Il Bacio dell`Angelo Caduto

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Il Bacio dell`Angelo Caduto
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A Heather. Christian e Michael
La nostra infanzia è stata a dir poco fantasiosa.
E a Justin. Grazie per non aver scelto il corso di cucina
giapponese. Ti Amo
Dio Infatti
non risparmiò gli angeli
che avevano peccato,
ma li precipitò
negli abissi tenebrosi
dell'inferno,
serbandoli per il giudizio.
2 Pietro 2:4
Prologo
Valle della Loira, Francia
novembre 1565
Quando scoppiò il temporale, Chauncey si trovava in
compagnia della figlia di un fattore sulla sponda erbosa
della Loira. Aveva lasciato il suo castrone libero di
vagare per il prato, quindi poteva fare affidamento solo
sulle proprie gambe per tornare al castello. Staccò la
fibbia d'argento da uno stivale, la mise in mano alla
ragazza, poi la guardò scappar via, mentre il fango le
inzaccherava l'orlo della gonna. Quindi si tirò su gli
stivali con forza e si avviò verso casa.
La pioggia iniziò a scrosciare sulla buia campagna che
circondava il castello di Langeais, ma Chauncey superò
agevolmente le tombe interrate e i tumuli del cimitero;
persino nella nebbia più fitta non avrebbe esitato a
ritrovare la strada di casa. Quella notte, però, sebbene
non ci fosse un filo di nebbia, la violenza del temporale
era sufficiente a confondere le idee. Con la coda
dell'occhio Chauncey vide qualcosa che si muoveva
alla sua sinistra e alzò di scatto la testa. Quello che a
prima vista era sembrato un grande angelo in cima a un
monumento poco distante si levò in tutta la sua altezza.
Non era di pietra, né di marmo. Il ragazzo aveva
braccia e gambe, petto e piedi nudi. Pesanti calzoni da
contadino erano mollemente legati sui fianchi. Saltò giù
dal monumento, le punte dei capelli grondanti pioggia,
e alcune ciocche gli scivolarono sul viso, scuro come
quello di uno spagnolo.
La mano di Chauncey si mosse lentamente verso l'elsa
della spada. - Chi va là?
Il ragazzo accennò un sorriso.
Non prenderti gioco del duca di Langeais - lo ammoni
Chaunccy. - Ho chiesto il tuo nome. Dimmelo.
Duca? -. Il ragazzo si appoggiò a un salice ritorto. Oppure bastardo?
Chauncey sfoderò la spada. - Rimangiati quella parola!
Mio padre era il duca di Langeais. E adesso il duca
sono io - strillò, maledicendosi perché quella protesta
era suonata goffa e infantile.
Il ragazzo scosse pigramente la testa. - Tuo padre non
era il vecchio duca.
Quell'insinuazione fece ribollire il sangue a Chauncey,
che sollevò la spada e domandò: - E il tuo, di padre?
Non cono-sceva ancora tutti i suoi vassalli, ma stava
imparando. Il cognome del ragazzo gli sarebbe rimasto
impresso nella memoria. - Te lo chiederò un'altra volta aggiunse, asciugandosi con la mano il viso bagnato di
pioggia. - Chi sei?
Il ragazzo mosse un passo verso di lui e
contemporaneamente allontanò da sé la punta della
lama. All'improvviso sembrò più vecchio di quanto
Chauncey avesse pensato, forse di un paio d'anni.
- Sono della schiatta del diavolo - rispose.
Chauncey avverti una stretta di paura allo stomaco. Tu sei pazzo - replicò a denti stretti. - Sparisci dalla mia
vista.
E all'improvviso il terreno sotto i suoi piedi tremò.
Fuochi oro e rossi gli esplosero dietro le palpebre. Si
ritrovò piegato in due, le unghie conficcate nelle cosce.
Ansimante, alzò lo sguardo sul ragazzo, tentando di
trovare un senso in quello che gli stava
capitando. La sua mente vacillava, come se ne avesse
perso il controllo.
Il ragazzo si abbassò per poterlo guardare negli occhi. Ascoltami attentamente. Ho bisogno di una cosa c non
me ne andrò finché non l'avrò ottenuta. Hai capito?
Digrignando i denti, Chauncey scosse la testa per
dichiarare la sua incredulità, il suo rifiuto. Gli avrebbe
volentieri sputato in faccia, ma la lingua disobbedì al
comando.
Il ragazzo lo afferrò per le mani e Chauncey urlò a
causa del forte calore che emanavano.
- Devi giurarmi fedeltà - disse il ragazzo. - Inginocchiati.
Chauncey ordinò alla sua gola di emettete una risata,
ottenendo solo uno scoppio di tosse. Il suo ginocchio
destro si piegò, come se fosse stato colpito da dietro,
sebbene non ci tosse nessuno alle sue spalle, e
all'improvviso si ritrovò nel fango. Rotolò su un fianco,
scosso dai conati.
- Giura - ripete il ragazzo.
Quel calore insopportabile salì dalle mani al collo di
Chauncey il quale dovette impiegare tutte le sue forze
solo per riuscire a stringere i pugni. Rise di se stesso,
ma non c'era allegria nella sua risata. Non aveva idea
di come ci riuscisse, ma era sicuro che fosse quel
ragazzo a farlo sentire debole, nauseato, malato. E non
poteva ribellarsi. Così decise di dire quel che doveva,
ma in cuor suo giurò che avrebbe ucciso il ragazzo per
quell'umiliazione.
- Signore, vi giuro fedeltà - sibilò Chauncey.
Il ragazzo lo tirò su. - Fatti trovare qui all'inizio del mese
ebraico di Cheshvan. Nei giorni compresi tra la luna
nuova e la luna piena avrò bisogno dei tuoi servigi.
- Due settimane? -. La voce di Chauncey tremava per la
rabbia.
- Io sono il duca di Langeais!
- Tu sei un Nephilim - disse il ragazzo stiracchiando un
sorriso.
Chauncey aveva un'imprecazione sulla punta della
lingua, ma decise d'ingoiarla. - Cos'hai detto? - chiese
invece con un tono gelido, corico di veleno.
- Tu appartieni alla razza biblica dei Nephilim. Il tuo
vero padre era un angelo caduto. Tu sei mortale solo
per metà Gli occhi scuri del ragazzo sostennero lo
sguardo di Chauncey. - E per metà sei un angelo
caduto.
Da un angolo recondito della memoria di Chauncey
riaffiorò la voce dell'istitutore che gli leggeva la Bibbia e
gli spiegava della razza deviante nata dall'unione tra gli
angeli caduti e le donne mortali. Una razza spaventosa
e potente. Chauncey fu scosso da un brivido, che non
era solo disgusto. - Chi sei tu?
Per tutta risposta, il ragazzo si voltò e andò via.
Chauncey avrebbe voluto seguirlo, ma non riuscì a
ordinare alle gambe di muoversi. Però, anche se
inginocchiato a terra c con gli occhi pieni di pioggia,
riuscì a notare due grosse cicatrici sulla schiena del
ragazzo. Formavano una V rovesciata.
- Tu sei... caduto? - gridò. - Ti sono state strappare le
ali, vero?
Il ragazzo, angelo o chiunque fosse, non si voltò, ma
Chauncey non aveva bisogno di conferme.
- Questo servigio che devo renderti - urlò. - Esigo
sapere di che cosa si tratta!
Nell'aria umida del cimitero risuonò una risata.
Coldwater, Maine
Oggi
Entrai nell'aula di biologia e rimasi a bocca aperta.
Attaccati non si sa come alla lavagna, c'erano una
Barbie e un Ken. Le braccia erano state sistemate in
modo che le mani si toccassero, ed erano nudi, a parte
delle toglie finte piazzate nei punti strategici. Sopra le
loro teste, scritti) con un gessetto rosa, si leggeva:
BENVENUTI A RIPRODUZIONE UMANA (SESSO).
Accanto a me, Vee Sky bisbigliò: - Ecco perche la
scuola vieta l'utilizzo dei cellulari con la fotocamera.
Una foto così nell'e-zine basterebbe a convincere il
Ministero dell'Istruzione a tagliare biologia. Il che
renderebbe quest'ora disponibile per qualcosa di
davvero produttivo, tipo prendere lezioni privare da
ragazzi carini e aristocratici.
- Sei strana, Vee. Avrei scommesso che aspettassi
questo corso da tutto il semestre.
Lei abbassò le ciglia e sorrise maliziosa. - Questo corso
non può insegnarmi niente che non sappia già.
- Ma come? Vee non sta per Vergine?
- Abbassa la voce - disse. Mi fece l'occhiolino un
secondo prima che la campanella suonasse
spedendoci ai nostri posti, una accanto all'altra.
Il coach McConaughy afferrò il fischietto che gli
penzolava dal collo e ci soffiò dentro. - Squadra, ai
posti! -. Il coach considerava l'insegnamento della
biologia in seconda superiore
un'attività marginale rispetto al suo lavoro di allenatore
di basket all'università, e lo sapevamo rutti.
- Voi ragazzi potreste non aver notato che il sesso è più
di un giretto di un quarto d'ora sul sedile posteriore
dell'auto- In effetti, e scienza. E che cos'è la scienza?
- Noiosa - gridò qualcuno dalle ultime file.
- L'unica materia in cui faccio schifo - disse qualcun
altro. Gli occhi del coach passarono in rassegna la
prima fila e si fermarono su di me. - Nora?
- Lo studio di qualcosa - risposi.
Si avvicinò e piantò l'indice sul mio banco. - Che altro?
La conoscenza acquisita attraverso la sperimentazione
e l'osservazione Perfetto. Sembrava stessi facendo un
provino per l'audiolibro del nostro testo scolastico.
Dillo con parole tue.
Mi toccai il labbro superiore con la punta della lingua e
cercai un'alternativa. - La scienza e indagine.
- La scienza è indagine - ripeté il coach, sfregandosi le
mani.- La scienza ci obbliga a trasformarci in spie.
Detta così, sembrava quasi divertente, ma io avevo
trascorso abbastanza tempo nella classe del coach per
illudermi.
Una buona indagine richiede molta pratica - continuò.
Anche il sesso - commentò qualcuno dal fondo. Ci
furono delle risatine, ma isolate perché l'allenatore
aveva già puntato un indice ammonitore contro il
colpevole.
Quello non farà parte dei compiti a casa di oggi - disse
il coach prima di rivolgere di nuovo la sua attenzione su
di me. - Nora, sei seduta accanto a Vee dall'inizio
dell'anno.
Annuii, ma avevo una brutta sensazione riguardo a
dove sarebbe andato a parare quel discorso. - Lavorate
entrambe all'e-zine
della scuola -. Annuii ancora. - Scommetto che sapete
parecchie cose l'una dell'altra.
Vee mi diede un calcetto sotto il banco. Sapevo quello
che stava pensando: il nostro insegnante non aveva la più
pallida idea di quanto sapessimo una dell'altra. E non si
parla dei segreti seppelliti nelle pagine dei rispettivi diari.
Vee è la mia gemella eversa. Lei è una biondina con gli
occhi verdi e molte curve. Io ho gli occhi grigio scuro con
una massa di capelli bruni e ricci che resistono a ogni
tentativo di stiramento. E sono tutta gambe, come uno
sgabello da bar. Eppure c'é un filo invisibile che ci unisce,
ed entrambe siamo pronte a giurare che questo legame
esisteva molto tempo prima della nostra nascita evi
esigerà per tutta la nostra vita.
Il coach si rivolse alla classe. - In realtà, scommetto che
ciascuno di voi conosce abbastanza bene la persona
seduta accanto. E c'è una ragione che vi ha spinto a
scegliere quei posti, no? La consuetudine. Purtroppo i
migliori detective rifuggono la consuetudine. Impigrisce
l'istinto investigativo. Ecco perché, oggi, camberemo i
posti a sedere.
Aprii la bocca per protestare, ma Vee mi batté sul tempo.
- Che senso ha? Siamo ad aprile, manca poco alla fine
dell'anno. Non può farci una cosa simile proprio adesso.
Il coach accennò un sorriso. - lo posso fare una cosa
simile anche l'ultimo giorno del semestre. E se non superi
il mio corso, l'anno prossimo ti ritroverai di nuovo qui,
dove cose simili accadranno ancora, e ancora, e ancora.
Vee gli lanciò un'occhiataccia. È famosa per quella sua
occhiata, talmente tagliente che quasi si può sentirla
sibilare. Apparentemente immune dallo sguardo
assassino della mia amica, il coach ci spiegò cosa aveva
in mente.
- Tutti quelli seduti sul lato sinistro del banco, la vostra
sinistra, avanzino di un posto. Quelli della prima fila, si,
anche tu Vee. si spostino all'ultima.
Rivolsi alla mia amica un cenno di saluto, mentre tei
sbatteva il quaderno nello zaino e chiudeva di scatto la
zip. Poi mi voltai lentamente, ispezionando la stanza.
Conoscevo il nome di tutti i miei compagni, tranne uno.
Quello che si era trasferito. Il coach non lo chiamava
mai e lui sembrava apprezzare. Sedeva pigramente nel
banco dietro il mio, gli occhi scuri puntati come al solito
davanti a sé. Per un attimo faticai a credere che fosse
sempre stato seduto li, giorno dopo giorno, a fissare il
vuoto. Di sicuro stava pensando a qualcosa, ma l'istinto
mi diceva che non avrei voluto sapere che cosa.
Posò il suo libro di biologia sul banco e scivolò su
quella che era stata la sedia di Vee.
Sorrisi. - Ciao, io sono Nora.
Il suo sguardo mi passò da parte a parte e gli angoli
delle labbra si sollevarono. Il mio cuore perse un battito.
E in quella pausa, una sensazione di tristezza, come
un'ombra fredda, mi scivolò addosso. L'istante dopo la
sensazione era sparita, mentre io lo stavo ancora
osservando e il suo sorriso non era diventato più
amichevole. Era un sorriso che prometteva guai.
Mi concentrai sulla lavagna. Barbie e Ken ricambiarono
il mio sguardo, stranamente allegri.
Il coach disse: - La riproduzione umana può essere un
argomento spinoso...
- Ahia - fece un coro di studenti.
- Richiede maturità. E come per tutte le scienze, il
metodo migliore e quello investigativo. Durante il resto
dell'ora esercitate questa tecnica cercando di scoprire
quanto più possibile sul
vostro nuovo compagno. Domani porterete una
relazione con le vostre scoperte e, credetemi,
controllerò che corrispondano alla verità. Questa è
biologìa, non letteratura, quindi non romanzate le
risposte. Voglio vedere una vera collaborazione e un
vero lavoro di squadra -. E nella frase c'era l'implicito
avvertimento a non azzardarsi a fare altrimenti.
Restai seduta immobile. La palli era nella meta campo
del mio nuovo compagno. Avergli sorriso non si era
rivelata una buona mos-sa. Arricciai il naso, cercando di
capire che cosa mi ricordasse il suo odore. Non
sigarette. Qualcosa di più intenso, nauseante. Sigari.
Notai l'orologio sul muro e iniziai a tamburellare con la
matita al ritmo dei secondi. Sospirai, il gomito piantato
sul banco, il mento poggiato al pugno.
Grandioso. A quella velocità non avrei fatto in tempo a
scoprire un bel niente.
Tenevo gli occhi fìssi davanti a me, però potevo sentire
il fruscio della sua penna. Stiva scrivendo, e io volevo
sapere cosa. Dicci minuti di convivenza sullo stesso
banco non lo autorizzavano a ipotizzare niente sul mio
conto. Con la coda dell'occhio, vidi parecchie frasi sul
suo foglio, e la lista si allungava.
- Che cosa stai scrivendo? - chiesi.
- Parla la mia lingua - disse mentre scriveva quella
frase, ogni movimento della mano fluido e pigro allo
stesso tempo.
Mi avvicinai il più possibile, tentando di leggere
dell'altro, ma lui piegò il foglio a metà coprendo la lista.
- Che cosa hai scritto? - ripetei.
Lui allungò la mano per prendere il mio foglio bianco e
lo fece scivolare verso di sé, quindi lo appallottolò e,
prima che riuscissi a protestare, lo lanciò nel cestino dei
rifiuti dietro la cattedra. Canestro.
Rimasi un attimo a fissare il cestino, metà allibita e
metà arrabbiata. Poi aprii di scatto il taccuino alla prima
pagina bianca e, matita alla mano, chiesi: - Come ti
chiami?
Alzai gli occhi in tempo per cogliere un altro sguardo
gelido. Sembrava volermi avvertire che non avrebbe
tollerato altre domande sul suo conto.
- Come ti chiami? - ripetei, sperando che quel tono
esitante nella mia voce fosse solo immaginazione.
- Chiamami Patch. Dico sul serio. Chiamami.
Lo disse ammiccando, cosi mi convinsi che volesse
prendermi in giro.
Che cosa fai nel tempo libero? - chiesi.
Non ho tempo libero.
- Senti, suppongo che prenderemo un voto per questo
compito, quindi mi fai il favore?
Si appoggiò alla spalliera della sedia, le mani incrociate
dietro la testa. - Che tipo di favore?
Ero sicura che fosse un'allusione, quindi cercai
disperatamente qualcosa a cui appigliarmi per cambiare
argomento.
- Tempo libero... - ripete invece lui, pensieroso. - Faccio
fotografie.
Scrissi sul foglio Fotografia.
- Non ho finito - disse. - Ne ho una bella collezione di
una cronista dell'e-zine che crede sia giusto mangiare
biologico, scrive poesie in gran segreto e rabbrividisce
al pensiero di dover scegliere tra Stanford, Yale e...
qual è quell'altra grossa università che inizia per H?
Lo fissai per un momento, scioccata da quanto
maledettamente ci avesse preso. E non mi sembrava
che avesse tirato a indovinare. Lo sapeva. E lo volevo
sapere come facesse a saperlo.
E volevo saperlo ora.
Alla fine non andrai a nessuna delle tre.
Ah, no? - chiesi senza riflettere.
Agganciò la parte inferiore della mia sedia con le dita e
mi trascinò più vicino a lui. Indecisa se spostarmi di
scatto e mostrarmi spaventata, oppure ignorarlo e
fingermi annoiata, scesi la seconda opzione.
Anche se otterresti degli ottimi risultati in tutte e tre le
università, le snobbi perché le consideri lo stereotipo
del successo. Sputare sentenze è il tuo terzo difetto.
E il secondo? - dissi in preda a una rabbia gelida. Chi
era questo tizio? A che razza di gioco malato stava
giocando?
Non ti fidi di nessuno. No, aspetta, mi spiego meglio. Ti
fidi, ma solo delle persone sbagliare.
- E il primo?
- Tieni la vita al guinzaglio.
- E questo che vorrebbe dire?
- Hai paura di quello che non puoi controllare.
Mi si rizzarono i capelli sulla nuca e la temperatura della
stanza sembrò precipitare. In circostanze normali, mi
sarei alzata, sarei andata dal coach e avrei preteso di
cambiare posto. In quella circostanza, però, non
sopportavo che Patch pensasse di avermi intimidito o
spaventato. Provai un bisogno irrazionale di difendermi
e decisi, in quel preciso momento, di non dargliela
vinta.
- Dormi nuda? - chiese.
La bocca minacciò di spalancarsi, ma riuscii a rallentare
la caduta della mascella.
- Sei l'ultima persona alla quale lo direi.
- Mai stata da uno strizzacervelli?
- No - mentii. Per la verità ero in terapia dallo psicologo
Della scuola, il dottor Hendrickson. Non era una mia
scelta e non mi piaceva parlarne.
- Mai fatto niente di illegale?
- No -. Superare occasionalmente i limiti di velocità non
contava. Non con lui. - Perché non mi fai delle
domande normali? Tipo... il mio genere di musica
preferito?
- Non chiedo quello che posso indovinare.
- Tu non conosci la mia musica preferita.
- Barocca. In te è tutto questione di ordine, controllo.
Scommetto che suoni... il violoncello? -. Lo disse come
se l'idea gli fosse venuta in mente dal nulla.
- Sbagliato -. Altra bugia. Stavolta però fui attraversata
da un brivido. Chi era quel ragazzo? Che altro sapeva?
- Quello cos'è? - chiese Patch dandomi un colpetto con
la penna all'interno del polso. Istintivamente, mi scostai.
- Una voglia.
- Sembra una cicatrice. Hai tentato il suicidio, Nora? 1
nostri sguardi si incrociarono e io capii che si stava
divertendo. - Genitori sposati o divorziati?
- Vivo con mia madre.
- Dov'è tuo padre?
- È morto l'anno scorso.
- Come?
Sussultai, non riuscii a impedirlo. - Ucciso. Queste però
sono faccende private, se non ti dispiace.
Ci fu un momento di silenzio e lo sguardo di Patch
sembrò ammorbidirsi. - Dev'essere dura -. Sembrava
sincero.
La campanella suonò e Patch si alzò, diretto alla porta.
- Ehi! - gridai, ma lui non si voltò. - Scusa! Era già oltre
la soglia. - Patch! Non ho scritto niente su di te.
Si voltò, tornò indietro, mi prese la mano e ci scrisse
sopra qualcosa prima che avessi il tempo di pensare.
Poi guardai i serre numeri rossi che avevo sul palmo
della mano.
Volevo dirgli che non c'era possibilità che il suo telefono
squillasse quella sera. Volevo dirgli che era colpa sua,
che aveva usato tutto il tempo per le sue domande.
Volevo dirgli un sacco i: cose, invece riuscii a dire solo:
- Stasera ho da tare.
- Anch'io -. Sorrise e sparì.
Rimasi immobile a elaborare i fatti. Aveva usato di
proposito tutto il tempo a disposizione? Cosi non avrei
avuto tempo di domandargli niente? Credeva davvero
che un bel sorriso avrebbe sistemato le cose? Si, lo
credeva eccome.
- Guarda che non ti chiamo! - gli gridai dietro. - Sul
serio!
- Hai finito l'articolo da consegnare domani? Era Vee. Si
fermó dietro di me e scrisse degli appunti sul taccuino
che si portava sempre dietro. - Credo che il mio
riguaderà l'ingiustizia della disposizione dei posti. Sono
capitata accanto a una ragazza che mi ha raccontato di
avere appena finito il trattamento contro i pidocchi.
- Il mio nuovo compagno - dissi, indicando il corridoio in
direzione di Patch. Notai il suo modo di camminare:
irritante, sicuro di sé. Il tipo di andatura che assoceresti
a una maglietta scolorita e un cappello da cow-boy.
Patch non indossava né l'una ne l'altro. Era il tipo da
Levi's neri, maglietta nera e stivali neri.
- Il ripetente che e arrivato quest'anno? Credo che non
abbia studiato molto al primo giro. E nemmeno al
secondo -. Vee mi rivolse uno sguardo complice. - Ma il
terzo giro ha un certo fascino.
- Mi mette i brividi. Sa che musica ascolto. Senza il
minimo indizio, ha detto «barocca» Cercai di imitare la
sua voce bassa. Inutilmente.
- Magari ha tirato a indovinare e ha avuto fortuna.
- Sapeva... altre cose.
- Tipo?
- Più di quanto avrei voluto. - Per esempio come farmi
innervosire - sospirai. - Vado a dire al coach che
rivoglio i vecchi posti.
- Accomodati. Potrebbe essere un'idea per il mio
prossimo articolo: Studentessa del secondo anno si
ribella. Oppure, meglio ancora: Scacco matto alla
nuova disposizione. Mmm, mi piace.
A fine giornata, quella ad avere ricevuto scacco matto
ero io. Il coach aveva respinto il mio appello, quindi, a
quanto pareva, dovevo sorbirmi Patch.
Per il momento.
2
Mia madre e io viviamo alla periferia di Coldwater, in
una fattoria del diciottesimo secolo piena di spifferi. È
l'unica casa sulla Hawthorne Lane e l'abitazione più
vicina si trova a circa un chilometro di distanza. A volte
mi chiedo se chi ha costruito casa nostra si sia reso
conto che, fra tutti gli appezzamenti di terra disponibili,
era andato a scegliersi quello piazzato al centro di una
misteriosa condizione atmosferica che sembra
risucchiare tutta la nebbia della costa del Maine per
risputarla nel nostro giardino. In quel momento, infatti,
la casa era coperta da un velo spettrale che ricordava
un raduno di spiriti erranti.
Trascorsi la sera appollaiata su uno degli sgabelli della
cucina, in compagnia dei compiti di algebra e di
Dorothea, la nostra donna di servizio. Mia madre lavora
per la Casa d'aste Hugo Renaldi; coordina le aste
immobiliari e antiquarie della costa orientale c quella
settimana si trovava nella parte settentrionale dello
stato di New York. Il suo lavoro la portava a viaggiare
molto e lei pagava Dorothea perché cucinasse e
pulisse, lo però ero sicura che tra le sue mansioni ce ne
fosse anche una scritta In piccolo: tenermi d'occhio.
- Com'è andata a scuola? - chiese Dorothea con un
leggero accento tedesco. China sul lavello, strofinava
una pirofila per staccare i resti delle lasagne.
- Ho un nuovo compagno di banco a biologia.
- E una cosa bella o brutta?
- Prima ero seduta con Vee.
- Bah! -. Dorothea si accani sulla pirofila e la parte
superiore del braccio prese a ballonzolarle. - Allora è
una cosa brutta.
Annuii sospirando.
- Dimmi di questo nuovo compagno, che tipo è?
- È alto, bruno e irritante -. E impenetrabile in un modo
che mette i brividi. Gli occhi di Patch erano due sfere
nere: assorbivano tutto e non rivelavano nulla. Non che
io volessi saperne di più. Quello che avevo visto in
superficie non mi era piaciuto, quindi dubitavo potesse
piacermi ciò che si celava in profondità.
Peccato non fosse del tutto vero. In effetti, parecchio di
quello che avevo visto mi era piaciuto. I muscoli lunghi
e asciutti delle braccia, le spalle larghe e aperte e il
sorriso, allegro e seducente allo stesso tempo. Ero in
conflitto con me stessa, perché cercavo di ignorare
qualcosa che in realtà trovavo irresistibile.
Alle nove, Dorothea terminò il suo turno. Usci e chiuse
a chiave. Come al solito, accesi e spensi le luci della
veranda due volte: il saluto le arrivò anche attraverso
quel mare di nebbia, perché mi rispose con un colpo di
clacson. Ero sola.
Passai in rassegna i sentimenti che mi agitavano. Non
avevo fame. Non ero stanca. In realtà non mi sentivo
neanche tanto sola. Ero solo un po' agitata per via del
compito di scienze. Avevo detto a Patch che non l'avrei
chiamato e fino a sei ore prima lo pensavo davvero.
Adesso però riflettevo sul fatto che non volevo prendere
un brutto voto. Biologia era la materia che mi dava più
problemi. I miei voti oscillavano pericolosamente il che,
secondo me, faceva la differenza tra una futura borsa di
studio a copertura totale e una a copertura parziale.
Andai in cucina a prendere il telefono e mi guardai la
mano per vedere cos'era rimasto dei sette numeri. In
fondo, speravo che Patch non rispondesse. Se non
l'avessi trovato o non avesse voluto collaborare, avrei
potuto tornare alla carica con il coach per la
disposizione dei posti. Fiduciosa, composi il numero.
Patch rispose al terzo squillo. - Che c'è?
In tono asciutto, dissi: - Volevo sapere se possiamo
vederci stasera. So che hai detto di essere occupato,
ma...
- Nora -. Patch pronunciò il mio nome come se lo
trovasse divertente. Una specie di barzelletta.
- Credevo non avresti chiamato. Davvero.
Odiavo rimangiarmi la parola e odiavo il fatto che lo
sottolineasse. Odiavo il coach e i suoi compiti assurdi.
Aprii la bocca, sperando che ne uscisse qualcosa di
intelligente. - Allora? Possiamo vederci o no?
- A quanto pare non posso.
- Non puoi o non vuoi?
- Sono nel bel mezzo di una partita a biliardo Il tono
della voce tradì un sorriso. - Una partita molto
importante.
Dal rumore di fondo, capii che stava dicendo la verità,
per lo meno riguardo alla partita. Se poi fosse più
importante del compito... be', quello era da dimostrare.
- Dove sei?
- Bo's Arcade. Non é il tuo genere di locale.
- Allora facciamo un'intervista telefonica. Ho qui un
elenco di domande che...
Riattaccò.
Restai a fissare il telefono incredula, strappai un foglio
bianco dal taccuino e scrissi Stronzo. Nella riga sotto
aggiunsi: Fuma il sigaro. Morirà di cancro ai polmoni. Si
spera presto. Forma fisica eccellente.
Cancellai l'ultima osservazione fino a renderla illeggibile.
L'orologio del microonde segnava le 21.05. A quel punto
capii di avere due possibilità. Potevo inventarmi di sana
pianta l'intervista con Patch oppure prendere la macchina
e andare alla sala giochi. La prima opzione avrebbe
potuto essere allettante, se solo fossi riuscita a mettere a
tacere la voce del coach che continuava a ripetere che
avrebbe controllato la veridicità di tutte le risposte. E
comunque quel poco che sapevo di Patch non bastava
per un'intervista, nemmeno fasulla. E la seconda
opzione? Neanche a parlarne.
Non riuscendo a decidere, alla fine chiamai mia madre.
Parte de! nostro accordo riguardo al suo lavoro e al fatto
che viaggi tanto prevede che io mi comporti in maniera
responsabile e non sia il tipo di figlia che ha bisogno di
essere controllata a vista. Io amavo la mia libertà e non
volevo fare nulla che la costringesse a trovarsi un lavoro
pagato peggio, ma più vicino a casa, solo per potermi
controllare. Al quarto squillo, attaccò la segreteria.
- Sono io - dissi. - Volevo solo sapere come stai. Ho
ancora dei compiti di biologia da fare e poi vado a
dormire. Chiamami domani all'ora di pranzo, se vuoi. Ti
voglio bene.
Dopo aver riattaccato, trovai un quarto di dollaro nel
cassetto della cucina. Meglio lasciare le decisioni
complicate al fato. - Testa, vado - dissi al profilo di George
Washington. - Croce, resto -. Lanciai in aria la moneta,
l'afferrai e la misi sul dorso della mano. Poi presi coraggio
e diedi una sbirciatina. I battiti del mio cuore accelerarono,
ma feci finta di non capire perché.
- La responsabilità non è più mia - dichiarai.
Decisa a chiudere la questione il prima possibile, presi al
volo una cartina attaccata al frigo, affettai le chiavi, saltai
sulla mia Fiat Spider e uscii in retromarcia dal garage. Nel
1979 sarà anche
stata una bella macchina, ma il marrone della
carrozzeria non mi faceva impazzire e neanche la
ruggine che si faceva strada sul parafango posteriore o
i sedili di pelle bianca screpolati.
La Bo's Arcade si rivelò più lontano del previsto: il
locale si trovava a mezz'ora di viaggio, rintanato dalle
parti della costa. Con la cartina ancora aperta sul
volante, accostai e mi fermai nel parcheggio di un
grosso edificio di mattoni con l'insegna al neon: Bo's
Arcade - sala giochi, paintball e biliardo. I muri erano
rivestiti di graffiti e la strada davanti all'entrata coperta
di mozziconi. Proprio il tipo di locale frequentato da
studenti delle più prestigiose università e cittadini
modello. Cercai di mantenere un'aria sicura e
disinvolta, ma ero un po' nervosa. Controllai di aver
chiuso tutte le portiere dell'auto e mi decisi a entrare.
Mi misi in fila per superare le sbarre. Non appena il
gruppo davanti a me ebbe pagato, mi infilai dentro,
verso il labirinto di luci lampeggianti e suoni assordanti.
- Credi di poter entrare gratis? - gridò una voce
arrochita dal fumo.
Mi voltai e lanciai uno sguardo ammiccante al cassiere,
tatuato dalla testa ai piedi.
- Non sono qui per giocare, cerco una persona.
- Vuoi passare? Paga - grugnì lui appoggiando la mano
aperta al banco. Attaccata con il nastro adesivo c'era la
tabella con le tariffe; avrei dovuto pagare quindici
dollari. In contanti.
Ovviamente non li avevo ma, anche se li avessi avuti,
non li avrei sprecati per pochi minuti passati a
intervistare Patch. Fui presa da un attacco di rabbia per
la storia dei posti in classe e, soprattutto, per il fatto di
aver dovuto arrivare fin li. Dovevo solo trovare Patch,
poi saremmo usciti a compilare il questionario. Non
avevo macinato tutta quella strada per niente.
- Se non torno tra due minuti, pago i quindici dollari dissi. Senza riflettere o fare appello a quel briciolo di
pazienza che mi era rimasta, feci una cosa
assolutamente incredibile per me: mi abbassai e passai
sotto le sbarre. Non contenta, iniziai a correre per tutta
la sala giochi cercando Patch. Non potevo credere a
quello che stavo facendo, eppure, come in preda a un
effetto valanga, continuavo ad acquistare velocità.
Volevo assolutamente trovare Patch e uscire.
Il cassiere mi segui urlando: - Ehi! Ehi, tu!
Patch non era al pianterreno, così mi precipitai di sotto,
seguendo i cartelli che indicavano la sala da biliardo. In
fondo alle scale vidi diversi tavoli da poker, tutti
occupati e illuminati da fioche lampade. Il soffitto era
basso e coperto da uno strato di fumo, denso come la
nebbia che avvolgeva casa mia. Nascosti tra i tavoli da
poker e il bar, vidi una fila di tavoli da biliardo. Patch era
allungato su quello più lontano da me e tentava un
difficile tiro di sponda.
- Patch! - gridai.
Lo chiamai proprio nell'istante in cui stava tirando. La
stecca colpì il panno. Patch sollevò la testa e mi lanciò
uno sguardo a metà tra lo stupito e l'incuriosito.
Nel frattempo il cassiere mi aveva raggiunta e mi afferrò
per una spalla. - Di sopra. Subito.
Le labbra di Patch si piegarono in un mezzo sorriso,
difficile dire se beffardo o amichevole. - Lei è con me.
Sembrò funzionare, perché il cassiere allentò la presa.
Prima che cambiasse idea, mi tolsi la sua mano di
dosso e mi Insinuai tra i tavoli. All'inizio decisa, ma poi,
mano a mano che mi avvicinavo a lui, la mia sicurezza
iniziò a vacillare.
Mi ero accorta che in lui c'era qualcosa di diverso. Non
avrei saputo dire cosa, ma lo avvertivo come una
scossa elettrica. Era più ostile?
Era più sicuro di sé.
Più libero di essere se stesso. E quegli occhi neri mi
stavano addosso, come due calamite attirate da ogni
mio movimento. Deglutii, cercando di ignorare lo strano
tip tap che ballava il mio stomaco. Non avrei saputo
spiegare che cosa non andasse in lui, ma qualcosa
c'era. Qualcosa di sbagliato. Qualcosa di poco... sicuro.
- Mi dispiace per prima - disse avvicinandosi. - Il
telefono non prende bene qui sotto.
Sì, come no.
Con un cenno del capo, ordinò agli altri di andarsene.
Segui un attimo di pesante silenzio, poi i suoi compagni
si mossero. Uno di loro, passando, mi urtò la spalla; feci
un passo indietro per non perdere l'equilibrio e alzai gli
occhi in tempo per intercettare gli sguardi glaciali degli
altri due giocatori che si allontanavano.
Grandioso. Non era colpa mia se dovevo fare il compito
con Patch.
- Palla 8? - gli chiesi, sollevando le sopracciglia e
cercando di sembrare a mio agio. Forse aveva ragione
lui: non era il mio genere di posto. Questo però non
voleva dire che me la sarei data a gambe. - Quant'è la
posta?
Sorrise. E quella volta ero assolutamente sicura che mi
prendesse in giro. - Non giochiamo per soldi.
Posai la borsa sul bordo del tavolo. - Peccato. Avrei
scommesso rutto quello che ho contro di te -. Tirai fuori
il mio compito con le prime due righe già compilate. Solo qualche domanda veloce e me ne vado.
- Stronzo? - lesse Patch a voce alta, appoggiato alla
stecca. - Cancro ai polmoni? Cosa dovrebbe essere,
una profezia?
Sventolai il compito. - Sto solo ipotizzando che tu dia il
tuo contributo all'atmosfera. Quanti sigari fumi in una
sera? Uno? Due?
- Io non fumo -. Sembrava sincero, ma non gli crederti.
- Mmm - dissi posando il foglio tra la palla 8 e quella
viola. Senza volerlo, mentre scrivevo Sigari, senza
dubbio nella terza riga, urtai la viola.
Stai mandando all'aria la partita - disse Patch senza
smettere di sorridere.
I suoi occhi catturarono i miei e non potei fare a meno
di ricambiare il sorriso, ma solo per un attimo. - Spero
che fossi in vantaggio, allora. Il tuo sogno più grande? -.
Ero orgogliosa di quella domanda, perche sapevo che
l'avrebbe messo in difficoltà. Non m poteva rispondere
soprappensiero.
- Baciarti.
- Non è divertente - dissi, sostenendo il suo sguardo e
ringraziando me stessa per non aver balbettato.
- No, ma ti ha fatto arrossire.
Impassibile, almeno in apparenza, mi sedetti sulla
sponda del tavolo, accavallai le gambe e usai il
ginocchio come appoggio.
- Lavori?
- Faccio l'aiuto cameriere al Borderline, il miglior
messicano della città.
- Religione?
Non sembrò sorpreso dalla domanda, ma neanche
felicissimo di sentirsela fare. - Credevo avessi detto
solo qualche domanda veloce. Sono già quattro.
- Religione? - ripetei.
Patch si accarezzò pensieroso la mascella. - Più che
religione... setta.
- Appartieni a una setta? -. Mi resi conto troppo tardi di
aver usato un tono sorpreso, e non avrei dovuto.
- A quanto pare, ho bisogno di un sacrificio femminile.
Avevo programmato di attirare la ragazza in questione
dopo aver conquistato la sua fiducia, quindi se ora sei
pronta...
Dalla mia faccia sparì ogni traccia di sorriso. - Guarda
che non mi impressioni.
- Non ho nemmeno iniziato a provarci.
Scesi dal tavolo e lo affrontai. Era parecchio più alto di
me.
- Vee mi ha detto che sei più grande di noi. Quante
volte hai ripetuto il secondo anno di biologia? Una?
Due?
- Vee non è il mio portavoce.
- Stai negando di essere stato bocciato?
- Sto dicendo di non essere andato a scuola l'anno
scorso -rispose in tono provocatorio, ma il risultato fu
quello di farmi intestardire.
- Hai saltato la scuola?
Patch appoggiò la stecca sul tavolo e con l'indice fece
segno di avvicinarmi. Non mi mossi. - Vuoi sapere un
segreto? - sussurrò.
- Non ero mai andato a scuola prima. Un altro segreto?
Non è noiosa come credevo.
Bugiardo. Per legge, tutti dovevano andare a scuola.
Mentiva per farmi innervosire.
- Credi che stia mentendo - disse con un gran sorriso.
- Non sei mai andato a scuola? Mai? Se è vero e hai
ragione, ma non lo credo, allora cos'è che ti ha fatto
cambiare idea quest'anno?
-Tu.
Per un attimo cedetti all'istinto che mi suggeriva di
avere paura, poi dissi a me stessa che era esattamente
quello che voleva. Per quello non mi diedi per vinta e
cercai invece di sembrare seccata. Mi ci volle comunque
un attimo per riacquistare coraggio e ribattere: - Bella
risposta.
Doveva aver fatto un passo avanti, perchè
improvvisamente i nostri corpi si trovavano separati
soltanto da un sottile velo d'aria.
- I tuoi occhi, Nora. Occhi di ghiaccio, sorprendentemente
irresistibili Piegò la testa di lato, come per studiarmi da
un'angolazione
diversa.
E
quella
bocca
meravigliosamente carnosa.
Allarmata non tanto dal commento quanto dal fatto che
una parte di me fosse stata colpita da quelle parole,
arretrai. – Ora basta. Me ne vado.
Non appena pronunciai quelle parole, però, seppi che non
erano sincere. Sentivo il bisogno di aggiungere
qualcos'altro. Passai al vaglio i pensieri che mi agitavano
la mente, cercando di capire che cosa dirgli. Perché mi
prendeva in giro in quel modo, e perchè si comportava
come se avessi fatto qualcosa per meritarlo?
- Sembra che tu sappia molto su di me - dichiarai alla fine.
- Più di quanto dovresti. E che sappia esattamente cosa
dire per mettermi a disagio.
- È facile.
Fui assalita dalla rabbia. - Allora ammetti di farlo apposta?
- Cosa?
- Provocarmi.
- Dillo ancora. Provocarmi. Quando lo dici le tue labbra
diventano provocanti.
Abbiamo finito. Puoi tornare alla tua partita Afferrai la
stecca che aveva poggiato sul tavolo e gliela porsi, ma lui
non la prese.
Non mi piace srare seduta accanto a te - dissi. - Non mi
piace studiare con te. Non mi piace quel tuo sorrisetto
malizioso Avevo la mascella contratta, il che mi
succedeva ogni volta che mentivo.
Mi chiesi se lo stessi facendo anche in quel momento.
In quel caso, avrei voluto prendermi a calci. - Non mi
piaci - conclusi cercando di essere il più convincente
possibile, quindi gli puntai la stecca contro il petto.
- Sono contento che il coach ci abbia messo insieme –
replicò lui. Notai una leggera ironia nel modo in cui
pronunciava la parola coach, ma non riuscii a trovare
nessun
significato
recondito.
Raccolse la stecca.
- Sto facendo in modo di cambiare le cose - ribattei.
A giudicare dal sorriso che sfoderò, trovava !a mia frase
molto divertente. Allungò una mano verso di me e,
prima che riuscissi a spostarmi, mi sfilò qualcosa dai
capelli.
- Un pezzetto di carta - spiegò. Con un movimento
elegante lo lasciò cadere a terra. Fu allora che notai un
segno sulla parte interna del polso. All'inizio pensai a
un tatuaggio e invece, guardando meglio, mi accorsi
che era una voglia rossiccia leggermente in rilievo,
simile a una goccia di vernice.
- Posizione infelice per una voglia - dissi, parecchio
infastidita dal fatto di averne una praticamente nello
stesso punto.
Patch si tirò giù la manica con noncuranza. - Preferiresti
che fosse in un posto più intimo?
- Non la preferirei da nessuna parte -. Incerta sull'effetto
che la frase avesse sortito, la riformulai. - Non mi
importa che tu ce l'abbia o no -. Terzo tentativo. - Non
m'importa niente della tua voglia. Punto.
- Altre domande? - chiese. - Commenti?
-No.
- Allora ci vediamo in classe.
Pensai di dirgli che non mi avrebbe rivista mai più, ma
non era il caso di rimangiarsi la parola due volte nello
stesso giorno.
Quella notte fui svegliata da un rumore. Rimasi
immobile, la faccia schiacciata sul cuscino, tutti i sensi
all'erta.
Il lavoro di mia madre la portava fuori città almeno una
volta al mese, quindi ero abituata a dormire da sola.
Eppure, erano mesi che credevo di sentire un rumore di
passi: partiva dall'ingresso e si avvicinava alla mia
stanza. Veramente non mi sentivo mai sola. Subito
dopo la morte di mio padre, a cui avevano sparato a
Portland mentre comprava il regalo di compleanno per
mia madre, una strana presenza era entrata nella mia
vita. Era come se qualcuno orbitasse intorno al mio
mondo e mi tenesse d'occhio da lontano. All'inizio la
presenza fantasma mi aveva spaventata, ma poi,
vedendo che non succedeva niente di brutto, la mia
ansia si era attenuata. Avevo iniziato a chiedermi se le
sensazioni che provavo facessero parte di un disegno
cosmico. Forse lo spirito di mio padre era nelle
vicinanze. Di solito quel pensiero mi dava conforto,
invece quella sera era diverso. Avvenivo una presenza
fredda come ghiaccio.
Girai un po' la testa e vidi una forma indistinta allungarsi
sul pavimento. Mi misi a sedere di scatto e guardai
verso la finestra, dalla quale penetrava un pallido raggio
di luna. Niente. Mi strinsi al cuscino e dissi a me stessa
che si trattava di una nuvola di passaggio, oppure di un
sacchetto trasportato dal vento. Tuttavia, ci vollero
parecchi minuti perché il cuore riprendesse il suo battito
normale.
Quando trovai il coraggio di alzarmi dal letto e di
guardare fuori, il cortile su cui affacciava la mia finestra
era tranquillo e silenzioso. L'unico rumore proveniva dai
rami dell'albero che strisciavano sul muro di casa e dal
mio cuore che martellava nel petto.
3
Il coach McConaughy spiegava con voce monotona
qualcosa alla lavagna, ma la mia mente era lontana
mille miglia dalle complessità della scienza.
Ero occupata a formulare i motivi per cui Patch e io non
avremmo più dovuto studiare insieme e, a mano a
mano che li individuavo, li trascrivevo sul retro di un
vecchio questionario. Alla fine dell'ora sarei andata dal
coach per esporgli le mie le ragioni. Non collabora ai
compiti assegnati, avevo scritto. Mostra poco interesse
per il lavoro di squadra.
Tuttavia, erano le cose non presenti nell'elenco a
infastidirmi di più. Trovavo strano che Patch avesse una
voglia proprio in quel punto del polso e l'ombra alla mia
finestra, la notte prima, mi aveva spaventata. All'inizio
non avevo nemmeno sospettato che fosse stato Patch
a spiarmi, ma con il passare del tempo avevo trovato
sempre più difficile ignorare la coincidenza che
qualcuno mi spiasse dalla finestra poche ore dopo
averlo incontrato.
Patch mi spiava. Quel pensiero fece correre la mano
alla tasca anteriore dello zaino. Trovai un flacone. Lo
aprii facendo uscire due pastiglie ricostituenti a base di
ferro che mandai giù senz'acqua.
Si bloccarono un attimo in gola e poi andarono giù. Con
la coda dell'occhio, vidi Patch che mi guardava con aria
interrogativa.
Presi in considerazione l'idea di spiegargli che ero
anemica e che dovevo assumere ferro tutti i giorni,
soprattutto quand'ero stressata, ma poi ci ripensai.
L'anemia non è pericolosa, sempre che si prendano
dosi regolari di ferro. Non ero così paranoica da
pensare che Patch volesse farmi del male, ma le mie
condizioni di salute erano comunque una debolezza e
preferivo tenerla segreta.
- Nora?
Il coach era in piedi e la mano tesa indicava che stava
aspettando qualcosa: la mia risposta. Sentii le guance
diventare bollenti.
- Può ripetere la domanda? - chiesi. La classe
ridacchiò.
Leggermente irritato, il coach disse: - Quali
caratteristiche ti attraggono in un potenziale partner?
- Potenziale partner?
- Coraggio, non abbiamo tutto il pomeriggio. Sentii la
risatina di Vee alle mie spalle.
La voce mi si strozzò in gola. - Vuole che le elenchi le
caratteristiche di un...
- Potenziale partner, si, sarebbe d'aiuto.
Senza volerlo, lanciai un'occhiata di traverso a Patch.
Era appoggiato alla spalliera della sedia, quasi
stravaccato, e mi studiava soddisfatto. Sfoggiò il suo
sorriso da canaglia e a fior di labbra disse: - Stiamo
aspettando.
Appoggiai le mani sul banco, cercando di sembrare più
tranquilla di quanto fossi. - Non ci ho mai pensato.
- Bene, allora pensaci, e alla svelta.
- Potrebbe chiedere prima a qualcun altro?
Il coach fece un gesto impaziente alla mia sinistra.
- Patch, tocca a te.
Diversamente da me. Patch parlò con sicurezza. Ed era
leggermente rivolto dalla mia parte, le ginocchia a pochi
centimetri dalle mie.
- Intelligente. Attraente. Vulnerabile.
Il coach scrisse gli aggettivi alla lavagna. - Vulnerabile?
- ripetè. - In che senso?
Vee intervenne. - Tutto questo c'entra qualcosa con il
capitolo che stiamo studiando? Perché ho controllato il
libro e da nessuna parte si legge di caratteristiche che
ci attirano in un partner.
Il coach smise di scrivere. - Tutti gli animali del pianeta
attirano i partner a scopo riproduttivo. Le rane gonfiano
il corpo, i gorilla si battono il petto. Hai mai visto un
maschio di aragosta alzarsi sulle zampe e aprire e
chiudere le chele per attirare l'attenzione della
femmina? L'attrazione è il primo elemento della
riproduzione in tutte le specie animali, inclusa quella
umana. Perché non ci fornisce il suo elenco, signorina
Sky?
Vee alzò la mano con le cinque dita aperte ed enumerò
le sue preferenze, abbassando un dito alla volta.
- Bellissimo, ricco, comprensivo, estremamente
protettivo e appena un po' pericoloso.
Patch sorrise. - Il problema dell'attrazione umana è che
non si sa se sarà ricambiata.
- Eccellente osservazione - disse il coach
- Gli umani sono vulnerabili - prosegui Patch - perché
possono essere feriti -. In quel momento, il ginocchio di
Patch urtò il mio. Mi scansai, imponendomi di non
pensare a cosa avesse voluto alludere con quel gesto.
Il coach annuì. - La complessità dell'attrazione e della
riproduzione umana è una delle caratteristiche che ci
differenziano dalle altre specie.
Mi sembrò che Patch sbuffasse; era un suono talmente
lieve, però, che non potevo esserne certa.
- Fin dalla notte dei tempi, le donne sono state attirate
da compagni con spiccate caratteristiche legate alla
sopravvivenza, come l'intelligenza e la forza fisica,
perché uomini con queste qualità hanno più probabilità
di portare a casa la cena a fine giornata Il coach sollevò
il pollice e sogghignò. - Cena equivale a sopravvivenza,
squadra.
Nessuno rise.
- Allo stesso modo, - prosegui - gli uomini sono attratti
dalla bellezza perché è indice di salute e giovinezza e
non ha senso accoppiarsi con una donna malaticcia
incapace di crescere dei figli Si spinse gli occhiali sul
naso e ridacchiò.
- Ề una teoria cosi sessista! - protestò Vee. - Mi parli di
qualcosa che ritardi le donne del ventunesimo secolo.
- Se esamina la riproduzione dal punto di vista
scientifico, signorina Sky. vedrà che i figli sono la
chiave della sopravvivenza della nostra specie. E più
figli facciamo, maggiore sarà il nostro contributo al pool
genetico.
- A quanto pare siamo finalmente arrivati all'argomento
di oggi. Il sesso - disse la mia amica, sicuramente
alzando gli occhi al cielo.
- Non ancora - dichiarò il coach. - Prima del sesso viene
l'attrazione e dopo l'attrazione viene il linguaggio del
corpo. Bisogna comunicare a un potenziale compagno
«sono interessata» ma con meno parole.
Poi il suo dito indice puntò qualcosa vicino a me.
- Allora, Patch. Diciamo che sei a una festa, la stanza è
piena di ragazze. Bionde, castane, rosse e brune.
Alcune sono loquaci, altre sembrano timide. Hai trovato
una ragazza che corrisponde al tuo profilo: attraente,
intelligente e vulnerabile. Come le fai capire che sei
interessato a lei?
- Mi avvicino e le parlo.
- Bene. Ora viene la parte più difficile: come fai a
sapere se lei è interessata a te o vuole che te ne vada?
- La studio - rispose Patch. - Cerco di capire a che cosa
sta pensando e quali emozioni prova. Non verrà certo a
dirmelo, quindi devo fare attenzione. Si avvicina? Mi
fissa negli occhi e poi distoglie lo sguardo? Si morde le
labbra e gioca con i capelli come sta facendo Nora
adesso?
Nell'aula risuonò una risata collettiva. Le mani mi
ricaddero sulle ginocchia.
- È interessata - dichiarò Patch rifilandomi un altro
colpetto con il ginocchio. A quel punto, avvampai.
- Bene! Molto bene! - esclamò il coach, soddisfatto che
tutta la classe fosse così attenta.
I vasi sanguigni del viso di Nora si dilatano e la pelle si
riscalda - disse Patch. - Sa di essere sotto esame. Le
piace ricevere attenzioni, ma non sa come gestirle.
- Non sto arrossendo.
- È nervosa - continuò Patch. - Si accarezza il braccio
per allontanare l'attenzione dal viso e spostarla sul
corpo o sulla pelle perchè sono i suoi punti forti.
Mi sentii soffocare. «Sta scherzando» pensai. «No. è
pazzo.» Non ci sapevo fare con i matti, e si vedeva. Di
sicuro ero rimasta tutto il tempo a fissarlo a bocca
aperta. Se volevo illudermi di poter gestire il rapporto
con lui, dovevo cambiare approccio.
Aprii le mani sul banco, alzai il mento e assunsi l'aria di
una a cui e rimasto un briciolo di dignità. - Tutto questo
è ridicolo.
Patch stese il braccio e lo appoggiò allo schienale della
mia sedia. Avevo la strana sensazione che si trattasse
di un gesto alto stesso tempo allusivo c minaccioso,
rivolto esclusivamente a me, quasi non si rendesse
conto né gli importasse di come avrebbe reagito la
classe. E in effetti i nostri compagni risero, ma lui
sembrò non sentirli. Mi guardava negli occhi e io mi
convinsi che volesse ritagliare un piccolo mondo privato
solo nostro, impenetrabile per chiunque altro.
Sulle sue labbra lessi la parola "vulnerabile".
Usai le caviglie per agganciare le gambe della sedia e
mi spostai di scatto. Sentii il suo braccio cadere dalla
spalliera. Non ero vulnerabile.
- Ed ecco a voi - disse a un tratto il coach - la biologia in
azione!
- Adesso possiamo parlare di sesso per favore? chiese Vee.
- Domani. Intanto leggete il capitolo sette e preparatevi
perché discuteremo per prima cosa di quello.
La campanella suonò e Patch si alzò facendo strisciare
la sedia. - E stato divertente, dobbiamo rifarlo -. Prima
che riuscissi a dire qualcosa di meglio di «No, grazie»
lui era sparito fuori dalla porta.
- Voglio presentare una petizione per far licenziare il
coach - disse Vee avvicinandoti al mio banco. - Cos'era
la lezione di oggi? Pornografia annacquata?
Praticamente ha messo te e Patch su un tavolo da
laboratorio, nudi e in posizione orizzontale a
commettere il Fattaccio.
La fulminai con un'occhiata che diceva «Ti sembra che
abbia voglia di una replica?».
- Okay, okay - disse Vee facendo un passo indietro.
- Devo parlare con il coach. Ci vediamo davanti al tuo
armadietto tra dieci minuti.
Va bene.
Mi avviai alla cattedra. Il coach era curvo su un libro di
schemi di basket. A uno sguardo distratto, con tutte quelle
X e O, si poteva pensare che stesse giocando a tris.
- Ciao Nora - disse senza alzare lo sguardo. - Cosa posso
fare per te?
- Sono qui per informarla che la nuova disposizione dei
posti e questo tipo di lezione mi mettono a disagio.
Il coach si appoggiò alla sedia, le mani incrociale dietro la
resta. - Mi piace la disposizione dei posti. Quasi quanto mi
piace questo nuovo schema; lo utilizzerò nella partita di
sabato.
Tirai fuori una copia del codice di etici professionale e dei
diritti degli studenti e ce l'appoggiai sopra.
- Secondo il codice applicato in questa scuola, nessuno
studente dovrebbe sentirsi minacciato all'interno degli
edifici scolastici.
- Ti senti minacciata?
- Mi sento a disagio. E vorrei proporle una soluzione Visto
che non ero stata interrotta, presi un bel respiro e
continuai.
- Farò da tutor a qualsiasi studente di una qualsiasi delle
sue classi di scienze... se mi rimette vicino a Vee.
- Patch avrebbe bisogno di un tutor.
Strinsi i denti. - Così torniamo al punto di partenza.
- Hai visto come partecipava alla discussione oggi? Non
gli ho mai sentito dire una parola per tutto l'anno, poi lo
metto accanto a te e... tombola! I suoi voti miglioreranno
di sicuro.
- Quelli di Vee peggioreranno.
- Il che accade quando non si possono copiare le risposte
del compagno di banco - disse asciutto.
- Il problema di Vee e che non si applica. Le farò da tutor.
- Niente da fare -. Diede un'occhiata all'orologio e
aggiunse:
- Faccio tardi a una riunione. Abbiamo finito?
Cercai disperatamente di aggrapparmi a qualcosa, ma
avevo esaurito rutti gli argomenti.
- Lasciamo passare qualche altra settimana. Oh, e
guarda che dicevo sul seno riguardo a Patch. Vorrei
che fossi il suo tutor. Ci conto Non aspettò la risposta.
Fischiettando il ritornello di Jeopardy, uscì.
Infreddolita, tirai su la lampo del giaccone sotto un cielo
di un cupo blu inchiostro. Erano le sette di sera e
insieme a Vee ero diretta al parcheggio del cinema
dove avevamo visto Il Sacrificio. Recensire film per l'ezine era compito mio e, dal momento che avevo già
visto tutti i film in programmazione, avevamo dovuto
accontentarci di un horror.
- È il film più assurdo che abbia mai visto - brontolò lei.
- Diamoci una regola: non vedremo più niente che si
avvicini anche lontanamente a un horror.
Ah, per me andava benissimo. Vedere fino alla fine un
film su un molestatore, sapendo che qualcuno aveva
passato la notte scorsa appostato dietro la mia finestra,
mi aveva fatto diventare un po' paranoica.
- Ci pensi? - riprese Vee. - Passare tutta la vita senza
sapere che l'unica ragione della propria esistenza e
essere usata come sacrificio umano?
Rabbrividimmo.
- E quella storia dell'altare? - continuò. Io avrei più
volentieri parlato del ciclo di vita dei funghi piuttosto che
di quel film, ma la mia amica sembrava ignorarlo.
- Perché il cattivo arroventa la pietra prima di legarci
sopra la ragazza? Quando ho sentito la carne
sfrigolare...
- Okay! - la fermai, praticamente urlando. - Adesso
dove andiamo?
- Posso dire solo un'ultima cosa? Se mai qualcuno mi
baciasse in quel modo, mi verrebbero i conati di vomito.
La parola ripugnante non esprime fino in fondo quello che
faceva con la bocca. - Era solo trucco, vero? Nessuno ha
davvero una bocca come quella.
- Devo fare la recensione entro mezzanotte - la interruppi.
- Ah, già. Allora andiamo in biblioteca? -. Vee apri le
portiere della sua Dodge Neon del 1995. - Sei molto
antipatica, sai?
Scivolai sul sedile del passeggero. - Colpa del film -.
Colpa del guardone che c'era alla mia finestra la notte
prima.
- Non intendo solo stasera. Ho notato - disse, mentre le
sue labbra prendevano una piega maliziosa - che negli
ultimi due giorni, per l'esattezza dopo la lezione di
biologia, sei stata stranamente intrattabile per almeno
mezz'ora.
Facile anche questa. Colpa di Patch.
Vee sistemò lo specchietto retrovisore per potersi
guardare i denti. Ci passò sopra la lingua e rivolse a se
stessa un sorriso. - Devo ammetterlo, il suo lato oscuro mi
attira.
Non avrei mai voluto ammetterlo, ma Vee non era la sola.
Anch'io mi sentivo attratta da Patch come mai prima d'ora.
Tra noi esisteva un misterioso magnetismo. Vicino a lui mi
sentivo sull'orlo di un precipizio con l'impressione che, da
un momento all'altro, lui potesse spingermi giù.
- Sentirtelo dire mi fa... - mi fermai a riflettere su che cosa,
di preciso, la nostra comune attrazione verso Patch mi
ispirasse. Niente di piacevole.
- Non pensi che sia bellissimo? Dimmelo, - intervenne
Vee - e io ti prometto che non pronuncerò mai più il suo
nome.
Accesi la radio. Sicuramente c'era qualcosa di meglio da
fare che rovinarci la serata invitando Patch a uscire con
noi, anche solo in forma incorporea.
Stare seduta accanto a lui per un'ora tutti i giorni, cinque
giorni la settimana, era già molto più di quanto riuscissi a
reggere. Non avrebbe avuto anche le mie serate.
- Allora? - mi incalzò Vee.
- Sarà anche bello, ma io sarei l'ultima persona ad
accorgermene. Mi spiace, ma il mio giudizio è viziato.
- In che senso?
- Nel senso che non riesco a vedere oltre il suo carattere
e anche la bellezza più incredibile non riuscirebbe a
compensarlo.
- Non è solo una questione di bellezza. É... un tipo deciso.
Sexy.
Alzai gli occhi al ciclo.
Un'automobile ci tagliò la strada costringendo Vee a
inchiodare suonando il clacson. - Che c'è? Non sei
d'accordo oppure il tipo bello e dannato non è il tuo
genere?
- Non ho un tipo - risposi. - E non sto facendo la difficile.
Vee rise. - Tesoro, tu sei più che difficile: sci
incontentabile.
- Impossibile. L'elenco dei ragazzi della scuola di cui
potresti innamorarti è piccolo come uno dei microrganismi
del coach.
- Non è vero Replicai senza riflettere. Eppure, persino alle
mie orecchie quella frase suonava falsa. Stavo dicendo la
verità? Non avevo mai provato interesse per nessuno. Ero
strana?
- I ragazzi non c'entrano, c'entra... l'amore. Non mi sono
mai innamorata.
- Qui non si parla d'amore, - obiettò Vee - ma di divertimento.
Sollevai le sopracciglia, perplessa. - Baciare un tipo che
non conosco... di cui non m'importa... è divertente?
- Non sei stata attenta a biologia, eh? Non stiamo
parlando solo di baci.
- Oh - esclamai. - Il pool generico è già abbastanza
strambo senza il mio contributo.
- Vuoi sapere chi sarebbe davvero giusto?
- Giusto?
- Giusto - ripetè con un sorrisetto sfacciato.
Non ci tengo a saperlo.
- Il tuo partner.
- Partner ha una connotazione positiva - protestai.
- Quindi, Patch non è il mio partner.
Vee si infilò in un posteggio vicino all'entrata della
biblioteca spense il motore. - Hai mai immaginato di
baciarlo? L'hai mai guardato di nascosto sognando di
saltargli addosso e premere le tue labbra sulle sue? La
fissai, sperando di apparire adeguatamente inorridita.
- Perché, tu si?
La mia amica si limitò a sogghignare.
Cercai di immaginare la reazione di Patch. Nonostante
lo conoscessi così poco, potevo quasi toccare
l'avversione che provava nei confronti di Vee.
- Non è abbastanza per te - dissi entrando nella
biblioteca.
- Attenta, così non fai che spingermi verso di lui.
Scegliemmo un tavolo al pianterreno, vicino al settore
narrativa per adulti. Aprii il computer portatile e scrissi: Ii
sacrificio, due stelle e mezzo. Due e mezzo
probabilmente era un voto un po' asso, ma avevo un
sacco di cose per la testa e non mi sentivo
particolarmente imparziale.
Vee aprì una confezione di mele disidratate. - Ne vuoi
un po'?
- Grazie, non ho fame.
Sbirciò dentro il sacchetto. - Se non le mangi tu, dovrò
farlo io. E non ne ho proprio voglia.
Vee stava seguendo la dieta dei colori: tre frutti rossi al
giorno, due blu, una manciata di verdi...
Tirò fuori una fettina di mela e la esaminò attentamente.
- Colore? - chiesi.
- Granny Smith schifina verdina. Credo.
In quel momento Marcie Millar, l'unica studentessa del
secondo anno nella storia della Coldwater High a
essere diventata cheerleader in una squadra
universitaria, si sedette al nostro tavolo. I capelli biondo
tiziano erano raccolti in due codini bassi e la pelle del
viso era, come sempre, nascosta sotto mezza boccetta
di fondotinta. La prova? Non c'era una sola lentiggine in
vista e io non vedevo le lentiggini di Marcie dalla
seconda media, anno in cui aveva scoperto i prodotti
Mary Kay. Tra la fine della gonna e l'inizio della
biancheria intima, sempre che la indossasse, c'erano
al massimo due centimetri.
- Ciao Tagliaforte - disse a Vee.
- Ciao Mezzosgorbio - rispose lei.
- Mia madre sta cercando delle modelle per questo fine
settimana. La paga è nove dollari l'ora. Pensavo
potesse interessarti.
La madre dì Marcie gestisce un negozio di
abbigliamento. Durante il fine settimana paga la figlia e
il resto delle cheerleader per stare in vetrina in mutande
e reggiseno.
- Non riesce a trovare modelle per le taglie forti - disse
Marcie.
- Hai del cibo tra i denti - replicò Vee. - Proprio fra gli
incisivi. Sembra cioccolato... probabilmente del
lassativo che prendi continuamente.
Marcie si passò la lingua sui denti e schizzò via. Si
allontanò sculettando, mentre Vee si metteva due dita
in bocca e faceva finca di vomitare.
- Le è andata bene che siamo in biblioteca - ringhiò
Vee. - Deve sperare di non incrociarmi in un vicolo buio.
È la tua ultima possibilità: ne vuoi?
- No, grazie.
Vee andò a buttare via le mele. Qualche minuto dopo
tornò con un romanzo rosa; si sedette accanto a me e,
mostrandomi la copertina, disse: - Un giorno queste qui
saremo noi. Avvinghiate a cow-boy mezzi svestiti.
Chissà cosa si prova a baciare labbra cotte dal sole e
incrostate di fango.
- Mmm... fantastico - mormorai, continuando a scrivere.
- A proposito di fantastico - esclamò con un tono
inaspettamente alto. - C'è il tuo tipo.
Smisi di scrivere, sbirciai da sopra il computer e il cuore
perse un battito. Patch era dall'altra parte della stanza,
in fila per restituire un libro. Come se avesse avvertito il
mio sguardo, si voltò.
Ci fissammo per uno, due, tre secondi. Distolsi lo
sguardo per prima, ma non senza avere ricevuto un
sorriso.
Il cuore continuava a fare i capricci, per quanto mi
imponessi di riprenderne il controllo. Non avrei lasciato
che accadesse, non con Patch, non finché fossi stata
nel pieno possesso delle mie facoltà mentali.
- Andiamo - dissi a Vee. Chiusi il portatile e lo infilai
nella custodia. Cercai di ficcare i libri nello zaino, ma
alcuni caddero a terra.
- Sto cercando di leggere il titolo del libro che ha in
mano... - stava dicendo Vee. - Aspetta... "Il manuale del
molestatore".
- Figurati se sta restituendo davvero un libro con quel
titolo! - esclamai, ma non ne ero affatto sicura.
- Mah, quello oppure "Come sprizzare sensualità senza
neanche volerlo".
- Shh! - sibilai.
- Calmati, non può sentirci. Sta parlando con la
bibliotecaria -. Controllai che fosse vero, solo per
rendermi conto che, se fossimo andate via in quel
momento,
probabilmente
l'avremmo
incontrato
all'uscita. E allora avrei dovuto dirgli qualcosa. Mi rimisi
a sedere e cominciai a rovistare nelle tasche
aspettando che Patch se ne andasse.
- Non ti fa venire i brividi? Lui è qui proprio nello stesso
momento in cui ci siamo noi - disse Vee.
- A te si?
- Credo che ti segua.
- Ề una coincidenza -. Be', non era proprio cosi. Se
avessi dovuto compilare una lista con i posti in cui mi
sarei aspettata di trovare Patch di sera, la biblioteca
pubblica non sarebbe stata tra i primi dieci. Neanche tra
i primi cento. Che cosa ci faceva lì?
Dopo l'esperienza dello sconosciuto alla finestra, quella
domanda assumeva un tono davvero inquietante. Non
l'avevo raccontato a Vee perchè speravo che il ricordo
si sarebbe rimpicciolito fino a sparire, come se non
fosse mai accaduto. Punto.
- Patch! -. Vee si era voltata verso di lui e sussurrava: Vuoi molestare Nora?
Le tappai la bocca con la mano. - Smettila. Dico
davvero - le intimai.
- Scommetto che ti sta seguendo - insistette lei dopo
essersi liberata dalla mia mano. - Scommetto che l'ha
già fatto in passato e che ha un'ingiunzione restrittiva. Dovremmo intrufolarci in segreteria, sicuramente e tutto
scritto nel suo fascicolo.
- Non ci intrufoleremo da nessuna parte.
- Potrei creare un diversivo. Sono brava con i diversivi.
Nessuno ti vedrebbe entrare, agiremmo da perfette
spie.
- Noi non siamo spie.
- Conosci il suo cognome? - chiese Vee. -No.
- Cosa sai di lui?
- Niente. E non voglio sapere niente.
- Oh, ma dai. Tu adori i misteri e credi che ce ne sia
uno migliore di questo?
- I misteri migliori richiedono un cadavere e noi non
abbiamo un cadavere.
- Non ancora! - strillò Vee.
Presi due pastiglie di ferro dalla boccetta che avevo
nello zaino e le ingoiai in un colpo solo.
