India d`autore Vista su Calcutta

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India d`autore Vista su Calcutta
India d'autore Vista su Calcutta
Uno scrittore racconta la metropoli indiana di oggi, tra storia, globalizzazione, e contraddizioni
del Bengala
di Amit Chaudhuri
Dal mio salotto con balcone, la vista su questo pezzo meridionale di Calcutta è ingannevolmente
tranquilla. Sarà che il "pezzo" in questione è una delle zone benestanti, ma da qui non si
percepiscono i sommovimenti e i traumi storici che hanno animato la città, rendendola, nel
diciannovesimo e per buona parte del ventesimo secolo, la metropoli più interessante dell'India,
nonché una delle grandi città del mondo. E che infine, dagli anni Ottanta in poi, l'hanno
marginalizzata in modo così eclatante. La prima cosa che vedo è una varietà di alberi: il cosiddetto
"albero di fuoco" - il gulmohur - e quello più basso del baniano, più molti altri, ciascuno
nettamente diverso. Sono un promemoria di quanto il Bengala sia stato e resti fertile e
verdeggiante, e del perché la canzone (quasi un inno nazionale) scritta da un bengalese nel 1882, si
apra con le parole "Sujalam suphalam malayaja sheetala / Sarsha shyamalam vande mataram",
ovvero "Ricca d'acqua, frutti e venti freschi/ E di ondeggianti campi verde scuro: salute a te, mia
patria". È evidente che l'autore, Bankimchandra Chatterjee, si riferisse al Bengala, anche se è
opinione comune che la canzone parli dell'India. Il Bengala che sopravvive ancora nel panorama su
cui affacciano le mie grandi finestre, e lo stesso vale per le ville signorili sorte un secolo fa, con i
loro grandi tetti terrazzati, emblema dell'ascesa e dell'estensione, allora, di questa città moderna
nel cuore del Bengala rurale. La maggior parte, però, sono scomparse, rimpiazzate da alti edifici
che un tempo a Calcutta erano rari, per via del soffice suolo alluvionale. Oggi il problema si può
aggirare con la tecnologia, e il fatto che le vecchie case vengano distrutte da imprenditori edili avidi
è diventato la norma. I palazzoni sono l'unico segno di movimento, cambiamento e inquietudine
che si scorge dal mio appartamento: la graduale, sommessa e inesorabile distruzione della
"vecchia" Calcutta. Dall'epoca della Tata al cambiamento L'altra cosa che da questo salotto è
difficile cogliere o misurare è il senso di delusione che si è nuovamente impossessato della città.
Per una metropoli così frenetica, la situazione sembra relativamente quieta. Ma non lo è mai stata
- il caos e l'anarchia di Calcutta sono tra i motivi che mi hanno attirato qui - e decisamente non lo è
ora. Nel 2011 è avvenuto un mutamento politico di grande rilievo. Il governo del Left Front,
guidato dai marxisti, salito al potere nel 1977 e affermatosi in sette tornate elettorali, era a lungo
apparso impossibile da rovesciare. Il suo successo derivava in parte dalla rivoluzionaria riforma
agraria che aveva redistribuito le terre ai mezzadri, sottraendole ai proprietari. Il Left Front rimase
fedele alla visione rurale di quella che Bankimchandra aveva definito una terra "ricca d'acqua, frutti
e venti freschi", almeno finché, negli anni Novanta, in un un'India che dopo la liberalizzazione
economica stava attraversando trasformazioni quasi mostruose, una simile visione non è diventata
impraticabile. Con l'inizio del nuovo millennio, il paese si è ritrovato nella disperata necessità di
rivitalizzare quell'industria che, grazie a un sindacalismo militante, per decenni era stata
sistematicamente osteggiata dallo stato. E la Nano dell'industriale Ratan Tata - l'"automobile più
piccola del mondo" - diventò un simbolo del nuovo Bengala governato dal Left Front. Anche se per
creare vicino a una cittadina di nome Singur il lotto di 403 ettari su cui sarebbero sorti gli
stabilimenti della Nano, sono state strappate terre a quegli stessi contadini cui un tempo il Left
Front le aveva "redistribuite". La cosa ha generato un'ondata di risentimento e protesta. Il partito
d'opposizione, il Trinamul (letteralmente, "dal basso") Congress, guidato dall'irascibile Mamata
Banerjee (la prima personalità politica femminile di spicco del Bengala), ha sfruttato appieno
quello che è percepito come il fallimento ideologico del Left Front, la sua ambiguità morale,
contribuendo ad allontanare la Tata dal Bengala. E con le elezioni del 2011 è riuscito a togliere il
