioni può avere solo conseguenze
negative per la credibilità degli attori aziendali che, talvolta, si trasformano
in una crisi di legittimazione.
2
Il ruolo del conflitto industriale
L’analisi dei processi di ristrutturazione mostra come le minacce di
delocalizzazione e le richieste di riduzione dei livelli retributivi portino ad un
aumento di conflittualità. Per quanto riguarda le case automobilistiche è
necessario sottolineare che in molti casi gli accordi sono stati raggiunti dopo
significative attività di sciopero. Ma anche nei casi Philips, Bosch, Siemens
e Deutsche Bahn i processi di negoziazione sono stati accompagnati da
attività di protesta e/o sciopero. Analizzando più dettagliatamente gli
scioperi si nota che essi sono, innanzitutto, il risultato del conflitto fra
dipendenti e management; ma in alcuni casi essi sono anche segno di
orientamenti divergenti del sindacato, da un lato, e le strutture di
rappresentanza, dall’altro.
Per quanto riguarda le divergenze fra il sindacato e la sua base, alcuni
scioperi, per esempio quello alla Opel o alla DaimlerChrysler sembrano
dimostrare non solo l’insoddisfazione nei confronti di una strategia sindacale
di tipo cooperativo che implica, a livello aziendale, una contrattazione
orientata a concessioni sostanziali per quanto riguarda i livelli di
retribuzione e le condizioni di lavoro, ma anche il crescente dissenso rispetto
alla mancanza di adeguate forme di democrazia sindacale. Più in generale,
l’incremento delle attività di sciopero sembra indicare una crescente
insofferenza dei dipendenti nei confronti di una strategia delle `alleanze
aziendali´.
275
L’aumento della conflittualità sembrerebbe indicare che oggi i patti per
l’occupazione e la competitività siano meno accettati di quanto non lo
fossero negli anni novanta. Questa tendenza si può notare soprattutto nei
casi in cui vengono stipulati diversi patti a breve distanza di tempo. In questi
casi i patti, più che rappresentare uno strumento eccezionale per superare
una crisi aziendale, vengono utilizzati sistematicamente come strumento del
management nella competizione fra stabilimenti all’interno dei gruppi
transnazionali per decidere dove indirizzare gli investimenti futuri. Sempre
più spesso i gruppi transnazionali decidono gli investimenti sulla base dei
risultati dei loro processi di benchmarking a livello internazionale o legano le
loro decisioni di investimento a procedure di competizione interna. In un tale
contesto le `alleanze aziendali´ servono a migliorare la competitività del
singolo stabilimento puntando sulla riduzione del costo del lavoro e
sull’estensione delle varie forme di flessibilità per garantire in questo modo
un ulteriore incremento della produttività del lavoro. Il risultato è che
vengono richieste sempre più concessioni in intervalli sempre più brevi. Si
può quindi sostenere che i patti per l’occupazione e la competitività non sono
più solo uno strumento per superare situazioni di crisi aziendali, ma si
stanno trasformando sempre più spesso in uno strumento strategico nelle
mani del management, orientato a migliorare la redditività e la competitività
attraverso l’aumento della flessibilità e la riduzione del costo del lavoro. Tali
politiche manageriali possono anche implicare la richiesta di una riduzione
del costo del lavoro in aziende altamente redditizie, come abbiamo visto nel
caso della Siemens-VDO. Un tale approccio diventa sempre meno
condivisibile per i dipendenti e le loro strutture di rappresentanza e rischia di
accentuare ulteriormente la conflittualità.
5 Le ripercussioni dei patti per l’occupazione e la
competitività sulla contrattazione collettiva a livello
locale e centrale
Per quanto riguarda il sistema di contrattazione collettiva è noto che in
Germania, dove formalmente non esiste un secondo livello di contrattazione
collettiva, è comunque in atto ormai da anni un processo di decentramento
della contrattazione. Anche se solo nel 2004 con gli accordi firmati alla
Siemens e alla DaimlerChrysler questa tendenza è stata portata a conoscenza
di un più vasto pubblico, è da notare che già nel 2003, sono stati siglati
accordi simili in 250 aziende e nel 2004 in altre 390. Sembrerebbe, quindi,
276
che il sistema di contrattazione collettiva, considerato così rigido da parte
delle associazioni imprenditoriali sia abbastanza elastico da permettere di
tener conto delle specifiche situazioni delle aziende.
Per l’IG Metall le regolazioni deroganti dal contratto collettivo di categoria,
che formalmente sono state rese possibili con la stipulazione del contratto
del febbraio 2004, possono essere accettate se il contributo dato dai
lavoratori su base negoziale temporanea sia posto nel quadro di un progetto
complessivo sostenibile e se la deroga è inevitabile per scongiurare il
pericolo di insolvenza. Per quanto riguarda l’impresa, IG Metall chiede in
questi casi di fornire garanzie in merito all’occupazione, assicurare il
mantenimento durevole dello stabilimento e pianificare un adeguato volume
di investimenti per il futuro da poter garantire sia l’innovazione e lo sviluppo
dei prodotti, che il miglioramento della produttività del lavoro.
Diversa è invece ormai la posizione delle associazioni imprenditoriali. Il loro
interesse, infatti, non è quello di poter negoziare deroghe agli standard
contrattuali in caso di crisi aziendali. Il loro vero obiettivo è il superamento
del concetto di standard minimo definito dal contratto collettivo di categoria.
In quest’ottica il contratto collettivo dovrebbe assumere il carattere di un
accordo quadro che prevede dei margini entro i quali le aziende si possono
orientare in modo da trovare la soluzione più adatta dal punto di vista del
miglioramento della loro competitività. L’idea sarebbe di legare gli standard
contrattuali all’andamento dei costi o degli utili della singola azienda e
renderli in questo modo variabili. Allo stesso tempo questo processo
dovrebbe essere combinato ad un abbassamento generale degli standard
minimi in vigore fino ad ora. Questo tipo di meccanismo è stato introdotto
per esempio negli accordi firmati alla Volkswagen nel 2004 e alla Opel nel
2005 dove l’erogazione dei bonus è collegata per la prima volta a parametri
aziendali e dove anche nel caso più favorevole il bonus massimo rimarrà
comunque al disotto del livello dei bonus precedenti.
Se poi aggiungiamo che i patti per l’occupazione e la competitività con
deroghe agli standard contrattuali sono stati firmati anche in imprese per le
quali non si poneva il pericolo di insolvenza si può concludere che il
processo di decentramento della contrattazione collettiva stia avvenendo più
sotto il segno dell’erosione sistematica degli standard contrattuali che non
secondo la posizione del sindacato che vorrebbe accettare questi accordi
aziendali solo in casi di crisi e quindi come fenomeni eccezionali e
temporanei. È piuttosto probabile che le aziende cerchino sempre più
277
sistematicamente a derogare agli standard contrattuali per ridurre i costi e
migliorare la loro competitività.
Dal punto di vista sindacale i patti per l’occupazione e la competitività
rappresentano un approccio difensivo alla contrattazione; non esiste più il
legame tradizionale fra contrattazione collettiva e miglioramento della
posizione dei lavoratori. La geometria dei contratti collettivi è mutata
profondamente in quanto i patti per l’occupazione e la competitività sono
fondamentalmente caratterizzati da concessioni più o meno unilaterali. In
questo contesto la strategia sindacale si definisce sempre più in una logica
difensiva, orientata a limitare le deroghe agli standard contrattuali.
Secondo un’indagine dell’associazione imprenditoriale del settore
metalmeccanico, Gesamtmetall, fino all’inizio del 2005, 125 aziende
avrebbero fatto richiesta di negoziare delle deroghe agli standard contrattuali
e in 113 casi il sindacato, l’IG Metall, avrebbe acconsentito. Qui troviamo
oltre ai già menzionati 41 casi di allungamento dell’orario di lavoro senza
conguaglio anche 39 casi in cui viene ridotta la tredicesima, 9 casi in cui
viene ridotta la retribuzione mensile e 6 casi in cui viene eliminata la parte
extracontrattuale della retribuzione. Come contropartita in 59 casi le aziende
rinunciano a licenziamenti per motivi aziendali, solo in 11 casi vengono
assicurati futuri investimenti, in 7 casi vengono fornite garanzie di
mantenimento di stabilimenti ed in 6 casi vengono garantiti dei livelli
occupazionali. Il dato più indicativo è comunque che in 47 casi le aziende
non forniscono risposte rispetto ad una eventuale contropartita. La
mancanza di una risposta indica probabilmente l’assenza di una
contropartita che significherebbe che in più di un terzo dei casi registrati ci
troviamo di fronte a concessioni unilaterali.
Il 2004 sarà ricordato come un anno in cui è avvenuto un salto qualitativo
per quanto riguarda l’erosione degli standard stabiliti dai contratti collettivi
di categoria, in particolar modo rispetto all’orario di lavoro e ai livelli di
retribuzione. Di fronte a questa situazione l’autorevole settimanale Die Zeit
(47/2004) scrive che i lavoratori stanno assistendo ad un “esautorazione
epocale” del sindacato, mai stato così debole dal dopoguerra ad oggi.
Se da un lato è vero che la globalizzazione della competizione e le
conseguenti minacce di delocalizzazione di siti produttivi hanno portato ad
una erosione del contratto collettivo di categoria attraverso un processo di
decentramento e di flessibilizzazione della contrattazione collettiva,
dall’altro lato, c’è comunque anche la necessità di fare delle differenziazioni.
278
Nella valutazione dei patti per l’occupazione e la competitività è, infatti
necessario distinguere i casi in cui vengono stabilite delle deroghe agli
standard del contratto collettivo di categoria e i casi nei quali vengono
concordati deterioramenti dei livelli retributivi e delle condizioni di lavoro,
senza tuttavia mettere in discussione gli standard minimi stabiliti dal
contratto collettivo di categoria.
Contrariamente rispetto ai risultati dell’accordo raggiunto alla Siemens, per
quanto riguarda ad esempio le case automobilistiche, i patti per
l’occupazione e la competitività non implicano in genere un’erosione del
contratto collettivo ma solo un avvicinamento agli standard definiti dal
contratto collettivo di categoria. Il fatto che i risultati siano tendenzialmente
più positivi nel caso delle case automobilistiche è probabilmente dovuto
anche all’alto livello di sindacalizzazione e alla capacità di mobilitazione.
Viceversa troviamo i patti per l’occupazione e la competitività meno
favorevoli per i dipendenti: spesso infatti contengono deroghe agli standard
dei contratti collettivi in realtà aziendali con minor tasso di
sindacalizzazione. Particolarmente difficile è la situazione nelle piccole e
medie imprese, in cui gli accordi possono essere anche caratterizzati da
concessioni senza nessun tipo di contropartita da parte del management. La
qualità dei patti per l’occupazione e per la competitività sembra quindi
dipendere non solo dalla situazione economica dell’impresa ma anche dai
rapporti di forza esistenti nelle rispettive imprese.
Anche differenziando fra i diversi tipi di patti aziendali rimane comunque il
fatto che si tratta di accordi firmati dai sindacati che si trovano in una
posizione difensiva, posizione che permette poco spazio di azione. Il
consiglio di azienda della Siemens ha infatti parlato di trattative sotto ricatto
indicando, con quest’affermazione, lo spostamento dei rapporti di forza a
favore della multinazionale.
In un tale contesto in cui imprese altamente redditizie riescono attraverso
minacce di delocalizzazione a costringere il sindacato a fare concessioni e
accettare deroghe agli standard contrattuali collettivi minimi diventa sempre
più discutibile parlare ancora di un processo di “decentramento controllato”
in quanto una parte, ovvero i consigli di azienda ed i sindacati, è esposta in
modo arbitrario alle minacce della controparte. Diventa quindi difficile per il
sindacato circoscrivere l’utilizzo di deroghe agli standard minimi ai casi
effettivamente di emergenza. Di conseguenza si pongono ormai seri dubbi
rispetto alla stabilità del sistema di contrattazione collettiva tedesco.
279
I consigli di azienda sono infatti ben consapevoli che la loro forza dipende
anche dalla qualità e dalla vincolabilità dei contratti collettivi di categoria.
Di conseguenza, i consigli di azienda sono piuttosto scettici rispetto ad un
ulteriore decentramento della contrattazione collettiva. In un sondaggio
dell’Istituto di scienza economica e sociale della Fondazione Hans Böckler
l’80 % dei consigli di azienda considerano un ulteriore decentramento della
contrattazione collettiva in modo ambivalente o genericamente problematico.
Come sostiene anche Bispinck, la politica del “decentramento controllato”
non sembra affatto adatta a stabilizzare il sistema di contrattazione collettiva
tedesco. Un tale approccio implica invece il rischio di muoversi sempre di
più nella direzione di una contrattazione competitiva fra gruppi dello stesso
settore o anche fra stabilimenti dello stesso gruppo. Ai tempi di un’Unione
europea allargata una tale tendenza sembra particolarmente pericolosa.
Come abbiamo visto alla base dei patti per l’occupazione e la competitività
sta la minaccia di trasferire la produzione e/o di indirizzare investimenti
futuri verso paesi con un minore costo del lavoro. Il management mette
quindi i vari stabilimenti di un gruppo in diretta competizione fra di loro.
Visto che la riduzione dei costi ottenuta grazie al patto per l’occupazione e
la competitività porta ad un vantaggio competitivo nei confronti delle altre
imprese del rispettivo settore alla fine anche queste imprese saranno costrette
a ridurre i loro costi. Esiste quindi il rischio che in questo modo si metta in
moto uno spiraglio verso il basso. Nell’industria automobilistica solo nel
2004/05 ci sono stati i casi della DaimlerChrysler, della Volkswagen e poi
della General Motors. Poi, in primavera del 2005 si è aggiunto il patto per
l’occupazione e la competitività firmato all’Audi che aveva chiuso il 2004
con risultati ancora migliori di quelli del 2003. La prossima richiesta di
riduzione dei costi del lavoro da parte di un'altra casa automobilistica
sembra solo una questione di tempo.
La tendenza sempre più sfrenata verso il dumping sociale implica che il
contratto collettivo di categoria perde sempre di più la sua funzione di
solidarietà fra i lavoratori e di garantire una competizione leale fra le aziende
dello stesso settore. A livello macroeconomico le deroghe agli standard
retributivi contribuiscono alla tendenza che gli incrementi salariali reali
percepiti dai lavoratori sono mediamente più bassi di quelli contrattati dai
sindacati. Questo fenomeno mina ovviamente i tentativi delle federazioni
sindacali europei di coordinare la politica contrattuale a livello europeo in
280
modo da evitare una competizione fra le economie nazionali basata sul
dumping contrattuale.
Questo significa che esiste il rischio che il contratto collettivo perda la sua
funzione di stabilire degli standard minimi per tutti i lavoratori di una
determinata categoria. Si potrebbe ipotizzare che questo problema sia di più
difficile soluzione in sistemi di rappresentanza a canale doppio dove le
rappresentanze dei lavoratori godono di una più elevata autonomia rispetto
al sindacato esterno che non in sistemi a canale unico dove siamo di fronte
ad una più forte integrazione fra rappresentanze aziendali ed organizzazioni
sindacali.
I patti per l’occupazione e la competitività possono quindi minare norme e
standard definiti dai contratti collettivi e contribuire, più in generale, ad una
pressione crescente che ha come obiettivo il cambiamento dei sistemi di
regolazione trasferendo più competenze di regolazione a livello aziendale.
6 Le
ripercussioni
del
decentramento
contrattazione collettiva sulle relazioni industriali
della
La crescente tendenza verso il decentramento della contrattazione implica,
dal punto di vista sindacale, altre sfide ancora. La prima riguarda
l’identificazione dei titolari della contrattazione aziendale. Visto che i
consigli di azienda che non sono una struttura sindacale hanno una funzione
nel sistema di rappresentanza e di codeterminazione, ma non nel sistema di
contrattazione collettiva si pone la domanda su quale sarà il ruolo del
sindacato rispetto alla contrattazione aziendale e come sarà organizzata in
prospettiva la cooperazione fra strutture sindacali e consigli di azienda.
Sicuramente il sindacato non vorrà lasciare il ruolo di contrattazione a
livello aziendale solamente ai consigli di azienda, visto che queste strutture
teoricamente possono anche essere composte esclusivamente da non iscritti
al sindacato. Per il sindacato, il decentramento della contrattazione significa,
quindi, dover ridefinire il suo ruolo ed il suo rapporto con le strutture di
rappresentanza a livello aziendale. In generale, il decentramento della
contrattazione significa un nuovo compito per il sindacato e, quindi, anche la
necessità di dedicare più risorse all’attività sindacale a livello aziendale così
come alla formazione dei membri dei consigli di azienda.
Se si dovesse arrivare ad una formalizzazione di un secondo livello di
contrattazione, il vero nodo da sciogliere riguarderebbe il diritto di sciopero.