L'auto di Vee entrò sobbalzando nel vialetto di casa sua
subito dopo le nove e trenta. Lei spense il motore, tolse
le chiavi e me le consegnò.
- Non mi accompagni a casa? - chiesi. Fiato sprecato,
tanto conoscevo già la risposta.
- C'è nebbia.
- Nebbia a banchi. Come quelli che mi rovinano la vita.
Vee sorrise. - Accidenti, ce l'hai sempre in mente! Ti
capisco, intendiamoci. Per quanto mi riguarda, spero di
sognarlo stanotte.
Che schifo.
- La nebbia è sempre più fitta a casa tua - prosegui
Vee. - E con il buio mi manda fuori di testa.
Afferrai le chiavi. - Tante grazie.
- Guarda che non è colpa mia. Di' a tua madre di
trasferirsi. Raccontale di questo nuovo club chiamato
civiltà al quale dovreste iscrivervi.
- Quindi suppongo di doverti passare a prendere per
andare a scuola?
- Sette e mezza andrebbe bene. Ti offro la colazione.
- E che sia buona.
- Sii gentile con la mia bimba -. Diede un colpetto
affettuoso al cruscotto della macchina. - Ma non troppo,
non deve pensare che qualcuno possa trattarla meglio
di me.
Durante il viaggio, lasciai i pensieri liberi di vagare in
zona Patch. Vee aveva ragione: c'era qualcosa di
incredibilmente seducente in lui e... qualcosa che
metteva i brividi. Più ci pensavo, più mi convincevo che
c'era qualcosa in lui di... guasto. Il fatto che gli piacesse
infastidirmi non significava nulla, però c'era differenza
fra darmi noia in classe e, presumibilmente, seguirmi in
biblioteca. In pochi si prenderebbero tanto disturbo
senza un'ottima ragione per farlo.
Ero a metà strada quando iniziò a piovere. Con un
occhio alla strada e l'altro ai comandi sul volante, cercai
di localizzare la leva dei tergicristalli.
Le luci dei lampioni tremolarono e mi domandai se non
fosse in arrivo un temporale. A causa della vicinanza
con l'oceano, il tempo cambia continuamente e un
acquazzone poteva trasformarsi all'improvviso in
un'alluvione. Accelerai.
Le luci vacillarono di nuovo. Avvertii un formicolio alla
nuca e mi si rizzarono i peli sulle braccia. Il mio sesto
senso era in stato di massima allerta. Mi chiesi se
qualcuno mi stesse seguendo, ma non c'erano fari nello
specchietto retrovisore. Niente automobili nemmeno
davanti. Ero sola. Non era un pensiero confortante, così
spinsi sul pedale dell'acceleratore.
Finalmente trovai i tergicristalli, ma nemmeno alla
massima velocità riuscivano ad avere la meglio sulla
pioggia.
A uno stop rallentai fino a fermarmi, controllai che la
strada tosse libera e mi immisi nell'incrocio.
Sentii l'impatto prima ancora di accorgermi della
sagoma nera che atterrava sul cofano. Urlai e pigiai il
freno. La sagoma colpi di schianto il parabrezza con un
boato di vetri in frantumi.
D'impulso sterzai a destra. La Neon slittò e girò su se
stessa attraversando l'incrocio. La sagoma rotolò
attraverso il cofano e cadde a terra.
Aggrappata al volante, le nocche bianche, trattenevo Il
respiro. Sollevai i piedi dai pedali e l'automobile, con un
sobbalzo, si spense.
Acquattato a qualche metro da me, mi osservava. Non
sembrava affatto... ferito.
Era vestito di nero, tanto da fondersi con la notte, senza
lasciar intuire niente del suo aspetto. Non riuscivo a
distinguere i lineamenti del volto, poi mi resi conto che
indossava un passamontagna.
Si alzò in piedi, percorse la distanza che ci separava e
batté le mani sul finestrino. I nostri sguardi
s'incontrarono attraverso i fori del passamontagna. E,
per un istante, mi sembrò che nei suoi occhi balenasse
un sorriso pericoloso.
Diede un altra botta al vetro, che vibrò.
Misi in moto sforzandomi di sincronizzare i movimenti:
inserire la prima, schiacciare l'acceleratore e sollevare
lentamente il pedale della frizione. Il motore andò su di
giri, ma l'auto sobbalzò di nuovo e si spense.
Girai ancora la chiave nel quadro, ma venni distratta da
uno sgradevole cigolio metallico. Vidi con orrore che la
portiera si apriva. Stava cercando di... strapparla.
Ingranai la prima. Le scarpe scivolarono sui pedali. Il
motore ruggì, la lancetta del contagiri si impennò.
Un'esplosione di vetri accompagnò il suo pugno
attraverso il finestrino. La mano si mosse a tentoni sulla
mia spalla, mi afferrò il braccio. Urlai, schiacciai il
pedale dell'acceleratore e mollai la frizione. La Neon si
mosse, odore di gomma bruciata. Aggrappato al mio
braccio, lui corse accanto all'auto per diversi metri
prima di lasciare la presa.
Spinta dall'adrenalina mi allontanai a rutta velocità.
Controllai nello specchietto che non mi stesse
seguendo, le labbra serrate per non scoppiare a
piangere.
4
Sfrecciai lungo la Hawthorne fino a superare casa mìa,
quindi feci inversione, tagliai per la Beech e tornai
indietro verso il centro di Coldwater. Chiamai Vee.
- Ề successa una cosa... io... lui... non c'era... la Neon...
- Stai dando i numeri. Che c'è?
Mi asciugai il naso con il dorso della mano. Tremavo. È sbucato dal nulla. - Chi?
Cercai di raccogliere i pensieri e incanalarli in un flusso
di parole. - Mi è comparso davanti!
- Cavoli. Cavoli, cavoli, cavoli. Hai investito un cervo? Ti
sei fatta male? Bambi come sta? -. Poi emise un suono
a metà tra un ululato e un gemito. - La Neon?
Aprii la bocca, ma Vee mi interruppe.
- Non pensarci, sono assicurata. Dimmi solo che la mia
bimba non è tutta coperta di brandelli di cervo. Niente
brandelli di cervo, vero?
Qualsiasi risposta stessi per dare a Vee svanì. La
mente galoppava veloce. Un cervo. Forse avrei potuto
raccontare che avevo investito un cervo. Volevo
confidarmi con Vee, ma allo stesso tempo non volevo
passare per pazza. Come spiegarle di aver visto il tipo
che avevo appena investito alzarsi in piedi e iniziate a
strappare la portiera dell'auto? Abbassai il colletto fino
alla spalla e controllai:
non si vedevano segni rossi nel punto in cui mi aveva
afferrato.
Tornai in me con un sussulto. Davvero stavo prendendo
in considerazione l'idea di negare l'accaduto? Io ero
sicura di quello che avevo visto, non l'avevo immaginato.
- Oh, cavolo - disse Vee. - Non hai risposto. È incastrato
tra i fanali, vero? Te ne vai in giro con un cervo incastrato
nel cofano a mo' di spazzaneve.
- Posso dormire da te? Volevo solo togliermi dalla strada,
dal buio. Improvvisamente, mi resi conto che per arrivare
da Vee dovevo ripassare da quell'incrocio, e mi mancò
l'aria.
- Vieni pure, ti aspetto - disse Vee. - Sono in camera mia.
Con le mani salde sul volante, avanzai nella pioggia
pregando di trovare verde all'incrocio con la Hawthorne.
Fui esaudita e passai a tavoletta, lo sguardo fisso davanti
a me, se si escludono le continue occhiate ai lati della
strada. Del tizio con il passa-montagna nessuna traccia.
Dieci minuti dopo parcheggiavo davanti a casa di Vee. Il
danno alla portiera era notevole, tanto che per uscire
dovetti prenderla a calci. Poi corsi fino alla porta
d'ingresso, mi rifugiai dentro e scesi in fretta le scale che
portavano al seminterrato.
Vee era seduta sul letto a gambe incrociate, con il
portatile sulle ginocchia e gli auricolari collegati all'iPod. Che faccio, vado a vederli subito i danni o è meglio
rimandare a dopo una buona notte di sonno? - gridò,
perché ascoltava musica a tutto volume.
- Forse e meglio rimandare.
Vee chiuse di scatto il portatile e si tolse gli auricolari. No, togliamoci il pensiero.
Una volta fuori casa, restai imbambolata a fissare la
Neon. La serata non era calda, ma nemmeno tanto fredda
da giustificare la pelle d'oca. Niente finestrino frantumato.
Niente portiera scardinata.
- C'è qualcosa che non va... - dissi, ma Vee non stava
ascoltando, troppo impegnata a esaminare ogni
centimetro della sua auto.
Feci qualche passo avanti e toccai il finestrino. Il vetro
era intatto. Chiusi gli occhi c, quando li riaprii, il
finestrino era ancora senza un graffio.
Feci il giro dell'auto. Avevo quasi terminato quando,
all'improvviso, mi fermai.
Il parabrezza era scheggiato proprio nel centro.
- Sei sicura che non fosse uno scoiattolo? - disse Vee.
Ripensai agli occhi dietro il passamontagna. Erano
talmente neri da non poter distinguere le pupille dalle
iridi. Neri come... quelli di Patch.
- Guardami, sto piangendo di gioia Sdraiata sul cofano,
le braccia aperte come ad abbracciarlo, strillava: - Solo
una minuscola incrinatura!
Sfoderai un bel sorriso, anche se avevo lo stomaco
sottosopra. Solo cinque minuti prima il finestrino era in
frantumi c la portiera divelta. In quel momento, invece,
sembrava impossibile. Anzi no, sembrava folle. Io però
avevo visto il pugno sfondare il finestrino, avevo sentito
le sue dita affondarmi nella spalla.
O no?
Più cercavo di rievocare l'Incidente, meno riuscivo a
ricordare. Frammenti di informazioni mancanti
ostacolavano il flusso della memoria. I dettagli
svanivano. Era alto o basso? Magro o robusto? Aveva
detto qualcosa?
Non riuscivo a ricordare. Era quella la cosa più
spaventosa.
La mattina seguente, Vee e io uscimmo di casa alle
sette e un quarto. A bordo della Neon praticamente
perfetta, raggiungemmo
il caffè di Enzo per una colazione a base di cappuccino.
Le mani strette intorno alla tazza bollente, cercavo di
sciogliere il gelo che sentivo dentro. Sapevo di aver
fatto la doccia, di aver indossato un top e un cardigan
prestato da Vee e di essermi anche truccata un po', ma
mi ricordavo a malapena di averlo fatto.
- Non voltarti - disse Vee - ma Maglione Verde continua
a guardare da questa parte e sembra apprezzare le
gambe che nascondi dentro i jeans... Oh! Mi ha appena
salutata. Non sto scherzando. Un breve saluto militare,
con due dita. Che carino!
Non stavo ascoltando. Per tutta la notte, avevo rivisto
nella testa l'incidente della sera prima, mandando in
fumo ogni tentativo di dormire. Avevo le idee confuse,
gli occhi secchi, le palpebre pesanti e non riuscivo a
concentrarmi.
- Il tipo con i capelli corti sembra un tipo normale,
mentre il suo amico ha l'aria dell'incorreggibile cattivo
ragazzo - continuò Vee. - Sembra voler dire: "Statemi
alla larga". Dimmi che non somiglia al figlio di Dracula.
Dimmi
che
mi
sto
facendo
prendere
dall'immaginazione.
Alzai gli occhi quel tanto che bastava per guardare il
tizio senza che se ne accorgesse. Viso bello e delicato.
Capelli biondi che gli ricadevano sulle spalle. Occhi
color cromo. Non era sbarbato e indossava una giacca
impeccabile sopra il maglione e un paio di jeans scuri
firmati.
Dissi:
Ti
stai
facendo
prendere
dall'immaginazione.
- Ma non hai visto gli occhi infossati, l'attaccatura dei
capelli a punta, il fisico alto e allampanato? Potrebbe
addirittura essere abbastanza alto per me.
Vee e alta quasi un metro e ottanta, ma ha la fissa dei
tacchi alti. E ha anche la fissa di non voler uscire con
ragazzi più bassi di lei.
- Okay, cosa c'è che non va? - chiese Vee. - Hai chiuso
le comunicazioni. Non è per il parabrezza scheggiato,
giusto? È perché hai investito un animale? Ma può
capitare a tutti. Certo, se tua madre traslocasse dalla
landa desolata, le possibilità si ridurrebbero di molto.
Avrei raccontato a Vee quello che era davvero
successo. Presto. Avevo solo bisogno di riordinare i
dettagli. Il problema era che non riuscivo a capire come.
I miei ricordi erano sfuocati, come se una gomma
avesse cancellato la mia memoria lasciando un vuoto.
Ripensandoci, ricordavo solo la pioggia che veniva giù
a cascata sui finestrini, rendendo tutto confuso. Avevo
davvero investito un cervo?
- Mmm, vediamo un po' - disse Vee. - Maglione Verde
si sta alzando. Quello si che è un corpo che conosce
bene la palestra. E sta decisamente venendo verso di
noi, con gli occhi puntati sulla preda: tu.
In un batter d'occhio fummo raggiunti da una voce
profonda e cortese: - Ciao.
Vee e io alzammo lo sguardo nello stesso momento.
Maglione Verde era proprio dietro il nostro tavolo, i
pollici nelle tasche dei jeans. Aveva gli occhi azzurri. I
capelli corti, biondi erano spettinati ad arte.
- Ciao a te - disse la mia amica. - Io sono Vee e lei è
Nora Grey.
Le rivolsi un'occhiataccia. Non avevo gradito il fatto che
avesse aggiunto il mio cognome: sentivo che aveva
violato un tacito contratto tra amiche, per non dire tra
migliori amiche, riguardo alla conoscenza di ragazzi
nuovi. Feci un tiepido cenno di saluto e portai la tazza
alle labbra, scottandomi la lingua.
Lui trascinò una sedia dal tavolo accanto e si sedette a
cavalcioni, le braccia appoggiate alla spalliera. Poi mi
porse la mano c disse: - Sono Elliot Saunders La strinsi
sentendomi un po' troppo formale. - Lui è Jules aggiunse, indicando con il mento il suo amico. La
definizione di Vee era notevolmente sottostimata.
Dall'alto della sua più che considerevole statura, il
ragazzo prese posto accanto a lei, facendo sembrare
minuscola la sedia.
- Credo che potresti essere il ragazzo più alto che abbia
mai visto - stava dicendo Vee.
- Sono un metro e ottantacinque.
Elliot si schiari la voce. - Le signore gradiscono
qualcosa da mangiare?
- Io sono a posto - dissi, mostrando la tazza. - Ho già
ordinato.
Vee mi diede un calcio sotto il tavolo. - Lei prende una
ciambella con la crema. Facciamo due.
- Addio dieta? - chiesi alla mia amica.
- Guarda che il baccello di vaniglia è un frutto. Un frutto
marrone.
- È un legume.
- Sicura? No.
Jules chiuse gli occhi e si massaggiò con due dita la
base del naso. Sembrava entusiasta di sedere insieme
a noi quasi quanto lo ero io di stare con loro.
Elliot si alzò per andare al bancone e io lo seguii con lo
sguardo. Frequentava sicuramente la scuola superiore,
ma non l'avevo mai visto. Me lo sarei ricordato. Aveva
un carattere affascinante, estroverso, che non passava
inosservato. Se non fossi stata così sottosopra per
l'incidente, avrei potuto davvero provare interesse per
lui. Come amico... magari qualcosa di più.
- Vivi da queste parti? - chiese Vee a Jules.
- Mmm.
- A che scuola vai?
- Kinghorn Prep Lo disse con una punta di superiorità.
- Mai sentita.
- Scuola privata. Portland. Le lezioni iniziano alle nove.
Sollevò la manica c diede un'occhiata all'orologio.
Vee tuffò la punta del dito nella schiuma del latte e poi
lo leccò via. - É costosa?
Jules la guardò in faccia per la prima volta e spalancò
gli occhi.
- Sei ricco? Scommetto di si - insistè Vee.
Jules guardò la mia amica come se lei gli avesse
appena schiacciato una mosca in fronte e spostò
indietro la sedia per allontanarsi da noi.
Nel frattempo, Elliot era tornato con una scatola che
conteneva sei ciambelle.
- Due con la crema per le signore - disse, spingendo la
scatola verso di me - e quattro con la glassa per me. Ho
pensato di fare il pieno adesso, perché non so com'è la
caffetteria della Coldwater High.
Per poco Vee non sputò tutto il latte. - Tu vai alla CHS?
Da oggi. Mi sono appena trasferito dalla Kinghorn Prep.
Nora e io andiamo alla CHS - disse Vee. - Spero ti
renderai conto della fortuna che hai avuto. Qualsiasi
cosa volessi sapere, tipo chi invitare alla Festa di
Primavera, chiedi pure. Nora e io non abbiamo ricevuto
nessun invito... finora.
Decisi che era arrivato il momento di lasciarsi. Jules era
visibilmente annoiato e infastidito, e stare in sua
compagnia non migliorava il mio stato d'animo, già
abbastanza inquieto.
Guardai in modo plateale l'orologio del cellulare e dissi:
- Siamo in ritardo, Vee. Dobbiamo studiare per il
compito in classe di biologia. Elliot e Jules, e srato un
piacere conoscervi.
- Ma biologia e venerdì - disse Vee.
Riuscii a nascondere l'imbarazzo e feci un bel sorriso. Giusto. Volevo dire che io ho il compito in classe
d'inglese. Sull'opera di... Geoffrey Chaucer -. Stavo
mentendo, lo sapevano tutti.
A una piccola parte di me dispiacque essere stata cosi
scortese, soprattutto perché Elliot non aveva fatto
niente per meritarselo. Io però non volevo restare un
minuto di più. Volevo andare avanti e lasciarmi alle
spalle la notte precedente. Forse l'amnesia non era un
male, dopotutto. Prima dimenticavo l'incidente, prima
sarei tornata alla mia vita di sempre.
- Auguri per il tuo primo giorno di scuola, magari ci
vediamo a pranzo - dissi a Elliot. Quindi afferrai Vee per
un braccio e la trascinai fuori.
Le lezioni erano quasi finite, restava solo l'ora di
biologia e, dopo una breve sosta all'armadietto per
prendere i libri che mi servivano e lasciare gli altri, mi
diressi in classe. Vee e io arrivammo prima di Patch,
così lei prese possesso della sua sedia vuota,
dopodiché frugò nello zaino e tirò fuori una confezione
di caramelle gommose.
- Un frutto rosso in arrivo - disse porgendomi il
pacchetto.
- Fammi indovinare... la cannella è un frutto?
- Non hai neanche pranzato - insistè Vee, accigliata.
- Non ho fame.
- Bugiarda, tu hai sempre fame. Ề per Patch? Non sei
davvero preoccupata che ti stia perseguitando, vero?
Guarda che in biblioteca scherzavo.
Mi massaggiai le tempie. Bastava sentire il suo nome, e il
dolore sordo annidato dietro gli occhi aumentava. - Patch
e l'ultimo dei miei pensieri - risposi, anche se non era del
tutto vero.
- Il mio posto, se non ti dispiace. Vee e io alzammo lo
sguardo.
Nonostante il tono piuttosto gentile. Patch non staccò gli
occhi dalla mia amica, mentre lei si alzava buttandosi lo
zaino in spalla. Evidentemente per lui non stava facendo
abbastanza in fretta, perché le indicò l'uscita con un
ampio gesto della mano.
Bella come sempre - mi disse mentre si sedeva. Si
appoggiò allo schienale e allungò le gambe davanti a sé.
Ovviamente sapevo che era alto, ma non mi ero mai
chiesta quanto tosse alto. Adesso, osservando quanto
fossero lunghe le sue gambe, pensai che potesse arrivare
al metro e ottantadue. forse anche ottantacinque.
- Grazie - risposi senza riflettere. Un istante dopo avrei
voluto mordermi la lingua. «Grazie»? Di tutte le cose che
avrei potuto dire, quella era la peggiore. Non volevo che
Patch pensasse che mi piacessero i suoi complimenti.
Perché non era cosi... quasi mai, almeno. Non ci voleva
un grande intuito per capire che Patch significava guai, e
io ne avevo già fin troppi. Forse, se l'avessi ignorato, alla
fine mi avrebbe ignorato anche lui e saremmo rimasti
seduti in silenzio come il resto della classe.
- E hai anche un buon profumo - aggiunse.
- Si chiama doccia Avevo lo sguardo fisso davanti a me.
Vedendo che non replicava, mi voltai e dissi: - Sapone.
Shampoo. Acqua calda.
- Nudi. Conosco la procedura.
Aprii bocca per cambiare discorso, ma venni messa a
tacere dalla campanella.
- Via i libri - disse il coach da dietro la cattedra. - Ora vi
distribuirò un questionano di preparazione al compito in
classe di venerdì -. Si fermò davanti a me per distribuire
i fogli. - Voglio quindici minuti di silenzio mentre
rispondete alle domande. Poi parleremo del capitolo
sette. Buona fortuna.
Mi concentrai sulle prime domande, scrivendo
meccanicamente perché conoscevo le risposte a
memoria. Se non altro, il questionario mi teneva
occupata la testa e metteva in attesa l'incidente della
notte prima e la vocina che, nel subconscio, dubitava
della mia sanità mentale. Mi fermai un attimo per
muovere la mano alla quale era venuto un crampo,
quando sentii che Patch si piegava verso di me.
- Sembri stanca. Nottataccia? - sussurrò.
- Ti ho visto in biblioteca Tenevo la matita ben salda sul
foglio, come se davvero mi interessasse scrivere.
La parte migliore della serata.
Mi stavi seguendo?
Rovesciò la testa indietro e rise sommessamente.
Provai un altro approccio. - Cosa ci facevi li?
- Prendevo un libro.
Mi sentii addosso lo sguardo del coach, così mi rimisi al
lavoro. Dopo aver risposto a una seconda serie di
domande, diedi una rapida occhiata a sinistra. Con mia
grande sorpresa, vidi che Patch mi guardava. E mi
sorrideva.
Il cuore fece una capriola. Quel sorriso insolitamente
attraente mi aveva colto di sorpresa. Con mio grande
disappunto, mi cadde la matita dalle mani, rimbalzò sul
banco e cadde a terra. Patch si chinò a raccoglierla e
me la porse, tenendola sul palmo
della mano. La presi, facendo molta attenzione a non
sfiorargli la pelle.
- Dopo la biblioteca - bisbigliai - dove sei stato?
- Perché?
- Mi hai seguita?
- Sembri un po' nervosa, Nora. Cos'è successo? -.
Aggrottò le sopracciglia, ma io capii che quella
preoccupazione era tutta scena, perché nei suoi occhi
brillava un luccichio di scherno.
- Mi segui?
- Perché dovrei farlo?
- Rispondi alla domanda.
- Nora -. Il richiamo del coach tentò di riportarmi al
compito, ma io non potevo fare a meno di ipotizzare la
risposta di Patch. Eppure, una parte di me desiderava
solo allontanarsi da lui. Dall'altra parte dell'aula.
Dall'altra parte dell'universo.
Poi il coach fischiò. - Tempo scaduto, fare passare i
compiti. Per venerdì, aspettatevi delle domande simili.
Allora... - si sfregò le mani, e quel rumore secco mi
diede i brividi - passiamo alla lezione di oggi. Signorina
Sky, vuole cimentarsi lei con l'argomento del giorno?
- Sesso! - annunciò Vee.
Smisi di ascoltare. Patch mi stava seguendo? Era suo il
volto che si nascondeva dietro il passamontagna,
ammesso che davvero ci fosse un volto dietro a un
passamontagna? Che cosa voleva? In preda a un
freddo improvviso, mi strinsi le braccia attorno al corpo.
Volevo che la mia vita tornasse com'era prima che
Patch ci piombasse dentro.
Alla fine dell'ora, riuscii a fermarlo prima che uscisse.
- Possiamo parlare?
Era già in piedi, quindi si sedette sul bordo del banco.
- Che cosa c'è?
- So che non vuoi stare seduto accanto a me più di
quanto io non voglia stare seduta accanto a te. Forse,
se gli parli, il coach
potrebbe valutare la possibilità di cambiarci di posto.
Basta spiegargli il problema...
- Il problema?
- Che non siamo... compatibili.
Lui si accarezzò la mascella, un gesto calcolato al
quale mi ero abituata nonostante lo conoscessi da così
poco tempo.
- Davvero?
- Non mi sembra la scoperta del secolo.
- Quando il coach mi ha chiesto ciò che mi attira in una
partner, ho parlato di te.
- E tu rimangiati tutto.
- Intelligente. Attraente. Vulnerabile. Non sei d'accordo?
Il suo unico scopo era quello di infastidirmi, e saperlo
non faceva che irritarmi di più. - Hai intenzione di
chiedere al coach di cambiarci di posto o no?
- No. Cominci a piacermi.
Cos'avrei dovuto rispondere? Ovviamente stava
cercando di provocare una reazione da parte mia. Il che
non era difficile, visto che non riuscivo mai a capire
quando scherzava e quando era sincero.
Comunque cercai di rispondere con voce calma e
composta.
- Credo che ti troveresti molto meglio con qualcun altro.
E credo che tu lo sappia -. Sorrisi, tesa ma educata.
- Potrei rischiare di finire accanto a Vee -. Anche il suo
sorriso era educato. - E non ho intenzione di sfidare la
sorte.
Vee scelse proprio quel momento per comparire dietro
di noi. Il suo sguardo guizzava dall'uno all'altra. Interrompo qualcosa?
- No - risposi, tirando con forza la chiusura dello zaino.
- Stavo chiedendo a Patch dei compiti per domani. Non
mi ricordo quali pagine ha assegnato il coach.
- I compiti sono scritti sulla lavagna, come sempre disse Vee. - Difficile non vederli.
Patch rise come se stesse seguendo un proprio
pensiero, molto divertente. Ancora una volta, desiderai
poter sapere che cosa gli passasse per la testa, perché
ero sicura che avesse a che fare con me. - Devi dirmi
altro, Nora? - chiese.
- No - risposi. - Ci vediamo domani.
- Non vedo l'ora E mi fece l'occhiolino.
Appena Patch fu fuori portata d'orecchio, Vee mi prese
per un braccio. - Buone notizie. Cipriano. È il suo
cognome, l'ho letto sul registro.
- E il motivo per cui stai sorridendo e che...
- Lo sanno tutti che gli studenti sono obbligati a
registrare in infermeria i farmaci prescritti dal medico -.
Nel dirlo, toccò la tasca anteriore del mio zaino, dove
tenevo le pastiglie di ferro.
- Come tutti sanno che l'infermeria è vantaggiosamente
situata all'interno della segreteria, dove, guarda caso,
vengono archiviati i fascicoli degli studenti.
Con lo sguardo che brillava, Vee mi trascinò verso la
porta.
- È ora di mettere in pratica il metodo investigativo.
5
Posso aiutarti? Mi costrinsi a sorridere alla segretaria,
sperando dì non apparire disonesta quanto in realtà mi
sentivo. - Mi hanno prescrivo un farmaco da prendere
tutti i giorni e la mia amica...
La voce mi rimase impigliata in quella parola e mi chiesi
se, dopo quel giorno, avrei mal più avuto voglia di
chiamare di nuovo Vee "la mia amica".
-...La mia amica mi ha informato che sono tenuta a
registrarlo in infermeria. Sa dirmi se è vero?-.Non
potevo credere di essere lì per fare qualcosa di illegale.
Ultimamente mi ero comportata in modo molto strano.
Prima avevo raggiunto Patch in una losca sala giochi a
un'ora in cui di solito stavo già sotto le coperte, adesso
stavo per ficcare il naso nel suo fascicolo personale.
Cosa c'era che non andava in me? No, cosa c'era che
non andava in Patch, visto che. quando entrava in
scena lui, io diventavo incapace di prendere una
decisione sensata?
- Oh. sì - disse solennemente la segretaria. - Bisogna
registrare tutti i farmaci. L'infermeria e da quella parte,
terza porta a sinistra, dì fronte all'archivio studenti -.
Indicò il corridoio dietro di sé e aggiunse: - Se
l'infermiera non c'è, accomodati pure e aspetta;
dovrebbe tornare a momenti.
Le rifilai un altro sorriso. Avevo davvero sperato che
non cosi facile.
Mentre mi avviavo lungo il corridoio, mi fermai diverse
volte a guardarmi alle spalle. Nessuno. Sentii un telefono
squillare in segreteria, ma sembrava provenire da un
mondo a parte, lontano dal corridoio buio che stavo
attraversando. Ero sola, libera di fare quel che volevo.
Mi fermai davanti alla terza porta a sinistra. Feci un bel
respiro e bussai, anche se era ovvio che la starna fosse
vuota perché la luce era spenta. Spinsi la porta, che dopo
un attimo di resistenza si apri cigolando su una stanzetta
rivestita di piastrelle bianche e consumare. Rimasi un
istante sulla soglia, in fondo sperando di veder comparire
l'infermiera ed essere costretta a registrare le mie
medicine e andarmene. Gettai una rapida occhiata
dall'altra parte del corridoio, alla porta con la targhetta
archivio studenti. Anche quella stanza era al buio.
Concentrai la mia attenzione sul pensiero che mi
tormentava. Patch sosteneva di non essere andato a
scuola l’anno precedente. Io ero quasi sicura che stesse
mentendo ma, se non era cosi, Patch avrebbe avuto un
fascicolo? Ci sarebbe stato almeno l'indirizzo di casa,
riflettei. E il certificato delle vaccinazioni, e sicuramente i
voti dello scorso semestre. Una possibile sospensione di
colpo sembrava un prezzo troppo alto da pagare in
cambio di una sbirciatina all'elenco delle sue vaccinazioni.
Mi appoggiai al muro e controllai l'orologio. Vee mi aveva
ietto di aspettare il suo segnale e che sarebbe stato
impossibile non notarlo.
Grandioso.
Il Telefono della segreteria squillò di nuovo e la segretaria
ripose.
Mordicchiandomi il labbro, lanciai un'altra occhiata alla
porta dell'archivio, C'erano buone possibilità che fosse
chiusa a chiave.
Probabilmente i fascicoli degli studenti erano
considerati riservati. In quel caso, non aveva
importanza quale diversivo Vee si fosse inventata: se la
porta era chiusa a chiave, non sarei riuscita a entrare.
Spostai lo zaino sull'altra spalla. Passò un altro minuto
e presi in considerazione l'idea di andar via...
D'altro canto, però, se Vee avesse avuto ragione e
Patch mi stesse seguendo, o spiando? In fondo ero sua
tutor a biologia e frequentandolo avrei potuto correre
dei rischi. Dovevo proteggermi... giusto?
Se la porta fosse stata aperta e i fascicoli fossero stati
archiviati in ordine alfabetico, avrei trovato in fretta
quello di Patch. Aggiungendo un'altra manciata di
secondi per cercare eventuali segnali di pericolo, avrei
potuto entrare e uscire dalla stanza in meno di un
minuto. Come non esserci mai stata.
All'improvviso mi resi conto che la segreteria era
immersa in un silenzio insolito. E di colpo Vee svoltò
l'angolo e venne verso di me strisciando lungo la
parete, guardandosi furtiva alle spalle. Sembrava la
spia di un film in bianco e nero.
- Tutto sotto controllo - sussurrò.
- Cos'è successo alla segretaria?
- Ha dovuto lasciare l'ufficio per qualche minuto.
- Ha dovuto? Che cosa le hai fatto?
- Niente, per questa volta- Grazie al cielo.
- Ho annunciato un allarme bomba dal telefono qui
fuori- ammise Vee. - La segretaria ha chiamato la
polizia
ed
è
corsa
ad
avvisare il preside.
-Vee!
Lei batté un dito sul polso. - Il tempo passa. E noi non
vogliamo farci trovare qui dalla polizia, quando arriva.
Ma davvero?
Fissammo per un secondo la porta dell'archivio, poi
Vee disse:
- Spostati - e mi spinse da parte.
Si copri la mano con la manica del maglione, quindi
colpì il vetro della porta. Niente.
- Era solo una prova - disse. Indietreggiò per riprovarci,
ma io l'afferrai per un braccio.
- Forse è aperta -. Girai la maniglia e la porta si apri.
- Cosi però non è divertente - protestò Vee.
Punti di vista.
- Tu vai dentro, io sto di guardia - mi istruì Vee. - Se
tutto va come previsto, ci vediamo tra un'ora al
messicano all'angolo tra la Drake e la Beech -. Quindi si
acquattò di nuovo contro il muro e tornò indietro.
Prima che la coscienza potesse convincermi a non
farlo, entrai. chiusi la porta e mi ci appoggiai con la
schiena.
Feci un respiro profondo e corsi verso gli schedari.
Facendo scorrere il dito sui cassetti, trovai quello
contrassegnato dalle lettere car-cuv. Tirai forte e lo
schedario si apri con un rumore metallico. Le etichette
dei fascicoli erano scritte a mano, e mi chiesi se la
Coldwater High fosse l'ultima scuola del paese a non
usare il computer.
I miei occhi si fermarono sul nome Cipriano.
Estrassi il fascicolo e lo tenni in mano un attimo,
cercando di convincermi che non era poi cosi sbagliato.
C'erano informazioni riservate? Be', come compagna di
banco di Patch, avevo il diritto di conoscerle.
Fuori, il corridoio si riempi di voci.
Aprii la cartelletta con un movimento maldestro e
sussultai. Non aveva alcun senso.
Le voci si avvicinavano.
Ficcai il fascicolo in un posto a caso e spinsi il cassetto.
Poi mi voltai e mi paralizzai. Dall'altra parte del vetro, il
preside si fermò con un piede a mezz'aria e gli occhi fissi
su di me.
Di qualsiasi argomento stesse discutendo con gli altri,
verosimilmente dei grandi giocatori entrati a far parte del
corpo docente della scuola, si fermò. - Scusate un attimo gli sentii dire. Il gruppo continuò a correre verso l'uscita
senza di lui.
Apri la porta. - Gli studenti non sono autorizzati a entrare
qui.
- Mi scusi tanto, sto cercando L'infermeria. La segretaria
ha detto terza porta a destra, ma credo di aver contato
male... - dissi
con l'aria smarrita e le mani alzate. - Mi sono persa.
Prima che avesse il tempo di rispondere, aprii lo zaino. –
Devo registrare queste. Pastiglie di ferro, sono anemica spiegai.
Mi studiò per un momento, la fronte corrugata. Stava
soppesando le due possibilità: restare e occuparsi di me,
oppure occuparsi dell'allarme bomba. Mosse di scatto il
mento in direzione della porta. - Esci immediatamente
dall'edificio.
Tenne la porta spalancata, mentre io mi chinavo per
passare sorto il suo braccio. Ogni traccia di sorriso era
sparita dalla mia faccia.
Un'ora dopo m'infilavo nel ristorante messicano tra la
Drake e la Beech. Sul muro accanto a me erano appesi
un cactus di ceramica e un coyote imbalsamato. Un uomo
con un sombrero, che lo faceva apparire più largo che
alto, girava per il locale strimpellando la chitarra e riuscì a
farmi una serenata mentre la cameriera mi porgeva il
menu.
Aggrottai la fronte. Sulla copertina del menu lessi il nome
del ristorante. Borderline. Non avevo mai mangiato li
prima di allora, eppure mi suonava familiare.
Vee comparve dietro di me e si lasciò cadere nel posto
di fronte, mentre un cameriere la seguiva a ruota.
Quattro chimichangas, doppia razione di panna acida,
un contorno di nachos e uno di fagioli neri - gli disse
senza neanche consultare il menu.
- Un burrito - dissi io.
- Conti separati?
- Io non pago per lei - dicemmo io e Vee all'unisono.
- Quattro chimichangas. Non vedo l'ora di sentire
cos'hanno a che fare con la frutta - dissi quando il
cameriere si fu allontanato.
- Non cominciare. Sto morendo di fame, non mangio
dall'ora di pranzo -. Fece una brevissima pausa e
aggiunse: - Non devi contare le caramelle, perché io
non le considero. Vee è una bionda voluttuosa e nordica, incredibilmente
sexy in modo del tutto non banale. Ci sono stati
momenti in cui solo l'amicizia mi ha impedito di essere
gelosa. L'unica cosa mia che può competere con lei
sono le gambe, e forse il metabolismo. Sicuramente
non i capelli.
- È meglio che si sbrighi a portare le patatine - brontolò
Vee. - Mi verrà l'orticaria se non mangio qualcosa di
salato entro quarantacinque secondi.
- Nella salsa ci sono i pomodori - le feci notare. - Che
sono rossi. E l'avocado è un frutto, credo.
Si illuminò. - E poi ordineremo dei daiquiri analcolici.
Alla fragola.
Vee aveva ragione. Quella dieta era facile.
- Torno subito - disse, scivolando fuori dalla panca. - Ho
le mie cose. E dopo, voglio le notizie esclusive.
Mentre l'aspettavo, mi ritrovai a osservare un aiuto
cameriere.
Passava lo straccio su un tavolo a pochi metri da me e
c'era qualcosa di familiare nel modo in cui si muoveva, nel
modo in cui la camicia gli ricadeva sulla schiena ben
disegnata. Quasi sospettasse di essere osservato, si
raddrizzò e si voltò, fissandomi negli occhi. In quell'istante
capii che cosa c'era di familiare in lui.
Patch.
Non riuscivo a crederci. Mi sarei data una sberla sulla
fronte perché lui me l'aveva anche detto: lavorava al
Borderline.
Si asciugò le mani sul grembiule e sì avvicinò. Sembrava
divertito dal mio imbarazzo. Mi guardai intorno, cercando
una via di fuga, sapendo che potevo solo sprofondare li
dov'ero.
- Bene, bene - disse. - Cinque giorni la settimana non ti
bastano? Vuoi regalarmi anche una serata?
- Chiedo scusa per la sfortunata coincidenza.
Patch scivolò al posto di Vee e appoggiò le braccia
davanti a sé. Erano talmente lunghe da oltrepassare la
metà del tavolo. Prese il mio bicchiere e se lo rigirò tra le
mani.
- Quel posto è occupato - annunciai. Visto che non
rispondeva, mi ripresi il bicchiere e bevvi un sorso
d'acqua, inghiottendo per sbaglio un cubetto di ghiaccio
che andò giù con un bruciore spaventoso. - Non dovresti
lavorare
invece
di
familiarizzare
con
i clienti? - dissi mentre mi strozzavo.
Sorrise. - Che fai domenica sera?
Sbuffai. Ma non avevo intenzione di farlo. - Mi stai
chiedendo di uscire?
- Stai diventando sicura di te. Mi piace, angelo.
- Quello che ti piace non mi interessa. Non esco con te.
Non da soli -. Avrei voluto prendermi a calci per aver
provato un fremito alla sola idea di quel che avrebbe
potuto succedere in una serata con Patch, da sola. Anche
perche, molto probabilmente,
lui non voleva davvero un appuntamento. Molto
probabilmente mi stava punzecchiando per ragioni note
solo a lui. - Aspetta un secondo, mi hai appena
chiamata angelo?
- E se fosse?
- Non mi piace.
Sorrise. - Allora è deciso. Angelo.
Si sporse verso di me, avvicinò una mano al mio viso e
mi sfiorò l'angolo delle labbra con il pollice. Mi tirai
indietro. Troppo tardi, però.
Strofinò il pollice, su cui era rimasta una traccia di
lucidalabbra, sull'indice. - Staresti meglio senza.
Cercai di ricordare di cosa stessimo parlando, ma
soprattutto cercai di non mostrare quello che aveva
provocato il contatto con la sua mano. Gettai indietro i
capelli e ripresi il filo del discorso. - Comunque, non ho
il permesso di uscire se il giorno dopo c'è scuola.
- Peccato. C'è una festa sulla costa. Pensavo che
potessimo andarci -. Sembrava sincero.
Non riuscivo a capirlo. Per niente. La sensazione che
avevo provato qualche minuto prima fremeva ancora
nel mio corpo, così bevvi un lungo sorso di acqua
gelata, sperando di farla sbollire. Restare da sola con
Patch sarebbe stato intrigante, e pericoloso. Non avrei
saputo dire esattamente in che modo, ma mi fidavo del
mio istinto.
Simulai uno sbadiglio. - Be', come ho già detto lunedì
c'è scuola -. Nella speranza di convincere più me che
lui, aggiunsi: - Se questa festa ti interessa davvero,
posso garantirti che non ci sarò.
«Ecco» pensai. «Il caso è chiuso.»
E poi, senza che la frase transitasse per un secondo
nella mia mente, dissi: - E comunque, perché vuoi
uscire con me?
Fino a quell'istante, mi ero ripetuta fino allo sfinimento
che non mi importava cosa Patch pensasse di me. In
quell'istante, invece, capii che avevo mentito. Sarebbe
diventata la mia ossessione? Pazienza. Ero tanto
affascinata da Patch che sarei andata con lui ovunque.
- Voglio stare solo con te - rispose Patch. Ce n'era
abbastanza per tornare sulle difensive.
- Senti, Patch. Non voglio essere scortese, ma...
- Certo che lo vuoi.
- Hai iniziato tu! -. Fantastico. Una reazione molto
matura. - Non posso venire alla festa. Fine della storia.
- Perché non puoi o perché non vuoi restare sola con
me?
- Tutt'e due - mi lasciai sfuggire.
- Hai paura di tutti i ragazzi... o solo di me?
Alzai gli occhi al cielo, come a dire: «Non ho intenzione
di rispondere a una domanda cosi stupida»».
- Ti metto a disagio? -. Aveva un'espressione neutra,
che però nascondeva un sorrisetto.
Si, era esattamente quello l'effetto che mi faceva. Oltre
a eliminare ogni pensiero razionale dalla mia mente.
- Mi dispiace - dissi. - Di cosa stavamo parlando?
- Di te.
- Di me?
- Della tua vita.
Risi, indecisa su come proseguire la conversazione.
- Se stiamo parlando di me... e dell'altro sesso... Vee mi
ha già fatto un bel discorsetto. Non ho bisogno di
sentirlo due volte.
- E che cosa ti ha detto la vecchia e saggia Vee?
Non riuscivo a tenere ferme le mani, cosi le feci
scivolare sotto il tavolo. - Non riesco davvero a capire
perché sei tanto interessato...
Lui scosse leggermente il capo. - Interessato? Stiamo
parlando di te. Sono affascinato -. Sorrise, un sorriso
fantastico. Il cuore iniziò a galopparmi nel petto.
- Credo che dovresti tornare al lavoro - dissi.
- Per quel che vale, mi piace l'idea che non ci sia
nemmeno un ragazzo, in tutta la scuola, all'altezza delle
tue aspettative.
- Avevo dimenticato che, per quanto riguarda le mie
aspettative, tu sei un'autorità - lo punzecchiai.
Mi guardò in un modo che mi fece sentire trasparente. - Tu non sei diffidente, Nora, e neanche timida. Hai solo
bisogno di un'ottima ragione per scomodarti a
conoscere qualcuno.
- Non voglio più parlare di me.
- Tu credi di aver capito tutto di tutti.
- Non è vero - obiettai. - Per esempio, be', di te non so
molto...
- Non sei pronta per conoscermi.
Non era una frase detta con leggerezza. Il suo tono era
affilato come un rasoio.
- Ho guardato nel tuo fascicolo.
Le mie parole rimasero sospese in aria un momento
prima che gli occhi di Patch tornassero a fissare i miei. Sono abbastanza sicuro che sia illegale - disse.
- Era vuoto. Niente. Neanche un certificato medico.
Non fece nemmeno finta di sembrare sorpreso. Sì mise
comodo, gli occhi di ossidiana scintillante. - E me lo stai
dicendo perché hai paura che diffonda qualche
malattia? Tipo il morbillo o gli orecchioni?
- Te lo sto dicendo perché voglio che tu sappia che ho
capito che c'è qualcosa in te che non va. Non sci
riuscito a imbrogliare tutti. Scoprirò che cosa hai in
mente. Ti scoprirò, sul serio.
- Non vedo l'ora.
Arrossii, cogliendo troppo tardi il doppio senso. Alzai gli
occhi oltre la testa di Patch e vidi Vee che si avvicinava,
zigzagando tra i tavoli.
- Sta tornando Vee, devi andartene. Rimase seduto a
scrutarmi, assorto.
- Perché mi guardi in quel modo? - lo sfidai.
Si piegò in avanti, pronto ad alzarsi. - Perché non sei
affatto come credevo.
- Neanche tu - ribattei. - Tu sei molto peggio.
6
La mattina dopo, con mia grande sorpresa, vidi arrivare
Elliot per la prima ora di educazione fisica, proprio al
suono dell'ultima campanella. Indossava un paio di bermuda, una felpa della Nike e un paio di scarpe da
basket dall'aria nuova e costosa. Consegnò un foglietto
alla professoressa Sully e mi cercò con lo sguardo,
quindi mi fece un cenno con la mano e mi raggiunse
sulle gradinate.
- Mi chiedevo quando ci saremmo incontrati di nuovo disse. - La segreteria si è accorta che negli ultimi due
anni non ho frequentato educazione fisica: nelle scuole
private non è obbligatoria. Ora stanno cercando di
capire come farmi recuperare gli anni persi e
comprimere quattro anni d'insegnamento nei prossimi
due. Quindi, eccomi qua: educazione fisica alla prima e
alla quarta ora, tutti i giorni.
- Non mi hai ancora detto perche ri sei trasferito qui.
- Ho perso la borsa di studio e i miei non possono
permettersi la retta.
La professoressa Sully soffiò nel fischietto.
- Intuisco che il fischietto voglia dire qualcosa - mi disse
Elliot.
- Dieci giri di palestra, senza cagliare gli angoli -. Mi
alzai dalle gradinare. - Sei uno sportivo?
Elliot scattò in piedi e si mise a saltellare, tirando dei
pugni
all'aria. Terminò con un montante che si fermò a un
pelo dal mio mento. Ridendo, rispose: - Sportivo? Fino
al midollo.
- Allora apprezzerai l'idea di divertimento della prof.
Elliot e io corremmo i dieci giri insieme, poi uscimmo.
Una nebbia spettrale mi bloccò il respiro, facendomi
quasi soffocare. Dal ciclo scendevano gocce di pioggia,
provenienti
da
un
temporale
che
cercava
disperatamente di piombare sulla città di Coldwater.
Guardai speranzosa le porte della palestra, anche se
sapevo che era inutile: la professoressa Sully era un
osso duro.
- Ho bisogno di due capitani per la partita di softball gridò.
- Forza, movetevi, fatemi vedere qualche mano alzata!
É meglio che vi offriate volontari, altrimenti le squadre le
faccio io e sapete che non sempre agisco lealmente.
Elliot alzò la mano.
- Bene - gli disse lei. - Vieni qui, alla casa base. E che
ne pensate di... Marcie Millar come capitano della
squadra rossa?
Marcie fulminò Elliot con lo sguardo. - Fatti sotto.
- Elliot, a te la prima scelta - lo invitò la prof.
Con la mano poggiata sul mento, Elliot esaminò la
classe, come se stesse valutando le nostre capacità di
battitori e ricevitori al primo sguardo. - Nora - disse.
Marcie gettò indietro la testa e rise. - Grazie - sibilò a
Elliot. sfoderando un sorriso tossico che, per ragioni a
me imperscrutabili, incantava l'altro sesso.
- Per cosa?
- Per averci servito la partita su un piatto d'argento -.
Marcie puntò il dito verso di me. - Ci sono almeno un
centinaio di ottimi motivi che spiegano perché io sono
una cheerleader e Nora no. Innanzi tutto la
coordinazione.
Le lanciai uno sguardo di fuoco, poi andai a piazzarmi
accanto a Elliot sventolando una maglia blu.
- Nora e io siamo amici -. Elliot era calmo, quasi freddo.
Si trattava di un'affermazione esagerata, ma non avevo
intenzione di correggerlo. Marcie aveva l'aria di una a
cui avevano appena tirato una secchiata d'acqua
ghiacciata e la cosa mi piaceva da matti.
- Perché non hai conosciuto di meglio.Me, per esempioMarcie si rigirò una ciocca di capelli tra le dita poi
aggiunse:
- Marcie Millar. Saprai tutto dì me molto presto -. E poi,
a meno che non si trattasse di un tic nervoso, gli c'esce
l'occhiolino.
Elliot non mosse un muscolo e il mio indice di
gradimento nei suoi confronti sfrecciò verso l'alto.
Conoscevo ragazzi che per molto meno sarebbero
caduti in ginocchio supplicandola di rivolgergli la parola.
- Vogliamo rimanere qui tutta la mattina e aspettare che
arrivi la pioggia, oppure ci mettiamo al lavoro? - chiese
la professoressa Sully.
Una volta formate le squadre. Elliot ci condusse in
panchina e stabili l'ordine di battuta. Mi diede una
marza, mi calcò la maschera in testa e disse: - Tu sei la
prima, Grey. Ci serve una battuta valida.
Feci roteare la mazza, tanto per prendere confidenza, e
per un pelo non lo colpii. - Ma io ero in vena di un fuori
campo -replicai.
- Faremo anche quelli -. Mi accompagnò fino alla casa
base.
- Fai un passo verso la palla che arriva e colpisci.
Misi la mazza in equilibrio sulla spalla e pensai che
forse avrei dovuto fare più attenzione ai campionati.
Okay, forse avrei dovuto almeno guardarli. La
maschera mi scivolò sugli occhi e
cosi la tirai su, cercando di calcolare la grandezza del
diamante, confuso sotto spaventose volute di nebbia.
Marcie Millar prese posto sulla pedana del lanciatore.
Teneva la palla davanti a se, e notai che teneva il dito
medio alzato; guarda caso, nella mia direzione. Ci
delirio con un altro dei suoi sorrisi tossici e lanciò.
Presi la palla di striscio spedendola nella terra battuta,
dal lato sbagliato della linea di foul.
- Strike! - gridò la professoressa Sully dalla sua
postazione, tra la prima e la seconda base.
Elliot urlò dalla panchina: - Questa era a effetto, e
parecchio. Lanciagliene una pulita! -. Ci misi un attimo
per capire che stava parlando a Marcie e non a me.
La palla si staccò di nuovo dalla mano di Marcie,
tracciando un arco nel cielo cupo. La mancai
completamente.
- Secondo strike -. La voce di Anthony Amodio arrivò
attra verso la maschera da ricevitore.
Cercai di ucciderlo con lo sguardo.
Scesi dalla base e feci roteare ancora la mazza. Quasi
non mi accorsi che Elliot mi aveva raggiunta e stava
dietro di me. Mi mise le braccia intorno al corpo e
sistemò le mani sulla mazza, accanto alle mie.
- Guarda, ti faccio vedere - mi sussurrò all'orecchio. Cosi.
Rilassati. Ora ruota i fianchi... è tutta una questione di
fianchi.
Mi sentii avvampare sotto gli occhi dell'intera classe.
- Credo di aver capito, grazie.
- Ehi, andate a farlo da un'altra parte! - ci gridò Marcie.
Tutti i giocatori risero.
- Se tu facessi un lancio decente, - replicò Elliot - lei
colpirebbe la palla.
- Il mio lancio non ha niente che non va.
Neanche la sua battuta -. Elliot abbassò la voce e si
rivolse solo a me. - Smetti di guardarla appena lei
lancia la palla. I suoi tiri non sono puliti, quindi devi
concentrarti solo sulla palla.
- State tenendo fermo il gioco - gridò la professoressa.
Proprio in quell'istante, qualcosa nel parcheggio attirò la
mia attenzione. Mi sembrò di aver sentito chiamare il
mio nome. Mi voltai, anche se sapevo che il mio nome
non era stato pronunciato a voce alta, ma bisbigliato
nella mia mente.
«Nora.»
Patch indossava un cappellino da baseball blu sbiadito
ed era appoggiato alla recinzione. Niente giacca,
nonostante il tempo. Vestito di nero da capo a piedi. Mi
guardava
con
occhi
opachi
e
inaccessibili.
Nascondevano qualcosa, ne ero sicura.
Poi un'altra serie di parole si insinuò nella mia mente.
«Lezioni di softball? Ottima... presa.»
Feci un bel respiro per ritrovare la calma e mi convinsi
di averle solo immaginate. Perché l'alternativa era
prendere in considerazione il fatto che Patch potesse
insinuarsi nella mia mente. Il che era impossibile.
Assolutamente impossibile. A meno che non stessi
delirando, il che mi spaventava ancora più dell'idea che
Patch, dopo aver sovvertito le normali regole della
comunicazione, fosse in grado di parlare con me
quando gli pareva e senza nemmeno aprire bocca.
- Grey! Attenta al gioco!
Sbattei le palpebre, risvegliandomi di scatto appena in
tempo per vedere la palla che sfrecciava in aria verso di
me. Mi mossi, ma poi sentii nella testa altre due parole.
«Non... ancora.»
Mi fermai, aspettando che la palla si avvicinasse.
Disegnò una parabola in aria e, non appena iniziò a
scendere, mi mossi verso la base e mulinai le braccia
con tutta la forza che avevo.
Poi si senti un rumore fortissimo e la mazza vibrò nelle
mie mani. La palla filò verso Marcie che cadde sul
sedere, quindi s'infilò tra l'inrerbase e la seconda base
per rimbalzare nel campo esterno.
- Corri! - mi gridò la squadra dalla panchina. - Corri,
Nora!
Corsi.
Molla la mazza! - urlarono. La gettai da una parte.
- Fermati in prima base! Non lo feci.
Pestando un angolo della prima base, le girai intorno e
scattai verso la seconda. L'esterno sinistro aveva già
raccolto la palla ed era nella posinone giusta per
lanciare in seconda ed eliminarmi. Io abbassai la testa,
mi aiutai nella corsa muovendo energicamente le
braccia e cercai di ricordarmi come facevano i giocatori
professionisti che vedevo in Tv a toccare la base in
scivolata. Di testa? Di piedi? Con una capriola, magari?
La palla parti in direzione del difensore della seconda
base, filando come un razzo al margine del mio campo
visivo. Dalla panchina, un coro eccitato continuava a
urlare: - Scivola! - ma lo non avevo ancora deciso se
toccare la base con i piedi o con le mani.
Il difensore della seconda base intercettò la palla. Mi
tuffai a terra, a braccia tese. Dal nulla, mi trovai in
faccia il guantone, con il suo forte odore di pelle. Mi
accasciai al suolo, la bocca piena di polvere.
- È fuori! - gridò la professoressa.
Rotolai da una parte e feci l'inventario dei danni. Avevo
una strana sensazione di bruciore alle cosce, un misto
di caldo e freddo; mi tirai su i pantaloni della tura e mi
trovai davanti una scena che descrivere come il campo
di battaglia di due parti selvatici era un eufemismo.
Zoppicando, raggiunsi la panchina e mi accasciai.
- Forte - disse Elliot.
- L'acrobazia o la gamba distrutta? -. Piegai il ginocchio
contro il petto e, delicatamente, cercai di togliere quanto
più terriccio possibile.
Elliot si piegò di lato e mi soffiò sul ginocchio. Il grosso
della polvere volò via.
Seguì un momento di silenzio.
- Riesci a camminare? - chiese.
Mi alzai in piedi e gli feci vedere che, nonastante la
gamba fosse piena di graffi e terriccio, era a posto.
- Posso accompagnarti in infermeria, se vuoi- Per farti
disinfettare - disse.
- Sto bene, davvero -. Diedi un'occhiata alla recinzione,
nel punto in cui avevo visto Patch. Non c'era più.
- Era il tuo ragazzo quello che guardava dalla
recinzione? -chiese Elliot. Fui sorpresa che avesse
notato Patch, visto che gli dava le spalle. - No - risposi.
- È soltanto un amico, anzi, veramente neanche quello.
È il mio compagno di banco a biologia.
- Sei arrossita.
- Sarà stato il vento.
La voce di Patch mi risuonava ancora in testa. II cuore
prese a battermi più forte, ma, cosa ancora più strana,
mi si era gelato il sangue nelle vene. Patch aveva
parlato direttamente alla mia mente?
C'era un legame inspiegabile fra noi che permetteva
che ciò accadesse? Oppure stavo diventando pazza?
In ogni caso, non avevo convinto Elliot. - Sei sicura che
non ci sia niente tra di voi? Non voglio correre dietro a
una ragazza non disponibile.
- Niente -. Non permetterò che ci sia niente.
Un momento. Cos'aveva detto Elliot?
- Scusa? - dissi.
Lui sorrise. - Sabato sera riapre il Delphic Seaport e
Jules e io stavamo pensando di andarci. Il tempo non
dovrebbe essere brutto. Tu e Vee avete voglia di
venire?
Mi presi un attimo per riflettere sul suo invito. Ero
abbassa sicura che, se avessi rifiutato, Vee mi avrebbe
uccisa. Inoltre, uscire con Elliot poteva essere un buon
sistema per sfuggire alla sgradevole attrazione
esercitata da Patch.
- Sembra un bel programma - risposi.
7
Era sabato sera, Dorothea e io eravamo in cucina.
Dopo aver infilato una pirofila nel forno, stava
esaminando un elenco di cose da fare che mia madre
aveva lasciato attaccato al frigo.
- Ha chiamato tua madre. Non assicura di riuscire a
essere a casa prima di domenica sera - disse mentre
strofinava il lavello della cucina con un vigore tale da
farmi
venire
male
al
gomito
solo
a guardarla. - Ha lasciato un messaggio in segreteria.
Vuole sentirti. L'hai chiamata tutte le sere prima di
andare a dormire?
Ero seduta su uno sgabello e stavo mangiando un
panino imburrato. Avevo appena addentato un boccone
enorme e ora Dorothea mi guardava come se volesse
una risposta. Subito. - Mmm... mmm - mugugnai
facendo sì con la testa.
- Oggi è arrivata una lettera dalla scuola -. Indicò con il
mento la posta accatastata sul piano di lavoro. - Come
mai?
Mi strinsi nelle spalle con aria innocente e risposi: - Non
ne ho idea -. Invece ce l'avevo eccome.
Dodici mesi prima avevo aperto la porta di casa e mi
ero trovata di fronte la polizia. «Abbiamo cattive notizie»
avevano detto. Il funerale di mio padre era stato la
settimana dopo. Da allora, ogni lunedì pomeriggio, mi
ero presentata nello studio del dottor Hendrickson, lo
psicologo della scuola, all'orario stabilito. Avevo saltato
le ultime due sedute e, se non avessi fatto ammenda
entro quella settimana, sarei stata nei guai.
Probabilmente si trattava di una lettera di richiamo.
- Hai programmi per stasera? Tu e Vee avete in mente
qualcosa, magari di vedere un film qui a casa?
- Forse. Senti, Dorothea, posso pulirlo io il lavello. Più
tardi. Vieni a sederti con me e prendi meta panino.
Lo chignon grigio di Dorothea cominciava a subire le
conseguenze dello strofinamento, iniziando a franare. - Domani vado a una conferenza - disse. - A Portland.
Parlerà la dottoressa Melissa Sanchez; dice che
bisogna pensare a noi stesse come a delle noi stesse
sexy. Gli ormoni sono medicine formidabili. E se non gli
diciamo noi che cosa vogliamo, loro ci si ritorcono
contro -. Dorothea si voltò e mi puntò contro il flacone
del detergente. - Ora io mi sveglio la mattina, prendo il
rossetto e scrivo sullo specchio «Sono sexy. Gli uomini
mi vogliono. Sessantacinque sono i nuovi venticinque».
- E funziona? - chiesi, sforzandomi di non sorridere.
- Sta funzionando - rispose seria Dorothea.
Mi leccai il burro dalle dita. - Quindi passerai il fine
settimana a reinventare il tuo lato sexy.
- Tutte le donne hanno bisogno di reinventarsi il lato
sexy. Mi piace. Mia figlia è stata dal chirurgo plastico.
Dice che l'ha fatto per se stessa, ma quale donna si rifà
le tette per se stessa? Sono un tale peso! Se l'è rifatte
per un uomo. Spero che tu non faccia mai cose stupide
per un ragazzo, Nora - mi minacciò agitando il dito.
- Credimi, Dorth, non ci sono ragazzi nella mia vita -.
Okay, forse ce n'erano un paio appostati all'orizzonte,
che mi ronzavano attorno da lontano, ma visto che non
conoscevo bene nessuno dei due, e uno mi spaventava
a morte, mi sembrava più sicuro chiudere gli occhi e far
finta che non esistessero.
- Questa è una cosa buona e una cosa cattiva sentenziò Dorothea.
- Se trovi il ragazzo sbagliato, trovi guai. Se trovi il
ragazzo giusto trovi l'amore -. Poi si abbandonò ai ricordi
e la sua voce si addolcì.
- Quando ero giovane, in Germania, ho dovuto scegliere
tra due ragazzi. Uno era un ragazzo molto cattivo. L'altro
era il mio Henry e siamo felicemente sposati da quarantun
anni.
Era arrivato il momento di cambiare argomento. - Come
sta, mmm... il tuo figlioccio... Lionel?
Mi scrutò. - Ti interessa il piccolo Lionel?
- Noooo.
- Posso indagare...
- No, Dorothea, davvero. Grazie, ma in questo periodo
penso solo ai miei voti. Voglio andare in un ottimo college.
- Semmai in futuro...
- Te lo farò sapere.
Finii il panino con il chiacchierio monotono di Dorothea in
sottofondo, intervenendo con alcuni cenni del capo o degli
"a-ah" ogni volti che smetteva di parlare facendomi capire
di aspettarsi una risposta. In realtà, stavo riflettendo su
quanta voglia avessi davvero di incontrare Elliot quella
sera. All'inizio era sembrata un'idea grandiosa. Più ci
pensavo, però, più dubbi si insinuavano nella mia mente.
Innanzitutto, conoscevo Elliot solo da un paio di giorni.
Non sapevo come l'avrebbe presa mia madre. Si stava
tacendo tardi e Delphic era almeno a mezz'ora di strada.
E durante il fine settimana quel posto aveva fama di
essere un delirio. Squillò il telefono e sul display
comparve il numero di Vee.
- Facciamo qualcosa stasera? - chiese.
Aprii la bocca, soppesando bene la risposta. Una volta
detto a Vee dell'invito di Elliot, non si poteva più tornare
indietro.
Lei cacciò un urlo. - Oh cavoli! Oh cavoli, cavoli, cavoli!
Ho rovesciato lo smalto per le unghie sul divano. Aspetta,
vado a prendere un fazzoletto. Lo smalto e idrosolubile? -.
Tornò dopo pochi minuti. - Credo di aver rovinato il
divano. Dobbiamo uscire stasera, non voglio esserci
quando scopriranno la mia ultima opera d'arte
involontaria.
Nel frattempo, Dorothea si era spostata in bagno. Non
avevo proprio voglia di passare la serata ascoltando i suoi
brontolii sui rubinetti, così presi una decisione. - Che ne
pensi del Delphic Seaport? Elliot e Jules ci vanno e hanno
chiesto se li raggiungiamo.
- E me lo dici solo adesso? Queste sono informazioni
fondamentali! Vengo a prenderti tra quindici minuti -.
Dopodiché, silenzio.
Andai di sopra e indossai un pesante maglione di
cachemire bianco, un paio di jeans scuri e dei mocassini
blu. Mi sistemai i capelli intorno al viso usando le dita e...
voilà! Dei ricci abbastanza decenti. Feci un passo indietro
per controllare l'effetto nello specchio: una via di mezzo
tra il disinvolto e il quasi sexy.
Quindici minuti dopo, puntualissima, l'auto di Vee entrava
sobbalzando nel vialetto; un secondo dopo, la mia amica
si attaccò al clacson. Io impiegavo dieci minuti a
percorrere il tragitto tra le nostre case, e di solito facevo
attenzione al limite di velocità. Vee capiva la parola
velocità, mentre limite non faceva parte del suo
vocabolario. Il che spiegava come mai fosse già lì.
- Vado al Delphic Seaport con Vee - gridai in direzione del
bagno. - Se chiama mia madre, ti spiace riferirle il
messaggio?
Dorothea caracollò fuori dalla stanza. - Fino a Delphic?
Così tardi?
- Divertiti alla conferenza! - dissi, scappando via prima
che lei riuscisse a protestare o a telefonare a mia madre.
Vee aveva raccolto i capelli in una coda, dalla quale
sfuggivano dei grossi riccioli. Due cerchi dorati alle
orecchie. Rossetto color ciliegia. Mascara nero.
- Ma come fai? - le chiesi. - Hai avuto al massimo cinque
minuti per prepararti.
- Sempre pronta! - esclamò Vee con un gran sorriso.
- Sono il sogno di ogni boy scout -. Quindi mi squadrò da
capo a piedi.
- Che c'è? - dissi.
- Dobbiamo uscire con dei ragazzi, stasera.
- Per quanto ne so, si.
- Ai ragazzi piacciono le ragazze che sembrano...
ragazze.
Sollevai le sopracciglia. - Perché, io cosa sembro?
- Sembri una che è uscita dalla doccia convinta di aver
fatto tutto il necessario per apparire presentabile. Non
fraintendermi: i vestiti vanno bene e anche i capelli, ma il
resto... Tieni -. Infilò la mano nella borsa. -Ti presto il
rossetto, solo perché sei mia amica. E anche il mascara,
ma solo se mi giuri di non avere malattie contagiose agli
occhi.
- Non ho nessuna malattia agli occhi!
- Tanto per essere sicura.
- Comunque, no grazie.
Vee restò a bocca aperta, un po' per gioco e un po' sul
serio. - Non ti senti nuda senza?
- Be', proprio l'effetto che vorresti tu, no?
In tutta onestà, non ero sicura che uscire struccata fosse
un bene. E non perché mi sentissi nuda, ma perché era
stato Patch a mettermi quell'idea in testa.
Tentai di giustificarmi dicendo a me stessa che né la mia
dignità né il mio orgoglio erano a rischio.
Mi avevano dato un suggerimento e io, essendo di mente
aperta, avevo provato a seguirlo. Quel che non volevo
ammettere era che, per sperimentarlo, avevo scelto
apposta una sera in cui non avrei incontrato Patch.
Mezz'ora dopo, Vee superò i cancelli del Delphic Seaport.
Fummo costrette a lasciare l'auto in fondo al parcheggio,
perché c'era sempre un sacco di gente il primo fine
settimana di apertura. Incastonato proprio sulla costa,
Delphic non è famosa per il clima mite. Infatti, non appena
Vee e io ci incamminammo verso la cassa, prese a
soffiare un vento basso, che incollava le buste di popcorn
e le carte di caramelle alle caviglie. Gli alberi avevano
perso le foglie da tempo ormai, e i rami incombevano su
di noi come braccia disarticolate. Durante l'estate il
Delphic Seaport offriva un animato parco divertimenti,
feste in maschera. chiromanti, musicisti gitani e uno
spettacolo con fenomeni da baraccone. Non riuscivo mal
a capire se quelle stranezze umane fossero vere o trucchi
da illusionista.
- Un biglietto, per favore - dissi alla donna alla cassa. Lei
prese il denaro e fece scivolare un braccialetto sotto lo
sportello. Poi sorrise, mostrando dei denti da vampiro di
plastica imbrattati di rossetto.
- Buon divertimento - mormorò. - E non dimenticate di
provare il nostro otto volante completamente rimodernatoBatté sul lato della finestra, indicando una pila di cartine
del parco e un volantino pubblicitario.
Presi una copia di entrambi e mi avviai ai tondelli. Il volantino diceva:
PARCO DIVERTIMENTI DI DELPHIC!
ULTIMA ATTRAZI0NE
L'ARCANGELO RIMODERNATO E RINNOVATO!
PROVATE L'EBBREZZA DI
UN VOLO A 30 METRI D'ALTEZZA
Vee lesse il volantino e per poco non mi perforò il braccio
con le unghie. - Dobbiamo farlo assolutamente! - strillò.
- Per ultimo - dissi, sperando che, dopo aver facto il giro di
tutte le altre attrazioni, si sarebbe dimenticata di quella.
Da anni ormai non avevo più paura dell'altezza, forse
perche l'avevo sempre saggiamente evitata. Non ero
certa che fosse arrivato il momento di scoprire se il tempo
aveva guarito quella debolezza.
Dopo l'autoscontro, un giro sul Tappeto Volante e diverse
bancarelle di giochi vari, Vee e io decidemmo che era ora
di cercare Elliot e Jules.
- Mmm - disse Vee, guardando da una parte e dall'altra
del vialetto che girava intorno al parco. Restammo in
silenzio per un momento, quindi proposi: - La sala giochi.
Ottima idea.
Avevamo appena oltrepassato la soglia della sala giochi
quando lo vidi. Non Elliot, né Jules.
Patch.
