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Anno XIII - N.73 -Settembre-Ottobre 2007
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Anno XIII
Bimestrale edito da La Libera Compagnia Padana
73
Settembre-Ottobre 2007
In questo numero:
Tibet
Catalogna
Padania
Padani
e italiani
nella guerra
di secessione
americana
Mario
Costa Cardol:
articoli
La Libera Compagnia
Padana
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La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara
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Sui Quaderni sono stati pubblicati interventi di:
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I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti a
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Periodico Bimestrale
Anno XIII - N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
Tibet Catalogna Padania - Corrado Galimberti
1
Padani e italiani nella guerra di secessione
americana - Gilberto Oneto
6
● Mario Costa Cardol: articoli pubblicati su “La Padania”
Albanesi, italiani per sole mille lire
“La Padania”, 26 aprile 1998
Un “Eurorigurgito” di Grandeur
“La Padania”, 3 giugno 1998
Monza, 1900: “A morte il tiranno!”
“La Padania”, 29 luglio 1998
L’unità d’Italia? Davvero un magro affare
“La Padania”, 19 agosto 1998
La marina italiana, un mito da sfatare
“La Padania”, 16 e 20 settembre 1998
Schizzi alla brava sull’invasione
del nostro continente
da parte dei popoli extra-europei
“La Padania”, 7, 14 e 21 febbraio 1999
L’Asse Roma-Berlino? Concepito nel 1919
“La Padania”, 3 marzo 1999
Farini e Cassinis, due tragedie all’italiana
“La Padania”, 28 aprile 1999
Emigrazione padana
“La Padania”, 23 e 30 giugno 1999
Biblioteca Padana
La Rubrica Silenziosa
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Tibet Catalogna Padania
di Corrado Galimberti
C
i sono popoli che hanno subito, e stanno
tuttora subendo, le peggiori nefandezze
mente umana possa concepire, ma che resistono a testa alta contro coloro che li vogliono
spazzar via, a volte fisicamente, più spesso culturalmente e socialmente, assimilandoli al modus vivendi di altri.
Ci sono popoli che, probabilmente, posseggono
una marcia in più rispetto ad altri. Per ragioni
culturali, religiose, storiche, politiche – certo ma le cause non modificano questo dato di fatto.
Una qualità che alcuni hanno, e molti altri
hanno perso o non hanno mai avuto, si chiama
dignità. E la dignità contempla tutta una serie di
altri vantaggi grazie ai quali un popolo, anche di
fronte a un governo cinico e aggressivo, a forze
di polizia violente, a un esercito disumano - anzi
no, molto umano, dal momento che gli animali
certe nefandezze non possono proprio concepirle - anno dopo anno, decennio dopo decennio, sa
alzare la testa e andare orgoglioso delle proprie
specificità. E le coltiva. Non le vende per un
piatto di lenticchie in cambio del quieto vivere,
del benessere materiale, del “noncipossofarenienteioquindicosacambia”. Ci sono persino popoli che, per difendere se stessi, sono disposti ad
andare in galera in massa.
Spiace doverlo ammettere. Brucia terribilmente. Ai più sensibili verrà da piangere. Ma vista la situazione attuale, bisogna constatare che
tra questi popoli non ci sono i padani.
Le vicende degli ultimi anni, con una Lega
impresentabile da un punto di vista autonomista
(per non parlare di progetti di secessione), alleata con forze che hanno nel nome stesso la negazione di ogni identità locale (cos’altro dire di
Forza Italia?) e assente da tutto quanto possa ricondurre alla difesa delle tradizioni, lo ha confermato palesemente.
Invece, tra i popoli dotati di una certa dignità
ci sono, ad esempio, i tibetani.
L’articolo di Roberto Locatelli, pubblicato sul
numero 71 dei Quaderni Padani, tratteggia perfettamente il dramma del Tibet. Ma al peggio
non c’è mai limite. È notizia recente che in queAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
sti mesi altri 350 mila tibetani sono stati trasferiti a forza dai loro villaggi rurali in ridenti “villaggi socialisti”. Nessuno fiata, nessuno protesta, nessuno indice manifestazioni. Ci mancherebbe altro. I tibetani sono religiosi. Non sono
ricorsi alla resistenza armata. Sono legati così
profondamente alle proprie tradizioni che le
anime bella della sinistra li considerano decisamente reazionari. Ma a giudizi tanto generosi si
sommano gli sguardi di compassione della destra economica, che non capisce proprio come
un popolo possa sottrarsi alla corsa al superfluo
messa a punto dalla modernità e rifiuti caparbiamente di diventare schiavo del consumismo e
della globalizzazione, ormai diventate religioni
obbligatorie in tutto il mondo occidentale. E poi
l’anno prossimo la Cina ospiterà le Olimpiadi.
Quell’immenso gulag a cielo aperto dal nome di
Repubblica popolare, che permette agli imprenditori europei di produrre merce sottocosto in
favore degli occidentali dal cuore d’oro, ma dal
braccino corto, facendo lavorare masse di schiavi, va sempre giustificata. Del resto la Cina è diventato un eccezionale laboratorio per il liberismo di mercato “versione occhi a mandorla”:
un’economia che non viene tanto mossa dalla
domanda e dall’offerta, quanto stimolata dal
manganello e dalle scosse elettriche.
Dal 1950 di tibetani ne sono già morti un milione e 220 mila. Non si sono spenti dopo lunga
malattia. Sono stati aiutati dagli invasori cinesi.
Nel 2007 l’etno e il genocidio procedono a ritmo serrato, anche grazie a quei paesi dove regna
(in teoria) la democrazia parlamentare, ma dove
si acquistano ogni giorno prodotti made in China. Sarà bene tenerlo presente, perché se tutti
noi rinunciassimo ad acquistare i prodotti fabbricati in Cina, quel paese verrebbe messo in seria crisi nel giro di poco tempo. Si chiama boicottaggio. Tanto, per dirsi amici del Tibet è sufficiente solidarizzare a parole col Dalai Lama –
che con quella sorta di saio marrone e rosso è
tanto naif e fa audience - e invitarlo a “Domenica in” quando visita l’Europa per poter vivere
come sempre, all’insegna del motto “tutto va beQuaderni Padani - 1
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ne, madama la marchesa”. Che del resto, unito
all’italico “Franza o Spagna basta che se magna”
sono le linee guida della ridente e soleggiata Repubblica italiana.
Le autorità cinesi, che sanno mentire bene come quelle tricolori, sostengono che i 250 mila
tibetani sfrattati sono stati trasferiti per il loro
bene, per avvicinare pastori e contadini alle
principali arterie stradali e facilitare loro la vita.
Un modo sottile per distruggere il tessuto sociale, religioso e culturale del Tibet consiste infatti
non solo nel demolire monasteri, incarcerare
monaci, stuprare monache (non indossano il
burka quindi i progressisti non hanno nulla da
eccepire, anzi ben gli sta a queste bigotte baciapile in versione buddista), vietare di praticare la
propria religione e parlare la propria lingua.
Consiste anche nella devastazione del territorio
tibetano, sul quale si vanno costruendo strade e
autostrade anche a 4.000 metri, in modo tale
non solo da distruggere il territorio e soffocarlo
di rumori e cemento laddove hanno sempre regnato il silenzio e l’armonia, cardini della riflessiva religione del buddismo tibetano, ma servono anche a portare immigrati - naturalmente cinesi - che riducano in minoranza la popolazione
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locale.
L’organizzazione umanitaria Human Right
Watch ha riferito che la casa nel villaggio socialista, i tibetani sfrattati se la devono pure pagare. E sono obbligati a contrarre mutui di 4.000
euro, una cifra enorme per un popolo con un
reddito medio di 200 euro l’anno.
Inoltre, come i coloni americani sterminarono
i bisonti per ridurre gli indiani alla fame e minarne la cultura, così i cinesi hanno costruito le
case senza stalle per gli yak, quei simpatici quadrupedi pelosi dai quali i tibetani dipendono per
il loro sostentamento. Non perché se li mangino
– molti tibetani la pensano come George Bernard Show, il quale diceva che gli animali erano
suoi amici, e lui, i suoi amici non se li mangiava
- ma perché col burro di yak, mescolato all’orzo
tostato, si prepara il piatto nazionale tibetano.
Geniali, i cinesi. Hanno inventato i deportati
che si devono pure pagare vitto e alloggio nel
luogo di deportazione. Per continuare con la repressione, che ha sortito notevoli risultati nelle
città, ora la battaglia di sradicamento si sta concentrando nelle campagne. Perché è nei villaggi
rurali che la cultura tibetana resiste nonostante
la repressione rossa. I tibetani non mollano. Si
fanno imprigionare. Si fanno stuprare. Si fanno
uccidere. Tutto per non diventare cinesi, atei e
mangiacani.
Tutto questo dovrebbe far inorridire, ma per il
padano medio, tutto casa e bottega, tecnologia e
lavoroproducopagopretendo, forse è pure incomprensibile. Negli ultimi vent’anni, in Tibet,
nonostante un regime comunista soffocante e
violentissimo, si sono succedute più di 100 dimostrazioni contro l’occupazione del regno himalayano. Risultato: oltre 450 morti e migliaia
di persone in prigione per difendere la propria
terra. Nessuno ce lo racconta mai, mentre se in
Medio Oriente qualcuno viene fatto saltare per
aria dobbiamo sorbirci litanie e peana per giorni
interi al Tg e su tutti i giornali politicamente
corretti.
Però anche in Padania - fatte le debite proporzioni - abbiamo avuto i nostri tibetani. E sorge
spontanea una domandina, visto che quest’anno
si celebra il decimo anniversario di un gesto
eroico, di cui nessuno parla più. In quanti, nel
1997, sono scesi in piazza per solidarizzare con i
Serenissimi che occuparono il campanile di San
Marco a Venezia?
In quanti hanno scritto una sola riga ai patrioti veneti ospiti delle galere tricolori?
In quanti hanno protestato di fronte alle imAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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magini degli sbirri italioti che gettavano sprezzanti a terra la bandiera col Leone di San Marco?
Figurarsi. C’era il 740 da compilare.
Del resto, vista anche la grande progettualità
autonomista della Lega Nord, i padani scendono in piazza solo se c’è da protestare per ragioni
di pronta cassa. E tutto ciò sembra francamente
deprimente.
In Padania, anche a causa del partito che ha
fatto tabula rasa in tema di tutto quanto possa
profumare di autonomismo, che ha disorientato
i cittadini autonomisti e secessionisti, che sotto
il profilo del recupero identitario ha prodotto
più danni del più italico tra i nazionalisti italici
si pensa che, una volta ottenuta l’autonomia fiscale (e tra l’altro non si riesce ad avere manco
quella) la Padania rinascerà e il Sole delle Alpi
tornerà a splendere. Però, per quanto siano importanti, anzi fondamentali, le tematiche legate
all’economia, un popolo non resuscita solamente grazie a un maggior benessere economico e
all’amministrazione delle tasse che riesce a trattenere in loco. Anzi. Basti pensare agli slovacchi,
nostri fratelli ai gloriosi tempi dell’Impero
(asburgico, naturalmente), che si sono separati
dalla Cechia pur sapendo che le loro condizioni
economiche sarebbero peggiorate. Ma gli slovacchi hanno ritenuto evidentemente più importante che i colori della loro bandiera brillassero
in modo più intenso delle monete che potevano
condividere con Praga.
Questa visione del mondo in Padania purtroppo non passa.
Oltre ad attirarsi facili e abusate critiche da
parte di chi accusa i padani di egoismo, se si
parla solo ed elusivamente di economia e federalismo fiscale, non si accede all’Olimpo dove siedono i rappresentanti dei popoli in lotta per la
propria identità. E a riprova di questo elementare osservazione va ricordato che la Lega Nord è
stata espulsa dal gruppo che a Bruxelles raggruppa i movimenti autonomisti e secessionisti
d’Europa perché si era (ed è) alleata con forze
che perseguono esattamente il contrario della
difesa delle piccole patrie. Un’espulsione perfettamente legittima e doverosa, perché quando un
leghista definisce i sostenitori del recupero delle
lingue dei nostri padri “quelli del dialetto” (come Bossi chiamò sprezzante chi contestava già
molti anni fa la sua svolta filotricolore ) non può
fare molta strada. Anche se ottiene molti voti.
Per invertire la tendenza nichilista antipadana
servirebbe qualche gesto forte guidato da qualche autonomista vero, oltre a un progetto artiAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
colato e studiato insieme alle menti più brillanti
rimaste in campo.
60 anni fa, il 16 dicembre 1947, 500 sudtirolesi occuparono la prefettura di Bolzano per protestare contro la politica di italianizzazione del
Sudtirolo. Ma perché nessun politico organizza
un’iniziativa simile? Perché nessuno tra coloro
che siedono in Parlamento mette a punto iniziative concrete per chiedere di mettere un argine
alla politica di assimilazione perpetuata dal centralismo romano?
Certo, le manifestazioni non sono sufficienti, e
servirebbe un progetto simile quello messo a
punto da Gianfranco Miglio negli anni della speranza della rinascita padana. Ma dove sono quei
politici che in questi anni avrebbero potuto e
dovuto allacciare rapporti e contatti con i movimenti secessionisti d’Europa, lavorare attivamente in organismi come Alpe Adria e Arge Alp,
(le comunità di lavoro di molte regioni del centro Europa), pensare a progetti concreti per recuperare la naturale aspirazioni verso la Mitte-
Jordi Pujol
leuropa delle genti padano-alpine, stringere alleanze con altri movimenti autonomisti presenti
e radicati nella Repubblica italiana? Insomma,
dove sono tutti quelli che potrebbero elaborare
una strategia a tutto tondo per mettere Roma
con le spalle al muro?
Non si va molto lontano parlando solo di denaro. Quando un cittadino va all’estero, lo si riconosce per la lingua che parla, per le caratteristiche etniche che testimonia con il proprio
aspetto fisico e per il modo di comportarsi. Non
per il portafoglio più o meno gonfio. Un italiano
benestante che vive in una regione padana che
trattiene anche tutte le tasse in loco, rimane un
italiano. Un padano che a scuola rivendica l’inQuaderni Padani - 3
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segnamento della lingua parlata abitualmente
dai suoi antenati, che di fronte a un carabiniere
parla il proprio idioma e fa altrettanto in un ufficio postale o al catasto potrà avere anche le pezze al culo. Ma sarà sempre un padano.
Lamentarsi - a ragione, intendiamoci bene dell’eccessiva pressione fiscale, delle rapine perpetrate dall’oligarchia romana, degli sprechi impensabili in altri paesi europei e finanziati con il
denaro dei contribuenti non è sufficiente se ci si
lamenta esclusivamente in italiano o – peggio da italiani. Ovvero lasciando la macchina in doppia fila o sui marciapiedi, raccomandando il figlio perché tanto lo fanno tutti, passando col
Umberto Bossi
rosso come una volta facevano solo i meridionali, non rispettando la coda al cinema, abbattendo
un edificio dell’800 perché una palazzina moderna rende di più, tifando gli Azzurri ai mondiali o Luna rossa. Perché il dramma è che molti
padani, oggi, si comportano esattamente come i
cittadini di altre assolate zone della Repubblica
italiana. E lo fanno perché, contrariamente ai tibetani, hanno perso l’anima.
La mancanza di identità produce spesso risultati devastanti sotto molti profili, non solo sotto
quello identitario e sociale, ma anche sotto il
4 - Quaderni Padani
profilo urbanistico, dove tutto cresce a casaccio,
dagli edifici alle infrastrutture che fanno girare
l’economia. A chi conosce Monaco di Baviera,
Zurigo, Vienna o anche Barcellona e le confronta con Milano o Torino non rimane che una cosa
da fare: piangere.
Senza pensare a Cinisello Balsamo o a Mestre,
che dire ad esempio dell’incuria di centinaia di
cascine, modello unico di struttura sociale e famigliare della Padania, che nessuno pensa più di
recuperare - perché economicamente poco redditizie - e che vengono sostituire da anonime
palazzine per il perfetto lavoratore-pendolare,
quello che si deve sorbire tutti i giorni code infinite su tratte autostradali intasate che portano verso città
sempre più grandi e sempre più
degradate?
Invece di avere un orizzonte di
bellezza e armonia, mimetizzare gli edifici nella natura come
avviene in molti paesi centroeuropei, dove spesso non si nota
alcuna differenza tra la cura dei
prestigiosi centri storici delle
grandi città e le cittadine di periferie, invece di rivendicare un
ruolo autonomo non solo in
campo fiscale, ma anche culturale e urbanistico, si insegue
l’insensata monocultura del
mondo contemporaneo occidentale, quello che non ha patrie, ma solo conti in banca. Un
mondo aggrappato alla società
dell’apparenza, determinato da
aspettative di tipo elusivamente
economicistico per poter cementificare ancor di più una
terra umiliata, sfruttata e vilipesa da italiani e padani rinnegati.
La scelta della Lega Nord di fondare una banca
è rivelatrice di questa tendenza. Una banca che
non è stata concepita per finanziare progetti di
sviluppo, cooperazione e integrazione con i paesi centroeuropei, ma per derubare ingenui risparmiatori e arricchire i soliti noti in canottiera e auto blu.
Ci sono paesi, in Europa, che sino a due decenni fa erano profondamente arretrati – basti
pensare alla Spagna – e che ora brillano invece
per efficienza e decoro. Non a caso i movimenti
autonomisti e secessionisti presenti nel Regno
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di Spagna, dai Paesi Baschi alla Catalonia, dalla
Galizia alle Canarie, alle ultime elezioni amministrative hanno trionfato ovunque.
Un milanese che visita non Vienna o Zurigo,
ma anche città molto più a sud come Barcellona, torna nel capoluogo lombardo col magone.
Con la domanda fissa in testa: perché loro sì e
noi no? Ebbene la rinascita della Catalogna,
esempio tra i più eclatanti a livello europeo, passa non solo attraverso la fondamentale gestione
delle risorse economiche, che ha permesso la rinascita e lo sviluppo della città, ma anche utilizzando le proprie specificità culturali come elemento di distinzione.
La globalizzazione, tesa a livellare il mondo
secondo un unico modello di gusti e preferenze
per poter vendere più facilmente i propri prodotti a una massa di apolidi, certo non aiuta chi
vuole ritrovare la propria identità. Ma ordinare
una Coca Cola parlando in catalano, e non in castigliano, può fare la differenza.
Per non scomparire definitivamente (ammesso non sia troppo tardi) i padani hanno bisogno
di emozioni collettive e valori forti. Di coraggio.
Servono idealisti e non solo imprenditori, perché i mercanti - che sono sempre stati nell’ultimo posto della scala sociale fino all’avvento della
Modernità - hanno la patria là dove macinano
utili, e non dove dovrebbe essere il loro cuore.
È necessario che chi può - e vuole - organizzi
un recupero degli elementi più seri dell’autonomismo, dimentichi rancori e vada al di là di be-
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ghe di cortile, isterismi e gelosie personali, metta a punto un progetto articolato sfruttando le
difficoltà in cui si trova il sistema Italia e coinvolga i movimenti autonomisti e secessionisti
più seri presenti in questa Repubblica delle banane e anche quelli di altri paesi che hanno già
raggiunto risultati concreti. Inutili credersi i più
bravi della classe quando si vede il proprio paese
sprofondare nella pummarola invece di vederlo
ancorato alle Alpi. Copiare era un brutta cosa
quando si andava a scuola. Ora è urgente e necessario andare a ripetizione da catalani e fiamminghi, baschi e nordirlandesi.
Ci sono alcuni fermenti che purtroppo non
provengono dall’area autonomista, ma che sono
comunque degni di attenzione: i presidenti del
Veneto e della Lombardia, i sindaci di Torino e
Venezia e altri politici di primo piano si stanno
muovendo da tempo. Si vuol lasciar fare a loro?
Sarebbe un peccato consegnare in mano ai Cacciari le rivendicazioni autonomiste che non cessano di essere presenti in tutta l’area padano-alpina. “Muor giovane colui che al ciel è caro”,
quindi certa dirigenza leghista rimarrà a infestare il panorama della politica ancora per parecchio tempo. Ma se non si comincia a lavorare al
più presto e seriamente nessuno sarà pronto
quando il palcoscenico si sarà liberato dai volgari bidoni dell’autonomismo.