281
Oggi il consiglio di azienda, che viene costituito sulla base della legge sulla
costituzione aziendale, non rappresenta una struttura sindacale e
formalmente non avrebbe nessun ruolo di contrattazione collettiva. Di
conseguenza, i consigli di azienda non possono indire scioperi, anzi, la legge
richiede sia dai consigli di azienda, sia dal management un atteggiamento
cooperativo. Dal punto di vista della regolazione della contrattazione
collettiva l’obbligo di pace sociale dopo la stipula di un contratto collettivo
di categoria vieta gli scioperi fino alla scadenza di questo contratto. Sarebbe
vietato quindi anche indire degli scioperi a livello decentrato per motivi
aziendali. Per questo motivo nel caso dell’Opel gli scioperi sono stati
giustificati come “partecipazione ad assemblee di informazione”. L’IG
Metall stessa ha annunciato che di fronte a queste tendenze di decentramento
intende rafforzare la sua posizione a livello aziendale e sviluppare un potere
contrattuale a livello decentrato.
L’associazione imprenditoriale del settore metalmeccanico, Gesamtmetall,
considera il decentramento della contrattazione collettiva un fenomeno
ambivalente. Da un lato, ci si auspica il decentramento per trovare risposte
nell’ambito della contrattazione collettiva che tengano conto delle specifiche
situazioni aziendali; dall’altro lato, si avverte il rischio che un decentramento
troppo accentuato possa significare mettere a rischio la pace sociale a livello
aziendale. Visto che la funzione di contrattazione è necessariamente legata
anche al diritto di sciopero, il presidente di Gesamtmetall, Kannegiesser,
prevede che se i consigli di azienda assumano il ruolo di contrattazione a
livello aziendale essi perdono la loro classica funzione di partecipare alla
ricerca di compromessi e, quindi, il carattere partecipativo delle relazioni
industriali verrebbe messo a rischio. Kannegiesser si pronuncia quindi
contro una trasformazione del ruolo dei consigli di azienda e di conseguenza
anche contro un trasferimento troppo esteso di competenze contrattuali alle
strutture di rappresentanza a livello aziendale. L’introduzione formale di un
secondo livello di contrattazione potrebbe anche implicare la nascita di
sindacati aziendali e quindi la frammentazione delle organizzazioni di
rappresentanza. Per evitare un tale scenario secondo Kannegiesser il
contratto collettivo di categoria dovrebbe mantenere la sua funzione guida e
dovrebbe essere applicabile da tutte le aziende della categoria. Solo
l’adattamento alle peculiarità aziendali dovrebbe secondo il parere di
Kannegiesser essere materia di una contrattazione a livello aziendale. Il
presidente di Gesamtmetall si pronuncia quindi chiaramente contro una
282
troppa accentuata aziendalizzazione della contrattazione per evitare tendenze
di aziendalismo e di conflitto non controllabili.
7 La competizione fra stabilimenti dello stesso gruppo
e il ruolo dei Comitati aziendali europei (Cae)
Già negli anni novanta si sono verificati casi di ristrutturazione a livello
europeo che hanno visto, almeno formalmente, il coinvolgimento delle
strutture di rappresentanza dei lavoratori. Rispetto al contesto italiano uno
dei casi più noti riguarda il processo di ristrutturazione alla Electrolux alla
fine degli anni novanta. In questo caso il management centrale aveva messo
in competizione fra di loro i vari stabilimenti europei e anche i rispettivi
delegati presenti nel Cae. Di fronte a questa sfida lanciata dal management
centrale il Cae non riusciva a sviluppare una strategia alternativa e condivisa
e, di conseguenza, non era in grado di influenzare le decisioni del
management centrale: i problemi principali, infatti, riguardavano sia
l’insufficiente coesione interna del Cae, sia il mancato coordinamento fra il
Cae e le organizzazioni sindacali a livello europeo.
Nei patti per l’occupazione e la competitività firmati recentemente si nota
che solo nel caso della General Motors è stato coinvolto il Comitato
aziendale europeo. Tutti gli altri casi sono stati gestiti esclusivamente a
livello nazionale. Il Cae che già a partire dal 2000 aveva assunto un ruolo di
negoziazione anche nel processo di ristrutturazione del 2004/05 ha firmato
un accordo quadro che rappresentava un punto di riferimento comune per i
seguenti processi di negoziazione a livello nazionale. Il caso della General
Motors ha dimostrato che per poter sviluppare una strategia basata su una
solidarietà a livello europeo è indispensabile una stretta cooperazione fra le
federazioni sindacali ed i comitati aziendali europei così come
un’integrazione fra le strutture di rappresentanza a livello europeo, nazionale
ed aziendale. L’esperienza positiva del Cae della General Motors è dovuta
anche al grado di coesione interna raggiunto. Secondo il presidente del Cae
della General Motors all’interno della struttura di rappresentanza europea si
sono consolidati nel corso degli anni principi di lavoro che sono la
trasparenza, la franchezza e la lealtà. Per quanto riguarda la cooperazione
con la Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) è da notare che per la
prima volta un gruppo di monitoraggio è stato costituito presso la Fem con il
compito di accompagnare il processo di ristrutturazione. Secondo il
283
presidente del Cae il lavoro di questo gruppo ha migliorato notevolmente la
cooperazione fra Cae e Fem.
Nel caso della General Motors le attività di protesta e di sciopero hanno
riguardato vari paesi europei. Dal punto di vista sindacale gli scioperi e le
azioni di protesta avevano soprattutto la funzione di dimostrare l’esistenza di
una solidarietà fra le maestranze, sia a livello nazionale, sia a livello
europeo.
Nel caso della Volkswagen siamo invece di fronte ad una strategia nazionale
che proprio dal punto di vista del bisogno di un coordinamento a livello
europeo potrebbe essere considerata inadeguata. È, infatti, probabile che
l’accordo abbia delle ripercussioni anche al di fuori della Germania e quindi
secondo gli orientamenti della Fem sarebbe stata auspicabile almeno una
discussione preventiva a livello europeo. Il tentativo di trovare soluzioni
isolate a livello di singolo stabilimento o a livello nazionale favorisce infine
tendenze di competizione fra singole realtà produttive o fra i vari contesti
nazionali come successe per esempio nel sopramenzionato caso della
Electrolux.
Il Teamworking nel settore automobilistico negli
U.S.A.: strategie ed effetti sulle prestazioni
produttive e sui risultati dei lavoratori
William Cooke, David Meyer, Christopher Huxley
Negli ultimi trent’anni, negli Stati Uniti l’industria automobilistica e della
fornitura di componentistica ha attraversato un profondo cambiamento
strutturale in un situazione di fondo su scala mondiale caratterizzata da una
sovrabbondanza di capacità e da un cambiamento nei modelli di investimenti
diretti esteri (FDI). In risposta ad un mercato internazionale sempre più
competitivo e incerto, i fornitori di componenti continuano a trasformare e
adattare le loro strategie di lavoro e commerciali. Il presente studio verte
principalmente sul ruolo del teamworking (lavoro di squadra) nell’ambito di
queste strategie di lavoro e commerciali in fase di trasformazione,
soprattutto in termini di scelte strategiche, degli effetti sulle prestazioni
aziendali e sul grado di percezione delle ricadute positive per i lavoratori.
In seguito ad un’indagine effettuata sulle società statunitensi, esamineremo
innanzitutto le scelte strategiche da esse effettuate riguardanti l’ambiente di
lavoro e il lavoro di squadra concernente il personale addetto alla produzione
perseguite nel quadro più ampio delle strategie aziendali. Successivamente
analizzeremo gli effetti del teamworking dal punto di vista dei datori di
lavoro sia sulla performance sia sul grado d’impegno dei lavoratori verso il
raggiungimento degli obiettivi aziendali. Poiché precedenti analisi sulle
società statunitensi hanno rilevato diverse differenze fra gli effetti del
teamworking sulla performance, desideriamo qui esaminare gli effetti
differenziali del teamworking fra le aziende sindacalizzate e quelle non
sindacalizzate. In terzo luogo, in base ai dati derivanti da un’indagine fra i
lavoratori di tutte le otto le aziende sindacalizzate, analizzeremo gli effetti
del teamworking prevalentemente basato sulle mansioni e dell’empowerment
dei lavoratori secondo le percezioni degli stessi sulla loro disponibilità a
impegnarsi a fare di più.
285
1 Il settore della fornitura
automobilistica in prospettiva
di
componentistica
Il settore della fornitura di componentistica automobilistica è composto da
diciassette principali industrie produttrici (es., airbag, alternatori, freni,
frizioni, apparecchiature elettroniche, componenti di motori, sistemi di
scarico, sterzo, sedili e trasmissioni). Negli U.S.A., questo settore è stato a
lungo caratterizzato da un alto grado di mobilità di lavoratori, storicamente
il risultato della natura ciclica e altalenante della domanda e della
produzione di autoveicoli. Più recentemente, il settore automobilistico e della
fornitura di componenti per auto è stato contraddistinto da una
delocalizzazione costante verso paesi a basso costo di manodopera, quali il
Messico e l’America Latina. L’effetto netto di questi spostamenti
d’investimenti all’estero nel periodo 1989-1998 è stato un calo
dell’occupazione totale del 16 percento (equivalente a una perdita di circa
164.000 posti di lavoro) in tutte le attività delle società multinazionali degli
U.S.A.
Nonostante un’impennata senza precedenti degli investimenti diretti esteri
negli U.S.A. nel periodo 1987-1997, che ha contribuito a controbilanciare le
perdite di posti di lavoro nelle società di proprietà U.S.A. (con un aumento
netto di 140.000 posti di lavoro), le operazioni di fusione ed acquisizione da
parte di società statunitensi hanno comportato in generale una forte
delocalizzazione di manodopera. Il che vuol dire che per ogni posto di lavoro
in più creato grazie a nuovi investimenti diretti esteri negli U.S.A., un altro
posto di lavoro va perso a causa della vendita o della liquidazione di società
di proprietà estera con sede negli U.S.A. Inoltre, la sostituzione di
manodopera con capitale da parte delle multinazionali sembra essere
enormemente aumentata nel corso dell’ultimo decennio. Anzi, verso la fine
degli anni 1980 e nel corso degli anni 1990, si è verificata una diminuzione
di circa il 50 per cento nel numero dei lavoratori assunti per ogni miliardo di
dollari U.S.A. investito sia in società statunitensi sia in società di proprietà
estera con sede negli U.S.A. operanti nel settore della produzione e della
fornitura automobilistica (vedere Cooke, Huxley, e Meyer, 2002, per
ulteriori dettagli.)
Tenendo conto di queste caratteristiche proprie del settore automobilistico e
della componentistica per auto, desideriamo esaminare le strategie di
organizzazione del lavoro messe in atto dai fornitori di componenti nel loro
tentativo di ottenere un vantaggio competitivo e di massimizzare la
286
redditività in un mercato globale caratterizzato da una forte ciclicità,
ristrutturazioni e intensificazione di capitale. Prima di illustrare tali
strategie, intendiamo descrivere i dati raccolti che sono alla base delle analisi
effettuate.
2 Raccolta dati
Il nostro campione di società fornitrici di componenti per auto è stato
inizialmente selezionato nell’aambito di un elenco di 909 aziende individuate
da ELM Internazionale, una società di consulenza e indagini di mercato,
specializzata nel settore della fornitura di componenti per automobili negli
U.S.A. Sono state effettuate delle indagini telefoniche presso tutte le società
cmprese nell’elenco per verificare gli indirizzi di posta e per ottenere i nomi
degli alti dirigenti a cui spedire i questionari. Alla fine siamo stati in grado
d’individuare e localizzare un totale di 808 aziende ancora operanti nel
settore al momento del nostro primo mailing (a fine gennaio 2001) a 356
società con tre o più stabilimenti produttivi.
Per quel che concerne questo gruppo di società più grandi, abbiamo inviato
dei questionari agli alti dirigenti. Il questionario relativo alla Strategia
Commerciale è stato indirizzato all’Amministratore Delegato (CEO) o al
Presidente, il questionario relativo alla Strategia Operativa è stato
indirizzato al Vice-Presidente o ad altri alti dirigenti responsabili delle varie
attività, mentre il questionario relativo alla Strategia per lo Sviluppo delle
Risorse Umane (SRU) è stato indirizzato al Vice-Presidente o ad altri alti
dirigenti responsabili del personale. Per quanto riguarda le altre aziende con
solo uno o due stabilimenti produttivi, abbiamo inviato tutti e tre i
questionari all’Amministratore Delegato (CEO) o al Presidente, chiedendo di
completare anche il questionario relativo alla Strategia Commerciale e di
chiedere agli altri alti dirigenti responsabili del personale e delle altre attività
di completare rispettivamente i questionari relativi alla Strategia per lo
Sviluppo delle Risorse Umane e alla Strategia Operativa. Dopo ripetute
richieste di follow-up inviate ai non-rispondenti, entro il mese di ottobre
2001 avevamo ricevuto le risposte da parte dei dirigenti delle 175 società ad
uno o più dei tre questionari inviati. In particolare, abbiamo ricevuto 130
risposte relativamente alla nostra indagine sulla Strategia Commerciale, 128
risposte relativamente a quella sulla Strategia Operativa e 108 risposte
relativamente a quella sulla Strategia per lo Sviluppo delle Risorse Umane.
Oltre alla ricerca nazionale rivolta ai dirigenti di aziende operanti nel settore
della fornitura di componenti per automobili, abbiamo condotto l’indagine
287
anche fra i dirigenti aziendali e sindacali riguardo le proprie rispettive
strategie commerciali e di organizzazione del lavoro in un gruppo
selezionato di 15 imprese sindacalizzate ubicate nella parte sudorientale del
Michigan. All’interno di queste 15 imprese, abbiamo anche intervistato gli
addetti alla produzione di 8 stabilimenti, ottenendo risposta da parte di 888
lavoratori. Tuttavia, il questionario rivolto agli addetti non era ideato
specificatamente per analizzare il tema del lavoro in squadra in quanto tale,
ma piuttosto per delineare un quadro più ampio delle esperienze degli addetti
alla produzione relativamente ad un ampio spettro di strategie di
organizzazione del lavoro e di sviluppo delle risorse umane adottate
all’interno dell’impresa. Nonostante i limiti dell’indagine, siamo stati
comunque in grado di esaminare gli effetti netti del lavoro in squadra basato
sulle mansioni e dell’empowerment psicologico sullo sforzo e l’impegno a
fare di più da parte dei lavoratori, tenendo conto anche di tutta una serie di
altre variabili fondamentali per l’analisi del tema del teamworking.
3 Strategie di organizzazione del lavoro
Spinti dal desiderio di ottimizzare i profitti, i dirigenti aziendali cercano di
elaborare ed attuare strategie atte a raggiungere tale obiettivo a vantaggio
dell’impresa nell’ambito del mercato in cui si trovano ad operare. Secondo
tale impostazione, il nostro modello relativo alle strategie commerciali e di
organizzazione del lavoro è in linea con la teoria dei costi di transazione.
Come sostenuto da Williamson (1991), il presupposto principale alla base
della teoria dei costi di transazione è che la strategia commerciale può essere
considerata come un atto volto ad allineare le transazioni con le strutture di
governance nel modo più efficace rispetto ai costi. Conseguentemente, la
performance aziendale dipende dalla capacità dei dirigenti di elaborare il
calcolo del rapporto costo-benefici percepito sia (1) delle varie transazioni
sia (2) dell’allineamento di tali transazioni.
Come proposto da altri autori (Cooke, Huxley e Meyer, 2002), innanzitutto
le imprese prendono numerose decisioni fondamentali riguardo
all’importanza strategica da attribuire (1) al posizionamento di mercato,
principalmente al fine di tutelare ed ampliare le proprie quote di mercato e di
sviluppare nuovi sbocchi di mercato, (2) alla performance, ossia rispetto al
controllo dei costi, al controllo qualità e alla fornitura di prodotti e servizi
innovativi, (3) alla portata e alla configurazione delle operazioni e (4) al mix
e alla gamma dei prodotti offerti e dei clienti serviti.
288
Una volta prese tali decisioni strategiche fondamentali, i dirigenti dovranno
decidere quali strategie di organizzazione del lavoro adottare, in maniera tale
da massimizzare gli obiettivi strategici principali nel modo più efficace e
conveniente. Come illustrato nella presente relazione, le strategie di
organizzazione del lavoro comprendono varie politiche e pratiche alla base
sia dei sistemi tecnologici che dei sistemi di gestione delle risorse umane in
tutte le fasi produttive dell’impresa. Quindi, nel formulare delle strategie di
organizzazione del lavoro, le imprese devono decidere l’enfasi da attribuire
a: (1) applicazione di nuovi processi tecnici, tecnologie e apparecchiature,
(2) soluzioni ingegneristiche e altre applicazioni correlate di R&S e (3)
miglioramento delle pratiche di gestione delle risorse umane. In base
all’enfasi scelta da ogni luogo di lavoro, saranno poi messe a punto le
diverse strategie di organizzazione del lavoro.