Alzò lo sguardo dal videogame con cui stava giocando. Lo
stesso cappellino da baseball che indossava durante la
mia partita di softball gli schermava parte del viso, ma io
ero sicura di aver visto un sorriso.
Sembrava amichevole, ma poi mi ricordai di come era
entrato nei miei pensieri e mi si gelò il sangue.
Sperai che Vee non l'avesse visto. Così la guidai tra la
folla in modo che Patch restasse fuori dal suo campo
visivo. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era che si
impuntasse per andare da lui a fare conversazione.
- Eccoli là! - disse Vee agitando il braccio. - Jules! Elliot!
Siamo qui!
- Buonasera, signore - disse Elliot, facendosi largo tra la
folla. Jules lo seguiva, entusiasta come un bambino
trascinato dal dottore. - Posso offrirvi una Coca?'
- Grazie - disse Vee guardando Jules. - Per me una Diet.
Con la scusa di dover andare in bagno, Jules si eclisso.
Cinque minuti dopo, Elliot era tornato. Dopo averci offerto
le bibite, si fregò le mani e abbracciò la sala con lo
sguardo. - Da dove cominciamo?
- E Jules? - chiese Vee.
- Ci troverà.
- Carambole! - proposi immediatamente. Quel gioco si
trovava dall'altra parte della sala: più eravamo lontani da
Patch, meglio era. Continuavo a ripetermi che era li per
caso, ma il mio istinto non era d'accordo.
- Oh, guarda! - intervenne Vee. - Un tavolo da biliardino!
Jules e io contro voi due. Chi perde paga la pizza.
- D'accordo - disse Elliot.
Non avrei avuto nulla contro il biliardino, se solo il tavolo
non fosse stato a pochi passi dai videogame e da Patch.
Mi imposi di ignorarlo. Bastava dargli le spalle, e non mi
sarei nemmeno accorta che era lì. E magari nemmeno
Vee se ne sarebbe accorta.
- Ehi, Nora, ma quello non è Patch? - disse invece.
- Mmm? - feci con aria innocente. Allora lo indicò. - Là. È
lui, no?
- Ne dubito. Allora Elliot e io siamo i bianchi?
- Patch è il compagno di banco di Nora a biologia - spiegò
Vee a Elliot. Mi strizzò l'occhio, ma appena Elliot la
guardò sfoggiò un'espressione da perfetta innocentina.
Scossi il capo, piano ma in modo deciso, per trasmetterle
un messaggio silenzioso: «Smettila».
- Continua a guardare da questa parte - sussurrò invece
Vee.
Poi si piegò verso di me, che stavo dall'altra parte del
tavolo, facendo finta di volermi parlare in privato, ma
tenendo un tono di voce abbastanza alto da farsi sentire
da tutti, e disse: - Si starà chiedendo cosa ci fai qui con...
- e fece un breve cenno del capo in direzione di Elliot.
Chiusi gli occhi e immaginai me stessa mentre sbattevo la
testa contro il muro.
- Patch ha fatto capire molto chiaramente di voler essere
molto più di un compagno di classe per Nora - continuò
Vee. - E chi potrebbe dargli torto?
- Davvero? - disse Elliot, guardandomi come se la cosa
non lo sorprendesse affatto. Notai che veniva più vicino.
Vee mi scoccò un sorriso trionfale che significava
«Ringraziami dopo».
- Non e così - obiettai. - E...
- Molto peggio - insistette Vee. - Nora sospetta che la stia
molestando. È sul punto di avvertire la polizia.
- Vogliamo giocare? - dissi a voce alta e lanciai la pallina
al centro del tavolo. Nessuno ci fece caso.
- Vuoi che parli con lui? - mi chiese Elliot. - Gli spiego che
non siamo in cerca di guai, che sei qui con me e che se
ha qualche problema possiamo discuterne.
La direzione che stava prendendo la conversazione non
mi piaceva per niente. - Che cosa è successo a Jules? dissi. - È via da un po'.
- Già, sarà caduto nel gabinetto - brontolò Vee.
- Fammi parlare con Patch - insiste Elliot.
Anche se apprezzavo il fatto che si preoccupasse per me,
non mi piaceva l'idea che Elliot avesse una discussione
con Patch. Il mio compagno di banco era un'incognita:
indefinibile, inquietante e
oscuro. Chi poteva sapere di che cosa sarebbe stato
capace? Elliot era troppo gentile per essere mandato allo
sbaraglio in quel modo.
- Non mi fa paura - riprese, quasi avesse ascoltato i miei
pensieri.
Evidentemente su quel punto Elliot e io non eravamo d'accordo.
- Ề una pessima idea - obiettai.
- È un'ottima idea - si intromise Vee. - Patch potrebbe
diventare... violento. Ti ricordi l'ultima volta?
«L'ultima volta?» le dissi a fior di labbra.
Non avevo idea del perché Vee si stesse comportando
cosi. Forse era solo la sua abitudine a drammatizzare
tutto. Purtroppo, però, la sua idea di dramma coincideva
con la mia idea di umiliazione.
- Senza offesa, ma questo tizio mi sembra un verme.
Vado a parlargli, solo due minuti - decise Elliot, e andò.
- No! - esclamai, afferrandolo per la manica. - Lui... ehm...
potrebbe diventare di nuovo violento. Lascia che me la
sbrighi io -. Lanciai uno sguardo furioso a Vee.
- Sei sicura? - chiese Elliot. - Lo faccio senza problemi.
- Credo sia meglio che ci pensi io.
Mi asciugai i palmi delle mani sui jeans e, dopo aver fatto
un bel respiro per calmarmi, iniziai a colmare la distanza
tra me e Patch. Non avevo idea di cosa gli avrei detto una
volta li. Speravo di cavarmela con un rapido saluto, per
poi tornare indietro. Avrei rassicurato Elliot e Vee che la
situazione era sotto controllo.
Patch era vestito come sempre: camicia nera, jeans neri e
una sortile collana d'argento che risaltava sulla pelle
scura. Aveva le maniche arrotolate fino ai gomiti e ogni
volta che spingeva i pulsanti si vedevano i muscoli degli
avambracci al lavoro. Era
alto, magro e forte e non mi sarei sorpresa se sotto i
vestiti avesse delle cicatrici, ricordo di risse e di altre
imprudenze. Non che volessi guardare sotto i suoi
vestiti...
Arrivata alla postazione di Patch, battei la mano contro la
fiancata del videogioco per attirare la sua attenzione. Con
il tono di voce più calmo possibile, dissi: - Pac-Man? O
Donkey Kong? -. In effetti no, sembrava un gioco militare
e violento.
Il suo volto fu illuminato da un sorriso. - Baseball. Che ne
dici di metterti dietro di me e darmi delle dritte?
Sullo schermo esplosero una serie di bombe incendiarie e
dei corpi urlanti volarono per aria. Non era baseball.
- Come si chiama? - chiese Patch, muovendo
impercettibilmente la testa verso il biliardino.
- Elliot. Senti, devo fare in fretta, mi stanno aspettando.
- L'ho già visto prima?
- È nuovo, si è appena trasferito.
- È a scuola solo da una settimana e ha già fatto
amicizia? Che ragazzo fortunato -. Mi guardò di sottecchi.
- Potrebbe avere un lato oscuro e pericoloso di cui non
sappiamo niente.
- Sembra la mia specialità.
Aspettai che cogliesse l'allusione, invece disse soltanto: Giochiamo? -. Indicò con il mento il fondo della sala.
Attraverso la folla, riuscii a scorgere dei tavoli da biliardo.
- Nora! - gridò Vee. - Vieni qua. Elliot mi sta massacrando!
- Non posso - dissi a Patch.
- Se vinco, - continuò Patch, come se non avesse alcuna
intenzione di accettare un rifiuto - dici a Elliot che ci sono
stati dei cambiamenti e che per stasera non sei più libera.
Non riuscii a tacere: era davvero troppo arrogante! - E se
vincessi io?
Il suo sguardo mi sfiorò da capo a piedi. - Non credo che
dovremmo preoccuparci di questo.
Prima che riuscissi a fermarmi, gli diedi un pugno sul
braccio.
- Attenta - sussurrò. - Potrebbero pensare che stiamo
flirtando.
Avevo voglia di prendermi a calci, perché era esattamente
quello che stavamo tacendo. Però non era colpa mia.
Quando mi trovavo vicino a lui, i miei desideri diventavano
contrastanti. Una parte di me voleva scappare via urlando
«Al fuoco!», mentre una parte più coraggiosa era tentata
di vedere fin dove poteva avvicinarsi senza bruciarsi.
- Una partita di biliardo - mi tentò.
- Sono qui con altre persone.
- Tu vai al biliardo, a loro ci penso io.
Incrociai le braccia, sperando di apparire dura e un po'
esaspererata, sapendo che non mi sentivo così, neanche
un po'. - Che intenzioni hai? Vuoi fare a botte con Elliot.7
- Se è necessario...
Ero quasi sicura che stesse scherzando. Quasi.
- Hanno appena liberato un tavolo. Corri -. «Ti... sfido.»
Mi irrigidii. - Come fai7
Patch non si affrettò a negare e io sentii una fitta di
panico. Allora era vero. Sapeva esattamente quello che
stava facendo. Avevo le mani sudate.
- Come fai?
Mi rivolte un sorriso complice. - Fare cosa?
- Non provarci - lo avvisai. - Non fare finta di non aver
capito.
Appoggiò una spalla al videogioco e mi fissò. - Allora
spiegami che cosa starei facendo.
- I miei... pensieri.
- Che cos'hanno che non va?
- Piantala, Patch.
Sì guardò intorno. - Non vorrai insinuare... parlarti nella
mente? Sarebbe una follia, te ne rendi conto?
Deglutii. Poi dissi, con il tono di voce più calmo che riuscii
a trovare: - Tu mi spaventi e non credo mi taccia bene
stare con te.
- Potrei farti cambiare idea.
- Nooooora! - urlò Vee sopra il frastuono di voci e suoni.
- Vediamoci all'Arcangelo - disse Patch. Feci un passo
indietro. - No - risposi.
Patch mi girò Intorno e si piazzò dietro di me, mentre un
brivido mi correva lungo la schiena. - Ti aspetto - mi
sussurrò all'orecchio. E scivolò fuori dalla sala giochi.
8
Tornai indietro completamente frastornata. Elliot era chino
sul tavolo da gioco, concentrato. Vee strillava e rideva. Di
Jules neanche l'ombra. Vee alzò gli occhi dalla partita.
- Be', cos'è successo? Che ti ha a detto?
- Niente.Gli ho chiesto di lasciarci in pace e se n'è andatorisposi con voce inespressiva.
- Non sembrava arrabbiato quando se ne è andato commentò Elliot. - Qualsiasi cosa tu gli abbia detto, ha
funzionato.
- Peccato - disse Vee. - Speravo in qualche emozione
forte.
- Siamo pronti per giocare? - esclamò Elliot. - Ho fame di
pizza conquistata a caro prezzo.
- Sì, se Jules si degna di tornare - disse Vee. - Forse non
gli piacciamo. Continua a sparire, mi sembra un chiaro
segnale non verbale.
- Stai scherzando? Jules vi adora - replicò Elliot con
troppo entusiasmo. - Fa solo un po' fatica a scaldarsi con
chi non conosce. Vado a cercarlo, non muovetevi.
Appena restammo sole, mi rivolsi a Vee. - Lo sai che sto
per ucciderti, vero?
Lei alzò le mani. - Ti stavo facendo un favore. Elliot è
pazzo di te. Dopo che te ne sei andata, gli ho detto che ci
sono almeno dieci ragazzi che ti chiamano ogni sera.
Avresti dovuto vedere la sua faccia.
Mi sfuggi un gemito.
- È la legge della domanda e dell'offerta - continuò Vee.
- Ehi, chi l'avrebbe mai detto che economia ci sarebbe
tornata utile?
Guardai verso l'ingresso della sala giochi. - Ho bisogno di
qualcosa.
- Hai bisogno di Elliot.
- No, di zucchero. Parecchio. Zucchero filato -. Quello di
cui avevo bisogno era una gomma abbastanza grossa per
cancellare dalla mia vita tutte le prove dell'esistenza di
Patch. Soprattutto quelle riguardo alla telepatia.
Rabbrividii. Come faceva? E perchè proprio con me? A
meno che... non fosse tutto frutto della mia
immaginazione. Come l'incidente in macchina.
- Anch'io avrei bisogno di un po' di zucchero - disse Vee. - C'è un venditore all'ingresso. Io resto qui, così Jules ed
Elliot non pensano che siamo scappate, tu vai a prendere
qualcosa di dolce.
Trovai il venditore di zucchero filato, ma non comprai
niente perché qualcosa aveva catturato la mia attenzione.
Poco distante, l'Arcangelo si stagliava oltre le cime degli
alberi. Un serpente di piccoli vagoni sfrecciava sulle rotaie
illuminate, scendendo in picchiata fuori dal mio campo
visivo. Mi chiesi perché mai Patch volesse incontrarmi li.
E avvertii una fitta allo stomaco: avrei dovuto prenderla
come una risposta, invece, nonostante le mie migliori
intenzioni, mi trovai a superare il chiosco dei dolciumi,
diretta all'Arcangelo.
Mi mischiai alla folla, gli occhi fissi sulle rotaie che si
avvitavano nel cielo. Il vento era cambiato, da freddo era
diventato gelido, ma non era quella la ragione per cui mi
sentivo sempre più a disagio. Di nuovo quella sensazione.
La raggelante, terrificante sensazione di essere
osservata.
Guardai a destra, a sinistra: niente di anormale. Ruotai di
180
gradi. E lì, qualche metro indietro, vidi un piccolo spiazzo
alberato e una figura incappucciata che si voltò sparendo
nell'oscurità.
Con il cuore che batteva più veloce, superai un gruppo di
visitatori e mi allontanai. Mi guardai alle spalle. Nessuno
sembrava seguirmi.
Mi voltai, decisa a mettere molti metri fra me e quella
visione terrorizzante, e andai a sbattere contro qualcuno.
- Scusi - mormorai, cercando di non perdere l'equilibrio.
Patch mi sorrise - È difficile resistermi.
Lo guardai sorpresa. - Lasciami in pace -. Cercai di
scansarmi, ma lui mi prese per il gomito.
- Che succede? Sembri sul punto di vomitare.
- Sei tu che mi fai quest'effetto - dissi bruscamente. Risc.
Avevo voglia di dargli un calcio negli stinchi.
- Prendi qualcosa da bere -. Tenendomi per il braccio, mi
trascinò verso un chiosco che vendeva la limonata.
Puntai i piedi. - Vuoi davvero aiutarmi? Stammi lontano.
Lui mi spostò una ciocca di capelli dal viso. - Adoro i tuoi
capelli. Adoro quando sono fuori controllo, è come vedere
una parte di re che dovrebbe uscire allo scoperto più
spesso.
Mi ravviai i capelli furiosamente. Poi però mi resi conto
che davo l'idea di volermi rendere più presentabile per lui
e sbottai:
- Devo andare, Vee mi sta aspettando -. Quindi aggiunsi,
sfinita:
- Immagino che ci vedremo lunedi, in classe.
- Vieni sull'Arcangelo con me.
Guardai su. I vagoni sfrecciavano rimbombando. Dal
punto più alto delle rotaie gli strilli dei passeggeri
echeggiavano fino a noi.
I sedili sono da due -. Le sue labbra si sollevarono in un
sorriso provocante.
- No -. Neanche per sogno.
- Se continui a scappare, non scoprirai mai che cosa sta
succedendo davvero.
Quel commento avrebbe dovuto bastare per farmi
scappare. Ma non fu cosi. Sembrava che Patch sapesse
esattamente casa dire, e quando, per solleticare la mia
curiosità.
- Cosa sta succedendo? - chiesi.
- C'è un solo modo per scoprirlo.
- Non posso. Soffro di vertigini e Vee mi sta aspettando -.
Solo che, all'improvviso, il pensiero di raggiungere
quell'altezza, e il vuoto sorto di noi, non mi spaventava.
Non più. Sapere che sarei stata con Patch,
incredibilmente, mi faceva sentire al sicuro.
- Se riesci a fare un giro intero senza urlare, dirò al coach
che voglio tornare al mio vecchio posto.
- Ci ho già provato, non cambierà idea.
- Porrei essere più convincente di te.
La presi come una sfida. - Io non urlo - dichiarai. - Non al
luna park -. Non per te.
Tenendo il passo con Patch, andai a mettermi in coda per
l'Arcangelo. Le urla aumentavano e si affievolivano a
mano a mano che i vagoni salivano nel ciclo notturno.
- Non ti ho mai vista prima, qui - disse Patch.
- Tu ci vieni spesso? -. Mentalmente, presi nota di non
fare più gite al Delphic durante il fine settimana.
- Sono legato a questo posto da una lunga storia.
I vagoni si svuotarono e un nuovo gruppo di persone a
caccia di brividi salì a bordo; la coda avanzava.
- Fammi indovinare - dissi. - L'anno scorso, quando saltavi
la scuola, venivi qui.
Ero sarcastica, ma Patch non rispose a tono: - Stai
cercando di fare luce sul mio passato. Io invece vorrei che
rimanesse buio.
- Perché, cosa c'è che non va nel tuo passato?
- Non credo sia questo il momento di parlarne. Il mio
passato potrebbe spaventarti.
«Troppo tardi » pensai.
Patch si avvicinò e le nostre braccia si toccarono, un
contatto leggero che mi fece venire la pelle d'oca. - Dovrei
confessare cose non adatte alla propria frivola compagna di
banco.
Fui avvolta dal vento gelido. Quando inspirai, mi sembrò di
riempirmi di ghiaccio. Comunque, niente in confronto alla
sensazione che mi avevano trasmesso le sue parole.
Patch indicò la rampa d'accesso con un cenno. - Ci siamo.
Spinsi il cancello girevole. Gli unici posti rimasti liberi erano i
primi e gli ultimi del treno. Patch si diresse verso i primi.
Quelle montagne russe non mi infondevano alcuna fiducia,
non importa con quanto scrupolo fossero state rimodernate.
Erano di legno, esposto da più di un secolo alle intemperie
del Maine. E i disegni sulle fiancate erano ancora meno
rassicuranti.
Il vagone scelto da Patch ne aveva quattro. Il primo
rappresentava un gruppo di demoni cornuti che strappavano
le ali a un angelo urlante. Il successivo mostrava l'angelo
ormai privo di ali seduto su una lapide, dalla quale
osservava dei bambini che giocavano in lontananza. Nel
terzo, l'angelo senza ali si era avvicinato ai bambini e con la
mano ne chiamava una dagli occhi verdi. Nell'ultimo
disegno, l'angelo fluttuava attraverso il corpo della bambina
come un fantasma. Gli occhi della piccola erano diventati
neri, il sorriso era sparito dalle sue labbra e le erano
spuntate le corna. Sopra tutto era dipinto uno spicchio di
luna.
Distolsi lo sguardo e mi convinsi che fosse il vento a farmi
tremare le gambe. Così mi sedetti accanto a Patch.
- Il tuo passato non mi spaventerebbe - dichiarai mentre mi
agganciavo la cintura di sicurezza. - Immagino potrebbe
farmi inorridire.
- Farti inorridire - ripete lui. Il tono della sua voce mi fece
pensare che avesse accettato quell'implicita accusa.
Strano,
perché
non era da Patch essere accondiscendente.
I vagoni arretrarono un po' per poi balzare in avanti. In un
modo tutt'altro che fluido, iniziammo a salire. L'aria era
satura di odore di sudore, ruggine e acqua salata che
soffiava dal mare. Patch era così vicino da riuscire a
sentire anche il suo, di odore. Un leggero sentore di
menta.
- Sembri pallida - disse, piegandosi verso di me per farsi
sentire al di sopra del clangore delle rotaie.
Mi sentivo pallida, ma non lo ammisi.
In cima alla salita il trenino si fermò un istante. La vista
spaziava per chilometri: si vedeva la campagna scura
fondersi con lo scintillio dei quartieri periferici e poi
trasformarsi a poco a poco nel reticolo luminoso che era
Portland. Lassù non soffiava un alito di vento, tanto che
l'aria umida rimaneva attaccata alla pelle.
Senza volerlo, mi voltai verso Patch e il fatto di saperlo li
accanto a me mi rassicuro. Lui mi rivolse un bel sorriso.
- Paura, angelo?
II trenino si mosse in avanti, e immediatamente mi afferrai
alla sbarra davanti ai sedili. Mi scappò un sorriso incerto.
Il vagone andava diabolicamente veloce, io volavo con i
capelli al vento. Curvando di scatto ora a sinistra ora a
destra, il treno sferragliava sulle rotate. Mi sentivo gli
organi interni galleggiare e ondeggiare. Guardai in basso,
cercando di concentrarmi su qualcosa che non si
muovesse.
Fu allora che mi accorsi che la mia cintura di sicurezza si
era sganciata.
Cercai di gridarlo a Patch, ma la mia voce fu inghiottita
dalla furia del vento. Sentii un vuoto allo stomaco e lasciai
la sbarra con una mano per cercare di riallacciarmi la
cintura. Il vagone piegò a sinistra. Andai a sbattere
addosso a Patch, così forte da farmi male alla spalla. Il
trenino puntò a velocità folle verso l'alto. Sentii che si
sollevava dalle rotaie, evidentemente non erano fissate
bene.
Poi si lanciò giù. Le luci piazzate lungo le rotaie mi
accecavano. Non riuscivo a vedere da che parte avrebbe
girato il treno dopo quella discesa a picco.
Il vagone scartò a destra. Fui assalita dal panico, e poi
successe. La spalla sinistra sbatté violentemente contro la
porta, che si spalancò. Fui scaraventata fuori dal vagone
mentre il treno proseguiva la sua corsa senza di me.
Rotolai sulle rotaie, mentre disperatamente cercavo di
trovare un appiglio a cui aggrapparmi. Le mie mani non
trovarono nulla e così caddi nel vuoto, nella notte buia. La
terra si avvicinava velocemente e aprii la bocca per urlare.
Quello che accadde subito dopo fu che il treno si fermò
alla piattaforma di partenza con uno stridio di freni.
Patch mi stringeva così forte che le braccia mi facevano
male. - Quello si che era un urlo! - disse con un gran
sorriso.
Stordita, lo guardai coprirsi l'orecchio con la mano come
se il mio urlo gli stesse ancora rimbombando nella testa.
Non capivo che cosa fosse accaduto, e mi ritrovai a
fissare il suo braccio nel punto in cui le mie unghie
avevano lasciato dei segni rossi. Poi i miei occhi si
spostarono sulla cintura di sicurezza. Era chiusa.
- La cintura... - mormorai. - Pensavo...
- Cosa pensavi? - chiese Patch. Sembrava sinceramente
interessato.
- Pensavo... sono volata fuori dal vagone. Pensavo che
sarei morta... davvero.
- Credo che lo scopo sia questo.
Mi tremavano le braccia. Le ginocchia non riuscivano a
reggere il mio peso,
- Temo che rimarremo vicini di banco - disse Patch. Mi
sembrò di sentire una sfumatura trionfale nella sua voce,
ma ero troppo stordita per discutere.
- Arcangelo - mormorai, voltandomi a guardare il treno,
che nel frattempo aveva ricominciato a salire.
- Significa angelo di alto rango - rispose Patch
decisamente compiaciuto. - E più in alto si sta, più
dolorosa e la caduta.
Aprii la bocca per ribadire quanto fossi sicura di essere
caduta dal vagone, anche se solo per un istante, e che
forze che non riuscivo a spiegare mi avevano riportata in
salvo, con la cintura allacciata. Invece dissi: - Credo di
essere più un angelo custode.
Patch fece un altro sorrisetto compiaciuto e disse: - Vieni,
ti riporto alla sala giochi.
9
Facendomi largo tra la folla, superai la cassa della sala
giochi, le toilettes e raggiunsi il biliardino. Vee non c'era e
nemmeno Elliot o Jules.
- A quanto pare sono andati via - disse Patch. Mi sembrò
di di scorgere un. lampo divertito nei suoi occhi, tua,
ancora una volta, con lui avrebbe anche potuto trattarsi di
tutt'altro. - A quanto pare hai bisogno di un passaggio.
- Vee non mi lascerebbe mai qui - ribattei, mettendomi in
punta di piedi per cercare di guardare al di sopra della
gente. - Staranno giocando a ping-pong.
Iniziai a cercarli muovendomi lentamente nella calca, con
Patch dietro che continuava a tamburellare le dita sulla
lattina. Si era offerto di comprare qualcosa da bere anche
a me, ma, considerato il mio stato, non ero affatto sicura
di riuscire a tenerla in mano.
Ai tavoli da ping-pong non c'era traccia di Vee né di Elliot.
Mi sentii arrossire. Dov'era Vee?
Patch mi porse la bibita. - Sicura di non voler bere
qualcosa?
Guardai la lattina e poi Patch. Il sangue mi ribolliva al
pensiero
di posare la bocca dov'era stata la sua, ma non dovevo
dirglielo per forza.
Scavai nella borsa e tirai fuori il cellulare. Lo schermo era
spento e rifiutava di accendersi. Non capivo come la
batteria potesse essere
a terra, visto che l'avevo ricaricata prima di uscire.
Continuai a premere il tasto di accensione, ma senza
ottenere nulla.
- La mia offerta è sempre valida - disse Patch.
Pensai che sarei stata più al sicuro se mi fossi fatta dare
un passaggio da uno sconosciuto. Ero ancora scossa da
quello che era successo sull'Arcangelo e, nonostante
tentassi disperatamente di togliermela dalla testa,
l'immagine della mia caduta continuava a perseguitarmi.
Stavo precipitando... e poi la corsa era finita. Era stata la
cosa più terrificante che mi fosse mai capitata. E il fatto
ancora più terrificante era il dubbio che me ne fossi accorta solo io. Nessuno oltre a me, nemmeno Patch, che mi
sedeva proprio accanto.
Mi diedi una sberla sulla fronte. - L'auto! Probabilmente mi
sta aspettando li!
Trenta minuti dopo avevo perlustrato l'intero parcheggio.
Nessuna traccia della Neon. Non riuscivo a crederci: Vee
se n'era andata senza di me. Forse aveva avuto
un'emergenza, ma non c'era modo di saperlo, visto che
non potevo controllare i messaggi sul cellulare. Cercai di
tenere a freno le emozioni, ma se davvero mi aveva
abbandonata li, tutta la collera che mi ribolliva dentro
prima o poi sarebbe esplosa.
- Hai esaurito tutte le alternative? - chiese Patch.
Mi morsi il labbro, sforzandomi di pensare se ne
esistessero altre. No. Comunque non ero sicura di voler
accettare la sua offerta. Nei giorni normali, Patch
trasudava pericolo. Quella sera era un potente mix di
pericolo, minaccia e mistero.
Alla fine, mi lasciai sfuggire un sospiro e pregai di non
aver preso la decisione sbagliata.
- Portami dritto a casa - dissi. Sembrava più una domanda
che un ordine.
- Se è questo che vuoi.
Stavo per chiedere a Patch se sull'Arcangelo avene
notato qualcosa di strano, ma mi fermai. Avevo troppa
paura della risposta. E se non fossi affatto caduta.? Se
avessi immaginato tutto? Magari vedevo cose che non
succedevano
davvero.
Prima
il
tìzio
con
il
passamontagna, ora questo. Ero abbastanza certa del
fatto che Patch mi parlasse nella mente, ma tutto il resto?
Di quello non ero affatto sicura.
Patch si diresse verso un altro punto del parcheggio. Una
scintillante motocicletta nera lo aspettava, appoggiata al
cavalletto. Montò in sella e mi indicò il posto dietro di lui
con un
cenno. - Salta su.
- Wow. Bella moto - dissi, ma era una bugia. Aveva l'aria
di una lucida, nera trappola mortale. Non ero mai stata su
una moto prima di allora. Mai. E non ero sicura di voler
cambiare le case proprio quella notte.
- Mi piace la sensazione del vento sulla faccia - continuai,
sperando che la mia aria spavalda mascherasse il terrore
di andare a più di cento chilometri l'ora senza niente tra
me e l'asfalto.
Mi diede l'unico casco che aveva. Nero, come la visiera.
Lo presi, mi misi a cavalcioni sulla moto rendendomi
improvvisamente conto di quanto mi sentissi instabile. Mi
infilai il casco sui ricci e me lo agganciai sotto il mento.
- È difficile da guidare? - chiesi. Quello che volevo dire in
realtà era « È sicura?».
- No - disse Patch, rispondendo a tutt'e due le domande.
Rise sommessamente e aggiunse: - Sci tesa, rilassati.
Uscì dal parcheggio e l'accelerazione improvvisa mi fece
sobbalzare. Avevo afferrato la sua camicia, convinta che
bastasse il tessuto sottile che avevo tra le dita per
mantenere l'equilibrio. Invece no. Fui costretta ad
abbracciarlo.
In autostrada, Patch diede gas e io mi strinsi a lui con le
cosce. Era stato un movimento involontario e sperai di
essermene accorta solo io.
Arrivati a casa mia. Patch si infilò con cautela nel vialetto
d'ingresso immerso nella nebbia, spense il motore e
smontò, lo mi sfilai il casco, lo posai con cautela in
equilibrio sulla sella e aprii la bocca per dire qualcosa del
tipo «Grazie del passaggio, ci vediamo lunedi».
Invece le parole mi morirono sulle labbra, perchè Patch
iniziò a salire i gradini della veranda.
Che cosa aveva in mente? Accompagnarmi tino alla porta
d'ingresso? Improbabile. Allora cosa?
L'attimo dopo era davanti alla porta. Confuso e sempre
più preoccupata, lo vidi estrarre dalla tasca un mazzo di
chiavi dall'aria molto familiare e poi inserirne una nella
serratura.
Tirai giù la borsa dalla spalla e aprii lo scomparto in cui
tenevo le chiavi di casa. Non c'erano.
- Ridammele -. Ero semplicemente sconvolta dal tatto di
non riuscire a capire come fossero finite nelle sue mani.
- Ti sono cadute nella sala giochi mentre cercavi il
telefono -disse.
- Non m'interessa dove mi sono cadute. Ridammele.
Patch alzò le mani, come a dichiararsi innocente, e si
allontanò dalla porta. Poi si appoggiò al muro con una
spalla e mi guardò mentre mi avvicinavo alla serratura.
Cercai di girare la chiave, ma non si muoveva.
- L'hai incastrata! - protestai, e presi a scuotere la porta.
Poi feci un passo indietro. - Avanti, provaci. È bloccata.
Con uno schiocco secco, girò la chiave- La mano
appoggiata Nulla maniglia, sollevò le sopracciglia come a
dire: «Posso?».
Deglutii, cercando di nascondere quanto fossi ingolosita e
insieme allarmata dalla proposta. - Prego, accomodati.
Non c'è nessuno da sorprendere in casa.
- Sei sola per tutta la notte?
Mi resi immediatamente conto che forse non era stata la
cosa più furba da dire. - Sta arrivando Dorothea - mentii.
Era quasi mezzanotte, Dorothea se n'era andata da un
pezzo.
- Dorothea?
- La nostra donna di servizio. E anziana ma forte. Molto
forte.
Cercai di oltrepassarlo, ma non ci riuscii.
- Sembra tremenda - disse lui mentre sfilava la chiave
dalla serratura e me la porgeva.
- Riesce a pulire un gabinetto dentro e fuori in meno di un
minuto. È più che tremenda -. Piano piano, girai intorno a
lui. Avevo intenzione di chiudergli la porta in faccia, ma
quando mi voltai Patch era sull'uscio, puntellato con le
braccia agli stipiti.
- Non mi inviti a entrare?
Lo guardai sorpresa. Invitarlo a entrare? In casa mia? Ma
ero sola...
- È tardi - continuò. I suoi occhi, accesi e caparbi,
catturarono i miei. - Sarai affamata.
- No. Sì. Voglio dire, si ma...
E all'improvviso, era dentro.
Feci tre passi indietro, lui richiuse la porta con il piede. - Ti
piace la cucina messicana? - chiese.
- Vorrei... -. «Vorrei sapere cosa stai facendo in casa
mia!»
- Tacos?
- Tacos? - gli feci eco.
Sembrava si stesse divertendo. - Pomodoro, lattuga,
formaggio.
- So cosa sono i tacos!
Prima che riuscissi a fermarlo, si avviò a grandi passi
lungo il corridoio. Lo percorse tutto e girò a sinistra,
entrando in cucina.
Andò al lavello, apri il rubinetto e si insaponò fino ai
gomiti. Facendo come fosse a casa sua si diresse alla
dispensa, poi diede un'occhiata nel frigo e tirò fuori la
salsa, il formaggio, la lattuga e un pomodoro, quindi frugò
nei cassetti e prese un coltello.
Stavo per avere un attacco di panico alla vista di Patch
con un coltello in mano, poi qualcos'altro catturò la mia
attenzione. Avanzai d'un passo e diedi un'occhiata alla
mia immagine riflessa su una padella. I miei capelli!
Sembrava che avessi in testa un gigantesco cespuglio di
paglia. Mi misi la mano sulla bocca.
Patch sorrise. - I tuoi capelli sono rossi naturali?
Lo fissai. - lo non ho i capelli rossi.
- Mi spiace darti questa notizia, ma sono rossi. Se gli
dessi fuoco non diventerebbero più rossi di così.
- Sono castani -. Forse avevo dei sottilissimi,
impercettibili, quasi invisibili riflessi ramati, ma ero
castana. - È la luce - dissi.
- Si, forse dipende dalle lampadine -. Sorrise e su una
guancia comparve una fossetta.
- Torno subito - dissi, correndo fuori dalla cucina.
Andai di sopra e ripresi il controllo dei capelli
raccogliendoli in una coda. Una volta risolto quel
problema, feci un quadro della situazione. Non ero per
niente tranquilla all'idea di Patch che gironzolava per casa
armato dì coltello. E mia madre mi avrebbe uccisa se
avesse saputo che l'avevo fatto entrare quando non c'era
Dorothea,
- Posso prenotarmi per un'altra volta? - chiesi due minuti
dopo, trovandolo ancora al lavoro in cucina. Mi portai la
mano
alla pancia per fargli capire che mi faceva male. - Ho un
po' di nausea. Credo sia stata la moto.
Lui smise di tagliuzzare le verdure e alzò gli occhi. - Ho
quasi finito.
Notai che aveva cambiato coltello. Questo aveva la lama
più grossa e più affilata.
Come se avesse potuto guardare i mici pensieri
attraverso una finestra aperta, alzò il coltello e lo esaminò.
La lama scintillò sotto la luce. Mi si strinse lo stomaco.
- Metti giù il coltello - gli ordinai con voce calma.
Patch fece scorrere lo sguardo da me al coltello e
viceversa. Poi lo posò davanti a sé. - Non voglio farti del
male, Nora.
- Questo mi tranquillizza - riuscii a dire, anche se avevo la
gola chiusa e secca.
Fece ruotare il coltello in modo che il manico fosse rivolto
verso di me e disse: - Vieni, ti insegno a fare i tacos.
Non mi mossi. Un luccichio nei suoi occhi mi diceva che
avrei dovuto avere paura di lui... e ne avevo, eccome.
Però, c'era qualcos'altro. Qualcosa di estremamente
affascinante e inquietante
allo stesso tempo. Quando ero accanto a lui, non mi
fidavo di me stessa.
- Che ne dici di un... patto? -. Aveva chinato il viso, che
ora era in ombra, e mi guardava attraverso le ciglia.
Sembrava la persona più affidabile del mondo. - Se mi
aiuti a fare i tacos, io risponderò a qualcuna delle tue
domande.
- Le mie domande?
- Credo che tu sappia a cosa mi riferisco.
Lo sapevo perfettamente. Mi stava invitando a dare
un'occhiata nel suo mondo privato. Un mondo in cui
poteva parlare con la mia mente. Come sempre, sapeva
che cosa dire e quando dirlo.
Senza proferire parola, mi avvicinai. Fece scivolare il
tagliere davanti a me.
- Prima di tutto - disse, mettendosi dietro di me con le
mani sul piano di lavoro, accanto alle mie - scegli il
pomodoro -. Abbassò la testa. La sua bocca era
all'altezza del mio orecchio. Il suo respiro, caldo, mi
solleticava la pelle. - Bene. Ora prendi il coltello.
- Lo chef sta sempre così vicino? - chiesi. Non riuscivo a
decidere se la fitta di eccitazione che la sua vicinanza mi
provocava mi piaceva o spaventava.
- Quando rivela i suoi segreti, si. Tieni il coltello con
decisione.
- Lo sto facendo.
- Bene -. Fece un passo indietro e mi osservò, quasi
cercasse eventuali imperfezioni; i suoi occhi si mossero
dall'alto in basso, da destra a sinistra.
Per un lungo, snervante momento pensai di vedere un
sorrisetto di approvazione. - Non si impara a cucinare disse Patch. - È una cosa innata: ce l'hai o non ce l'hai. E'
come la chimica. Pensi di essere pronta per la chimica?
Premetti la lama del coltello sul pomodoro, che si divise in
due metà, ciascuna delle quali dondolò piano sul tagliere.
- Dimmelo tu. Sono pronta per la chimica?
Patch emise un suono profondo che non riuscii a decifrare
e, ancora una volta, sorrise.
Dopo cena, Patch portò i piatti nel lavello, - lo lavo, tu
asciughi -. Frugò nei cassetti, trovò uno strofinaccio e me
lo lanciò con fare scherzoso.
- Sono pronta a farti quelle domande - dissi. - Iniziamo da
quella sera in biblioteca. Mi hai seguita...
La voce mi morì in gola. Patch era appoggiato pigramente
al bancone, i capelli ribelli fuori dal cappellino e l'ombra di
un sorriso sulle labbra. Quello che avevo in mente si
dileguò e, fulmineo, mi affiorò alla mente un pensiero.
Volevo baciarlo. Subito.
Patch sollevò le sopracciglia. - Allora?
- Mmm... niente. Assolutamente niente. Tu lavi e io
asciugo.
Non ci volle molto e quando finimmo con i piatti ci
ritrovammo vicini, stretti nello spazio vicino al lavello.
Patch si mosse per togliermi lo strofinaccio dalle mani e i
nostri corpi si toccarono. Nessuno dei due si mosse:
restammo aggrappati al sottile filo che ci univa. Fui io a
tirarmi indietro per prima.
- Hai paura? - mormorò.
- No.
- Bugiarda.
Avevo il cuore a mille. - Non ho paura di te.
- No?
Parlai senza pensare. - Forse ho solo paura che... -. Mi
maledissi per avere anche solo iniziato la frase. Cos'avrei
dovuto dire a quel punto? Non avrei mai ammesso che
tutto in lui mi spaventava, perché cosi facendo gli avrei
solo dato il permesso di provocarmi di più. - Forse ho solo
paura che...
- Che io ti piaccia?
Sollevata dal fatto di non aver dovuto completare la frase,
dissi solo: - Si -. Mi resi conto troppo tardi di ciò che avevo
confessato. - Cioè no! Decisamente no. Non era questo
che cercavo di dire!
Patch rise piano.
- Il fatto è che una parte di me non si sente per niente
tranquilla accanto a te - ammisi.
- Ma?
Strinsi il ripiano dietro di me per farmi coraggio. - Ma mi
attiri, anche. In un modo spaventoso. Patch sorrise.
- Sei proprio arrogante - dissi, e lo spinsi via con la mano.
Lui l'afferrò e se la portò al petto. Afferrò la manica della
mia camicia e la tirò giù, coprendomi la mano e poi fece lo
stesso con l'altra manica. Quindi, afferrò la mia camicia
per i polsini. Mi aveva bloccato le mani. Aprii la bocca per
protestare.
Mi tirò a sé e, senza preavviso, mi sollevò e mi mise a
sedere sul piano di lavoro. II mio viso era all'altezza del
suo. Mi fissò con un sorriso tenebroso, seducente. E fu
allora che capii che quel momento aleggiava nelle mie
fantasie ormai da giorni.
- Togliti il cappello -. Le parole mi rotolarono fuori di tacca
prima che riuscissi a fermarle.
Se lo girò al contrario, con la visiera indietro.
Mi avvicinai. Qualcosa dentro di me mi diceva di
fermarmi, ma spinsi quella voce nell'angolo più recondito
della mente.
Lui posò le mani sul ripiano, proprio accanto ai mici
fianchi. Piegò la testa di lato e si avvicinò. Il suo odore, di
terra umida, mi travolse.
Inspirai quel profumo intenso. No. Non era la cosa giusta
da fare. Non quella, non con Patch. Lui era pazzesco. In
modo positivo. certo, ma anche in modo negativo. Molto
negativo.
- Credo che dovresti spostarti - sussurrai. - Dovresti
proprio spostarti.
- Spostarmi dove? Qui? -. Posò la bocca sulla mia spalla.
- O qui? -. La appoggiò sul collo.
Il mio cervello non riusciva a elaborare alcun pensiero
logico. La bocca di Patch saliva verso la mascella,
succhiando delicatamente la pelle...
- Mi ai stanno addormentando le gambe - mormorai. Non
era proprio una bugia, sentivo un formicolio in tutto il
corpo, gambe comprese.
- Ci penso io -. Le mani di Patch strinsero i miei fianchi.
All'improvviso, suonò il cellulare. Il suono mi fece
sobbalzare e, armeggiando un po', lo tirai fuori dalla
tasca.
- Ciao tesoro - disse mia madre in tono allegro.
- Posso richiamarti?
- Certo. Che succede.?
Spensi il telefono. - Devi andartene - dissi a Patch.
- Subito.
Rimise a posto il cappellino. Ora Tunica parte del viso che
riuscivo a vedere era la bocca, piegata in un sorriso
malizioso.
- Non sei truccata.
- Me ne sarò dimenticata.
- Fai sogni d'oro stanotte.
- Certo, non preoccuparti -. Che cosa aveva detto?
Riguardo quella festa, domani sera...
- Ci penserò - riuscii a dire.
Patch mi infilò un pezzetto di canta in tasca e quel
contatto generò un'ondata di calore lungo le gambe.
- Questo è l'indirizzo. Ti aspetterò. Vieni da sola.
Un attimo dopo, sentii la porta d'ingresso chiudersi alle
sue spalle. Avvampai. «Troppo vicino» pensai. Il fuoco
non è pericoloso... a meno di non avvicinarsi troppo. Non
bisogna dimenticarlo mai.
Con il fiato corro, mi appoggiai agli armadietti della
cucina.
10
Il mio sonno fu bruscamente interrotto dallo squillo del
telefono. Ancora sospesa nel mondo dei sogni, mi tirai il
cuscino sulla testa per cercare di coprire il rumore. Il
telefono però continuò a suonare finché non parti la
segreteria. Cinque secondi dopo, riprese a squillare.
Allungai un braccio, cercai a tentoni finche non trovai i
jeans e armeggiai un po' per tirare fuori il cellulare dalla
tasca.
- Si? - dissi sbadigliando, ancora con gli occhi chiusi.
All'altro capo, qualcuno respirava furiosamente. - Cosa ti
è successo? Dove sei andata a prenderlo lo zucchero
filato? E già che ci sci, perché non mi dici dove sei cosi
posso venire li a strangolarti a mani nude?
Mi battei la mano sulla fronte, non una, ma più volte.
- Pensavo ti avessero sequestrata! - continuò Vee. –
Pensavo ti avessero rapita e uccisa!
Al buio, cercai di trovare l'orologio. Urtai una cornice sul
comodino, e tutte le altre cornici caddero come tessere
del domino.
- Sono stata trattenuta - risposi. - E quando sono tornata
alla sala giochi tu non c'eri più.
- Trattenuta? Che razza di scusa è?
Misi a fuoco l'orologio. Erano appena passate le due del
mattino.
- Ho preso la macchina e ti ho cercato nel parcheggio per
un'ora - continuò Vee. - Elliot è andato in giro per il parco
mostrando l'unica foto di te che avessi, quella sul
cellulare. Ho provato a chiamarti un miliardo di volte.
Aspetta un secondo: sei a casa? Come ci sei arrivata? Mi
stropicciai gli occhi. - Patch.
- Patch il molestatore?
- Be', non è che avessi molta scelta, no? - replicai
bruscamente. - Te ne sei andata senza di me.
- Sembri nervosa. Molto nervosa. No. non è quello. Sei
agitata... eccitata -. Mi sembrava di vederla spalancare gli
occhi. - Ti ha baciata, non è vero?
Nessuna risposta.
- L'ha fatto! Lo sapevo! 1 io visto come ti guarda. Sapevo
che sarebbe successo, l'ho sempre saputo.
Non volevo pensarci.
- Com'è stato? - insistette. - Vellutato, polposo o
profondo?
- Cosa?
- Ề stato un bacetto veloce, a labbra aperte o con la
lingua? Non importa, è inutile che rispondi. Patch non è
tipo da preliminari. C'era la lingua, di sicuro.
Mi coprii il viso con le mani. Patch probabilmente pensava
che non avessi alcun autocontrollo. Gli ero caduta tra le
braccia, mi ero sciolta come il burro. Proprio un attimo
prima di dirgli di andarsene, ero sicura di aver emesso un
suono che era una via di mezzo tra un sospiro di pura
beatitudine e un gemito di piacere.
E questo spiegava il suo sorriso arrogante.
- Possiamo parlarne più tardi? - chiesi, massaggiandomi
la base del naso.
- Neanche per sogno. Sospirai. - Sono stanca morta.
- Non riesco a credere che tu voglia tenermi sulle spine.
- Spero che te ne dimentichi.
- Scordatelo.
Cercai di visualizzare i muscoli del collo che si
rilassavano, per evitare che mi esplodesse il mal di testa
strisciante che già sentivo arrivare. - Allora oggi andiamo
a fare shopping?
- Passo a prenderti alle quattro.
- Credevo fossimo d'accordo per le cinque.
- Cambio di programma. Arrivo anche primi se riesco a
sganciarmi dai miei. Mia madre è in pieno esaurimento
nervoso, crede che i miei brutti voti dipendano dalle sue
scarse capacità genitoriali. Pare che la soluzione consista
nel passare più tempo insieme. Augurami buona fortuna.
Chiusi di scatto il telefono e sprofondai nel letto. Ripensai
al sorriso spregiudicato di Patch e ai suoi occhi neri
scintillanti. Dopo essermi girata e rigirata nel letto per un
po', mi arresi: finché avessi avuto Patch per la testa,
trovare una posizione comoda sarebbe stato impossibile.
Quando ero piccola, il figlioccio di Dorothea, Lionel, aveva
rotto un bicchiere. Tutti i pezzetti di vetro erano stati
raccolti, tranne uno, e lui mi aveva sfidato a leccarlo.
Innamorarsi di Patch era un po' come leccare quella
scheggia di vetro. Sapevo che era stupido, sapevo che mi
sarei tagliata. Dopo tutti quegli anni, una sola cosa non
era cambiata: ero ancora attratta dal pericolo.
All'improvviso mi misi a sedere sul letto, afferrai il telefono
e accesi la luce.
La batteria era completamente carica.
Sentii un brivido di inquietudine. Il mio cellulare avrebbe
dovuto essere scarico. Come avevano fatto mia madre e
Vee a chiamarmi?
La pioggia picchiava sulle tende colorate dei negozi lungo
il molo, rovesciandosi sul marciapiede sottostante. Gli
antichi lampioni a gas disposti a zig-zag ai lati della strada
si accesero. Con gli ombrelli che continuavano a urtarsi,
Vee e io percorremmo il marciapiede e arrivammo alla
tenda a strisce bianche e rosa
di Victoria's Secret. Scrollammo gli ombrelli e li
appoggiammo fuori dalla porta.
Un tuono poderoso ci fece entrare di volata nel negozio.
Battei i piedi per levare l'acqua dalle scarpe e rabbrividii
per il freddo.
Al centro del negozio, diversi diffusori di essenze
bruciavano su un bancone, diffondendo un odore esotico
e intenso.
Una donna con un paio di pantaloni neri e una maglietta
elasticizzata dello stesso colore venne verso di noi. Aveva
un metro a nastro intorno al collo e. prendendolo, disse:
- Ragazze, volete che vi misuri...
- Metta via quel dannato metro - ordinò Vee. - Conosco
già la mia taglia, non ho bisogno che qualcuno me la
ricordi.
Sorrisi alla donna, anche per scusarmi, e seguii Vee
diretta ai reggiseni in liquidazione.
- Non c'è niente di cui vergognarsi nell'avere una coppa D
- dissi. Presi un reggiseno in satin blu e cercai il cartellino.
- Chi ha parlato di vergognarsi? - disse Vee. - E perché
dovrei? Le uniche sedicenni con le tette grosse come le
mie sono piene di silicone e lo sanno tutti. Che motivo
avrei io di vergognarmi? -. Rovistò nel cesto. - Credi che
abbiano un reggiseno che mi schiacci un po' le bimbe?
- Si chiamano reggiseni sportivi e hanno un fastidioso
effetto collaterale: la monotetta -. Nel frattempo, avevo
adocchiato un reggiseno di pizzo nero.
Non avrei dovuto guardare la biancheria intima. Mi faceva
pensare a cose sexy. Tipo baciare. Tipo Patch.
Chiusi gli occhi e ripensai alla serata trascorsa insieme. Il
contatto della mano di Patch sui miei fianchi, le sue labbra
che assaggiavano il mio collo...
Vee mi tirò addosso un paio di mutandine leopardate turchesi, prendendomi alla sprovvista - - Queste ti
donerebbero molto - sentenziò. - Hai solo bisogno di un
sedere come il mio per riempirle.
A cosa diavolo stavo pensando? Ero arrivata a tanto così
dal baciare Patch. Lo stesso Patch che sembrava
insinuarsi nella mia mente. Lo stesso che mi aveva
salvata dalla caduta fatale sull'Arangelo... perchè ero
sicura che fosse successo proprio quello. anche se non
avevo nemmeno una spiegazione logica a riguardo. Mi
chiesi se. dopo aver fermato in qualche modo il tempo,
non mi avesse afferrata nel momento stesso in cui
cadevo. Se riusciva a parlare ai miei pensieri, forse, ma
solo forse, era in grado di fare anche altre cose.
O forse, pensai rabbrividendo, non potevo più fidarmi
della mia mente.
Avevo ancora il pezzo di carta che Patch mi aveva infilato
in tasca, ma per nessun motivo sarei andata a quella
festa. Fra noi esisteva un'attrazione, e in fondo la cosa mi
piaceva. Ma il lato misterioso e inquietante di Patch
faceva passare quella cosa in secondo piano. Avevo
intenzione di espellere Patch dal mio organismo e quella
volta l'avrei fatto sul serio. Sarebbe stato l'equivalente di
una dieta disintossicante. Il problema era che
l'unica dieta che avessi mai sperimentato aveva sortito
l'effetto contrario. Una volta avevo cercato di non mangiare
cioccolata per un mese intero. Neanche un morso. Dopo
due settimane ero crollata, mangiando in una volta sola più
cioccolata di quanta ne avrei mangiata in tre mesi.
Speravo che la mia dieta fallita non fosse un presagio di ciò
che sarebbe successo se avessi cercato di evitare Patch.
- Che stai facendo.' - chiesi, rivolta a Vee.
- A te che sembra? Stacco l'etichetta con il prezzo da questi
reggiseni in saldo per attaccarla a quelli non in saldo. Cosi
posso prendere dei reggiseni sexy al prezzo di quelli brutti.
- Non puoi farlo! La cassiera leggerà il codice a barre e ti
beccherà.
- Codice a barre?' Non leggono mica il codice a barre ribattè, ma non sembrava molto convinta.
- Si che lo fanno. Te lo giuro, croce sul cuore -. Pensai che
spergiurare fosse meglio che guardare Vee trascinata in
prigione.
Be', sembrava proprio una buona idea...
- Devi prendere queste - le dissi, lanciandole uno straccetto
di seta nella speranza di distrarla.
Lei prese le mutandine. Minuscoli granchi rossi impreziosivano il tessuto. - È la cosa più disgustosa che abbia mai
visto. Quel reggiseno nero che hai in mano invece mi piace,
dovresti comprarlo. Tu vai a pagare, io finisco di guardare i
saldi.
Pagai. Poi, pensando che sarebbe stato più facile
dimenticare Patch se avessi guardato qualcosa di più
innocuo, andai verso lo scaffale delle creme. Stavo
annusando una boccetta di Dream Angels quando avvertii
una presenza familiare vicino a me. Era come se qualcuno
mi avesse infilato una pallina di gelato nel
colletto che, dalla nuca, mi stesse scivolando lungo la
schiena.
Lo stesso brivido che provavo ogni volta che Patch era
nelle vicinanze.
Vee e io eravamo ancora le uniche clienti del negozio, ma
attraverso la vetrina vidi una figura incappucciata
indietreggiare per poi ripararsi sotto una tenda dall'altro
lato della strada. Scombussolata, rimasi immobile per un
lungo minuto, finché riacquistai il controllo di me stessa e
andai a cercare Vee.
- Ề ora di andate - dissi.
Lei stava passando in rassegna un espositore. - Wow!
Guarda qui, pigiami di flanella con il cinquanta per cento
di sconto. Ne ho proprio bisogno.
Con un occhio fìsso alla vetrina le dissi: - Credo che
qualcuno mi stia seguendo.
Vee alzò di scatto la testa. - Patch?
No.
Guarda
dall'altra
parte
della
strada.
Diede una rapida occhiata. - Non vedo nessuno.
- Nemmeno io. Un'auto di passaggio mi copriva la vista.
- Credo che sia entrato nel negozio.
- Come fai a sapere che ti stava seguendo?
- Un brutto presentimento.
- Somigliava a qualcuno di nostra conoscenza? Per
esempio... se fosse un incrocio tra Pippi Calzelunghe e la
malvagia Strega dell'Ovest sapremmo che in realtà è
Marcie Millar.
- Non era lei - risposi, gli occhi ancora fissi sulla strada.
- Ieri sera, quando sono uscita dalla sala giochi per
andare a prendere lo zucchero filato, ho visto qualcuno
che mi spiava. Credo si tratti della stessa persona.
- Sul serio? Perché me lo dici solo adesso? Chi è?
Non ne avevo idea. Ed era questo a spaventarmi più di
ogni altra cosa.
Mi rivolsi alla commessa. - C'è un'uscita secondaria? Lei
distolse lo sguardo dal cassetto che stava mettendo in
ordine. - Solo per i dipendenti.
- È un uomo o una donna? - si informò Vee.
- Non saprei.
- Be', perché dovrebbe seguirti? Che cosa vuole?
- Spaventarmi -. Mi sembrava una spiegazione piuttosto
sensata.
- E perchè?
Non sapevo neanche quello.
- Dobbiamo creare un diversivo.
- Proprio quello che stavo pensando io. E noi sappiamo
quanto sono brava a creare diversivi. Dammi il tuo
giubbetto di jeans.
La fissai. - Neanche per sogno. Non sappiamo nulla di
questa persona quindi non ti lascerò uscire con i miei
vestiti addosso. Se fosse armata?
- A volte la tua immaginazione mi fa paura - disse Vee.
Dovevo ammetterlo, l'idea che fosse armata e
intenzionata a uccidermi era un po' inverosimile. Però con
tutte le cose orribili che stavano succedendo, non potevo
rimproverarmi se avevo i nervi a pezzi e pensavo al
peggio.
- Esco prima io - propose Vee. - Se lui mi segue, tu fai lo
stesso. lo andrò verso il cimitero, sulla collina. Lo
blocchiamo e ci facciamo dare delle risposte.
Un minuto dopo, Vee lasciò il negozio con il mio giubbetto
addosso. Prese il mio ombrello rosso e lo tenne basso, in
modo che le coprisse la testa. A parte il fatto che era
qualche centimetro più alta e qualche chilo più formosa,
poteva essere scambiata per me. Dal punto in cui ero,
acquattata dietro l'espositore dei pigiami, vidi la figura
incappucciata uscire dal negozio dall'altro
lato della strada e seguire Vee. Mi mossi furtivamente
verso la vetrina. Nonostante la felpa sformata e i jeans,
chiaramente indossati per avere un aspetto androgino,
l'andatura era femminile. Decisamente femminile.
Vee e la ragazza svoltarono l'angolo e sparirono. Io corsi
verso la porta. Fuori, la pioggia si era trasformata in
diluvio.
Afferrai l'ombrello di Vee e mi misi in marcia, passando
sotto le tende in modo da ripararmi dall'acqua. Sentivo
che l'orlo dei jeans si inzuppava e rimpiansi di non aver
indossato gli stivali.
Dietro di me, il molo si stendeva fino al mare color
cemento. Davanti a me, la fila di negozi terminava ai piedi
di una collina ripida ed erbosa. Sulla cima, si scorgeva a
malapena l'alta recinzione di ghisa del cimitero della città.
Aprii la portiera della Neon, sparai lo sbrinatore al
massimo e accesi i tergicristalli a tutta velocità. Uscii dal
parcheggio e girai a sinistra, accelerando lungo la strada
che serpeggiava sui fianchi della collina. Mi si stagliarono
davanti gli alberi del cimitero, con i rami che sembravano
muoversi a ogni colpo dei tergicristalli. Le lapidi di marmo
bianche sembravano lame che spuntavano dall'oscurità,
mentre quelle grigie semplicemente svanivano nell'aria.
All'improvviso, dal nulla, comparve un oggetto rosso che
andò a schiantarsi contro il parabrezza. Colpi il vetro
proprio al centro, quindi schizzò via, oltre l'automobile.
Schiacciai a fondo il pedale del freno e la Neon si fermò
slittando sul ciglio della strada.
Aprii la portiera e uscii a cercare l'oggetto che mi aveva
colpito.
Segui un momento di confusione, quando la mente si
trovò
a elaborare i segnali forniti dalla vista. Il mio ombrello
giaceva intrappolato nei cespugli, rotto. Il modo in cui era
piegato faceva
pensare che fosse stato scagliato con forza contro
qualcosa di più robusto, e Inevitabilmente avesse avuto la
peggio.
Poi. attraverso il rumore furibondo della pioggia, mi arrivò
un singhiozzo soffocato.
- Vee? - chiamai. Attraversai la strada, una mano a
ripararmi gli occhi dalla pioggia, e mi guardai intorno. A
pochi passi da me c'era un corpo riverso a terra. Iniziai a
correre.
- Vee! -. Mi lasciai cadere in ginocchio accanto a lei. Era
sdraiata su un fianco, le ginocchia contro il petto, e si
lamentava.
- Cos'è successo? Stai bene? Riesci a muoverti? -. Gettai
indietro la testa, incurante delta pioggia. «Pensa!» dissi a
me stessa. Il cellulare. Nell'auto. Dovevo chiamare il 911.
- Vado a chiedere aiuto - dissi a Vee.
Lei gemette e mi afferrò la mano.
Mi chinai su di lei tenendola stretta, le lacrime roventi
pronte a sgorgare fuori. - Cos'è successo? È stata la
persona che ti seguiva? È stata lei? Cosa ti ha fatto?
Vee mormorò qualcosa di incomprensibile, qualcosa di
simile a «borsa». In effetti, la sua borsa non c'era.
- Tra poco starai bene - mormorai, cercando di mantenere
un tono di voce calmo. Pensieri foschi si agitavano in me,
anche se cercavo di tenerli a bada. Sapevo che la colpa
era della stessa persona che mi aveva spiata al Delphic e
poi seguita nel mio gito di shopping, ma mi rimproveravo
ugualmente per aver messo Vee in pericolo. Corsi
all'auto, presi il cellulare e chiamai il 911.
Cercando di evitare un tono isterico, dissi: - Ho bisogno di
un'ambulanza. La mia amica è stata aggredita e derubata.
11
Passai il lunedì in stato confusionale. Mi spostai da
un'aula all'altra aspettando soltanto il suono dell'ultima
campanella. Avevo chiamato l'ospedale prima di andare a
scuola. Mi avevano detto che Vee stava entrando in sala
operatoria. Aveva il braccio sinistro fratturato e siccome
I'osso non era allineato doveva essere operata. Volevo
vederla, ma non me l'avrebbero permesso fino al
pomeriggio, quando, una volta esaurirò l'effetto
dell'anestesia. l'avrebbero riportata in camera. Era
fondamentale che ascoltassi la sua versione dei fatti
prima che dimenticassi! i dettagli o li romanzasse.
Qualsiasi cosa ricordasse, poteva aggiungere un tassello
alla storia e aiutarmi a capire chi potesse essere stato.
Mano a mano che le ore passavano, il mio Interesse si
spostò da Vee alla ragazza in attesa fuori dal negozio. Chi
era? Cosa voleva? Forse il fatto che Vee fosse stata
aggredita poco dopo che avevo visto la ragazza pedinarla
era solo una coincidenza inquietante, ma il mio istinto non
era d'accordo. Avrei voluto avere maggiori dettagli sul suo
aspetto. Il cappuccio, i jeans e la pioggia erano riusciti a
nasconderla per bene. Per quanto ne sapevo, poteva
anche trattarsi di Marcie Millar, ma dentro di me sapevo
che non era così.
Raggiunsi il mio armadietto per prendere il libro di biologia
e andai in classe a seguire l'ultima lezione. La sedia di
Patch era
vuota. In genere arrivava all'ultimo momento, sul filo dalla
campanella... che invece suonò e suonò finché il coach
prese posto alla lavagna per iniziare una lezione
sull'equilibrio.
Mi concentrai sulla sedia vuota accanto alla mia. Una
vocina in fondo alla testa mi diceva che la sua assenza
poteva essere collegata a Vee. Era strano che mancasse
proprio la mattina successiva alla sua aggressione. E poi
non riuscivo a dimenticare il brivido gelido che avevo
sentito qualche istante prima di guardare fuori dal negozio
e capire di essere spiata. Ogni volta che mi sentivo così,
lui era nei paraggi.
Presto, però, la voce della ragione respinse ogni
coinvolgimento di Patch. Magari aveva preso il
raffreddore, oppure aveva finito la benzina mentre veniva
a scuola ed era rimasto bloccato a chilometri di distanza.
Oppure c'era un torneo di biliardo con una posta talmente
alta da fargli preferire la sala giochi a una lezione sulla
complessità del corpo umano.
Alla fine della lezione, il coach mi fermò prima che uscissi
dall'aula.
- Aspetta un momento, Nora.- Mi voltai. - Si?
Mi porse un pezzo di carta piegato a meta. - La signorina
Greene mi ha chiesto di darti questo.
Presi il biglietto. - La Signorina Greene? -. Non avevo
nessuna insegnante con quel nome.
- La nuova psicologa della scuola. Ha appena sostituito il
dottor Hendrickson.
Aprii il biglietto e lessi il messaggio.
Cara Nora,
ho preso il posto del dottor Hendrickson e da oggi sarò io
la tua
psicologa. Ho visto che hai saltato gli ultimi due
appuntamenti. Per favore, passa subito da me in modo da
poterci conoscere. Ho mandato una lettera a tua madre
per informarla di questo cambiamento.
Un caro saluto,
Sig.na Greene
- Grazie - dissi al coach, piegando il biglietto fino a che
non divenne abbastanza piccolo da poterlo infilare in
tasca.
Non c'era modo di evitarlo: dovevo andare. Mi unii alla
folla di studenti Percorsi i corridoi fino alla porta chiusa
dell'ufficio del dottor Hendrickson.
Sicuramente ci sarebbe stata una nuova targhetta. Infatti.
L'ottone lucido scintillava sul legno di quercia. Sig.na D.
Greene, psicologa.
Bussai e un attimo dopo la porta venne aperta dall'interno.
La signorina Greene aveva la pelle chiara e perfetta,
occhi blu, una bocca seducente, splendidi capelli biondi e
lisci che, divisi da una riga, le ricadevano oltre i gomiti. Il
viso era ovale e sul naso portava un paio di occhiali da
gatta turchesi. Era vestita in modo formale, con una
gonna dritta di tessuto spigato grigio e una camicetta di
seta rosa. Aveva una figura slanciata e femminile. Avrà
avuto al massimo cinque anni più di me, non di più.
- Tu devi essere Nora Grey. Sei uguale alla foto che c'è
nel tuo fascicolo - disse» e mi diede una vigorosa stretta
di mano. Aveva un tono sbrigativo, ma non scortese.
Pratico.
Arretrò di un passo, invitandomi a entrare.
- Posso offrirti del succo di frutta o dell'acqua? - chiese.
- Cos'è successo al dottor Hendrickson?
- Prepensionamento. Tenevo d'occhio questo posto da un
po', così quando si è liberato mi sono presentata di Corsa.
Ho studiato
in Florida, ma sono cresciuta a Portland e i miei genitori
abitano anioni qui. È bello stare di nuovo vicino alla mia
famiglia.
Esaminai il piccolo ufficio. Dall'ultima volta che ero stata lì,
poche settimane prima, aveva subito un cambiamento
drastico. Le librerie che rivestivano le pareti erano piene di
libri universitari. tutti piuttosto simili tra loro, con le copertine
rigide di un colore neutro e i caratteri in oro. Il dottor
Hendrickson utilizzava gli scaffali per esporre le foto di
famiglia, mentre non c'erano immagini della vira privata della
signorina Greene. Accanto alla finestra, era appesa la
stessa felce che grazie alle cure del dottore era più marrone
che verde. Adesso, dopo pochi giorni con lei, era tornata
rigogliosa e piena di vita. Dall'altro lato della scrivania, vidi
una sedia rivestita da un tessuto rosa a motivo cachemire e,
nell'angolo opposto, diversi scatoloni impilati.
- Sono qui solo da venerdì - spiegò, vedendo che il mio
sguardo si posava sugli scatoloni. - Sto ancora finendo di
sistemare le mie cose. Accomodati.
Posai lo zaino e mi sedetti sulla sedia rosa. Nella piccola
stanza non c'era niente che potesse fornire un indizio sulla
personalità della signorina Greene. Sulla scrivania, che non
poteva definirsi disordinata ma neanche scrupolosamente
ordinata, erano appoggiate diverse cartellette e una tazza
bianca piena di un liquido che aveva tutta l'aria di essere tè.
Non c'era traccia di profumo o di deodorante per ambienti. Il
monitor del computer era spento.
La signorina Greene si chinò su uno schedario sistemato
dietro la scrivania, tirò fuori una cartelletta nuova e, con il
pennarello nero, scrisse il mio nome sull'etichetta; quindi la
posò sulla scrivania accanto a quella vecchia, costellata di
chiazze di caffé lasciate dalla tazza del dottor Hendrickson.
- Ho passato l'intero fine settimana a esaminare il lavoro del
mio predecessore - disse. - Rimanga tra noi, ma la sua
grafia mi fa venire l'emicrania, quindi li sto ricopiando tutti.
Sono rimasta stupita dal fatto che non usasse il computer
per gli appunti. Chi è che scrive ancora a mano al giorno
d'oggi?
Si mise comoda sulla sedia girevole, accavallò le gambe
e mi sorrise. - Allora, perché non mi racconti a che punto
eravate con il dottor Hendrickson? Sono riuscita a stento
a decifrare i suoi appunti. A quanto pare stavate parlando
della tua opinione riguardo il nuovo impiego di tua madre.
Non è tanto nuovo ormai, lavora da un anno.
Prima stava a casa, vero? Poi, dopo la morte di tuo padre,
ha iniziato un'occupazione a tempo pieno -. Diede
un'occhiata a uno dei fogli del mio fascicolo. - Si tratta di
una casa d'aste, giusto? Se non sbaglio, coordina le aste
immobiliari di tutta la costa -. Mi guardò al di sopra degli
occhiali. - Questo significa che passa molto tempo lontana
da casa.
- Volevamo restare nella nostra fattoria - dissi, un po' sulla
difensiva. - E se avesse accettato un lavoro in :zona non
avremmo potuto permetterci il mutuo -. Non andavo pazza
per le sedute con il dottor Hendrickson, ma ero risentita
con lui per essere andato in pensione e avermi
abbandonata alla signorina Greene. Iniziavo a farmi
un'idea di lei. Sembrava il tipo attento ai dettagli e sentivo
che aveva una gran voglia di scavare in ogni angolo
oscuro della mia vita.
- Devi sentirti molto sola in quella casa vuota.
- Abbiamo una donna di servizio che sta con me tutti i pomeriggi fino alle nove o alle dicci di sera.
- Ma una donna di servizio non è come una madre.
Guardai la porta. E non cercai di farlo con discrezione.
- Hai un'amica del cuore? Un ragazzo? Qualcuno con cui
poter parlare delle cose per le quali la donna di servizio
non è... adatta? -. Immerse una bustina nella tazza, la
ritirò su e bevve
un sorso di tè.
- Ho un'amica del cuore -. Avevo deciso di tacere il più
possibile. Meno avrei detto, meno sarei rimasta. E prima
sarei arrivata da Vee.
Lei sollevò le sopracciglia. - Un ragazzo?
- No.
- Sei molto carina, immagino che l'altro sesso si interessi
a te.