Meglio andare a Monaco di Baviera per capire
come ridiventare padani e lasciar perdere Pontida. L’inizio della fine è incominciato lì.
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Padani e italiani
nella guerra di secessione
americana
di Gilberto Oneto
L
a guerra civile americana
compare nella storia “ufficiale” italiana quasi solo in
occasione della tanto strombazzata vicenda dell’offerta a
Garibaldi di un posto di comando nell’esercito nordista.
Le cose sarebbero andate
più o meno così. Il Generale
se ne sta a Caprera a riposarsi
dalle fatiche della spedizione
meridionale e a preparare
nuovi cimenti, quando, l’8
Ritratto di Garibaldi ferito e
prigioniero sul settimanale
nordista Harpers Weekly
giugno del 1861, riceve una
lettera dal console americano
di Anversa che gli offre, in
nome del suo governo, un comando nell’esercito degli Stati
Uniti. Garibaldi risponde subito che ci sono due ostacoli:
Vittorio Emanuele ha bisogno
di lui in Italia, e il presidente
Lincoln non ha abolito la
schiavitù. La risposta suona
per lo meno pretestuosa, ma
la trattativa va avanti ugualmente. L’ambasciatore riceve
l’incarico di insistere e Garibaldi risponde che può accettare solo se il re non ritiene
necessaria la sua presenza in
patria. Sembra una scusa che,
oltre a tutto, coinvolge una terza parte, e cioè
Vittorio Emanuele. Garibaldi scrive al re chiedendo la sua autorizzazione: Vittorio gli risponde “Caro Generale, per quello che riguarda d’assumere il comando che gli ha offerto il governo
degli Stati Uniti, mi pare che deve seguire gli
impulsi della sua coscienza verso l’Umanità sofferente. Caro Generale, qualunque sia la sua determinazione, io sono bene sicuro che non dimenticherà la patria italiana, come io non dimenticherò mai la sua amicizia”(1). In pratica
gli dice di fare quel che gli pare, sperando di levarselo di torno. É l’ambasciatore Henry Shelton Sanford che gli recapita personalmente a
Caprera il 6 settembre la risposta reale. Messo
con le spalle al muro, Garibaldi non trova di meglio che alzare il tiro: vuole addirittura la carica
di comandante in capo dell’esercito americano e
(1) Alfonso Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di
un cittadino del mondo (Bari: Laterza, 2001, pag. 312
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l’abolizione tout-court della schiavitù. Imbarazzato per tanta sfacciataggine, Sanford rilancia
offrendo la nomina di generale di divisione che
Garibaldi prende quasi come un affronto: non se
ne fa niente. Il biondo eroe se ne resta sdegnoso
a Caprera e si risparmia una rogna colossale. Gli
storici patriottici hanno sempre esaltato la vicenda come un segno dell’indubitabile prestigio
internazionale del Generale, fantasticando attorno alle grandi meraviglie che avrebbe potuto fare in America: l’incosciente spavalderia di Garibaldi avrebbe sicuramente trovato un fecondo
terreno ma le sue fragili professionalità tattiche
lo avrebbero messo in seria difficoltà in una
guerra dura e crudele come quella che si sta
combattendo fra “nordisti” e “sudisti”, dove le
parti in lotta non sono le pittoresche bande sudamericane o gli sgangherati reggimenti del re
di Napoli.
Della vicenda si torna a parlare l’anno successivo, quando Garibaldi è ferito all’Aspromonte e
imprigionato nella fortezza di Varignano, presso
La Spezia: il console americano gli fa visita e
torna a offrirgli un comando nella guerra che si
sta combattendo oltre Oceano. La vicenda assume sempre di più i toni di una pantomima: tutto
serve a Lincoln tranne che un generale ferito,
acciaccato e sconfitto ma Garibaldi è al culmine
della sua popolarità internazionale e gli USA
hanno bisogno di ricostruirsi una immagine decente dopo i recenti rovesci militari. Garibaldi
risponde che non appena sarà guarito accorrerà
senz’altro a difendere la sua patria americana(2):
non ci crede nessuno ma l’affermazione serve
anche a lui per ridare vigore alla sua fama di
eroe che si sta un po’ appannando.
Sulla vicenda si è formata una patetica leggenda alimentata anche dagli americani per scopi
loro interni: sul numero del popolarissimo settimanale newyorkese Harper’s Weekly del 25 ottobre 1862 compare ad esempio la notizia: “Riproduciamo nella pagina precedente (in realtà
la copertina NdT) una pittura di M. Beauce che
rappresenta Garibaldi ferito e prigioniero. Tutti
ricordano che Garibaldi, alla testa di una piccola banda di seguaci, è stato attaccato sull’Aspromonte da forze napoletane (sic!) e preso
prigioniero. È stato portato a La Spezia dai suoi
catturatori, e affidato a chirurghi per le sue ferite, che sono gravi. Non si sa ancora che misure saranno prese contro di lui. Quando è arrivato a La Spezia uno dei nostri consoli gli ha
mandato una lettera per chiedergli se accetterebbe un comando nel nostro esercito nel caso
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Thomas Nast
gli fosse offerto. Egli ha immediatamente risposto che, essendo ferito e prigioniero, non è libero di disporre dei suoi futuri movimenti; ma
che, appena riguadagnerà la sua forza e la sua
libertà, egli offrirà subito la sua spada agli Stati
Uniti che stanno combattendo per la libertà nel
mondo intero”.
Il succo della notizia si potrebbe perciò riassumere così: il vecchio leone è ferito ed è in gabbia, ma appena ne uscirà risanato correrà a
combattere per la nobile causa dell’Unione.
La presenza americana
nel processo risorgimentale
L’interesse americano per la posizione strategica dell’Italia e – di conseguenza – per le vicende politiche italiane era cominciato da un po’ di
tempo, almeno da quando nel 1804 avevano attaccato il porto barbaresco di Tripoli per difendere i propri commerci dai continui assalti della
(2) Quella di sostenere di avere la cittadinanza americana è
un vezzo ricorrente del Generale: sostiene infatti di averla
ottenuta nel corso del suo secondo esilio oltre Oceano, ma
in realtà non esiste alcuna prova in tal senso e gli stessi
Americani lo trattano sempre come uno straniero, amico ma
pur sempre straniero.
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Pio IX ritratto da Nast
pirateria nordafricana. Dopo la fine delle guerre
napoleoniche, gli americani avevano intensificato il loro sforzo di penetrazione commerciale
nel Mediterraneo alla ricerca di nuovi mercati
per la loro crescente produzione. Tutta l’attività
diplomatica della giovane repubblica si dedicava
a questo obiettivo; nel 1847 John Martin Baker
e, dieci anni dopo, John Smith Homans avevano
compilato e pubblicato dei dettagliatissimi resoconti sulle potenzialità dei mercati mediterranei, sulle produzioni locali e sulle caratteristiche fisiche dei porti di attracco. Trattative erano
state intraprese con il governo sardo (con cui
avevano firmato un fruttuoso trattato nel 1838)
e con quello napoletano, che però si erano concluse con un nulla di fatto nel 1840.
La vera occasione per intrufolarsi nel mercato
italiano (considerato il più promettente dell’a8 - Quaderni Padani
rea) e di bypassare la costosa intermediazione britannica, che agiva
allora in condizioni di incontrastato monopolio, si presenta con gli
avvenimenti del 1848. Manifestando apertamente le loro simpatie
per la rivoluzione liberale, gli americani sperano di ottenere il favore
dei nuovi governi e spuntare condizioni vantaggiose, anche nella
prospettiva di liberarsi dell’enorme
surplus militare accumulato per la
guerra contro il Messico che si è
appena conclusa. In questa loro
spregiudicata politica si sono trovati a contrastare gli inglesi (che
diffidano del rivoluzionarismo repubblicano e criptosocialista di
molti patrioti italiani) e – naturalmente - gli austriaci. Così, mentre
gli inglesi favoriscono il ritorno di
Pio IX a Roma, gli americani appoggiano la repubblica di Mazzini,
Armellini e Saffi e accusano apertamente i britannici di volersi annettere la Sicilia. Sono le navi americane Taney e Princeton a violare il
blocco navale austriaco di Venezia,
portando armi e viveri alla città assediata. Alle proteste austriache,
l’ambasciatore americano a Venezia, William Stiles, risponde con
arroganza, e solo la fine della guerra impedisce uno scontro diretto
fra le due potenze. Il tutto è partito da Torino, da dove – con l’accordo del governo sardo, che ci vede una sorta di
copertura e garanzia contro l’Austria - l’ambasciatore Nathaniel Niles chiede l’intervento della
flotta. Il Mediterranean Squadron del commodoro Read arriva a Genova nel marzo del ‘48, e
ottiene nel giugno dello stesso anno l’uso gratuito della rada della Spezia e lo stabilimento di
un deposito navale per 3 anni rinnovabili. Proprio alla Spezia Napoleone I aveva cominciato
nel 1811 la costruzione di una grande base navale in sostituzione di Genova, diventata insufficiente. Alla sua caduta i lavori sono stati sospesi
e nel cantiere si installano gli americani.
Nel frattempo Cavour ha ripreso l’idea di Napoleone ma non riesce a farsi approvare dal Parlamento il trasferimento della base fino al 1857,
quando notifica agli americani lo “sfratto” dalla
Spezia e offre loro in cambio la baia di PanicaAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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La cacciata di Pio IX secondo Nast
glia, appena più a sud, dopo il borgo di Fezzano,
cui hanno peraltro già accesso dal ’52. Nel frattempo la causa italiana trova in America ulteriore consenso. La politica liberista di Cavour piace
e da buoni frutti: l’esportazione americana in
Piemonte è crescita dai 300.000 $ del 1851 fino
ai 3 milioni del 1859. Tutto lascia sperare agli
americani che l’unificazione della penisola porti
loro vantaggi anche superiori. A sostenere la
causa unitaria sono così non solo le lobbies dei
produttori, dei ferrovieri e dei banchieri, ma anche la Young America, una potente associazione
di stile mazziniano vicina al Partito Democratico, che ha contribuito nel 1852 alla vittoria del
presidente Franklin Pierce, il quale nomina per
gratitudine molti suoi esponenti ambasciatori
nei paesi europei.
Dalla base di Panicaglia parte il vascello Iroquois, che a Palermo rifornisce Garibaldi di armi e munizioni: un “generoso” intervento che
però neppure scalfisce lo strapotere inglese e la
sua supervisione sull’intera operazione duesiciliana. Il vero regista dei Mille è infatti l’ammiraglio britannico George Rodney Mundy: a poco
può il pur volenteroso capitano americano James Shedden Palmer dell’Iroquois. A indebolire
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ulteriormente la posizione americana viene lo
scoppio della guerra di Secessione che svuota
Panicaglia di navi e di uomini. Sembra che all’inizio della guerra, le due fazioni di marinai
americani si siano ferocemente azzuffate fra di
loro e che siano dovuti intervenire i Reali Carabinieri a mettere fine a questo piccolo scampolo
di guerra civile americana in suolo ligure(3). La
guerra ha l’esito di svuotare temporaneamente
la base.
Il problema si ripropone nel 1865: i lavori per
la costruzione della base italiana procedono (finiscono nell’aprile del 1870) e gli americani
“nordisti” vittoriosi devono trovare una nuova
sistemazione. Chiedono di potersi trasferire lì
vicino, al Lazzaretto di Vignano, sempre all’interno del golfo e si fanno “raccomandare” da
Jessie White Mario, che gira l’America per perorare la causa garibaldina. Il governo italiano
propone loro le alternative di Cagliari, dell’isola
sarda di San Pietro o della base di Siracusa, ereditata dai Borbone. Le trattative non vanno a
(3) Petacco, Arrigo. “Garibaldi: il mancato eroe dei tre mondi”. In Il Giornale, 15 agosto 2006
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Chatam Roberdeau Wheat
buon fine e nel febbraio del 1868 attracca a Panicaglia l’ultima nave americana, la fregata
Franklin dell’ammiraglio David G. Ferragut. In
realtà la cosa non è più di grande interesse per
nessuno: gli americani non hanno più bisogno
di basi militari per difendere i propri commerci
e si sono accordati con gli inglesi per la spartizione dei mercati, e l’Italia unita non ha più bisogno di loro come protettori.
L’installazione viene così smontata nel 1868. A
ricordo di quella base primigenia resta per un
secolo il cosiddetto “Camposanto dei Genchi”
(degli Yankee), spazzato via negli anni ’70 per
fare posto all’impianto di rigassificazione della
Snam.
Oltre agli interessi economici, gli americani
sono spinti anche da motivazioni ideologiche:
proprio come i massoni inglesi, soprattutto gli
anglicani e i puritani del New England intendono combattere le monarchie cattoliche e – in
particolare - l’Impero asburgico e lo Stato della
Chiesa e favorire l’installazione di regimi “libe10 - Quaderni Padani
rali”. Idealismo rivoluzionario e repubblicano
coincidono perfettamente con l’imperialismo
economico e la sua necessità di espansione.
In quest’ambito gioca un ruolo particolare il
sostegno americano a Mazzini e a Garibaldi. Le
avventure del Generale godono di vasta popolarità negli Stati Uniti almeno a partire dal suo
soggiorno americano del 1850: il suo principale
sponsor presso la Massoneria americana è Antonio Meucci. Sono i contatti giusti che spiegano
certi aiuti ottenuti durante la spedizione napoletana, al finanziamento della quale concorrono
generosamente anche le logge d’oltre Oceano.
Due ufficiali della marina americana incontrano l’Eroe dei due mondi il 26 maggio 1860 a Misilmeri, portandogli informazioni sulle difese
palermitane. A Palermo è – come già detto – la
nave Iroquois che svuota la propria santabarbara
per rifornire Garibaldi di armi e munizioni. Il
colonnello Colt invia una partita dei suoi rinomati revolvers, e alcuni americani sono arruolati nella Legione inglese che costituisce il reparto d’élite dell’esercito garibaldino.
Il 18 giugno arriva in Sicilia una spedizione al
comando di Giacomo Medici, composta da tre
navi battenti bandiera americana, l’Oregon, il
Washington e il Franklin, che portano uomini e
armi. A bordo del Washington c’è anche Thomas
Nast (1840-1902), inviato dal The Illustrated
London News. Nato a Landau in Germania e trasferitosi nel 1846 negli Stati Uniti, Nast è un noto disegnatore e giornalista anticlericale (le sue
vignette contro il Papa sono feroci, i vescovi sono dipinti come coccodrilli e i cattolici – soprattutto irlandesi – sono raffigurati come ominidi
dall’aspetto neanderthaliano: sarà il creatore
delle immagini dell’elefante e dell’asino per raffigurare i due maggiori partiti americani e l’inventore della moderna figura di Babbo Natale). I
suoi reportage servono a rinvigorire l’immagine
garibaldina.
Lo scoppio della guerra civile costringe anche
i garibaldini americani a prendere posizione e a
tornare in patria: Nast mette la sua penna al servizio degli unionisti. Diversa è la scelta del colonnello Chatam Roberdeau Wheat (1826-1862),
avventuriero virginiano, reduce dalla guerra col
Messico (1848) nella quale si era guadagnato i
gradi di capitano, da un fallito tentativo di rivolta a Cuba e dalla rivoluzione messicana del 1851
(in qualità di comandante della cavalleria del ribelle Carvajal), che aveva raggiunto Garibaldi
arruolandosi nella Legione britannica di John
Whitehead Peard, di cui diventa comandante
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della cavalleria col grado altisonante di Brigadiere Generale. Nel 1850 aveva conosciuto Garibaldi nel corso del secondo esilio del Generale,
forse in occasione di una misteriosa crociera a
Cuba e a Panama sulla nave Georgia. Appena
prima dello scoppio della guerra civile, Wheat
raggiunge la Louisiana, di cui era diventato cittadino nel 1852.
Sono numerosi anche i padani e gli italiani
che vengono coinvolti o che prendono parte per
libera scelta allo scontro fra Unione e Confederazione. Più notorietà
hanno avuto, per molteplici comprensibili ragioni, i combattenti a favore
del Nord: in realtà però
risultano assai più numerosi quelli che si sono
trovati schierati fra le fila confederate: un recente lavoro di ricerca di
Emanuele Cassani (Italiani nella guerra civile
americana 1861-1865,
2006) è riuscito a rintracciare i nomi di quasi
900 combattenti, 87 dei
quali con i nordisti e ben
875 – dieci volte tanto –
con i sudisti.
Company, dal nome del suo comandante, il capitano Cesare Osnaghi. Gli archivi militari ci
hanno consegnato i cognomi di 87 di questi garibaldini, quasi tutti padani. È curiosa la presenza fra di essi di un Francesco Radetzky. Vestono
una camicia di lana rossa e pantaloni e cappotto
azzurro, e portano un cappello piumato da bersagliere. La Compagnia italiana sventola un tricolore orizzontale con le scritte “Garibaldi
Guard” e il garibaldino-mussoliniano “Conquer
or Die” (“Vincere o morire”).
Allo scoppio della guerra
ci sono negli Stati Uniti
circa 11.000 cittadini nati in Italia, concentrati
soprattutto a New York.
Molti di questi entrano
nell’esercito unionista.
Di alcuni si hanno notizie appena più precise.
Ernesto Cerrutti è un ex
garibaldino lombardo,
datosi con una certa disinvoltura al commercio
di armi tra gli opposti
schieramenti e poi riparato in Messico. Prima
di arrivare in America,
era stato radiato per gravi manchevolezze dal Regio Esercito italiano, in
Con il Nord
cui era stato incorporato
La vicenda dell’offerta
alla fine della spedizione
di un prestigioso posto di
napoletana(4).
Francesco Secchi de Cacomando serve a Garisale è un mazziniano piebaldi per mostrare di esmontese che ha fondato
sere un militare apprezun settimanale politico,
zato nel mondo e a LinL’Eco d’Italia. È uno dei
coln per accreditarsi coBando di arruolamento
promotori della formame parte “buona” del
della Garibaldi Guard
zione di una Italian Leconflitto, stimata dal digion, mai esistita come
fensore per antonomasia
dei popoli e delle libertà, ma la cosa funge so- formazione combattente, ma che ha costituito
prattutto da stimolo per un gruppo di volontari l’ispirazione per la successiva formazione della
europei – fra cui numerosi italiani - per andare a Garibaldi Guard.
Francesco Spinola, nato a Long Island da gecombattere in camicia rossa assieme ai “nordisti”. I volontari europei “garibaldini” vengono nitori liguri, membro democratico del Senato di
organizzati soprattutto nel 39° reggimento di New York, proclama la fedeltà degli italo-ameriNew York, detto Garibaldi Guard, che combatte cani alla bandiera dell’Unione, reclutata e arma
per l’Unione fra il 1861 e il 1865. È composto da a proprie spese quattro reggimenti e si fa nomi10 compagnie suddivise per provenienza: tre sono tedesche, tre ungheresi, una ciascuna francese, spagnola (e portoghese), svizzera e italiana. (4) Giorgio Boatti, Cielo nostro (Milano: Baldini & Castoldi,
Quest’ultima (Compagnia A) è detta Osnaghi’s 1997), pag. 95
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Parata della Garibaldi Guard a New York
nare da Lincoln generale della sua personalissima Spinola Empire Brigade. Nel 1887 diventa il
primo membro di origini italiane del Congresso
americano.
Luigi Tinelli è un affiliato alla Giovane Italia
rifugiato in America nel 1836: si arruola nella
Garibaldi Guard restandovi per soli 12 giorni,
passa nell’esercito regolare da cui si ritira definitivamente nel 1863.
Edward Ferrero (1831-1899) è nato in Spagna
da genitori piemontesi che si sono trasferiti a
New York subito dopo. Massone, diventa insegnante di danza all’Accademia Militare degli
Stati Uniti, conosce Garibaldi attraverso suo zio,
il colonnello Lewis Ferrero che ha combattuto
in Crimea e nella seconda guerra di indipendenza. Nel 1861 recluta un reggimento a sue spese,
il 51° Shepard Rifles. Prende parte a numerose
azioni belliche fino alla fine della guerra, e gli
viene concesso con onore il grado di Maggiore
Generale. Ritornato a New York, riprende la sua
attività di maestro di danza, scrivendo libri specialistici e assurgendo a larga fama.