Rispetto alla categorizzazione delle imprese in base all’enfasi scelta da ogni
luogo di lavoro, i rispondenti all’Inchiesta sulla Strategia Operativa sono
stati invitati ad assegnare un totale di 10 punti alle diverse scelte che
riflettessero le priorità seguite dalla propria società nel corso degli ultimi 5
anni. In particolare, ai rispondenti è stato chiesto: “Senza usare frazioni, si
prega di assegnare un totale di 10 punti per indicare le priorità seguite dalla
vostra azienda nel corso degli ultimi 5 anni relativamente ai seguenti
obiettivi”:
1. applicazione di nuovi processi tecnici, tecnologie e apparecchiature;
2. miglioramento delle pratiche di gestione delle risorse umane;
3. soluzioni ingegneristiche e altre applicazioni R&S tese al miglioramento
di prodotti e servizi.
In base agli obiettivi che hanno ricevuto il punteggio più alto, le imprese
sono state categorizzate per priorità di enfasi. La maggioranza (39%) ha
dato priorità all’applicazione di nuovi processi tecnici, tecnologie e
apparecchiature, il 26% ha privilegiato soluzioni ingegneristiche e altre
applicazioni correlate di R&S, e il 19% ha inece optato per il miglioramento
delle pratiche di gestione delle risorse umane. Il restante 16% delle imprese
ha posto la stessa enfasi su due delle tre attività, essendo così categorizzate
come aziende che perseguivano obiettivi con una “duplice” enfasi.
4 Enfasi e differenze di pratiche adottate dai diversi
luoghi di lavoro
Ai fini di una migliore comprensione dei quattro tipi di enfasi individuati sui
diversi luoghi di lavoro che si differenziano per le pratiche effettive di
289
gestione delle risorse umane e degli attributi tecnologici, qui di seguito
presenteremo un confronto fra le diverse enfasi attribuite dai diversi luoghi
di lavoro in base alle differenze di lavoro in squadra e relative attività,
retribuzioni, formazione e tecnologie. Come illustrato nella Tabella 1,
esistono differenze sostanziali fra questi diversi attributi e pratiche in tutte e
quattro le enfasi poste dai diversi luoghi di lavoro. Prima di passare
all’analisi dettagliata del teamworking, intendiamo prima riassumere il modo
in cui tali enfasi sono generalmente differenziate dai diversi luoghi di lavoro.
Per quanto concerne altri tipi di enfasi, come ad esempio quella riguardante
la gestione delle risorse umane, un’enfasi relativamente alta è posta sulle
attività fondate sul lavoro di squadra, sulla rotazione, sulla condivisione
delle informazioni, e sulle retribuzioni commisurate ai risultati; un’enfasi
relativamente moderata è posta sulle opportunità di percepire alte
retribuzioni, di formazione e di diffusione di tecnologie. La proporzione
relativamente alta degli addetti partecipanti a squadre di lavoro (una media
del 67%) e l’uso diffuso di retribuzioni commisurate ai risultati (riguardante
il 69% delle imprese) fra le aziende che avevano posto una particolare enfasi
sulla gestione delle risorse umane sono delle caratteristiche tipiche di questo
tipo di enfasi posta su questo luogo di lavoro. D’altra parte, per quel che
concerne l’enfasi posta sugli aspetti ingegneristici, questa è caratterizzata da
un’enfasi relativamente bassa posta sulle attività fondate sul lavoro di
squadra, sulla rotazione, sulla condivisione delle informazioni, e sulle
retribuzioni commisurate ai risultati; ma da un’enfasi relativamente alta
posta sulle opportunità di percepire alte retribuzioni, di formazione e di
diffusione di tecnologie. Rispetto ad altri tipi di enfasi attribuite dai diversi
luoghi di lavoro, gli attributi che caratterizzano l’enfasi posta sugli aspetti
ingegneristici sono le retribuzioni orarie potenziali molto più elevate offerte
(ad una media leggermente superiore a U.S.$ 14 l’ora) e gli investimenti in
formazione di gran lunga maggiori per gli addetti alla produzione (con una
media di 96 ore l’anno).
L’enfasi posta sugli aspetti tecnici è caratterizzata da un’enfasi
relativamente alta posta sulla rotazione e sulla diffusione di tecnologie;
un’enfasi relativamente moderata posta sulle attività fondate sul lavoro di
squadra, sulla rotazione, sulla condivisione delle informazioni, e sulle
retribuzioni commisurate ai risultati. Sulla base degli attributi tecnologici e
delle pratiche di gestione delle risorse umane illustrati nella Tabella 1,
l’enfasi posta sugli aspetti tecnici non appare avere delle particolari
caratteristiche distintive. Infine, per quel che concerne l’enfasi duplice,
290
questa è caratterizzata da un’enfasi relativamente bassa posta sulle
opportunità di percepire alte retribuzioni, sulla formazione, rotazione e
diffusione tecnologica; un’enfasi relativamente moderata posta sulle attività
fondate sul lavoro di squadra; e da un’enfasi relativamente alta posta sulle
retribuzioni commisurate ai risultati e sulla condivisione informazioni. Ciò
che contraddistingue in particolare l’enfasi duplice dagli altri tipi di enfasi è
l’entità relativamente bassa di investimenti realizzati in nuove tecnologie e
formazione.
Nell’indagine nazionale sulle imprese, è stato inoltre chiesto ai vari dirigenti:
Qual è la percentuale di addetti alla produzione facente parte di squadre di
lavoro, circoli di qualità o di altri tipi di gruppi partecipativi? In generale, è
stato riscontrato che in media il 47% degli addetti alla produzione fa parte di
squadre di lavoro. Le imprese che pongono una particolare enfasi sulla
gestione delle risorse umane sono quelle con la più alta proporzione di
addetti alla produzione organizzati in squadre di lavoro (con una media del
67%), mentre le imprese che pongono una particolare enfasi sugli aspetti
tecnologici sono quelle con la più bassa proporzione di squadre di lavoro
(38%). La dimensione media delle squadre di lavoro del campione è di otto
lavoratori. Solo le imprese che attribuiscono un’enfasi duplice nei diversi
contesti lavorativi hanno delle squadre sostanzialmente più numerose, che
comprendono in media 12 lavoratori per squadra. In media, le squadre si
riuniscono in azienda circa due volte al mese; con una maggiore frequenza
nelle imprese che pongono una particolare enfasi sugli aspetti tecnologici e
con una minore frequenza nelle imprese che pongono una particolare enfasi
sugli aspetti tecnici e sulla gestione delle risorse umane. Infine, i lavoratori
partecipanti al lavoro in squadra hanno ricevuto, in media, solo circa 12 ore
di formazione relativamente al lavoro in squadra. Solo le imprese che
attribuiscono un’enfasi particolare alla gestione delle risorse umane hanno
erogato una maggiore formazione, in media di 17 ore.
Per riassumere, dal confronto dei quattro tipi diversi di enfasi poste dai
diversi luoghi di lavoro relativamente soltanto agli attributi tecnologici e alle
pratiche di gestione delle risorse umane, emerge che le strategie di
organizzazione del lavoro alla base dei quattro tipi di enfasi analizzati hanno
caratteristiche distintive. Inoltre, poiché le semplici misure delle varie
pratiche di gestione delle risorse umane e degli attributi tecnologici dedotti
dai questionari non possono solo rilevare le vere differenze fra i quattro tipi
di enfasi, le differenze tenderanno ad essere più accentuate rispetto a quelle
rilevate dalle nostre misurazioni. Benché vi siano delle differenze evidenti fra
i vari tipi di enfasi attribuiti alle diverse pratiche di gestione delle risorse
291
umane, come sopra descritto, nessuna enfasi strategica preclude, tuttavia,
l’uso di una determinata pratica di gestione delle risorse umane individuata.
Invece, a prescindere dalle diverse enfasi vigenti nei diversi contesti
lavorativi, esistono delle imprese all’interno di ogni classificazione che
utilizzano, ad esempio, le squadre di lavoro, la rotazione, le retribuzioni
commisurate ai risultati ecc. In altre parole, le strategie di organizzazione del
lavoro sono alla fin fine prettamente una questione di enfasi.
5 Enfasi, strategie e performance aziendale
1
Effetti dei vari gradi di enfasi attribuiti alle prestazioni
Date le differenze fra le pratiche di gestione delle risorse umane e gli
attributi tecnologici nei diversi tipi di enfasi dei diversi luoghi di lavoro, di
cui sopra, (oltre alle differenze non rilevate in termini di empowerment,
controllo del lavoro, ambiente lavorativo, ecc.), quali sono i tipi di enfasi
posti dai diversi contesti lavorativo che hanno portato alle prestazioni più
elevate? Abbiamo effettuato un confronto approssimativo delle diverse
risposte date alle numerose domande relative ai risultati di performance da
parte dei dirigenti responsabili di varie aree nell’ambito dell’Indagine sulla
Strategia Operativa. In particolare, è stata posta la seguente domanda ai
dirigenti: “Rispetto ad altre aziende che realizzano prodotti simili, quali sono
le prestazioni della vostra azienda rispetto a … produttività del lavoro …
qualità del prodotto … valore aggiunto per addetto?” In base a una scala da
1 a 5 punti (a partire dal punteggio più basso fino a quello più elevato),
pochissimi rispondenti ritenevano di aver raggiunto delle prestazioni inferiori
rispetto ai concorrenti. D’altra parte, solo pochi erano dell’opinione che le
prestazioni raggiunte erano “molto” migliori.
In media, il 55% dei rispondenti ha risposto di aver raggiunto una maggiore
produttività del lavoro rispetto ai concorrenti. Mentre il 66% delle imprese la
cui enfasi è posta sugli aspetti tecnici ha risposto di aver raggiunto una
maggiore produttività, e solo il 43% delle imprese caratterizzata da
un’enfasi duplice ha risposto di aver raggiunto una maggiore produttività
rispetto ai propri concorrenti. In media, circa l’80% dei rispondenti delle
imprese caratterizzate da un’enfasi posta sugli aspetti tecnici e tecnologici
ha risposto di aver raggiunto una maggiore qualità del prodotto rispetto ai
propri concorrenti, mentre solo il 65% circa dei rispondenti d’imprese
caratterizzate da un’enfasi posta sulla gestione delle risorse umane e da
un’enfasi duplice ha risposto di aver raggiunto una maggiore qualità. Per
292
quanto riguarda il valore aggiunto per addetto, le imprese caratterizzate da
un’enfasi posta sugli aspetti tecnici e ingegneristici sono quelle che in
generale hanno risposto di aver ottenuto un maggiore valore aggiunto (54%
e 50%, rispettivamente) rispetto alle imprese caratterizzate da un’enfasi
posta sulla gestione delle risorse umane (40%). In netto contrasto, solo il
15% delle imprese che persegue una duplice enfasi sul luogo di lavoro ha
risposto di aver ottenuto un maggiore valore aggiunto per addetto rispetto ai
propri concorrenti.
Al fine di esaminare più in profondità gli effetti differenziali dei quattro tipi
di enfasi sulla performance, sono state valutate delle equazioni probit
ordinate per ognuno dei tre risultati di performance. Non è stata ottenuta
nessuna stima statisticamente significativa indicante che la produttività dei
lavoratori o la qualità del prodotto fosse relativamente più alta o più bassa
fra i vari gradi di enfasi poste dai diversi luoghi di lavoro. Tuttavia, sono
state rilevate alcune differenze statisticamente significative in termini di
enfasi rispetto alla percezione del valore aggiunto per addetto. In
quest’ultima stima, la variabile dipendente è stata fissata a 0 se il valore
aggiunto dell’azienda era percepito essere lo stesso o inferiore (come ha
risposto il 56% del campione), fissata a 1 se percepito maggiore (il 37% del
campione), e fissata a 2 se percepito essere molto più alto (il 7% del
campione). Utilizzando queste tre risposte categoriche ordinate come
variabili dipendenti, è stata poi stimata l’associazione indipendente
dell’enfasi posta su aspetti tecnici, ingegneristici e di gestione delle risorse
umane (fissata a 0-1 variabili) sul valore aggiunto per addetto percepito.
L’analisi probit ordinata ha dato i seguenti risultati:
Relativa
Valore aggiunto = Intercept + Aspetti Tecnici +Ingegneristici + Gestione delle
risorse umane + Mu(2)
(1.09***) (1.07**) (1.12**)
(.92*) (1.37***)
Rispetto alle imprese che perseguono un’Enfasi duplice (il punto di
riferimento omesso o la categoria di riferimento), tutti gli altri tipi di enfasi
scelti dai diversi luoghi di lavoro sono associati ad una performance
significativamente migliore (ancora una volta, secondo la percezione dei
dirigenti delle varie aree). Valutate in media, le stime di probabilità di
raggiungere un valore aggiunto per addetto “più alto” o “molto più alto”
rispetto ai concorrenti sono molto più ampie (e fondamentalmente identiche)
per quelle imprese che perseguono un’enfasi posta sugli aspetti tecnici o
293
ingegneristici. Queste stime di probabilità, tuttavia, sono solo poco più alte
rispetto a quelle ottenute per le imprese che attribuiscono maggiore enfasi
alla gestione delle risorse umane sul luogo di lavoro.
Riepilogando, gli effetti differenziali fra le imprese che pongono un’enfasi su
aspetti tecnici, R&S/ingegneristici e sulla gestione delle risorse umane nel
migliore dei casi sono abbastanza modesti. D’altra parte, non sembra che le
prospettive per le imprese che optano per una duplice enfasi siano
promettenti. Ci sono buone ragioni che ci inducono a concludere, dunque,
che l’enfasi sugli aspetti tecnici, R&S/ingegneristici e sulla gestione delle
risorse umane posta dalle imprese fornitrici di componenti sia relativamente
stabile e possa coesistere con altre strategie alternative e competitive di
organizzazione del lavoro in un mercato globale competitivo e incerto.
2
Effetti delle pratiche aziendali sulla performance e
sull’impegno dei lavoratori nel raggiungimento degli
obiettivi aziendali
Teoria e ipotesi: Nel tentativo di massimizzare i risultati nonché la
performance produttiva, i fornitori automobilistici effettuano delle scelte di
costi delle transazioni fra tutta una serie di opzioni di gestione delle risorse
umane che potenzialmente possono ottimizzare i livelli di partecipazione e
qualificazione delle competenze dei lavoratori. Ai fini di questa inchiesta,
l’analisi degli effetti delle differenze di attività fondate sul lavoro di squadra,
retribuzioni e investimenti di formazione sulla performance riveste un
particolare interesse. Poiché circa la metà delle imprese del campione è
sindacalizzata, una speciale attenzione è stataa attribuita all’esame degli
effetti d’interazione fra lo stato di sindacalizzazione e le opzioni di gestione
delle risorse umane. Come illustrato da Cooke (1994), vi sono molti casi
studio che dimostrano che la condizione di sindacalizzazione fa la differenza.
La logica alla base degli effetti potenziali delle attività fondate sul lavoro di
squadra e delle retribuzioni commisurate ai risultati esaminati nella presente
relazione è ora ampiamente illustrata nella letteratura scientifica statunitense
(es., vedere Cooke, 1992 e 1994; Arthur, 1994; Appelbaum e Batt, 1994;
Huselid, 1995; MacDuffie, 1995; Becker e Gerhart, 1996; Youndt et al.,
1996; Ichniowski et al., 1997; Sprietzer et al., 1999). Tuttavia, ad eccezione
di Cooke, la letteratura scientifica statunitense in materia ha tutto fuorché
ignorato gli effetti potenziali d’interazione fra lo stato di sindacalizzazione e
le attività incentrate sul lavoro di squadra e le retribuzioni commisurate ai
risultati sulla performance aziendale. Facendo riferimento a quanto
294
illustrato da Cooke (1994), saranno ora analizzati in breve gli effetti
ipotizzati di tali effetti d’interazione.
Per quel che concerne le attività fondate sul lavoro di squadra, vi sono
diverse “voci collettive” che dimostrano perché il teamworking ha un effetto
positivo più forte sulle prestazioni di un’impresa sindacalizzata rispetto a
un’altra che non lo è. Innanzitutto, rispetto alle imprese non sindacalizzate,
quelle sindacalizzate offrono molte più opportunità ai lavoratori che
desiderano partecipare alle attività di progettazione e ai processi di
governance imperniati sul lavoro di squadra, o direttamente attraverso la
partecipazione o indirettamente mediante le trattative contrattuali. In
secondo luogo, i lavoratori sindacalizzati avranno maggiori risposte rispetto
a quelli non sindacalizzati relativamente alle informazioni necessarie per la
soluzione di problemi da parte dei supervisori o avranno più potere per
mettere in discussione delle decisioni prese dalla direzione che potrebbero
essere incoerenti con le politiche e la filosofia concordate che animano le
attività fondate sul lavoro di squadra. In terzo luogo, i sindacati possono
contribuire a creare degli ambienti di lavoro migliori incentrati sul lavoro di
squadra, ponendo l’accento su un equilibrio più accettabile fra il
miglioramento della qualità della vita sul posto di lavoro e il miglioramento
della performance.
