Il Bacio dell`Angelo Caduto
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Il Bacio dell`Angelo Caduto
9 A Heather. Christian e Michael La nostra infanzia è stata a dir poco fantasiosa. E a Justin. Grazie per non aver scelto il corso di cucina giapponese. Ti Amo Dio Infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell'inferno, serbandoli per il giudizio. 2 Pietro 2:4 Prologo Valle della Loira, Francia novembre 1565 Quando scoppiò il temporale, Chauncey si trovava in compagnia della figlia di un fattore sulla sponda erbosa della Loira. Aveva lasciato il suo castrone libero di vagare per il prato, quindi poteva fare affidamento solo sulle proprie gambe per tornare al castello. Staccò la fibbia d'argento da uno stivale, la mise in mano alla ragazza, poi la guardò scappar via, mentre il fango le inzaccherava l'orlo della gonna. Quindi si tirò su gli stivali con forza e si avviò verso casa. La pioggia iniziò a scrosciare sulla buia campagna che circondava il castello di Langeais, ma Chauncey superò agevolmente le tombe interrate e i tumuli del cimitero; persino nella nebbia più fitta non avrebbe esitato a ritrovare la strada di casa. Quella notte, però, sebbene non ci fosse un filo di nebbia, la violenza del temporale era sufficiente a confondere le idee. Con la coda dell'occhio Chauncey vide qualcosa che si muoveva alla sua sinistra e alzò di scatto la testa. Quello che a prima vista era sembrato un grande angelo in cima a un monumento poco distante si levò in tutta la sua altezza. Non era di pietra, né di marmo. Il ragazzo aveva braccia e gambe, petto e piedi nudi. Pesanti calzoni da contadino erano mollemente legati sui fianchi. Saltò giù dal monumento, le punte dei capelli grondanti pioggia, e alcune ciocche gli scivolarono sul viso, scuro come quello di uno spagnolo. La mano di Chauncey si mosse lentamente verso l'elsa della spada. - Chi va là? Il ragazzo accennò un sorriso. Non prenderti gioco del duca di Langeais - lo ammoni Chaunccy. - Ho chiesto il tuo nome. Dimmelo. Duca? -. Il ragazzo si appoggiò a un salice ritorto. Oppure bastardo? Chauncey sfoderò la spada. - Rimangiati quella parola! Mio padre era il duca di Langeais. E adesso il duca sono io - strillò, maledicendosi perché quella protesta era suonata goffa e infantile. Il ragazzo scosse pigramente la testa. - Tuo padre non era il vecchio duca. Quell'insinuazione fece ribollire il sangue a Chauncey, che sollevò la spada e domandò: - E il tuo, di padre? Non cono-sceva ancora tutti i suoi vassalli, ma stava imparando. Il cognome del ragazzo gli sarebbe rimasto impresso nella memoria. - Te lo chiederò un'altra volta aggiunse, asciugandosi con la mano il viso bagnato di pioggia. - Chi sei? Il ragazzo mosse un passo verso di lui e contemporaneamente allontanò da sé la punta della lama. All'improvviso sembrò più vecchio di quanto Chauncey avesse pensato, forse di un paio d'anni. - Sono della schiatta del diavolo - rispose. Chauncey avverti una stretta di paura allo stomaco. Tu sei pazzo - replicò a denti stretti. - Sparisci dalla mia vista. E all'improvviso il terreno sotto i suoi piedi tremò. Fuochi oro e rossi gli esplosero dietro le palpebre. Si ritrovò piegato in due, le unghie conficcate nelle cosce. Ansimante, alzò lo sguardo sul ragazzo, tentando di trovare un senso in quello che gli stava capitando. La sua mente vacillava, come se ne avesse perso il controllo. Il ragazzo si abbassò per poterlo guardare negli occhi. Ascoltami attentamente. Ho bisogno di una cosa c non me ne andrò finché non l'avrò ottenuta. Hai capito? Digrignando i denti, Chauncey scosse la testa per dichiarare la sua incredulità, il suo rifiuto. Gli avrebbe volentieri sputato in faccia, ma la lingua disobbedì al comando. Il ragazzo lo afferrò per le mani e Chauncey urlò a causa del forte calore che emanavano. - Devi giurarmi fedeltà - disse il ragazzo. - Inginocchiati. Chauncey ordinò alla sua gola di emettete una risata, ottenendo solo uno scoppio di tosse. Il suo ginocchio destro si piegò, come se fosse stato colpito da dietro, sebbene non ci tosse nessuno alle sue spalle, e all'improvviso si ritrovò nel fango. Rotolò su un fianco, scosso dai conati. - Giura - ripete il ragazzo. Quel calore insopportabile salì dalle mani al collo di Chauncey il quale dovette impiegare tutte le sue forze solo per riuscire a stringere i pugni. Rise di se stesso, ma non c'era allegria nella sua risata. Non aveva idea di come ci riuscisse, ma era sicuro che fosse quel ragazzo a farlo sentire debole, nauseato, malato. E non poteva ribellarsi. Così decise di dire quel che doveva, ma in cuor suo giurò che avrebbe ucciso il ragazzo per quell'umiliazione. - Signore, vi giuro fedeltà - sibilò Chauncey. Il ragazzo lo tirò su. - Fatti trovare qui all'inizio del mese ebraico di Cheshvan. Nei giorni compresi tra la luna nuova e la luna piena avrò bisogno dei tuoi servigi. - Due settimane? -. La voce di Chauncey tremava per la rabbia. - Io sono il duca di Langeais! - Tu sei un Nephilim - disse il ragazzo stiracchiando un sorriso. Chauncey aveva un'imprecazione sulla punta della lingua, ma decise d'ingoiarla. - Cos'hai detto? - chiese invece con un tono gelido, corico di veleno. - Tu appartieni alla razza biblica dei Nephilim. Il tuo vero padre era un angelo caduto. Tu sei mortale solo per metà Gli occhi scuri del ragazzo sostennero lo sguardo di Chauncey. - E per metà sei un angelo caduto. Da un angolo recondito della memoria di Chauncey riaffiorò la voce dell'istitutore che gli leggeva la Bibbia e gli spiegava della razza deviante nata dall'unione tra gli angeli caduti e le donne mortali. Una razza spaventosa e potente. Chauncey fu scosso da un brivido, che non era solo disgusto. - Chi sei tu? Per tutta risposta, il ragazzo si voltò e andò via. Chauncey avrebbe voluto seguirlo, ma non riuscì a ordinare alle gambe di muoversi. Però, anche se inginocchiato a terra c con gli occhi pieni di pioggia, riuscì a notare due grosse cicatrici sulla schiena del ragazzo. Formavano una V rovesciata. - Tu sei... caduto? - gridò. - Ti sono state strappare le ali, vero? Il ragazzo, angelo o chiunque fosse, non si voltò, ma Chauncey non aveva bisogno di conferme. - Questo servigio che devo renderti - urlò. - Esigo sapere di che cosa si tratta! Nell'aria umida del cimitero risuonò una risata. Coldwater, Maine Oggi Entrai nell'aula di biologia e rimasi a bocca aperta. Attaccati non si sa come alla lavagna, c'erano una Barbie e un Ken. Le braccia erano state sistemate in modo che le mani si toccassero, ed erano nudi, a parte delle toglie finte piazzate nei punti strategici. Sopra le loro teste, scritti) con un gessetto rosa, si leggeva: BENVENUTI A RIPRODUZIONE UMANA (SESSO). Accanto a me, Vee Sky bisbigliò: - Ecco perche la scuola vieta l'utilizzo dei cellulari con la fotocamera. Una foto così nell'e-zine basterebbe a convincere il Ministero dell'Istruzione a tagliare biologia. Il che renderebbe quest'ora disponibile per qualcosa di davvero produttivo, tipo prendere lezioni privare da ragazzi carini e aristocratici. - Sei strana, Vee. Avrei scommesso che aspettassi questo corso da tutto il semestre. Lei abbassò le ciglia e sorrise maliziosa. - Questo corso non può insegnarmi niente che non sappia già. - Ma come? Vee non sta per Vergine? - Abbassa la voce - disse. Mi fece l'occhiolino un secondo prima che la campanella suonasse spedendoci ai nostri posti, una accanto all'altra. Il coach McConaughy afferrò il fischietto che gli penzolava dal collo e ci soffiò dentro. - Squadra, ai posti! -. Il coach considerava l'insegnamento della biologia in seconda superiore un'attività marginale rispetto al suo lavoro di allenatore di basket all'università, e lo sapevamo rutti. - Voi ragazzi potreste non aver notato che il sesso è più di un giretto di un quarto d'ora sul sedile posteriore dell'auto- In effetti, e scienza. E che cos'è la scienza? - Noiosa - gridò qualcuno dalle ultime file. - L'unica materia in cui faccio schifo - disse qualcun altro. Gli occhi del coach passarono in rassegna la prima fila e si fermarono su di me. - Nora? - Lo studio di qualcosa - risposi. Si avvicinò e piantò l'indice sul mio banco. - Che altro? La conoscenza acquisita attraverso la sperimentazione e l'osservazione Perfetto. Sembrava stessi facendo un provino per l'audiolibro del nostro testo scolastico. Dillo con parole tue. Mi toccai il labbro superiore con la punta della lingua e cercai un'alternativa. - La scienza e indagine. - La scienza è indagine - ripeté il coach, sfregandosi le mani.- La scienza ci obbliga a trasformarci in spie. Detta così, sembrava quasi divertente, ma io avevo trascorso abbastanza tempo nella classe del coach per illudermi. Una buona indagine richiede molta pratica - continuò. Anche il sesso - commentò qualcuno dal fondo. Ci furono delle risatine, ma isolate perché l'allenatore aveva già puntato un indice ammonitore contro il colpevole. Quello non farà parte dei compiti a casa di oggi - disse il coach prima di rivolgere di nuovo la sua attenzione su di me. - Nora, sei seduta accanto a Vee dall'inizio dell'anno. Annuii, ma avevo una brutta sensazione riguardo a dove sarebbe andato a parare quel discorso. - Lavorate entrambe all'e-zine della scuola -. Annuii ancora. - Scommetto che sapete parecchie cose l'una dell'altra. Vee mi diede un calcetto sotto il banco. Sapevo quello che stava pensando: il nostro insegnante non aveva la più pallida idea di quanto sapessimo una dell'altra. E non si parla dei segreti seppelliti nelle pagine dei rispettivi diari. Vee è la mia gemella eversa. Lei è una biondina con gli occhi verdi e molte curve. Io ho gli occhi grigio scuro con una massa di capelli bruni e ricci che resistono a ogni tentativo di stiramento. E sono tutta gambe, come uno sgabello da bar. Eppure c'é un filo invisibile che ci unisce, ed entrambe siamo pronte a giurare che questo legame esisteva molto tempo prima della nostra nascita evi esigerà per tutta la nostra vita. Il coach si rivolse alla classe. - In realtà, scommetto che ciascuno di voi conosce abbastanza bene la persona seduta accanto. E c'è una ragione che vi ha spinto a scegliere quei posti, no? La consuetudine. Purtroppo i migliori detective rifuggono la consuetudine. Impigrisce l'istinto investigativo. Ecco perché, oggi, camberemo i posti a sedere. Aprii la bocca per protestare, ma Vee mi batté sul tempo. - Che senso ha? Siamo ad aprile, manca poco alla fine dell'anno. Non può farci una cosa simile proprio adesso. Il coach accennò un sorriso. - lo posso fare una cosa simile anche l'ultimo giorno del semestre. E se non superi il mio corso, l'anno prossimo ti ritroverai di nuovo qui, dove cose simili accadranno ancora, e ancora, e ancora. Vee gli lanciò un'occhiataccia. È famosa per quella sua occhiata, talmente tagliente che quasi si può sentirla sibilare. Apparentemente immune dallo sguardo assassino della mia amica, il coach ci spiegò cosa aveva in mente. - Tutti quelli seduti sul lato sinistro del banco, la vostra sinistra, avanzino di un posto. Quelli della prima fila, si, anche tu Vee. si spostino all'ultima. Rivolsi alla mia amica un cenno di saluto, mentre tei sbatteva il quaderno nello zaino e chiudeva di scatto la zip. Poi mi voltai lentamente, ispezionando la stanza. Conoscevo il nome di tutti i miei compagni, tranne uno. Quello che si era trasferito. Il coach non lo chiamava mai e lui sembrava apprezzare. Sedeva pigramente nel banco dietro il mio, gli occhi scuri puntati come al solito davanti a sé. Per un attimo faticai a credere che fosse sempre stato seduto li, giorno dopo giorno, a fissare il vuoto. Di sicuro stava pensando a qualcosa, ma l'istinto mi diceva che non avrei voluto sapere che cosa. Posò il suo libro di biologia sul banco e scivolò su quella che era stata la sedia di Vee. Sorrisi. - Ciao, io sono Nora. Il suo sguardo mi passò da parte a parte e gli angoli delle labbra si sollevarono. Il mio cuore perse un battito. E in quella pausa, una sensazione di tristezza, come un'ombra fredda, mi scivolò addosso. L'istante dopo la sensazione era sparita, mentre io lo stavo ancora osservando e il suo sorriso non era diventato più amichevole. Era un sorriso che prometteva guai. Mi concentrai sulla lavagna. Barbie e Ken ricambiarono il mio sguardo, stranamente allegri. Il coach disse: - La riproduzione umana può essere un argomento spinoso... - Ahia - fece un coro di studenti. - Richiede maturità. E come per tutte le scienze, il metodo migliore e quello investigativo. Durante il resto dell'ora esercitate questa tecnica cercando di scoprire quanto più possibile sul vostro nuovo compagno. Domani porterete una relazione con le vostre scoperte e, credetemi, controllerò che corrispondano alla verità. Questa è biologìa, non letteratura, quindi non romanzate le risposte. Voglio vedere una vera collaborazione e un vero lavoro di squadra -. E nella frase c'era l'implicito avvertimento a non azzardarsi a fare altrimenti. Restai seduta immobile. La palli era nella meta campo del mio nuovo compagno. Avergli sorriso non si era rivelata una buona mos-sa. Arricciai il naso, cercando di capire che cosa mi ricordasse il suo odore. Non sigarette. Qualcosa di più intenso, nauseante. Sigari. Notai l'orologio sul muro e iniziai a tamburellare con la matita al ritmo dei secondi. Sospirai, il gomito piantato sul banco, il mento poggiato al pugno. Grandioso. A quella velocità non avrei fatto in tempo a scoprire un bel niente. Tenevo gli occhi fìssi davanti a me, però potevo sentire il fruscio della sua penna. Stiva scrivendo, e io volevo sapere cosa. Dicci minuti di convivenza sullo stesso banco non lo autorizzavano a ipotizzare niente sul mio conto. Con la coda dell'occhio, vidi parecchie frasi sul suo foglio, e la lista si allungava. - Che cosa stai scrivendo? - chiesi. - Parla la mia lingua - disse mentre scriveva quella frase, ogni movimento della mano fluido e pigro allo stesso tempo. Mi avvicinai il più possibile, tentando di leggere dell'altro, ma lui piegò il foglio a metà coprendo la lista. - Che cosa hai scritto? - ripetei. Lui allungò la mano per prendere il mio foglio bianco e lo fece scivolare verso di sé, quindi lo appallottolò e, prima che riuscissi a protestare, lo lanciò nel cestino dei rifiuti dietro la cattedra. Canestro. Rimasi un attimo a fissare il cestino, metà allibita e metà arrabbiata. Poi aprii di scatto il taccuino alla prima pagina bianca e, matita alla mano, chiesi: - Come ti chiami? Alzai gli occhi in tempo per cogliere un altro sguardo gelido. Sembrava volermi avvertire che non avrebbe tollerato altre domande sul suo conto. - Come ti chiami? - ripetei, sperando che quel tono esitante nella mia voce fosse solo immaginazione. - Chiamami Patch. Dico sul serio. Chiamami. Lo disse ammiccando, cosi mi convinsi che volesse prendermi in giro. Che cosa fai nel tempo libero? - chiesi. Non ho tempo libero. - Senti, suppongo che prenderemo un voto per questo compito, quindi mi fai il favore? Si appoggiò alla spalliera della sedia, le mani incrociate dietro la testa. - Che tipo di favore? Ero sicura che fosse un'allusione, quindi cercai disperatamente qualcosa a cui appigliarmi per cambiare argomento. - Tempo libero... - ripete invece lui, pensieroso. - Faccio fotografie. Scrissi sul foglio Fotografia. - Non ho finito - disse. - Ne ho una bella collezione di una cronista dell'e-zine che crede sia giusto mangiare biologico, scrive poesie in gran segreto e rabbrividisce al pensiero di dover scegliere tra Stanford, Yale e... qual è quell'altra grossa università che inizia per H? Lo fissai per un momento, scioccata da quanto maledettamente ci avesse preso. E non mi sembrava che avesse tirato a indovinare. Lo sapeva. E lo volevo sapere come facesse a saperlo. E volevo saperlo ora. Alla fine non andrai a nessuna delle tre. Ah, no? - chiesi senza riflettere. Agganciò la parte inferiore della mia sedia con le dita e mi trascinò più vicino a lui. Indecisa se spostarmi di scatto e mostrarmi spaventata, oppure ignorarlo e fingermi annoiata, scesi la seconda opzione. Anche se otterresti degli ottimi risultati in tutte e tre le università, le snobbi perché le consideri lo stereotipo del successo. Sputare sentenze è il tuo terzo difetto. E il secondo? - dissi in preda a una rabbia gelida. Chi era questo tizio? A che razza di gioco malato stava giocando? Non ti fidi di nessuno. No, aspetta, mi spiego meglio. Ti fidi, ma solo delle persone sbagliare. - E il primo? - Tieni la vita al guinzaglio. - E questo che vorrebbe dire? - Hai paura di quello che non puoi controllare. Mi si rizzarono i capelli sulla nuca e la temperatura della stanza sembrò precipitare. In circostanze normali, mi sarei alzata, sarei andata dal coach e avrei preteso di cambiare posto. In quella circostanza, però, non sopportavo che Patch pensasse di avermi intimidito o spaventato. Provai un bisogno irrazionale di difendermi e decisi, in quel preciso momento, di non dargliela vinta. - Dormi nuda? - chiese. La bocca minacciò di spalancarsi, ma riuscii a rallentare la caduta della mascella. - Sei l'ultima persona alla quale lo direi. - Mai stata da uno strizzacervelli? - No - mentii. Per la verità ero in terapia dallo psicologo Della scuola, il dottor Hendrickson. Non era una mia scelta e non mi piaceva parlarne. - Mai fatto niente di illegale? - No -. Superare occasionalmente i limiti di velocità non contava. Non con lui. - Perché non mi fai delle domande normali? Tipo... il mio genere di musica preferito? - Non chiedo quello che posso indovinare. - Tu non conosci la mia musica preferita. - Barocca. In te è tutto questione di ordine, controllo. Scommetto che suoni... il violoncello? -. Lo disse come se l'idea gli fosse venuta in mente dal nulla. - Sbagliato -. Altra bugia. Stavolta però fui attraversata da un brivido. Chi era quel ragazzo? Che altro sapeva? - Quello cos'è? - chiese Patch dandomi un colpetto con la penna all'interno del polso. Istintivamente, mi scostai. - Una voglia. - Sembra una cicatrice. Hai tentato il suicidio, Nora? 1 nostri sguardi si incrociarono e io capii che si stava divertendo. - Genitori sposati o divorziati? - Vivo con mia madre. - Dov'è tuo padre? - È morto l'anno scorso. - Come? Sussultai, non riuscii a impedirlo. - Ucciso. Queste però sono faccende private, se non ti dispiace. Ci fu un momento di silenzio e lo sguardo di Patch sembrò ammorbidirsi. - Dev'essere dura -. Sembrava sincero. La campanella suonò e Patch si alzò, diretto alla porta. - Ehi! - gridai, ma lui non si voltò. - Scusa! Era già oltre la soglia. - Patch! Non ho scritto niente su di te. Si voltò, tornò indietro, mi prese la mano e ci scrisse sopra qualcosa prima che avessi il tempo di pensare. Poi guardai i serre numeri rossi che avevo sul palmo della mano. Volevo dirgli che non c'era possibilità che il suo telefono squillasse quella sera. Volevo dirgli che era colpa sua, che aveva usato tutto il tempo per le sue domande. Volevo dirgli un sacco i: cose, invece riuscii a dire solo: - Stasera ho da tare. - Anch'io -. Sorrise e sparì. Rimasi immobile a elaborare i fatti. Aveva usato di proposito tutto il tempo a disposizione? Cosi non avrei avuto tempo di domandargli niente? Credeva davvero che un bel sorriso avrebbe sistemato le cose? Si, lo credeva eccome. - Guarda che non ti chiamo! - gli gridai dietro. - Sul serio! - Hai finito l'articolo da consegnare domani? Era Vee. Si fermó dietro di me e scrisse degli appunti sul taccuino che si portava sempre dietro. - Credo che il mio riguaderà l'ingiustizia della disposizione dei posti. Sono capitata accanto a una ragazza che mi ha raccontato di avere appena finito il trattamento contro i pidocchi. - Il mio nuovo compagno - dissi, indicando il corridoio in direzione di Patch. Notai il suo modo di camminare: irritante, sicuro di sé. Il tipo di andatura che assoceresti a una maglietta scolorita e un cappello da cow-boy. Patch non indossava né l'una ne l'altro. Era il tipo da Levi's neri, maglietta nera e stivali neri. - Il ripetente che e arrivato quest'anno? Credo che non abbia studiato molto al primo giro. E nemmeno al secondo -. Vee mi rivolse uno sguardo complice. - Ma il terzo giro ha un certo fascino. - Mi mette i brividi. Sa che musica ascolto. Senza il minimo indizio, ha detto «barocca» Cercai di imitare la sua voce bassa. Inutilmente. - Magari ha tirato a indovinare e ha avuto fortuna. - Sapeva... altre cose. - Tipo? - Più di quanto avrei voluto. - Per esempio come farmi innervosire - sospirai. - Vado a dire al coach che rivoglio i vecchi posti. - Accomodati. Potrebbe essere un'idea per il mio prossimo articolo: Studentessa del secondo anno si ribella. Oppure, meglio ancora: Scacco matto alla nuova disposizione. Mmm, mi piace. A fine giornata, quella ad avere ricevuto scacco matto ero io. Il coach aveva respinto il mio appello, quindi, a quanto pareva, dovevo sorbirmi Patch. Per il momento. 2 Mia madre e io viviamo alla periferia di Coldwater, in una fattoria del diciottesimo secolo piena di spifferi. È l'unica casa sulla Hawthorne Lane e l'abitazione più vicina si trova a circa un chilometro di distanza. A volte mi chiedo se chi ha costruito casa nostra si sia reso conto che, fra tutti gli appezzamenti di terra disponibili, era andato a scegliersi quello piazzato al centro di una misteriosa condizione atmosferica che sembra risucchiare tutta la nebbia della costa del Maine per risputarla nel nostro giardino. In quel momento, infatti, la casa era coperta da un velo spettrale che ricordava un raduno di spiriti erranti. Trascorsi la sera appollaiata su uno degli sgabelli della cucina, in compagnia dei compiti di algebra e di Dorothea, la nostra donna di servizio. Mia madre lavora per la Casa d'aste Hugo Renaldi; coordina le aste immobiliari e antiquarie della costa orientale c quella settimana si trovava nella parte settentrionale dello stato di New York. Il suo lavoro la portava a viaggiare molto e lei pagava Dorothea perché cucinasse e pulisse, lo però ero sicura che tra le sue mansioni ce ne fosse anche una scritta In piccolo: tenermi d'occhio. - Com'è andata a scuola? - chiese Dorothea con un leggero accento tedesco. China sul lavello, strofinava una pirofila per staccare i resti delle lasagne. - Ho un nuovo compagno di banco a biologia. - E una cosa bella o brutta? - Prima ero seduta con Vee. - Bah! -. Dorothea si accani sulla pirofila e la parte superiore del braccio prese a ballonzolarle. - Allora è una cosa brutta. Annuii sospirando. - Dimmi di questo nuovo compagno, che tipo è? - È alto, bruno e irritante -. E impenetrabile in un modo che mette i brividi. Gli occhi di Patch erano due sfere nere: assorbivano tutto e non rivelavano nulla. Non che io volessi saperne di più. Quello che avevo visto in superficie non mi era piaciuto, quindi dubitavo potesse piacermi ciò che si celava in profondità. Peccato non fosse del tutto vero. In effetti, parecchio di quello che avevo visto mi era piaciuto. I muscoli lunghi e asciutti delle braccia, le spalle larghe e aperte e il sorriso, allegro e seducente allo stesso tempo. Ero in conflitto con me stessa, perché cercavo di ignorare qualcosa che in realtà trovavo irresistibile. Alle nove, Dorothea terminò il suo turno. Usci e chiuse a chiave. Come al solito, accesi e spensi le luci della veranda due volte: il saluto le arrivò anche attraverso quel mare di nebbia, perché mi rispose con un colpo di clacson. Ero sola. Passai in rassegna i sentimenti che mi agitavano. Non avevo fame. Non ero stanca. In realtà non mi sentivo neanche tanto sola. Ero solo un po' agitata per via del compito di scienze. Avevo detto a Patch che non l'avrei chiamato e fino a sei ore prima lo pensavo davvero. Adesso però riflettevo sul fatto che non volevo prendere un brutto voto. Biologia era la materia che mi dava più problemi. I miei voti oscillavano pericolosamente il che, secondo me, faceva la differenza tra una futura borsa di studio a copertura totale e una a copertura parziale. Andai in cucina a prendere il telefono e mi guardai la mano per vedere cos'era rimasto dei sette numeri. In fondo, speravo che Patch non rispondesse. Se non l'avessi trovato o non avesse voluto collaborare, avrei potuto tornare alla carica con il coach per la disposizione dei posti. Fiduciosa, composi il numero. Patch rispose al terzo squillo. - Che c'è? In tono asciutto, dissi: - Volevo sapere se possiamo vederci stasera. So che hai detto di essere occupato, ma... - Nora -. Patch pronunciò il mio nome come se lo trovasse divertente. Una specie di barzelletta. - Credevo non avresti chiamato. Davvero. Odiavo rimangiarmi la parola e odiavo il fatto che lo sottolineasse. Odiavo il coach e i suoi compiti assurdi. Aprii la bocca, sperando che ne uscisse qualcosa di intelligente. - Allora? Possiamo vederci o no? - A quanto pare non posso. - Non puoi o non vuoi? - Sono nel bel mezzo di una partita a biliardo Il tono della voce tradì un sorriso. - Una partita molto importante. Dal rumore di fondo, capii che stava dicendo la verità, per lo meno riguardo alla partita. Se poi fosse più importante del compito... be', quello era da dimostrare. - Dove sei? - Bo's Arcade. Non é il tuo genere di locale. - Allora facciamo un'intervista telefonica. Ho qui un elenco di domande che... Riattaccò. Restai a fissare il telefono incredula, strappai un foglio bianco dal taccuino e scrissi Stronzo. Nella riga sotto aggiunsi: Fuma il sigaro. Morirà di cancro ai polmoni. Si spera presto. Forma fisica eccellente. Cancellai l'ultima osservazione fino a renderla illeggibile. L'orologio del microonde segnava le 21.05. A quel punto capii di avere due possibilità. Potevo inventarmi di sana pianta l'intervista con Patch oppure prendere la macchina e andare alla sala giochi. La prima opzione avrebbe potuto essere allettante, se solo fossi riuscita a mettere a tacere la voce del coach che continuava a ripetere che avrebbe controllato la veridicità di tutte le risposte. E comunque quel poco che sapevo di Patch non bastava per un'intervista, nemmeno fasulla. E la seconda opzione? Neanche a parlarne. Non riuscendo a decidere, alla fine chiamai mia madre. Parte de! nostro accordo riguardo al suo lavoro e al fatto che viaggi tanto prevede che io mi comporti in maniera responsabile e non sia il tipo di figlia che ha bisogno di essere controllata a vista. Io amavo la mia libertà e non volevo fare nulla che la costringesse a trovarsi un lavoro pagato peggio, ma più vicino a casa, solo per potermi controllare. Al quarto squillo, attaccò la segreteria. - Sono io - dissi. - Volevo solo sapere come stai. Ho ancora dei compiti di biologia da fare e poi vado a dormire. Chiamami domani all'ora di pranzo, se vuoi. Ti voglio bene. Dopo aver riattaccato, trovai un quarto di dollaro nel cassetto della cucina. Meglio lasciare le decisioni complicate al fato. - Testa, vado - dissi al profilo di George Washington. - Croce, resto -. Lanciai in aria la moneta, l'afferrai e la misi sul dorso della mano. Poi presi coraggio e diedi una sbirciatina. I battiti del mio cuore accelerarono, ma feci finta di non capire perché. - La responsabilità non è più mia - dichiarai. Decisa a chiudere la questione il prima possibile, presi al volo una cartina attaccata al frigo, affettai le chiavi, saltai sulla mia Fiat Spider e uscii in retromarcia dal garage. Nel 1979 sarà anche stata una bella macchina, ma il marrone della carrozzeria non mi faceva impazzire e neanche la ruggine che si faceva strada sul parafango posteriore o i sedili di pelle bianca screpolati. La Bo's Arcade si rivelò più lontano del previsto: il locale si trovava a mezz'ora di viaggio, rintanato dalle parti della costa. Con la cartina ancora aperta sul volante, accostai e mi fermai nel parcheggio di un grosso edificio di mattoni con l'insegna al neon: Bo's Arcade - sala giochi, paintball e biliardo. I muri erano rivestiti di graffiti e la strada davanti all'entrata coperta di mozziconi. Proprio il tipo di locale frequentato da studenti delle più prestigiose università e cittadini modello. Cercai di mantenere un'aria sicura e disinvolta, ma ero un po' nervosa. Controllai di aver chiuso tutte le portiere dell'auto e mi decisi a entrare. Mi misi in fila per superare le sbarre. Non appena il gruppo davanti a me ebbe pagato, mi infilai dentro, verso il labirinto di luci lampeggianti e suoni assordanti. - Credi di poter entrare gratis? - gridò una voce arrochita dal fumo. Mi voltai e lanciai uno sguardo ammiccante al cassiere, tatuato dalla testa ai piedi. - Non sono qui per giocare, cerco una persona. - Vuoi passare? Paga - grugnì lui appoggiando la mano aperta al banco. Attaccata con il nastro adesivo c'era la tabella con le tariffe; avrei dovuto pagare quindici dollari. In contanti. Ovviamente non li avevo ma, anche se li avessi avuti, non li avrei sprecati per pochi minuti passati a intervistare Patch. Fui presa da un attacco di rabbia per la storia dei posti in classe e, soprattutto, per il fatto di aver dovuto arrivare fin li. Dovevo solo trovare Patch, poi saremmo usciti a compilare il questionario. Non avevo macinato tutta quella strada per niente. - Se non torno tra due minuti, pago i quindici dollari dissi. Senza riflettere o fare appello a quel briciolo di pazienza che mi era rimasta, feci una cosa assolutamente incredibile per me: mi abbassai e passai sotto le sbarre. Non contenta, iniziai a correre per tutta la sala giochi cercando Patch. Non potevo credere a quello che stavo facendo, eppure, come in preda a un effetto valanga, continuavo ad acquistare velocità. Volevo assolutamente trovare Patch e uscire. Il cassiere mi segui urlando: - Ehi! Ehi, tu! Patch non era al pianterreno, così mi precipitai di sotto, seguendo i cartelli che indicavano la sala da biliardo. In fondo alle scale vidi diversi tavoli da poker, tutti occupati e illuminati da fioche lampade. Il soffitto era basso e coperto da uno strato di fumo, denso come la nebbia che avvolgeva casa mia. Nascosti tra i tavoli da poker e il bar, vidi una fila di tavoli da biliardo. Patch era allungato su quello più lontano da me e tentava un difficile tiro di sponda. - Patch! - gridai. Lo chiamai proprio nell'istante in cui stava tirando. La stecca colpì il panno. Patch sollevò la testa e mi lanciò uno sguardo a metà tra lo stupito e l'incuriosito. Nel frattempo il cassiere mi aveva raggiunta e mi afferrò per una spalla. - Di sopra. Subito. Le labbra di Patch si piegarono in un mezzo sorriso, difficile dire se beffardo o amichevole. - Lei è con me. Sembrò funzionare, perché il cassiere allentò la presa. Prima che cambiasse idea, mi tolsi la sua mano di dosso e mi Insinuai tra i tavoli. All'inizio decisa, ma poi, mano a mano che mi avvicinavo a lui, la mia sicurezza iniziò a vacillare. Mi ero accorta che in lui c'era qualcosa di diverso. Non avrei saputo dire cosa, ma lo avvertivo come una scossa elettrica. Era più ostile? Era più sicuro di sé. Più libero di essere se stesso. E quegli occhi neri mi stavano addosso, come due calamite attirate da ogni mio movimento. Deglutii, cercando di ignorare lo strano tip tap che ballava il mio stomaco. Non avrei saputo spiegare che cosa non andasse in lui, ma qualcosa c'era. Qualcosa di sbagliato. Qualcosa di poco... sicuro. - Mi dispiace per prima - disse avvicinandosi. - Il telefono non prende bene qui sotto. Sì, come no. Con un cenno del capo, ordinò agli altri di andarsene. Segui un attimo di pesante silenzio, poi i suoi compagni si mossero. Uno di loro, passando, mi urtò la spalla; feci un passo indietro per non perdere l'equilibrio e alzai gli occhi in tempo per intercettare gli sguardi glaciali degli altri due giocatori che si allontanavano. Grandioso. Non era colpa mia se dovevo fare il compito con Patch. - Palla 8? - gli chiesi, sollevando le sopracciglia e cercando di sembrare a mio agio. Forse aveva ragione lui: non era il mio genere di posto. Questo però non voleva dire che me la sarei data a gambe. - Quant'è la posta? Sorrise. E quella volta ero assolutamente sicura che mi prendesse in giro. - Non giochiamo per soldi. Posai la borsa sul bordo del tavolo. - Peccato. Avrei scommesso rutto quello che ho contro di te -. Tirai fuori il mio compito con le prime due righe già compilate. Solo qualche domanda veloce e me ne vado. - Stronzo? - lesse Patch a voce alta, appoggiato alla stecca. - Cancro ai polmoni? Cosa dovrebbe essere, una profezia? Sventolai il compito. - Sto solo ipotizzando che tu dia il tuo contributo all'atmosfera. Quanti sigari fumi in una sera? Uno? Due? - Io non fumo -. Sembrava sincero, ma non gli crederti. - Mmm - dissi posando il foglio tra la palla 8 e quella viola. Senza volerlo, mentre scrivevo Sigari, senza dubbio nella terza riga, urtai la viola. Stai mandando all'aria la partita - disse Patch senza smettere di sorridere. I suoi occhi catturarono i miei e non potei fare a meno di ricambiare il sorriso, ma solo per un attimo. - Spero che fossi in vantaggio, allora. Il tuo sogno più grande? -. Ero orgogliosa di quella domanda, perche sapevo che l'avrebbe messo in difficoltà. Non m poteva rispondere soprappensiero. - Baciarti. - Non è divertente - dissi, sostenendo il suo sguardo e ringraziando me stessa per non aver balbettato. - No, ma ti ha fatto arrossire. Impassibile, almeno in apparenza, mi sedetti sulla sponda del tavolo, accavallai le gambe e usai il ginocchio come appoggio. - Lavori? - Faccio l'aiuto cameriere al Borderline, il miglior messicano della città. - Religione? Non sembrò sorpreso dalla domanda, ma neanche felicissimo di sentirsela fare. - Credevo avessi detto solo qualche domanda veloce. Sono già quattro. - Religione? - ripetei. Patch si accarezzò pensieroso la mascella. - Più che religione... setta. - Appartieni a una setta? -. Mi resi conto troppo tardi di aver usato un tono sorpreso, e non avrei dovuto. - A quanto pare, ho bisogno di un sacrificio femminile. Avevo programmato di attirare la ragazza in questione dopo aver conquistato la sua fiducia, quindi se ora sei pronta... Dalla mia faccia sparì ogni traccia di sorriso. - Guarda che non mi impressioni. - Non ho nemmeno iniziato a provarci. Scesi dal tavolo e lo affrontai. Era parecchio più alto di me. - Vee mi ha detto che sei più grande di noi. Quante volte hai ripetuto il secondo anno di biologia? Una? Due? - Vee non è il mio portavoce. - Stai negando di essere stato bocciato? - Sto dicendo di non essere andato a scuola l'anno scorso -rispose in tono provocatorio, ma il risultato fu quello di farmi intestardire. - Hai saltato la scuola? Patch appoggiò la stecca sul tavolo e con l'indice fece segno di avvicinarmi. Non mi mossi. - Vuoi sapere un segreto? - sussurrò. - Non ero mai andato a scuola prima. Un altro segreto? Non è noiosa come credevo. Bugiardo. Per legge, tutti dovevano andare a scuola. Mentiva per farmi innervosire. - Credi che stia mentendo - disse con un gran sorriso. - Non sei mai andato a scuola? Mai? Se è vero e hai ragione, ma non lo credo, allora cos'è che ti ha fatto cambiare idea quest'anno? -Tu. Per un attimo cedetti all'istinto che mi suggeriva di avere paura, poi dissi a me stessa che era esattamente quello che voleva. Per quello non mi diedi per vinta e cercai invece di sembrare seccata. Mi ci volle comunque un attimo per riacquistare coraggio e ribattere: - Bella risposta. Doveva aver fatto un passo avanti, perchè improvvisamente i nostri corpi si trovavano separati soltanto da un sottile velo d'aria. - I tuoi occhi, Nora. Occhi di ghiaccio, sorprendentemente irresistibili Piegò la testa di lato, come per studiarmi da un'angolazione diversa. E quella bocca meravigliosamente carnosa. Allarmata non tanto dal commento quanto dal fatto che una parte di me fosse stata colpita da quelle parole, arretrai. – Ora basta. Me ne vado. Non appena pronunciai quelle parole, però, seppi che non erano sincere. Sentivo il bisogno di aggiungere qualcos'altro. Passai al vaglio i pensieri che mi agitavano la mente, cercando di capire che cosa dirgli. Perché mi prendeva in giro in quel modo, e perchè si comportava come se avessi fatto qualcosa per meritarlo? - Sembra che tu sappia molto su di me - dichiarai alla fine. - Più di quanto dovresti. E che sappia esattamente cosa dire per mettermi a disagio. - È facile. Fui assalita dalla rabbia. - Allora ammetti di farlo apposta? - Cosa? - Provocarmi. - Dillo ancora. Provocarmi. Quando lo dici le tue labbra diventano provocanti. Abbiamo finito. Puoi tornare alla tua partita Afferrai la stecca che aveva poggiato sul tavolo e gliela porsi, ma lui non la prese. Non mi piace srare seduta accanto a te - dissi. - Non mi piace studiare con te. Non mi piace quel tuo sorrisetto malizioso Avevo la mascella contratta, il che mi succedeva ogni volta che mentivo. Mi chiesi se lo stessi facendo anche in quel momento. In quel caso, avrei voluto prendermi a calci. - Non mi piaci - conclusi cercando di essere il più convincente possibile, quindi gli puntai la stecca contro il petto. - Sono contento che il coach ci abbia messo insieme – replicò lui. Notai una leggera ironia nel modo in cui pronunciava la parola coach, ma non riuscii a trovare nessun significato recondito. Raccolse la stecca. - Sto facendo in modo di cambiare le cose - ribattei. A giudicare dal sorriso che sfoderò, trovava !a mia frase molto divertente. Allungò una mano verso di me e, prima che riuscissi a spostarmi, mi sfilò qualcosa dai capelli. - Un pezzetto di carta - spiegò. Con un movimento elegante lo lasciò cadere a terra. Fu allora che notai un segno sulla parte interna del polso. All'inizio pensai a un tatuaggio e invece, guardando meglio, mi accorsi che era una voglia rossiccia leggermente in rilievo, simile a una goccia di vernice. - Posizione infelice per una voglia - dissi, parecchio infastidita dal fatto di averne una praticamente nello stesso punto. Patch si tirò giù la manica con noncuranza. - Preferiresti che fosse in un posto più intimo? - Non la preferirei da nessuna parte -. Incerta sull'effetto che la frase avesse sortito, la riformulai. - Non mi importa che tu ce l'abbia o no -. Terzo tentativo. - Non m'importa niente della tua voglia. Punto. - Altre domande? - chiese. - Commenti? -No. - Allora ci vediamo in classe. Pensai di dirgli che non mi avrebbe rivista mai più, ma non era il caso di rimangiarsi la parola due volte nello stesso giorno. Quella notte fui svegliata da un rumore. Rimasi immobile, la faccia schiacciata sul cuscino, tutti i sensi all'erta. Il lavoro di mia madre la portava fuori città almeno una volta al mese, quindi ero abituata a dormire da sola. Eppure, erano mesi che credevo di sentire un rumore di passi: partiva dall'ingresso e si avvicinava alla mia stanza. Veramente non mi sentivo mai sola. Subito dopo la morte di mio padre, a cui avevano sparato a Portland mentre comprava il regalo di compleanno per mia madre, una strana presenza era entrata nella mia vita. Era come se qualcuno orbitasse intorno al mio mondo e mi tenesse d'occhio da lontano. All'inizio la presenza fantasma mi aveva spaventata, ma poi, vedendo che non succedeva niente di brutto, la mia ansia si era attenuata. Avevo iniziato a chiedermi se le sensazioni che provavo facessero parte di un disegno cosmico. Forse lo spirito di mio padre era nelle vicinanze. Di solito quel pensiero mi dava conforto, invece quella sera era diverso. Avvenivo una presenza fredda come ghiaccio. Girai un po' la testa e vidi una forma indistinta allungarsi sul pavimento. Mi misi a sedere di scatto e guardai verso la finestra, dalla quale penetrava un pallido raggio di luna. Niente. Mi strinsi al cuscino e dissi a me stessa che si trattava di una nuvola di passaggio, oppure di un sacchetto trasportato dal vento. Tuttavia, ci vollero parecchi minuti perché il cuore riprendesse il suo battito normale. Quando trovai il coraggio di alzarmi dal letto e di guardare fuori, il cortile su cui affacciava la mia finestra era tranquillo e silenzioso. L'unico rumore proveniva dai rami dell'albero che strisciavano sul muro di casa e dal mio cuore che martellava nel petto. 3 Il coach McConaughy spiegava con voce monotona qualcosa alla lavagna, ma la mia mente era lontana mille miglia dalle complessità della scienza. Ero occupata a formulare i motivi per cui Patch e io non avremmo più dovuto studiare insieme e, a mano a mano che li individuavo, li trascrivevo sul retro di un vecchio questionario. Alla fine dell'ora sarei andata dal coach per esporgli le mie le ragioni. Non collabora ai compiti assegnati, avevo scritto. Mostra poco interesse per il lavoro di squadra. Tuttavia, erano le cose non presenti nell'elenco a infastidirmi di più. Trovavo strano che Patch avesse una voglia proprio in quel punto del polso e l'ombra alla mia finestra, la notte prima, mi aveva spaventata. All'inizio non avevo nemmeno sospettato che fosse stato Patch a spiarmi, ma con il passare del tempo avevo trovato sempre più difficile ignorare la coincidenza che qualcuno mi spiasse dalla finestra poche ore dopo averlo incontrato. Patch mi spiava. Quel pensiero fece correre la mano alla tasca anteriore dello zaino. Trovai un flacone. Lo aprii facendo uscire due pastiglie ricostituenti a base di ferro che mandai giù senz'acqua. Si bloccarono un attimo in gola e poi andarono giù. Con la coda dell'occhio, vidi Patch che mi guardava con aria interrogativa. Presi in considerazione l'idea di spiegargli che ero anemica e che dovevo assumere ferro tutti i giorni, soprattutto quand'ero stressata, ma poi ci ripensai. L'anemia non è pericolosa, sempre che si prendano dosi regolari di ferro. Non ero così paranoica da pensare che Patch volesse farmi del male, ma le mie condizioni di salute erano comunque una debolezza e preferivo tenerla segreta. - Nora? Il coach era in piedi e la mano tesa indicava che stava aspettando qualcosa: la mia risposta. Sentii le guance diventare bollenti. - Può ripetere la domanda? - chiesi. La classe ridacchiò. Leggermente irritato, il coach disse: - Quali caratteristiche ti attraggono in un potenziale partner? - Potenziale partner? - Coraggio, non abbiamo tutto il pomeriggio. Sentii la risatina di Vee alle mie spalle. La voce mi si strozzò in gola. - Vuole che le elenchi le caratteristiche di un... - Potenziale partner, si, sarebbe d'aiuto. Senza volerlo, lanciai un'occhiata di traverso a Patch. Era appoggiato alla spalliera della sedia, quasi stravaccato, e mi studiava soddisfatto. Sfoggiò il suo sorriso da canaglia e a fior di labbra disse: - Stiamo aspettando. Appoggiai le mani sul banco, cercando di sembrare più tranquilla di quanto fossi. - Non ci ho mai pensato. - Bene, allora pensaci, e alla svelta. - Potrebbe chiedere prima a qualcun altro? Il coach fece un gesto impaziente alla mia sinistra. - Patch, tocca a te. Diversamente da me. Patch parlò con sicurezza. Ed era leggermente rivolto dalla mia parte, le ginocchia a pochi centimetri dalle mie. - Intelligente. Attraente. Vulnerabile. Il coach scrisse gli aggettivi alla lavagna. - Vulnerabile? - ripetè. - In che senso? Vee intervenne. - Tutto questo c'entra qualcosa con il capitolo che stiamo studiando? Perché ho controllato il libro e da nessuna parte si legge di caratteristiche che ci attirano in un partner. Il coach smise di scrivere. - Tutti gli animali del pianeta attirano i partner a scopo riproduttivo. Le rane gonfiano il corpo, i gorilla si battono il petto. Hai mai visto un maschio di aragosta alzarsi sulle zampe e aprire e chiudere le chele per attirare l'attenzione della femmina? L'attrazione è il primo elemento della riproduzione in tutte le specie animali, inclusa quella umana. Perché non ci fornisce il suo elenco, signorina Sky? Vee alzò la mano con le cinque dita aperte ed enumerò le sue preferenze, abbassando un dito alla volta. - Bellissimo, ricco, comprensivo, estremamente protettivo e appena un po' pericoloso. Patch sorrise. - Il problema dell'attrazione umana è che non si sa se sarà ricambiata. - Eccellente osservazione - disse il coach - Gli umani sono vulnerabili - prosegui Patch - perché possono essere feriti -. In quel momento, il ginocchio di Patch urtò il mio. Mi scansai, imponendomi di non pensare a cosa avesse voluto alludere con quel gesto. Il coach annuì. - La complessità dell'attrazione e della riproduzione umana è una delle caratteristiche che ci differenziano dalle altre specie. Mi sembrò che Patch sbuffasse; era un suono talmente lieve, però, che non potevo esserne certa. - Fin dalla notte dei tempi, le donne sono state attirate da compagni con spiccate caratteristiche legate alla sopravvivenza, come l'intelligenza e la forza fisica, perché uomini con queste qualità hanno più probabilità di portare a casa la cena a fine giornata Il coach sollevò il pollice e sogghignò. - Cena equivale a sopravvivenza, squadra. Nessuno rise. - Allo stesso modo, - prosegui - gli uomini sono attratti dalla bellezza perché è indice di salute e giovinezza e non ha senso accoppiarsi con una donna malaticcia incapace di crescere dei figli Si spinse gli occhiali sul naso e ridacchiò. - Ề una teoria cosi sessista! - protestò Vee. - Mi parli di qualcosa che ritardi le donne del ventunesimo secolo. - Se esamina la riproduzione dal punto di vista scientifico, signorina Sky. vedrà che i figli sono la chiave della sopravvivenza della nostra specie. E più figli facciamo, maggiore sarà il nostro contributo al pool genetico. - A quanto pare siamo finalmente arrivati all'argomento di oggi. Il sesso - disse la mia amica, sicuramente alzando gli occhi al cielo. - Non ancora - dichiarò il coach. - Prima del sesso viene l'attrazione e dopo l'attrazione viene il linguaggio del corpo. Bisogna comunicare a un potenziale compagno «sono interessata» ma con meno parole. Poi il suo dito indice puntò qualcosa vicino a me. - Allora, Patch. Diciamo che sei a una festa, la stanza è piena di ragazze. Bionde, castane, rosse e brune. Alcune sono loquaci, altre sembrano timide. Hai trovato una ragazza che corrisponde al tuo profilo: attraente, intelligente e vulnerabile. Come le fai capire che sei interessato a lei? - Mi avvicino e le parlo. - Bene. Ora viene la parte più difficile: come fai a sapere se lei è interessata a te o vuole che te ne vada? - La studio - rispose Patch. - Cerco di capire a che cosa sta pensando e quali emozioni prova. Non verrà certo a dirmelo, quindi devo fare attenzione. Si avvicina? Mi fissa negli occhi e poi distoglie lo sguardo? Si morde le labbra e gioca con i capelli come sta facendo Nora adesso? Nell'aula risuonò una risata collettiva. Le mani mi ricaddero sulle ginocchia. - È interessata - dichiarò Patch rifilandomi un altro colpetto con il ginocchio. A quel punto, avvampai. - Bene! Molto bene! - esclamò il coach, soddisfatto che tutta la classe fosse così attenta. I vasi sanguigni del viso di Nora si dilatano e la pelle si riscalda - disse Patch. - Sa di essere sotto esame. Le piace ricevere attenzioni, ma non sa come gestirle. - Non sto arrossendo. - È nervosa - continuò Patch. - Si accarezza il braccio per allontanare l'attenzione dal viso e spostarla sul corpo o sulla pelle perchè sono i suoi punti forti. Mi sentii soffocare. «Sta scherzando» pensai. «No. è pazzo.» Non ci sapevo fare con i matti, e si vedeva. Di sicuro ero rimasta tutto il tempo a fissarlo a bocca aperta. Se volevo illudermi di poter gestire il rapporto con lui, dovevo cambiare approccio. Aprii le mani sul banco, alzai il mento e assunsi l'aria di una a cui e rimasto un briciolo di dignità. - Tutto questo è ridicolo. Patch stese il braccio e lo appoggiò allo schienale della mia sedia. Avevo la strana sensazione che si trattasse di un gesto alto stesso tempo allusivo c minaccioso, rivolto esclusivamente a me, quasi non si rendesse conto né gli importasse di come avrebbe reagito la classe. E in effetti i nostri compagni risero, ma lui sembrò non sentirli. Mi guardava negli occhi e io mi convinsi che volesse ritagliare un piccolo mondo privato solo nostro, impenetrabile per chiunque altro. Sulle sue labbra lessi la parola "vulnerabile". Usai le caviglie per agganciare le gambe della sedia e mi spostai di scatto. Sentii il suo braccio cadere dalla spalliera. Non ero vulnerabile. - Ed ecco a voi - disse a un tratto il coach - la biologia in azione! - Adesso possiamo parlare di sesso per favore? chiese Vee. - Domani. Intanto leggete il capitolo sette e preparatevi perché discuteremo per prima cosa di quello. La campanella suonò e Patch si alzò facendo strisciare la sedia. - E stato divertente, dobbiamo rifarlo -. Prima che riuscissi a dire qualcosa di meglio di «No, grazie» lui era sparito fuori dalla porta. - Voglio presentare una petizione per far licenziare il coach - disse Vee avvicinandoti al mio banco. - Cos'era la lezione di oggi? Pornografia annacquata? Praticamente ha messo te e Patch su un tavolo da laboratorio, nudi e in posizione orizzontale a commettere il Fattaccio. La fulminai con un'occhiata che diceva «Ti sembra che abbia voglia di una replica?». - Okay, okay - disse Vee facendo un passo indietro. - Devo parlare con il coach. Ci vediamo davanti al tuo armadietto tra dieci minuti. Va bene. Mi avviai alla cattedra. Il coach era curvo su un libro di schemi di basket. A uno sguardo distratto, con tutte quelle X e O, si poteva pensare che stesse giocando a tris. - Ciao Nora - disse senza alzare lo sguardo. - Cosa posso fare per te? - Sono qui per informarla che la nuova disposizione dei posti e questo tipo di lezione mi mettono a disagio. Il coach si appoggiò alla sedia, le mani incrociale dietro la resta. - Mi piace la disposizione dei posti. Quasi quanto mi piace questo nuovo schema; lo utilizzerò nella partita di sabato. Tirai fuori una copia del codice di etici professionale e dei diritti degli studenti e ce l'appoggiai sopra. - Secondo il codice applicato in questa scuola, nessuno studente dovrebbe sentirsi minacciato all'interno degli edifici scolastici. - Ti senti minacciata? - Mi sento a disagio. E vorrei proporle una soluzione Visto che non ero stata interrotta, presi un bel respiro e continuai. - Farò da tutor a qualsiasi studente di una qualsiasi delle sue classi di scienze... se mi rimette vicino a Vee. - Patch avrebbe bisogno di un tutor. Strinsi i denti. - Così torniamo al punto di partenza. - Hai visto come partecipava alla discussione oggi? Non gli ho mai sentito dire una parola per tutto l'anno, poi lo metto accanto a te e... tombola! I suoi voti miglioreranno di sicuro. - Quelli di Vee peggioreranno. - Il che accade quando non si possono copiare le risposte del compagno di banco - disse asciutto. - Il problema di Vee e che non si applica. Le farò da tutor. - Niente da fare -. Diede un'occhiata all'orologio e aggiunse: - Faccio tardi a una riunione. Abbiamo finito? Cercai disperatamente di aggrapparmi a qualcosa, ma avevo esaurito rutti gli argomenti. - Lasciamo passare qualche altra settimana. Oh, e guarda che dicevo sul seno riguardo a Patch. Vorrei che fossi il suo tutor. Ci conto Non aspettò la risposta. Fischiettando il ritornello di Jeopardy, uscì. Infreddolita, tirai su la lampo del giaccone sotto un cielo di un cupo blu inchiostro. Erano le sette di sera e insieme a Vee ero diretta al parcheggio del cinema dove avevamo visto Il Sacrificio. Recensire film per l'ezine era compito mio e, dal momento che avevo già visto tutti i film in programmazione, avevamo dovuto accontentarci di un horror. - È il film più assurdo che abbia mai visto - brontolò lei. - Diamoci una regola: non vedremo più niente che si avvicini anche lontanamente a un horror. Ah, per me andava benissimo. Vedere fino alla fine un film su un molestatore, sapendo che qualcuno aveva passato la notte scorsa appostato dietro la mia finestra, mi aveva fatto diventare un po' paranoica. - Ci pensi? - riprese Vee. - Passare tutta la vita senza sapere che l'unica ragione della propria esistenza e essere usata come sacrificio umano? Rabbrividimmo. - E quella storia dell'altare? - continuò. Io avrei più volentieri parlato del ciclo di vita dei funghi piuttosto che di quel film, ma la mia amica sembrava ignorarlo. - Perché il cattivo arroventa la pietra prima di legarci sopra la ragazza? Quando ho sentito la carne sfrigolare... - Okay! - la fermai, praticamente urlando. - Adesso dove andiamo? - Posso dire solo un'ultima cosa? Se mai qualcuno mi baciasse in quel modo, mi verrebbero i conati di vomito. La parola ripugnante non esprime fino in fondo quello che faceva con la bocca. - Era solo trucco, vero? Nessuno ha davvero una bocca come quella. - Devo fare la recensione entro mezzanotte - la interruppi. - Ah, già. Allora andiamo in biblioteca? -. Vee apri le portiere della sua Dodge Neon del 1995. - Sei molto antipatica, sai? Scivolai sul sedile del passeggero. - Colpa del film -. Colpa del guardone che c'era alla mia finestra la notte prima. - Non intendo solo stasera. Ho notato - disse, mentre le sue labbra prendevano una piega maliziosa - che negli ultimi due giorni, per l'esattezza dopo la lezione di biologia, sei stata stranamente intrattabile per almeno mezz'ora. Facile anche questa. Colpa di Patch. Vee sistemò lo specchietto retrovisore per potersi guardare i denti. Ci passò sopra la lingua e rivolse a se stessa un sorriso. - Devo ammetterlo, il suo lato oscuro mi attira. Non avrei mai voluto ammetterlo, ma Vee non era la sola. Anch'io mi sentivo attratta da Patch come mai prima d'ora. Tra noi esisteva un misterioso magnetismo. Vicino a lui mi sentivo sull'orlo di un precipizio con l'impressione che, da un momento all'altro, lui potesse spingermi giù. - Sentirtelo dire mi fa... - mi fermai a riflettere su che cosa, di preciso, la nostra comune attrazione verso Patch mi ispirasse. Niente di piacevole. - Non pensi che sia bellissimo? Dimmelo, - intervenne Vee - e io ti prometto che non pronuncerò mai più il suo nome. Accesi la radio. Sicuramente c'era qualcosa di meglio da fare che rovinarci la serata invitando Patch a uscire con noi, anche solo in forma incorporea. Stare seduta accanto a lui per un'ora tutti i giorni, cinque giorni la settimana, era già molto più di quanto riuscissi a reggere. Non avrebbe avuto anche le mie serate. - Allora? - mi incalzò Vee. - Sarà anche bello, ma io sarei l'ultima persona ad accorgermene. Mi spiace, ma il mio giudizio è viziato. - In che senso? - Nel senso che non riesco a vedere oltre il suo carattere e anche la bellezza più incredibile non riuscirebbe a compensarlo. - Non è solo una questione di bellezza. É... un tipo deciso. Sexy. Alzai gli occhi al ciclo. Un'automobile ci tagliò la strada costringendo Vee a inchiodare suonando il clacson. - Che c'è? Non sei d'accordo oppure il tipo bello e dannato non è il tuo genere? - Non ho un tipo - risposi. - E non sto facendo la difficile. Vee rise. - Tesoro, tu sei più che difficile: sci incontentabile. - Impossibile. L'elenco dei ragazzi della scuola di cui potresti innamorarti è piccolo come uno dei microrganismi del coach. - Non è vero Replicai senza riflettere. Eppure, persino alle mie orecchie quella frase suonava falsa. Stavo dicendo la verità? Non avevo mai provato interesse per nessuno. Ero strana? - I ragazzi non c'entrano, c'entra... l'amore. Non mi sono mai innamorata. - Qui non si parla d'amore, - obiettò Vee - ma di divertimento. Sollevai le sopracciglia, perplessa. - Baciare un tipo che non conosco... di cui non m'importa... è divertente? - Non sei stata attenta a biologia, eh? Non stiamo parlando solo di baci. - Oh - esclamai. - Il pool generico è già abbastanza strambo senza il mio contributo. - Vuoi sapere chi sarebbe davvero giusto? - Giusto? - Giusto - ripetè con un sorrisetto sfacciato. Non ci tengo a saperlo. - Il tuo partner. - Partner ha una connotazione positiva - protestai. - Quindi, Patch non è il mio partner. Vee si infilò in un posteggio vicino all'entrata della biblioteca spense il motore. - Hai mai immaginato di baciarlo? L'hai mai guardato di nascosto sognando di saltargli addosso e premere le tue labbra sulle sue? La fissai, sperando di apparire adeguatamente inorridita. - Perché, tu si? La mia amica si limitò a sogghignare. Cercai di immaginare la reazione di Patch. Nonostante lo conoscessi così poco, potevo quasi toccare l'avversione che provava nei confronti di Vee. - Non è abbastanza per te - dissi entrando nella biblioteca. - Attenta, così non fai che spingermi verso di lui. Scegliemmo un tavolo al pianterreno, vicino al settore narrativa per adulti. Aprii il computer portatile e scrissi: Ii sacrificio, due stelle e mezzo. Due e mezzo probabilmente era un voto un po' asso, ma avevo un sacco di cose per la testa e non mi sentivo particolarmente imparziale. Vee aprì una confezione di mele disidratate. - Ne vuoi un po'? - Grazie, non ho fame. Sbirciò dentro il sacchetto. - Se non le mangi tu, dovrò farlo io. E non ne ho proprio voglia. Vee stava seguendo la dieta dei colori: tre frutti rossi al giorno, due blu, una manciata di verdi... Tirò fuori una fettina di mela e la esaminò attentamente. - Colore? - chiesi. - Granny Smith schifina verdina. Credo. In quel momento Marcie Millar, l'unica studentessa del secondo anno nella storia della Coldwater High a essere diventata cheerleader in una squadra universitaria, si sedette al nostro tavolo. I capelli biondo tiziano erano raccolti in due codini bassi e la pelle del viso era, come sempre, nascosta sotto mezza boccetta di fondotinta. La prova? Non c'era una sola lentiggine in vista e io non vedevo le lentiggini di Marcie dalla seconda media, anno in cui aveva scoperto i prodotti Mary Kay. Tra la fine della gonna e l'inizio della biancheria intima, sempre che la indossasse, c'erano al massimo due centimetri. - Ciao Tagliaforte - disse a Vee. - Ciao Mezzosgorbio - rispose lei. - Mia madre sta cercando delle modelle per questo fine settimana. La paga è nove dollari l'ora. Pensavo potesse interessarti. La madre dì Marcie gestisce un negozio di abbigliamento. Durante il fine settimana paga la figlia e il resto delle cheerleader per stare in vetrina in mutande e reggiseno. - Non riesce a trovare modelle per le taglie forti - disse Marcie. - Hai del cibo tra i denti - replicò Vee. - Proprio fra gli incisivi. Sembra cioccolato... probabilmente del lassativo che prendi continuamente. Marcie si passò la lingua sui denti e schizzò via. Si allontanò sculettando, mentre Vee si metteva due dita in bocca e faceva finca di vomitare. - Le è andata bene che siamo in biblioteca - ringhiò Vee. - Deve sperare di non incrociarmi in un vicolo buio. È la tua ultima possibilità: ne vuoi? - No, grazie. Vee andò a buttare via le mele. Qualche minuto dopo tornò con un romanzo rosa; si sedette accanto a me e, mostrandomi la copertina, disse: - Un giorno queste qui saremo noi. Avvinghiate a cow-boy mezzi svestiti. Chissà cosa si prova a baciare labbra cotte dal sole e incrostate di fango. - Mmm... fantastico - mormorai, continuando a scrivere. - A proposito di fantastico - esclamò con un tono inaspettamente alto. - C'è il tuo tipo. Smisi di scrivere, sbirciai da sopra il computer e il cuore perse un battito. Patch era dall'altra parte della stanza, in fila per restituire un libro. Come se avesse avvertito il mio sguardo, si voltò. Ci fissammo per uno, due, tre secondi. Distolsi lo sguardo per prima, ma non senza avere ricevuto un sorriso. Il cuore continuava a fare i capricci, per quanto mi imponessi di riprenderne il controllo. Non avrei lasciato che accadesse, non con Patch, non finché fossi stata nel pieno possesso delle mie facoltà mentali. - Andiamo - dissi a Vee. Chiusi il portatile e lo infilai nella custodia. Cercai di ficcare i libri nello zaino, ma alcuni caddero a terra. - Sto cercando di leggere il titolo del libro che ha in mano... - stava dicendo Vee. - Aspetta... "Il manuale del molestatore". - Figurati se sta restituendo davvero un libro con quel titolo! - esclamai, ma non ne ero affatto sicura. - Mah, quello oppure "Come sprizzare sensualità senza neanche volerlo". - Shh! - sibilai. - Calmati, non può sentirci. Sta parlando con la bibliotecaria -. Controllai che fosse vero, solo per rendermi conto che, se fossimo andate via in quel momento, probabilmente l'avremmo incontrato all'uscita. E allora avrei dovuto dirgli qualcosa. Mi rimisi a sedere e cominciai a rovistare nelle tasche aspettando che Patch se ne andasse. - Non ti fa venire i brividi? Lui è qui proprio nello stesso momento in cui ci siamo noi - disse Vee. - A te si? - Credo che ti segua. - Ề una coincidenza -. Be', non era proprio cosi. Se avessi dovuto compilare una lista con i posti in cui mi sarei aspettata di trovare Patch di sera, la biblioteca pubblica non sarebbe stata tra i primi dieci. Neanche tra i primi cento. Che cosa ci faceva lì? Dopo l'esperienza dello sconosciuto alla finestra, quella domanda assumeva un tono davvero inquietante. Non l'avevo raccontato a Vee perchè speravo che il ricordo si sarebbe rimpicciolito fino a sparire, come se non fosse mai accaduto. Punto. - Patch! -. Vee si era voltata verso di lui e sussurrava: Vuoi molestare Nora? Le tappai la bocca con la mano. - Smettila. Dico davvero - le intimai. - Scommetto che ti sta seguendo - insistette lei dopo essersi liberata dalla mia mano. - Scommetto che l'ha già fatto in passato e che ha un'ingiunzione restrittiva. Dovremmo intrufolarci in segreteria, sicuramente e tutto scritto nel suo fascicolo. - Non ci intrufoleremo da nessuna parte. - Potrei creare un diversivo. Sono brava con i diversivi. Nessuno ti vedrebbe entrare, agiremmo da perfette spie. - Noi non siamo spie. - Conosci il suo cognome? - chiese Vee. -No. - Cosa sai di lui? - Niente. E non voglio sapere niente. - Oh, ma dai. Tu adori i misteri e credi che ce ne sia uno migliore di questo? - I misteri migliori richiedono un cadavere e noi non abbiamo un cadavere. - Non ancora! - strillò Vee. Presi due pastiglie di ferro dalla boccetta che avevo nello zaino e le ingoiai in un colpo solo. L'auto di Vee entrò sobbalzando nel vialetto di casa sua subito dopo le nove e trenta. Lei spense il motore, tolse le chiavi e me le consegnò. - Non mi accompagni a casa? - chiesi. Fiato sprecato, tanto conoscevo già la risposta. - C'è nebbia. - Nebbia a banchi. Come quelli che mi rovinano la vita. Vee sorrise. - Accidenti, ce l'hai sempre in mente! Ti capisco, intendiamoci. Per quanto mi riguarda, spero di sognarlo stanotte. Che schifo. - La nebbia è sempre più fitta a casa tua - prosegui Vee. - E con il buio mi manda fuori di testa. Afferrai le chiavi. - Tante grazie. - Guarda che non è colpa mia. Di' a tua madre di trasferirsi. Raccontale di questo nuovo club chiamato civiltà al quale dovreste iscrivervi. - Quindi suppongo di doverti passare a prendere per andare a scuola? - Sette e mezza andrebbe bene. Ti offro la colazione. - E che sia buona. - Sii gentile con la mia bimba -. Diede un colpetto affettuoso al cruscotto della macchina. - Ma non troppo, non deve pensare che qualcuno possa trattarla meglio di me. Durante il viaggio, lasciai i pensieri liberi di vagare in zona Patch. Vee aveva ragione: c'era qualcosa di incredibilmente seducente in lui e... qualcosa che metteva i brividi. Più ci pensavo, più mi convincevo che c'era qualcosa in lui di... guasto. Il fatto che gli piacesse infastidirmi non significava nulla, però c'era differenza fra darmi noia in classe e, presumibilmente, seguirmi in biblioteca. In pochi si prenderebbero tanto disturbo senza un'ottima ragione per farlo. Ero a metà strada quando iniziò a piovere. Con un occhio alla strada e l'altro ai comandi sul volante, cercai di localizzare la leva dei tergicristalli. Le luci dei lampioni tremolarono e mi domandai se non fosse in arrivo un temporale. A causa della vicinanza con l'oceano, il tempo cambia continuamente e un acquazzone poteva trasformarsi all'improvviso in un'alluvione. Accelerai. Le luci vacillarono di nuovo. Avvertii un formicolio alla nuca e mi si rizzarono i peli sulle braccia. Il mio sesto senso era in stato di massima allerta. Mi chiesi se qualcuno mi stesse seguendo, ma non c'erano fari nello specchietto retrovisore. Niente automobili nemmeno davanti. Ero sola. Non era un pensiero confortante, così spinsi sul pedale dell'acceleratore. Finalmente trovai i tergicristalli, ma nemmeno alla massima velocità riuscivano ad avere la meglio sulla pioggia. A uno stop rallentai fino a fermarmi, controllai che la strada tosse libera e mi immisi nell'incrocio. Sentii l'impatto prima ancora di accorgermi della sagoma nera che atterrava sul cofano. Urlai e pigiai il freno. La sagoma colpi di schianto il parabrezza con un boato di vetri in frantumi. D'impulso sterzai a destra. La Neon slittò e girò su se stessa attraversando l'incrocio. La sagoma rotolò attraverso il cofano e cadde a terra. Aggrappata al volante, le nocche bianche, trattenevo Il respiro. Sollevai i piedi dai pedali e l'automobile, con un sobbalzo, si spense. Acquattato a qualche metro da me, mi osservava. Non sembrava affatto... ferito. Era vestito di nero, tanto da fondersi con la notte, senza lasciar intuire niente del suo aspetto. Non riuscivo a distinguere i lineamenti del volto, poi mi resi conto che indossava un passamontagna. Si alzò in piedi, percorse la distanza che ci separava e batté le mani sul finestrino. I nostri sguardi s'incontrarono attraverso i fori del passamontagna. E, per un istante, mi sembrò che nei suoi occhi balenasse un sorriso pericoloso. Diede un altra botta al vetro, che vibrò. Misi in moto sforzandomi di sincronizzare i movimenti: inserire la prima, schiacciare l'acceleratore e sollevare lentamente il pedale della frizione. Il motore andò su di giri, ma l'auto sobbalzò di nuovo e si spense. Girai ancora la chiave nel quadro, ma venni distratta da uno sgradevole cigolio metallico. Vidi con orrore che la portiera si apriva. Stava cercando di... strapparla. Ingranai la prima. Le scarpe scivolarono sui pedali. Il motore ruggì, la lancetta del contagiri si impennò. Un'esplosione di vetri accompagnò il suo pugno attraverso il finestrino. La mano si mosse a tentoni sulla mia spalla, mi afferrò il braccio. Urlai, schiacciai il pedale dell'acceleratore e mollai la frizione. La Neon si mosse, odore di gomma bruciata. Aggrappato al mio braccio, lui corse accanto all'auto per diversi metri prima di lasciare la presa. Spinta dall'adrenalina mi allontanai a rutta velocità. Controllai nello specchietto che non mi stesse seguendo, le labbra serrate per non scoppiare a piangere. 