Altrettanto interessante ma un po’ meno li12 - Quaderni Padani
neare è la vicenda di Luigi (Louis) Palma di Cesnola. Nato a Rivarolo Canavese nel 1832, combatte nell’Esercito sardo nella prima guerra di
indipendenza e viene congedato poco onorevolmente nel 1854. Compare in Crimea in un reparto turco arruolato dagli inglesi. Arriva a New
York prima del 1860, fonda una accademia militare che distribuisce diplomi di ufficiale a pagamento. Si arruola nell’11° reggimento di cavalleria ma se ne allontana dopo pochi mesi, nel
1862 diventa colonnello nel 4° cavalleria; l’anno
dopo è ferito e preso prigioniero (guadagnandosi
una Medal of Honor), diventa commissario della
prigione di Belle Isle per conto dei confederati e
viene rilasciato nel 1864 nel corso di uno scambio. Il 12 giugno dello stesso anno partecipa alla
battaglia di Trevilian Station: viene accusato di
avere sparato contro un reparto nordista e di
avere abbandonato i suoi uomini, e viene congedato. Ciò nonostante trova il modo di farsi nominare console americano a Cipro nel 1865 e direttore del Metropolitan Museum di New York
nel 1879.
Fino a qui si sono incontrati quasi solo padaAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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ni; due cognomi forse italiani compaiono invece
nelle assegnazioni delle Medal of Honor: un Orlando Caruana, del 51° fanteria si batte bene a
Newburn, e un Joseph Sova, dell’8° cavalleria,
cattura una bandiera confederata ad Appomattox.
Quasi tutte le adesioni alla causa unionista
sembrano essere motivate da ragioni ideologiche: per questo risulta particolarmente interessante la vicenda del vicentino Adolfo Farsari
(1841-1898). Volontario nella seconda guerra di
indipendenza, dopo avere frequentato per un
breve periodo l’accademia militare di Modena, si
imbarca – probabilmente per sfuggire a debiti di
gioco – per gli Stati Uniti nel 1863. Spinto da
forti motivazioni ideali (è un convinto avversario dello schiavismo), Farsari si arruola nel 12°
reggimento di cavalleria di New York ma si accorge ben presto dell’impiego ipocrita che viene
fatto dell’abolizionismo. Nel luglio del 1864 scrive dal fronte a suo padre: “A proposito di razionalità! Il volontario è così ben veduto dal North
e sono così entusiasti per esso (quantunque io
creda che in un milione e mezzo, essendo quasi
tutti stranieri, non ci siano dieci che si battano
per la patria, bensì per la moneta) che a spese
del governo si imbalsamano i corpi dei soldati
morti e quindi vengano consegnati a chi li domandano oppure vengono mandati se possibile
al grande cimitero che si farà o che si sta facendo a Chattanooga in memoria dei morti pella libertà dei schiavi. La guerra qui non si fa secondo quel principio ma bensì per altri, e se non
fosse che quello è il principio apparente simpatizzerei pel South. Il North ha prima venduto al
South tutti i neri che avevano perché non recavano alcun frutto, e quindi hanno mosso guerra
al South per la liberazione di quegli stessi
schiavi; avrei molte cose a dirti intorno a questo
soggetto”. È lo sfogo di un uomo onesto che ha
sempre creduto in totale buona fede di combattere per la libertà e contro l’oppressione. Nel
1867 lascia deluso l’America e si imbarca come
marinaio, si installa in Giappone dove diventa da
I volontari garibaldini dell’Unione illustrati da Harpers Weekly
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autodidatta un fotografo famoso e impianta uno
dei più grandi atelier fotografici del tempo.
Con il Sud
Prima di esaminare la presenza di padani e di
italiani fra le forze confederate giova ricordare
un episodio praticamente sconosciuto della vicenda risorgimentale, che ha come protagonista
ancora una volta Garibaldi di cui si è finora ricordato il volto di grande amico dell’Unione e di
feroce avversario dello schiavismo. Dopo la battaglia del Volturno (1° ottobre 1860) il Generale
si trova a gestire un cospicuo numero di prigionieri napoletani che proprio non ne vogliono sapere di accettare un nuovo re e una nuova patria, e che – se lasciati liberi – rischiano di andare a ingrossare le fila della resistenza armata
anti-italiana che comincia a svilupparsi in tante
parti del Meridione. Il 6 novembre dello stesso
anno (la successione delle date è estremamente
importante per delineare i connotati della vicenda) Lincoln vince le elezioni presidenziali ed è
piuttosto chiaro cosa stia per accadere. Appena
apprende la notizia Chatam Roberdeau Wheat
decide di accorrere in difesa della propria patria,
Bandiera della Garibaldi Guard
la Louisiana, che si appresta a secedere dagli
Stati Uniti. Il 7 novembre Vittorio Emanuele entra a Napoli e due giorni dopo Garibaldi si imbarca per Caprera. Prima di partire da Napoli i
due vecchi amici (Wheat e il biondo eroe) trovano però uno strano accordo: mandare i prigionieri napoletani a New Orleans con mutuo vantaggio. Garibaldi (che ufficialmente “fa” il nordista) si libera di un peso e impedisce che questi
tornino a combattere contro gli italiani; Wheat
procura soldati addestrati ai confederati che si
trovano in enorme svantaggio numerico rispetto
14 - Quaderni Padani
agli avversari. Poco importa che i due si trovino
ora schierati in due campi opposti: li continua a
unire un forte spirito pratico e una buona dose
di cinismo. Garibaldi poi non è nuovo a vicende
che coinvolgono il traffico di uomini: pochi anni
prima si era dato da fare per trasportare a pagamento “mano d’opera” cinese per le miniere cilene.
Il compito di gestire la transazione commerciale viene affidato da Wheat al capitano
Bradford Smith Hoskiss, un veterano dell’esercito inglese, che è suo braccio destro della Legione britannica; e da Garibaldi a don Liborio Romano. Lo spericolato curriculum di Romano
(che la sera prima del cambio di regime era ministro di Francesco II e il mattino dopo del governo di Garibaldi) e le sue frequentazioni (è
l’uomo della Camorra), se da un lato garantiscono la perfetta efficienza dell’operazione, dall’altro lasciano anche sospettare che questa non sia
avvenuta a titolo gratuito e che qualcuno possa
anche avere lucrato sulla merce da esportare.
Così fra il dicembre del 1860 e la primavera
successiva un numero impreciso di soldati napoletani viene spedito in Louisiana. Non si sa se
sia loro consentito di scegliere fra l’esilio e l’internamento o se siano imbarcati a forza: in ogni
caso si può osservare con il senno di poi che
hanno avuto un destino assai meno amaro dei
loro commilitoni mandati a morire a Fenestrelle
e negli altri lager organizzati dai loro liberatori.
Secondo Hoskiss una spedizione effettuata
dalle navi Charles & Jane, Utile, Oliphant ed
Elisabetta avrebbe trasportato 1.437 prigionieri.
Un altro viaggio delle due navi americane Francis B. Cutting e Southern Rights ne porta 816,
la nave Due Fratelli altri 122. Si ha notizia di altri viaggi effettuati da navi fornite dalla compagnia palermitana Thomas Brothers, oltre che dai
battelli garibaldini (ma battenti bandiera americana) Franklin e Washington. L’ultimo sbarco
sarebbe effettuato il 18 marzo 1861 dalla Elisabetta, appena prima che la navigazione sia impedita dal blocco navale nordista. Le partenze
sono sospese anche per l’energica protesta del
console americano a Napoli, Joseph Chandler,
nei confronti di Cavour: si può capire che gli
Stati Uniti non siano per niente felici di vedersi
ripagare in quel modo l’aiuto dato al governo sabaudo nelle sue guerre di conquista.
Il numero complessivo dei soldati napoletani
trasportati a più riprese a New Orleans non sarebbe in tutto inferiore alle 2.500-3.000 unità.
Con la caduta di Gaeta e quelle successive di
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Messina (13 marzo) e di Civitella del Tronto (21 (soprattutto dei liguri) nella comunità locale, sia
marzo) il numero di prigionieri napoletani irri- con il fatto che gli ufficiali napoletani – contraducibili da “sistemare” aumenta. Non potendo riamente alla truppa - hanno in larghissima parpiù disporre della soluzione “sudista”, il governo te scelto di passare nell’esercito italiano. Tutti
italiano cerca anche di esiliare i prigionieri in fanno parte della European Brigade della LouiAustralia e in Patagonia ma sia il governo ingle- siana posta al comando del generale belga Paul
se che quello argentino si oppongono con vigo- Juge, che comprende circa 2.500 francesi, 800
re. Con una faccia tosta
spagnoli, 600 italiani, e 900
straordinaria, Cavour profra tedeschi, olandesi, scanpone la deportazione andinavi, svizzeri, belgi, inche allo stesso Lincoln che
glesi e slavi. Gli stranieri
però rifiuta: non gli manca
costituiscono il 40% della
di certo la carne da cannopopolazione della Louisiane d’importazione. L’eserna e quasi tutti concorrono
cito unionista è infatti
alla sua difesa. La Brigata è
composto in larga parte da
impiegata in operazioni di
stranieri appena immigrati
servizio d’ordine: dopo l’ocin America.
cupazione nordista di New
Se una guerra formalOrleans, nel maggio 1862, i
mente si conclude (il 14
suoi effettivi che non si somarzo è proclamato il Reno sbandati vengono ingno d’Italia), un’altra iniquadrati in altri reparti o
zia: il 13 aprile i confederainviati nella zona di operati bombardano e conquizioni di Port Hudson, sul
stano Fort Sumter.
Mississippi. Con la caduta
I soldati napoletani vendi Vicksburg (agosto 1863)
gono inquadrati soprattutgran parte degli effettivi
to in alcuni reparti: il batviene volontariamente
taglione Italian Guards del
reinquadrata a formare la
6° reggimento Luoisiana,
Compagnia F del 22° reggiformato da 284 uomini, e il
mento di fanteria della
battaglione Garibaldi GuLouisiana. Il reggimento
ards di circa 300 uomini
continua a combattere fino
inquadrato nel 5° reggial suo scioglimento, il 20
mento Cazadores Espamaggio 1865, una settimagnoles. La titolazione a Gana prima della resa sudista.
ribaldi denota sia la notoUn altro gruppo di meririetà del Generale che lo
dionali è inquadrato assiestato di confusione: evime a molti padani (una
Uniforme di ufficiale
dentemente nessuno prenbuona metà, a giudicare
della Garibaldi Guard
de sul serio l’idea che Garidai ruolini che ci sono perbaldi possa andare a comvenuti) nella Compagnia I
battere con i nordisti. La cosa però non piace ai del 10° reggimento di fanteria Louisiana. Il 10°
soldati napoletani (che hanno una diversa opi- Louisiana merita particolare attenzione: fondato
nione del biondo Eroe) che pretendono che la nell’estate del 1861 a New Orleans dal colonneldenominazione sia variata prima in Italian Le- lo di cavalleria della scuola francese di Saumur,
gion, e poi in Bourbon Dragoons (Dragoni di Antoine-Jacques-Philipphe de Mandeville de MaBorbone). A capo del battaglione Italian Guards rigny, è una sorta di legione straniera sudista
c’è il maggiore Della Valle: dai ruolini che ci so- formata da soldati provenienti da una ventina di
no pervenuti si nota che i soldati napoletani so- paesi stranieri. Degli originari 953 effettivi alla
no mescolati a volontari dai cognomi padani che sua fondazione, al momento della resa del genecostituiscono un buon terzo degli effettivi e la rale Lee, nell’aprile del 1865, i superstiti del regmaggioranza degli ufficiali. Questo si spiega sia gimento sono solo 18. L’unico rimasto della
con il più consolidato inserimento dei padani Compagnia I è il fante Salvatore Ferri, di Licata,
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Un reparto irlandese dell’esercito nordista
veterano dell’11° battaglione del 2° reggimento
di fanteria del Regio Esercito borbonico.
La storia della Compagnia I del 10° è interessante anche perché sembra sia il solo reparto
“italiano” dell’esercito confederato a essere venuto in contatto con “connazionali” inquadrati
nelle armate unioniste. Nella battaglia di Harpers Ferry, il 15 settembre 1862, si trovano fra le
forze contrapposte il 10° (che fa parte dell’armata del leggendario generale sudista “Stonewall”
Jackson) e il 39° reggimento di New York, la famosa Garibaldi Guard. I nordisti se la battono a
gambe levate lasciando al nemico 11.000 prigionieri, fra cui la Garibaldi Guard quasi al completo (530 uomini). Nel successivo scambio di
prigionieri, le camice rosse sono fatte scortare
dal 10° in segno di dileggio fino al punto di
scambio: possiamo solo immaginare gli sberleffi
16 - Quaderni Padani
cui sono sottoposti i garibaldini. Incuriosito dalla scena, Jackson chiede informazioni al capitano Santini della Compagnia I; questi gli spiega
che “They are just home made yankees”, che
sono insomma solo dei nordisti “alla pummarola”, per usare una libera traduzione che si addice
alle uniformi dei personaggi. Il calvario del 39°
non finisce lì: presi in consegna dai commilitoni, sono costretti a una “marcia della vergogna”
(punizione riservata ai codardi) fino al campo di
concentramento di Camp Douglas a Chicago,
dove restano confinati per tre mesi: resterà loro
addosso l’ignominiosa definizione di “vigliacchi
di Harpers Ferry”(5). Riordinato su 4 compa-
(5) Pierluigi Rossi, “Il regio esercito borbonico nell’esercito
confederato”. www.ilportaledelsud.org/confederati.htm
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Edward Ferrero
Volontario del 10° Louisiana
gnie, il reggimento si è poi riabilitato negli eventi successivi.
Mentre gli ex soldati borbonici
vengono in genere inquadrati in
reparti omogenei (si può immaginare che – fra l’altro – non abbiano
alcuna dimestichezza con l’inglese
e che sia ritenuto opportuno metterli con connazionali che risiedono da tempo in America), la più parte dei padani
viene arruolata individualmente nel vari reparti
dell’esercito sudista in virtù del maggiore grado
di integrazione nelle comunità locali. Essi sono
ovviamente più numerosi nei reggimenti degli
Stati dove la loro presenza è maggiore: Louisiana, Florida, Texas. A New Orleans essi costituiscono circa l’1% della popolazione e questo spiega la frequenza con cui si ritrovano cognomi padani nei ruolini di reparti come le Louisiana’s
Avengo Guards e le Louisiana Tigers.
Nonostante gli “italiani” siano più numerosi
fra le file confederate che in quelle unioniste, è
assai più facile trovare notizie sulle vicende nordiste, sia perché ciò è stato ritenuto per lungo
tempo più “politicamente corretto”, sia perché
gran parte dei documenti dei reparti sudisti sono andati distrutti o perduti. Qualche notizia è
comunque reperibile e alcuni di loro hanno delAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
le storie personali che
meritano di essere ricordate.
Un Carlo Fumagalli del
10° muore a Chancellorsville nel maggio del
1863 e l’ex pittore Antonio Galli, anche lui
della Compagnia I, viene preso prigioniero a
Gettysburg.
Decimus et Ultimus
Barziza (1838-1882) è
nato in Virginia da Filippo Ignazio, nobile
veneto emigrato in
America (probabilmente da Desenzano) in seguito alla caduta della
Serenissima e da Cecilia Amanda Bellett, del
Quèbéc. Lo stravagante
nome latino gli deriva
dal fatto di essere il decimo (una constatazione) e anche l’ultimo
(un impegno mantenuto) figlio di una famiglia prolifica. La sua vita è semplificata dal soprannome di Des. Trasferitosi in Texas è diventato avvocato. Allo
scoppio della guerra, si
arruola col grado di tenente nella Compagnia C del 4° fanteria del
Texas. Promosso capitano sul campo, viene gravemente ferito e fatto prigioniero a Gettysburg,
il 2 luglio del 1863. Dopo quasi un anno di ospedale, riesce a evadere nel corso di un trasferimento, raggiunge il Canada e da lì, con un avventuroso viaggio passando dalla Nuova Scozia e
dalle Bermude, arriva in Virginia e infine, più
morto che vivo, in Texas. Nel febbraio del 1865
pubblica le sue memorie col titolo The Adventures of a Prisoner of War, and Life Scenes in Federal Prisons: Johnson’s Island, Fort Delaware,
and Point Lookout, by an Escaped Prisoner of
Hood’s Texas Brigade. Dopo la guerra è diventato un illustre avvocato e un membro del Parlamento del Texas.
Giovanni Battista (Giobatta, John) Garibaldi
(1831-1914) è nato a Lavagna (GE) e si è trasferito in America nel 1851. Nel maggio del 1861 si
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Allo scoppio delle ostilità Chatam Roberdeau
Wheat organizza un battaglione di cavalleria, i
Louisiana Tigers, reclutando 500 teppisti di
strada e gente ai margini della società, in larga
parte immigrati tedeschi e irlandesi, e anche
qualche padano. Partecipa a tutte le fasi iniziali
della guerra, combatte a Bull Run (luglio 1861),
segue “Stonewall” Jackson nella campagna dello
Shenandoah e muore caricando il nemico a Gaines’ Mill il 27 giugno 1862. Chiede di essere sepolto sul campo di battaglia, finendo con coerenza una straordinaria vita di avventure.
Dopo avere accompagnato i militari napoletani a New Orleans, il capitano Bradford Smith
Hoskiss, veterano dell’esercito inglese, si arruola
nel reparto di cavalleria irregolare di Charles Didier Dreux e, in seguito alla morte di Dreux nel
1862, entra a far parte del reggimento di cavalleria del leggendario Jeb Stuart in Virginia. Muore
nella battaglia di Spotsylvania, nel maggio del
1864.
Tutti gli immigrati padani e italiani che vivevano negli Stati confederati, hanno combattuto
per la loro nuova patria per libera scelta, per
idealità e con coerenza. I soldati napoletani “ce“Stonewall” Jackson
Colonnello della European Brigade della Louisiana
arruola nella Compagnia C del 27° fanteria della
Virginia, inquadrato nella brigata Stonewall.
Viene fatto prigioniero due volte nel marzo del
1862 e nel maggio del 1864 ma ogni volta viene
rilasciato dopo qualche mese in uno scambio di
prigionieri. Combatte in tutte le battaglie più
importanti (Harpers Ferry, Chancellorsville, Gettysburg) e termina il suo servizio all’ultimo
giorno di guerra col grado di sergente. Resta in
Virginia a fare l’insegnante e il contadino. È sepolto nello Stonewall Jackson Cemetery di
Lexington vicino al generale Lee, un onore concesso ai combattenti più valorosi. La sua vicenda
ci è pervenuta grazie alle numerose lettere scritte alla moglie dal fronte e conservate nel Virginia Military Institute.
Sembra giusto anche ricordare le vicende personali di due ufficiali anglosassoni che hanno
avuto una parte importante nelle vicende qui
raccontate.
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Lo scontro di Harpers Ferry
duti” da Garibaldi avevano solo deciso di non accettare i Savoia come loro re e di restare fedeli
ai Borbone. Si sono trovati in una terra che non
hanno scelto e che non è la loro, eppure la grande maggioranza si è comportata con dignità, alcuni di loro addirittura con eroismo. Molti sono
morti per una patria che altri avevano scelto per
loro ma che hanno comunque finito per preferire a quella italiana che si voleva imporre. Fra i
superstiti, pochissimi sono in seguito rientrati
in Italia: tutti gli altri hanno adottato come propria la nuova patria per cui hanno combattuto,
anch’essa sconfitta come quella che avevano dovuto lasciare. La discendente di uno di loro, Elisabeth Russo Dubois, esponente delle United
Daughters of the Confederacy, rivolgendosi ai
pronipoti dei soldati napoletani, ha detto: “È con
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profondo rispetto e senso dell’onore che mi rivolgo a voi. Voglio esprimere la mia sincera stima e gratitudine per il supporto e l’aiuto di tutti
gli ex soldati borbonici che combatterono per la
libertà della nostra patria durante la guerra di
aggressione nordista. L’amore della patria, della
libertà, e l’indipendenza furono i principali motivi di quei valorosi soldati che combatterono
tanti anni fa al nostro fianco. I vostri compatrioti combatterono con onore e si distinsero sui
campi di battaglia per quattro lunghi anni per
difendere la nostra libertà. Questo non è stato
dimenticato, e - con le parole del generale Lee “non li dimenticheremo mai”. Il sacrificio degli
ex soldati borbonici durante la guerra non è
stato dimenticato. La loro storia è finalmente
riemersa negli Stati Uniti. La loro storia è stata
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La battaglia di Gettysburg
seguiti dagli irlandesi (124). Gli
italiani sono 3 e altrettanti i padani, e nessuno di loro è morto
quel giorno. Per alcuni c’era anche un passato nelle vicende risorgimentali e nella guerra di secessione, sempre dalla parte vincente.