I sindacati, d’altra parte, possono avere degli effetti restrittivi sul
teamworking, limitando o impedendo il problem-solving nell’ambito dei
gruppi di lavoro. Innanzitutto, a meno che i sindacati non siano disposti a
lasciare maggiore libertà di negoziazione alle squadre per eliminare regole di
lavoro restrittive, i dirigenti sindacali tenderanno probabilmente ad insistere
sulla necessità che le decisioni prese nell’ambito dei gruppi di lavoro non
entrino in contraddizione con il linguaggio contrattuale esistente. In secondo
luogo, i sindacati tenderanno a rendere la partecipazione ad attività
incentrate sul lavoro di squadra esclusivamente di tipo volontaristico, il che
potrebbe ridurre la partecipazione stessa, scoraggiare i processi di lavoro in
squadra, e demoralizzare i membri attivi delle squadre. In terzo luogo,
potrebbe essere più difficile creare o mantenere uno spirito di fiducia e
collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro in contesti sindacalizzati
rispetto a quelli non sindacalizzati, data la tipica natura conflittuale insita
nelle contrattazioni e nel rispetto delle condizioni contrattuali e nelle elezioni
di dirigenti sindacali locali. In particolare, i leader sindacali potrebbero
tenere “in ostaggio” le attività fondate sul lavoro di squadra finché le altre
controversie fra lavoratori e direzione o le altre vertenze sindacali non
saranno risolte. Inoltre, i dirigenti sindacali, minacciati o privati di qualsiasi
295
diritto di voto e rappresentanza in un contesto di cooperazione fra lavoratori
e direzione, che è essenziale allo svolgimento di attività efficaci basate sul
lavoro di squadra, potrebbero essere tentati di minare, se non distruggere, la
possibilità di effettuare delle attività fondate sul lavoro di squadra.
Per quel che concerne gli effetti delle retribuzioni commisurate ai risultati
sulla performance aziendale, lo stato di sindacalizzazione potrebbe avere
un’influenza positiva o negativa. Per quanto riguarda gli effetti positivi,
poiché i sindacati hanno il potere negoziale relativo ai modelli retributivi
(oggetto di contrattazione fondato sulla buona fede legalmente riconosciuto
negli U.S.A.), i leader sindacali hanno un interesse politico a far sì che tali
prerogative siano riconosciute e fatte rispettare. Dunque, i dirigenti sindacali
sono incentivati ad incoraggiare i lavoratori a contribuire al miglioramento
della performance aziendale. Dato il ruolo svlto dai sindacati nelle trattative
e nell’amministrazione quotidiana dei piani retributivi legati ai risultati, i
temi della formazione, della comunicazione e del valore simbolico derivanti
da tali piani possono essere maggiori in imprese sindacalizzate rispetto a
quelle non sindacalizzate.
Per quanto riguardo l’aspetto negativo, vi sono motivi per credere che la
rappresentanza sindacale ridurrà gli effetti degli incentivi collegati alle
retribuzioni in base alla performance, dove, a tutti gli effetti, tali piani sono
soprattutto il risultato di una contrattazione. In primo luogo, sarà meno
probabile che gli incentivi commisurati alle retribuzioni fondate sulla
performance inducano al controllo e al sanzionamento dei colleghi in
imprese sindacalizzate rispetto a ciò che ci si aspetterebbe nelle imprese non
sindacalizzate. Preoccupati della potenziale divisione che potrebbe nascere
fra gli addetti alla contrattazione rispetto ad altri lavoratori meno
responsabili e più scansafatiche o delle eventuali disuguaglianze d'incentivi
riconosciuti ai diversi addetti, i dirigenti sindacali tendono a scoraggiare
fortemente gli iscritti dal tentare di sanzionare o disciplinare altri colleghi.
Conseguentemente, gli effetti degli incentivi finanziari collegati ai piani
retributivi basati sulla performance sui comportamenti dei lavoratori
saranno meno forti rispetto ai contesti non sindacalizzati. Inoltre, dati i livelli
retributivi generalmente più elevati nelle imprese sindacalizzate rispetto a
quelle non sindacalizzate, il rapporto fra gli introiti variabili derivanti da
bonus e gli introiti fissi derivanti dai salari sarà generalmente inferiore nelle
imprese sindacalizzate. Conseguentemente, l’effetto incentivante delle
retribuzioni commisurate ai risultati tenderà ad essere inferiore nelle imprese
sindacalizzate rispetto a quelle non sindacalizzate.
296
Per riassumere, si prevede generalmente che le attività imperniate sul lavoro
di squadra e le retribuzioni commisurate ai risultati avranno degli effetti
positivi sulla performance. Qualsiasi differenza nei guadagni netti inerenti
alle attività fondate sul lavoro di squadra e le retribuzioni commisurate ai
risultati fra imprese sindacalizzate e non dipende, tuttavia, dal fatto se la
rappresentanza sindacale ha un maggiore effetto in termini di una voce
collettiva positiva o un maggiore effetto negativo restrittivo sul
comportamento dei lavoratori. Sulla base dei dati presentati da Cooke
(1994), possiamo ipotizzare che, alla fine dei conti, i sindacati hanno un
effetto positivo in termini di una voce collettiva sulle attività fondate sul
lavoro di squadra commisurate alla performance, ma d’altro canto hanno un
effetto negativo restrittivo sui piani retributivi legati alla performance.
Un ruolo fondamentale nell’ottimizzare l’impegno dei lavoratori e la loro
capacità di miglioramento continuo delle proprie prestazioni è svolto dalla
formazione del personale, sia in aula che sul lavoro, al fine di innalzare le
competenze tecniche e di risoluzione dei problemi degli addetti. Dal punto di
vista dei costi di transazione, quanto più alti saranno gli investimenti in
formazione da parte delle imprese, tanto più il ritorno netto percepito su tali
investimenti sarà elevato, e viceversa. Il ritorno netto sugli investimenti di
formazione non deriva soltanto da una maggiore capacità ma anche da un
maggiore coinvolgimento degli addetti. Ossia, più gli addetti percepiranno
tale maggiore investimento su di essi come segnale anche di un maggiore
impegno da parte dell’azienda nei loro confronti, tanto più essi saranno
motivati e impegnati nel raggiungimento degli obiettivi di performance
fissati dall’impresa. Si può, dunque, ipotizzare che quanto più forti saranno
gli investimenti in formazione, tanto maggiore sarà la performance.
Inoltre, anche le retribuzioni rivestono una fondamentale importanza nel
migliorare le capacità e nel determinare un maggiore coinvolgimento degli
addetti. Tenendo conto delle leggi della domanda e dell’offerta del mercato
del lavoro locale, le imprese tendono a offrire dei livelli di retribuzioni non
più alti del necessario per attrarre e ritenere il giusto livello quantitativo e
qualitativo di lavoratori ricercati. Le imprese che utilizzano più o (meno)
tecnologie e processi tecnici sofisticati, avranno più o (meno) bisogno di
competenze tecniche da parte degli addetti alla produzione, che saranno
assunti e retribuiti di conseguenza. Date le condizioni estremamente
competitive del settore automobilistico e la necessità di miglioramento
continuo delle prestazioni dei lavoratori, le industrie del settore dovranno,
inoltre, far fronte a una crescente necessità di attrarre addetti con elevate
297
capacità per continuare a migliorare la propria produttività e per adattarsi
tempestivamente all’introduzione di nuovi processi tecnici e di nuove
tecnologie informatiche. Conseguentemente, i datori di lavoro saranno
disposti a offrire maggiori opportunità retributive a quegli addetti alla
produzione che dimostrano capacità e impegno a migliorare continuamente
la propria produttività. Si può, quindi, ipotizzare che le imprese disposte ad
offrire agli addetti alla produzione la potenzialità di guadagnare dei salari
relativamente più elevati nel tempo saranno quelle che riusciranno ad
attrarre e ritenere dei lavoratori produttivi, in grado, dunque, di raggiungere
dei livelli di prestazione più elevati.
Inoltre, la performance aziendale è una funzione del livello di sofisticazione
tecnica dell’attività produttiva. Presumibilmente, le imprese che ricorrono
all’utilizzo delle più recenti tecnologie e dei più sofisticati processi tecnici,
raggiungeranno dei livelli di prestazione più elevati rispetto a quelle che non
seguono questa opzione. Tuttavia, l’introduzione di nuove tecnologie
comporta una potenziale interruzione nel processo produttivo, in quanto le
imprese devono predisporre degli adattamenti tecnici e di gestione delle
risorse umane in linea con le nuove tecnologie introdotte. Anzi, per utilizzare
al meglio il vantaggio potenziale derivante dalle tecnologie più innovative e
dai processi tecnici più sofisticati, le imprese dovranno idealmente cercare di
riequilibrare i livelli retributivi, gli interventi formativi e le attività fondate
sul lavoro di squadra. Dunque, la performance potrebbe subirne le
conseguenze, se non altro finché i necessari aggiustamenti non si saranno
assestati. Le imprese che hanno introdotto delle nuove tecnologie (ma su
scala più limitata) potranno ritrovarsi ad una certa fase di sperimentazione e
di adattamento precoce alle nuove tecnologie. Tali imprese,
conseguentemente, potranno temporaneamente soffrire di una perdita di
performance. Le imprese con precedenti esperienze d’introduzione e
adattamento di nuove tecnologie, d’altra parte, saranno probabilmente quelle
che soffriranno meno di eventuali perdite di performance.
Descrizione e Valutazione del Modello: Per descrivere nel dettaglio il
modello, sono state necessariamente messe insieme più risposte date al
questionario relativo all’Indagine sulla Strategia Operativa e a quella sulla
gestione delle risorse umane. Dopo aver effettuato la corrispondenza fra le
risposte delle aziende e dopo aver eliminato le osservazioni con dati non
completi, è stato ottenuto un sotto-campione di 72 imprese fornitrici. Come
misura della performance produttiva, ancora una volta è stato utilizzato il
valore aggiunto relativo percepito per addetto, misura utilizzata nella
precedente analisi. Per misurare l’impegno dei lavoratori sono state
298
utilizzate le percezioni dei dirigenti delle varie aree relativamente alla
domanda: “In generale, in che misura gli addetti alla produzione sono
impegnati a raggiungere gli obiettivi di performance aziendale?” Data la
scala ordinale delle risposte (ancora una volta, facendo riferimento a una
scala da 1 a 5), l’analisi ha richiesto l’utilizzo di uno stimatore probit
ordinato. L’analisi fondata sull’utilizzo di uno stimatore probit ordinato,
tuttavia, non ha prodotto delle equazioni statisticamente significative,
apparentemente a causa delle percentuali relativamente basse d’imprese che
riportano delle percezioni di valore aggiunto e impegno “più basse” o “molto
più alte”, nonché a causa del numero relativamente basso di osservazioni per
poter successivamente analizzare le equazioni.
Dunque, per valutare il modello, le risposte sono state raggruppate in due
categorie per costruire delle variabili dipendenti dicotome 0-1, dove 0 = “più
basso” e “circa lo stesso” e 1 = “più alto” e “molto più alto” (con 1
corrispondente al 38% delle risposte rispetto al valore aggiunto percepito e il
56% delle risposte rispetto all’impegno percepito). Costruito in questa
maniera, il modello è stato specificato per valutare l’associazione della
gestione delle risorse umane e delle variabili tecniche con la probabilità di
rientrare nelle categorie di risultati 0 e 1. Inoltre, il piccolo sotto-campione di
osservazione così ricavato richiedeva da parte nostra un atteggiamento molto
cauto per quanto riguarda sia il numero sia la costruzione delle variabili
indipendenti, per assicurare che fossero create delle celle sufficientemente
ampie per la stima. Tenendo conto di tale limite, sono poi state descritte le
misure delle diverse variabili di gestione delle risorse umane e tecniche.
Per provare le ipotesi secondo cui gli effetti delle attività fondate sul lavoro
di squadra sull’impegno e la performance sono maggiori nelle imprese
sindacalizzate rispetto a quelle non sindacalizzate (a causa del contribuito
dato dalla “voce collettiva”), è stata prima fatta una distinzione fra imprese
sindacalizzate e non, con attività fondate sul lavoro di squadra relativamente
estese, e quelle prive di attività fondate sul lavoro di squadra relativamente
estese. La misura delle attività fondate sul lavoro di squadra relativamente
estese prevede (1) che oltre il 50% degli addetti alla produzione “faccia parte
di squadre di lavoro, circoli di qualità o altri tipi di gruppi di partecipazione
dei lavoratori” e (2) che vi sia una regolare rotazione degli addetti fra le
diverse mansioni.
In base a tali criteri, sono poi state create delle variabili dummy 0-1 per fare
distinzione fra le imprese sindacalizzate con attività fondate sul lavoro di
squadra relativamente estese (Attività di Squadra Estese *Sindacalizzate) e
299
imprese non sindacalizzate con attività fondate sul lavoro di squadra
relativamente estese (Attività di Squadra Estese *Non Sindacalizzate).
Analogamente, per provare le ipotesi secondo cui gli effetti delle retribuzioni
commisurate ai risultati sull’impegno e la performance sono minori, in
media, nelle imprese sindacalizzate rispetto a quelle non sindacalizzate (in
seguito all’effetto della “limitazione sindacale”), abbiamo prima distinto fra
imprese sindacalizzate e non, con divisione degli utili, divisione dei guadagni
o dei piani retributivi legati al merito concernenti gli addetti alla produzione
(Retribuzioni commisurate ai risultati* Sindacalizzate e Retribuzioni
commisurate ai risultati* Non Sindacalizzate).
Per provare l’ipotesi secondo cui l’impegno e la performance dei lavoratori
saranno tanto maggiori, quanto maggiori saranno i salari potenziali che gli
addetti potranno percepire nel tempo, sono stati stimati gli effetti del più alto
livello retributivo offerto agli addetti alla produzione (il più alto livello
retributivo offerto) sulle variabili dipendenti. Per provare le ipotesi secondo
cui le imprese che investono relativamente di più in formazione ottengono un
maggiore impegno e una più elevata performance, sono state utilizzate due
misure degli investimenti in formazione: (1) le ore totali di “orientamento e
formazione formale erogate normalmente all’ingresso degli addetti alla
produzione neoassunti” (Ore di Formazione all’ingresso) e (2) le ore totali di
formazione formale e sul lavoro erogate a tutti i lavoratori addetti alla
produzione in media “in un anno” (Ore Annuali di Formazione).
Per provare l’ipotesi che l’impegno e la performance saranno tanto migliori
quanto maggiore sarà la condivisione delle informazioni di performance da
parte della direzione con gli addetti alla produzione, è stata fatta una
distinzione fra le imprese che condividono le informazioni “frequentemente”
e le imprese che lo fanno solo occasionalmente o raramente (condivisione
frequente delle informazioni di performance).
Per provare l’ipotesi della differenza nella diffusione dei processi tecnici e
delle tecnologie sull’impegno e la performance, sono state incluse nelle stime
due variabili proxy. La prima misura è la percentuale di macchine di
produzione che hanno meno di cinque anni o che sono state sostanzialmente
migliorate negli ultimi cinque anni (% Nuove attrezzature negli ultimi cinque
anni). Nel tentativo di dimostrare, se non altro in parte, le conseguenze
negative potenziali e temporanee derivanti dall’adozione di nuove tecnologie,
sono stati stimati gli effetti derivanti dall’adozione di nuove e più sofisticate
tecnologie in forma quadratica. La prova che il valore aggiunto per addetto
decresce con una crescente adozione di nuove tecnologie fino a un certo
livello di soglia per riprendere poi a salire successivamente all’introduzione
300
serve da supporto alla nostra ipotesi di base. La seconda misura si riferisce
alla percentuale delle maestranze che utilizza un computer almeno una volta
la settimana. In questo caso, è statto effettuato un confronto fra le imprese
con almeno un 25% di maestranze che utilizza un computer almeno una
volta la settimana rispetto a quelle in cui meno del 25% delle maestranze
utilizza il computer settimanalmente (> 25% utilizzo settimanale del
computer).