4 Sfrecciai lungo la Hawthorne fino a superare casa mìa, quindi feci inversione, tagliai per la Beech e tornai indietro verso il centro di Coldwater. Chiamai Vee. - Ề successa una cosa... io... lui... non c'era... la Neon... - Stai dando i numeri. Che c'è? Mi asciugai il naso con il dorso della mano. Tremavo. È sbucato dal nulla. - Chi? Cercai di raccogliere i pensieri e incanalarli in un flusso di parole. - Mi è comparso davanti! - Cavoli. Cavoli, cavoli, cavoli. Hai investito un cervo? Ti sei fatta male? Bambi come sta? -. Poi emise un suono a metà tra un ululato e un gemito. - La Neon? Aprii la bocca, ma Vee mi interruppe. - Non pensarci, sono assicurata. Dimmi solo che la mia bimba non è tutta coperta di brandelli di cervo. Niente brandelli di cervo, vero? Qualsiasi risposta stessi per dare a Vee svanì. La mente galoppava veloce. Un cervo. Forse avrei potuto raccontare che avevo investito un cervo. Volevo confidarmi con Vee, ma allo stesso tempo non volevo passare per pazza. Come spiegarle di aver visto il tipo che avevo appena investito alzarsi in piedi e iniziate a strappare la portiera dell'auto? Abbassai il colletto fino alla spalla e controllai: non si vedevano segni rossi nel punto in cui mi aveva afferrato. Tornai in me con un sussulto. Davvero stavo prendendo in considerazione l'idea di negare l'accaduto? Io ero sicura di quello che avevo visto, non l'avevo immaginato. - Oh, cavolo - disse Vee. - Non hai risposto. È incastrato tra i fanali, vero? Te ne vai in giro con un cervo incastrato nel cofano a mo' di spazzaneve. - Posso dormire da te? Volevo solo togliermi dalla strada, dal buio. Improvvisamente, mi resi conto che per arrivare da Vee dovevo ripassare da quell'incrocio, e mi mancò l'aria. - Vieni pure, ti aspetto - disse Vee. - Sono in camera mia. Con le mani salde sul volante, avanzai nella pioggia pregando di trovare verde all'incrocio con la Hawthorne. Fui esaudita e passai a tavoletta, lo sguardo fisso davanti a me, se si escludono le continue occhiate ai lati della strada. Del tizio con il passa-montagna nessuna traccia. Dieci minuti dopo parcheggiavo davanti a casa di Vee. Il danno alla portiera era notevole, tanto che per uscire dovetti prenderla a calci. Poi corsi fino alla porta d'ingresso, mi rifugiai dentro e scesi in fretta le scale che portavano al seminterrato. Vee era seduta sul letto a gambe incrociate, con il portatile sulle ginocchia e gli auricolari collegati all'iPod. Che faccio, vado a vederli subito i danni o è meglio rimandare a dopo una buona notte di sonno? - gridò, perché ascoltava musica a tutto volume. - Forse e meglio rimandare. Vee chiuse di scatto il portatile e si tolse gli auricolari. No, togliamoci il pensiero. Una volta fuori casa, restai imbambolata a fissare la Neon. La serata non era calda, ma nemmeno tanto fredda da giustificare la pelle d'oca. Niente finestrino frantumato. Niente portiera scardinata. - C'è qualcosa che non va... - dissi, ma Vee non stava ascoltando, troppo impegnata a esaminare ogni centimetro della sua auto. Feci qualche passo avanti e toccai il finestrino. Il vetro era intatto. Chiusi gli occhi c, quando li riaprii, il finestrino era ancora senza un graffio. Feci il giro dell'auto. Avevo quasi terminato quando, all'improvviso, mi fermai. Il parabrezza era scheggiato proprio nel centro. - Sei sicura che non fosse uno scoiattolo? - disse Vee. Ripensai agli occhi dietro il passamontagna. Erano talmente neri da non poter distinguere le pupille dalle iridi. Neri come... quelli di Patch. - Guardami, sto piangendo di gioia Sdraiata sul cofano, le braccia aperte come ad abbracciarlo, strillava: - Solo una minuscola incrinatura! Sfoderai un bel sorriso, anche se avevo lo stomaco sottosopra. Solo cinque minuti prima il finestrino era in frantumi c la portiera divelta. In quel momento, invece, sembrava impossibile. Anzi no, sembrava folle. Io però avevo visto il pugno sfondare il finestrino, avevo sentito le sue dita affondarmi nella spalla. O no? Più cercavo di rievocare l'Incidente, meno riuscivo a ricordare. Frammenti di informazioni mancanti ostacolavano il flusso della memoria. I dettagli svanivano. Era alto o basso? Magro o robusto? Aveva detto qualcosa? Non riuscivo a ricordare. Era quella la cosa più spaventosa. La mattina seguente, Vee e io uscimmo di casa alle sette e un quarto. A bordo della Neon praticamente perfetta, raggiungemmo il caffè di Enzo per una colazione a base di cappuccino. Le mani strette intorno alla tazza bollente, cercavo di sciogliere il gelo che sentivo dentro. Sapevo di aver fatto la doccia, di aver indossato un top e un cardigan prestato da Vee e di essermi anche truccata un po', ma mi ricordavo a malapena di averlo fatto. - Non voltarti - disse Vee - ma Maglione Verde continua a guardare da questa parte e sembra apprezzare le gambe che nascondi dentro i jeans... Oh! Mi ha appena salutata. Non sto scherzando. Un breve saluto militare, con due dita. Che carino! Non stavo ascoltando. Per tutta la notte, avevo rivisto nella testa l'incidente della sera prima, mandando in fumo ogni tentativo di dormire. Avevo le idee confuse, gli occhi secchi, le palpebre pesanti e non riuscivo a concentrarmi. - Il tipo con i capelli corti sembra un tipo normale, mentre il suo amico ha l'aria dell'incorreggibile cattivo ragazzo - continuò Vee. - Sembra voler dire: "Statemi alla larga". Dimmi che non somiglia al figlio di Dracula. Dimmi che mi sto facendo prendere dall'immaginazione. Alzai gli occhi quel tanto che bastava per guardare il tizio senza che se ne accorgesse. Viso bello e delicato. Capelli biondi che gli ricadevano sulle spalle. Occhi color cromo. Non era sbarbato e indossava una giacca impeccabile sopra il maglione e un paio di jeans scuri firmati. Dissi: Ti stai facendo prendere dall'immaginazione. - Ma non hai visto gli occhi infossati, l'attaccatura dei capelli a punta, il fisico alto e allampanato? Potrebbe addirittura essere abbastanza alto per me. Vee e alta quasi un metro e ottanta, ma ha la fissa dei tacchi alti. E ha anche la fissa di non voler uscire con ragazzi più bassi di lei. - Okay, cosa c'è che non va? - chiese Vee. - Hai chiuso le comunicazioni. Non è per il parabrezza scheggiato, giusto? È perché hai investito un animale? Ma può capitare a tutti. Certo, se tua madre traslocasse dalla landa desolata, le possibilità si ridurrebbero di molto. Avrei raccontato a Vee quello che era davvero successo. Presto. Avevo solo bisogno di riordinare i dettagli. Il problema era che non riuscivo a capire come. I miei ricordi erano sfuocati, come se una gomma avesse cancellato la mia memoria lasciando un vuoto. Ripensandoci, ricordavo solo la pioggia che veniva giù a cascata sui finestrini, rendendo tutto confuso. Avevo davvero investito un cervo? - Mmm, vediamo un po' - disse Vee. - Maglione Verde si sta alzando. Quello si che è un corpo che conosce bene la palestra. E sta decisamente venendo verso di noi, con gli occhi puntati sulla preda: tu. In un batter d'occhio fummo raggiunti da una voce profonda e cortese: - Ciao. Vee e io alzammo lo sguardo nello stesso momento. Maglione Verde era proprio dietro il nostro tavolo, i pollici nelle tasche dei jeans. Aveva gli occhi azzurri. I capelli corti, biondi erano spettinati ad arte. - Ciao a te - disse la mia amica. - Io sono Vee e lei è Nora Grey. Le rivolsi un'occhiataccia. Non avevo gradito il fatto che avesse aggiunto il mio cognome: sentivo che aveva violato un tacito contratto tra amiche, per non dire tra migliori amiche, riguardo alla conoscenza di ragazzi nuovi. Feci un tiepido cenno di saluto e portai la tazza alle labbra, scottandomi la lingua. Lui trascinò una sedia dal tavolo accanto e si sedette a cavalcioni, le braccia appoggiate alla spalliera. Poi mi porse la mano c disse: - Sono Elliot Saunders La strinsi sentendomi un po' troppo formale. - Lui è Jules aggiunse, indicando con il mento il suo amico. La definizione di Vee era notevolmente sottostimata. Dall'alto della sua più che considerevole statura, il ragazzo prese posto accanto a lei, facendo sembrare minuscola la sedia. - Credo che potresti essere il ragazzo più alto che abbia mai visto - stava dicendo Vee. - Sono un metro e ottantacinque. Elliot si schiari la voce. - Le signore gradiscono qualcosa da mangiare? - Io sono a posto - dissi, mostrando la tazza. - Ho già ordinato. Vee mi diede un calcio sotto il tavolo. - Lei prende una ciambella con la crema. Facciamo due. - Addio dieta? - chiesi alla mia amica. - Guarda che il baccello di vaniglia è un frutto. Un frutto marrone. - È un legume. - Sicura? No. Jules chiuse gli occhi e si massaggiò con due dita la base del naso. Sembrava entusiasta di sedere insieme a noi quasi quanto lo ero io di stare con loro. Elliot si alzò per andare al bancone e io lo seguii con lo sguardo. Frequentava sicuramente la scuola superiore, ma non l'avevo mai visto. Me lo sarei ricordato. Aveva un carattere affascinante, estroverso, che non passava inosservato. Se non fossi stata così sottosopra per l'incidente, avrei potuto davvero provare interesse per lui. Come amico... magari qualcosa di più. - Vivi da queste parti? - chiese Vee a Jules. - Mmm. - A che scuola vai? - Kinghorn Prep Lo disse con una punta di superiorità. - Mai sentita. - Scuola privata. Portland. Le lezioni iniziano alle nove. Sollevò la manica c diede un'occhiata all'orologio. Vee tuffò la punta del dito nella schiuma del latte e poi lo leccò via. - É costosa? Jules la guardò in faccia per la prima volta e spalancò gli occhi. - Sei ricco? Scommetto di si - insistè Vee. Jules guardò la mia amica come se lei gli avesse appena schiacciato una mosca in fronte e spostò indietro la sedia per allontanarsi da noi. Nel frattempo, Elliot era tornato con una scatola che conteneva sei ciambelle. - Due con la crema per le signore - disse, spingendo la scatola verso di me - e quattro con la glassa per me. Ho pensato di fare il pieno adesso, perché non so com'è la caffetteria della Coldwater High. Per poco Vee non sputò tutto il latte. - Tu vai alla CHS? Da oggi. Mi sono appena trasferito dalla Kinghorn Prep. Nora e io andiamo alla CHS - disse Vee. - Spero ti renderai conto della fortuna che hai avuto. Qualsiasi cosa volessi sapere, tipo chi invitare alla Festa di Primavera, chiedi pure. Nora e io non abbiamo ricevuto nessun invito... finora. Decisi che era arrivato il momento di lasciarsi. Jules era visibilmente annoiato e infastidito, e stare in sua compagnia non migliorava il mio stato d'animo, già abbastanza inquieto. Guardai in modo plateale l'orologio del cellulare e dissi: - Siamo in ritardo, Vee. Dobbiamo studiare per il compito in classe di biologia. Elliot e Jules, e srato un piacere conoscervi. - Ma biologia e venerdì - disse Vee. Riuscii a nascondere l'imbarazzo e feci un bel sorriso. Giusto. Volevo dire che io ho il compito in classe d'inglese. Sull'opera di... Geoffrey Chaucer -. Stavo mentendo, lo sapevano tutti. A una piccola parte di me dispiacque essere stata cosi scortese, soprattutto perché Elliot non aveva fatto niente per meritarselo. Io però non volevo restare un minuto di più. Volevo andare avanti e lasciarmi alle spalle la notte precedente. Forse l'amnesia non era un male, dopotutto. Prima dimenticavo l'incidente, prima sarei tornata alla mia vita di sempre. - Auguri per il tuo primo giorno di scuola, magari ci vediamo a pranzo - dissi a Elliot. Quindi afferrai Vee per un braccio e la trascinai fuori. Le lezioni erano quasi finite, restava solo l'ora di biologia e, dopo una breve sosta all'armadietto per prendere i libri che mi servivano e lasciare gli altri, mi diressi in classe. Vee e io arrivammo prima di Patch, così lei prese possesso della sua sedia vuota, dopodiché frugò nello zaino e tirò fuori una confezione di caramelle gommose. - Un frutto rosso in arrivo - disse porgendomi il pacchetto. - Fammi indovinare... la cannella è un frutto? - Non hai neanche pranzato - insistè Vee, accigliata. - Non ho fame. - Bugiarda, tu hai sempre fame. Ề per Patch? Non sei davvero preoccupata che ti stia perseguitando, vero? Guarda che in biblioteca scherzavo. Mi massaggiai le tempie. Bastava sentire il suo nome, e il dolore sordo annidato dietro gli occhi aumentava. - Patch e l'ultimo dei miei pensieri - risposi, anche se non era del tutto vero. - Il mio posto, se non ti dispiace. Vee e io alzammo lo sguardo. Nonostante il tono piuttosto gentile. Patch non staccò gli occhi dalla mia amica, mentre lei si alzava buttandosi lo zaino in spalla. Evidentemente per lui non stava facendo abbastanza in fretta, perché le indicò l'uscita con un ampio gesto della mano. Bella come sempre - mi disse mentre si sedeva. Si appoggiò allo schienale e allungò le gambe davanti a sé. Ovviamente sapevo che era alto, ma non mi ero mai chiesta quanto tosse alto. Adesso, osservando quanto fossero lunghe le sue gambe, pensai che potesse arrivare al metro e ottantadue. forse anche ottantacinque. - Grazie - risposi senza riflettere. Un istante dopo avrei voluto mordermi la lingua. «Grazie»? Di tutte le cose che avrei potuto dire, quella era la peggiore. Non volevo che Patch pensasse che mi piacessero i suoi complimenti. Perché non era cosi... quasi mai, almeno. Non ci voleva un grande intuito per capire che Patch significava guai, e io ne avevo già fin troppi. Forse, se l'avessi ignorato, alla fine mi avrebbe ignorato anche lui e saremmo rimasti seduti in silenzio come il resto della classe. - E hai anche un buon profumo - aggiunse. - Si chiama doccia Avevo lo sguardo fisso davanti a me. Vedendo che non replicava, mi voltai e dissi: - Sapone. Shampoo. Acqua calda. - Nudi. Conosco la procedura. Aprii bocca per cambiare discorso, ma venni messa a tacere dalla campanella. - Via i libri - disse il coach da dietro la cattedra. - Ora vi distribuirò un questionano di preparazione al compito in classe di venerdì -. Si fermò davanti a me per distribuire i fogli. - Voglio quindici minuti di silenzio mentre rispondete alle domande. Poi parleremo del capitolo sette. Buona fortuna. Mi concentrai sulle prime domande, scrivendo meccanicamente perché conoscevo le risposte a memoria. Se non altro, il questionario mi teneva occupata la testa e metteva in attesa l'incidente della notte prima e la vocina che, nel subconscio, dubitava della mia sanità mentale. Mi fermai un attimo per muovere la mano alla quale era venuto un crampo, quando sentii che Patch si piegava verso di me. - Sembri stanca. Nottataccia? - sussurrò. - Ti ho visto in biblioteca Tenevo la matita ben salda sul foglio, come se davvero mi interessasse scrivere. La parte migliore della serata. Mi stavi seguendo? Rovesciò la testa indietro e rise sommessamente. Provai un altro approccio. - Cosa ci facevi li? - Prendevo un libro. Mi sentii addosso lo sguardo del coach, così mi rimisi al lavoro. Dopo aver risposto a una seconda serie di domande, diedi una rapida occhiata a sinistra. Con mia grande sorpresa, vidi che Patch mi guardava. E mi sorrideva. Il cuore fece una capriola. Quel sorriso insolitamente attraente mi aveva colto di sorpresa. Con mio grande disappunto, mi cadde la matita dalle mani, rimbalzò sul banco e cadde a terra. Patch si chinò a raccoglierla e me la porse, tenendola sul palmo della mano. La presi, facendo molta attenzione a non sfiorargli la pelle. - Dopo la biblioteca - bisbigliai - dove sei stato? - Perché? - Mi hai seguita? - Sembri un po' nervosa, Nora. Cos'è successo? -. Aggrottò le sopracciglia, ma io capii che quella preoccupazione era tutta scena, perché nei suoi occhi brillava un luccichio di scherno. - Mi segui? - Perché dovrei farlo? - Rispondi alla domanda. - Nora -. Il richiamo del coach tentò di riportarmi al compito, ma io non potevo fare a meno di ipotizzare la risposta di Patch. Eppure, una parte di me desiderava solo allontanarsi da lui. Dall'altra parte dell'aula. Dall'altra parte dell'universo. Poi il coach fischiò. - Tempo scaduto, fare passare i compiti. Per venerdì, aspettatevi delle domande simili. Allora... - si sfregò le mani, e quel rumore secco mi diede i brividi - passiamo alla lezione di oggi. Signorina Sky, vuole cimentarsi lei con l'argomento del giorno? - Sesso! - annunciò Vee. Smisi di ascoltare. Patch mi stava seguendo? Era suo il volto che si nascondeva dietro il passamontagna, ammesso che davvero ci fosse un volto dietro a un passamontagna? Che cosa voleva? In preda a un freddo improvviso, mi strinsi le braccia attorno al corpo. Volevo che la mia vita tornasse com'era prima che Patch ci piombasse dentro. Alla fine dell'ora, riuscii a fermarlo prima che uscisse. - Possiamo parlare? Era già in piedi, quindi si sedette sul bordo del banco. - Che cosa c'è? - So che non vuoi stare seduto accanto a me più di quanto io non voglia stare seduta accanto a te. Forse, se gli parli, il coach potrebbe valutare la possibilità di cambiarci di posto. Basta spiegargli il problema... - Il problema? - Che non siamo... compatibili. Lui si accarezzò la mascella, un gesto calcolato al quale mi ero abituata nonostante lo conoscessi da così poco tempo. - Davvero? - Non mi sembra la scoperta del secolo. - Quando il coach mi ha chiesto ciò che mi attira in una partner, ho parlato di te. - E tu rimangiati tutto. - Intelligente. Attraente. Vulnerabile. Non sei d'accordo? Il suo unico scopo era quello di infastidirmi, e saperlo non faceva che irritarmi di più. - Hai intenzione di chiedere al coach di cambiarci di posto o no? - No. Cominci a piacermi. Cos'avrei dovuto rispondere? Ovviamente stava cercando di provocare una reazione da parte mia. Il che non era difficile, visto che non riuscivo mai a capire quando scherzava e quando era sincero. Comunque cercai di rispondere con voce calma e composta. - Credo che ti troveresti molto meglio con qualcun altro. E credo che tu lo sappia -. Sorrisi, tesa ma educata. - Potrei rischiare di finire accanto a Vee -. Anche il suo sorriso era educato. - E non ho intenzione di sfidare la sorte. Vee scelse proprio quel momento per comparire dietro di noi. Il suo sguardo guizzava dall'uno all'altra. Interrompo qualcosa? - No - risposi, tirando con forza la chiusura dello zaino. - Stavo chiedendo a Patch dei compiti per domani. Non mi ricordo quali pagine ha assegnato il coach. - I compiti sono scritti sulla lavagna, come sempre disse Vee. - Difficile non vederli. Patch rise come se stesse seguendo un proprio pensiero, molto divertente. Ancora una volta, desiderai poter sapere che cosa gli passasse per la testa, perché ero sicura che avesse a che fare con me. - Devi dirmi altro, Nora? - chiese. - No - risposi. - Ci vediamo domani. - Non vedo l'ora E mi fece l'occhiolino. Appena Patch fu fuori portata d'orecchio, Vee mi prese per un braccio. - Buone notizie. Cipriano. È il suo cognome, l'ho letto sul registro. - E il motivo per cui stai sorridendo e che... - Lo sanno tutti che gli studenti sono obbligati a registrare in infermeria i farmaci prescritti dal medico -. Nel dirlo, toccò la tasca anteriore del mio zaino, dove tenevo le pastiglie di ferro. - Come tutti sanno che l'infermeria è vantaggiosamente situata all'interno della segreteria, dove, guarda caso, vengono archiviati i fascicoli degli studenti. Con lo sguardo che brillava, Vee mi trascinò verso la porta. - È ora di mettere in pratica il metodo investigativo. 5 Posso aiutarti? Mi costrinsi a sorridere alla segretaria, sperando dì non apparire disonesta quanto in realtà mi sentivo. - Mi hanno prescrivo un farmaco da prendere tutti i giorni e la mia amica... La voce mi rimase impigliata in quella parola e mi chiesi se, dopo quel giorno, avrei mal più avuto voglia di chiamare di nuovo Vee "la mia amica". -...La mia amica mi ha informato che sono tenuta a registrarlo in infermeria. Sa dirmi se è vero?-.Non potevo credere di essere lì per fare qualcosa di illegale. Ultimamente mi ero comportata in modo molto strano. Prima avevo raggiunto Patch in una losca sala giochi a un'ora in cui di solito stavo già sotto le coperte, adesso stavo per ficcare il naso nel suo fascicolo personale. Cosa c'era che non andava in me? No, cosa c'era che non andava in Patch, visto che. quando entrava in scena lui, io diventavo incapace di prendere una decisione sensata? - Oh. sì - disse solennemente la segretaria. - Bisogna registrare tutti i farmaci. L'infermeria e da quella parte, terza porta a sinistra, dì fronte all'archivio studenti -. Indicò il corridoio dietro di sé e aggiunse: - Se l'infermiera non c'è, accomodati pure e aspetta; dovrebbe tornare a momenti. Le rifilai un altro sorriso. Avevo davvero sperato che non cosi facile. Mentre mi avviavo lungo il corridoio, mi fermai diverse volte a guardarmi alle spalle. Nessuno. Sentii un telefono squillare in segreteria, ma sembrava provenire da un mondo a parte, lontano dal corridoio buio che stavo attraversando. Ero sola, libera di fare quel che volevo. Mi fermai davanti alla terza porta a sinistra. Feci un bel respiro e bussai, anche se era ovvio che la starna fosse vuota perché la luce era spenta. Spinsi la porta, che dopo un attimo di resistenza si apri cigolando su una stanzetta rivestita di piastrelle bianche e consumare. Rimasi un istante sulla soglia, in fondo sperando di veder comparire l'infermiera ed essere costretta a registrare le mie medicine e andarmene. Gettai una rapida occhiata dall'altra parte del corridoio, alla porta con la targhetta archivio studenti. Anche quella stanza era al buio. Concentrai la mia attenzione sul pensiero che mi tormentava. Patch sosteneva di non essere andato a scuola l’anno precedente. Io ero quasi sicura che stesse mentendo ma, se non era cosi, Patch avrebbe avuto un fascicolo? Ci sarebbe stato almeno l'indirizzo di casa, riflettei. E il certificato delle vaccinazioni, e sicuramente i voti dello scorso semestre. Una possibile sospensione di colpo sembrava un prezzo troppo alto da pagare in cambio di una sbirciatina all'elenco delle sue vaccinazioni. Mi appoggiai al muro e controllai l'orologio. Vee mi aveva ietto di aspettare il suo segnale e che sarebbe stato impossibile non notarlo. Grandioso. Il Telefono della segreteria squillò di nuovo e la segretaria ripose. Mordicchiandomi il labbro, lanciai un'altra occhiata alla porta dell'archivio, C'erano buone possibilità che fosse chiusa a chiave. Probabilmente i fascicoli degli studenti erano considerati riservati. In quel caso, non aveva importanza quale diversivo Vee si fosse inventata: se la porta era chiusa a chiave, non sarei riuscita a entrare. Spostai lo zaino sull'altra spalla. Passò un altro minuto e presi in considerazione l'idea di andar via... D'altro canto, però, se Vee avesse avuto ragione e Patch mi stesse seguendo, o spiando? In fondo ero sua tutor a biologia e frequentandolo avrei potuto correre dei rischi. Dovevo proteggermi... giusto? Se la porta fosse stata aperta e i fascicoli fossero stati archiviati in ordine alfabetico, avrei trovato in fretta quello di Patch. Aggiungendo un'altra manciata di secondi per cercare eventuali segnali di pericolo, avrei potuto entrare e uscire dalla stanza in meno di un minuto. Come non esserci mai stata. All'improvviso mi resi conto che la segreteria era immersa in un silenzio insolito. E di colpo Vee svoltò l'angolo e venne verso di me strisciando lungo la parete, guardandosi furtiva alle spalle. Sembrava la spia di un film in bianco e nero. - Tutto sotto controllo - sussurrò. - Cos'è successo alla segretaria? - Ha dovuto lasciare l'ufficio per qualche minuto. - Ha dovuto? Che cosa le hai fatto? - Niente, per questa volta- Grazie al cielo. - Ho annunciato un allarme bomba dal telefono qui fuori- ammise Vee. - La segretaria ha chiamato la polizia ed è corsa ad avvisare il preside. -Vee! Lei batté un dito sul polso. - Il tempo passa. E noi non vogliamo farci trovare qui dalla polizia, quando arriva. Ma davvero? Fissammo per un secondo la porta dell'archivio, poi Vee disse: - Spostati - e mi spinse da parte. Si copri la mano con la manica del maglione, quindi colpì il vetro della porta. Niente. - Era solo una prova - disse. Indietreggiò per riprovarci, ma io l'afferrai per un braccio. - Forse è aperta -. Girai la maniglia e la porta si apri. - Cosi però non è divertente - protestò Vee. Punti di vista. - Tu vai dentro, io sto di guardia - mi istruì Vee. - Se tutto va come previsto, ci vediamo tra un'ora al messicano all'angolo tra la Drake e la Beech -. Quindi si acquattò di nuovo contro il muro e tornò indietro. Prima che la coscienza potesse convincermi a non farlo, entrai. chiusi la porta e mi ci appoggiai con la schiena. Feci un respiro profondo e corsi verso gli schedari. Facendo scorrere il dito sui cassetti, trovai quello contrassegnato dalle lettere car-cuv. Tirai forte e lo schedario si apri con un rumore metallico. Le etichette dei fascicoli erano scritte a mano, e mi chiesi se la Coldwater High fosse l'ultima scuola del paese a non usare il computer. I miei occhi si fermarono sul nome Cipriano. Estrassi il fascicolo e lo tenni in mano un attimo, cercando di convincermi che non era poi cosi sbagliato. C'erano informazioni riservate? Be', come compagna di banco di Patch, avevo il diritto di conoscerle. Fuori, il corridoio si riempi di voci. Aprii la cartelletta con un movimento maldestro e sussultai. Non aveva alcun senso. Le voci si avvicinavano. Ficcai il fascicolo in un posto a caso e spinsi il cassetto. Poi mi voltai e mi paralizzai. Dall'altra parte del vetro, il preside si fermò con un piede a mezz'aria e gli occhi fissi su di me. Di qualsiasi argomento stesse discutendo con gli altri, verosimilmente dei grandi giocatori entrati a far parte del corpo docente della scuola, si fermò. - Scusate un attimo gli sentii dire. Il gruppo continuò a correre verso l'uscita senza di lui. Apri la porta. - Gli studenti non sono autorizzati a entrare qui. - Mi scusi tanto, sto cercando L'infermeria. La segretaria ha detto terza porta a destra, ma credo di aver contato male... - dissi con l'aria smarrita e le mani alzate. - Mi sono persa. Prima che avesse il tempo di rispondere, aprii lo zaino. – Devo registrare queste. Pastiglie di ferro, sono anemica spiegai. Mi studiò per un momento, la fronte corrugata. Stava soppesando le due possibilità: restare e occuparsi di me, oppure occuparsi dell'allarme bomba. Mosse di scatto il mento in direzione della porta. - Esci immediatamente dall'edificio. Tenne la porta spalancata, mentre io mi chinavo per passare sorto il suo braccio. Ogni traccia di sorriso era sparita dalla mia faccia. Un'ora dopo m'infilavo nel ristorante messicano tra la Drake e la Beech. Sul muro accanto a me erano appesi un cactus di ceramica e un coyote imbalsamato. Un uomo con un sombrero, che lo faceva apparire più largo che alto, girava per il locale strimpellando la chitarra e riuscì a farmi una serenata mentre la cameriera mi porgeva il menu. Aggrottai la fronte. Sulla copertina del menu lessi il nome del ristorante. Borderline. Non avevo mai mangiato li prima di allora, eppure mi suonava familiare. Vee comparve dietro di me e si lasciò cadere nel posto di fronte, mentre un cameriere la seguiva a ruota. Quattro chimichangas, doppia razione di panna acida, un contorno di nachos e uno di fagioli neri - gli disse senza neanche consultare il menu. - Un burrito - dissi io. - Conti separati? - Io non pago per lei - dicemmo io e Vee all'unisono. - Quattro chimichangas. Non vedo l'ora di sentire cos'hanno a che fare con la frutta - dissi quando il cameriere si fu allontanato. - Non cominciare. Sto morendo di fame, non mangio dall'ora di pranzo -. Fece una brevissima pausa e aggiunse: - Non devi contare le caramelle, perché io non le considero. Vee è una bionda voluttuosa e nordica, incredibilmente sexy in modo del tutto non banale. Ci sono stati momenti in cui solo l'amicizia mi ha impedito di essere gelosa. L'unica cosa mia che può competere con lei sono le gambe, e forse il metabolismo. Sicuramente non i capelli. - È meglio che si sbrighi a portare le patatine - brontolò Vee. - Mi verrà l'orticaria se non mangio qualcosa di salato entro quarantacinque secondi. - Nella salsa ci sono i pomodori - le feci notare. - Che sono rossi. E l'avocado è un frutto, credo. Si illuminò. - E poi ordineremo dei daiquiri analcolici. Alla fragola. Vee aveva ragione. Quella dieta era facile. - Torno subito - disse, scivolando fuori dalla panca. - Ho le mie cose. E dopo, voglio le notizie esclusive. Mentre l'aspettavo, mi ritrovai a osservare un aiuto cameriere. Passava lo straccio su un tavolo a pochi metri da me e c'era qualcosa di familiare nel modo in cui si muoveva, nel modo in cui la camicia gli ricadeva sulla schiena ben disegnata. Quasi sospettasse di essere osservato, si raddrizzò e si voltò, fissandomi negli occhi. In quell'istante capii che cosa c'era di familiare in lui. Patch. Non riuscivo a crederci. Mi sarei data una sberla sulla fronte perché lui me l'aveva anche detto: lavorava al Borderline. Si asciugò le mani sul grembiule e sì avvicinò. Sembrava divertito dal mio imbarazzo. Mi guardai intorno, cercando una via di fuga, sapendo che potevo solo sprofondare li dov'ero. - Bene, bene - disse. - Cinque giorni la settimana non ti bastano? Vuoi regalarmi anche una serata? - Chiedo scusa per la sfortunata coincidenza. Patch scivolò al posto di Vee e appoggiò le braccia davanti a sé. Erano talmente lunghe da oltrepassare la metà del tavolo. Prese il mio bicchiere e se lo rigirò tra le mani. - Quel posto è occupato - annunciai. Visto che non rispondeva, mi ripresi il bicchiere e bevvi un sorso d'acqua, inghiottendo per sbaglio un cubetto di ghiaccio che andò giù con un bruciore spaventoso. - Non dovresti lavorare invece di familiarizzare con i clienti? - dissi mentre mi strozzavo. Sorrise. - Che fai domenica sera? Sbuffai. Ma non avevo intenzione di farlo. - Mi stai chiedendo di uscire? - Stai diventando sicura di te. Mi piace, angelo. - Quello che ti piace non mi interessa. Non esco con te. Non da soli -. Avrei voluto prendermi a calci per aver provato un fremito alla sola idea di quel che avrebbe potuto succedere in una serata con Patch, da sola. Anche perche, molto probabilmente, lui non voleva davvero un appuntamento. Molto probabilmente mi stava punzecchiando per ragioni note solo a lui. - Aspetta un secondo, mi hai appena chiamata angelo? - E se fosse? - Non mi piace. Sorrise. - Allora è deciso. Angelo. Si sporse verso di me, avvicinò una mano al mio viso e mi sfiorò l'angolo delle labbra con il pollice. Mi tirai indietro. Troppo tardi, però. Strofinò il pollice, su cui era rimasta una traccia di lucidalabbra, sull'indice. - Staresti meglio senza. Cercai di ricordare di cosa stessimo parlando, ma soprattutto cercai di non mostrare quello che aveva provocato il contatto con la sua mano. Gettai indietro i capelli e ripresi il filo del discorso. - Comunque, non ho il permesso di uscire se il giorno dopo c'è scuola. - Peccato. C'è una festa sulla costa. Pensavo che potessimo andarci -. Sembrava sincero. Non riuscivo a capirlo. Per niente. La sensazione che avevo provato qualche minuto prima fremeva ancora nel mio corpo, così bevvi un lungo sorso di acqua gelata, sperando di farla sbollire. Restare da sola con Patch sarebbe stato intrigante, e pericoloso. Non avrei saputo dire esattamente in che modo, ma mi fidavo del mio istinto. Simulai uno sbadiglio. - Be', come ho già detto lunedì c'è scuola -. Nella speranza di convincere più me che lui, aggiunsi: - Se questa festa ti interessa davvero, posso garantirti che non ci sarò. «Ecco» pensai. «Il caso è chiuso.» E poi, senza che la frase transitasse per un secondo nella mia mente, dissi: - E comunque, perché vuoi uscire con me? Fino a quell'istante, mi ero ripetuta fino allo sfinimento che non mi importava cosa Patch pensasse di me. In quell'istante, invece, capii che avevo mentito. Sarebbe diventata la mia ossessione? Pazienza. Ero tanto affascinata da Patch che sarei andata con lui ovunque. - Voglio stare solo con te - rispose Patch. Ce n'era abbastanza per tornare sulle difensive. - Senti, Patch. Non voglio essere scortese, ma... - Certo che lo vuoi. - Hai iniziato tu! -. Fantastico. Una reazione molto matura. - Non posso venire alla festa. Fine della storia. - Perché non puoi o perché non vuoi restare sola con me? - Tutt'e due - mi lasciai sfuggire. - Hai paura di tutti i ragazzi... o solo di me? Alzai gli occhi al cielo, come a dire: «Non ho intenzione di rispondere a una domanda cosi stupida»». - Ti metto a disagio? -. Aveva un'espressione neutra, che però nascondeva un sorrisetto. Si, era esattamente quello l'effetto che mi faceva. Oltre a eliminare ogni pensiero razionale dalla mia mente. - Mi dispiace - dissi. - Di cosa stavamo parlando? - Di te. - Di me? - Della tua vita. Risi, indecisa su come proseguire la conversazione. - Se stiamo parlando di me... e dell'altro sesso... Vee mi ha già fatto un bel discorsetto. Non ho bisogno di sentirlo due volte. - E che cosa ti ha detto la vecchia e saggia Vee? Non riuscivo a tenere ferme le mani, cosi le feci scivolare sotto il tavolo. - Non riesco davvero a capire perché sei tanto interessato... Lui scosse leggermente il capo. - Interessato? Stiamo parlando di te. Sono affascinato -. Sorrise, un sorriso fantastico. Il cuore iniziò a galopparmi nel petto. - Credo che dovresti tornare al lavoro - dissi. - Per quel che vale, mi piace l'idea che non ci sia nemmeno un ragazzo, in tutta la scuola, all'altezza delle tue aspettative. - Avevo dimenticato che, per quanto riguarda le mie aspettative, tu sei un'autorità - lo punzecchiai. Mi guardò in un modo che mi fece sentire trasparente. - Tu non sei diffidente, Nora, e neanche timida. Hai solo bisogno di un'ottima ragione per scomodarti a conoscere qualcuno. - Non voglio più parlare di me. - Tu credi di aver capito tutto di tutti. - Non è vero - obiettai. - Per esempio, be', di te non so molto... - Non sei pronta per conoscermi. Non era una frase detta con leggerezza. Il suo tono era affilato come un rasoio. - Ho guardato nel tuo fascicolo. Le mie parole rimasero sospese in aria un momento prima che gli occhi di Patch tornassero a fissare i miei. Sono abbastanza sicuro che sia illegale - disse. - Era vuoto. Niente. Neanche un certificato medico. Non fece nemmeno finta di sembrare sorpreso. Sì mise comodo, gli occhi di ossidiana scintillante. - E me lo stai dicendo perché hai paura che diffonda qualche malattia? Tipo il morbillo o gli orecchioni? - Te lo sto dicendo perché voglio che tu sappia che ho capito che c'è qualcosa in te che non va. Non sci riuscito a imbrogliare tutti. Scoprirò che cosa hai in mente. Ti scoprirò, sul serio. - Non vedo l'ora. Arrossii, cogliendo troppo tardi il doppio senso. Alzai gli occhi oltre la testa di Patch e vidi Vee che si avvicinava, zigzagando tra i tavoli. - Sta tornando Vee, devi andartene. Rimase seduto a scrutarmi, assorto. - Perché mi guardi in quel modo? - lo sfidai. Si piegò in avanti, pronto ad alzarsi. - Perché non sei affatto come credevo. - Neanche tu - ribattei. - Tu sei molto peggio. 6 La mattina dopo, con mia grande sorpresa, vidi arrivare Elliot per la prima ora di educazione fisica, proprio al suono dell'ultima campanella. Indossava un paio di bermuda, una felpa della Nike e un paio di scarpe da basket dall'aria nuova e costosa. Consegnò un foglietto alla professoressa Sully e mi cercò con lo sguardo, quindi mi fece un cenno con la mano e mi raggiunse sulle gradinate. - Mi chiedevo quando ci saremmo incontrati di nuovo disse. - La segreteria si è accorta che negli ultimi due anni non ho frequentato educazione fisica: nelle scuole private non è obbligatoria. Ora stanno cercando di capire come farmi recuperare gli anni persi e comprimere quattro anni d'insegnamento nei prossimi due. Quindi, eccomi qua: educazione fisica alla prima e alla quarta ora, tutti i giorni. - Non mi hai ancora detto perche ri sei trasferito qui. - Ho perso la borsa di studio e i miei non possono permettersi la retta. La professoressa Sully soffiò nel fischietto. - Intuisco che il fischietto voglia dire qualcosa - mi disse Elliot. - Dieci giri di palestra, senza cagliare gli angoli -. Mi alzai dalle gradinare. - Sei uno sportivo? Elliot scattò in piedi e si mise a saltellare, tirando dei pugni all'aria. Terminò con un montante che si fermò a un pelo dal mio mento. Ridendo, rispose: - Sportivo? Fino al midollo. - Allora apprezzerai l'idea di divertimento della prof. Elliot e io corremmo i dieci giri insieme, poi uscimmo. Una nebbia spettrale mi bloccò il respiro, facendomi quasi soffocare. Dal ciclo scendevano gocce di pioggia, provenienti da un temporale che cercava disperatamente di piombare sulla città di Coldwater. Guardai speranzosa le porte della palestra, anche se sapevo che era inutile: la professoressa Sully era un osso duro. - Ho bisogno di due capitani per la partita di softball gridò. - Forza, movetevi, fatemi vedere qualche mano alzata! É meglio che vi offriate volontari, altrimenti le squadre le faccio io e sapete che non sempre agisco lealmente. Elliot alzò la mano. - Bene - gli disse lei. - Vieni qui, alla casa base. E che ne pensate di... Marcie Millar come capitano della squadra rossa? Marcie fulminò Elliot con lo sguardo. - Fatti sotto. - Elliot, a te la prima scelta - lo invitò la prof. Con la mano poggiata sul mento, Elliot esaminò la classe, come se stesse valutando le nostre capacità di battitori e ricevitori al primo sguardo. - Nora - disse. Marcie gettò indietro la testa e rise. - Grazie - sibilò a Elliot. sfoderando un sorriso tossico che, per ragioni a me imperscrutabili, incantava l'altro sesso. - Per cosa? - Per averci servito la partita su un piatto d'argento -. Marcie puntò il dito verso di me. - Ci sono almeno un centinaio di ottimi motivi che spiegano perché io sono una cheerleader e Nora no. Innanzi tutto la coordinazione. Le lanciai uno sguardo di fuoco, poi andai a piazzarmi accanto a Elliot sventolando una maglia blu. - Nora e io siamo amici -. Elliot era calmo, quasi freddo. Si trattava di un'affermazione esagerata, ma non avevo intenzione di correggerlo. Marcie aveva l'aria di una a cui avevano appena tirato una secchiata d'acqua ghiacciata e la cosa mi piaceva da matti. - Perché non hai conosciuto di meglio.Me, per esempioMarcie si rigirò una ciocca di capelli tra le dita poi aggiunse: - Marcie Millar. Saprai tutto dì me molto presto -. E poi, a meno che non si trattasse di un tic nervoso, gli c'esce l'occhiolino. Elliot non mosse un muscolo e il mio indice di gradimento nei suoi confronti sfrecciò verso l'alto. Conoscevo ragazzi che per molto meno sarebbero caduti in ginocchio supplicandola di rivolgergli la parola. - Vogliamo rimanere qui tutta la mattina e aspettare che arrivi la pioggia, oppure ci mettiamo al lavoro? - chiese la professoressa Sully. Una volta formate le squadre. Elliot ci condusse in panchina e stabili l'ordine di battuta. Mi diede una marza, mi calcò la maschera in testa e disse: - Tu sei la prima, Grey. Ci serve una battuta valida. Feci roteare la mazza, tanto per prendere confidenza, e per un pelo non lo colpii. - Ma io ero in vena di un fuori campo -replicai. - Faremo anche quelli -. Mi accompagnò fino alla casa base. - Fai un passo verso la palla che arriva e colpisci. Misi la mazza in equilibrio sulla spalla e pensai che forse avrei dovuto fare più attenzione ai campionati. Okay, forse avrei dovuto almeno guardarli. La maschera mi scivolò sugli occhi e cosi la tirai su, cercando di calcolare la grandezza del diamante, confuso sotto spaventose volute di nebbia. Marcie Millar prese posto sulla pedana del lanciatore. Teneva la palla davanti a se, e notai che teneva il dito medio alzato; guarda caso, nella mia direzione. Ci delirio con un altro dei suoi sorrisi tossici e lanciò. Presi la palla di striscio spedendola nella terra battuta, dal lato sbagliato della linea di foul. - Strike! - gridò la professoressa Sully dalla sua postazione, tra la prima e la seconda base. Elliot urlò dalla panchina: - Questa era a effetto, e parecchio. Lanciagliene una pulita! -. Ci misi un attimo per capire che stava parlando a Marcie e non a me. La palla si staccò di nuovo dalla mano di Marcie, tracciando un arco nel cielo cupo. La mancai completamente. - Secondo strike -. La voce di Anthony Amodio arrivò attra verso la maschera da ricevitore. Cercai di ucciderlo con lo sguardo. Scesi dalla base e feci roteare ancora la mazza. Quasi non mi accorsi che Elliot mi aveva raggiunta e stava dietro di me. Mi mise le braccia intorno al corpo e sistemò le mani sulla mazza, accanto alle mie. - Guarda, ti faccio vedere - mi sussurrò all'orecchio. Cosi. Rilassati. Ora ruota i fianchi... è tutta una questione di fianchi. Mi sentii avvampare sotto gli occhi dell'intera classe. - Credo di aver capito, grazie. - Ehi, andate a farlo da un'altra parte! - ci gridò Marcie. Tutti i giocatori risero. - Se tu facessi un lancio decente, - replicò Elliot - lei colpirebbe la palla. - Il mio lancio non ha niente che non va. Neanche la sua battuta -. Elliot abbassò la voce e si rivolse solo a me. - Smetti di guardarla appena lei lancia la palla. I suoi tiri non sono puliti, quindi devi concentrarti solo sulla palla. - State tenendo fermo il gioco - gridò la professoressa. Proprio in quell'istante, qualcosa nel parcheggio attirò la mia attenzione. Mi sembrò di aver sentito chiamare il mio nome. Mi voltai, anche se sapevo che il mio nome non era stato pronunciato a voce alta, ma bisbigliato nella mia mente. «Nora.» Patch indossava un cappellino da baseball blu sbiadito ed era appoggiato alla recinzione. Niente giacca, nonostante il tempo. Vestito di nero da capo a piedi. Mi guardava con occhi opachi e inaccessibili. Nascondevano qualcosa, ne ero sicura. Poi un'altra serie di parole si insinuò nella mia mente. «Lezioni di softball? Ottima... presa.» Feci un bel respiro per ritrovare la calma e mi convinsi di averle solo immaginate. Perché l'alternativa era prendere in considerazione il fatto che Patch potesse insinuarsi nella mia mente. Il che era impossibile. Assolutamente impossibile. A meno che non stessi delirando, il che mi spaventava ancora più dell'idea che Patch, dopo aver sovvertito le normali regole della comunicazione, fosse in grado di parlare con me quando gli pareva e senza nemmeno aprire bocca. - Grey! Attenta al gioco! Sbattei le palpebre, risvegliandomi di scatto appena in tempo per vedere la palla che sfrecciava in aria verso di me. Mi mossi, ma poi sentii nella testa altre due parole. «Non... ancora.» Mi fermai, aspettando che la palla si avvicinasse. Disegnò una parabola in aria e, non appena iniziò a scendere, mi mossi verso la base e mulinai le braccia con tutta la forza che avevo. Poi si senti un rumore fortissimo e la mazza vibrò nelle mie mani. La palla filò verso Marcie che cadde sul sedere, quindi s'infilò tra l'inrerbase e la seconda base per rimbalzare nel campo esterno. - Corri! - mi gridò la squadra dalla panchina. - Corri, Nora! Corsi. Molla la mazza! - urlarono. La gettai da una parte. - Fermati in prima base! Non lo feci. Pestando un angolo della prima base, le girai intorno e scattai verso la seconda. L'esterno sinistro aveva già raccolto la palla ed era nella posinone giusta per lanciare in seconda ed eliminarmi. Io abbassai la testa, mi aiutai nella corsa muovendo energicamente le braccia e cercai di ricordarmi come facevano i giocatori professionisti che vedevo in Tv a toccare la base in scivolata. Di testa? Di piedi? Con una capriola, magari? La palla parti in direzione del difensore della seconda base, filando come un razzo al margine del mio campo visivo. Dalla panchina, un coro eccitato continuava a urlare: - Scivola! - ma lo non avevo ancora deciso se toccare la base con i piedi o con le mani. Il difensore della seconda base intercettò la palla. Mi tuffai a terra, a braccia tese. Dal nulla, mi trovai in faccia il guantone, con il suo forte odore di pelle. Mi accasciai al suolo, la bocca piena di polvere. - È fuori! - gridò la professoressa. Rotolai da una parte e feci l'inventario dei danni. Avevo una strana sensazione di bruciore alle cosce, un misto di caldo e freddo; mi tirai su i pantaloni della tura e mi trovai davanti una scena che descrivere come il campo di battaglia di due parti selvatici era un eufemismo. Zoppicando, raggiunsi la panchina e mi accasciai. - Forte - disse Elliot. - L'acrobazia o la gamba distrutta? -. Piegai il ginocchio contro il petto e, delicatamente, cercai di togliere quanto più terriccio possibile. Elliot si piegò di lato e mi soffiò sul ginocchio. Il grosso della polvere volò via. Seguì un momento di silenzio. - Riesci a camminare? - chiese. Mi alzai in piedi e gli feci vedere che, nonastante la gamba fosse piena di graffi e terriccio, era a posto. - Posso accompagnarti in infermeria, se vuoi- Per farti disinfettare - disse. - Sto bene, davvero -. Diedi un'occhiata alla recinzione, nel punto in cui avevo visto Patch. Non c'era più. - Era il tuo ragazzo quello che guardava dalla recinzione? -chiese Elliot. Fui sorpresa che avesse notato Patch, visto che gli dava le spalle. - No - risposi. - È soltanto un amico, anzi, veramente neanche quello. È il mio compagno di banco a biologia. - Sei arrossita. - Sarà stato il vento. La voce di Patch mi risuonava ancora in testa. II cuore prese a battermi più forte, ma, cosa ancora più strana, mi si era gelato il sangue nelle vene. Patch aveva parlato direttamente alla mia mente? C'era un legame inspiegabile fra noi che permetteva che ciò accadesse? Oppure stavo diventando pazza? In ogni caso, non avevo convinto Elliot. - Sei sicura che non ci sia niente tra di voi? Non voglio correre dietro a una ragazza non disponibile. - Niente -. Non permetterò che ci sia niente. Un momento. Cos'aveva detto Elliot? - Scusa? - dissi. Lui sorrise. - Sabato sera riapre il Delphic Seaport e Jules e io stavamo pensando di andarci. Il tempo non dovrebbe essere brutto. Tu e Vee avete voglia di venire? Mi presi un attimo per riflettere sul suo invito. Ero abbassa sicura che, se avessi rifiutato, Vee mi avrebbe uccisa. Inoltre, uscire con Elliot poteva essere un buon sistema per sfuggire alla sgradevole attrazione esercitata da Patch. - Sembra un bel programma - risposi. 7 Era sabato sera, Dorothea e io eravamo in cucina. Dopo aver infilato una pirofila nel forno, stava esaminando un elenco di cose da fare che mia madre aveva lasciato attaccato al frigo. - Ha chiamato tua madre. Non assicura di riuscire a essere a casa prima di domenica sera - disse mentre strofinava il lavello della cucina con un vigore tale da farmi venire male al gomito solo a guardarla. - Ha lasciato un messaggio in segreteria. Vuole sentirti. L'hai chiamata tutte le sere prima di andare a dormire? Ero seduta su uno sgabello e stavo mangiando un panino imburrato. Avevo appena addentato un boccone enorme e ora Dorothea mi guardava come se volesse una risposta. Subito. - Mmm... mmm - mugugnai facendo sì con la testa. - Oggi è arrivata una lettera dalla scuola -. Indicò con il mento la posta accatastata sul piano di lavoro. - Come mai? Mi strinsi nelle spalle con aria innocente e risposi: - Non ne ho idea -. Invece ce l'avevo eccome. Dodici mesi prima avevo aperto la porta di casa e mi ero trovata di fronte la polizia. «Abbiamo cattive notizie» avevano detto. Il funerale di mio padre era stato la settimana dopo. Da allora, ogni lunedì pomeriggio, mi ero presentata nello studio del dottor Hendrickson, lo psicologo della scuola, all'orario stabilito. Avevo saltato le ultime due sedute e, se non avessi fatto ammenda entro quella settimana, sarei stata nei guai. Probabilmente si trattava di una lettera di richiamo. - Hai programmi per stasera? Tu e Vee avete in mente qualcosa, magari di vedere un film qui a casa? - Forse. Senti, Dorothea, posso pulirlo io il lavello. Più tardi. Vieni a sederti con me e prendi meta panino. Lo chignon grigio di Dorothea cominciava a subire le conseguenze dello strofinamento, iniziando a franare. - Domani vado a una conferenza - disse. - A Portland. Parlerà la dottoressa Melissa Sanchez; dice che bisogna pensare a noi stesse come a delle noi stesse sexy. Gli ormoni sono medicine formidabili. E se non gli diciamo noi che cosa vogliamo, loro ci si ritorcono contro -. Dorothea si voltò e mi puntò contro il flacone del detergente. - Ora io mi sveglio la mattina, prendo il rossetto e scrivo sullo specchio «Sono sexy. Gli uomini mi vogliono. Sessantacinque sono i nuovi venticinque». - E funziona? - chiesi, sforzandomi di non sorridere. - Sta funzionando - rispose seria Dorothea. Mi leccai il burro dalle dita. - Quindi passerai il fine settimana a reinventare il tuo lato sexy. - Tutte le donne hanno bisogno di reinventarsi il lato sexy. Mi piace. Mia figlia è stata dal chirurgo plastico. Dice che l'ha fatto per se stessa, ma quale donna si rifà le tette per se stessa? Sono un tale peso! Se l'è rifatte per un uomo. Spero che tu non faccia mai cose stupide per un ragazzo, Nora - mi minacciò agitando il dito. - Credimi, Dorth, non ci sono ragazzi nella mia vita -. Okay, forse ce n'erano un paio appostati all'orizzonte, che mi ronzavano attorno da lontano, ma visto che non conoscevo bene nessuno dei due, e uno mi spaventava a morte, mi sembrava più sicuro chiudere gli occhi e far finta che non esistessero. - Questa è una cosa buona e una cosa cattiva sentenziò Dorothea. - Se trovi il ragazzo sbagliato, trovi guai. Se trovi il ragazzo giusto trovi l'amore -. Poi si abbandonò ai ricordi e la sua voce si addolcì. - Quando ero giovane, in Germania, ho dovuto scegliere tra due ragazzi. Uno era un ragazzo molto cattivo. L'altro era il mio Henry e siamo felicemente sposati da quarantun anni. Era arrivato il momento di cambiare argomento. - Come sta, mmm... il tuo figlioccio... Lionel? Mi scrutò. - Ti interessa il piccolo Lionel? - Noooo. - Posso indagare... - No, Dorothea, davvero. Grazie, ma in questo periodo penso solo ai miei voti. Voglio andare in un ottimo college. - Semmai in futuro... - Te lo farò sapere. Finii il panino con il chiacchierio monotono di Dorothea in sottofondo, intervenendo con alcuni cenni del capo o degli "a-ah" ogni volti che smetteva di parlare facendomi capire di aspettarsi una risposta. In realtà, stavo riflettendo su quanta voglia avessi davvero di incontrare Elliot quella sera. All'inizio era sembrata un'idea grandiosa. Più ci pensavo, però, più dubbi si insinuavano nella mia mente. Innanzitutto, conoscevo Elliot solo da un paio di giorni. Non sapevo come l'avrebbe presa mia madre. Si stava tacendo tardi e Delphic era almeno a mezz'ora di strada. E durante il fine settimana quel posto aveva fama di essere un delirio. Squillò il telefono e sul display comparve il numero di Vee. - Facciamo qualcosa stasera? - chiese. Aprii la bocca, soppesando bene la risposta. Una volta detto a Vee dell'invito di Elliot, non si poteva più tornare indietro. Lei cacciò un urlo. - Oh cavoli! Oh cavoli, cavoli, cavoli! Ho rovesciato lo smalto per le unghie sul divano. Aspetta, vado a prendere un fazzoletto. Lo smalto e idrosolubile? -. Tornò dopo pochi minuti. - Credo di aver rovinato il divano. Dobbiamo uscire stasera, non voglio esserci quando scopriranno la mia ultima opera d'arte involontaria. Nel frattempo, Dorothea si era spostata in bagno. Non avevo proprio voglia di passare la serata ascoltando i suoi brontolii sui rubinetti, così presi una decisione. - Che ne pensi del Delphic Seaport? Elliot e Jules ci vanno e hanno chiesto se li raggiungiamo. - E me lo dici solo adesso? Queste sono informazioni fondamentali! Vengo a prenderti tra quindici minuti -. Dopodiché, silenzio. Andai di sopra e indossai un pesante maglione di cachemire bianco, un paio di jeans scuri e dei mocassini blu. Mi sistemai i capelli intorno al viso usando le dita e... voilà! Dei ricci abbastanza decenti. Feci un passo indietro per controllare l'effetto nello specchio: una via di mezzo tra il disinvolto e il quasi sexy. Quindici minuti dopo, puntualissima, l'auto di Vee entrava sobbalzando nel vialetto; un secondo dopo, la mia amica si attaccò al clacson. Io impiegavo dieci minuti a percorrere il tragitto tra le nostre case, e di solito facevo attenzione al limite di velocità. Vee capiva la parola velocità, mentre limite non faceva parte del suo vocabolario. Il che spiegava come mai fosse già lì. - Vado al Delphic Seaport con Vee - gridai in direzione del bagno. - Se chiama mia madre, ti spiace riferirle il messaggio? Dorothea caracollò fuori dalla stanza. - Fino a Delphic? Così tardi? - Divertiti alla conferenza! - dissi, scappando via prima che lei riuscisse a protestare o a telefonare a mia madre. Vee aveva raccolto i capelli in una coda, dalla quale sfuggivano dei grossi riccioli. Due cerchi dorati alle orecchie. Rossetto color ciliegia. Mascara nero. - Ma come fai? - le chiesi. - Hai avuto al massimo cinque minuti per prepararti. - Sempre pronta! - esclamò Vee con un gran sorriso. - Sono il sogno di ogni boy scout -. Quindi mi squadrò da capo a piedi. - Che c'è? - dissi. - Dobbiamo uscire con dei ragazzi, stasera. - Per quanto ne so, si. - Ai ragazzi piacciono le ragazze che sembrano... ragazze. Sollevai le sopracciglia. - Perché, io cosa sembro? - Sembri una che è uscita dalla doccia convinta di aver fatto tutto il necessario per apparire presentabile. Non fraintendermi: i vestiti vanno bene e anche i capelli, ma il resto... Tieni -. Infilò la mano nella borsa. -Ti presto il rossetto, solo perché sei mia amica. E anche il mascara, ma solo se mi giuri di non avere malattie contagiose agli occhi. - Non ho nessuna malattia agli occhi! - Tanto per essere sicura. - Comunque, no grazie. Vee restò a bocca aperta, un po' per gioco e un po' sul serio. - Non ti senti nuda senza? - Be', proprio l'effetto che vorresti tu, no? In tutta onestà, non ero sicura che uscire struccata fosse un bene. E non perché mi sentissi nuda, ma perché era stato Patch a mettermi quell'idea in testa. Tentai di giustificarmi dicendo a me stessa che né la mia dignità né il mio orgoglio erano a rischio. Mi avevano dato un suggerimento e io, essendo di mente aperta, avevo provato a seguirlo. Quel che non volevo ammettere era che, per sperimentarlo, avevo scelto apposta una sera in cui non avrei incontrato Patch. Mezz'ora dopo, Vee superò i cancelli del Delphic Seaport. Fummo costrette a lasciare l'auto in fondo al parcheggio, perché c'era sempre un sacco di gente il primo fine settimana di apertura. Incastonato proprio sulla costa, Delphic non è famosa per il clima mite. Infatti, non appena Vee e io ci incamminammo verso la cassa, prese a soffiare un vento basso, che incollava le buste di popcorn e le carte di caramelle alle caviglie. Gli alberi avevano perso le foglie da tempo ormai, e i rami incombevano su di noi come braccia disarticolate. Durante l'estate il Delphic Seaport offriva un animato parco divertimenti, feste in maschera. chiromanti, musicisti gitani e uno spettacolo con fenomeni da baraccone. Non riuscivo mal a capire se quelle stranezze umane fossero vere o trucchi da illusionista. - Un biglietto, per favore - dissi alla donna alla cassa. Lei prese il denaro e fece scivolare un braccialetto sotto lo sportello. Poi sorrise, mostrando dei denti da vampiro di plastica imbrattati di rossetto. - Buon divertimento - mormorò. - E non dimenticate di provare il nostro otto volante completamente rimodernatoBatté sul lato della finestra, indicando una pila di cartine del parco e un volantino pubblicitario. Presi una copia di entrambi e mi avviai ai tondelli. Il volantino diceva: PARCO DIVERTIMENTI DI DELPHIC! ULTIMA ATTRAZI0NE L'ARCANGELO RIMODERNATO E RINNOVATO! PROVATE L'EBBREZZA DI UN VOLO A 30 METRI D'ALTEZZA Vee lesse il volantino e per poco non mi perforò il braccio con le unghie. - Dobbiamo farlo assolutamente! - strillò. - Per ultimo - dissi, sperando che, dopo aver facto il giro di tutte le altre attrazioni, si sarebbe dimenticata di quella. Da anni ormai non avevo più paura dell'altezza, forse perche l'avevo sempre saggiamente evitata. Non ero certa che fosse arrivato il momento di scoprire se il tempo aveva guarito quella debolezza. Dopo l'autoscontro, un giro sul Tappeto Volante e diverse bancarelle di giochi vari, Vee e io decidemmo che era ora di cercare Elliot e Jules. - Mmm - disse Vee, guardando da una parte e dall'altra del vialetto che girava intorno al parco. Restammo in silenzio per un momento, quindi proposi: - La sala giochi. Ottima idea. Avevamo appena oltrepassato la soglia della sala giochi quando lo vidi. Non Elliot, né Jules. Patch. Alzò lo sguardo dal videogame con cui stava giocando. Lo stesso cappellino da baseball che indossava durante la mia partita di softball gli schermava parte del viso, ma io ero sicura di aver visto un sorriso. Sembrava amichevole, ma poi mi ricordai di come era entrato nei miei pensieri e mi si gelò il sangue. Sperai che Vee non l'avesse visto. Così la guidai tra la folla in modo che Patch restasse fuori dal suo campo visivo. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era che si impuntasse per andare da lui a fare conversazione. - Eccoli là! - disse Vee agitando il braccio. - Jules! Elliot! Siamo qui! - Buonasera, signore - disse Elliot, facendosi largo tra la folla. Jules lo seguiva, entusiasta come un bambino trascinato dal dottore. - Posso offrirvi una Coca?' - Grazie - disse Vee guardando Jules. - Per me una Diet. Con la scusa di dover andare in bagno, Jules si eclisso. Cinque minuti dopo, Elliot era tornato. Dopo averci offerto le bibite, si fregò le mani e abbracciò la sala con lo sguardo. - Da dove cominciamo? - E Jules? - chiese Vee. - Ci troverà. - Carambole! - proposi immediatamente. Quel gioco si trovava dall'altra parte della sala: più eravamo lontani da Patch, meglio era. Continuavo a ripetermi che era li per caso, ma il mio istinto non era d'accordo. - Oh, guarda! - intervenne Vee. - Un tavolo da biliardino! Jules e io contro voi due. Chi perde paga la pizza. - D'accordo - disse Elliot. Non avrei avuto nulla contro il biliardino, se solo il tavolo non fosse stato a pochi passi dai videogame e da Patch. Mi imposi di ignorarlo. Bastava dargli le spalle, e non mi sarei nemmeno accorta che era lì. E magari nemmeno Vee se ne sarebbe accorta. - Ehi, Nora, ma quello non è Patch? - disse invece. - Mmm? - feci con aria innocente. Allora lo indicò. - Là. È lui, no? - Ne dubito. Allora Elliot e io siamo i bianchi? - Patch è il compagno di banco di Nora a biologia - spiegò Vee a Elliot. Mi strizzò l'occhio, ma appena Elliot la guardò sfoggiò un'espressione da perfetta innocentina. Scossi il capo, piano ma in modo deciso, per trasmetterle un messaggio silenzioso: «Smettila». - Continua a guardare da questa parte - sussurrò invece Vee. Poi si piegò verso di me, che stavo dall'altra parte del tavolo, facendo finta di volermi parlare in privato, ma tenendo un tono di voce abbastanza alto da farsi sentire da tutti, e disse: - Si starà chiedendo cosa ci fai qui con... - e fece un breve cenno del capo in direzione di Elliot. Chiusi gli occhi e immaginai me stessa mentre sbattevo la testa contro il muro. - Patch ha fatto capire molto chiaramente di voler essere molto più di un compagno di classe per Nora - continuò Vee. - E chi potrebbe dargli torto? - Davvero? - disse Elliot, guardandomi come se la cosa non lo sorprendesse affatto. Notai che veniva più vicino. Vee mi scoccò un sorriso trionfale che significava «Ringraziami dopo». - Non e così - obiettai. - E... - Molto peggio - insistette Vee. - Nora sospetta che la stia molestando. È sul punto di avvertire la polizia. - Vogliamo giocare? - dissi a voce alta e lanciai la pallina al centro del tavolo. Nessuno ci fece caso. - Vuoi che parli con lui? - mi chiese Elliot. - Gli spiego che non siamo in cerca di guai, che sei qui con me e che se ha qualche problema possiamo discuterne. La direzione che stava prendendo la conversazione non mi piaceva per niente. - Che cosa è successo a Jules? dissi. - È via da un po'. - Già, sarà caduto nel gabinetto - brontolò Vee. - Fammi parlare con Patch - insiste Elliot. Anche se apprezzavo il fatto che si preoccupasse per me, non mi piaceva l'idea che Elliot avesse una discussione con Patch. Il mio compagno di banco era un'incognita: indefinibile, inquietante e oscuro. Chi poteva sapere di che cosa sarebbe stato capace? Elliot era troppo gentile per essere mandato allo sbaraglio in quel modo. - Non mi fa paura - riprese, quasi avesse ascoltato i miei pensieri. Evidentemente su quel punto Elliot e io non eravamo d'accordo. - Ề una pessima idea - obiettai. - È un'ottima idea - si intromise Vee. - Patch potrebbe diventare... violento. Ti ricordi l'ultima volta? «L'ultima volta?» le dissi a fior di labbra. Non avevo idea del perché Vee si stesse comportando cosi. Forse era solo la sua abitudine a drammatizzare tutto. Purtroppo, però, la sua idea di dramma coincideva con la mia idea di umiliazione. - Senza offesa, ma questo tizio mi sembra un verme. Vado a parlargli, solo due minuti - decise Elliot, e andò. - No! - esclamai, afferrandolo per la manica. - Lui... ehm... potrebbe diventare di nuovo violento. Lascia che me la sbrighi io -. Lanciai uno sguardo furioso a Vee. - Sei sicura? - chiese Elliot. - Lo faccio senza problemi. - Credo sia meglio che ci pensi io. Mi asciugai i palmi delle mani sui jeans e, dopo aver fatto un bel respiro per calmarmi, iniziai a colmare la distanza tra me e Patch. Non avevo idea di cosa gli avrei detto una volta li. Speravo di cavarmela con un rapido saluto, per poi tornare indietro. Avrei rassicurato Elliot e Vee che la situazione era sotto controllo. Patch era vestito come sempre: camicia nera, jeans neri e una sortile collana d'argento che risaltava sulla pelle scura. Aveva le maniche arrotolate fino ai gomiti e ogni volta che spingeva i pulsanti si vedevano i muscoli degli avambracci al lavoro. Era alto, magro e forte e non mi sarei sorpresa se sotto i vestiti avesse delle cicatrici, ricordo di risse e di altre imprudenze. Non che volessi guardare sotto i suoi vestiti... Arrivata alla postazione di Patch, battei la mano contro la fiancata del videogioco per attirare la sua attenzione. Con il tono di voce più calmo possibile, dissi: - Pac-Man? O Donkey Kong? -. In effetti no, sembrava un gioco militare e violento. Il suo volto fu illuminato da un sorriso. - Baseball. Che ne dici di metterti dietro di me e darmi delle dritte? Sullo schermo esplosero una serie di bombe incendiarie e dei corpi urlanti volarono per aria. Non era baseball. - Come si chiama? - chiese Patch, muovendo impercettibilmente la testa verso il biliardino. - Elliot. Senti, devo fare in fretta, mi stanno aspettando. - L'ho già visto prima? - È nuovo, si è appena trasferito. - È a scuola solo da una settimana e ha già fatto amicizia? Che ragazzo fortunato -. Mi guardò di sottecchi. - Potrebbe avere un lato oscuro e pericoloso di cui non sappiamo niente. - Sembra la mia specialità. Aspettai che cogliesse l'allusione, invece disse soltanto: Giochiamo? -. Indicò con il mento il fondo della sala. Attraverso la folla, riuscii a scorgere dei tavoli da biliardo. - Nora! - gridò Vee. - Vieni qua. Elliot mi sta massacrando! - Non posso - dissi a Patch. - Se vinco, - continuò Patch, come se non avesse alcuna intenzione di accettare un rifiuto - dici a Elliot che ci sono stati dei cambiamenti e che per stasera non sei più libera. Non riuscii a tacere: era davvero troppo arrogante! - E se vincessi io? Il suo sguardo mi sfiorò da capo a piedi. - Non credo che dovremmo preoccuparci di questo. Prima che riuscissi a fermarmi, gli diedi un pugno sul braccio. - Attenta - sussurrò. - Potrebbero pensare che stiamo flirtando. Avevo voglia di prendermi a calci, perché era esattamente quello che stavamo tacendo. Però non era colpa mia. Quando mi trovavo vicino a lui, i miei desideri diventavano contrastanti. Una parte di me voleva scappare via urlando «Al fuoco!», mentre una parte più coraggiosa era tentata di vedere fin dove poteva avvicinarsi senza bruciarsi. - Una partita di biliardo - mi tentò. - Sono qui con altre persone. - Tu vai al biliardo, a loro ci penso io. Incrociai le braccia, sperando di apparire dura e un po' esaspererata, sapendo che non mi sentivo così, neanche un po'. - Che intenzioni hai? Vuoi fare a botte con Elliot.7 - Se è necessario... Ero quasi sicura che stesse scherzando. Quasi. - Hanno appena liberato un tavolo. Corri -. «Ti... sfido.» Mi irrigidii. - Come fai7 Patch non si affrettò a negare e io sentii una fitta di panico. Allora era vero. Sapeva esattamente quello che stava facendo. Avevo le mani sudate. - Come fai? Mi rivolte un sorriso complice. - Fare cosa? - Non provarci - lo avvisai. - Non fare finta di non aver capito. Appoggiò una spalla al videogioco e mi fissò. - Allora spiegami che cosa starei facendo. - I miei... pensieri. - Che cos'hanno che non va? - Piantala, Patch. Sì guardò intorno. - Non vorrai insinuare... parlarti nella mente? Sarebbe una follia, te ne rendi conto? Deglutii. Poi dissi, con il tono di voce più calmo che riuscii a trovare: - Tu mi spaventi e non credo mi taccia bene stare con te. - Potrei farti cambiare idea. - Nooooora! - urlò Vee sopra il frastuono di voci e suoni. - Vediamoci all'Arcangelo - disse Patch. Feci un passo indietro. - No - risposi. Patch mi girò Intorno e si piazzò dietro di me, mentre un brivido mi correva lungo la schiena. - Ti aspetto - mi sussurrò all'orecchio. E scivolò fuori dalla sala giochi. 8 Tornai indietro completamente frastornata. Elliot era chino sul tavolo da gioco, concentrato. Vee strillava e rideva. Di Jules neanche l'ombra. Vee alzò gli occhi dalla partita. - Be', cos'è successo? Che ti ha a detto? - Niente.Gli ho chiesto di lasciarci in pace e se n'è andatorisposi con voce inespressiva. - Non sembrava arrabbiato quando se ne è andato commentò Elliot. - Qualsiasi cosa tu gli abbia detto, ha funzionato. - Peccato - disse Vee. - Speravo in qualche emozione forte. - Siamo pronti per giocare? - esclamò Elliot. - Ho fame di pizza conquistata a caro prezzo. - Sì, se Jules si degna di tornare - disse Vee. - Forse non gli piacciamo. Continua a sparire, mi sembra un chiaro segnale non verbale. - Stai scherzando? Jules vi adora - replicò Elliot con troppo entusiasmo. - Fa solo un po' fatica a scaldarsi con chi non conosce. Vado a cercarlo, non muovetevi. Appena restammo sole, mi rivolsi a Vee. - Lo sai che sto per ucciderti, vero? Lei alzò le mani. - Ti stavo facendo un favore. Elliot è pazzo di te. Dopo che te ne sei andata, gli ho detto che ci sono almeno dieci ragazzi che ti chiamano ogni sera. Avresti dovuto vedere la sua faccia. Mi sfuggi un gemito. - È la legge della domanda e dell'offerta - continuò Vee. - Ehi, chi l'avrebbe mai detto che economia ci sarebbe tornata utile? Guardai verso l'ingresso della sala giochi. - Ho bisogno di qualcosa. - Hai bisogno di Elliot. - No, di zucchero. Parecchio. Zucchero filato -. Quello di cui avevo bisogno era una gomma abbastanza grossa per cancellare dalla mia vita tutte le prove dell'esistenza di Patch. Soprattutto quelle riguardo alla telepatia. Rabbrividii. Come faceva? E perchè proprio con me? A meno che... non fosse tutto frutto della mia immaginazione. Come l'incidente in macchina. - Anch'io avrei bisogno di un po' di zucchero - disse Vee. - C'è un venditore all'ingresso. Io resto qui, così Jules ed Elliot non pensano che siamo scappate, tu vai a prendere qualcosa di dolce. Trovai il venditore di zucchero filato, ma non comprai niente perché qualcosa aveva catturato la mia attenzione. Poco distante, l'Arcangelo si stagliava oltre le cime degli alberi. Un serpente di piccoli vagoni sfrecciava sulle rotaie illuminate, scendendo in picchiata fuori dal mio campo visivo. Mi chiesi perché mai Patch volesse incontrarmi li. E avvertii una fitta allo stomaco: avrei dovuto prenderla come una risposta, invece, nonostante le mie migliori intenzioni, mi trovai a superare il chiosco dei dolciumi, diretta all'Arcangelo. Mi mischiai alla folla, gli occhi fissi sulle rotaie che si avvitavano nel cielo. Il vento era cambiato, da freddo era diventato gelido, ma non era quella la ragione per cui mi sentivo sempre più a disagio. Di nuovo quella sensazione. La raggelante, terrificante sensazione di essere osservata. Guardai a destra, a sinistra: niente di anormale. Ruotai di 180 gradi. E lì, qualche metro indietro, vidi un piccolo spiazzo alberato e una figura incappucciata che si voltò sparendo nell'oscurità. Con il cuore che batteva più veloce, superai un gruppo di visitatori e mi allontanai. Mi guardai alle spalle. Nessuno sembrava seguirmi. Mi voltai, decisa a mettere molti metri fra me e quella visione terrorizzante, e andai a sbattere contro qualcuno. - Scusi - mormorai, cercando di non perdere l'equilibrio. Patch mi sorrise - È difficile resistermi. Lo guardai sorpresa. - Lasciami in pace -. Cercai di scansarmi, ma lui mi prese per il gomito. - Che succede? Sembri sul punto di vomitare. - Sei tu che mi fai quest'effetto - dissi bruscamente. Risc. Avevo voglia di dargli un calcio negli stinchi. - Prendi qualcosa da bere -. Tenendomi per il braccio, mi trascinò verso un chiosco che vendeva la limonata. Puntai i piedi. - Vuoi davvero aiutarmi? Stammi lontano. Lui mi spostò una ciocca di capelli dal viso. - Adoro i tuoi capelli. Adoro quando sono fuori controllo, è come vedere una parte di re che dovrebbe uscire allo scoperto più spesso. Mi ravviai i capelli furiosamente. Poi però mi resi conto che davo l'idea di volermi rendere più presentabile per lui e sbottai: - Devo andare, Vee mi sta aspettando -. Quindi aggiunsi, sfinita: - Immagino che ci vedremo lunedi, in classe. - Vieni sull'Arcangelo con me. Guardai su. I vagoni sfrecciavano rimbombando. Dal punto più alto delle rotaie gli strilli dei passeggeri echeggiavano fino a noi. I sedili sono da due -. Le sue labbra si sollevarono in un sorriso provocante. - No -. Neanche per sogno. - Se continui a scappare, non scoprirai mai che cosa sta succedendo davvero. Quel commento avrebbe dovuto bastare per farmi scappare. Ma non fu cosi. Sembrava che Patch sapesse esattamente casa dire, e quando, per solleticare la mia curiosità. - Cosa sta succedendo? - chiesi. - C'è un solo modo per scoprirlo. - Non posso. Soffro di vertigini e Vee mi sta aspettando -. Solo che, all'improvviso, il pensiero di raggiungere quell'altezza, e il vuoto sorto di noi, non mi spaventava. Non più. Sapere che sarei stata con Patch, incredibilmente, mi faceva sentire al sicuro. - Se riesci a fare un giro intero senza urlare, dirò al coach che voglio tornare al mio vecchio posto. - Ci ho già provato, non cambierà idea. - Porrei essere più convincente di te. La presi come una sfida. - Io non urlo - dichiarai. - Non al luna park -. Non per te. Tenendo il passo con Patch, andai a mettermi in coda per l'Arcangelo. Le urla aumentavano e si affievolivano a mano a mano che i vagoni salivano nel ciclo notturno. - Non ti ho mai vista prima, qui - disse Patch. - Tu ci vieni spesso? -. Mentalmente, presi nota di non fare più gite al Delphic durante il fine settimana. - Sono legato a questo posto da una lunga storia. I vagoni si svuotarono e un nuovo gruppo di persone a caccia di brividi salì a bordo; la coda avanzava. - Fammi indovinare - dissi. - L'anno scorso, quando saltavi la scuola, venivi qui. Ero sarcastica, ma Patch non rispose a tono: - Stai cercando di fare luce sul mio passato. Io invece vorrei che rimanesse buio. - Perché, cosa c'è che non va nel tuo passato? - Non credo sia questo il momento di parlarne. Il mio passato potrebbe spaventarti. «Troppo tardi » pensai. Patch si avvicinò e le nostre braccia si toccarono, un contatto leggero che mi fece venire la pelle d'oca. - Dovrei confessare cose non adatte alla propria frivola compagna di banco. Fui avvolta dal vento gelido. Quando inspirai, mi sembrò di riempirmi di ghiaccio. Comunque, niente in confronto alla sensazione che mi avevano trasmesso le sue parole. Patch indicò la rampa d'accesso con un cenno. - Ci siamo. Spinsi il cancello girevole. Gli unici posti rimasti liberi erano i primi e gli ultimi del treno. Patch si diresse verso i primi. Quelle montagne russe non mi infondevano alcuna fiducia, non importa con quanto scrupolo fossero state rimodernate. Erano di legno, esposto da più di un secolo alle intemperie del Maine. E i disegni sulle fiancate erano ancora meno rassicuranti. Il vagone scelto da Patch ne aveva quattro. Il primo rappresentava un gruppo di demoni cornuti che strappavano le ali a un angelo urlante. Il successivo mostrava l'angelo ormai privo di ali seduto su una lapide, dalla quale osservava dei bambini che giocavano in lontananza. Nel terzo, l'angelo senza ali si era avvicinato ai bambini e con la mano ne chiamava una dagli occhi verdi. Nell'ultimo disegno, l'angelo fluttuava attraverso il corpo della bambina come un fantasma. Gli occhi della piccola erano diventati neri, il sorriso era sparito dalle sue labbra e le erano spuntate le corna. Sopra tutto era dipinto uno spicchio di luna. Distolsi lo sguardo e mi convinsi che fosse il vento a farmi tremare le gambe. Così mi sedetti accanto a Patch. - Il tuo passato non mi spaventerebbe - dichiarai mentre mi agganciavo la cintura di sicurezza. - Immagino potrebbe farmi inorridire. - Farti inorridire - ripete lui. Il tono della sua voce mi fece pensare che avesse accettato quell'implicita accusa. Strano, perché non era da Patch essere accondiscendente. I vagoni arretrarono un po' per poi balzare in avanti. In un modo tutt'altro che fluido, iniziammo a salire. L'aria era satura di odore di sudore, ruggine e acqua salata che soffiava dal mare. Patch era così vicino da riuscire a sentire anche il suo, di odore. Un leggero sentore di menta. - Sembri pallida - disse, piegandosi verso di me per farsi sentire al di sopra del clangore delle rotaie. Mi sentivo pallida, ma non lo ammisi. In cima alla salita il trenino si fermò un istante. La vista spaziava per chilometri: si vedeva la campagna scura fondersi con lo scintillio dei quartieri periferici e poi trasformarsi a poco a poco nel reticolo luminoso che era Portland. Lassù non soffiava un alito di vento, tanto che l'aria umida rimaneva attaccata alla pelle. Senza volerlo, mi voltai verso Patch e il fatto di saperlo li accanto a me mi rassicuro. Lui mi rivolse un bel sorriso. - Paura, angelo? II trenino si mosse in avanti, e immediatamente mi afferrai alla sbarra davanti ai sedili. Mi scappò un sorriso incerto. Il vagone andava diabolicamente veloce, io volavo con i capelli al vento. Curvando di scatto ora a sinistra ora a destra, il treno sferragliava sulle rotate. Mi sentivo gli organi interni galleggiare e ondeggiare. Guardai in basso, cercando di concentrarmi su qualcosa che non si muovesse. Fu allora che mi accorsi che la mia cintura di sicurezza si era sganciata. Cercai di gridarlo a Patch, ma la mia voce fu inghiottita dalla furia del vento. Sentii un vuoto allo stomaco e lasciai la sbarra con una mano per cercare di riallacciarmi la cintura. Il vagone piegò a sinistra. Andai a sbattere addosso a Patch, così forte da farmi male alla spalla. Il trenino puntò a velocità folle verso l'alto. Sentii che si sollevava dalle rotaie, evidentemente non erano fissate bene. Poi si lanciò giù. Le luci piazzate lungo le rotaie mi accecavano. Non riuscivo a vedere da che parte avrebbe girato il treno dopo quella discesa a picco. Il vagone scartò a destra. Fui assalita dal panico, e poi successe. La spalla sinistra sbatté violentemente contro la porta, che si spalancò. Fui scaraventata fuori dal vagone mentre il treno proseguiva la sua corsa senza di me. Rotolai sulle rotaie, mentre disperatamente cercavo di trovare un appiglio a cui aggrapparmi. Le mie mani non trovarono nulla e così caddi nel vuoto, nella notte buia. La terra si avvicinava velocemente e aprii la bocca per urlare. Quello che accadde subito dopo fu che il treno si fermò alla piattaforma di partenza con uno stridio di freni. Patch mi stringeva così forte che le braccia mi facevano male. - Quello si che era un urlo! - disse con un gran sorriso. Stordita, lo guardai coprirsi l'orecchio con la mano come se il mio urlo gli stesse ancora rimbombando nella testa. Non capivo che cosa fosse accaduto, e mi ritrovai a fissare il suo braccio nel punto in cui le mie unghie avevano lasciato dei segni rossi. Poi i miei occhi si spostarono sulla cintura di sicurezza. Era chiusa. - La cintura... - mormorai. - Pensavo... - Cosa pensavi? - chiese Patch. Sembrava sinceramente interessato. - Pensavo... sono volata fuori dal vagone. Pensavo che sarei morta... davvero. - Credo che lo scopo sia questo. Mi tremavano le braccia. Le ginocchia non riuscivano a reggere il mio peso, - Temo che rimarremo vicini di banco - disse Patch. Mi sembrò di sentire una sfumatura trionfale nella sua voce, ma ero troppo stordita per discutere. - Arcangelo - mormorai, voltandomi a guardare il treno, che nel frattempo aveva ricominciato a salire. - Significa angelo di alto rango - rispose Patch decisamente compiaciuto. - E più in alto si sta, più dolorosa e la caduta. Aprii la bocca per ribadire quanto fossi sicura di essere caduta dal vagone, anche se solo per un istante, e che forze che non riuscivo a spiegare mi avevano riportata in salvo, con la cintura allacciata. Invece dissi: - Credo di essere più un angelo custode. Patch fece un altro sorrisetto compiaciuto e disse: - Vieni, ti riporto alla sala giochi. 9 Facendomi largo tra la folla, superai la cassa della sala giochi, le toilettes e raggiunsi il biliardino. Vee non c'era e nemmeno Elliot o Jules. - A quanto pare sono andati via - disse Patch. Mi sembrò di di scorgere un. lampo divertito nei suoi occhi, tua, ancora una volta, con lui avrebbe anche potuto trattarsi di tutt'altro. - A quanto pare hai bisogno di un passaggio. - Vee non mi lascerebbe mai qui - ribattei, mettendomi in punta di piedi per cercare di guardare al di sopra della gente. - Staranno giocando a ping-pong. Iniziai a cercarli muovendomi lentamente nella calca, con Patch dietro che continuava a tamburellare le dita sulla lattina. Si era offerto di comprare qualcosa da bere anche a me, ma, considerato il mio stato, non ero affatto sicura di riuscire a tenerla in mano. Ai tavoli da ping-pong non c'era traccia di Vee né di Elliot. Mi sentii arrossire. Dov'era Vee? Patch mi porse la bibita. - Sicura di non voler bere qualcosa? Guardai la lattina e poi Patch. Il sangue mi ribolliva al pensiero di posare la bocca dov'era stata la sua, ma non dovevo dirglielo per forza. Scavai nella borsa e tirai fuori il cellulare. Lo schermo era spento e rifiutava di accendersi. Non capivo come la batteria potesse essere a terra, visto che l'avevo ricaricata prima di uscire. Continuai a premere il tasto di accensione, ma senza ottenere nulla. - La mia offerta è sempre valida - disse Patch. Pensai che sarei stata più al sicuro se mi fossi fatta dare un passaggio da uno sconosciuto. Ero ancora scossa da quello che era successo sull'Arcangelo e, nonostante tentassi disperatamente di togliermela dalla testa, l'immagine della mia caduta continuava a perseguitarmi. Stavo precipitando... e poi la corsa era finita. Era stata la cosa più terrificante che mi fosse mai capitata. E il fatto ancora più terrificante era il dubbio che me ne fossi accorta solo io. Nessuno oltre a me, nemmeno Patch, che mi sedeva proprio accanto. Mi diedi una sberla sulla fronte. - L'auto! Probabilmente mi sta aspettando li! Trenta minuti dopo avevo perlustrato l'intero parcheggio. Nessuna traccia della Neon. Non riuscivo a crederci: Vee se n'era andata senza di me. Forse aveva avuto un'emergenza, ma non c'era modo di saperlo, visto che non potevo controllare i messaggi sul cellulare. Cercai di tenere a freno le emozioni, ma se davvero mi aveva abbandonata li, tutta la collera che mi ribolliva dentro prima o poi sarebbe esplosa. - Hai esaurito tutte le alternative? - chiese Patch. Mi morsi il labbro, sforzandomi di pensare se ne esistessero altre. No. Comunque non ero sicura di voler accettare la sua offerta. Nei giorni normali, Patch trasudava pericolo. Quella sera era un potente mix di pericolo, minaccia e mistero. Alla fine, mi lasciai sfuggire un sospiro e pregai di non aver preso la decisione sbagliata. - Portami dritto a casa - dissi. Sembrava più una domanda che un ordine. - Se è questo che vuoi. Stavo per chiedere a Patch se sull'Arcangelo avene notato qualcosa di strano, ma mi fermai. Avevo troppa paura della risposta. E se non fossi affatto caduta.? Se avessi immaginato tutto? Magari vedevo cose che non succedevano davvero. Prima il tìzio con il passamontagna, ora questo. Ero abbastanza certa del fatto che Patch mi parlasse nella mente, ma tutto il resto? Di quello non ero affatto sicura. Patch si diresse verso un altro punto del parcheggio. Una scintillante motocicletta nera lo aspettava, appoggiata al cavalletto. Montò in sella e mi indicò il posto dietro di lui con un cenno. - Salta su. - Wow. Bella moto - dissi, ma era una bugia. Aveva l'aria di una lucida, nera trappola mortale. Non ero mai stata su una moto prima di allora. Mai. E non ero sicura di voler cambiare le case proprio quella notte. - Mi piace la sensazione del vento sulla faccia - continuai, sperando che la mia aria spavalda mascherasse il terrore di andare a più di cento chilometri l'ora senza niente tra me e l'asfalto. Mi diede l'unico casco che aveva. Nero, come la visiera. Lo presi, mi misi a cavalcioni sulla moto rendendomi improvvisamente conto di quanto mi sentissi instabile. Mi infilai il casco sui ricci e me lo agganciai sotto il mento. - È difficile da guidare? - chiesi. Quello che volevo dire in realtà era « È sicura?». - No - disse Patch, rispondendo a tutt'e due le domande. Rise sommessamente e aggiunse: - Sci tesa, rilassati. Uscì dal parcheggio e l'accelerazione improvvisa mi fece sobbalzare. Avevo afferrato la sua camicia, convinta che bastasse il tessuto sottile che avevo tra le dita per mantenere l'equilibrio. Invece no. Fui costretta ad abbracciarlo. In autostrada, Patch diede gas e io mi strinsi a lui con le cosce. Era stato un movimento involontario e sperai di essermene accorta solo io. Arrivati a casa mia. Patch si infilò con cautela nel vialetto d'ingresso immerso nella nebbia, spense il motore e smontò, lo mi sfilai il casco, lo posai con cautela in equilibrio sulla sella e aprii la bocca per dire qualcosa del tipo «Grazie del passaggio, ci vediamo lunedi». Invece le parole mi morirono sulle labbra, perchè Patch iniziò a salire i gradini della veranda. Che cosa aveva in mente? Accompagnarmi tino alla porta d'ingresso? Improbabile. Allora cosa? L'attimo dopo era davanti alla porta. Confuso e sempre più preoccupata, lo vidi estrarre dalla tasca un mazzo di chiavi dall'aria molto familiare e poi inserirne una nella serratura. Tirai giù la borsa dalla spalla e aprii lo scomparto in cui tenevo le chiavi di casa. Non c'erano. - Ridammele -. Ero semplicemente sconvolta dal tatto di non riuscire a capire come fossero finite nelle sue mani. - Ti sono cadute nella sala giochi mentre cercavi il telefono -disse. - Non m'interessa dove mi sono cadute. Ridammele. Patch alzò le mani, come a dichiararsi innocente, e si allontanò dalla porta. Poi si appoggiò al muro con una spalla e mi guardò mentre mi avvicinavo alla serratura. Cercai di girare la chiave, ma non si muoveva. - L'hai incastrata! - protestai, e presi a scuotere la porta. Poi feci un passo indietro. - Avanti, provaci. È bloccata. Con uno schiocco secco, girò la chiave- La mano appoggiata Nulla maniglia, sollevò le sopracciglia come a dire: «Posso?». Deglutii, cercando di nascondere quanto fossi ingolosita e insieme allarmata dalla proposta. - Prego, accomodati. Non c'è nessuno da sorprendere in casa. - Sei sola per tutta la notte? Mi resi immediatamente conto che forse non era stata la cosa più furba da dire. - Sta arrivando Dorothea - mentii. Era quasi mezzanotte, Dorothea se n'era andata da un pezzo. - Dorothea? - La nostra donna di servizio. E anziana ma forte. Molto forte. Cercai di oltrepassarlo, ma non ci riuscii. - Sembra tremenda - disse lui mentre sfilava la chiave dalla serratura e me la porgeva. - Riesce a pulire un gabinetto dentro e fuori in meno di un minuto. È più che tremenda -. Piano piano, girai intorno a lui. Avevo intenzione di chiudergli la porta in faccia, ma quando mi voltai Patch era sull'uscio, puntellato con le braccia agli stipiti. - Non mi inviti a entrare? Lo guardai sorpresa. Invitarlo a entrare? In casa mia? Ma ero sola... - È tardi - continuò. I suoi occhi, accesi e caparbi, catturarono i miei. - Sarai affamata. - No. Sì. Voglio dire, si ma... E all'improvviso, era dentro. Feci tre passi indietro, lui richiuse la porta con il piede. - Ti piace la cucina messicana? - chiese. - Vorrei... -. «Vorrei sapere cosa stai facendo in casa mia!» - Tacos? - Tacos? - gli feci eco. Sembrava si stesse divertendo. - Pomodoro, lattuga, formaggio. - So cosa sono i tacos! Prima che riuscissi a fermarlo, si avviò a grandi passi lungo il corridoio. Lo percorse tutto e girò a sinistra, entrando in cucina. Andò al lavello, apri il rubinetto e si insaponò fino ai gomiti. Facendo come fosse a casa sua si diresse alla dispensa, poi diede un'occhiata nel frigo e tirò fuori la salsa, il formaggio, la lattuga e un pomodoro, quindi frugò nei cassetti e prese un coltello. Stavo per avere un attacco di panico alla vista di Patch con un coltello in mano, poi qualcos'altro catturò la mia attenzione. Avanzai d'un passo e diedi un'occhiata alla mia immagine riflessa su una padella. I miei capelli! Sembrava che avessi in testa un gigantesco cespuglio di paglia. Mi misi la mano sulla bocca. Patch sorrise. - I tuoi capelli sono rossi naturali? Lo fissai. - lo non ho i capelli rossi. - Mi spiace darti questa notizia, ma sono rossi. Se gli dessi fuoco non diventerebbero più rossi di così. - Sono castani -. Forse avevo dei sottilissimi, impercettibili, quasi invisibili riflessi ramati, ma ero castana. - È la luce - dissi. - Si, forse dipende dalle lampadine -. Sorrise e su una guancia comparve una fossetta. - Torno subito - dissi, correndo fuori dalla cucina. Andai di sopra e ripresi il controllo dei capelli raccogliendoli in una coda. Una volta risolto quel problema, feci un quadro della situazione. Non ero per niente tranquilla all'idea di Patch che gironzolava per casa armato dì coltello. E mia madre mi avrebbe uccisa se avesse saputo che l'avevo fatto entrare quando non c'era Dorothea, - Posso prenotarmi per un'altra volta? - chiesi due minuti dopo, trovandolo ancora al lavoro in cucina. Mi portai la mano alla pancia per fargli capire che mi faceva male. - Ho un po' di nausea. Credo sia stata la moto. Lui smise di tagliuzzare le verdure e alzò gli occhi. - Ho quasi finito. Notai che aveva cambiato coltello. Questo aveva la lama più grossa e più affilata. Come se avesse potuto guardare i mici pensieri attraverso una finestra aperta, alzò il coltello e lo esaminò. La lama scintillò sotto la luce. Mi si strinse lo stomaco. - Metti giù il coltello - gli ordinai con voce calma. Patch fece scorrere lo sguardo da me al coltello e viceversa. Poi lo posò davanti a sé. - Non voglio farti del male, Nora. - Questo mi tranquillizza - riuscii a dire, anche se avevo la gola chiusa e secca. Fece ruotare il coltello in modo che il manico fosse rivolto verso di me e disse: - Vieni, ti insegno a fare i tacos. Non mi mossi. Un luccichio nei suoi occhi mi diceva che avrei dovuto avere paura di lui... e ne avevo, eccome. Però, c'era qualcos'altro. Qualcosa di estremamente affascinante e inquietante allo stesso tempo. Quando ero accanto a lui, non mi fidavo di me stessa. - Che ne dici di un... patto? -. Aveva chinato il viso, che ora era in ombra, e mi guardava attraverso le ciglia. Sembrava la persona più affidabile del mondo. - Se mi aiuti a fare i tacos, io risponderò a qualcuna delle tue domande. - Le mie domande? - Credo che tu sappia a cosa mi riferisco. Lo sapevo perfettamente. Mi stava invitando a dare un'occhiata nel suo mondo privato. Un mondo in cui poteva parlare con la mia mente. Come sempre, sapeva che cosa dire e quando dirlo. Senza proferire parola, mi avvicinai. Fece scivolare il tagliere davanti a me. - Prima di tutto - disse, mettendosi dietro di me con le mani sul piano di lavoro, accanto alle mie - scegli il pomodoro -. Abbassò la testa. La sua bocca era all'altezza del mio orecchio. Il suo respiro, caldo, mi solleticava la pelle. - Bene. Ora prendi il coltello. - Lo chef sta sempre così vicino? - chiesi. Non riuscivo a decidere se la fitta di eccitazione che la sua vicinanza mi provocava mi piaceva o spaventava. - Quando rivela i suoi segreti, si. Tieni il coltello con decisione. - Lo sto facendo. - Bene -. Fece un passo indietro e mi osservò, quasi cercasse eventuali imperfezioni; i suoi occhi si mossero dall'alto in basso, da destra a sinistra. Per un lungo, snervante momento pensai di vedere un sorrisetto di approvazione. - Non si impara a cucinare disse Patch. - È una cosa innata: ce l'hai o non ce l'hai. E' come la chimica. Pensi di essere pronta per la chimica? Premetti la lama del coltello sul pomodoro, che si divise in due metà, ciascuna delle quali dondolò piano sul tagliere. - Dimmelo tu. Sono pronta per la chimica? Patch emise un suono profondo che non riuscii a decifrare e, ancora una volta, sorrise. Dopo cena, Patch portò i piatti nel lavello, - lo lavo, tu asciughi -. Frugò nei cassetti, trovò uno strofinaccio e me lo lanciò con fare scherzoso. - Sono pronta a farti quelle domande - dissi. - Iniziamo da quella sera in biblioteca. Mi hai seguita... La voce mi morì in gola. Patch era appoggiato pigramente al bancone, i capelli ribelli fuori dal cappellino e l'ombra di un sorriso sulle labbra. Quello che avevo in mente si dileguò e, fulmineo, mi affiorò alla mente un pensiero. Volevo baciarlo. Subito. Patch sollevò le sopracciglia. - Allora? - Mmm... niente. Assolutamente niente. Tu lavi e io asciugo. Non ci volle molto e quando finimmo con i piatti ci ritrovammo vicini, stretti nello spazio vicino al lavello. Patch si mosse per togliermi lo strofinaccio dalle mani e i nostri corpi si toccarono. Nessuno dei due si mosse: restammo aggrappati al sottile filo che ci univa. Fui io a tirarmi indietro per prima. - Hai paura? - mormorò. - No. - Bugiarda. Avevo il cuore a mille. - Non ho paura di te. - No? Parlai senza pensare. - Forse ho solo paura che... -. Mi maledissi per avere anche solo iniziato la frase. Cos'avrei dovuto dire a quel punto? Non avrei mai ammesso che tutto in lui mi spaventava, perché cosi facendo gli avrei solo dato il permesso di provocarmi di più. - Forse ho solo paura che... - Che io ti piaccia? Sollevata dal fatto di non aver dovuto completare la frase, dissi solo: - Si -. Mi resi conto troppo tardi di ciò che avevo confessato. - Cioè no! Decisamente no. Non era questo che cercavo di dire! Patch rise piano. - Il fatto è che una parte di me non si sente per niente tranquilla accanto a te - ammisi. - Ma? Strinsi il ripiano dietro di me per farmi coraggio. - Ma mi attiri, anche. In un modo spaventoso. Patch sorrise. - Sei proprio arrogante - dissi, e lo spinsi via con la mano. Lui l'afferrò e se la portò al petto. Afferrò la manica della mia camicia e la tirò giù, coprendomi la mano e poi fece lo stesso con l'altra manica. Quindi, afferrò la mia camicia per i polsini. Mi aveva bloccato le mani. Aprii la bocca per protestare. Mi tirò a sé e, senza preavviso, mi sollevò e mi mise a sedere sul piano di lavoro. II mio viso era all'altezza del suo. Mi fissò con un sorriso tenebroso, seducente. E fu allora che capii che quel momento aleggiava nelle mie fantasie ormai da giorni. - Togliti il cappello -. Le parole mi rotolarono fuori di tacca prima che riuscissi a fermarle. Se lo girò al contrario, con la visiera indietro. Mi avvicinai. Qualcosa dentro di me mi diceva di fermarmi, ma spinsi quella voce nell'angolo più recondito della mente. Lui posò le mani sul ripiano, proprio accanto ai mici fianchi. Piegò la testa di lato e si avvicinò. Il suo odore, di terra umida, mi travolse. Inspirai quel profumo intenso. No. Non era la cosa giusta da fare. Non quella, non con Patch. Lui era pazzesco. In modo positivo. certo, ma anche in modo negativo. Molto negativo. - Credo che dovresti spostarti - sussurrai. - Dovresti proprio spostarti. - Spostarmi dove? Qui? -. Posò la bocca sulla mia spalla. - O qui? -. La appoggiò sul collo. Il mio cervello non riusciva a elaborare alcun pensiero logico. La bocca di Patch saliva verso la mascella, succhiando delicatamente la pelle... - Mi ai stanno addormentando le gambe - mormorai. Non era proprio una bugia, sentivo un formicolio in tutto il corpo, gambe comprese. - Ci penso io -. Le mani di Patch strinsero i miei fianchi. All'improvviso, suonò il cellulare. Il suono mi fece sobbalzare e, armeggiando un po', lo tirai fuori dalla tasca. - Ciao tesoro - disse mia madre in tono allegro. - Posso richiamarti? - Certo. Che succede.? Spensi il telefono. - Devi andartene - dissi a Patch. - Subito. Rimise a posto il cappellino. Ora Tunica parte del viso che riuscivo a vedere era la bocca, piegata in un sorriso malizioso. - Non sei truccata. - Me ne sarò dimenticata. - Fai sogni d'oro stanotte. - Certo, non preoccuparti -. Che cosa aveva detto? Riguardo quella festa, domani sera... - Ci penserò - riuscii a dire. Patch mi infilò un pezzetto di canta in tasca e quel contatto generò un'ondata di calore lungo le gambe. - Questo è l'indirizzo. Ti aspetterò. Vieni da sola. Un attimo dopo, sentii la porta d'ingresso chiudersi alle sue spalle. Avvampai. «Troppo vicino» pensai. Il fuoco non è pericoloso... a meno di non avvicinarsi troppo. Non bisogna dimenticarlo mai. Con il fiato corro, mi appoggiai agli armadietti della cucina. 10 Il mio sonno fu bruscamente interrotto dallo squillo del telefono. Ancora sospesa nel mondo dei sogni, mi tirai il cuscino sulla testa per cercare di coprire il rumore. Il telefono però continuò a suonare finché non parti la segreteria. Cinque secondi dopo, riprese a squillare. Allungai un braccio, cercai a tentoni finche non trovai i jeans e armeggiai un po' per tirare fuori il cellulare dalla tasca. - Si? - dissi sbadigliando, ancora con gli occhi chiusi. All'altro capo, qualcuno respirava furiosamente. - Cosa ti è successo? Dove sei andata a prenderlo lo zucchero filato? E già che ci sci, perché non mi dici dove sei cosi posso venire li a strangolarti a mani nude? Mi battei la mano sulla fronte, non una, ma più volte. - Pensavo ti avessero sequestrata! - continuò Vee. – Pensavo ti avessero rapita e uccisa! Al buio, cercai di trovare l'orologio. Urtai una cornice sul comodino, e tutte le altre cornici caddero come tessere del domino. - Sono stata trattenuta - risposi. - E quando sono tornata alla sala giochi tu non c'eri più. - Trattenuta? Che razza di scusa è? Misi a fuoco l'orologio. Erano appena passate le due del mattino. - Ho preso la macchina e ti ho cercato nel parcheggio per un'ora - continuò Vee. - Elliot è andato in giro per il parco mostrando l'unica foto di te che avessi, quella sul cellulare. Ho provato a chiamarti un miliardo di volte. Aspetta un secondo: sei a casa? Come ci sei arrivata? Mi stropicciai gli occhi. - Patch. - Patch il molestatore? - Be', non è che avessi molta scelta, no? - replicai bruscamente. - Te ne sei andata senza di me. - Sembri nervosa. Molto nervosa. No. non è quello. Sei agitata... eccitata -. Mi sembrava di vederla spalancare gli occhi. - Ti ha baciata, non è vero? Nessuna risposta. - L'ha fatto! Lo sapevo! 1 io visto come ti guarda. Sapevo che sarebbe successo, l'ho sempre saputo. Non volevo pensarci. - Com'è stato? - insistette. - Vellutato, polposo o profondo? - Cosa? - Ề stato un bacetto veloce, a labbra aperte o con la lingua? Non importa, è inutile che rispondi. Patch non è tipo da preliminari. C'era la lingua, di sicuro. Mi coprii il viso con le mani. Patch probabilmente pensava che non avessi alcun autocontrollo. Gli ero caduta tra le braccia, mi ero sciolta come il burro. Proprio un attimo prima di dirgli di andarsene, ero sicura di aver emesso un suono che era una via di mezzo tra un sospiro di pura beatitudine e un gemito di piacere. E questo spiegava il suo sorriso arrogante. - Possiamo parlarne più tardi? - chiesi, massaggiandomi la base del naso. - Neanche per sogno. Sospirai. - Sono stanca morta. - Non riesco a credere che tu voglia tenermi sulle spine. - Spero che te ne dimentichi. - Scordatelo. Cercai di visualizzare i muscoli del collo che si rilassavano, per evitare che mi esplodesse il mal di testa strisciante che già sentivo arrivare. - Allora oggi andiamo a fare shopping? - Passo a prenderti alle quattro. - Credevo fossimo d'accordo per le cinque. - Cambio di programma. Arrivo anche primi se riesco a sganciarmi dai miei. Mia madre è in pieno esaurimento nervoso, crede che i miei brutti voti dipendano dalle sue scarse capacità genitoriali. Pare che la soluzione consista nel passare più tempo insieme. Augurami buona fortuna. Chiusi di scatto il telefono e sprofondai nel letto. Ripensai al sorriso spregiudicato di Patch e ai suoi occhi neri scintillanti. Dopo essermi girata e rigirata nel letto per un po', mi arresi: finché avessi avuto Patch per la testa, trovare una posizione comoda sarebbe stato impossibile. Quando ero piccola, il figlioccio di Dorothea, Lionel, aveva rotto un bicchiere. Tutti i pezzetti di vetro erano stati raccolti, tranne uno, e lui mi aveva sfidato a leccarlo. Innamorarsi di Patch era un po' come leccare quella scheggia di vetro. Sapevo che era stupido, sapevo che mi sarei tagliata. Dopo tutti quegli anni, una sola cosa non era cambiata: ero ancora attratta dal pericolo. All'improvviso mi misi a sedere sul letto, afferrai il telefono e accesi la luce. La batteria era completamente carica. Sentii un brivido di inquietudine. Il mio cellulare avrebbe dovuto essere scarico. Come avevano fatto mia madre e Vee a chiamarmi? La pioggia picchiava sulle tende colorate dei negozi lungo il molo, rovesciandosi sul marciapiede sottostante. Gli antichi lampioni a gas disposti a zig-zag ai lati della strada si accesero. Con gli ombrelli che continuavano a urtarsi, Vee e io percorremmo il marciapiede e arrivammo alla tenda a strisce bianche e rosa di Victoria's Secret. Scrollammo gli ombrelli e li appoggiammo fuori dalla porta. Un tuono poderoso ci fece entrare di volata nel negozio. Battei i piedi per levare l'acqua dalle scarpe e rabbrividii per il freddo. Al centro del negozio, diversi diffusori di essenze bruciavano su un bancone, diffondendo un odore esotico e intenso. Una donna con un paio di pantaloni neri e una maglietta elasticizzata dello stesso colore venne verso di noi. Aveva un metro a nastro intorno al collo e. prendendolo, disse: - Ragazze, volete che vi misuri... - Metta via quel dannato metro - ordinò Vee. - Conosco già la mia taglia, non ho bisogno che qualcuno me la ricordi. Sorrisi alla donna, anche per scusarmi, e seguii Vee diretta ai reggiseni in liquidazione. - Non c'è niente di cui vergognarsi nell'avere una coppa D - dissi. Presi un reggiseno in satin blu e cercai il cartellino. - Chi ha parlato di vergognarsi? - disse Vee. - E perché dovrei? Le uniche sedicenni con le tette grosse come le mie sono piene di silicone e lo sanno tutti. Che motivo avrei io di vergognarmi? -. Rovistò nel cesto. - Credi che abbiano un reggiseno che mi schiacci un po' le bimbe? - Si chiamano reggiseni sportivi e hanno un fastidioso effetto collaterale: la monotetta -. Nel frattempo, avevo adocchiato un reggiseno di pizzo nero. Non avrei dovuto guardare la biancheria intima. Mi faceva pensare a cose sexy. Tipo baciare. Tipo Patch. Chiusi gli occhi e ripensai alla serata trascorsa insieme. Il contatto della mano di Patch sui miei fianchi, le sue labbra che assaggiavano il mio collo... Vee mi tirò addosso un paio di mutandine leopardate turchesi, prendendomi alla sprovvista - - Queste ti donerebbero molto - sentenziò. - Hai solo bisogno di un sedere come il mio per riempirle. A cosa diavolo stavo pensando? Ero arrivata a tanto così dal baciare Patch. Lo stesso Patch che sembrava insinuarsi nella mia mente. Lo stesso che mi aveva salvata dalla caduta fatale sull'Arangelo... perchè ero sicura che fosse successo proprio quello. anche se non avevo nemmeno una spiegazione logica a riguardo. Mi chiesi se. dopo aver fermato in qualche modo il tempo, non mi avesse afferrata nel momento stesso in cui cadevo. Se riusciva a parlare ai miei pensieri, forse, ma solo forse, era in grado di fare anche altre cose. O forse, pensai rabbrividendo, non potevo più fidarmi della mia mente. Avevo ancora il pezzo di carta che Patch mi aveva infilato in tasca, ma per nessun motivo sarei andata a quella festa. Fra noi esisteva un'attrazione, e in fondo la cosa mi piaceva. Ma il lato misterioso e inquietante di Patch faceva passare quella cosa in secondo piano. Avevo intenzione di espellere Patch dal mio organismo e quella volta l'avrei fatto sul serio. Sarebbe stato l'equivalente di una dieta disintossicante. Il problema era che l'unica dieta che avessi mai sperimentato aveva sortito l'effetto contrario. Una volta avevo cercato di non mangiare cioccolata per un mese intero. Neanche un morso. Dopo due settimane ero crollata, mangiando in una volta sola più cioccolata di quanta ne avrei mangiata in tre mesi. Speravo che la mia dieta fallita non fosse un presagio di ciò che sarebbe successo se avessi cercato di evitare Patch. - Che stai facendo.' - chiesi, rivolta a Vee. - A te che sembra? Stacco l'etichetta con il prezzo da questi reggiseni in saldo per attaccarla a quelli non in saldo. Cosi posso prendere dei reggiseni sexy al prezzo di quelli brutti. - Non puoi farlo! La cassiera leggerà il codice a barre e ti beccherà. - Codice a barre?' Non leggono mica il codice a barre ribattè, ma non sembrava molto convinta. - Si che lo fanno. Te lo giuro, croce sul cuore -. Pensai che spergiurare fosse meglio che guardare Vee trascinata in prigione. Be', sembrava proprio una buona idea... - Devi prendere queste - le dissi, lanciandole uno straccetto di seta nella speranza di distrarla. Lei prese le mutandine. Minuscoli granchi rossi impreziosivano il tessuto. - È la cosa più disgustosa che abbia mai visto. Quel reggiseno nero che hai in mano invece mi piace, dovresti comprarlo. Tu vai a pagare, io finisco di guardare i saldi. Pagai. Poi, pensando che sarebbe stato più facile dimenticare Patch se avessi guardato qualcosa di più innocuo, andai verso lo scaffale delle creme. Stavo annusando una boccetta di Dream Angels quando avvertii una presenza familiare vicino a me. Era come se qualcuno mi avesse infilato una pallina di gelato nel colletto che, dalla nuca, mi stesse scivolando lungo la schiena. Lo stesso brivido che provavo ogni volta che Patch era nelle vicinanze. Vee e io eravamo ancora le uniche clienti del negozio, ma attraverso la vetrina vidi una figura incappucciata indietreggiare per poi ripararsi sotto una tenda dall'altro lato della strada. Scombussolata, rimasi immobile per un lungo minuto, finché riacquistai il controllo di me stessa e andai a cercare Vee. - Ề ora di andate - dissi. Lei stava passando in rassegna un espositore. - Wow! Guarda qui, pigiami di flanella con il cinquanta per cento di sconto. Ne ho proprio bisogno. Con un occhio fìsso alla vetrina le dissi: - Credo che qualcuno mi stia seguendo. Vee alzò di scatto la testa. - Patch? No. Guarda dall'altra parte della strada. Diede una rapida occhiata. - Non vedo nessuno. - Nemmeno io. Un'auto di passaggio mi copriva la vista. - Credo che sia entrato nel negozio. - Come fai a sapere che ti stava seguendo? - Un brutto presentimento. - Somigliava a qualcuno di nostra conoscenza? Per esempio... se fosse un incrocio tra Pippi Calzelunghe e la malvagia Strega dell'Ovest sapremmo che in realtà è Marcie Millar. - Non era lei - risposi, gli occhi ancora fissi sulla strada. - Ieri sera, quando sono uscita dalla sala giochi per andare a prendere lo zucchero filato, ho visto qualcuno che mi spiava. Credo si tratti della stessa persona. - Sul serio? Perché me lo dici solo adesso? Chi è? Non ne avevo idea. Ed era questo a spaventarmi più di ogni altra cosa. Mi rivolsi alla commessa. - C'è un'uscita secondaria? Lei distolse lo sguardo dal cassetto che stava mettendo in ordine. - Solo per i dipendenti. - È un uomo o una donna? - si informò Vee. - Non saprei. - Be', perché dovrebbe seguirti? Che cosa vuole? - Spaventarmi -. Mi sembrava una spiegazione piuttosto sensata. - E perchè? Non sapevo neanche quello. - Dobbiamo creare un diversivo. - Proprio quello che stavo pensando io. E noi sappiamo quanto sono brava a creare diversivi. Dammi il tuo giubbetto di jeans. La fissai. - Neanche per sogno. Non sappiamo nulla di questa persona quindi non ti lascerò uscire con i miei vestiti addosso. Se fosse armata? - A volte la tua immaginazione mi fa paura - disse Vee. Dovevo ammetterlo, l'idea che fosse armata e intenzionata a uccidermi era un po' inverosimile. Però con tutte le cose orribili che stavano succedendo, non potevo rimproverarmi se avevo i nervi a pezzi e pensavo al peggio. - Esco prima io - propose Vee. - Se lui mi segue, tu fai lo stesso. lo andrò verso il cimitero, sulla collina. Lo blocchiamo e ci facciamo dare delle risposte. Un minuto dopo, Vee lasciò il negozio con il mio giubbetto addosso. Prese il mio ombrello rosso e lo tenne basso, in modo che le coprisse la testa. A parte il fatto che era qualche centimetro più alta e qualche chilo più formosa, poteva essere scambiata per me. Dal punto in cui ero, acquattata dietro l'espositore dei pigiami, vidi la figura incappucciata uscire dal negozio dall'altro lato della strada e seguire Vee. Mi mossi furtivamente verso la vetrina. Nonostante la felpa sformata e i jeans, chiaramente indossati per avere un aspetto androgino, l'andatura era femminile. Decisamente femminile. Vee e la ragazza svoltarono l'angolo e sparirono. Io corsi verso la porta. Fuori, la pioggia si era trasformata in diluvio. Afferrai l'ombrello di Vee e mi misi in marcia, passando sotto le tende in modo da ripararmi dall'acqua. Sentivo che l'orlo dei jeans si inzuppava e rimpiansi di non aver indossato gli stivali. Dietro di me, il molo si stendeva fino al mare color cemento. Davanti a me, la fila di negozi terminava ai piedi di una collina ripida ed erbosa. Sulla cima, si scorgeva a malapena l'alta recinzione di ghisa del cimitero della città. Aprii la portiera della Neon, sparai lo sbrinatore al massimo e accesi i tergicristalli a tutta velocità. Uscii dal parcheggio e girai a sinistra, accelerando lungo la strada che serpeggiava sui fianchi della collina. Mi si stagliarono davanti gli alberi del cimitero, con i rami che sembravano muoversi a ogni colpo dei tergicristalli. Le lapidi di marmo bianche sembravano lame che spuntavano dall'oscurità, mentre quelle grigie semplicemente svanivano nell'aria. All'improvviso, dal nulla, comparve un oggetto rosso che andò a schiantarsi contro il parabrezza. Colpi il vetro proprio al centro, quindi schizzò via, oltre l'automobile. Schiacciai a fondo il pedale del freno e la Neon si fermò slittando sul ciglio della strada. Aprii la portiera e uscii a cercare l'oggetto che mi aveva colpito. Segui un momento di confusione, quando la mente si trovò a elaborare i segnali forniti dalla vista. Il mio ombrello giaceva intrappolato nei cespugli, rotto. Il modo in cui era piegato faceva pensare che fosse stato scagliato con forza contro qualcosa di più robusto, e Inevitabilmente avesse avuto la peggio. Poi. attraverso il rumore furibondo della pioggia, mi arrivò un singhiozzo soffocato. - Vee? - chiamai. Attraversai la strada, una mano a ripararmi gli occhi dalla pioggia, e mi guardai intorno. A pochi passi da me c'era un corpo riverso a terra. Iniziai a correre. - Vee! -. Mi lasciai cadere in ginocchio accanto a lei. Era sdraiata su un fianco, le ginocchia contro il petto, e si lamentava. - Cos'è successo? Stai bene? Riesci a muoverti? -. Gettai indietro la testa, incurante delta pioggia. «Pensa!» dissi a me stessa. Il cellulare. Nell'auto. Dovevo chiamare il 911. - Vado a chiedere aiuto - dissi a Vee. Lei gemette e mi afferrò la mano. Mi chinai su di lei tenendola stretta, le lacrime roventi pronte a sgorgare fuori. - Cos'è successo? È stata la persona che ti seguiva? È stata lei? Cosa ti ha fatto? Vee mormorò qualcosa di incomprensibile, qualcosa di simile a «borsa». In effetti, la sua borsa non c'era. - Tra poco starai bene - mormorai, cercando di mantenere un tono di voce calmo. Pensieri foschi si agitavano in me, anche se cercavo di tenerli a bada. Sapevo che la colpa era della stessa persona che mi aveva spiata al Delphic e poi seguita nel mio gito di shopping, ma mi rimproveravo ugualmente per aver messo Vee in pericolo. Corsi all'auto, presi il cellulare e chiamai il 911. Cercando di evitare un tono isterico, dissi: - Ho bisogno di un'ambulanza. La mia amica è stata aggredita e derubata. 11 Passai il lunedì in stato confusionale. Mi spostai da un'aula all'altra aspettando soltanto il suono dell'ultima campanella. Avevo chiamato l'ospedale prima di andare a scuola. Mi avevano detto che Vee stava entrando in sala operatoria. Aveva il braccio sinistro fratturato e siccome I'osso non era allineato doveva essere operata. Volevo vederla, ma non me l'avrebbero permesso fino al pomeriggio, quando, una volta esaurirò l'effetto dell'anestesia. l'avrebbero riportata in camera. Era fondamentale che ascoltassi la sua versione dei fatti prima che dimenticassi! i dettagli o li romanzasse. Qualsiasi cosa ricordasse, poteva aggiungere un tassello alla storia e aiutarmi a capire chi potesse essere stato. Mano a mano che le ore passavano, il mio Interesse si spostò da Vee alla ragazza in attesa fuori dal negozio. Chi era? Cosa voleva? Forse il fatto che Vee fosse stata aggredita poco dopo che avevo visto la ragazza pedinarla era solo una coincidenza inquietante, ma il mio istinto non era d'accordo. Avrei voluto avere maggiori dettagli sul suo aspetto. Il cappuccio, i jeans e la pioggia erano riusciti a nasconderla per bene. Per quanto ne sapevo, poteva anche trattarsi di Marcie Millar, ma dentro di me sapevo che non era così. Raggiunsi il mio armadietto per prendere il libro di biologia e andai in classe a seguire l'ultima lezione. La sedia di Patch era vuota. In genere arrivava all'ultimo momento, sul filo dalla campanella... che invece suonò e suonò finché il coach prese posto alla lavagna per iniziare una lezione sull'equilibrio. Mi concentrai sulla sedia vuota accanto alla mia. Una vocina in fondo alla testa mi diceva che la sua assenza poteva essere collegata a Vee. Era strano che mancasse proprio la mattina successiva alla sua aggressione. E poi non riuscivo a dimenticare il brivido gelido che avevo sentito qualche istante prima di guardare fuori dal negozio e capire di essere spiata. Ogni volta che mi sentivo così, lui era nei paraggi. Presto, però, la voce della ragione respinse ogni coinvolgimento di Patch. Magari aveva preso il raffreddore, oppure aveva finito la benzina mentre veniva a scuola ed era rimasto bloccato a chilometri di distanza. Oppure c'era un torneo di biliardo con una posta talmente alta da fargli preferire la sala giochi a una lezione sulla complessità del corpo umano. Alla fine della lezione, il coach mi fermò prima che uscissi dall'aula. - Aspetta un momento, Nora.