potere a quel Left Front che sembrava esserne diventato il detentore naturale. Lo slogan da una
sola parola di Banerjee era molto semplice, ma anche molto azzeccato per una città e uno stato
divenuti marginali ed economicamente inappetibili: paribartan, cambiamento. Visto che il Trinamul
Congress non aveva un programma chiaro, se non quello di spodestare il Left Front, in cosa
dovesse consistere il cambiamento in questione non era chiaro. Ciascuno dava al termine la
propria interpretazione personale. C'era però il desiderio profondo, nella gente, di un Bengala che
non fosse più ostaggio dell'ideologia e dalla faziosità del Left Front, che parevano aver contagiato
quasi ogni aspetto della vita civile, comprese istituzioni scolastiche d'élite come il Presidency
College e la University of Calcutta. Il Trinamul è salito al potere, e il semplice fatto che fosse
avvenuto un cambiamento almeno amministrativo, è stato ritenuto motivo d'ottimismo. Nel giro di
un anno è però divenuto chiaro che non ci sarebbe stato alcun vero paribartan, se non in termini di
gesti assurdi. Mamata Banerjee, per via della sua avversione al colore rosso (quello del marxismo),
ha stabilito che gli spazi pubblici come ponti, palazzi governativi, parapetti lungo le strade, e
addirittura i bagni pubblici, venissero dipinti di bianco e azzurro. Per il resto, ha cominciato a
mostrare un'intolleranza al dissenso democratico e alla libertà di parola anche maggiore di quella
dei predecessori. Mentre scrivo, alcuni membri del suo partito sono coinvolti un caso - a basso
livello, ma estremamente diffuso - di frode finanziaria, una sorta di schema Ponzi mediante il quale
milioni di investitori del ceto basso sono stati derubati dei loro risparmi. Questi tradimenti, questi
cambiamenti, o anche solo questo rifiuto a cambiare davvero, non si scorgono dalle mie finestre.
Come ho già detto, l'unico segnale di movimento, in ciò che vedo quando mi affaccio ha a che fare
con i nuovi edifici che sorgono in continuazione: palazzi di appartamenti e - più in là, invisibili da
qui - le zone residenziali, con le loro spa e le palestre e i negozi; e poi i centri commerciali e i
multisala. Città dentro la città, la cui ambizione è fungere da microcosmo per l'India globalizzata,
con la sua proliferazione di nuovi marchi e transazioni commerciali, al tempo stesso negando o
annullando la città, Calcutta, in cui sono collocate: una città ancora problematica, e che resiste alla
globalizzazione. Molti di questi centri commerciali prendono il posto di case del ceto medio,
vendute e distrutte al prezzo del terreno su cui sorgono. Case a due o tre piani, costruite tra i
sessanta e i cent'anni fa. Un tempo occupate da una borghesia (bhadralok, letteralmente "persona
civile") che ormai da tre decenni ha dovuto trasferirsi in altre zone del paese e del mondo,
abbandonando le proprie case alla distruzione.Queste case si somigliano: portefinestre con le
imposte di legno, pavimenti in pietra rossa, lunghi balconi e tetti terrazzati su cui stendere il
bucato. Eppure non sono identiche: ciascuna ha una qualche mutazione rispetto alle altre. Perché
queste case sono importanti? Perché ci viveva l'uomo comune, il moderno bhadralok, né re né
povero, che amava leggere e scrivere, far musica, studiare materie scientifiche e dare esami. Prima
che emergesse questo tipo di individuo, il Bengala non occupava un vero posto nella storia. Il
bengalese compare dal nulla, quando la colonialista Compagnia delle Indie orientali fece di
Calcutta la capitale dell'India, nonché "seconda città dell'Impero britannico". Emerge una nuova
categoria umana, frutto di strane mescolanze, come ci ricordano le case in cui vive, col miscuglio di
pavimenti in pietra rossa, inferriate, verande. È un mondo che produce poeti (Tagore), registi
(Satyajit Ray), musicisti (Ravi Shankar), scienziati (Satyen Bose, la cui statistica di Bose-Einstein ha
spianato la strada alla meccanica quantistica, e dal quale prende nome il bosone), analisti
(l'economista Amartya Sen). Ma più ancora, ha dato vita a un certo modello di normalità borghese
che la città un tempo custodiva gelosamente. Questa fioritura, talvolta definita Rinascimento
bengalese, non ha lasciato monumenti, se non queste case a due piani, che adesso vengono rase al
suolo per lasciar spazio a zone residenziali e centri commerciali, le microcittà della globalizzazione.