Risultati: I risultati della stima delle equazioni secondo un modello probit
sono illustrate nella Tabella 2. Nonostante la piccola dimensione del
campione, sono stati ottenuti dei risultati statistici molto significativi. In
conformità ai precedenti risultati ottenuti da Cooke (1994), lo stato di
sindacalizzazione ha degli effetti predittivi sulle attività fondate sul lavoro di
squadra e sulle retribuzioni commisurate ai risultati. Innanzitutto, si può
dedurre dalle stime che la presenza di sindacati ha avuto come effetto (netto)
una voce collettiva positiva che ha influenzato le attività fondate sul lavoro
di squadra legate alla performance, ma ha avuto un effetto negativo in
termini di limitazione sindacale sulle retribuzioni commisurate alla
performance. In questo caso, bisogna tuttavia sottolineare che solo un
piccolo sottogruppo d’imprese sindacalizzate ha avviato un’attività estesa
fondata sul lavoro di squadra. E’ presumibile, dunque, che in questo numero
limitato d’imprese i lavoratori e la direzione sono riusciti a stabilire delle
relazioni altamente cooperative. Conseguentemente, le relazioni
estremamente positive osservate relativamente alle attività fondate sul lavoro
di squadra e alla performance potrebbero essere attribuibili, in parte, alla
più ampia capacità comune di risoluzione dei problemi elaborata dalle parti.
In secondo luogo, nel complesso, le attività fondate sul lavoro di squadra in
contesti non sindacalizzati non sembrano avere un effetto significativo sulla
performance. Invece, appare che le retribuzioni commisurate ai risultati
comportano un aumento significativo della performance nelle imprese non
sindacalizzate nel settore automobilistico. Tuttavia, per quanto riguarda i
livelli percepiti d’impegno dei lavoratori, i dati osservati suggeriscono che
sia le attività fondate sul lavoro di squadra che le retribuzioni commisurate
ai risultati hanno un effetto positivo in imprese non sindacalizzate, ma non in
quelle sindacalizzate. Dunque, se nelle imprese non sindacalizzate, gli
incentivi retributivi legati ai risultati portano apparentemente ad un
incremento sia dell’impegno sia della performance, il maggiore impegno dei
lavoratori che deriva dalle attività fondate sul lavoro di squadra non sembra
aver generato un maggiore valore aggiunto per addetto. Invece, nelle imprese
sindacalizzate, le attività fondate sul lavoro di squadra non sembrano aver
301
generato un aumento dell’impegno dei lavoratori, bensì un aumento del
valore aggiunto per addetto.
Per quanto riguarda le retribuzioni, i dati raccolti mettono in luce delle
associazioni statisticamente significative fra il più alto livello retributivo
offerto e l’impegno e il valore aggiunto per addetto, ma solo in casi estremi.
Ossia, in forma lineare, sono state ottenute delle relazioni positive ma non
significative in entrambe le equazioni. Ma quando il più alto livello
retributivo offerto supera i $15 l’ora (offerto solo da poco più del 15% del
nostro campione d’imprese), le imprese ottengono un impegno e un valore
aggiunto per addetto relativamente più elevato rispetto ad altre imprese che
non offrono tale opportunità di maggiore guadagno.
Sono stati raccolti ulteriori dati che comprovano che maggiori investimenti
in formazione hanno degli effetti positivi sull’impegno e sul valore aggiunto
dei lavoratori. Se un maggiore numero di ore di formazione d’ingresso per i
nuovi assunti addetti alla produzione appare comportare un maggiore
impegno, non è stato rilevato nessun rapporto statisticamente significativo
fra questo dato e il valore aggiunto per addetto. Mentre dei maggiori
investimenti annui in formazione per tutti i lavoratori addetti alla
produzione non sembra innescare un maggiore impegno, un aumento degli
investimenti in formazione è significativamente associato ad un maggiore
valore aggiunto per addetto. Tuttavia, tale deduzione si basa sul confronto
fra le imprese che erogano in media oltre 62 ore annue di formazione rispetto
ad altre che erogano un numero inferiore di ore di formazione. Non sono
state, tuttavia, raccolte prove che dimostrano che le ore di formazione sono
correlate in maniera lineare alla performance.
E’ stata ottenuta un’elevata stima statisticamente significativa che
suggerisce che le imprese che condividono frequentemente informazioni sulla
performance con i lavoratori addetti alla produzione (come nel caso di circa
l’80% del nostro campione) registrano un aumento significativo
dell’impegno dei lavoratori nel perseguire gli obiettivi aziendali di
performance. D’altro canto, però, non sono state raccolte prove a
dimostrazione del fatto che le imprese che condividono frequentemente
informazioni sulla performance con gli addetti alla produzione hanno
raggiunto un valore aggiunto relativamente più elevato rispetto alle imprese
che non lo fanno.
Per quanto riguarda l’utilizzo di nuovi processi tecnici e tecnologie, si
potrebbe dedurre dall’osservazione dei fatti che ad eccezione delle imprese
che hanno maturato una forte esperienza nell’adattarsi all’introduzione di
nuove tecnologie (% Nuove attrezzature negli ultimi cinque anni), si registra
302
un calo del valore aggiunto per addetto corrispondente all’introduzione di
nuove tecnologie. Facendo riferimento alle stime del punto del termine
quadratico, il punto in cui le imprese fornitrici hanno iniziato a godere i
benefici derivanti da aumenti significativi di performance in seguito
all’introduzione di nuove tecnologie si verifica quando è sostituito o
ammodernato il 75% dei macchinari di produzione nel corso degli ultimi
cinque anni. Tuttavia, l'impegno dei lavoratori appare aumentare, anche se a
un ritmo più rallentato rispetto alle imprese che sostituiscono o
modernizzano le proprie attrezzature di produzione. Secondariamente, dai
dati raccolti si potrebbe dedurre che nelle imprese in cui almeno il 25% delle
maestranze utilizza regolarmente il computer per lo svolgimento del proprio
lavoro, sia l’impegno dei lavoratori sia il valore aggiunto per addetto sono
significativamente più elevati rispetto al caso in cui meno del 25% degli
addetti utilizza il computer.
Riassumendo, i dati raccolti indicano che le differenze nelle pratiche di
gestione delle risorse umane e gli attributi tecnologici fanno chiaramente la
differenza nell’ottenere un valore aggiunto per addetto e un impegno dei
lavoratori relativamente più alto o più basso nel settore della fornitura
automobilistica.
Come summenzionato, le imprese attribuiscono diversi tipi di enfasi nei
diversi luoghi di lavoro e, conseguentemente, pongono un’enfasi diversa
sulle pratiche di gestione delle risorse umane e sugli attributi tecnologici
esaminati in questo capitolo. Indipendentemente dal tipo di enfasi posta nei
diversi luoghi di lavoro, vi sono tuttavia alcune imprese che adottano alcune
delle pratiche e degli attributi esaminati in questo capitolo. Purtroppo, dato il
piccolo campione d’imprese esaminate non ci permette di esaminare come
potrebbero essere moderati in media gli effetti delle varie pratiche nei diversi
luoghi di lavoro e dei vari attributi sulla performance e sull’impegno dalle
diverse enfasi adottate dai diversi contesti lavorativi. Le deduzioni derivanti
dai dati raccolti e ivi illustrati si riferiscono, dunque, agli effetti medi delle
differenze delle pratiche e degli attributi nei diversi luoghi di lavoro attributi
alla performance e all’impegno all’interno dell’intero campione d’imprese.
Infine, bisogna sottolineare che gli effetti positivi o negativi delle pratiche di
gestione delle risorse umane e degli attributi tecnologici sulla performance e
sull’impegno studiati sono altamente condizionali. In altre parole, sembrano
esservi varie soglie e condizioni che devono essere tenute in considerazione
per raggiungere gli effetti positivi derivanti da varie pratiche di gestione delle
risorse umane e di attributi tecnologici sulla performance. In base alle nostre
stime, tali soglie appaiono come segue: per quel che concerne opportunità
303
retributive potenziali, > $15; per la formazione, oltre 62 ore; per la
condivisione delle informazioni sulla performance, “frequentemente”; per
l’adozione di nuove apparecchiature, > 75% di sostituzione; e per l’uso di
computer in fabbrica, > 25% della forza lavoro. I dati raccolti indicano,
inoltre, che gli effetti potenzialmente positivi di attività estese basate sul
lavoro di squadra sulla performance sono stati raggiunti in imprese
sindacalizzate e non in quelle non sindacalizzate; mentre, gli effetti
potenzialmente positivi delle retribuzioni commisurate ai risultati sono stati
raggiunti in imprese non sindacalizzate e non in quelle sindacalizzate.
6 Teamworking,
Lavoratori
Empowerment
e
Risultati
dei
Dopo aver esaminato gli effetti netti delle attività fondate sul lavoro di
squadra sulla performance e sull’impegno a raggiungere gli obiettivi
aziendali, saranno esaminati gli effetti del teamworking sugli addetti. La
letteratura ha da molto tempo riconosciuto l’esistenza di potenziali costi e
benefici derivanti per gli addetti in associazione al loro coinvolgimento,
partecipazione, e teamworking. (Vedere Cooke, 1990, capitolo 1, riepilogo
dei potenziali costi e benefici.) Vi è una letteratura emergente che analizza
gli effetti del teamworking sui costi e benefici dei lavoratori e il ruolo
dell’empowerment. Una questione ancora aperta in letteratura è l’effetto del
teamworking e di un maggiore empowerment sull’intensificazione del
lavoro. Come indicato successivamente, vi sono buoni motivi per credere che
sia il teamworking che l’empowerment (indipendentemente e in
combinazione) possono avere degli effetti negativi o positivi
sull’intensificazione del lavoro ed anche sulla tensione e sull’impegno dei
lavoratori. Date le previsioni teoriche ambigue del teamworking e
dell’empowerment sull’intensificazione del lavoro e date le conseguenze per
gli addetti, saranno analizzati gli effetti del teamworking e le differenze
d’empowerment sullo stress da lavoro e sulla disponibilità di ogni singolo
lavoratore a fare di più. L’analisi di questi effetti sarà effettuata sulla base di
dati raccolti nel corso d’inchieste in loco fra i lavoratori addetti alla
produzione di otto stabilimenti produttivi automobilistici. Prima di entrare
nel dettaglio del modello, sarà delineato un quadro generale di riferimento
relativo a tali stabilimenti e del tipo di teamworking adottato.
304
7 Breve panoramica degli otto stabilimenti
Gli otto stabilimenti in cui è stata condotta l’indagine sui risultati dei
lavoratori erano associati al Labor-Management Council for Economic
Renewal (LMCER) (Consiglio Bilaterale Lavoratori-Direzione per il
Rinnovamento Economico) con sede nella zona sud-orientale del Michigan,
nel cuore dell’industria automobilistica degli U.S.A. Il Consiglio è stato
costituito nel 1990 per aumentare la “competitività e migliorare la sicurezza
dei posti di lavoro e la qualità della vita per tutti gli addetti del settore
mediante la cooperazione interaziendale, relazioni costruttive fra lavoratori e
datori di lavoro e l’empowerment dei lavoratori affinché facessero sentire la
propria voce nelle decisioni importanti aventi dei risvolti sulla loro vita
(l’affermazione della mission del Consiglio). La direzione dello stabilimento
e i sindacati locali hanno accettato di partecipare all’indagine sui lavoratori,
con il benestare del LMCER.
Si tratta di stabilimenti tutti relativamente piccoli (da 57 a 368 addetti), che
producono una vasta gamma di prodotti (schiume per i sedili e componenti,
tettucci, guarnizioni per motori, pannelli di rivestimento interni, vernici,
pezzi di trasmissione e montanti). Tre di questi stabilimenti sono di proprietà
di multinazionali estere, tre sono di proprietà di grandi società pubbliche
statunitensi e due sono piccole imprese a conduzione familiare, Inoltre, gli
addetti alla produzione in tutti gli stabilimenti sono rappresentati da vari
sindacati locali aderenti al United Automobile Workers (UAW).
I lavoratori sono stati intervistati sul posto durante il normale orario di
lavoro e fra i turni di lavoro se necessario. I tassi di risposta sono stati fra il
55% e l’86% in tutti gli otto stabilimenti, con un tasso di risposta totale pari
al 69% e un totale di 888 questionari compilati. L’età media dei lavoratori
era di 37 anni e la media degli anni di anzianità era poco al di sotto degli 8
anni. Solo circa il 4% dei lavoratori aveva un diploma inferiore a quello
della scuola superiore e il 48% aveva un ulteriore titolo oltre a quello della
scuola superiore. Circa il 35% dei lavoratori era composto da donne e il
38% era costituito da non bianchi. Le retribuzioni orarie andavano da un
minimo di U.S.$7 ad un massimo di $21, con una media di $12.77 l’ora nel
2000.
Rispetto al campione nazionale in cui circa 1 impresa su 4 ha attribuito una
particolare enfasi agli aspetti ingegneristici sul luogo di lavoro, 6 degli 8
stabilimenti hanno posto una particolare enfasi sugli aspetti ingegneristici
sul luogo di lavoro e uno ha posto una particolare enfasi sugli aspetti tecnici.
305
In linea con questo approccio più prettamente tecnico nell’intero campione
delle otto imprese, è stato adottato un modello di teamworking “basato sulle
mansioni” (Rees, 1999), in quanto le mansioni di routine sono assegnate a
gruppi di addetti, o (1) nella stessa area o cella e responsabili del
funzionamento di una o più macchine similari o (2) assegnati a determinate
stazioni lungo la linea di produzione. In nessuno degli stabilimenti le squadre
potrebbero essere definite come circoli di controllo qualità (QC) o squadre
TQM, o squadre di lavoro autodirette, o in maniera più ampia, come delle
squadre di problem-solving. Invece, i lavoratori sono organizzati in squadre
per renderle più flessibili nell’esecuzione di mansioni di routine e per
responsabilizzarle ai fini del miglioramento della loro performance nello
svolgimento di determinate routine.
Come illustrato precedentemente, questa forma limitata di teamworking
negli otto stabilimenti presi in esame potrebbe riflettere l’enfasi strategica
adottata sul luogo di lavoro. Tuttavia, questa forma limitata di teamworking
potrebbe anche riflettere o essere il prodotto del desiderio dei dirigenti
sindacali locali, in quanto il teamworking negli U.S.A. è un tema
obbligatorio di contrattazione collettiva. Infatti, nella misura in cui gli effetti
restrittivi sindacali entrano in gioco, il grado di potere discrezionale
relativamente alla mansione e al problem-solving riconosciuto ai lavoratori
sarà limitato. Che sia principalmente motivata dalla direzione o dai vertici
sindacali (o entrambi), le caratteristiche di questa forma limitata di
teamworking di questi otto stabilimenti sembrerebbero essere di gran lunga
inadeguate rispetto alla mission del LMCER a cui aderivano queste imprese
e i sindacati locali … prima che il Consiglio LMCER fosse sciolto nel 2002.
Infine, vale la pena notare che rispetto al campione nazionale, in cui la
maggioranza delle imprese utilizzava una forma o un’altra di retribuzioni
commisurate ai risultati, nessuno degli otto stabilimenti in cui è stata
condotta l’inchiesta utilizzava un modello di retribuzioni commisurate ai
risultati.
1
Descrizione del Modello
Come summenzionato, vi sono ragioni per credere che il teamworking e
l’empowerment possono ridurre o esacerbare l’intensificazione del lavoro.
Le supposizioni o ipotesi alla base di questo ragionamento che portano a
delle previsioni ambigue sono ben riassunte da Sewell e Wilkinson (1992),
Rinehart, Huxley, Robertson (1997), Rees (1999), Korukonda, Watson,
Rajkumar (1999), e Godard (2001). Se analizzato da un’angolazione
positiva, il teamworking potrebbe essere visto come un modo per soddisfare
306
i bisogni socio-psicologici dei lavoratori, accentuando un sentimento di
appartenenza e identificazione, il riconoscimento intrinseco mediante la
partecipazione e il coinvolgimento, la dignità, l’autostima e l’orgoglio di
svolgere il proprio lavoro e migliorare le condizioni di lavoro. Inoltre, il
teamworking potenzialmente aumenta l’empowerment psicologico, al punto
tale che esso non solo potenzia l’empowerment psicologico, ma offre anche
la possibilità ai lavoratori di trarre molti vantaggi aggiuntivi, compresi, fra
gli altri, un maggiore coinvolgimento e motivazione sul lavoro, un
incremento delle competenze e della qualificazione, l’autodeterminazione, il
controllo del lavoro e un maggiore impatto sulle pratiche e i risultati ottenuti
sul posto di lavoro (Spreitzer, 1995). Questi effetti positivi potenziali
derivanti dal teamworking combinati fra loro possono presumibilmente
rafforzare l’impegno dei lavoratori a migliorare le proprie prestazioni.
Da un’angolazione negativa, il teamworking può essere invece inteso
essenzialmente come un modo per sfruttare i lavoratori, nel senso che la
direzione interviene limitando il potere discrezionale delle squadre, con
un’intensificazione del processo di lavoro e un aumento della sorveglianza
(compreso il ricorso al controllo e alle sanzioni da parte dei colleghi).