- Mi voltai. - Si? Mi porse un pezzo di carta piegato a meta. - La signorina Greene mi ha chiesto di darti questo. Presi il biglietto. - La Signorina Greene? -. Non avevo nessuna insegnante con quel nome. - La nuova psicologa della scuola. Ha appena sostituito il dottor Hendrickson. Aprii il biglietto e lessi il messaggio. Cara Nora, ho preso il posto del dottor Hendrickson e da oggi sarò io la tua psicologa. Ho visto che hai saltato gli ultimi due appuntamenti. Per favore, passa subito da me in modo da poterci conoscere. Ho mandato una lettera a tua madre per informarla di questo cambiamento. Un caro saluto, Sig.na Greene - Grazie - dissi al coach, piegando il biglietto fino a che non divenne abbastanza piccolo da poterlo infilare in tasca. Non c'era modo di evitarlo: dovevo andare. Mi unii alla folla di studenti Percorsi i corridoi fino alla porta chiusa dell'ufficio del dottor Hendrickson. Sicuramente ci sarebbe stata una nuova targhetta. Infatti. L'ottone lucido scintillava sul legno di quercia. Sig.na D. Greene, psicologa. Bussai e un attimo dopo la porta venne aperta dall'interno. La signorina Greene aveva la pelle chiara e perfetta, occhi blu, una bocca seducente, splendidi capelli biondi e lisci che, divisi da una riga, le ricadevano oltre i gomiti. Il viso era ovale e sul naso portava un paio di occhiali da gatta turchesi. Era vestita in modo formale, con una gonna dritta di tessuto spigato grigio e una camicetta di seta rosa. Aveva una figura slanciata e femminile. Avrà avuto al massimo cinque anni più di me, non di più. - Tu devi essere Nora Grey. Sei uguale alla foto che c'è nel tuo fascicolo - disse» e mi diede una vigorosa stretta di mano. Aveva un tono sbrigativo, ma non scortese. Pratico. Arretrò di un passo, invitandomi a entrare. - Posso offrirti del succo di frutta o dell'acqua? - chiese. - Cos'è successo al dottor Hendrickson? - Prepensionamento. Tenevo d'occhio questo posto da un po', così quando si è liberato mi sono presentata di Corsa. Ho studiato in Florida, ma sono cresciuta a Portland e i miei genitori abitano anioni qui. È bello stare di nuovo vicino alla mia famiglia. Esaminai il piccolo ufficio. Dall'ultima volta che ero stata lì, poche settimane prima, aveva subito un cambiamento drastico. Le librerie che rivestivano le pareti erano piene di libri universitari. tutti piuttosto simili tra loro, con le copertine rigide di un colore neutro e i caratteri in oro. Il dottor Hendrickson utilizzava gli scaffali per esporre le foto di famiglia, mentre non c'erano immagini della vira privata della signorina Greene. Accanto alla finestra, era appesa la stessa felce che grazie alle cure del dottore era più marrone che verde. Adesso, dopo pochi giorni con lei, era tornata rigogliosa e piena di vita. Dall'altro lato della scrivania, vidi una sedia rivestita da un tessuto rosa a motivo cachemire e, nell'angolo opposto, diversi scatoloni impilati. - Sono qui solo da venerdì - spiegò, vedendo che il mio sguardo si posava sugli scatoloni. - Sto ancora finendo di sistemare le mie cose. Accomodati. Posai lo zaino e mi sedetti sulla sedia rosa. Nella piccola stanza non c'era niente che potesse fornire un indizio sulla personalità della signorina Greene. Sulla scrivania, che non poteva definirsi disordinata ma neanche scrupolosamente ordinata, erano appoggiate diverse cartellette e una tazza bianca piena di un liquido che aveva tutta l'aria di essere tè. Non c'era traccia di profumo o di deodorante per ambienti. Il monitor del computer era spento. La signorina Greene si chinò su uno schedario sistemato dietro la scrivania, tirò fuori una cartelletta nuova e, con il pennarello nero, scrisse il mio nome sull'etichetta; quindi la posò sulla scrivania accanto a quella vecchia, costellata di chiazze di caffé lasciate dalla tazza del dottor Hendrickson. - Ho passato l'intero fine settimana a esaminare il lavoro del mio predecessore - disse. - Rimanga tra noi, ma la sua grafia mi fa venire l'emicrania, quindi li sto ricopiando tutti. Sono rimasta stupita dal fatto che non usasse il computer per gli appunti. Chi è che scrive ancora a mano al giorno d'oggi? Si mise comoda sulla sedia girevole, accavallò le gambe e mi sorrise. - Allora, perché non mi racconti a che punto eravate con il dottor Hendrickson? Sono riuscita a stento a decifrare i suoi appunti. A quanto pare stavate parlando della tua opinione riguardo il nuovo impiego di tua madre. Non è tanto nuovo ormai, lavora da un anno. Prima stava a casa, vero? Poi, dopo la morte di tuo padre, ha iniziato un'occupazione a tempo pieno -. Diede un'occhiata a uno dei fogli del mio fascicolo. - Si tratta di una casa d'aste, giusto? Se non sbaglio, coordina le aste immobiliari di tutta la costa -. Mi guardò al di sopra degli occhiali. - Questo significa che passa molto tempo lontana da casa. - Volevamo restare nella nostra fattoria - dissi, un po' sulla difensiva. - E se avesse accettato un lavoro in :zona non avremmo potuto permetterci il mutuo -. Non andavo pazza per le sedute con il dottor Hendrickson, ma ero risentita con lui per essere andato in pensione e avermi abbandonata alla signorina Greene. Iniziavo a farmi un'idea di lei. Sembrava il tipo attento ai dettagli e sentivo che aveva una gran voglia di scavare in ogni angolo oscuro della mia vita. - Devi sentirti molto sola in quella casa vuota. - Abbiamo una donna di servizio che sta con me tutti i pomeriggi fino alle nove o alle dicci di sera. - Ma una donna di servizio non è come una madre. Guardai la porta. E non cercai di farlo con discrezione. - Hai un'amica del cuore? Un ragazzo? Qualcuno con cui poter parlare delle cose per le quali la donna di servizio non è... adatta? -. Immerse una bustina nella tazza, la ritirò su e bevve un sorso di tè. - Ho un'amica del cuore -. Avevo deciso di tacere il più possibile. Meno avrei detto, meno sarei rimasta. E prima sarei arrivata da Vee. Lei sollevò le sopracciglia. - Un ragazzo? - No. - Sei molto carina, immagino che l'altro sesso si interessi a te. - Senta, - dissi, cercando di avere un tono calmo - apprezzo molto che stia cercando di aiutarmi, ma ho già fatto questa conversazione con il dottor Hendrickson un anno fa, quando è morto mio padre. È come tornare indietro nel tempo, rivivere tutto daccapo. Si, è stato tragico e orribile e devo farci i conti ogni giorno, ma ora ho bisogno di andare avanti. L'orologio appeso al muro segnava con il suo ticchettio il passare del tempo. - Bene - disse la Greene alla fine, rivolgendomi un sorriso stereotipato. - È molto utile conoscere il tuo punto di vista, Nora. È quello che cercavo di capire sin dall'inizio. Appunterò le tue impressioni nel fascicolo. C'è altro di cui vorresti parlare? - No -. Sorrisi, a conferma del fatto che era davvero tutto a posto. Scorse alla svelta altre pagine del mio fascicolo. Non avevo idea di cosa il dottor Hendrickson avesse scritto e non volevo star li a scoprirlo. Raccolsi lo zaino e mi spostai sul bordo della sedia. - Non vorrei metterle fretta, ma devo essere in un posto alle quattro. - Oh? Non avevo intenzione di raccontarle dell'aggressione. Ricerca in biblioteca - mentii. - Quale materia? Dissi la prima cosa che mi venne in mente: - Biologia. - A proposito, come va a scuola? Ci sono problemi? - No. Consultò altre pagine del mio fascicolo. - Ottimi voti - osservò. - A quanto pare stai facendo da tutor a un compagno di biologia. Patch Cipriano -. Alzò gli occhi, come se aspettasse una conferma. Fui sorpresa dal fatto che questo compito fosse talmente importante da essere segnalato nella mia cartella. - Finora non siamo mai riusciti a incontrarci. Incompatibilità di orari -. Mi strinsi nelle spalle, come a dire: «Che posso farci?». Raccolse tutti i fogli, li sistemò e li infilò nella cartelletta nuova, quella su cui aveva scritto il mio nome. - Mi sembra corretto avvisarci che ho intenzione di chiedere al professor McConaughy di stabilire delle regole a questo proposito. Vorrei che gli incontri si svolgessero qui, a scuola, sotto la diretta supervisione dell'insegnante o di un altro membro del corpo docente. Non voglio che tu incontri Patch al di fuori dei locali scolastici e soprattutto non voglio che voi due vi vediate da soli. Fui percorsa da un brivido. - Perché? Qual e il problema? - Non posso parlarne. L'unica ragione che mi veniva in mente era che Patch fosse pericoloso. «Il mio passato potrebbe spaventarti» mi aveva detto. - Grazie per avermi dedicato un po' del tuo tempo. Non ti tratterrò oltre -. La signorina Greene mi accompagnò alla porta e, tenendola aperta con il fianco esile, mi rivolse un sorriso. Un sorriso di circostanza. Una volta lasciato l'ufficio della psicologa, chiamai l'ospedale. L'intervento di Vee era finito, ma lei era ancora in rianimazione e non poteva ricevere visite fino alle sette. Consultai l'orologio del cellulare: mancavano tre ore. Saltai sulla mia Fiat, sperando che un pomeriggio in biblioteca mi aiutasse a ingannare l'attesa. Rimasi a fare i compiti tutto il pomeriggio e, senza che me ne rendessi conto, scese la sera. Sentii lo stomaco brontolare nel silenzio della sala e mi ricordai del distributore automatico all'ingresso. Rimandai l'ultimo compito che mi rimaneva, ma c'era ancora una ricerca per la quale avevo bisogno delle risorse della biblioteca. A casa avevo un vecchio computer IBM con una connessione a Internet preistorica e cosi, quando potevo, cercavo di usare uno dei computer della biblioteca. Dovevo recensire una rappresentazione teatrale dell'Otello per l'ezine entro le nove e mi ripromisi di andare alla ricerca di cibo subito dopo aver finito. Raccolsi tutte le mie cose e presi l'ascensore. Spinsi il pulsante di chiusura delle porte, ma non scelsi alcun piano. Tirai fuori il cellulare e richiamai l'ospedale. - Salve - dissi all'infermiera che aveva risposto. - La mia amica è stata operata oggi. Ho già chiamato e mi avere detto che sarebbe uscita dal reparto rianimazione questa sera. Si chiama Vee Sky. Ci fu una pausa seguita dal ticchettio dei tasti del computer. - Mi risulta che la porteranno in camera entro un'ora. - A che ora termina l'orario di visita? - Alle otto. - Grazie. Schiacciai il pulsante del terzo piano, sperando che leggere un po' di recensioni avrebbe riacceso la mia scintilla creativa. - Mi scusi - chiesi alla bibliotecaria che si occupava del prestito. - Sto cercando le copie del Portland Press Herald dell'anno scorso, in particolare la guida teatrale. - Non abbiamo niente di così recente qui al prestito confessò - ma se cerchi online, credo che il sito del Portland Press Herald abbia un archivio. Segui il corridoio, la sala inulti mediale è quella a sinistra. Entrai, scelsi un computer e mi collegai a Internet. Stavo per tuffarmi nella ricerca, quando mi baleno un'idea. Dopo essermi accertata che nessuno mi stesse guardando, andai su Google e scrissi "Patch Cipriano". Magari avrei trovatici un arinolo che mi avrebbe aiutato a far luce sul suo passato. Magari teneva un blog. Una volta visualizzati i risultati della ricerca, aggrottai la fronte: niente. Niente Facebook, niente MySpace, nessun blog. Come se non esistesse. - Qual è la tua storia, Patch.' - mormorai. - Chi sei in realtà? Mezz'ora e diverse recensioni dopo, avevo gli occhi appannati. Estesi la ricerca a tutti i giornali del Maine. Comparve un link alla Kinghorn Prep. Ci misi qualche secondo a riconoscere quel nome familiare: era la scuola da cui si era trasferito Elliot. D'impulso, decisi di andare a cercare anche li. Se la scuola era così d'èlite come sosteneva Elliot, avrebbe dovuto avere un giornale. Cliccai sul link, feci scorrere la pagina con l'archivio e scelsi a caso il 21 marzo di quell'anno. Un attimo dopo, comparve un titolo: STUDENTE INDAGATO PER L'OMICIDIO ALLA KINGHORN PREP Avvicinai la sedia al tavolo, attirata dalla prospettiva di leggere qualcosa di più eccitante delle recensioni teatrali. Uno studente sedicenne della Kinghorn Preparatory, interrogato dalla polizia sull'episodio ormai conosciuto come "il caso della studentessa impiccata alla Kinghorn", è stato rilasciato senza nessun capo di im-putazione. Dopo che il corpo della diciottenne Kjirsten Halverson era stato trovato impiccato a un albero del parco della Kinghorn Prep, la polizia aveva indagato Elliot Sauders, studente del secondo anno, che era stato visto in compagnia della vittima la notte della sua morte. Ci misi un po' a elaborare le informazioni. Elliot era indagato in un caso di omicidio? Kjirsten Halverson lavorava come cameriera al Blind Joe. La polizia conferma che sabato sera lei e Saunders erano stati visti passeggiare insieme nel campus. Il corpo della ragazza è stato scoperto domenica mattina e Sauders è stato rilasciata lunedì pomeriggio in seguito al ritrovamento. nell'appartamento della Halverson, di un biglietto in cui la ragazza annunciava di volersi suicidare. - Trovato qualcosa di interessante? La voce di Elliot alle mie spalle mi fece sobbalzare. Mi girai di scacco. Era appoggiato allo stipite della porta, gli occhi socchiusi, la bocca tirata. Fui percorsa da una sensazione di gelo, come quando si arrossisce, ma al contrario. Ruotai la sedia un po' a destra, cercando di piazzarmi davanti al monitor. - Sto... facendo i compiti, ho quasi finito. E tu, che fai qui? Non ti ho sentito arrivare, da quanto tempo sci li? -. Avevo un tono di voce talmente alto che potevano sentirmi tutti. Elliot si scostò dallo stipite ed entrò. Alla cieca, cercai di spegnere il computer mentre farfugliavo: - Sto cercando di farmi venire l'ispirazione per la recensione teatrale che devo consegnare stasera -. Stavo ancora parlando troppo velocemente. «Dov'era il pulsante?» Elliot cercò di sbirciare alle mie spalle. - Recensioni teatrali? Le mie dita sfiorarono un tasto e sentii il monitor che si spegneva. - Scusa, cos'hai detto che facevi qui? - Passavo e ti ho vista. C'è qualcosa che non va? Sembri... agitata. - Oh... un calo di zuccheri -. Raccolsi in un batter d'occhio libri e quaderni e li ficcai nello zaino. - Non tocco cibo dall'ora di pranzo. Elliot afferrò una sedia da un tavolo vicino e la mise accanto alla mia, si sedette a cavalcioni e si piegò verso di me, invadendo il mio spazio. - Magari posso aiutarti con la recensione. Mi scostai. - Be', è molto carino da parte tua, ma credo che per oggi possa bastare. Ho bisogno di fare una pausa e mangiare qualcosa. - Allora mi piacerebbe offrirti la cena - disse. - Non c'è una tavola calda proprio qui dietro? - Grazie, ma mia madre mi aspetta. È stata fuori città tutta la settimana -. Mi alzai e cercai di girargli intorno. Lui mi porse il cellulare e mi colpi all'altezza dell'ombelico. - Chiamala. Abbassai lo sguardo sul telefono e cercai di trovare una scusa. - Non ho il permesso di uscire durante la settimana. - Si chiama mentire, Nora. Dille che hai bisogno di più tempo del previsto per fare i compiti, che hai bisogno di stare in biblioteca ancora un'ora. Non se ne accorgerà nemmeno. La voce di Elliot aveva una punta di fastidio che non avevo mai sentito prima. Gli occhi blu mi fissavano con freddezza, la bocca sembrava più sottile. - Mia madre non vuole che esca con ragazzi che non conosce - dissi. Elliot sorrise, ma senza calore. - Sappiamo entrambi che non ti preoccupi troppo delle regole di tua madre, visto che sabato sera eri al Delphic con me. Con lo zaino sulla spalla, la mano afferrato saldamente alla cinghia, passai vicino a Elliot senza dire una parola. Uscii dalla sala multimediale in fretta, pur sapendo che, se avesse acceso il monitor, avrebbe visto l'articolo. Ormai non potevo farci niente. A metà corridoio mi fermai e mi arrischiai a gettare uno sguardo indietro. Attraverso le vetrate, si vedeva la sala multimediale. Vuota. Elliot era sparito. Tenendo gli occhi ben aperti, tornai sui mici passi e riaccesi il computer: l'articolo sull'indagine per omicidio era ancora là. Lo stampai, lo infilai nel raccoglitore, chiusi la sessione e uscii di volata. 12 Sentii il cellulare vibrarmi in tasca e, dopo aver controllato che nessun bibliotecario mi stesse guardando storto, risposi. - Mamma? - Ho una bella notizia - disse. - L'asta si è conclusa prima del previsto, Sono partita con un'ora di anticipo e dovrei essere a casa tra poco. Dove sei? - Ciao! Non ti aspettavo così presto, esco adesso dalla biblioteca. Com'era la zona a nord di New York? - Era... lunga -. Rise, ma sembrava sfinita- - Non vedo l'ora di arrivare. Mi guardai intorno in cerca di un orologio. Prima di andare a casa volavo fermarmi in ospedale da Vee. - Facciamo così - le dissi- - Devo andare a trovare Vee, forse arrivo un po' più tardi, ma taccio in fretta, te lo prometto. - Certo -. Percepii un'ombra di delusone. - Ci sono novità? Stamattina ho ricevuto il messaggio in cui mi dicevi dell'operazione. - L'operazione è finita, in questo momento la stanno portando in camera. - Nora -. La sua voce era carica di emozione. - Sono cosi contenta che non sia capitato a te. Se ti succedesse qualcosa non potrei mai perdonarmelo, soprattutto da quando tuo padre... -. Si interruppe. - Insomma, sono contenta che entrambe stiamo bene. Salutami Vee. Ci vediamo dopo, ti mando tanti baci e abbracci. - Ti voglio bene, mamma. Il Coldwater Regional Medicai Center è un edificio di mattoni rossi a tre piani, con un vialetto coperto che conduce all'ingresso principale. Superai le porte a vetro girevoli e mi fermai all'ufficio informazioni per chiedere notizie di Vee. Mi dissero che l'avevano trasferita in una stanza da circa mezz'ora e che avevo solo un quarto d'ora prima del termine dell'orario di visite. Localizzai gli ascensori e spinsi il pulsante di salita. Arrivata alla stanza 207, aprii la porta. - Vee? -. Riuscii a far entrare dietro di me un grappolo di palloncini, attraversai l'anticamera e trovai Vee adagiata sul letto, il braccio sinistro ingessato e in trazione. - Ciao! - esclamai, vedendo che era sveglia. Vee emise un sospiro di piacere. - Adoro questi farmaci, sono fantastici. Aaah, divino, meglio del cappuccino. Ehi, ho fatto una rima. Divino e cappuccino. Diventerò una poetessa. Vuoi sentire un'altra poesia? Sono brava a improvvisare. - Be'... Entrò un'infermiera che si mise ad armeggiare con la flebo di Vee. - Ti senti bene? - le chiese. - Lascia perdere la poesia - disse Vee. - Diventerò una grande cabarettista. Toc toc? - Eh? - dissi. L'infermiera alzò gli occhi al cielo. - Chi è? - Nella - rispose Vee. - Nella chi? - Nell'angoscia, è morta Della. - E diminuire i sedativi? - domandai all'infermiera. - Troppo tardi, le ho appena dato un'altra dose. Aspetta di vedere cosa succederà tra dieci minuti - e uscì dalla stanza. - Allora? - chiesi a Vee. - Qual è il verdetto? - Il verdetto? Il mio dottore è un culone. Sembra un Umpa Lumpa. Preciso. Non guardarmi con la tua solita aria di rimprovero. L'ultima volta che è stato qui, mi ha fatto un balletto. E poi mangia sempre cioccolata, continuamente. Soprattutto animali di cioccolata. Sai quei coniglietti che vendono a Pasqua? L'Umpa Lumpa ha cenato con uno di quelli. E a pranzo ha mangiato una gallina di cioccolato con contorno di pulcini di zucchero. - Intendevo il verdetto... - indicai tutto l'armamentario medico da cui era circondata. - Ah. Braccio rotto, commozione cerebrale e tagli, escoriazioni e contusioni varie. Fortunatamente, grazie ai miei riflessi pronti, sono schizzata via prima che riuscisse a farmi qualcosa di peggio. In fatto di riflessi, sono un gatto. Sono Catwoman. Invulnerabile. È riuscito a farmi male solo per via della pioggia. I gatti odiano la pioggia, ci indebolisce, è la nostra kryptonite. - Non sai quanto mi dispiace - le dissi con sincerità. - Avrei dovuto esserci io in questo letto di ospedale. - Per prendere tutte le mie medicine? Neanche per sogno. - La polizia ha trovato qualche traccia? - Nada, nisba, zero. - Nessun testimone? - Eravamo al cimitero nel bel mezzo del diluvio - fece notare Vee. - Quasi tutta la gente normale era a casa. Aveva ragione. La gente normale era a casa. Naturalmente Vee e io eravamo fuori... insieme alla misteriosa ragazza che la pedinava. - Com'è andata? - chiesi. - Camminavo in direzione del cimitero come stabilito, quando all'improvviso ho sentito dei passi dietro di me - raccontò Vee. - Si avvicinavano, così mi sono voltata. È successo tutto molto in fretta: ho visto il bagliore di una pistola e lui che si lanciava contro di me. Come ho detto ai poliziotti, il cervello non tra smetteva informazioni tipo «Riconoscimento visivo in corso», ma piuttosto «Oh, cavoli, qua mi fanno la festa!». Lui ha grugnito, mi ha colpito tre o quattro volte con la pistola, ha afferrato la borsa ed è scappato. Ero più confusa che mai. - Aspetta. Era un uomo? L'hai visto in faccia? - Certo che era un uomo. Aveva gli occhi scuri, grigio scuro. Ma ho visto solo quelli, perché indossava un passamontagna. L'accenno al passamontagna provocò un'accelerazione dei battiti del cuore. Era lo stesso tizio che era saltato sul cofano della Neon, ne ero sicura. Non me l'ero immaginato, Vee ne era la prova. Ricordai come tutte le tracce dell'incidente fossero sparite: forse non avevo immaginato neanche quella parte. Questo tizio, chiunque fosse, era reale. Ed era là fuori. Ma se non avevo immaginato i danni subiti dall'automobile, cos'era successo davvero quella notte? Forse la mia vista, o la mia memoria, erano state in qualche modo... alterate? Un attimo dopo, la mente mi si affollò di un mucchio di altre domande. Che cosa voleva il tizio questa volta? Era d'accordo con la ragazza appostata fuori dal negozio? Sapeva che sarei andata a fare acquisti al molo? Se indossava il passamontagna, significava che l'aggressione era stata pianificata, quindi sapeva dove trovarmi. E non voleva che io lo riconoscessi. - A chi hai detto che saremmo andate a fare shopping? – chiesi all'improvviso. Vee si ficcò un cuscino dietro la nuca per stare più comoda. - A mia madre. - Nessun altro? - Forse l'ho accennato a Elliot. Mi si gelò il sangue. - L'hai detto a Elliot? - E allora? Lei corrugò la fronte. - Sì? - Non era un cervo, era un uomo. Un uomo con un passamontagna. - Zitta, zitta - mormorò. - Mi stai dicendo che mi hanno aggredito per un motivo? Mi stai dicendo che questo tizio vuole qualcosa da me? No, aspetta. Vuole qualcosa da te. lo indossavo il tuo giubbetto, credeva fossi tu. Mi sentivo il corpo pesante come il piombo. Seguì un lungo minuto di silenzio. - Sei sicura di non aver parlato a Patch dei nostri programmi? Perché ora che ci penso, credo che quel tizio corrispondesse proprio alla corporatura di Patch: piuttosto alto, piuttosto magro, piuttosto forte, piuttosto sexy... a parte il fatto che mi ha aggredito. - Gli occhi di Patch non sono grigio scuro, ma neri - le feci notare, anche se ero spiacevolmente consapevole di avere infor mato Patch dei nostri progetti di shopping. Vee alzò una spalla. - Magari gli occhi erano neri, non riesco a ricordarlo. E successo tutto davvero in fretta. Posso essere più precisa sulla pistola - disse in tono pratico. - Era puntata contro di me. Dritta contro di me. Rimisi insieme un po' di tasselli. Se Patch aveva aggredito Vee, significava che l'aveva vista uscire dal negozio con indosso il mio giubbetto e aveva pensato fossi io. Quando si era accorto di aver seguito la ragazza sbagliata, per la rabbia aveva colpito Vee con la pistola e si era dileguato. L'unico problema era che non riuscivo a immaginare Patch che faceva del male a Vee. Non mi sembrava da lui. E poi, avrebbe dovuto essere a Una festa sulla costa per tutta la sera. - Per caso, il tuo aggressore somigliava a Elliot? - chiesi. Guardai Vee mentre assorbiva la domanda. Evidentemente le medicine le rallentavano l'attività cognitiva, perché potevo sentire tutti gli ingranaggi del suo cervello al lavoro. - Era circa dieci chili più magro e dieci centimetri più alto di Elliot. - È tutta colpa mia - mormorai. - Non avrei mai dovuto lasciarti uscire dal negozio con il mio giubbetto e... - So che non vorresti sentirtelo dire - mi interruppe Vee. Sembrava stesse lottando contro uno sbadiglio - ma più ci penso, più vedo somiglianze tra Patch e il mio aggressore. Stessa corporatura, stessa falcata. Purtroppo il suo fascicolo scolastico era inesistente. Abbiamo bisogno di un indirizzo, dobbiamo studiare i suoi vicini. Ci serve una nonnina credulona che si lasci convincere a montare una webcam da puntare sulla casa di Patch. Perché c'è qualcosa in lui che non mi convince. - Pensi davvero che avrebbe potuto farti questo? - chiesi, ancora scettica. Vee si morse il labbro. - Io credo che nasconda qualcosa. Qualcosa di grosso. A questo non potevo ribattere. Vee sprofondò ancora di più nel letto. - Sono tutta un formicolio, è una sensazione fantastica. - Non abbiamo alcun indirizzo - dissi - però sappiamo dove lavora. - Stai pensando quello che penso io? - chiese Vee, con un lampo di luce negli occhi. - Considerate le esperienze precedenti, spero di no. - Dobbiamo solo perfezionare il nostro metodo investigativo, scoprire qualcosa sul passato di Patch e... Ehi! Scommetto che, se documentiamo la ricerca, il coach ci darà dei crediti extra. Altamente improbabile. Essendo coinvolta Vee, le indagini avrebbero finito per prendere una piega illegale. Per non parlare del fatto che questa ricerca non avrebbe avuto niente a che fare con la biologia. Il mezzo sorriso che Vee era riuscita a tirarmi fuori era svanito. Forse per lei poteva essere divertente affrontare con leggerezza la situazione, ma io ero terrorizzata. Il tizio con il passamontagna esisteva davvero e forse stava già pianificando la prossima aggressione. E forse Patch non era estraneo a quello che stava succedendo. Quell'uomo era saltato sulla Neon il giorno dopo che Patch era diventato il mio nuovo compagno di banco. Era una coincidenza? In quel momento, l'infermiera fece capolino nella stanza. - Sono le otto - mi informò, battendo un dito sull'orologio. - L'ora di visita è terminata. - Esco subito. Non appena i suoi passi si spensero in fondo al corridoio, richiusi la porta. Non volevo che qualcuno sentisse ciò che avevo da dire riguardo all'indagine per omicidio in cui era coinvolto Elliot. Però, quando tornai al letto di Vee, mi accorsi che la flebo aveva fatto effetto. - Ecco che arriva... - disse con un'espressione di pura beatitudine. - L'assalto dei sedativi... da un momento all'altro... l'ondata di calore... addio sofferenza... - Vee - Toc toc? - Vee. è importante... - Toc toc? - Si tratta di ELLIOT... - Toc toooc? - ripetè con tono cantilenante. Sospirai. - Chi è? - Nella. - Nella chi? - Nell'attesa di fare la nanna - e scoppio in una risata isterica. Dal momento che era inutile insistere» dissi: Chiamami domani, dopo che ti avranno dimessa -, Aprii lo :zaino. Quasi dimenticavo, ti ho portato i compiti. Dove vuoi che li metta? Indicò il cestino dei rifiuti- - Li va benissimo. Parcheggiai la Fiat e mi misi le chiavi in tasca. Avevo guidato sotto un ciclo privo di stelle e una pioggerella sortile. Tirai giù la porta del garage, la chiusi a chiave ed entrai in cucina. C'era la luce accesa al piano di sopra. Un attimo dopo, mia madre corse giù dalle scale e mi gettò le braccia al collo. Mia madre ha i capelli scuri e mossi, gli occhi verdi- E un paio di centimetri più bassa dì me, ma abbiamo la stessa corporatura. E profuma sempre di "Love* di Ralph Lauren. - Sono così contenta che tu sìa al sicuro - sussurrò, stringendomi forte. «Al quasi-sicuro» pensai. 13 La sera dopo, alle sette, il parcheggio del Borderline era strapieno. Dopo quasi un'ora di preghiere, Vee e io avevamo convinto i suoi genitori che avevamo bisogno di festeggiare la sua prima serata fuori dall'ospedale con chiles rellenos e daiquiri analcolici alla fragola. Questo almeno era quello che avevamo sostenuto. In realtà, avevamo un secondo fine. Infilai la Neon in un posteggio stretto e spensi il motore. - Aah! - esclamò Vee quando, nel passarle le chiavi, le nostre dita si sfiorarono. - Credi che potresti sudare un pò più di così? - Sono nervosa, - Cavolo, non me n'ero accorta. Con aria distratta, guardai la portiera. - So che cosa stai pensando - disse Vee a labbra strette. - E la risposta è no. Neanche per sogno. - Tu non sai cosa sto pensando. Mi strinse il braccio. - Eccome se lo so- Non avevo intenzione di scappare. - Bugiarda, li martedì Patch aveva la serata libera, e Vee mi aveva convinta che sarebbe stato il momento giusto per interrogare ) suoi colleghi. Mi ero immaginata mentre mi avvicinavo ancheggiando al bar, scoccavo al barista un'occhiata svenevole alla Marcie Millar e mi mettevo a parlare di Patch. Dovevo avere il suo indirizzo. Dovevo sapere se fosse mai stato arrestato. Dovevo sapere se c'era un collegamento, anche minimo, con il tizio con il passamontagna. E dovevo capire perché quel tizio e la ragazza misteriosa erano entrati nella mia vita. Sbirciai nella borsa per controllare di aver portato l'elenco di domande che avevo preparato. Su un lato del foglio avevo scritto le cose da chiedere sulla vita privata di Patch, sul retro una serie di frasi da flirt, per sicurezza. - Ferma un po' - disse Vee. - Quello cos'è? - Niente - risposi e piegai il foglio. Vee cercò di afferrarlo, ma io fui più veloce e riuscii a ficcarlo in fondo alla borsa. - Regola numero uno - disse Vee. - Nell'arte di flirtare, niente è più sbagliato degli appunti. - Ogni regola ha la sua eccezione. - E non sei tu! -. Prese due sacchetti di plastica dal sedile posteriore e scese dall'automobile. Appena fui scesa anch'io, con il braccio sano me li lanciò al di sopra della Neon. - Cosa sono? - chiesi, afferrandoli al volo. Non riuscivo a vedere cosa contenessero perché i manici erano legati, ma la punta inconfondibile di un tacco a spillo minacciava di uscire dalla plastica. - Trentanove e mezzo - disse Vee. - Pelle di zigrino, è una specie di squalo. Se hai l'aspetto giusto, è più facile interpretare una parte. - Non so camminare sui tacchi alti. - Meno male che non sono alti, allora. - Sembrano alti - obiettai, guardando con sospetto la punta che sporgeva dal sacchetto. - Quasi dieci centimetri. Quelli sopra i dodici sono alti. Fantastico. Se riuscivo a non rompermi l'osso del collo, mi sarei umiliata a sedurre i colleghi di Patch per estorcergli i suoi segreti. - Questo è il piano - iniziò Vee mentre raggiungevamo l'entrata. - Ho invitato un paio di persone. Più siamo più ci divertiamo, giusto? - Chi? - chiesi, con un cupo presentimento alla bocca dello stomaco. - Jules e Elliot. Prima che avessi il tempo di confessare a Vee fino a che punto pensavo fosse sbagliata quell'idea, lei esclamò: Momento della confessione. Ho... diciamo... frequentato Jules. Di nascosto. - Cosa? - Dovresti vedere casa sua. I suoi genitori sono boss della droga sudamericani, oppure discendono da una famiglia davvero ricca. Siccome non li ho ancora conosciuti, non saprei quale delle due ipotesi è quella giusta. Ero senza parole. Aprivo e chiudevo la bocca, ma non usciva neanche una sillaba. - Quando è successo? - riuscii finalmente a farfugliare. - Subito dopo la fatidica mattina da Enzo. - Fatidica? Vee, tu non hai neanche idea... - Spero siano già arrivati e abbiano preso un tavolo - disse mentre allungava il collo per vedere al di sopra delle persone che affollava l'ingresso. - Non voglio aspettare. Mi rimangono solo due minuti esatti prima di morire di fame. Afferrai Vee per il gomito sano e la spinsi da parte. - Devo dirti una cosa. - Lo so, lo so - protestò. - Pensi che ci sia una remota possibilità che sia stato Elliot ad aggredirmi domenica sera. Be', penso tu ti confonda con Patch. E dopo le tue indagini di stasera, i fatti mi daranno ragione. Credimi, voglio scoprire chi mi ha aggredito forse più di te. È diventata una questione personale. E visto che siamo in vena di consigli, ecco il mio: sta' lontana da Patch. Tanto per vivere tranquille. - Sono contenta che tu sia arrivata a questa conclusione sbottai. - Comunque quello che volevo dirti è che ho trovato un articolo... Le porte del Borderline si aprirono. Fummo avvolte da una ventata di calore profumata di lime e coriandolo, e dal suono di un'orchestrina mariachi. - Benvenute al Borderline - ci salutò la direttrice di sala. - Siete solo in due stasera? Elliot era proprio dietro di lei, nell'atrio semibuio. Ci vedemmo nello stesso istante. Mi sorrise, ma gli occhi restarono seri. - Signore - disse, fregandosi le mani mentre si avvicinava. - Incantevoli come sempre. Sentii un formicolio sulla pelle. - Dov'è il tuo compare? - chiese Vee, guardandosi intorno. Lanterne di carta pendevano dal soffitto e un murale raffigurante un pueblo messicano copriva due pareti. Il locale era strapieno, ma non c'era traccia di Jules. - Brutte notizie - disse Elliot. - Non sta bene. Dovrete accontentarvi di me. - Non sta bene? - domandò Vee. - Come non sta bene? Che razza di scusa è non sta bene? - Non sta bene nel senso che "perde" da entrambe le uscite. Vee arricciò il naso. - Troppe informazioni. Stavo ancora digerendo il fatto che ci fosse qualcosa tra lei e Jules, il quale dava l'impressione di essere scontroso, cupo e totalmente disinteressato alla compagnia di Vee o a quella di chiunque altro. Non mi sentivo affatto tranquilla all'idea che Vee passasse del tempo da sola con quel tizio. Non necessariamente per via del fatto che fosse sgarbato o che lo conoscessi cosi poco, quanto per l'unica cosa che sapevo sul suo conto: era amico intimo di Elliot. La direttrice prese tre menu e ci accompagnò a un tavolo così vicino alla cucina che il calore dei fornelli passava attraverso i muri. Alla nostra sinistra c'era il banco delle salse; a destra, delle porte a vetri, velate di condensa, si affacciavano su un cortile interno. Avevo già la camicetta appiccicata alla schiena, ma forse più per le notizie su Vee e Jules che per il calore. - Va bene? - chiese la direttrice indicando il tavolo. - Perfetto - rispose Elliot mentre si liberava del giubbotto. Adoro questo posto. Se non bastasse il calore del locale, ci penserebbe il cibo a farci sudare. Il volto della donna si illuminò. - Siete già stati qui, allora. Per cominciare, posso portarvi delle patatine fritte con la nostra nuovissima salsa jalapeno? E la più piccante che abbiamo. - Mi piacciono le cose piccanti - disse Elliot. Si stava proprio comportando in modo viscido. Ero stata fin troppo generosa a pensare che non fosse meschino quanto Marcie. Ero stata fin troppo generosa nel giudicarlo, punto e basta. Specialmente ora che sapevo che nascondeva un'indagine per omicidio e chissà quali altri scheletri nell'armadio. La direttrice lo soppesò con lo sguardo. - Vi porto subito le patatine e la salsa. La vostra cameriera verrà presto per le ordinazioni. Vee fu la prima a lasciarsi cadere sulla panca; io scivolai accanto a lei ed Elliot prese posto di fronte a me. Vidi una luce sinistra nei suoi occhi. Risentimento, forse addirittura ostilità. Mi chiesi se sapeva che avevo visto l'articolo. - Il viola è proprio il tuo colore, Nora - disse, e indicò con un cenno del capo la sciarpa che mi stavo togliendo per legarla al manico della borsa. - Ti illumina gli occhi. Vee mi diede un colpetto con il piede: pensava davvero che volesse farmi un complimento. - Allora - mi rivolsi a Elliot con un sorriso falso - perché non ci racconti della Kinghorn Prep? - Si - intervenne Vee. - Ci sono delle società segrete? Come nei film? - Non c'è molto da dire. Scuola fantastica. Fine della storia . Prese un menu e iniziò a studiarlo. - Qualcuna di voi prende l'antipasto? Offro io. - Se è così fantastica, perché ti sei trasferito? -. Incrociai il suo sguardo e lo sostenni, alzando leggermente le sopracciglia in segno di sfida. Prima di schiudersi in un sorriso, la bocca di Elliot ebbe un piccolissimo scatto. - Le ragazze. Ho sentito che da queste parti erano più belle. E le voci si sono rivelate vere -. Mi fece l'occhiolino mentre un'ondata di gelo mi entrava nelle ossa. - Perché non si è trasferito anche Jules? - chiese Vee. Avremmo potuto essere i fantastici quattro, anzi meglio, i mitici quattro. - I genitori di Jules hanno l'ossessione dell'istruzione del figlio. La parola "impegnativa" non dà neanche l'idea di quello che intendono. Giuro sulla mia vita che arriverà lontano, niente e nessuno può fermarlo. Io vado bene a scuola, lo ammetto. Meglio della maggior parte dei ragazzi che conosco, ma nessuno batte Jules. Lui è un dio. Vee riacquistò il suo sguardo sognante. - Non ho mai incontrato i suoi genitori - disse. - Sono stata da lui due volte, ed erano fuori città o al lavoro. - Sono molto impegnati - confermò Elliot, abbassando gli occhi sul menu. - Dove lavorano? - chiesi. Elliot bevve una lunga sorsata d'acqua. Ebbi l'impressione che stesse prendendo tempo. - Diamanti. Passano moltissimo tempo in Africa e in Australia. - Non sapevo che l'Australia commerciasse in diamanti dissi. - Già, nemmeno io - mi fece eco Vee. Infatti, non sapevo che l'Australia fosse famosa per il commercio di diamanti. Punto. - E perché vivono nel Maine e non in Africa? - chiesi. Elliot si mise a studiare il menu con più attenzione. - Cosa prendete? Le fajitas di carne sembrano buone. - Be', se lavorano nel settore dei diamanti, sapranno sceglie re l'anello di fidanzamento perfetto - esultò Vee. - Ho sempre desiderato un solitario con taglio a smeraldo. Diedi un calcio a Vee sotto il tavolo. Lei mi infilzò con la forchetta. -Ahi! La cameriera si fermò al tavolo abbastanza a lungo da chiedere: - Qualcosa da bere? Elliot guardò al di sopra del suo menu, prima me e poi Vee. - Una Diet Coke - disse Vee. - Acqua con una fettina di limone, per favore - chiesi io. La cameriera tornò a velocità strabiliante con le bibite. Il suo arrivo segnava il momento in cui avrei dovuto alzarmi per mettere in atto la fase uno del "Piano" e Vee me lo ricordò con un'altra forchettata. - Vee - dissi tra i denti - ti dispiacerebbe accompagnarmi alla toilette? -. Improvvisamente, non volevo più procedere con il Piano. Non volevo lasciare Vee sola con Elliot. Avevo pensato di trascinarla via con una scusa, raccontarle dell'indagine per omicidio e poi trovare un modo per far sparire Elliot e Jules dalle nostre vite. - Perché non vai da sola? - protestò lei. - Credo sarebbe un piano migliore -. Mosse di scatto la testa in direzione del bar e a fior di labbra pronunciò la parola «vai», mentre a gesti, di nascosto, mi invitava a smammare. - Avevo pianificato di andare da sola, ma vorrei tanto che tu venissi con me. - Ma come fate voi ragazze? - disse Elliot sorridendo. Giuro, non ho mai conosciuto una ragazza che fosse capace di andare in bagno da sola -. Si piegò in avanti e, con aria cospiratrice, aggiunse: - Mettetemi a parte del segreto. Dico sul serio. Vi do cinque dollari a testa -. Prese il portafogli dalla tasca dei pantaloni. - Dieci se posso venire a vedere di che cosa si tratta. Vee gli rivolse un sorriso smagliante. - Pervertito. Non dimenticare queste - disse a me, mettendomi in mano i sacchetti di plastica. Elliot sollevò le sopracciglia. - Spazzatura - spiegò Vee storcendo il naso. - Il nostro bidone dell'immondizia è pieno e mia madre mi ha chiesto di buttarla strada facendo. Elliot non sembrò crederle e Vee non sembrò curarsene. Mi alzai con le mani cariche di sacchetti, cercando di non mostrare la cocente delusione. Zigzagando tra i tavoli, presi il corridoio che portava alla toilette. Le pareti del corridoio erano color mattone, decorate con maracas, cappelli di paglia e bamboline di legno. Faceva ancora più caldo lì e dovetti asciugarmi la fronte. Il Piano adesso prevedeva che sbrigassi quella faccenda il più velocemente possibile. Poi, una volta tornata al tavolo, avrei trovato una scusa per andare via e avrei trascinato Vee con me. Che lo volesse oppure no. Dopo aver sbirciato sotto i tre box della toilette ed essermi accertata che non ci fosse nessuno, chiusi a chiave la porta principale e svuotai le buste sul ripiano. Una parrucca biondo platino, un reggiseno a push-up rosso, un top nero, una minigonna con i lustrini, calze a rete rosa shocking e un paio di scarpe con i tacchi a spillo misura trentanove e mezzo. Rimisi il reggiseno, il top e le calze in uno dei sacchetti. Dopo essermi liberata dei jeans, indossai la minigonna, infilai i capelli sotto la parrucca e mi misi il rossetto. Completai l'opera con una generosa passata di lucidalabbra. - Puoi farcela - dissi al mio riflesso, chiudendo di scatto l'astuccio del lucidalabbra. - Tira fuori la Marcie Millar che è in te. Seduci in cambio di segreti. Sarà tanto difficile? Mi tolsi con un calcio i mocassini, li ficcai nell'altro sacchetto insieme ai jeans e lo spinsi sotto un ripiano, ben nascosto. - E poi - continuai, - non c'è niente di male a sacrificare un po' di orgoglio per ottenere delle informazioni. Se poi vogliamo guardare la questione da un punto di vista morboso, potremmo dire che, se non ottieni delle risposte, potresti finire con il rimetterci la pelle. Perché, che ti piaccia o no, c'è qualcuno là fuori che vuole farti del male. Feci dondolare le scarpe di pelle di zigrino davanti agli occhi. Non erano la cosa più brutta che avessi mai visto, potevano addirittura essere considerate sexy. Lo Squalo attacca Coldwater, Maine. Le infilai e feci un po' di pratica camminando avanti e indietro. Due minuti dopo, mi arrampicavo con cautela su uno degli sgabelli del bar. Il barista mi squadrò. - Sedici? - tirò a indovinare. - Diciassette? Sembrava più grande di me di una decina d'anni. I capelli castani, che portava cortissimi, stavano cominciando a diradarsi. Dal lobo destro pendeva un cerchio d'argento. Maglietta bianca e Levi's. Non male... ma niente di che. - Non sono una minorenne che beve alcolici - gridai per sovrastare la musica e le voci. - Sto aspettando un amico e da qui tengo d'occhio la porta -. Recuperai la lista di domande dalla borsa e, di nascosto, la misi sotto una saliera. - Cos'è quello? - chiese il barista indicando la lista con un cenno del capo, mentre si asciugava le mani su uno strofinaccio. La feci scivolare ancora più sotto la saliera. - Niente - dissi con aria innocente. Lui alzò un sopracciglio. Decisi di dare un'interpretazione approssimativa della verità. - È... la lista della spesa. Al ritorno, devo passare a prendere delle cose per mia madre -. «E questo lo chiami flirtare?» mi chiesi. «Che ne è stato di Marcie Millar?» Mi scrutò con attenzione, cosa che valutai non del tutto negativa. - Dopo cinque anni di questo lavoro, sono piuttosto bravo a riconoscere i bugiardi. - Io non sono una bugiarda - protestai. - Forse ti ho mentito un attimo fa, ma ho detto una piccola bugia. Una piccola bugia non fa di me una bugiarda. - Sembri una reporter - disse. - Lavoro per l'e-zine del mio liceo -. Avrei voluto prendermi a schiaffi. I reporter non ispirano fiducia, la gente li guarda sempre con sospetto. - Ma stasera non lavoro - aggiunsi subito. - Stasera, solo piacere. Niente affari, niente intenzioni nascoste, niente di niente. Dopo un momento di silenzio, decisi che la cosa migliore da fare era andare avanti. Mi schiarii la voce e dissi: - Il Borderline assume molti liceali? - Sì, ce ne sono parecchi. Cameriere, inservienti... mansioni di questo tipo. - Davvero? - esclamai, fingendomi sorpresa. - Forse conosco qualcuno. Dimmi qualche nome. Il barista rivolse lo sguardo al soffitto e si grattò la barba corta e ispida. Il suo sguardo vuoto non mi ispirava fiducia. E oltretutto non avevo tanto tempo a disposizione. Elliot avrebbe potuto mettere chissà quale droga mortale nella Diet Coke di Vee. - Patch Cipriano? - chiesi. - Lavora qui? - Patch? Sì, lavora qui un paio di sere e durante i fine settimana. - Ha lavorato domenica sera? -. Cercai di non sembrare troppo curiosa, ma avevo bisogno di sapere se era possibile che Patch si trovasse al molo. Aveva detto di avere una festa sulla costa, ma forse aveva cambiato programma. Se qualcuno avesse confermato che domenica sera era al lavoro, avrei potuto escludere ogni suo coinvolgimento nell'aggressione di Vee. - Domenica? -. Si grattò ancora. - Faccio un po' di confusione tra le varie serate. Prova a chiedere alle cameriere. Una di loro se lo ricorderà di sicuro. Quando è di turno, non fanno che ridacchiare e andare su di giri -, Sorrise come se potessi in qualche modo solidarizzare con loro. - Per caso conosci il suo indirizzo? - Assolutamente no. - Solo per curiosità, - continuai - sai se si può essere assunti qui se hai commesso un delitto? - Un delitto? -. Scoppiò a ridere. - Stai scherzando? - Okay, magari non proprio un delitto, ma un reato minore? Si appoggiò al banco con le mani aperte e si piegò verso di me. - No -. Il suo tono era passato dal divertito all'offeso. - Bene. Buono a sapersi -. Mi sistemai meglio sullo sgabello e sentii la pelle delle cosce attaccarsi al vinile. Stavo sudando. Se la regola numero uno nell'arte di flirtare vietava gli appunti, ero ra gionevolmente sicura che quella numero due vietasse di sudare. Consultai la mia lista. - Sai se Patch ha mai avuto degli ordini restrittivi? Se ha un passato da molestatore? -. Sospettai che il barista stesse ricevendo delle vibrazioni negative da me, così decisi di lasciar perdere tutte le altre domande e fare un ultimo tentativo prima che mi mandasse a quel paese. Peggio, che mi facesse cacciare dal ristorante. - Ha una ragazza? - dissi tutto d'un fiato. - Vai a chiederglielo. Restai interdetta. - Stasera non lavora. Il sorriso del barista mi fece aggrovigliare lo stomaco. - Non lavora stasera... vero? - chiesi con la voce un'ottava più alta rispetto al mio solito tono. - Dovrebbe avere il martedì libero. - Di solito sì, ma stasera sostituisce Benji, che è in ospedale con la peritonite. - Vuoi dire che Patch è qui? In questo momento? -. Mi guardai alle spalle cercando di nascondermi nella parrucca e contemporaneamente scrutando il ristorante. - È andato in cucina due minuti fa. Ero già smontata dallo sgabello. - Credo di aver lasciato le luci dell'auto accese, ma è stato fantastico parlare con te! -. Mi precipitai in bagno alla velocità della luce. Una volta dentro, chiusi a chiave la porta e mi ci appoggiai di spalle, feci una serie di respiri profondi, quindi andai al lavandino e mi spruzzai l'acqua fredda sul viso. Patch avrebbe scoperto che l'avevo spiato. La mia memorabile interpretazione non sarebbe passata inosservata. Di primo acchito, era una cosa negativa perché... be', era umiliante. E poi bisognava ammettere che Patch era molto riservato. E alle persone riservate non piace che si ficchi il naso nella loro vita. Come avrebbe reagito scoprendo che lo stavo osservando con la lente d'ingrandimento? Mi chiedevo anche come avevo potuto arrivare a tanto, dal momento che dentro di me non credevo affatto che lui fosse il tizio con il passamontagna. Per quanti oscuri e inquietanti segreti nascondesse, quello non era possibile. Chiusi il rubinetto, alzai lo sguardo e vidi il viso di Patch riflesso nello specchio. Urlai e mi voltai di scatto. Non sorrideva e non sembrava divertito. - Che ci fai qui? - farfugliai. - Lavoro. - Voglio dire qui. Non sai leggere? Il cartello sulla porta... - Comincio a pensare che tu mi stia pedinando. Ovunque mi giri, ci sei tu. - Volevo portare fuori Vee ~ spiegai. - È stata in ospedale -. Sembravo sulla difensiva, il che sicuramente mi dava un'aria ancora più colpevole. - Non avrei mai immaginato di incontrarti, dovrebbe essere il tuo giorno libero. E poi la verità è che ovunque io mi giri, ci sei tu. Gli occhi di Patch, attenti, intimidatori, scavavano nei miei. Soppesavano ogni mia parola, ogni mio gesto. - Mi spieghi quei capelli? Mi strappai la parrucca e la lanciai sul ripiano.* - Mi spieghi dove sei finito? Hai saltato gli ultimi due giorni di scuola. Ero quasi certa che Patch non mi avrebbe raccontato i fatti suoi, invece disse: - A giocare a paintball. Che stavi facendo al bar? - Parlavo con il barista. È un reato? -. Con una mano sul ripiano per tenermi in equilibrio, alzai il piede per slacciarmi il cinturino della scarpa. Nel chinarmi, il foglietto con la lista di domande che avevo infilato nella scollatura cadde a terra. Mi inginocchiai per raccoglierlo, ma Patch fu più svelto. Lo prese e lo tenne in alto, sopra la testa, mentre io saltellavo per riuscire ad acchiapparlo. - Ridammelo! - dissi. - Patch ha mai avuto un ordine restrittivo? - lesse. - Patch è un criminale? - Ridammelo subito! - sibilai furiosa. Rise sommessamente. Capii che aveva letto la domanda successiva. - Patch ha una ragazza? Si mise il foglietto nella tasca dei pantaloni. Fui molto tentata di prenderlo, nonostante il punto in cui si trovava. Si appoggiò di schiena al ripiano e portò gli occhi alla stessa altezza dei miei. - Invece di andare in giro a chiedere informazioni sul mio conto, preferirei che chiedessi le cose direttamente a me. - Quelle domande - dissi, indicando con un cenno della mano il posto in cui le aveva nascoste - erano uno scherzo. Le ha scritte Vee - aggiunsi grazie a un'ispirazione improvvisa. - E tutta colpa sua. - Conosco la tua calligrafia, Nora. - Va bene, va bene, ascolta - iniziai, sperando di farmi venire in mente qualcosa di intelligente, ma ci misi troppo tempo e persi l'occasione. - Niente ordini restrittivi - disse. - Nessun crimine. Alzai il mento. - Ragazza? -. Ripetei a me stessa che non mi importava come avesse risposto. Una risposta valeva l'altra. - Non sono affari tuoi. - Hai cercato di baciarmi - gli ricordai. - Quindi sono anche affari miei. Sulla sua bocca si disegnò l'ombra del suo irresistibile sorriso da cattivo ragazzo. Ebbi l'impressione che stesse rievocando ogni singolo dettaglio di quel quasi bacio, compreso il mio sospiro-barra-gemito. - Ex-ragazza - disse un attimo dopo. Un pensiero improvviso mi attraversò la mente. E se la ragazza che mi aveva seguita a Delphic e da Victoria's Secret fosse la ex di Patch? Magari mi aveva vista parlare con lui alla sala giochi e aveva pensato che tra me e lui ci fosse più di un'amicizia. Se avesse provato ancora qualcosa per lui, avrebbe potuto ingelosirsi al punto da seguirmi. Sembrava che le tessere del puzzle cominciassero ad andare a posto. E poi Patch aggiunse: - Ma non c'è più. - Che significa che non c'è più? - Se n'è andata. Non tornerà più. - Vuoi dire... che è morta? - chiesi. Patch non negò. Mi si attorcigliò lo stomaco. Non mi sarei mai aspettata una cosa del genere. Patch aveva una ragazza e ora era morta. La porta venne scossa da qualcuno che cercava di entrare; avevo dimenticato di averla chiusa a chiave. Il che mi portò a chiedermi come avesse fatto Patch a entrare: o aveva una chiave, o c'era un'altra spiegazione. Una spiegazione a cui probabilmente non volevo neanche pensare, tipo scivolare sotto la porta come l'aria. Come il fumo. - Devo tornare al lavoro -. Mi squadrò dalla testa ai piedi, indugiando un po' sotto i fianchi. - Gonna da urlo. Gambe da paura. Prima che riuscissi a mettere insieme un pensiero di senso compiuto, era già fuori. La donna anziana che aspettava di entrare mi guardò, poi guardò Patch con la coda dell'occhio mentre si allontanava lungo il corridoio, e mi disse: - Tesoro, quel tipo sembra sfuggente come il sapone. - Ottima descrizione - mormorai. Lei si sistemò i ricci grigi e corti. - Una ragazza ci si laverebbe volentieri con un sapone cosi. Dopo essermi rimessa i miei vestiti, tornai al tavolo e mi sedetti accanto a Vee. Elliot guardò l'orologio e inarcò un sopracciglio. - Mi spiace di averci messo così tanto - dissi. - Mi sono persa qualcosa? - No - rispose Vee. - Niente di che -. Mi diede un colpetto con il ginocchio. La domanda era implicita: «Tutto bene?». Prima che riuscissi a rispondere con un altro colpetto, Elliot intervenne: - La cameriera è arrivata mentre non c'eri. Ti ho ordinato un burrito -. Le sue labbra si piegarono in un sorrisetto da far accapponare la pelle. Presi la palla al balzo. - Veramente non sono sicura di avere fame -. Sfoggiai un'espressione nauseata, ma non troppo, in modo da non risultare falsa. - Credo di aver preso lo stesso virus di Jules. - Oddio - esclamò Vee. - Stai bene? Scossi il capo. - Cerco la cameriera e le dico di mettere il cibo in un sacchetto da portare via - suggerì Vee mentre rovistava nella borsa in cerca delle chiavi. - E io? - disse Elliot tra il serio e lo spiritoso. - Facciamo un'altra volta? - disse Vee. «Certo» pensai. 14 Tornai alla fattoria poco prima delle otto. Feci girare la chiave nella serratura, afferrai la maniglia della porta e spinsi forte con un fianco. Avevo chiamato mia madre qualche ora prima di cena; era in ufficio, doveva sbrigare delle faccende e non sapeva quando sarebbe tornata, quindi mi aspettavo di trovare la casa silenziosa, buia e fredda. Al terzo spintone, la porta cedette. Lanciai la borsa alla cieca e poi mi misi a litigare con la chiave, rimasta incastrata nella serratura. Dalla sera in cui Patch era stato lì, la serratura aveva sviluppato una tendenza divoratrice. Chissà se anche Dorothea se n'era accorta. - Ridammi... questa... stupida... chiave - dissi, muovendola un po' finché non venne via. La pendola dell'ingresso suonò le ore, e otto lunghi rintocchi echeggiarono nel silenzio. Entrai in soggiorno con l'intenzione di accendere il fuoco nella stufa a legna, quando, dall'altra parte della stanza, arrivò un fruscio e un leggero scricchiolio. Urlai. - Nora! - esclamò mia madre, gettando in aria una coperta e mettendosi a sedere di scatto sul divano. - Che succede? Con una mano aperta sul cuore e l'altra appoggiata al muro, dissi: - Mi hai spaventata! - Mi sono addormentata. Se ti avessi sentita arrivare ti avrei detto almeno "ciao" -. Si scostò i capelli dal viso e sbatté le palpebre come fanno i gufi. - Che ora è? Crollai sulla poltrona più vicina e cercai di riportare i battiti del cuore a un ritmo regolare. La mia immaginazione aveva evocato un paio di occhi spietati dietro un passamontagna. Ora che ero sicura che non si trattava della mia immaginazione, avevo un desiderio incontrollabile di raccontare tutto a mia madre, dall'incidente con la Neon all'aggressione di Vee. Qualcuno mi stava perseguitando, ed era violento. Avremmo cambiato le serrature alle porte e ovviamente avremmo coinvolto la polizia. Di notte mi sarei sentita molto più al sicuro con un agente parcheggiato davanti casa. - Volevo aspettare a parlartene - disse mia madre, interrompendo i miei pensieri - ma non credo ci sia un momento giusto per farlo. Aggrottai la fronte. - Che succede? Lei emise un lungo, triste sospiro. - Sto pensando di mettere in vendita la fattoria. - Cosa? Perché? - Facciamo sacrifici da un anno e io non sto guadagnando quanto avrei sperato. Ho pensato di cercare un secondo lavoro, ma sinceramente non credo che le ore di una giornata basterebbero -. Rise, ma non c'era traccia di umorismo nelle sue parole. - La paga di Dorothea è modesta, ma si tratta pur sempre di denaro in più che non abbiamo. L'unica alternativa che mi è venuta in mente è traslocare in una casa più piccola. O in un appartamento. - Ma questa è la nostra casa -. Tutti i miei ricordi erano lì. Il ricordo di mio padre era lì. Non riuscivo a credere che lei potesse provare dei sentimenti diversi. Avrei fatto qualsiasi cosa fosse necessaria pur di rimanere. - Mi do altri tre mesi di tempo, - disse - ma non voglio che tu ti faccia troppe illusioni. In quel momento capii che non potevo parlare a mia madre del tizio con il passamontagna. Avrebbe lasciato il lavoro l'indomani e accettato un posto vicino a casa e a quel punto, non avremmo avuto altra scelta che vendere la fattoria. - Parliamo di qualcosa di più allegro - continuò mentre si sforzava di sorridere. - Com'è andata la cena? - Bene - risposi imbronciata. - E Vee? Si sta riprendendo? - Può tornare a scuola domani. La mamma fece un'espressione ironica. - Fortuna che si è rotta il braccio sinistro, altrimenti non avrebbe potuto prendere appunti durante le lezioni e posso solo immaginare quanto ci sarebbe rimasta male. - Ah, ah, ah - replicai. - Vado a fare la cioccolata calda -. Mi alzai e indicai la cucina alle mie spalle. - Tu ne vuoi? - Ottima idea. Accendo il fuoco. Dopo una breve spedizione in cucina per prendere le tazze, lo zucchero e il barattolo del cacao, tornai da mia madre, che aveva messo a bollire l'acqua sulla stufa. Mi appollaiai sul bracciolo del divano e le passai una tazza. - Come hai fatto a sapere che eri innamorata di papà? chiesi, sforzandomi di farla sembrare una domanda buttata lì a caso. A parlare di papà c'era sempre il rischio di finire in un fiume di lacrime, cosa che speravo di evitare. La mamma si mise comoda sul divano e allungò i piedi sul tavolino. - Non lo sapevo. L'ho capito con il matrimonio, dopo un anno, circa. Non era la risposta che mi aspettavo. - Allora... perché l'hai sposato? - Perché pensavo di essere innamorata. E quando pensi di essere innamorata, tieni duro e fai in modo che funzioni finché diventa amore. - Avevi paura? - Di sposarlo? -. Rise. - Quella era la parte eccitante. Comprare l'abito da sposa, prenotare la cappella, mettere l'anello di diamanti. Visualizzai il sorriso malizioso di Patch. - Hai mai avuto paura di papà? - Ogni volta che i New England Patriots perdevano. Ogni volta che accadeva, mio padre andava in garage e accendeva la motosega. L'autunno di due anni fa se l'era trascinata nei boschi dietro la fattoria, aveva abbattuto dieci alberi e li aveva ridotti in legna da ardere. Ne avevamo ancora più della metà da consumare. La mamma batté leggermente sul posto accanto al suo e mi raggomitolai contro di lei, la testa poggiata alla sua spalla. - Mi manca - dissi. - Anche a me. - Ho paura di dimenticarmi che aspetto avesse. Non in foto, ma quando ciondolava per casa il sabato mattina o quando cucinava le uova strapazzate. La mamma intrecciò la mano alla mia. - Sei sempre stata così simile a lui, sin dall'inizio. - Davvero? -. Mi tirai su a sedere. - In che senso? - Tuo padre era un ottimo studente, molto intelligente. Non si metteva mai in mostra e non ostentava le sue opinioni, ma la gente lo rispettava. - Papà è mai stato... misterioso? Lei sembrò rifletterci su. - La gente misteriosa ha molti segreti. Tuo padre era un libro aperto. - È mai stato ribelle? Fece una risata breve, sbigottita. - Lo vedevi così? Harrison Grey, il contabile più onesto del mondo... ribelle? -. Sospirò in modo teatrale. - Il cielo non voglia! Ha portato i capelli lunghi per un po', ed erano pure biondi e ondulati come quelli di un surfista. E, certo, i suoi occhiali con la montatura di corno erano anni avanti qualsiasi moda, ma scusa, posso chiedere come siamo arrivate a parlare di questo? Non avevo idea di come dire a mia madre dei miei sentimenti per Patch. Non avevo idea di come dire a mia madre di Patch, punto e basta. Di sicuro lei si sarebbe aspettata una descrizione che includesse i nomi dei suoi genitori, la media scolastica, gli sport di squadra che praticava e a quali college pensava di fare domanda. Non volevo allarmarla dicendole che avrei scommesso tutto il contenuto del mio salvadanaio sul fatto che avesse la fedina penale sporca. - C'è un tipo - ammisi, incapace di non sorridere al solo pensiero di Patch. - Ci frequentiamo da poco. Soprattutto per questioni scolastiche. - Oh, un ragazzo - disse con aria misteriosa. - Be'? Frequenta il Club degli scacchi? È nel Consiglio studentesco? Nella squadra di tennis? - Gli piace giocare - buttai li, sperando che a mia madre l'informazione bastasse. - Un tennista! È bello come Rafael Nadal? Naturalmente, se parliamo di aspetto, io ho sempre preferito Roger Federer. Stavo per aprire bocca e dettagliare meglio quando, ripensandoci, decisi che probabilmente non era necessario. Giocatore di biliardo, di tennis... che differenza faceva? Squillò il telefono e mamma si allungò per rispondere. Dieci secondi di conversazione dopo, crollò sul divano e si diede una manata in fronte. - No, non è un problema. Corro subito, li prendo e li porto domattina come prima cosa. - Hugo? - chiesi dopo che ebbe riattaccato. Hugo era il capo di mia madre, e dire che telefonava in continuazione era un eufemismo. Una volta l'aveva richiamata al lavoro di domenica perché non riusciva a far funzionare la fotocopiatrice. - Ha lasciato del lavoro da finire in ufficio e vuole che vada io. Devo fare delle copie, ma non dovrei metterci più di un'ora. Tu hai finito i compiti? - Non ancora. - Allora mi consolerò pensando che non avremmo potuto passare del tempo insieme neanche se fossi rimasta qui -. Sospirò e si alzò. - Ci vediamo tra un po'? - Di' a Hugo che dovrebbe pagarti di più. Rise. - Molto di più. Non appena ebbi la casa tutta per me, tolsi i piatti della colazione dal tavolo della cucina e feci spazio per i libri. Inglese, storia, biologia. Armata di una matita nuova di zecca, aprii il libro e iniziai a lavorare. Quindici minuti dopo, la mia mente si ribellò, rifiutandosi di assimilare un altro paragrafo sui sistemi feudali europei. Mi chiesi cosa stesse facendo Patch dopo aver staccato dal lavoro. I compiti? Difficile. Pizza e partita di basket in Tv? Forse, ma non mi convinceva. Piazzare scommesse e giocare a biliardo alla Bo's Arcade? Sembrava un'ipotesi plausibile. Avevo il desiderio inspiegabile di guidare fino alla sala giochi e giustificare il mio comportamento di qualche ora prima, ma il pensiero fu velocemente accantonato per la semplice ragione che non avevo tempo. Mia madre sarebbe rientrata prima di me. Inoltre, Patch non era il tipo da farsi scovare facilmente. Tutti i nostri incontri erano avvenuti secondo i suoi piani, non i miei. Sempre. Salii le scale per andare a cambiarmi e mettermi qualcosa di comodo. Aprii la porta della mia camera e feci tre passi prima di fermarmi di colpo. I cassetti erano stati estratti dal comò e i vestiti sparpagliati per terra. Il letto era completamente a soqquadro. Gli sportelli dell'armadio erano aperti, e pendevano storti dai cardini. Libri e portafotografie erano disseminati dappertutto. Vidi il riflesso di un movimento nella finestra di fronte e mi voltai di scatto. Lui era appoggiato alla parete dietro di me, vestito di nero dalla testa ai piedi e con il passamontagna in testa. Il mio cervello, in totale, isterica confusione, aveva appena trasmesso alle gambe il comando di fuga, quando lui si lanciò verso la finestra, la aprì e si tuffò fuori. Scesi le scale tre gradini alla volta, schivai la ringhiera, percorsi di volata il corridoio, raggiunsi la cucina e chiamai il 911. Quindici minuti dopo, un'auto di pattuglia entrò sobbalzando nel vialetto. Tremando, aprii la porta e feci entrare i due agenti. Quello che entrò per primo era basso, largo e aveva i capelli sale e pepe. L'altro era alto e magro e aveva i capelli scuri, simili a quelli di Patch, ma tagliati molto corti vicino alle orecchie. Curiosamente, per certi versi ricordava Patch: carnagione scura, viso simmetrico, sguardo tagliente. Si presentarono; l'agente con i capelli scuri era il detective Basso, il suo collega il detective Holstijic. - Sei tu Nora Grey? - chiese il detective Holstijic. Annuii. - I tuoi genitori sono in casa? - Mia madre è uscita qualche minuto prima che chiamassi il 911. - Quindi sei da sola? Annuii ancora. - Perché non ci racconti cos'è successo? - chiese. Incrociò le braccia e piantò bene i piedi per terra, a gambe larghe, mentre il detective Basso dava un'occhiata. - Sono rientrata alle otto e ho fatto i compiti - dissi. Quando sono salita in camera mia, l'ho visto. Era tutto sottosopra, ha fatto un casino. - L'hai riconosciuto? - Indossava un passamontagna. E le luci erano spente. - Segni particolari? Tatuaggi? -No. - Altezza? Corporatura? Scavai controvoglia nella mia memoria a breve termine. Non volevo rivivere quel momento, ma era importante che ricordassi ogni indizio. - Corporatura nella media, ma un po' più alto della media. Diciamo della stessa statura del detective Basso. - Ha detto qualcosa? Scossi il capo. Il detective Basso ricomparve e disse al collega: - Tutto a posto -. Quindi salì al secondo piano. Sopra di noi, si sentivano le assi del pavimento scricchiolare mentre camminava in corridoio, mentre apriva e richiudeva le porte. Il detective Holstijic aprì la porta d'ingresso e si accovacciò per esaminare la serratura. - Quando sei tornata a casa, per caso la porta non era chiusa a chiave o era danneggiata? - No. Per entrare ho usato la mia chiave. Mia madre era in soggiorno e dormiva. Il detective Basso fece capolino in cima alle scale. - Puoi farci vedere la tua stanza? Salimmo le scale e io feci strada fino a dove il detective Basso, le mani sui fianchi, contemplava la mia camera dalla soglia. Rimasi immobile, inchiodata da un brivido di terrore. Il letto era rifatto. Il pigiama buttato sul cuscino, esattamente come l'avevo lasciato quella mattina. I cassetti del comò erano chiusi, i portafotografie disposti ordinatamente. Il baule ai piedi del letto era chiuso. Il pavimento sgombro. Le tende alla finestra ricadevano lunghe e morbide, incorniciando la finestra chiusa. - Hai detto di aver visto l'intruso - disse il detective Basso. Mi fissava con occhi freddi, che non si lasciavano sfuggire nulla. Occhi abituati a stanare le menzogne. Entrai nella stanza che, sebbene ordinata, non trasmetteva una sensazione di calore e sicurezza come al solito. Aleggiava una sensazione di violazione e minaccia. Indicai la finestra dall'altro lato della stanza, cercando di impedire alla mano di tremare. - Quando sono entrata, si è buttato giù dalla finestra. Il detective Basso guardò fuori. - E un bel salto - osservò. Provò ad aprire la finestra. - L'hai chiusa dopo che è andato via? - No, sono corsa giù a chiamare la polizia. - Qualcuno l'ha chiusa -. Il detective mi lanciò un altro sguardo tagliente, le labbra serrate. - Non credo che sarebbe riuscito a scappare via facilmente dopo aver fatto un salto simile - disse il detective Holstijic, raggiungendo il collega alla finestra. - Come minimo si sarebbe rotto una gamba. - Forse non è saltato, forse è sceso lungo l'albero - dissi. Il detective Basso girò la testa di scatto. - Allora? Quale delle due? E sceso o è saltato? Avrebbe potuto darti una spinta e uscire dall'ingresso principale. Sarebbe stato più logico. Io avrei fatto così. Te lo chiedo un'altra volta, riflettici bene. Hai davvero visto qualcuno nella tua stanza stasera? Non mi credeva. Pensava mi fossi inventata tutto. Per un attimo, fui tentata di pensarla allo stesso modo. Che cosa mi stava succedendo? Perché la mia realtà era così astrusa? Perché non coincideva mai con la verità? Per non impazzire, dissi a me stessa che il problema non ero io. Era lui. Il tizio con il passamontagna. Era lui, anche se non sapevo come facesse. La colpa era sua. Il detective Holstijic ruppe quel silenzio carico di tensione: - Quando tornano i tuoi? - Vivo con mia madre, ha dovuto tornare in ufficio. - Dobbiamo fare a entrambe qualche domanda - proseguì. Mi fece segno di sedermi sul letto, ma io scossi il capo, inebetita. - Hai rotto di recente con un ragazzo? -No. - Problemi di droga? Ora o in passato? -No. - Hai detto che vivi con tua madre. Dov'è tuo padre? - È stato un errore - mormorai. - Mi dispiace, non avrei dovuto chiamare. I due agenti si scambiarono un'occhiata. Il detective Holstijic chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. Il detective Basso aveva l'aria di chi ha sprecato fin troppo tempo e sta per esplodere. - Abbiamo delle cose da fare - disse. - Te la senti di restare da sola finché non torna tua madre? Non lo stavo più ascoltando. Non riuscivo a smettere di guardare la finestra. Come c'era riuscito? Quindici minuti. Aveva avuto solo quindici minuti per trovare il modo di rientrare e mettere in ordine la stanza prima che arrivasse la polizia. E con me al piano di sotto. Quando mi resi conto che eravamo stati da soli in casa, insieme, rabbrividii. Il detective Holstijic mi porse il suo biglietto da visita. - Puoi farci chiamare da tua madre appena rientra? - Ci vediamo fuori - disse il detective Basso, già a metà corridoio. 