I tre padani sono: Felice (Felix)
Villiet Vinatieri, (1834-1891), torinese, capo della banda reggimentale (quella che suonava il
Garry Owen), rimasto alla base
di Powder River; Augusto (Augustus) De Voto (o Devoto), classe
1851, genovese; e il primo tenente conte Carlo (Charles) CaDecimus et Ultimus Barziza millo Di Rudio, di Belluno
Con Custer
(1832-1910), l’unico ufficiale del
Una coda di qualche interesse della vicenda è gruppo. È il solo di cui si conosca il voluminoso
rappresentata dalla presenza di italiani e padani curriculum: la sua famiglia aveva parteggiato
nel famoso 7° cavalleria del colonnello George per Napoleone contro l’Austria (e - si immagina
Amstrong Custer a Little Big Horn, il fatidico 26 - contro la Serenissima) e si era trasferita a Migiugno del 1876.
In realtà sono piuttosto pochi. Su 836 uomini,
gli stranieri sono 320, appartenenti a 16 naziona- (6) Pierluigi Rossi, “Il regio esercito borbonico nell’esercito
lità diverse. I più numerosi sono i tedeschi (127), confederato”. www.ilportaledelsud.org/confederati.htm
ricordata alla convenzione nazionale delle United Daughters
of the Confederacy e alla riunione nazionale del movimento
neoconfederato in Houston e ripetuta alla convenzione dei
Sons of Confederate Veterans,
dove sarà fatto l’appello di tutti
quei vostri compatrioti che combatterono con noi. Siate fieri del
vostro passato e del vostro retaggio. La loro memoria ed i loro sacrifici sono con noi”(6).
Sarebbe assolutamente d’accordo anche Adolfo Farsari, vicentino, soldato dell’Unione
pentito.
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Il comandante della cavalleria sudista Jeb Stuart
La resa di Lee ad Appomattox
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lano; qui il giovanotto era entrato nel Collegio
militare austriaco di San Carlo (o di San Luca,
secondo altre versioni) riservato ai rampolli delle famiglie più ricche. Come altri figli di “sciuri”
aveva (forse) partecipato alle 5 giornate, si era
(forse) arruolato nei Cacciatori delle Alpi di Pier
Fortunato Calvi, aveva preso parte alla difesa di
Roma e forse anche all’assedio di Venezia. Fuggito in Francia, ha partecipato alla lotta contro
il golpe di Napoleone nel 1851. È stato implicato
nell’attentato del 1858 di Felice Orsini a Napoleone III. Condannato a morte e graziato dall’imperatore, è finito alla Cayenna da cui è evaso
per scappare prima in Inghilterra e poi in America, dove si arruola allo scoppio della guerra
con i nordisti, diventando sottotenente di un reparto di colore (forse il 2° reggimento di Colored Troops). Il giorno di Little Big Horn è distaccato a un altro reparto dallo stesso Custer, che
lo odia e non lo vuole fra i piedi, ma che lo ha
così salvato.
Gli italiani sono: il romano Giovanni Casella
(John James), rimasto indietro con il convoglio
delle vettovaglie; il napoletano Francesco Lombardi (Frank Lombard), musicista della banda
del reggimento, che è rimasto all’infermeria di
Fort Lincoln, dove aveva marcato visita. Il terzo
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è il trombettiere Giovanni
Italia, l’obiettivo è di costruire
Martini (John Martin, 1850una statualità “moderna” ai
1922) di Sala Consilina (SA),
danni di ogni autonomia, difche è l’unico sopravvissuto
ferenza e libertà locale.
del gruppo di Custer perché è
stato mandato all’ultimo moConclusioni
mento a chiedere rinforzi alla
Al termine di questa indagine
colonna Benteen e questo gli
vale la pena di riprendere la
ha evitato di restare intrapponarrazione da dove è cominlato con gli altri. Qualcuno
ciata: dal generale Garibaldi
sostiene che avesse combatche, ferito e prigioniero, dituto a Mentana, come giovachiara al console americano
nissimo tamburino, ma non
di non essere nelle condizioni
ci sono prove in tal senso.
di correre a combattere al
Nei ruolini reggimentali
fianco dei “liberatori” nordisono tutti annotati come nati
sti. Dice anche che lo farà apin Italia senza ulteriori dipena sarà nelle condizioni di
stinzioni infatti il Bureau of
farlo.
Immigration americano ha
Nell’estate del 1863 Garibaldi
cominciato a registrare gli
ha superato anche i postumi
immigrati italiani in due liste
George Amstrong Custer
dell’operazione per l’estrazioseparate, distinguendoli fra
ne del proiettile che sull’Asettentrionali “celtici” e meridionali “iberici” so- spromonte gli è penetrato nella caviglia, se ne
lo a partire dal 1899, quando ha deciso di censi- sta a Caprera ed è libero di andare dove gli pare.
re i nuovi immigrati in 36 razze diverse.
Il 1° di gennaio dello stesso anno Lincoln ha
Serve notare che tre di loro erano musicisti e proclamato l’emancipazione degli schiavi (peralche tutti si sono trovati da un’altra parte al mo- tro limitata agli Stati confederati) ed è così vemento dell’attacco indiano. È anche piuttosto nuta (almeno formalmente) meno ,anche la presingolare che una comitiva di giacobini, mazzi- giudiziale “morale” che Garibaldi aveva posto alniani, patrioti risorgimentali, e di antischiavisti la sua partecipazione alla guerra civile americache hanno combattuto nella guerra civile dalla na. In agosto gli dovrebbe già anche essere arriparte dell’Unione, sia finita a partecipare a una vata la notizia della battaglia di Gettysburg e
guerra di sterminio contro gli indiani. La cosa della fine delle paure nordiste e delle speranze
trova una sua coerenza solo se si considera che sudiste di concludere la guerra in maniera vanle tribù pellerossa erano state alleate della Con- taggiosa: questo dovrebbe tranquillizzare il
federazione (rappresentate dalla 13a stella della biondo eroe anche circa i pericoli che avrebbe
bandiera di Dixie), che l’ultipotuto correre la traballante
Carlo Camillo Di Rudio
mo reparto sudista a deporre
virtù militare in una guerra
le armi sia stato quello del
cattiva come quella che si sta
generale cherokee Stand Wacombattendo oltre Oceano.
tie, il 23 giugno 1865 (più di
Niente gli impedisce più di
due mesi dopo Appomattox) e
“seguire gli impulsi della sua
che si possono considerare le
coscienza verso l’Umanità
guerre di conquista del West
sofferente” e di imbarcarsi
come una sorta di continuaper l’America.
zione della guerra civile e delNeppure riceve altre sollecil’espansionismo yankee. Lo
tazioni a mettere la sua spada
stesso Custer aveva combatal servizio della causa unionituto alle dipendenze di Sherista: Lincoln ha superato i
dan, il macellaio.
momenti peggiori ed è ormai
Finisce per non essere nepcerto che la strapotente macpure una contraddizione per i
china dell’industria nordista
reduci delle battaglie risorgie l’enorme vantaggio demomentali: anche qui, come in
grafico non potranno che
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prevalere sull’eroismo stracci viene tristemente ricordato
cione dei sudisti e non ha più
come questa vecchia Europa,
bisogno dei vantaggi di immache può anche vantare un
gine che la presenza di Garigran numero di casi di libertà
baldi gli potrebbe portare. Siper cui combattere, non abbia
curamente non hanno giocato
trovato la mente o il cuore per
molto a favore della reputaziouguagliarvi”(7).
ne garibaldina né l’inglorioso
E così finisce “in gloria” e sencomportamento della Garibalza alcun segno di vergogna la
di Guard ad Harpers Ferry né i
vicenda di Garibaldi nordista.
traffici di soldati napoletani
mandati a dare aiuto ai sudiBibliografia essenziale
sti. Non è bello che uno pre❐ Bacarella, Michael. Lintenda addirittura di comandacoln’s Foreign Legion: the 39th
re l’intera armata di una parte
New York Infantry, the Garimentre si adopera per inviare
baldi Guard. Shippinsburg:
rinforzi all’altra. Ma Garibaldi
White Mane Pub. Co., 1997
è fatto così: davvero forse cre❐ Banfi, Giovanni. “Quando
de che il suo macilento talengli Insubri combatterono per
to di stratega possa essere di
Dixie”. In Terra Insubre, n. 27,
aiuto ai nordisti e – allo stesso
settembre 2003. pagg. 62-66
❐ D’Agnese, Generoso. “I ritempo – manderebbe l’intero
Giovanni Martini, l’unico
belli di Ferdinando”. www.neoesercito napoletano in Louisiana, se glielo lasciassero fa- superstite della colonna Custer borbonici.it
❐ Emanuele Cassani. Italiani
re. È una cosa del tutto nornella guerra civile americana
male per chi è bigotto e mangiapreti, repubblicano e monarchico, cacciatore 1861-1865. Civitavecchia: Prospettiva Editrice,
e animalista, pacifista e guerrafondaio, democra- 2006
tico e autoritario, tutto e il contrario di tutto, a ❐ Franzina, Emilio. Gli italiani al nuovo moncondizione che la sua immagine ne venga esal- do. L’emigrazione italiana in America 1492tata e che il suo mito (e non solo quello) non 1942. Milano: Mondadori, 1995
❐ Gemme, Paola. “Imperial Designs of Political
corra pericoli.
È in questa ottica che rientra con perfetta coe- Philantrophy: A Study of Antebellum Accounts
renza la lettera - incensante nei toni e democri- of Italian Liberalism”. In Amerian Studies Interstiana nei contenuti – che Garibaldi spedisce il 6 national. Vol. XXXIX, n. 1, febbraio 2001, pagg.
agosto del 1863 al presidente Lincoln. Gli scrive: 19-51
“Nel mezzo della sua titanica lotta, mi permet- ❐ Guglielmo, Jennifer e Salvatore Salerno (a
ta, come uno dei liberi figli di Colombo, di in- cura di). Gli italiani sono bianchi? Come l’Ameviarle una parola di felicitazioni e di ammira- rica ha costruito la razza. Milano: Il Saggiatore,
zione per il grande lavoro che ha iniziato. La 2006
posterità la chiamerà il grande emancipatore, ❐ Marraro, Howard R.. “Spezia: An American
un titolo più invidiabile di ogni corona e più Naval Base, 1848-68”. In Military Affairs. Vol. 7,
grande di qualsiasi tesoro solo mondano. Lei è n. 4, 1943, pagg. 202-208
il vero erede degli insegnamenti che che ci han- ❐ Rolle, Andrew F.. Gli emigrati vittoriosi. Gli
no dato Cristo e John Brown. Se un’intera razza italiani che nell’Ottocento fecero fortuna nel
di esseri umani, ridotta in schiavitù dall’egoi- West americano. Milano: Rizzoli, 2003
smo degli uomini, è riportata alla dignità uma- ❐ Rossi, Pierluigi. “Il regio Esercito borbonico
na, alla civiltà e all’amore degli uomini, è gra- nell’esercito confederato”. www.ilportaledelzie a quello che sta facendo e a prezzo delle più sud.org/confederati.htm
nobili vite in America.
È l’America, lo stesso paese che ha insegnato
la libertà ai nostri avi, che ora apre un’altra so- (7) Citato in: Emanuele Cassani, Italiani nella guerra civile
lenne epoca di progresso umano. E mentre il americana 1861-1865 (Civitavecchia: Prospettiva Editrice,
suo enorme coraggio lascia attonito il mondo, 2006), pag. 22
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M
ario Costa Cardol è stato uno degli storici più interessanti e
coraggiosi degli ultimi decenni. Soprattutto i suoi libri sul Risorgimento hanno permesso di superare la cortina fumogena
dell’interpretazione ufficiale disvelando fatti, episodi e vicende
estremamente significativi e permettendo una più corretta comprensione degli avvenimenti.
Fino all’ultimo ha continuato la sua opera di divulgazione affrontando numerosi temi anche strettamente collegati con l’attualità.
Purtroppo non ha fatto in tempo a completare il quarto volume della
sua rivisitazione dell’Ottocento italiano. Ha però lasciato numerosi
articoli, alcuni a suo tempo pubblicati dal quotidiano LaPadania, che
vale la pena di riproporre e di salvare dall’oblio.
Un ricordo di Mario Costa Cardol redatto da Romano Bracalini, corredato dalla sua bibliografia, è stato pubblicato sul numero 53 dei
Quaderni Padani (maggio-giugno 2004).
Albanesi, italiani per sole mille lire
Sin dal Ventennio fu chiaro che i locali
si lasciavano comprare facilmente
di Mario Costa Cardol
(La Padania, 26 aprile 1998)
I
rapporti fra l’Italia e l’Albania vengono generalmente trattati a cominciare dall’aprile
1939, quando Mussolini effettuò il colpo di
mano che incorporò nel regno d’Italia un altro
lembo di terra ricco di giogaie e di pietre riarse.
La stampa lo celebrò come un evento memorabile, degno dei trionfi dell’antica Roma, ed offrì
ai lettori la visione futura di folti gruppi di manodopera italiana intenta a sfruttare, in Albania,
giacimenti minerari sorti dalla fantasia degli inviati speciali. Fu, per buona sorte, una conquista incruenta. I notabili locali si lasciarono tutti
comprare.
“Se gli albanesi avessero avuto un corpo di
pompieri, ci avrebbero buttati a mare”, notò nel
suo diario Filippo Anfuso, capo di gabinetto del
ministro degli esteri Galeazzo Ciano. Siciliano,
fautore di un’espansione dell’Italia in Africa e
nei Balcani propiziata dalla stretta alleanza con
la Germania di Hitler, Anfuso non mancava tut24 - Quaderni Padani
tavia di un cinico realismo. Ogni albanese che si
presentò alla festa per l’annessione all’Italia si
ebbe una gratifica di 1.000 lire, cifra discreta per
l’italiano medio di allora, ma addirittura favolosa per quei nativi afflitti da una povertà vicina ai
limiti della sopravvivenza.
L’ingloriosa conquista dell’ Albania fu un duro
colpo per l’erario dell’Italia romana e fascista.
Mentre il luogotenente Jacomoni distribuiva le
mille lire ai famelici albanesi, Anfuso mormorava ridacchiando che “il vero aggredito è il contribuente italiano”.
Se il contribuente aveva di che piangere, Dino
Grandi esultava. Questo altissimo gerarca del fascismo doveva, di lì a quattro anni, riscattarsi
provocando la caduta di Mussolini. Ma, nel
1939, si comportava ancora come un disgustoso
leccapiedi. Alla vigilia dell’occupazione militare
dell’arido paese al di là dell’Adriatico, Grandi
scriveva al Duce: “Tra poche ore, l’Albania inteAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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ra sarà nostra, sarà provincia dell’Impero!”
Fatti gli opportuni richiami a Scipione, Cesare
ed Augusto, antecessori non indegni di Benito
Mussolini, Grandi osservava che l’Albania “mette alla nostra mercè la Grecia, considerata fino
ad oggi dall’ammiragliato britannico come la
fortezza naturale e indispensabile dell’Inghilterra in una sua guerra navale nel Mediterraneo”.
E concludeva: “Dopo la vendetta di Adua, Tu,
Duce, hai compiuto la vendetta di Valona”.
Che c’entra Valona, si chiederà il lettore. Risaliamo quindi all’ottobre 1914, quando l’Italia
non indossava la camicia nera e i suoi dirigenti
portavano cilindro e colletto inamidato.
Frutto del disfacimento dell’Impero turco,
l’Albania era stata dichiarata indipendente nel
maggio 1913 sotto la protezione delle sei “Grandi Potenze”, Inghilterra, Germania, Francia, Russia, Austria e Italia. I diplomatici europei le regalavano anche un “Principe-Sovrano” nella persona sbiadita del nobile tedesco Guglielmo di Wied.
Le frontiere dello stato così ben
protetto erano sforacchiate dappertutto: a nord da serbi e montenegrini, a sud da greci. Scorrazzavano bande armate di incerta appartenenza, ma di certa crudeltà.
Giuridicamente ancora legato
alla più che trentennale Triplice
Alleanza con Germania e Austria,
il governo di Roma chiese e ottenne di sbarcare truppe a Valona per
“metter ordine”.
Vienna acconsentì, sperando
che l’Albania distogliesse Roma
dal chiederle il Trentino; Parigi e
Londra annuirono, perché sapevano che, prima o poi, l’esercito italiano avrebbe combattuto a fianco
dell’Intesa anglo-franco-russa.
Per i fantaccini mandati colà, fu
l’inizio di un lungo e assurdo calvario. Si trovarono a combattere
dal 1916 contro austriaci e tedeschi, a fianco di alleati francesi,
inglesi, serbi e greci che ne combinavano di tutti i colori. I greci
erano i più feroci: sapendo che
Roma mirava ad espandersi attraverso l’Albania, sparavano con gusto e precisione contro gli italiani
sulle montagne dell’Epiro.
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Nel 1919, durante la conferenza della pace a
Parigi, il governo Orlando otteneva dagli alleati
il “mandato” sull’Albania. Nel 1920, i miseri resti del corpo di spedizione erano assediati in Valona; tutt’intorno, greci e albanesi seminavano il
terrore. Cento fanti al giorno morivano di malaria. Un reggimento di bersaglieri, che da Ancona
doveva imbarcarsi per l’Albania, si ammutinò.
L’ascesso fu tagliato dal nuovo governo Giolitti,
che rinunciò a Valona, al “mandato” e ai sassi
della Balcania.
Mentre nell’aprile 1939 Vittorio Emanuele III
si fregiava del titolo di Re d’Italia e d’Albania, il
paese appena annesso non si avviava a procurare
agli italiani alcuna delusione, dato che nessuna
persona di buon senso se n’era aspettato vantaggi. Se vogliamo dare un tocco di effimero alla
Sbarco in Albania dei Granatieri di Sardegna
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Uniformi della Milizia fascista albanese
Storia, diciamo che delusi rimasero soltanto i
tifosi della Juventus, perché il centravanti albanese Lushta, ingaggiato dalla famiglia Agnelli,
non si rivelò né un Meazza né un Piola.
In Albania ripresero i lavori pubblici, di cui l’Italia era già stata prodiga nel periodo 19141919. Ma strade, ponti e paludi prosciugate crearono nuovi buchi nell’erario italiano senza suscitare uno spirito nuovo negli albanesi. La
struttura semitribale della società albanese non
consentiva di profittare delle migliorie italiane,
le quali giovavano unicamente agli appaltatori
statali della penisola.
Afferrato il potere nel 1922, il fascismo aveva
subito invertito, nei riguardi dell’ Albania, la
rotta di suprema indifferenza fissata da Giolitti
nel 1920. Non fu difficile, al governo di Roma,
instaurare sull’ Albania una tutela di fatto politico-economica.
Alla collettività rurale dell’ Albania si addiceva
però un sovrano, e nel 1928 il capoccia Ahmed
Bey assumeva il titolo di Re Zogu (Zog in italiano). Benché finanziato lautamente da Roma, e
intento soprattutto a godersi i piaceri della vita
cosmopolita con viaggi e ricevimenti all’estero,
26 - Quaderni Padani
Zog non fu completamente una marionetta degli italiani.
Detronizzato, si rifugiò in Grecia.
L’Italia contava allora 43 milioni circa di abitanti, l’Albania 1 milione e la Grecia 7 milioni.