Facendo riferimento alle tesi di Faucault sul controllo, la sorveglianza, la
disciplina e l’obbedienza, Sewell e Wilkinson (1992) sostengono che i
principi della qualità totale richiedono il decentramento o la delega di
responsabilità tattica ai lavoratori organizzati in squadre di lavoro, e allo
stesso tempo prevedono la centralizzazione del controllo strategico da parte
della direzione per monitorare e far rispettare le istruzioni impartite alle
squadre. In una ricerca successiva sui cosiddetti sistemi di produzione
“snelli”, Rinehart, Huxley e Robertson (1997) e Godard (2001) hanno
sostenuto che il teamworking potrebbe rivelarsi come un dispositivo volto
all’intensificazione del lavoro e al taglio dei costi, che sono tipici dei
cambiamenti limitati che sono avvenuti nella linea di comando o nei
contenuti effettivi del lavoro, in quanto le imprese sono passate da
un’organizzazione del lavoro tradizionale a sistemi fondati sul teamworking.
Nel collegare l’empowerment dei lavoratori al teamworking, Rees (1999)
sostiene, inoltre, che esso è abbastanza limitato in quegli ambiti dove la
direzione assegna degli obiettivi rigidamente definiti e limitati che devono
essere perseguiti dalle squadre di lavoro, che a loro volta sono guidati e
controllati dalla direzione per raggiungere un miglioramento della propria
performance. Analogamente, Korukoda et al. (1999) suggeriscono che
l’empowerment in molti casi reali finisce con l’essere poco più di una delega
307
di ulteriori compiti e doveri come mezzo per ottenere maggiori risultati con
un numero inferiore di lavoratori e supervisori.
Nella misura in cui sia il teamworking sia i livelli maggiori di empowerment
portano ai benefici potenziali sopra descritti, allora ciò si tradurrà in un
minore grado di stress, tensione ed esaurimento da parte dei lavoratori e in
un maggiore livello dell’impegno o della disponibilità dei lavoratori a
compiere maggiori sforzi per raggiungere gli obiettivi aziendali. D’altra
parte, nella misura in cui sia il teamworking sia i livelli maggiori di
empowerment portano ai costi potenziali, sopra descritti, allora ciò si
tradurrà in un aumento del grado di stress, tensione ed esaurimento da parte
dei lavoratori e in una diminuzione dell’impegno o della disponibilità dei
lavoratori a compiere maggiori sforzi per raggiungere gli obiettivi aziendali.
Inoltre, il teamworking e l’empowerment possono avere anche degli effetti
che si controbilanciano, nel senso che possono comportare delle conseguenze
negative o positive per i lavoratori. Sia nel caso in cui il teamworking e
l’empowerment combinati fra di loro abbiano o meno delle conseguenze
negative o positive per i lavoratori, come risultato finale, ciò dipende sia
dall’interazione degli effetti combinati del teamworking e dell’empowerment
sia dalla loro singola influenza.
Per stimare questi effetti netti, sono stati definiti e sperimentati dei modelli di
regressione le cui variabili dipendenti intendono valutare il grado di
“tensione” sul posto di lavoro e, alternativamente, il grado di disponibilità
dei lavoratori a compiere maggiori sforzi. Per misurare queste variabili
latenti dipendenti (così come le numerose variabili latenti indipendenti),
abbiamo creato delle variabili derivanti da una serie di affermazioni (item) in
cui le risposte erano basate su una scala Likert a sette punti, in cui estremi
sono un forte disaccordo a un forte consenso. Gli item che costituiscono ogni
costrutto erano soggetti a un’analisi fattoriale di validazione (utilizzando una
stima di probabilità massima) per verificare che gli item riflettessero i
concetti elaborati abbastanza unici nel loro genere. Le analisi fattoriali
fornivano il sostegno ad ogni costrutto e le scale erano calcolate di
conseguenza sulla base di un’equa ponderazione degli item. In allegato sono
illustrati gli item alla base di ogni costrutto, le statistiche alfa di Cronbach e
le distribuzioni sulla gamma di risposte.
Per misurare la tensione accusata dagli addetti alla produzione, è stata
formulata una serie di domande per analizzare il grado di stanchezza, fatica
e dolore sul lavoro. L’analisi fattoriale delle risposte formulate a fronte di
dette domande ha prodotto un costrutto a 3 punti con statistiche alfa di
Cronbach di 0,66. In base ai riscontri rilevati dalla scala elaborata a partire
308
da detto costrutto, è emerso che il 45% circa dei rispondenti riferisce di
sentirsi spesso esausto, teso o distrutto alla fine della giornata e di accusare
anche dolori. Questo malessere è stato non di rado denunciato dai
rispondenti all’indagine. Ad esempio, un addetto all’assemblaggio dei sedili
scrive: “Qui niente è facile …. Mi fa male ogni muscolo del corpo. Il mio
corpo è sottoposto a un vero e proprio inferno che prima o poi pagherò.” Un
altro addetto alla preparazione delle vernici per gli interni delle automobili,
accusava un forte stress mentale: “La nostra è un’azienda che continua a
spingere al limite, che col tempo finisce con il ripercuotersi sulla salute
mentale dei lavoratori.” Un’altra dipendente di una ditta fornitrice di
schiume per sedili ha espresso il suo giudizio conciso: “sovraccarica,
sottopagata e molto stressata, è così che mi sento ogni giorno.”
La nostra scala della “Disponibilità a compiere maggiori sforzi” si fonda su
quattro item alla base del costrutto variabile latente in questione. Il costrutto
è elaborato per cogliere ed analizzare la disponibilità degli addetti a
compiere maggiori sforzi e comunque fare del proprio meglio per migliorare
la performance lavorativa. Nell’ambito del nostro campione di addetti,
abbiamo riscontrato che circa un terzo ritiene di aver profuso più sforzi del
dovuto e di essere disponibile a compiere ulteriori sforzi. Tuttavia, un
ulteriore terzo ha espresso incertezza riguardo all’opportunità di profondersi
in maggiori sforzi e circa un quarto dei lavoratori dice di non essere disposto
a devolvere sforzi ulteriori.
In base a queste due variabili dipendenti, sono stati poi valutati diversi
modelli di regressione per calcolare gli effetti netti medi di teamworking e
empowerment, è stata, inoltre, verificata tutta un’altra serie di fattori
contestuali che potrebbero influenzare le variabili dipendenti. Il
Teamworking è misurato semplicemente sulla base dell’inserimento di un
addetto in una squadra di lavoro (In una squadra), com’è il caso di circa la
metà dei rispondenti in tutti gli otto stabilimenti; e come descritto
precedentemente, soprattutto in squadre basate sulla mansione. La
misurazione dell’empowerment psicologico si basa sugli studi di Spreitzer,
Noble, Mishra e Cooke (1999), in cui gli autori utilizzano un costrutto
ridotto a 9 item applicato ad uno stabilimento specializzato nella fornitura di
componenti automobilistici. Tale costrutto (Empowerment) si basa sulle
opinioni dei lavoratori riguardo alla capacità di svolgere il lavoro
(autoefficacia) nonché alla significatività e all’importanza (impatto) del
proprio lavoro sulla performance. (Come sarà rilevato più avanti, le
questioni dell’autodeterminazione e della dimensione del controllo del lavoro
e dell’empowerment sono trattate in maniera distinta.) Sulla scorta di detta
309
misura tridimensionale, il 75% dei rispondenti si è espressa positivamente e
solo il 5% negativamente riguardo al proprio livello di
autoresponsabilizzazione (empowerment).
Al fine di acclarare gli effetti d’interazione e indipendenti di lavoro di
squadra ed empowerment, è stata inizialmente definita un’equazione nella
quale gli addetti sono classificati in componenti di una squadra o non, e
aventi un livello relativamente più alto o più basso di Empowerment
(equazione 1). A scopo semplificativo, gli addetti sono ulteriormente
suddivisi tra coloro aventi un livello relativamente più alto (o più basso) di
Empowerment nel caso in cui il punteggio di Empowerment ricada nel
quadrante superiore (o inferiore) di distribuzione. Unitamente
all’appartenenza o meno alla Squadra, sono state introdotte quattro variabili:
(1) In squadra*Maggiore Empowerment, (2) In squadra*Minore
Empowerment, (3) Non in Squadra*Maggiore Empowerment, e (4) Non in
Squadra*Minore Empowerment. (L’ultima categoria funge da referente
omesso rispetto al quale sono ricavati i coefficienti stimati delle prime tre
categorie).
In una seconda equazione, l’Empowerment è stato anche inserito come
variabile continua indipendente insieme alle variabili d’interazione sopra
descritte. Nell’equazione 3, sono stati soppesati gli effetti medi indipendenti
dell’Appartenenza alla squadra e dell’Empowerment, tralasciando i termini
d’interazione.
Nel valutare gli effetti del teamworking e dell’empowerment sulla Tensione
e sulla Disponibilità a Fare di Più, è importante tenere in considerazione
l’intensità di lavoro degli addetti, nonché il grado di libertà degli addetti nel
decidere come svolgere il lavoro loro assegnato. Mantenendo delle differenze
costanti lungo tali assi fra gli addetti, è possibile meglio valutare il grado in
cui il lavoro di squadra di per sé e il nostro costrutto di empowerment
psicologico in quanto tale aumentano o riducono la percezione di tensione e
la propensione a compiere maggiori sforzi. In questo caso, s’intende
verificare il ritmo lavorativo rispetto alla scala a 7 punti di Likert con
riferimento all’affermazione secondo cui “il ritmo lavorativo è spesso troppo
accelerato” (ritmo troppo accelerato). Le risposte a questa affermazione
sono risultate equamente distribuite fra i soggetti che concordano e coloro
che dissentono. Agli estremi della distribuzione, il 24% ha espresso consenso
o forte convinzione e il 28% ha dissentito o fortemente dissentito dalla
stessa. La correlazione di prim’ordine fra il Ritmo troppo accelerato e
l’Appartenenza alla squadra risulta positiva (0.03), ma non statisticamente
310
significativa. La correlazione di prim’ordine fra il Ritmo troppo accelerato e
l’Empowerment risulta invece negativa (–0.11) e altamente significativa.
E’ stato, inoltre, monitorato il “Controllo del lavoro”, un costrutto a 3 punti,
volto a cogliere il grado di autonomia e libertà decisionale dei lavoratori
nello svolgimento del proprio lavoro (Controllo del lavoro). In questa sede,
la metà circa dei rispondenti ha convenuto di esercitare un notevole controllo
o potere discrezionale in ordine all’esecuzione del lavoro assegnato. All’altra
estremità dello spettro, il 30% circa ha dichiarato di esercitare un limitato
controllo sul proprio lavoro. Il controllo del lavoro è correlato in misura
positiva ma non significativa all’Appartenenza alla squadra. D’altra parte,
esso è fortemente correlato all’Empowerment (0.37 e altamente
significativo). Questa forte correlazione è intuitiva, in quanto il Controllo del
lavoro (autodeterminazione) è generalmente considerato la quarta
dimensione dell’empowerment (Spreitzer, 1995). Dato l’accento posto
dall’inchiesta sulla possibile intensificazione del lavoro in un contesto di
squadra, il Controllo del lavoro è stato considerato un costrutto a sé.
Per verificare ulteriori fattori suscettibili di influire sulla Tensione e sulla
Disponibilità a Fare di Più, nonché di essere altrimenti correlati
all’Appartenenza alla squadra e all’Empowerment, nei modelli sono stati
accorpati fattori contestuali e climatici. In primo luogo, si è osservato
l’avvicendamento mansionale, in cui circa tre su quattro lavoratori
ruotavano su due o più lavori (Avvicendamento sul lavoro). In secondo
luogo, è stata analizzata la soddisfazione generale dei lavoratori
relativamente alle loro opportunità di formazione e istruzione. In questo
caso, si è istituita una variabile latente incentrata su sette punti relativi alle
opportunità di professionalizzazione percepite dal singolo sul proprio posto
di lavoro (Opportunità di professionalizzazione). All’interno del campione,
una cospicua maggioranza di addetti riteneva di godere e di poter continuare
a fruire di eccellenti opportunità di formazione e qualificazione (con un 20%
circa che esprimeva consenso più o meno accentuato e un ulteriore 40% che
era parzialmente d’accordo). D’altra parte, il 20% circa degli addetti
riteneva di non godere né di fruire di buone opportunità professionalizzanti.
Sono state, inoltre, ulteriormente analizzate le differenze relative alle
tecnologie. La prima analisi è incentrata su una domanda relativa
all’installazione di nuove attrezzature nell’area di lavoro immediatamente
attigua alla propria nel corso degli ultimi cinque anni (Nuove attrezzature).
Oltre il 70% dei lavoratori afferma di aver assistito a all’introduzione di
nuove attrezzature in una certa misura nell’impresa nel suo insieme e in
grande quantità nell’area di lavoro immediatamente attigua alla propria. La
311
nostra seconda analisi consiste nel verificare se i lavoratori usavano o meno
il computer per lo svolgimento del proprio lavoro (Uso del Computer), con
una percentuale del 40% che ha risposto affermativamente.
Inoltre, diversi fattori climatici e ambientali sul posto di lavoro possono
influenzare la Tensione e la Disponibilità a Fare di Più. Queste variabili di
controllo comprendono anhe l’eventualità in cui i lavoratori sono trattati in
maniera equa, ricevono un feedback e lavorano in condizioni sanitarie e
ambientali sicure.
La verifica del trattamento equo lo si evince dalle risposte fornite dai
lavoratori, come ad esempio: “sono trattato equamente” (Trattamento equo).
Appena più di un terzo è d’accordo o fortemente d’accordo nel dichiarare di
essere trattato equamente, mentre il 25% ha espresso disaccordo o forte
disaccordo a riguardo. La variabile del Feedback si basa su un costrutto a 3
punti che indaga sull’effettiva capacità di ottenere un significativo Feedback
sulla propria performance (vedere appendice). Mentre più di tre su quattro
lavoratori hanno riferito di essere consapevoli del proprio rendimento sul
lavoro, e solo uno su cinque circa si è detto d’accordo o fortemente
d’accordo sul fatto di ricevere o meno un significativo Feedback in ambito
lavorativo. Infine, la maggioranza dei lavoratori ha riferito indecisione o
parziale accordo o disaccordo con l’affermazione secondo la quale i datori di
lavoro predisponevano un ambiente di lavoro sano e sicuro (Ambiente
sicuro). Agli estremi della scala, circa il 30% riteneva di lavorare in un
contesto sano e sicuro, diversamente dal restante 23%.
Infine, sono state analizzate le tariffe retributive orarie, che corrispondevano
in media U.S.$ 12.77 nell’intero campione. Nei diversi stabilimenti, le
retribuzioni medie andavano da un minimo di $10.79 a un massimo di
$16.19. Interrogata circa il proprio livello complessivo di soddisfazione
riguardo alla retribuzione, la maggioranza dei rispondenti (56%) si è
dichiarata insoddisfatta e il 41% altamente insoddisfatta. Soltanto una
piccola quota (12%) si è detta d’accordo o fortemente d’accordo circa il
ritenersi soddisfatta della retribuzione percepita.
8 Risultati
La Tabella 3 riporta i risultati delle nostre stime OLS (Occupational Safety
and Health – Salute e Sicurezza sul Posto di Lavoro) , che risultano essere
particolarmente affidabili sotto il profilo statistico. In generale, i risultati
indicano che il teamworking nel campione d’imprese esaminate ha indotto
maggiori livelli di Tensione ma praticamente nessun effetto tangibile sulla
312
Disponibilità a Fare di Più. Per contro, l’empowerment ha sortito un
modestissimo effetto sulla Tensione e uno sostanziale sulla Disponibilità a
Fare di Più. Come si vedrà più avanti, i dati raccolti suggeriscono anche che
la maggior parte delle variabili di controllo ha un atteso e significativo
effetto su entrambe le variabili dipendenti. Nessun riscontro, invece, è stato
acquisito circa l’influenza sulla Tensione o sulla Disponibilità a Fare di Più
dell’Avvicendamento sul lavoro, dell’Uso del Computer, del Feedback, o dei
tassi retributivi.
Tensione: Relativamente alla Tensione, si rileva innanzitutto che quando
l’Empowerment non è controllato come una variabile indipendente
(equazione 1), gli effetti del teamworking risultano positivi e altamente
significativi. Le stime indicano, inoltre, che gli effetti del teamworking sulla
Tensione sono gli stessi a prescindere dal grado di coinvolgimento attivo dei
lavoratori. Se si considera che l’Empowerment abbia effetti indipendenti
lineari ed in interazione con il teamworking (equazione 2), i risultati saranno
influenzati solo marginalmente. Ossia, gli addetti che lavorano in squadra
che hanno un maggiore empowerment (In Squadra*Maggiore
Empowerment) sembrano accusare dei livelli di Tensione relativamente più
alti, come indicato dal coefficiente stimato equivalente a 1.57, rispetto agli
addetti che lavorano in squadra e che hanno un minore empowerment (In
Squadra*Minore Empowerment), come indicato dal coefficiente stimato
equivalente a 1.28.