15 Credi che Elliot abbia ucciso qualcuno? - Shh! - sibilai a Vee, gettando uno sguardo alle file di banchi del laboratorio per assicurarmi che nessuno avesse sentito. - Senza offesa, tesoro, ma questa cosa sta diventando ridicola. Prima mi ha aggredito. Ora è un assassino. Scusa, ma... Elliot? Un omicida? Lui è, come dire, il ragazzo più gentile che abbia mai conosciuto. Quando è stata l'ultima volta che ha dimenticato di tenerti aperta la porta? Ah, già, è vero... mai. Eravamo a biologia e Vee era stesa su un banco a pancia in su. Stavamo facendo un esperimento sulla pressione sanguigna e lei avrebbe dovuto stare a riposo e in silenzio per cinque minuti. Di regola, avrei dovuto lavorare con Patch, ma il coach ci aveva concesso un giorno libero, in cui potevamo sceglierci il compagno che volevamo. Vee e io eravamo in fondo all'aula; Patch era in prima fila, in coppia con uno di quegli studenti bravi solo negli sport di nome Thomas Rookery. - E stato interrogato in qualità di sospetto in un'indagine di omicidio - sussurrai, sentendomi addosso lo sguardo del coach. Scribacchiai degli appunti sul foglio. «Il soggetto è calmo e rilassato. Il soggetto si è astenuto dal parlare per tre minuti e mezzo.» - La polizia ovviamente credeva avesse movente e possibilità. - Sei sicura che si tratti dello stesso Elliot? - Quanti Elliot Saunders credi che ci fossero a Kinghorn a febbraio? Vee tamburellò con le dita sulla pancia. - Sembra davvero molto difficile crederlo. E comunque, anche se è stato interrogato, qual è il problema? L'importante è che sia stato rilasciato, che non l'abbiano ritenuto colpevole. - Perché la polizia ha trovato un biglietto in cui la Halverson diceva di volersi suicidare? - E ora chi è questa Halverson? - Kjirsten Halverson - dissi spazientita. - La ragazza che pare si sia impiccata. - Magari si è impiccata davvero. Magari un giorno ha detto «Ehi, la vita fa proprio schifo» e si è appesa a un albero. È già successo. - Il fatto che quando hanno scoperto il biglietto in casa sua ci fossero dei chiari segni di effrazione non ti sembra una coincidenza troppo strana? - Viveva a Portland, sono cose che capitano. - Io credo che qualcuno abbia messo il biglietto apposta. Qualcuno che voleva togliere dai guai Elliot. - Chi avrebbe voluto togliere dai guai Elliot? La guardai con un «Indovina!» stampato in faccia. Vee si appoggiò al gomito sano. - Quindi vorresti dire che Elliot ha trascinato Kjirsten su un albero, le ha legato una corda intorno al collo, l'ha spinta giù dal ramo, poi è entrato nel suo appartamento forzando la porta e ha piazzato le prove che portano dritte all'ipotesi di suicidio. - Perché no? Vee ricambiò il mio « Indovina!». - Perché i poliziotti hanno già analizzato tutto. E se l'hanno archiviato come caso di suicidio, per me va bene così. - E che ne dici di questo - insistei. - Poche settimane dopo essere stato scagionato, Elliot ha cambiato scuola. Perché qualcuno dovrebbe lasciare la Kinghorn Prep per la Coldwater High School? - Su questo ti do ragione. - lo credo che stia cercando di sfuggire al suo passato, forse era diventato troppo difficile frequentare il posto dove aveva ucciso Kjirsten, aveva la coscienza sporca -. Mi portai la matita alle labbra. - Devo andare alla Kinghorn a fare un po' di domande. È morta da appena due mesi, ne staranno ancora parlando tutti. - Non lo so, Nora. Ho delle vibrazioni negative riguardo al fatto di organizzare un'operazione di spionaggio alla Kinghorn. Che hai intenzione di fare, chiedere informazioni su Elliot? E se lo scoprisse? Che penserebbe? La guardai. - Ha qualcosa di cui preoccuparsi solo se è colpevole. - E poi ti ucciderà per metterti a tacere -. Vee fece un sorriso a trentadue denti. Io no. - Voglio scoprire chi mi ha aggredita quanto te, - proseguì con un tono più serio - ma ti giuro sulla mia vita che non era Elliot. Ho rivissuto quel momento nella mia mente un centinaio di volte e lui non corrisponde al mio aggressore, neanche un po'. Fidati. - Okay, forse Elliot non ti ha aggredita - dissi, intenzionata a calmarla, ma niente affatto disposta ad accettare senza prove l'innocenza di Elliot. - Però è stato coinvolto in un'indagine per omicidio. E poi è troppo gentile, fa accapponare la pelle. Ed è amico di Jules. Vee aggrottò la fronte. - Jules? Cos'ha Jules che non va? - Non trovi strano che tutte le volte che siamo con loro lui sparisca? - E questo che vorrebbe dire? - La sera che siamo andate a Delphic, Jules se n'è andato quasi subito dicendo che doveva andare in bagno. È mai tornato? Dopo che sono andata a prendere lo zucchero filato, Elliot l'ha trovato? - No, ma pensavo fosse dovuto a un problema di tubature interne. - Poi, l'altra sera, all'improvviso, ha detto di essere malato -. Mi strofinai la gomma della matita sul naso, assorta. - Pare che stia sempre male. - Credo che tu dia troppa importanza alla cosa. Magari... magari ha la SII. -SII? - Sindrome dell'Intestino Irritabile. Abbandonai l'ipotesi di Vee per dedicarmi a un po' di esercizio mentale e cercare di afferrare un'idea che galleggiava lontana. La Kinghorn Prep era a un'ora di macchina. Se la scuola era così severa come sosteneva Elliot, come faceva Jules ad avere il tempo di venire continuamente a Coldwater? Quasi ogni mattina, mentre andavo a scuola, lo vedevo fare colazione con Elliot da Enzo. Inoltre, dopo le lezioni, dava sempre un passaggio a casa a Elliot. Era quasi come se Elliot avesse Jules in pugno. E non era tutto. Mi strofinai la gomma sul naso ancora più forte. Stavo dimenticando qualcosa? - Perché Elliot avrebbe dovuto uccidere Kjirsten? - riflettei a voce alta. - Forse lei l'aveva visto fare qualcosa di illegale, e lui l'ha uccisa per non metterla a tacere. Vee sospirò. - Questa cosa inizia a sconfinare nella terra di Senza Senso. - Manca qualcosa. Qualcosa che non riusciamo a vedere. Vee mi guardò come se la mia logica se ne fosse andata in gita nello spazio. - Secondo me, stai vedendo fin troppe cose. Sta cominciando a somigliare a una caccia alle streghe. E poi, improvvisamente, trovai l'elemento mancante. Mi aveva assillato per tutto il giorno, aveva cercato di richiamare la mia attenzione, ma ero stata travolta da mille altre cose e non gli avevo dato ascolto. Il detective Basso mi aveva chiesto se mancasse qualcosa in camera mia. E in quell'istante mi resi conto che sì, qualcosa era sparito. Avevo lasciato l'articolo su Elliot sul comò. Tornai indietro con la memoria per esserne sicura e, sì, quella mattina l'articolo era sparito. Senza ombra di dubbio. - È stato lui! - esclamai. - Elliot è entrato in casa mia ieri sera. Ha rubato l'articolo -. Dal momento che l'articolo era in bella vista, evidentemente Elliot aveva messo a soqquadro la mia stanza solo per terrorizzarmi. O forse per punirmi proprio per aver trovato l'articolo. - Frena, cosa dici? - chiese Vee. - Qualcosa non va? - ci interruppe il coach, fermandosi accanto a me. - Esatto, qualcosa non va - rispose Vee. Mi indicò e mi fece le smorfie nascosta dalla schiena del coach. - Mmm... il soggetto sembra non avere battito - dissi, dando un pizzicotto al polso di Vee. Mentre il coach provava le pulsazioni a Vee, lei fingeva di essere sul punto di svenire e si sventolava. Il coach mi guardò al di sopra degli occhiali. - Ecco, Nora. Qui. Un bel battito forte e chiaro. Sei sicura che il soggetto si sia astenuto da ogni attività, incluso parlare, per tutti e cinque i minuti? Questo battito non è lento come mi sarei aspettato. - Il soggetto ha lottato contro l'impulso di parlare - intervenne Vee. - E il soggetto ha avuto difficoltà a rilassarsi su un banco duro come la pietra. Il soggetto vorrebbe proporre di fare cambio di posto con Nora, così che sia lei il nuovo soggetto -. Vee usò il braccio destro per afferrarmi e tirarsi su. - Non farmi pentire di avervi permesso di scegliere il compagno - ci ammonì il coach. - Non mi faccia pentire di essere venuta a scuola, oggi replicò Vee con voce melodiosa. Il coach le scoccò un'occhiata di avvertimento, quindi prese il mio foglio quasi vuoto e gli diede una rapida scorsa. - Il soggetto paragona gli esperimenti di biologia a una quantità eccessiva di sedativi assunti sotto controllo medico disse Vee. Il coach soffiò nel fischietto e tutte le teste si voltarono nella sua direzione. - Patch? - disse. - Ti dispiace cambiare posto? Sembra che ci siano dei problemi qui. - Stavo scherzando! - esclamò Vee. - Sono pronta... farò l'esperimento. - Avresti dovuto pensarci quindici minuti fa - replicò il coach. - La prego, mi perdoni - lo supplicò Vee sbattendo le ciglia con aria angelica. Il coach le mise il quaderno sotto il braccio sano. - No. Mentre se ne andava controvoglia dall'altra parte dell'aula, Vee si voltò a guardarmi e formò con le labbra la parola «Scusa!». Un attimo dopo, Patch era seduto sul banco accanto a me; strinse le mani tra le ginocchia e si mise a fissarmi. - Che c'è? - chiesi, innervosita dall'intensità del suo sguardo. Lui sorrise. - Stavo ripensando alle scarpe che avevi ieri sera. Avvertii la solita fitta di agitazione che Patch provocava, e, come sempre, non riuscii a decidere se si trattasse di una cosa buona o cattiva. - Com'è andata la tua serata? - chiesi per rompere il ghiaccio, stando bene attenta a mantenere un tono di voce neutro. - Piuttosto bene, interessante. La tua? - Niente di che. - Ti sei fatta un bel sonno? Si stava prendendo gioco di me. - Non mi sono fatta un bel sonno. Con un sorrisetto astuto ribatté: - Chi ti sei fatta? Restai un attimo senza parole, immobile, la bocca aperta. Cos'era, un'insinuazione? - Sono solo curioso di conoscere la concorrenza. - Cresci. La sua bocca si distese. - Rilassati. - Sono già nel mirino del coach, quindi per favore cerchiamo di concentrarci sull'esperimento. Non sono dell'umore adatto per fare da cavia, quindi, se non ti dispiace... -. Indicai il banco. - Non posso - disse. - Non ho un cuore. Mi dissi che non intendeva in senso letterale. Mi sdraiai sul banco e appoggiai le mani sulla pancia. Dimmi quando sono passati i cinque minuti -. Chiusi gli occhi, preferivo non guardare gli occhi neri di Patch fissi su di me. Qualche istante dopo, sollevai una palpebra. - Tempo scaduto - disse Patch. Gli offrii il polso in modo che potesse misurarmi le pulsazioni. Patch mi prese la mano e una scossa di calore schizzò su dal braccio per terminare, con una fitta, nello stomaco. - Il battito del soggetto è aumentato al momento del contatto - disse. - Non scriverlo -. Avrei dovuto avere un tono irritato, invece sembrava che stessi soffocando un sorriso. - Il coach vuole che siamo precisi. - E tu cosa vuoi? - gli chiesi. Gli occhi di Patch si allacciarono ai miei. Dentro di sé stava sicuramente sorridendo. - A parte quello, ovvio - dissi. Terminate le lezioni, mi diressi nell'ufficio della signorina Greene per la seduta che avevo in programma. A fine giornata, il dottor Hendrickson teneva sempre la porta spalancata, una specie di invito non verbale rivolto agli studenti a fermarsi da lui. Ora, invece, ogni volta che passavo di lì, la porta era chiusa. Sempre. Il messaggio "non disturbare" era implicito. - Nora - disse la Greene dopo che ebbi bussato - prego, accomodati. L'ufficio era del tutto a posto adesso, completamente arredato. Le piante erano aumentate e sulla parete sopra la scrivania aveva appeso una serie di stampe botaniche. - Ho pensato molto a ciò che hai detto la settimana scorsa iniziò. - Sono arrivata alla banale conclusione che il nostro rapporto debba basarsi sulla fiducia e sul rispetto. Non parleremo di tuo padre, a meno che non sia tu a chiederlo. - Okay - dissi con diffidenza. Di cos'altro avremmo parlato allora? - Ho sentito delle notizie che mi hanno molto deluso - rispose. Il sorriso sparì dalla sua faccia e si piegò in avanti, i gomiti sulla scrivania. Aveva una penna in mano, e la faceva rotolare tra i palmi. - Non voglio ficcare il naso nella tua vita privata, Nora, ma pensavo di essere stata molto chiara riguardo il tuo rapporto con Patch. Non riuscivo a capire cosa stesse insinuando. - Non gli ho fatto da tutor -, E comunque non erano davvero fatti suoi. - Sabato sera Patch ti ha dato un passaggio dal Delphic Seaport. E tu l'hai invitato a entrare in casa. Trattenni a stento l'istinto di protestare. - E lei come fa a saperlo? - In qualità di psicologa scolastica, il mio lavoro consiste anche nel farti da guida - replicò. - Ti prego, promettimi che farai molta, molta attenzione a Patch -. Mi guardò come se si aspettasse che giurassi davvero. - Non è andata proprio così - spiegai. - La persona con cui ero andata mi ha lasciata a piedi al Delphic. Non avevo scelta. Non sto cercando di passare del tempo con lui -. Be', a parte la sera prima al Borderline... però, a mia discolpa, va detto che non mi aspettavo di trovarlo lì. Avrebbe dovuto essere la sua giornata libera. - Sono molto contenta di sentirtelo dire - commentò lei, anche se non sembrava molto convinta della mia innocenza. - C'è qualcos'altro di cui vorresti parlarmi? Qualcosa che ti preoccupa? Non avevo intenzione di raccontarle che Elliot aveva fatto irruzione in casa mia. Non mi fidavo di lei. Non avrei saputo dire che cosa, ma qualcosa in lei mi infastidiva. E non mi piaceva il fatto che continuasse ad alludere alla pericolosità di Patch senza spiegarmi il perché. Sembrava seguisse un piano preciso, che naturalmente a me sfuggiva. Raccolsi lo zaino da terra e aprii la porta. - No - dissi. 16 Vee era appoggiata al mio armadietto e si scarabocchiava il gesso con un pennarello rosso. - Ciao - disse quando la raggiunsi. - Dov'eri? Ti ho cercata nel laboratorio dell'e-zine e in biblioteca. - Avevo una seduta con la signorina Greene, la nuova psicologa -. Lo dissi con noncuranza, ma dentro di me sentivo una specie di vuoto, di tremore. Non riuscivo a smettere di pensare al fatto che Elliot fosse penetrato in casa mia. Cosa poteva impedirgli di ripeterlo? O peggio? - Che succede? - chiese Vee. Feci girare il lucchetto dell'armadietto e tirai fuori i libri. - Sai quanto costa un buon allarme? - Senza offesa, tesoro, ma la tua auto non fa gola a nessuno. La fulminai con lo sguardo. - Dicevo per casa mia. Voglio essere sicura che Elliot non riesca a entrare di nuovo. Vee si guardò intorno e si schiarì la voce. - Che c'è? - sbottai. Vee alzò le mani. - Niente. Niente di niente. Se sei ancora intenzionata a dimostrare la colpevolezza di Elliot... liberissima di farlo. È un'idea folle, ma hai tutto il diritto di averla. Chiusi l'armadietto con un colpo secco che echeggiò in tutto il corridoio. Stavo per rispondere, seccata, che almeno lei avrebbe dovuto credermi, ma tenni a freno la lingua e invece dissi: - Sto andando in biblioteca, sono un po' di fretta -. Uscimmo dall'edificio, attraversammo i giardini e, quando arrivammo al parcheggio, mi fermai. Mi guardai intorno in cerca della Fiat, poi mi ricordai che quella mattina mi aveva accompagnata mia madre. Vee aveva il braccio rotto, quindi non era venuta in macchina. - Cavoli - disse lei, leggendomi nel pensiero - siamo senza macchina. Riparandomi gli occhi dal sole, guardai in direzione della strada. - Questo significa che dovremo andare a piedi. - Non dobbiamo. Devi. Verrei con te, ma la mia regola mi impone di non andare in biblioteca più di una volta a settimana. - Questa settimana non l'hai fatto - le feci notare. - Vero, ma potrei doverci andare domani. - Domani è giovedì. In tutta la tua vita, hai mai studiato di giovedì? Vee si picchiettò il labbro con un dito e, con aria assorta, rispose: - Ho mai studiato di mercoledì? - Non che io ricordi. - Vedi? Non posso venire, romperei una tradizione. Trenta minuti dopo, salivo le scale che conducevano all'ingresso principale della biblioteca. Una volta dentro, lasciai perdere i compiti e andai dritta alla sala multimediale, dove passai al setaccio Internet in cerca di altre informazioni su "Il caso della studentessa impiccata alla Kinghorn". Non trovai molto. All'inizio, le notizie erano state strombazzate parecchio, ma una volta scoperto il biglietto della vittima e scagionato Elliot i giornali erano passati ad altro. Era ora di fare un viaggetto a Portland. Non avrei saputo molto altro continuando a spulciare gli articoli in archivio. Forse andando di persona avrei avuto più fortuna. Chiusi la sessione e chiamai mia madre. - Devo essere a casa per le nove stasera? - Sì, perché? - Pensavo di prendere un autobus per Portland. Lei fece una delle sue risate che volevano dire: «Stai scherzando?». - Devo intervistare alcuni studenti della Kinghorn Prep. È per una ricerca -. Non stavo mentendo, non del tutto almeno. Certo, sarebbe stato più facile se non fossi stata schiacciata dal senso di colpa per non averle raccontato dell'effrazione e della conseguente visita della polizia. Avevo pensato di dirglielo, ma ogni volta che aprivo la bocca le parole scappavano via. Facevamo fatica a tirare avanti, avevamo bisogno dello stipendio di mamma. Se le avessi detto di Elliot, avrebbe lasciato subito il lavoro. - Non puoi andare in città da sola. Domani c'è scuola e presto farà buio. E poi, il tempo di arrivare e gli studenti saranno già andati via. Sospirai. - Okay, torno a casa. - So che ti avevo promesso di darti un passaggio, ma sono bloccata in ufficio -. Sentii un rumore di carte rimescolate e immaginai che tenesse il telefono sotto il mento, con il filo attorcigliato. - Sarebbe troppo chiederti di andare a piedi? Non faceva tanto freddo, avevo il mio giubbetto di jeans e due gambe: potevo farlo. Peccato che soltanto alla mia parte razionale il piano sembrasse sensato, perché a un'altra parte di me l'idea di tornare a piedi faceva venire i crampi allo stomaco. Siccome però l'unica alternativa era passare la notte in biblioteca, non avevo scelta. Ero quasi arrivata all'ingresso della biblioteca quando sentii qualcuno che mi chiamava. Mi voltai e vidi Marcie Millar venirmi incontro. - Ho sentito di Vee - disse. - Davvero increscioso. Insomma, chi mai potrebbe aggredirla? A meno che, insomma, non avesse potuto farne a meno. Forse si è trattato di difesa personale. Ho sentito che era buio e pioveva. Vee potrebbe essere scambiata facilmente per un alce. O un orso... un bisonte... insomma un qualsiasi animale massiccio. - Be', è stato bello parlare con te, ma purtroppo ho un sacco di cose più interessanti da fare. Tipo infilare la mano nel tritarifiuti -. Proseguii verso l'uscita. - Spero non abbia toccato il cibo dell'ospedale continuò Marcie seguendomi. - So che è pieno di calorie e lei non resiste all'idea di ingrassare. Mi voltai di scatto. - Ora basta. Un'altra parola e io... -. Sapevamo entrambe che era una minaccia a vuoto. Marcie fece un sorrisetto affettato. - Tu cosa? - Sgorbio - dissi. - Patetica. - Stronza. - Sfigata. - Troia anoressica. - Wow - disse Marcie, mentre, camminando all'indietro, barcollava in modo melodrammatico, una mano sul cuore. - Dovrei reagire all'offesa? Vecchio trucco, non funziona. Almeno io so come esercitare un po' di autocontrollo. Il vigilante alla porta si schiarì la voce. - Fatela finita. Continuate fuori o sarò costretto a trascinarvi nel mio ufficio e chiamare i vostri genitori. - Parli con lei - brontolò Marcie, puntando l'indice contro di me. - Io sono quella che sta cercando di essere gentile. È lei che mi ha insultato, io le stavo solo manifestando il mio dispiacere per la sua amica. - Fuori, ho detto. - Sta molto bene in uniforme - gli disse Marcie, e sfoderò il suo caratteristico sorriso tossico. Lui mosse la testa di scatto in direzione dell'uscita. - Fuori di qui - ripetè, ma il tono si era ammorbidito. Marcie ancheggiò fino all'ingresso. - Le dispiace aprirmi la porta? Ho le mani occupate -. Aveva in mano un libro. Un tascabile. La guardia spinse il pulsante per gli invalidi e le porte si aprirono. - Oh, grazie - sussurrò Marcie e gli mandò un bacio. Non la seguii. Non sapevo cosa sarebbe successo se l'avessi fatto, ma ero così carica di emozioni negative che avrei potuto fare qualcosa di cui mi sarei pentita. Non ero tipo da insulti e litigi, a meno che non avessi a che fare con Marcie Millar. Girai i tacchi e tornai in biblioteca. Entrai in ascensore e spinsi il pulsante del seminterrato. Avrei potuto aspettare che Marcie andasse via, invece decisi di usare l'altra uscita. Cinque anni prima, il Comune aveva deciso di spostare la biblioteca pubblica in un edificio storico situato proprio nel centro della città vecchia di Coldwater. L'edificio di mattoni rossi risaliva alla metà del diciannovesimo secolo e aveva una romantica cupola e una terrazza panoramica da cui si vedevano le navi entrare in porto. Purtroppo, l'edificio non aveva il parcheggio, così era stato deciso di scavare un tunnel che collegasse la biblioteca al garage sotterraneo del palazzo di giustizia, che si trovava dall'altra parte della strada. Così il parcheggio avrebbe servito entrambi gli edifici. L'ascensore si fermò con un rumore metallico e io uscii. Il tunnel era illuminato con lampade al neon, che tremolavano di una luce violetta. Mi ci volle un momento per costringere i piedi a muoversi. All'improvviso, fui assalita dal pensiero di mio padre, la notte in cui era stato ucciso; mi chiedevo se anche lui si era trovato in una strada isolata e buia come il tunnel che avevo davanti. «Controllati» mi dissi. «Non è stato un delitto premeditato. Hai passato l'ultimo anno con la paranoia di ogni vicolo buio, stanza buia, ripostiglio buio. Non puoi vivere tutta la vita con il terrore di avere una pistola puntata contro.» Decisa a provare che il pericolo esisteva solo nella mia testa, mi avviai lungo il tunnel, accompagnata dal lieve rumore dei miei passi sul cemento. Spostai lo zaino sulla spalla sinistra e calcolai quanto mi ci sarebbe voluto per arrivare a casa e se prendere o meno la scorciatoia che tagliava la ferrovia ora che era buio. Speravo che, tenendo la mente occupata e concentrata su pensieri positivi, non avrei avuto tempo di concentrarmi sulla paura che continuava a crescere. Il tunnel finì e davanti a me si stagliò una figura scura. Mi fermai con un piede a mezz'aria e il cuore perse un paio di battiti. Patch. Maglietta nera, jeans a vita bassa e stivali con la punta di metallo. Lo sguardo non sembrava sincero e aveva un sorriso un po' troppo scaltro per essere confortante. - Che ci fai qui? - chiesi, mentre, scostandomi i capelli dal viso, gettavo uno sguardo dietro di lui, alla rampa che conduceva al piano superiore. Sapevo che Patch era davanti a me, ma varie luci sul soffitto erano fulminate e quindi non riuscivo a vedere bene. Se aveva in mente uno stupro, un omicidio o altro, quello era il posto perfetto. Si mosse verso di me. Io indietreggiai. Mi fermai contro un'automobile e decisi di approfittare dell'occasione. Ci girai rapidamente intorno e decisi di affrontarlo, visto che adesso ero protetta dalla carrozzeria. Patch mi guardò da sopra il tettuccio e sollevò le sopracciglia. - Ho delle domande da farti - dissi. - Molte. - Su che cosa? - Su tutto. La bocca gli si contrasse, ma ero abbastanza sicura si trattasse di un sorriso che lottava per venire fuori. - E se le mie risposte prendono una brutta piega, che fai, scappi? -. Fece un cenno in direzione della rampa d'uscita. Già, il piano era quello. Più o meno. Con qualche falla evidente, tipo il fatto che Patch era molto più veloce di me. - Sentiamo queste domande. - Come facevi a sapere che sarei stata in biblioteca questa sera? - Ho tirato a indovinare. Non ci credetti neanche per un momento. Patch era un predatore, almeno una parte di lui lo era. Se l'esercito l'avesse scoperto, avrebbe fatto di tutto per reclutarlo. Patch mosse rapido alla sua sinistra. Io mi spostai verso la parte posteriore dell'auto. Si fermò, mi fermai anch'io. Al momento ci trovavamo uno di fronte all'altra, lui davanti al muso dell'auto e io di fronte alla targa. - Dov'eri domenica pomeriggio? - chiesi. - Mi hai seguita quando sono andata a fare shopping con Vee? -. Patch poteva anche non essere il tizio con il passamontagna, ma questo non significava che non fosse coinvolto. Mi stava nascondendo qual cosa. Mi nascondeva qualcosa sin dal momento in cui ci eravamo conosciuti. Era una coincidenza che l'ultimo giorno normale della mia vita fosse stato quello precedente il nostro incontro? Non lo credevo affatto. - No. A proposito, com'è andata? Comprato qualcosa? - Forse -. Stavo già abbassando la guardia. - Cosa? Vee e io eravamo riuscite ad andare solo da Victoria's Secret e avevo speso trenta dollari per il reggiseno di pizzo, ma non avevo alcuna intenzione di dirglielo. Gli raccontai invece della mia serata, da quando avevo avuto la sensazione di essere seguita al momento in cui avevo trovato Vee sul ciglio della strada. - Allora? - domandai quando ebbi finito. - Hai qualcosa da dire? - No. - Non hai idea di cosa sia successo a Vee? - No. - Non ti credo. - Questo perché non riesci a fidarti degli altri -. Appoggiò le mani aperte sull'auto e si protese sul cofano. - Ne abbiamo già parlato. Sentii la rabbia esplodermi dentro. Patch aveva di nuovo ribaltato la situazione. Invece di essere puntati su di lui, i riflettori erano tornati su di me. La cosa più fastidiosa era che mi ricordasse continuamente quello che sapeva di me. Cose private, come la mia diffidenza. Patch si spostò di scatto in senso orario. Mi allontanai di corsa, fermandomi appena lui si fermava. Mi guardò fisso negli occhi, come se cercasse di anticipare la mia prossima mossa. - Cos'è successo sull'Arcangelo? Mi hai salvata? - Se l'avessi fatto, adesso non saremmo qui a discuterne. - Vuoi dire se non mi avessi salvata non saremmo qui. Io sarei morta. - Non è quello che ho detto. Non avevo idea di cosa intendesse dire. - Perché non saremmo qui? - Tu saresti qui -. Pausa. - Io probabilmente no. Prima che riuscissi a capire cosa stesse dicendo, si lanciò contro di me. Presa alla sprovvista, scappai verso la rampa del garage. Riuscii a superare tre auto prima che mi afferrasse per un braccio. Mi fece girare e mi sbatté contro un pilastro di cemento. - Di' addio al tuo piano - mormorò. Lo guardai di traverso, ma ero anche in preda al panico. Mi rivolse un sorriso smagliante, pieno di cattive intenzioni, confermandomi che avevo tutte le ragioni per sudare freddo. - Che succede? - chiesi, cercando disperatamente di avere un tono ostile. - Sono pronta a giurare che sento la tua voce nella mia testa. È possibile? E perché dici di essere venuto a scuola per me? - Ero stufo di ammirare le tue gambe da lontano. - Voglio la verità -. Ingoiai a fatica e aggiunsi: - Ho il diritto di sapere tutto. - Vuoi sapere tutto - ripetè con un sorrisetto malizioso. - Ti riferisci alla promessa di scoprire me? Di cosa stiamo parlando, esattamente? Non riuscivo a ricordare di cosa stessimo parlando esattamente. Sapevo solo che lo sguardo di Patch era appassionato, e molto. Dovevo smettere di guardarlo negli occhi, così presi a fissarmi le mani. Vidi che luccicavano di sudore, così me le feci scivolare dietro la schiena. - Devo andare. Devo fare i compiti. - Cos'è successo di là? -. Indicò gli ascensori con il mento. - Niente. Prima che riuscissi a fermarlo, premette il palmo della mano contro il mio. Poi fece scivolare le dita tra le mie, allacciandole. - Hai le nocche bianche - disse, e le sfiorò con le labbra. - E quando sei arrivata eri agitata. - Lasciami. E non sono agitata. Non proprio. Ora scusami, devo andare a fare i compiti. - Nora -. Patch pronunciò il mio nome a bassa voce, ma con tutta l'intenzione di ottenere quello che voleva. - Ho litigato con Marcie Millar -. Non avevo idea del perché glielo stessi confessando. L'ultima cosa che volevo era aprire un'altra finestra e permettergli di guardarmi dentro. - Okay? dissi con tono esasperato. - Soddisfatto? Vuoi lasciarmi andare adesso? - Marcie Millar? Cercai di liberare le dita, ma Patch non era della stessa idea. - Non conosci Marcie? - lo provocai. - Difficile a credersi, visto che frequenti la Coldwater High e sei dotato di un cromosoma Y. - Dimmi della lite. - Ha detto che Vee era grassa. - E...? - Io le ho detto che era una troia anoressica. Patch cercava di non scoppiare a ridere. - Tutto qui? Niente cazzotti? Niente morsi, graffi o tirate di capelli? Socchiusi gli occhi. - Bisognerà insegnarti a fare a botte, angelo. - Io so fare a botte -. Sollevai orgogliosa il mento, nonostante mentissi. Quella volta non si preoccupò di reprimere il sorriso. - Guarda che ho preso lezioni di boxe -. Di Kickboxing. In palestra. Una volta. Patch stese la mano a mo' di bersaglio. - Colpisci più forte che puoi. - Non mi piace la violenza gratuita. - Siamo soli qui sotto -. La punta degli stivali di Patch sfiorava la punta delle mie scarpe. - Un tipo come me potrebbe approfittarsi di una ragazza come te. Fammi vedere che cosa sai fare. Indietreggiai lentamente e vidi la moto nera di Patch. - Ti do un passaggio. - Vado a piedi. - E tardi ed è buio. Su questo aveva ragione, che mi piacesse o no. Dentro di me, però, si combatteva un furioso braccio di ferro. Ero stata una stupida a pensare di tornare a casa a piedi, e ora dovevo scegliere tra andare in moto con Patch o rischiare che mi accadesse qualcosa di peggio. - Inizio a pensare che l'unica ragione per cui continui a offrirmi un passaggio è perché sai quanto poco ami questo affare -. Sospirai nervosa, poi mi infilai il casco e montai dietro di lui. Non era colpa mia se dovevo stargli così appiccicata, la sella non era quel che si dice "spaziosa". Patch ridacchiò. - Veramente io ho in mente un altro paio di buone ragioni. Percorse velocemente la rampa del garage, accelerando verso l'uscita, che era chiusa da una sbarra. Avrebbe rallentato abbastanza da inserire le monete nella biglietterìa automatica? No, frenò dolcemente facendomi scivolare ancora più vicina a lui. Introdusse le monete e uscimmo in strada. Patch accostò la moto al vialetto di casa mia e io saltai giù, aggrappandomi a lui per non cadere. Mi tolsi il casco e glielo restituii. - Grazie del passaggio - dissi. - Che fai sabato sera? Pausa. - Ho un appuntamento con i soliti. Quello sembrò risvegliare il suo interesse. – I soliti? - I compiti. - Cancellalo. Ero molto più rilassata. Patch era caldo e solido, e aveva un profumo meraviglioso. Un profumo intenso di menta e terra scura. Nessuno ci era saltato addosso mentre tornavamo a casa e le finestre del pianterreno erano accese. Per la prima volta in tutta la giornata, mi sentii al sicuro. Volendo ignorare che Patch mi aveva intrappolata in un tunnel buio e probabilmente mi stava seguendo di nascosto. Tutto sommato, forse non così tanto al sicuro. - Non esco con gli sconosciuti. - Per fortuna io sì. Passo a prenderti alle cinque. 17 Sabato piovve e fece freddo tutto il giorno. Seduta accanto alla finestra, guardavo la pioggia bersagliare le pozzanghere che si allargavano sul prato. Avevo una copia dell'Amleto sulle ginocchia, una penna infilata dietro l'orecchio e una tazza di cioccolata calda, ormai vuota, accanto ai piedi. Il foglio con le domande relative alla comprensione del testo giaceva sul tavolo ed era immacolato come il giorno in cui la professoressa Lemon ce l'aveva consegnato. Non andava bene per niente. Mia madre era uscita da una mezz'ora per andare a lezione di yoga, e nonostante avessi provato e riprovato una serie di frasi diverse per comunicarle il mio appuntamento con Patch, alla fine l'avevo lasciata andare senza dirle niente. Ripetevo a me stessa che non era importante, che ormai avevo sedici anni e potevo decidere quando e perché uscire, ma la verità era che avrei dovuto informarla. Fantastico. Il senso di colpa mi avrebbe tormentato tutta la sera. Quando la pendola dell'ingresso suonò le quattro e mezza, gettai il libro da una parte e trotterellai di sopra, in camera mia. La giornata era volata via tra compiti e faccende domestiche, così ero riuscita a non pensare all'appuntamento. Ma ora che mancava così poco, il nervosismo aveva preso il sopravvento. Che mi piacesse o no, Patch e io avevamo degli affari in sospeso. Il nostro bacio era stato interrotto. Prima o poi, quel bacio avrebbe dovuto essere concluso. Volevo che si concludesse, non avevo dubbi a proposito. Solo che non ero sicura di volere che accadesse proprio quella sera. Forse non ero pronta. E il consiglio di Vee, che dal fondo della mia mente continuava a saltar fuori come una bandierina rossa, non era affatto d'aiuto: «Sta' lontana da Patch». Mi piazzai davanti allo specchio e feci un inventario: trucco, il minimo indispensabile, giusto un po' di mascara; cespuglio di capelli, sai che novità; le labbra avrebbero potuto essere più lucide. Mi passai la lingua sul labbro inferiore. Quel gesto mi fece pensare ancora di più al mio quasi bacio con Patch e, senza volerlo, arrossii. Se un quasi bacio aveva quell'effetto, mi chiedevo cosa avrebbe provocato un vero bacio. La mia immagine riflessa sorrise. - Niente di serio - mi dissi mentre provavo gli orecchini. I primi erano grandi, stravaganti e turchesi... troppo impegnativi. Li scartai e provai due topazi a goccia. Meglio. Chissà cos'aveva in mente Patch. Cena? Film? - In fondo è come un appuntamento per studiare biologia - dissi con disinvoltura al mio riflesso. - Però senza la biologia e lo studio. Mi infilai dei jeans a sigaretta e un paio di ballerine, poi avvolsi una sciarpa di seta blu intorno alla vita e legai le due estremità dietro il collo, creando un top. Mi stavo passando le dita tra i capelli per renderli vaporosi quando sentii bussare alla porta. - Arrivo! - gridai mentre scendevo le scale. Mi diedi un'ultima controllata nello specchio dell'ingresso, aprii la porta e mi trovai di fronte due uomini in impermeabile scuro. - Nora Grey - disse il detective Basso mostrandomi il distintivo. - Ci rivediamo. Mi ci volle un momento per riacquistare la voce. - Che ci fate qui? Indicò il collega con un cenno del capo. - Ti ricordi del detective Holstijic, vero? Ti dispiace se entriamo a farti un paio di domande? -. Più che un permesso, sembrava una minaccia. - Che succede? - chiesi, spostando lo sguardo da uno all'altro. - Tua madre è in casa? - chiese il detective Basso. - È a lezione di yoga. Perché? Si pulirono i piedi ed entrarono in casa. - Puoi dirci di te e Marcie Millar? Che cosa avete fatto in biblioteca mercoledì pomeriggio? - chiese il detective Holstijic lasciandosi cadere sul divano. Il collega invece rimase in piedi a guardare le fotografie di famiglia disposte sulla mensola del camino. Ci misi un po' a registrare la domanda. La biblioteca. Mercoledì pomeriggio. Marcie Millar. - Sta bene? - chiesi. Non era un segreto che Marcie non occupasse un posto speciale nel mio cuore, ma questo non significava che la volessi nei guai o in pericolo. Soprattutto, non volevo che fosse finita nei guai tirando in mezzo me. Il detective Basso mise le mani sui fianchi. - Cosa ti fa pensare che non stia bene? - Io non ho fatto niente a Marcie. - Perché stavate litigando? - chiese il detective Holstijic. La guardia della biblioteca ci ha raccontato che i toni erano accesi. - Non è così. - E com'è allora? - Ci siamo insultate - dissi, sperando di non dover scendere nei dettagli. - Che tipo di insulti? - Stupidi - ammisi, ora che ci ripensavo. - Devo sapere quali di preciso, Nora. - Le ho detto che era una troia anoressica -. Sentivo bruciarmi le guance per la vergogna. La situazione era abbastanza seria, eppure, in quel momento, desideravo averle detto qualcosa di molto più crudele e umiliante. O che almeno avesse più senso. I due detective si scambiarono un'occhiata. - L'hai minacciata? - domandò il detective Holstijic. -No. - Dove sei andata dopo la biblioteca? - A casa. - Hai seguito Marcie? - No. L'ho già detto, sono andata a casa. Volete dirmi cos'è successo? - C'è qualcuno che può testimoniare? - chiese il detective Basso. - Il mio compagno di biologia. Mi ha visto in biblioteca e mi ha offerto un passaggio. Ero appoggiata con una spalla a uno stipite della portafinestra e il detective Basso si avvicinò e si piazzò sul lato opposto. - Puoi parlarci di questo compagno di biologia? - Che razza di domanda è? - È una domanda piuttosto semplice, ma se vuoi che sia più preciso, lo sarò. Quando andavo a scuola, offrivo i passaggi solo alle ragazze che mi interessavano. Posso essere ancora più preciso. Quali sono i tuoi rapporti con questo compagno di biologia... al di fuori della scuola? - Sta scherzando, vero? Un angolo della bocca del detective Basso si sollevò. - Esattamente quello che pensavo. Hai fatto picchiare Marcie Millar dal tuo ragazzo? - Marcie è stata picchiata? Lui si allontanò dalla porta, si mise dritto davanti a me e mi perforò con lo sguardo. - Volevi farle vedere cosa succede quando le ragazze come lei non tengono la bocca chiusa? Pensavi che si meritasse una bella lezione? Quando andavo a scuola, conoscevo molte ragazze come Marcie. Sono loro a cercarsela, vero? Marcie se l'è cercata, Nora? Qualcuno l'ha pestata di brutto mercoledì pomeriggio, e io credo che tu sappia più di quanto dici. Cercavo disperatamente di nascondere i miei pensieri, terrorizzata che mi si potessero leggere in faccia. Forse era una coincidenza che la sera in cui mi ero lamentata di Marcie con Patch lei fosse stata picchiata. Invece forse no. - Dobbiamo parlare con il tuo ragazzo - disse il detective Holstijic. - Non è il mio ragazzo. E il mio compagno di banco a biologia. - Sta venendo qui adesso? Sapevo che dovevo essere sincera, ma ripensandoci non potevo accettare che Patch avesse fatto del male a Marcie. Marcie non era la persona più simpatica del mondo, e si era fatta più di un nemico. Alcuni di loro potevano essere capaci di picchiarla, ma Patch non era fra quelli. La violenza immotivata non era nel suo stile. - No - dissi. Il detective Basso sorrise. - Tutta in ghingheri per un sabato sera in casa? - Qualcosa del genere. Il detective Holstijic tirò fuori un taccuìno dalla tasca della giacca, lo aprì e schiacciò il pulsante della sua penna a scatto. - Abbiamo bisogno del suo nome e numero di telefono. Dieci minuti dopo che i poliziotti erano andati via, una Jeep Commander nera parcheggiò vicino al marciapiede. Patch, jeans scuri, stivali e una maglia grigia a maniche lunghe, fece una corsa sotto la pioggia e raggiunse la veranda. - Macchina nuova? - gli chiesi dopo aver aperto la porta. Mi rivolse un sorriso carico di mistero. - L'ho vinta un paio di sere fa. Una partita di biliardo. - Qualcuno si è giocato l'automobile? - Non era molto contento. Cercherò di stare lontano dai vicoli bui per un po'. - Hai sentito di Marcie Millar? - buttai là, nella speranza di coglierlo di sorpresa. - No. Che è successo? -. La risposta arrivò subito e quindi decisi che probabilmente aveva detto la verità. Disgraziatamente, però, Patch non mi sembrava affatto un bugiardo dilettante. - Qualcuno l'ha picchiata. - Che vergogna. - Qualche idea su chi potrebbe essere stato? Se anche Patch sentì la preoccupazione nella mia voce, non lo diede a vedere. Si appoggiò alla staccionata della veranda e si accarezzò pensieroso la mascella. - No. Mi chiesi se nascondesse qualcosa, ma smascherare i bugiardi non era il mio forte. Non avevo molta esperienza. Di solito, frequentavo gente di cui mi fidavo... di solito. Patch parcheggiò la Jeep dietro la Bo's Arcade. Quando arrivammo in cima alla fila, il cassiere guardò prima Patch, poi me. I suoi occhi continuarono a passare dall'uno all'altra. - Che succede? - chiese Patch, mettendo tre banconote da dieci sul banco. Il cassiere puntò gli occhi su di me. Si era accorto che non riuscivo a distogliere lo sguardo dai tatuaggi verde muffa che ricoprivano ogni centimetro dei suoi avambracci. Spostò una gomma da masticare (o era tabacco?) dall'altra parte della bocca e disse: - Che hai da guardare? - Mi affascinano i tatuaggi... - azzardai. Lui mi mostrò dei denti aguzzi, da cane. - Non credo di piacergli - sussurrai a Patch quando fummo a distanza di sicurezza. - A Bo non piace nessuno. - Quello è Bo della Bo's Arcade? - Bo Junior. Bo Senior è morto qualche anno fa. - Come? - domandai. - Una rissa, al bar di sotto. Sentii un desiderio incontrollabile di correre alla Jeep e tagliare la corda. - Siamo al sicuro qui? - chiesi. Patch mi rifilò un'occhiata di traverso. - Angelo... - Chiedevo... La sala da biliardo si presentava esattamente come l'avevo vista la prima volta che ero stata lì. Pareti di cemento dipinte di nero; tavoli da biliardo rivestiti di feltro; tavoli da poker; basse lampade appese al soffitto; fumo stantio. Patch scelse il tavolo più lontano dalle scale. Prese due 7Up al bar e le stappò facendo leva sul bordo del bancone. - Non ho mai giocato a biliardo - confessai. - Scegli una stecca -. E mi indicò la rastrelliera alla parete. Ne tirai giù una e la portai al tavolo. Patch si asciugò la bocca con la mano per nascondere un sorriso. - Che c'è? - dissi. - Non si battono i fuori campo a biliardo. Annuii. - Capito. Niente fuori campo. Stavolta sorrise davvero. - Stai tenendo la stécca come una mazza da baseball. Mi guardai le mani. Era vero, in effetti. - Io la impugno così. Lui si mise dietro di me, mi appoggiò le mani sui fianchi e mi piazzò davanti al tavolo. Quindi mi circondò con le braccia e afferrò la stecca. - Così - disse, spostandomi la mano destra parecchi centimetri più avanti. - E... così - continuò, mentre mi prendeva la mano sinistra e la sistemava in modo che la stecca si appoggiasse sulla nocca del medio. - Piegati. Mi chinai sul tavolo, il fiato caldo di Patch sul collo. - Quale vuoi colpire? - chiese. Si riferiva al triangolo di palle disposte dall'altra parte del tavolo. - Quella gialla davanti sarebbe un'ottima scelta. - Il mio colore preferito è il rosso. - E rosso sia. Patch mosse la stecca avanti e indietro, facendomela scivolare sulla nocca. Con gli occhi socchiusi, guardai la palla rossa. - Stai sbagliando a prendere la mira - dissi. Sentii che rideva. - Quanto vuoi scommettere? - Cinque dollari. Scosse leggermente la testa. - Il tuo giubbetto. - Vuoi il mio giubbetto? - Voglio che te lo tolga. Il mio braccio scattò in avanti, la stecca mi passò fulminea tra le dita e colpì con forza la palla bianca. Quella, a sua volta, rotolò in avanti, urtò la rossa facendo schizzare in tutte le direzioni le altre palle. - Okay - dissi mentre mi toglievo il giubbetto - forse sono un po' impressionata. Patch esaminò il mio top. Gli occhi neri come l'oceano a mezzanotte, l'espressione pensosa... - Bello - disse, quindi fece il giro del tavolo per controllare la posizione delle palle. - Cinque dollari che non riesci a mandare in buca la blu -. L'avevo scelta apposta, perché sembrava un tiro difficile. - Non voglio i tuoi soldi - replicò Patch, gli occhi fissi nei miei e una minuscola fossetta sulla guancia. La mia temperatura interna aumentò di un grado. - Che cosa vuoi? Patch abbassò la stecca sul tavolo, fece un tiro di prova e poi colpì la palla bianca. Che colpì la verde e poi la otto, che spinse in buca la blu. Feci una risatina nervosa e cercai di nasconderla facendomi scrocchiare le nocche, una cattiva abitudine alla quale non avevo mai ceduto. - Okay, forse sono un po' più che impressionata. Patch era ancora piegato sul tavolo e mi guardava in un modo che mi mandò in ebollizione. - Non abbiamo stabilito la posta - aggiunsi, resistendo all'im pulso di spostare il peso del corpo da un piede all'altro. La stecca era un po' scivolosa, e mi asciugai con discrezione la mano sulla coscia. Come se non stessi già sudando abbastanza, Patch disse: Mi sei debitrice. Un giorno o l'altro verrò a incassare. Risi, ma il suono aveva una tonalità sbagliata. – Ti piacerebbe! Nella sala rimbombò un rumore di passi; qualcuno scendeva le scale a rotta di collo. Comparve un tipo alto, muscoloso, con il naso aquilino, i capelli nerissimi e incolti. Posò lo sguardo su Patch, poi lo spostò su di me e un ampio sorriso gli si disegnò in viso. Si avvicinò a grandi passi e rovesciò la mia 7-Up che avevo lasciato sul bordo del tavolo da biliardo. - Scusa, ma questa... - iniziai. - Non mi avevi detto che aveva un aspetto tanto piacevole disse a Patch mentre si asciugava la bocca con il dorso della mano. Parlava con un forte accento scozzese. - Non avevo neanche detto a lei quanto invece fosse spiacevole il tuo - ribatté Patch. Il tipo si appoggiò al tavolo accanto a me e mi porse la mano. - Mi chiamo Rixon, amore. Gliela strinsi controvoglia. - Nora. - Ho interrotto qualcosa? - disse, guardando con aria inter rogativa prima Patch e poi me. - No - risposi, nello stesso istante in cui Patch diceva: - Sì. All'improvviso, Rixon si gettò su Patch con fare scherzoso e i due caddero a terra iniziando a colpirsi. Si sentivano risate soffocate e il rumore di pugni e di stoffa strappata. Apparve la schiena nuda di Patch, attraversata da due grosse ferite. Partivano dai reni e finivano sulle scapole, allargandosi a formare una V rovesciata. Erano così mostruose che, per lo spavento, restai senza fiato. - Togliti di dosso! - gridò Rixon. Patch rotolò via e, quando si rimise in piedi, la maglia gli pendeva addosso aperta a metà. Se ne liberò e la gettò nel cestino dei rifiuti che stava in un angolo. - Dammi la tua felpa ordinò a Rixon. Lui mi fece l'occhiolino. - Che ne pensi, Nora? Dovremmo obbedirgli? Patch gli si buttò addosso per gioco e Rixon lo fermò tenendolo per le spalle. - Calmo - disse indietreggiando. Si sfilò la felpa e la tirò a Patch, restando in maglietta. Dopo che Patch si infilò la felpa facendola scivolare su degli addominali abbastanza scolpiti da mettermi in agitazione, Rixon si rivolse a me. - Ti ha detto perché gli hanno affibbiato quel soprannome? - Scusa? - Prima che il nostro buon amico Patch qui presente si facesse prendere dal biliardo, era appassionato di boxe irlandese senza guantoni. Non era molto bravo, però -. Rixon scosse la testa. - A dire la verità, era patetico. Passavo quasi tutte le notti a rattopparlo, tanto che se ne andava in giro sempre coperto di bende, così tutti iniziarono a chiamarlo Patch, benda. Gli ho detto di lasciar perdere la boxe, ma non vuole ascoltarmi. Patch intercettò il mio sguardo e mi rivolse un sorriso da medaglia d'oro delle risse. Il sorriso in sé era abbastanza inquietante, ma sotto l'apparenza ruvida nascondeva una nota di desiderio. Più di una nota, in realtà. Un'intera sinfonia. Patch indicò le scale con un cenno del capo e mi tese la mano. - Usciamo da qui - disse. - Dove andiamo? - chiesi, il cuore a mille. - Lo vedrai. Mentre salivamo le scale, Rixon mi gridò: - Buona fortuna con quello lì, amore! 18 Sulla via del ritorno Patch prese l'uscita per Topsham e parcheggiò accanto alla storica cartiera che sorgeva sulla riva del fiume Androscoggin. Un tempo la fabbrica veniva usata per trasformare la pasta di legno in carta; ora, invece, su una grossa insegna che correva per tutto il lato dell'edificio campeggiava la scritta Birrificio l'Arcobaleno Bianco. 11 fiume era ampio e mosso, e su entrambe le sponde svettavano grandi alberi. Stava ancora piovendo forte ed era scesa la sera. Dovevo tornare a casa prima di mia madre. Non le avevo detto che sarei uscita perché... be', perché Patch non era il tipo di ragazzo che una madre avrebbe accolto a braccia aperte. Era piuttosto il tipo per il quale avrebbe cambiato la serratura di casa. - Possiamo prendere qualcosa da portare via? - chiesi. Patch aprì la portiera. - Richieste? - Un tramezzino al tacchino, ma senza sottaceti. Ah, e anche senza maionese. Mi ero appena conquistata un altro di quei sorrisi che non affioravano quasi mai in superficie, mentre ultimamente cominciavo a guadagnarne parecchi. E quella volta non riuscivo nemmeno a capire cos'avessi detto per riuscirci. - Vedrò cosa posso fare - disse, e scivolò fuori dall'auto. Lasciò le chiavi nel quadro e il riscaldamento acceso. Per un paio di minuti ripensai alla serata appena trascorsa, finché non mi resi conto di essere sola nella jeep di Patch, nel suo spazio privato. Se fossi stata in lui, e avessi avuto dei segreti, non li avrei certo nascosti in camera mia, nell'armadietto o nello zaino, tutte cose che avrebbero potuto essere confiscate o perquisite senza preavviso. Avrei approfittato della mia scintillante jeep nera, dotata di un sofisticato sistema d'allarme. Mi slacciai la cintura di sicurezza e presi a frugare nella pila di libri che giaceva ai miei piedi. Al pensiero di poter svelare uno dei suoi misteri, mi si disegnò sulle labbra un sorriso enigmatico. Non mi aspettavo di trovare niente in particolare, ma mi sarei accontentata volentieri della combinazione del suo armadietto o del suo indirizzo. Spostando con la punta dei piedi vecchi compiti di scuola che ingombravano i tappetini, trovai un rinsecchito deodorante per ambienti al profumo di pino, un Cd degli AC/DC, Highway to Hell, dei mozziconi di matita e uno scontrino del supermercato di mercoledì alle 10.18. Niente di sorprendente o significativo. Aprii il vano portaoggetti e spulciai il manuale d'istruzioni e altri documenti dell'auto. Poi vidi un luccichio e un attimo dopo la mano incontrò la consistenza del metallo. Tirai fuori una torcia elettrica e la accesi, ma non accadde nulla. Svitai la parte inferiore perché mi sembrava troppo leggera e, infatti, mancavano le batterie. Mi chiesi perché Patch tenesse in macchina un oggetto inutilizzabile Fu l'ultima cosa che pensai prima che i miei occhi mettessero a fuoco un liquido color ruggine, rappreso sul lato della torcia. Sangue. Con molta attenzione la rimisi giù e richiusi il portaoggetti. Dissi a me stessa che c'erano moltissime cose che potevano giustificare una macchia di sangue su una torcia: tenerla con una mano ferita, usarla per spingere un animale morto sul ciglio della strada... scagliarla con forza e ripetutamente contro qualcuno fino a lacerargli la pelle. Con il cuore a mille, saltai alla prima conclusione che mi venne in mente. Patch aveva mentito. Aveva aggredito Marcie. Mi aveva lasciata a casa mercoledì sera, aveva scambiato la moto con la jeep e poi era andato a cercarla. O forse le loro strade si erano incrociate per caso e lui aveva agito d'impulso. Comunque fosse andata, Marcie era ferita, la polizia stava indagando e Patch era colpevole. Razionalmente, sapevo che il ragionamento era stato frettoloso, ma emotivamente la posta in gioco era troppo alta per fare un passo indietro e rifletterci più a fondo. Patch aveva un passato spaventoso e molti, molti segreti. Se la violenza immotivata era uno di quelli, io non ero al sicuro con lui. Un lampo di luce in lontananza illuminò l'orizzonte. Patch uscì dal ristorante e attraversò correndo il parcheggio con un sacchetto marrone in una mano e due bibite nell'altra. Si avvicinò al lato del conducente e si infilò nella jeep, poi si tolse il cappellino da baseball e scosse l'acqua dai capelli, agitando forte le ciocche scure. Mi porse il sacchetto dicendo: - Un tramezzino al tacchino senza sottaceti né maionese e qualcosa per mandarlo giù. - Hai aggredito Marcie Millar? - chiesi piano. - Voglio la verità... subito. Patch abbassò la 7-Up che stava bevendo e mi rivolse uno sguardo tagliente. - Cosa? - La torcia nel vano portaoggetti. Voglio una spiegazione. - Hai frugato nella mia auto? -. Non sembrava infastidito, ma neanche contento. - La torcia è sporca di sangue. La polizia è venuta a casa mia poco fa. Credono che io sia coinvolta. Marcie è stata aggredita mercoledì sera, subito dopo averti raccontato che non la sopporto. Patch fece una risatina secca, per niente divertita. - Credi che abbia usato la torcia per picchiare Marcie. Allungò la mano dietro il suo sedile e ne estrasse una grossa pistola. Urlai. Si piegò verso di me e mi tappò la bocca con la mano. Pistola da paintball - disse gelido. Feci correre lo sguardo dalla pistola a Patch, gli occhi sbarrati. - Ho giocato a paintball all'inizio della settimana - continuò. - Credevo ne avessimo già parlato. - Q-questo non spiega il sangue. - Non è sangue. A paintball si spara vernice. Abbiamo giocato a rubabandiera. Il mio sguardo andò al vano portaoggetti. La torcia era... la bandiera. Mi sentii sollevata e insieme idiota e anche in colpa per averlo accusato. - Oh - mormorai. - Scusa... -. Ma forse era un po' tardi per le scuse. Patch guardava fisso davanti a sé mentre faceva dei respiri profondi. Mi chiesi se stesse in silenzio per lasciar sbollire la rabbia. In fondo l'avevo accusato di aggressione, e mi sentivo malissimo per averlo fatto, ma ero troppo frastornata per trovare le parole giuste per scusarmi. - Da quello che mi hai raccontato di Marcie, sembra il tipo di ragazza che si fa dei nemici - disse alla fine. - E sono sicura che Vee e io siamo in cima alla lista - scherzai, cercando di far tornare il buonumore. In realtà, non stavo scherzando. Non del tutto. Patch si fermò davanti alla fattoria e spense il motore. Aveva il cappellino calato sugli occhi, ma ora la bocca accennava un sorriso. Non riuscivo a togliere lo sguardo dalle sue labbra, lisce e morbide, ma soprattutto gli ero riconoscente di avermi perdonata. - Dobbiamo lavorare sul tuo stile a biliardo, angelo. - A proposito di biliardo... -. Mi schiarii la voce- - Mi piace rebbe sapere quando e come hai intenzione di incassare quella cosa che ti devo. - Non stasera -. I suoi occhi si posarono sui miei, attenti, pronti a cogliere ogni mia reazione. Ero combattuta tra il sollievo e la delusione. La delusione però era più forte* - Ho qualcosa per te - disse poi. Da sorto il sedile estrasse un sacchetto di carta bianco con dei peperoncini rossi stampati sopra: il sacchetto da asporto del Borderline. Lo appoggiò tra me e luì. - Cos'è? - chiesi, sbirciando dentro la busta. Non avevo assolutamente idea di cosa potesse esserci dentro. - Aprilo. Tirai fuori una scatola e la aprii. All'interno c'era una palla con la neve e la riproduzione del parco divertimenti del Delphic Seaport. Fili d'ottone piegati in modo grossolano costituivano la Ruota panoramica e i giri della morte delle montagne russe, mentre delle lamine di metallo ossidato formavano l'attrazione del Tappeto Volante. - È bellissima - dissi, sbalordita dal fatto che Patch non solo avesse pensato a me, ma si fosse preso persino il disturbo di comprarmi un regalo.- Grazie davvero- La adoro, Lui tocco il vetro della cupola. - Questo è l'Arcangelo prima che lo rimodernassero -. Dietro la Ruota panoramica, un sottile filo metallico si snodava formando le salite e discese dell'Arcangelo. Nel punto più alto era collocato un angelo con le ali spezzate, il capo chino e lo sguardo fisso a terra. - Cos'è successo quella sera sull'Arcangelo? - Ề meglio che tu non lo sappia. - Se me lo dicessi saresti costretto a uccidermi? -. Il cono era scherzoso, ma solo a metà, - Non siamo soli - rispose Patch guardando davanti a sé. Alzai gli occhi e vidi mia madre sulla soglia di casa. Quando mi accorsi che scava uscendo e veniva verso la jeep» mi prese il panico. - Fai parlare me - intimai, rimettendo la palla con la neve nella scatola. - Non fiatare, neanche una parola! Patch saltò giù e girò intorno all'automobile aspettando che scendessi anch'io e insieme raggiungemmo mia madre a metà del vialetto. - Non sapevo che saresti uscita - disse lei sorridendo. Non si trattava, però, di un sorriso rilassato, quanto piuttosto di un silenzioso: «Dopo facciamo i conti». - È stata un'idea dell'ultimo momento - spiegai. -Sono tornata a casa subito dopo la lezione di yoga continuò mia madre. Il resto della frase era sottinteso: «Per mia fortuna, e per tua sfortuna». In effetti, contavo proprio sul fatto che dopo la lezione andasse a prendere un frullato con le amiche. Lo faceva nove volte su dieci. Poi rivolse l'accensione a Patch esclamando: Finalmente! Sono contenta di conoscerti. A quanto pare sei il più grande ammiratore di mia figlia. Aprii la bocca per fare delle presentazioni ultraconcise mandare via Patch, ma mia madre fu più veloce. - Sono la madre di Nora. Blyche Grey. - Lui è Patch - spiegai mentre mi spremevo le meningi alla ricerca di qualcosa da aggiungere per stroncare i convenevoli sul nascere. Le uniche cose che mi venivano in mente, però, erano urlare «Al fuoco!» o fingere un infarto. Ammetto che in fondo mi sembravano più imbarazzanti del dover affrontare una conversazione tra Patch e mia madre. - Nora mi ha detto che sei uno sportivo - disse lei. Sentii Patch ridere. - Uno sportivo? - Sei nella squadra della scuola, partecipi ai campionati locali? - Mah, diciamo che è più un'attività... ricreativa - rispose lui, guardandomi con aria interrogativa. - Va comunque bene - insistè mia madre. - Dove ti alleni? Al centro sportivo in città? - Va bene! - esclamai approfittando del momento di pausa. - Patch deve andare -. «Vai!» gli dissi a fior di labbra. - È una jeep molto bella - disse ancora mia madre. - Te l'hanno comprata i tuoi? - Me la sono comprata da solo. - Devi avere un ottimo lavoro. - Faccio l'aiuto cameriere al Borderline. Patch diceva il meno possibile, attento a rimanere ben avvolto nel mistero. Mi chiedevo come fosse la sua vita quando non era con me. Una parte recondita della mia mente non poteva fare a meno di pensare al suo oscuro passato. Fino a quel momento, però, avevo fantasticato di scoprire i suoi segreti perché volevo provare a me stessa, e a lui, che potevo smascherarlo. Ora, invece, volevo conoscere i suoi segreti perché facevano parte di lui, E nonostante cercassi continuamente di negarlo, provavo qualcosa per lui. E più tempo trascorrevamo insieme, più chiaramente capivo che i miei sentimenti non sarebbero svaniti. Mia madre aggrottò la fronte. - Spero che il lavoro non ti distolga dallo studio. A mio parere, i liceali non dovrebbero lavorare durante l'anno scolastico. Avete già così tanto da fare! Patch sorrise. - Non è mai stato un problema. - Ti dispiace se ti chiedo che media hai? È scortese da parte mia? - Oh, cavolo, si sta facendo proprio tardi - esclamai, consultando un orologio che non portavo. Non riuscivo a credere che mia madre si stesse comportando in modo così conformista. Era un brutto segno, poteva significare solo che la sua prima impressione su Patch era peggiore di quanto avessi temuto. Quella non era una presentazione. Era un interrogatorio. - Due virgola due - rispose Patch. Mia madre lo fissò. - Sta scherzando - dissi rapida, e gli rifilai una spintarella discreta in direzione della jeep. - Patch ha da fare. Deve andare in un posto. Ha una partita di biliardo... -. Mi tappai la bocca con la mano. Tropo tardi, purtroppo. - Biliardo? - ripetè mia madre, confusa. - Nora parla della Bo's Arcade, - spiegò Patch - ma non è lì che devo andare. Ho qualche commissione da sbrigare. - Non sono mai stata da Bo's - insistè mia madre. - Non è niente di eccezionale - intervenni. - Non ti sei persa niente. - Aspetta - fece lei, come se le si fosse appena accesa una lucina in fondo alla testa. - E quel locale sulla costa? Vicino al Delphic Seaport? Non c'è stata una sparatoria, qualche anno fa? - Ora è molto più tranquillo - rispose Patch. Gli lanciai un'occhiataccia. Mi aveva battuto sul tempo, mentre stavo per mentire senza battere ciglio, negando che da Bo's fosse mai accaduto qualcosa di grave. - Vuoi entrare per un gelato? - chiese a quel punto mia madre. Sembrava agitata, combattuta tra il dovere di comportarsi con educazione e l'istinto di trascinarmi dentro e sprangare la porta. - C'è solo vaniglia, però, ed è lì da qualche settimana concluse dando il colpo di grazia. Patch scosse il capo. - Devo proprio andare, magari la prossima volta. È stato un piacere conoscerla, Blythe. Approfittai della pausa per trascinare mia madre verso la porta di casa, sollevata dal fatto che la conversazione non fosse andata poi così male quando all'improvviso lei si voltò. - Che cosa avete fatto tu e Nora stasera? - chiese. Patch mi guardò e alzò leggermente un sopracciglio. - Siamo andati a mangiare a Topsham - risposi svelta. – Panini e bibite. Una serata assolutamente innocente. Il problema era che i miei sentimenti per Patch non lo erano affatto. 