- Senta, - dissi, cercando di avere un tono calmo - apprezzo molto che stia cercando di aiutarmi, ma ho già fatto
questa conversazione con il dottor Hendrickson un anno
fa, quando è morto mio padre. È come tornare indietro nel
tempo, rivivere tutto daccapo. Si, è stato tragico e orribile
e devo farci i conti ogni giorno, ma ora ho bisogno di
andare avanti.
L'orologio appeso al muro segnava con il suo ticchettio il
passare del tempo.
- Bene - disse la Greene alla fine, rivolgendomi un sorriso
stereotipato. - È molto utile conoscere il tuo punto di vista,
Nora. È quello che cercavo di capire sin dall'inizio.
Appunterò le tue impressioni nel fascicolo. C'è altro di cui
vorresti parlare?
- No -. Sorrisi, a conferma del fatto che era davvero tutto a
posto.
Scorse alla svelta altre pagine del mio fascicolo. Non
avevo idea di cosa il dottor Hendrickson avesse scritto e
non volevo star li a scoprirlo. Raccolsi lo zaino e mi
spostai sul bordo della sedia. - Non vorrei metterle fretta,
ma devo essere in un posto alle quattro.
- Oh?
Non avevo intenzione di raccontarle dell'aggressione. Ricerca in biblioteca - mentii.
- Quale materia?
Dissi la prima cosa che mi venne in mente: - Biologia.
- A proposito, come va a scuola? Ci sono problemi?
- No.
Consultò altre pagine del mio fascicolo. - Ottimi voti - osservò. - A quanto pare stai facendo da tutor a un
compagno di biologia. Patch Cipriano -. Alzò gli occhi,
come se aspettasse una conferma.
Fui sorpresa dal fatto che questo compito fosse talmente
importante da essere segnalato nella mia cartella. - Finora
non siamo mai riusciti a incontrarci. Incompatibilità di orari
-. Mi strinsi nelle spalle, come a dire: «Che posso farci?».
Raccolse tutti i fogli, li sistemò e li infilò nella cartelletta
nuova, quella su cui aveva scritto il mio nome. - Mi
sembra corretto avvisarci che ho intenzione di chiedere al
professor McConaughy di stabilire delle regole a questo
proposito. Vorrei che gli incontri si svolgessero qui, a
scuola, sotto la diretta supervisione dell'insegnante o di un
altro membro del corpo docente. Non voglio che tu
incontri Patch al di fuori dei locali scolastici e soprattutto
non voglio che voi due vi vediate da soli.
Fui percorsa da un brivido. - Perché? Qual e il problema?
- Non posso parlarne.
L'unica ragione che mi veniva in mente era che Patch
fosse pericoloso. «Il mio passato potrebbe spaventarti» mi
aveva detto.
- Grazie per avermi dedicato un po' del tuo tempo. Non ti
tratterrò oltre -. La signorina Greene mi accompagnò alla
porta e, tenendola aperta con il fianco esile, mi rivolse un
sorriso. Un sorriso di circostanza.
Una volta lasciato l'ufficio della psicologa, chiamai
l'ospedale. L'intervento di Vee era finito, ma lei era ancora
in rianimazione e
non poteva ricevere visite fino alle sette. Consultai l'orologio
del cellulare: mancavano tre ore. Saltai sulla mia Fiat,
sperando che un pomeriggio in biblioteca mi aiutasse a
ingannare l'attesa.
Rimasi a fare i compiti tutto il pomeriggio e, senza che me
ne rendessi conto, scese la sera. Sentii lo stomaco
brontolare nel silenzio della sala e mi ricordai del distributore
automatico all'ingresso.
Rimandai l'ultimo compito che mi rimaneva, ma c'era ancora
una ricerca per la quale avevo bisogno delle risorse della
biblioteca. A casa avevo un vecchio computer IBM con una
connessione a Internet preistorica e cosi, quando potevo,
cercavo di usare uno dei computer della biblioteca. Dovevo
recensire una rappresentazione teatrale dell'Otello per l'ezine entro le nove e mi ripromisi di andare alla ricerca di cibo
subito dopo aver finito.
Raccolsi tutte le mie cose e presi l'ascensore. Spinsi il
pulsante di chiusura delle porte, ma non scelsi alcun piano.
Tirai fuori il cellulare e richiamai l'ospedale.
- Salve - dissi all'infermiera che aveva risposto. - La mia
amica è stata operata oggi. Ho già chiamato e mi avere
detto che sarebbe uscita dal reparto rianimazione questa
sera. Si chiama Vee Sky.
Ci fu una pausa seguita dal ticchettio dei tasti del computer.
- Mi risulta che la porteranno in camera entro un'ora.
- A che ora termina l'orario di visita?
- Alle otto.
- Grazie.
Schiacciai il pulsante del terzo piano, sperando che leggere
un po' di recensioni avrebbe riacceso la mia scintilla
creativa.
- Mi scusi - chiesi alla bibliotecaria che si occupava del
prestito. - Sto cercando le copie del Portland Press Herald
dell'anno scorso, in particolare la guida teatrale.
- Non abbiamo niente di così recente qui al prestito confessò
- ma se cerchi online, credo che il sito del Portland Press
Herald abbia un archivio. Segui il corridoio, la sala inulti
mediale è quella a sinistra.
Entrai, scelsi un computer e mi collegai a Internet. Stavo
per tuffarmi nella ricerca, quando mi baleno un'idea. Dopo
essermi accertata che nessuno mi stesse guardando,
andai su Google e scrissi
"Patch Cipriano". Magari avrei trovatici un arinolo che mi
avrebbe
aiutato a far luce sul suo passato. Magari teneva un blog.
Una volta visualizzati i risultati della ricerca, aggrottai la
fronte: niente. Niente Facebook, niente MySpace, nessun
blog. Come se non esistesse.
- Qual è la tua storia, Patch.' - mormorai. - Chi sei in
realtà?
Mezz'ora e diverse recensioni dopo, avevo gli occhi
appannati. Estesi la ricerca a tutti i giornali del Maine.
Comparve un link alla Kinghorn Prep. Ci misi qualche
secondo a riconoscere quel nome familiare: era la scuola
da cui si era trasferito Elliot. D'impulso, decisi di andare a
cercare anche li. Se la scuola era così d'èlite come
sosteneva Elliot, avrebbe dovuto avere un giornale.
Cliccai sul link, feci scorrere la pagina con l'archivio e
scelsi a caso il 21 marzo di quell'anno. Un attimo dopo,
comparve un titolo:
STUDENTE INDAGATO PER L'OMICIDIO
ALLA KINGHORN PREP
Avvicinai la sedia al tavolo, attirata dalla prospettiva di
leggere qualcosa di più eccitante delle recensioni teatrali.
Uno studente sedicenne della Kinghorn Preparatory,
interrogato dalla polizia sull'episodio ormai conosciuto
come "il caso della studentessa
impiccata alla Kinghorn", è stato rilasciato senza nessun
capo di im-putazione. Dopo che il corpo della diciottenne
Kjirsten Halverson era stato trovato impiccato a un albero
del parco della Kinghorn Prep, la polizia aveva indagato
Elliot Sauders, studente del secondo anno, che era stato
visto in compagnia della vittima la notte della sua morte.
Ci misi un po' a elaborare le informazioni. Elliot era
indagato in un caso di omicidio?
Kjirsten Halverson lavorava come cameriera al Blind Joe.
La polizia conferma che sabato sera lei e Saunders erano
stati visti passeggiare insieme nel campus. Il corpo della
ragazza è stato scoperto domenica mattina e Sauders è
stato rilasciata lunedì pomeriggio in seguito al
ritrovamento. nell'appartamento della Halverson, di un
biglietto in cui la ragazza annunciava di volersi suicidare.
- Trovato qualcosa di interessante?
La voce di Elliot alle mie spalle mi fece sobbalzare. Mi
girai di scacco. Era appoggiato allo stipite della porta, gli
occhi socchiusi, la bocca tirata. Fui percorsa da una
sensazione di gelo, come quando si arrossisce, ma al
contrario.
Ruotai la sedia un po' a destra, cercando di piazzarmi
davanti al monitor. - Sto... facendo i compiti, ho quasi
finito. E tu, che fai qui? Non ti ho sentito arrivare, da
quanto tempo sci li? -. Avevo un tono di voce talmente
alto che potevano sentirmi tutti.
Elliot si scostò dallo stipite ed entrò. Alla cieca, cercai di
spegnere il computer mentre farfugliavo: - Sto cercando di
farmi venire l'ispirazione per la recensione teatrale che
devo consegnare stasera -. Stavo ancora parlando troppo
velocemente. «Dov'era il pulsante?»
Elliot cercò di sbirciare alle mie spalle. - Recensioni
teatrali? Le mie dita sfiorarono un tasto e sentii il monitor
che si spegneva. - Scusa, cos'hai detto che facevi qui?
- Passavo e ti ho vista. C'è qualcosa che non va?
Sembri... agitata.
- Oh... un calo di zuccheri -. Raccolsi in un batter d'occhio
libri e quaderni e li ficcai nello zaino. - Non tocco cibo
dall'ora di pranzo.
Elliot afferrò una sedia da un tavolo vicino e la mise
accanto alla mia, si sedette a cavalcioni e si piegò verso
di me, invadendo il mio spazio. - Magari posso aiutarti con
la recensione.
Mi scostai. - Be', è molto carino da parte tua, ma credo
che per oggi possa bastare. Ho bisogno di fare una pausa
e mangiare qualcosa.
- Allora mi piacerebbe offrirti la cena - disse. - Non c'è una
tavola calda proprio qui dietro?
- Grazie, ma mia madre mi aspetta. È stata fuori città tutta
la settimana -. Mi alzai e cercai di girargli intorno. Lui mi
porse il cellulare e mi colpi all'altezza dell'ombelico.
- Chiamala.
Abbassai lo sguardo sul telefono e cercai di trovare una
scusa. - Non ho il permesso di uscire durante la
settimana.
- Si chiama mentire, Nora. Dille che hai bisogno di più
tempo
del previsto per fare i compiti, che hai bisogno di stare in
biblioteca ancora un'ora. Non se ne accorgerà nemmeno.
La voce di Elliot aveva una punta di fastidio che non
avevo mai sentito prima. Gli occhi blu mi fissavano con
freddezza, la bocca sembrava più sottile.
- Mia madre non vuole che esca con ragazzi che non
conosce - dissi.
Elliot sorrise, ma senza calore. - Sappiamo entrambi che
non ti preoccupi troppo delle regole di tua madre, visto
che sabato sera eri al Delphic con me.
Con lo zaino sulla spalla, la mano afferrato saldamente
alla cinghia, passai vicino a Elliot senza dire una parola.
Uscii dalla sala multimediale in fretta, pur sapendo che, se
avesse acceso il monitor, avrebbe visto l'articolo. Ormai
non potevo farci niente.
A metà corridoio mi fermai e mi arrischiai a gettare uno
sguardo indietro. Attraverso le vetrate, si vedeva la sala
multimediale. Vuota. Elliot era sparito. Tenendo gli occhi
ben aperti, tornai sui mici passi e riaccesi il computer:
l'articolo sull'indagine per omicidio era ancora là. Lo
stampai, lo infilai nel raccoglitore, chiusi la sessione e
uscii di volata.
12
Sentii il cellulare vibrarmi in tasca e, dopo aver controllato
che nessun bibliotecario mi stesse guardando storto,
risposi. - Mamma?
- Ho una bella notizia - disse. - L'asta si è conclusa prima
del previsto, Sono partita con un'ora di anticipo e dovrei
essere a casa tra poco. Dove sei?
- Ciao! Non ti aspettavo così presto, esco adesso dalla
biblioteca. Com'era la zona a nord di New York?
- Era... lunga -. Rise, ma sembrava sfinita- - Non vedo
l'ora di arrivare.
Mi guardai intorno in cerca di un orologio. Prima di andare
a casa volavo fermarmi in ospedale da Vee.
- Facciamo così - le dissi- - Devo andare a trovare Vee,
forse arrivo un po' più tardi, ma taccio in fretta, te lo
prometto.
- Certo -. Percepii un'ombra di delusone. - Ci sono novità?
Stamattina ho ricevuto il messaggio in cui mi dicevi
dell'operazione.
- L'operazione è finita, in questo momento la stanno
portando in camera.
- Nora -. La sua voce era carica di emozione. - Sono cosi
contenta che non sia capitato a te. Se ti succedesse
qualcosa non potrei mai perdonarmelo, soprattutto da
quando tuo padre... -. Si interruppe. - Insomma, sono
contenta che entrambe stiamo
bene. Salutami Vee. Ci vediamo dopo, ti mando tanti baci
e abbracci.
- Ti voglio bene, mamma.
Il Coldwater Regional Medicai Center è un edificio di
mattoni rossi a tre piani, con un vialetto coperto che
conduce all'ingresso principale. Superai le porte a vetro
girevoli e mi fermai all'ufficio informazioni per chiedere
notizie di Vee. Mi dissero che l'avevano trasferita in una
stanza da circa mezz'ora e che avevo solo un quarto
d'ora prima del termine dell'orario di visite. Localizzai gli
ascensori e spinsi il pulsante di salita.
Arrivata alla stanza 207, aprii la porta. - Vee? -. Riuscii
a far entrare dietro di me un grappolo di palloncini,
attraversai l'anticamera e trovai Vee adagiata sul letto, il
braccio sinistro ingessato e in trazione.
- Ciao! - esclamai, vedendo che era sveglia.
Vee emise un sospiro di piacere. - Adoro questi
farmaci, sono fantastici. Aaah, divino, meglio del
cappuccino. Ehi, ho fatto una rima. Divino e cappuccino.
Diventerò una poetessa. Vuoi sentire un'altra poesia?
Sono brava a improvvisare.
- Be'...
Entrò un'infermiera che si mise ad armeggiare con la
flebo di Vee. - Ti senti bene? - le chiese.
- Lascia perdere la poesia - disse Vee. - Diventerò una
grande cabarettista. Toc toc?
- Eh? - dissi.
L'infermiera alzò gli occhi al cielo. - Chi è?
- Nella - rispose Vee.
- Nella chi?
- Nell'angoscia, è morta Della.
- E diminuire i sedativi? - domandai all'infermiera.
- Troppo tardi, le ho appena dato un'altra dose. Aspetta di
vedere cosa succederà tra dieci minuti - e uscì dalla stanza.
- Allora? - chiesi a Vee. - Qual è il verdetto?
- Il verdetto? Il mio dottore è un culone. Sembra un Umpa
Lumpa. Preciso. Non guardarmi con la tua solita aria di rimprovero. L'ultima volta che è stato qui, mi ha fatto un balletto. E poi
mangia sempre cioccolata, continuamente. Soprattutto animali
di cioccolata. Sai quei coniglietti che vendono a Pasqua?
L'Umpa Lumpa ha cenato con uno di quelli. E a pranzo ha
mangiato una gallina di cioccolato con contorno di pulcini di
zucchero.
- Intendevo il verdetto... - indicai tutto l'armamentario
medico da cui era circondata.
- Ah. Braccio rotto, commozione cerebrale e tagli,
escoriazioni e contusioni varie. Fortunatamente, grazie ai miei
riflessi pronti, sono schizzata via prima che riuscisse a farmi
qualcosa di peggio. In fatto di riflessi, sono un gatto. Sono
Catwoman. Invulnerabile. È riuscito a farmi male solo per via
della pioggia. I gatti odiano la pioggia, ci indebolisce, è la
nostra kryptonite.
- Non sai quanto mi dispiace - le dissi con sincerità. - Avrei
dovuto esserci io in questo letto di ospedale.
- Per prendere tutte le mie medicine? Neanche per sogno.
- La polizia ha trovato qualche traccia?
- Nada, nisba, zero.
- Nessun testimone?
- Eravamo al cimitero nel bel mezzo del diluvio - fece notare
Vee. - Quasi tutta la gente normale era a casa.
Aveva ragione. La gente normale era a casa. Naturalmente
Vee e io eravamo fuori... insieme alla misteriosa ragazza che la
pedinava.
- Com'è andata? - chiesi.
- Camminavo in direzione del cimitero come stabilito, quando
all'improvviso ho sentito dei passi dietro di me - raccontò Vee.
- Si avvicinavano, così mi sono voltata. È successo tutto molto
in fretta: ho visto il bagliore di una pistola e lui che si lanciava
contro di me. Come ho detto ai poliziotti, il cervello non tra
smetteva informazioni tipo «Riconoscimento visivo in corso», ma
piuttosto «Oh, cavoli, qua mi fanno la festa!». Lui ha grugnito,
mi ha colpito tre o quattro volte con la pistola, ha afferrato la
borsa ed è scappato.
Ero più confusa che mai. - Aspetta. Era un uomo? L'hai
visto in faccia?
- Certo che era un uomo. Aveva gli occhi scuri, grigio scuro.
Ma ho visto solo quelli, perché indossava un passamontagna.
L'accenno al passamontagna provocò un'accelerazione dei
battiti del cuore. Era lo stesso tizio che era saltato sul cofano
della Neon, ne ero sicura. Non me l'ero immaginato, Vee ne
era la prova. Ricordai come tutte le tracce dell'incidente fossero
sparite: forse non avevo immaginato neanche quella parte.
Questo tizio, chiunque fosse, era reale. Ed era là fuori. Ma se
non avevo immaginato i danni subiti dall'automobile, cos'era
successo davvero quella notte? Forse la mia vista, o la mia
memoria, erano state in qualche modo... alterate?
Un attimo dopo, la mente mi si affollò di un mucchio di altre
domande. Che cosa voleva il tizio questa volta? Era d'accordo
con la ragazza appostata fuori dal negozio? Sapeva che sarei
andata a fare acquisti al molo? Se indossava il passamontagna,
significava che l'aggressione era stata pianificata, quindi sapeva
dove trovarmi. E non voleva che io lo riconoscessi.
- A chi hai detto che saremmo andate a fare shopping? –
chiesi all'improvviso.
Vee si ficcò un cuscino dietro la nuca per stare più comoda.
- A mia madre.
- Nessun altro?
- Forse l'ho accennato a Elliot.
Mi si gelò il sangue. - L'hai detto a Elliot?
- E allora?
Lei corrugò la fronte. - Sì?
- Non era un cervo, era un uomo. Un uomo con un passamontagna.
- Zitta, zitta - mormorò. - Mi stai dicendo che mi hanno
aggredito per un motivo? Mi stai dicendo che questo tizio vuole
qualcosa da me? No, aspetta. Vuole qualcosa da te. lo
indossavo il tuo giubbetto, credeva fossi tu.
Mi sentivo il corpo pesante come il piombo.
Seguì un lungo minuto di silenzio. - Sei sicura di non aver
parlato a Patch dei nostri programmi? Perché ora che ci
penso, credo che quel tizio corrispondesse proprio alla
corporatura di Patch: piuttosto alto, piuttosto magro, piuttosto
forte, piuttosto sexy... a parte il fatto che mi ha aggredito.
- Gli occhi di Patch non sono grigio scuro, ma neri - le feci
notare, anche se ero spiacevolmente consapevole di avere
infor
mato Patch dei nostri progetti di shopping.
Vee alzò una spalla. - Magari gli occhi erano neri, non
riesco a ricordarlo. E successo tutto davvero in fretta. Posso
essere più precisa sulla pistola - disse in tono pratico. - Era
puntata contro di me. Dritta contro di me.
Rimisi insieme un po' di tasselli. Se Patch aveva aggredito Vee,
significava che l'aveva vista uscire dal negozio con indosso il
mio giubbetto e aveva pensato fossi io. Quando si era accorto
di aver seguito la ragazza sbagliata, per la rabbia aveva colpito
Vee con la pistola e si era dileguato. L'unico problema era che
non riuscivo a immaginare Patch che faceva del male a Vee.
Non mi sembrava da lui. E poi, avrebbe dovuto essere a Una
festa sulla costa per tutta la sera.
- Per caso, il tuo aggressore somigliava a Elliot? - chiesi.
Guardai Vee mentre assorbiva la domanda. Evidentemente
le
medicine le rallentavano l'attività cognitiva, perché potevo
sentire tutti gli ingranaggi del suo cervello al lavoro.
- Era circa dieci chili più magro e dieci centimetri più alto di
Elliot.
- È tutta colpa mia - mormorai. - Non avrei mai dovuto
lasciarti uscire dal negozio con il mio giubbetto e...
- So che non vorresti sentirtelo dire - mi interruppe Vee.
Sembrava stesse lottando contro uno sbadiglio - ma più ci penso, più vedo somiglianze tra Patch e il mio aggressore. Stessa
corporatura, stessa falcata. Purtroppo il suo fascicolo
scolastico era inesistente. Abbiamo bisogno di un indirizzo,
dobbiamo studiare i suoi vicini. Ci serve una nonnina credulona
che si lasci convincere a montare una webcam da puntare
sulla casa di Patch. Perché c'è qualcosa in lui che non mi
convince.
- Pensi davvero che avrebbe potuto farti questo? - chiesi,
ancora scettica.
Vee si morse il labbro. - Io credo che nasconda qualcosa.
Qualcosa di grosso.
A questo non potevo ribattere.
Vee sprofondò ancora di più nel letto. - Sono tutta un formicolio, è una sensazione fantastica.
- Non abbiamo alcun indirizzo - dissi - però sappiamo dove
lavora.
- Stai pensando quello che penso io? - chiese Vee, con un
lampo di luce negli occhi.
- Considerate le esperienze precedenti, spero di no.
- Dobbiamo solo perfezionare il nostro metodo investigativo,
scoprire qualcosa sul passato di Patch e... Ehi! Scommetto
che, se documentiamo la ricerca, il coach ci darà dei crediti
extra.
Altamente improbabile. Essendo coinvolta Vee, le indagini
avrebbero finito per prendere una piega illegale. Per non
parlare del fatto che questa ricerca non avrebbe avuto niente a
che fare con la biologia.
Il mezzo sorriso che Vee era riuscita a tirarmi fuori era
svanito. Forse per lei poteva essere divertente affrontare con
leggerezza la situazione, ma io ero terrorizzata. Il tizio con il
passamontagna esisteva davvero e forse stava già
pianificando la prossima aggressione. E forse Patch non era
estraneo a quello che stava succedendo. Quell'uomo era
saltato sulla Neon il giorno dopo che Patch era diventato il mio
nuovo compagno di banco. Era una coincidenza?
In quel momento, l'infermiera fece capolino nella stanza.
- Sono le otto - mi informò, battendo un dito sull'orologio.
- L'ora di visita è terminata.
- Esco subito.
Non appena i suoi passi si spensero in fondo al corridoio,
richiusi la porta. Non volevo che qualcuno sentisse ciò che
avevo da dire riguardo all'indagine per omicidio in cui era
coinvolto Elliot. Però, quando tornai al letto di Vee, mi accorsi
che la flebo aveva fatto effetto.
- Ecco che arriva... - disse con un'espressione di pura
beatitudine. - L'assalto dei sedativi... da un momento all'altro...
l'ondata di calore... addio sofferenza...
- Vee
- Toc toc?
- Vee. è importante...
- Toc toc?
- Si tratta di ELLIOT...
- Toc toooc? - ripetè con tono
cantilenante. Sospirai. - Chi è?
- Nella.
- Nella chi?
- Nell'attesa di fare la nanna - e scoppio in una risata
isterica. Dal momento che era inutile insistere» dissi: Chiamami
domani, dopo che ti avranno dimessa -, Aprii lo :zaino. Quasi dimenticavo, ti ho portato i compiti. Dove vuoi che li
metta? Indicò il cestino dei rifiuti- - Li va benissimo.
Parcheggiai la Fiat e mi misi le chiavi in tasca. Avevo
guidato sotto un ciclo privo di stelle e una pioggerella
sortile. Tirai giù la porta del garage, la chiusi a chiave ed
entrai in cucina. C'era la luce accesa al piano di sopra.
Un attimo dopo, mia madre corse giù dalle scale e mi
gettò le braccia al collo.
Mia madre ha i capelli scuri e mossi, gli occhi verdi- E
un paio di centimetri più bassa dì me, ma abbiamo la
stessa corporatura. E profuma sempre di "Love* di Ralph
Lauren.
- Sono così contenta che tu sìa al sicuro - sussurrò,
stringendomi forte.
«Al quasi-sicuro» pensai.
13
La sera dopo, alle sette, il parcheggio del Borderline era
strapieno. Dopo quasi un'ora di preghiere, Vee e io
avevamo convinto i suoi genitori che avevamo bisogno di
festeggiare la sua prima serata fuori dall'ospedale con
chiles rellenos e daiquiri analcolici alla fragola. Questo
almeno era quello che avevamo sostenuto. In realtà,
avevamo un secondo fine.
Infilai la Neon in un posteggio stretto e spensi il
motore.
- Aah! - esclamò Vee quando, nel passarle le chiavi, le
nostre dita si sfiorarono. - Credi che potresti sudare un pò
più di così?
- Sono nervosa,
- Cavolo, non me n'ero accorta.
Con aria distratta, guardai la
portiera.
- So che cosa stai pensando - disse Vee a labbra
strette. - E la risposta è no. Neanche per sogno.
- Tu non sai cosa sto pensando.
Mi strinse il braccio. - Eccome se lo so- Non avevo intenzione di scappare.
- Bugiarda,
li martedì Patch aveva la serata libera, e Vee mi aveva
convinta che sarebbe stato il momento giusto per
interrogare ) suoi colleghi. Mi ero immaginata mentre mi
avvicinavo ancheggiando al bar, scoccavo al barista
un'occhiata svenevole alla Marcie Millar e mi
mettevo a parlare di Patch. Dovevo avere il suo indirizzo.
Dovevo sapere se fosse mai stato arrestato. Dovevo
sapere se c'era un collegamento, anche minimo, con il
tizio con il passamontagna. E dovevo capire perché quel
tizio e la ragazza misteriosa erano entrati nella mia vita.
Sbirciai nella borsa per controllare di aver portato
l'elenco di domande che avevo preparato. Su un lato del
foglio avevo scritto le cose da chiedere sulla vita privata
di Patch, sul retro una serie di frasi da flirt, per sicurezza.
- Ferma un po' - disse Vee. - Quello cos'è?
- Niente - risposi e piegai il foglio.
Vee cercò di afferrarlo, ma io fui più veloce e riuscii a
ficcarlo in fondo alla borsa.
- Regola numero uno - disse Vee. - Nell'arte di flirtare,
niente è più sbagliato degli appunti.
- Ogni regola ha la sua eccezione.
- E non sei tu! -. Prese due sacchetti di plastica dal
sedile posteriore e scese dall'automobile. Appena fui
scesa anch'io, con il braccio sano me li lanciò al di sopra
della Neon.
- Cosa sono? - chiesi, afferrandoli al volo. Non riuscivo
a vedere cosa contenessero perché i manici erano legati,
ma la punta inconfondibile di un tacco a spillo minacciava
di uscire dalla plastica.
- Trentanove e mezzo - disse Vee. - Pelle di zigrino, è
una specie di squalo. Se hai l'aspetto giusto, è più facile
interpretare una parte.
- Non so camminare sui tacchi alti.
- Meno male che non sono alti, allora.
- Sembrano alti - obiettai, guardando con sospetto la
punta che sporgeva dal sacchetto.
- Quasi dieci centimetri. Quelli sopra i dodici sono alti.
Fantastico. Se riuscivo a non rompermi l'osso del collo, mi
sarei umiliata a sedurre i colleghi di Patch per estorcergli i suoi
segreti.
- Questo è il piano - iniziò Vee mentre raggiungevamo l'entrata. - Ho invitato un paio di persone. Più siamo più ci divertiamo, giusto?
- Chi? - chiesi, con un cupo presentimento alla bocca dello
stomaco.
- Jules e Elliot.
Prima che avessi il tempo di confessare a Vee fino a che
punto pensavo fosse sbagliata quell'idea, lei esclamò: Momento della confessione. Ho... diciamo... frequentato Jules.
Di nascosto.
- Cosa?
- Dovresti vedere casa sua. I suoi genitori sono boss della
droga sudamericani, oppure discendono da una famiglia
davvero ricca. Siccome non li ho ancora conosciuti, non saprei
quale delle due ipotesi è quella giusta.
Ero senza parole. Aprivo e chiudevo la bocca, ma non
usciva neanche una sillaba. - Quando è successo? - riuscii
finalmente a farfugliare.
- Subito dopo la fatidica mattina da Enzo.
- Fatidica? Vee, tu non hai neanche idea...
- Spero siano già arrivati e abbiano preso un tavolo - disse
mentre allungava il collo per vedere al di sopra delle persone
che affollava l'ingresso. - Non voglio aspettare. Mi rimangono
solo due minuti esatti prima di morire di fame.
Afferrai Vee per il gomito sano e la spinsi da parte. - Devo
dirti una cosa.
- Lo so, lo so - protestò. - Pensi che ci sia una remota
possibilità
che sia stato Elliot ad aggredirmi domenica sera. Be', penso tu
ti confonda con Patch. E dopo le tue indagini di stasera, i fatti
mi daranno ragione. Credimi, voglio scoprire chi mi ha
aggredito forse più di te. È diventata una questione personale.
E visto che siamo in vena di consigli, ecco il mio: sta' lontana
da Patch. Tanto per vivere tranquille.
- Sono contenta che tu sia arrivata a questa conclusione sbottai. - Comunque quello che volevo dirti è che ho trovato
un articolo...
Le porte del Borderline si aprirono. Fummo avvolte da una
ventata di calore profumata di lime e coriandolo, e dal suono di
un'orchestrina mariachi.
- Benvenute al Borderline - ci salutò la direttrice di sala.
- Siete solo in due stasera?
Elliot era proprio dietro di lei, nell'atrio semibuio. Ci
vedemmo nello stesso istante. Mi sorrise, ma gli occhi
restarono seri.
- Signore - disse, fregandosi le mani mentre si avvicinava.
- Incantevoli come sempre.
Sentii un formicolio sulla pelle.
- Dov'è il tuo compare? - chiese Vee, guardandosi intorno.
Lanterne di carta pendevano dal soffitto e un murale
raffigurante un pueblo messicano copriva due pareti. Il locale
era strapieno, ma non c'era traccia di Jules.
- Brutte notizie - disse Elliot. - Non sta bene. Dovrete accontentarvi di me.
- Non sta bene? - domandò Vee. - Come non sta bene?
Che razza di scusa è non sta bene?
- Non sta bene nel senso che "perde" da entrambe le
uscite.
Vee arricciò il naso. - Troppe informazioni.
Stavo ancora digerendo il fatto che ci fosse qualcosa tra lei
e Jules, il quale dava l'impressione di essere scontroso, cupo e
totalmente disinteressato alla compagnia di Vee o a quella di
chiunque altro. Non mi sentivo affatto tranquilla all'idea che Vee
passasse del tempo da sola con quel tizio. Non necessariamente
per via del fatto che fosse sgarbato o che lo conoscessi cosi poco,
quanto per l'unica cosa che sapevo sul suo conto: era amico
intimo di Elliot.
La direttrice prese tre menu e ci accompagnò a un tavolo così
vicino alla cucina che il calore dei fornelli passava attraverso i
muri. Alla nostra sinistra c'era il banco delle salse; a destra, delle
porte a vetri, velate di condensa, si affacciavano su un cortile
interno. Avevo già la camicetta appiccicata alla schiena, ma forse
più per le notizie su Vee e Jules che per il calore.
- Va bene? - chiese la direttrice indicando il tavolo.
- Perfetto - rispose Elliot mentre si liberava del giubbotto. Adoro questo posto. Se non bastasse il calore del locale, ci
penserebbe il cibo a farci sudare.
Il volto della donna si illuminò. - Siete già stati qui, allora. Per
cominciare, posso portarvi delle patatine fritte con la nostra
nuovissima salsa jalapeno? E la più piccante che abbiamo.
- Mi piacciono le cose piccanti - disse Elliot.
Si stava proprio comportando in modo viscido. Ero stata fin
troppo generosa a pensare che non fosse meschino quanto
Marcie. Ero stata fin troppo generosa nel giudicarlo, punto e
basta. Specialmente ora che sapevo che nascondeva un'indagine
per omicidio e chissà quali altri scheletri nell'armadio.
La direttrice lo soppesò con lo sguardo. - Vi porto subito le
patatine e la salsa. La vostra cameriera verrà presto per le ordinazioni.
Vee fu la prima a lasciarsi cadere sulla panca; io scivolai
accanto
a lei ed Elliot prese posto di fronte a me. Vidi una luce sinistra
nei suoi occhi. Risentimento, forse addirittura ostilità. Mi chiesi
se sapeva che avevo visto l'articolo.
- Il viola è proprio il tuo colore, Nora - disse, e indicò con
un cenno del capo la sciarpa che mi stavo togliendo per legarla
al manico della borsa. - Ti illumina gli occhi.
Vee mi diede un colpetto con il piede: pensava davvero che
volesse farmi un complimento.
- Allora - mi rivolsi a Elliot con un sorriso falso - perché non
ci racconti della Kinghorn Prep?
- Si - intervenne Vee. - Ci sono delle società segrete? Come
nei film?
- Non c'è molto da dire. Scuola fantastica. Fine della storia . Prese un menu e iniziò a studiarlo. - Qualcuna di voi prende
l'antipasto? Offro io.
- Se è così fantastica, perché ti sei trasferito? -. Incrociai il
suo sguardo e lo sostenni, alzando leggermente le sopracciglia
in segno di sfida.
Prima di schiudersi in un sorriso, la bocca di Elliot ebbe un
piccolissimo scatto. - Le ragazze. Ho sentito che da queste
parti erano più belle. E le voci si sono rivelate vere -. Mi fece
l'occhiolino mentre un'ondata di gelo mi entrava nelle ossa.
- Perché non si è trasferito anche Jules? - chiese Vee. Avremmo potuto essere i fantastici quattro, anzi meglio, i mitici
quattro.
- I genitori di Jules hanno l'ossessione dell'istruzione del
figlio. La parola "impegnativa" non dà neanche l'idea di quello
che intendono. Giuro sulla mia vita che arriverà lontano, niente
e nessuno può fermarlo. Io vado bene a scuola, lo ammetto.
Meglio della maggior parte dei ragazzi che conosco, ma
nessuno batte Jules. Lui è un dio.
Vee riacquistò il suo sguardo sognante. - Non ho mai incontrato i suoi genitori - disse. - Sono stata da lui due volte, ed
erano fuori città o al lavoro.
- Sono molto impegnati - confermò Elliot, abbassando gli
occhi sul menu.
- Dove lavorano? - chiesi.
Elliot bevve una lunga sorsata d'acqua. Ebbi l'impressione
che stesse prendendo tempo. - Diamanti. Passano moltissimo
tempo in Africa e in Australia.
- Non sapevo che l'Australia commerciasse in diamanti dissi.
- Già, nemmeno io - mi fece eco Vee.
Infatti, non sapevo che l'Australia fosse famosa per il commercio di diamanti. Punto.
- E perché vivono nel Maine e non in Africa? - chiesi.
Elliot si mise a studiare il menu con più attenzione. - Cosa
prendete? Le fajitas di carne sembrano buone.
- Be', se lavorano nel settore dei diamanti, sapranno
sceglie
re l'anello di fidanzamento perfetto - esultò Vee. - Ho sempre
desiderato un solitario con taglio a smeraldo.
Diedi un calcio a Vee sotto il tavolo. Lei mi infilzò con la
forchetta.
-Ahi!
La cameriera si fermò al tavolo abbastanza a lungo da
chiedere: - Qualcosa da bere?
Elliot guardò al di sopra del suo menu, prima me e poi Vee.
- Una Diet Coke - disse Vee.
- Acqua con una fettina di limone, per favore - chiesi io.
La cameriera tornò a velocità strabiliante con le bibite. Il
suo arrivo segnava il momento in cui avrei dovuto alzarmi per
mettere in atto la fase uno del "Piano" e Vee me lo ricordò con
un'altra forchettata.
- Vee - dissi tra i denti - ti dispiacerebbe accompagnarmi
alla toilette? -. Improvvisamente, non volevo più procedere con
il Piano. Non volevo lasciare Vee sola con Elliot. Avevo pensato
di trascinarla via con una scusa, raccontarle dell'indagine per
omicidio e poi trovare un modo per far sparire Elliot e Jules
dalle nostre vite.
- Perché non vai da sola? - protestò lei. - Credo sarebbe un
piano migliore -. Mosse di scatto la testa in direzione del bar e
a fior di labbra pronunciò la parola «vai», mentre a gesti, di
nascosto, mi invitava a smammare.
- Avevo pianificato di andare da sola, ma vorrei tanto che tu
venissi con me.
- Ma come fate voi ragazze? - disse Elliot sorridendo. Giuro, non ho mai conosciuto una ragazza che fosse capace di
andare in bagno da sola -. Si piegò in avanti e, con aria
cospiratrice, aggiunse: - Mettetemi a parte del segreto. Dico sul
serio. Vi do cinque dollari a testa -. Prese il portafogli dalla
tasca dei pantaloni. - Dieci se posso venire a vedere di che
cosa si tratta.
Vee gli rivolse un sorriso smagliante. - Pervertito. Non dimenticare queste - disse a me, mettendomi in mano i sacchetti
di plastica.
Elliot sollevò le sopracciglia.
- Spazzatura - spiegò Vee storcendo il naso. - Il nostro
bidone
dell'immondizia è pieno e mia madre mi ha chiesto di buttarla
strada facendo.
Elliot non sembrò crederle e Vee non sembrò curarsene. Mi
alzai con le mani cariche di sacchetti, cercando di non
mostrare la cocente delusione.
Zigzagando tra i tavoli, presi il corridoio che portava alla toilette. Le pareti del corridoio erano color mattone, decorate con
maracas, cappelli di paglia e bamboline di legno. Faceva ancora
più caldo lì e dovetti asciugarmi la fronte. Il Piano adesso
prevedeva che sbrigassi quella faccenda il più velocemente
possibile. Poi, una volta tornata al tavolo, avrei trovato una
scusa per andare via e avrei trascinato Vee con me. Che lo
volesse oppure no.
Dopo aver sbirciato sotto i tre box della toilette ed essermi
accertata che non ci fosse nessuno, chiusi a chiave la porta
principale e svuotai le buste sul ripiano. Una parrucca biondo
platino, un reggiseno a push-up rosso, un top nero, una
minigonna con i lustrini, calze a rete rosa shocking e un paio di
scarpe con i tacchi a spillo misura trentanove e mezzo.
Rimisi il reggiseno, il top e le calze in uno dei sacchetti. Dopo
essermi liberata dei jeans, indossai la minigonna, infilai i capelli
sotto la parrucca e mi misi il rossetto. Completai l'opera con
una generosa passata di lucidalabbra.
- Puoi farcela - dissi al mio riflesso, chiudendo di scatto
l'astuccio del lucidalabbra. - Tira fuori la Marcie Millar che è in
te. Seduci in cambio di segreti. Sarà tanto difficile?
Mi tolsi con un calcio i mocassini, li ficcai nell'altro sacchetto
insieme ai jeans e lo spinsi sotto un ripiano, ben nascosto. - E
poi - continuai, - non c'è niente di male a sacrificare un po' di
orgoglio per ottenere delle informazioni. Se poi vogliamo guardare
la questione da un punto di vista morboso, potremmo dire che,
se non ottieni delle risposte, potresti finire con il rimetterci la
pelle. Perché, che ti piaccia o no, c'è qualcuno là fuori che
vuole farti del male.
Feci dondolare le scarpe di pelle di zigrino davanti agli occhi. Non
erano la cosa più brutta che avessi mai visto, potevano
addirittura
essere considerate sexy. Lo Squalo attacca Coldwater, Maine.
Le infilai e feci un po' di pratica camminando avanti e indietro.
Due minuti dopo, mi arrampicavo con cautela su uno degli
sgabelli del bar.
Il barista mi squadrò. - Sedici? - tirò a indovinare.
- Diciassette?
Sembrava più grande di me di una decina d'anni. I capelli
castani, che portava cortissimi, stavano cominciando a
diradarsi. Dal lobo destro pendeva un cerchio d'argento.
Maglietta bianca e Levi's. Non male... ma niente di che.
- Non sono una minorenne che beve alcolici - gridai per sovrastare la musica e le voci. - Sto aspettando un amico e da qui
tengo d'occhio la porta -. Recuperai la lista di domande dalla
borsa e, di nascosto, la misi sotto una saliera.
- Cos'è quello? - chiese il barista indicando la lista con un
cenno del capo, mentre si asciugava le mani su uno
strofinaccio.
La feci scivolare ancora più sotto la saliera. - Niente - dissi
con aria innocente.
Lui alzò un sopracciglio.
Decisi di dare un'interpretazione approssimativa della verità.
- È... la lista della spesa. Al ritorno, devo passare a prendere
delle
cose per mia madre -. «E questo lo chiami flirtare?» mi chiesi.
«Che ne è stato di Marcie Millar?»
Mi scrutò con attenzione, cosa che valutai non del tutto
negativa. - Dopo cinque anni di questo lavoro, sono piuttosto
bravo a riconoscere i bugiardi.
- Io non sono una bugiarda - protestai. - Forse ti ho mentito
un attimo fa, ma ho detto una piccola bugia. Una piccola bugia
non fa di me una bugiarda.
- Sembri una reporter - disse.
- Lavoro per l'e-zine del mio liceo -. Avrei voluto prendermi
a schiaffi. I reporter non ispirano fiducia, la gente li guarda
sempre con sospetto. - Ma stasera non lavoro - aggiunsi subito.
- Stasera, solo piacere. Niente affari, niente intenzioni nascoste,
niente di niente.
Dopo un momento di silenzio, decisi che la cosa migliore da
fare era andare avanti. Mi schiarii la voce e dissi: - Il Borderline
assume molti liceali?
- Sì, ce ne sono parecchi. Cameriere, inservienti... mansioni di
questo tipo.
- Davvero? - esclamai, fingendomi sorpresa. - Forse conosco
qualcuno. Dimmi qualche nome.
Il barista rivolse lo sguardo al soffitto e si grattò la barba corta
e ispida. Il suo sguardo vuoto non mi ispirava fiducia. E oltretutto
non avevo tanto tempo a disposizione. Elliot avrebbe potuto
mettere chissà quale droga mortale nella Diet Coke di Vee.
- Patch Cipriano? - chiesi. - Lavora qui?
- Patch? Sì, lavora qui un paio di sere e durante i fine settimana.
- Ha lavorato domenica sera? -. Cercai di non sembrare
troppo curiosa, ma avevo bisogno di sapere se era possibile che
Patch si trovasse al molo. Aveva detto di avere una festa sulla
costa, ma forse aveva cambiato programma. Se qualcuno avesse
confermato che domenica sera era al lavoro, avrei potuto
escludere ogni suo coinvolgimento nell'aggressione di Vee.
- Domenica? -. Si grattò ancora. - Faccio un po' di confusione
tra le varie serate. Prova a chiedere alle cameriere. Una di loro se
lo ricorderà di sicuro. Quando è di turno, non fanno che
ridacchiare e andare su di giri -, Sorrise come se potessi in
qualche modo solidarizzare con loro.
- Per caso conosci il suo indirizzo?
- Assolutamente no.
- Solo per curiosità, - continuai - sai se si può essere assunti
qui se hai commesso un delitto?
- Un delitto? -. Scoppiò a ridere. - Stai scherzando?
- Okay, magari non proprio un delitto, ma un reato minore?
Si appoggiò al banco con le mani aperte e si piegò verso di
me. - No -. Il suo tono era passato dal divertito all'offeso.
- Bene. Buono a sapersi -. Mi sistemai meglio sullo sgabello e
sentii la pelle delle cosce attaccarsi al vinile. Stavo sudando. Se la
regola numero uno nell'arte di flirtare vietava gli appunti, ero ra
gionevolmente sicura che quella numero due vietasse di sudare.
Consultai la mia lista.
- Sai se Patch ha mai avuto degli ordini restrittivi? Se ha un
passato da molestatore? -. Sospettai che il barista stesse ricevendo delle vibrazioni negative da me, così decisi di lasciar perdere
tutte le altre domande e fare un ultimo tentativo prima che mi
mandasse a quel paese. Peggio, che mi facesse cacciare dal ristorante. - Ha una ragazza? - dissi tutto d'un fiato.
- Vai a chiederglielo.
Restai interdetta. - Stasera non lavora.
Il sorriso del barista mi fece aggrovigliare lo stomaco.
- Non lavora stasera... vero? - chiesi con la voce un'ottava più
alta rispetto al mio solito tono. - Dovrebbe avere il martedì libero.
- Di solito sì, ma stasera sostituisce Benji, che è in ospedale
con la peritonite.
- Vuoi dire che Patch è qui? In questo momento? -. Mi guardai
alle spalle cercando di nascondermi nella parrucca e contemporaneamente scrutando il ristorante.
- È andato in cucina due minuti fa.
Ero già smontata dallo sgabello. - Credo di aver lasciato le
luci dell'auto accese, ma è stato fantastico parlare con te! -. Mi
precipitai in bagno alla velocità della luce.
Una volta dentro, chiusi a chiave la porta e mi ci appoggiai
di spalle, feci una serie di respiri profondi, quindi andai al
lavandino e mi spruzzai l'acqua fredda sul viso. Patch avrebbe
scoperto che l'avevo spiato. La mia memorabile interpretazione
non sarebbe passata inosservata. Di primo acchito, era una
cosa negativa perché... be', era umiliante. E poi bisognava
ammettere che Patch era molto riservato. E alle persone
riservate non piace che si ficchi il naso nella loro vita. Come
avrebbe reagito scoprendo che lo stavo osservando con la
lente d'ingrandimento?
Mi chiedevo anche come avevo potuto arrivare a tanto, dal
momento che dentro di me non credevo affatto che lui fosse il
tizio con il passamontagna. Per quanti oscuri e inquietanti
segreti nascondesse, quello non era possibile.
Chiusi il rubinetto, alzai lo sguardo e vidi il viso di Patch
riflesso nello specchio. Urlai e mi voltai di scatto.
Non sorrideva e non sembrava divertito.
- Che ci fai qui? - farfugliai.
- Lavoro.
- Voglio dire qui. Non sai leggere? Il cartello sulla porta...
- Comincio a pensare che tu mi stia pedinando. Ovunque mi
giri, ci sei tu.
- Volevo portare fuori Vee ~ spiegai. - È stata in ospedale -.
Sembravo sulla difensiva, il che sicuramente mi dava un'aria
ancora più colpevole. - Non avrei mai immaginato di incontrarti,
dovrebbe essere il tuo giorno libero. E poi la verità è che
ovunque io mi giri, ci sei tu.
Gli occhi di Patch, attenti, intimidatori, scavavano nei miei.
Soppesavano ogni mia parola, ogni mio gesto.
- Mi spieghi quei capelli?
Mi strappai la parrucca e la lanciai sul ripiano.* - Mi spieghi
dove sei finito? Hai saltato gli ultimi due giorni di scuola.
Ero quasi certa che Patch non mi avrebbe raccontato i fatti
suoi, invece disse: - A giocare a paintball. Che stavi facendo al
bar?
- Parlavo con il barista. È un reato? -. Con una mano sul
ripiano per tenermi in equilibrio, alzai il piede per slacciarmi il
cinturino della scarpa. Nel chinarmi, il foglietto con la lista di
domande che avevo infilato nella scollatura cadde a terra.
Mi inginocchiai per raccoglierlo, ma Patch fu più svelto. Lo
prese e lo tenne in alto, sopra la testa, mentre io saltellavo per
riuscire ad acchiapparlo.
- Ridammelo! - dissi.
- Patch ha mai avuto un ordine restrittivo? - lesse. - Patch è
un criminale?
- Ridammelo subito! - sibilai furiosa.
Rise sommessamente. Capii che aveva letto la domanda
successiva. - Patch ha una ragazza?
Si mise il foglietto nella tasca dei pantaloni. Fui molto
tentata di prenderlo, nonostante il punto in cui si trovava.
Si appoggiò di schiena al ripiano e portò gli occhi alla stessa
altezza dei miei. - Invece di andare in giro a chiedere informazioni sul mio conto, preferirei che chiedessi le cose
direttamente a me.
- Quelle domande - dissi, indicando con un cenno della
mano il posto in cui le aveva nascoste - erano uno scherzo. Le
ha scritte Vee - aggiunsi grazie a un'ispirazione improvvisa. - E
tutta colpa sua.
- Conosco la tua calligrafia, Nora.
- Va bene, va bene, ascolta - iniziai, sperando di farmi
venire in mente qualcosa di intelligente, ma ci misi troppo
tempo e persi l'occasione.
- Niente ordini restrittivi - disse. - Nessun crimine.
Alzai il mento. - Ragazza? -. Ripetei a me stessa che non
mi importava come avesse risposto. Una risposta valeva
l'altra.
- Non sono affari tuoi.
- Hai cercato di baciarmi - gli ricordai. - Quindi sono anche
affari miei.
Sulla sua bocca si disegnò l'ombra del suo irresistibile
sorriso da cattivo ragazzo. Ebbi l'impressione che stesse
rievocando ogni singolo dettaglio di quel quasi bacio,
compreso il mio sospiro-barra-gemito.
- Ex-ragazza - disse un attimo dopo.
Un pensiero improvviso mi attraversò la mente. E se la
ragazza che mi aveva seguita a Delphic e da Victoria's Secret
fosse la ex di Patch? Magari mi aveva vista parlare con lui alla
sala giochi e aveva pensato che tra me e lui ci fosse più di
un'amicizia. Se avesse provato ancora qualcosa per lui,
avrebbe potuto ingelosirsi al punto da seguirmi. Sembrava che
le tessere del puzzle cominciassero ad andare a posto.
E poi Patch aggiunse: - Ma non c'è più.
- Che significa che non c'è più?
- Se n'è andata. Non tornerà più.
- Vuoi dire... che è morta? - chiesi.
Patch non negò.
Mi si attorcigliò lo stomaco. Non mi sarei mai aspettata una
cosa del genere. Patch aveva una ragazza e ora era morta.
La porta venne scossa da qualcuno che cercava di entrare;
avevo dimenticato di averla chiusa a chiave. Il che mi portò a
chiedermi come avesse fatto Patch a entrare: o aveva una
chiave, o c'era un'altra spiegazione. Una spiegazione a cui
probabilmente non volevo neanche pensare, tipo scivolare
sotto la porta come l'aria. Come il fumo.
- Devo tornare al lavoro -. Mi squadrò dalla testa ai piedi,
indugiando un po' sotto i fianchi. - Gonna da urlo. Gambe da
paura.
Prima che riuscissi a mettere insieme un pensiero di senso
compiuto, era già fuori.
La donna anziana che aspettava di entrare mi guardò, poi
guardò Patch con la coda dell'occhio mentre si allontanava lungo il corridoio, e mi disse: - Tesoro, quel tipo sembra sfuggente
come il sapone.
- Ottima descrizione - mormorai.
Lei si sistemò i ricci grigi e corti. - Una ragazza ci si laverebbe
volentieri con un sapone cosi.
Dopo essermi rimessa i miei vestiti, tornai al tavolo e mi
sedetti accanto a Vee. Elliot guardò l'orologio e inarcò un sopracciglio.
- Mi spiace di averci messo così tanto - dissi. - Mi sono
persa qualcosa?
- No - rispose Vee. - Niente di che -. Mi diede un colpetto
con il ginocchio. La domanda era implicita: «Tutto bene?».
Prima che riuscissi a rispondere con un altro colpetto, Elliot
intervenne: - La cameriera è arrivata mentre non c'eri. Ti ho
ordinato un burrito -. Le sue labbra si piegarono in un sorrisetto
da far accapponare la pelle.
Presi la palla al balzo.
- Veramente non sono sicura di avere fame -. Sfoggiai
un'espressione nauseata, ma non troppo, in modo da non
risultare falsa. - Credo di aver preso lo stesso virus di
Jules.
- Oddio - esclamò Vee. - Stai
bene?
Scossi il capo.
- Cerco la cameriera e le dico di mettere il cibo in un
sacchetto da portare via - suggerì Vee mentre rovistava
nella borsa in cerca delle chiavi.
- E io? - disse Elliot tra il serio e lo spiritoso.
- Facciamo un'altra volta? - disse
Vee.
«Certo» pensai.
14
Tornai alla fattoria poco prima delle otto. Feci girare la chiave nella
serratura, afferrai la maniglia della porta e spinsi forte con un
fianco. Avevo chiamato mia madre qualche ora prima di cena; era
in ufficio, doveva sbrigare delle faccende e non sapeva quando
sarebbe tornata, quindi mi aspettavo di trovare la casa silenziosa,
buia e fredda.
Al terzo spintone, la porta cedette. Lanciai la borsa alla cieca e
poi mi misi a litigare con la chiave, rimasta incastrata nella
serratura. Dalla sera in cui Patch era stato lì, la serratura aveva
sviluppato una tendenza divoratrice. Chissà se anche Dorothea se
n'era accorta.
- Ridammi... questa... stupida... chiave - dissi, muovendola
un po' finché non venne via.
La pendola dell'ingresso suonò le ore, e otto lunghi rintocchi
echeggiarono nel silenzio. Entrai in soggiorno con l'intenzione di
accendere il fuoco nella stufa a legna, quando, dall'altra parte
della stanza, arrivò un fruscio e un leggero scricchiolio. Urlai.
- Nora! - esclamò mia madre, gettando in aria una coperta e
mettendosi a sedere di scatto sul divano. - Che succede?
Con una mano aperta sul cuore e l'altra appoggiata al muro,
dissi: - Mi hai spaventata!
- Mi sono addormentata. Se ti avessi sentita arrivare ti avrei
detto almeno "ciao" -. Si scostò i capelli dal viso e sbatté le palpebre come fanno i gufi. - Che ora è?
Crollai sulla poltrona più vicina e cercai di riportare i battiti del
cuore a un ritmo regolare. La mia immaginazione aveva evocato un
paio di occhi spietati dietro un passamontagna. Ora che ero sicura
che non si trattava della mia immaginazione, avevo un desiderio
incontrollabile di raccontare tutto a mia madre, dall'incidente con la
Neon all'aggressione di Vee. Qualcuno mi stava perseguitando, ed
era violento. Avremmo cambiato le serrature alle porte e ovviamente
avremmo coinvolto la polizia. Di notte mi sarei sentita molto più al
sicuro con un agente parcheggiato davanti casa.
- Volevo aspettare a parlartene - disse mia madre, interrompendo
i miei pensieri - ma non credo ci sia un momento giusto per farlo.
Aggrottai la fronte. - Che succede?
Lei emise un lungo, triste sospiro. - Sto pensando di mettere in
vendita la fattoria.
- Cosa? Perché?
- Facciamo sacrifici da un anno e io non sto guadagnando quanto
avrei sperato. Ho pensato di cercare un secondo lavoro, ma
sinceramente non credo che le ore di una giornata basterebbero -.
Rise, ma non c'era traccia di umorismo nelle sue parole. - La paga di
Dorothea è modesta, ma si tratta pur sempre di denaro in più che
non abbiamo. L'unica alternativa che mi è venuta in mente è
traslocare in una casa più piccola. O in un appartamento.
- Ma questa è la nostra casa -. Tutti i miei ricordi erano lì. Il
ricordo di mio padre era lì. Non riuscivo a credere che lei potesse
provare dei sentimenti diversi. Avrei fatto qualsiasi cosa fosse
necessaria pur di rimanere.
- Mi do altri tre mesi di tempo, - disse - ma non voglio che tu ti
faccia troppe illusioni.
In quel momento capii che non potevo parlare a mia madre del tizio
con il passamontagna. Avrebbe lasciato il lavoro l'indomani
e accettato un posto vicino a casa e a quel punto, non
avremmo avuto altra scelta che vendere la fattoria.
- Parliamo di qualcosa di più allegro - continuò mentre
si sforzava di sorridere. - Com'è andata la cena?
- Bene - risposi imbronciata.
- E Vee? Si sta riprendendo?
- Può tornare a scuola domani.
La mamma fece un'espressione ironica. - Fortuna che
si è rotta il braccio sinistro, altrimenti non avrebbe potuto
prendere appunti durante le lezioni e posso solo
immaginare quanto ci sarebbe rimasta male.
- Ah, ah, ah - replicai. - Vado a fare la cioccolata calda
-. Mi alzai e indicai la cucina alle mie spalle. - Tu ne vuoi?
- Ottima idea. Accendo il fuoco.
Dopo una breve spedizione in cucina per prendere le
tazze, lo zucchero e il barattolo del cacao, tornai da mia
madre, che aveva messo a bollire l'acqua sulla stufa. Mi
appollaiai sul bracciolo del divano e le passai una tazza.
- Come hai fatto a sapere che eri innamorata di papà? chiesi, sforzandomi di farla sembrare una domanda
buttata lì a caso. A parlare di papà c'era sempre il rischio
di finire in un fiume di lacrime, cosa che speravo di
evitare.
La mamma si mise comoda sul divano e allungò i piedi
sul tavolino. - Non lo sapevo. L'ho capito con il
matrimonio, dopo un anno, circa.
Non era la risposta che mi aspettavo. - Allora... perché
l'hai sposato?
- Perché pensavo di essere innamorata. E quando
pensi di essere innamorata, tieni duro e fai in modo che
funzioni finché diventa amore.
- Avevi paura?
- Di sposarlo? -. Rise. - Quella era la parte eccitante.
Comprare l'abito da sposa, prenotare la cappella, mettere l'anello
di diamanti.
Visualizzai il sorriso malizioso di Patch. - Hai mai avuto paura
di papà?
- Ogni volta che i New England Patriots perdevano.
Ogni volta che accadeva, mio padre andava in garage e
accendeva la motosega. L'autunno di due anni fa se l'era
trascinata nei boschi dietro la fattoria, aveva abbattuto dieci
alberi e li aveva ridotti in legna da ardere. Ne avevamo ancora
più della metà da consumare.
La mamma batté leggermente sul posto accanto al suo e mi
raggomitolai contro di lei, la testa poggiata alla sua spalla. - Mi
manca - dissi.
- Anche a me.
- Ho paura di dimenticarmi che aspetto avesse. Non in foto,
ma quando ciondolava per casa il sabato mattina o quando cucinava le uova strapazzate.
La mamma intrecciò la mano alla mia. - Sei sempre stata
così simile a lui, sin dall'inizio.
- Davvero? -. Mi tirai su a sedere. - In che senso?
- Tuo padre era un ottimo studente, molto intelligente. Non
si metteva mai in mostra e non ostentava le sue opinioni, ma la
gente lo rispettava.
- Papà è mai stato... misterioso?
Lei sembrò rifletterci su. - La gente misteriosa ha molti
segreti. Tuo padre era un libro aperto.
- È mai stato ribelle?
Fece una risata breve, sbigottita. - Lo vedevi così? Harrison
Grey, il contabile più onesto del mondo... ribelle? -. Sospirò in
modo teatrale. - Il cielo non voglia! Ha portato i capelli lunghi
per un po', ed erano pure biondi e ondulati come quelli di un
surfista. E, certo, i suoi occhiali con la montatura di corno
erano anni avanti qualsiasi moda, ma scusa, posso chiedere
come siamo arrivate a parlare di questo?
Non avevo idea di come dire a mia madre dei miei
sentimenti per Patch. Non avevo idea di come dire a mia
madre di Patch, punto e basta. Di sicuro lei si sarebbe
aspettata una descrizione che includesse i nomi dei suoi
genitori, la media scolastica, gli sport di squadra che praticava
e a quali college pensava di fare domanda. Non volevo
allarmarla dicendole che avrei scommesso tutto il contenuto
del mio salvadanaio sul fatto che avesse la fedina penale
sporca.
- C'è un tipo - ammisi, incapace di non sorridere al solo
pensiero di Patch. - Ci frequentiamo da poco. Soprattutto per
questioni scolastiche.
- Oh, un ragazzo - disse con aria misteriosa. - Be'?
Frequenta il Club degli scacchi? È nel Consiglio studentesco?
Nella squadra di tennis?
- Gli piace giocare - buttai li, sperando che a mia madre
l'informazione bastasse.
- Un tennista! È bello come Rafael Nadal? Naturalmente,
se parliamo di aspetto, io ho sempre preferito Roger Federer.
Stavo per aprire bocca e dettagliare meglio quando,
ripensandoci, decisi che probabilmente non era necessario.
Giocatore di biliardo, di tennis... che differenza faceva?
Squillò il telefono e mamma si allungò per rispondere. Dieci
secondi di conversazione dopo, crollò sul divano e si diede una
manata in fronte. - No, non è un problema. Corro subito, li
prendo e li porto domattina come prima cosa.
- Hugo? - chiesi dopo che ebbe riattaccato. Hugo era il capo
di mia madre, e dire che telefonava in continuazione era un
eufemismo. Una volta l'aveva richiamata al lavoro di domenica
perché non riusciva a far funzionare la fotocopiatrice.
- Ha lasciato del lavoro da finire in ufficio e vuole che vada
io. Devo fare delle copie, ma non dovrei metterci più di un'ora.
Tu hai finito i compiti?
- Non ancora.
- Allora mi consolerò pensando che non avremmo potuto
passare del tempo insieme neanche se fossi rimasta qui -.
Sospirò e si alzò. - Ci vediamo tra un po'?
- Di' a Hugo che dovrebbe pagarti di più.
Rise. - Molto di più.
Non appena ebbi la casa tutta per me, tolsi i piatti della colazione dal tavolo della cucina e feci spazio per i libri. Inglese,
storia, biologia. Armata di una matita nuova di zecca, aprii il
libro e iniziai a lavorare.
Quindici minuti dopo, la mia mente si ribellò, rifiutandosi di
assimilare un altro paragrafo sui sistemi feudali europei. Mi
chiesi cosa stesse facendo Patch dopo aver staccato dal
lavoro. I compiti? Difficile. Pizza e partita di basket in Tv?
Forse, ma non mi convinceva. Piazzare scommesse e giocare
a biliardo alla Bo's Arcade? Sembrava un'ipotesi plausibile.
Avevo il desiderio inspiegabile di guidare fino alla sala
giochi e giustificare il mio comportamento di qualche ora prima,
ma il pensiero fu velocemente accantonato per la semplice
ragione che non avevo tempo. Mia madre sarebbe rientrata
prima di me. Inoltre, Patch non era il tipo da farsi scovare
facilmente. Tutti i nostri incontri erano avvenuti secondo i suoi
piani, non i miei. Sempre.
Salii le scale per andare a cambiarmi e mettermi qualcosa di
comodo. Aprii la porta della mia camera e feci tre passi prima di
fermarmi di colpo. I cassetti erano stati estratti dal comò e i vestiti
sparpagliati per terra. Il letto era completamente a soqquadro. Gli
sportelli dell'armadio erano aperti, e pendevano storti dai cardini.
Libri e portafotografie erano disseminati dappertutto.
Vidi il riflesso di un movimento nella finestra di fronte e mi voltai
di scatto. Lui era appoggiato alla parete dietro di me, vestito di
nero dalla testa ai piedi e con il passamontagna in testa. Il mio
cervello, in totale, isterica confusione, aveva appena trasmesso
alle gambe il comando di fuga, quando lui si lanciò verso la
finestra, la aprì e si tuffò fuori.
Scesi le scale tre gradini alla volta, schivai la ringhiera, percorsi
di volata il corridoio, raggiunsi la cucina e chiamai il 911.
Quindici minuti dopo, un'auto di pattuglia entrò sobbalzando
nel vialetto. Tremando, aprii la porta e feci entrare i due agenti.
Quello che entrò per primo era basso, largo e aveva i capelli sale
e pepe. L'altro era alto e magro e aveva i capelli scuri, simili a
quelli di Patch, ma tagliati molto corti vicino alle orecchie.
Curiosamente, per certi versi ricordava Patch: carnagione scura,
viso simmetrico, sguardo tagliente.
Si presentarono; l'agente con i capelli scuri era il detective
Basso, il suo collega il detective Holstijic.
- Sei tu Nora Grey? - chiese il detective Holstijic.
Annuii.
- I tuoi genitori sono in casa?
- Mia madre è uscita qualche minuto prima che chiamassi il
911.
- Quindi sei da sola?
Annuii ancora.
- Perché non ci racconti cos'è successo? - chiese. Incrociò le
braccia e piantò bene i piedi per terra, a gambe larghe, mentre
il detective Basso dava un'occhiata.
- Sono rientrata alle otto e ho fatto i compiti - dissi. Quando sono salita in camera mia, l'ho visto. Era tutto
sottosopra, ha fatto un casino.
- L'hai riconosciuto?
- Indossava un passamontagna. E le luci erano spente.
- Segni
particolari?
Tatuaggi? -No.
- Altezza? Corporatura?
Scavai controvoglia nella mia memoria a breve termine.
Non volevo rivivere quel momento, ma era importante che
ricordassi ogni indizio. - Corporatura nella media, ma un po'
più alto della media. Diciamo della stessa statura del detective
Basso.
- Ha detto qualcosa?
Scossi il capo.
Il detective Basso ricomparve e disse al collega: - Tutto a
posto -. Quindi salì al secondo piano. Sopra di noi, si
sentivano le assi del pavimento scricchiolare mentre
camminava in corridoio, mentre apriva e richiudeva le porte.
Il detective Holstijic aprì la porta d'ingresso e si accovacciò
per esaminare la serratura. - Quando sei tornata a casa, per
caso la porta non era chiusa a chiave o era danneggiata?
- No. Per entrare ho usato la mia chiave. Mia madre era in
soggiorno e dormiva.
Il detective Basso fece capolino in cima alle scale.
- Puoi farci vedere la tua stanza?
Salimmo le scale e io feci strada fino a dove il detective Basso,
le mani sui fianchi, contemplava la mia camera dalla soglia.
Rimasi immobile, inchiodata da un brivido di terrore. Il letto
era rifatto. Il pigiama buttato sul cuscino, esattamente come
l'avevo lasciato quella mattina. I cassetti del comò erano chiusi, i
portafotografie disposti ordinatamente. Il baule ai piedi del letto
era chiuso. Il pavimento sgombro. Le tende alla finestra
ricadevano lunghe e morbide, incorniciando la finestra chiusa.
- Hai detto di aver visto l'intruso - disse il detective Basso.
Mi fissava con occhi freddi, che non si lasciavano sfuggire nulla.
Occhi abituati a stanare le menzogne.
Entrai nella stanza che, sebbene ordinata, non trasmetteva
una sensazione di calore e sicurezza come al solito. Aleggiava
una sensazione di violazione e minaccia. Indicai la finestra
dall'altro lato della stanza, cercando di impedire alla mano di
tremare. - Quando sono entrata, si è buttato giù dalla finestra.
Il detective Basso guardò fuori. - E un bel salto - osservò.
Provò ad aprire la finestra. - L'hai chiusa dopo che è andato via?
- No, sono corsa giù a chiamare la polizia.
- Qualcuno l'ha chiusa -. Il detective mi lanciò un altro
sguardo tagliente, le labbra serrate.
- Non credo che sarebbe riuscito a scappare via facilmente
dopo aver fatto un salto simile - disse il detective Holstijic,
raggiungendo il collega alla finestra. - Come minimo si sarebbe
rotto una gamba.
- Forse non è saltato, forse è sceso lungo l'albero - dissi.
Il detective Basso girò la testa di scatto. - Allora? Quale delle
due? E sceso o è saltato? Avrebbe potuto darti una spinta e
uscire dall'ingresso principale. Sarebbe stato più logico. Io avrei
fatto così. Te lo chiedo un'altra volta, riflettici bene. Hai davvero
visto qualcuno nella tua stanza stasera?
Non mi credeva. Pensava mi fossi inventata tutto. Per un attimo, fui tentata di pensarla allo stesso modo. Che cosa mi stava
succedendo? Perché la mia realtà era così astrusa? Perché non
coincideva mai con la verità? Per non impazzire, dissi a me
stessa che il problema non ero io. Era lui. Il tizio con il
passamontagna. Era lui, anche se non sapevo come facesse. La
colpa era sua. Il detective Holstijic ruppe quel silenzio carico di
tensione:
- Quando tornano i tuoi?
- Vivo con mia madre, ha dovuto tornare in ufficio.
- Dobbiamo fare a entrambe qualche domanda - proseguì. Mi
fece segno di sedermi sul letto, ma io scossi il capo, inebetita.
- Hai rotto di recente con un ragazzo?
-No.
- Problemi di droga? Ora o in passato? -No.
- Hai detto che vivi con tua madre. Dov'è tuo padre?
- È stato un errore - mormorai. - Mi dispiace, non avrei
dovuto chiamare.
I due agenti si scambiarono un'occhiata. Il detective Holstijic
chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. Il detective Basso
aveva
l'aria di chi ha sprecato fin troppo tempo e sta per esplodere.