Tralasciando i termini d’interazione (equazione 3), i risultati indicano che il
teamworking è correlato in misura indipendente e altamente significativa alla
Tensione, mentre l’Empowerment non mostra una correlazione indipendente
rispetto alla stessa. Sulla scorta delle stime formulate nelle tre equazioni,
sarebbe ragionevole dedurre che a maggiori livelli di empowerment
corrisponde soltanto un modesto incremento della Tensione. In netto
contrasto, gli addetti che lavorano in squadra sembrano accusare livelli di
Tensione significativamente superiori rispetto a coloro che non lavorano in
squadra.
I suddetti effetti del teamworking e dell’empowerment perdurano a fronte di
un Controllo e di un ritmo di lavoro costanti. Benché un maggior Controllo
del lavoro sia negativamente associato alla Tensione (come da previsioni),
nello specifico non lo è. Ma i fatti dimostrano che quanto più gli addetti
ritengono di essere sottoposti a un ritmo di lavoro eccessivamente rapido
(Ritmo troppo accelerato), tanto più il grado di Tensione ne risulta
aumentato. La portata delle stime nelle tre equazioni indica un sostanziale
effetto del ritmo di lavoro sulla Tensione. In estrema sintesi, se ne evince che
313
gli addetti che lavorano in squadra (indipendentemente dal rispettivo livello
di empowerment, controllo del lavoro e ritmo) accusano maggiore Tensione
rispetto a coloro che non operano in squadra.
Una serie di ulteriori variabili di controllo sembra essere associata con la
percezione che i singoli addetti hanno della Tensione. I lavoratori con
maggiori opportunità di professionalizzazione sono trattati più equamente e
operano in ambienti di lavoro più sani e sicuri, accusando meno Tensione, a
parità di altre condizioni. In ultimo, gli addetti che abbiano dovuto adattarsi
all’introduzione di nuove attrezzature nella propria impresa, denunciano una
maggiore Tensione. Le stime relative alle Nuove attrezzature mostrano
tuttavia un livello di confidenza significativo solo a <0.10.
Disponibilità a Fare di Più: Relativamente a questo parametro, si è
innanzitutto verificato il caso in cui l’Empowerment non è controllato come
una variabile indipendente (equazione 1), gli effetti dello stesso sono positivi.
Questi ultimi, inoltre, non sembrano risentire del lavoro in squadra o meno
degli addetti. Se si considera che l’Empowerment abbia effetti indipendenti
lineari ed in interazione con il teamworking (equazione 2), esso è
linearmente e significativamente correlato alla Disponibilità a Fare di Più. Si
potrebbe dedurre dalle stime poco significative associate ai termini
d’interazione che il teamworking nel contesto allo studio non eserciti
nessuna osservabile influenza sulla Disponibilità a Fare di Più.
Il dato è ulteriormente suffragato in caso di esclusione dei termini
d’interazione (equazione 3). In tal caso, la stima sul Lavoro In Squadra non
risulta significativa, mentre quella sull’Empowerment lo è e la portata dei
suoi effetti resta pressoché invariata. Da una stima trasversale delle tre
equazioni, si può dedurre che (in media) il teamworking non ha nessun
effetto tangibile sulla Disponibilità a Fare di Più. Per contro,
l’Empowerment maggiormente percepito ha un notevole effetto positivo
sulla disponibilità del soggetto a compiere maggiori sforzi tesi al
miglioramento della performance. Parimenti suffragata è l’attesa che un
maggiore Controllo del lavoro (una dimensione di empowerment
psicologico) abbia un effetto positivo sulla Disponibilità a Fare di Più. In
tutte e tre le equazioni, il Controllo del lavoro è un dato positivo e acquisisce
significatività a un livello equivalente a <0.10 (e appena al di sotto di <0.05
livello), utilizzando prove di significatività ai due estremi.
Molte altre variabili di controllo sembrano parimenti associate alla
Disponibilità a Fare di Più. In primo luogo, quanto maggiore sarà la
convinzione che il ritmo di lavoro sia eccessivamente serrato (Ritmo troppo
accelerato), tanto minore sarà da parte degli addetti la Disponibilità a Fare
314
di Più. Inoltre, coloro che godono di maggiori Opportunità
professionalizzanti e che operano in un ambiente di lavoro più sano e sicuro
sono maggiormente predisposti ad operare più alacremente in vista di un più
alto rendimento aziendale.
9 Riepilogo e conclusioni
A fronte di un mercato altalenante e sempre più globalizzato e competitivo,
l’industria automobilistica statunitense ha incentrato le proprie strategie
operative e di organizzazione del lavoro su una maggiore intensificazione di
capitale, privilegiando così gli aspetti tecnici e ingegneristici al fine di
migliorare la performance produttiva. A latere di tale impostazione
aziendale, si coglie un diffuso ricorso al lavoro di squadra, a modelli
retributivi commisurati ai risultati, nonché a un avvicendamento del lavoro e
a una condivisione frequente delle informazioni relative alla performance e
alla formazione.
Alla data del 2001, circa il 50 per cento degli addetti alla produzione
dell’industria automobilistica negli U.S.A. operava in squadre di lavoro,
circoli di qualità, o altre forme partecipative. A un esame più attento, il
teamworking risulta generalmente ed essenzialmente limitato a strutture e
processi imperniati su singoli mansioni e, in cui gli addetti hanno sviluppato
maggiore flessibilità nell’esecuzione di mansioni e lavori e sono stati
maggiormente responsabilizzati a migliorare la propria performance a fronte
di una routine lavorativa ideata e controllata dalla direzione.
Il presente contributo ha cercato di valutare gli effetti del teamworking
imperniato su singoli mansioni sulla performance aziendale e sull’impegno
dei lavoratori a perseguire gli obiettivi aziendali, nonché sulla tensione e
disponibilità degli stessi a compiere maggiori sforzi. A scanso di equivoci,
non è desiderio degli autori amplificare la portata dei risultati oltre i limiti
imposti dall’osservazione dei fatti in sede d’indagine, relativamente ai dati
raccolti e ai modelli testati. Ne consegue, quindi, che le risultanze e le ipotesi
formulate nella presente relazione hanno uno scopo più orientativo che
definitivo.
In base a un riscontro oggettivo, un più diffuso teamworking (e associata
rotazione) hanno, in media, effetti limitati sulla performance aziendale,
salvo che in imprese sindacalizzate, ove gli effetti risultano sostanziali. Il
dato è in linea con precedenti modelli analoghi, nei quali l’autore ha
utilizzato effettivi calcoli di valore aggiunto per addetto nell’intero spettro
delle industrie manifatturiere (Cooke, 1994). Analogamente all’analisi
315
proposta da Cooke, di cui sopra, si rileva che le retribuzioni commisurate ai
risultati (utilizzate in generale in concomitanza con il lavoro di squadra)
sono positivamente associate a un valore aggiunto relativo in contesti non
sindacalizzati e negativamente associate allo stesso in contesti sindacalizzati.
Si rileva, altresì che l’attività di squadra estesa e le retribuzioni commisurate
ai risultati sono positivamente correlate all’impegno profuso dai lavoratori
per il conseguimento degli obiettivi aziendali (come fra l’altro percepito dai
dirigenti delle varie aree), ma unicamente in imprese non sindacalizzate.
Ancora più eloquenti circa la modellizzazione della performance aziendale e
dell’impegno profuso dai lavoratori per il conseguimento degli obiettivi
aziendali sono gli effetti indipendenti della diffusione di nuove tecnologie e
dei concomitanti fabbisogni formativi. Qui si riscontrano diffusi effetti
altamente significativi sia sul valore aggiunto per addetto sia sull’impegno
dello stesso in imprese sindacalizzate e non. I risultati indicano che una
maggiore enfasi posta sull’intensificazione di capitale e sulle soluzioni
tecniche ed ingegneristiche (oltre che sulla necessaria riqualificazione del
personale) ai fini di un continuo miglioramento della performance giustifica
la validità della scelta di obiettivi di performance alla base delle strategie più
vaste di organizzazione del lavoro e aziendali perseguite dalle imprese in
risposta a una sempre più agguerrita concorrenza nel comparto.
Un esame degli effetti del teamworking e dell’empowerment sulla Tensione e
sulla Disponibilità a Fare di Più degli addetti mostra come coloro che
operano in squadre di lavoro accusano, in media, una tensione maggiore
rispetto agli altri (controllo dell’empowerment e del ritmo del lavoro).
Inoltre, emerge che il teamworking di per sé non ha ingenerato una
accresciuta disponibilità a compiere maggiori sforzi, vantaggio spesso
attribuito al teamworking. Tuttavia, benché causa di maggiore tensione, il
teamworking non sembra incidere negativamente sulla disponibilità dei
soggetti a sforzarsi di più. Benché alcuni autori abbiano obiettato che
l’empowerment possa tradursi in un espediente per accelerare il ritmo
lavorativo e, conseguentemente, la tensione, non sussistono prove che
suffraghino questa tesi, come ivi illustrato. Inoltre, a una verifica del lavoro
di squadra, l’empowerment risulta essere positivamente e fortemente
associato alla Disponibilità a Fare di Più.
In conclusione, si direbbe che l’industria automobilistica statunitense faccia
essenzialmente leva sull’infusione di capitali e sull’introduzione di
applicazioni ingegneristiche e tecniche per aggiudicarsi un vantaggio
competitivo. Ne consegue che il teamworking venga a giocare un ruolo
316
limitato e di secondo piano nel conseguimento degli attesi risultati di
performance e diventi sempre più imperniato sulle singole mansioni, a
scapito del potere discrezionale dei lavoratori. Considerato da questa
angolazione, è lecito attendersi che il teamworking abbia un impatto più
contenuto sulla performance, ingeneri meno empowerment e amplifichi
l’intensità del lavoro. Questa forma limitata di teamworking non sembra,
comunque, ripercuotersi negativamente sull’impegno dei lavoratori a
conseguire gli obiettivi aziendali o sulla disponibilità degli stessi a compiere
maggiori sforzi, malgrado un accresciuto carico di tensione. Questi riscontri,
nel complesso, potrebbero rivelare che è esattamente ciò che tutte le industrie
del settore automobilistico statunitense (così come tutti i vertici sindacali)
auspicano. Conseguentemente, il teamworking potrebbe non essere più
considerato come l’opzione privilegiata per aggiudicarsi un vantaggio
competitivo e per migliorare la qualità della vita lavorativa, ma piuttosto
come una pratica di gestione delle risorse umane a corredo di più avanzate
strategie di organizzazione del lavoro perseguite dal settore.
317
10 Bibliografia
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320
Tab. 1 - Gestione delle risorse umane e attributi tecnologici selezionati per
diversi tipi di enfasi posti nei vari luoghi di lavoro negli U.S.A. - Il settore
automobilistico (2001)
Enfasi posta nei diversi luoghi di
lavoro
Campione
Tecnico
Ingegneristico
Gestione
delle
risorse
umane
Duale
47%
46%
38%
67%
43%
8
7
8
9
12
Ogni quante settimane si
riuniscono le squadre?
2.2
2.05
1.7
2.6
2.1
Ore di Formazione destinate
alle squadre
12
11
11
17
10
Avvicendamento mansionale?
71%
77%
60%
77%
63%
Frequenza della condivisione
delle informazioni sulla
performance?
80%
84%
60%
92%
100%
Retribuzioni commisurate ai
risultati?
55%
53%
45%
69%
62%
Attributo
Media
% in Squadre di lavoro
Dimensione della Squadra
Ore of Formazione
Media totale annua
62
49
96
54
37
Formale
21
19
29
17
19
Sul posto di lavoro
41
31
68
37
18
19
22
15
24
14
Retribuzioni massime offerte
$12.82
$12.32
$14.03
$12.77
$11.82
% Nuove attrezzature
acquistate negli ultimi 5 anni
38%
38%
44%
37%
22%
Uso del computer
settimanale?
49%
52%
55%
39%
38%
% d’imprese sindacalizzate
51%
42%
62%
43%
71%
% di lavoratori sindacalizzati
33%
30%
42%
25%
34%
Per nuovi assunti
321
Tab. 2 – Stime probit degli effetti di gestione delle risorse umane e attributi
tecnologici sul valore aggiunto relativo percepito per addetto e impegno dei
lavoratori
Valore
aggiunto
Coef. (s.e.)
3.09
Variabile
Estesa attività di squadra *
Imprese sindacalizzate
Media/%
12.5%
Coef. (s.e.)
–.11
***
Estesa attività di squadra *
Imprese non sindacalizzate
18.1%
Retribuzioni commisurate ai
risultati* Imprese sindacalizzate
19.4%
Retribuzioni commisurate ai
risultati* Imprese non
sindacalizzate
Retribuzioni Massime Offerte
(>$15)
36.1%
Ore di Formazione d’ingresso
5.3
Ore Annuali di Formazione (>
62)
19.4%
Condivisione Frequente
d’Informazioni sulla Performance
79.2%
% Nuove attrezzature acquistate
negli ultimi 5 anni
37.5%
(.94)
12.59
(.50)
15.2%
(% Nuove attrezzature acquistate
negli ultimi 5 anni)²
> 25% Uso del computer
settimanale
Impegno
48.6%
***
(.58)
–1.73**
(.83)
.79 *
(.43)
.94 *
(.57)
.780
(.59)
1.36 ***
(.49)
1.11**
(.57)
.0003
(.002)
1.51**
(.69)
–.55
(.59)
1.07 *
(.63)
.03 **
(.01)
–.38
(.55)
1.64 ***
(.59)
–.08**
(.04)
.001**
(.0005)
1.34
.09 ***
(.03)
–.001 ***
(.0003)
.93 **
322
Intercept
N = 72
χ2 (11 d.f.)
(.46)
–.15
(.84)
–4.21 ***
(1.09)
(.42)
37.29
36.97 ***
***
Tab. 3 - Valutazioni OLS di Teamworking e Empowerment su Tensione e
Disponibilità a Fare di Più da parte dei Lavoratori
Variabile
In squadra*Maggiore
Empowerment
Media/%
(s.d.)
0.25
Tensione
Coef. (s.e)
–1
–2
1.23** 1.57***
(.48)
(.60)
Disponibilità a Fare di Più
Coef. (s.e)
–3
–1
–2
–3
––– 1.63***
0.57
–––
(.47)
(.59)
1.23** 1.28***
(.48)
(.50)
–––
0.69
(.47)
0.44
(.48)
–––
In squadra*Minore
Empowerment
0.20
Non in Squadra*
Maggiore
Empowerment
0.21
0.64
(.50)
0.95
(.62)
–––
1.68***
(.49)
0.57
(.60)
–––
In squadra
0.48
–––
–––
.93***
(.34)
–––
–––
0.20
(.33)
Empowerment
51.50
(7.40)
–––
–0.03
(.03)
0.00
(.03)
–––
(.03)
Controllo del lavoro
13.80
(4.40)
–0.03
(.04)
–0.01
(.04)
–0.01
(.04)
.08*
(.04)
4.00
.92***
.87***
.87***
–.16*
(1.90)
(.09)
(.09)
(.09)
(.05)
(.05)
(.05)
0.74
0.17
(.42)
0.08
(.42)
0.07
(.42)
–0.19
(.41)
–0.18
(.41)
–0.19
(.41)
–.06** –.06*** –.06***
(.02)
(.02)
(.02)
.18***
(.02)
Ritmo troppo
accelerato
Avvicendamento sul
lavoro
Opportunità
Professionalizzanti
27.30
(8.60)
.09*** .10***
(.02)
.08*
(.04)
.08*
(.04)
–.19** –.19**
.17*** .17***
(.02)
(.02)
323
Nuove Attrezzature
0.93
(.69)
.46*
(.25)
.43*
(.25)
.42*
(.25)
0.31
(.24)
0.31
(.25)
0.31
(.25)
Uso del Computer
0.38
–0.53
(.37)
–0.60
(.37)
–0.55
(.37)
–0.21
(.36)
–0.18
(.36)
–0.15
(.36)
4.20 –.49*** –.50*** –.51***
(2.00)
(.10)
(.11)
(.11)
12.70
0.03
0.03
0.04
(4.30)
(.05)
(.05)
(.05)
0.04
(.10)
0.06
(.05)
0.02
(.10)
0.08
(.05)
0.02
(.10)
.09*
(.05)
Trattamento equo
Feedback
Ambiente sicuro
4.20
(1.80)
–.19*
(.11)
–.19*
(.11)
–.18*
(.11)
.42***
(.10)
Retribuzioni
12.77
(2.97)
0.00
(.06)
–0.01
(.06)
0.00
(.06)
–.10*
(.06)
.37*** .37***
(.11)
(.11)
–0.08
(.06)
–0.08
(.06)
Intercept
13.13** 14.94** 13.81** 10.88*** 7.28*** 6.65**
*
*
*
*
(1.17)
(1.9) (1.62)
(1.15)
(1.86) (1.58)
F–Ratio
16.15** 14.50** 16.70** 29.91***
*
*
*
Ad. R2
N
1
0.28
0.27
0.27
0.347
516.00
501.00
501.00
513.00
19.77** 23.04*
*
**
0.346
0.374
498.00 498.00
324
Appendice. Variabili dei Risultati degli Addetti: Item del
Costrutto,
Alfa
di
Cronbach,
e
Distribuzione
Approssimativa delle Risposte
I. Intensità del lavoro (Alfa di Cronbach: .656)
A. Item
· Mi sento spesso esausto alla fine del mio turno.