19 Rimisi la palla con la neve nella scatola e la sistemai nel mio armadio, dietro una pila di pullover a rombi appartenuti a mio padre. Quando avevo aperto il regalo davanti a Patch, il Delphic mi era sembrato luccicante e bellissimo, pieno di arcobaleni di luce che vorticavano sui fili. Adesso che ero da sola in camera mia, però, il luna park sembrava infestato dai fantasmi. Un posto ideale per spiriti disincarnati. E poi non ero del tutto sicura che all'interno non fosse nascosta una telecamera. Dopo essermi cambiata e aver indossato un top e un paio di pantaloni del pigiama a fiorellini, chiamai Vee. - Allora? - esordì. - Com'è andata? Mi sembra evidente che non ti ha uccisa, e questo è un buon inizio. - Abbiamo giocato a biliardo. - Tu odi il biliardo. - Mi ha insegnato Patch. Ora che capisco come funziona, non lo trovo così male. - Scommetto che potrebbe insegnarti un paio di altre cosette. - Mmm -. Di solito, un commento del genere mi avrebbe fatto arrossire, come minimo, ma in quel momento ero troppo concentrata. Troppo occupata a pensare. - So di averlo già detto, ma Patch non mi fa sentire del tutto tranquilla - continuò Vee. - Ho ancora gli incubi sul tizio con il passamontagna. Sogno che lui se lo strappa via e indovina chi c'è sotto? Patch. Secondo me dovresti trattarlo come una pistola carica. C'è qualcosa in lui che non è normale. Esattamente ciò di cui volevo parlare. - Che cosa potrebbe provocare una grossa cicatrice a V sulla schiena? - le chiesi. Seguì un momento di silenzio. - Oh, mamma - esclamò Vee con voce strozzata. - L'hai visto nudo? Dov'è successo? Nella jeep? A casa sua? In camera tua? - Non l'ho visto nudo! È successo per caso. - Ah, ah. Questa scusa l'ho già sentita. - Aveva un'enorme cicatrice a forma di V rovesciata sulla schiena. Non è un po' strano? - Certo che è strano, ma è di Patch che stiamo parlando. Ha delle rotelle fuori posto. Faccio qualche ipotesi... scontro tra bande? Ricordino del carcere? Segni lasciati da una bravata come pirata della strada? Metà del mio cervello seguiva la conversazione con Vee, mentre l'altra, quella più legata al subconscio, si era distratta. La mia memoria era impegnata nella sera in cui Patch mi aveva sfidata a salire sull'Arcangelo. Rividi i raccapriccianti, strani dipinti che decoravano il vagone: bestie dotate di corna che strappavano le ali all'angelo e la V capovolta, nera, in mezzo alla schiena. Per poco non mi cadde di mano il telefono. - S-scusa, cosa? - chiesi a Vee quando mi accorsi che lei aveva continuato a parlare e aspettava la mia risposta. - Cosa. E. Successo. Dopo? - ripetè scandendo le parole. Terra chiama Nora. Voglio tutti i dettagli, non posso più aspettare. - Si è messo a fare a botte e gli si è strappata la maglia. Fine della storia. Non c'è un dopo. Vee inspirò a fondo. - Ecco, è esattamente quello che intendevo. Voi siete insieme e lui che fa? Si mette a fare a botte. Sembra un comportamento più animale che umano. La mia mente faceva avanti e indietro dall'immagine della cicatrice sul dipinto, alla cicatrice sulla schiena di Patch. Entrambe erano nere come liquirizia, entrambe correvano dalle scapole ai reni, ed entrambe erano un po' curve. Mi dissi che c'erano buone probabilità che fosse soltanto un'agghiacciante coincidenza il fatto che nel dipinto sull'Arcangelo si vedesse una cicatrice identica a quella di Patch. Mi dissi anche che una cicatrice come quella poteva essere spiegata in un sacco di modi. Uno scontro tra bande, una lezione ricevuta in carcere, le conseguenze di un incidente... proprio come aveva teorizzato Vee. Sfortunatamente, nessuna di queste ipotesi stava in piedi. Era come se la verità fosse proprio di fronte a me, ma io non avessi il coraggio di guardarla in faccia. - E stato un angelo? chiese Vee. Feci un salto. - Cosa? - E stato un angelo o ha confermato la sua immagine da cattivo ragazzo? Perché, se posso essere sincera, non mi convince molto questa storia del non-ci-ha-provato-per-niente. - Vee? Devo andare - farfugliai. - Certo! Vuoi riagganciare senza darmi tutti i dettagli della faccenda. - Non è successo niente, né prima né dopo. Abbiamo incontrato mia madre sul vialetto. - Non ci credo! - Mi sa che Patch non le piace. - Ma dai? Chi l'avrebbe mai detto? - Ti chiamo domani, okay? - Sogni d'oro, bellezza. «Difficile» pensai. Dopo aver salutato Vee, andai nella stanza che mia madre aveva adibito a studio e accesi il nostro computer d'epoca. La stanza era piccola e con il tetto spiovente: più un sottotetto che una stanza vera e propria. La finestra, con il vetro sempre opaco e le tendine anni settanta arancione sbiadito, si affacciava sul cortile laterale. Riuscivo a stare in piedi solo nel trenta per cento della stanza circa, mentre nel rimanente settanta per cento sfioravo con la testa le travi del soffitto, da cui pendeva una nuda lampadina. Dieci minuti dopo, il computer si collegò a Internet e io digitai cicatrici ali angelo nella stringa di ricerca di Google. Il dito indugiò un attimo sul tasto di invio. Andare fino in fondo significava ammettere che stavo davvero prendendo in considerazione che Patch fosse... come dire... non umano. Prima di cambiare idea, premetti il tasto di invio e cliccai sul primo link dell'elenco. ANGELI CADUTI: LA SCONVOLGENTE VERITÀ In seguito alla creazione del Giardino dell'Eden, furono inviati sulla Terra degli angeli del Paradiso affinché vegliassero su Adamo ed Eva. Presto, però, alcuni angeli misero gli occhi sul mondo che stava oltre i confini del Giardino, e, attirati dalla brama di potere, di denaro e persino dalle donne umane, si misero in testa di dominare il popolo della Terra. Insieme, cercarono di convincere Eva a mangiare il frutto proibito, causando l'apertura delle porte che stavano a difesa del paradiso terrestre. Come punizione per il grave peccato commesso e per essere venuti meno al loro dovere, Dio strappò le ali agli angeli e li esiliò sulla Terra per sempre. Saltai un paio di paragrafi, i battiti del cuore sempre più irrequieti. Gli angeli caduti sono gli stessi spiriti maligni (o demoni) che, secondo la Bibbia, prendono possesso dei corpi degli uomini. Gli angeli caduti vagano per la Terra in cerca di corpi umani da tormentare e controllare. Inducono gli uomini a commettere atti malvagi comunicando pensieri e immagini direttamente alla loro mente. Se un angelo caduto riesce a spingere un uomo verso il male, può entrare nel suo corpo e influenzare la sua personalità e le sue azioni. Tuttavia, il possesso di un corpo umano da parte di un angelo caduto può avvenire soltanto durante il mese ebraico di Cheshvan. Cheshvan, conosciuto anche come "il mese amaro" è l'unico privo di festività ebraiche o digiuni, fatto che lo rende un mese profano. Tra la luna nuova e la luna piena di Cheshvan, orde di angeli caduti possiedono i corpi umani. Per qualche minuto restai a fissare lo schermo senza pensare a nulla. Assolutamente a nulla. Un groviglio di emozioni si agitava dentro di me: ero raggelata, in preda al panico e attraversata da brutti presentimenti. Poi un brivido mi riportò alla realtà. Ripensai alle volte in cui ero stata sicura che Patch avesse aperto un varco nei sistemi della normale comunicazione e sussurrasse direttamente alla mia mente, proprio come sosteneva l'articolo che avevo appena finito di leggere. Se a questo aggiungevo le sue cicatrici, potevo dedurne che... possibile che Patch fosse un angelo caduto? Aveva intenzione di entrare nel mio corpo? Diedi una scorsa veloce al resto del testo, fermandomi solo quando trovai qualcosa di ancora più strano. Gli angeli caduti che hanno un rapporto sessuale con un umano danno origine a una progenie di superumani chiamati Nephilim. Quella dei Nephilim è una razza malvagia e disumana che non avrebbe mai dovuto popolare la Terra. Sebbene molti ritengano che lo scopo del Diluvio Universale ai tempi di Noè fosse quello di spazzare via dalla Terra i Nephilim, non abbiamo modo di sapere se questa razza, ibrida si sia estinta e se gli angeli caduti abbiano continuato a riprodursi con gli umani. Se, come appare logico, hanno continuato a farlo, è probabile che la razza Nephilim continui a esistere sulla Terra. Mi spinsi lontano dalla scrivania. Stipai tutto quello che avevo letto in una cartella mentale e la archiviai con la dicitura "spaventoso". Non volevo pensarci subito, lo avrei fatto più tardi. Forse. Il cellulare mi vibrò in tasca, facendomi sobbalzare. - Abbiamo già stabilito se gli avocado sono verdi o gialli? chiese Vee. - Ho esaurito le porzioni di frutta verde per oggi, ma se mi dici che gli avocado sono gialli sono a posto. - Tu credi nei supereroi? - Dopo aver visto Tobey Maguire in Spiderman, sì. E poi c'è anche Christian Bale; più vecchio, ma sempre figo da paura. Da lui mi farei salvare volentieri dai ninja armati di sciabola. - Non sto scherzando. - Neanch'io. - Quand'è stata l'ultima volta che sei andata in chiesa? - le domandai. Sentii che faceva scoppiare una bolla fatta con la gomma da masticare. - Domenica. - Credi che la Bibbia sia attendibile? Cioè, credi che quello che c'è scritto sia vero? - Credo che il pastore Calvin sia sexy, per essere sulla quarantina. Il che riassume la quasi totalità delle mie convinzioni religiose. Dopo aver riattaccato, andai in camera mia e mi infilai a letto. All'improvviso, avevo talmente freddo che dovetti aggiungere una coperta. Non riuscivo a capire se fosse la stanza a essere gelida o se il gelo fosse dentro di me. Le parole "angelo caduto", "possesso di uomini" e "Nephilim" mi ossessionarono finché non mi addormentai. 20 Passai una notte agitata. Il vento soffiava a raffiche sui campi e si abbatteva sulla fattoria, lanciando sventagliate di polvere e sassolini contro le finestre. Mi svegliai diverse volte per colpa del rumore delle assi del tetto che scivolavano via e cadevano a terra. Ogni più piccolo rumore, dal tintinnio dei vetri al cigolio delle molle del letto, mi faceva svegliare di soprassalto. Verso le sei mi arresi, mi trascinai fuori dalle lenzuola e percorsi silenziosamente il corridoio per buttarmi sotto la doccia. Poi diedi una ripulita alla stanza, misi in ordine l'armadio e, ovviamente, riempii il cesto della biancheria sporca con tre carichi di lavatrice. Mi stavo arrampicando per le scale con un altro carico di bucato, quando bussarono alla porta. Aprii e mi trovai davanti Elliot. Indossava un paio di jeans, una camicia scozzese con le maniche arrotolate fino ai gomiti, gli occhiali da sole e un cappellino dei Red Sox. Aveva il tipico aspetto del bravo ragazzo americano, ma io sapevo come stavano le cose in realtà, e una scarica di adrenalina me ne diede la conferma. - Nora Grey - disse e la sua voce suonò falsa e condiscendente. Si piegò verso di me sorridendo. - Mi hai procurato un sacco di problemi ultimamente -. L'acre odore d'alcol nel suo alito mi investì. - Che ci fai qui? Sbirciò alle mie spalle, in casa. - Cosa credi che voglia? Parlare. Non mi inviti a entrare? - Mia madre dorme, non voglio svegliarla. - Non ho mai incontrato tua madre -. Qualcosa nel modo in cui lo disse mi fece rizzare i peli sulla nuca. - Desolata. Hai bisogno di qualcosa? Mi rivolse un altro sorriso a metà tra lo sdolcinato e lo sprezzante. - Io non ti piaccio, vero, Nora Grey? Per tutta risposta, incrociai le braccia. Fece un passo indietro barcollando, una mano sul cuore. Oh, Nora, sono qui nel tentativo disperato di convincerti che sono un tipo a posto e che puoi fidarti di me. Non abbandonarmi. - Senti Elliot, ho da fare... Tirò un pugno contro la parete, picchiando così forte da far cadere dei pezzi di intonaco. - Non ho finito! - farfugliò eccitato. Improvvisamente, gettò indietro la testa e rise, poi si chinò, si mise la mano sanguinante tra le ginocchia e gemette. - Dieci dollari che lo rimpiangerò amaramente. L'aspetto di Elliot mi dava i brividi. Ricordavo che, solo qualche giorno prima, l'avevo trovato bello e affascinante. Come avevo potuto essere tanto idiota? Stavo contemplando l'idea di chiudere la porta e dare un paio di mandate, quando Elliot si tolse gli occhiali da sole mostrando un paio d'occhi iniettati di sangue. Si schiarì la voce e disse: - Sono venuto per dirti che Jules è parecchio sotto pressione per via della scuola. Esami, consiglio d'istituto, la richiesta per la borsa di studio e mille altre cose. Si comporta in modo strano ultimamente, ha bisogno di staccare per qualche giorno. Noi quattro: tu, io, Jules e Vee, dovremmo andarcene in campeggio per le vacanze di primavera. Partiamo domani per Powder Horn e torniamo martedì pomeriggio. Così Jules potrà rilassarsi un po' -. Ogni parola che gli era uscita di bocca, ogni singola parola, sembrava essere stata provata e riprovata con una precisione maniacale e spaventosa. - Mi dispiace, ho altri programmi. - Permettimi di convincerti a cambiare idea. Penso a tutto io: itinerario, tende, cibo. Ti farò vedere quanto sono bravo, ci divertiremo! - Credo che dovresti andartene. Elliot appoggiò la mano allo stipite e si abbassò verso di me. - Risposta sbagliata -. Per un istante, lo stupore vitreo nei suoi occhi sparì, offuscato da qualcosa di perverso e sinistro. Istintivamente, indietreggiai. Ero quasi certa che Elliot potesse uccidermi e che la morte di Kjirsten fosse stata davvero opera sua. - Vattene o chiamo la polizia. Elliot aprì di scatto la porta a zanzariera, così forte da farla rimbalzare contro la parete di casa. Poi mi afferrò per l'accappatoio e mi trascinò fuori, gettandomi contro il muro dove mi bloccò con il suo corpo. - Tu verrai in campeggio, che ti piaccia o no. - Togliti di dosso! - dissi cercando di liberarmi. - Oppure cosa? Cosa fai? -. Mi teneva per le spalle e mi spingeva contro il muro, facendomi sbattere i denti. - Adesso chiamo la polizia -. Chissà come, riuscii a dirlo in modo che suonasse coraggioso. Avevo il respiro corto, le mani sudate. - E come la chiami, gridando? Non ti sentiranno. Se vuoi che ti lasci, giura che verrai in campeggio. - Nora? Elliot e io ci voltammo verso la porta, da dove arrivava la voce di mia madre. Lui tenne le mani su di me ancora un momento, poi emise un verso disgustato e mi lasciò. Arrivato a metà dei gradini della veranda, mi guardò con la coda dell'occhio e disse: Non finisce qui. Con gli occhi che mi bruciavano, corsi dentro e chiusi a chiave. Mi appoggiai con la schiena alla porta e mi lasciai cadere giù, fino a sedermi sul tappeto dell'ingresso, lottando contro l'impulso di mettermi a singhiozzare. Mia madre apparve in cima alle scale. - Nora, che succede? Chi era? - chiese, mentre si annodava la cintura della vestaglia. Cercai di ricacciare indietro le lacrime. - Un compagno di scuola -. La voce però mi tremava. Ero già abbastanza scossa per la serata con Patch. Sapevo che mia madre era stata invitata al matrimonio della figlia di una collega, ma se le avessi detto del comportamento di Elliot non ci sarebbe andata, per nessun motivo. E quella era l'ultima cosa che volevo, perché la mia intenzione era andare a Portland e indagare proprio su Elliot. Anche uno straccio di prova sarebbe bastata a sbatterlo in carcere e, finché non fosse successo, io non sarei stata al sicuro. Percepivo in lui una violenza che cresceva senza controllo e non volevo aspettare di vedere cosa sarebbe successo se fosse esplosa. - Voleva i miei appunti sull'Amleto - dissi cercando di mantenere un tono neutro. - La scorsa settimana ha copiato il mio compito e a quanto pare ci ha preso gusto. - Oh, tesoro -. Mamma mi raggiunse e mi accarezzò i capelli bagnati, ormai gelidi. - Capisco che tu sia sconvolta. Vuoi che chiami i suoi genitori? Scossi la testa. - Allora vado a preparare la colazione - aggiunse. - Tu finisci di vestirti, così ti faccio trovare tutto pronto. Quando il telefono squillò ero davanti all'armadio. - Hai sentito? Noi quattro ce ne andiamo in campeggio per le vacanze di primavera! - esultò Vee. - Vee - mormorai - Elliot ha in mente qualcosa, qualcosa di spaventoso. L'unica ragione per cui vuole portarci in campeggio è rimanere da solo con noi. Invece noi non andremo da nessuna parte. - Stai scherzando, vero? Finalmente possiamo fare qualcosa di eccitante e tu non sei d'accordo? Sai che mia madre non mi lascerebbe andare da sola. Farò quello che vuoi, giuro. Ti faccio i compiti per una settimana. Dai, Nora. Solo una parolina. Dilla, quella parolina che inizia per s... La mano con cui tenevo il telefono si mise a tremare e dovetti tenerla ferma con l'altra. - Elliot si è presentato a casa mia un quarto d'ora fa, ubriaco. Mi ha... minacciata. Lei rimase un attimo in silenzio. - Cosa vuol dire, minacciata7. - Mi ha trascinata fuori di casa e mi ha sbattuta contro il muro. - Ma era ubriaco, giusto? - Cambia qualcosa? - chiesi bruscamente. - Be', gliene sono successe tante negli ultimi tempi. E stato accusato ingiustamente di essere coinvolto nel suicidio di una ragazza e costretto a cambiare scuola. Se ti ha fatto del male, e non lo sto giustificando, ovvio, forse è solo perché ha bisogno d'aiuto. Forse gli serve uno psicologo. - Se mi ha fatto del male? - Era ubriaco. Forse non sapeva quello che faceva. Domani si sentirà uno schifo. Aprii la bocca e la richiusi. Non riuscivo a credere che Vee lo stesse difendendo. - Devo andare - risposi secca. - Ci sentiamo più tardi. - Posso essere sincera, tesoro? So che sei preoccupata per il tizio con il passamontagna. Non odiarmi, ma credo che l'unica ragione per la quale stai cercando con tutte le forze di inchiodare Elliot è che non vuoi ammettere possa essere stato Patch. Stai razionalizzando tutto e questa cosa mi manda in paranoia. Ero senza parole. - Razionalizzando? Patch non è venuto qui a scaraventarmi contro il muro. - Senti, non avrei dovuto dirlo. Lasciamo perdere, okay? - Okay - dissi asciutta. - Allora, che fai oggi? Misi la testa fuori dalla camera per sentire dove fosse mia madre. Dalla cucina, arrivò il suono del cucchiaio che sbatteva contro una terrina. Una parte di me non vedeva perché dovessi raccontare i miei programmi a Vee, un'altra parte era arrabbiata e cercava lo scontro. Vee voleva conoscere i miei piani? Benissimo. Non era un problema mio se poi non le andavano a genio. - Appena mia madre esce per andare a un matrimonio, vado a Portland -. Il matrimonio iniziava alle quattro del pomeriggio e tra il ricevimento e tutto il resto, mamma non sarebbe tornata prima delle nove. Avevo tutto il tempo per andare a Portland e rientrare prima di lei. - In effetti, mi chiedevo se potessi prestarmi la Neon. Non voglio che mia madre veda quanti chilometri farò. - Accidenti! Vuoi andare a spiare Elliot, vero? Vuoi ficcare il naso dalle parti della Kinghorn. - Faccio un po' di shopping e poi mangio qualcosa lì risposi mentre facevo scorrere le grucce nell'armadio. Tirai giù una maglia a maniche lunghe di un tessuto leggero, i jeans e un berretto di maglia a strisce bianche e rosa che riservavo alle giornate no e ai fine settimana. - Mangiare qualcosa significa fermarsi in una certa tavola calda che si trova a pochi isolati dalla Kinghorn Prep? Il posto dove lavorava comesichiama Kjirsten? - Non è una cattiva idea. Magari ci vado. - E mangerai davvero qualcosa o ti limiterai a interrogare i camerieri? - Potrei anche fare qualche domanda. Mi presti la Neon o no? - Certo che sì - rispose. - A cosa servono le migliori amiche? Anzi, ti terrò compagnia in questa scarpinata destinata al fallimento. Prima, però, devi promettermi che verrai in campeggio. - Non importa. Prenderò l'autobus. - Del campeggio parliamo più tardi! - gridò Vee prima che riuscissi a riagganciare. Ero stata diverse volte a Portland, ma non conoscevo bene la città. Scesi dall'autobus armata di cellulare, cartina e della mia bussola interna. Gli edifici di mattoni rossi erano alti e stretti e coprivano la vista del sole al tramonto, che bruciava rosso dietro una distesa di nubi temporalesche; le strade erano schermate da un drappo d'ombra. Le facciate dei negozi avevano tutte una veranda e delle insegne caratteristiche sulle porte, le vie erano illuminate da lampioni neri. Dopo diversi isolati, le strade congestionate lasciavano posto a un'area alberata: proprio lì un cartello indicava la direzione per la Kinghorn Prep. Oltre le cime degli alberi spiccava una cattedrale, un campanile e la torre dell'orologio. Rimasi sul marciapiede e svoltai l'angolo prendendo la Trentaduesima Strada. Il porto era poco distante e, dietro i negozi, si intravedevano le barche che attraccavano al molo. A metà della Trentaduesima Strada vidi l'insegna della tavola calda Blind Joe. Tirai fuori l'elenco delle domande e le rilessi un'ultima volta. Il piano prevedeva che non dessi l'impressione di fare una vera e propria intervista. Speravo che facendo saltar fuori casualmente l'argomento Kjirsten con i dipendenti avrei potuto strappare informazioni che i reporter prima di me si erano lasciati sfuggire. Augurandomi di aver memorizzato tutto, gettai la lista in un bidone dei rifiuti. Entrai, accompagnata da uno scampanellio. Il pavimento era di piastrelle bianche e gialle e le panche erano rivestite di stoffa blu. Ai muri erano appese fotografie del porto. Mi tolsi la giacca e sedetti a un tavolo vicino alla porta. Comparve una cameriera con un grembiule bianco tutto macchiato. - Mi chiamo Whitney - mi disse acida. - Benvenuta al Blind Joe. I piatti del giorno sono tramezzino al tonno e zuppa d'aragosta -. Impugnava la penna, pronta a prendere l'ordinazione. - Blind Joe? -. Corrugai la fronte e mi tamburellai sul mento con un dito. - Perché questo nome mi suona familiare? - Non li leggi i giornali? Siamo stati in prima pagina per una settimana intera il mese scorso. Abbiamo avuto il nostro quarto d'ora di celebrità. - Oh! - esclamai come se avessi avuto un'ispirazione improvvisa. - Ora ricordo. C'è stato un omicidio, giusto? Non lavorava qui la ragazza? - Kjirsten Halverson -. La cameriera batté impaziente la penna sul foglio. - Vuoi che ti porti una porzione di zuppa, intanto? Non avevo voglia d'aragosta. In realtà, non avevo fame. Dev'essere stata dura. Eravate amiche? - Cavolo, no. Hai intenzione di ordinare o cosa? Voglio confi darti un piccolo segreto: se non lavoro, non mi pagano e se non mi pagano non posso pagare l'affitto. All'improvviso, desiderai che a prendere il mio ordine ci fosse il cameriere dell'altro settore della tavola calda. Era basso, calvo fino alle orecchie e magro come uno degli stuzzicadenti offerti dalla casa. Non alzava mai gli occhi a più di un metro da terra. Se davvero era così triste, un sorriso amichevole sarebbe bastato a fargli spiattellare tutta la storia di Kjirsten. - Scusa, - dissi a Whitney - ma non riesco proprio a smettere di pensare all'omicidio. Certo, per te ormai è storia vecchia... questo posto dev'essere stato pieno di giornalisti, con tutte quelle domande... Lei mi lanciò uno sguardo penetrante. - Hai bisogno di qual-che minuto per dare un'occhiata al menu? - Io trovo i giornalisti davvero irritanti. Si abbassò verso di me e appoggiò una mano sul tavolo. - Io, invece, trovo davvero irritanti i clienti che se la prendono troppo comoda. Sospirai e aprii di scatto il menu. - Che cosa mi consigli? - E tutto buono. Chiedi al mio ragazzo -. Si sforzò di sorridere. - È il cuoco. - A proposito di ragazzi... Kjirsten ne aveva uno? -. «Ottimo aggancio» pensai. - Confessa. Sei una poliziotta, un avvocato, una giornalista? - Solo una cittadina curiosa. - Sì, come no. Facciamo così: tu ordini milkshake, patatine, hamburger, zuppa d'aragosta, mi lasci un venticinque per cento di mancia, e io ti racconto tutto quello che ho detto anche agli altri. Valutai le due opzioni: la mia intera paghetta settimanale contro le sue risposte. - Andata. - Kjirsten stava insieme a quel ragazzo, Elliot Saunders, quello di cui hanno parlato i giornali. Era sempre qui e la riaccompagnava a casa alla fine del turno. - Hai mai parlato con Elliot? - No. - Credi che Kjirsten si sia suicidata? - Come faccio a saperlo? - Ho letto sul giornale che nel suo appartamento è stato trovato un biglietto; diceva di volersi uccidere, ma c'erano anche dei chiari segni di effrazione. - E allora? - Non lo trovi un po'... strano? - Mi stai chiedendo se penso che Elliot abbia potuto mettere quel biglietto in casa di Kjirsten? Certo che lo penso. Uno ricco come lui può fare qualsiasi cosa e passarla liscia. Può anche aver pagato qualcuno perché piazzasse quel biglietto. Quando hai i soldi, funziona così. - Non credo che Elliot abbia tanti soldi -. Avevo sempre avuto l'impressione che fosse Jules quello ricco. Vee non la smetteva di parlare della sua casa. - Credo frequentasse la Kinghorn Prep con una borsa di studio. - Borsa di studio? - fece eco lei, sbuffando. - Che c'era nell'acqua che hai bevuto? Se Elliot non aveva un mucchio di soldi, come faceva a comprare un appartamento a Kjirsten, me lo spieghi? Feci fatica a non mostrare la mia sorpresa. - Le aveva comprato un appartamento? - Kjirsten non faceva altro che parlarne, ti rincretiniva con quella storia. - Perché le avrebbe comprato un appartamento? Whitney mi fissò con le mani sui fianchi. - Non dirmi che sei davvero così stupida. Oh. Tranquillità. Intimità. Capito. - Sai perché Elliot ha cambiato scuola? - Non sapevo che l'avesse fatto. Tirai le fila delle risposte che avevo avuto e cercai di ricordarmi cos'altro avevo in mente di chiedere. - Lui incontrava qui i suoi amici? Altre persone, a parte Kjirsten? - E come faccio a ricordarmelo? -. Alzò gli occhi al cielo e aggiunse: - Ti sembro una che ha la memoria fotografica? - Magari un ragazzo molto alto? Davvero molto alto. Lunghi capelli biondi, bello, abiti su misura. Lei si strappò via un'unghia rotta con i denti e la lasciò cadere nella tasca del grembiule. - Sì, mi ricordo di quel tipo. Difficile dimenticarsene, sempre silenzioso e di cattivo umore. È venuto una o due volte, non tanto tempo fa. Forse proprio nel periodo in cui è morta Kjirsten. Me lo ricordo perché avevamo i tramezzini al manzo sotto sale per il giorno di San Patrizio e non c'è stato verso di fargliene ordinare uno. Mi guardava storto, sembrava che, se fossi rimasta ancora un po' lì a elencargli i piatti del giorno, mi avrebbe tagliato la gola all'istante. Comunque credo di ricordare qualcosa. Non sono una ficcanaso, ma ho le orecchie, e non posso evitare di ascoltare. L'ultima volta che quel tipo e Elliot sono stati qui, erano piegati sul tavolo e parlavano di una prova. - Che tipo di prova? - E io che ne so? Da quel che ho sentito, sembrava che il tipo alto non avesse superato una prova. Elliot non ne era affatto contento. Ha spinto indietro la sedia ed è uscito come una furia. Non ha neanche finito di mangiare. - Hanno fatto il nome di Kjirsten? Il tipo alto è arrivato per primo e ha chiesto se lei stesse lavorando. Gli ho detto di no, che non stava lavorando e lui si è attaccato al telefono. Dieci minuti dopo è arrivato Elliot. Era sempre Kjirsten a servire il tavolo di Elliot ma, come ho già detto, lei non c'era quindi me ne sono occupata io. Se hanno parlato di lei, io non ho sentito. Comunque ho avuto l'impressione che il tipo alto non la volesse tra i piedi. - Ti ricordi nient'altro? - Dipende. Hai intenzione di ordinare il dolce? - Credo che prenderò una fetta di torta. - Torta? Ti do cinque minuti del mio preziosissimo tempo e tu ordini solo una fetta di torta? Ti sembro il tipo che non ha di meglio da fare che starsene qui a chiacchierare con te? Mi guardai intorno. Il posto era deserto. A parte un uomo al banco che leggeva il giornale, ero l'unica cliente. - Okay... - dissi, concentrandomi sul menu. - Prendi un succo di lamponi per mandare giù quella torta -. Scarabocchiò qualcosa sul blocchetto e continuò: E un caffè -. Si appuntò anche quello. - Naturalmente mi aspetto un'ulteriore mancia del venti per cento -. Mi trafisse con un sorrisetto soddisfatto, quindi infilò il blocchetto nella tasca del grembiule e se ne andò ancheggiando in cucina. 21 Quando uscii dalla tavola calda il tempo era cambiato: la serata era fredda e piovigginosa. I lampioni diffondevano uno strano colore innaturale, giallognolo, che riusciva a penetrare la fitta nebbia che intasava le strade. Mi complimentai con me stessa per aver controllato le previsioni del tempo e aver portato l'ombrello. Passando davanti alle vetrine dei locali, vidi che i bar si riempivano di gente. Ero a pochi isolati dalla fermata dell'autobus, quando avvertii l'ormai familiare sensazione di gelo alla nuca. L'avevo provata la notte in cui ero sicura che qualcuno stesse spiandomi dalla finestra della mia camera, poi al Delphic e di nuovo prima che Vee uscisse dal negozio Victoria's Secret con il mio giubbetto addosso. Mi chinai facendo finta di allacciarmi una scarpa, guardandomi intorno con aria furtiva. I marciapiedi su entrambi i lati della strada erano deserti. Il semaforo cambiò colore e io mi mossi. Accelerai il passo, la borsa stretta sotto il braccio, sperando che l'autobus fosse puntuale. Attraversai un vicolo, superai un bar passando accanto a un gruppo di fumatori e sbucai nella strada successiva. Percorsi a piccole falcate un isolato, svoltai in un altro vicolo e girai intorno al caseggiato. Tutto questo guardandomi continuamente alle spalle. Sentii il rombo dell'autobus che, infatti, un attimo dopo girò l'angolo materializzandosi dalla nebbia. Rallentò, accostò al marciapiede e io salii a bordo, diretta a casa. Ero l'unico passeggero. Mi sedetti diverse file dietro l'autista, scivolando sul sedile per evitare di essere vista. Lui tirò forte la leva di chiusura delle porte e l'autobus riparti. Stavo per concedermi un sospiro di sollievo, quando ricevetti un sms da Vee. «DOVE 6?» «PORTLAND, risposi. «TU?» «ANKE IO. A 1 FESTA CN JULES E ELLIOT. RAGGIUNGICI.» «XKÈ 6 A PORTLAND?!» Invece di aspettare la risposta, la chiamai. Era una cosa urgente, non potevo perdere tempo. - Allora che ne dici? - esordì Vee. - Hai voglia di venire a una festa? - Tua madre lo sa che sei a una festa con due ragazzi? A Portland? - Cominci a sembrarmi nevrotica, tesoro. - Non posso credere che tu sia venuta qui con Elliot! -. Avvertii un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. - Lui lo sa che stai parlando con me? - Così può venire a ucciderti? No, mi dispiace. Lui e Jules hanno fatto una scappata a Kinghorn a prendere qualcosa e io mi sto congelando da sola. Ehi! - urlò Vee, chiaramente a qualcun’altro. - Giù le mani, okay? Ho detto giù! Nora? Non sono proprio in un bel posto. Devi fare in fretta. - Dove sei? - Aspetta... okay, sul palazzo di fronte vedo un numero... 1727. La via è Highsmith, ne sono quasi sicura. - Arrivo appena posso, ma non mi fermo. Torno a casa e tu vieni con me. Fermi l'autobus! - gridai al conducente. Pigiò sui freni mandandomi a sbattere contro il sedile davanti. - Può dirmi da che parte è la Highsmith? - gli chiesi quando arrivai in fondo al corridoio. Mi indicò il lato destro dell'autobus. - Di là. Hai intenzione di andare a piedi? -. Mi squadrò da cima a fondo. - Perché ti avverto, è un brutto quartiere. Fantastico. Dopo aver percorso un paio di isolati, capii che l'autista aveva perfettamente ragione. Lo scenario cambiò drasticamente. Le caratteristiche facciate dei negozi lasciarono il posto a edifici ricoperti di graffiti delle bande del posto. Le finestre erano buie e sprangate da sbarre di ferro. I marciapiedi parevano sentieri desolati che si allungavano nella nebbia. E proprio dalla nebbia arrivò un rumore basso di ferraglia e poi apparve una donna che spingeva un carrello, pieno di sacchetti della spazzatura. Gli occhi color uva passa, tondi e scuri, si mossero a scatti su di me come quelli di un predatore. - Cos'abbiamo qui? - disse, la bocca uno squarcio privo di denti. Mi tirai un po' indietro tenendomi stretta la borsa. - Sembra una giacca, muffole e un cappello di lana. Bello disse. - Ho sempre voluto per me un cappello di lana così bello. - Salve - dissi, schiarendomi la voce e sforzandomi di suonare amichevole. - Per favore, può dirmi quanto manca a Highsmith Street? Ridacchiò. - L'autista dell'autobus mi ha detto che è da questa parte continuai, un po' meno sicura. - Ti ha detto così? - brontolò. - Io so da che parte è Highsmith e non è da questa parte. Aspettai, ma non aggiunse altro. - Crede che potrebbe aiutarmi? - chiesi. - Io so da che parte andare -. Si toccò la testa con un dito che somigliava a un ramo deformato e nodoso. - Tengo tutto qui dentro. - Allora, può dirmi quale direzione prendere? - la incoraggiai. - Oh, non posso dirtelo gratis - rispose con tono di rimprovero. - Ti costerà qualcosa. Una ragazza deve guadagnarsi da vivere. Nessuno ti ha mai detto che nella vita niente è gratis? - Non ho denaro -. Non molto, comunque, giusto i soldi per pagarmi il biglietto del ritorno. - Hai una giacca bella calda. Mi guardai il piumino. Un vento gelido mi agitava i capelli e alla sola idea di togliermi la giacca mi venne la pelle d'oca. Me l'hanno appena regalata, per Natale. - Mi si sta congelando il fondoschiena a stare qui - brontolò. - Vuoi che ti aiuti o no? Non riuscivo a credere di essere davvero lì. Non riuscivo a credere che stavo barattando la mia giacca con una senzatetto. Vee era così in debito con me da poterci restare a vita. Mi tolsi il piumino e la guardai mentre se lo infilava. Il respiro si condensava in nuvole dì vapore. Le braccia strette intorno al corpo, mi misi a battere i piedi per restare calda. - Adesso può dirmi come arrivare a Highsmith? Per favore? - Vuoi la strada lunga o quella corta? - Co-corta - risposi battendo i denti. - Allora ti costerà qualcosa in più. La strada corta ha dei costi aggiuntivi. Come ho detto, ho sempre voluto un cappello di lana cosi bello. Mi sfilai il berretto. - Highsmith? - chiesi, cercando di mantenere un tono amichevole mentre glielo passavo. - Vedi quel vicolo? - disse indicando un punto alle mie spalle. Mi voltai. Il vicolo era a mezzo isolato da lì. - Dall'altra parte c'è Highsmith. Tutto qui? - esclamai. - Un isolato di distanza? La buona notizia è che hai poca strada da fare. La brutta notizia è che con questo freddo nessuna strada sembra corta. Certo, io sto al calduccio con la mia bella giacca e il mio bel cappello. Dammi anche le muffole e ti accompagno fin lì. Abbassai lo sguardo sulle muffole. Almeno le mani erano calde. - Ce la faccio da sola. Alzò le spalle, spinse il carrello fino all'angolo successivo e si sistemò contro il muro, come a guardia del proprio territorio. Il vicolo era buio e ingombro di bidoni della spaziatura, scatole di cartone bagnate e un grosso affare non meglio identificato che avrebbe potuto essere uno scaldabagno abbandonato. Oppure un tappeto arrotolato con dentro un cadavere. Un alto reticolato divideva a metà il vicolo. Riuscivo a malapena a scavalcare una recinzione di un metro nei giorni sì, figuriamoci se potevo pensare di provarci con quella, che era alta almeno tre metri. Per di più ero bloccata dai palazzi su entrambi i lati, le cui finestre erano sporche di grasso e sprangate. Scavalcando cassette e sacchi d'immondizia, tornai indietro. Sotto le scarpe scricchiolavano dei vetri rotti. Mi saettò qualcosa di bianco tra le gambe e trattenni il fiato. Un gatto. Solo un gatto, che svanì nell'oscurità. Allungai la mano verso la tasca per prendere il cellulare. Volevo mandare un messaggio a Vee e dirle di aspettarmi perchè stavo arrivando, quando mi resi conto di averlo lasciato nella tasca del piumino. «Perfetto» pensai. «Quante probabilità ci sono che la barbona ti ridia il telefono?» Zero. Decisi di provarci comunque. Non feci in tempo a voltarmi, che un'elegante berlina nera superò l'accesso al vicolo. Con un improvviso bagliore, si illuminarono i fanalini di coda. Guidata più da un presentimento che da una ragione precisa, mi ritrassi nell'ombra. Si apri una portiera e si udì un suono. Spari, La portiera si richiuse con un colpo secco e la berlina nera riparti con uno Stridore di pneumatici. Sentivo il cuore martellarmi nel petto e il rumore dei battiti si confuse con quello di passi che correvano. Ci misi un attimo a capire che i passi erano i mici, che ero io a correre verso l'ingresso del vicolo. Svoltai l'angolo e mi fermai di colpo. Il corpo della barbona era afflosciato sul marciapiede. Mi avvicinai di corsa e mi inginocchiai accanto a lei. - Sta bene? - dissi angosciata. La girai verso di me: la bocca era spalancata» gli occhi vuoti. Il piumino che indossavo solo tre minuti prima era intriso di un liquido scuro. Ebbi l'impulso di scappare via, ma mi costrinsi a infilare le mani nelle tasche della giacca. Dovevo chiedere aiuto, ma il cellulare non c'era. All'angolo della strada vidi una cabina telefonica. La raggiunsi e chiamai il 911. Mentre aspettavo che un operatore rispondesse, mi voltai a guardare il corpo della donna e fui attraversata da una scarica di adrenalina. Il corpo era sparito. La mano mi tremava, mentre riagganciavo. Sentii un rumore di passi che si avvicinavano, ma non riuscivo a capire quanto fossero già vicini. Ciac, ciac, ciac. «È qui» pensai. «L'uomo con il passamontagna.» Infilai alcune monete nel telefono e afferrai il ricevitore con tutt'e due le mani. Cercai di richiamare alla memoria il numero di Patch. Strizzando gli occhi, visualizzai i sette numeri che mi aveva scritto sulla mano il giorno in cui ci eravamo conosciuti. Digitai i numeri senza riflettere. - Si? - disse Patch. Il suono della sua voce mi fece quasi singhiozzare. In sottofondo, sentivo lo schiocco delle palle da biliardo, così capii che era alla Bo's Arcade. Ci avrebbe messo quindici, venti minuti ad arrivare. - Sono io - dissi piano. Non avevo il coraggio di alzare la voce oltre un sussurro. - Nora? - Sono a P-Portland. All'angolo tra la Hampshire e la Nantucket. Puoi venire a prendermi? Ề urgente. , Ero raggomitolata sul pavimento della cabina telefonica e contavo in silenzio fino a cento e poi ricominciavo per cercare di restare calma, quando una Jeep Commander nera scivolò silenziosa accanto al marciapiede e si fermò. Patch aprì la portiera. Si sfilò la maglia a maniche lunghe, restando solo con una maglietta nera a mezze maniche, e me la infilò. Mi stava enorme, le maniche penzolavano ben oltre le mani. Odorava di fumo, acqua salata e sapone alla menta e, in qualche modo, colmò il vuoto che avevo dentro. - Andiamo in macchina -. Patch mi tirò su e io gli circondai il collo con le braccia, nascondendo il viso contro il suo petto. - Mi viene da vomitare - confessai. Il mondo girava, e anche Patch. - Ho bisogno delle mie pastiglie. - Shh - disse lui, tenendomi strettii. - Andrà tutto bene, ci sono io adesso. Riuscii ad annuire. - Andiamo via. Annuii di nuovo. - Dobbiamo prendere Vee mormorai. I a una festa a un isolato da qui. Mentre Patch guidava, sentivo rimbombarmi in testa il rumore dei miei denti che battevano. Non ero mai stata tanto spaventata in vita mia. Vedere quella donna assassinata mi aveva risvegliato tanti pensieri sulla morte di mio padre. Vedevo tutto velato di rosso e, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a far svanire l'immagine del sangue. - Stavi giocando a biliardo? - chiesi, quando mi tornò in mente la nostra breve telefonata e il rumore delle bilie in sottofondo. - Stavo vincendo un appartamento. - Un appartamento? - In uno di quei condomini snob sul lago. Un posto che avrei odiato. Highsmith e questa, hai l'indirizzo? - Non me lo ricordo - risposi, mettendomi a sedere dritta per poter vedere meglio dai finestrini. Gli edifici sembravano tutti abbandonati. Nessun segno di feste. Nessun segno di nulla, punto e basta. - Hai il cellulare? - domandai a Patch. Tirò fuori dalla tasca un Blackberry. - La batteria è quasi scarica, non so se basta per una telefonata. Cosi mandai un sms. «DOVE SEI?!» «CAMBIO DI PROGRAMMA» rispose Vee. .CREDO KE JUI E EL NN SN RIUSCITI A TROVARE QL KE CERCAVANO STIAMO ANDANDO A CASA.» Lo schermo si spense. - È morto - dissi a Patch. - Hai il caricabatteria? - Non con me. - Vee sta tornando a Coldwater. Potresti lasciarmi a casa sua? Qualche minuto dopo eravamo sulla litoranea e costeggiavamo una scogliera a picco. L'avevo già fatta prima di allora; quando c'era il sole l'acqua era blu con macchie verde scuro nei punti in cui rifletteva gli alberi. Ora invece, di notte, l'oceano era una levigata distesa di veleno nero. - Hai intenzione di raccontarmi cos'è successo? - chiese Patch. La giuria non aveva ancora deciso se dire tutto a Patch oppure no. Potevo raccontargli come, dopo avermi portato via il piumino con l'inganno, quella donna fosse stata uccisa. Potevo dirgli che credevo che il proiettile fosse destinato a me. E poi potevo cercare di spiegargli come il corpo della donna fosse magicamente sparito nel nulla. Mi tornò in mente lo sguardo folle con cui il detective Basso mi aveva scrutata quando gli avevo spiegato che qualcuno si era introdotto in camera mia. Non ero dell'umore di ricevere ancora sguardi scettici né di essere presa in giro. Non da Patch. Non in quel momento. - Mi sono persa e una barbona mi ha bloccata - iniziai. Mi ha convinta a darle la giacca... -. Tirai su col naso e me lo asciugai con il dorso della mano. - Mi ha preso anche il berretto. - Cosa ci facevi in un posto come quello? - chiese Patch. - Andavo da Vee, che era alla festa. Eravamo a metà strada tra Portland e Coldwater, su un tratto di autostrada ricco di vegetazione e spopolato, quando, all'improvviso, dal cofano della jeep uscì del fumo. Patch frenò e accostò sul bordo della strada. - Aspetta - disse uscendo dall'auto. Alzò il cofano e sparì dalla mia vista. Un minuto dopo lo richiuse, si pulì le mani sui pantaloni, venne dal mio lato e mi fece segno di abbassare il finestrino. - Brutte notizie. Il motore è andato. Cercai di darmi un tono consapevole e perspicace, sebbene avessi la netta sensazione di sfoggiare uno sguardo semplicemente inespressivo. Patch sollevò un sopracciglio. - Riposi in pace. - Non si muove? - A meno che non la spingiamo... no. Di tutte le automobili in circolazione, doveva vincere proprio un catorcio. - Dov'è il tuo cellulare? - mi chiese. - L'ho perso. Sorrise. - Fammi indovinare. Era nella tasca del piumino. La barbona ha fatto proprio un affare, vero? Scrutò l'orizzonte, poi continuò: - Abbiamo due possibilità. Fermare qualcuno e farci dare un passaggio o arrivare a piedi alla città più vicina e cercare un telefono. Saltai giù, sbattei la portiera e diedi un calcio alla ruota della jeep. Sapevo che stavo usando la rabbia per nascondere la paura. Non appena fossi stata sola, mi sarei sfogata piangendo. - Credo che alla prossima uscita ci sia un motel. Va-ado a chiamare un taxi - balbettai, e i denti iniziarono a battere ancora più forte. - T-tu resta qui con la jeep. La sua bocca si schiuse in un sorriso, però non sembrò divertito. - Non ho intenzione di perderti di vista. Sembri un po' sconvolta, angelo. Ci andiamo insieme. Incrociai le braccia e mi piantai davanti a lui. Con le scarpe da tennis, i miei occhi arrivavano all'altezza delle sue spalle, quindi per guardarlo in faccia fui costretta a piegare indietro la testa. - Non ho nessuna intenzione di avvicinarmi a un motel con te -. Meglio tentare un atteggiamento deciso, cosi avrei avuto meno probabilità di cambiare idea. - Credi che sommando noi due a uno squallido motel otterremmo un risultato pericoloso? - Proprio così. Patch si appoggiò alla jeep. - Possiamo restare seduti qui a parlarne... -. Diede una rapida occhiata al ciclo coperto e prosegui: - Però sta arrivando un temporale. Come se Madre Natura avesse voluto dire la sua in proposito, il cielo si squarciò e piombò giù uno scroscio di acqua ghiacciata. Fulminai Patch con lo sguardo e mi lasciai sfuggire un sospiro di rabbia. Come al solito, aveva avuto ragione. 22 Venti minuti dopo, stremati, Patch e io ci rifugiammo nell'ingresso di un motel da quattro soldi. Non gli avevo detto neanche una parola mentre marciavamo sotto la pioggia gelata, e a quel punto non ero solo bagnata fradicia: ero anche completamente snervata. Immaginavo che non saremmo riusciti a tornare alla jeep tanto presto, il che faceva supporre che io, Patch e un sordido motel facessimo parte della stessa equazione a tempo indeterminato. La porta si aprì e suonò un campanello; l'addetto alla reception scartò in piedi facendo cadere dalle gambe una pioggia di patatine sbriciolate. - Ditemi, prego - disse succhiandosi le dita per pulirsele. - Due? Per stanotte? - A-abbiamo bisogno di usare il telefono - risposi, sperando che riuscisse a capirmi nonostante stessi battendo i denti. - Non si può. Le linee sono interrotte. Colpa del temporale. - C-che vuol dire l-le linee sono interrotte? Non ha un cellulare? L'impiegato guardò Patch. - Vuole una stanza. Non fumatori - disse Patch. Mi voltai verso di lui. «Sei pazzo?» mormorai muovendo solo le labbra. L'impiegato consultò il computer. - Allora, vediamo un po'... aspettate... trovata! Una matrimoniale non fumatori. - La prendiamo - fece Patch. Lo vidi sollevare gli angoli della bocca. E lo fulminai con lo sguardo. In quell'istante andò via la luce e l'atrio piombò nell'oscurità. Restammo tutti in silenzio per un attimo, finché l'impiegato del motel, a tentoni, riuscì ad accendere un'enorme torcia elettrica. - Sono stato un boy scout - disse. - Tanto tempo fa. "Sempre pronti". - Quindi d-deve avere un cellulare. - Una volta. Poi non sono più riuscito a pagare la bolletta Si strinse nelle spalle. - Che ci posso fare? Mia madre è una spilorcia. Sua madre? Doveva avere almeno quarant'anni. Non che fossero affari miei. Ero molto più preoccupata di quello che mia madre avrebbe fatto quando, una volta tornata a casa dal matrimonio, si fosse accorta della mia sparizione.- Come preferite pagare? - chiese. - Contanti - rispose Patch. L'impiegato ridacchiò, dondolando la testa. - È la forma di pagamento più popolare da queste parti -. Si piegò verso di noi e assunse un tono confidenziale. - C'è un sacco di gente che non vuole che le sue attività extracurricolari possano essere rintracciate, se capite quello che intendo. La metà razionale del mio cervello mi stava appunto dicendo che non potevo prendere davvero in considerazione la possibilità di passare la notte in un motel con Patch. - E una pazzia - bisbigliai. - Io sono pazzo -. Sorrise di nuovo. - Di te. Quant'è per la torcia? - aggiunse poi rivolto al tizio. Lui allungò la mano sorto la cassa. - Ho qualcosa di meglio: candele formato kit di sopravvivenza -. Ridacchiando, ne piazzò due davanti a noi. - Omaggio della casa, nessun costo aggiuntivo. Mettetene una in bagno e una in camera da letto e non vi accorgerete nemmeno che manca l'elettricità. Vi regalo anche una scatola di fiammiferi, se vi avanzano li terrete come ricordo. Patch ringraziò, poi mi prese per il gomito e mi spinse in corridoio. Una volta dentro la camera 106, chiuse a chiave la porta. Mise una candela sul comodino e la usò per accendere l'altra, quindi si tolse il cappellino da baseball e scosse la testa come un cane bagnato. - Hai bisogno di una doccia bollente - disse. Fece qualche passo indietro e diede un'occhiata in bagno. - A quanto pare, ci sono una saponetta e due asciugamani. Sollevai il mento. - N-non puoi obbligarmi a restare -. Avevo accettato di arrivare fino a li solo perchè l'alternativa era stare seduta nella jeep sotto al diluvio e poi perchè speravo di trovare un telefono. - Strano,sembrava più una domanda che un'affermazione. - Allora r-rispondi. Mi rivolse il suo solito sorriso da irresistibile, cattivo ragazzo. - È difficile concentrarsi sulle risposte, con te in quelle condizioni. Abbassai lo sguardo sulla maglia nera di Patch. Era bagnata e mi aderiva al corpo. Passai accanto a lui e chiusi la porta del bagno alle spalle. Aprii il rubinetto dell'acqua calda, mi sfilai la maglietta di Patch e gli altri vestiti. Sulla parere della doccia c'era un lungo capello nero; lo catturai con un quadratino di carta igienica e lo gettai nel gabinetto. Quindi entrai nella doccia e tirai la tenda, guardando la mia pelle diventare lucida e calda. Mentre mi massaggiavo con il sapone i muscoli del collo e delle spalle, riflettei. In fondo, potevo riuscire a dormire nella stessa stanza con Patch. Non era la soluzione migliore e neanche la più sicura, ma avrei fatto in modo che non accadesse nulla. E poi, non avevo scelta... giusto? La metà istintiva e sconsiderata del mio cervello rideva di me. Sapevo perché. Fino a quel momento mi ero sentita attratta da Patch come da un misterioso campo di ferie. Adesso ero attratta verso di lui da qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che sviluppava molto calore. Quella notte, un contatto sarebbe stato inevitabile. E in una scala da uno a dieci, il terrore era a quota otto. L'eccitazione a quota nove. Chiusi l'acqua, uscii dalla doccia e mi asciugai. Un'occhiata ai miei vestiti zuppi mi convinse che non avevo nessuna voglia di rimetterli. Forse c'era un'asciugatrice a gettoni... e che non richiedesse l'uso dell'elettricità. Sospirai e presi il top e le mutandine, gli unici a essersi salvati dal diluvio. - Patch? - chiamai attraverso la porta chiusa. - Finito? - Spegni la candela. - Fatto - sussurrò. Anche la sua risata mi arrivò cosi piano che avrebbe potuto essere stata sussurrata. Spensi anche la candela del bagno e uscii nel buio più totale. Sentivo il respiro di Patch proprio davanti a me. Non volevo pensare a come fosse, o non fosse, vestito e scossi il capo per frantumare l'immagine che si era formata nella mia mente. - I miei vestiti sono zuppi. Non ho niente da mettere. Sentii il fruscio della stoffa bagnata che si staccava dalla pelle di Patch. - Buon per me -. La maglietta atterrò ai suoi piedi. - È davvero imbarazzante. Lo sentii ridere. Era troppo, troppo vicina. - Vai a fare la doccia - dissi. - Subito. - Ho un odore cosi cattivo? Veramente, aveva un odore fin troppo buono. La puzza di fumo era sparita e l'odore di menta più forte. In bagno, Patch riaccese la candela lasciando però la porta socchiusa-, una lama di luce si allungava sul pavimento e sul muro. Scivolai con la schiena lungo la parete finché non mi ritrovai seduta a terra, poi minai a dare dei colpetti al muro con la testa. Sinceramente, non potevo restare. Dovevo tornare a casa. Era sbagliato stare li da sola con Patch, che mi fossi ripromessa di essere prudente oppure no. Dovevo dire alla polizia della barbona. Oppure no? Come facevo a spiegare che il suo corpo era svanito nel nulla? Avevo detto che restare lì era una pazzia. Esatto. Era proprio quella la terrificante direzione presa dai miei pensieri. Non volendo soffermarmi sull'idea dell'insanita mentale, mi concentrai sul motivo per cui ero finita in quel posto. La risposta era Vee. Non potevo restare li sapendola insieme a Elliot, in pericolo, mentre io dormivo al sicuro. Dopo un momento di riflessione, decisi che era necessario riformulare il pensiero. "Al sicuro" era un concetto relativo. Con Patch nei paraggi forse non ero in pericolo di vita, ma questo non significava che si sarebbe comportato come il mio angelo custode. Immediatamente desiderai poter ritirare quel pensiero. Chiamando a raccolta tutta la mia capacità di autopersuasione, bandii dalla testa tutti i pensieri riguardanti gli angeli: custodi, caduti o altro. Mi convinsi che probabilmente stavo davvero diventando pazza. L'omicidio della barbona poteva benissimo essere stata un'allucinazione. Anche le cicatrici di Patch potevano essere un'allucinazione. L'acqua smise di scorrere. Un attimo dopo Patch usciva dal bagno indossando solo i jeans bagnati e bassi sui fianchi. Lisciò la candela accesa e la porta aperta. La scansi brillava di una luce soffusa. Un'occhiata veloce mi diede la certezza che Patch passava parecchio tempo a correre e a fare sollevamento pesi. Un corpo cosi non si ottiene senza lavoro e sudore. All'improvviso, mi sentii un po' a disagio. Per non dire arrendevole. - Quale parte del letto preferisci? - chiese. - Uh... Sorriso sornione. - Nervosa? - No - risposi con tutta la sicurezza che riuscii a ostentare date le circostanze. E le circostanze erano di spudorata menzogna. - Non sei granché come bugiarda. In effetti, sei la peggiore che abbia mai conosciuto. Mi misi le mani sui fianchi come a dire: «Prego?». - Vieni qui -. Mi tirò vicino a lui. Sentii che i primi propositi di resistenza si dissolvevano. Altri dieci secondi a quella distanza e le mie difese sarebbero andate in pezzi. Alle sue spalle però era appeso uno specchio. Così vidi le cicatrici brillare, nere sulla sua pelle. Mi irrigidii. Cercai di scacciare quella visione, ma inutilmente. Senza riflettere, gli feci scivolare le mani sul petto e poi sulla schiena. Con la punta di un dito, sfiorai una cicatrice. Patch tese i muscoli, lo impiegai un momento per rendermi conto che non era solo il mio polpastrello a muoversi, ma tutto il mio corpo. Venni risucchiata in un vortice scuro e soffice e tutto intorno a me divenne buio. 23 Ero nel piano seminterrato della Bo's Arcade. La schiena appoggiata al muro, guardavo i giocatori di biliardo. Alle finestre erano inchiodate delle assi, quindi non riuscivo a capire se fosse giorno o notte. Oli altoparlanti dello stereo diffon-devano Stevie Nicks, la canzone sulla colomba dalle ali bianche e su qualcuno alla soglia dei diciassette anni. Nessuno sembrava colpito dal fatto che all'improvviso t'ossi comparsa dal nulla. Poi mi ricordai che indossavo soltanto top e mutandine. Non sono un tipo vanitoso, però ero in mezzo a un mucchio di persone, tutte del sesso opposto, e coperta il minimo indispensabile. E nessuno mi guardava. Be', qualcosa non quadrava. Mi diedi un pizzicotto. A quanto pareva, ero viva e vegeta. Agitai la mano per diradare il fumo dei sigari. Dall'altra parte della sala Patch sedeva a un tavolo da poker, rilassato, le carte in mano. A piedi scalzi attraversai la sala, le braccia Incrociate sul petto per coprirmi. - Possiamo parlare? - sibilai all'orecchio di Patch. La mia voce tradiva un certo nervosismo. Comprensibile, dal momento che non avevo idea di come fossi arrivata li. Un attimo prima ero in uno squallido motel e quello dopo mi ritrovavo in mezzo a dei giocatori d'azzardo. Patch spinse una pila di fiche al centro del tavolo, che andò ad aggiungersi a quelle che c'erano già. - Tipo... subito? - dissi. - È piuttosto urgente... -. Mi interruppi nel vedere il calendario appeso al muro. Risaliva a otto mesi prima, per la precisione ad agosto dell'anno prima. Di li a poco avrei iniziato il mio secondo anno di liceo; atleta non avevo ancora conosciuto Patch. Pensai a un errore, pensai che si fossero dimenticati di strappare i fogli del calendario... eppure, al tempo stesso, solo per una frazione di secondo e con riluttanza, presi in considerazione l'ipotesi che il problema non fosse il calendario. Il problema ero io. Afferrai una sedia e la trascinai accanto a quella di Patch. - Ha il cinque e il nove di picche e l'asso di cuori... -. Mi bloccai, ignorata da tutti. Anzi no. Non vista da tutti. Nella sala rimbombò un rumore di passi. Sulle scale comparve lo stesso cassiere che aveva minacciato di sbattermi fuori la prima sera che ero andata li. - Qualcuno di sopra vuole scambiare due parole con te – disse a Patch. Lui sollevò le sopracciglia interrogativo. Non ha voluto dire il nome - spiegò il cassiere, quasi scusandosi. - Gliel'ho chiesto due volte. Le ho detto che stavi giocando, ma non vuole andarsene. Ma se vuoi che la butti fuori, lo faccio. - No, mandala giù. Patch giocò la sua mano, raccolse le fiche e spinse indietro la sedia. - Io ho finito -. Poi andò verso il tavolo da biliardo più vicino alle scale, ci si appoggiò e infilò le mani in tasca. Io lo seguii. Gli schioccai le dita davanti al naso, lo presi a calci sugli stivali, lo colpii sul petto. Non si mosse di un millimetro. Si udirono altri passi sulle scale. Più leggeri stavolta. Poi la signorina Greene fece la sua apparizione, e io mi sentii piombare nel caos. I capelli biondi, dritti come spaghetti, le arrivavano alla vita; indossava un paio di jeans aderenti, una canottiera rosa ed era scalza. Vestita così sembrava ancora più giovane. Stava succhiando un lecca lecca. Il viso di Patch è sempre imperscrutabile e, qualsiasi cosa accada, non ho la più pallida idea di che cosa stia pensando. Quella volta, invece, bastò che i suoi occhi incontrassero quelli della Greene per farmi capire che era sorpreso. Si riprese subito, però. L'attimo dopo si era liberato dalle emozioni e il suo sguardo era tornate circospetto. - Dabria? I battiti del mio cuore accelerarono. Cercai di mettere insieme i pezzi, ma Tunica cosa che riuscivo a pensare era come facevano a conoscersi se davvero eravamo nel passato. Lei non lavorava ancora a scuola. E poi perché Patch la chiamava per nome? - Come ti sono andate le cose? - chiese la signorina Greene Dabria con un sorriso melenso, prima di gettare il lecca lecca nel cestino dei rifiuti. - Che ci fai qui? - chiese Patch, mentre gli occhi diventavano ancora più cauti, come se stesse pensando che non ci si poteva fidare di lei. - Sono andata via di nascosto - rispose lei. La bocca tentò una specie di sorriso e aggiunse: - Dovevo rivederti. Ci ho provato per tantissimo tempo, ma la sicurezza... be', lo sai, non è esattamente... facile da aggirare. Quelli come te e... quelli come me... non devono mischiarsi. Ma questo lo sai già. - Venire qui è stata una cattiva idea. - So che è passato molto tempo, ma speravo in un'accoglienza più amichevole - disse, mettendo il broncio. Patch non rispose. - Non ho mai smesso di pensare a te -. Dabria abbassò la voce. Era suadente e sexy mentre si avvicinava a Patch. - Non è stato facile venire quaggiù. Lucianna sta inventandosi non so più quali scuse per giustificare la mia assenza. Sto rischiando il suo futuro e il mio. Non vuoi almeno sentire quello che ho da dirti? - Parla. - Non ho mai rinunciato a te. Mai, per tutto questo tempoSi interruppe e ricacciò indietro le lacrime che all'improvviso le inumidivano gli occhi. Quando riprese a parlare, la voce era più controllata, ma ancora un pò tremante. - So come puoi riacquistare le ali. Gli sorrise, ma lui non le restituì il sorriso. - Appena avrai riacquistato le ali potrai tornare a casa continuò Dabria, più sicura di sé. - Sarà tutto come prima. Niente è cambiato. Non sul serio. - Dov'è il trabocchetto? - Nessun trabocchetto. Devi solo salvare una vita umana. Ha senso, considerando il peccato per il quale sei stato scacciato. - Che grado avrò? Tutta la sicurezza di Dabria sembrò abbandonarla. Di colpo, ebbi la sensazione che lui le avesse rivolto l'unica domanda alla quale lei sperava di non dover rispondere. Ti ho appena detto come puoi fare a riacquistare le ali replicò, e il tono di voce era passato da timido a sprezzante. - Credo di meritarmi almeno un "grazie". - Ti ho fatto una domanda -. A giudicare dal sorriso torvo di Patch, però, la risposta era inutile. La conosceva già. Magari aveva solo un sospetto, ma piuttosto preciso: qualsiasi fosse stata la risposta di Dabria, a lui non sarebbe piaciuta. - D'accordo. Diventerai un angelo custode, contento? Patch piegò la testa indietro e rise. - Che c'è di male a essere un angelo custode? - domandò Dabria. - Cosa c'è che non va? - Ho in programma qualcosa dì meglio. - Ascoltami. Patch- Non c'è niente di meglio. Ti stai illudendo. Qualsiasi altro angelo caduto farebbe i salti di gioia se gli fosse data la possibilità di riacquistare le ali e diventare un custode, Perché tu no? -. La sua voce era soffocata dallo sconcerto, dall'irritazione, dal rifiuto di credere a ciò che stava ascoltando. Patch si spostò dal biliardo. - È stato bello rivederti, Dabria. Buon viaggio di ritorno. Senza preavviso, lei lo afferrò per la camicia, lo tirò a sé e lo baciò. Molto lentamente, non solo il viso, ma tutto il corpo di Patch si voltò verso di lei. Si abbandonò a quel bacio. Le mani risalirono il corpo di Dabria e le sfiorarono le braccia. Ingoiai amaro, cercando di ignorare la fitta di gelosia e la confusione in cui era piombato il mio cuore. Una parte di me voleva voltare la testa e piangere, un'altra parte, invece, avvicinarsi a loro e mettersi a urlare. Non che sarebbe servito a qualcosa, dal momento che ero invisibile. Ovviamente la Greene... Dabria... chiunque fosse... e Patch avevano avuto una relazione. Erano ancora insieme adesso, nel futuro? Lei aveva cercato lavoro a Coldwater per stare più vicina a lui? Per questo era così decisa a spaventarmi? - Devo andare - disse Dabria liberandosi dall'abbraccio. - Sono già rimasta fin troppo e ho promesso a Lucianna che invece avrei fatto presto -. Abbassò il mento sui petto. - Mi manchi. Salva una vita umana e riavrai le tue ali. Toma da me. Torna a casa. Si bloccò di colpo e concluse! - Devo andare, nessuno degli altri deve sapere che sono stata qui. Ti amo. Voltò la schiena e l'ansia svani dal suo viso, cancellata da Un'espressione completamente diversa. Era l'espressione subdola di chi aveva bluffato sapendo di non avere delle buone carte in mano. All'improvviso, Patch le afferrò il polso. - Adesso dimmi la vera ragione per cui sei qui. La velata minaccia contenuta nella voce di Patch mi fece rabbrividire. Un estraneo l'avrebbe giudicato perfettamente calmo, ma LO conoscevo la verità. Il modo in cui la guardava voleva dire solo una cosa; hai superato un confine inviolabile e faresti bere a tornare indietro. Subito. La spinse delicatamente, ma inesorabilmente, fino al bar e la fece sedere su uno sgabello. Poi si sedette accanto a lei e io lo imitai, allungando il collo per riuscire ad ascoltare quello che si dicevano nonostante la musica. - Cosa significa "la vera ragione per cui sono qui"? balbettò Dabria. - Ti ho già detto... - Stai mentendo. Lei restò a bocca aperta, - Non posso crederci, tu pensi che... - Dimmi la verità, adesso, Dabria esitò un attimo prima di rispondere. Lo guardò furibonda, poi ammise: - D'accordo, allora. So cosa hai in mente di fare. Patch scoppiò a ridere. E la risata diceva: «Ho in mente un sacco di cose. Tu a quale ti riferisci, di preciso? - So che hai sentito delie voci sul Libro di Enoch So che pensi di poter