L’Italia era temuta come una grande potenza, e
fin dall’annessione dell’ Albania i greci avvertirono come un campanello d’allarme. Oltre a cantare “Marceremo... dove Roma già passò”, i soldati italiani di stanza in Albania sfilavano canterellando strofette allusive alla presa di Atene, alle
corazzate Duilio e Giulio Cesare nel porto del Pireo, ed altre vanterie riecheggiate dai giornaletti
del G.U.F. ed altri fogli littori. Ma il guaio era che
simili smargiassate si potevano leggere anche sui
giornali a diffusione nazionale.
I giornali, il ministro degli esteri Galeazzo
Ciano, i politici e i militari del regime, commettevano un doppio errore. Primo: era inaudito
che una stampa di regime preannunciasse sfracelli, dal momento che il governo di Roma aveva, ufficialmente, garantito l’integrità territoriale della Grecia. Secondo: si dava così all’avversario tutto il tempo per prepararsi.
I greci non erano un popolo di poeti e di musicisti, ma di guerrieri implacabili.
Evidentemente, gli oratori e i pubblicisti italiani non avevano prestato attenzione ai cruenti
corpo a corpo svoltisi nel 1922 tra greci e turchi
nelle campagne dell’ Anatolia per i possesso di
Smirne, che i greci avevano occupato nel 1919
con il consenso di Francia e Inghilterra. Le quali, detto per inciso, nel 1917 avevano promesso
Smirne e gran parte dell’ Anatolia al credulo ministro degli esteri italiano Sonnino.
Come si vede, l’Italia ufficiale si sentiva “giocata” e il suo coinvolgimento negli affari albanesi e greci aveva origini ben più antiche delle
stizze di Mussolini. Al quale poi, nell’ottobre
1940, fu fatto credere che con 9 divisioni “binarie” (su 2 reggimenti anziché 3) l’Italia sarebbe
arrivata ad Atene.
La storia di quella campagna militare è risaputa. E gli albanesi, in tutto ciò? Il comando italiano ne arruolò poche migliaia, riunite in due formazioni leggere che si affrettarono a disertare.
Andarono sulle montagne e iniziarono la lotta
partigiana contro italiani e tedeschi.
L’ambasciatore italiano ad Atene, nel 1940,
sconsigliava Mussolini dall’impresa e si sfogava
con un amico: “Già l’Albania ci ha messo sulle
braccia gente infida, riottosa, semibarbara ed
insaziabile. Paludi micidiali, montagne aride e
brulle... Che si va a fare in Grecia?”
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Un “Eurorigurgito” di Grandeur
L’esempio della Francia, affossatrice
con la Russia del marco tedesco
di Mario Costa Cardol
(La Padania, 3 giugno 1998)
P
rossimamente, il 7 luglio, il cancelliere
Kohl presenterà al Bundestag un fascicolo
di documenti che rompe con la tradizione.
Dal 1871, anno dell’unità germanica, nessun governo tedesco in carica aveva infatti divulgato gli
atti relativi alla sua politica. Di norma, si aspettano 30 anni. Le 1398 pagine del malloppo contengono note di servizio, registrazioni telefoniche,
lettere, verbali e protocolli relativi al 1989 e al
1990, ossia al periodo che prelude alla fusione
delle due Germanie. Sbrigativo il titolo del settimanale Der Spiegel sull’intera vicenda: “I documenti mostrano che la Francia ci ha imposto
lo scomparsa del marco”.
Il Presidente francese Mitterand
ha giocato abilmente per allontanare quello che, dal punto di vista di
Parigi, era lo spettro di un marco irradiato verso Polonia, Ucraina e altri
Paesi dell’Europa orientale. Ha usato le sue doti diplomatiche; compreso, naturalmente, il ricatto. Ha messo in allarme la Russia, la quale, nel
gennaio 1990, ha ammonito Kohl a
“non trascurare i suoi doveri verso
la comunità europea”, vale a dire a
non fare un passo senza tenersi la
Francia a braccetto, rinunciando a
quelle forme di penetrazione industriale nell’Est europeo sfociate,
tempo addietro, in avventure militari di paurosa memoria.
Mosca e Parigi si son trovate d’accordo per affogare il marco nell’Euro. È stato il prezzo che Kohl ha dovuto pagare, e che la Padania, di riflesso, ha pagato e pagherà sempre
più salato, per la riunificazione della Germania. Parigi non ha mai rinunciato ad essere l”’ombelico del
mondo”, secondo l’espressione cara
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agli intellettuali d’oltralpe. E, in effetti, la Francia ha sempre avuto la capacità diabolica di ammaliare e persuadere il mondo. Quando ha aggredito, ha figurato come vittima. Quando ha
sbagliato, ha donato al mondo la sua intelligenza. Quando ha rubato in tutta Europa sotto Napoleone I, ha accelerato il corso della storia.
Intorno all’anno Mille, i francesi erano ben
lungi dal costituire uno Stato potente e organizzato, ma già ambivano al Reno come frontiera
Episodio dell’assedio di Strasburgo, 1870
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Georges Clemenceau
naturale. Tra il 1640 e il 1690, gli eserciti di Luigi XIV devastarono in Alsazia tutto il devastabile. Ogni casa del Palatinato fu rasa al suolo dalle
fiamme. L’ Alsazia subì un vero e proprio genocidio. I francesi volevano ridurre gli alsaziani a
bruti inselvatichiti e ci riuscirono. Eppure Strasburgo era stata un faro di cultura germanica;
un suo poeta, Goffredo di Strasburgo, era autore
del celebre Tristano e Isotta. Nelle città dell’Alsazia i discendenti dei sopravvissuti si francesizzarono in parte. A Strasburgo e a Colmar, i notabili si misero al passo con la lingua di Voltaire.
Ma, nelle campagne, il dialetto alsaziano, affine
ai dialetti della Germania meridionale, fu sradicato soltanto dopo il 1950. Un secolo prima, nel
1850, scrivendo incidentalmente dei contadini
d’Alsazia, il comunista Friderich Engels li definiva “questi tedeschi”. Oggi, a Strasburgo, il tedesco è sparito. In compenso, nei pressi della
stazione ferroviaria e nei sobborghi, l’idioma più
parlato è l’arabo. Oggi l’islamizzazione dell’ Alsazia, secolare pomo della discordia tra Francia
e Germania, procede a ritmo accelerato.
Nell’estate del 1870 i giornali di Parigi e di
provincia infiammavano l’uomo della strada.
Strapazzavano l’imperalore Napoleone III.
“Cosa aspetta Badinguet (Badinguet era il nomignolo spregiativo del Terzo Bonaparte) ad attaccare la Germania? Bismarck non ci ha dato
il compenso dovuto per l’unificazione del suo
Paese. Ci spetta il Belgio, il Lussemburgo, o entrambi... La riva sinistra del Reno!”.
Napoleone III attaccò, fu sconfitto e, come da
copione, i giornalisti e gli storici lo catalogarono
unico responsabile del disastro. Nel 1871, con
Parigi accerchiata dai tedeschi, il Parlamento
francese si rifugia a Bordeaux. Il sommo poeta
28 - Quaderni Padani
Victor Hugo, eletto deputato, presagisce la “rivincita” e detta le condizioni per la Germania
vinta: “Colonia, Treviri, Magonza, Coblenza... È
il minimo che la Francia dovrà esigere”.
Scoppia nel 1914 la guerra mondiale. È l’agognata revanche, la rivincita. Francia e Inghilterra, insuperabili nel maneggio dell’opinione pubblica mondiale, hanno esteso i loro imperi coloniali sino a possedere, in forma diretta o indiretta, quasi i tre quinti del pianeta, ma conclamano
di combattere l’autoritarismo e il militarismo
germanico in nome della libertà e della democrazia. Intanto sono alleate con la Russia degli Zar,
dispotica e semischiavista. Alla Russia hanno promesso, oltre a Costantinopoli, i due frammenti di
Polonia, l’uno tedesco e l’altro austriaco, che ancora mancano al suo tirannico dominio. Per tacita intesa, Francia e Inghilterra si sono poi divise
altre colonie in Africa e in Asia, a scapito della
Germania, ma giurano di versare il sangue dei loro soldati unicamente per la libertà del Belgio e la
redenzione dell’ Alsazia-Lorena. Invece la Francia
ha già stipulato con la Russia accordi segreti per
le frontiere al Reno e la frantumazione della Germania in cinque o sei Stati vassalli, come ai tempi di Napoleone I. I bolscevichi, giunti al potere
nel 1917, renderanno pubblici questi accordi.
E adesso veniamo a noi padani. Nel maggio
1915, parecchi maestri di pensiero si bevono
tutte le fandonie in arrivo da Parigi. A nessuno
viene in mente che il Mezzogiorno d’Italia abbisognerebbe di pace e di cure per avvicinarsi almeno un poco all’Europa. Politici, diplomatici,
giornalisti vogliono sentirsi alla pari con i colleghi delle grandi potenze.
Predicano la guerra al pangermanesimo non
solo per strappargli Trento e Trieste - culturalmente e socialmente lontane da Palermo quanto
Stoccolma da Nuova Delhi - ma anche e soprattutto per cementare l’unità spirituale dell’Italia
e assicurare, come clamano i francesi, il trionfo
della giustizia universale.
Sostenere che la guerra e il massacro della gioventù forniranno il cemento, per l’amalgama delle varie regioni d’Italia è il capolavoro dialettico
dei maestri di pensiero che allora si chiamavano
Corridoni, Salvemini, Labriola, Papini, Prezzolini (ma sì, l’“antitaliano”!), e poi Bissolati, Mussolini, Albertini, eccetera. Direttore del Corriere
della Sera, Luigi Albertini è certo meno sguaiato di Benito Mussolini (l’“epilettico di Milano”,
lo definiscono i giornali cattolici neutralisti), ma
non batte ciglio quando D’Annunzio, nel maggio
1915, incita gli studenti romani a linciare GioAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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litti che vuole l’Italia neutrale. Il fascismo comincia li, in quelle che passeranno alla storia
come “radiose giornate”. Seicentomila morti e
un milione e mezzo di feriti o invalidi non confermarono le profezie dei maestri di pensiero. La
guerra, il fascismo, una seconda guerra mondiale figlia della prima, poi la democrazia corrotta
non fecero che accentuare il distacco del Mezzogiorno dalla Padania e pertanto dall’Europa.
La Francia, dopo aver spinto altri nella fornace (Italia, Romania, Giappone, Grecia,...) chiamò
tutti gli ex belligeranti a Parigi per impostare un
mondo migliore.
Premessa indispensabile era che la Germania,
mutilata ad est, a nord e a ovest di territori per
un totale di 7 milioni di abitanti sui 60 di allora,
lavorasse giorno e notte quasi esclusivamente
per i francesi, ai quali Poincaré, primo fra gli
statisti d’oltralpe, garantiva l’esenzione futura
dalle tasse. Il detto correva su ogni bocca: “le
Boche paiera”, il Crucco pagherà.
L’onnipotente trust siderurgico dei Wendel,
francesi di Lorena. finanziava e ispirava la politica dei Poincaré, Clémenceau, Berthelot ed altri
uomini ligi. Furono i Wendel ad esigere che l’Alta Slesia, malgrado il plebiscito favorevole alla
Germania, fosse assegnata alla Polonia: conteneva il bacino minerario di Kattowic di cui i Wen-
del erano azionisti. Così la siderurgia francese,
impadronitasi della Saar e poi della Ruhr nel
1923 col pretesto che i tedeschi avevano consegnato solo il 98.7% della quota fissata di carbone, mirava ad ottenere il monopolio in Europa.
Non ottenne, come sappiamo, un bel niente.
Il marco fu scagliato nell’abisso da un’inflazione rimasta leggendaria, Poincaré a sua volta fu
costretto a svalutare il franco, con miseria e disoccupazione per vinti e vincitori e i mercati
mondiali nel caos. Le truppe di occupazione
francesi si ritirarono completamente dalla Germania solo nel 1932 e furono, per la crescita
della mala pianta nazista, un ottimo concime.
Qui non vogliamo spaventare il lettore con forzature giornalistiche da Apocalisse, ma solo avvisarlo che la sventatezza politica e finanziaria del
Paese assetato di grandeur ha brutti precedenti.
Peraltro, la composizione etnica della Francia è
cambiata in maniera vertiginosa dal 1945 ad oggi. Oggi, su 58 milioni di francesi, almeno 5 sono
musulmani dei Paesi arabi e dell’ Africa nera. La
classe dirigente è ancora formata da autoctoni o
quasi ma, in parecchie scuole elementari e medie
della zona parigina, i discendenti dei Galli hanno
perso la maggioranza. In attesa di pregare per Allah, il governo di Parigi ci invita a pregare per
l’Europa e la moneta unica.
Monza, 1900: “A morte il tiranno!”
Poco lontano dalla Villa Reale
l’anarchico Gaetano Bresci uccideva
con tre colpi di pistola Umberto I
di Mario Costa Cardol
(La Padania, 29 luglio 1998)
B
enché la presenza in pubblico di sovrani e
capi di Stato comporti quello che in gergo moderno si chiamerà un grosso fattore
di rischio, a Monza la domenica del 29 luglio
1900 non sembra destinata a finire in tragedia.
Nel 1900 le classi agiate, borghesi o aristocratiche, usano un termine piuttosto ambiguo per
indicare un ambiente, una regione, una città,
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dove il lusso più sfacciato si possa esibire senza
provocare né contumelie né sassate. Dicono che
l’ambiente è “sano”. E Monza, da questo punto
di vista, è senz’altro una città sana. Fiorenti industrie tessili l’hanno fatta definire “la Manchester d’Italia”, il contado fornisce tessitrici avvezze alla fatica, gli operai sono ingegnosi, e i
villici di Brianza usano ancora togliersi il berQuaderni Padani - 29
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splendida in un abito di velluto
verde con strascico e tablier
bianco trapunto in oro, adorna
di un diadema di smeraldi ed
altre gioie.
Uno schiaffo alla miseria? È il
giudizio corrente. ma la plebe,
come l’essere umano in generale, è volubile e contraddittoria.
Monza intera non chiede di
meglio che applaudire.
La miseria della massa, tanto in
Europa quanto negli Stati Uniti, ha toccato il fondo negli anni tra il 1880 e il 1900. È stato,
pur nell’incertezza approssimativa di taluni parametri economici, l’abisso storico dell’indigenza popolare, collimante, all’inverso, coi fasti superlativi
dell’alta borghesia. In politica,
andava di moda l’anticlericalismo. Esso faceva comodo ad avvocati, notai, parlamentari, finanzieri di città o di provincia
che, in nome del progresso e
della scienza, ambivano a metter le mani sulle pur sempre
opime proprietà agricole ed immobiliari della Chiesa. La vicenda era iniziata in Inghilterra
tre secoli prima, con la spoliazione dei monasteri ad opera di
Enrico VIII. Queste ed altre
spoliazioni non avevano soltanL’uccisione di Umberto I a Monza. Illustrazione del Petit Jour- to tolto agli operai il conforto
nal
delle “realtà metafisiche” - come schernivano i laicisti - ma
retto quando incontrano un possidente in tuba avevano defraudato i nullatenenti del pur rudie bastone da passeggio col manico cesellato.
mentale sistema di protezione sociale gestito
I sovrani d’Italia, Umberto I e la regina Mar- dalla Chiesa. Dopo il 1880, gli operai delle offigherita, dispongono per le vacanze a Monza del- cine si moltiplicavano, ma la rete di assistenza
la sontuosa Villa Reale, il cui parco si prolunga ai bisognosi, ai vecchi, ai malati, era tutta da riin chilometri di prati e alberi ad alto fusto. La costruire.
domenica è fastosa, il programma del pomerigUn letto per morire e un piatto di minestra
gio alletta ogni classe sociale. Sono previsti cor- per sopravvivere, il monastero lo dava a chiuntei, esibizioni di pompieri e di ginnasti con mu- que. Ora non c’era più neanche quello.
scolature nodose e baffoni a manubrio; bella
Alla Camera, dato il sistema elettorale in vigente. Signore agghindate, allegre note di fan- gore, i socialisti erano pochi. E i radicali, che si
fare militari e di bande cittadine, e soprattutto proclamavano di sinistra, anzi di “estrema sinila magica vicinanza di Umberto e di Margherita, stra” come Cavallotti (morto in duello nel 1898)
maestosa ed avida di sguardi ammirativi. Al ri- in realtà degli operai non si curavano affatto.
cevimento di Capodanno del corpo diplomatico Soltanto paroloni.
al Quirinale di Roma, Margherita è apparsa
Presso un’affittacamere di Monza aveva preso
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alloggio da circa un mese un uomo di trentun ghese. Viva l’anarchia! Viva la rivoluzione soanni dallo spiccato accento toscano. Si era di- ciale!”.
chiarato calzolaio, ma a Paterson, negli Stati
A Paterson, Bresci aveva poi udito che le infaUniti, aveva lavorato come tessitore.
mie borghesi non toccavano solo l’Italia. Gli
Paterson, oggi sobborgo della Grande New emigrati inglesi gli avevano raccontato che nelYork, era un covo di anarchici: emigrati italiani l’agosto del 1893 i minatori di Featherstone, nel
ma anche spagnoli, irlandesi e perfino britanni- Galles, erano esplosi in una rivolta non dissimici, giacché l’Inghilterra, malgrado l’opulenza le da quelle di Sicilia e Lunigiana. Ministro dedella sua classe dominante, lasciava marcire la gli interni era il liberale Asquith, uno degli staclasse lavoratrice nel sudiciume e nell’angoscia tisti più “progressisti” di Gran Bretagna.
della disoccupazione, come attestano i romanzi Asquith spedì l’esercito contro i minatori.
di Cronin, Galsworthy, o le denunce dell’econoFu un massacro. La stampa liberale inglese
mista Hobson. A Paterlodò il ministro per la
son, nel 1899, era giunsua fermezza, ma l’amto Errico Malatesta, uno
basciatore degli Stati
degli esponenti più auUniti annotò: “Davanti
torevoli dell’anarchismo
alla legge, uno spazzaitaliano ed internazionacamino e un Lord sono
le, già discepolo di
uguali... Ma tutto si liBakunin, e che a Parigi
mita a questo. La clasaveva intrecciato strani
se servile è obbligata a
rapporti con l’ex regina
vivere in condizioni
di Napoli Maria Sofia, la
abiette”.
quale aveva giurato di
Più che mai Bresci si
disfare in tutti i modi,
convinse che l’anarchianche alleandosi coi
smo aveva una missio“sovversivi”, l’aborrito
ne universale. RecenteRegno d’Italia.
mente, due sfruttatori
Lasciando perdere
di spicco avevano pagaquesti labirinti intricati
to con la vita. Dopo
e incontrollabili - Giolitl’uccisione del Presiti ne fa però un cenno
dente della Repubblica
nelle sue Memorie - sta
francese Sadi Camot ad
di fatto che a Paterson il
opera dell’anarchico
Bresci impiccato nella cella del carcere
Malatesta collaborò attiCaserio, l’imperatrice
di Santo Stefano, 22 maggio 1901
vamente al giornale La
Elisabetta d’Austria era
Questione Sociale, che
stata accoltellata a Gidiffuse tra gli emigrati lo sdegno più ardente nevra dall’anarchico italiano Luccheni. Almeno
per le tante piaghe del regno Italiano: il denaro nell’anarchia, l’Italia era al primo posto. Ora
e le vite umane gettate nelle inutili campagne toccava a re Umberto.
militari d’Abissinia, la sconfitta di Adua, e speOrmai Umberto sapeva di essere più tollerato
cialmente l’impiego delle truppe del generale che amato, come osserva Romano Bracalini nel
Bava Beccaris contro gli operai a Milano nel suo ottimo e ben documentato La Regina Marmaggio 1898, le cannonate per disfare le barri- gherita (Rizzoli, 1983). Si recò al campo sporticate e conseguente massacro di civili.
vo dopo cena, in redingote nera e cilindro, per
Chi doveva espiare se non il sovrano? Era il la premiazione dei vincitori del concorso ginnibersaglio più logico e appariscente. La sorte di co. Risalì in carrozza alle 22 e trenta; tra gli
Umberto I era segnata. Già nell’aprile 1897 un atleti che circondavano la carrozza briosi e rivealtro anarchico, Pietro Acciarito, ventiseienne renti, si mescolava un uomo tarchiato, dalla
di Artena, aveva tentato di uccidere il monarca fronte bassa, con un fazzoletto nero svolazzante
mentre passava in carrozza con la regina nei al collo. Tre colpi di rivoltella stroncarono quasi
dintorni di Roma. Dopo la sentenza che lo con- all’istante la vita del sovrano che simboleggiava,
dannava ai lavori forzati a vita, Acciarito aveva volente o nolente, il privilegio e il crudele egoigridato: “Oggi a me, domani al governo bor- smo dei ricchi.