· Sento spesso dolore a causa del lavoro che svolgo.
· Mi sento spesso teso e nervoso alla fine del mio turno.
B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte
· Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo:
32%
· Indecisi:
24%
· Più o meno d’accordo:
23%
· D’accordo, fortemente d’accordo:
21%
II. Disponibilità a compiere maggiori sforzi (Alfa di Cronbach: .600)
A. Item
1. Compio più sforzi di quanto dovuto.
2. La mia azienda mi motiva per svolgere il mio lavoro al meglio.
3. Sono disposto a compiere più sforzi di quanto non faccia finora.
4. Sono disposto a compiere più sforzi oggi nello svolgere il mio lavoro al
meglio rispetto a 5 anni fa.
B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte
· Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo:
26%
· Indecisi:
32%
· Più o meno d’accordo:
28%
· D’accordo, fortemente d’accordo:
14%
III. Empowerment (Alfa di Cronbach: .742)
A. Item
1. Il lavoro che svolgo per me è importante.
325
2. Sono sicuro riguardo alle mie capacità di svolgere il mio lavoro
principale.
3. Per me è importante svolgere bene il mio lavoro.
4. Le principali mansioni lavorative da me svolte sono per me significative
a livello personale.
5. Sono in grado di svolgere diverse mansioni lavorative che mi sono state
assegnate.
6. Il lavoro che svolgo è personalmente soddisfacente.
7. E’ importante per me svolgere bene il mio lavoro ai fini del successo
della mia area lavorativa.
8. Non ho la padronanza delle competenze necessarie per svolgere il mio
lavoro (codificato alla rovescia).
9. Posso influenzare significativamente il successo della mia area
lavorativa.
B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte
· Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo:
5%
· Indecisi:
20%
· Più o meno d’accordo:
38%
· D’accordo, fortemente d’accordo:
37%
IV. Controllo del lavoro (Alfa di Cronbach: .705)
A. Item
1. Sono in grado di decidere come fare al meglio il mio lavoro.
2. Ho notevoli opportunità di autonomia e libertà decisionale relativamente
alla modalità di svolgimento del mio lavoro.
3. Sono in grado di decidere autonomamente la modalità migliore per lo
svolgimento del mio lavoro.
B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte
· Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo:
29%
· Indecisi:
20%
· Più o meno d’accordo:
27%
· D’accordo, fortemente d’accordo:
24%
326
V. Opportunità di professionalizzazione (Alfa di Cronbach: .815)
A. Item
1. Sono soddisfatto della formazione che ho ricevuto in questa azienda.
2. Ho ottime opportunità di migliorare le mie competenze in questa
azienda.
3. La mia azienda mi offre ottime opportunità formative ulteriori.
4. Mi aspetto di ricevere ulteriore formazione in futuro.
5. Le opportunità di migliorare le mie competenze sono migliori oggi
rispetto a 5 anni fa.
6. Le opportunità di trovare un lavoro migliore in futuro sono migliori oggi
rispetto a 5 anni fa.
7. Ha partecipato a un incontro orientativo al momento dell’assunzione? Se
sì, è stato utile?
B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte
· Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo:
19%
· Indecisi:
22%
· Più o meno d’accordo:
40%
· D’accordo, fortemente d’accordo:
19%
VI. Feedback (Alfa di Cronbach: .544)
A. Item
1. Ricevo un Feedback significativo sul modo in cui procedo mentre svolgo
il mio lavoro.
2. Mi rendo conto se sto lavorando bene o male.
3. Posso scoprire se sto lavorando bene e in che misura.
B. Distribuzione Approssimativa dei Punteggi per Categoria di Risposte
· Leggermente in disaccordo, in disaccordo, in forte disaccordo:
20%
327
·
·
Indecisi:
47%
Più o meno d’accordo, d’accordo, fortemente d’accordo:
33%
Scenari di sviluppo del settore auto
L’auto, la mobilità, il lavoro
Francesco Garibaldo
È noto il ruolo essenziale che l’industria automobilistica, comprendendo
tutta la filiera e non solo i produttori finali, gioca in Europa sia dal punto di
vista dell’occupazione e della creazione di ricchezza. Meno enfasi c’è sul
ruolo di frontiera tecnologica che tale settore ha svolto e svolge, non solo e
non tanto, almeno adesso, per quanto riguarda il processo produttivo ma
specialmente per lo sviluppo e l’innovazione di prodotto.
Se questo è vero, spingendoci a porci il problema di una continuità e
sviluppo di tale settore in Europa, è altrettanto evidente che siamo in una
situazione critica. Di che tipo di crisi si tratta?
In primo luogo, se guardiamo alle cose dal punto di vista delle aziende, non
di una crisi generalizzata dato che vi sono aziende che patiscono in termini
di redditività e quote di mercato ed altre che invece godono di ottima salute.
Se, viceversa, assumiamo il punto di vista del settore come un tutto, la crisi
è evidentemente, prima di tutto una crisi derivante da un eccesso di capacità
produttiva installata in Europa; vi sono, in sostanza, troppi produttori e/o
troppi impianti. Troppi evidentemente rispetto al mercato disponibile per i
produttori europei, che devono scontare la presenza Giapponese e l’emergere
di possibili ulteriori significative capacità produttive in Asia ( in Cina nel
2004 si sono prodotte più di 2 milioni di auto). Ma la capacità produttiva è
in eccesso non solo relativamente e comparativamente tra Europa ed altre
aree del mondo ma come dato assoluto, dato che il gap tra esigenza di
mobilità e reddito disponibile è ancora molto alto in tutta l’Asia, il Sud
America e l’Africa, insomma per una larga parte dell’umanità. Si dice quindi
che la capacità produttiva inutilizzata potrebbe a breve trovare un utilizzo
man mano che tali aree del mondo miglioreranno il loro standard di vita.
Naturalmente nessuno è in grado di fare previsioni attendibili dato che
proprio in quelle aree del mondo lo sviluppo ha assunto caratteristiche
spiccatamente classiste, cioè di uno squilibrio crescente tra un’area
minoritaria di quelle società, che si distribuisce quasi esclusivamente i
benefici di un forte sviluppo economico, e la larga maggioranza che ne è
esclusa; occorre inoltre considerare che l’Asia sempre di più sarà non solo
un consumatore ma un produttore.
Le conseguenze sociali, dal lato del Lavoro, dell’esistenza stessa di una
sovra-capacità produttiva sono altresì gravi ed evidenti; essa infatti spinge
330
ad una concorrenza feroce tra le imprese, tale concorrenza viene in primo
luogo giocata sulle condizioni operative, quindi sulla condizione lavorativa.
Tale pressione si sviluppa attraverso la crescita delle delocalizzazioni, che
vanno distinte dagli investimenti diretti esteri il cui scopo principale è la
presenza diretta su un nuovo mercato, ma anche su un peggioramento
complessivo delle condizioni di lavoro nell’Unione Europea che nella
configurazione a 25 corre il rischio di sperimentare un doppio regime
lavorativo invece che una progressiva convergenza degli standard. Il doppio
regime nell’Unione Europea e le delocalizzazioni premono sulle condizioni di
lavoro complessive abbassando gli standard. La pressione inoltre si sviluppa
lungo tutta la catena della sub-fornitura le cui condizioni sociali sono solo
parzialmente note e, da quel poco che si sa, fortemente sperequate tra le
aziende e tra tutte queste e gli assemblatori finali.
La concorrenza viene poi giocata sulla capacità di sviluppo e innovazione
dei prodotti con la messa in discussione della precedente divisione del lavoro
tra le imprese, basata sulla copertura specializzata di determinati segmenti
del mercato; tutti puntano a fare tutto, alla ricerca di un decente utilizzo
degli impianti, il cui punto di pareggio viaggia ormai oltre il 70%. Come già
detto, vi sono aziende con grande capacità di sviluppo ed innovazione dei
prodotti, e sono quelle che vanno meglio, ed altre che arrancano; si può
quindi migliorare la situazione media di tutta l’industria europea, sotto
questo profilo, ma la cruda domanda da farsi è: se anche tutti si situassero
all’altezza degli esempi di eccellenza ciò farebbe sparire il problema
dell’eccesso di capacità produttiva? Pare certamente improbabile..
La ragione sta in molteplici fattori. I più ovvi sono il fatto che l’industria
dell’auto, considerando l’intera filiera, è ancora un industria ad alta intensità
di mano d’opera e con un buon moltiplicatore tra posti diretti ed indiretti
creati da un investimento base, che la barriere all’entrata si sono allentate,
ecc. Nasce quindi un interesse di tutti i paesi che stanno sviluppando un
industria di medio - alto livello ad avere una propria capacità produttiva e
comunque impianti direttamente presenti nei loro confini; di qui l’importanza
attribuita dai produttori europei di successo, più che di delocalizzazioni per
abbassare il costo del lavoro, a investimenti diretti esteri nei nuovi mercati.
Le delocalizzazioni per produrre auto che vengono poi vedute sui mercati
europei più ricchi vengono attuate come misura difensiva per essere in grado
di affrontare la guerra sui prezzi. Strategia pericolosa poiché si può
innestare un circuito vizioso sia sul piano sociale, perché per questa via si
liquidano precedenti equilibri sociali, ostacolando la crescita di nuovi; sia sul
piano strategico, come dimostra il caso Fiat, perché la tentazione di seguire
331
la via facile del taglio dei costi e della razionalizzazione dei processi con un
basso livello di sviluppo dei prodotti e la quasi assenza di capacità
innovativa diventa molto forte. Né è pensabile che, come negli anni ’70, la
chiave stia tutta nei modelli organizzativi e nel mercato del lavoro; essi
naturalmente restano importanti ma il punto ormai è la dinamica di base
dell’industria automobilistica ed il suo posizionamento internazionale.
Ecco quindi, il secondo gruppo di fattori; essi riguardano una contraddizione
tra l’esigenza sociale crescente, quasi un diritto, alla mobilità e la crescente
inadeguatezza del modello attuale di automobile a fornire una risposta
sostenibile socialmente ed ambientalmente. Sino agli anni ’80 mobilità ed
auto coincidevano in larga misura; l’auto aveva assorbito una larga parte
della domanda di mobilità prima coperta da mezzi collettivi. Ormai,
specialmente in Asia, appare chiaro alle stesse autorità pubbliche che se i
loro cittadini sviluppassero una modello di mobilità ricalcato sul nostro si
aprirebbe un problema immediato di sostenibilità non solo ambientale ma
sanitaria. Situazione che noi già sperimentiamo nelle nostre città, grandi e
piccole, per non parlare della aree metropolitane che vivono
contemporaneamente un inquinamento aggressivo e un traffico con velocità
comparabili a quello della bicicletta ed esposto a continue imprevedibili
interruzioni, una situazione cioè socialmente ed economicamente sempre
meno sostenibile. Sembrerebbe insomma che la parabola di crescita dell’auto
e quindi della sua industria abbia raggiunto un punto limite; non è questa la
nostra convinzione, noi pensiamo che questo modello di industria
automobilistica sia ad un punto limite e che si apra una fase che non è solo
di ristrutturazione ma di re-invenzione.
Occorre aggiungere infatti che si è aperta una guerra crescente sulla
disponibilità del petrolio; guerra che se le cifre sull’Asia dovessero
dimostrarsi credibili diventerà una guerra feroce tra 10 – 15 anni.
Saremmo quindi di fronte a palesi insanabili contraddizioni. Per fare vivere
le aziende e quindi tutta l’occupazione e la relativa ricchezza prodotta. si
dovrebbe aumentare la dimensione del mercato in generale e
specificatamente le quote relative dell’industria europea, ma ciò è reso
difficile da una distribuzione iniqua della ricchezza, se però tale iniquità
fosse superata si aprirebbe un baratro ambientale e sanitario, baratro in via
di realizzazione nelle nostre società europee. Quindi si dovrebbe diminuire
non solo l’uso dell’auto ma il loro numero assoluto. A queste contraddizioni
se ne somma una di fondo dato che la domanda di mobilità, nei centri urbani
in particolar modo, non trova soddisfazione in modo economicamente e
socialmente accettabile; vi sarebbe quindi un divorzio crescente tra domanda
332
di mobilità ed auto; insomma l’auto e la sua industria prederebbe parte del
loro valore d’uso.
Di qui quindi alcuni interrogativi cui vorremmo fornire elementi positivi di
risposta.
Come gestire la contraddizione tra domanda di mobilità e limiti del valore
d’uso dell’auto?
È inevitabile il circuito vizioso tratteggiato? Se così fosse, sarebbe una
guerra di tutti contro tutti non essendo nessuno disposto a pagare il prezzo
sociale ed economico di un fallimento.
Tuttavia, se solo il mercato dovesse decidere allora tutto ciò sarebbe
inevitabile. La deriva che si è messa in moto non si arresterà perché le forze
di fondo che la sostengono sono imponenti. Da un lato abbiamo una parte
consistente dell’umanità che vuole soddisfare una imprescindibile esigenza di
mobilità, dall’altra una risposta inadeguata ma sperimentata, inoltre
abbiamo importanti interessi economici e sociali che spingono per la difesa
di quel modello.
Si apre uno spazio importante a politiche pubbliche, a strategie degli attori
sociali fondamentali, Capitale e Lavoro, che guardino ad obiettivi a medio –
lungo termine anche attraverso originali alleanze con forze ambientaliste e
dei consumatori.
Il punto di partenza è quello di uscire dalla deriva attuale, il che significa in
primo luogo ripartire dalla mobilità come il vero prodotto e riportare l’auto,
in una strategia di mobilità sostenibile, ad un valore d’uso ragionevolmente
adeguato alla domanda di mobilità.
Se la mobilità è il vero prodotto allora una strategia di mobilità deve essere
in grado di offrire piattaforme integrate di mobilità. Non si tratta più della
vecchia contrapposizione tra trasporto collettivo ed individuale, ma di una
offerta di servizi e mezzi che consentano, in modo sostenibile, sia
singolarmente che collettivamente, di avere una risposta alla esigenza di
mobilità. Progettare, costruire, realizzare e gestire tali piattaforme è un
filone di attività economica a cavallo tra la manifattura ed i servizi, è un
modello possibile di un futuro per la manifattura nei paesi ricchi.
Piattaforme di mobilità vuol dire modelli di offerta differenziata a seconda
delle caratteristiche demografiche ed ambientali, una cosa infatti è la
mobilità in una zona rurale o montana ed un'altra quella in un grande centro
urbano, vuol dire modelli integrati di pianificazione urbanistica, arredo
urbano e strumenti per la mobilità – dagli ascensori, alle scale mobili, ecc -,
vuol dire la elaborazione di mezzi di trasporto adatti a diverse tipologie di
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mobilità individuale e collettiva ed anche affrontare il problema di modelli di
gestione del traffico, ecc.
Tutto ciò presuppone che l’insieme dei mezzi offerti, auto inclusa, risolvano
o si avviino su una strada che porta alla risoluzione di due problemi
strategici per l’Europa, ma anche per le altre aree economiche,
l’inquinamento da emissioni e la dipendenza energetica dal petrolio.
Si tratta quindi di una grande innovazione e sviluppo del prodotto
automobile che parte dalla progressiva eliminazione del motore a scoppio a
favore di quello a cella combustibile e lungo la strada dall’uso di motori a
combustione a bassa emissione.
Se si scegliesse questa strada il problema della sovra-capacità produttiva e
della guerra sui costi verrebbe totalmente ridimensionato, si aprirebbero
inoltre possibilità di una collaborazione con l’Asia sia in termini produttivi
che di ricerca.
Muoversi lungo questa strada in fretta significa forzare la situazione
attraverso politiche pubbliche che siano un mix calibrato di politiche
dell’offerta e della domanda, di restrizioni ed incentivi.
Dentro questo quadro si potrebbero curare anche i malati d’Europa come la
Fiat, che, malgrado i recenti positivi risultati dovuti al nuovo management,
rimane in una situazione di strategica incertezza. Fuori da questo quadro c’è
una guerra senza regole e senza limiti la cui prima vittima sarebbe il Lavoro,
la seconda l’ambiente. Il Capitale è notoriamente senza patria, ma solo nella
sua figura astratta, poi vi sono i capitali e quelli alla lunga hanno una
territorialità se non una nazionalità; nel medio periodo i capitali europei,
lungo l’attuale deriva, corrono il rischio di perdere il loro carattere
industriale e vi sono sempre più dubbi, anche nella Commissione Europea,
come dimostra il progetto Manufuture, che questo sia un bene, almeno per
l’Europa; in ogni caso è bene sapere che gli USA hanno scelto per sé di
rimanere un agende potenza industriale.