fare la stessa cosa, ma non puoi, Patch incrociò le braccia. - Ti hanno mandato qui per convincermi a cambiare idea, vero? -. Rise con gli occhi. Se rappresento una minaccia, allora le voci devono essere vere. - No. Sono solo voci. - Se è successo una volta, può succedere ancora. - Non è mai successo. Ti sei preso il disturbo di leggere il Libo di Enoch prima di cadere? - lo sfidò. - Sai esattamente ciò che dice, conosci ogni sua parola sacra? - Potresti prestarmi la tua copia. - Non essere blasfemo! Tu non puoi più leggerlo, ti è proibito urlò. - Quando sei caduto hai tradito ogni angelo del cielo. - Quanti di loro sanno quello che ho in mente? Quanto è grande la minaccia che rappresento? Lei scosse il capo. - Non posso. Ho già detto più di quanto avrei dovuto, - Cercheranno dì fermarmi? - Gli angeli vendicatori, si Patch la guardò, - Invece no, se credono che tu mi abbia convinto. - Non guardarmi così -, Dabria adesso sembrava solo una ragazza che faceva ricorso a tutto il suo coraggio per apparire decisa. - Non mentirò per proteggerti. Stai cercando dì fare una cosa sbagliata. Una cosa contro natura. - Dabria -. Patch pronunciò il suo nome e la minaccia contenuta nella sua voce suonò ancora più forte: tanto valeva afferrarle il braccio e torcergliela dietro la schiena. - Non posso aiutarti - dichiarò lei- - Non come vuoi tu. Toglitelo dalla testa. Diventa un angelo custode. Concentrati su quello e dimentica il Libro di Enoch. Patch piantò i gomiti sul bancone e si fermò a riflettere. Dopo qualche secondo, disse: - Di' loro che abbiamo parlato e che ti sono sembrato interessato a diventare un angelo custode. - Interessato? - ripetè lei, un po' incredula. - Interessato, Di' loro che ho chiesto un nome. Se devo salvare una vita, devo sapere chi è in cima alla vostra lista dì attesa. Sci un angelo della morte, Dabria, e io so che hai queste informazioni. - Informazioni sacre e private ma, soprattutto, non prevedibili, Gli eventi di questo mondo sì modificano continuamente. Le sceke degli uomini cambiano le cose. - Un nome, Dabria. - Prima promettimi che ti dimenticherai del Libro di Enoch. Dammi la tua parola. - Ti fideresti della mia parola? - No. Patch rise con freddezza, poi prese uno stuzzicadenti dal dispenser e si avviò verso le scale. - Patch, aspetta! -. Dabria saltò giù dallo sgabello. -Ti prego, aspetta. Lui la guardò con la coda dell'occhio. - Nora Grey - disse lei, e si coprì immediatamente la bocca con la mano. Patch cambiò leggermente espressione: incredulità mista a irritazione. Il che non aveva molto senso, visto che, se il calendario era giusto, noi non ci conoscevamo ancora. Il mio nome non avrebbe dovuto significare niente per lui. - Come morirà? - chiese. - Qualcuno vuole ucciderla. - Chi? - Non lo so - rispose Dabria tappandosi le orecchie e scuotendo la testa. - C'è troppo rumore e confusione qui. Tutte le immagini si confondono, arrivano troppo velocemente, non vedo bene, Ho bisogno di andare a casa, di pace e di calma. Patch le sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio e la guardò a lungo. Lei tremò, annuì e chiuse gli occhi. - Non vedo... non riesco a vedere nulla... è inutile. - Chi è che vuole uccidere Nora Grey? - la incalzò - Parla. - Aspetta, la vedo - disse Dabria, la vote di nuovo ansiosa, - C'è un'ombra dietro di lei. È lui- Lo sta seguendo, ma lei non lo vede... eppure è proprio là... Perché non lo vede? Perché non corre? Non riesco a vedere la sua faccia, è in ombra... Dabria spalancò gli occhi e sussultò. - Chi è? - chiese Patch. Dabria si portò le mani alla bocca e, tremando, alzò lo sguardo su Patch. - Tu - sussurrò, Il polpastrello si staccò dalla cicatrice e il collegamento si interruppe. Impiegai un momento per orientarmi di nuovo; ecco perché Patch mi colse di sorpresa quando mi gettò sul letto. Mi afferrò per i polsi e me li tenne fermi sopra la. testa. - Non avresti dovuto farlo -. Il suo viso, scuro e fremente, sembrava controllare a stento la rabbia. - Che cosa hai visto? Gli diedi una ginocchiata nelle costole. - Togliti... di... dosso! Invece Patch si sdraiò su di me e mi allargò le gambe, così che non potessi muoverle. Con le braccia e le gambe immobilizzate, non potevo fare altro che dibattermi sotto il peso del suo corpo. -Togliti di dosso... oppure... mi metto a urlare! - Stai già urlando. E non servirà a niente, nessuno si precipiterà qui. Questo posto somiglia più a un bordello che a un motel -. Sfoderò un sorriso crudele. - Per l'ultima volta, N'ora, che cosa hai visto? Trattenevo a stento le lacrime. Ero completamente sopraffatta da un'emozione sconosciuta, a cui non avrei nemmeno saputo dare un nome. - Mi fai schifo!! - urlai. - Chi sei? Chi sei veramente? Le sue labbra si piegarono in una smorfia, - Stiamo per arrlvarci. - Tu vuoi uccidermi! Il viso di Patch era impenetrabile, solo gli occhi diventavano sempre più freddi. - Il motore delIa jeep non SÌ è davvero fermato stanotte, giusto? - lo incalzai. - Hai mentito, Mi hai portata qui per uccidermi, Dabria ha detto che vuoi farlo. Cosa aspetti? -. Non sapevo che effetto avrebbero avuto le mie parole e non mi importava, Parlavo solo per tenere a bada il terrore- - Mai cercato di uccidermi fin dall'inizio. Lo farai adesso? -. Lo fissai duramente, senza battere ciglio. Ripensai al giorno in cui era entrato nella mia vita e lottai per non scoppiare a piangete, - Non tentarmi. Cercai di divincolarmi. Provai a rotolare a destra, poi a sinistra, ma alla fine mi resi conto che sprecavo inutilmente energie e mi fermai. Gli occhi di Patch, neri come non mai, si posarono su di me. - Scommetto che ti piace - dissi. - Vinceresti la scommessa. Il cuore batteva così forte che lo sentivo persino sotto, le dita dei piedi, - Fallo e basta - dissi. - Ucciderti? Annuii. - Prima però voglio sapere perché. Ci sono miliardi di persone al mondo, perché io? - Cattivo DNA, - Tutto qui? Tutta qui la tua spiegazione? - Per adesso. - Cosa vuol dire? - gridai. - Quando mi racconterai il resto della storia? Quando perderai il controllo e mi ucciderai? - Non ho bisogno di perdere il controllo per farlo. Se avessi vo-luto ucciderti cinque minuti fa, saresti morta cinque minuti fa. Inghiottii quel tutto-meno-che-rassicurante ragionamento. Patch mi sfiorò la voglia con il pollice. Il tocco fu delicato e falso, quindi ancora più penoso da sopportare. - Che mi dici di Dabria? - chiesi, il respiro ancora affanno so. - È come te, giusto? Siete due... angeli -, Sentii la mia voce incrinarsi mentre pronunciavo quella parola. Lui si spostò un po' di lato, liberandomi le gambe, ma conti* nuò a tenermi i polsi- - Se ti lascio, ascolterai quello che ho da dire fino alla fine! Se l'avesse fatto, mi sarei fiondata alla porta. - Ha qualche importanza se tento di scappare? Tanto mi trascineresti di nuovo qui. - Si, ma non mi piacciono le scenate. - Dabria è la tua ragazza? -. Sentivo il petto andare su e giù al ritmo rapido del mio respiro. Non ero sicura di voler sentire la risposta. Ed era talmente ridicolo che mi importasse di lei, sapendo che Patch voleva uccidermi* - Era. È stato tantissimo tempo fa. prima che cadessi nell'oscurità -. Sorrise amaro, - Anche quello è stato un errore . Si tirò indietro lasciandomi lentamente andare e controllò le mie reazioni. Restai sdraiata a letto, ansante, appoggiata sui gomiti. Poi contai fino a tre e mi scagliai contro di lui con tutta la forza che avevo. Lo colpii al torace senza riuscire a spostarlo di un millimetro. Cominciai a prenderlo a pugni, sul petto, sempre più forte, finché le mani non iniziarono a pulsarmi. - Hai finito? - mi chiese. - No! -. Gli piantai un gomito nella coscia. - Cosa c'è che non va in te? Non senti niente? Mi aliai in piedi, mi misi in equilibrio sul materasso e iniziai a prenderlo a calci nello stomaco, - Ti do un altro minuto per sfogare la tua rabbia - disse, Poi prendo io in mano la situazione. Non avevo idea di cosa intendesse con "prendere in mano la situazione" e non volevo neanche scoprirlo. Balzai giù dal letto e feci per correre verso la porta, ma Patch mi raggiunse subito e mi spinse contro il muro, le sue gambe contro le mie. - Voglio la verità - ansimai, cercando disperatamente di non piangere. - Sei venuto a scuola per ammazzarmi? E sempre stata questa la tua idea? Un muscolo della mascella di Patch ebbe un guizzo, - Si. Mi asciugai bruscamente una lacrima che era riuscita a scappare fuori. - Te la stai godendo, vero? Era questo che volevi? Farmi fidare di te e poi sbattermelo in faccia? -. Sapevo che era assurdo essere così arrabbiata quando avrei dovuto essere terro-rizzata e sconvolta. Quando avrei dovuto fare tutto il possibile per scappare. La cosa più irrazionale era la mia ostinazione a credere che non mi avrebbe assassinato. Per quanto assurdo fosse, e per quanto tentassi, non riuscivo a zittire quella minuscola speranza. - Capisco che tu sia arrabbiata... - iniziò Patch, - Sono devastata! - urlai. Fece scivolare le mani roventi sul mio collo. Premette delicatamente i pollici sulla gola, inducendomi a rovesciare indietro la testa. Sentii le sue labbra premere sulle mie così forte che, qualsiasi insulto avessi in mente, non sarei riuscita a pronunciarlo. Le sue mani scesero lungo le spalle, sfiorarono le braccia e si posarono sui miei fianchi. Piccoli brividi di panico e di piacere. Cercò di tirarmi a sè e io gli morsicai le labbra. Si leccò il labbro con la punta della lingua. - Mi hai dato un morso? - È tutto un gioco per te? – chiesi. Si toccò di nuovo il labbro. - Non tutto. Per esempio? - Tu. Quella notte era follia pura. Era diffìcile litigare con una persona tanto indifferente. No, non indifferente, dotata di un auto-controllo inossidabile. Fino all'ultima cellula del suo corpo. Sentii una voce nella mia mente. «Rilassati. Fidati di me.» - Oddio! - esclamai - Lo stai facendo di nuovo, vero? Ti stai insinuando nella mia testa -. Mi tornò in mente l'articolo sugli angeli caduti scaricato da Internet. - Puoi mettere anche altre cose nella mia mente oltre alle parole, è così? Puoi mettere delle immagini, immagini molto realistiche. Non negò. - L'Arcangelo - dissi, perché finalmente avevo capito tutto, - Hai cercato di uccidermi quella notte, ma qualcosa è andato storto. Mi hai fatto credere che il mio cellulare fosse scarico, così non ho chiamato Vee, Avevi pianificato di ammassarmi mentre tornavamo a casa? Voglio sapere come riesci a farmi vedere quello che vuoi! La sua espressione era volutamente e accuratamente impassibile. - Io metto le parole e le immagini, ma sta a te crederci. È un enigma. Le immagini si sovrappongono alla realtà e tu devi Capire quali sono quelle reali. - È un potere speciale degli angeli? Scosse la testa. - Solo degli angeli caduti. Tutti gli altri non violerebbero mai la tua intimità, anche se potrebbero farlo. Perché gli altri angeli erano buoni. Patch invece no. Si appoggiò alla parete dierro di me, le due mani ai lati della mia testa. - Sono entrato nella mente del coach perché eambiasse i posti a sedere; avevo bisogno di starti vicino. Ti ho fatto credere di essere caduta dall'Arcangelo perché volevo ucciderti, ma non sono riuscito ad andare fino in fondo. All'ultimo, mi sono fermato e mi sono accontentato di spaventarti. Poi ti ho lasciato credere che il tuo cellulare fosse scarico per poterli accompagnare a casa. Li ho preso un coltello. Allora stavo per ucciderti, abbassò la voce - ma tu mi hai fatto cambiare idea. Respirai a fondo. - Non capisco. Quando ti ho detto che mio padre era stato ucciso, sembravi davvero dispiaciuto. E sei stato gentile quando hai conosciuto mia madre. - Gentile - ripete. - Che rimanga tra noi. La testa prese a girarmi, mi pulsavano le tempie. Avevo già provato questa sensazione di panico, il cuore martellante e tutto il resto. Avevo bisogno delle pastiglie di ferro. Sempre che non fosse Patch a farmi credere di sentirmi cosi. Alzai il mento e lo guardai con gli occhi socchiusi. - Esci dalla mia mente. Subito! - Non sono nella tua mente, Nora. Mi piegai in avanti, posai le mani sulle ginocchia e inspirai. - Si che ci sei, ti sento. Quindi e cosi che mi ucciderai? Mi farai soffocare? Sentivo dei suoni nelle orecchie e la vista diventò opaca, confusa. Cercai di riempire i polmoni, ma era come se l'aria fosse sparita. Il mondo iniziò a girare e non riuscivo a vedere bene Patch, sembrava sfuocato. Mi appoggiai alla parete per non perdere l'equilibrio. Più cercavo di inspirare, più la gola mi si chiudeva Patch venne verso di me, ma io lo respinsi. - Vattene! Si appoggiò alla parete con una spalla e mi guardó. Sembrava preoccupato. Stai... lontano... da me rantolai. Non lo fece. - Non... riesco... a… respirare! -. Artigliai il muro con una mano, mentre con l'altra mi afferrai la gola. All'improvviso, Patch mi prese tra le braccia e mi portò verso la sedia, dall'altra parte della statua. - Metti la testa fra le ginocchia - disse. Misi giù la testa, mentre Patch teneva la mano sulle mie spalle. Respirai, tentando di riempire i polmoni. Lentamente, sentii l'ossigeno rimettersi in circolo. - Va meglio? - chiese Patch dopo un paio di minuti. Annuii. - Hai le pastiglie di ferro? Feci segno di no con la testa. - Resta cosi e respira. Seguii le sue istruzioni mentre la morsa che avevo nel petto si allentava. - Grazie - mormorai. - Adesso ti fidi di me? - Se vuoi la mia fiducia, devi lasciarmi toccare le tue cicatrici. Patch mi studiò a lungo, in silenzio. - Non è una buona idea. - Perchè? - Non posso controllare quello che vedi. - È proprio questo il punto. Aspettò qualche istante prima di rispondere e la voce, priva di emozione, era bassa, - Tu sai che nascondo delle cose. Sapevo che Patch conduceva una vita segreta. Non ero così presuntuosa da pensare che anche solo la metà dei suoi segreti riguardasse me. Più di una volta avevo cercato di immaginare come avrebbe potuto essere la sua altra vita, ma alla fine vinceva sempre la convinzione che fosse meglio saperne il meno possibile. Mi tremarono le labbra. - Dammi una ragione por fidarmi di te. Patch si sedette sull'angolo del letto e il materasso si abbassò sotto il suo peso. Si piegò in avanti e appoggiò gli avambracci alle ginocchia. La schiena era in bella vista e la luce delle candele proiettava ombre innaturali sulle cicatrici. I muscoli si tesero e poi si rilassarono. - Fallo disse piano. - Però ricorda che le persone cambiano, mentre il passato no. E all'improvviso, non ero più cosi sicura di volerlo. Patch mi terrorizzava a quasi tutti i livelli. Eppure, in fondo al cuore, non credevo che mi avrebbe uccisa. Avrebbe già potuto farlo mille volte. Guardai quelle cicatrici raccapriccianti. Avere fiducia in lui sarebbe stato immensamente più facile che scivolare di nuovo nel suo passato senza avere idea di ciò che avrei potuto trovare. Ma a quel punto, se mi fossi tirata indietro. Patch avrebbe capito che ero terrorizzata da lui. Mi stava aprendo una delle sue porte, e solo perché gliel'avevo chiesto. Non potevo chiedere tanto e poi cambiare idea. - Non rimarrò intrappolata lì per sempre, vero? Patch ridacchiò. - No. Mi feci coraggio e mi sedetti accanto a lui. Per la seconda volta, quella sera, il mio dito sfiorò il bordo frastagliato della sua cicatrice. Mi si annebbiò la vista. Le luci si spensero. 24 Ero sdraiata a terra sulla schiena, il top intriso di umidità, fili d'erba appuntiti contro le braccia nude. Sopra di me solo uno spicchio di luna, come un sorriso inclinato tutto da una parte. A parte il rombo di un tuono lontano, tutto taceva. Sbattei le palpebre per abituarmi alla scarsa luce. Quando voltai la testa, mi si materializzò davanti agli occhi una serie di ramoscelli ricurvi, ma disposti in modo simmetrico e che spuntavano dall'erba. Molto lentamente, mi tirai su. Non riuscivo a staccare gli occhi dalle due orbite nere che mi fissavano da sopra i rametti. E la mia mente si mise in moto per cercare di collocare l'immagine in un ambito conosciuto. E poi, in un lampo raccapricciante, capii di essere sdraiata accanto a uno scheletro. Strisciando, mi tirai indietro e andai a cozzare contro un'inferriata. Dopo un momento di sconcerto, riacciuffai l'ultimo ricordo: avevo toccato la cicatrice di Patch. Ovunque fossi, mi trovavo in un luogo della sua memoria. Nell'oscurità, mi arrivò il suono di una voce, maschile e vagamente familiare, che intonava un canto dalle note basse. Mi voltai in quella direzione e vidi un labirinto di lapidi che si estendeva, come un domino, nella foschia. Accovacciato sopra una di esse, vidi Patch. Indossava solo un paio di jeans e una maglietta blu, nonostante la notte non fosse affatto calda. - Fai il doppio turno con i morti? - disse la voce familiare. Era rauca, amichevole e irlandese. Rixon. Si appoggiò con aria indolente alla lapide di fronte a Patch e lo guardò, poi si strofinò il labbro inferiore con il pollice. - Fammi indovinare. Stai pensando di possedere i morti? - disse scuotendo il capo. - lo non lo so, tutti quei vermi che si dimenano nelle orbite... e negli altri orifizi, mi sembra un po' troppo. - Ecco perché mi piace averti intorno, Rixon. Riesci sempre a vedere il lato positivo delle cose. - Cheshvan inizia stanotte - disse Rixon. - Che accidenti combini in un cimitero? - Penso. - Pensi? - Un processo attraverso il quale uso il cervello per prendere una decisione razionale. Gli angoli della bocca dell'irlandese si sollevarono. - Inizio a preoccuparmi per te. Forza, e ora di andare. Chauncey Langeaise e Barnabas aspettano. La luna cambia a mezzanotte. Confesso di avere messo gli occhi su una tipa in città -. Rixon fece le fusa come un gatto. - So che a te piacciono le rosse, invece io preferisco le bionde; appena riesco a entrare in un corpo, intendo finire quanto cominciato con una bionda che poco fa mi faceva gli occhi dolci. Visto che Patch non si muoveva, Rixon disse: - Sei sordo? Dobbiamo andare. Il giuramento di fedeltà di Chauncey ti ricorda niente? No? Allora proviamo così: sei un angelo caduto, non riesci a provare alcuna sensazione. Fino a stanotte, almeno. Le prossime due settimane sono un regalo da parte di Chauncey. Offerto controvoglia, sia ben chiaro - aggiunse l'irlandese con un tono da cospiratore. Patch lo guardò con la coda dell'occhio. - Cosa sai del Libro di Enoch? - Quello che sanno tutti gli angeli caduti: quasi nulla. - Mi hanno detto che c'è una storia nel Libro di Enoch che narra di un angelo caduto che diventa umano. Rixon si piegò in due dalle risate. - Sei fuori di testa, amico? -. Aprì le mani e le girò con i palmi verso l'alto, come a imitare un libro aperto. - Il Libro di Enoch è una favoletta. Una bella favoletta, a quanto pare. Che ti manda dritto nel mondo dei sogni. - Io voglio un corpo umano. - Devi accontentarti del corpo di un Nephilim, e per due settimane. Mezzo umano è meglio di niente. Chauncey non può disfare ciò che è stato fatto: ha prestato giuramento e deve tenergli fede. Come ha fatto l'anno scorso e l'anno prima ancora e... - Due settimane non mi bastano. Voglio essere umano, per sempre - lo interruppe Patch fissando Rixon negli occhi, sfidandolo a mettersi a ridere ancora. L'irlandese si passò le dita tra i capelli. - Il Libro di Enoch è una favola. Noi siamo angeli caduti, non umani. Non lo siamo mai stati e non lo saremo mai. Fine della storia. Ora smettila di fare il cretino e aiutami a capire da che parte è Portland -. Piegò la testa indietro e osservò il ciclo d'inchiostro. Patch scese dalla lapide. - lo diventerò un essere umano. - Certo amico, come no. - Il Libro di Enoch dice che devo uccidere il mio vassallo Nephilim. Devo uccidere Chauncey. - No, invece, non devi - replicò Rixon con una nota d'impazienza. - Tu devi possederlo. Un processo attraverso il quale prendi il suo corpo e lo usi come se fosse il tuo. Non voglio spegnere il tuo entusiasmo, ma non puoi uccidere Chauncey. I Nephilim non possono morire. E poi hai pensato a quest'altra cosa? Se lo uccidessi non porresti più possederlo. - Se lo uccidessi diventerei umano e non avrei più bisogno di possederlo. Rixon si massaggiò le tempie, come se sapesse che il suo ragionamento non aveva avuto altro effetto che procurargli un feroce mal di testa. - Se potessimo uccidere i Nephilim, avremmo già trovato il modo di farlo, e da un pezzo. Mi dispiace dirtelo, ragazzo mio, ma se non mi getto tra le braccia di quella bionda al più presto mi bollirà il cervello. E anche diverse altre parti del... - Due scelte - lo interruppe Patch. - Eh? - Salvare una vita umana e diventare un angelo custode o uccidere il proprio vassallo Nephilim e diventare umano. Scegli. - Ancora con queste idiozie del Libro di Enoch? - Dabria è venuta a trovarmi. Rixon spalancò gli occhi e scoppiò a ridere. - La tua ex psicotica? Che ci fa quaggiù? È caduta, ha perso le ali? - È scesa per dirmi che posso riacquistare le ali se salvo una vita umana. Gli occhi di Rixon si spalancarono ancora di più. - Se ti fidi di lei, provaci. Non c'è niente di male a essere un custode. Passare le giornate a tenere i mortali lontani dai pericoli... potrebbe persino essere divertente. Certo, dipende dal mortale che ti capita. - Ma se tu potessi scegliere, che faresti? - chiese Patch. - Si, be'... dipende. Sono ubriaco fradicio? Ho totalmente perso la ragione? -. Quando vide che Patch non rideva, però, Rixon tornò serio. - Io non ho scelta. E sai perchè? Perche non credo al Libro di Enoch, Se fossi in te, punterei a diventare un angelo custode. Potrei farci un pensierino anch'io, se solo conoscessi. un umano in punto di morte. Segui un momento di silenzio, poi Patch sembrò scrollarsi di dosso tutti i pensieri. - Quanto possiamo fare prima di mezzanotte? - chiese. - Giocando a carte o tirando di boxe? - Carte. A Rixon brillarono gli occhi. - Ma cos'abbiamo qui? Un bel ragazzino? Vieni un po' a farti dare una bella stropicciata . Agganciò Patch per il collo, immobilizzandolo nell'incavo del gomito. Patch però lo afferrò per la vita e lo trascinò sull'erba, dove iniziarono a fare a botte. - Va bene, va bene -. Rixon alzò le mani e si arrese. Solo perchè non riesco a sentire che sanguino, non significa che voglio passare la serata con un labbro gonfio -. Fece l'occhiolino all'amico e aggiunse: - Non aumenterebbe le mie chance con le signore. - Invece un occhio nero sì? Rixon si toccò la faccia per controllare la situazione. Dimmi che non è vero! - urlò sferrandogli un pugno. Staccai il dito dalla cicatrice. Avvertii un formicolio alla nuca e il cuore che pompava troppo veloce. Patch mi guardò, un'ombra di incertezza negli occhi. Fui costretta ad ammettere che forse quello non era il momento di fare affidamento sulla metà razionale del mio cervello. Forse era una di quelle volte in cui era necessario passare la linea di confine. Smettere di giocare secondo le regole. Accettare l'impossibile. - Quindi sei decisamente non umano - dissi. - Sei davvero un angelo caduto. Un cattivo. A Patch scappò un sorriso. - Credi che io sia cattivo? - Possiedi i... corpi degli altri. Confermò con un cenno del capo. - Vuoi usare il mio corpo? - Voglio fare un sacco di cose al tuo corpo, ma non quello. - Cos'è che non va nel tuo corpo? - È molto simile a un vetro. È reale, ma si limita a riflettere il mondo che mi circonda. Tu mi vedi e mi senti, io ti vedo e ti sento. E quando mi tocchi, tu senti qualcosa. Invece io non ti sento allo stesso modo, non provo quello che provi tu. È come se io fossi dentro una lastra di vetro che posso spaccare solo quando possiedo un corpo umano. - O umano a metà. Stirò gli angoli della bocca. - Hai visto Chauncey? - Ti ho sentito parlare con Rixon. Ha detto che entri nel corpo di Chauncey ogni anno per due settimane durante Cheshvan. Ha detto che nemmeno Chauncey è umano, che è un... Nephilim. - Chauncey è un incrocio tra un angelo caduto e un umano. È immortale come un angelo, ma ha tutti i sensi dei mortali. Un angelo caduto che voglia provare sensazioni umane può farlo nel corpo di un Nephilim. - Se non provi niente, perchè mi hai baciata? Patch segui con un dito la linea della mia clavicola e scese giù, fermandosi sul cuore; lo sentivo battere attraverso la pelle. - Perché lo sento qui, nel mio cuore - mormorò - e non ho perso la capacità di provare emozioni -. Mi guardò con attenzione. - Mettiamola così: la nostra relazione emotiva non e... assente. «Niente panico» pensai, ma avevo già il respiro affannoso. - Vuoi dire che puoi provare felicità, tristezza o... Sorriso appena accennato. - Desiderio. «Vai avanti» dissi a me stessa. «Non farti sopraffare dalle tue emozioni. Le affronterai più tardi, quando avrai avuto tutte le risposte.» - Perché sei caduto? Gli occhi di Patch restarono fissi nei miei per un paio di secondi. - Bramosia. Deglutii. - Denaro? Patch si accarezzò la mascella. Era un gesto che compiva solo quando voleva mascherare i suoi segreti, l'indizio rivelatore che I suoi pensieri potevano essere rivelati dalle labbra. Stava trattenendo un sorriso. - Anche - rispose. Pensavo che sarei diventato umano. Gli angeli che avevano tentato Eva erano stati cacciati sulla Terra e si diceva che avessero perso le ali. Erano diventati umani. E quando lasciarono il paradiso, non ci fu una grande cerimonia, non fummo tutti invitati. Fu una cosa privata, lo non sapevo che gli avessero strappato le ali, nè della condanna a vagare sulla Terra, ossessionati dal desiderio di possedere corpi umani. Nessuno, prima d'allora, aveva mai sentito parlare di angeli caduti. Quindi per me era assolutamente logico che, se fossi caduto, avrei semplicemente perso le ali e sarei diventarci un essere umano. Mi sembrava valesse la pena. A quel tempo, ero pazzo di una ragazza. - Dabria ha detto che puoi riacquistare le ali salvando una vita. Ha detto che così diventerai un angelo custode. Tu non vuoi? -. Non riuscivo a capire perchè fosse contrario. - Non è per me. lo voglio essere umano. Lo voglio più di qualsiasi altra cosa desideri o abbia mai desiderato. - E Dabria? Se voi due non state più insieme, perché lei è ancora qui? Non è un angelo caduto, giusto? Vuole anche lei essere umana? Patch si irrigidì. - Dabria è ancora sulla Terra? - Lavora a scuola. É la nuova psicologa, la signorina Greene. L'ho incontrata un paio di volte -. Sentii una stretta allo stomaco. - Dopo quello che ho visto nella tua memoria, credevo fosse venuta a lavorare qui per poter stare vicino a te. - Cosa ti ha detto esattamente? - Di starti lontano. Ha fatto delle allusioni al tuo passato oscuro e pericoloso -. Feci una pausa. - Però e un po' strano, no? - continuai, mentre un lungo brivido mi correva lungo la schiena. - Devo portarti a casa. Poi andrò a scuola a dare un'occhiata nel suo ufficio. Quando saprò cosa sta tramando mi sentirò meglio -. Patch tirò via le lenzuola dal letto. - Avvolgiti in queste - disse. lo restai imbambolata per un attimo, la mente impegnata a mettere insieme i frammenti di informazioni. Poi, all'improvviso, mi sentii la bocca asciutta. - Prova ancora qualcosa per te. Forse mi vuole fuori dai piedi. I nostri occhi si incontrarono. - Ci ho pensato anch'io - ammise Patch. Un pensiero gelido, inquietante, mi girava in testa e cercava di attirare la mia attenzione. E diventava sempre più pressante: mi diceva che il tizio con il passamontagna avrebbe potuto essere Dabria. Avevo sempre pensato di aver investito un uomo la sera in cui rincasavo con la Neon, e anche Vee era convinta che il suo aggressore fosse un uomo. A quel punto, però, non mi sarei stupita se Dabria ci avesse ingannate, tutte e due. Nel frattempo, Patch aveva recuperato dal bagno la maglietta bagnata. - Vado a prendere la jeep. Ti aspetto all'uscita posteriore tra venti minuti. Fino ad allora, aspettami in camera. 25 Dopo che Patch fu uscito misi la catenella alla porta, trascinai la sedia che stava dall'altra parte della stanza e la incastrai sotto la maniglia. Controllai che le finestre fossero chiuse. Non sapevo se le serrature avrebbero resistito a Dabria (non sapevo nemmeno se mi stesse dando la caccia) ma pensai fosse meglio non correre rischi. Dopo aver camminato un po' su e giù per la stanza, controllai il telefono sul comodino. Ancora nessun segnale che fosse tornata la linea. Mia madre mi avrebbe uccisa. Ero uscita di nascosto per andare a Portland. E come avrei spiegato la faccenda: «Ero in un motel con Patch»? Come minimo sarei stata in punizione fino alla fine dell'anno. No. Come minimo si sarebbe licenziata e avrebbe fatto domanda di supplenza in una scuola fino a quando non avesse trovato un lavoro a tempo pieno vicino a casa. Avremmo dovuto vendere la fattoria e perso l'unico legame che mi rimaneva con mio padre. Circa quindici minuti dopo, guardai dallo spioncino: buio pesto. Tolsi la catenella alla porta e, proprio quando stavo per aprirla, una luce tremolò alla mie spalle. Mi voltai di scatto, quasi sicura di trovarmi di fronte Dabria, invece la stanza era tranquilla e vuota. Era semplicemente tornata la luce. Uscii nella hall. La moquette, rosso sangue, era consumata e piena di macchie non meglio identificate. Le pareti erano di un colore neutro, ma l'imbiancatura era stata fatta su un muro mal levigato e con vernice troppo liquida. Sopra di me, un'insegna al neon indicava l'uscita. Seguendo la freccia verde, arrivai alla hall e poi svoltai l'angolo. La jeep si fermò di fronte alla porta sul retro: io schizzai fuori e saltai sul sedile del passeggero. Quando arrivammo alla fattoria, tutte le luci erano spente. Avvertii una fitta allo stomaco al pensiero che mia madre potesse essere in giro a cercarmi. La pioggia era cessata e ora la nebbia premeva sulle pareti della casa e pendeva dagli arbusti come le decorazioni d'argento dell'albero di Natale. Gli alberi sul vialetto d'ingresso erano perennemente inclinati verso nord, deformati dai venti. Tutte le case hanno un aspetto poco invitante dopo il tramonto, se si presentano a luci spente. La fattoria, però, con le sue finestre strette, il tetto spiovente, la veranda imbarcata e i rovi che crescevano spontaneamente dappertutto, sembrava infestata dai fantasmi. - Vado a dare un'occhiata - disse Patch scendendo dalla macchina. - Credi che Dabria sia dentro? Scosse la testa. - Comunque è meglio controllare. Aspettai nella jeep e, pochi minuti dopo, Patch usci dalla porta principale. - Tutto a posto - mi riferì. - Vado a scuola e torno appena ho finito con il suo ufficio. Magari ci ha lasciato qualcosa di utile -. Non sembrava ci contasse molto, però. Mi slacciai la cintura di sicurezza e ordinai alle gambe di portarmi velocemente a casa. Afferrai la maniglia e sentii la jeep che si allontanava. Le assi della veranda scricchiolarono sotto i mici piedi e improvvisamente mi sentii molto sola. Tenendo tutte le luci accese, entrai in ogni stanza, una a una, a cominciare dal pianterreno per poi passare di sopra. Patch aveva già controllato, ma pensai che un altro paio d'occhi non avrebbero fatto male. Dopo essermi assicurata che non ci fosse nessuno nascosto sotto i mobili, dietro la tenda della doccia o nei ripostigli, mi infilai un paio di Levi's e un pullover nero con lo scollo a V. Trovai il telefono cellulare di emergenza che mia madre teneva nella cassetta del pronto soccorso e la chiamai. Rispose al primo squillo. - Pronto? Nora? Sci tu? Dove sei? Ero preoccupata da morire! Feci un bel respiro e pregai che mi uscissero di bocca le parole giuste, quelle che mi avrebbero aiutato a tirarmi fuori dai pasticci. - È successo... - iniziai con la voce più sincera e contrita del mondo. - Cascade Road si è allagata e l'hanno chiusa. Sono dovuta tornare indietro e ho preso una stanza a Milliken Mills. Sono li adesso. Ho cercato di chiamate casa, ma sembra che le linee fossero interrotte. Ho provato anche al tuo cellulare, ma non rispondevi. - Aspetta. Sei stata a Milliken Mills per tutto questo tempo? - Dove credevi che fossi? Emisi un impercettibile sospiro di sollievo e mi sederti sul bordo della vasca da bagno. - Non lo sapevo - risposi. Nemmeno io sono riuscita a contattarti. - Da che numero mi stai chiamando? - chiese. - Non lo riconosco. - Il cellulare di emergenza. - Dov'è il tuo? - L'ho perso. - Come? Dove? Decisi che l'unica strada percorribile fosse quella dell'omissione. Non volevo spaventare mia madre, ma non volevo neanche restare in punizione per l'eternità. - Non lo so, l'avrò messo da qualche parte. Salterà fuori -. Sul cadavere di una donna. - Ti chiamo appena riaprono le strade - disse. Subito dopo chiamai Vee. Dopo cinque squilli, attaccò la segreteria. - Dove sei? - chiesi. - Richiamami a questo numero appena puoi -. Chiusi di scatto il telefono e me lo infilai in tasca, cercando di convincermi che Vee stava bene pur sapendo che era una bugia. L'invisibile filo che ci univa me lo stava segnalando da ore, ormai. Vee era in pericolo, e quella sensazione di allarme aumentava minuto dopo minuto. Mi rifugiai in cucina, dove trovai le pastiglie di ferro sul ripiano. Ne mandai giù due con un bicchiere di latte e cacao. Mi rilassai un momento aspettando che il ferro entrasse in circolo, mentre iniziavo a respirare più a fondo e più lentamente. Stavo per rimettere il latte in frigorifero, quando la vidi. Una sostanza fredda e bagnata formò una pozza ai mici piedi. Avevo versato il latte. - Dabria? - Sai il mio nome? -. Piegò la testa da una parte, un po' sorpresa. - Ah, Patch. Indietreggiai verso il lavello. Dabria era molto diversa da come ero abituata a vederla a scuola, dove era la signorina Greene. Quella sera aveva i capelli arruffati e le labbra più luminose, quasi riflettessero una forma di desiderio. E gli occhi erano più penetranti, cerchiati da un'ombra nera. - Che cosa vuoi? - chiesi. Lei rise, una risata che ricordava il tintinnio del cubetti di ghiaccio in un bicchiere. - Voglio Patch. - Non è qui. Annui. - Lo so. Ho aspettato che andasse via prima di entrare, ma non è questo che intendevo quando ho detto che voglio Patch. Il sangue che mi pulsava nelle gambe risali verso il cuore provocandomi una vertigine. Misi una mano sul bancone per riprendermi. - So che le sedute a scuola ti servivano per controllarmi. - È tutto qui quello che sai di me? - chiese, gli occhi fissi nei mìei. Ricordai la notte in cui ero sicura che qualcuno mi osservasse. - Mi hai spiata dalla finestra della mia camera. - Questa è la prima volta che vengo a casa tua -. Fece scivolare un dito sul bordo del cavolo e si appollaiò su uno sgabello. – Bel posticino. - Allora ti rinfresco la memoria - dissi, sperando di avere un'aria spavalda. - Hai guardato attraverso la finestra della mia camera, mentre dormivo. Mi rivolse un bel sorriso. - No, ma ti ho seguita quando sei andata a fare shopping, Ho aggredito la tua amica e le ho seminato degli indizi nella mente per farle credere che fosse stato Patch. Non è stato difficile convincerla. Lui non è esattamente innocuo, tanto per cominciare. Quello che mi interessava era che lui ti spaventasse il più possibile. - Così sarei stata lontana. - Ma non l'hai fatto. Sei ancora d'impiccio. - D'impiccio a cosa? - Su, Nora. Se sai chi sono, sai anche come funziona. Io voglio che Patch riacquisti le ali. Lui non appartiene alla Terra, ma a me. Ha fatto uno sbaglio e io rimedierò -. Dal tono della sua voce, capii che non esisteva la possibilità di un compromesso. Scese dallo sgabello e girò intorno al tavolo per avvicinarsi a me. Indietreggiai, riuscendo a mantenere una certa distana. Mi spremevo il cervello per trovare il modo di distrarla. O una via di fuga. Vivevo in quella casa da sedici anni; conoscevo ogni singolo angolo e tutti i nascondigli. Ordinai al mio cervello di elaborare un piano: qualcosa di creativo e brillante. E la mia schiena andò a sbattere contro la credenza. - Fino a quando tu sarai tra i piedi, Patch non tornerà con me - sentenziò Dabria. - Stai sopravvalutando quello che prova per me -. Buona idea minimizzare la nostra relazione: Dabria sembrava mossa da una cieca possessività. Un sorriso incredulo le si disegnò in volto. - Credi che provi qualcosa per te? Per tutto questo tempo hai pensato che... -. Scoppiò a ridere. - Non sta con te perché ti ama. Vuole ucciderti. Scossi la testa. - Non lo farà. Il volto di Dabria si irrigidì. - Se è questo che credi, sei solo una delle tante ragazze che ha sedotto per ottenere ciò che voleva. Ha del talento, in questo. Dopo tutto mi ha fatto confessare il tuo nome. È bastata una carezza e sono caduta nel suo incantesimo, gli ho detto che per te sarebbe arrivata la morte. Conoscevo la storia. In quel preciso momento io ero presente nella memoria di Patch. - E adesso sta facendo la stessa cosa con te - continuò. – Fa male essere traditi, non e vero? Scossi lentamente la testa. - No... - Ha in mente di usarti come sacrificio! - esclamò. - Vedi quel segno? -. Mi afferrò il polso e mi schiacciò l'indice sulla voglia. - Significa che discendi da un Nephilim. E non da un Nephilim qualunque, ma da Chauncey Langeais, il vassallo di Patch. Mi guardai la pelle e, per un terrificante momento, le credetti. Però sapevo anche che non dovevo fidarmi. - C'è un libro sacro, il Libro di Enoch - spiegò - in cui un angelo caduto uccide il proprio vassallo Nephilim sacrificando una delle sue discendenti. E tu non credi che Patch voglia ucciderti? Sai cosa desidera più di ogni altra cosa al mondo? Una volta che avrà sacrificato te, diventerà umano e avrà tutto ciò che vuole. E non tornerà a casa con me. Sfilò un grosso coltello dal ceppo di legno che stava sul bancone. - Ecco perché devo sbarazzarmi di te. A quanto pare le mie premonizioni erano giuste. Per te sta arrivando la morte. - Patch sta per tornare - mormorai. Avevo lo stomaco sottosopra. - Non vuoi parlarne con lui? - Farò in fretta - disse. - Sono un angelo della morte. Porto le anime nell'Aldilà. Quando avrò finito, traghetterò la tua anima nell'oltretomba, non c'è motivo di avere paura. Avrei voluto urlare, ma la voce mi rimase intrappolata in gola. Girai intorno alla credenza, in modo che $i venisse a trovare fra di noi. - Se sci un angelo, dove sono le tue ali? - Basta con le domande -. La sua voce era diventata impaziente. Adesso faceva sul serio. - Da quanto tempo hai lasciato il cielo? - chiesi, cercando di guadagnare tempo. - Sei qui da mesi ormai, vero? Non credi che gli altri angeli si siano accorti della tua mancanza? - Non fare un altro passo - disse bruscamente, quindi sollevò il coltello che rifletté un lampo di luce. - Ti metterai in un sacco di guai per colpa di Patch continuai, ma dalla mia voce, nonostante gli sforzi, trapelava una nota di panico. - Mi sorprende che tu non ce l'abbia con lui per averti usata quando gli faceva comodo. Mi sorprende che tu voglia che riottenga le ali. Dopo tutto quello che ti ha fatto, non sei felice che sia stato esiliato qua? - Mi ha lasciata per un'indegna ragazza umana! - rispose stizzita, e gli occhi azzurri scintillarono per la rabbia. - Non ti ha lasciata, in realtà. È caduto... - È caduto perché voleva essere umano, come lei! Aveva me... lui aveva me! -. Scoppiò a ridere, ma senza riuscire a mascherare la collera e il dolore che provava. - All'inizio ero ferita e arrabbiata, e ho fatto lutto il possibile per dimenticarlo. Poi, quando gli arcangeli hanno scoperto che stava seriamente tentando di diventare umano, mi hanno mandata qui per fargli cambiare idea. Mi sono detta che mai più mi sarei lasciata ingannare da lui, ma non è servito. - Dabria... - Non gli importava che la ragazza fosse stata creata con polvere della Tenti! Voi, tutti voi, siete egoisti e sciatti! I vostri corpi sono sfrenati e indisciplinati. Un attimo prima siete al culmine della gioia e quello dopo sull'orlo della disperazione. È deplorevole! Nessun angelo aspirerebbe mai a... a questo! -. Con un gesto brusco si passò la mano sul volto per asciugare le lacrime. - Guardami! Riesco a malapena a controllarmi! Perchè sono qua da troppo tempo, immersa nelle indecenze umane! Mi voltai e mi precipitai fuori dalla cucina; rovesciai una sedia e la lasciai dietro di me, sperando di rallentare Dabria. Mi precipitai in corridoio sapendo di essermi messa in trappola da sola. La casa aveva due uscite: la porta principale, che Dabria poteva raggiungere prima di me tagliando per il soggiorno, oppure la porta sul retro in sala da pranzo, il cui accesso però era bloccato da lei. Poi una spinta da dietro mi fece cadere. Scivolai sulla pancia e, appena riuscii a fermarmi, mi girai su un fianco. Dabria era sopra di me, in aria. La pelle e i capelli splendevano di un bianco accecante e il coltello era puntato contro di me. Non pensai. Puntellandomi su una gamba, inarcai la schiena e, con tutta la forza che avevo in corpo» le sferrai un calcio sul braccio. Il coltello volò via. Non feci in tempo a rimettere il piede a terra, però, che Dabria aveva puntato l'indice in direzione dell'abat-jour sul tavolinetto dell'ingresso. Bastò quel movimento perché l'oggetto sfrecciasse contro di me. Rotolai di lato, mentre la lampada si schiantava a terra sparando schegge di vetro dove un attimo prima si trovava il mio corpo. - Spostati! - comandò Dabria, e la panca dell'ingresso scivolò a bloccare la porta, sbarrandomi l'uscita. Mi gettai verso le scale e salii i gradini due alla volta, reggendomi alla ringhiera per aumentare lo slancio. Dabria rideva. L'istante successivo la ringhiera si staccava e crollava producendo un fracasso insopportabile. Mi tirai indietro per non cadere nel vuoto, riacquistai l'equilibrio e superai correndo gli ultimi scalini. Mi precipitai in camera di mia madre e chiusi a chiave la porta. Mi avvicinai a una delle finestre accanto al camino e guardai In giardino. A due piani di; altezza, sotto, sul terreno roccioso, crescevano tre cespugli, spogli fin dall'autunno. Sarei sopravvissuta a quel salto? - Apriti! - ordinò Dabria. Con uno schiocco, la serratura cedette. Non avevo più tempo. Corsi verso il camino e mi infilai dentro. Avevo appena tirato su i piedi, puntellandoli contro le pareti della canna fumaria, quando la porta si spalancò, sbattendo contro il muro. Sentii Dabria correre verso la finestra. - Nora! - chiamò con la sua voce allo stesso tempo delicata e gelida. - So che sei vicina! Ti sento. Non puoi correre a nasconderti. Darò fuoco a questa casa stanza per stanza se è quello che serve per stanarti! E poi brucerò ogni filo d'erba alle mie spalle. Non ti lascerò viva! Vidi sfavillate, potente, un bagliore di luce dorato accompagnato dal rumore del fuoco che avvampava. Le ombre proiettate dalle fiamme danzavano sul pavimento del camino. Sentii il crepitare del fuoco che divorava i mobili e il pavimento di legno. Restai rannicchiata nella canna fumaria, il cuore impazzito, la pelle imperlata di sudore. Feci una serie di respiri profondi, espirando piano per tenere sotto controllo i muscoli contratti delle gambe, che scottavano. Patch aveva detto che sarebbe andato a scuola: quanto tempo ci avrebbe messo per tornare? Non sapendo se Dabria fosse ancora lì, ma temendo che se non fossi uscita subito avrei fatto la fine del topo, abbassai una gamba e poi l'altra e uscii dal camino. Non c'era traccia di Dabria, ma le fiamme lambivano le pareti e la stanza era invasa dal fumo. Percorsi di voluta il corridoio, ma non mi azzardai a scendere, perché probabilmente era li che Dabria mi aspettava: era logico pensare che avrei tentato la fuga da una delle porte d'ingresso. Spalancai la finestra. L'albero che cresceva accanto era abbastanza robusto da reggere il mio peso. Forse, con quella nebbia, sarei riuscita a scappare senza farmi vedere da lei. La casa più vicina era a meno di un chilometro di distanza e, se avessi corso il più velocemente possibile, ci sarei arrivata in sette minuti. Stavo per scavalcare il davanzale, quando sentii uno scricchiolio in fondo al corridoio. In punta di piedi raggiunsi l'armadio. Mi chiusi dentro e chiamai il 911. - C'è qualcuno in casa mia e sta cercando di uccidermi bisbigliai all'operatore. Avevo appena dato il mio Indirizzo, quando la porta della stanza si aprì. Restai perfettamente immobile. L'anta dell'armadio aveva una minuscola grata, dalla quale vidi una figura entrare nella stanza. L'illuminazione era scarsa, l'angolazione sbagliata e non riuscivo a capire chi fosse. La figura scostò le rende e guardò fuori, tastò le calze e la biancheria intima nei miei cassetti, raccolse il pettine d'argento posato sullo scrittoio, lo studiò e lo rimise a posto. Poi si voltò verso dell'armadio, e seppi di essere nei guai. Feci scivolare la mano sul pavimento per cercare qualcosa da usare come arma di difesa, ma urtai con il gomito una pila di scatole di scarpe, che si rovesciò. Imprecai a fior di labbra. I passi si fecero più vicini. Le porte dell'armadio si aprirono e io scagliai una scarpa, poi un'altra. Patch imprecò sottovoce, mi strappò di mano una terza scarpa e la lanciò dietro di sé. Cercando di tenermi ferma, perchè mi dibattevo con tutte le mie energie, mi tirò fuori dall'armadio e mi mise in piedi. Prima ancora che riuscissi a tirare un sospiro di sollievo nello scoprire che si trattava di lui e non di Dabria, mi attirò a sé e mi prese fra le braccia. - Stai bene? - mi sussurrò all'orecchio. - Dabria è qui - dissi, gli occhi gonfi di lacrime. Mi tremavano le ginocchia, stavo in piedi solo grazie alla stretta di Patch. - Ha dato fuoco alla casa. Lui mi mise in mano un mazzo di chiavi e mi piegò le dita perché non mi cadessero. - La jeep e parcheggiata in strada. Sali, chiuditi dentro, guida fino al Delphic e aspettami li -. Mi sollevò il mento così che potessi guardarlo negli occhi e mi sfiorò le labbra con un bacio. Una fiammata mi percorse tutto il corpo. - Cos'hai intenzione di fare? - Occuparmi di Dabria. - Come? Mi rivolse uno sguardo che sembrava dire: «Vuoi davvero i dettagli?». In lontananza si udì il suono delle sirene. Patch guardò la finestra. - Hai chiamato la polizia? - Credevo fossi Dabria. Aveva già raggiunto la porta. - lo cerco Dabria, tu vai al Delphic e aspettami li. - E il fuoco? - Ci penserà la polizia. Rimasi li con le chiavi saette in mano. In quel momento anche la parte razionale del mio cervello era spaccata in due, orientata verso decisioni opposte. Volevo allontanarmi dalla casa in fiamme e da Dabria per incontrare Patch più tardi. Allo stesso tempo ero tormentata da un pensiero impossibile da scacciare: Dabria mi aveva detto che Patch doveva sacrificarmi per diventare umano. E non l'aveva detto con leggerezza o per irritarmi, e nemmeno per scacciarlo dal mio cuore. Le sue parole erano state fredde e serie. Tanto serie da tentare di uccidermi per impedire a Patch di arrivare a me per primo. Trovai la jeep parcheggiata in strada, come aveva detto lui. Inserii la chiave nel quadro e partii a tavoletta imboccando la Hawthorne. Immaginavo fosse inutile riprovare a chiamare Vee al cellulare, quindi composi il numero di casa. - Salve, signora Sky - dissi, cercando di avere un tono di voce naturale. - Vee è in casa? - Ciao Nora! È uscita qualche ora fa. Mi ha parlato di una festa a Portland. Credevo fosse con te. - Mmm, siamo andate ognuna per conto proprio - mentii. Ha detto cosa aveva intenzione di fare dopo la festa? - Pensava di andare al cinema e siccome non risponde al cellulare suppongo l'abbia fatto. Va rutto bene? Non volevo spaventarla, però non le avrei detto che andava tutto bene. Non andava bene per niente, neanche un po'. L'ultima volta che l'avevo sentita era con Elliot, e ora non rispondeva al cellulare. - Non credo - ammisi. - Vado a cercarla, inizio dal cinema. Lei può guardare sul lungomare? 26 Era la domenica precedente alle vacanze di primavera e il cinema era strapieno. Mi misi in fila per il biglietto. guardandomi intorno di continuo per assicurarmi di non essere seguita. Fino a quel momento non avevo notato niente di allarmante e quella quantità di gente offriva un'ottima copertura. Mi ripetevo che di Dabria si sarebbe occupalo Patch e che non dovevo preoccuparmi, ma stare attenti non costava nulla. Nel profondo, però, sapevo che Dabria non costituiva il mio peggior problema. Prima o poi Patch avrebbe capito che non ero al Delphic. E l'esperienza mi diceva che era inutile illudersi: non sarei riuscita a nascondermi a lungo. Lui mi avrebbe trovata e io sarei stata costretta a metterlo di fronte alla domanda che avevo paura di fargli. Veramente, era della sua risposta che avevo paura, perchè un'ombra di dubbio insisteva ad agitarsi nella mia mente: il dubbio che Dabria avesse detto la verità riguardo a Patch e a quello che era disposto a fare per diventare umano. Arrivai alla biglietteria. Gli spettacoli delle ventuno e trenta stavano per cominciare. - Uno per Il sacrificio - dissi senza riflettete. Di colpo trovai il titolo spaventosamente ironico, ma non volevo più pensarci, quindi tirai fuori dalla tasca un mucchio di spiccioli e li spinsi sotto lo sportello, pregando che bastassero. - Caspita - esclamò la cassiera, fissando le monete. La riconobbi, era all'ultimo anno della mia -scuola ed ero quasi sicura che si chiamasse Kaylie o Kylie. - Grazie tante. Come se non ci fosso già abbastanza coda. Dietro di me, mormorarono tutti un'imprecazione. - Ho ripulito il salvadanaio - dissi, cercando di fare dell'ironia. - Non c'è niente da ridere. Li hai già contati? - chiese. Poi sospirò e iniziò a suddividere le monetine in mucchietti da venticinque, dieci, cinque e un centesimo. - Certo. - D'accordo, non mi pagano abbastanza per fare anche questo -. Spazzò via le monete con una mano e le mise nel cassetto. quindi mi consegnò il biglietto. - Mai sentito parlare delle carte di credito? Afferrai il biglietto. - Per caso hai visto Vee Sky stasera? - Bee chi? - Vee Sky. È del secondo anno, credo sia venuta qui con Elliot Saunders. Kaylie o Kylie strabuzzò gli occhi. - Ti pare una serata tranquilla? Ti pare che me ne sia stata seduta qui a memorizzare ogni faccia che mi passava davanti? - Non importa - mormorai. Il cinema di Coldwater ha due sale, alle quali si accede da due porte poste ai lati di un bar. La maschera controllò il mio biglietto, io superai l'ingresso della sala due e mi immersi nel buio. Il film era già iniziato. Il cinema era quasi pieno, a eccezione di qualche posto isolato. Percorsi il corridoio cercando Vee; arrivai sotto lo schermo e mi voltai a guardare la platea. Era difficile distinguere i volti al buio. eppure ero quasi sicura che Vee non ci fosse. Uscii dalla sala ed entrai nell'altra. Non era piena come la prima, ma anche li, nessuna traccia di Vee. Mi sedetti in uno dei posti nelle ultime file e cercai dì calmarmi. Mi sembrava di essere finita in una favola dark e di non riuscire a trovare la strada per uscirne. Una favola con angeli caduti, ìbridi umani e vittime sacrificali. Mi strofinai la voglia sul polso con il pollice. Più di ogni cosa, non volevo riflettere alla possibilità che nelle mie vene scorresse il sangue di un Nephilim. Tirai fuori il cellulare di emergenza e controllai se c'erano chiamate. Niente. Stavo per rimettermi in tasca il telefono, quando accanto a me si materializzò un sacchetto di popcorn. - Hai fame? - chiese una voce al di sopra della mia spalla. Sembrava tranquilla, ma non particolarmente felice. Cercai di controllare il respiro, mentre Patch diceva: - Alzati ed esci. Io ti seguo. Non mi mossi. - Esci - ripetè. - Dobbiamo parlare. - Di come hai bisogno di sacrificarmi per ottenere un corpo umano? - chiesi con leggerezza, anche se dentro mi sentivo dì piombo. - Sarebbe carino. Però dovrei crederci. - lo ci credo! -. Più o meno. Perchè in verità mi assillava sempre la solita domanda: se Patch voleva uccidermi, perché non l'aveva già fatto? - Shh! - fece il ragazzo accanto a me. - Esci, o ti trascino fuori io - disse Patch. Mi voltai di scatto. - Scusa? - Shh! - protestò di nuovo il ragazzo. - Ề colpa sua - gli spiegai indicando Patch. Il tizio allungò il collo. - Senti - bisbigliò - se non la smetti chiamo la vigilanza. - Bene, fallo. Digli di portarlo via - sbottai, indicando di nuovo Patch. - Digli che vuole uccidermi. - Io voglio ucciderti - sibilò la ragazza del tizio. - Chi è che vuole ucciderti? - chiese lui. Sembrava confuso. - Non c'è nessuno dietro di te - mi informò la ragazza. - Gli stai facendo credere di non vederti, vero? - dissi a Patch. I suoi poteri mi ispiravano un timore reverenziale, nonostante disprezzassi l'uso che ne faceva. Patch sorrise, ma era un sorriso tirato. - Per la miseria! - esclamò la tizia alzando gli occhi al cielo. Poi, rivolta al suo ragazzo, esclamò: - Fa' qualcosa! Dovresti stare zitta - mi consigliò lui, quindi indicò lo schermo. - Guarda il film. Tieni, prendi la mia bibita. Per tutta risposta mi infilai nel corridoio. Sentii Patch muoversi dietro di me. tanto vicino da mettermi a disagio, ma non abbastanza da toccarmi. Mi segui finché non fummo fuori. A un tratto mi prese per il braccio e si diresse verso la toilette delle donne. - Cos'è questa fissazione che hai con il bagno delle signore? - chiesi. Mi spinse dentro, chiuse la porta a chiave e ci si appoggiò contro. Quindi mi piantò gli occhi addosso, evidentemente con l'intenzione di spaventarmi a morte. - Sei furioso perché non sono andata al Delphic - dissi con noncuranza, alzando le spalle che tremavano un po'. - Perché? È domenica sera, tra poco chiuderà. Perché volevi che andassi in un luna park buio e semideserto? Venne verso di me finché non fu tanto vicino da riuscire a vedergli gli occhi neri sotto il cappellino da baseball. - Dabria mi ha detto che devi offrirmi in sacrificio per ottenere un corpo umano - continuai. Patch restò un attimo in silenzio. - E tu credi che lo farò? Deglutii. - Allora è vero? Quando rispose, aveva ancora gli occhi fìssi nei miei. - Deve trattarsi di un sacrificio fatto con intenzione. Ucciderti e basta non servirebbe a nulla. - Sei l'unico che può farmi una cosa simile? - No. ma probabilmente sono l’unico a conoscerne l'esito e quindi l'unico che porrebbe provarci. Per questo sono venuto a scuola. Dovevo avvicinarmi a te, ne avevo bisogno. Per questo sono entrato nella tua vita. - Dabria mi ha detto che sei stato innamorato di una ragazza -. Odiavo me stessa per il fatto di essere gelosa. Avrei dovuto concentrarmi sull'interrogatorio che stavo facendo a Patch. - Cos'è successo? Desideravo disperatamente che lasciasse trapelare i suoi pensieri, almeno un po', invece i suoi occhi restarono impenetrabili. le emozioni nascoste. - È invecchiata ed è morta. - Dev'essere stata dura per te - sbottai. Non rispose subito. Quando lo fece, aveva un tono cosi sommesso che rabbrividii. - Se vuoi che ti dica la verità, lo farò. Ti dirò rutto. Chi sono e cosa ho fatto. Ogni dettaglio. Però devi chiedermelo. Devi volerlo. Puoi vedere chi ero o chi sono adesso. Non sono buono, - disse trafiggendomi con occhi che assorbivano tutta la luce, ma non la riflettevano - ma sono stato peggio. Ignorai le farfalle che mi si agitavano nello stomaco. - Racconta. - La prima volta che l'ho vista, ero ancora un angelo. Immediatamente ho provato una bramosia sconosciuta. Mi ha fatto impazzire. Non sapevo niente di lei, tranne che avrei fatto qualsiasi cosa pur di potermi avvicinare. La osservai per un po' e poi mi misi in testa che se fossi andato sulla Terra e avessi preso possesso di un corpo, sarei stato cacciato dal paradiso e sarei diventato umano. 11 facto è che non sapevo niente di Cheshvan. Sono sceso una notte d'agosto, ma non sono riuscito a entrare in nessun corpo. Sulla via del ritorno verso il paradiso, sono stato fermato da uno stuolo di angeli vendicatori che mi hanno strappato le ali. Mi hanno cacciato, esiliato sulla Terra. Ho capito subito che qualcosa non andava. Quando guardavo gli umani, provavo soltanto il desiderio insaziabile di essere dentro i loro corpi. Non avevo più i miei poteri, in compenso ero diventato una creatura debole, patetica. Ero caduto, non ero umano. Capii che avevo perso tutto. E da allora mi odio per questo. Si, pensavo di aver rinunciato a tutto, per niente... - mi fissò in un modo che mi fece sentire trasparente - ...e invece, se non fossi caduto, non avrei incontrato te. Le emozioni contrastanti che si agitavano nel mio cuore erano cosi potenti che pensai potessero soffocarmi. Ricacciai indietro le lacrime e andai avanti. - Dabria ha detto che la mia voglia è un segno. Dice che che sono imparentata con Chauncey. Ề vero? - Vuoi che ti risponda? Non sapevo che cosa volessi. Tutto il mio mondo era diventato una barzelletta e la battuta finale era mia. Non ero Nora Grey, una ragazza qualunque. Discendevo da qualcuno che non era nemmeno umano. E avevo il cuore spezzato per colpa di un altro non umano. Un angelo oscuro. - Quale ramo della mia famiglia? - dissi alla fine. - Tuo padre. - Dov'è Chauncey adesso? -. Anche se eravamo imparentati, preferivo saperlo lontano. Molto lontano. Abbastanza lontano da far si che il nostro legame potesse sembrare irreale, Patch era così vicino che le punte delle nostre scarpe si toccavano. - Non ho intenzione di ucciderti, Nora. Non uccido le persone importanti per me. E in cima a questa lista ci sei tu. Provai un moto di stizza. Avevo le mani premute contro il suo addome, che era talmente duro che nemmeno la pelle sembrava cedere. Cercare di mantenere una distanza di sicurezza era inutile, dato che nemmeno una recinzione elettrica mi avrebbe fatto sentire al sicuro da lui. - Stai violando il mio spazio - dissi indietreggiando lentamente. - Violando il tuo spazio? - ripetè con un accenno di sorriso. Non sei agli esami di ammissione al college, Nora. Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mi spostai di lato, rasente al lavandino. - Mi stai troppo addosso, ho bisogno di spazio -. Invece avevo bisogno di confini, di forza di volontà. Avevo bisogno di essere messa in gabbia, perchè, ancora una volta, stavo dimostrando che quando ero con lui diventavo inaffidabile. Avrei dovuto lanciarmi verso la porta e invece... niente. Cercai di convincere me stessa che restavo perchè volevo delle risposte, ma era vero solo in parte. Ed era all'altra parte della verità che non volevo pensare. La parte emotiva, quella contro cui era inutile combattere. - Mi stai nascondendo qualcos'altro? - gli domandai. Ti sto nascondendo un sacco di cose. Tuffo al cuore. - Tipo? - Tipo che cosa provo a stare chiuso qui dentro con te -. Patch appoggiò una mano sullo specchio alle mie spalle e il suo corpo si avvicinò a me. - Non hai idea di quello che mi fai. Scossi il capo. - Non e una buona idea. Non è una cosa giusta. - Il concetto di "giusto" ha varie accezioni - mormorò. – Nello spettro del giusto, siamo ancora in zona di sicurezza. Ero quasi certa che la metà del cervello preposta all'autoconservazione stesse urlando: «Salvati!». Purtroppo, i battiti del cuore mi rimbombavano nelle orecchie e sentivo in modo confuso. Ovviamente stavo anche pensando in modo confuso. - Decisamente giusto. Comunemente giusto - stava dicendo Patch. - Prevalentemente giusto. Probabilmente giusto. Probabilmente non giusto adesso -. Respirai a fondo e, con la coda dell'occhio, notai sul muro un allarme antincendio. Era a tre, forse quattro metri. Se facevo in fretta, potevo riuscire ad attraversare la stanza e farlo suonare prima che Patch riuscisse a fermarmi. Sarebbe arrivata di corsa la vigilanza. Sarei stata al sicuro. Perché era quello che volevo... no! - Non è una buona idea - disse Patch scuotendo piano la testa. Lo feci lo stesso. Le dita si chiusero sulla leva. Niente, non sì muoveva. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a tirarla giù- Poi riconobbi la presenza familiare di Patch nella mia testa, e seppi che era un inganno della mente. Mi voltai per guardarlo. - Esci dalla mia testa -. Presi la rincorsa e lo spinsi con forza. Lui fece un passo indietro cercando di non perdere l'equilibrio. - E questo per cos'era? - chiese. - Per tutta questa serata -. Per essere pazza di lui nonostante sapessi che era sbagliato. Lui era sbagliato, sbagliato nell'accezione peggiore del termine. Era cosi sbagliato da sembrare giusto e questo mi mandava completamente fuori di testa. Sarei stata tentata di colpirlo anche in faccia se non mi avesse afferrato per le spalle e bloccato contro il muro. Non c'era me. E il sorriso era sempre da cattivo ragazzo, però... più dolce. Sentii le farfalle nello stomaco e poi un po' più giù. - La porta è chiusa a chiave - disse. - E noi abbiamo degli affari in sospeso. Il mio corpo sembrò spazzare via la parte logica del cervello. Zittita del tutto, Feci scivolare le mani sul suo torace e gli avvolsi il collo con le braccia. Patch mi sollevò e io gli circondai la vita con le gambe. Il cuore mi batteva a mille, ma non me ne preoccupai, neanche un po'. Premetti le mie labbra sulle sue assaporando l'estasi della sua bocca sulla mia, delle sue mani su di me. Mi sembrava di essere sui punto di scoppiare dalla mia stessa pelle... Il cellulare che avevo in tasca squillò. Mi staccai da Patch con il respiro affannoso, li telefono squillò una seconda volta. - Segreteria telefonica - disse Patch. In un angolo recondito della mia coscienza, però, sapevo che era importante che rispondessi, anche se non ricordavo più il perché. Baciare Patch aveva fatto evaporare tutte le preoccupazioni che avevo nutrito fino a quel momento. Mi allontanai da lui e mi voltai, cosi che non potesse accorgersi di quanto fossi turbata dopo un solo bacio di soli dicci secondi. Dentro di me, urlavo di gioia. - Pronto? - risposi, resistendo all'impulso di passarmi la mano sulla bocca per togliere quello che restava del lucidalabbra. - Tesoro! - esclamò Vee. Non sentivo bene quello che diceva: un'interferenza gracchiante copriva la sua voce. Dove sei? - Dove sei tu? Ancora con Elliot e Jules? -. Mi tappai l'altro orecchio con la mano, sperando di sentire meglio. - Sono a scuola. Abbiamo fatto un'irruzione - disse con una vocetta da bambina cattiva. - Vogliamo giocare a nascondino, ma non siamo abbastanza per formare due squadre. Conosci qualcuno che voglia fare il quarto e possa venire a giocare con noi? In sottofondo, una voce incomprensibile mormorò qualcosa. - Elliot vuole che ti dica che se non vieni a giocare con lui... aspetta... cosa? - disse Vee rivolta a qualcun altro. La voce di Elliot si sostituì a quella di Vee. - Nora? Vieni a giocare con noi. Altrimenti... in giardino c'è un albero con il nome di Vee. Mi si gelò il sangue. - Pronto? - farfugliai. - Elliot? Vee? Ci siete? La comunicazione era stata interrotta. 