- Abbiamo delle cose da fare - disse. - Te la senti di restare
da sola finché non torna tua madre?
Non lo stavo più ascoltando. Non riuscivo a smettere di guardare la finestra. Come c'era riuscito? Quindici minuti. Aveva avuto
solo quindici minuti per trovare il modo di rientrare e mettere in
ordine la stanza prima che arrivasse la polizia. E con me al piano
di sotto. Quando mi resi conto che eravamo stati da soli in casa,
insieme, rabbrividii.
Il detective Holstijic mi porse il suo biglietto da visita. - Puoi
farci chiamare da tua madre appena rientra?
- Ci vediamo fuori - disse il detective Basso, già a metà corridoio.
15
Credi che Elliot abbia ucciso qualcuno? - Shh! - sibilai a Vee,
gettando uno sguardo alle file di banchi del laboratorio per
assicurarmi che nessuno avesse sentito.
- Senza offesa, tesoro, ma questa cosa sta diventando
ridicola.
Prima mi ha aggredito. Ora è un assassino. Scusa, ma... Elliot?
Un omicida? Lui è, come dire, il ragazzo più gentile che abbia
mai conosciuto. Quando è stata l'ultima volta che ha
dimenticato di tenerti aperta la porta? Ah, già, è vero... mai.
Eravamo a biologia e Vee era stesa su un banco a pancia in
su. Stavamo facendo un esperimento sulla pressione
sanguigna e lei avrebbe dovuto stare a riposo e in silenzio per
cinque minuti. Di regola, avrei dovuto lavorare con Patch, ma il
coach ci aveva concesso un giorno libero, in cui potevamo
sceglierci il compagno che volevamo. Vee e io eravamo in
fondo all'aula; Patch era in prima fila, in coppia con uno di
quegli studenti bravi solo negli sport di nome Thomas Rookery.
- E stato interrogato in qualità di sospetto in un'indagine di
omicidio - sussurrai, sentendomi addosso lo sguardo del coach.
Scribacchiai degli appunti sul foglio. «Il soggetto è calmo e
rilassato. Il soggetto si è astenuto dal parlare per tre minuti e
mezzo.»
- La polizia ovviamente credeva avesse movente e possibilità.
- Sei sicura che si tratti dello stesso Elliot?
- Quanti Elliot Saunders credi che ci fossero a Kinghorn a
febbraio?
Vee tamburellò con le dita sulla pancia. - Sembra davvero
molto difficile crederlo. E comunque, anche se è stato interrogato, qual è il problema? L'importante è che sia stato rilasciato,
che non l'abbiano ritenuto colpevole.
- Perché la polizia ha trovato un biglietto in cui la Halverson
diceva di volersi suicidare?
- E ora chi è questa Halverson?
- Kjirsten Halverson - dissi spazientita. - La ragazza che
pare si sia impiccata.
- Magari si è impiccata davvero. Magari un giorno ha detto
«Ehi, la vita fa proprio schifo» e si è appesa a un albero. È già
successo.
- Il fatto che quando hanno scoperto il biglietto in casa sua
ci fossero dei chiari segni di effrazione non ti sembra una coincidenza troppo strana?
- Viveva a Portland, sono cose che capitano.
- Io credo che qualcuno abbia messo il biglietto apposta.
Qualcuno che voleva togliere dai guai Elliot.
- Chi avrebbe voluto togliere dai guai Elliot?
La guardai con un «Indovina!» stampato in faccia.
Vee si appoggiò al gomito sano. - Quindi vorresti dire che
Elliot ha trascinato Kjirsten su un albero, le ha legato una corda
intorno al collo, l'ha spinta giù dal ramo, poi è entrato nel suo
appartamento forzando la porta e ha piazzato le prove che
portano dritte all'ipotesi di suicidio.
- Perché no?
Vee ricambiò il mio « Indovina!». - Perché i poliziotti hanno
già analizzato tutto. E se l'hanno archiviato come caso di
suicidio, per me va bene così.
- E che ne dici di questo - insistei. - Poche settimane dopo
essere stato scagionato, Elliot ha cambiato scuola. Perché
qualcuno dovrebbe lasciare la Kinghorn Prep per la Coldwater
High School?
- Su questo ti do ragione.
- lo credo che stia cercando di sfuggire al suo passato, forse
era diventato troppo difficile frequentare il posto dove aveva ucciso Kjirsten, aveva la coscienza sporca -. Mi portai la matita alle
labbra. - Devo andare alla Kinghorn a fare un po' di domande. È
morta da appena due mesi, ne staranno ancora parlando tutti.
- Non lo so, Nora. Ho delle vibrazioni negative riguardo al
fatto di organizzare un'operazione di spionaggio alla Kinghorn.
Che hai intenzione di fare, chiedere informazioni su Elliot? E se
lo scoprisse? Che penserebbe?
La guardai. - Ha qualcosa di cui preoccuparsi solo se è colpevole.
- E poi ti ucciderà per metterti a tacere -. Vee fece un sorriso
a trentadue denti. Io no. - Voglio scoprire chi mi ha aggredita
quanto te, - proseguì con un tono più serio - ma ti giuro sulla mia
vita che non era Elliot. Ho rivissuto quel momento nella mia
mente un centinaio di volte e lui non corrisponde al mio
aggressore, neanche un po'. Fidati.
- Okay, forse Elliot non ti ha aggredita - dissi, intenzionata
a calmarla, ma niente affatto disposta ad accettare senza prove
l'innocenza di Elliot. - Però è stato coinvolto in un'indagine per
omicidio. E poi è troppo gentile, fa accapponare la pelle. Ed è
amico di Jules.
Vee aggrottò la fronte. - Jules? Cos'ha Jules che non va?
- Non trovi strano che tutte le volte che siamo con loro lui
sparisca?
- E questo che vorrebbe dire?
- La sera che siamo andate a Delphic, Jules se n'è andato
quasi subito dicendo che doveva andare in bagno. È mai
tornato? Dopo che sono andata a prendere lo zucchero filato,
Elliot l'ha trovato?
- No, ma pensavo fosse dovuto a un problema di tubature
interne.
- Poi, l'altra sera, all'improvviso, ha detto di essere malato -.
Mi strofinai la gomma della matita sul naso, assorta. - Pare che
stia sempre male.
- Credo che tu dia troppa importanza alla cosa. Magari...
magari ha la SII.
-SII?
- Sindrome dell'Intestino Irritabile.
Abbandonai l'ipotesi di Vee per dedicarmi a un po' di
esercizio mentale e cercare di afferrare un'idea che
galleggiava lontana. La Kinghorn Prep era a un'ora di
macchina. Se la scuola era così severa come sosteneva Elliot,
come faceva Jules ad avere il tempo di venire continuamente
a Coldwater? Quasi ogni mattina, mentre andavo a scuola, lo
vedevo fare colazione con Elliot da Enzo. Inoltre, dopo le
lezioni, dava sempre un passaggio a casa a Elliot. Era quasi
come se Elliot avesse Jules in pugno.
E non era tutto. Mi strofinai la gomma sul naso ancora più
forte. Stavo dimenticando qualcosa?
- Perché Elliot avrebbe dovuto uccidere Kjirsten? - riflettei a
voce alta. - Forse lei l'aveva visto fare qualcosa di illegale, e lui
l'ha uccisa per non metterla a tacere.
Vee sospirò. - Questa cosa inizia a sconfinare nella terra di
Senza Senso.
- Manca qualcosa. Qualcosa che non riusciamo a vedere.
Vee mi guardò come se la mia logica se ne fosse andata in
gita
nello spazio. - Secondo me, stai vedendo fin troppe cose. Sta
cominciando a somigliare a una caccia alle streghe.
E poi, improvvisamente, trovai l'elemento mancante. Mi
aveva assillato per tutto il giorno, aveva cercato di richiamare la
mia attenzione, ma ero stata travolta da mille altre cose e non
gli avevo dato ascolto. Il detective Basso mi aveva chiesto se
mancasse qualcosa in camera mia. E in quell'istante mi resi
conto che sì, qualcosa era sparito. Avevo lasciato l'articolo su
Elliot sul comò. Tornai indietro con la memoria per esserne
sicura e, sì, quella mattina l'articolo era sparito. Senza ombra di
dubbio.
- È stato lui! - esclamai. - Elliot è entrato in casa mia ieri
sera. Ha rubato l'articolo -. Dal momento che l'articolo era in
bella vista, evidentemente Elliot aveva messo a soqquadro la
mia stanza solo per terrorizzarmi. O forse per punirmi proprio
per aver trovato l'articolo.
- Frena, cosa dici? - chiese Vee.
- Qualcosa non va? - ci interruppe il coach, fermandosi accanto a me.
- Esatto, qualcosa non va - rispose Vee. Mi indicò e mi fece
le smorfie nascosta dalla schiena del coach.
- Mmm... il soggetto sembra non avere battito - dissi, dando
un pizzicotto al polso di Vee.
Mentre il coach provava le pulsazioni a Vee, lei fingeva di
essere sul punto di svenire e si sventolava. Il coach mi guardò
al di sopra degli occhiali. - Ecco, Nora. Qui. Un bel battito forte
e chiaro. Sei sicura che il soggetto si sia astenuto da ogni
attività, incluso parlare, per tutti e cinque i minuti? Questo
battito non è lento come mi sarei aspettato.
- Il soggetto ha lottato contro l'impulso di parlare - intervenne
Vee. - E il soggetto ha avuto difficoltà a rilassarsi su un banco
duro come la pietra. Il soggetto vorrebbe proporre di fare cambio
di posto con Nora, così che sia lei il nuovo soggetto -. Vee usò il
braccio destro per afferrarmi e tirarsi su.
- Non farmi pentire di avervi permesso di scegliere il compagno - ci ammonì il coach.
- Non mi faccia pentire di essere venuta a scuola, oggi replicò Vee con voce melodiosa.
Il coach le scoccò un'occhiata di avvertimento, quindi prese il
mio foglio quasi vuoto e gli diede una rapida scorsa.
- Il soggetto paragona gli esperimenti di biologia a una
quantità eccessiva di sedativi assunti sotto controllo medico disse Vee.
Il coach soffiò nel fischietto e tutte le teste si voltarono nella
sua direzione.
- Patch? - disse. - Ti dispiace cambiare posto? Sembra che ci
siano dei problemi qui.
- Stavo scherzando! - esclamò Vee. - Sono pronta... farò
l'esperimento.
- Avresti dovuto pensarci quindici minuti fa - replicò il coach.
- La prego, mi perdoni - lo supplicò Vee sbattendo le ciglia con
aria angelica.
Il coach le mise il quaderno sotto il braccio sano. - No.
Mentre se ne andava controvoglia dall'altra parte dell'aula, Vee
si voltò a guardarmi e formò con le labbra la parola «Scusa!».
Un attimo dopo, Patch era seduto sul banco accanto a me;
strinse le mani tra le ginocchia e si mise a fissarmi.
- Che c'è? - chiesi, innervosita dall'intensità del suo sguardo.
Lui sorrise. - Stavo ripensando alle scarpe che avevi ieri sera.
Avvertii la solita fitta di agitazione che Patch provocava, e,
come sempre, non riuscii a decidere se si trattasse di una cosa
buona o cattiva.
- Com'è andata la tua serata? - chiesi per rompere il
ghiaccio, stando bene attenta a mantenere un tono di voce
neutro.
- Piuttosto bene, interessante. La tua?
- Niente di che.
- Ti sei fatta un bel sonno?
Si stava prendendo gioco di me. - Non mi sono fatta un bel
sonno.
Con un sorrisetto astuto ribatté: - Chi ti sei fatta?
Restai un attimo senza parole, immobile, la bocca aperta. Cos'era, un'insinuazione?
- Sono solo curioso di conoscere la concorrenza.
- Cresci.
La sua bocca si distese. - Rilassati.
- Sono già nel mirino del coach, quindi per favore cerchiamo
di concentrarci sull'esperimento. Non sono dell'umore adatto
per fare da cavia, quindi, se non ti dispiace... -. Indicai il banco.
- Non posso - disse. - Non ho un cuore.
Mi dissi che non intendeva in senso letterale.
Mi sdraiai sul banco e appoggiai le mani sulla pancia. Dimmi quando sono passati i cinque minuti -. Chiusi gli occhi,
preferivo non guardare gli occhi neri di Patch fissi su di me.
Qualche istante dopo, sollevai una palpebra.
- Tempo scaduto - disse Patch.
Gli offrii il polso in modo che potesse misurarmi le pulsazioni.
Patch mi prese la mano e una scossa di calore schizzò su dal
braccio per terminare, con una fitta, nello stomaco.
- Il battito del soggetto è aumentato al momento del contatto
- disse.
- Non scriverlo -. Avrei dovuto avere un tono irritato, invece
sembrava che stessi soffocando un sorriso.
- Il coach vuole che siamo precisi.
- E tu cosa vuoi? - gli chiesi.
Gli occhi di Patch si allacciarono ai miei. Dentro di sé stava
sicuramente sorridendo.
- A parte quello, ovvio - dissi.
Terminate le lezioni, mi diressi nell'ufficio della signorina
Greene per la seduta che avevo in programma. A fine giornata,
il dottor Hendrickson teneva sempre la porta spalancata, una
specie di invito non verbale rivolto agli studenti a fermarsi da
lui. Ora, invece, ogni volta che passavo di lì, la porta era
chiusa. Sempre. Il messaggio "non disturbare" era implicito.
- Nora - disse la Greene dopo che ebbi bussato - prego,
accomodati.
L'ufficio era del tutto a posto adesso, completamente
arredato. Le piante erano aumentate e sulla parete sopra la
scrivania aveva appeso una serie di stampe botaniche.
- Ho pensato molto a ciò che hai detto la settimana scorsa iniziò. - Sono arrivata alla banale conclusione che il nostro
rapporto debba basarsi sulla fiducia e sul rispetto. Non
parleremo di tuo padre, a meno che non sia tu a chiederlo.
- Okay - dissi con diffidenza. Di cos'altro avremmo parlato
allora?
- Ho sentito delle notizie che mi hanno molto deluso - rispose. Il sorriso sparì dalla sua faccia e si piegò in avanti, i gomiti
sulla scrivania. Aveva una penna in mano, e la faceva rotolare
tra i palmi. - Non voglio ficcare il naso nella tua vita privata,
Nora, ma pensavo di essere stata molto chiara riguardo il tuo
rapporto con Patch.
Non riuscivo a capire cosa stesse insinuando. - Non gli ho
fatto da tutor -, E comunque non erano davvero fatti suoi.
- Sabato sera Patch ti ha dato un passaggio dal Delphic
Seaport.
E tu l'hai invitato a entrare in casa.
Trattenni a stento l'istinto di protestare. - E lei come fa
a saperlo?
- In qualità di psicologa scolastica, il mio lavoro
consiste anche nel farti da guida - replicò. - Ti prego,
promettimi che farai molta, molta attenzione a Patch -. Mi
guardò come se si aspettasse che giurassi davvero.
- Non è andata proprio così - spiegai. - La persona con
cui ero andata mi ha lasciata a piedi al Delphic. Non
avevo scelta. Non sto cercando di passare del tempo con
lui -. Be', a parte la sera prima al Borderline... però, a mia
discolpa, va detto che non mi aspettavo di trovarlo lì.
Avrebbe dovuto essere la sua giornata libera.
- Sono molto contenta di sentirtelo dire - commentò lei,
anche se non sembrava molto convinta della mia
innocenza. - C'è qualcos'altro di cui vorresti parlarmi?
Qualcosa che ti preoccupa?
Non avevo intenzione di raccontarle che Elliot aveva
fatto irruzione in casa mia. Non mi fidavo di lei. Non avrei
saputo dire che cosa, ma qualcosa in lei mi infastidiva. E
non mi piaceva il fatto che continuasse ad alludere alla
pericolosità di Patch senza spiegarmi il perché. Sembrava
seguisse un piano preciso, che naturalmente a me
sfuggiva.
Raccolsi lo zaino da terra e aprii la porta. - No - dissi.
16
Vee era appoggiata al mio armadietto e si scarabocchiava il
gesso con un pennarello rosso. - Ciao - disse quando la
raggiunsi. - Dov'eri? Ti ho cercata nel laboratorio dell'e-zine e in
biblioteca.
- Avevo una seduta con la signorina Greene, la nuova psicologa -. Lo dissi con noncuranza, ma dentro di me sentivo una specie
di vuoto, di tremore. Non riuscivo a smettere di pensare al fatto
che Elliot fosse penetrato in casa mia. Cosa poteva impedirgli di
ripeterlo? O peggio?
- Che succede? - chiese Vee.
Feci girare il lucchetto dell'armadietto e tirai fuori i libri. - Sai
quanto costa un buon allarme?
- Senza offesa, tesoro, ma la tua auto non fa gola a nessuno.
La fulminai con lo sguardo. - Dicevo per casa mia. Voglio
essere sicura che Elliot non riesca a entrare di nuovo. Vee si
guardò intorno e si schiarì la voce.
- Che c'è? - sbottai.
Vee alzò le mani. - Niente. Niente di niente. Se sei ancora
intenzionata a dimostrare la colpevolezza di Elliot... liberissima di
farlo. È un'idea folle, ma hai tutto il diritto di averla.
Chiusi l'armadietto con un colpo secco che echeggiò in tutto il
corridoio. Stavo per rispondere, seccata, che almeno lei avrebbe
dovuto credermi, ma tenni a freno la lingua e invece dissi: - Sto
andando in biblioteca, sono un po' di fretta -. Uscimmo dall'edificio, attraversammo i giardini e, quando arrivammo al
parcheggio, mi fermai. Mi guardai intorno in cerca della Fiat,
poi mi ricordai che quella mattina mi aveva accompagnata mia
madre. Vee aveva il braccio rotto, quindi non era venuta in
macchina.
- Cavoli - disse lei, leggendomi nel pensiero - siamo senza
macchina.
Riparandomi gli occhi dal sole, guardai in direzione della
strada. - Questo significa che dovremo andare a piedi.
- Non dobbiamo. Devi. Verrei con te, ma la mia regola mi
impone di non andare in biblioteca più di una volta a settimana.
- Questa settimana non l'hai fatto - le feci notare.
- Vero, ma potrei doverci andare domani.
- Domani è giovedì. In tutta la tua vita, hai mai studiato di
giovedì?
Vee si picchiettò il labbro con un dito e, con aria assorta,
rispose: - Ho mai studiato di mercoledì?
- Non che io ricordi.
- Vedi? Non posso venire, romperei una tradizione.
Trenta minuti dopo, salivo le scale che conducevano
all'ingresso principale della biblioteca. Una volta dentro,
lasciai perdere i compiti e andai dritta alla sala multimediale,
dove passai al setaccio Internet in cerca di altre informazioni
su "Il caso della studentessa impiccata alla Kinghorn". Non
trovai molto. All'inizio, le notizie erano state strombazzate
parecchio, ma una volta scoperto il biglietto della vittima e
scagionato Elliot i giornali erano passati ad altro.
Era ora di fare un viaggetto a Portland. Non avrei saputo
molto altro continuando a spulciare gli articoli in archivio. Forse
andando di persona avrei avuto più fortuna.
Chiusi la sessione e chiamai mia madre.
- Devo essere a casa per le nove stasera?
- Sì, perché?
- Pensavo di prendere un autobus per Portland.
Lei fece una delle sue risate che volevano dire: «Stai scherzando?».
- Devo intervistare alcuni studenti della Kinghorn Prep. È
per una ricerca -. Non stavo mentendo, non del tutto almeno.
Certo, sarebbe stato più facile se non fossi stata schiacciata
dal senso di colpa per non averle raccontato dell'effrazione e
della conseguente visita della polizia. Avevo pensato di
dirglielo, ma ogni volta che aprivo la bocca le parole
scappavano via. Facevamo fatica a tirare avanti, avevamo
bisogno dello stipendio di mamma. Se le avessi detto di Elliot,
avrebbe lasciato subito il lavoro.
- Non puoi andare in città da sola. Domani c'è scuola e
presto farà buio. E poi, il tempo di arrivare e gli studenti
saranno già andati via.
Sospirai. - Okay, torno a casa.
- So che ti avevo promesso di darti un passaggio, ma sono
bloccata in ufficio -. Sentii un rumore di carte rimescolate e
immaginai che tenesse il telefono sotto il mento, con il filo attorcigliato. - Sarebbe troppo chiederti di andare a piedi?
Non faceva tanto freddo, avevo il mio giubbetto di jeans e
due gambe: potevo farlo. Peccato che soltanto alla mia parte
razionale il piano sembrasse sensato, perché a un'altra parte di
me l'idea di tornare a piedi faceva venire i crampi allo stomaco.
Siccome però l'unica alternativa era passare la notte in
biblioteca, non avevo scelta.
Ero quasi arrivata all'ingresso della biblioteca quando sentii
qualcuno che mi chiamava. Mi voltai e vidi Marcie Millar
venirmi incontro.
- Ho sentito di Vee - disse. - Davvero increscioso. Insomma,
chi mai potrebbe aggredirla? A meno che, insomma, non
avesse potuto farne a meno. Forse si è trattato di difesa
personale. Ho sentito che era buio e pioveva. Vee
potrebbe essere scambiata facilmente per un alce. O un
orso... un bisonte... insomma un qualsiasi animale
massiccio.
- Be', è stato bello parlare con te, ma purtroppo ho un
sacco di cose più interessanti da fare. Tipo infilare la
mano nel tritarifiuti -. Proseguii verso l'uscita.
- Spero non abbia toccato il cibo dell'ospedale continuò Marcie seguendomi. - So che è pieno di calorie e
lei non resiste all'idea di ingrassare.
Mi voltai di scatto. - Ora basta. Un'altra parola e io... -.
Sapevamo entrambe che era una minaccia a vuoto.
Marcie fece un sorrisetto affettato. - Tu cosa?
- Sgorbio - dissi.
- Patetica.
- Stronza.
- Sfigata.
- Troia anoressica.
- Wow - disse Marcie, mentre, camminando all'indietro,
barcollava in modo melodrammatico, una mano sul cuore.
- Dovrei reagire all'offesa? Vecchio trucco, non funziona.
Almeno io so come esercitare un po' di autocontrollo.
Il vigilante alla porta si schiarì la voce. - Fatela finita.
Continuate fuori o sarò costretto a trascinarvi nel mio
ufficio e chiamare i vostri genitori.
- Parli con lei - brontolò Marcie, puntando l'indice
contro di me. - Io sono quella che sta cercando di essere
gentile. È lei che mi ha insultato, io le stavo solo
manifestando il mio dispiacere per la sua amica.
- Fuori, ho detto.
- Sta molto bene in uniforme - gli disse Marcie, e sfoderò il
suo caratteristico sorriso tossico.
Lui mosse la testa di scatto in direzione dell'uscita. - Fuori di
qui - ripetè, ma il tono si era ammorbidito.
Marcie ancheggiò fino all'ingresso. - Le dispiace aprirmi la
porta? Ho le mani occupate -. Aveva in mano un libro. Un
tascabile.
La guardia spinse il pulsante per gli invalidi e le porte si
aprirono.
- Oh, grazie - sussurrò Marcie e gli mandò un bacio.
Non la seguii. Non sapevo cosa sarebbe successo se
l'avessi fatto, ma ero così carica di emozioni negative che avrei
potuto fare qualcosa di cui mi sarei pentita. Non ero tipo da
insulti e litigi, a meno che non avessi a che fare con Marcie
Millar.
Girai i tacchi e tornai in biblioteca. Entrai in ascensore e
spinsi il pulsante del seminterrato. Avrei potuto aspettare che
Marcie andasse via, invece decisi di usare l'altra uscita. Cinque
anni prima, il Comune aveva deciso di spostare la biblioteca
pubblica in un edificio storico situato proprio nel centro della
città vecchia di Coldwater. L'edificio di mattoni rossi risaliva alla
metà del diciannovesimo secolo e aveva una romantica cupola
e una terrazza panoramica da cui si vedevano le navi entrare
in porto. Purtroppo, l'edificio non aveva il parcheggio, così era
stato deciso di scavare un tunnel che collegasse la biblioteca
al garage sotterraneo del palazzo di giustizia, che si trovava
dall'altra parte della strada. Così il parcheggio avrebbe servito
entrambi gli edifici.
L'ascensore si fermò con un rumore metallico e io uscii. Il
tunnel era illuminato con lampade al neon, che tremolavano
di una luce violetta. Mi ci volle un momento per costringere i
piedi a muoversi. All'improvviso, fui assalita dal pensiero di
mio padre, la notte in cui era stato ucciso; mi chiedevo se
anche lui si era trovato in una strada isolata e buia come il
tunnel che avevo davanti.
«Controllati» mi dissi. «Non è stato un delitto premeditato.
Hai passato l'ultimo anno con la paranoia di ogni vicolo buio,
stanza buia, ripostiglio buio. Non puoi vivere tutta la vita con il
terrore di avere una pistola puntata contro.»
Decisa a provare che il pericolo esisteva solo nella mia
testa, mi avviai lungo il tunnel, accompagnata dal lieve
rumore dei miei passi sul cemento. Spostai lo zaino sulla
spalla sinistra e calcolai quanto mi ci sarebbe voluto per
arrivare a casa e se prendere o meno la scorciatoia che
tagliava la ferrovia ora che era buio. Speravo che, tenendo la
mente occupata e concentrata su pensieri positivi, non avrei
avuto tempo di concentrarmi sulla paura che continuava a
crescere.
Il tunnel finì e davanti a me si stagliò una figura scura. Mi
fermai con un piede a mezz'aria e il cuore perse un paio di
battiti. Patch. Maglietta nera, jeans a vita bassa e stivali con la
punta di metallo. Lo sguardo non sembrava sincero e aveva
un sorriso un po' troppo scaltro per essere confortante.
- Che ci fai qui? - chiesi, mentre, scostandomi i capelli dal
viso, gettavo uno sguardo dietro di lui, alla rampa che
conduceva al piano superiore. Sapevo che Patch era davanti
a me, ma varie luci sul soffitto erano fulminate e quindi non
riuscivo a vedere bene. Se aveva in mente uno stupro, un
omicidio o altro, quello era il posto perfetto.
Si mosse verso di me. Io indietreggiai. Mi fermai contro
un'automobile e decisi di approfittare dell'occasione. Ci girai
rapidamente intorno e decisi di affrontarlo, visto che adesso ero
protetta dalla carrozzeria.
Patch mi guardò da sopra il tettuccio e sollevò le sopracciglia.
- Ho delle domande da farti - dissi. - Molte.
- Su che cosa?
- Su tutto.
La bocca gli si contrasse, ma ero abbastanza sicura si
trattasse di un sorriso che lottava per venire fuori. - E se le mie
risposte prendono una brutta piega, che fai, scappi? -. Fece un
cenno in direzione della rampa d'uscita.
Già, il piano era quello. Più o meno. Con qualche falla evidente, tipo il fatto che Patch era molto più veloce di me.
- Sentiamo queste domande.
- Come facevi a sapere che sarei stata in biblioteca questa
sera?
- Ho tirato a indovinare.
Non ci credetti neanche per un momento. Patch era un
predatore, almeno una parte di lui lo era. Se l'esercito l'avesse
scoperto, avrebbe fatto di tutto per reclutarlo.
Patch mosse rapido alla sua sinistra. Io mi spostai verso la
parte posteriore dell'auto. Si fermò, mi fermai anch'io. Al
momento ci trovavamo uno di fronte all'altra, lui davanti al
muso dell'auto e io di fronte alla targa.
- Dov'eri domenica pomeriggio? - chiesi. - Mi hai seguita
quando sono andata a fare shopping con Vee? -. Patch poteva
anche non essere il tizio con il passamontagna, ma questo non
significava che non fosse coinvolto. Mi stava nascondendo qual
cosa. Mi nascondeva qualcosa sin dal momento in cui ci
eravamo conosciuti. Era una coincidenza che l'ultimo giorno
normale
della mia vita fosse stato quello precedente il nostro incontro? Non
lo credevo affatto.
- No. A proposito, com'è andata? Comprato qualcosa?
- Forse -. Stavo già abbassando la guardia.
- Cosa?
Vee e io eravamo riuscite ad andare solo da Victoria's Secret e
avevo speso trenta dollari per il reggiseno di pizzo, ma non avevo
alcuna intenzione di dirglielo. Gli raccontai invece della mia serata,
da quando avevo avuto la sensazione di essere seguita al
momento in cui avevo trovato Vee sul ciglio della strada.
- Allora? - domandai quando ebbi finito. - Hai qualcosa da
dire?
- No.
- Non hai idea di cosa sia successo a Vee?
- No.
- Non ti credo.
- Questo perché non riesci a fidarti degli altri -. Appoggiò
le mani aperte sull'auto e si protese sul cofano. - Ne abbiamo
già parlato.
Sentii la rabbia esplodermi dentro. Patch aveva di nuovo
ribaltato la situazione. Invece di essere puntati su di lui, i riflettori
erano tornati su di me. La cosa più fastidiosa era che mi ricordasse
continuamente quello che sapeva di me. Cose private, come la mia
diffidenza.
Patch si spostò di scatto in senso orario. Mi allontanai di corsa,
fermandomi appena lui si fermava. Mi guardò fisso negli occhi,
come se cercasse di anticipare la mia prossima mossa.
- Cos'è successo sull'Arcangelo? Mi hai salvata?
- Se l'avessi fatto, adesso non saremmo qui a discuterne.
- Vuoi dire se non mi avessi salvata non saremmo qui. Io sarei
morta.
- Non è quello che ho detto.
Non avevo idea di cosa intendesse dire. - Perché non
saremmo qui?
- Tu saresti qui -. Pausa. - Io probabilmente no.
Prima che riuscissi a capire cosa stesse dicendo, si lanciò
contro di me. Presa alla sprovvista, scappai verso la rampa del
garage.
Riuscii a superare tre auto prima che mi afferrasse per un
braccio. Mi fece girare e mi sbatté contro un pilastro di
cemento.
- Di' addio al tuo piano - mormorò.
Lo guardai di traverso, ma ero anche in preda al panico. Mi
rivolse un sorriso smagliante, pieno di cattive intenzioni, confermandomi che avevo tutte le ragioni per sudare freddo.
- Che succede? - chiesi, cercando disperatamente di avere
un tono ostile. - Sono pronta a giurare che sento la tua voce
nella mia testa. È possibile? E perché dici di essere venuto a
scuola per me?
- Ero stufo di ammirare le tue gambe da lontano.
- Voglio la verità -. Ingoiai a fatica e aggiunsi: - Ho il diritto di
sapere tutto.
- Vuoi sapere tutto - ripetè con un sorrisetto malizioso. - Ti
riferisci alla promessa di scoprire me? Di cosa stiamo parlando,
esattamente?
Non riuscivo a ricordare di cosa stessimo parlando
esattamente. Sapevo solo che lo sguardo di Patch era
appassionato, e molto. Dovevo smettere di guardarlo negli
occhi, così presi a fissarmi le mani. Vidi che luccicavano di
sudore, così me le feci scivolare dietro la schiena.
- Devo andare. Devo fare i compiti.
- Cos'è successo di là? -. Indicò gli ascensori con il mento.
- Niente.
Prima che riuscissi a fermarlo, premette il palmo della mano
contro il mio. Poi fece scivolare le dita tra le mie, allacciandole.
- Hai le nocche bianche - disse, e le sfiorò con le labbra. - E
quando sei arrivata eri agitata.
- Lasciami. E non sono agitata. Non proprio. Ora scusami,
devo andare a fare i compiti.
- Nora -. Patch pronunciò il mio nome a bassa voce, ma
con tutta l'intenzione di ottenere quello che voleva.
- Ho litigato con Marcie Millar -. Non avevo idea del perché
glielo stessi confessando. L'ultima cosa che volevo era aprire
un'altra finestra e permettergli di guardarmi dentro. - Okay? dissi con tono esasperato. - Soddisfatto? Vuoi lasciarmi
andare adesso?
- Marcie Millar?
Cercai di liberare le dita, ma Patch non era della stessa
idea.
- Non conosci Marcie? - lo provocai. - Difficile a credersi,
visto che frequenti la Coldwater High e sei dotato di un cromosoma Y.
- Dimmi della lite.
- Ha detto che Vee era grassa.
- E...?
- Io le ho detto che era una troia anoressica.
Patch cercava di non scoppiare a ridere. - Tutto qui? Niente
cazzotti? Niente morsi, graffi o tirate di capelli? Socchiusi gli
occhi.
- Bisognerà insegnarti a fare a botte, angelo.
- Io so fare a botte -. Sollevai orgogliosa il mento,
nonostante mentissi.
Quella volta non si preoccupò di reprimere il sorriso.
- Guarda che ho preso lezioni di boxe -. Di Kickboxing. In
palestra. Una volta.
Patch stese la mano a mo' di bersaglio. - Colpisci più forte
che puoi.
- Non mi piace la violenza gratuita.
- Siamo soli qui sotto -. La punta degli stivali di Patch
sfiorava la punta delle mie scarpe. - Un tipo come me potrebbe
approfittarsi di una ragazza come te. Fammi vedere che cosa
sai fare.
Indietreggiai lentamente e vidi la moto nera di Patch.
- Ti do un passaggio.
- Vado a piedi.
- E tardi ed è buio.
Su questo aveva ragione, che mi piacesse o no.
Dentro di me, però, si combatteva un furioso braccio di
ferro. Ero stata una stupida a pensare di tornare a casa a
piedi, e ora dovevo scegliere tra andare in moto con Patch o
rischiare che mi accadesse qualcosa di peggio.
- Inizio a pensare che l'unica ragione per cui continui a
offrirmi un passaggio è perché sai quanto poco ami questo
affare -. Sospirai nervosa, poi mi infilai il casco e montai dietro
di lui. Non era colpa mia se dovevo stargli così appiccicata, la
sella non era quel che si dice "spaziosa".
Patch ridacchiò. - Veramente io ho in mente un altro paio di
buone ragioni.
Percorse velocemente la rampa del garage, accelerando
verso l'uscita, che era chiusa da una sbarra. Avrebbe rallentato
abbastanza da inserire le monete nella biglietterìa automatica?
No, frenò dolcemente facendomi scivolare ancora più vicina a
lui. Introdusse le monete e uscimmo in strada.
Patch accostò la moto al vialetto di casa mia e io saltai giù,
aggrappandomi a lui per non cadere. Mi tolsi il casco e glielo
restituii.
- Grazie del passaggio - dissi.
- Che fai sabato sera?
Pausa. - Ho un appuntamento con i soliti.
Quello sembrò risvegliare il suo interesse. – I
soliti?
- I compiti.
- Cancellalo.
Ero molto più rilassata. Patch era caldo e solido, e
aveva un profumo meraviglioso. Un profumo intenso di
menta e terra scura. Nessuno ci era saltato addosso
mentre tornavamo a casa e le finestre del pianterreno
erano accese. Per la prima volta in tutta la giornata, mi
sentii al sicuro.
Volendo ignorare che Patch mi aveva intrappolata in un
tunnel buio e probabilmente mi stava seguendo di
nascosto. Tutto sommato, forse non così tanto al sicuro.
- Non esco con gli sconosciuti.
- Per fortuna io sì. Passo a prenderti alle cinque.
17
Sabato piovve e fece freddo tutto il giorno. Seduta accanto alla
finestra, guardavo la pioggia bersagliare le pozzanghere che si
allargavano sul prato. Avevo una copia dell'Amleto sulle
ginocchia, una penna infilata dietro l'orecchio e una tazza di
cioccolata calda, ormai vuota, accanto ai piedi. Il foglio con le
domande relative alla comprensione del testo giaceva sul
tavolo ed era immacolato come il giorno in cui la professoressa
Lemon ce l'aveva consegnato. Non andava bene per niente.
Mia madre era uscita da una mezz'ora per andare a lezione
di yoga, e nonostante avessi provato e riprovato una serie di
frasi diverse per comunicarle il mio appuntamento con Patch,
alla fine l'avevo lasciata andare senza dirle niente. Ripetevo a
me stessa che non era importante, che ormai avevo sedici anni
e potevo decidere quando e perché uscire, ma la verità era che
avrei dovuto informarla. Fantastico. Il senso di colpa mi
avrebbe tormentato tutta la sera.
Quando la pendola dell'ingresso suonò le quattro e mezza,
gettai il libro da una parte e trotterellai di sopra, in camera mia.
La giornata era volata via tra compiti e faccende domestiche,
così ero riuscita a non pensare all'appuntamento. Ma ora che
mancava così poco, il nervosismo aveva preso il sopravvento.
Che mi piacesse o no, Patch e io avevamo degli affari in
sospeso. Il nostro bacio era stato interrotto. Prima o poi, quel
bacio
avrebbe dovuto essere concluso. Volevo che si concludesse,
non avevo dubbi a proposito. Solo che non ero sicura di volere
che accadesse proprio quella sera. Forse non ero pronta. E il
consiglio di Vee, che dal fondo della mia mente continuava a
saltar fuori come una bandierina rossa, non era affatto d'aiuto:
«Sta' lontana da Patch».
Mi piazzai davanti allo specchio e feci un inventario: trucco,
il minimo indispensabile, giusto un po' di mascara; cespuglio di
capelli, sai che novità; le labbra avrebbero potuto essere più
lucide. Mi passai la lingua sul labbro inferiore. Quel gesto mi
fece pensare ancora di più al mio quasi bacio con Patch e,
senza volerlo, arrossii. Se un quasi bacio aveva quell'effetto, mi
chiedevo cosa avrebbe provocato un vero bacio. La mia
immagine riflessa sorrise.
- Niente di serio - mi dissi mentre provavo gli orecchini. I
primi erano grandi, stravaganti e turchesi... troppo impegnativi.
Li scartai e provai due topazi a goccia. Meglio. Chissà
cos'aveva in mente Patch. Cena? Film? - In fondo è come un
appuntamento per studiare biologia - dissi con disinvoltura al
mio
riflesso.
- Però senza la biologia e lo studio.
Mi infilai dei jeans a sigaretta e un paio di ballerine, poi
avvolsi una sciarpa di seta blu intorno alla vita e legai le due
estremità dietro il collo, creando un top. Mi stavo passando le
dita tra i capelli per renderli vaporosi quando sentii bussare alla
porta.
- Arrivo! - gridai mentre scendevo le scale.
Mi diedi un'ultima controllata nello specchio dell'ingresso,
aprii la porta e mi trovai di fronte due uomini in impermeabile
scuro.
- Nora Grey - disse il detective Basso mostrandomi il distintivo. - Ci rivediamo.
Mi ci volle un momento per riacquistare la voce. - Che ci
fate qui?
Indicò il collega con un cenno del capo. - Ti ricordi del detective Holstijic, vero? Ti dispiace se entriamo a farti un paio di
domande? -. Più che un permesso, sembrava una minaccia.
- Che succede? - chiesi, spostando lo sguardo da uno all'altro.
- Tua madre è in casa? - chiese il detective Basso.
- È a lezione di yoga. Perché?
Si pulirono i piedi ed entrarono in casa.
- Puoi dirci di te e Marcie Millar? Che cosa avete fatto in
biblioteca mercoledì pomeriggio? - chiese il detective Holstijic
lasciandosi cadere sul divano. Il collega invece rimase in piedi
a guardare le fotografie di famiglia disposte sulla mensola del
camino.
Ci misi un po' a registrare la domanda. La biblioteca.
Mercoledì pomeriggio. Marcie Millar.
- Sta bene? - chiesi. Non era un segreto che Marcie non
occupasse un posto speciale nel mio cuore, ma questo non
significava che la volessi nei guai o in pericolo. Soprattutto,
non volevo che fosse finita nei guai tirando in mezzo me.
Il detective Basso mise le mani sui fianchi. - Cosa ti fa
pensare che non stia bene?
- Io non ho fatto niente a Marcie.
- Perché stavate litigando? - chiese il detective Holstijic. La guardia della biblioteca ci ha raccontato che i toni erano
accesi.
- Non è così.
- E com'è allora?
- Ci siamo insultate - dissi, sperando di non dover scendere
nei dettagli.
- Che tipo di insulti?
- Stupidi - ammisi, ora che ci ripensavo.
- Devo sapere quali di preciso, Nora.
- Le ho detto che era una troia anoressica -. Sentivo
bruciarmi le guance per la vergogna. La situazione era
abbastanza seria, eppure, in quel momento, desideravo averle
detto qualcosa di molto più crudele e umiliante. O che almeno
avesse più senso.
I due detective si scambiarono un'occhiata.
- L'hai minacciata? - domandò il detective Holstijic. -No.
- Dove sei andata dopo la biblioteca?
- A casa.
- Hai seguito Marcie?
- No. L'ho già detto, sono andata a casa. Volete dirmi cos'è
successo?
- C'è qualcuno che può testimoniare? - chiese il detective
Basso.
- Il mio compagno di biologia. Mi ha visto in biblioteca e mi
ha offerto un passaggio.
Ero appoggiata con una spalla a uno stipite della
portafinestra e il detective Basso si avvicinò e si piazzò sul lato
opposto. - Puoi parlarci di questo compagno di biologia?
- Che razza di domanda è?
- È una domanda piuttosto semplice, ma se vuoi che sia più
preciso, lo sarò. Quando andavo a scuola, offrivo i passaggi
solo alle ragazze che mi interessavano. Posso essere ancora
più preciso. Quali sono i tuoi rapporti con questo compagno di
biologia... al di fuori della scuola?
- Sta scherzando, vero?
Un angolo della bocca del detective Basso si sollevò.
- Esattamente quello che pensavo. Hai fatto picchiare Marcie
Millar dal tuo ragazzo?
- Marcie è stata picchiata?
Lui si allontanò dalla porta, si mise dritto davanti a me e mi
perforò con lo sguardo. - Volevi farle vedere cosa succede
quando le ragazze come lei non tengono la bocca chiusa?
Pensavi che si meritasse una bella lezione? Quando andavo a
scuola, conoscevo molte ragazze come Marcie. Sono loro a
cercarsela, vero? Marcie se l'è cercata, Nora? Qualcuno l'ha
pestata di brutto mercoledì pomeriggio, e io credo che tu
sappia più di quanto dici.
Cercavo disperatamente di nascondere i miei pensieri,
terrorizzata che mi si potessero leggere in faccia. Forse era
una coincidenza che la sera in cui mi ero lamentata di Marcie
con Patch lei fosse stata picchiata. Invece forse no.
- Dobbiamo parlare con il tuo ragazzo - disse il detective
Holstijic.
- Non è il mio ragazzo. E il mio compagno di banco a
biologia.
- Sta venendo qui adesso?
Sapevo che dovevo essere sincera, ma ripensandoci non
potevo accettare che Patch avesse fatto del male a Marcie.
Marcie non era la persona più simpatica del mondo, e si era
fatta più di un nemico. Alcuni di loro potevano essere capaci di
picchiarla, ma Patch non era fra quelli. La violenza immotivata
non era nel suo stile. - No - dissi.
Il detective Basso sorrise. - Tutta in ghingheri per un sabato
sera in casa?
- Qualcosa del genere.
Il detective Holstijic tirò fuori un taccuìno dalla tasca della
giacca, lo aprì e schiacciò il pulsante della sua penna a scatto.
- Abbiamo bisogno del suo nome e numero di telefono.
Dieci minuti dopo che i poliziotti erano andati via, una Jeep
Commander nera parcheggiò vicino al marciapiede. Patch,
jeans scuri, stivali e una maglia grigia a maniche lunghe, fece
una corsa sotto la pioggia e raggiunse la veranda.
- Macchina nuova? - gli chiesi dopo aver aperto la porta.
Mi rivolse un sorriso carico di mistero. - L'ho vinta un paio
di sere fa. Una partita di biliardo.
- Qualcuno si è giocato l'automobile?
- Non era molto contento. Cercherò di stare lontano dai
vicoli bui per un po'.
- Hai sentito di Marcie Millar? - buttai là, nella speranza di
coglierlo di sorpresa.
- No. Che è successo? -. La risposta arrivò subito e quindi
decisi
che
probabilmente
aveva
detto
la
verità.
Disgraziatamente, però, Patch non mi sembrava affatto un
bugiardo dilettante.
- Qualcuno l'ha picchiata.
- Che vergogna.
- Qualche idea su chi potrebbe essere stato?
Se anche Patch sentì la preoccupazione nella mia voce,
non lo diede a vedere. Si appoggiò alla staccionata della
veranda e si accarezzò pensieroso la mascella. - No.
Mi chiesi se nascondesse qualcosa, ma smascherare i
bugiardi non era il mio forte. Non avevo molta esperienza. Di
solito, frequentavo gente di cui mi fidavo... di solito.
Patch parcheggiò la Jeep dietro la Bo's Arcade. Quando
arrivammo in cima alla fila, il cassiere guardò prima Patch, poi
me. I suoi occhi continuarono a passare dall'uno all'altra.
- Che succede? - chiese Patch, mettendo tre banconote da
dieci sul banco.
Il cassiere puntò gli occhi su di me. Si era accorto che non
riuscivo a distogliere lo sguardo dai tatuaggi verde muffa che
ricoprivano ogni centimetro dei suoi avambracci. Spostò una
gomma da masticare (o era tabacco?) dall'altra parte della
bocca e disse: - Che hai da guardare?
- Mi affascinano i tatuaggi... - azzardai. Lui mi mostrò dei
denti aguzzi, da cane.
- Non credo di piacergli - sussurrai a Patch quando fummo
a distanza di sicurezza.
- A Bo non piace nessuno.
- Quello è Bo della Bo's Arcade?
- Bo Junior. Bo Senior è morto qualche anno fa.
- Come? - domandai.
- Una rissa, al bar di sotto.
Sentii un desiderio incontrollabile di correre alla Jeep e tagliare la corda.
- Siamo al sicuro qui? - chiesi.
Patch mi rifilò un'occhiata di traverso. - Angelo...
- Chiedevo...
La sala da biliardo si presentava esattamente come l'avevo
vista la prima volta che ero stata lì. Pareti di cemento dipinte di
nero; tavoli da biliardo rivestiti di feltro; tavoli da poker; basse
lampade appese al soffitto; fumo stantio.
Patch scelse il tavolo più lontano dalle scale. Prese due 7Up al bar e le stappò facendo leva sul bordo del bancone.
- Non ho mai giocato a biliardo - confessai.
- Scegli una stecca -. E mi indicò la rastrelliera alla parete.
Ne tirai giù una e la portai al tavolo.
Patch si asciugò la bocca con la mano per nascondere un
sorriso.
- Che c'è? - dissi.
- Non si battono i fuori campo a biliardo.
Annuii. - Capito. Niente fuori campo.
Stavolta sorrise davvero. - Stai tenendo la stécca come
una mazza da baseball.
Mi guardai le mani. Era vero, in effetti. - Io la impugno
così.
Lui si mise dietro di me, mi appoggiò le mani sui fianchi e
mi piazzò davanti al tavolo. Quindi mi circondò con le
braccia e afferrò la stecca.
- Così - disse, spostandomi la mano destra parecchi
centimetri più avanti. - E... così - continuò, mentre mi
prendeva la mano sinistra e la sistemava in modo che la
stecca si appoggiasse sulla nocca del medio. - Piegati.
Mi chinai sul tavolo, il fiato caldo di Patch sul collo.
- Quale vuoi colpire? - chiese. Si riferiva al triangolo di
palle disposte dall'altra parte del tavolo. - Quella gialla
davanti sarebbe un'ottima scelta.
- Il mio colore preferito è il rosso.
- E rosso sia.
Patch mosse la stecca avanti e indietro, facendomela
scivolare sulla nocca.
Con gli occhi socchiusi, guardai la palla rossa. - Stai
sbagliando a prendere la mira - dissi.
Sentii che rideva. - Quanto vuoi scommettere?
- Cinque dollari.
Scosse leggermente la testa. - Il tuo giubbetto.
- Vuoi il mio giubbetto?
- Voglio che te lo tolga.
Il mio braccio scattò in avanti, la stecca mi passò
fulminea tra le dita e colpì con forza la palla bianca. Quella,
a sua volta, rotolò
in avanti, urtò la rossa facendo schizzare in tutte le direzioni le
altre palle.
- Okay - dissi mentre mi toglievo il giubbetto - forse sono
un po' impressionata.
Patch esaminò il mio top. Gli occhi neri come l'oceano a
mezzanotte, l'espressione pensosa... - Bello - disse, quindi fece il
giro del tavolo per controllare la posizione delle palle.
- Cinque dollari che non riesci a mandare in buca la blu -.
L'avevo scelta apposta, perché sembrava un tiro difficile.
- Non voglio i tuoi soldi - replicò Patch, gli occhi fissi nei miei e
una minuscola fossetta sulla guancia.
La mia temperatura interna aumentò di un grado.
- Che cosa vuoi?
Patch abbassò la stecca sul tavolo, fece un tiro di prova e poi
colpì la palla bianca. Che colpì la verde e poi la otto, che spinse
in buca la blu.
Feci una risatina nervosa e cercai di nasconderla facendomi
scrocchiare le nocche, una cattiva abitudine alla quale non avevo
mai ceduto. - Okay, forse sono un po' più che impressionata.
Patch era ancora piegato sul tavolo e mi guardava in un modo
che mi mandò in ebollizione.
- Non abbiamo stabilito la posta - aggiunsi, resistendo all'im
pulso di spostare il peso del corpo da un piede all'altro. La stecca
era un po' scivolosa, e mi asciugai con discrezione la mano sulla
coscia.
Come se non stessi già sudando abbastanza, Patch disse: Mi sei debitrice. Un giorno o l'altro verrò a incassare.
Risi, ma il suono aveva una tonalità sbagliata. – Ti piacerebbe!
Nella sala rimbombò un rumore di passi; qualcuno scendeva le
scale a rotta di collo. Comparve un tipo alto, muscoloso, con
il naso aquilino, i capelli nerissimi e incolti. Posò lo sguardo su
Patch, poi lo spostò su di me e un ampio sorriso gli si disegnò
in viso. Si avvicinò a grandi passi e rovesciò la mia 7-Up che
avevo lasciato sul bordo del tavolo da biliardo.
- Scusa, ma questa... - iniziai.
- Non mi avevi detto che aveva un aspetto tanto piacevole disse a Patch mentre si asciugava la bocca con il dorso della
mano. Parlava con un forte accento scozzese.
- Non avevo neanche detto a lei quanto invece fosse
spiacevole il tuo - ribatté Patch.
Il tipo si appoggiò al tavolo accanto a me e mi porse la
mano. - Mi chiamo Rixon, amore.
Gliela strinsi controvoglia. - Nora.
- Ho interrotto qualcosa? - disse, guardando con aria inter
rogativa prima Patch e poi me.
- No - risposi, nello stesso istante in cui Patch diceva: - Sì.
All'improvviso, Rixon si gettò su Patch con fare scherzoso e
i due caddero a terra iniziando a colpirsi. Si sentivano risate
soffocate e il rumore di pugni e di stoffa strappata. Apparve
la schiena nuda di Patch, attraversata da due grosse ferite.
Partivano dai reni e finivano sulle scapole, allargandosi a
formare una V rovesciata. Erano così mostruose che, per lo
spavento, restai senza fiato.
- Togliti di dosso! - gridò Rixon.
Patch rotolò via e, quando si rimise in piedi, la maglia gli
pendeva addosso aperta a metà. Se ne liberò e la gettò nel
cestino dei rifiuti che stava in un angolo. - Dammi la tua felpa ordinò a Rixon.
Lui mi fece l'occhiolino. - Che ne pensi, Nora? Dovremmo
obbedirgli?
Patch gli si buttò addosso per gioco e Rixon lo fermò tenendolo per le spalle.
- Calmo - disse indietreggiando. Si sfilò la felpa e la tirò
a
Patch, restando in maglietta.
Dopo che Patch si infilò la felpa facendola scivolare su
degli addominali abbastanza scolpiti da mettermi in
agitazione, Rixon si rivolse a me. - Ti ha detto perché gli
hanno affibbiato quel soprannome?
- Scusa?
- Prima che il nostro buon amico Patch qui presente si
facesse prendere dal biliardo, era appassionato di boxe
irlandese senza guantoni. Non era molto bravo, però -.
Rixon scosse la testa. - A dire la verità, era patetico.
Passavo quasi tutte le notti a rattopparlo, tanto che se ne
andava in giro sempre coperto di bende, così tutti
iniziarono a chiamarlo Patch, benda. Gli ho detto di
lasciar perdere la boxe, ma non vuole ascoltarmi.
Patch intercettò il mio sguardo e mi rivolse un sorriso
da medaglia d'oro delle risse. Il sorriso in sé era
abbastanza inquietante, ma sotto l'apparenza ruvida
nascondeva una nota di desiderio. Più di una nota, in
realtà. Un'intera sinfonia.
Patch indicò le scale con un cenno del capo e mi tese
la mano. - Usciamo da qui - disse.
- Dove andiamo? - chiesi, il cuore a mille.
- Lo vedrai.
Mentre salivamo le scale, Rixon mi gridò: - Buona
fortuna con quello lì, amore!
18
Sulla via del ritorno Patch prese l'uscita per Topsham e parcheggiò accanto alla storica cartiera che sorgeva sulla riva del fiume
Androscoggin. Un tempo la fabbrica veniva usata per trasformare
la pasta di legno in carta; ora, invece, su una grossa insegna che
correva per tutto il lato dell'edificio campeggiava la scritta Birrificio
l'Arcobaleno Bianco. 11 fiume era ampio e mosso, e su entrambe
le sponde svettavano grandi alberi.
Stava ancora piovendo forte ed era scesa la sera. Dovevo tornare a casa prima di mia madre. Non le avevo detto che sarei
uscita perché... be', perché Patch non era il tipo di ragazzo che
una madre avrebbe accolto a braccia aperte. Era piuttosto il tipo
per il quale avrebbe cambiato la serratura di casa.
- Possiamo prendere qualcosa da portare via? - chiesi.
Patch aprì la portiera. - Richieste?
- Un tramezzino al tacchino, ma senza sottaceti. Ah, e anche
senza maionese.
Mi ero appena conquistata un altro di quei sorrisi che non affioravano quasi mai in superficie, mentre ultimamente cominciavo a
guadagnarne parecchi. E quella volta non riuscivo nemmeno a
capire cos'avessi detto per riuscirci.
- Vedrò cosa posso fare - disse, e scivolò fuori dall'auto.
Lasciò le chiavi nel quadro e il riscaldamento acceso. Per un
paio di minuti ripensai alla serata appena trascorsa, finché non
mi resi conto di essere sola nella jeep di Patch, nel suo spazio
privato.
Se fossi stata in lui, e avessi avuto dei segreti, non li avrei certo
nascosti in camera mia, nell'armadietto o nello zaino, tutte cose
che avrebbero potuto essere confiscate o perquisite senza preavviso. Avrei approfittato della mia scintillante jeep nera, dotata di
un sofisticato sistema d'allarme.
Mi slacciai la cintura di sicurezza e presi a frugare nella pila di
libri che giaceva ai miei piedi. Al pensiero di poter svelare uno dei
suoi misteri, mi si disegnò sulle labbra un sorriso enigmatico. Non
mi aspettavo di trovare niente in particolare, ma mi sarei
accontentata volentieri della combinazione del suo armadietto o
del suo indirizzo.
Spostando con la punta dei piedi vecchi compiti di scuola che
ingombravano i tappetini, trovai un rinsecchito deodorante per
ambienti al profumo di pino, un Cd degli AC/DC, Highway to Hell,
dei mozziconi di matita e uno scontrino del supermercato di
mercoledì alle 10.18. Niente di sorprendente o significativo.
Aprii il vano portaoggetti e spulciai il manuale d'istruzioni e altri
documenti dell'auto. Poi vidi un luccichio e un attimo dopo la
mano incontrò la consistenza del metallo. Tirai fuori una torcia
elettrica e la accesi, ma non accadde nulla. Svitai la parte inferiore
perché mi sembrava troppo leggera e, infatti, mancavano le batterie.
Mi chiesi perché Patch tenesse in macchina un oggetto inutilizzabile
Fu l'ultima cosa che pensai prima che i miei occhi mettessero a
fuoco un liquido color ruggine, rappreso sul lato della torcia.
Sangue.
Con molta attenzione la rimisi giù e richiusi il portaoggetti.
Dissi a me stessa che c'erano moltissime cose che potevano giustificare una macchia di sangue su una torcia: tenerla con una
mano ferita, usarla per spingere un animale morto sul ciglio
della strada... scagliarla con forza e ripetutamente contro
qualcuno fino a lacerargli la pelle.
Con il cuore a mille, saltai alla prima conclusione che mi
venne in mente.
Patch aveva mentito. Aveva aggredito Marcie. Mi aveva
lasciata a casa mercoledì sera, aveva scambiato la moto con la
jeep e poi era andato a cercarla. O forse le loro strade si erano
incrociate per caso e lui aveva agito d'impulso. Comunque
fosse andata, Marcie era ferita, la polizia stava indagando e
Patch era colpevole.
Razionalmente, sapevo che il ragionamento era stato
frettoloso, ma emotivamente la posta in gioco era troppo alta
per fare un passo indietro e rifletterci più a fondo. Patch aveva
un passato spaventoso e molti, molti segreti. Se la violenza
immotivata era uno di quelli, io non ero al sicuro con lui.
Un lampo di luce in lontananza illuminò l'orizzonte. Patch
uscì dal ristorante e attraversò correndo il parcheggio con un
sacchetto marrone in una mano e due bibite nell'altra. Si avvicinò al lato del conducente e si infilò nella jeep, poi si tolse il
cappellino da baseball e scosse l'acqua dai capelli, agitando
forte le ciocche scure.
Mi porse il sacchetto dicendo: - Un tramezzino al tacchino
senza sottaceti né maionese e qualcosa per mandarlo giù.
- Hai aggredito Marcie Millar? - chiesi piano. - Voglio la
verità... subito.
Patch abbassò la 7-Up che stava bevendo e mi rivolse uno
sguardo tagliente. - Cosa?
- La torcia nel vano portaoggetti. Voglio una spiegazione.
- Hai frugato nella mia auto? -. Non sembrava infastidito,
ma neanche contento.
- La torcia è sporca di sangue. La polizia è venuta a casa
mia poco fa. Credono che io sia coinvolta. Marcie è stata
aggredita mercoledì sera, subito dopo averti raccontato che
non la sopporto.
Patch fece una risatina secca, per niente divertita. - Credi
che abbia usato la torcia per picchiare Marcie.
Allungò la mano dietro il suo sedile e ne estrasse una
grossa pistola. Urlai.
Si piegò verso di me e mi tappò la bocca con la mano. Pistola da paintball - disse gelido.
Feci correre lo sguardo dalla pistola a Patch, gli occhi
sbarrati.
- Ho giocato a paintball all'inizio della settimana - continuò.
- Credevo ne avessimo già parlato.
- Q-questo non spiega il sangue.
- Non è sangue. A paintball si spara vernice. Abbiamo
giocato a rubabandiera.
Il mio sguardo andò al vano portaoggetti. La torcia era... la
bandiera. Mi sentii sollevata e insieme idiota e anche in colpa
per averlo accusato. - Oh - mormorai. - Scusa... -. Ma forse era
un po' tardi per le scuse.
Patch guardava fisso davanti a sé mentre faceva dei respiri
profondi. Mi chiesi se stesse in silenzio per lasciar sbollire la
rabbia. In fondo l'avevo accusato di aggressione, e mi sentivo
malissimo per averlo fatto, ma ero troppo frastornata per
trovare le parole giuste per scusarmi.
- Da quello che mi hai raccontato di Marcie, sembra il tipo
di ragazza che si fa dei nemici - disse alla fine.
- E sono sicura che Vee e io siamo in cima alla lista - scherzai, cercando di far tornare il buonumore. In realtà, non stavo
scherzando. Non del tutto.
Patch si fermò davanti alla fattoria e spense il motore.
Aveva il cappellino calato sugli occhi, ma ora la bocca
accennava un sorriso. Non riuscivo a togliere lo sguardo
dalle sue labbra, lisce e morbide, ma soprattutto gli ero
riconoscente di avermi perdonata.
- Dobbiamo lavorare sul tuo stile a biliardo, angelo.
- A proposito di biliardo... -. Mi schiarii la voce- - Mi piace
rebbe sapere quando e come hai intenzione di incassare
quella cosa che ti devo.
- Non stasera -. I suoi occhi si posarono sui miei, attenti,
pronti a cogliere ogni mia reazione. Ero combattuta tra il
sollievo e la delusione. La delusione però era più forte*
- Ho qualcosa per te - disse poi. Da sorto il sedile
estrasse un sacchetto di carta bianco con dei peperoncini
rossi stampati sopra: il sacchetto da asporto del Borderline.
Lo appoggiò tra me e luì.
- Cos'è? - chiesi, sbirciando dentro la busta. Non avevo
assolutamente idea di cosa potesse esserci dentro.
- Aprilo.
Tirai fuori una scatola e la aprii. All'interno c'era una palla
con la neve e la riproduzione del parco divertimenti del
Delphic
Seaport. Fili d'ottone piegati in modo grossolano
costituivano la Ruota panoramica e i giri della morte delle
montagne russe, mentre delle lamine di metallo ossidato
formavano l'attrazione del Tappeto Volante.
- È bellissima - dissi, sbalordita dal fatto che Patch non
solo avesse pensato a me, ma si fosse preso persino il
disturbo di comprarmi un regalo.- Grazie davvero- La adoro,
Lui tocco il vetro della cupola. - Questo è l'Arcangelo
prima che lo rimodernassero -. Dietro la Ruota panoramica,
un sottile filo
metallico si snodava formando le salite e discese
dell'Arcangelo. Nel punto più alto era collocato un angelo
con le ali spezzate, il capo chino e lo sguardo fisso a
terra. - Cos'è successo quella sera sull'Arcangelo?
- Ề meglio che tu non lo sappia.
- Se me lo dicessi saresti costretto a uccidermi? -. Il
cono era scherzoso, ma solo a metà,
- Non siamo soli - rispose Patch guardando davanti a
sé.
Alzai gli occhi e vidi mia madre sulla soglia di casa.
Quando mi accorsi che scava uscendo e veniva verso
la jeep» mi prese il panico.
- Fai parlare me - intimai, rimettendo la palla con la
neve nella scatola. - Non fiatare, neanche una parola!
Patch saltò giù e girò intorno all'automobile aspettando
che scendessi anch'io e insieme raggiungemmo mia
madre a metà del vialetto.
- Non sapevo che saresti uscita - disse lei sorridendo.
Non si trattava, però, di un sorriso rilassato, quanto
piuttosto di un silenzioso: «Dopo facciamo i conti». - È stata un'idea dell'ultimo momento - spiegai.
-Sono tornata a casa subito dopo la lezione di yoga continuò mia madre. Il resto della frase era sottinteso:
«Per mia fortuna, e per tua sfortuna». In effetti, contavo
proprio sul fatto che dopo la lezione andasse a prendere
un frullato con le amiche. Lo faceva nove volte su dieci.
Poi rivolse l'accensione a Patch esclamando: Finalmente! Sono contenta di conoscerti. A quanto pare
sei il più grande ammiratore di mia figlia.
Aprii la bocca per fare delle presentazioni ultraconcise
mandare via Patch, ma mia madre fu più veloce. - Sono
la madre di Nora. Blyche Grey.
- Lui è Patch - spiegai mentre mi spremevo le meningi alla
ricerca di qualcosa da aggiungere per stroncare i convenevoli
sul nascere. Le uniche cose che mi venivano in mente, però,
erano urlare «Al fuoco!» o fingere un infarto. Ammetto che in
fondo mi sembravano più imbarazzanti del dover affrontare una
conversazione tra Patch e mia madre.
- Nora mi ha detto che sei uno sportivo - disse lei.
Sentii Patch ridere. - Uno sportivo?
- Sei nella squadra della scuola, partecipi ai campionati
locali?
- Mah, diciamo che è più un'attività... ricreativa - rispose lui,
guardandomi con aria interrogativa.
- Va comunque bene - insistè mia madre. - Dove ti alleni?
Al centro sportivo in città?
- Va bene! - esclamai approfittando del momento di pausa.
- Patch deve andare -. «Vai!» gli dissi a fior di labbra.
- È una jeep molto bella - disse ancora mia madre. - Te
l'hanno comprata i tuoi?
- Me la sono comprata da solo.
- Devi avere un ottimo lavoro.
- Faccio l'aiuto cameriere al Borderline.
Patch diceva il meno possibile, attento a rimanere ben
avvolto nel mistero. Mi chiedevo come fosse la sua vita quando
non era con me. Una parte recondita della mia mente non
poteva fare a meno di pensare al suo oscuro passato. Fino a
quel momento, però, avevo fantasticato di scoprire i suoi
segreti perché volevo provare a me stessa, e a lui, che potevo
smascherarlo. Ora, invece, volevo conoscere i suoi segreti
perché facevano parte di lui, E nonostante cercassi
continuamente di negarlo, provavo qualcosa per lui. E più
tempo trascorrevamo insieme, più chiaramente capivo che i
miei sentimenti non sarebbero svaniti.
Mia madre aggrottò la fronte. - Spero che il lavoro non ti distolga dallo studio. A mio parere, i liceali non dovrebbero
lavorare durante l'anno scolastico. Avete già così tanto da fare!
Patch sorrise. - Non è mai stato un problema.
- Ti dispiace se ti chiedo che media hai? È scortese da
parte mia?
- Oh, cavolo, si sta facendo proprio tardi - esclamai, consultando un orologio che non portavo.
Non riuscivo a credere che mia madre si stesse
comportando in modo così conformista. Era un brutto segno,
poteva significare solo che la sua prima impressione su Patch
era peggiore di quanto avessi temuto. Quella non era una
presentazione. Era un interrogatorio.
- Due virgola due - rispose Patch.
Mia madre lo fissò.
- Sta scherzando - dissi rapida, e gli rifilai una spintarella
discreta in direzione della jeep. - Patch ha da fare. Deve
andare in un posto. Ha una partita di biliardo... -. Mi tappai la
bocca con la mano. Tropo tardi, purtroppo.
- Biliardo? - ripetè mia madre, confusa.
- Nora parla della Bo's Arcade, - spiegò Patch - ma non è lì
che devo andare. Ho qualche commissione da sbrigare.
- Non sono mai stata da Bo's - insistè mia madre.
- Non è niente di eccezionale - intervenni. - Non ti sei persa
niente.
- Aspetta - fece lei, come se le si fosse appena accesa una
lucina in fondo alla testa. - E quel locale sulla costa? Vicino al
Delphic Seaport? Non c'è stata una sparatoria, qualche anno
fa?
- Ora è molto più tranquillo - rispose Patch. Gli lanciai
un'occhiataccia. Mi aveva battuto sul tempo, mentre stavo per
mentire senza battere ciglio, negando che da Bo's fosse
mai accaduto qualcosa di grave.
- Vuoi entrare per un gelato? - chiese a quel punto mia
madre.
Sembrava agitata, combattuta tra il dovere di comportarsi
con
educazione e l'istinto di trascinarmi dentro e sprangare la
porta.
- C'è solo vaniglia, però, ed è lì da qualche settimana concluse
dando il colpo di grazia.
Patch scosse il capo. - Devo proprio andare, magari la
prossima volta. È stato un piacere conoscerla, Blythe.
Approfittai della pausa per trascinare mia madre verso
la porta di casa, sollevata dal fatto che la conversazione
non fosse andata poi così male quando all'improvviso lei
si voltò.
- Che cosa avete fatto tu e Nora stasera? - chiese.
Patch mi guardò e alzò leggermente un
sopracciglio.
- Siamo andati a mangiare a Topsham - risposi svelta.
– Panini e bibite. Una serata assolutamente innocente.
Il problema era che i miei sentimenti per Patch non lo
erano affatto.
19
Rimisi la palla con la neve nella scatola e la sistemai nel mio
armadio, dietro una pila di pullover a rombi appartenuti a mio
padre. Quando avevo aperto il regalo davanti a Patch, il Delphic
mi era sembrato luccicante e bellissimo, pieno di arcobaleni di
luce che vorticavano sui fili. Adesso che ero da sola in camera
mia, però, il luna park sembrava infestato dai fantasmi. Un posto
ideale per spiriti disincarnati. E poi non ero del tutto sicura che
all'interno non fosse nascosta una telecamera.
Dopo essermi cambiata e aver indossato un top e un paio di
pantaloni del pigiama a fiorellini, chiamai Vee.
- Allora? - esordì. - Com'è andata? Mi sembra evidente che
non ti ha uccisa, e questo è un buon inizio.
- Abbiamo giocato a biliardo.
- Tu odi il biliardo.
- Mi ha insegnato Patch. Ora che capisco come funziona, non
lo trovo così male.
- Scommetto che potrebbe insegnarti un paio di altre cosette.