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L’Unità d’Italia?
Davvero un magro affare
Dopo il 1861, il nostro paese diventa il più tartassato
d’Europa. E le imposte finanziarono le guerre
di Mario Costa Cardol
(La Padania, 19 agosto 1998)
U
no studio effettuato da economisti di vari
Paesi nel 1892, e poi diffuso da tutta la
stampa italiana, indicava la seguente graduatoria della pressione fiscale sulla base imponibile: Inghilterra 7,30%; Germania 10,12%; Austria-Ungheria 11,04%; Francia 11,82%; Russia
14,25%; Spagna 16,17%; Italia 17,80%.
Il pareggio del bilancio statale, raggiunto da
Quintino Sella nel 1876 grazie alle fatiche dei
contadini gravati dalla tassa sul macinato, non
era durato a lungo. Giunta la sinistra al potere
col primo governo Depretis, le finanze venivano
affidate a un autentico mago dell’economia.
Si chiamava costui Agostino Magliani, nato a
Laurino (Salerno) nel 1826. Come i Ciampi, i
Carli, i Dini, i Colombo e gli Andreotti della nostra epoca, Magliani partecipava spesso a convegni internazionali, godendo di stima e fiducia
Giovanni Giolitti
32 - Quaderni Padani
presso i colleghi stranieri. In un libro uscito nel
1859, Magliani aveva inoltre preso le difese dell’amministrazione borbonica del Regno delle due
Sicilie, in polemica con un altro meridionale, Antonio Scialoja, il quale sosteneva esattamente il
contrario. Chi dei due aveva ragione? A distanza
di tanto tempo, non siamo in grado di appurare
se la finanza borbonica fosse avveduta o sgangherata. Quel che è certo, è che il Magliani proveniva
dalla burocrazia napoletana e che, tra il 1879 e il
1889, resse quasi ininterrottamente il dicastero
delle finanze, o del tesoro, o di entrambi. Cosi, in
dieci anni, riuscì a disfare da capo a fondo l’opera
del Sella.
Agostino Magliani parlava bene ed era convincente. Depretis pendeva dalle sue labbra.
Magliani si era inventato la categoria delle spese “ultrastraordinarie”, che non dovevano contare
per la loro eccezionalità. Si era inoltre escogitata
la dottrina delle “trasformazioni di capitale”, per
cui una spesa che creava una cosa reale non doveva contare come spesa, essendosi convertita in
capitale.
Giolitti, futuro astro della politica e dell’amministrazione dello Stato, si attribuisce nelle sue
Memorie, scritte intorno al 1925, il merito di avere smascherato i trucchi del Magliani.
In realtà, il primo a demolire gli artifizi del prestigiatore borbonico fu un oscuro deputato ligure,
l’onorevole Tomaso Bertollo. “È ora di finirla di
considerare entrata il debito... Io ho sempre detto
che le costruzioni ferroviarie sono certo necessarie, ma non sono “trasformazioni di capitale”, se
non danno reddito!” esclamò Bertollo in una memorabile seduta della Camera nel 1891, quando la
guida del Governo italiano era passata nel frattempo al marchese Antonio Starabba di Rudinì. Il
povero Magliani non era più ministro. Estromesso
due anni prima, era morto nel 1891, quando, a
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reggere il ministero del tesoro, si trovava Luigi
Luzzatti, dottissimo e capace israelita di Venezia,
che taluni considerano, insieme a Giolitti, come il
vero restauratore delle finanze italiane. La lira, intorno al 1906, arrivò a “fare aggio sull’oro” e Giolitti poteva in seguito convertire la rendita, abbassandone il tasso dal 5 al 3,5 per cento.
Ovviamente, questi brillanti risultati si dovevano al mantenimento di una pressione fiscale unica al mondo. Se l’Italia si fosse limitata a costruire ferrovie, strade, ponti ed argini per i suoi fiumi
in dissesto, il torchio fiscale avrebbe potuto allentarsi. Se l’Italia, cacciato lo straniero, si fosse limitata alla Padania, le sue ambizioni di grande
potenza non avrebbero logicamente avuto corso,
e a nessuno sarebbe venuto in mente di “trasformare in capitale” il mantenimento di un esercito
gigantesco e la costruzione di navi corazzate che
squarciavano il bilancio dello Stato ben più a fondo del rostro delle navi nemiche.
Ufficialmente gli italiani del Nord avrebbero
ambito ad emulare le gesta di Roma e a penetrare
nei Balcani sulle orme della Repubblica di Venezia che sapeva tenere croati e sloveni (“schiavoni”) aggiogati al suo carro. Smettiamo comunque
il futile gioco delle ipotesi storiche e non temiamo di assumere le responsabilità dei nostri avi.
Le spropositate ambizioni dei seguaci di Mazzini
finirono volta a volta nel tragico o nel ridicolo.
Ma i seguaci di Mazzini erano in prevalenza settentrionali. Mazzini e Garibaldi erano figli della
Liguria. Per la curiosità e l’esattezza, ricordiamo
che i “lor maggiori” (progenitori) erano nati in
quel di Chiavari.
Nel 1862, quando ormai era chiaro anche ai ciechi che il “brigantaggio” nel Sud non era altro che
un rifiuto cruento dell’annessione al Regno d’Italia, la Camera di Torino (la capitale era ancora là)
nominò una commissione parlamentare per decidere se mollare il Mezzogiorno o impegnarvi tutto
l’esercito in una lotta senza quartiere. La commissione adottò il parere dei suoi due membri più influenti, e indusse la Camera a non tirarsi indietro.
I due membri tanto influenti erano il garibaldino
Nino Bixio e il mazziniano Aurelio Saffi.
L’economia dell’Italia unita e rinsaldata dalle
Alpi a Capo Passero non poteva dunque risentire
degli obblighi, degli impegni, delle aspirazioni
coloniali e dei gravami che, ad esser precisi, laceravano anche il tessuto sociale delle “vere” grandi
potenze - Inghilterra, Francia, Germania e Russia. Purtroppo, soltanto l’Italia era così povera di
materie prime, così afflitta da un Sud improduttivo, e governata da una classe dirigente così squiAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
librata da dedicare tante vite e tanto denaro alla
conquista di colonie ricche soltanto di sabbia e di
pietraie.
In rapida sintesi, il contribuente italiano rimase il più torchiato d’Europa fino al 1945.
Ebbe poi un venticinquennio circa di respiro,
fino al 1970: una parentesi rosa nello sfondo cupo
dell’oppressione tributaria. Era il periodo in cui
giornali ed umoristi stranieri dicevano che “gli
italiani non pagano le tasse”. In parte era vero.
Ma finì presto. Tranne per chi mantenne la possibilità di evadere.
Comunque, nel 1914, allo scoppio della prima
guerra mondiale, un quinto del reddito nazionale
Soldati italiani svellono un cippo di confine
nel maggio 1915
italiano (ossia il 20%) andava al fisco. Il lettore
farà un balzo: ma era poco! Oggi, in tutti i Paesi,
siamo almeno al 30 per cento, e in Italia, secondo
le stime reali e non ufficiali, più della metà del
reddito finisce in tasse. Altro che un quinto!
Il bilancio italiano del 1914 si componeva di 2,5
miliardi di lire di entrate (cifre arrotondate) e di
2,7 miliardi di uscite. L’indebitamento colmava il
buco.
Fra i capitoli di spesa, su 2.700 milioni troneggiava il costo della marina militare: 313 milioni,
oltre il 10 per cento del bilancio statale. E questo
era il prezzo richiesto dalla difesa di 6000 Km di
coste, che un’Italia limitata alla Padania si sarebbe risparmiato.
Quanto valeva la lira nel 1914? Una copia di
giornale costava 5 centesimi (oggi 1.500 lire, ossia 30mila volte tanto), un pasto in un ristorante
di medio livello lire 1 (oggi 30.000), un paio di
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scarpe 5 lire. Molti generi come televisori e lavatrici non esistevano, le auto erano rarissime e costosissime, ma un confronto ragionato e ponderato dà pressappoco 30mila lire di oggi per una lira di allora. Quando il governo Salandra entrò in
guerra nel maggio 1915, l’Italia chiese all’Inghilterra un prestito di un miliardo di lire. Nitti, incontrando a Roma Salandra che passeggiava in
Piazza Esedra, gli disse: “Un miliardo è troppo
poco. La guerra non durerà poche settimane. Ho
letto sulla stampa economica inglese che il governo di Londra ha impegnato tutta la produzione siderurgica degli Stati Uniti sino al 1916 e oltre”. “Bah - risponde Salandra - si vede che gli inglesi hanno soldi da buttar via...”.
La guerra del maggio 1915-novembre 1918 costò all’Italia, in cifra tonda, 80 miliardi di lire. Per
arginare le falle, nel 1920 Giolitti, tornato al governo, si vide costretto a introdurre un’imposta
sul capitale. Anche questa era, per quei tempi,
una novità. Chiacchierando a una conferenza internazionale col Primo ministro britannico Lloyd
George, il ministro italiano Marcello Soleri si
sentì chiedere ragguagli su questo tipo finora inedito di tributo.
“Anzitutto, come sapete - attaccò baldanzoso
Soleri - l’Italia è l’unico Paese che finora l’abbia
applicato...”. “Se è per questo, non ve ne faccio i
complimenti” troncò secco Lloyd George.
Il debito pubblico che ha accumulato, nella seconda metà del secolo XX, il regime che ancora
oggi governa questo sciagurato Paese, è all’incirca pari al costo complessivo della guerra 19151918: 2,4 milioni di miliardi in lire attuali. Le
aziende di Stato, anziché produrre capitali, ne
hanno sottratti al contribuente, anche quando
operavano in regime di monopolio, come la Stet
di pessima memoria. I prodi, senza gioco di parole, che hanno guidato l’Eni, l’Iri e altri enti statali, hanno impegnato la parte migliore del loro ingegno ad occultare dai bilanci la montagna di
quattrini versati nei capaci forzieri dei partiti politici.
Agostino Magliani, nella tomba, dev’essersi sentito come un dilettante della manipolazione contabile.
La marina italiana, un mito da sfatare
di Mario Costa Cardol
(La Padania, 16 e 20 settembre 1998)
R
icorre quest’anno il centenario della morte di Benedetto Brin (1833-98), uomo politico e ingegnere navale che tentò di dare
all’Italia una marina in grado di difendere i suoi
seimila chilometri di coste, e di cementare, per
giunta, l’unità militare e civile degli italiani. Una
marina che portava, sin dall’infanzia, il marchio
della sconfitta di Lissa (1866), e che ha sempre
assorbito, fino al 1943, una quota spropositata
del bilancio nazionale, giungendo con alti e bassi a toccare punte del 12 per cento. Tale percentuale era superata da un unico Paese: la Gran
Bretagna. Ma essa disponeva di ben altre risorse
e poteva permettersi, in quanto isola, di lesinare
sull’armata di terra.
Nel 1890, l’Italia era il Paese d’Europa che
contava il maggior numero di disoccupati e di
emigranti. Ma la sua flotta, nel 1890, era la terza
del mondo. Il capitano di vascello John Fisher,
comandante della più potente corazzata inglese,
34 - Quaderni Padani
deplorava, in una lettera ai superiori, che i 12,5
nodi della sua unità fossero largamente inferiori
ai 15,5 nodi che l’italiana Dandolo, concepita da
Brin, poteva tenere a lungo in navigazione.
Genio organizzativo e fervore marinaresco dimostrarono, curiosamente, tre uomini assolutamente privi di legami ancestrali con le celebrate
repubbliche marinare. Di essi, due erano savoiardi e il terzo siciliano. Si tratta di Brin, Saint-Bon
e Orlando. Figlio di un impresario in carpenteria
di Catania, e maggiore di quattro fratelli tutti dotati per la meccanica, Luigi Orlando impiantava
nel 1856 uno stabilimento a Porta Pilo, in quel di
Genova, varando il primo piroscafo in ferro costruito interamente in Italia. Chi forniva i fondi?
Ovviamente, lo Stato piemontese-savoiardo-nizzardo-ligure di allora. Chi firmava le ordinazioni
e garantiva l’acquisto dell’intera produzione dei
cantieri? Ovviamente, il florido conte di Cavour,
il quale non ignorava che, prima di “dedicarsi alAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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le arti meccaniche”, gli Orlando erano
stati affiliati alla Giovine Italia con
Mazzini, Garibaldi, Rosolino Pilo, Aurelio Saffi ed altri, e che Luigi. durante
l’insurrezione antipapalina del 1848-49
a Roma, si era distinto ponendo una
bandiera tricolore nelle mani della statua di Marc’Aurelio in Campidoglio.
Ideologicamente, l’embrione della
marina da guerra – che sarà monarchica negli alti gradi ancor più dell’esercito - esce dunque sotto gli auspici di
Mazzini, il quale propugnava il possesso di tutta la sponda africana del Mediterraneo. Il nero-barbuto Apostolo aveva poi praticato uno sconto, accontentandosi di Tunisia, Libia ed Egitto. Gli
inglesi, che lo ospitavano e favorivano i
suoi disegni d’Italia unita col denaro e
con la diplomazia, erano un po’ perplessi dinanzi a simili esigenze, ma le
mettevano, sorridendo, sul conto dell’esuberanza latina.
Proscritto e condannato soltanto in
teoria, Mazzini lasciava spesso e volenLa marina italiana nel porto di Genova, 1865 ca.
tieri la brumosa Inghilterra per scendere a Genova, dove Luigi Orlando lo sistemava nella sua villa adiacente al cantiere, e cordi contro la flotta austro-veneto-croata del
dove l’Apostolo contemplava beato le murate de- Tegethoff.
gli scafi destinati a fare del Mediterraneo il Mare
Tra uomini di mare liguri, napoletani, veneti,
Nostrum dell’Italia unita. Orlando, durante le toscani, siciliani e pugliesi, i due savoiardi
frequenti udienze a Torino nel gabinetto mini- Saint-Bon e Brin erano sicuramente i più indisteriale del Cavour, si sentiva blandamente rim- cati a metter pace, forse proprio perché il paeproverare, dal “Gran Tessitore”, la presenza ille- saggio della Savoia è dominato dal Monte Biancita dell’Apostolo a Genova in casa sua. Teatral- co anziché da quel Mediterraneo dove gli italiamente rispondeva allora l’armatore: “Conte, se ni, dopo la caduta dell’impero di Roma, non
io non avessi più che un pane, ne darei una hanno fatto che azzuffarsi. La storia dell’Italia
metà a Mazzini e l’altra la distribuirei fra me e unita propizia le barzellette. Simon Antoine Pala mia famiglia”. Questo svelava al pubblico L’il- coret de Saint-Bon era nato a Chambéry nel
lustrazione Italiana nel 1892, quando moriva il 1828 ed era rimasto ufficiale di marina al servicostruttore della famosissima Lepanto, gioiello zio di Casa Savoia anche dopo che la Savoia, nel
della marineria italiana.
1861, era passata alla Francia. Più volte miniProgettata da Brin, la Lepanto era stata varata stro, egli lottò in parlamento affinché il bilancio
nel 1882 nel maestoso Cantiere Luigi Orlando di della marina non venisse decurtato. Dopo Lissa,
Livorno, che il governo di Roma aveva finanzia- il bilancio era precipitato a 24 milioni: il minito in concomitanza con la fondazione, sempre a stro delle finanze Quintino Sella voleva addiritLivorno, dell’Accademia Navale, patrocinata da tura vendere le navi e liquidare la flotta. Brin,
Brin e dal Saint-Bon in sostituzione delle vec- anch’egli deputato e sovente ministro, riportava
chie scuole di Genova e di Napoli. L’unificazione a galla il prezioso bilancio, assestandolo nel
delle scuole s’imponeva per eliminare vecchie 1888 a quota 158 milioni: oltre un decimo della
ruggini che avevano contribuito a provocare la spesa globale dell’Italia.
cocente batosta di Lissa.
Benedetto Brin era nato a Torino nel 1833;
A Lissa, ufficiali di scuola genovese e napoleta- suo padre era capo macchinista al Teatro Regio e
na si erano fatti la guerra, anziché battersi con- proveniva dalla Savoia, dove il cognome Brin
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(pronunziato Brén
nia mediterranea acin francese) è molto
carezzati prima da
diffuso. Brin fu anMazzini e poi passati
che ministro degli
in eredità – sia pure
esteri, e nel 1893 ebin diverso ambito
be le sue gatte da pestorico ed istituziolare quando ad Ainale - alla dittatura
gues Morte, in Profascista. Il risultato
venza, immigrati itafu il disastro che
liani vennero massatutti conosciamo.
crati dalla xenofobia
Dopo l’armistizio
dei compagni di ladell’8 settembre
voro francesi. Capo1943, tutte le supergruppo dei parlastiti (poche) navi da
mentari piemontesi,
guerra italiane si
Brin rimase fino alla
consegnarono agli
sua morte, nel 1898,
anglo-americani, nei
più rispettato e autofrattempo attestatisi
revole di Giolitti,
Marina italiana nella Seconda guerra mondiale
lungo una linea Saspecie dopo che quelerno-Foggia. Poisti venne implicato nello scandalo della Banca ché la marina, al contrario dell’esercito e delRomana. Ma né Brin né il Saint-Bon riuscirono l’aeronautica, non si era disunita, essa era pronnel loro intento più alto: creare tramite la Marina ta a combattere contro i tedeschi.
“una sola famiglia di tutti gli italiani”.
Gli Alleati affidarono quindi al naviglio sottile
Eccoci ora al conflitto italo-austriaco 1915-18. italiano - incrociatori leggeri, cacciatorpedinieIl prorompere della Germania, degli Stati Uniti e re, torpediniere, corvette – il compito di scortadel Giappone sulla scena dei mari ha relegato la re convogli dalla Tunisia alla Sicilia e alla Puflotta italiana al sesto posto. Comunque, nell’A- glia, ma disarmarono a Malta tre corazzate, e aldriatico, le forze italiane e austriache si pareg- tre le internarono nel Mar Rosso. Il Re, Badoglio
giano. Ma ecco l’Austria assestare una serie di e l’ammiraglio De Courten s’illusero che la “cocolpi bassi che mettono tragicamente a nudo la belligeranza” della marina avrebbe mitigato le
fragilità della compagine sociale dell’Italia unita. clausole della pace.
Il 27 settembre 1915 l’incrociatore Benedetto
Quasi tutte le unità, invece, furono demolite o
Brin, ancorato a Brindisi, salta in aria per una consegnate ai vincitori, Urss compresa, che si
terrificante esplosione che uccide 455 uomini ebbe la magnifica nave-scuola Colombo, gemella
dell’equipaggio. I sabotatori sono italiani: gente della Vespucci.
ignobile al soldo aell’Austria (la centrale operatiAndò perduta anche ogni speranza di amalgava si trova a Zurigo) che tradiscono in base a ma civile fra Nord e Sud della penisola. Dopo l’8
precise tariffe: 300mila lire per un sommergibile settembre, gli equipaggi risultarono in soprano un cacciatorpediniere, 500mila per un incro- numero data l’inattività delle grosse navi da batciatore, un milione per una corazzata.
taglia. Si congedarono per primi, ovviamente, i
Il 3 agosto 1916 è la volta della Leonardo da marinai del Sud, che avevano le famiglie in zone
Vinci, un colosso di 26mila tonnellate, che ha la già “liberate”. Sulle unita in navigazione rimasepoppa squarciata da una catena di esplosioni e si ro in servizio quasi esclusivamente dei settencapovolge nel Mar Piccolo di Taranto. Gli italiani trionali (oggi diremmo “padani”), in prevalenza
reagiscono bene, colando a picco nel corso del numerica già prima, dato che una marina abbiconflitto tre corazzate nemiche a mezzo di silu- sogna soprattutto di operai specializzati - mecranti veloci dette Mas. Ma la compagine dell’Ita- canici, elettricisti, carpentieri - che si potevano
lia unita non si rinsalda. Né per queste né per al- reclutare soltanto al Nord: nel 1942, c’erano
tre imprese.
operai delle Officine di Savigliano spediti sui
Nella seconda guerra mondiale, dal giugno sommergibili senza neppure saper nuotare.