27 - Chi era? - chiese Patch. Mi sentivo completamente stordita, cosi mi ci volle un attimo prima di riuscire a rispondere. - Vee è a scuola con Elliot e Jules. Vogliono che li raggiunga. Credo che Elliot farà del male a Vee se non obbedisco -. Alzai lo sguardo su Patch. - Credo che le farà del male anche se lo faccio. Lui incrociò le braccia e aggrottò la fronte. - Elliot? - La settimana scorsa, in biblioteca, ho trovato un articolo che diceva che era stato indagato per un omicidio avvenuto nella sua vecchia scuola, la Kinghorn Prep. Lui è entrato proprio in quel momento e mi ha scoperte». Da quella sera, ho ricevuto delle vibrazioni negative da lui. Molto negative. Credo persino che sia entrato di nascosto in camera mia, per rubare l'articolo. - C'è qualcos'altro che dovrei sapere? - La vittima dell'omicidio era la ragazza di Elliot. L'hanno trovata impiccata a un albero. E al telefono, adesso, mi ha detto: «Se non vieni, in giardino c'è un albero con il nome di Vee». - Senti, Elliot ha un'aria arrogante e aggressiva, ma non mi sembra un assassino -. Infilò la mano nella tasca davanti dei miei jeans e tirò fuori le chiavi della jeep. Vado a vedere che succede, non ci metto molto. - Dovremmo chiamare la polizia. Patch scosse la testa. - Manderesti Vee in riformatorio per violazione di domicilio, effrazione e danni alla proprietà. Un'ultima cosa: chi e questo Jules? - L'amico dì Elliot. Era alla sala giochi la sera in cui ti abbiamo incontrato. Aggrottò di nuovo la fronte. - Mi ricorderei di un altro ragazzo, se ci fosse stato. Aprii la porta e lo seguii fuori. Un inserviente in uniforme stava spazzando il pavimento dell'atrio. Vide Patch uscite dal bagno delle donne e sgranò gli occhi. Si chiamava Brandt Christensen ed era nella mia stessa classe di inglese; il semestre precedente l'avevo aiutato con una relazione. - Elliot aspetta me. non te - dissi a Patch. - E se non mi faccio viva, non so cosa potrebbe succedere a Vee. Non voglio correre il rischio. - Se ti lascio venite, ascolterai le mie istruzioni e obbedirai alla lettera? - Si. - Se ti dico di saltare? - Salto. - Se ti dico di restare in macchina? - Resto in macchina -. Vero. Almeno in parte. Nel parcheggio del cinema, Patch puntò il portachiavi dell'auto in direzione della jeep e i fari si accesero. Poi, però, si fermò di colpo e imprecò fra i denti. - Che succede? - dissi. - Le gomme. Abbassai lo sguardo. I due pneumatici dal lato conducente erano a terra. - Non posso crederci! esclamai. - Ho preso due chiodi? Patch si accovacciò davanti a una delle ruote e passò la mano lungo la circonferenza. - Cacciavite. É stato fatto apposta. Per un attimo pensai che potesse trattarsi di un altro trucco di Patch. Forse aveva qualche ragione per non volere che andassi a scuola. I suoi sentimenti per Vee non erano un mistero, dopotutto. Eppure qualcosa non tornava. Non sentivo Patch nella mia testa e, a quanto sembrava, le gomme erano davvero sgonfie. - Chi farebbe una cosa del genere? Si alzò in piedi. - La lista e lunga. - Stai cercando di dirmi che hai un sacco di nemici? - Ho fatto arrabbiare qualcuno. Un bel po' di pente fa scommesse che non può vincere e poi se la prende con me quando mi porto via la loro macchina o... qualcosa di più. Patch si avvicinò a un'automobile sportiva, aprì la portiera e si accomodò al volante, poi allungò la mano sotto il sedile. - Che stai facendo? - chiesi. Fiato sprecato, naturalmente, perché sapevo benissimo che cosa stava tacendo. Cerco la chiave di riserva -. La mano di Patch ricomparve, insieme a due fili blu. Con una certa abilità, li collegò l'uno all'altro e il motore si avviò. Patch si voltò verso di me e disse: - La cintura di sicurezza. - Non ruberò un'auto. Si strinse nelle spalle. - Noi ne abbiamo bisogno adesso. Loro no. - Si chiama rubare, É sbagliato. Patch non sembrava minimamente preoccupato. Al contrario, aveva un'aria fin troppo rilassata. «Non è la prima volta» pensai. - Regola numero uno del ladro d'auto - disse sorridendo. - Cercate di non rimanere sulla scena del crimine più a lungo del necessario. - Aspetta un momento. Tornai velocemente sui miei passi. Nelle porte a vetri del cinema vidi riflesso il parcheggio e Patch che scendeva dalla macchina. - Ciao. Brandt - dissi al ragazzo che stava terminando le pulizie. Lui alzò gli occhi, ma la sua attenzione fu immediatamente attirata da qualcosa alle mie spalle. Sentii aprirsi le porte e per-cepii Patch che si muoveva dietro di me. Il suo arrivo fu simile a quello di una nuvola temporalesca, che copre il sole oscurando il panorama. - Come va? - disse Brandt esitante. - Ho un problema con l'auto - dissi, mentre mi mordevo il labbro e mi sforzavo di apparirgli simpatica. - So di metterti in una situazione imbarazzante ma, visto che lo scorso semestre ti ho aiutato con la relazione su Shakespeare... - Vuoi che ti presti la macchina. - Be'... si. - È un rottame. Non è una Jeep Commander -. Guardò Patch come per scusarsi. - Cammina? - chiesi. - Se per "cammina" intendi quattro ruote che girano, si, cammina. Però non è in prestito. Patch apri il portafogli e tirò fuori quelli che sembravano tre biglietti nuovi di zecca da cento dollari. Trattenendo la sorpresa, decisi che la cosa migliore da fare era stare al gioco. - Ho cambiato idea - disse Brandt con gli occhi spalancati, intascando il denaro. Si frugò in tasca e passò un mazzo di chiavi a Patch. - Marca e colore? - si informò lui afferrando le chiavi. - Difficile a dirsi. Parte Volkswagen, parte Chevette. Una volta era blu, prima che la ruggine la corrodesse, facendola virare verso l'arancione. Prima di restituirmela, mi riempire il serbatoio? -chiese alla fine Brandt, con l'aria di avere sfidato la sorte con le dita incrociate dietro la schiena. Patch entrasse altri venti dollari. - Nel caso ce ne dimenticassimo - disse, infilandoli nella tasca di Brandt. Eravamo di nuovo fuori, quando mi rivolsi a Patch: - Avrei potuto convincerlo a darmi le chiavi, avevo solo bisogno di un po' più di tempo. E a proposito, perché lavori al Borderline se sci ricco? - Non sono ricco. Ho vinto i soldi a una partita di biliardo un paio di sere fa -. Infilò la chiave nella serratura e mi apri la portiera del lato passeggero. - Da adesso la banca è ufficialmente chiusa. Patch guidò per strade buie e silenziose, così arrivammo a scuola in fretta. Parcheggiò e spense il motore. Il campus era pieno di alberi i cui rami, contorti e spogli, erano rivestiti da nient'altro altro che nebbia umida. Dietro di loro si stagliava la Coldwater High, La parte originaria dell'edificio era stata costruita alla fine del diciannovesimo secolo e dopo il tramonto ricordava molto una cattedrale. Grigia e carica di presagi. Molto buia. Molto abbandonata. - Ho appena avuto un brutto presentimento - dissi, scrutando le orbite nere delle finestre. - Resta in macchina e non farti vedere - ordinò Patch passandomi le chiavi. - Se qualcuno esce dall'edificio, meni in moto e vattene -. Uscì. Indossava una maglia aderente nera, Levi's scuri e stivali. I capelli neri e la carnagione scura rendevano difficile distinguerlo dallo sfondo. Attraversò la strada e, dopo una manciata di secondi, si confuse completamente con la notte. 28 Passarono cinque minuti, che diventarono dieci e poi venti. Cercando di ignorare la terrificante sensazione di essere osservata, sbirciai nell'oscurità in cui era immersa la mia scuola. Perchè Patch ci metteva tanto? Facevo mille ipotesi, e l'agitazione montava sempre di più. E se non fosse riuscito a trovare Vee? E che cosa sarebbe successo quando Patch avesse trovato Elliot? Non pensavo che Elliot potesse avere la meglio su di lui, ma non ne ero sicura. Magari Elliot aveva un asso nella manica. Il telefono mi suonò in tasca, e io feci un salto. - Ti vedo - disse Elliot non appena risposi. - Seduta in macchina. - Dove sei? - Ti sto guardando da una finestra del secondo piano. Siamo qui a giocare. Io non voglio giocare. Riattaccò. Con il cuore in gola, uscii dall'auto. Alzai lo sguardo verso le finestre buie della scuola. Non credevo che Elliot sapesse della presenza di Patch. Dalla voce sembrava impaziente, non arrabbiato 0 infastidito. La mia unica speranza era che Patch avesse un piano e che il piano prevedesse che nè io nè Vee ci facessimo male. La luna era coperta dalle nuvole; avvolta da un manto di paura. Mi avviai verso l'ingresso. Entrai nella penombra. Un debole raggio di luce, proveniente dalla strada, penetrava nell'edificio dal vetro della porta e i mici occhi impiegarono diversi secondi per abituarsi. Le piastrelle del pavimento riflettevano un alone cereo; ai lati del corridoio, gli armadietti erano allineati come soldati robot addormentati. Invece di pace e tranquillità, quell'atrio irradiava un senso di pericolo imminente. A parte i primi metri di corridoio, non si vedeva niente. Mi diressi a un gruppo di interruttori e li premetti tutti, ma non accadde nulla. Dal momento che fuori della Muoia l'elettricità c'era, capii che li era stata staccata di proposito. Mi chiesi se facesse parte del piano di Elliot. Non lo vedevo da nessuna parte, e non vedevo neanche Vee. Nemmeno Patch. Dovevo procedere a tentoni stanza per stanza, escludendole una dopo l'altra, finché non lo avessi trovato. Poi, insieme, avremmo cercato la mia amica. Usando la parete come guida, mi avviai. Percorrevo quel tratto di corridoio ogni giorno, più volte al giorno... ma al buio, improvvisamente, mi sembrò sconosciuto. E più lungo, molto più lungo. Al primo incrocio cercai di orientarmi. Se avessi girato a sinistra sarei arrivata alle aule di musica e alla mensa, mentre a destra avrei trovato fili uffici amministrativi e una rampa di scale. Proseguii dritto, addentrandomi nella scuola in direzione delle classi. Il piede colpi qualcosa e, prima che riuscissi a reagire, mi trovai a terra. La luna fece capolino tra le nubi e una fosca luce filtrò attraverso un lucernario proprio sopra di me. Ero inciampata in un corpo. Jules. Giaceva supino, lo sguardo fisso nel vuoto. I lunghi capelli biondi erano arruffati sul viso, le mani inerti lungo i fianchi. Indietreggiai sulle ginocchia e mi coprii la bocca, respirando affannosamente. Le gambe mi tremavano per l'adrenalina. Molto lentamente, appoggiai il palmo della mano sul suo peno: non si muoveva. Era morto. Balzai in piedi soffocando un urlo. Volevo chiamare Patch, ma cosi avrei rivelato a Elliot la mia posizione, sempre che non la conoscesse già. Di colpo, mi resi conto che poteva essere a pochi metri da me, a godersi lo spettacolo perverso che aveva orchestrato. La luce proveniente dall'alto svanì e io mi guardai intorno terrorizzata. Davanti a me proseguiva l'interminabile corridoio, Alla mia sinistra, una corta rampa di scale portava alla biblioteca. A destra, avrei trovato le classi. Scelsi d'impulso la biblioteca, brancolando nel buio per allontanarmi dal corpo di Jules. Il naso mi gocciolava e mi resi conto che stavo piangendo in silenzio. Perché Jules era morto? Chi l'aveva ucciso? Anche Vee era morta? Le porte della biblioteca non erano chiuse a chiave e cosi entrai. Oltre gli scaffali, all'altra estremità della sala, c'erano tre piccole aule insonorizzate; se Elliot avesse voluto tenere prigioniera Vee, sarebbero state il posto ideale. Stavo per avviarmi in quella direzione, quando fui raggiunto da un gemito. Una voce maschile. Mi fermai. Le luci del corridoio si accesero, rischiarando l'oscurità della biblioteca. Il corpo di Elliot giaceva a pochi metri da me. la bocca aperta, la pelle cerca. Voltò gli occhi verso di me e allungò una mano. Mi sfuggì un urlo lacerante. Mi voltai di scatto e corsi verso la porta, spingendo e prendendo a calci tutte le sedie che mi trovavo davanti, «Corri!» ordinai a me stessa. «Trova un'uscita.» Uscii dalla biblioteca barcollando, e proprio in quel momento le luci del corridoio si spensero. Il mondo piombò di nuovo nell'oscurità. - Patch! - cercai di urlare, ma il suo nome mi si strozzò in gola. Jules era morto. Elliot era quasi morto. Chi li aveva uccisi? Chi era rimasto? Cercai di capire il senso di quello che slava succedendo, ma la ragione mi aveva abbandonata. Poi una spinti nella schiena mi fece perdere l'equilibrio. Una seconda spinta mi fece volare di lato, contro un armadietto. Picchiai la resta, e la botta mi lasciò tramortita. Il mio campo visivo fu attraversato da un sottile e veloce raggio di luce. Nel turbine che avevo in testa, riuscii a mettere a fuoco un paio di occhi scuri dietro un passamontagna. La luce arrivava da una torcia da minatore. Mi alzai e cercai di correre. II mio aggressore stese un braccio bloccandomi la via di fuga, poi usò l'altro braccio per intrappolarmi contro l'armadietto. - Credevi fossi morto? -. La sua voce tradiva un sorriso esultante, eppure gelido. - Non potevo lasciarmi sfuggire un'ultima occasione di giocare con te. Fammi contento. Chi credevi che fosse il arrivo? Elliot? Oppure, per un attimo, ti ha sfiorato il sospetto che potesse essere stata la tua migliore amica a fare tutto questo? Ho indovinato, vero? È questo il bello della paura. Tira fuori il peggio di noi. - Sei tu -. Mi tremò la voce. Jules si tolse torcia e passamontagna. - In carne e ossa. - Come hai fatto? - riuscii a chiedere. - Ti ho visto. Non respiravi. Eri morto. - Mi dai troppi meriti. Hai fatto tutto tu, Nora. Se la tua mente non fosse così debole, io non sarei mai riuscito a combinare niente. Ti sto facendo sentire stupida? È avvilente scoprire che tra tutte le menti in cui sono entrato la tua è la più facile da violare? E anche la più divertente. Mi passai la lingua sulle labbra. Avevo la bocca asciutta e riuscivo a sentire l'odore della paura nel mio alito. - Dov'è Vee? Mi diede uno schiaffo. - Non cambiare argomento. Devi assolutamente imparare a controllare la paura. La paura indebolisce la logica e offre ogni sorta di possibilità a gente come me. Era un lato di Jules che non avevo mai visto. Era sempre stato silenzioso, scontroso, assolutamente indifferente nei confronti di chiunque. Restava nell'ombra, cercando di non attirare l'at-tenzione, di non insospettire nessuno. «Molto furbo da parte sua» pensai. Mi afferrò per un braccio e mi tirò con forza. Lo graffiai e mi divincolai, ottenendo un pugno nello stomaco. Indietreggiai mentre cercavo, inutilmente, di riprendere fiato. Mi appoggiai a un armadietto e mi accasciai a terra. Un filo d'aria mi arrivò in gola, facendomi tossire. Jules si toccò i segni lasciati dalle mie unghie sull'avambraccio. - Pagherai per questo. - Perchè mi hai portata qui? Cosa vuoi? -. Non riuscivo a controllare il tono isterico della mia voce. Mi afferrò per il braccio e mi tirò su a forza. Poi mi trascinò lungo il corridoio. Apri una porta con un calcio e mi buttò dentro, scaraventandomi a terra. La porta si richiuse con un colpo secco. L'unica luce proveniva dalla torcia di Jules. L'aria era impregnata dell'odore familiare di gesso e di sostanze chimiche stantie. Alle pareti, poster raffiguranti il corpo umano e le sezioni trasversali delle cellule. In fondo alla stanza, un lungo bancone di granito nero con un lavello e, di fronte, diverse file di cavoli da laboratorio dello stesso materiale. Eravamo nell'aula di biologia del Coach McConaughy. Un bagliore metallico catturò la mia attenzione. A terra, se-minascosto dal cestino della carta, vidi un bisturi. Doveva essere sfuggito sia al coach sia al bidello. Riuscii a farlo scivolare sotto la cintura dei jeans un attimo prima che Jules mi tirasse su. - Ho dovuto spegnere la luce - disse, appoggiando la torcia sul tavolo più vicino. - Non si può giocare a nascondino con la luce accesa. Trascinò due sedie una di fronte all'altra. - Accomodati -. Non aveva l'aria di un invito. I miei occhi percorsero la fila di finestre sulla parete opposta. Mi chiedevo se avessi potuto aprirne una e buttarmi fuori senza farmi prendere da Jules. Fra i mille pensieri legati all'autoconservazione che in quell'istante mi vennero in mente, decisi di concentrarmi su uno: non apparire spaventata. Era uno dei consigli che ci avevano dato alle lezioni di autodifesa seguiti con mia madre alla morte di papà e che in quel momento riaffioravano alla memoria. Mantenere il contatto visivo... sembrare sicuri di sé... usare il buonsenso... tutto più facile a dirsi che a farsi. Jules mi costrinse a sedermi premendo le mani sulle mie spalle. Attraverso i jeans, avvertii il freddo del metallo. - Dammi il cellulare - ordinò stendendo la mano. - L'ho lasciato in macchina. Si lasciò sfuggire una risata. - Vuoi davvero fare questi giochetti con me? Ho chiuso la tua migliore amica da qualche parte nell'edificio. Se ti metti a giocare con me, si sentirà esclusa e io dovrò escogitare un altro gioco superspeciale per farmi perdonare da lei. Tirai fuori il telefono e glielo passai. Con una forza sovrumana, lo piegò a metà. - Ora siamo solo io e te -. Si stravaccò sulla sedia di fronte a me e distese le gambe con studiata disinvoltura, un braccio penzoloni sulla spalliera. - Parliamo un po', Nora. Mi alzai di scatto dalla sedia e scappai; Jules mi afferrò per la vita prima che riuscissi a fare quattro passi e mi spinse di nuovo sulla sedia. - Una volta possedevo dei cavalli - disse. - Tanto tempo fa, in Francia, avevo una scuderia di cavalli, bellissimi. 1 cavalli spagnoli erano i miei preferiti; venivano catturati allo stato brado e portati subito da me. Poche settimane dopo, erano domati. Però c'era sempre un cavallo speciale, quello che non voleva essere domato. Sai cosa facevo ai cavalli che rifiutavano di farsi addestrare? Tremai al solo pensiero della risposta. - Collabora, e non avrai niente da temere - concluse. Non gli credetti nemmeno per un attimo. Il lampo che vedevo nei suoi occhi non era di sincerità. - Ho visto Elliot in biblioteca -. Con mia sorpresa, la voce mi tremò. Non mi piaceva né mi fidavo di lui, ma non meritava di morire lentamente e in modo doloroso. - Gli hai fatto del male? Si avvicinò, quasi volesse confidarmi un segreto. - Se vuoi commettere un crimine, non devi lasciare prove in giro, mai. Elliot sapeva troppo. - Per questo che sono qui? Per l'articolo che ho trovato su Kjirsten Halverson? Jules sorrise. - Elliot si è scordato di confidarmi questo particolare. - L'ha uccisa lui... o tu? - chiesi con un brivido. - Dovevo mettere alla prova la lealtà di Elliot. Gli ho portato via ciò che aveva di più importante. Elliot era a Kinghorn con una borsa di studio e tutti trovavano il modo di ricordarglielo. Finchè non sono arrivato io, il suo benefattore. Alla fine, è stato costretto a scegliere tra me e Kjirsten. Più sinteticamente, tra il denaro e l'amore. Pare che non sia affatto piacevole essere povero tra i ricchi. Io l'ho comprato, ed è stato allora che ho capito che avrei potuto fidarmi di lui, quando fosse arrivato il momento di occuparmi di te. - Perche io? - Non l'hai ancora capito? -. La luce della torcia metteva in risalto la crudeltà del suo volto e creava l'illusione che i suoi occhi fossero diventati color argento fuso. - Ho giocherellato con te, ti ho fatta dondolare appesa a una cordicella; ti ho fatto soffrire per procura, perché la persona alla quale davvero voglio fare del male non può provare dolore fisico. Sai chi e questa persona? Tutti i nodi del mio corpo sembrarono sciogliersi. La mia vista non era più a fuoco. Il viso di Jules sembrava un dipinto impressionista: sfuocato ai lati e privo di dettagli. Il sangue mi defluiva dalla testa e sentii che scivolavo dalla sedia. Mi ero già sentita cosi tante volte: avevo bisogno di ferro. Subito. Mi diede un altro schiaffo. - Concentrati. Di chi sto parlando? - Non lo so - non riuscivo ad alzare la voce oltre il sussurro. - Sai perché non può provare dolore? Perché non ha un corpo umano, non ha sensazioni fisiche. Se lo immobilizzassi e lo torturassi, non sentirebbe nulla, non un briciolo di dolore. Scommetto che adesso inizi ad avere un'idea. Avete passato un sacco di tempo insieme. Perché sei così silenziosa, Nora? Non immagini chi è? Un rivolo di sudore mi scivolò lentamente lungo la schiena. - Ogni anno, all'inizio del mese ebraico di Cheshvan, lui prende il controllo del mio corpo. Due intere settimane. Ecco per quanto tempo cedo il controllo. Nessuna liberta, nessuna scelta. Non posso concedermi il lusso di scappare per quelle due settimane: do in prestito il mio corpo e lo riottengo quando è tutto finito. Posso provare a convincermi che non stia avvenendo davvero, ma invece no. Sono li, prigioniero nel mio stesso corpo, e vivo ogni singolo momento di ciò che accade. Sai come ci si sente? Lo sai? - urlò. Tenni la bocca chiusa, perché sapevo che parlare sarebbe stato pericoloso. Jules rise, ma quello che udii fu più che altro il suono dell'ara che gli passava tra i denti. Il suono più sinistro che avessi mai sentito. - Ho fatto un giuramento con il quale gli permettevo di prendere possesso del mio corpo durante Cheshvan. Avevo sedici anni -. Alzò le spalle, ma il movimento era rigido. – Mi ha costretto a giurare, mi ha torturato. E dopo, mi ha detto che non ero umano. Puoi crederci? Non umano. Mi ha detto che mia madre, una donna, era andata a letto con un angelo caduto -. Sogghignò in modo odioso, la fronte imperlata di sudore. - Ti ho già detto di aver ereditato alcune caratteristiche di mio padre? Come lui, riesco a ingannare le menti. Posso farti vedere cose che non esistono, posso farti sentire delle voci. «Cosi, Nora. Mi senti? Sei già spaventata?» Mi diede un colpetto in fronte. - Che succede li dentro, Nora? È terribilmente silenzioso. Jules era Chauncey. Era un Nephilim. Ricordai la mia voglia e quello che mi aveva detto Dabria. Jules e io avevamo lo stesso sangue. Nelle mie vene scorreva il sangue di un mostro. Chiusi gli occhi e una lacrima scivolò fuori. - Ricordi la sera in cui ci siamo incontrati la prima volta? Sono saltato davanti alla tua auto. Guidavi, era buio e c'era nebbia. Tu eri già nervosa e questo ha facilitato le cose: ingannarti è stato semplice- E spaventarti mi ha proprio divertito, quella sera. Mi ha fatto venire voglia di rifarlo. Avrei dovuto capirlo - sussurrai. - Non ci sono molte persone alte come te. Non mi stai a sentire. Posso farti vedere tutto quello che voglio. Credi davvero che avrei trascurato un dettaglio importante come la mia altezza. Hai visto ciò che io ho voluto farti vedere, quindi hai visto solo un uomo di corporatura media con un passamontagna. Me ne stavo seduta 1i e sentivo che nel mio terrore si apriva un sottile spiraglio. Non ero pazza. C'era Jules dietro a tutto quello che mi era capitato. Era lui il pazzo. Poteva ingannarmi perchè suo padre era un angelo caduto e lui aveva ereditato i suoi poteri. - Non hai davvero messo a soqquadro la mia camera -dissi. - Hai solo fatto in modo che lo credessi. Ecco perchè era in ordine quando è arrivata la polizia. Applaudì in modo lento e calcolato. - Vuoi sapere la parte migliore? Avresti potuto impedirmelo. Senza il tuo permesso, non avrei potuto toccare la tua mente. Sono entrato e tu non hai mai fatto resistenza. Eri debole, arrendevole. Finalmente iniziavo a capire. Però, anziché sollievo, provavo sgomento all'idea di quanto fossi influenzabile. Ero un libro aperto. Niente poteva impedire a Jules di risucchiarmi nei suoi inganni, a meno che non imparassi a bloccarlo. - Immagina di essere al mio posto - continuò. - Il tuo corpo violato, anno dopo anno. Immagina un odio così forte da poter essere curato solo con la vendetta. Immagina di impiegare mezzi ed energie per tenere d'occhio l'oggetto della tua vendetta, aspettando con pazienza il momento in cui il faro ti presenterà l'opportunità non solo di pareggiare i conti. ma addirittura di far pendere la bilancia in tuo favore -. Puntò i suoi occhi nei mici. - Tu sei quell'opportunità. Se faccio male a te. faccio male anche a Patch. - Sopravvaluti la mia importanza per lui - obiettai. Iniziavo a sudare freddo all'attaccatura dei capelli. - Lo tengo d'occhio da secoli. La prima volta che è venuto a casa tua è stato la scorsa estate, ma tu non te ne sci accorta. È capitato che ti seguisse mentre facevi shopping. A volte passava davanti a casa tua, senza motivo. Poi si è iscritto alla tua scuola. Non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa ci fosse di speciale in te. Ho cercato di scoprirlo, ti osservo da tempo, ormai. Fui assalita da una paura totale. In quell'istante capii che non era mio padre la presenza che avvertivo. Era Jules. Sentivo quella presenza gelida, soprannaturale anche in quel momento, ma amplificata almeno un centinaio di volte. - Non volevo che Patch si insospettisse, cosi mi sono tenuto in disparte - proseguì. - È allora che è entrato in scena Elliot. Non ci ha messo molto a dirmi ciò che sospettavo già: Patch è innamorato di te. Adesso tutto tornava. Jules non stava male la sera che era sparito al Delphic. E nemmeno la sera in cui eravamo andati al Borderline. Semplicemente, non doveva farsi notare da Patch perchè in quel caso, sarebbe andato tutto all'aria. Patch avrebbe capito che Jules Chauncey stava tramando qualcosa. Elliot era gli occhi e le orecchie di Jules, gli passava tutte le informazioni. - Il piano era quello di ucciderti in campeggio, ma Elliot non è riuscito a convincerti - ammise Jules. - Allora ti ho seguita a Portland e quando sei uscita dal Blind Joe ti ho sparato. Immagina la mia sorpresa quando ho scoperto di avere ammazzato una barbona che indossava la tua giacca. Questa volta, invece, ha funzionato tutto. Il momento è arrivato. Cambiai posizione sulla sedia e il bisturi scivolò un po'. Dovevo stare attenta, o non sarei più riuscita ad afferrarlo. Jules poteva anche costringermi ad alzarmi e in quel caso avrebbe potuto cadere a terra. E sarebbe stata la fine. - Vediamo se indovino a cosa stai pensando - continuò Jules. Si alzò in piedi e prese a camminare nella stanza. Inizi a desiderare di non avere mai incontrato Patch, vorresti che non si fosse mai innamorato di te. Accomodati, prego. Pensa alla situazione in cui ti ha messo, alla scelta sbagliata che hai fatto. Jules parlava dell'amore che Patch provava per me e all'improvviso mi sentii invadete da una speranza irrazionale. Armeggiando un po', riuscii ad afferrare il bisturi e balzai in piedi. - Non avvicinarti o ti accoltello. Giuro che lo faccio! Jules emise un suono gutturale e con il braccio spazzò via tutto quello che si trovava sopra il bancone. I recipienti di vetro si fracassarono contro la lavagna, i fogli caddero a terra svolazzando. Percorse a grandi passi la distanza che lo separava da me. In preda al panico, sollevai il bisturi, gli afferrai la mano e gli tagliai il palmo. Jules emise un sibilo e indietreggiò. Senza aspettare, gli conficcai il bisturi nella coscia. Jules sgranò gli occhi guardando il metallo che gli spuntava dalla gamba. Estrasse il bisturi aiutandosi con entrambe le mani, il viso contorto dal dolore. Poi aprì le dita e il bisturi cadde tintinnando sul pavimento. Vacillando, Jules fece un passo verso di me. Mi allontanai urlando, ma nel farlo urtai con il fianco il bordo di un tavolo; persi l'equilibrio e caddi. Il bisturi giaceva a un paio di metri da me. Jules mi raggiunse, facendomi voltare sullo stomaco. Mi premette il viso sul pavimento, schiacciandomi il naso e soffocando le mie urla. - Tentativo coraggioso, - grugni - ma inutile. Sono un Nephilim, sono immortale. Provai ad afferrare il bisturi trascinandomi per quei pochi metri vitali. Allungai la mano, c'ero quasi, quando Jules mi trascinò indietro. Sollevai di scatto il tallone e lo colpii tra le gambe. Con un gemito si allontanò zoppicando. Scattai in piedi, ma Jules fu più rapido di me. Si precipitò verso la porta e si buttò in ginocchio per sbarrarmi il passaggio. Aveva i capelli davanti agli occhi, il viso imperlato di sudore, la bocca contratta in una smorfia di dolore. Ogni singolo muscolo del mio corpo era pronto a scattare. - Vuoi scappare? Buona fortuna, allora - disse con un sorrisetto cinico che, però, sembrava richiedergli un grande sforzo. – Vedrai cosa intendo -. Quindi si accasciò al suolo. 29 Non avevo idea di dove fosse Vee. Allora mi venne in mente che avrei dovuto sforzarmi di ragionare come Jules. Dove l'avrei nascosta se fossi stata in lui? «Lo scopo è quello di non farla scappare e di non farmela trovare» riflettei. Mentalmente passai in rassegna la mia scuola, concentrandomi sui piani alti. Era probabile che Vee si trovasse al terso piano. Però esisteva anche un quarto piano, minuscolo, più una soffitta che altro. Ci si arrivava tramite una scala stretta, accessibile soltanto dal terso piano. In cima, c'erano due classi: l'aula del corso avanzato di spagnolo e... il laboratorio dell'e-zine. Vee era lì. Non sapevo perchè, ma ne ero sicura. Cercando di fare presto, nonostante l'oscurità, salii due rampe di scale. Dopo un paio di tentativi a vuoto, finalmente trovai la scala che portava al laboratorio. Arrivai in cima e spinsi la porta. - Vee? - bisbigliai. Lei emise un lamento. - Sono io - dissi, muovendomi con cautela lungo il corridoio tra i banchi per non rischiare di inciampare su una sedia e segnalare a Jules la mia posizione. - Sei ferita? Dobbiamo uscire subito di qui -. La trovai raggomitolata in un angolo, le ginocchia strette al petto. - Jules mi ha colpito alla testa - mugugnò alzando il tono della voce. - Credo di essere svenuta, Ora non ci vedo. Non vedo niente! - Ascoltami. Jules ha tolto la luce e le tende sono tirate. È solo buio. Prendimi la mano, dobbiamo andare via, adesso. Credo d'essere ferita. Mi pulsa la testa, sono cieca! Non sei cieca - sussurrai, scuotendola leggermente. Neanch'io ci vedo, dobbiamo andare giù a tentoni. Usciremo dalla porta della palestra. Ha messo la catena a tutte le porte. Un silenzio denso cadde tra noi. Jules mi aveva augurato buona fortuna quando ero scappata e ora capivo perché. Dal cuore parti un brivido che si propagò in tutto il corpo. Non la porta da cui sono entrata - dissi infine. - L'ingresso dal lato est non è chiuso. Dev'essere l'unico. Ero con lui quando ha bloccato le altre porte. Ha detto che in quel modo nessuno avrebbe avuto la tentazione di uscire mentre giocavamo a nascondino. - Se quella è l'unica porta aperta, cercherà di chiuderla e ci aspetterà li. Noi però non ci andremo. Usciremo da una finestra. Stavo informando Vee del piano nel momento stesso in cui prendeva forma. - Dalla parte opposta dell'edificio, cioè questa. - Hai il cellulare? - L'ha preso Jules. - Appena usciamo di qui dobbiamo dividerci. Se Jules ci insegue, dovrà scegliere quale delle due inseguire. Nel frattempo, l'altra va a chiedere aiuto -. Sapevo chi delle due avrebbe scelto. Vee non gli interessava, era servita solo ad attirarmi li. - Corri più veloce che puoi e trova un telefono. Chiama la polizia e digli che Elliot e in biblioteca. - Vivo? - chiese con voce tremante. - Non lo so. Eravamo rannicchiate una accanto all'altra e sentii che si tirava su la maglietta per asciugarsi gli occhi. - È tutta colpa mia. - È colpa di Jules. - Ho paura. - Andrà tutto bene - dissi, cercando di sembrare Ottimista. - Ho ferito Jules a una gamba con un bisturi. Sta perdendo molto sangue, magari smetterà di darci la caccia e andrà a farsi medicare. A Vee scappò un singhiozzo. Sapevamo entrambe che stavo mentendo. Il desiderio di vendetta di Jules contava più di qualsiasi ferita. Più di qualsiasi cosa. Vee e io scendemmo furtivamente le scale, strisciando lungo le pareti, finché arrivammo al piano terra. - Da questa parte - le sussurrai all'orecchio, tenendole la mano mentre acceleravamo lungo il corridoio che portava verso l'ala ovest. Non avevamo fatto molta strada, quando, dal tunnel buio davanti a noi, arrivò un suono gutturale. Somigliava a una risata. - Bene, bene... cosa abbiamo qui? - disse Jules, ma non c'era alcun volto dietro la voce. - Corri - dissi a Vee stringendole la mano. - Vuole me. Chiama la polizia, corri! Vee mi lasciò la mano e obbedì. I suoi passi svanirono presto e lo sconforto mi invase. Mi domandai se Patch fosse ancora nell'edificio, ma il pensiero durò un secondo. Cercavo di concentrarmi solo sulla necessita di non svenire. Ero di nuovo con Jules. Da sola. - La polizia ci metterà almeno venti minuti - disse Jules, mentre sentivo avvicinarsi i suoi passi. - E a me non servono venti minuti. Mi voltai e iniziai a correre con Jules alle costole. Annaspando, al buio, girai a destra e imboccai un corridoio. Ero costretta a procedere facendo scorrere una mano lungo le pareti per orientarmi, sbattendola continuamente sugli spigoli affilati degli armadietti e sugli stipiti delle porte. Era piena di graffi e tagli. Girai Ci nuovo a destra, correndo più forte che potevo verso la doppia porta della palestra. Avevo un unico obiettivo in testa: se fossi riuscita a raggiungere il mio armadietto, in palestra, avrei potuto chiudermi dentro. Gli armadietti dello spogliatoio femminile occupavano tutta una parete ed erano molto grandi. Jules ci avrebbe messo un bel po' a controllarli tutti. Magari, se fossi stata fortunata, la polizia sarebbe arrivata prima che riuscisse a trovarmi. Mi precipitai in palestra e corsi verso gli spogliatoi. Spinsi la maniglia. Lì porta era chiusa a chiave. Scossi la maniglia in preda al panico. Niente da fare. Mi voltai di scatto e cercai disperatamente un'altra uscita. Niente. Ero in trappola. Indietreggiai verso la porta, chiusi gli occhi per non svenire e restai in ascolto del mio respiro. Quando riaprii gli occhi, Jules camminava alla fosca luce della luna che penetrava dai lucernari. Si era annodato la camicia attorno alla coscia, il tessuto era intriso di sangue. Era rimasto in maglietta bianca e pantaloni di cotone. Infilata nei pantaloni, una pistola. - Per favore, lasciami andare - sussurrai. - Vee mi ha detto una cosa importante di te: soffri di vertigini -. Alzò lo sguardo verso le travi del soffitto, sorridendo. L'aria stantia sapeva di sudore e dì vernice. Il riscaldamento era stato spento per le vacanze di primavera e si gelava. Le nubi, passando davanti alla luna, proiettavano ombre che danzavano sul pavimento lucido. Jules dava le spalle alle gradinate. Dietro di lui, vidi Patch. Hai aggredito Marcie Millar? - chiesi a Jules, imponendomi di non rivelare la presenza di Patch. - Elliot mi ha detto che tra voi non correva buon sangue. Non mi andava che qualcun altro avesse il piacere di tormentare la mia ragazza. - E la finestra della mia stanza? Mi spiavi mentre dormivo? - Niente di personale. All'improvviso Jules si irrigidì. Si gettò su di me. mi afferrò per un polso e mi fece ruotate davanti a sè. Premuta contro la nuca, avvertii quella che temevo fosse la pistola. - Togliti il berretto - ordinò a Patch. - Voglio vedere l'espressione della tua faccia mentre la uccido. Ogni tuo sforzo per salvarla sarà inutile. Come fu inutile il mio tentativo di resistere al giuramento che mi costringesti a pronunciare. Patch fece un paio di passi avanti. Si muoveva con disinvoltura, ma con estrema cautela. La canna della pistola premette più a fondo e io sussultai. - Un altro passo e questo sarà stato il suo ultimo respiro – lo avvertì Jules. Patch calcolò con un rapido sguardo la distanza che ci separava, valutando quanto ci avrebbe impiegato a coprirla. Jules se ne accorse. - Non provarci - disse. - Tu non le sparerai, Chauncey. - No? - Jules premette il grilletto. Clic. Aprii la bocca per urlare, ma ne usci solo un singhiozzo. - Revolver - spiegò Jules. - Ho altri cinque colpi a disposizione. «Pronta a usare quelle mosse di boxe di cui non fai che vantarti?» mi disse Patch nella mente. Sentivo il cuore pulsarmi in ogni cellula, le gambe mi reggevano a stento. - C-cosa? - balbettai. E all'improvviso mi sentii Invadere da una forza sconosciuta, che si espanse fino a riempirmi. Il mio corpo si fidava totalmente di Patch così, quando prese possesso di me, rinunciai a ogni forza e libertà. Prima che avessi il tempo di capire quanto questa perdita di controllo mi terrorizzasse, un dolore lancinante mi trafisse la mano, e capii che Patch stava usando il mio pugno per colpire Jules. La pistola finì per terra e scivolò via, fuori portata. Patch comandò alle mie braccia di scagliare Jules contro le gradinate. Un attimo dopo, mi resi conto che le mie mani erano chiuse sulla gola di Jules e gli sbattevano la testa contro i gradini producendo un rumore orrendo. Lo tenevo fermo, le dita premute sul collo. Jules strabuzzò gli occhi e cercò di parlare, ma Patch non mi permise di lasciarlo. «Non riuscirò a stare dentro di te ancora a lungo» mi disse nella mente. «Non è Cheshvan e non ho il permesso. Appena ti lascio, corri. Hai capito! Più veloce che puoi. Chauncey sarà troppo debole e stordito per entrare nella tua testa. Corri e non fermarti.» Un ronzio e il mio corpo iniziò a spogliarsi di quello di Patch. Le vene del collo di Jules si gonfiarono e la testa si inclinò da una parte. «Forza» sentii implorare Patch. «Svieni... svieni...» Troppo tardi. Patch usci dal mio corpo. E lo fece così all'improvviso che fui colta da un capogiro. Avevo riacquistato il controllo delle mani, che si staccarono d'impulso dal collo di Jules. Lui cercò di riprendere fiato e sbattè le palpebre mentre mi guardava. Patch era steso a terra qualche metro più in la, immobile. Mi ricordai quello che mi aveva detto Patch e attraversai di corsa la palestra. Mi gettai contro la porta, pronta a fuggire in corridoio. Fu come sbattere contro un muro. Spinsi il maniglione antipanico, convinta che avrei trovato la porta aperta. L'avevo attraversata solo cinque minuti prima, così mi ci scaraventai contro con tutto il peso. La porta non si aprì. Mi voltai. Il calo di adrenalina mi faceva tremare le ginocchia. - Esci dalla mia mente! - urlai a Jules. Lui si mise a sedere e si massaggiò la gola. - No - rispose. Provai di nuovo ad aprire la porta. Tirai un calcio al maniglione. Picchiai i pugni contro i vetri. - Aiuto! Qualcuno mi sente? Aiuto! Con la coda dell'occhio, vidi che Jules avanzava verso di me zoppicando. Chiusi forte gli occhi, cercando di concentrarmi sulla mia mente. La porta si sarebbe aperta non appena avessi scovato la sua voce e l'avessi mandata via. Cercai in ogni angolo della mia testa, ma senza riuscire a trovarla. Jules era nascosto in profondità. Riaprii gli occhi. Era più vicino. Dovevo trovare un'altra via di fuga. Fissata al muro, sopra la gradinata, c'era una scala di ferro che portava al reticolato di travi del soffitto. Alla fine delle travi, sul muro di fronte, quasi sopra il punto in cui mi trovavo, c'era un condotto d'aerazione. Se fossi riuscita ad arrivarci, avrei potuto infilarmi dentro e trovare un'altra via di fuga. Con uno scatto, superai Jules e iniziai a risalire la gradinata. Le mie scarpe rimbombavano sul legno e il rumore, che riecheggiava nello spazio vuoto, mi impediva di sentire se Jules mi stesse seguendo. Trovai un punto d'appoggio sul primo piolo e mi issai, Mi arrampicai sul secondo piolo, poi sul terzo. Con la coda dell'occhio notai la fontanella dell'acqua, in lontananza. Era piccola, il che significava che ero in alto. Molto in alto. «Non guardare giù» ordinai a me stessa. «Concentrati su quello che sta sopra.» Esitai un attimo, poi salii di un altro piolo. La scala sbatacchiò, forse era stata fissata male al muro. Sentii la risata di Jules e persi la concentrazione. La mia mente fu invasa da immagini di cadute. Razionalmente, Sapevo che era Jules, ma il mio cervello andò in cortocircuito lo stesso. Non riuscivo più a distinguere i miei pensieri dai suoi. Non ricordavo più da che parte fossero l'alto e il basso. La paura che provavo era talmente forte da annebbiarmi la vista. A che punto della scala mi trovavo? I miei piedi erano saldi? Stavo per scivolare? Aggrappata al piolo con entrambe le mani, mi premetti le nocche contro la fronte. «Respira» dissi a me stessa. «Respira!» E poi lo sentii. Il lento, straziante rumore del metallo che cigola. Chiusi gli occhi per combattere un attacco di vertigini. I sostegni di metallo che sorreggevano la parte superiore della scala si staccarono dal muro. Il cigolio si trasformò in un suono acuto, mentre anche la successiva coppia di sostegni saltava via. Con un grido bloccato in gola, vidi che tutta la metà superiore della scala si staccava. Afferrai la scala con braccia e gambe, preparandomi a cadere indietro. La scala oscillò per un momento, quindi si arrese alla forza di gravità. E poi accadde tutto in fretta. Le travi e i lucernari si trasformarono in una macchia indistinta e io volai giù finché, improvvisamente, la scala si fermò di colpo. Oscillò un paio di volte, a dieci metri da terra. Le gambe persero l'appiglio e restai aggrappata solo con le mani. - Aiuto! - gridai, agitando le gambe nel vuoto. La scala traballò e si abbassò ancora di qualche metro. Una delle scarpe si sfilò, si fermò un attimo trattenuta dalle dita, poi cadde. Dopo un tempo interminabile, colpì il pavimento della palestra. Mi morsi la lingua per resistere ai dolore che provava alle braccia, sempre più insopportabile: sembrava che si stessero staccando dal corpo. E poi, in mezzo alla paura e al panico, sentii la voce di Patch. «Blocca le immagini. Continua a salire. La scala è intatta.» - Non posso - singhiozzai. - Cadrò! «Blocca le immagini. Chiudi gli occhi e ascolta la mia voce.» Deglutii e mi costrinsi a chiudere gli occhi. Aggrappata alla voce di Patch, sentii che sotto di me prendeva forma qualcosa. Smisi di muovere le gambe perché adesso sentivo uno dei pioli ben saldo sotto le piante dei piedi. Concentrai tutta la mia attenzione sulla voce di Patch e aspettai che il mondo si rimettesse a posto. Ero sulla scala, ed era dritta, attaccata solidamente alla parete. Riacquistai sicurezza e ripresi a salire. Arrivata in cima, mi spostai con cautela sulla trave più vicina. L'afferrai con le braccia, quindi portai su la gamba destra e la agganciai. Cosi avevo la parete di fronte e il pozzo di aerazione alle spalle, ma ormai non potevo farci niente. Con molta attenzione, mi misi in ginocchio e, cercando di non perdere la concentrazione, iniziai a indietreggiare lentamente, sopra quell'immensa palestra. Ma era troppo tardi. Jules si era arrampicato e al momento si trovava a meno di cinque metri da me. Sali anche lui sulla trave e si avvicinò a me. Una macchia scura all'interno del suo polso attirò la mia attenzione. Si sovrapponeva alle vene formando un angolo di novanta gradi ed era quasi nera. A chiunque altro poteva sembrare solo una cicatrice. Per me, invece, aveva un significato molto più preciso. Il legame di famiglia era evidente. Avevamo lo stesso sangue e quel segno scuro ne era la prova. Eravamo entrambi a cavalcioni della trave, faccia a faccia. Ormai solo pochi metri ci separavano uno dall'altra. - Vuoi pronunciare le tue ultime parole? - disse Jules. Guardai giù, nonostante le vertigini. Patch era lontano. sul pavimento della palestra, immobile. In quell'istante, avrei voluto tornare indietro nel tempo e rivivere ogni momento passato insieme. Un altro sorriso segreto, un'altra risata. Un altro bacio elettrico. Trovarlo era stato come trovare qualcuno che non sapevo di cercare. Era arrivato troppo tardi nella mia vita e ora mi stava abbandonando troppo presto. Mi ricordai di quando aveva detto che avrebbe rinunciato a tutto per me. L'aveva già fatto. Aveva rinunciato a un corpo umano perché io vivessi. Barcollai e, d'istinto, mi abbassai per non perdere l'equilibrio. La risata di Jules arrivò come un freddo sussurro. - Per me è lo stesso. Spararti o lasciarti precipitare, non fa differenza. - Invece fa differenza - dissi, la voce sommessa ma sicura. - Tu e io abbiamo lo stesso sangue -. Alzai maldestramente la mano e gli mostrai la voglia. - Sono la tua discendente. Se sacrifico il mio sangue, Patch diventerà umano e tu morirai. È scritto nel Libro di Enoch. Gli occhi di Jules erano completamente bui. Erano puntati su di me e assorbivano ogni mia parola. Dalla sua espressione, intuivo che le stava soppesando. Poi arrossì di colpo e allora capii che mi credeva. - Tu... - farfugliò. Strisciò verso di me a una velocità pazzesca e, contemporaneamente, cercò di afferrare la pistola. Gli occhi mi si riempirono di lacrime bollenti. Non c'era tempo per i ripensamenti. Mi lasciai cadere. 30 Una porta si aprì e si richiuse. Aspettai di sentire dei passi avvicinarsi, ma l'unico suono nel silenzio era il ticchettio di un orologio. Il suono andò affievolendosi. Mi chiesi se si sarebbe interrotto del tutto. Temevo che succedesse, perché non sapevo cosa aspettarmi dopo. Poi un suono diverso, più simile a una vibrazione, eclissò quello dell'orologio. Era rassicurante, etereo, come una danza melodiosa. «Ali» pensai. «Vengono a prendermi.» Trattenni il respiro e aspettai aspettai, aspettai. E poi l'orologio iniziò ad andare all'indietro. Invece di rallentare, il barrito aumentava. Una spirale liquida si formò dentro di me e iniziò a scendere, sempre più in profondità. Mi sentii risucchiata dalla corrente. Scivolavo, in un posto scuro e caldo. Sbattei le palpebre e aprii gli occhi sui familiari pannelli di quercia. La mia camera. Fui inondata da un senso di contorto e poi mi ricordai dove avevo trascorso i mici ultimi momenti di lucidità. In palestra con Jules. Fui scossa da un brivido. - Patch? - dissi, la voce roca. Cercai di mettermi seduta, ma mi sfuggi un grido soffocato. Il mio corpo aveva qualcosa di strano. Ogni singolo muscolo, osso, cellula mi faceva male. Mi sentivo un gigantesco livido. Notai un movimento vicino alla porta. Patch era appoggiato allo stipite. Aveva la bocca chiusa e priva della sua solita piega ironica. Gli occhi avevano una profondità mai vista prima, erano penetranti e protettivi. - Ề stata una bella lotta quella in palestra - disse. Comunque credo che ti farebbe bene prendere qualche altra lezione di boxe. Come un'onda, tutti i ricordi mi tornarono in mente e non riuscii a trattenere le lacrime. - Cos'è successo? Dov'è Jules? Come sono arrivata qui? -. La mia voce era rotta dal panico. - Mi sono buttata giù dalla trave. - C’è voluto molto coraggio -. La voce di Patch diventò rauca. Entrò nella stanza e chiuse la porta. Capii che era il suo modo per cercare di chiudere fuori rutto il male: stava mettendo un muro tra me e tutto quello che era successo. Si avvicinò e si sedette sul letto, accanto a me. - Che cos'altro ricordi? Cercai di ricomporre i frammenti di memoria andando a ritroso. Ricordavo il battito d'ali che avevo sentito subito dopo essermi lanciata nel vuoto. Sapevo di essere morta. Sapevo che un angelo era venuto a portare via la mia anima. - Sono morta, vero? - mormorai, impaurita. - Sono un fantasma? - Quando hai saltato, il tuo sacrificio ha ucciso Jules. Tecnicamente, quando sei tornata avrebbe dovuto tornare anche lui. Siccome, però, non aveva un'anima, non c'era nulla che potesse far rivivere il suo corpo. - lo sono tornata? - dissi, sperando di non essermi illusa inutilmente. - Non ho accettato il tuo sacrificio. L'ho rifiutato. Sentii che la mia bocca formava un «Oh» che non arrivò mai alle labbra. - Stai dicendo che hai rinunciato ad avere un corpo umano per me? Lui mi sollevò la mano fasciata. Sotto la garza, le nocche pulsavano per il dolore. Patch baciò ogni dito, con calma, senza staccare gli occhi da me. - A cosa mi serve un corpo, se non posso avere te? Lacrime più abbondanti mi scivolarono sul viso. Patch mi attirò a sé e mi nascose la testa contro il suo petto. Lentamente, il panico si allontanò e capii che era tutto finito. Sarebbe andato tutto bene. Invece, a un tratto, mi tirai indietro. Se Patch aveva rifiutato il sacrificio... - Mi hai salvato la vita. Voltati - ordinai con una certa solennità. Patch mi rivolse un sorriso complice e obbedì. Gli alzai la maglietta fino alle spalle: la schiena era liscia, perfetta. Le cicatrici erano sparite. - Non puoi vedere le ali - spiegò. - Sono fatte di materia spirituale. - Sei un angelo custode, adesso -. Provavo una tale soggezione da non rendermi pienamente conto della cosa, però ero stupefatta, curiosa... felice. - Sono il tuo angelo custode. - Ho un angelo custode tutto mio? E qual è esattamente il tuo compito? - Custodire il tuo corpo -. Il suo sorriso divenne più ampio. - Prendo il mio lavoro molto sul serio, il che significa conoscere il soggetto molto da vicino. Di nuovo le farfalle nello stomaco. - Questo significa che adesso puoi provare delle sensazioni? Patch mi guardò in silenzio per un momento. - No, ma non sono più nella lista nera. Di sotto, si udì il rumore della porta del garage. - Mia madre! - esclamai. Guardai l'orologio sul comodino: erano appena passate le due del mattino. - Devono avere riaperto il ponte. Come funziona questa cosa dell'angelo custode? Posso vederti solo io? Cioè, per tutti gli altri sei invisibile? Patch mi fissò come se sperasse che non dicessi sul serio. - Non sei invisibile? - strillai. - Esci subito di qui! -. Cercai di spingere via Patch dal letto ma un dolore lancinante alle costole mi bloccò. - Se ti trova qui mi ammazza. Puoi arrampicarti sugli alberi? Dimmi che puoi arrampicarti sugli alberi! Patch rise. - Posso volare. Oh. Bene. Fantastico. - Prima sono venuti la polizia e i vigili del fuoco - spiegò Patch. - La camera da letto di tua madre dovrà essere ricostruita, ma hanno domato l'incendio. I poliziotti torneranno per farti alcune domande. Scommetto che hanno già provato a cercarti al cellulare da cui hai chiamato il 911. - L'ha preso Jules. Annuì. - Me l'immaginavo. Non importa quello che racconterai alla polizia, ma ti sarei prato se mi lasciassi fuori da questa storia -. Aprì la finestra. - Un'ultima cosa, Vee e riuscita a chiamare la polizia in tempo e i paramedici hanno salvato Elliot. È in ospedale, ma si riprenderà presto. Nel frattempo, al pianterreno, sentii chiudersi la porta d'ingresso. Mia madre era entrata. - Nora? - chiamò. Gettò la borsa e le chiavi sul tavolino dell'ingresso. I tacchi riecheggiarono sul parquet, il passo svelto. - Nora! C'è il nastro della polizia sulla porta! Cosa sta succedendo? Guardai la finestra. Patch se n'era andato, ma sul vetro c'era una piuma nera, forse portata li dal temporale della sera prima. O dalla magia di un angelo. Mia madre accese la lampada dell'ingresso, C un leggero raggio di luce arrivò fino alla mia camera passando dalla fessura sotto la porta. Trattenni il respiro e contai i secondi. Uno, due... - Nora! - urlò. - Cos'è successo alla ringhiera? E non aveva ancora visto la sua camera da letto. Il cielo era terso, di un blu perfetto. Il sole iniziava a rischiarare l'orizzonte. Era lunedì, l'alba di un nuovo giorno, gli orrori del passato a ventiquattr'ore di distanza. Avevo cinque ore di di sonno all'attivo e, a parte il dolore diffuso provocato dall'essere stata risucchiata dalla morte e poi risputata fuori, mi sentivo stranamente riposata. Non volevo gettare una nuvola nera su quel momento pensando che di li a poco sarebbe arrivata la polizia a raccogliere la mia deposizione sui fatti della sera prima. Non avevo ancora deciso che cosa avrei raccontato. Andai in bagno ancora in camicia da notte e censurai mentalmente la domanda su come avessi fatto a cambiarmi, visto che quando Patch mi aveva riaccompagnata a casa si supponeva avessi ancora i vestiti addosso. Così iniziai la giornata come sempre. Raccolsi i capelli con un clastico. Mi lavai i denti e poi il viso con l'acqua fredda. Quindi tornai in camera, dove indossai una maglietta pulita e un paio di jeans. Chiamai Vee. - Come stai? - chiesi. - Bene, e tu? - Bene. Silenzio. - Okay, sono ancora completamente sconvolta. Tu? disse Vee tutto d'un fiato. - Completamente. - Patch mi ha chiamato nel cuore della notte. Ha detto che Jules ti aveva picchiata, ma che stavi bene. - Davvero? Patch ti ha chiamata? - Ha chiamato dalla jeep. Ha detto che dormivi sul sedile posteriore e che ci stava riportando a casa. Ha detto che passava davanti a scuola quando ha sentito urlare, è entrato e ti ha trovata in palestra, svenuta. Poi ha guardato in alto e ha visto Jules buttarsi giù dalle travi. Ha detto che probabilmente è andato fuori di testa: il senso di colpa per averti terrorizzata l'ha ucciso. Non mi resi conto che stavo trattenendo il respiro finché non lo lasciai andare. Ovviamente, Patch aveva manipolato un po' di dettagli, - Sai che non me la bevo - prosegui Vee. - Sai anche quello che penso: Patch ha ucciso Jules. Al posto di Vee, probabilmente avrei pensato la stessa cosa. - Che cosa dice la polizia? - domandai. - Accendi la televisione. Non fanno altro che parlarne, in questo momento sono in diretta. Dicono che Jules si è introdotto a scuola e si è suicidato. L'hanno definita una tragedia giovanile. Chiedono a chiunque abbia informazioni di chiamare il numero sullo schermo. - Cos'hai detto alla polizia quando hai chiamato? - Avevo paura. Non volevo essere arrestata per effrazione e violazione di domicilio, quindi ho fatto una telefonata anonima da una cabina. - Bene - dissi alla fine - se la polizia pensa che si tratti di suicidio, probabilmente è andata così. Dopotutto, oggi in America abbiamo la polizia scientifica. - Mi stai nascondendo qualcosa - dichiarò Vee. - Cos'è successo veramente dopo che me sono andata? Questa fu la parte più difficile. Vee era la mia migliore amica e il nostro motto era "niente segreti". Però ci sono cose impossibili da spiegare. Il fatto che Patch fosse stato un angelo caduto e al momento fosse un angelo custode era una di quelle. Subito dopo, c'era il fatto che ero saltata giù da una trave altissima ed ero morta» eppure ero ancora viva. - Ricordo che Jules mi ha intrappolata in palestra confessai. - Mi ha spiegato tutto il dolore e la paura che aveva intenzione di infliggermi. Dopodiché, ho solo dei vaghi ricordi. - È troppo tardi per chiederti scusa? - chiese Vee. Sembrava più sincera di quanto non lo fosse mai stata. Avevi ragione su Jules e Elliot. - Scuse accettate, - Dovremmo andare al centro commerciale - continuò. - Sento una necessità irrefrenabile di comprare delle scarpe. Tante scarpe. Quello di cui abbiamo bisogno è !a buona, cara, vecchia shopping-terapia. Suonò il campanello e diedi un'occhiata all'orologio. - Devo parlare con la polizia a proposito di ieri sera. - Ieri sera? - esclamò Vee in preda al panico. - Sanno che eri a scuola? Non hai fatto il mio nome, vero? - Be', veramente si tratta di un'altra cosa, successa prima -. Qualcosa di nome Dabria. -Ti chiamo dopo -. Riattaccai al volo, per evitare di dovermi inventare una spiegazione. Percorsi il corridoio a fatica e arrivai in cima alle scale. Stavo per scendere, quando vidi chi erano le persone che mia madre aveva fatto entrare. I detective Basso e Holstijic. Li fece accomodare in soggiorno. Il detective Holstijic crollò sul divano, il suo collega invece rimase in piedi. Era di spalle quando arrivai, ma il pavimento scricchiolò sotto i miei piedi e lui si voltò. - Nora Grey - disse. - Ci incontriamo di nuovo. Mia madre lo guardò stupita. - Vi conoscete? - Sua figlia ha una vita molto movimentata. Praticamente siamo qui ogni settimana. Mia madre mi rivolse uno sguardo interrogativo e io mi strinsi nelle spalle, come se non sapessi di che cosa stesse parlando, come se volessi suggerirle: «Umorismo da poliziotti?». - Perché non ti siedi, Nora, e ci racconti cos'è successo? propose il detective Holstijic. Presi posto in una delle poltrone di fronte al divano. - Ieri sera, poco prima delle nove, ero in cucina a bere un bicchiere di latte quando è spuntata la signorina Greene, la psicologa della scuola. - Si è introdotta in casa tua? - chiese il detective Basso. - Mi ha detto che avevo una cosa che voleva. Sono corsa di sopra e mi sono chiusa a chiave nella camera da letto di mia madre. - Fai marcia indietro - disse il detective Basso. - Che cos'era questa cosa che voleva? - Non l'ha detto. Però mi ha detto che non era una vera psicologa e che usava il suo lavoro per spiare gli studenti -. Guardai prima uno e poi l'altro. - E pazza, vero? I due detective si scambiarono un'occhiata. - Controllerò il suo nome, e vedrò cosa riesco a trovare dichiarò il detective Holstijic alzandosi. - Fammi capire - insistè il collega. - Ti ha accusata di averle rubato qualcosa di suo, ma non ti ha detto cosa? Altra domanda difficile. - Era isterica. Ho capito la metà di quello che ha detto. Sono corsa a chiudermi in camera da letto, ma lei ha buttato giù la porta. Ero nascosta nel camino quando ha detto che avrebbe dato fuoco alla cosa stanza per stanza finché non mi avesse trovata. Poi ha appiccato il fuoco. - Come ha fatto ad appiccare il fuoco? - mi chiese mia madre. - Non l'ho visto, ero nascosta nella canna fumaria. - È una cosa senza senso - mormorò il detective Basso scuotendo la testa. - Non ho mai visto niente del genere. - Tornerà? - domandò mia madre. Si avvicinò a me posandomi le mani sulle spalle. - Nora è al sicuro? - Forse sarebbe prudente installare un sistema d'allarme-. Il detective Basso aprì il portafogli e porse un biglietto a mia madre. - Posso garantire su questi ragazzi. Dica loro che la mando io e le faranno uno sconto. I detective erano andati via da qualche ora, quando suonò di nuovo il campanello. - Dev'essere il tecnico dei sistemi d'allarme - disse mia madre. - Mi hanno detto che avrebbero mandato qualcuno già oggi. Non sopporto l'idea di dormire senza protezione finche non trovano quella Greene e la rinchiudono. La scuola non si è neanche preoccupata di controllare le sue referenze? -. Aprì la porta e, nella veranda, c'era Patch. Indossava un paio di Levi's sbiaditi e una maglia bianca a maniche lunghe. E teneva una cassetta degli attrezzi in mano. - Buon pomeriggio, signora Grey. - Patch -, Non riuscii a interpretare bene il tono di mia madre. Sorpresa mista a sconcerto. - Sei qui per Nora? Lui sorrise. - Sono qui per il nuovo sistema d'allarme. - Credevo facessi altro - disse mia madre. - Credevo che lavorassi al Borderline. - Ho un nuovo lavoro -. Patch mi guardò negli occhi e io avvertii una sensazione di calore in un sacco di pósti; ero quasi febbricitante. - Puoi uscire? - mi chiese. Lo seguii fino alla moto. - Abbiamo ancora molto di cui parlare - dissi. - Parlare? -. Scosse il capo, gli occhi pieni di desiderio. «Baciami» sussurrò alla mia mente. Non era una domanda, era un avvertimento. Sorrise quando vide che non avevo intenzione di protestare, e avvicinò la sua bocca alla mia. Il primo contatto non fu altro che quello: un contatto. Una tenerezza giocosa, allettante. Mi passai la lingua sulle labbra e il sorriso di Patch si allargò. - Ancora? - chiese. Gli presi la testa tra le mani, affondai le dita nei suoi capelli e lo attirai a me. - Ancora. RINGRAZIAMENTI Grazie a Caleb Warnock e ai miei compagni del corso Writing in Depth; non avrei potuto desiderare amici più sinceri per questo viaggio. Un grazie di cuore a Laura Andersen, Ginger Churchill e Patty Esden, che non mi hanno mai abbandonata e sono sempre state sincere (anche quando non ero io a chiederlo). Un ringraziamento speciale a Eric James Stone per aver dato il tocco finale. Devo ringraziare anche Katie Jeppson, Ali Eisenach, Kylie Wright, Megan e Josh Walsh, Lindsey Leavitt e Riley e Jace Fitzpatrick, per tutto quello che hanno fatto babysitting, informazioni sulle procedure chirurgiche, discussioni critiche - e per la loro immeritata pazienza. E stato davvero divertente lavorare con Emily Meehan, la mia esperta editor, e i molti amici della Simon and Schuster BFYR, che mi hanno incoraggiata e hanno lavorato dietro le quinte per far sì che tutto questo potesse avvenire - Justin Chanda. Anne Zafian, Courtney Bongiolatti, Dorothy Gribbin, Chava Wolin, Lucy Ruth Cummins, Lucilie Renino, Elicti Villa, Chrissy Nob, Julia Maguire e Anna McKean. Grazie! Sono particolarmente grata a Catherine Drayton per essere entrata nella mia vita proprio nel momento giusto. Grazie per avermi fatta arrivare fin qui. Non dimenticherò mai la telefonata con la quale mi hai comunicato che il mio libro era stato venduto- Grazie a James Porto per una copertina che è andata ben oltre le mie aspettative. E un grosso ringraziamento anche alla mia redattrice, Valerie Shea. Ma più di tutti, ringrazio mia madre. Di Tutto.