- Mmm -. Di solito, un commento del genere mi avrebbe fatto
arrossire, come minimo, ma in quel momento ero troppo
concentrata. Troppo occupata a pensare.
- So di averlo già detto, ma Patch non mi fa sentire del tutto
tranquilla - continuò Vee. - Ho ancora gli incubi sul tizio con il
passamontagna. Sogno che lui se lo strappa via e indovina chi
c'è sotto? Patch. Secondo me dovresti trattarlo come una pistola
carica. C'è qualcosa in lui che non è normale. Esattamente ciò di
cui volevo parlare.
- Che cosa potrebbe provocare una grossa cicatrice a V sulla
schiena? - le chiesi.
Seguì un momento di silenzio.
- Oh, mamma - esclamò Vee con voce strozzata. - L'hai visto
nudo? Dov'è successo? Nella jeep? A casa sua? In camera tua?
- Non l'ho visto nudo! È successo per caso.
- Ah, ah. Questa scusa l'ho già sentita.
- Aveva un'enorme cicatrice a forma di V rovesciata sulla
schiena. Non è un po' strano?
- Certo che è strano, ma è di Patch che stiamo parlando. Ha
delle rotelle fuori posto. Faccio qualche ipotesi... scontro tra
bande? Ricordino del carcere? Segni lasciati da una bravata come
pirata della strada?
Metà del mio cervello seguiva la conversazione con Vee,
mentre l'altra, quella più legata al subconscio, si era distratta. La
mia memoria era impegnata nella sera in cui Patch mi aveva
sfidata a salire sull'Arcangelo. Rividi i raccapriccianti, strani dipinti
che decoravano il vagone: bestie dotate di corna che strappavano
le ali all'angelo e la V capovolta, nera, in mezzo alla schiena.
Per poco non mi cadde di mano il telefono.
- S-scusa, cosa? - chiesi a Vee quando mi accorsi che lei
aveva continuato a parlare e aspettava la mia risposta.
- Cosa. E. Successo. Dopo? - ripetè scandendo le parole. Terra chiama Nora. Voglio tutti i dettagli, non posso più aspettare.
- Si è messo a fare a botte e gli si è strappata la maglia. Fine
della storia. Non c'è un dopo.
Vee inspirò a fondo. - Ecco, è esattamente quello che
intendevo.
Voi siete insieme e lui che fa? Si mette a fare a botte. Sembra
un comportamento più animale che umano.
La mia mente faceva avanti e indietro dall'immagine della cicatrice sul dipinto, alla cicatrice sulla schiena di Patch.
Entrambe erano nere come liquirizia, entrambe correvano dalle
scapole ai reni, ed entrambe erano un po' curve. Mi dissi che
c'erano buone probabilità che fosse soltanto un'agghiacciante
coincidenza il fatto che nel dipinto sull'Arcangelo si vedesse
una cicatrice identica a quella di Patch. Mi dissi anche che una
cicatrice come quella poteva essere spiegata in un sacco di
modi. Uno scontro tra bande, una lezione ricevuta in carcere,
le conseguenze di un incidente... proprio come aveva
teorizzato Vee. Sfortunatamente, nessuna di queste ipotesi
stava in piedi. Era come se la verità fosse proprio di fronte a
me, ma io non avessi il coraggio di guardarla in faccia.
- E stato un angelo? chiese Vee.
Feci un salto. - Cosa?
- E stato un angelo o ha confermato la sua immagine da
cattivo ragazzo? Perché, se posso essere sincera, non mi
convince molto questa storia del non-ci-ha-provato-per-niente.
- Vee? Devo andare - farfugliai.
- Certo! Vuoi riagganciare senza darmi tutti i dettagli della
faccenda.
- Non è successo niente, né prima né dopo. Abbiamo
incontrato mia madre sul vialetto.
- Non ci credo!
- Mi sa che Patch non le piace.
- Ma dai? Chi l'avrebbe mai detto?
- Ti chiamo domani, okay?
- Sogni d'oro, bellezza.
«Difficile» pensai.
Dopo aver salutato Vee, andai nella stanza che mia madre
aveva adibito a studio e accesi il nostro computer d'epoca.
La stanza era piccola e con il tetto spiovente: più un
sottotetto che una stanza vera e propria. La finestra, con il
vetro sempre opaco e le tendine anni settanta arancione
sbiadito, si affacciava sul cortile laterale. Riuscivo a stare in
piedi solo nel trenta per cento della stanza circa, mentre nel
rimanente settanta per cento sfioravo con la testa le travi del
soffitto, da cui pendeva una nuda lampadina.
Dieci minuti dopo, il computer si collegò a Internet e io
digitai cicatrici ali angelo nella stringa di ricerca di Google. Il
dito indugiò un attimo sul tasto di invio. Andare fino in fondo
significava ammettere che stavo davvero prendendo in
considerazione che Patch fosse... come dire... non umano.
Prima di cambiare idea, premetti il tasto di invio e cliccai sul
primo link dell'elenco.
ANGELI CADUTI: LA SCONVOLGENTE VERITÀ
In seguito alla creazione del Giardino dell'Eden, furono
inviati sulla Terra degli angeli del Paradiso affinché vegliassero
su Adamo ed Eva. Presto, però, alcuni angeli misero gli occhi
sul mondo che stava oltre i confini del Giardino, e, attirati dalla
brama di potere, di denaro e persino dalle donne umane, si
misero in testa di dominare il popolo della Terra. Insieme,
cercarono di convincere Eva a mangiare il frutto proibito,
causando l'apertura delle porte che stavano a difesa del paradiso terrestre. Come punizione per il grave peccato commesso e
per essere venuti meno al loro dovere, Dio strappò le ali agli
angeli e li esiliò sulla Terra per sempre.
Saltai un paio di paragrafi, i battiti del cuore sempre più
irrequieti.
Gli angeli caduti sono gli stessi spiriti maligni (o demoni) che,
secondo la Bibbia, prendono possesso dei corpi degli uomini. Gli
angeli caduti vagano per la Terra in cerca di corpi umani da
tormentare e controllare. Inducono gli uomini a commettere atti
malvagi comunicando pensieri e immagini direttamente alla loro
mente. Se un angelo caduto riesce a spingere un uomo verso il
male, può entrare nel suo corpo e influenzare la sua personalità e
le sue azioni.
Tuttavia, il possesso di un corpo umano da parte di un angelo
caduto può avvenire soltanto durante il mese ebraico di
Cheshvan. Cheshvan, conosciuto anche come "il mese amaro"
è l'unico privo di festività ebraiche o digiuni, fatto che lo rende
un mese profano. Tra la luna nuova e la luna piena di
Cheshvan, orde di angeli caduti possiedono i corpi umani.
Per qualche minuto restai a fissare lo schermo senza
pensare a nulla. Assolutamente a nulla. Un groviglio di
emozioni si agitava dentro di me: ero raggelata, in preda al
panico e attraversata da brutti presentimenti.
Poi un brivido mi riportò alla realtà. Ripensai alle volte in cui
ero stata sicura che Patch avesse aperto un varco nei sistemi
della normale comunicazione e sussurrasse direttamente alla
mia mente, proprio come sosteneva l'articolo che avevo
appena finito di leggere. Se a questo aggiungevo le sue
cicatrici, potevo dedurne che... possibile che Patch fosse un
angelo caduto? Aveva intenzione di entrare nel mio corpo?
Diedi una scorsa veloce al resto del testo, fermandomi solo
quando trovai qualcosa di ancora più strano.
Gli angeli caduti che hanno un rapporto sessuale con un
umano danno origine a una progenie di superumani chiamati
Nephilim. Quella dei Nephilim è una razza malvagia e disumana
che non avrebbe mai dovuto popolare la Terra. Sebbene molti
ritengano che lo scopo del Diluvio Universale ai tempi di Noè
fosse quello di spazzare via dalla Terra i Nephilim, non abbiamo
modo di sapere se questa razza, ibrida si sia estinta e se gli
angeli caduti abbiano continuato a riprodursi con gli umani. Se,
come appare logico, hanno continuato a farlo, è probabile che la
razza Nephilim continui a esistere sulla Terra.
Mi spinsi lontano dalla scrivania. Stipai tutto quello che
avevo letto in una cartella mentale e la archiviai con la dicitura
"spaventoso". Non volevo pensarci subito, lo avrei fatto più
tardi. Forse.
Il cellulare mi vibrò in tasca, facendomi sobbalzare.
- Abbiamo già stabilito se gli avocado sono verdi o gialli? chiese Vee. - Ho esaurito le porzioni di frutta verde per oggi,
ma se mi dici che gli avocado sono gialli sono a posto.
- Tu credi nei supereroi?
- Dopo aver visto Tobey Maguire in Spiderman, sì. E poi c'è
anche Christian Bale; più vecchio, ma sempre figo da paura.
Da lui mi farei salvare volentieri dai ninja armati di sciabola.
- Non sto scherzando.
- Neanch'io.
- Quand'è stata l'ultima volta che sei andata in chiesa? - le
domandai.
Sentii che faceva scoppiare una bolla fatta con la gomma da
masticare. - Domenica.
- Credi che la Bibbia sia attendibile? Cioè, credi che quello
che c'è scritto sia vero?
- Credo che il pastore Calvin sia sexy, per essere sulla
quarantina. Il che riassume la quasi totalità delle mie
convinzioni religiose.
Dopo aver riattaccato, andai in camera mia e mi infilai
a letto. All'improvviso, avevo talmente freddo che dovetti
aggiungere una coperta. Non riuscivo a capire se fosse la
stanza a essere gelida o se il gelo fosse dentro di me. Le
parole "angelo caduto", "possesso di uomini" e "Nephilim"
mi ossessionarono finché non mi addormentai.
20
Passai una notte agitata. Il vento soffiava a raffiche sui campi e
si abbatteva sulla fattoria, lanciando sventagliate di polvere e
sassolini contro le finestre. Mi svegliai diverse volte per colpa
del rumore delle assi del tetto che scivolavano via e cadevano
a terra. Ogni più piccolo rumore, dal tintinnio dei vetri al cigolio
delle molle del letto, mi faceva svegliare di soprassalto.
Verso le sei mi arresi, mi trascinai fuori dalle lenzuola e percorsi silenziosamente il corridoio per buttarmi sotto la doccia.
Poi diedi una ripulita alla stanza, misi in ordine l'armadio e,
ovviamente, riempii il cesto della biancheria sporca con tre
carichi di lavatrice. Mi stavo arrampicando per le scale con un
altro carico di bucato, quando bussarono alla porta. Aprii e mi
trovai davanti Elliot.
Indossava un paio di jeans, una camicia scozzese con le
maniche arrotolate fino ai gomiti, gli occhiali da sole e un
cappellino dei Red Sox. Aveva il tipico aspetto del bravo
ragazzo americano, ma io sapevo come stavano le cose in
realtà, e una scarica di adrenalina me ne diede la conferma.
- Nora Grey - disse e la sua voce suonò falsa e condiscendente. Si piegò verso di me sorridendo. - Mi hai procurato un
sacco di problemi ultimamente -. L'acre odore d'alcol nel suo
alito mi investì.
- Che ci fai qui?
Sbirciò alle mie spalle, in casa. - Cosa credi che voglia?
Parlare. Non mi inviti a entrare?
- Mia madre dorme, non voglio svegliarla.
- Non ho mai incontrato tua madre -. Qualcosa nel modo in
cui lo disse mi fece rizzare i peli sulla nuca.
- Desolata. Hai bisogno di qualcosa?
Mi rivolse un altro sorriso a metà tra lo sdolcinato e lo sprezzante. - Io non ti piaccio, vero, Nora Grey?
Per tutta risposta, incrociai le braccia.
Fece un passo indietro barcollando, una mano sul cuore. Oh, Nora, sono qui nel tentativo disperato di convincerti che
sono un tipo a posto e che puoi fidarti di me. Non
abbandonarmi.
- Senti Elliot, ho da fare...
Tirò un pugno contro la parete, picchiando così forte da far
cadere dei pezzi di intonaco. - Non ho finito! - farfugliò eccitato.
Improvvisamente, gettò indietro la testa e rise, poi si chinò, si
mise la mano sanguinante tra le ginocchia e gemette. - Dieci
dollari che lo rimpiangerò amaramente.
L'aspetto di Elliot mi dava i brividi. Ricordavo che, solo
qualche giorno prima, l'avevo trovato bello e affascinante.
Come avevo potuto essere tanto idiota?
Stavo contemplando l'idea di chiudere la porta e dare un
paio di mandate, quando Elliot si tolse gli occhiali da sole
mostrando un paio d'occhi iniettati di sangue. Si schiarì la voce
e disse: - Sono venuto per dirti che Jules è parecchio sotto
pressione per via della scuola. Esami, consiglio d'istituto, la
richiesta per la borsa di studio e mille altre cose. Si comporta in
modo strano ultimamente, ha bisogno di staccare per qualche
giorno. Noi quattro: tu, io, Jules e Vee, dovremmo andarcene in
campeggio per le vacanze di primavera. Partiamo domani per
Powder Horn e torniamo martedì
pomeriggio. Così Jules potrà rilassarsi un po' -. Ogni parola che gli
era uscita di bocca, ogni singola parola, sembrava essere stata
provata e riprovata con una precisione maniacale e spaventosa.
- Mi dispiace, ho altri programmi.
- Permettimi di convincerti a cambiare idea. Penso a tutto io:
itinerario, tende, cibo. Ti farò vedere quanto sono bravo, ci
divertiremo!
- Credo che dovresti andartene.
Elliot appoggiò la mano allo stipite e si abbassò verso di me.
- Risposta sbagliata -. Per un istante, lo stupore vitreo nei suoi
occhi sparì, offuscato da qualcosa di perverso e sinistro.
Istintivamente, indietreggiai. Ero quasi certa che Elliot potesse
uccidermi e che la morte di Kjirsten fosse stata davvero opera sua.
- Vattene o chiamo la polizia.
Elliot aprì di scatto la porta a zanzariera, così forte da farla
rimbalzare contro la parete di casa. Poi mi afferrò per l'accappatoio
e mi trascinò fuori, gettandomi contro il muro dove mi bloccò con il
suo corpo. - Tu verrai in campeggio, che ti piaccia o no.
- Togliti di dosso! - dissi cercando di liberarmi.
- Oppure cosa? Cosa fai? -. Mi teneva per le spalle e mi spingeva contro il muro, facendomi sbattere i denti.
- Adesso chiamo la polizia -. Chissà come, riuscii a dirlo in modo
che suonasse coraggioso. Avevo il respiro corto, le mani sudate.
- E come la chiami, gridando? Non ti sentiranno. Se vuoi che ti
lasci, giura che verrai in campeggio.
- Nora?
Elliot e io ci voltammo verso la porta, da dove arrivava la voce di
mia madre. Lui tenne le mani su di me ancora un momento, poi
emise un verso disgustato e mi lasciò. Arrivato a metà dei
gradini della veranda, mi guardò con la coda dell'occhio e disse: Non finisce qui.
Con gli occhi che mi bruciavano, corsi dentro e chiusi a chiave.
Mi appoggiai con la schiena alla porta e mi lasciai cadere giù, fino
a sedermi sul tappeto dell'ingresso, lottando contro l'impulso di
mettermi a singhiozzare.
Mia madre apparve in cima alle scale. - Nora, che succede?
Chi era? - chiese, mentre si annodava la cintura della vestaglia.
Cercai di ricacciare indietro le lacrime. - Un compagno di
scuola -. La voce però mi tremava. Ero già abbastanza scossa per
la serata con Patch. Sapevo che mia madre era stata invitata al
matrimonio della figlia di una collega, ma se le avessi detto del
comportamento di Elliot non ci sarebbe andata, per nessun
motivo. E quella era l'ultima cosa che volevo, perché la mia
intenzione era andare a Portland e indagare proprio su Elliot.
Anche uno straccio di prova sarebbe bastata a sbatterlo in carcere
e, finché non fosse successo, io non sarei stata al sicuro.
Percepivo in lui una violenza che cresceva senza controllo e non
volevo aspettare di vedere cosa sarebbe successo se fosse
esplosa. - Voleva i miei appunti sull'Amleto - dissi cercando di
mantenere un tono neutro. - La scorsa settimana ha copiato il mio
compito e a quanto pare ci ha preso gusto.
- Oh, tesoro -. Mamma mi raggiunse e mi accarezzò i capelli
bagnati, ormai gelidi. - Capisco che tu sia sconvolta. Vuoi che
chiami i suoi genitori?
Scossi la testa.
- Allora vado a preparare la colazione - aggiunse. - Tu finisci di
vestirti, così ti faccio trovare tutto pronto.
Quando il telefono squillò ero davanti all'armadio.
- Hai sentito? Noi quattro ce ne andiamo in campeggio per
le vacanze di primavera! - esultò Vee.
- Vee - mormorai - Elliot ha in mente qualcosa, qualcosa di
spaventoso. L'unica ragione per cui vuole portarci in
campeggio è rimanere da solo con noi. Invece noi non
andremo da nessuna parte.
- Stai scherzando, vero? Finalmente possiamo fare
qualcosa di eccitante e tu non sei d'accordo? Sai che mia
madre non mi lascerebbe andare da sola. Farò quello che vuoi,
giuro. Ti faccio i compiti per una settimana. Dai, Nora. Solo una
parolina. Dilla, quella parolina che inizia per s...
La mano con cui tenevo il telefono si mise a tremare e
dovetti tenerla ferma con l'altra. - Elliot si è presentato a casa
mia un quarto d'ora fa, ubriaco. Mi ha... minacciata.
Lei rimase un attimo in silenzio. - Cosa vuol dire,
minacciata7.
- Mi ha trascinata fuori di casa e mi ha sbattuta contro il
muro.
- Ma era ubriaco, giusto?
- Cambia qualcosa? - chiesi bruscamente.
- Be', gliene sono successe tante negli ultimi tempi. E stato
accusato ingiustamente di essere coinvolto nel suicidio di una
ragazza e costretto a cambiare scuola. Se ti ha fatto del male,
e non lo sto giustificando, ovvio, forse è solo perché ha
bisogno d'aiuto. Forse gli serve uno psicologo.
- Se mi ha fatto del male?
- Era ubriaco. Forse non sapeva quello che faceva. Domani
si sentirà uno schifo.
Aprii la bocca e la richiusi. Non riuscivo a credere che Vee lo
stesse difendendo. - Devo andare - risposi secca. - Ci
sentiamo più tardi.
- Posso essere sincera, tesoro? So che sei preoccupata per
il tizio con il passamontagna. Non odiarmi, ma credo che l'unica
ragione per la quale stai cercando con tutte le forze di
inchiodare Elliot è che non vuoi ammettere possa essere stato
Patch. Stai razionalizzando tutto e questa cosa mi manda in
paranoia.
Ero senza parole. - Razionalizzando? Patch non è venuto
qui a scaraventarmi contro il muro.
- Senti, non avrei dovuto dirlo. Lasciamo perdere, okay?
- Okay - dissi asciutta.
- Allora, che fai oggi?
Misi la testa fuori dalla camera per sentire dove fosse mia
madre. Dalla cucina, arrivò il suono del cucchiaio che sbatteva
contro una terrina. Una parte di me non vedeva perché dovessi
raccontare i miei programmi a Vee, un'altra parte era
arrabbiata e cercava lo scontro. Vee voleva conoscere i miei
piani? Benissimo. Non era un problema mio se poi non le
andavano a genio. - Appena mia madre esce per andare a un
matrimonio, vado a Portland -. Il matrimonio iniziava alle
quattro del pomeriggio e tra il ricevimento e tutto il resto,
mamma non sarebbe tornata prima delle nove. Avevo tutto il
tempo per andare a Portland e rientrare prima di lei. - In effetti,
mi chiedevo se potessi prestarmi la Neon. Non voglio che mia
madre veda quanti chilometri farò.
- Accidenti! Vuoi andare a spiare Elliot, vero? Vuoi ficcare il
naso dalle parti della Kinghorn.
- Faccio un po' di shopping e poi mangio qualcosa lì risposi mentre facevo scorrere le grucce nell'armadio. Tirai giù
una maglia a maniche lunghe di un tessuto leggero, i jeans e
un berretto di maglia a strisce bianche e rosa che riservavo
alle giornate no e ai fine settimana.
- Mangiare qualcosa significa fermarsi in una certa tavola
calda che si trova a pochi isolati dalla Kinghorn Prep? Il posto
dove lavorava comesichiama Kjirsten?
- Non è una cattiva idea. Magari ci vado.
- E mangerai davvero qualcosa o ti limiterai a interrogare i
camerieri?
- Potrei anche fare qualche domanda. Mi presti la Neon o no?
- Certo che sì - rispose. - A cosa servono le migliori amiche?
Anzi, ti terrò compagnia in questa scarpinata destinata al fallimento. Prima, però, devi promettermi che verrai in campeggio.
- Non importa. Prenderò l'autobus.
- Del campeggio parliamo più tardi! - gridò Vee prima che
riuscissi a riagganciare.
Ero stata diverse volte a Portland, ma non conoscevo bene la
città. Scesi dall'autobus armata di cellulare, cartina e della mia
bussola interna. Gli edifici di mattoni rossi erano alti e stretti e
coprivano la vista del sole al tramonto, che bruciava rosso dietro
una distesa di nubi temporalesche; le strade erano schermate da
un drappo d'ombra.
Le facciate dei negozi avevano tutte una veranda e delle
insegne caratteristiche sulle porte, le vie erano illuminate da
lampioni neri. Dopo diversi isolati, le strade congestionate
lasciavano posto a un'area alberata: proprio lì un cartello indicava
la direzione per la Kinghorn Prep. Oltre le cime degli alberi
spiccava una cattedrale, un campanile e la torre dell'orologio.
Rimasi sul marciapiede e svoltai l'angolo prendendo la
Trentaduesima Strada. Il porto era poco distante e, dietro i
negozi, si intravedevano le barche che attraccavano al molo. A
metà della Trentaduesima Strada vidi l'insegna della tavola calda
Blind Joe. Tirai fuori l'elenco delle domande e le rilessi un'ultima
volta. Il piano prevedeva che non dessi l'impressione di fare una
vera e propria intervista. Speravo che facendo saltar
fuori casualmente l'argomento Kjirsten con i dipendenti avrei
potuto strappare informazioni che i reporter prima di me si
erano lasciati sfuggire. Augurandomi di aver memorizzato tutto,
gettai la lista in un bidone dei rifiuti.
Entrai, accompagnata da uno scampanellio.
Il pavimento era di piastrelle bianche e gialle e le panche
erano rivestite di stoffa blu. Ai muri erano appese fotografie del
porto. Mi tolsi la giacca e sedetti a un tavolo vicino alla porta.
Comparve una cameriera con un grembiule bianco tutto
macchiato. - Mi chiamo Whitney - mi disse acida. - Benvenuta
al Blind Joe. I piatti del giorno sono tramezzino al tonno e
zuppa d'aragosta -. Impugnava la penna, pronta a prendere
l'ordinazione.
- Blind Joe? -. Corrugai la fronte e mi tamburellai sul mento
con un dito. - Perché questo nome mi suona familiare?
- Non li leggi i giornali? Siamo stati in prima pagina per una
settimana intera il mese scorso. Abbiamo avuto il nostro quarto
d'ora di celebrità.
- Oh! - esclamai come se avessi avuto un'ispirazione
improvvisa. - Ora ricordo. C'è stato un omicidio, giusto? Non
lavorava qui la ragazza?
- Kjirsten Halverson -. La cameriera batté impaziente la
penna sul foglio. - Vuoi che ti porti una porzione di zuppa,
intanto?
Non avevo voglia d'aragosta. In realtà, non avevo fame. Dev'essere stata dura. Eravate amiche?
- Cavolo, no. Hai intenzione di ordinare o cosa? Voglio confi
darti un piccolo segreto: se non lavoro, non mi pagano e se
non mi pagano non posso pagare l'affitto.
All'improvviso, desiderai che a prendere il mio ordine ci fosse il
cameriere dell'altro settore della tavola calda. Era basso, calvo
fino alle orecchie e magro come uno degli stuzzicadenti
offerti dalla casa. Non alzava mai gli occhi a più di un metro
da terra. Se davvero era così triste, un sorriso amichevole
sarebbe bastato a fargli spiattellare tutta la storia di Kjirsten.
- Scusa, - dissi a Whitney - ma non riesco proprio a
smettere di pensare all'omicidio. Certo, per te ormai è storia
vecchia... questo posto dev'essere stato pieno di giornalisti,
con tutte quelle domande...
Lei mi lanciò uno sguardo penetrante. - Hai bisogno di
qual-che minuto per dare un'occhiata al menu?
- Io trovo i giornalisti davvero irritanti.
Si abbassò verso di me e appoggiò una mano sul tavolo.
- Io, invece, trovo davvero irritanti i clienti che se la
prendono troppo comoda.
Sospirai e aprii di scatto il menu. - Che cosa mi consigli?
- E tutto buono. Chiedi al mio ragazzo -. Si sforzò di
sorridere. - È il cuoco.
- A proposito di ragazzi... Kjirsten ne aveva uno? -.
«Ottimo aggancio» pensai.
- Confessa. Sei una poliziotta, un avvocato, una
giornalista?
- Solo una cittadina curiosa.
- Sì, come no. Facciamo così: tu ordini milkshake,
patatine, hamburger, zuppa d'aragosta, mi lasci un
venticinque per cento di mancia, e io ti racconto tutto quello
che ho detto anche agli altri.
Valutai le due opzioni: la mia intera paghetta settimanale
contro le sue risposte. - Andata.
- Kjirsten stava insieme a quel ragazzo, Elliot Saunders,
quello di cui hanno parlato i giornali. Era sempre qui e la
riaccompagnava a casa alla fine del turno.
- Hai mai parlato con Elliot?
- No.
- Credi che Kjirsten si sia suicidata?
- Come faccio a saperlo?
- Ho letto sul giornale che nel suo appartamento è
stato trovato un biglietto; diceva di volersi uccidere, ma
c'erano anche dei chiari segni di effrazione.
- E allora?
- Non lo trovi un po'... strano?
- Mi stai chiedendo se penso che Elliot abbia potuto
mettere quel biglietto in casa di Kjirsten? Certo che lo
penso. Uno ricco come lui può fare qualsiasi cosa e
passarla liscia. Può anche aver pagato qualcuno perché
piazzasse quel biglietto. Quando hai i soldi, funziona così.
- Non credo che Elliot abbia tanti soldi -. Avevo sempre
avuto l'impressione che fosse Jules quello ricco. Vee non
la smetteva di parlare della sua casa. - Credo
frequentasse la Kinghorn Prep con una borsa di studio.
- Borsa di studio? - fece eco lei, sbuffando. - Che c'era
nell'acqua che hai bevuto? Se Elliot non aveva un
mucchio di soldi, come faceva a comprare un
appartamento a Kjirsten, me lo spieghi?
Feci fatica a non mostrare la mia sorpresa. - Le aveva
comprato un appartamento?
- Kjirsten non faceva altro che parlarne, ti rincretiniva
con quella storia.
- Perché le avrebbe comprato un appartamento?
Whitney mi fissò con le mani sui fianchi. - Non dirmi
che sei davvero così stupida.
Oh. Tranquillità. Intimità. Capito.
- Sai perché Elliot ha cambiato scuola?
- Non sapevo che l'avesse fatto.
Tirai le fila delle risposte che avevo avuto e cercai di
ricordarmi cos'altro avevo in mente di chiedere. - Lui
incontrava qui i suoi amici? Altre persone, a parte Kjirsten?
- E come faccio a ricordarmelo? -. Alzò gli occhi al cielo e
aggiunse: - Ti sembro una che ha la memoria fotografica?
- Magari un ragazzo molto alto? Davvero molto alto.
Lunghi capelli biondi, bello, abiti su misura.
Lei si strappò via un'unghia rotta con i denti e la lasciò
cadere nella tasca del grembiule. - Sì, mi ricordo di quel tipo.
Difficile dimenticarsene, sempre silenzioso e di cattivo
umore. È venuto una o due volte, non tanto tempo fa. Forse
proprio nel periodo in cui è morta Kjirsten. Me lo ricordo
perché avevamo i tramezzini al manzo sotto sale per il giorno
di San Patrizio e non c'è stato verso di fargliene ordinare uno.
Mi guardava storto, sembrava che, se fossi rimasta ancora
un po' lì a elencargli i piatti del giorno, mi avrebbe tagliato la
gola all'istante. Comunque credo di ricordare qualcosa. Non
sono una ficcanaso, ma ho le orecchie, e non posso evitare di
ascoltare. L'ultima volta che quel tipo e Elliot sono stati qui,
erano piegati sul tavolo e parlavano di una prova.
- Che tipo di prova?
- E io che ne so? Da quel che ho sentito, sembrava che il
tipo alto non avesse superato una prova. Elliot non ne era
affatto contento. Ha spinto indietro la sedia ed è uscito come
una furia. Non ha neanche finito di mangiare.
- Hanno fatto il nome di Kjirsten?
Il tipo alto è arrivato per primo e ha chiesto se lei stesse
lavorando. Gli ho detto di no, che non stava lavorando e lui
si è attaccato al telefono. Dieci minuti dopo è arrivato Elliot.
Era sempre Kjirsten a servire il tavolo di Elliot ma, come ho
già detto,
lei non c'era quindi me ne sono occupata io. Se hanno
parlato di lei, io non ho sentito. Comunque ho avuto
l'impressione che il tipo alto non la volesse tra i piedi.
- Ti ricordi nient'altro?
- Dipende. Hai intenzione di ordinare il dolce?
- Credo che prenderò una fetta di torta.
- Torta? Ti do cinque minuti del mio preziosissimo
tempo e tu ordini solo una fetta di torta? Ti sembro il tipo
che non ha di meglio da fare che starsene qui a
chiacchierare con te?
Mi guardai intorno. Il posto era deserto. A parte un
uomo al banco che leggeva il giornale, ero l'unica cliente.
- Okay... - dissi, concentrandomi sul menu.
- Prendi un succo di lamponi per mandare giù quella
torta -. Scarabocchiò qualcosa sul blocchetto e continuò: E un caffè -. Si appuntò anche quello. - Naturalmente mi
aspetto un'ulteriore mancia del venti per cento -. Mi
trafisse con un sorrisetto soddisfatto, quindi infilò il
blocchetto nella tasca del grembiule e se ne andò
ancheggiando in cucina.
21
Quando uscii dalla tavola calda il tempo era cambiato: la serata
era fredda e piovigginosa. I lampioni diffondevano uno strano
colore innaturale, giallognolo, che riusciva a penetrare la fitta
nebbia che intasava le strade. Mi complimentai con me stessa
per aver controllato le previsioni del tempo e aver portato
l'ombrello. Passando davanti alle vetrine dei locali, vidi che i
bar si riempivano di gente.
Ero a pochi isolati dalla fermata dell'autobus, quando
avvertii l'ormai familiare sensazione di gelo alla nuca. L'avevo
provata la notte in cui ero sicura che qualcuno stesse
spiandomi dalla finestra della mia camera, poi al Delphic e di
nuovo prima che Vee uscisse dal negozio Victoria's Secret con
il mio giubbetto addosso. Mi chinai facendo finta di allacciarmi
una scarpa, guardandomi intorno con aria furtiva. I marciapiedi
su entrambi i lati della strada erano deserti.
Il semaforo cambiò colore e io mi mossi. Accelerai il passo,
la borsa stretta sotto il braccio, sperando che l'autobus fosse
puntuale. Attraversai un vicolo, superai un bar passando
accanto a un gruppo di fumatori e sbucai nella strada
successiva. Percorsi a piccole falcate un isolato, svoltai in un
altro vicolo e girai intorno al caseggiato. Tutto questo
guardandomi continuamente alle spalle.
Sentii il rombo dell'autobus che, infatti, un attimo dopo
girò l'angolo materializzandosi dalla nebbia. Rallentò, accostò
al marciapiede e io salii a bordo, diretta a casa. Ero l'unico
passeggero.
Mi sedetti diverse file dietro l'autista, scivolando sul sedile
per evitare di essere vista. Lui tirò forte la leva di chiusura
delle porte e l'autobus riparti. Stavo per concedermi un
sospiro di sollievo, quando ricevetti un sms da Vee.
«DOVE 6?»
«PORTLAND, risposi. «TU?»
«ANKE IO. A 1 FESTA CN JULES E ELLIOT.
RAGGIUNGICI.»
«XKÈ 6 A PORTLAND?!»
Invece di aspettare la risposta, la chiamai. Era una cosa
urgente, non potevo perdere tempo.
- Allora che ne dici? - esordì Vee. - Hai voglia di venire a
una festa?
- Tua madre lo sa che sei a una festa con due ragazzi? A
Portland?
- Cominci a sembrarmi nevrotica, tesoro.
- Non posso credere che tu sia venuta qui con Elliot! -.
Avvertii un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. - Lui lo
sa che stai parlando con me?
- Così può venire a ucciderti? No, mi dispiace. Lui e Jules
hanno fatto una scappata a Kinghorn a prendere qualcosa e io
mi sto congelando da sola. Ehi! - urlò Vee, chiaramente a
qualcun’altro. - Giù le mani, okay? Ho detto giù! Nora? Non
sono proprio in un bel posto. Devi fare in fretta.
- Dove sei?
- Aspetta... okay, sul palazzo di fronte vedo un numero...
1727.
La via è Highsmith, ne sono quasi sicura.
- Arrivo appena posso, ma non mi fermo. Torno a casa e tu
vieni con me. Fermi l'autobus! - gridai al conducente.
Pigiò sui freni mandandomi a sbattere contro il sedile
davanti.
- Può dirmi da che parte è la Highsmith? - gli chiesi quando
arrivai in fondo al corridoio.
Mi indicò il lato destro dell'autobus. - Di là. Hai intenzione di
andare a piedi? -. Mi squadrò da cima a fondo. - Perché ti
avverto, è un brutto quartiere.
Fantastico.
Dopo aver percorso un paio di isolati, capii che l'autista
aveva perfettamente ragione.
Lo scenario cambiò
drasticamente. Le caratteristiche facciate dei negozi lasciarono
il posto a edifici ricoperti di graffiti delle bande del posto. Le
finestre erano buie e sprangate da sbarre di ferro. I marciapiedi
parevano sentieri desolati che si allungavano nella nebbia.
E proprio dalla nebbia arrivò un rumore basso di ferraglia e
poi apparve una donna che spingeva un carrello, pieno di sacchetti della spazzatura. Gli occhi color uva passa, tondi e scuri,
si mossero a scatti su di me come quelli di un predatore.
- Cos'abbiamo qui? - disse, la bocca uno squarcio privo di
denti.
Mi tirai un po' indietro tenendomi stretta la borsa.
- Sembra una giacca, muffole e un cappello di lana. Bello disse. - Ho sempre voluto per me un cappello di lana così
bello.
- Salve - dissi, schiarendomi la voce e sforzandomi di
suonare amichevole. - Per favore, può dirmi quanto manca a
Highsmith Street?
Ridacchiò.
- L'autista dell'autobus mi ha detto che è da questa parte continuai, un po' meno sicura.
- Ti ha detto così? - brontolò. - Io so da che parte è
Highsmith e non è da questa parte.
Aspettai, ma non aggiunse altro. - Crede che potrebbe aiutarmi? - chiesi.
- Io so da che parte andare -. Si toccò la testa con un dito
che somigliava a un ramo deformato e nodoso. - Tengo tutto
qui dentro.
- Allora, può dirmi quale direzione prendere? - la incoraggiai.
- Oh, non posso dirtelo gratis - rispose con tono di rimprovero. - Ti costerà qualcosa. Una ragazza deve guadagnarsi da
vivere. Nessuno ti ha mai detto che nella vita niente è gratis?
- Non ho denaro -. Non molto, comunque, giusto i soldi per
pagarmi il biglietto del ritorno.
- Hai una giacca bella calda.
Mi guardai il piumino. Un vento gelido mi agitava i capelli e
alla sola idea di togliermi la giacca mi venne la pelle d'oca. Me l'hanno appena regalata, per Natale.
- Mi si sta congelando il fondoschiena a stare qui - brontolò.
- Vuoi che ti aiuti o no?
Non riuscivo a credere di essere davvero lì. Non riuscivo a
credere che stavo barattando la mia giacca con una
senzatetto. Vee era così in debito con me da poterci restare a
vita.
Mi tolsi il piumino e la guardai mentre se lo infilava.
Il respiro si condensava in nuvole dì vapore. Le braccia
strette intorno al corpo, mi misi a battere i piedi per restare
calda.
- Adesso può dirmi come arrivare a Highsmith? Per favore?
- Vuoi la strada lunga o quella corta?
- Co-corta - risposi battendo i denti.
- Allora ti costerà qualcosa in più. La strada corta ha dei
costi aggiuntivi. Come ho detto, ho sempre voluto un
cappello di lana cosi bello.
Mi sfilai il berretto. - Highsmith? - chiesi, cercando di mantenere un tono amichevole mentre glielo passavo.
- Vedi quel vicolo? - disse indicando un punto alle mie
spalle.
Mi voltai. Il vicolo era a mezzo isolato da lì. - Dall'altra
parte c'è Highsmith.
Tutto qui? - esclamai. - Un isolato di distanza?
La buona notizia è che hai poca strada da fare. La brutta
notizia è che con questo freddo nessuna strada sembra
corta. Certo, io sto al calduccio con la mia bella giacca e il
mio bel cappello. Dammi anche le muffole e ti
accompagno fin lì.
Abbassai lo sguardo sulle muffole. Almeno le mani erano
calde. - Ce la faccio da sola.
Alzò le spalle, spinse il carrello fino all'angolo successivo e
si sistemò contro il muro, come a guardia del proprio
territorio.
Il vicolo era buio e ingombro di bidoni della spaziatura, scatole
di cartone bagnate e un grosso affare non meglio
identificato che avrebbe potuto essere uno scaldabagno
abbandonato. Oppure un tappeto arrotolato con dentro un
cadavere. Un alto reticolato divideva a metà il vicolo.
Riuscivo a malapena a scavalcare una recinzione di un
metro nei giorni sì, figuriamoci se potevo pensare di provarci
con quella, che era alta almeno tre metri. Per di più ero
bloccata dai palazzi su entrambi i lati, le cui finestre erano
sporche di grasso e sprangate.
Scavalcando cassette e sacchi d'immondizia, tornai
indietro. Sotto le scarpe scricchiolavano dei vetri rotti. Mi
saettò qualcosa di bianco tra le gambe e trattenni il fiato.
Un gatto. Solo un gatto, che svanì nell'oscurità.
Allungai la mano verso la tasca per prendere il cellulare. Volevo
mandare un messaggio a Vee e dirle di aspettarmi perchè
stavo arrivando, quando mi resi conto di averlo lasciato
nella tasca del piumino. «Perfetto» pensai. «Quante
probabilità ci sono che la barbona ti ridia il telefono?»
Zero.
Decisi di provarci comunque. Non feci in tempo a
voltarmi, che un'elegante berlina nera superò l'accesso al
vicolo. Con un improvviso bagliore, si illuminarono i
fanalini di coda.
Guidata più da un presentimento che da una ragione
precisa, mi ritrassi nell'ombra.
Si apri una portiera e si udì un suono. Spari, La portiera si
richiuse con un colpo secco e la berlina nera riparti con uno
Stridore di pneumatici. Sentivo il cuore martellarmi nel
petto e il rumore dei battiti si confuse con quello di passi
che correvano. Ci misi un attimo a capire che i passi erano
i mici, che ero io a correre verso l'ingresso del vicolo.
Svoltai l'angolo e mi fermai di colpo.
Il corpo della barbona era afflosciato sul marciapiede.
Mi avvicinai di corsa e mi inginocchiai accanto a lei. - Sta
bene? - dissi angosciata. La girai verso di me: la bocca
era spalancata» gli occhi vuoti. Il piumino che indossavo
solo tre minuti prima era intriso di un liquido scuro.
Ebbi l'impulso di scappare via, ma mi costrinsi a infilare le
mani nelle tasche della giacca. Dovevo chiedere aiuto,
ma il cellulare non c'era.
All'angolo della strada vidi una cabina telefonica. La
raggiunsi e chiamai il 911. Mentre aspettavo che un
operatore rispondesse, mi voltai a guardare il corpo della
donna e fui attraversata da una scarica di adrenalina. Il
corpo era sparito.
La mano mi tremava, mentre riagganciavo. Sentii un
rumore di passi che si avvicinavano, ma non riuscivo a
capire quanto fossero già vicini.
Ciac, ciac, ciac.
«È qui» pensai. «L'uomo con il passamontagna.» Infilai
alcune monete nel telefono e afferrai il ricevitore con tutt'e
due le mani. Cercai di richiamare alla memoria il numero
di Patch. Strizzando gli occhi, visualizzai i sette numeri
che mi aveva scritto sulla mano il giorno in cui ci eravamo
conosciuti. Digitai i numeri senza riflettere.
- Si? - disse Patch.
Il suono della sua voce mi fece quasi singhiozzare. In
sottofondo, sentivo lo schiocco delle palle da biliardo, così
capii che era alla Bo's Arcade. Ci avrebbe messo quindici,
venti minuti ad arrivare.
- Sono io - dissi piano. Non avevo il coraggio di alzare la
voce oltre un sussurro.
- Nora?
- Sono a P-Portland. All'angolo tra la Hampshire e la
Nantucket. Puoi venire a prendermi? Ề urgente.
,
Ero raggomitolata sul pavimento della cabina telefonica e
contavo in silenzio fino a cento e poi ricominciavo per
cercare di restare calma, quando una Jeep Commander
nera scivolò silenziosa accanto al marciapiede e si fermò.
Patch aprì la portiera. Si sfilò la maglia a maniche lunghe,
restando solo con una maglietta nera a mezze maniche, e
me la infilò. Mi stava enorme, le maniche penzolavano
ben oltre le mani. Odorava di fumo, acqua salata e
sapone alla menta e, in qualche modo, colmò il vuoto che
avevo dentro.
- Andiamo in macchina -. Patch mi tirò su e io gli circondai
il collo con le braccia, nascondendo il viso contro il suo
petto.
- Mi viene da vomitare - confessai. Il mondo girava, e
anche Patch. - Ho bisogno delle mie pastiglie.
- Shh - disse lui, tenendomi strettii. - Andrà tutto bene, ci
sono io adesso.
Riuscii ad annuire.
- Andiamo via.
Annuii di nuovo. - Dobbiamo prendere Vee mormorai. I a
una festa a un isolato da qui.
Mentre Patch guidava, sentivo rimbombarmi in testa il
rumore dei miei denti che battevano. Non ero mai stata
tanto spaventata in vita mia. Vedere quella donna
assassinata mi aveva risvegliato tanti pensieri sulla morte
di mio padre. Vedevo tutto velato di rosso e, per quanto
mi sforzassi, non riuscivo a far svanire l'immagine del
sangue.
- Stavi giocando a biliardo? - chiesi, quando mi tornò in
mente la nostra breve telefonata e il rumore delle bilie in
sottofondo.
- Stavo vincendo un appartamento.
- Un appartamento?
- In uno di quei condomini snob sul lago. Un posto che
avrei odiato. Highsmith e questa, hai l'indirizzo?
- Non me lo ricordo - risposi, mettendomi a sedere dritta
per poter vedere meglio dai finestrini. Gli edifici
sembravano tutti abbandonati. Nessun segno di feste.
Nessun segno di nulla, punto e basta.
- Hai il cellulare? - domandai a Patch.
Tirò fuori dalla tasca un Blackberry. - La batteria è quasi
scarica, non so se basta per una telefonata.
Cosi mandai un sms. «DOVE SEI?!»
«CAMBIO DI PROGRAMMA» rispose Vee. .CREDO KE
JUI E EL NN SN RIUSCITI A TROVARE QL KE
CERCAVANO STIAMO ANDANDO A CASA.»
Lo schermo si spense.
- È morto - dissi a Patch. - Hai il caricabatteria?
- Non con me.
- Vee sta tornando a Coldwater. Potresti lasciarmi a casa sua?
Qualche minuto dopo eravamo sulla litoranea e
costeggiavamo una scogliera a picco. L'avevo già fatta
prima di allora; quando c'era il sole l'acqua era blu con
macchie verde scuro nei punti in cui rifletteva gli alberi.
Ora invece, di notte, l'oceano era una levigata distesa di
veleno nero.
- Hai intenzione di raccontarmi cos'è successo? - chiese
Patch.
La giuria non aveva ancora deciso se dire tutto a Patch
oppure no. Potevo raccontargli come, dopo avermi portato
via il piumino con l'inganno, quella donna fosse stata
uccisa. Potevo dirgli che credevo che il proiettile fosse
destinato a me. E poi potevo cercare di spiegargli come il
corpo della donna fosse magicamente sparito nel nulla.
Mi tornò in mente lo sguardo folle con cui il detective
Basso mi aveva scrutata quando gli avevo spiegato che
qualcuno si era introdotto in camera mia. Non ero
dell'umore di ricevere ancora sguardi scettici né di essere
presa in giro. Non da Patch. Non in quel momento.
- Mi sono persa e una barbona mi ha bloccata - iniziai. Mi ha convinta a darle la giacca... -. Tirai su col naso e me lo
asciugai con il dorso della mano. - Mi ha preso anche il
berretto.
- Cosa ci facevi in un posto come quello? - chiese Patch.
- Andavo da Vee, che era alla festa.
Eravamo a metà strada tra Portland e Coldwater, su un
tratto di autostrada ricco di vegetazione e spopolato, quando,
all'improvviso, dal cofano della jeep uscì del fumo. Patch
frenò e accostò sul bordo della strada.
- Aspetta - disse uscendo dall'auto. Alzò il cofano e sparì
dalla mia vista.
Un minuto dopo lo richiuse, si pulì le mani sui pantaloni,
venne dal mio lato e mi fece segno di abbassare il
finestrino.
- Brutte notizie. Il motore è andato.
Cercai di darmi un tono consapevole e perspicace,
sebbene avessi la netta sensazione di sfoggiare uno
sguardo semplicemente inespressivo.
Patch sollevò un sopracciglio. - Riposi in pace.
- Non si muove?
- A meno che non la spingiamo... no.
Di tutte le automobili in circolazione, doveva vincere
proprio un catorcio.
- Dov'è il tuo cellulare? - mi chiese.
- L'ho perso.
Sorrise. - Fammi indovinare. Era nella tasca del piumino.
La barbona ha fatto proprio un affare, vero?
Scrutò l'orizzonte, poi continuò: - Abbiamo due possibilità.
Fermare qualcuno e farci dare un passaggio o arrivare a
piedi alla città più vicina e cercare un telefono.
Saltai giù, sbattei la portiera e diedi un calcio alla ruota
della jeep. Sapevo che stavo usando la rabbia per
nascondere la paura. Non appena fossi stata sola, mi
sarei sfogata piangendo.
- Credo che alla prossima uscita ci sia un motel. Va-ado a
chiamare un taxi - balbettai, e i denti iniziarono a battere
ancora più forte. - T-tu resta qui con la jeep.
La sua bocca si schiuse in un sorriso, però non sembrò
divertito. - Non ho intenzione di perderti di vista. Sembri
un po' sconvolta, angelo. Ci andiamo insieme.
Incrociai le braccia e mi piantai davanti a lui. Con le
scarpe
da tennis, i miei occhi arrivavano all'altezza delle sue
spalle, quindi per guardarlo in faccia fui costretta a
piegare indietro la testa. - Non ho nessuna intenzione di
avvicinarmi a un motel con te -. Meglio tentare un
atteggiamento deciso, cosi avrei avuto meno probabilità di
cambiare idea.
- Credi che sommando noi due a uno squallido motel
otterremmo un risultato pericoloso?
- Proprio così.
Patch si appoggiò alla jeep. - Possiamo restare seduti qui
a parlarne... -. Diede una rapida occhiata al ciclo coperto
e prosegui: - Però sta arrivando un temporale.
Come se Madre Natura avesse voluto dire la sua in
proposito, il cielo si squarciò e piombò giù uno scroscio di
acqua ghiacciata.
Fulminai Patch con lo sguardo e mi lasciai sfuggire un
sospiro di rabbia.
Come al solito, aveva avuto ragione.
22
Venti minuti dopo, stremati, Patch e io ci rifugiammo
nell'ingresso di un motel da quattro soldi. Non gli avevo
detto neanche una parola mentre marciavamo sotto la
pioggia gelata, e a quel punto non ero solo bagnata
fradicia: ero anche completamente snervata. Immaginavo
che non saremmo riusciti a tornare alla jeep tanto presto,
il che faceva supporre che io, Patch e un sordido motel
facessimo parte della stessa equazione a tempo
indeterminato.
La porta si aprì e suonò un campanello; l'addetto alla
reception scartò in piedi facendo cadere dalle gambe una
pioggia di patatine sbriciolate. - Ditemi, prego - disse
succhiandosi le dita per pulirsele. - Due? Per stanotte?
- A-abbiamo bisogno di usare il telefono - risposi,
sperando che riuscisse a capirmi nonostante stessi
battendo i denti.
- Non si può. Le linee sono interrotte. Colpa del
temporale.
- C-che vuol dire l-le linee sono interrotte? Non ha un
cellulare?
L'impiegato guardò Patch.
- Vuole una stanza. Non fumatori - disse Patch.
Mi voltai verso di lui. «Sei pazzo?» mormorai muovendo
solo le labbra.
L'impiegato consultò il computer. - Allora, vediamo un
po'... aspettate... trovata! Una matrimoniale non fumatori.
- La prendiamo - fece Patch. Lo vidi sollevare gli angoli
della bocca. E lo fulminai con lo sguardo.
In quell'istante andò via la luce e l'atrio piombò
nell'oscurità. Restammo tutti in silenzio per un attimo,
finché l'impiegato del motel, a tentoni, riuscì ad accendere
un'enorme torcia elettrica.
- Sono stato un boy scout - disse. - Tanto tempo fa.
"Sempre pronti".
- Quindi d-deve avere un cellulare.
- Una volta. Poi non sono più riuscito a pagare la bolletta Si strinse nelle spalle. - Che ci posso fare? Mia madre è
una spilorcia.
Sua madre? Doveva avere almeno quarant'anni. Non che
fossero affari miei. Ero molto più preoccupata di quello
che mia madre avrebbe fatto quando, una volta tornata a
casa dal matrimonio, si fosse accorta della mia
sparizione.- Come preferite pagare? - chiese.
- Contanti - rispose Patch.
L'impiegato ridacchiò, dondolando la testa. - È la forma di
pagamento più popolare da queste parti -. Si piegò verso
di noi e assunse un tono confidenziale. - C'è un sacco di
gente che non vuole che le sue attività extracurricolari
possano essere rintracciate, se capite quello che intendo.
La metà razionale del mio cervello mi stava appunto
dicendo che non potevo prendere davvero in
considerazione la possibilità di passare la notte in un
motel con Patch.
- E una pazzia - bisbigliai.
- Io sono pazzo -. Sorrise di nuovo. - Di te. Quant'è per la
torcia? - aggiunse poi rivolto al tizio.
Lui allungò la mano sorto la cassa. - Ho qualcosa di
meglio: candele formato kit di sopravvivenza -.
Ridacchiando, ne piazzò
due davanti a noi. - Omaggio della casa, nessun costo
aggiuntivo. Mettetene una in bagno e una in camera da
letto e non vi accorgerete nemmeno che manca
l'elettricità. Vi regalo anche una scatola di fiammiferi, se vi
avanzano li terrete come ricordo.
Patch ringraziò, poi mi prese per il gomito e mi spinse in
corridoio.
Una volta dentro la camera 106, chiuse a chiave la porta.
Mise una candela sul comodino e la usò per accendere
l'altra, quindi si tolse il cappellino da baseball e scosse la
testa come un cane bagnato.
- Hai bisogno di una doccia bollente - disse. Fece qualche
passo indietro e diede un'occhiata in bagno. - A quanto
pare, ci sono una saponetta e due asciugamani.
Sollevai il mento. - N-non puoi obbligarmi a restare -.
Avevo accettato di arrivare fino a li solo perchè
l'alternativa era stare seduta nella jeep sotto al diluvio e
poi perchè speravo di trovare un telefono.
- Strano,sembrava più una domanda che un'affermazione.
- Allora r-rispondi.
Mi rivolse il suo solito sorriso da irresistibile, cattivo
ragazzo. - È difficile concentrarsi sulle risposte, con te in
quelle condizioni.
Abbassai lo sguardo sulla maglia nera di Patch. Era
bagnata e mi aderiva al corpo. Passai accanto a lui e
chiusi la porta del bagno alle spalle.
Aprii il rubinetto dell'acqua calda, mi sfilai la maglietta di
Patch e gli altri vestiti. Sulla parere della doccia c'era un
lungo capello nero; lo catturai con un quadratino di carta
igienica e lo gettai nel gabinetto. Quindi entrai nella doccia
e tirai la tenda, guardando la mia pelle diventare lucida e
calda.
Mentre mi massaggiavo con il sapone i muscoli del collo e
delle spalle, riflettei. In fondo, potevo riuscire a dormire
nella stessa stanza con Patch. Non era la soluzione
migliore e neanche la più sicura, ma avrei fatto in modo
che non accadesse nulla. E poi, non avevo scelta...
giusto?
La metà istintiva e sconsiderata del mio cervello rideva di
me. Sapevo perché. Fino a quel momento mi ero sentita
attratta da Patch come da un misterioso campo di ferie.
Adesso ero attratta verso di lui da qualcosa di
completamente diverso. Qualcosa che sviluppava molto
calore. Quella notte, un contatto sarebbe stato inevitabile.
E in una scala da uno a dieci, il terrore era a quota otto.
L'eccitazione a quota nove.
Chiusi l'acqua, uscii dalla doccia e mi asciugai.
Un'occhiata ai miei vestiti zuppi mi convinse che non
avevo nessuna voglia di rimetterli. Forse c'era
un'asciugatrice a gettoni... e che non richiedesse l'uso
dell'elettricità. Sospirai e presi il top e le mutandine, gli
unici a essersi salvati dal diluvio.
- Patch? - chiamai attraverso la porta chiusa.
- Finito?
- Spegni la candela.
- Fatto - sussurrò. Anche la sua risata mi arrivò cosi piano
che avrebbe potuto essere stata sussurrata.
Spensi anche la candela del bagno e uscii nel buio più
totale. Sentivo il respiro di Patch proprio davanti a me.
Non volevo pensare a come fosse, o non fosse, vestito e
scossi il capo per frantumare l'immagine che si era
formata nella mia mente. - I miei vestiti sono zuppi. Non
ho niente da mettere.
Sentii il fruscio della stoffa bagnata che si staccava dalla
pelle di Patch. - Buon per me -. La maglietta atterrò ai
suoi piedi.
- È davvero imbarazzante.
Lo sentii ridere. Era troppo, troppo vicina.
- Vai a fare la doccia - dissi. - Subito.
- Ho un odore cosi cattivo?
Veramente, aveva un odore fin troppo buono. La puzza di
fumo era sparita e l'odore di menta più forte.
In bagno, Patch riaccese la candela lasciando però la
porta socchiusa-, una lama di luce si allungava sul
pavimento e sul muro.
Scivolai con la schiena lungo la parete finché non mi
ritrovai seduta a terra, poi minai a dare dei colpetti al muro
con la testa. Sinceramente, non potevo restare. Dovevo
tornare a casa. Era sbagliato stare li da sola con Patch,
che mi fossi ripromessa di essere prudente oppure no.
Dovevo dire alla polizia della barbona. Oppure no? Come
facevo a spiegare che il suo corpo era svanito nel nulla?
Avevo detto che restare lì era una pazzia. Esatto. Era
proprio quella la terrificante direzione presa dai miei
pensieri.
Non volendo soffermarmi sull'idea dell'insanita mentale,
mi concentrai sul motivo per cui ero finita in quel posto. La
risposta era Vee. Non potevo restare li sapendola insieme
a Elliot, in pericolo, mentre io dormivo al sicuro.
Dopo un momento di riflessione, decisi che era
necessario riformulare il pensiero. "Al sicuro" era un
concetto relativo. Con Patch nei paraggi forse non ero in
pericolo di vita, ma questo non significava che si sarebbe
comportato come il mio angelo custode.
Immediatamente desiderai poter ritirare quel pensiero.
Chiamando a raccolta tutta la mia capacità di
autopersuasione, bandii dalla testa tutti i pensieri
riguardanti gli angeli: custodi, caduti o altro. Mi convinsi
che probabilmente stavo davvero diventando pazza.
L'omicidio della barbona poteva benissimo essere stata
un'allucinazione. Anche le cicatrici di Patch potevano
essere un'allucinazione.
L'acqua smise di scorrere. Un attimo dopo Patch usciva
dal bagno
indossando solo i jeans bagnati e bassi sui fianchi. Lisciò
la candela accesa e la porta aperta. La scansi brillava di
una luce soffusa.
Un'occhiata veloce mi diede la certezza che Patch
passava parecchio tempo a correre e a fare sollevamento
pesi. Un corpo cosi non si ottiene senza lavoro e sudore.
All'improvviso, mi sentii un po' a disagio. Per non dire
arrendevole.
- Quale parte del letto preferisci? - chiese.
- Uh...
Sorriso sornione. - Nervosa?
- No - risposi con tutta la sicurezza che riuscii a ostentare
date le circostanze. E le circostanze erano di spudorata
menzogna.
- Non sei granché come bugiarda. In effetti, sei la
peggiore che abbia mai conosciuto.
Mi misi le mani sui fianchi come a dire: «Prego?».
- Vieni qui -. Mi tirò vicino a lui. Sentii che i primi propositi
di resistenza si dissolvevano. Altri dieci secondi a quella
distanza e le mie difese sarebbero andate in pezzi.
Alle sue spalle però era appeso uno specchio. Così vidi le
cicatrici brillare, nere sulla sua pelle.
Mi irrigidii. Cercai di scacciare quella visione, ma
inutilmente. Senza riflettere, gli feci scivolare le mani sul
petto e poi sulla schiena. Con la punta di un dito, sfiorai
una cicatrice.
Patch tese i muscoli, lo impiegai un momento per
rendermi conto che non era solo il mio polpastrello a
muoversi, ma tutto il mio corpo.
Venni risucchiata in un vortice scuro e soffice e tutto
intorno a me divenne buio.
23
Ero nel piano seminterrato della Bo's Arcade. La schiena
appoggiata al muro, guardavo i giocatori di biliardo. Alle
finestre erano inchiodate delle assi, quindi non riuscivo a
capire se fosse giorno o notte. Oli altoparlanti dello stereo
diffon-devano Stevie Nicks, la canzone sulla colomba
dalle ali bianche e su qualcuno alla soglia dei diciassette
anni. Nessuno sembrava colpito dal fatto che
all'improvviso t'ossi comparsa dal nulla.
Poi mi ricordai che indossavo soltanto top e mutandine.
Non sono un tipo vanitoso, però ero in mezzo a un
mucchio di persone, tutte del sesso opposto, e coperta il
minimo indispensabile. E nessuno mi guardava. Be',
qualcosa non quadrava.
Mi diedi un pizzicotto. A quanto pareva, ero viva e vegeta.
Agitai la mano per diradare il fumo dei sigari. Dall'altra
parte della sala Patch sedeva a un tavolo da poker,
rilassato, le carte in mano.
A piedi scalzi attraversai la sala, le braccia Incrociate sul
petto per coprirmi. - Possiamo parlare? - sibilai
all'orecchio di Patch. La mia voce tradiva un certo
nervosismo. Comprensibile, dal momento che non avevo
idea di come fossi arrivata li. Un attimo prima ero in uno
squallido motel e quello dopo mi ritrovavo in mezzo a dei
giocatori d'azzardo.
Patch spinse una pila di fiche al centro del tavolo, che
andò ad aggiungersi a quelle che c'erano già.
- Tipo... subito? - dissi. - È piuttosto urgente... -. Mi interruppi nel vedere il calendario appeso al muro. Risaliva a
otto mesi prima, per la precisione ad agosto dell'anno
prima. Di li a poco avrei iniziato il mio secondo anno di
liceo; atleta non avevo ancora conosciuto Patch. Pensai a
un errore, pensai che si fossero dimenticati di strappare i
fogli del calendario... eppure, al tempo stesso, solo per
una frazione di secondo e con riluttanza, presi in
considerazione l'ipotesi che il problema non fosse il
calendario. Il problema ero io.
Afferrai una sedia e la trascinai accanto a quella di Patch.
- Ha il cinque e il nove di picche e l'asso di cuori... -. Mi
bloccai, ignorata da tutti. Anzi no. Non vista da tutti.
Nella sala rimbombò un rumore di passi. Sulle scale
comparve lo stesso cassiere che aveva minacciato di
sbattermi fuori la prima sera che ero andata li.
- Qualcuno di sopra vuole scambiare due parole con te –
disse a Patch.
Lui sollevò le sopracciglia interrogativo.
Non ha voluto dire il nome - spiegò il cassiere, quasi scusandosi. - Gliel'ho chiesto due volte. Le ho detto che stavi
giocando, ma non vuole andarsene. Ma se vuoi che la
butti fuori, lo faccio.
- No, mandala giù.
Patch giocò la sua mano, raccolse le fiche e spinse
indietro la sedia. - Io ho finito -. Poi andò verso il tavolo da
biliardo più vicino alle scale, ci si appoggiò e infilò le mani
in tasca.
Io lo seguii. Gli schioccai le dita davanti al naso, lo presi a
calci sugli stivali, lo colpii sul petto. Non si mosse di un
millimetro.
Si udirono altri passi sulle scale. Più leggeri stavolta. Poi
la signorina Greene fece la sua apparizione, e io mi sentii
piombare
nel caos. I capelli biondi, dritti come spaghetti, le
arrivavano alla vita; indossava un paio di jeans aderenti,
una canottiera rosa ed era scalza. Vestita così sembrava
ancora più giovane. Stava succhiando un lecca lecca.
Il viso di Patch è sempre imperscrutabile e, qualsiasi cosa
accada, non ho la più pallida idea di che cosa stia
pensando. Quella volta, invece, bastò che i suoi occhi
incontrassero quelli della Greene per farmi capire che era
sorpreso. Si riprese subito, però. L'attimo dopo si era
liberato dalle emozioni e il suo sguardo era tornate
circospetto. - Dabria?
I battiti del mio cuore accelerarono. Cercai di mettere
insieme i pezzi, ma Tunica cosa che riuscivo a pensare
era come facevano a conoscersi se davvero eravamo nel
passato. Lei non lavorava ancora a scuola. E poi perché
Patch la chiamava per nome?
- Come ti sono andate le cose? - chiese la signorina
Greene Dabria con un sorriso melenso, prima di gettare il
lecca lecca nel cestino dei rifiuti.
- Che ci fai qui? - chiese Patch, mentre gli occhi
diventavano ancora più cauti, come se stesse pensando
che non ci si poteva fidare di lei.
- Sono andata via di nascosto - rispose lei. La bocca tentò
una specie di sorriso e aggiunse: - Dovevo rivederti. Ci ho
provato per tantissimo tempo, ma la sicurezza... be', lo
sai, non è esattamente... facile da aggirare. Quelli come
te e... quelli come me... non devono mischiarsi. Ma questo
lo sai già.
- Venire qui è stata una cattiva idea.
- So che è passato molto tempo, ma speravo in
un'accoglienza più amichevole - disse, mettendo il
broncio.
Patch non rispose.
- Non ho mai smesso di pensare a te -. Dabria abbassò la
voce.
Era suadente e sexy mentre si avvicinava a Patch. - Non
è stato facile venire quaggiù. Lucianna sta inventandosi
non so più quali scuse per giustificare la mia assenza. Sto
rischiando il suo futuro e il mio. Non vuoi almeno sentire
quello che ho da dirti?
- Parla.
- Non ho mai rinunciato a te. Mai, per tutto questo tempoSi interruppe e ricacciò indietro le lacrime che
all'improvviso le inumidivano gli occhi. Quando riprese a
parlare, la voce era più controllata, ma ancora un pò
tremante. - So come puoi riacquistare le ali.
Gli sorrise, ma lui non le restituì il sorriso.
- Appena avrai riacquistato le ali potrai tornare a casa continuò Dabria, più sicura di sé. - Sarà tutto come prima.
Niente è cambiato. Non sul serio.
- Dov'è il trabocchetto?
- Nessun trabocchetto. Devi solo salvare una vita umana.
Ha senso, considerando il peccato per il quale sei stato
scacciato.
- Che grado avrò?
Tutta la sicurezza di Dabria sembrò abbandonarla. Di
colpo, ebbi la sensazione che lui le avesse rivolto l'unica
domanda alla quale lei sperava di non dover rispondere. Ti ho appena detto come puoi fare a riacquistare le ali replicò, e il tono di voce era passato da timido a
sprezzante. - Credo di meritarmi almeno un "grazie".
- Ti ho fatto una domanda -. A giudicare dal sorriso torvo
di Patch, però, la risposta era inutile. La conosceva già.
Magari aveva solo un sospetto, ma piuttosto preciso:
qualsiasi fosse stata la risposta di Dabria, a lui non
sarebbe piaciuta.
- D'accordo. Diventerai un angelo custode, contento?
Patch piegò la testa indietro e rise.
- Che c'è di male a essere un angelo custode? - domandò
Dabria. - Cosa c'è che non va?
- Ho in programma qualcosa dì meglio.
- Ascoltami. Patch- Non c'è niente di meglio. Ti stai illudendo.
Qualsiasi altro angelo caduto farebbe i salti di gioia se gli fosse
data la possibilità di riacquistare le ali e diventare un custode,
Perché tu no? -. La sua voce era soffocata dallo sconcerto,
dall'irritazione, dal rifiuto di credere a ciò che stava ascoltando.
Patch si spostò dal biliardo. - È stato bello rivederti, Dabria.
Buon viaggio di ritorno.
Senza preavviso, lei lo afferrò per la camicia, lo tirò a sé e lo
baciò. Molto lentamente, non solo il viso, ma tutto il corpo di
Patch si voltò verso di lei. Si abbandonò a quel bacio. Le mani
risalirono il corpo di Dabria e le sfiorarono le braccia.
Ingoiai amaro, cercando di ignorare la fitta di gelosia e la
confusione in cui era piombato il mio cuore. Una parte di me
voleva voltare la testa e piangere, un'altra parte, invece,
avvicinarsi a loro e mettersi a urlare. Non che sarebbe servito a
qualcosa, dal momento che ero invisibile. Ovviamente la
Greene... Dabria... chiunque fosse... e Patch avevano avuto
una relazione. Erano ancora insieme adesso, nel futuro? Lei
aveva cercato lavoro a Coldwater per stare più vicina a lui?
Per questo era così decisa a spaventarmi?
- Devo andare - disse Dabria liberandosi dall'abbraccio.
- Sono già rimasta fin troppo e ho promesso a Lucianna che
invece avrei fatto presto -. Abbassò il mento sui petto. - Mi
manchi. Salva una vita umana e riavrai le tue ali. Toma da me.
Torna
a
casa.
Si bloccò di colpo e concluse! - Devo andare, nessuno degli
altri deve sapere che sono stata qui. Ti amo.
Voltò la schiena e l'ansia svani dal suo viso, cancellata da
Un'espressione completamente diversa. Era l'espressione
subdola di chi aveva bluffato sapendo di non avere delle
buone carte in mano.
All'improvviso, Patch le afferrò il polso.
- Adesso dimmi la vera ragione per cui sei qui.
La velata minaccia contenuta nella voce di Patch mi fece
rabbrividire. Un estraneo l'avrebbe giudicato perfettamente
calmo, ma LO conoscevo la verità. Il modo in cui la guardava
voleva dire solo una cosa; hai superato un confine
inviolabile e faresti bere a tornare indietro. Subito.
La spinse delicatamente, ma inesorabilmente, fino al bar
e la fece sedere su uno sgabello. Poi si sedette accanto a
lei e io lo imitai, allungando il collo per riuscire ad ascoltare
quello che si dicevano nonostante la musica.
- Cosa significa "la vera ragione per cui sono qui"? balbettò Dabria. - Ti ho già detto...
- Stai mentendo.
Lei restò a bocca aperta, - Non posso crederci, tu pensi
che...
- Dimmi la verità, adesso,
Dabria esitò un attimo prima di rispondere. Lo guardò furibonda, poi ammise: - D'accordo, allora. So cosa hai in
mente di fare.
Patch scoppiò a ridere. E la risata diceva: «Ho in mente
un sacco di cose. Tu a quale ti riferisci, di preciso?
- So che hai sentito delie voci sul Libro di Enoch So che
pensi di poter fare la stessa cosa, ma non puoi,
Patch incrociò le braccia. - Ti hanno mandato qui per
convincermi a cambiare idea, vero? -. Rise con gli occhi. Se rappresento una minaccia, allora le voci devono essere
vere.