1940 al settembre 1943, l’Italia ebbe di fronte
A fine maggio 1945, anche il grosso dei marinai
quella potenza navale di Gran Bretagna che ri- e ufficiali del Nord poté tornare a casa. La marina
maneva il principale ostacolo ai sogni di egemo- ebbe il buon senso di caricare i congedati sulle
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poche unità rimaste a disposizione, per evitar loro il lunghissimo e periglioso ritorno via terra.
Sul cacciatorpediniere Grecale, ad esempio, si
stiparono oltre 2.000 congedati. C’ero anch’io,
non ancora ventenne ex allievo ufficiale. Assiepate ai bordi del canale tra il Mar Piccolo e il Mar
Grande di Taranto, stavano le fidanzate o amiche
dei marinai padani, che rimpatriavano dopo quasi
dieci anni di permanenza nei porti del Meridione;
molti erano in servizio dalla guerra d’Abissinia o
dalla guerra di Spagna. Le amichette dal molo
mandavano baci e sventolavano fazzoletti.
Un silenzio ostinato, quasi impudente, serrava
la gola dei marinai. Ma all’improvviso, quando il
Grecale fu a debita distanza, si levò un coro assordante di imprecazioni: “Terra maledetta, terra da pipe... mi hai rubato dieci anni di gioventù. Non voglio più vedervi, voi terroni... Che
vita è da voi?”.
Nessuno, né a terra né a bordo del Grecale
avrebbe immaginato che, di lì a pochi lustri,
Esposito sarebbe stato il cognome più diffuso a
Torino e che un ramo della metropolitana milanese avrebbe avuto per capolinea Bisceglie.
Schizzi alla brava sull’invasione
del nostro continente
da parte dei popoli extra-europei
di Mario Costa Cardol
(La Padania, 7, 14 e 21 febbraio 1999)
T
orme di incursori provenienti dall’Africa
avevano flagellato le coste d’Italia in varie
ondate dall’ottavo al quindicesimo secolo,
procurando alle genti della penisola un meticciato di cui oggi sarebbe arduo calcolare le proporzioni numeriche. Ma il primo meticcio ad apparire clamorosamente sulla scena italiana ed europea fu un bastardo dei Medici, quel casato di banchieri, cardinali e papi affaristi che ha bensì propiziato gli splendori rinascimentali di Michelangelo, Bramante e Raffaello, ma ha pure cagionato
all’Italia alcune delle più mostruose sventure
quali il sacco di Roma nel 1567, dovuto alla corruzione, all’intrigo e alla spaventosa leggerezza di
papa Clemente VII.
Dopo il sacco, Papa Medici non si peritò di
chiedere aiuto militare all’imperatore Carlo V, i
cui soldati (lanzi tedeschi e spagnoli) avevano per
un mese trasformato Roma in un’immensa camera di tortura. Occorreva infatti al papa aiuto militare per investire suo nipote Alessandro (alcuni
storici dicono suo figlio) del titolo di primo Duca
di Firenze. Crudele tiranno, Alessandro de’ Medici era nato dal grembo di una serva negra.
Sangue africano ebbero altri personaggi come
gli scrittori Puskin e Dumas, ma, per giungere a
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un ruolo consistente non di individui, bensì di
masse africane nelle vicende dell’Europa, bisogna
rifarsi alla seconda metà dell’Ottocento, quando,
per supplire al calo demografico, la Francia introdusse nel suo esercito interi reggimenti mercenari algerini. Era l’epoca dei cosiddetti “zuavi”, seguiti via via da marocchini, senegalesi e altri difensori della nazione più civile del mondo. La
Francia è stata, come vedremo, il principale veicolo dell’invasione che, che, dapprima lenta e
controllata, ha portato all’attuale flusso selvaggio
e senza freni, salvo quelli teorici sbandierati dai
media.
Chi frequenta a Milano, il Parco Sempione, trova nell’elenco dei caduti francesi nelle battaglie di
Magenta e Solferino (1859), incisi sul basamento
della statua equestre di Napoleone III, nomi come
Ahmed-Ben-Youssouf e Mohamed Djelloud, che
costituiscono un buon ventesimo del totale. Fra
questi c’è forse un antenato di quel Zidane che
nel 1998, nel gioco del pallone, ha assicurato alla
Francia un’altra gloria imperitura.
Il conflitto del 1870-71 contro i prussiani, provocato dalla Francia che vorrebbe disfare l’unità
germanica costituitasi (in forma federativa) nel
1866, registra un impiego ancor più massiccio di
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truppe nordafricane. Tuttavia, la “globalizzazione” non essendo ancora né d’obbligo né di moda,
i mercenari dell’Africa vengono raggruppati in
unità a parte. Le comandano esclusivamente ufficiali bianchi francesi.
Contando all’incirca lo stesso numero di abitanti della Germania (38 milioni) la Francia ha
creduto di rafforzare il suo esercito con schiere di
nordafricani che, sotto il nome di Turcos o di
Gums, destano raccapriccio in un’Europa e soprattutto in una Germania non ancora abituate a
quello che oggi si chiama il “pluralismo delle etnie”. É interessante al riguardo il commento del
più autorevole storico militare dell’epoca,
Wilhelm Rüstow. Due parole intanto per ricordare chi era Rüstow. Ex ufficiale prussiano imprigionato e poi espulso dalla Prussia perché comunista, Rüstow si era entusiasmato per Garibaldi e
si era aggregato alla spedizione dei Mille: alla battaglia decisiva del Volturno (ottobre 1860) Rüstow fungeva da luogotenente dell’Eroe dei due
Mondi. Si era quindi stabilito in Svizzera e i suoi
libri andavano a ruba in tutta Europa.
Gli storici, sia di destra che di sinistra, lo hanno
poi volutamente dimenticato perché scomodo,
cioè imparziale. E Rüstow scriveva nel 1871 circa
gli ausiliari africani della Grandeur: “Nell’interesse della civiltà europea, i francesi potevano risparmiarci queste prove”.
Dopo il 1871, l’Europa conobbe un buon quarantennio di pace. Gli ardori bellicosi si sfogarono nella conquista di nuove colonie: Inghilterra e
Francia fecero la parte del leone. Non mancarono
ingiustizie e soprusi da parte dei bianchi, ma. almeno, i dominatori impedirono ai dominati di
scannarsi a vicenda, come avevano fatto prima
della colonizzazione e come ripresero a fare dopo
la decolonizzazione, ossia dal 1960 fino ad oggi.
Poche settimane dopo lo scoppio della guerra
1914-18, i franco-inglesi si trovarono a mal partito, con gli ulani e i fanti germanici a pochi chilometri dalla Ville Lumière. Molto eroicamente i
poilus (fanti francesi) si difendevano sul fiume
Marna, ma senza l’immediato rincalzo di truppe
freschi, Parigi e la Francia erano spacciate.
Si attendevano col batticuore i rinforzi algerini
e marocchini, i quali si stavano imbarcando nei
porti nel Nordafrica. Due incrociatori tedeschi, il
Goeben e il Beslau, tentarono invano di intercettare e distruggere i bastimenti salpati da Bona e
Philippeville.
La Francia era salva.
Quattro anni dopo, nel giugno 1918, i boriosi
comandi francesi vissero altre giornate d’ango38 - Quaderni Padani
scia, quando l’esercito tedesco, pur stremato dalla
fame per il blocco navale inglese, stava vibrando
l’u1timo colpo di coda. Ma il 10 giugno, l’avanzata era stroncata da un contrattacco sferrato dalle
truppe francesi di colore agli ordini del generale
Mangin.
Anche gli inglesi avevano fatto largo ricorso a
truppe di colore, indiane soprattutto. Nell’euforia
della vittoria, i governi di Londra e di Parigi non
pensarono minimamente alla gravità del fatto di
aver inoculato in Europa un corpo estraneo.
Nell’atmosfera caotica di quel primo dopoguerra, si pensava che il miscuglio delle genti si sarebbe limitato alle follie esotico-musicali delle jazzband di Londra e del famoso Bal Nègre di Parigi,
importati peraltro dai quartieri negri degli Stati
Uniti piuttosto che dai tuguri dell’Africa.
Poiché la società rifuggiva dall’equiparazione
delle razze, era stata una mossa da irresponsabili
quella di ricorrere al sangue africano per schiacciare Germania e Austria.
Le quali, già nel 1916, erano disposte a negoziare una pace senza vincitori né vinti. Inghilterra e Francia volevano invece distruggere l’unità e
l’economia della Germania.
Delle terribili effusioni di sangue dei soldati le
classi dirigenti non si curavano, o se ne curavano
a parole. Il testardo obiettivo di una vittoria assoluta e dell’umiliazione della Germania – causa
non ultima del conseguente nazismo – rendeva
indispensabile il ricorso ai mercenari extraeuropei. Una cambiale psicologica che l’Europa intera
è obbligata adesso a pagare.
Ma negli anni venti e trenta, Francia e Inghilterra serbavano una mentalità rigidamente colonialista. Per esempio un vietnamita, laureato al
Politecnico di Parigi, quando rientrava nella sua
terra d’origine, doveva accontentasi di un posto
subalterno agli ordini di un qualsiasi francese
bianco, magari idiota e incompetente. Da un eccesso all’altro: oggi la discriminazione tende a
farsi all’inverso.
Grazie alle clausole giugulatorie e volutamente
confuse del trattato di Versailles, la Francia nel
1920 mirava ad annettersi, o comunque a staccare dalla Germania. tutto il territorio alla sinistra
del Reno. Queste mire comportavano atti di violenza, intimidazioni ed anche omicidi.
La Francia occupò il territorio sino al 1930. A
quali unità dell’esercito venivano affidate di preferenza le azioni delittuose? Alle unità formate da
truppe di colore.
“L’impiego di truppe di colore di bassissima
cultura – proclamava il socialista Ebert, presidenAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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te della repubblica tedesca – è un’offesa
delle leggi della civiltà europea”. Ma lo
statista francese Clèmenceau, detto “il
Tigre”, ridacchiava in pubblico: “Trovo
più bellezza nel corpo di un senegalese
che nel cervello di tutti i professori di
Colonia e di Berlino”. È un peccato che
gli storici omettano di citare tali provocazioni tra le cause dell’ascesa di Hitler.
Ed è strano che in Francia, dove l’umorismo abbonda, nessuno abbia pensato
di ribattezzare Asino il Tigre.
Nel 1947 l’Inghilterra lasciò l’India,
che ormai le costava più di quanto le
rendesse. In un decennio, l’orgogliosa
Gran Bretagna, signora del più vasto
impero coloniale della storia, smobilitò
quasi tutti i suoi possedimenti.
Era in bolletta, si era indebitata per
vincere la seconda Guerra Mondiale a
fianco degli Stati Uniti e dell’Unione
Sovietica, e le spese causate da guerre e
guerricciole per tenere soggetti i popoli
colonizzati l’avrebbero ridotta in mutande.
In Europa l’idea base dei progressisti
era sempre stata che l’auspicata indipendenza delle colonie avrebbe dovuto
giovarsi in loco delle minoranze colte di
studenti - in genere figli di reucci o capi
tribù - formatisi nelle università di Londra, Parigi o Ginevra.
Vittorio Emanuele II nominato caporale degli zuavi
Furoreggiava negli anni Trenta il lia San Martino, 1859
bro di Louis Bromfleld intitolato La
Grande Pioggia. Il protagonista, un giovane medico indiano, usava toni lirici per espri- guente in circostanze oscure. Un amico sovietico,
mere la fierezza e la fortuna di aver studiato in prendendomi bonariamente sotto il braccio, mi
Europa per essere utile al suo popolo.
diceva negli anni Ottanta: “In confidenza, voi euL’intreccio narrativo era emblematico, ma negli ropei siete dei coglioni. Vi lasciate impressionare
anni Sessanta era già emblematico alla rovescia.
dalla nostra propaganda che tuona contro le voInvece di tornare in India per curare ed educare stre discriminazione razziali. Ma a Mosca e all’Ui loro fratelli, la stragrande maggioranza dei me- niversità Lumumba. le cose non vanno come voi
dici laureatisi in Inghilterra aveva preferito im- immaginate. Da noi, un medico o un ingegnere,
piegarsi negli ospedali di Londra, Liverpool, Bir- appena laureato, prende l’aereo e se ne torna al
mingham.
suo Paese. Là, sarà un nostro buon amico politiPassando dalle minoranze colte alla turbe dei co e formerà una classe dirigente schierata con
semianalfabeti, risulta che del proprio popolo, l’Urss alle Nazioni Unite, all’Unesco, eccetera. Ma
della propria terra, a ciascun extraeuropeo non se uno studente africano, durante gli anni di stuimporta un fico secco.
di a, Mosca si prende la libertà di entrare in un
Mosca aveva dedicato a Patrice Lumumba la ristorante o un bar con una ragazza russa, gli si
sua università per stranieri. L’ateneo era così avvicinano subito due tipi vestiti in maniera cochiamato dal nome del primo presidente del Con- mune che gli mostrano un tesserino. I nostri
siglio del Congo dopo la conquista dell’indipen- sbirri non sono bardati come i vostri carabinieri
denza (1960); Lumumba veniva ucciso l’anno se- con giberne e cimiero. Lo studente negro, lo fanAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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li, ufficiali francesi e Legione Straniera si erano fatti intrappolare.
Credendosi più furbi degli inglesi, i
governi di Parigi decretarono che
della “repubblica indivisibile, laica,
democratica e sociale” erano parte
integrante tutte le colonie, dall’Algeria al Madagascar, dal Togo al Camerun. Chi ne predicava l’indipendenza poteva, in teoria, finir fucilato come traditore, al pari della spia
Mata Hari nel 1917.
L’Algeria contava 8 milioni di musulmani contro un milione scarso
di coloni francesi bianchi: nel
1830-40, al momento della conquista francese, i musulmani non arrivavano a due milioni. Numericamente, adesso, la lotta era impari.
La nazionalità francese non ci protegge, dicevano gli Algerini, dagli
abusi e dallo strapotere dei coloni
bianchi. E poi, occorreva uno Stato
islamico, con leggi e statuti adatti
al costume islamico. I francesi avevano violato la loro personalità morale. Dovevano sloggiare.
Islamismo e cristianesimo, fedeltà
al Corano e stile di vita occidentale,
non potevano convivere.
Con circa 60.000 guerriglieri intrepidi e spalleggiati dall’intera popolazione musulmana, l’Algeria impegnò la lotta dal 1955 al 1962 e
La 2a divisione marocchina nel Lazio, dicembre 1943
obbligò la Francia a mandarle contro tutti i 400.000 soldati del suo
no uscite senza tante spiegazioni, e alla ragazza esercito di leva. La Quarta Repubblica “indivisibisussurrano: Se non ti garba un viaggetto al di là le” dall’Atlantico all’Oceano Indiano si sfasciò nel
degli Urali, fa la brava”.
1958; ne approfittò De Gaulle, cambiando la coIn Italia, Maurizio Costanzo esortava le pulzelle stituzione francese (Quinta Repubblica) e cercanad accoppiarsi con un negro. E alla “scuola di do sulle prime d’intensificare lo sforzo bellico.
partito”, frequentata dal giovane D’Alema e da al- Nel 1962, si arrese all’evidenza ed accordò agli altri innocentini che allora si chiamavano comuni- gerini tutto quanto chiedevano. Capo della ribelsti, le regole dell’Università Lumumba non veni- lione era stato un certo Ben Bella, ex sottoufficiavano insegnate.
le dell’esercito francese che, nel vecchio assetto
La Francia, insieme all’Inghilterra, è il Paese coloniale, non sarebbe potuto avanzare nemmeeuropeo che conta il maggior numero di islamici no al grado di tenente.
e di extracomunitari, anche proporzionalmente al
Ai coloni francesi bianchi fu proposta una granumero degli aborigeni bianchi e cristiani. Alla ziosa alternativa condensata nel motto: “O la valiFrancia, nel 1955, era andata perduta soltanto gia, o la bara”. Scelsero la valigia.
l’Indocina, dopo un conflitto cruento contro l’arMa a questo punto viene il bello. Se ai francesi
mata comunista di Ho Chi Minh e terminato con in Algeria non è più concesso neppure di gestire
la sconfitta di Dien Bien Phu (1954), in un piano- una merceria, perché in Francia spuntano subito
ro chiuso fra alte montagne dove truppe colonia- tanti e tanti negozi di frutta e verdura. spacci ali40 - Quaderni Padani
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mentari, locali e ritrovi gestiti da nordafricani?
Come si permette quel tipaccio che sino a poco
fa sbraitava “Fuori da casa mia!”, d’installarsi
adesso in Francia con armi, bagagli e tutta la
smalah (famiglia in arabo)? I media non se lo
chiedono. I francesi neppure.
Ma c’è il boom dell’auto, e la Francia dev’essere
concorrenziale di fronte alla Germania, che ha
chiamato i turchi nelle sue officine. Le fabbriche
Renault, Peugeot e Citroen si riempiono di algerini, marocchini e via dicendo. È la legge del
mercato. Ma c’è da domandarsi come siano riusciti i giapponesi a dominare il mercato mondiale
dell’automobile senza sottoporsi ad alluvioni di
non giapponesi.
Per ripopolare la Francia in calo demografico,
De Gaulle e il suo primo Ministro
Debré vararono, tra il 1960 e il
1964, una serie di leggi accordanti,
alle famiglie numerose, sussidi e
assegni famigliari che ancor oggi
figurano tra i più generosi non
d’Europa, ma del mondo. I francesi
della madrepatria accolsero queste
provvidenza con un fervore - diciamo - moderato.
Ma tra gli arabi, si scatenarono
allegrezza e fecondità. Algerini,
marocchini, tunisini, senegalesi ed
altri residenti dell’impero coloniale
si precipitarono sulla terra di Voltaire e Montesquieu, dove le prodigalità valevano anche per le famiglie straniere. Verso il 1980, ad
un’ora mattutina, mi trovano in un
bar del ventesimo arrondissement
(distretto cittadino) di Parigi, ormai arabo per tre
quarti, e nella scherzosa atmosfera del locale un
marocchino sui quarant’anni celiava rivolto a
quelli che si affrettavano al lavoro: “Sì, sì, vai a
sgobbare, che ti fa bene...”. Lui, placido, riposava
tutto il giorno. Riscuoteva il sussidio di disoccupato e aveva nove figli.
Sino al 1980, nella mia beata innocenza, non
mi sembrava che la Padania stesse per venir colpita dall’onda extracomunitaria. Quanto ho raccontato mi pareva logico rimanesse circoscritto
alle due potenze, Inghilterra e Francia, che, nel
1914, possedevano circa la metà del pianeta e che
avevano affrontato la prima guerra mondiale scagliando tuoni e fulmini contro il “germanesimo”
imperialista, formato da una Germania che in fatto di colonie possedeva solo qualche rimasuglio
dell’abbuffata anglo-francese (Togo, Camerun,
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
Tanganika) e da un’Austria-Ungheria che possedeva saggiamente zero colonie, ma che aveva il
torto di non tollerare l’espansionismo dei serbi
nei Balcani.
Per vincere in nome della libertà dei popoli, le
succitate potenze si erano servite di due grosse
pedine.
Una pedina era l’Impero russo degli Zar, che in
tema di libertà dei popoli vantava il regime più
reazionario ed oppressivo del mondo. L’altra pedina, come abbiamo visto, era costituita dalle truppe coloniali. .
Se li son voluti, adesso se li godano, dicevo tra
me ogni qual volta, a Parigi e a Londra, vedevo
frotte di negri e di indiani sdraiati sulle panchine
dei parchi.
Soldati di colore dell’esercito francese, 1940
E sogghignai quando, in Hyde Park, un ex sottufficiale della marina britannica mi raccontò la
sua disavventura. Si era licenziato dalla marina
dopo quindici anni di servizio volontario perchè il
governo di Londra, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, aveva soppresso la ferma obbligatoria. Con i soldi della liquidazione, e col peculio di una divorziata che lui aveva sposato appena finito di navigare, aveva comprato una graziosa villetta nell’estrema periferia, ai margini dei
boschi. Lavorava come capo reparto nei grandi
magazzini Macy’s. Era felice.