Personalmente non nutro avversione per i centri commerciali, ma è davvero necessario che la città
moderna, con le sue caratteristiche case fatiscenti, e la città globalizzata siano inconsciamente in
contrasto tra loro? Lo spettacolo delle vite sovrapposte A Calcutta il tipico quartiere del ceto
medio, o benestante, segnato dalla modernità delle grandi città indiane, presenta una
sovrapposizione di vite d'ogni genere. Qui vicino, dove svolta la strada in cui abito, Sunny Park, è
sorto un nuovo condominio dalle macerie della villa che c'era prima. I suoi appartamenti costano
un sacco di soldi. Accanto ci sono le Sunny Towers, altro complesso residenziale di lusso, al cui
primo piano l'ottima galleria d'arte CIMA ospita i nuovi lavori di artisti che vivono o passano in
città. Davanti a queste costruzioni svetta un grande albero generoso d'ombra, sotto il quale un
signore sottile come un fuscello, dorme su due strisce di cartone. Il più delle volte è troppo debole
per fare altro. È facile non accorgersi della sua presenza. Accanto a lui c'è un chioschetto di tè dove
chi fa le pulizia negli appartamenti di Sunny Park si ritrova a fumare o a farsi radere da uno
scrupoloso barbiere che lavora accovacciato. Nemmeno loro notano il signore disteso. L'ho notato
io un giorno, ricavandone la biografia in breve: lavorava come cuoco in una casa di Broad Street,
finché i proprietari hanno chiuso tutto e se ne sono andati. Da allora campa dell'elemosina di un
uomo d'affari che abita poco più in giù. Arrivando in fondo a Sunny Park Road e svoltando a destra,
si nota come un certo tipo di attività o di esistenza minacci costantemente di fondersi con gli altri.
Può essere sconfortante, a volte, ma resta uno spettacolo unico. Proseguendo a piedi fino a
Gariahat Road, per esempio, si vede un cavalcavia di costruzione recente, con le macchine che
sfrecciano davanti a verande e finestre al secondo piano (come i tram sfioravano la gente che
mangiava sui marciapiedi in Amarcord di Fellini, rischiando di travolgerla). Sotto il cavalcavia viene
sfruttato ogni centimetro di spazio disponibile: una parte è adibita a parcheggio, un'altra offre
riparo a famiglie di senzatetto con i grandi sacchi in cui tengono i loro averi. Più avanti si vedono
uomini immersi in partite di scacchi, sommessamente teatrali e ironicamente ignari del mondo che
li circonda. Come evitare che questa città vi sfugga È sempre stata così, la città, anche nel suo
ultimo momento di splendore alla fine degli anni Sessanta, anche se allora in modo meno estremo:
ma non esisteva un confine netto tra i quartieri della classe media e la vita delle classi inferiori.
Come avrebbe potuto? Mio zio (un imprenditore fallito) abitava in una casa che aveva quegli stessi
pavimenti rossi e quelle finestre con le imposte in legno. Le persone che gliela tenevano pulita
vivevano nel basti, la baraccopoli lungo la ferrovia che si intravede in lontananza: vedevamo
passare i treni postali, ma non la baraccopoli oltre i binari. Bambini e adulti del basti venivano alla
fontana che c'era nella via di mio zio, azionavano la leva, raccoglievano l'acqua, e si lavavano
energicamente con un sapone da poco. Questo atto di gioioso egocentrismo era uno degli
spettacoli della mia infanzia quando venivo in visita da Bombay, dove sono cresciuto, e anche se
oggi è più raro, qualche volta in estate capita ancora di vederlo. Accostamenti e convergenze come
queste non sono consentite nelle micro-città della Calcutta odierna, quelle dei centri commerciali e
dei multisala. L'obbiettivo di queste città nella città è proprio porre fine a certe sovrapposizioni
fluide ma non gradite. Sì, poveri e ricchi benestanti si ritrovano nei centri commerciali, prendono
gli stessi ascensori, gli uni come gli altri in jeans e maglietta. Ciò nonostante, si capisce chi è povero
anche a distanza, da una certa famigliarità forzata con il cuore del centro commerciale, dalla
dozzinalità caricaturale dei loro abiti alla moda. Va da sé che certi dettagli non si colgono, nella
Calcutta che si vede dal mio salotto. Distogliendo lo sguardo dal panorama e spostandolo
all'interno dell'appartamento, trovereste, in punti non facili da notare, una porta verde con grate in
ferro battuto a forma di fiori di loto, e appese alla parete un paio di portefinestre con le imposte in
legno. Entrambe sono state rimosse da una casa distrutta poco distante. Le ho comprate
dall'impresario edile, e me le sono portate a casa. Questo tentativo di dar loro una seconda vita ha
meno a che vedere con la nostalgia che con un interrogativo: può la vecchia Calcutta della
modernità trovare significati nuovi in altri luoghi? Come racconto nel mio ultimo libro, Calcutta:
Two Years in the City, mostrarle agli ospiti (che il più delle volte non le notano) mi dà modo di
guardarle per l'ennesima volta, ridefinendo la mia collocazione qui. Siccome nel frattempo certi
ospiti l'hanno letto, cominciano a chiedermi di vedere la porta e le finestre. In questo modo
curioso, impariamo a guardare meglio una città che di solito ci sfugge. (Traduzione di Matteo
Colombo) - Amit Chaudhuri, scrittore indiano, ha pubblicato quest'anno Calcutta: Two Years in the
City. Il suo romanzo più celebre è The immortals.