- No. Sono solo voci.
- Se è successo una volta, può succedere ancora.
- Non è mai successo. Ti sei preso il disturbo di leggere il
Libo di Enoch prima di cadere? - lo sfidò. - Sai esattamente ciò
che dice, conosci ogni sua parola sacra?
- Potresti prestarmi la tua copia.
- Non essere blasfemo! Tu non puoi più leggerlo, ti è proibito urlò. - Quando sei caduto hai tradito ogni angelo del cielo.
- Quanti di loro sanno quello che ho in mente? Quanto è
grande la minaccia che rappresento?
Lei scosse il capo. - Non posso. Ho già detto più di quanto
avrei dovuto,
- Cercheranno dì fermarmi?
- Gli angeli vendicatori, si
Patch la guardò, - Invece no, se credono che tu mi abbia
convinto.
- Non guardarmi così -, Dabria adesso sembrava solo una
ragazza che faceva ricorso a tutto il suo coraggio per apparire
decisa. - Non mentirò per proteggerti. Stai cercando dì fare una
cosa sbagliata. Una cosa contro natura.
- Dabria -. Patch pronunciò il suo nome e la minaccia
contenuta nella sua voce suonò ancora più forte: tanto valeva
afferrarle il braccio e torcergliela dietro la schiena.
- Non posso aiutarti - dichiarò lei- - Non come vuoi tu.
Toglitelo dalla testa. Diventa un angelo custode. Concentrati
su
quello e dimentica il Libro di Enoch.
Patch piantò i gomiti sul bancone e si fermò a riflettere.
Dopo qualche secondo, disse: - Di' loro che abbiamo parlato e
che ti sono sembrato interessato a diventare un angelo
custode.
- Interessato? - ripetè lei, un po' incredula.
- Interessato, Di' loro che ho chiesto un nome. Se devo
salvare una vita, devo sapere chi è in cima alla vostra lista dì
attesa. Sci un angelo della morte, Dabria, e io so che hai
queste informazioni.
- Informazioni sacre e private ma, soprattutto, non prevedibili,
Gli eventi di questo mondo sì modificano continuamente. Le
sceke degli uomini cambiano le cose.
- Un nome, Dabria.
- Prima promettimi che ti dimenticherai del Libro di Enoch.
Dammi la tua parola.
- Ti fideresti della mia parola?
- No.
Patch rise con freddezza, poi prese uno stuzzicadenti dal dispenser e si avviò verso le scale.
- Patch, aspetta! -. Dabria saltò giù dallo sgabello. -Ti prego,
aspetta.
Lui la guardò con la coda dell'occhio.
- Nora Grey - disse lei, e si coprì immediatamente la bocca
con la mano.
Patch cambiò leggermente espressione: incredulità mista a
irritazione. Il che non aveva molto senso, visto che, se il
calendario era giusto, noi non ci conoscevamo ancora. Il mio
nome non avrebbe dovuto significare niente per lui. - Come
morirà? - chiese.
- Qualcuno vuole ucciderla.
- Chi?
- Non lo so - rispose Dabria tappandosi le orecchie e scuotendo la testa. - C'è troppo rumore e confusione qui. Tutte le
immagini si confondono, arrivano troppo velocemente, non
vedo bene, Ho bisogno di andare a casa, di pace e di calma.
Patch le sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio e la
guardò a lungo.
Lei tremò, annuì e chiuse gli occhi. - Non vedo... non riesco
a vedere nulla... è inutile.
- Chi è che vuole uccidere Nora Grey? - la incalzò
- Parla.
- Aspetta, la vedo - disse Dabria, la vote di nuovo ansiosa,
- C'è un'ombra dietro di lei. È lui- Lo sta seguendo, ma lei non
lo vede... eppure è proprio là... Perché non lo vede? Perché
non corre? Non riesco a vedere la sua faccia, è in ombra...
Dabria spalancò gli occhi e sussultò.
- Chi è? - chiese Patch.
Dabria si portò le mani alla bocca e, tremando, alzò lo
sguardo su Patch.
- Tu - sussurrò,
Il polpastrello si staccò dalla cicatrice e il collegamento
si interruppe. Impiegai un momento per orientarmi di nuovo;
ecco perché Patch mi colse di sorpresa quando mi gettò sul
letto. Mi afferrò per i polsi e me li tenne fermi sopra la. testa.
- Non avresti dovuto farlo -. Il suo viso, scuro e fremente,
sembrava controllare a stento la rabbia. - Che cosa hai visto?
Gli diedi una ginocchiata nelle costole. - Togliti... di... dosso!
Invece Patch si sdraiò su di me e mi allargò le gambe, così
che non potessi muoverle. Con le braccia e le gambe
immobilizzate, non potevo fare altro che dibattermi sotto il peso
del suo corpo.
-Togliti di dosso... oppure... mi metto a urlare!
- Stai già urlando. E non servirà a niente, nessuno si precipiterà qui. Questo posto somiglia più a un bordello che a un
motel -. Sfoderò un sorriso crudele. - Per l'ultima volta, N'ora,
che cosa hai visto?
Trattenevo a stento le lacrime. Ero completamente
sopraffatta da un'emozione sconosciuta, a cui non avrei
nemmeno saputo
dare un nome. - Mi fai schifo!! - urlai. - Chi sei? Chi sei
veramente?
Le sue labbra si piegarono in una smorfia, - Stiamo per
arrlvarci.
- Tu vuoi uccidermi!
Il viso di Patch era impenetrabile, solo gli occhi
diventavano sempre più freddi.
- Il motore delIa jeep non SÌ è davvero fermato
stanotte, giusto? - lo incalzai. - Hai mentito, Mi hai portata
qui per uccidermi, Dabria ha detto che vuoi farlo. Cosa
aspetti? -. Non sapevo che effetto avrebbero avuto le mie
parole e non mi importava, Parlavo solo per tenere a
bada il terrore- - Mai cercato di uccidermi fin dall'inizio. Lo
farai adesso? -. Lo fissai duramente, senza battere ciglio.
Ripensai al giorno in cui era entrato nella mia vita e lottai
per non scoppiare a piangete,
- Non tentarmi.
Cercai di divincolarmi. Provai a rotolare a destra, poi a
sinistra, ma alla fine mi resi conto che sprecavo
inutilmente energie e mi fermai. Gli occhi di Patch, neri
come non mai, si posarono su di me.
- Scommetto che ti piace - dissi.
- Vinceresti la scommessa.
Il cuore batteva così forte che lo sentivo persino sotto,
le dita dei piedi, - Fallo e basta - dissi.
- Ucciderti?
Annuii. - Prima però voglio sapere perché. Ci sono
miliardi di persone al mondo, perché io?
- Cattivo DNA,
- Tutto qui? Tutta qui la tua spiegazione?
- Per adesso.
- Cosa vuol dire? - gridai. - Quando mi racconterai il resto
della storia? Quando perderai il controllo e mi ucciderai?
- Non ho bisogno di perdere il controllo per farlo. Se avessi
vo-luto ucciderti cinque minuti fa, saresti morta cinque minuti
fa.
Inghiottii quel tutto-meno-che-rassicurante ragionamento.
Patch mi sfiorò la voglia con il pollice. Il tocco fu delicato e
falso, quindi ancora più penoso da sopportare.
- Che mi dici di Dabria? - chiesi, il respiro ancora affanno
so. - È come te, giusto? Siete due... angeli -, Sentii la mia voce
incrinarsi mentre pronunciavo quella parola.
Lui si spostò un po' di lato, liberandomi le gambe, ma conti*
nuò a tenermi i polsi- - Se ti lascio, ascolterai quello che ho da
dire fino alla fine!
Se l'avesse fatto, mi sarei fiondata alla porta. - Ha qualche
importanza se tento di scappare? Tanto mi trascineresti di
nuovo qui.
- Si, ma non mi piacciono le scenate.
- Dabria è la tua ragazza? -. Sentivo il petto andare su e giù
al ritmo rapido del mio respiro. Non ero sicura di voler sentire la
risposta. Ed era talmente ridicolo che mi importasse di lei,
sapendo che Patch voleva uccidermi*
- Era. È stato tantissimo tempo fa. prima che cadessi
nell'oscurità -. Sorrise amaro, - Anche quello è stato un errore . Si tirò indietro lasciandomi lentamente andare e controllò le
mie reazioni. Restai sdraiata a letto, ansante, appoggiata sui
gomiti. Poi contai fino a tre e mi scagliai contro di lui con tutta
la forza che avevo.
Lo colpii al torace senza riuscire a spostarlo di un millimetro.
Cominciai a prenderlo a pugni, sul petto, sempre più forte,
finché le mani non iniziarono a pulsarmi.
- Hai finito? - mi chiese.
- No! -. Gli piantai un gomito nella coscia. - Cosa c'è che
non va in te? Non senti niente?
Mi aliai in piedi, mi misi in equilibrio sul materasso e
iniziai a prenderlo a calci nello stomaco,
- Ti do un altro minuto per sfogare la tua rabbia - disse, Poi prendo io in mano la situazione.
Non avevo idea di cosa intendesse con "prendere in
mano la situazione" e non volevo neanche scoprirlo. Balzai
giù dal letto e feci per correre verso la porta, ma Patch mi
raggiunse subito e mi spinse contro il muro, le sue gambe
contro le mie.
- Voglio la verità - ansimai, cercando disperatamente di
non piangere. - Sei venuto a scuola per ammazzarmi? E
sempre stata questa la tua idea?
Un muscolo della mascella di Patch ebbe un guizzo, - Si.
Mi asciugai bruscamente una lacrima che era riuscita a
scappare fuori. - Te la stai godendo, vero? Era questo che
volevi? Farmi fidare di te e poi sbattermelo in faccia? -.
Sapevo che era assurdo essere così arrabbiata quando
avrei dovuto essere terro-rizzata e sconvolta. Quando avrei
dovuto fare tutto il possibile per scappare. La cosa più
irrazionale era la mia ostinazione a credere che non mi
avrebbe assassinato. Per quanto assurdo fosse, e per
quanto tentassi, non riuscivo a zittire quella minuscola
speranza.
- Capisco che tu sia arrabbiata... - iniziò Patch,
- Sono devastata! - urlai.
Fece scivolare le mani roventi sul mio collo. Premette delicatamente i pollici sulla gola, inducendomi a rovesciare indietro
la testa. Sentii le sue labbra premere sulle mie così forte
che, qualsiasi insulto avessi in mente, non sarei riuscita a
pronunciarlo. Le sue mani scesero lungo le spalle,
sfiorarono le braccia e si posarono
sui miei fianchi. Piccoli brividi di panico e di piacere.
Cercò di tirarmi a sè e io gli morsicai le labbra.
Si leccò il labbro con la punta della lingua. - Mi hai dato un
morso?
- È tutto un gioco per te? – chiesi.
Si toccò di nuovo il labbro.
- Non tutto.
Per
esempio?
- Tu.
Quella notte era follia pura. Era diffìcile litigare con una
persona tanto indifferente. No, non indifferente, dotata di
un auto-controllo inossidabile. Fino all'ultima cellula del
suo corpo.
Sentii una voce nella mia mente. «Rilassati. Fidati di me.»
- Oddio! - esclamai - Lo stai facendo di nuovo, vero? Ti
stai insinuando nella mia testa -. Mi tornò in mente
l'articolo sugli angeli caduti scaricato da Internet. - Puoi
mettere anche altre cose nella mia mente oltre alle parole,
è così? Puoi mettere delle immagini, immagini molto
realistiche.
Non negò.
- L'Arcangelo - dissi, perché finalmente avevo capito tutto,
- Hai cercato di uccidermi quella notte, ma qualcosa è
andato storto. Mi hai fatto credere che il mio cellulare
fosse scarico, così non ho chiamato Vee, Avevi pianificato
di ammassarmi mentre tornavamo a casa? Voglio sapere
come riesci a farmi vedere quello che vuoi!
La sua espressione era volutamente e accuratamente
impassibile. - Io metto le parole e le immagini, ma sta a te
crederci. È un enigma. Le immagini si sovrappongono alla
realtà e tu devi Capire quali sono quelle reali.
- È un potere speciale degli angeli?
Scosse la testa. - Solo degli angeli caduti. Tutti gli altri
non violerebbero mai la tua intimità, anche se potrebbero
farlo.
Perché gli altri angeli erano buoni. Patch invece no.
Si appoggiò alla parete dierro di me, le due mani ai lati
della mia testa. - Sono entrato nella mente del coach
perché eambiasse i posti a sedere; avevo bisogno di starti
vicino. Ti ho fatto credere di essere caduta dall'Arcangelo
perché volevo ucciderti, ma non sono riuscito ad andare
fino in fondo. All'ultimo, mi sono fermato e mi sono
accontentato di spaventarti. Poi ti ho lasciato credere che
il tuo cellulare fosse scarico per poterli accompagnare a
casa. Li ho preso un coltello. Allora stavo per ucciderti, abbassò la voce - ma tu mi hai fatto cambiare idea.
Respirai a fondo. - Non capisco. Quando ti ho detto che
mio padre era stato ucciso, sembravi davvero dispiaciuto.
E sei stato gentile quando hai conosciuto mia madre.
- Gentile - ripete. - Che rimanga tra noi.
La testa prese a girarmi, mi pulsavano le tempie. Avevo
già provato questa sensazione di panico, il cuore
martellante e tutto il resto. Avevo bisogno delle pastiglie di
ferro. Sempre che non fosse Patch a farmi credere di
sentirmi cosi.
Alzai il mento e lo guardai con gli occhi socchiusi. - Esci
dalla mia mente. Subito!
- Non sono nella tua mente, Nora.
Mi piegai in avanti, posai le mani sulle ginocchia e
inspirai. - Si che ci sei, ti sento. Quindi e cosi che mi
ucciderai? Mi farai soffocare?
Sentivo dei suoni nelle orecchie e la vista diventò opaca,
confusa. Cercai di riempire i polmoni, ma era come se
l'aria fosse sparita. Il mondo iniziò a girare e non riuscivo
a vedere bene Patch, sembrava sfuocato. Mi appoggiai
alla parete per non perdere l'equilibrio. Più cercavo di
inspirare, più la gola mi si chiudeva
Patch venne verso di me, ma io lo respinsi. - Vattene! Si
appoggiò alla parete con una spalla e mi guardó.
Sembrava preoccupato.
Stai...
lontano...
da
me
rantolai.
Non lo fece.
- Non... riesco... a… respirare! -. Artigliai il muro con una
mano, mentre con l'altra mi afferrai la gola.
All'improvviso, Patch mi prese tra le braccia e mi portò
verso la sedia, dall'altra parte della statua. - Metti la testa
fra le ginocchia - disse.
Misi giù la testa, mentre Patch teneva la mano sulle mie
spalle. Respirai, tentando di riempire i polmoni.
Lentamente, sentii l'ossigeno rimettersi in circolo.
- Va meglio? - chiese Patch dopo un paio di minuti.
Annuii.
- Hai le pastiglie di ferro? Feci segno di no con la testa.
- Resta cosi e respira.
Seguii le sue istruzioni mentre la morsa che avevo nel
petto si allentava. - Grazie - mormorai.
- Adesso ti fidi di me?
- Se vuoi la mia fiducia, devi lasciarmi toccare le tue
cicatrici. Patch mi studiò a lungo, in silenzio. - Non è una
buona idea.
- Perchè?
- Non posso controllare quello che vedi.
- È proprio questo il punto.
Aspettò qualche istante prima di rispondere e la voce,
priva di emozione, era bassa, - Tu sai che nascondo delle
cose.
Sapevo che Patch conduceva una vita segreta. Non ero
così presuntuosa da pensare che anche solo la metà dei
suoi segreti
riguardasse me. Più di una volta avevo cercato di
immaginare come avrebbe potuto essere la sua altra vita,
ma alla fine vinceva sempre la convinzione che fosse
meglio saperne il meno possibile.
Mi tremarono le labbra. - Dammi una ragione por fidarmi
di te.
Patch si sedette sull'angolo del letto e il materasso si
abbassò sotto il suo peso. Si piegò in avanti e appoggiò
gli avambracci alle ginocchia. La schiena era in bella vista
e la luce delle candele proiettava ombre innaturali sulle
cicatrici. I muscoli si tesero e poi si rilassarono. - Fallo disse piano. - Però ricorda che le persone cambiano,
mentre il passato no.
E all'improvviso, non ero più cosi sicura di volerlo. Patch
mi terrorizzava a quasi tutti i livelli. Eppure, in fondo al
cuore, non credevo che mi avrebbe uccisa. Avrebbe già
potuto farlo mille volte. Guardai quelle cicatrici
raccapriccianti. Avere fiducia in lui sarebbe stato
immensamente più facile che scivolare di nuovo nel suo
passato senza avere idea di ciò che avrei potuto trovare.
Ma a quel punto, se mi fossi tirata indietro. Patch avrebbe
capito che ero terrorizzata da lui. Mi stava aprendo una
delle sue porte, e solo perché gliel'avevo chiesto. Non
potevo chiedere tanto e poi cambiare idea.
- Non rimarrò intrappolata lì per sempre, vero?
Patch ridacchiò. - No.
Mi feci coraggio e mi sedetti accanto a lui. Per la seconda
volta, quella sera, il mio dito sfiorò il bordo frastagliato
della sua cicatrice. Mi si annebbiò la vista.
Le luci si spensero.
24
Ero sdraiata a terra sulla schiena, il top intriso di umidità,
fili d'erba appuntiti contro le braccia nude. Sopra di me
solo uno spicchio di luna, come un sorriso inclinato tutto
da una parte. A parte il rombo di un tuono lontano, tutto
taceva.
Sbattei le palpebre per abituarmi alla scarsa luce. Quando
voltai la testa, mi si materializzò davanti agli occhi una
serie di ramoscelli ricurvi, ma disposti in modo simmetrico
e che spuntavano dall'erba. Molto lentamente, mi tirai su.
Non riuscivo a staccare gli occhi dalle due orbite nere che
mi fissavano da sopra i rametti. E la mia mente si mise in
moto per cercare di collocare l'immagine in un ambito
conosciuto. E poi, in un lampo raccapricciante, capii di
essere sdraiata accanto a uno scheletro.
Strisciando, mi tirai indietro e andai a cozzare contro
un'inferriata. Dopo un momento di sconcerto, riacciuffai
l'ultimo ricordo: avevo toccato la cicatrice di Patch.
Ovunque fossi, mi trovavo in un luogo della sua memoria.
Nell'oscurità, mi arrivò il suono di una voce, maschile e
vagamente familiare, che intonava un canto dalle note
basse. Mi voltai in quella direzione e vidi un labirinto di
lapidi che si estendeva, come un domino, nella foschia.
Accovacciato sopra una di esse, vidi Patch. Indossava
solo un paio di jeans e una maglietta blu, nonostante la
notte non fosse affatto calda.
- Fai il doppio turno con i morti? - disse la voce familiare.
Era rauca, amichevole e irlandese. Rixon. Si appoggiò
con aria indolente alla lapide di fronte a Patch e lo guardò,
poi si strofinò il labbro inferiore con il pollice. - Fammi
indovinare. Stai pensando di possedere i morti? - disse
scuotendo il capo. - lo non lo so, tutti quei vermi che si
dimenano nelle orbite... e negli altri orifizi, mi sembra un
po' troppo.
- Ecco perché mi piace averti intorno, Rixon. Riesci
sempre a vedere il lato positivo delle cose.
- Cheshvan inizia stanotte - disse Rixon. - Che accidenti
combini in un cimitero?
- Penso.
- Pensi?
- Un processo attraverso il quale uso il cervello per
prendere una decisione razionale.
Gli angoli della bocca dell'irlandese si sollevarono. - Inizio
a preoccuparmi per te. Forza, e ora di andare. Chauncey
Langeaise e Barnabas aspettano. La luna cambia a
mezzanotte. Confesso di avere messo gli occhi su una
tipa in città -. Rixon fece le fusa come un gatto. - So che a
te piacciono le rosse, invece io preferisco le bionde;
appena riesco a entrare in un corpo, intendo finire quanto
cominciato con una bionda che poco fa mi faceva gli occhi
dolci.
Visto che Patch non si muoveva, Rixon disse: - Sei
sordo? Dobbiamo andare. Il giuramento di fedeltà di
Chauncey ti ricorda niente? No? Allora proviamo così: sei
un angelo caduto, non riesci a provare alcuna
sensazione. Fino a stanotte, almeno. Le prossime due
settimane sono un regalo da parte di Chauncey. Offerto
controvoglia, sia ben chiaro - aggiunse l'irlandese con un
tono da cospiratore.
Patch lo guardò con la coda dell'occhio. - Cosa sai del
Libro di Enoch?
- Quello che sanno tutti gli angeli caduti: quasi nulla.
- Mi hanno detto che c'è una storia nel Libro di Enoch che
narra di un angelo caduto che diventa umano.
Rixon si piegò in due dalle risate. - Sei fuori di testa,
amico? -. Aprì le mani e le girò con i palmi verso l'alto,
come a imitare un libro aperto. - Il Libro di Enoch è una
favoletta. Una bella favoletta, a quanto pare. Che ti
manda dritto nel mondo dei sogni.
- Io voglio un corpo umano.
- Devi accontentarti del corpo di un Nephilim, e per due
settimane. Mezzo umano è meglio di niente. Chauncey
non può disfare ciò che è stato fatto: ha prestato
giuramento e deve tenergli fede. Come ha fatto l'anno
scorso e l'anno prima ancora e...
- Due settimane non mi bastano. Voglio essere umano,
per sempre - lo interruppe Patch fissando Rixon negli
occhi, sfidandolo a mettersi a ridere ancora.
L'irlandese si passò le dita tra i capelli. - Il Libro di Enoch
è una favola. Noi siamo angeli caduti, non umani. Non lo
siamo mai stati e non lo saremo mai. Fine della storia.
Ora smettila di fare il cretino e aiutami a capire da che
parte è Portland -. Piegò la testa indietro e osservò il ciclo
d'inchiostro.
Patch scese dalla lapide. - lo diventerò un essere umano.
- Certo amico, come no.
- Il Libro di Enoch dice che devo uccidere il mio vassallo
Nephilim. Devo uccidere Chauncey.
- No, invece, non devi - replicò Rixon con una nota d'impazienza. - Tu devi possederlo. Un processo attraverso il
quale prendi il suo corpo e lo usi come se fosse il tuo.
Non voglio spegnere il tuo entusiasmo, ma non puoi
uccidere Chauncey. I Nephilim non possono morire. E poi
hai pensato a quest'altra cosa? Se lo uccidessi non
porresti più possederlo.
- Se lo uccidessi diventerei umano e non avrei più
bisogno di possederlo.
Rixon si massaggiò le tempie, come se sapesse che il
suo ragionamento non aveva avuto altro effetto che
procurargli un feroce
mal di testa. - Se potessimo uccidere i Nephilim, avremmo
già trovato il modo di farlo, e da un pezzo. Mi dispiace
dirtelo, ragazzo mio, ma se non mi getto tra le braccia di
quella bionda al più presto mi bollirà il cervello. E anche
diverse altre parti del...
- Due scelte - lo interruppe Patch.
- Eh?
- Salvare una vita umana e diventare un angelo custode o
uccidere il proprio vassallo Nephilim e diventare umano.
Scegli.
- Ancora con queste idiozie del Libro di Enoch?
- Dabria è venuta a trovarmi.
Rixon spalancò gli occhi e scoppiò a ridere. - La tua ex
psicotica? Che ci fa quaggiù? È caduta, ha perso le ali?
- È scesa per dirmi che posso riacquistare le ali se salvo
una vita umana.
Gli occhi di Rixon si spalancarono ancora di più. - Se ti fidi
di lei, provaci. Non c'è niente di male a essere un custode.
Passare le giornate a tenere i mortali lontani dai pericoli...
potrebbe persino essere divertente. Certo, dipende dal
mortale che ti capita.
- Ma se tu potessi scegliere, che faresti? - chiese Patch.
- Si, be'... dipende. Sono ubriaco fradicio? Ho totalmente
perso la ragione? -. Quando vide che Patch non rideva,
però, Rixon tornò serio. - Io non ho scelta. E sai perchè?
Perche non credo al Libro di Enoch, Se fossi in te,
punterei a diventare un angelo custode. Potrei farci un
pensierino anch'io, se solo conoscessi. un umano in punto
di morte.
Segui un momento di silenzio, poi Patch sembrò scrollarsi
di
dosso tutti i pensieri. - Quanto possiamo fare prima di
mezzanotte? - chiese.
- Giocando a carte o tirando di boxe?
- Carte.
A Rixon brillarono gli occhi. - Ma cos'abbiamo qui? Un bel
ragazzino? Vieni un po' a farti dare una bella stropicciata . Agganciò Patch per il collo, immobilizzandolo nell'incavo
del gomito. Patch però lo afferrò per la vita e lo trascinò
sull'erba, dove iniziarono a fare a botte.
- Va bene, va bene -. Rixon alzò le mani e si arrese. Solo perchè non riesco a sentire che sanguino, non
significa che voglio passare la serata con un labbro gonfio
-. Fece l'occhiolino all'amico e aggiunse: - Non
aumenterebbe le mie chance con le signore.
- Invece un occhio nero sì?
Rixon si toccò la faccia per controllare la situazione. Dimmi che non è vero! - urlò sferrandogli un pugno.
Staccai il dito dalla cicatrice. Avvertii un formicolio alla
nuca e il cuore che pompava troppo veloce. Patch mi
guardò, un'ombra di incertezza negli occhi.
Fui costretta ad ammettere che forse quello non era il
momento di fare affidamento sulla metà razionale del mio
cervello. Forse era una di quelle volte in cui era
necessario passare la linea di confine. Smettere di
giocare secondo le regole. Accettare l'impossibile.
- Quindi sei decisamente non umano - dissi. - Sei davvero
un angelo caduto. Un cattivo.
A Patch scappò un sorriso. - Credi che io sia cattivo?
- Possiedi i... corpi degli altri.
Confermò con un cenno del capo.
- Vuoi usare il mio corpo?
- Voglio fare un sacco di cose al tuo corpo, ma non quello.
- Cos'è che non va nel tuo corpo?
- È molto simile a un vetro. È reale, ma si limita a riflettere
il mondo che mi circonda. Tu mi vedi e mi senti, io ti vedo
e ti sento. E quando mi tocchi, tu senti qualcosa. Invece io
non ti sento allo stesso modo, non provo quello che provi
tu. È come se io fossi dentro una lastra di vetro che posso
spaccare solo quando possiedo un corpo umano.
- O umano a metà.
Stirò gli angoli della bocca. - Hai visto Chauncey?
- Ti ho sentito parlare con Rixon. Ha detto che entri nel
corpo di Chauncey ogni anno per due settimane durante
Cheshvan. Ha detto che nemmeno Chauncey è umano,
che è un... Nephilim.
- Chauncey è un incrocio tra un angelo caduto e un
umano. È immortale come un angelo, ma ha tutti i sensi
dei mortali. Un angelo caduto che voglia provare
sensazioni umane può farlo nel corpo di un Nephilim.
- Se non provi niente, perchè mi hai baciata?
Patch segui con un dito la linea della mia clavicola e
scese giù, fermandosi sul cuore; lo sentivo battere
attraverso la pelle.
- Perché lo sento qui, nel mio cuore - mormorò - e non ho
perso la capacità di provare emozioni -. Mi guardò con
attenzione.
- Mettiamola così: la nostra relazione emotiva non e...
assente.
«Niente panico» pensai, ma avevo già il respiro
affannoso.
- Vuoi dire che puoi provare felicità, tristezza o...
Sorriso appena accennato. - Desiderio.
«Vai avanti» dissi a me stessa. «Non farti sopraffare dalle
tue emozioni. Le affronterai più tardi, quando avrai avuto
tutte le risposte.» - Perché sei caduto?
Gli occhi di Patch restarono fissi nei miei per un paio di
secondi. - Bramosia.
Deglutii. - Denaro?
Patch si accarezzò la mascella. Era un gesto che compiva
solo quando voleva mascherare i suoi segreti, l'indizio
rivelatore che I suoi pensieri potevano essere rivelati dalle
labbra. Stava trattenendo un sorriso. - Anche - rispose. Pensavo che sarei diventato umano. Gli angeli che
avevano tentato Eva erano stati cacciati sulla Terra e si
diceva che avessero perso le ali. Erano diventati umani. E
quando lasciarono il paradiso, non ci fu una grande
cerimonia, non fummo tutti invitati. Fu una cosa privata, lo
non sapevo che gli avessero strappato le ali, nè della
condanna a vagare sulla Terra, ossessionati dal desiderio
di possedere corpi umani. Nessuno, prima d'allora, aveva
mai sentito parlare di angeli caduti. Quindi per me era
assolutamente logico che, se fossi caduto, avrei
semplicemente perso le ali e sarei diventarci un essere
umano. Mi sembrava valesse la pena. A quel tempo, ero
pazzo di una ragazza.
- Dabria ha detto che puoi riacquistare le ali salvando una
vita. Ha detto che così diventerai un angelo custode. Tu
non vuoi? -. Non riuscivo a capire perchè fosse contrario.
- Non è per me. lo voglio essere umano. Lo voglio più di
qualsiasi altra cosa desideri o abbia mai desiderato.
- E Dabria? Se voi due non state più insieme, perché lei è
ancora qui? Non è un angelo caduto, giusto? Vuole anche
lei essere umana?
Patch si irrigidì. - Dabria è ancora sulla Terra?
- Lavora a scuola. É la nuova psicologa, la signorina
Greene. L'ho incontrata un paio di volte -. Sentii una
stretta allo stomaco. - Dopo quello che ho visto nella tua
memoria, credevo fosse venuta a lavorare qui per poter
stare vicino a te.
- Cosa ti ha detto esattamente?
- Di starti lontano. Ha fatto delle allusioni al tuo passato
oscuro e pericoloso -. Feci una pausa. - Però e un po'
strano, no? - continuai, mentre un lungo brivido mi
correva lungo la schiena.
- Devo portarti a casa. Poi andrò a scuola a dare
un'occhiata nel suo ufficio. Quando saprò cosa sta
tramando mi sentirò meglio -. Patch tirò via le lenzuola dal
letto. - Avvolgiti in queste - disse.
lo restai imbambolata per un attimo, la mente impegnata a
mettere insieme i frammenti di informazioni. Poi,
all'improvviso, mi sentii la bocca asciutta. - Prova ancora
qualcosa per te. Forse mi vuole fuori dai piedi.
I nostri occhi si incontrarono. - Ci ho pensato anch'io - ammise Patch.
Un pensiero gelido, inquietante, mi girava in testa e
cercava di attirare la mia attenzione. E diventava sempre
più pressante: mi diceva che il tizio con il passamontagna
avrebbe potuto essere Dabria. Avevo sempre pensato di
aver investito un uomo la sera in cui rincasavo con la
Neon, e anche Vee era convinta che il suo aggressore
fosse un uomo. A quel punto, però, non mi sarei stupita
se Dabria ci avesse ingannate, tutte e due.
Nel frattempo, Patch aveva recuperato dal bagno la
maglietta bagnata. - Vado a prendere la jeep. Ti aspetto
all'uscita posteriore tra venti minuti. Fino ad allora,
aspettami in camera.
25
Dopo che Patch fu uscito misi la catenella alla porta,
trascinai la sedia che stava dall'altra parte della stanza e
la incastrai sotto la maniglia. Controllai che le finestre
fossero chiuse. Non sapevo se le serrature avrebbero
resistito a Dabria (non sapevo nemmeno se mi stesse
dando la caccia) ma pensai fosse meglio non correre
rischi. Dopo aver camminato un po' su e giù per la stanza,
controllai il telefono sul comodino. Ancora nessun segnale
che fosse tornata la linea.
Mia madre mi avrebbe uccisa.
Ero uscita di nascosto per andare a Portland. E come
avrei spiegato la faccenda: «Ero in un motel con Patch»?
Come minimo sarei stata in punizione fino alla fine
dell'anno. No. Come minimo si sarebbe licenziata e
avrebbe fatto domanda di supplenza in una scuola fino a
quando non avesse trovato un lavoro a tempo pieno
vicino a casa. Avremmo dovuto vendere la fattoria e perso
l'unico legame che mi rimaneva con mio padre.
Circa quindici minuti dopo, guardai dallo spioncino: buio
pesto. Tolsi la catenella alla porta e, proprio quando stavo
per aprirla, una luce tremolò alla mie spalle. Mi voltai di
scatto, quasi sicura di trovarmi di fronte Dabria, invece la
stanza era tranquilla e vuota. Era semplicemente tornata
la luce.
Uscii nella hall. La moquette, rosso sangue, era
consumata e piena di macchie non meglio identificate. Le
pareti erano di un
colore neutro, ma l'imbiancatura era stata fatta su un
muro mal levigato e con vernice troppo liquida.
Sopra di me, un'insegna al neon indicava l'uscita.
Seguendo la freccia verde, arrivai alla hall e poi svoltai
l'angolo. La jeep si fermò di fronte alla porta sul retro: io
schizzai fuori e saltai sul sedile del passeggero.
Quando arrivammo alla fattoria, tutte le luci erano spente.
Avvertii una fitta allo stomaco al pensiero che mia madre
potesse essere in giro a cercarmi. La pioggia era cessata
e ora la nebbia premeva sulle pareti della casa e pendeva
dagli arbusti come le decorazioni d'argento dell'albero di
Natale. Gli alberi sul vialetto d'ingresso erano
perennemente inclinati verso nord, deformati dai venti.
Tutte le case hanno un aspetto poco invitante dopo il
tramonto, se si presentano a luci spente. La fattoria, però,
con le sue finestre strette, il tetto spiovente, la veranda
imbarcata e i rovi che crescevano spontaneamente
dappertutto, sembrava infestata dai fantasmi.
- Vado a dare un'occhiata - disse Patch scendendo dalla
macchina.
- Credi che Dabria sia dentro?
Scosse la testa. - Comunque è meglio controllare.
Aspettai nella jeep e, pochi minuti dopo, Patch usci dalla
porta principale. - Tutto a posto - mi riferì. - Vado a scuola
e torno appena ho finito con il suo ufficio. Magari ci ha
lasciato qualcosa di utile -. Non sembrava ci contasse
molto, però.
Mi slacciai la cintura di sicurezza e ordinai alle gambe di
portarmi velocemente a casa. Afferrai la maniglia e sentii
la jeep che si allontanava. Le assi della veranda
scricchiolarono sotto i mici piedi e improvvisamente mi
sentii molto sola.
Tenendo tutte le luci accese, entrai in ogni stanza, una a
una,
a cominciare dal pianterreno per poi passare di sopra.
Patch aveva già controllato, ma pensai che un altro paio
d'occhi non avrebbero fatto male. Dopo essermi
assicurata che non ci fosse nessuno nascosto sotto i
mobili, dietro la tenda della doccia o nei ripostigli, mi infilai
un paio di Levi's e un pullover nero con lo scollo a V.
Trovai il telefono cellulare di emergenza che mia madre
teneva nella cassetta del pronto soccorso e la chiamai.
Rispose al primo squillo. - Pronto? Nora? Sci tu? Dove
sei? Ero preoccupata da morire!
Feci un bel respiro e pregai che mi uscissero di bocca le
parole giuste, quelle che mi avrebbero aiutato a tirarmi
fuori dai pasticci. - È successo... - iniziai con la voce più
sincera e contrita del mondo.
- Cascade Road si è allagata e l'hanno chiusa. Sono
dovuta tornare indietro e ho preso una stanza a Milliken
Mills. Sono li adesso. Ho cercato di chiamate casa, ma
sembra che le linee fossero interrotte. Ho provato anche
al tuo cellulare, ma non rispondevi.
- Aspetta. Sei stata a Milliken Mills per tutto questo
tempo?
- Dove credevi che fossi?
Emisi un impercettibile sospiro di sollievo e mi sederti sul
bordo della vasca da bagno. - Non lo sapevo - risposi. Nemmeno io sono riuscita a contattarti.
- Da che numero mi stai chiamando? - chiese. - Non lo
riconosco.
- Il cellulare di emergenza.
- Dov'è il tuo?
- L'ho perso.
- Come? Dove?
Decisi che l'unica strada percorribile fosse quella
dell'omissione.
Non volevo spaventare mia madre, ma non volevo
neanche restare in punizione per l'eternità. - Non lo so,
l'avrò messo da qualche parte. Salterà fuori -. Sul
cadavere di una donna.
- Ti chiamo appena riaprono le strade - disse.
Subito dopo chiamai Vee. Dopo cinque squilli, attaccò la
segreteria.
- Dove sei? - chiesi. - Richiamami a questo numero
appena puoi -. Chiusi di scatto il telefono e me lo infilai in
tasca, cercando di convincermi che Vee stava bene pur
sapendo che era una bugia. L'invisibile filo che ci univa
me lo stava segnalando da ore, ormai. Vee era in
pericolo, e quella sensazione di allarme aumentava
minuto dopo minuto.
Mi rifugiai in cucina, dove trovai le pastiglie di ferro sul ripiano. Ne mandai giù due con un bicchiere di latte e
cacao. Mi rilassai un momento aspettando che il ferro
entrasse in circolo, mentre iniziavo a respirare più a fondo
e più lentamente. Stavo per rimettere il latte in frigorifero,
quando la vidi.
Una sostanza fredda e bagnata formò una pozza ai mici
piedi. Avevo versato il latte. - Dabria?
- Sai il mio nome? -. Piegò la testa da una parte, un po'
sorpresa. - Ah, Patch.
Indietreggiai verso il lavello. Dabria era molto diversa da
come ero abituata a vederla a scuola, dove era la
signorina Greene. Quella sera aveva i capelli arruffati e le
labbra più luminose, quasi riflettessero una forma di
desiderio. E gli occhi erano più penetranti, cerchiati da
un'ombra nera.
- Che cosa vuoi? - chiesi.
Lei rise, una risata che ricordava il tintinnio del cubetti di
ghiaccio in un bicchiere. - Voglio Patch.
- Non è qui.
Annui. - Lo so. Ho aspettato che andasse via prima di
entrare, ma non è questo che intendevo quando ho detto
che voglio Patch.
Il sangue che mi pulsava nelle gambe risali verso il cuore
provocandomi una vertigine. Misi una mano sul bancone
per riprendermi. - So che le sedute a scuola ti servivano
per controllarmi.
- È tutto qui quello che sai di me? - chiese, gli occhi fissi
nei mìei.
Ricordai la notte in cui ero sicura che qualcuno mi
osservasse.
- Mi hai spiata dalla finestra della mia camera.
- Questa è la prima volta che vengo a casa tua -. Fece
scivolare un dito sul bordo del cavolo e si appollaiò su uno
sgabello. – Bel posticino.
- Allora ti rinfresco la memoria - dissi, sperando di avere
un'aria spavalda. - Hai guardato attraverso la finestra
della mia camera, mentre dormivo.
Mi rivolse un bel sorriso. - No, ma ti ho seguita quando sei
andata a fare shopping, Ho aggredito la tua amica e le ho
seminato degli indizi nella mente per farle credere che
fosse stato Patch. Non è stato difficile convincerla. Lui
non è esattamente innocuo, tanto per cominciare. Quello
che mi interessava era che lui ti spaventasse il più
possibile.
- Così sarei stata lontana.
- Ma non l'hai fatto. Sei ancora d'impiccio.
- D'impiccio a cosa?
- Su, Nora. Se sai chi sono, sai anche come funziona. Io
voglio che Patch riacquisti le ali. Lui non appartiene alla
Terra, ma a me. Ha fatto uno sbaglio e io rimedierò -. Dal
tono della sua voce, capii che non esisteva la possibilità di
un compromesso. Scese dallo sgabello e girò intorno al
tavolo per avvicinarsi a me.
Indietreggiai, riuscendo a mantenere una certa distana. Mi
spremevo il cervello per trovare il modo di distrarla. O una
via di fuga. Vivevo in quella casa da sedici anni;
conoscevo ogni singolo angolo e tutti i nascondigli.
Ordinai al mio cervello di elaborare un piano: qualcosa di
creativo e brillante. E la mia schiena andò a sbattere
contro la credenza.
- Fino a quando tu sarai tra i piedi, Patch non tornerà con
me - sentenziò Dabria.
- Stai sopravvalutando quello che prova per me -. Buona
idea minimizzare la nostra relazione: Dabria sembrava
mossa da una cieca possessività.
Un sorriso incredulo le si disegnò in volto. - Credi che
provi qualcosa per te? Per tutto questo tempo hai pensato
che... -. Scoppiò a ridere. - Non sta con te perché ti ama.
Vuole ucciderti.
Scossi la testa. - Non lo farà.
Il volto di Dabria si irrigidì. - Se è questo che credi, sei
solo una delle tante ragazze che ha sedotto per ottenere
ciò che voleva. Ha del talento, in questo. Dopo tutto mi ha
fatto confessare il tuo nome. È bastata una carezza e
sono caduta nel suo incantesimo, gli ho detto che per te
sarebbe arrivata la morte.
Conoscevo la storia. In quel preciso momento io ero
presente nella memoria di Patch.
- E adesso sta facendo la stessa cosa con te - continuò. –
Fa male essere traditi, non e vero?
Scossi lentamente la testa. - No...
- Ha in mente di usarti come sacrificio! - esclamò. - Vedi
quel segno? -. Mi afferrò il polso e mi schiacciò l'indice
sulla voglia. - Significa che discendi da un Nephilim. E
non da un Nephilim qualunque, ma da Chauncey
Langeais, il vassallo di Patch.
Mi guardai la pelle e, per un terrificante momento, le
credetti. Però sapevo anche che non dovevo fidarmi.
- C'è un libro sacro, il Libro di Enoch - spiegò - in cui un
angelo caduto uccide il proprio vassallo Nephilim
sacrificando una delle sue discendenti. E tu non credi che
Patch voglia ucciderti? Sai cosa desidera più di ogni altra
cosa al mondo? Una volta che avrà sacrificato te,
diventerà umano e avrà tutto ciò che vuole. E
non tornerà a casa con me.
Sfilò un grosso coltello dal ceppo di legno che stava sul
bancone. - Ecco perché devo sbarazzarmi di te. A quanto
pare le mie premonizioni erano giuste. Per te sta
arrivando la morte.
- Patch sta per tornare - mormorai. Avevo lo stomaco
sottosopra. - Non vuoi parlarne con lui?
- Farò in fretta - disse. - Sono un angelo della morte.
Porto le anime nell'Aldilà. Quando avrò finito, traghetterò
la tua anima nell'oltretomba, non c'è motivo di avere
paura.
Avrei voluto urlare, ma la voce mi rimase intrappolata in
gola. Girai intorno alla credenza, in modo che $i venisse a
trovare fra di noi. - Se sci un angelo, dove sono le tue ali?
- Basta con le domande -. La sua voce era diventata
impaziente.
Adesso faceva sul serio.
- Da quanto tempo hai lasciato il cielo? - chiesi, cercando
di guadagnare tempo. - Sei qui da mesi ormai, vero? Non
credi che gli altri angeli si siano accorti della tua
mancanza?
- Non fare un altro passo - disse bruscamente, quindi
sollevò il coltello che rifletté un lampo di luce.
- Ti metterai in un sacco di guai per colpa di Patch continuai, ma dalla mia voce, nonostante gli sforzi,
trapelava una nota di panico. - Mi sorprende che tu non
ce l'abbia con lui per averti usata quando gli faceva
comodo. Mi sorprende che tu voglia che
riottenga le ali. Dopo tutto quello che ti ha fatto, non sei
felice che sia stato esiliato qua?
- Mi ha lasciata per un'indegna ragazza umana! - rispose
stizzita, e gli occhi azzurri scintillarono per la rabbia.
- Non ti ha lasciata, in realtà. È caduto...
- È caduto perché voleva essere umano, come lei! Aveva
me... lui aveva me! -. Scoppiò a ridere, ma senza riuscire
a mascherare la collera e il dolore che provava. - All'inizio
ero ferita e arrabbiata, e ho fatto lutto il possibile per
dimenticarlo. Poi, quando gli arcangeli hanno scoperto
che stava seriamente tentando di diventare umano, mi
hanno mandata qui per fargli cambiare idea. Mi sono
detta che mai più mi sarei lasciata ingannare da lui, ma
non è servito.
- Dabria...
- Non gli importava che la ragazza fosse stata creata con
polvere della Tenti! Voi, tutti voi, siete egoisti e sciatti! I
vostri corpi sono sfrenati e indisciplinati. Un attimo prima
siete al culmine della gioia e quello dopo sull'orlo della
disperazione. È deplorevole! Nessun angelo aspirerebbe
mai a... a questo! -. Con un gesto brusco si passò la
mano sul volto per asciugare le lacrime. - Guardami!
Riesco a malapena a controllarmi! Perchè sono qua da
troppo tempo, immersa nelle indecenze umane!
Mi voltai e mi precipitai fuori dalla cucina; rovesciai una
sedia e la lasciai dietro di me, sperando di rallentare
Dabria. Mi precipitai in corridoio sapendo di essermi
messa in trappola da sola. La casa aveva due uscite: la
porta principale, che Dabria poteva raggiungere prima di
me tagliando per il soggiorno, oppure la porta sul retro in
sala da pranzo, il cui accesso però era bloccato da lei.
Poi una spinta da dietro mi fece cadere. Scivolai sulla
pancia
e, appena riuscii a fermarmi, mi girai su un fianco. Dabria
era sopra di me, in aria. La pelle e i capelli splendevano di
un bianco accecante e il coltello era puntato contro di me.
Non pensai. Puntellandomi su una gamba, inarcai la
schiena e, con tutta la forza che avevo in corpo» le sferrai
un calcio sul braccio. Il coltello volò via. Non feci in tempo
a rimettere il piede a terra, però, che Dabria aveva
puntato l'indice in direzione dell'abat-jour sul tavolinetto
dell'ingresso. Bastò quel movimento perché l'oggetto
sfrecciasse contro di me. Rotolai di lato, mentre la
lampada si schiantava a terra sparando schegge di vetro
dove un attimo prima si trovava il mio corpo.
- Spostati! - comandò Dabria, e la panca dell'ingresso
scivolò a bloccare la porta, sbarrandomi l'uscita.
Mi gettai verso le scale e salii i gradini due alla volta,
reggendomi alla ringhiera per aumentare lo slancio.
Dabria rideva. L'istante successivo la ringhiera si staccava
e crollava producendo un fracasso insopportabile. Mi tirai
indietro per non cadere nel vuoto, riacquistai l'equilibrio e
superai correndo gli ultimi scalini. Mi precipitai in camera
di mia madre e chiusi a chiave la porta.
Mi avvicinai a una delle finestre accanto al camino e
guardai In giardino. A due piani di; altezza, sotto, sul
terreno roccioso, crescevano tre cespugli, spogli fin
dall'autunno. Sarei sopravvissuta a quel salto?
- Apriti! - ordinò Dabria. Con uno schiocco, la serratura
cedette. Non avevo più tempo.
Corsi verso il camino e mi infilai dentro. Avevo appena
tirato su i piedi, puntellandoli contro le pareti della canna
fumaria, quando la porta si spalancò, sbattendo contro il
muro. Sentii Dabria correre verso la finestra.
- Nora! - chiamò con la sua voce allo stesso tempo
delicata e
gelida. - So che sei vicina! Ti sento. Non puoi correre a
nasconderti. Darò fuoco a questa casa stanza per stanza
se è quello che serve per stanarti! E poi brucerò ogni filo
d'erba alle mie spalle. Non ti lascerò viva!
Vidi sfavillate, potente, un bagliore di luce dorato
accompagnato dal rumore del fuoco che avvampava. Le
ombre proiettate dalle fiamme danzavano sul pavimento
del camino. Sentii il crepitare del fuoco che divorava i
mobili e il pavimento di legno.
Restai rannicchiata nella canna fumaria, il cuore
impazzito, la pelle imperlata di sudore. Feci una serie di
respiri profondi, espirando piano per tenere sotto controllo
i muscoli contratti delle gambe, che scottavano. Patch
aveva detto che sarebbe andato a scuola: quanto tempo
ci avrebbe messo per tornare?
Non sapendo se Dabria fosse ancora lì, ma temendo che
se non fossi uscita subito avrei fatto la fine del topo,
abbassai una gamba e poi l'altra e uscii dal camino. Non
c'era traccia di Dabria, ma le fiamme lambivano le pareti e
la stanza era invasa dal fumo.
Percorsi di voluta il corridoio, ma non mi azzardai a
scendere, perché probabilmente era li che Dabria mi
aspettava: era logico pensare che avrei tentato la fuga da
una delle porte d'ingresso. Spalancai la finestra. L'albero
che cresceva accanto era abbastanza robusto da reggere
il mio peso. Forse, con quella nebbia, sarei riuscita a
scappare senza farmi vedere da lei. La casa più vicina era
a meno di un chilometro di distanza e, se avessi corso il
più velocemente possibile, ci sarei arrivata in sette minuti.
Stavo per scavalcare il davanzale, quando sentii uno
scricchiolio in fondo al corridoio.
In punta di piedi raggiunsi l'armadio. Mi chiusi dentro e
chiamai il 911.
- C'è qualcuno in casa mia e sta cercando di uccidermi bisbigliai
all'operatore. Avevo appena dato il mio Indirizzo, quando
la porta della stanza si aprì. Restai perfettamente
immobile.
L'anta dell'armadio aveva una minuscola grata, dalla
quale vidi una figura entrare nella stanza. L'illuminazione
era scarsa, l'angolazione sbagliata e non riuscivo a capire
chi fosse. La figura scostò le rende e guardò fuori, tastò le
calze e la biancheria intima nei miei cassetti, raccolse il
pettine d'argento posato sullo scrittoio, lo studiò e lo
rimise a posto. Poi si voltò verso dell'armadio, e seppi di
essere nei guai.
Feci scivolare la mano sul pavimento per cercare
qualcosa da usare come arma di difesa, ma urtai con il
gomito una pila di scatole di scarpe, che si rovesciò.
Imprecai a fior di labbra. I passi si fecero più vicini.
Le porte dell'armadio si aprirono e io scagliai una scarpa,
poi un'altra.
Patch imprecò sottovoce, mi strappò di mano una terza
scarpa e la lanciò dietro di sé. Cercando di tenermi ferma,
perchè mi dibattevo con tutte le mie energie, mi tirò fuori
dall'armadio e mi mise in piedi. Prima ancora che riuscissi
a tirare un sospiro di sollievo nello scoprire che si trattava
di lui e non di Dabria, mi attirò a sé e mi prese fra le
braccia.
- Stai bene? - mi sussurrò all'orecchio.
- Dabria è qui - dissi, gli occhi gonfi di lacrime. Mi
tremavano le ginocchia, stavo in piedi solo grazie alla
stretta di Patch. - Ha dato fuoco alla casa.
Lui mi mise in mano un mazzo di chiavi e mi piegò le dita
perché non mi cadessero. - La jeep e parcheggiata in
strada. Sali, chiuditi dentro, guida fino al Delphic e
aspettami li -. Mi sollevò il mento così che potessi
guardarlo negli occhi e mi sfiorò le labbra con un bacio.
Una fiammata mi percorse tutto il corpo.
- Cos'hai intenzione di fare?
- Occuparmi di Dabria.
- Come?
Mi rivolse uno sguardo che sembrava dire: «Vuoi davvero
i dettagli?».
In lontananza si udì il suono delle sirene.
Patch guardò la finestra. - Hai chiamato la polizia?
- Credevo fossi Dabria.
Aveva già raggiunto la porta. - lo cerco Dabria, tu vai al
Delphic e aspettami li.
- E il fuoco?
- Ci penserà la polizia.
Rimasi li con le chiavi saette in mano. In quel momento
anche la parte razionale del mio cervello era spaccata in
due, orientata verso decisioni opposte. Volevo
allontanarmi dalla casa in fiamme e da Dabria per
incontrare Patch più tardi. Allo stesso tempo ero
tormentata da un pensiero impossibile da scacciare:
Dabria mi aveva detto che Patch doveva sacrificarmi per
diventare umano.
E non l'aveva detto con leggerezza o per irritarmi, e
nemmeno per scacciarlo dal mio cuore. Le sue parole
erano state fredde e serie. Tanto serie da tentare di
uccidermi per impedire a Patch di arrivare a me per primo.
Trovai la jeep parcheggiata in strada, come aveva detto
lui. Inserii la chiave nel quadro e partii a tavoletta
imboccando la Hawthorne. Immaginavo fosse inutile
riprovare a chiamare Vee al cellulare, quindi composi il
numero di casa.
- Salve, signora Sky - dissi, cercando di avere un tono di
voce naturale. - Vee è in casa?
- Ciao Nora! È uscita qualche ora fa. Mi ha parlato di una
festa a Portland. Credevo fosse con te.
- Mmm, siamo andate ognuna per conto proprio - mentii. Ha detto cosa aveva intenzione di fare dopo la festa?
- Pensava di andare al cinema e siccome non risponde al
cellulare suppongo l'abbia fatto. Va rutto bene?
Non volevo spaventarla, però non le avrei detto che
andava tutto bene. Non andava bene per niente, neanche
un po'. L'ultima volta che l'avevo sentita era con Elliot, e
ora non rispondeva al cellulare.
- Non credo - ammisi. - Vado a cercarla, inizio dal cinema.
Lei può guardare sul lungomare?
26
Era la domenica precedente alle vacanze di primavera e il
cinema era strapieno. Mi misi in fila per il biglietto.
guardandomi intorno di continuo per assicurarmi di non
essere seguita. Fino a quel momento non avevo notato
niente di allarmante e quella quantità di gente offriva
un'ottima copertura. Mi ripetevo che di Dabria si sarebbe
occupalo Patch e che non dovevo preoccuparmi, ma stare
attenti non costava nulla.
Nel profondo, però, sapevo che Dabria non costituiva il
mio peggior problema. Prima o poi Patch avrebbe capito
che non ero al Delphic. E l'esperienza mi diceva che era
inutile illudersi: non sarei riuscita a nascondermi a lungo.
Lui mi avrebbe trovata e io sarei stata costretta a metterlo
di fronte alla domanda che avevo paura di fargli.
Veramente, era della sua risposta che avevo paura,
perchè un'ombra di dubbio insisteva ad agitarsi nella mia
mente: il dubbio che Dabria avesse detto la verità
riguardo a Patch e a quello che era disposto a fare per
diventare umano.
Arrivai alla biglietteria. Gli spettacoli delle ventuno e trenta
stavano per cominciare.
- Uno per Il sacrificio - dissi senza riflettete. Di colpo trovai
il titolo spaventosamente ironico, ma non volevo più
pensarci, quindi tirai fuori dalla tasca un mucchio di
spiccioli e li spinsi sotto lo sportello, pregando che
bastassero.
- Caspita - esclamò la cassiera, fissando le monete. La
riconobbi, era all'ultimo anno della mia -scuola ed ero
quasi sicura che si chiamasse Kaylie o Kylie. - Grazie
tante. Come se non ci fosso già abbastanza coda.
Dietro di me, mormorarono tutti un'imprecazione.
- Ho ripulito il salvadanaio - dissi, cercando di fare
dell'ironia.
- Non c'è niente da ridere. Li hai già contati? - chiese. Poi
sospirò e iniziò a suddividere le monetine in mucchietti da
venticinque, dieci, cinque e un centesimo.
- Certo.
- D'accordo, non mi pagano abbastanza per fare anche
questo -. Spazzò via le monete con una mano e le mise
nel cassetto. quindi mi consegnò il biglietto. - Mai sentito
parlare delle carte di credito?
Afferrai il biglietto. - Per caso hai visto Vee Sky stasera?
- Bee chi?
- Vee Sky. È del secondo anno, credo sia venuta qui con
Elliot Saunders.
Kaylie o Kylie strabuzzò gli occhi. - Ti pare una serata
tranquilla? Ti pare che me ne sia stata seduta qui a
memorizzare ogni faccia che mi passava davanti?
- Non importa - mormorai.
Il cinema di Coldwater ha due sale, alle quali si accede da
due porte poste ai lati di un bar. La maschera controllò il
mio biglietto, io superai l'ingresso della sala due e mi
immersi nel buio. Il film era già iniziato.
Il cinema era quasi pieno, a eccezione di qualche posto
isolato. Percorsi il corridoio cercando Vee; arrivai sotto lo
schermo e mi voltai a guardare la platea. Era difficile
distinguere i volti al buio. eppure ero quasi sicura che Vee
non ci fosse.
Uscii dalla sala ed entrai nell'altra. Non era piena come la
prima, ma anche li, nessuna traccia di Vee. Mi sedetti in
uno dei posti nelle ultime file e cercai dì calmarmi.
Mi sembrava di essere finita in una favola dark e di non
riuscire a trovare la strada per uscirne. Una favola con
angeli caduti, ìbridi umani e vittime sacrificali. Mi strofinai
la voglia sul polso con il pollice. Più di ogni cosa, non
volevo riflettere alla possibilità che nelle mie vene
scorresse il sangue di un Nephilim.
Tirai fuori il cellulare di emergenza e controllai se c'erano
chiamate. Niente.
Stavo per rimettermi in tasca il telefono, quando accanto a
me si materializzò un sacchetto di popcorn.
- Hai fame? - chiese una voce al di sopra della mia spalla.
Sembrava tranquilla, ma non particolarmente felice.
Cercai di controllare il respiro, mentre Patch diceva:
- Alzati ed esci. Io ti seguo.
Non mi mossi.
- Esci - ripetè. - Dobbiamo parlare.
- Di come hai bisogno di sacrificarmi per ottenere un
corpo umano? - chiesi con leggerezza, anche se dentro
mi sentivo dì piombo.
- Sarebbe carino. Però dovrei crederci.
- lo ci credo! -. Più o meno. Perchè in verità mi assillava
sempre la solita domanda: se Patch voleva uccidermi,
perché non l'aveva già fatto?
- Shh! - fece il ragazzo accanto a me.
- Esci, o ti trascino fuori io - disse Patch. Mi voltai di
scatto. - Scusa?
- Shh! - protestò di nuovo il ragazzo.
- Ề colpa sua - gli spiegai indicando Patch.
Il tizio allungò il collo. - Senti - bisbigliò - se non la smetti
chiamo la vigilanza.
- Bene, fallo. Digli di portarlo via - sbottai, indicando di
nuovo Patch. - Digli che vuole uccidermi.
- Io voglio ucciderti - sibilò la ragazza del tizio.
- Chi è che vuole ucciderti? - chiese lui. Sembrava
confuso.
- Non c'è nessuno dietro di te - mi informò la ragazza.
- Gli stai facendo credere di non vederti, vero? - dissi a
Patch. I suoi poteri mi ispiravano un timore reverenziale,
nonostante disprezzassi l'uso che ne faceva.
Patch sorrise, ma era un sorriso tirato.
- Per la miseria! - esclamò la tizia alzando gli occhi al
cielo. Poi, rivolta al suo ragazzo, esclamò: - Fa' qualcosa!
Dovresti stare zitta - mi consigliò lui, quindi indicò lo
schermo. - Guarda il film. Tieni, prendi la mia bibita.
Per tutta risposta mi infilai nel corridoio.
Sentii Patch muoversi dietro di me. tanto vicino da
mettermi a disagio, ma non abbastanza da toccarmi. Mi
segui finché non fummo fuori.
A un tratto mi prese per il braccio e si diresse verso la
toilette delle donne.
- Cos'è questa fissazione che hai con il bagno delle
signore? - chiesi.
Mi spinse dentro, chiuse la porta a chiave e ci si appoggiò
contro. Quindi mi piantò gli occhi addosso, evidentemente
con l'intenzione di spaventarmi a morte.
- Sei furioso perché non sono andata al Delphic - dissi
con noncuranza, alzando le spalle che tremavano un po'.
- Perché? È domenica sera, tra poco chiuderà. Perché
volevi che andassi in un luna park buio e semideserto?
Venne verso di me finché non fu tanto vicino da riuscire a
vedergli gli occhi neri sotto il cappellino da baseball.
- Dabria mi ha detto che devi offrirmi in sacrificio per
ottenere un corpo umano - continuai.
Patch restò un attimo in silenzio. - E tu credi che lo farò?
Deglutii. - Allora è vero?
Quando rispose, aveva ancora gli occhi fìssi nei miei.
- Deve trattarsi di un sacrificio fatto con intenzione.
Ucciderti e basta non servirebbe a nulla.
- Sei l'unico che può farmi una cosa simile?
- No. ma probabilmente sono l’unico a conoscerne l'esito
e quindi l'unico che porrebbe provarci. Per questo sono
venuto a scuola. Dovevo avvicinarmi a te, ne avevo
bisogno. Per questo sono entrato nella tua vita.
- Dabria mi ha detto che sei stato innamorato di una
ragazza -. Odiavo me stessa per il fatto di essere gelosa.
Avrei dovuto concentrarmi sull'interrogatorio che stavo
facendo a Patch.
- Cos'è successo?
Desideravo disperatamente che lasciasse trapelare i suoi
pensieri, almeno un po', invece i suoi occhi restarono
impenetrabili. le emozioni nascoste. - È invecchiata ed è
morta.
- Dev'essere stata dura per te - sbottai.
Non rispose subito. Quando lo fece, aveva un tono cosi
sommesso che rabbrividii. - Se vuoi che ti dica la verità, lo
farò. Ti dirò rutto. Chi sono e cosa ho fatto. Ogni dettaglio.
Però devi chiedermelo. Devi volerlo. Puoi vedere chi ero o
chi sono adesso. Non sono buono, - disse trafiggendomi
con occhi che assorbivano tutta la luce, ma non la
riflettevano - ma sono stato peggio.
Ignorai le farfalle che mi si agitavano nello stomaco.
- Racconta.
- La prima volta che l'ho vista, ero ancora un angelo.
Immediatamente ho provato una bramosia sconosciuta.
Mi ha
fatto impazzire. Non sapevo niente di lei, tranne che avrei
fatto qualsiasi cosa pur di potermi avvicinare. La osservai
per un po' e poi mi misi in testa che se fossi andato sulla
Terra e avessi preso possesso di un corpo, sarei stato
cacciato dal paradiso e sarei diventato umano. 11 facto è
che non sapevo niente di Cheshvan. Sono sceso una
notte d'agosto, ma non sono riuscito a entrare in nessun
corpo. Sulla via del ritorno verso il paradiso, sono stato
fermato da uno stuolo di angeli vendicatori che mi hanno
strappato le ali. Mi hanno cacciato, esiliato sulla Terra. Ho
capito subito che qualcosa non andava. Quando
guardavo gli umani, provavo soltanto il desiderio
insaziabile di essere dentro i loro corpi. Non avevo più i
miei poteri, in compenso ero diventato una creatura
debole, patetica. Ero caduto, non ero umano. Capii che
avevo perso tutto. E da allora mi odio per questo. Si,
pensavo di aver rinunciato a tutto, per niente... - mi fissò
in un modo che mi fece sentire trasparente - ...e invece,
se non fossi caduto, non avrei incontrato te.
Le emozioni contrastanti che si agitavano nel mio cuore
erano cosi potenti che pensai potessero soffocarmi.
Ricacciai indietro le lacrime e andai avanti. - Dabria ha
detto che la mia voglia è un segno. Dice che che sono
imparentata con Chauncey. Ề vero?
- Vuoi che ti risponda?
Non sapevo che cosa volessi. Tutto il mio mondo era
diventato una barzelletta e la battuta finale era mia. Non
ero Nora Grey, una ragazza qualunque. Discendevo da
qualcuno che non era nemmeno umano. E avevo il cuore
spezzato per colpa di un altro non umano. Un angelo
oscuro. - Quale ramo della mia famiglia? - dissi alla fine.
- Tuo padre.
- Dov'è Chauncey adesso? -. Anche se eravamo
imparentati,
preferivo saperlo lontano. Molto lontano. Abbastanza
lontano da far si che il nostro legame potesse sembrare
irreale, Patch era così vicino che le punte delle nostre
scarpe si toccavano. - Non ho intenzione di ucciderti, Nora.
Non uccido le persone importanti per me. E in cima a questa
lista ci sei tu.
Provai un moto di stizza. Avevo le mani premute contro il
suo addome, che era talmente duro che nemmeno la pelle
sembrava cedere. Cercare di mantenere una distanza di
sicurezza era inutile, dato che nemmeno una recinzione
elettrica mi avrebbe fatto sentire al sicuro da lui.
- Stai violando il mio spazio - dissi indietreggiando
lentamente.
- Violando il tuo spazio? - ripetè con un accenno di sorriso. Non sei agli esami di ammissione al college, Nora.
Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mi spostai di lato, rasente al lavandino. - Mi stai troppo addosso, ho
bisogno di spazio -. Invece avevo bisogno di confini, di forza
di volontà. Avevo bisogno di essere messa in gabbia,
perchè, ancora una volta, stavo dimostrando che quando
ero con lui diventavo inaffidabile. Avrei dovuto lanciarmi
verso la porta e invece... niente. Cercai di convincere me
stessa che restavo perchè volevo delle risposte, ma era vero
solo in parte. Ed era all'altra parte della verità che non
volevo pensare. La parte emotiva, quella contro cui era
inutile combattere.
- Mi stai nascondendo qualcos'altro? - gli domandai.
Ti
sto
nascondendo
un
sacco
di
cose.
Tuffo al cuore. - Tipo?
- Tipo che cosa provo a stare chiuso qui dentro con te -.
Patch appoggiò una mano sullo specchio alle mie spalle e il
suo corpo si avvicinò a me. - Non hai idea di quello che mi
fai.
Scossi il capo. - Non e una buona idea. Non è una cosa
giusta.
- Il concetto di "giusto" ha varie accezioni - mormorò. –
Nello spettro del giusto, siamo ancora in zona di
sicurezza.
Ero quasi certa che la metà del cervello preposta
all'autoconservazione
stesse
urlando:
«Salvati!».
Purtroppo, i battiti del cuore mi rimbombavano nelle
orecchie e sentivo in modo confuso. Ovviamente stavo
anche pensando in modo confuso.
- Decisamente giusto. Comunemente giusto - stava
dicendo Patch. - Prevalentemente giusto. Probabilmente
giusto.
Probabilmente non giusto adesso -. Respirai a fondo e,
con la coda dell'occhio, notai sul muro un allarme
antincendio. Era a tre, forse quattro metri. Se facevo in
fretta, potevo riuscire ad attraversare la stanza e farlo
suonare prima che Patch riuscisse a fermarmi. Sarebbe
arrivata di corsa la vigilanza. Sarei stata al sicuro. Perché
era quello che volevo... no!
- Non è una buona idea - disse Patch scuotendo piano la
testa.
Lo feci lo stesso. Le dita si chiusero sulla leva. Niente,
non sì muoveva. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a
tirarla giù- Poi riconobbi la presenza familiare di Patch
nella mia testa, e seppi che era un inganno della mente.
Mi voltai per guardarlo. - Esci dalla mia testa -. Presi la
rincorsa e lo spinsi con forza. Lui fece un passo indietro
cercando di non perdere l'equilibrio.
- E questo per cos'era? - chiese.
- Per tutta questa serata -. Per essere pazza di lui
nonostante sapessi che era sbagliato. Lui era sbagliato,
sbagliato nell'accezione peggiore del termine. Era cosi
sbagliato da sembrare giusto e questo mi mandava
completamente fuori di testa.
Sarei stata tentata di colpirlo anche in faccia se non mi
avesse afferrato per le spalle e bloccato contro il muro.
Non c'era
me. E il sorriso era sempre da cattivo ragazzo, però... più
dolce. Sentii le farfalle nello stomaco e poi un po' più giù.
- La porta è chiusa a chiave - disse. - E noi abbiamo degli
affari in sospeso.
Il mio corpo sembrò spazzare via la parte logica del
cervello. Zittita del tutto, Feci scivolare le mani sul suo
torace e gli avvolsi il collo con le braccia. Patch mi sollevò
e io gli circondai la vita con le gambe. Il cuore mi batteva
a mille, ma non me ne preoccupai, neanche un po'.
Premetti le mie labbra sulle sue assaporando l'estasi della
sua bocca sulla mia, delle sue mani su di me. Mi
sembrava di essere sui punto di scoppiare dalla mia
stessa pelle...
Il cellulare che avevo in tasca squillò. Mi staccai da Patch
con il respiro affannoso, li telefono squillò una seconda
volta.
- Segreteria telefonica - disse Patch.
In un angolo recondito della mia coscienza, però, sapevo
che era importante che rispondessi, anche se non
ricordavo più il perché. Baciare Patch aveva fatto
evaporare tutte le preoccupazioni che avevo nutrito fino a
quel momento. Mi allontanai da lui e mi voltai, cosi che
non potesse accorgersi di quanto fossi turbata dopo un
solo bacio di soli dicci secondi. Dentro di me, urlavo di
gioia.
- Pronto? - risposi, resistendo all'impulso di passarmi la
mano sulla bocca per togliere quello che restava del
lucidalabbra.
- Tesoro! - esclamò Vee. Non sentivo bene quello che
diceva: un'interferenza gracchiante copriva la sua voce. Dove sei?
- Dove sei tu? Ancora con Elliot e Jules? -. Mi tappai l'altro
orecchio con la mano, sperando di sentire meglio.
- Sono a scuola. Abbiamo fatto un'irruzione - disse con
una vocetta da bambina cattiva. - Vogliamo giocare a
nascondino, ma
non siamo abbastanza per formare due squadre. Conosci
qualcuno che voglia fare il quarto e possa venire a
giocare con noi? In sottofondo, una voce incomprensibile
mormorò qualcosa.
- Elliot vuole che ti dica che se non vieni a giocare con
lui... aspetta... cosa? - disse Vee rivolta a qualcun altro.
La voce di Elliot si sostituì a quella di Vee. - Nora? Vieni a
giocare con noi. Altrimenti... in giardino c'è un albero con il
nome di Vee.
Mi si gelò il sangue.
- Pronto? - farfugliai. - Elliot? Vee? Ci siete?
La comunicazione era stata interrotta.
27
- Chi era? - chiese Patch. Mi sentivo completamente
stordita, cosi mi ci volle un attimo prima di riuscire a
rispondere. - Vee è a scuola con Elliot e Jules. Vogliono
che li raggiunga. Credo che Elliot farà del male a Vee se
non obbedisco -. Alzai lo sguardo su Patch. - Credo che le
farà del male anche se lo faccio. Lui incrociò le braccia e
aggrottò la fronte. - Elliot?
- La settimana scorsa, in biblioteca, ho trovato un articolo
che diceva che era stato indagato per un omicidio
avvenuto nella sua vecchia scuola, la Kinghorn Prep. Lui
è entrato proprio in quel momento e mi ha scoperte». Da
quella sera, ho ricevuto delle vibrazioni negative da lui.
Molto negative. Credo persino che sia entrato di nascosto
in camera mia, per rubare l'articolo.
- C'è qualcos'altro che dovrei sapere?
- La vittima dell'omicidio era la ragazza di Elliot. L'hanno
trovata impiccata a un albero. E al telefono, adesso, mi ha
detto: «Se non vieni, in giardino c'è un albero con il nome
di Vee».
- Senti, Elliot ha un'aria arrogante e aggressiva, ma non
mi sembra un assassino -. Infilò la mano nella tasca
davanti dei miei jeans e tirò fuori le chiavi della jeep. Vado a vedere che succede, non ci metto molto.
- Dovremmo chiamare la polizia.
Patch scosse la testa. - Manderesti Vee in riformatorio
per violazione di domicilio, effrazione e danni alla
proprietà. Un'ultima cosa: chi e questo Jules?
- L'amico dì Elliot. Era alla sala giochi la sera in cui ti
abbiamo incontrato.
Aggrottò di nuovo la fronte. - Mi ricorderei di un altro
ragazzo, se ci fosse stato.
Aprii la porta e lo seguii fuori.
Un inserviente in uniforme stava spazzando il pavimento
dell'atrio. Vide Patch uscite dal bagno delle donne e
sgranò gli occhi. Si chiamava Brandt Christensen ed era
nella mia stessa classe di inglese; il semestre precedente
l'avevo aiutato con una relazione.
- Elliot aspetta me. non te - dissi a Patch. - E se non mi
faccio viva, non so cosa potrebbe succedere a Vee. Non
voglio correre il rischio.
- Se ti lascio venite, ascolterai le mie istruzioni e obbedirai
alla lettera?
- Si.
- Se ti dico di saltare?
- Salto.
- Se ti dico di restare in macchina?
- Resto in macchina -. Vero. Almeno in parte.
Nel parcheggio del cinema, Patch puntò il portachiavi
dell'auto in direzione della jeep e i fari si accesero. Poi,
però, si fermò di colpo e imprecò fra i denti.
- Che succede? - dissi.
- Le gomme.
Abbassai lo sguardo. I due pneumatici dal lato
conducente erano a terra. - Non posso crederci! esclamai. - Ho preso due chiodi?
Patch si accovacciò davanti a una delle ruote e passò la
mano lungo la circonferenza. - Cacciavite. É stato fatto
apposta.
Per un attimo pensai che potesse trattarsi di un altro
trucco di Patch. Forse aveva qualche ragione per non
volere che andassi a scuola. I suoi sentimenti per Vee
non erano un mistero, dopotutto. Eppure qualcosa non
tornava. Non sentivo Patch nella mia testa e, a quanto
sembrava, le gomme erano davvero sgonfie.
- Chi farebbe una cosa del genere? Si alzò in piedi. - La
lista e lunga.
- Stai cercando di dirmi che hai un sacco di nemici?
- Ho fatto arrabbiare qualcuno. Un bel po' di pente fa
scommesse che non può vincere e poi se la prende con
me quando mi porto via la loro macchina o... qualcosa di
più.
Patch si avvicinò a un'automobile sportiva, aprì la portiera
e si accomodò al volante, poi allungò la mano sotto il
sedile.
- Che stai facendo? - chiesi. Fiato sprecato, naturalmente,
perché sapevo benissimo che cosa stava tacendo.
Cerco la chiave di riserva -. La mano di Patch ricomparve,
insieme a due fili blu. Con una certa abilità, li collegò l'uno
all'altro e il motore si avviò. Patch si voltò verso di me e
disse:
- La cintura di sicurezza.
- Non ruberò un'auto.
Si strinse nelle spalle. - Noi ne abbiamo bisogno adesso.
Loro no.
- Si chiama rubare, É sbagliato.
Patch non sembrava minimamente preoccupato. Al
contrario, aveva un'aria fin troppo rilassata. «Non è la
prima volta» pensai.
- Regola numero uno del ladro d'auto - disse sorridendo.
- Cercate di non rimanere sulla scena del crimine più a
lungo del necessario.
- Aspetta un momento.
Tornai velocemente sui miei passi. Nelle porte a vetri del
cinema vidi riflesso il parcheggio e Patch che scendeva
dalla macchina.
- Ciao. Brandt - dissi al ragazzo che stava terminando le
pulizie.
Lui alzò gli occhi, ma la sua attenzione fu
immediatamente attirata da qualcosa alle mie spalle.
Sentii aprirsi le porte e per-cepii Patch che si muoveva
dietro di me. Il suo arrivo fu simile a quello di una nuvola
temporalesca, che copre il sole oscurando il panorama.
- Come va? - disse Brandt esitante.
- Ho un problema con l'auto - dissi, mentre mi mordevo il
labbro e mi sforzavo di apparirgli simpatica. - So di
metterti in una situazione imbarazzante ma, visto che lo
scorso semestre ti ho aiutato con la relazione su
Shakespeare...
- Vuoi che ti presti la macchina.
- Be'... si.
- È un rottame. Non è una Jeep Commander -. Guardò
Patch come per scusarsi.
- Cammina? - chiesi.
- Se per "cammina" intendi quattro ruote che girano, si,
cammina. Però non è in prestito.
Patch apri il portafogli e tirò fuori quelli che sembravano
tre biglietti nuovi di zecca da cento dollari. Trattenendo la
sorpresa, decisi che la cosa migliore da fare era stare al
gioco.
- Ho cambiato idea - disse Brandt con gli occhi spalancati,
intascando il denaro. Si frugò in tasca e passò un mazzo
di chiavi a Patch.
- Marca e colore? - si informò lui afferrando le chiavi.
- Difficile a dirsi. Parte Volkswagen, parte Chevette. Una
volta
era blu, prima che la ruggine la corrodesse, facendola
virare verso l'arancione. Prima di restituirmela, mi riempire
il serbatoio? -chiese alla fine Brandt, con l'aria di avere
sfidato la sorte con le dita incrociate dietro la schiena.
Patch entrasse altri venti dollari. - Nel caso ce ne
dimenticassimo - disse, infilandoli nella tasca di Brandt.
Eravamo di nuovo fuori, quando mi rivolsi a Patch: - Avrei
potuto convincerlo a darmi le chiavi, avevo solo bisogno di
un po' più di tempo. E a proposito, perché lavori al
Borderline se sci ricco?
- Non sono ricco. Ho vinto i soldi a una partita di biliardo
un paio di sere fa -. Infilò la chiave nella serratura e mi
apri la portiera del lato passeggero. - Da adesso la banca
è ufficialmente chiusa.
Patch guidò per strade buie e silenziose, così arrivammo
a scuola in fretta. Parcheggiò e spense il motore. Il
campus era pieno di alberi i cui rami, contorti e spogli,
erano rivestiti da nient'altro altro che nebbia umida. Dietro
di loro si stagliava la Coldwater High,
La parte originaria dell'edificio era stata costruita alla fine
del diciannovesimo secolo e dopo il tramonto ricordava
molto una cattedrale. Grigia e carica di presagi. Molto
buia. Molto abbandonata.
- Ho appena avuto un brutto presentimento - dissi,
scrutando le orbite nere delle finestre.
- Resta in macchina e non farti vedere - ordinò Patch
passandomi le chiavi. - Se qualcuno esce dall'edificio,
meni in moto e vattene -. Uscì. Indossava una maglia
aderente nera, Levi's scuri e stivali. I capelli neri e la
carnagione scura rendevano difficile distinguerlo dallo
sfondo. Attraversò la strada e, dopo una manciata di
secondi, si confuse completamente con la notte.
28
Passarono cinque minuti, che diventarono dieci e poi
venti. Cercando di ignorare la terrificante sensazione di
essere osservata, sbirciai nell'oscurità in cui era immersa
la mia scuola. Perchè Patch ci metteva tanto? Facevo
mille ipotesi, e l'agitazione montava sempre di più. E se
non fosse riuscito a trovare Vee? E che cosa sarebbe
successo quando Patch avesse trovato Elliot? Non
pensavo che Elliot potesse avere la meglio su di lui, ma
non ne ero sicura. Magari Elliot aveva un asso nella
manica. Il telefono mi suonò in tasca, e io feci un salto.
- Ti vedo - disse Elliot non appena risposi. - Seduta in
macchina.
- Dove sei?
- Ti sto guardando da una finestra del secondo piano.
Siamo qui a giocare.
Io
non
voglio
giocare.
Riattaccò.
Con il cuore in gola, uscii dall'auto. Alzai lo sguardo verso
le finestre buie della scuola. Non credevo che Elliot
sapesse della presenza di Patch. Dalla voce sembrava
impaziente, non arrabbiato 0 infastidito. La mia unica
speranza era che Patch avesse un piano e che il piano
prevedesse che nè io nè Vee ci facessimo male. La luna
era coperta dalle nuvole; avvolta da un manto di paura. Mi
avviai verso l'ingresso.
Entrai nella penombra. Un debole raggio di luce,
proveniente dalla strada, penetrava nell'edificio dal vetro
della porta e i mici occhi impiegarono diversi secondi per
abituarsi. Le piastrelle del pavimento riflettevano un alone
cereo; ai lati del corridoio, gli armadietti erano allineati
come soldati robot addormentati. Invece di pace e
tranquillità, quell'atrio irradiava un senso di pericolo
imminente.
A parte i primi metri di corridoio, non si vedeva niente. Mi
diressi a un gruppo di interruttori e li premetti tutti, ma non
accadde nulla.
Dal momento che fuori della Muoia l'elettricità c'era, capii
che li era stata staccata di proposito. Mi chiesi se facesse
parte del piano di Elliot. Non lo vedevo da nessuna parte,
e non vedevo neanche Vee. Nemmeno Patch. Dovevo
procedere a tentoni stanza per stanza, escludendole una
dopo l'altra, finché non lo avessi trovato. Poi, insieme,
avremmo cercato la mia amica.
Usando la parete come guida, mi avviai. Percorrevo quel
tratto di corridoio ogni giorno, più volte al giorno... ma al
buio, improvvisamente, mi sembrò sconosciuto. E più
lungo, molto più lungo.
Al primo incrocio cercai di orientarmi. Se avessi girato a
sinistra sarei arrivata alle aule di musica e alla mensa,
mentre a destra avrei trovato fili uffici amministrativi e una
rampa di scale. Proseguii dritto, addentrandomi nella
scuola in direzione delle classi.
Il piede colpi qualcosa e, prima che riuscissi a reagire, mi
trovai a terra. La luna fece capolino tra le nubi e una fosca
luce filtrò attraverso un lucernario proprio sopra di me. Ero
inciampata in un corpo. Jules. Giaceva supino, lo sguardo
fisso nel vuoto. I lunghi capelli biondi erano arruffati sul
viso, le mani inerti lungo i fianchi.
Indietreggiai sulle ginocchia e mi coprii la bocca,
respirando affannosamente. Le gambe mi tremavano per
l'adrenalina. Molto lentamente, appoggiai il palmo della
mano sul suo peno: non si muoveva. Era morto.
Balzai in piedi soffocando un urlo. Volevo chiamare Patch,
ma cosi avrei rivelato a Elliot la mia posizione, sempre
che non la conoscesse già. Di colpo, mi resi conto che
poteva essere a pochi metri da me, a godersi lo
spettacolo perverso che aveva orchestrato.
La luce proveniente dall'alto svanì e io mi guardai intorno
terrorizzata. Davanti a me proseguiva l'interminabile
corridoio, Alla mia sinistra, una corta rampa di scale
portava alla biblioteca. A destra, avrei trovato le classi.
Scelsi d'impulso la biblioteca, brancolando nel buio per
allontanarmi dal corpo di Jules. Il naso mi gocciolava e mi
resi conto che stavo piangendo in silenzio. Perché Jules
era morto? Chi l'aveva ucciso? Anche Vee era morta?
Le porte della biblioteca non erano chiuse a chiave e cosi
entrai. Oltre gli scaffali, all'altra estremità della sala,
c'erano tre piccole aule insonorizzate; se Elliot avesse
voluto tenere prigioniera Vee, sarebbero state il posto
ideale.
Stavo per avviarmi in quella direzione, quando fui
raggiunto da un gemito. Una voce maschile. Mi fermai.
Le luci del corridoio si accesero, rischiarando l'oscurità
della biblioteca. Il corpo di Elliot giaceva a pochi metri da
me. la bocca aperta, la pelle cerca. Voltò gli occhi verso di
me e allungò una mano.
Mi sfuggì un urlo lacerante. Mi voltai di scatto e corsi
verso la porta, spingendo e prendendo a calci tutte le
sedie che mi trovavo davanti, «Corri!» ordinai a me
stessa. «Trova un'uscita.»
Uscii dalla biblioteca barcollando, e proprio in quel
momento
le luci del corridoio si spensero. Il mondo piombò di nuovo
nell'oscurità.
- Patch! - cercai di urlare, ma il suo nome mi si strozzò in
gola.
Jules era morto. Elliot era quasi morto. Chi li aveva
uccisi? Chi era rimasto? Cercai di capire il senso di quello
che slava succedendo, ma la ragione mi aveva
abbandonata.
Poi una spinti nella schiena mi fece perdere l'equilibrio.
Una seconda spinta mi fece volare di lato, contro un
armadietto. Picchiai la resta, e la botta mi lasciò
tramortita.
Il mio campo visivo fu attraversato da un sottile e veloce
raggio di luce. Nel turbine che avevo in testa, riuscii a
mettere a fuoco un paio di occhi scuri dietro un
passamontagna. La luce arrivava da una torcia da
minatore.
Mi alzai e cercai di correre. II mio aggressore stese un
braccio bloccandomi la via di fuga, poi usò l'altro braccio
per intrappolarmi contro l'armadietto.
- Credevi fossi morto? -. La sua voce tradiva un sorriso
esultante, eppure gelido. - Non potevo lasciarmi sfuggire
un'ultima occasione di giocare con te. Fammi contento.
Chi credevi che fosse il arrivo? Elliot? Oppure, per un
attimo, ti ha sfiorato il sospetto che potesse essere stata
la tua migliore amica a fare tutto questo? Ho indovinato,
vero? È questo il bello della paura. Tira fuori il peggio di
noi.
- Sei tu -. Mi tremò la voce.
Jules si tolse torcia e passamontagna. - In carne e ossa.
- Come hai fatto? - riuscii a chiedere. - Ti ho visto. Non
respiravi. Eri morto.
- Mi dai troppi meriti. Hai fatto tutto tu, Nora. Se la tua
mente non fosse così debole, io non sarei mai riuscito a
combinare
niente. Ti sto facendo sentire stupida? È avvilente
scoprire che tra tutte le menti in cui sono entrato la tua è
la più facile da violare? E anche la più divertente.
Mi passai la lingua sulle labbra. Avevo la bocca asciutta e
riuscivo a sentire l'odore della paura nel mio alito. - Dov'è
Vee?
Mi diede uno schiaffo. - Non cambiare argomento. Devi
assolutamente imparare a controllare la paura. La paura
indebolisce la logica e offre ogni sorta di possibilità a
gente come me.
Era un lato di Jules che non avevo mai visto. Era sempre
stato silenzioso, scontroso, assolutamente indifferente nei
confronti di chiunque. Restava nell'ombra, cercando di
non attirare l'at-tenzione, di non insospettire nessuno.
«Molto furbo da parte sua» pensai.
Mi afferrò per un braccio e mi tirò con forza.
Lo graffiai e mi divincolai, ottenendo un pugno nello
stomaco. Indietreggiai mentre cercavo, inutilmente, di
riprendere fiato. Mi appoggiai a un armadietto e mi
accasciai a terra. Un filo d'aria mi arrivò in gola,
facendomi tossire.
Jules si toccò i segni lasciati dalle mie unghie
sull'avambraccio.
- Pagherai per questo.
- Perchè mi hai portata qui? Cosa vuoi? -. Non riuscivo a
controllare il tono isterico della mia voce.
Mi afferrò per il braccio e mi tirò su a forza. Poi mi trascinò
lungo il corridoio. Apri una porta con un calcio e mi buttò
dentro, scaraventandomi a terra. La porta si richiuse con
un colpo secco. L'unica luce proveniva dalla torcia di
Jules.
L'aria era impregnata dell'odore familiare di gesso e di
sostanze chimiche stantie. Alle pareti, poster raffiguranti il
corpo umano e le sezioni trasversali delle cellule. In fondo
alla stanza, un lungo bancone di granito nero con un
lavello e, di fronte, diverse file
di cavoli da laboratorio dello stesso materiale. Eravamo
nell'aula di biologia del Coach McConaughy.
Un bagliore metallico catturò la mia attenzione. A terra,
se-minascosto dal cestino della carta, vidi un bisturi.
Doveva essere sfuggito sia al coach sia al bidello. Riuscii
a farlo scivolare sotto la cintura dei jeans un attimo prima
che Jules mi tirasse su.
- Ho dovuto spegnere la luce - disse, appoggiando la
torcia sul tavolo più vicino. - Non si può giocare a
nascondino con la luce accesa.
Trascinò due sedie una di fronte all'altra. - Accomodati -.
Non aveva l'aria di un invito.
I miei occhi percorsero la fila di finestre sulla parete
opposta. Mi chiedevo se avessi potuto aprirne una e
buttarmi fuori senza farmi prendere da Jules. Fra i mille
pensieri legati all'autoconservazione che in quell'istante
mi vennero in mente, decisi di concentrarmi su uno: non
apparire spaventata. Era uno dei consigli che ci avevano
dato alle lezioni di autodifesa seguiti con mia madre alla
morte di papà e che in quel momento riaffioravano alla
memoria. Mantenere il contatto visivo... sembrare sicuri di
sé... usare il buonsenso... tutto più facile a dirsi che a
farsi.
Jules mi costrinse a sedermi premendo le mani sulle mie
spalle. Attraverso i jeans, avvertii il freddo del metallo.
- Dammi il cellulare - ordinò stendendo la mano.
- L'ho lasciato in macchina.
Si lasciò sfuggire una risata. - Vuoi davvero fare questi
giochetti con me? Ho chiuso la tua migliore amica da
qualche parte nell'edificio. Se ti metti a giocare con me, si
sentirà esclusa e io dovrò escogitare un altro gioco superspeciale per farmi perdonare da lei.
Tirai fuori il telefono e glielo passai.
Con una forza sovrumana, lo piegò a metà. - Ora siamo
solo io e te -. Si stravaccò sulla sedia di fronte a me e
distese le gambe con studiata disinvoltura, un braccio
penzoloni sulla spalliera. - Parliamo un po', Nora.
Mi alzai di scatto dalla sedia e scappai; Jules mi afferrò
per la vita prima che riuscissi a fare quattro passi e mi
spinse di nuovo sulla sedia.
- Una volta possedevo dei cavalli - disse. - Tanto tempo
fa, in Francia, avevo una scuderia di cavalli, bellissimi. 1
cavalli spagnoli erano i miei preferiti; venivano catturati
allo stato brado e portati subito da me. Poche settimane
dopo, erano domati. Però c'era sempre un cavallo
speciale, quello che non voleva essere domato.
Sai cosa facevo ai cavalli che rifiutavano di farsi
addestrare?
Tremai al solo pensiero della risposta.
- Collabora, e non avrai niente da temere - concluse.
Non gli credetti nemmeno per un attimo. Il lampo che
vedevo nei suoi occhi non era di sincerità.
- Ho visto Elliot in biblioteca -. Con mia sorpresa, la voce
mi tremò. Non mi piaceva né mi fidavo di lui, ma non
meritava di morire lentamente e in modo doloroso. - Gli
hai fatto del male?
Si avvicinò, quasi volesse confidarmi un segreto. - Se vuoi
commettere un crimine, non devi lasciare prove in giro,
mai. Elliot sapeva troppo.
- Per questo che sono qui? Per l'articolo che ho trovato su
Kjirsten Halverson?
Jules sorrise. - Elliot si è scordato di confidarmi questo
particolare.
- L'ha uccisa lui... o tu? - chiesi con un brivido.
- Dovevo mettere alla prova la lealtà di Elliot. Gli ho
portato
via ciò che aveva di più importante. Elliot era a Kinghorn
con una borsa di studio e tutti trovavano il modo di
ricordarglielo. Finchè non sono arrivato io, il suo
benefattore. Alla fine, è stato costretto a scegliere tra me
e Kjirsten. Più sinteticamente, tra il denaro e l'amore. Pare
che non sia affatto piacevole essere povero tra i ricchi. Io
l'ho comprato, ed è stato allora che ho capito che avrei
potuto fidarmi di lui, quando fosse arrivato il momento di
occuparmi di te.
- Perche io?
- Non l'hai ancora capito? -. La luce della torcia metteva in
risalto la crudeltà del suo volto e creava l'illusione che i
suoi occhi fossero diventati color argento fuso. - Ho
giocherellato con te, ti ho fatta dondolare appesa a una
cordicella; ti ho fatto soffrire per procura, perché la
persona alla quale davvero voglio fare del male non può
provare dolore fisico. Sai chi e questa persona?
Tutti i nodi del mio corpo sembrarono sciogliersi. La mia
vista non era più a fuoco. Il viso di Jules sembrava un
dipinto impressionista: sfuocato ai lati e privo di dettagli. Il
sangue mi defluiva dalla testa e sentii che scivolavo dalla
sedia. Mi ero già sentita cosi tante volte: avevo bisogno di
ferro. Subito.
Mi diede un altro schiaffo. - Concentrati. Di chi sto
parlando?
- Non lo so - non riuscivo ad alzare la voce oltre il
sussurro.
- Sai perché non può provare dolore? Perché non ha un
corpo umano, non ha sensazioni fisiche. Se lo
immobilizzassi e lo torturassi, non sentirebbe nulla, non
un briciolo di dolore. Scommetto che adesso inizi ad
avere un'idea. Avete passato un sacco di tempo insieme.
Perché sei così silenziosa, Nora? Non immagini chi è?
Un rivolo di sudore mi scivolò lentamente lungo la
schiena.
- Ogni anno, all'inizio del mese ebraico di Cheshvan, lui
prende il controllo del mio corpo. Due intere settimane.
Ecco per quanto tempo cedo il controllo. Nessuna liberta,
nessuna scelta. Non posso concedermi il lusso di
scappare per quelle due settimane: do in prestito il mio
corpo e lo riottengo quando è tutto finito. Posso provare a
convincermi che non stia avvenendo davvero, ma invece
no. Sono li, prigioniero nel mio stesso corpo, e vivo ogni
singolo momento di ciò che accade. Sai come ci si sente?
Lo sai? - urlò.
Tenni la bocca chiusa, perché sapevo che parlare
sarebbe stato pericoloso. Jules rise, ma quello che udii fu
più che altro il suono dell'ara che gli passava tra i denti. Il
suono più sinistro che avessi mai sentito.
- Ho fatto un giuramento con il quale gli permettevo di
prendere possesso del mio corpo durante Cheshvan.
Avevo sedici anni -. Alzò le spalle, ma il movimento era
rigido. – Mi ha costretto a giurare, mi ha torturato. E dopo,
mi ha detto che non ero umano. Puoi crederci? Non
umano. Mi ha detto che mia madre, una donna, era
andata a letto con un angelo caduto -. Sogghignò in modo
odioso, la fronte imperlata di sudore. - Ti
ho già detto di aver ereditato alcune caratteristiche di mio
padre? Come lui, riesco a ingannare le menti. Posso farti
vedere cose che non esistono, posso farti sentire delle
voci.
«Cosi, Nora. Mi senti? Sei già spaventata?»
Mi diede un colpetto in fronte. - Che succede li dentro,
Nora? È terribilmente silenzioso.
Jules era Chauncey. Era un Nephilim. Ricordai la mia
voglia e quello che mi aveva detto Dabria. Jules e io
avevamo lo stesso sangue. Nelle mie vene scorreva il
sangue di un mostro. Chiusi gli occhi e una lacrima
scivolò fuori.
- Ricordi la sera in cui ci siamo incontrati la prima volta?
Sono
saltato davanti alla tua auto. Guidavi, era buio e c'era
nebbia. Tu eri già nervosa e questo ha facilitato le cose:
ingannarti è stato semplice- E spaventarti mi ha proprio
divertito, quella sera. Mi ha fatto venire voglia di rifarlo.
Avrei dovuto capirlo - sussurrai. - Non ci sono molte persone alte come te.
Non mi stai a sentire. Posso farti vedere tutto quello che
voglio. Credi davvero che avrei trascurato un dettaglio
importante come la mia altezza. Hai visto ciò che io ho
voluto farti vedere, quindi hai visto solo un uomo di
corporatura media con un passamontagna.
Me ne stavo seduta 1i e sentivo che nel mio terrore si
apriva un sottile spiraglio. Non ero pazza. C'era Jules
dietro a tutto quello che mi era capitato. Era lui il pazzo.
Poteva ingannarmi perchè suo padre era un angelo
caduto e lui aveva ereditato i suoi poteri. - Non hai
davvero messo a soqquadro la mia camera -dissi. - Hai
solo fatto in modo che lo credessi. Ecco perchè era in
ordine quando è arrivata la polizia.
Applaudì in modo lento e calcolato. - Vuoi sapere la parte
migliore? Avresti potuto impedirmelo. Senza il tuo
permesso, non avrei potuto toccare la tua mente. Sono
entrato e tu non hai mai fatto resistenza. Eri debole,
arrendevole.
Finalmente iniziavo a capire. Però, anziché sollievo,
provavo sgomento all'idea di quanto fossi influenzabile.
Ero un libro aperto. Niente poteva impedire a Jules di
risucchiarmi nei suoi inganni, a meno che non imparassi a
bloccarlo.
- Immagina di essere al mio posto - continuò. - Il tuo corpo
violato, anno dopo anno. Immagina un odio così forte da
poter essere curato solo con la vendetta. Immagina di
impiegare mezzi ed energie per tenere d'occhio l'oggetto
della tua vendetta,
aspettando con pazienza il momento in cui il faro ti
presenterà l'opportunità non solo di pareggiare i conti. ma
addirittura di far pendere la bilancia in tuo favore -. Puntò i
suoi occhi nei mici. - Tu sei quell'opportunità. Se faccio
male a te. faccio male anche a Patch.
- Sopravvaluti la mia importanza per lui - obiettai. Iniziavo
a sudare freddo all'attaccatura dei capelli.
- Lo tengo d'occhio da secoli. La prima volta che è venuto
a casa tua è stato la scorsa estate, ma tu non te ne sci
accorta. È capitato che ti seguisse mentre facevi
shopping. A volte passava davanti a casa tua, senza
motivo. Poi si è iscritto alla tua scuola. Non ho potuto fare
a meno di chiedermi cosa ci fosse di speciale in te. Ho
cercato di scoprirlo, ti osservo da tempo, ormai.
Fui assalita da una paura totale. In quell'istante capii che
non era mio padre la presenza che avvertivo. Era Jules.
Sentivo quella presenza gelida, soprannaturale anche in
quel momento, ma amplificata almeno un centinaio di
volte.
- Non volevo che Patch si insospettisse, cosi mi sono
tenuto in disparte - proseguì. - È allora che è entrato in
scena Elliot. Non ci ha messo molto a dirmi ciò che
sospettavo già: Patch è innamorato di te.
Adesso tutto tornava. Jules non stava male la sera che
era sparito al Delphic. E nemmeno la sera in cui eravamo
andati al Borderline. Semplicemente, non doveva farsi
notare da Patch perchè in quel caso, sarebbe andato tutto
all'aria. Patch avrebbe capito che Jules Chauncey stava
tramando qualcosa. Elliot era gli occhi e le orecchie di
Jules, gli passava tutte le informazioni.
- Il piano era quello di ucciderti in campeggio, ma Elliot
non è riuscito a convincerti - ammise Jules. - Allora ti ho
seguita a Portland e quando sei uscita dal Blind Joe ti ho
sparato. Immagina
la mia sorpresa quando ho scoperto di avere ammazzato
una barbona che indossava la tua giacca. Questa volta,
invece, ha funzionato tutto. Il momento è arrivato.
Cambiai posizione sulla sedia e il bisturi scivolò un po'.
Dovevo stare attenta, o non sarei più riuscita ad afferrarlo.
Jules poteva anche costringermi ad alzarmi e in quel caso
avrebbe potuto cadere a terra. E sarebbe stata la fine.
- Vediamo se indovino a cosa stai pensando - continuò
Jules. Si alzò in piedi e prese a camminare nella stanza. Inizi a desiderare di non avere mai incontrato Patch,
vorresti che non si fosse mai innamorato di te.
Accomodati, prego. Pensa alla situazione in cui ti ha
messo, alla scelta sbagliata che hai fatto.
Jules parlava dell'amore che Patch provava per me e
all'improvviso mi sentii invadete da una speranza
irrazionale.
Armeggiando un po', riuscii ad afferrare il bisturi e balzai
in piedi. - Non avvicinarti o ti accoltello. Giuro che lo
faccio!
Jules emise un suono gutturale e con il braccio spazzò via
tutto quello che si trovava sopra il bancone. I recipienti di
vetro si fracassarono contro la lavagna, i fogli caddero a
terra svolazzando. Percorse a grandi passi la distanza
che lo separava da me. In preda al panico, sollevai il
bisturi, gli afferrai la mano e gli tagliai il palmo.
Jules emise un sibilo e indietreggiò.
Senza aspettare, gli conficcai il bisturi nella coscia.
Jules sgranò gli occhi guardando il metallo che gli
spuntava dalla gamba. Estrasse il bisturi aiutandosi con
entrambe le mani, il viso contorto dal dolore. Poi aprì le
dita e il bisturi cadde tintinnando sul pavimento.
Vacillando, Jules fece un passo verso di me.
Mi allontanai urlando, ma nel farlo urtai con il fianco il
bordo di un tavolo; persi l'equilibrio e caddi. Il bisturi
giaceva a un paio di metri da me.
Jules mi raggiunse, facendomi voltare sullo stomaco. Mi
premette il viso sul pavimento, schiacciandomi il naso e
soffocando le mie urla.
- Tentativo coraggioso, - grugni - ma inutile. Sono un
Nephilim, sono immortale.
Provai ad afferrare il bisturi trascinandomi per quei pochi
metri vitali. Allungai la mano, c'ero quasi, quando Jules mi
trascinò indietro.
Sollevai di scatto il tallone e lo colpii tra le gambe. Con un
gemito si allontanò zoppicando. Scattai in piedi, ma Jules
fu più rapido di me. Si precipitò verso la porta e si buttò in
ginocchio per sbarrarmi il passaggio.
Aveva i capelli davanti agli occhi, il viso imperlato di
sudore, la bocca contratta in una smorfia di dolore.
Ogni singolo muscolo del mio corpo era pronto a scattare.
- Vuoi scappare? Buona fortuna, allora - disse con un
sorrisetto cinico che, però, sembrava richiedergli un
grande sforzo. – Vedrai cosa intendo -. Quindi si accasciò
al suolo.
29
Non avevo idea di dove fosse Vee. Allora mi venne in
mente che avrei dovuto sforzarmi di ragionare come
Jules. Dove l'avrei nascosta se fossi stata in lui? «Lo
scopo è quello di non farla scappare e di non farmela
trovare» riflettei.
Mentalmente passai in rassegna la mia scuola,
concentrandomi sui piani alti. Era probabile che Vee si
trovasse al terso piano.
Però esisteva anche un quarto piano, minuscolo, più una
soffitta che altro. Ci si arrivava tramite una scala stretta,
accessibile soltanto dal terso piano. In cima, c'erano due
classi: l'aula del corso avanzato di spagnolo e... il
laboratorio dell'e-zine.
Vee era lì. Non sapevo perchè, ma ne ero sicura.
Cercando di fare presto, nonostante l'oscurità, salii due
rampe di scale. Dopo un paio di tentativi a vuoto,
finalmente trovai la scala che portava al laboratorio.
Arrivai in cima e spinsi la porta.
- Vee? - bisbigliai. Lei emise un lamento.
- Sono io - dissi, muovendomi con cautela lungo il corridoio tra i banchi per non rischiare di inciampare su una
sedia e segnalare a Jules la mia posizione. - Sei ferita?
Dobbiamo uscire subito di qui -. La trovai raggomitolata in
un angolo, le ginocchia strette al petto.
- Jules mi ha colpito alla testa - mugugnò alzando il tono
della voce. - Credo di essere svenuta, Ora non ci vedo.
Non vedo niente!
- Ascoltami. Jules ha tolto la luce e le tende sono tirate. È
solo buio. Prendimi la mano, dobbiamo andare via,
adesso.
Credo d'essere ferita. Mi pulsa la testa, sono cieca!
Non sei cieca - sussurrai, scuotendola leggermente. Neanch'io ci vedo, dobbiamo andare giù a tentoni.
Usciremo dalla porta della palestra. Ha messo la catena a
tutte le porte.
Un silenzio denso cadde tra noi. Jules mi aveva augurato
buona fortuna quando ero scappata e ora capivo perché.
Dal cuore parti un brivido che si propagò in tutto il corpo. Non la porta da cui sono entrata - dissi infine. - L'ingresso
dal lato est non è chiuso. Dev'essere l'unico. Ero con lui
quando ha bloccato le altre porte. Ha detto che in quel
modo nessuno avrebbe avuto la tentazione di uscire
mentre giocavamo a nascondino.
- Se quella è l'unica porta aperta, cercherà di chiuderla e
ci aspetterà li. Noi però non ci andremo. Usciremo da una
finestra.
Stavo informando Vee del piano nel momento stesso in
cui prendeva forma. - Dalla parte opposta dell'edificio,
cioè questa.
- Hai il cellulare?
- L'ha preso Jules.
- Appena usciamo di qui dobbiamo dividerci. Se Jules ci
insegue, dovrà scegliere quale delle due inseguire. Nel
frattempo, l'altra va a chiedere aiuto -. Sapevo chi delle
due avrebbe scelto. Vee non gli interessava, era servita
solo ad attirarmi li. - Corri più veloce che puoi e trova un
telefono. Chiama la polizia e digli che Elliot e in biblioteca.
- Vivo? - chiese con voce tremante.
- Non lo so.
Eravamo rannicchiate una accanto all'altra e sentii che si
tirava su la maglietta per asciugarsi gli occhi.
- È tutta colpa mia.
- È colpa di Jules.
- Ho paura.
- Andrà tutto bene - dissi, cercando di sembrare Ottimista.
- Ho ferito Jules a una gamba con un bisturi. Sta
perdendo molto sangue, magari smetterà di darci la
caccia e andrà a farsi medicare.
A Vee scappò un singhiozzo. Sapevamo entrambe che
stavo mentendo. Il desiderio di vendetta di Jules contava
più di qualsiasi ferita. Più di qualsiasi cosa.
Vee e io scendemmo furtivamente le scale, strisciando
lungo le pareti, finché arrivammo al piano terra.
- Da questa parte - le sussurrai all'orecchio, tenendole la
mano mentre acceleravamo lungo il corridoio che portava
verso l'ala ovest.
Non avevamo fatto molta strada, quando, dal tunnel buio
davanti a noi, arrivò un suono gutturale. Somigliava a una
risata.
- Bene, bene... cosa abbiamo qui? - disse Jules, ma non
c'era alcun volto dietro la voce.
- Corri - dissi a Vee stringendole la mano. - Vuole me.
Chiama la polizia, corri!
Vee mi lasciò la mano e obbedì. I suoi passi svanirono
presto e lo sconforto mi invase. Mi domandai se Patch
fosse ancora nell'edificio, ma il pensiero durò un secondo.
Cercavo di concentrarmi solo sulla necessita di non
svenire. Ero di nuovo con Jules. Da sola.
- La polizia ci metterà almeno venti minuti - disse Jules,
mentre sentivo avvicinarsi i suoi passi. - E a me non
servono venti minuti.
Mi voltai e iniziai a correre con Jules alle costole.
Annaspando, al buio, girai a destra e imboccai un
corridoio. Ero costretta a procedere facendo scorrere una
mano lungo le pareti per orientarmi, sbattendola
continuamente sugli spigoli affilati degli armadietti e sugli
stipiti delle porte. Era piena di graffi e tagli.
Girai Ci nuovo a destra, correndo più forte che potevo
verso la doppia porta della palestra. Avevo un unico
obiettivo in testa: se fossi riuscita a raggiungere il mio
armadietto, in palestra, avrei potuto chiudermi dentro. Gli
armadietti dello spogliatoio femminile occupavano tutta
una parete ed erano molto grandi. Jules ci avrebbe messo
un bel po' a controllarli tutti. Magari, se fossi stata
fortunata, la polizia sarebbe arrivata prima che riuscisse a
trovarmi. Mi precipitai in palestra e corsi verso gli
spogliatoi. Spinsi la maniglia. Lì porta era chiusa a chiave.
Scossi la maniglia in preda al panico. Niente da fare. Mi
voltai di scatto e cercai disperatamente un'altra uscita.
Niente. Ero in trappola. Indietreggiai verso la porta, chiusi
gli occhi per non svenire e restai in ascolto del mio
respiro.
Quando riaprii gli occhi, Jules camminava alla fosca luce
della luna che penetrava dai lucernari. Si era annodato la
camicia attorno alla coscia, il tessuto era intriso di sangue.
Era rimasto in maglietta bianca e pantaloni di cotone.
Infilata nei pantaloni, una pistola.
- Per favore, lasciami andare - sussurrai.
- Vee mi ha detto una cosa importante di te: soffri di
vertigini -. Alzò lo sguardo verso le travi del soffitto,
sorridendo.
L'aria stantia sapeva di sudore e dì vernice. Il
riscaldamento era stato spento per le vacanze di
primavera e si gelava. Le nubi, passando davanti alla
luna, proiettavano ombre che danzavano sul pavimento
lucido. Jules dava le spalle alle gradinate. Dietro di lui, vidi
Patch.
Hai aggredito Marcie Millar? - chiesi a Jules,
imponendomi di non rivelare la presenza di Patch.
- Elliot mi ha detto che tra voi non correva buon sangue.
Non mi andava che qualcun altro avesse il piacere di
tormentare la mia ragazza.
- E la finestra della mia stanza? Mi spiavi mentre
dormivo?
- Niente di personale.
All'improvviso Jules si irrigidì. Si gettò su di me. mi afferrò
per un polso e mi fece ruotate davanti a sè. Premuta
contro la nuca, avvertii quella che temevo fosse la pistola.
- Togliti il berretto - ordinò a Patch. - Voglio vedere
l'espressione della tua faccia mentre la uccido. Ogni tuo
sforzo per salvarla sarà inutile. Come fu inutile il mio
tentativo di resistere al giuramento che mi costringesti a
pronunciare.
Patch fece un paio di passi avanti. Si muoveva con
disinvoltura, ma con estrema cautela. La canna della
pistola premette più a fondo e io sussultai.
- Un altro passo e questo sarà stato il suo ultimo respiro –
lo avvertì Jules.
Patch calcolò con un rapido sguardo la distanza che ci
separava, valutando quanto ci avrebbe impiegato a
coprirla. Jules se ne accorse.
- Non provarci - disse.
- Tu non le sparerai, Chauncey.
- No? - Jules premette il grilletto. Clic. Aprii la bocca per
urlare, ma ne usci solo un singhiozzo.
- Revolver - spiegò Jules. - Ho altri cinque colpi a disposizione.
«Pronta a usare quelle mosse di boxe di cui non fai che
vantarti?» mi disse Patch nella mente.
Sentivo il cuore pulsarmi in ogni cellula, le gambe mi
reggevano a stento. - C-cosa? - balbettai.
E all'improvviso mi sentii Invadere da una forza
sconosciuta, che si espanse fino a riempirmi. Il mio corpo
si fidava totalmente di Patch così, quando prese possesso
di me, rinunciai a ogni forza e libertà.
Prima che avessi il tempo di capire quanto questa perdita
di controllo mi terrorizzasse, un dolore lancinante mi
trafisse la mano, e capii che Patch stava usando il mio
pugno per colpire Jules. La pistola finì per terra e scivolò
via, fuori portata.
Patch comandò alle mie braccia di scagliare Jules contro
le gradinate.
Un attimo dopo, mi resi conto che le mie mani erano
chiuse sulla gola di Jules e gli sbattevano la testa contro i
gradini producendo un rumore orrendo. Lo tenevo fermo,
le dita premute sul collo. Jules strabuzzò gli occhi e cercò
di parlare, ma Patch non mi permise di lasciarlo.
«Non riuscirò a stare dentro di te ancora a lungo» mi
disse nella mente. «Non è Cheshvan e non ho il
permesso. Appena ti lascio, corri. Hai capito! Più veloce
che puoi. Chauncey sarà troppo debole e stordito per
entrare nella tua testa. Corri e non fermarti.»
Un ronzio e il mio corpo iniziò a spogliarsi di quello di
Patch.
Le vene del collo di Jules si gonfiarono e la testa si inclinò
da una parte. «Forza» sentii implorare Patch. «Svieni...
svieni...»
Troppo tardi. Patch usci dal mio corpo. E lo fece così
all'improvviso che fui colta da un capogiro.
Avevo riacquistato il controllo delle mani, che si
staccarono d'impulso dal collo di Jules. Lui cercò di
riprendere fiato e sbattè le palpebre mentre mi guardava.
Patch era steso a terra qualche metro più in la, immobile.
Mi ricordai quello che mi aveva detto Patch e attraversai di
corsa la palestra. Mi gettai contro la porta, pronta a fuggire
in corridoio. Fu come sbattere contro un muro. Spinsi il
maniglione antipanico, convinta che avrei trovato la porta
aperta. L'avevo attraversata solo cinque minuti prima, così
mi ci scaraventai contro con tutto il peso. La porta non si
aprì.
Mi voltai. Il calo di adrenalina mi faceva tremare le
ginocchia. - Esci dalla mia mente! - urlai a Jules.
Lui si mise a sedere e si massaggiò la gola. - No - rispose.
Provai di nuovo ad aprire la porta. Tirai un calcio al
maniglione. Picchiai i pugni contro i vetri. - Aiuto! Qualcuno
mi sente? Aiuto!
Con la coda dell'occhio, vidi che Jules avanzava verso di me
zoppicando. Chiusi forte gli occhi, cercando di concentrarmi
sulla mia mente. La porta si sarebbe aperta non appena
avessi scovato la sua voce e l'avessi mandata via. Cercai in
ogni angolo della mia testa, ma senza riuscire a trovarla.
Jules era nascosto in profondità. Riaprii gli occhi. Era più
vicino. Dovevo trovare un'altra via di fuga.
Fissata al muro, sopra la gradinata, c'era una scala di ferro
che portava al reticolato di travi del soffitto. Alla fine delle
travi, sul muro di fronte, quasi sopra il punto in cui mi
trovavo, c'era un condotto d'aerazione. Se fossi riuscita ad
arrivarci, avrei potuto infilarmi dentro e trovare un'altra via di
fuga.
Con uno scatto, superai Jules e iniziai a risalire la gradinata.
Le mie scarpe rimbombavano sul legno e il rumore, che
riecheggiava nello spazio vuoto, mi impediva di sentire se
Jules mi stesse seguendo. Trovai un punto d'appoggio sul
primo piolo e mi issai, Mi arrampicai sul secondo piolo, poi
sul terzo. Con la coda dell'occhio notai la fontanella
dell'acqua, in lontananza. Era piccola, il che significava che
ero in alto. Molto in alto.
«Non guardare giù» ordinai a me stessa. «Concentrati su
quello
che sta sopra.» Esitai un attimo, poi salii di un altro piolo.
La scala sbatacchiò, forse era stata fissata male al muro.
Sentii la risata di Jules e persi la concentrazione. La mia
mente fu invasa da immagini di cadute. Razionalmente,
Sapevo che era Jules, ma il mio cervello andò in
cortocircuito lo stesso. Non riuscivo più a distinguere i
miei pensieri dai suoi. Non ricordavo più da che parte
fossero l'alto e il basso.
La paura che provavo era talmente forte da annebbiarmi
la vista. A che punto della scala mi trovavo? I miei piedi
erano saldi? Stavo per scivolare? Aggrappata al piolo con
entrambe le mani, mi premetti le nocche contro la fronte.
«Respira» dissi a me stessa. «Respira!»
E poi lo sentii.
Il lento, straziante rumore del metallo che cigola. Chiusi gli
occhi per combattere un attacco di vertigini.
I sostegni di metallo che sorreggevano la parte superiore
della scala si staccarono dal muro. Il cigolio si trasformò in
un suono acuto, mentre anche la successiva coppia di
sostegni saltava via. Con un grido bloccato in gola, vidi
che tutta la metà superiore della scala si staccava.
Afferrai la scala con braccia e gambe, preparandomi a
cadere indietro. La scala oscillò per un momento, quindi si
arrese alla forza di gravità.
E poi accadde tutto in fretta. Le travi e i lucernari si
trasformarono in una macchia indistinta e io volai giù
finché, improvvisamente, la scala si fermò di colpo.
Oscillò un paio di volte, a dieci metri da terra. Le gambe
persero l'appiglio e restai aggrappata solo con le mani.
- Aiuto! - gridai, agitando le gambe nel vuoto.
La scala traballò e si abbassò ancora di qualche metro.
Una delle scarpe si sfilò, si fermò un attimo trattenuta
dalle dita, poi cadde. Dopo un tempo interminabile, colpì il
pavimento della palestra.
Mi morsi la lingua per resistere ai dolore che provava alle
braccia, sempre più insopportabile: sembrava che si
stessero staccando dal corpo.
E poi, in mezzo alla paura e al panico, sentii la voce di
Patch. «Blocca le immagini. Continua a salire. La scala è
intatta.»
- Non posso - singhiozzai. - Cadrò!
«Blocca le immagini. Chiudi gli occhi e ascolta la mia
voce.»
Deglutii e mi costrinsi a chiudere gli occhi. Aggrappata
alla voce di Patch, sentii che sotto di me prendeva forma
qualcosa. Smisi di muovere le gambe perché adesso
sentivo uno dei pioli ben saldo sotto le piante dei piedi.
Concentrai tutta la mia attenzione sulla voce di Patch e
aspettai che il mondo si rimettesse a posto. Ero sulla
scala, ed era dritta, attaccata solidamente alla parete.
Riacquistai sicurezza e ripresi a salire.
Arrivata in cima, mi spostai con cautela sulla trave più
vicina. L'afferrai con le braccia, quindi portai su la gamba
destra e la agganciai. Cosi avevo la parete di fronte e il
pozzo di aerazione alle spalle, ma ormai non potevo farci
niente. Con molta attenzione, mi misi in ginocchio e,
cercando di non perdere la concentrazione, iniziai a
indietreggiare lentamente, sopra quell'immensa palestra.
Ma era troppo tardi.
Jules si era arrampicato e al momento si trovava a meno
di cinque metri da me. Sali anche lui sulla trave e si
avvicinò a me. Una macchia scura all'interno del suo
polso attirò la mia attenzione. Si sovrapponeva alle vene
formando un angolo di novanta gradi ed era quasi nera. A
chiunque altro poteva sembrare solo una cicatrice. Per
me, invece, aveva un significato molto più preciso. Il
legame di famiglia era evidente. Avevamo lo stesso
sangue e quel segno scuro ne era la prova.
Eravamo entrambi a cavalcioni della trave, faccia a faccia.
Ormai solo pochi metri ci separavano uno dall'altra.
- Vuoi pronunciare le tue ultime parole? - disse Jules.
Guardai giù, nonostante le vertigini. Patch era lontano. sul
pavimento della palestra, immobile. In quell'istante, avrei
voluto tornare indietro nel tempo e rivivere ogni momento
passato insieme. Un altro sorriso segreto, un'altra risata.
Un altro bacio elettrico. Trovarlo era stato come trovare
qualcuno che non sapevo di cercare. Era arrivato troppo
tardi nella mia vita e ora mi stava abbandonando troppo
presto. Mi ricordai di quando aveva detto che avrebbe
rinunciato a tutto per me. L'aveva già fatto. Aveva
rinunciato a un corpo umano perché io vivessi.
Barcollai e, d'istinto, mi abbassai per non perdere
l'equilibrio.
La risata di Jules arrivò come un freddo sussurro. - Per
me è lo stesso. Spararti o lasciarti precipitare, non fa
differenza.
- Invece fa differenza - dissi, la voce sommessa ma
sicura. - Tu e io abbiamo lo stesso sangue -. Alzai
maldestramente la mano e gli mostrai la voglia. - Sono la
tua discendente. Se sacrifico il mio sangue, Patch
diventerà umano e tu morirai. È scritto nel Libro di Enoch.
Gli occhi di Jules erano completamente bui. Erano puntati
su di me e assorbivano ogni mia parola. Dalla sua
espressione, intuivo che le stava soppesando. Poi arrossì
di colpo e allora capii che mi credeva. - Tu... - farfugliò.
Strisciò verso di me a una velocità pazzesca e,
contemporaneamente, cercò di afferrare la pistola.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime bollenti. Non c'era
tempo per i ripensamenti. Mi lasciai cadere.
30
Una porta si aprì e si richiuse. Aspettai di sentire dei passi
avvicinarsi, ma l'unico suono nel silenzio era il ticchettio di
un orologio. Il suono andò affievolendosi. Mi chiesi se si
sarebbe interrotto del tutto. Temevo che succedesse,
perché non sapevo cosa aspettarmi dopo.
Poi un suono diverso, più simile a una vibrazione, eclissò
quello dell'orologio. Era rassicurante, etereo, come una
danza melodiosa. «Ali» pensai. «Vengono a prendermi.»
Trattenni il respiro e aspettai aspettai, aspettai. E poi l'orologio iniziò ad andare all'indietro. Invece di rallentare, il
barrito aumentava. Una spirale liquida si formò dentro di
me e iniziò a scendere, sempre più in profondità. Mi sentii
risucchiata dalla corrente. Scivolavo, in un posto scuro e
caldo.
Sbattei le palpebre e aprii gli occhi sui familiari pannelli di
quercia. La mia camera. Fui inondata da un senso di
contorto e poi mi ricordai dove avevo trascorso i mici
ultimi momenti di lucidità. In palestra con Jules. Fui
scossa da un brivido.
- Patch? - dissi, la voce roca. Cercai di mettermi seduta,
ma mi sfuggi un grido soffocato. Il mio corpo aveva
qualcosa di strano. Ogni singolo muscolo, osso, cellula mi
faceva male. Mi sentivo un gigantesco livido.
Notai un movimento vicino alla porta. Patch era
appoggiato allo stipite. Aveva la bocca chiusa e priva
della sua solita piega ironica. Gli occhi avevano una
profondità mai vista prima, erano penetranti e protettivi.
- Ề stata una bella lotta quella in palestra - disse. Comunque credo che ti farebbe bene prendere qualche
altra lezione di boxe.
Come un'onda, tutti i ricordi mi tornarono in mente e non
riuscii a trattenere le lacrime. - Cos'è successo? Dov'è
Jules? Come sono arrivata qui? -. La mia voce era rotta
dal panico. - Mi sono buttata giù dalla trave.
- C’è voluto molto coraggio -. La voce di Patch diventò
rauca.
Entrò nella stanza e chiuse la porta. Capii che era il suo
modo per cercare di chiudere fuori rutto il male: stava
mettendo un muro tra me e tutto quello che era successo.
Si avvicinò e si sedette sul letto, accanto a me. - Che
cos'altro ricordi?
Cercai di ricomporre i frammenti di memoria andando a
ritroso. Ricordavo il battito d'ali che avevo sentito subito
dopo essermi lanciata nel vuoto. Sapevo di essere morta.
Sapevo che un angelo era venuto a portare via la mia
anima.
- Sono morta, vero? - mormorai, impaurita. - Sono un fantasma?
- Quando hai saltato, il tuo sacrificio ha ucciso Jules.
Tecnicamente, quando sei tornata avrebbe dovuto tornare
anche lui. Siccome, però, non aveva un'anima, non c'era
nulla che potesse far rivivere il suo corpo.
- lo sono tornata? - dissi, sperando di non essermi illusa
inutilmente.
- Non ho accettato il tuo sacrificio. L'ho rifiutato.
Sentii che la mia bocca formava un «Oh» che non arrivò
mai
alle labbra. - Stai dicendo che hai rinunciato ad avere un
corpo umano per me?
Lui mi sollevò la mano fasciata. Sotto la garza, le nocche
pulsavano per il dolore. Patch baciò ogni dito, con calma,
senza staccare gli occhi da me. - A cosa mi serve un
corpo, se non posso avere te?
Lacrime più abbondanti mi scivolarono sul viso. Patch mi
attirò a sé e mi nascose la testa contro il suo petto.
Lentamente, il panico si allontanò e capii che era tutto
finito. Sarebbe andato tutto bene.
Invece, a un tratto, mi tirai indietro. Se Patch aveva
rifiutato il sacrificio...
- Mi hai salvato la vita. Voltati - ordinai con una certa
solennità.
Patch mi rivolse un sorriso complice e obbedì. Gli alzai la
maglietta fino alle spalle: la schiena era liscia, perfetta. Le
cicatrici erano sparite.
- Non puoi vedere le ali - spiegò. - Sono fatte di materia
spirituale.
- Sei un angelo custode, adesso -. Provavo una tale
soggezione da non rendermi pienamente conto della
cosa, però ero stupefatta, curiosa... felice.
- Sono il tuo angelo custode.
- Ho un angelo custode tutto mio? E qual è esattamente il
tuo compito?
- Custodire il tuo corpo -. Il suo sorriso divenne più ampio.
- Prendo il mio lavoro molto sul serio, il che significa
conoscere il soggetto molto da vicino.
Di nuovo le farfalle nello stomaco. - Questo significa che
adesso puoi provare delle sensazioni?
Patch mi guardò in silenzio per un momento. - No, ma
non sono più nella lista nera.
Di sotto, si udì il rumore della porta del garage.
- Mia madre! - esclamai. Guardai l'orologio sul comodino:
erano appena passate le due del mattino. - Devono avere
riaperto il ponte. Come funziona questa cosa dell'angelo
custode? Posso vederti solo io? Cioè, per tutti gli altri sei
invisibile?
Patch mi fissò come se sperasse che non dicessi sul
serio.
- Non sei invisibile? - strillai. - Esci subito di qui! -. Cercai
di spingere via Patch dal letto ma un dolore lancinante
alle costole mi bloccò. - Se ti trova qui mi ammazza. Puoi
arrampicarti sugli alberi? Dimmi che puoi arrampicarti
sugli alberi!
Patch rise. - Posso volare. Oh. Bene. Fantastico.
- Prima sono venuti la polizia e i vigili del fuoco - spiegò
Patch. - La camera da letto di tua madre dovrà essere
ricostruita, ma hanno domato l'incendio. I poliziotti
torneranno per farti alcune domande. Scommetto che
hanno già provato a cercarti al cellulare da cui hai
chiamato il 911.
- L'ha preso Jules.
Annuì. - Me l'immaginavo. Non importa quello che
racconterai alla polizia, ma ti sarei prato se mi lasciassi
fuori da questa storia -. Aprì la finestra. - Un'ultima cosa,
Vee e riuscita a chiamare la polizia in tempo e i
paramedici hanno salvato Elliot. È in ospedale, ma si
riprenderà presto.
Nel frattempo, al pianterreno, sentii chiudersi la porta d'ingresso. Mia madre era entrata.
- Nora? - chiamò. Gettò la borsa e le chiavi sul tavolino
dell'ingresso. I tacchi riecheggiarono sul parquet, il passo
svelto. - Nora! C'è il nastro della polizia sulla porta! Cosa
sta succedendo?
Guardai la finestra. Patch se n'era andato, ma sul vetro
c'era una piuma nera, forse portata li dal temporale della
sera prima. O dalla magia di un angelo.
Mia madre accese la lampada dell'ingresso, C un leggero
raggio di luce arrivò fino alla mia camera passando dalla
fessura sotto la porta. Trattenni il respiro e contai i
secondi. Uno, due...
- Nora! - urlò. - Cos'è successo alla ringhiera?
E non aveva ancora visto la sua camera da letto.
Il cielo era terso, di un blu perfetto. Il sole iniziava a
rischiarare l'orizzonte. Era lunedì, l'alba di un nuovo
giorno, gli orrori del passato a ventiquattr'ore di distanza.
Avevo cinque ore di di sonno all'attivo e, a parte il dolore
diffuso provocato dall'essere stata risucchiata dalla morte
e poi risputata fuori, mi sentivo stranamente riposata. Non
volevo gettare una nuvola nera su quel momento
pensando che di li a poco sarebbe arrivata la polizia a
raccogliere la mia deposizione sui fatti della sera prima.
Non avevo ancora deciso che cosa avrei raccontato.
Andai in bagno ancora in camicia da notte e censurai
mentalmente la domanda su come avessi fatto a
cambiarmi, visto che quando Patch mi aveva
riaccompagnata a casa si supponeva avessi ancora i
vestiti addosso. Così iniziai la giornata come sempre.
Raccolsi i capelli con un clastico. Mi lavai i denti e poi il
viso con l'acqua fredda. Quindi tornai in camera, dove
indossai una maglietta pulita e un paio di jeans.
Chiamai Vee.
- Come stai? - chiesi.
- Bene, e tu?
- Bene. Silenzio.
- Okay, sono ancora completamente sconvolta. Tu? disse Vee tutto d'un fiato.
- Completamente.
- Patch mi ha chiamato nel cuore della notte. Ha detto che
Jules ti aveva picchiata, ma che stavi bene.
- Davvero? Patch ti ha chiamata?
- Ha chiamato dalla jeep. Ha detto che dormivi sul sedile
posteriore e che ci stava riportando a casa. Ha detto che
passava davanti a scuola quando ha sentito urlare, è
entrato e ti ha trovata in palestra, svenuta. Poi ha
guardato in alto e ha visto Jules buttarsi giù dalle travi. Ha
detto che probabilmente è andato fuori di testa: il senso di
colpa per averti terrorizzata l'ha ucciso.
Non mi resi conto che stavo trattenendo il respiro finché
non lo lasciai andare. Ovviamente, Patch aveva
manipolato un po' di dettagli,
- Sai che non me la bevo - prosegui Vee. - Sai anche
quello che penso: Patch ha ucciso Jules.
Al posto di Vee, probabilmente avrei pensato la stessa
cosa.
- Che cosa dice la polizia? - domandai.
- Accendi la televisione. Non fanno altro che parlarne, in
questo momento sono in diretta. Dicono che Jules si è
introdotto a scuola e si è suicidato. L'hanno definita una
tragedia giovanile. Chiedono a chiunque abbia
informazioni di chiamare il numero sullo schermo.
- Cos'hai detto alla polizia quando hai chiamato?
- Avevo paura. Non volevo essere arrestata per effrazione
e violazione di domicilio, quindi ho fatto una telefonata
anonima da una cabina.
- Bene - dissi alla fine - se la polizia pensa che si tratti di
suicidio, probabilmente è andata così. Dopotutto, oggi in
America abbiamo la polizia scientifica.
- Mi stai nascondendo qualcosa - dichiarò Vee. - Cos'è
successo veramente dopo che me sono andata?
Questa fu la parte più difficile. Vee era la mia migliore
amica e il nostro motto era "niente segreti". Però ci sono
cose impossibili da spiegare. Il fatto che Patch fosse stato
un angelo caduto e al momento fosse un angelo custode
era una di quelle. Subito dopo, c'era il fatto che ero saltata
giù da una trave altissima ed ero morta» eppure ero
ancora viva.
- Ricordo che Jules mi ha intrappolata in palestra confessai.
- Mi ha spiegato tutto il dolore e la paura che aveva
intenzione di infliggermi. Dopodiché, ho solo dei vaghi
ricordi.
- È troppo tardi per chiederti scusa? - chiese Vee.
Sembrava più sincera di quanto non lo fosse mai stata. Avevi ragione su Jules e Elliot.
- Scuse accettate,
- Dovremmo andare al centro commerciale - continuò.
- Sento una necessità irrefrenabile di comprare delle
scarpe. Tante scarpe. Quello di cui abbiamo bisogno è !a
buona, cara, vecchia shopping-terapia.
Suonò il campanello e diedi un'occhiata all'orologio.
- Devo parlare con la polizia a proposito di ieri sera.
- Ieri sera? - esclamò Vee in preda al panico. - Sanno che
eri a scuola? Non hai fatto il mio nome, vero?
- Be', veramente si tratta di un'altra cosa, successa prima
-. Qualcosa di nome Dabria. -Ti chiamo dopo -. Riattaccai
al volo, per evitare di dovermi inventare una spiegazione.
Percorsi il corridoio a fatica e arrivai in cima alle scale.
Stavo per scendere, quando vidi chi erano le persone che
mia madre aveva fatto entrare.
I detective Basso e Holstijic.
Li fece accomodare in soggiorno. Il detective Holstijic
crollò sul divano, il suo collega invece rimase in piedi. Era
di spalle quando arrivai, ma il pavimento scricchiolò sotto i
miei piedi e lui si voltò.
- Nora Grey - disse. - Ci incontriamo di nuovo.
Mia madre lo guardò stupita. - Vi conoscete?
- Sua figlia ha una vita molto movimentata. Praticamente
siamo qui ogni settimana.
Mia madre mi rivolse uno sguardo interrogativo e io mi
strinsi nelle spalle, come se non sapessi di che cosa
stesse parlando, come se volessi suggerirle: «Umorismo
da poliziotti?».
- Perché non ti siedi, Nora, e ci racconti cos'è successo? propose il detective Holstijic.
Presi posto in una delle poltrone di fronte al divano. - Ieri
sera, poco prima delle nove, ero in cucina a bere un
bicchiere di latte quando è spuntata la signorina Greene,
la psicologa della scuola.
- Si è introdotta in casa tua? - chiese il detective Basso.
- Mi ha detto che avevo una cosa che voleva. Sono corsa
di sopra e mi sono chiusa a chiave nella camera da letto
di mia madre.
- Fai marcia indietro - disse il detective Basso. - Che
cos'era questa cosa che voleva?
- Non l'ha detto. Però mi ha detto che non era una vera
psicologa e che usava il suo lavoro per spiare gli studenti
-. Guardai prima uno e poi l'altro. - E pazza, vero?
I due detective si scambiarono un'occhiata.
- Controllerò il suo nome, e vedrò cosa riesco a trovare dichiarò il detective Holstijic alzandosi.
- Fammi capire - insistè il collega. - Ti ha accusata di
averle rubato qualcosa di suo, ma non ti ha detto cosa?
Altra domanda difficile. - Era isterica. Ho capito la metà di
quello che ha detto. Sono corsa a chiudermi in camera da
letto, ma lei ha buttato giù la porta. Ero nascosta nel
camino quando ha detto che avrebbe dato fuoco alla cosa
stanza per stanza finché non mi avesse trovata. Poi ha
appiccato il fuoco.
- Come ha fatto ad appiccare il fuoco? - mi chiese mia
madre.
- Non l'ho visto, ero nascosta nella canna fumaria.
- È una cosa senza senso - mormorò il detective Basso
scuotendo la testa. - Non ho mai visto niente del genere.
- Tornerà? - domandò mia madre. Si avvicinò a me
posandomi le mani sulle spalle. - Nora è al sicuro?
- Forse sarebbe prudente installare un sistema d'allarme-.
Il detective Basso aprì il portafogli e porse un biglietto a
mia madre. - Posso garantire su questi ragazzi. Dica loro
che la mando io e le faranno uno sconto.
I detective erano andati via da qualche ora, quando suonò
di nuovo il campanello.
- Dev'essere il tecnico dei sistemi d'allarme - disse mia
madre. - Mi hanno detto che avrebbero mandato qualcuno
già oggi. Non sopporto l'idea di dormire senza protezione
finche non trovano quella Greene e la rinchiudono. La
scuola non si è neanche preoccupata di controllare le sue
referenze? -. Aprì la porta e, nella veranda, c'era Patch.
Indossava un paio di Levi's sbiaditi e una maglia bianca a
maniche lunghe. E teneva una cassetta degli attrezzi in
mano.
- Buon pomeriggio, signora Grey.
- Patch -, Non riuscii a interpretare bene il tono di mia
madre. Sorpresa mista a sconcerto. - Sei qui per Nora?
Lui sorrise. - Sono qui per il nuovo sistema d'allarme.
- Credevo facessi altro - disse mia madre. - Credevo che
lavorassi al Borderline.
- Ho un nuovo lavoro -. Patch mi guardò negli occhi e io
avvertii una sensazione di calore in un sacco di pósti; ero
quasi febbricitante. - Puoi uscire? - mi chiese.
Lo seguii fino alla moto.
- Abbiamo ancora molto di cui parlare - dissi.
- Parlare? -. Scosse il capo, gli occhi pieni di desiderio.
«Baciami» sussurrò alla mia mente.
Non era una domanda, era un avvertimento. Sorrise
quando vide che non avevo intenzione di protestare, e
avvicinò la sua bocca alla mia. Il primo contatto non fu
altro che quello: un contatto. Una tenerezza giocosa,
allettante. Mi passai la lingua sulle labbra e il sorriso di
Patch si allargò.
- Ancora? - chiese.
Gli presi la testa tra le mani, affondai le dita nei suoi
capelli e lo attirai a me. - Ancora.
RINGRAZIAMENTI
Grazie a Caleb Warnock e ai miei compagni del corso
Writing in Depth; non avrei potuto desiderare amici più
sinceri per questo viaggio. Un grazie di cuore a Laura
Andersen, Ginger Churchill e Patty Esden, che non mi
hanno mai abbandonata e sono sempre state sincere
(anche quando non ero io a chiederlo). Un ringraziamento
speciale a Eric James Stone per aver dato il tocco finale.
Devo ringraziare anche Katie Jeppson, Ali Eisenach, Kylie
Wright, Megan e Josh Walsh, Lindsey Leavitt e Riley e
Jace Fitzpatrick, per tutto quello che hanno fatto
babysitting, informazioni sulle procedure chirurgiche,
discussioni critiche - e per la loro immeritata pazienza.
E stato davvero divertente lavorare con Emily Meehan, la
mia esperta editor, e i molti amici della Simon and
Schuster BFYR, che mi hanno incoraggiata e hanno
lavorato dietro le quinte per far sì che tutto questo potesse
avvenire - Justin Chanda. Anne Zafian, Courtney
Bongiolatti, Dorothy Gribbin, Chava Wolin, Lucy Ruth
Cummins, Lucilie Renino, Elicti Villa, Chrissy Nob, Julia
Maguire e Anna McKean. Grazie!
Sono particolarmente grata a Catherine Drayton per
essere entrata nella mia vita proprio nel momento giusto.
Grazie per avermi fatta arrivare fin qui. Non dimenticherò
mai la telefonata con la quale mi hai comunicato che il
mio libro era stato venduto- Grazie a James Porto per una
copertina che è andata ben oltre le mie aspettative. E un
grosso ringraziamento anche alla mia redattrice, Valerie
Shea.
Ma più di tutti, ringrazio mia madre. Di Tutto.