“In pochi anni, la zona si è trasformata in un
accampamento indù. D’estate, gli indiani cenano
all’aperto fino all’una di notte. L’aria dei boschi è
impregnata di curry ed altre spezie. Il baccano è
infernale. Finirò col vendere, ma le quotazioni
immobiliari della zona sono crollate dopo gli inQuaderni Padani - 41
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sediamenti dall’India”. “Ma gli indiani sono indipendenti, hanno persino la bomba atomica. Perché si riversano tutti qua?” interloquì mia moglie
con ingenuità simulata. “Francamente non capisco. Dovrebbero esserci delle quote di immigrazione, ma tutto è poco chiaro...” mormorò desolato l’ex nocchiero della Royal Navy. Nella marina
britannica si cantava “Britannia rules the waves”,
la Gran Bretagna domina i mari, ma adesso gli
inglesi non sembravano più padroni nemmeno
della terraferma. “We left the colonies, but the
colonies followed us...”. “Abbiam lasciato le colonie, ma le colonie ci son venute dietro”, fu la rassegnata chiusa del discorso. Si era nel 1976.
Tornato in Padania, mi rallegrai pensando che
amarezze simili a quella dell’ex nocchiero inglese
non erano ipotizzabili. Pochi anni dopo, notai
però sulle spiagge liguri degli inconsueti assembramenti di gruppi neri di venditori ai cianfrusaglie. Sui giornali si leggeva occasionalmente dì
“extracomunitari”, termine che filologicamente
poteva attribuirsi agli svizzeri o agli austriaci,
non ancora facenti parte della Comunità Europea. Dovetti presto rendermi conto che l’extracomunitario non veniva dal Nord, e che la parola
era un subdolo inganno linguistico, quasi che la
Comunità Europea fosse stata creata apposta per
fornire, grazie al prefisso “extra”, un comodo eufemismo atto a designare gli appartenenti a clan e
tribù africane. D’altronde, quando mi occorse un
documento delle autorità di polizia parigine, mi
avvidi che già da un ventennio la burocrazia francese adoperava stampati con la richiesta ad ogni
straniero, marocchino o svedese, algerino o austriaco, senegalese o italiano, di specificare la
“tribù di appartenenza”.
Intanto, anche i tedeschi venivano assaporando
le delizie della società multirazziale. Oggi, con tre
milioni di turchi fra il Reno e l’Oder, le mamme
tedesche non possono più mandare i loro bimbi
all’asilo. La risposta è ovunque la medesima: “In
questo istituto i posti sono già riservati. L’asilo è
per i piccoli turchi. I vostri figli hanno invece la
possibilità di imparare il tedesco dai genitori”.
Quale fatalità, quale, “destino imprescindibile”
della storia ha portato l’Europa a rinnegare persin la logica e il diritto naturale? Sentite quest’ultima.
A Parigi, nel giugno 1990, su Figaro, leggevo
ogni mattina, in prima pagina ma senza gran risalto, i resoconti del processo a monsignor Lefevre, quel prelato tradizionalista che voleva conservare la messa in latino. Ma non si trattava né
di messa né di latino, il procedimento penale si
42 - Quaderni Padani
riferiva a un’allocuzione del prelato circa bande
di marocchini che sequestravano giovani donne
francesi destinate ai bordelli di Rabat e di Casablanca. Il sultano del Marocco, sapendo che era
vero, non si prese la briga di protestare. Ma il prelato non aveva fatto i conti con la magistratura
francese. Questa si mosse da sola, fremente di
sdegno. Si stava dunque processando monsignor
Lefevre per “incitamento al razzismo”. Premesso
che in Francia si applica la condizionale anche fino ai cinque anni, la condanna fu severa: cinque
anni di carcere con la condizionale.
Sui giornali, eccettuato il Figaro, neanche una
riga. Il prestigioso Le Monde, additato dagli intellettualoidi italioti come massimo esempio di libertà e completezza d’informazione, non trovò
nessun cronista giudiziario da mandare in tribunale.
Quanto ai marocchini, è ovvio che non tutti si
dedicano al lenocinio. Pare che nel Meridione
molte aziende agricole non potrebbero sopravvivere senza il lavoro nero degli immigrati.
Però certi agricoltori del Piemonte hanno fatto
esperienze sconcertanti.
Un anno che mancava la manodopera per la
raccolta delle pesche, si rivolsero a gruppi di marocchini che tutti i giorni passeggiavano riposati
e pasciuti grazie alle sollecitudini del nostro clero. “Gli alberi stracarichi rischiano di subire
danni irreparabili”, implorarono. La replica dei
fedeli di Allah fu sprezzante: “Gli alberi li avete
piantati voi. Non è affar nostro”.
Sette anni fa andai a visitare miei parenti in
Belgio e trovai la Grande Place di Bruxelles irriconoscibile. Lungo il perimetro delle facciate dei
palazzi, gioielli dell’architettura fiamminga, stavano accosciati l’uno accanto all’altro un centinaio di africani. Era in pieno giorno, e di giorno
nelle fabbriche si lavora. Che fossero tutti operai
dei turni di notte? Fui avvertito dì non fare commenti né sarcasmi ad alta voce, perché rischiavo
noie con la polizia e la magistratura.
L’Europa è ancora in democrazia? C’è da dubitarne, perché l’intolleranza degli esaltati, dei con
formisti e degli stupidi ha fatto passi da gigante.
Nel 1993 uscì l’ultimo dei miei libri dedicati al
Risorgimento. In un parallelo tra il passato e il
presente, osservavo: “Culturalmente e spiritualmente, l’Europa oggi si sta suicidando”. Il critico
dì un cosiddetto autorevole quotidiano milanese
mi fece discretamente sapere che era impossibile
recensire un libro contenente valutazioni del genere. Pazienza. Sempre meglio che cinque anni
di galera.
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L’Asse Roma-Berlino?
Concepito nel 1919
Tra le motivazioni dell’intesa, l’arroganza
dei Transalpini vincitori della Grande Guerra
di Mario Costa Cardol
(La Padania, 3 marzo 1999))
O
ttant’anni fa, politici e giornalisti di mezza
Europa discorrevano di un’alleanza che
sembrava quanto meno bizzarra. In quel
1919, straziato dal lutto di oltre dieci milioni di famiglie di caduti della Grande Guerra, un celeberrimo politologo francese scriveva a un giovane ma
già rinomato direttore di giornale italiano: “Sapreste dirmi cosa c’è di vero in queste voci di alleanza tra Italia e Germania di cui tanto parla la
stampa di Parigi?”.
L’illustre politologo si chiamava Georges Sorel;
il giornalista famoso, Mario Missiroli. Di preciso,
in quelle voci, non c era nulla, ma sicuramente
covava un’acredine vendicativa. A Parigi, dove le
potenze vincitrici (Francia, Gran Bretagna, Stati
Uniti, Italia e Giappone) preparavano con studiata
lentezza le terribili condizioni del trattato di pace
da imporre alla Germania, l’Italia figurava come
cenerentola. Francia e Gran Bretagna menavano
la danza, spartendosi le colonie tedesche nonché i
territori impregnati di petrolio (come l’attuale
Irak) già appartenenti all’Impero turco anch’esso
sconfitto. All’Italia. si concedeva una rettifica di
frontiera in Somalia (!) e si contestavano persino
gli ingrandimenti territoriali in Istria e in Dalmazia garantiti dal patto di Londra (maggio 1915).
Certamente, fra Istria e Dalmazia, l’Italia avrebbe
inglobato un sei-settecentomila slavi; ma, dal momento che si permetteva alla neonata Cecoslovacchia e Polonia d’ingoiare oriundi germanici a milioni e milioni, la “pace giusta” invocata dal presidente americano Wilson si riduceva al sistema dei
due pesi e due misure.
I giornalisti italiani erano furibondi. Durante le
“radiose giornate” del maggio 1915 essi avevano
spaccato il capello in quattro per dimostrare che
l’Italia aveva fatto bene, nel 1882, ad allearsi con
Germania ed Austria-Ungheria, ma che adesso era
d’uopo fare dietro-front. Il grande nemico dell’ItaAnno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
Cartolina propagandistica dell’alleanza
fra Italia, Germania e Giappone
lia e dell’Europa era il “pangermanesimo”. Dopo
tre anni e mezzo e 600.000 morti, si cambiava
nuovamente idea. Il principe dei gazzettieri era allora Luigi Albertini, direttore del Corriere della
Sera. Lui, Ugo Ojetti, Guelfo Civinini, Virgilio
Gayda ed altre “grandi firme”, si rivoltolavano nelle contraddizioni. I fatti dimostravano chiaramenQuaderni Padani - 43
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Firma del Patto d’Acciaio, Berlino, 22 maggio 1939
te che l’enorme sacrificio richiesto nel 1915 non
era valso la pena. Una volta di più, il paese di Machiavelli si era rivelato un paese di babbei. L’Italia,
vittoriosa in guerra, si sentiva trattata da vinta.
Era questa una forzatura polemica perché, al contrario della Germania, l’Italia aumentava la sua
superficie, anche a spese del Sudtirolo, tedesco
per lingua e costumi.
Tuttavia. a confronto del lauto bottino degli altri
vincitori, innegabilmente il paese di Machiavelli
raccoglieva le briciole.
24 aprile 1919. Tra lagrime e stizze, la delegazione italiana capeggiata da Orlando abbandona il
tavolo della conferenza pensando di bloccarne i lavori. Due settimane dopo, mentre Orlando rimane
a Roma, il ministro degli esteri Sonnino compie
un affannoso viaggio di ritorno, a Parigi dove i
suoi due collaboratori, il ministro degli approvvigionamenti Silvio Crespi (della famiglia degli
azionisti del Corriere della Sera) e il diplomatico
Luigi Aldovrandi, gli presentano un quadro disastroso. L’Italia è stata retrocessa alla categoria degli “Stati ad interessi limitati”, cioè fra gli alleati
minori come Grecia, Serbia, Romania, Portogallo.
Inoltre, Smirne e la regione circostante, già
promessa all’Italia, è stata assegnata alla Grecia.
Crespi affronta il primo ministro francese Clémenceau, il quale, con evidente allusione alla
merda, replica volgarmente: “Voi l’avete; fatta,
adesso mangiatela!”. Crespi rincorre il villanzone
che si allontana nel corridoio seguito da un codaz44 - Quaderni Padani
zo di giornalisti e tirapiedi. Vuole schiaffeggiarlo,
sfidarlo a duello. Molti s’interpongono, e la bolla
di sapone fa presto a svaporare.
La sera stessa, durante un ricevimento nel sontuoso alloggio parigino preso in affitto dal governo inglese per il premier Lloyd George, si ode Clémenceau conclamare: “Vi è una pronunciata propaganda germanofila in Italia, dove il governo tedesco sta spendendo somme enormi...”. Affamata
dal persistente blocco navale e presa alla gola dagli strozzini franco-inglesi, non si vedeva proprio
come facesse la Germania a spendere in Italia
“somme enormi” per corrompere i giornali.
In verità, nel febbraio 1919, il Corriere della Sera auspicava che l’Austria, ridotta a un troncone
separato da ungheresi, slavi, italiani e altri non
germanici, fosse saldata alla Germania. Era l’Anschluss, reso famigerato da Hitler nel 1938 per la
maniera brutale della sua attuazione, ma, nel
1919, considerato legittimo anche dai socialisti e
dai comunisti di Vienna e di Berlino: il deputato
comunista Liebknecht lo perorava al Reichstag in
un discorso appassionato.
Secondo Clémenceau, Italia e Germania volevano formare un blocco antislavo: gli italiani contro
la nascente Jugoslavia, i tedeschi contro le fameliche Cecoslovacchia e Polonia, sostenute logicamente col danaro e le armi del governo di Parigi.
Insomma. Tutto congiurava a ricondurre i pensatori politici romani alle simpatie verso Sigfrido
e le Valchirie della mitologia teutonica. Trieste era
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ancora presidiata da reparti francesi, residuo di
quell’esercito misto - formato anche da inglesi,
italiani, serbi, greci e rumeni - che nel 1918 era risalito da Salonicco penetrando ovunque nelle
sparse membra del moribondo impero austro-ungarico. Il nucleo di quest’armata eterogenea era
costituito da francesi, agli ordini del generale
Franchet d ‘Espéray .
A Trieste, compito dei francesi sembrava quello
di canzonare la cittadinanza. Un giorno che avevano molestato pesantemente ragazze triestine, la
popolazione reagì, mandandone al cimitero una
quindicina. Wilson e Lloyd George, allora, si
sbracciarono per trattenere Clémenceau dal muover guerra al paese di Machiavelli.
Clémenceau alla fine si accontentò delle scuse,
ma per tutto il resto della conferenza, ogniqualvolta si rivolgeva alla delegazione italiana. bofonchiava “popolo d’assassini, popolo d’assassini...
Abbiamo in Italia 1200 soldati che rischiano il
massacro!”. Per contrappeso, serbi e croati, sobillati dai francesi avevano trucidato a Spalato un
certo numero di marinai italiani.
Passarono vent’anni. Il 22 maggio 1939 Ciano
firmava a Berlino, quasi senza riflettere, quel “Patto d’Acciaio” ch’era anche il frutto delle offese ricevute dai governi di Parigi. L’Italia andò in rovina. La Francia ringoiò la superbia e subì quattro
anni vergognosi di occupazione.
E tutto ciò per poi diventare, sul finire del secolo XX , la nazione capofila della “mondializzazione” liberticida dei popoli europei.
Farini e Cassinis, due tragedie
all’italiana
Nel dicembre 1862 si parlava di un ministero
che rinunciasse a Roma e al Mezzogiorno, invece...
di Mario Costa Cardol
(La Padania, 28 aprile 1999)
N
ell’agosto1862, tutta la penisola a sud del
Tronto ribolle di massacri, agguati, incendi, torture ed efferatezze quali l’Europa ha
visto raramente dall’epoca della guerra dei
Trent’anni (1618-1648). Politici e giornalisti italiani sono in preda a somma agitazione. Discorsi
in Parlamento e articoli di fondo denotano un’inquietudine che a molte famiglie riesce però incomprensibile.
Da lettere o conversazioni durante la licenza, i
famigliari dei soldati del Centro-Nord sanno di atti di ferocia bestiale commessi dai guerriglieri
meridionali, oppure di spietate rappresaglie da
parte del regio esercito italiano.
È di questo che si parla tanto sui giornali? Ma
nemmeno per sogno.
Le notizie sulla guerra civile vengono relegate
in qualche pagina interna sotto il titolo banale di
“brigantaggio”. I giornali, sempre sfasati rispetto
alla gravità cruciale dell’ora – oggi si accalorano
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per Proal e DAlema ignorando l’immigrazione
selvaggia - ridondano invece, nell’agosto 1862, di
articoli al batticuore sugli spostamenti di Garibaldi dalla Sicilia alla Calabria.
L’Eroe vuole conquistare Roma, scacciarne il
papa.
Il senatore Roberto D’Azeglio, fratello di Massimo, si era illuso fino all’ultimo sul buon senso
dei suoi nuovi compatrioti lombardi, toscani,
emiliani: “Penso che l’opinione di lasciar Roma
al Papa - scriveva il 12 aprile all’amico Sclopis guadagni ogni giorno terreno. Dio la voglia. Ne
abbiamo già abbastanza dell’impiastro napoletano che ci hanno messo sul groppone”.
E invece, il 30 agosto 1862, la stampa dirama
quella che per i seguaci di Mazzini, fautore dell’unità d’Italia con Roma capitale, è la più luttuosa
delle notizie. Garibaldi, in marcia verso Roma
con 2000 “camicie rosse”, è stato ferito al malleolo in uno scontro con le truppe regolari sui dirupi
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dell’Aspromonte. Fatto prigioniero,
Che barbarie! Altro che Italia! Quesarà tosto liberato con massimo dei
sta è Affrica: i beduini. a riscontro di
riguardi e degli onori. Ma se non lo
questi caffoni, sono fior di virtù civisi fermava erano guai.
le...La canaglia dà il sacco alle case
La Francia di Napoleone III, prode’ signori e taglia le teste, le orectettrice del papa per sue ragioni di
chie a’ galantuomini e se ne vanta.
politica interna, avrebbe dato all’Ita(...) Anche le donne caffone ammazlia Una durissima legnata. E ciò, nozano; e peggio: legano i galantuonostante che gli italiani fossero eremini (questo nome danno a’ liberali)
di dei legionari di Cesare e di Scipe’ testicoli, e li tirano così per le
pio, come proclamava Mazzini e costrade; poi fanno ziffe zaffe: orrori da
me cantava l’inno di Mameli.
non credersi se non fossero accaduti
Il governo Rattazzi, dopo aver daGiovan Battista
qui dintorno ed in mezzo a noi. Ma
to alla Camera le spiegazioni più inCassinis
da qualche dì non è accaduto altro:
verosimili del suo doppio gioco, si
ho fatto arrestare molta gente; alcudimetteva al primi di dicembre. In meno di due ni ho fatto fucilare alle spalle (ne domando scusa
anni, l’Italia unita approdava così al suo quarto a Cassinis)...”.
ministero. Dopo Cavour, Riscasoli e Rattazzi, chi
Cassinis volle andare a Napoli a vedere di persosarebbe stato il quarto guidatore? Si avanzò il no- na. Non riuscì a giustificare le ziffe zaffe, ma ebbe
me di Giovan Battista Cassinis, un personaggio ri- poche scusanti anche per i galantuomini: “La
masto ignoto - per ben comprensibili ragioni - alla parte orribile non è il popolo bensì il ceto medio.
quasi totalità degli italiani. Cassinis era risoluto a Tutto domandano (...) impieghi, pensioni, danaro
farla finita con tutte le baggianate e le calamità ad ogni modo. Stanno attenti gli uni agli altri su
che gli “unitari” si erano andati a cercare. In prati- chi va più innanzi (...). Ciascuno crede sempre se
ca voleva rinunciare a Napoli (per Napoli s’inten- stesso dieci volte superiore al posto che ha e tutti
deva allora tutto il Mezzogiorno) e a Roma.
vorrebbero essere Presidenti d’Appello, di CassaNato a Vercelli e laureato in legge, in pochi anni zione, Ministri!”.
Cassinis si era creata una solida fama di giureconSullo sfondo di prigionieri tagliati a pezzi, opsulto: quasi un fanatico del diritto. Ministro della pure arsi a fuoco lento legati agli alberi, e di integiustizia con Cavour nel 1861, Cassinis deplorava i ri villaggi incendiati per rappresaglia, Farini a
metodi spicciativi del “luogotenente” Farini, invia- Cassinis perdevano fiducia.
to a Napoli per preparare l’annessione.
Farini continuava a fucilare nella schiena, e
Nel famoso dispaccio del 21 ottobre 1860 Farini Cassinis deprecava “questo inerte popolo napoletrasmetteva a Torino: “Che paesi son mai questi... tano che ha bisogno d’ozio, di danaro e di disordini”.
Fabbrica di maccheroni a Napoli
Ovunque occorre rinforzare la polizia. “Ma la polizia in mano di chi
è?... Dei così detti Camorristi: gente
che fa a vicenda la parte dell’agente
di polizia e del ribaldo”..
Malgrado il suo pessimismo, Cassinis
restava un ingenuo. Era persuaso
che bastasse cambiare le leggi per risanare il Mezzogiorno. “Si faranno
cessare quelle 15 loro Corti criminali di trista memoria”, e si costruiranno strade, ponti, ferrovie, Ma se nessuno osava testimoniare contro il
crimine organizzato, a che serviva
un rifacimento di leggi?
Cassinis si lagnava col Cavour che
Farini nicchiasse a “pubblicare i Codici”, appunto le nuove leggi. E il
Gran Tessitore gli rispondeva nel no46 - Quaderni Padani
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vembre 1860: “Temo
rini, già infermo di
che i fumi della Luogocorpo e di mente, al
tenenza abbiano alquale bastano poche
quanto offuscato l’intelsettimane per finire
letto del nostro amico”.
dall’ufficio di capo del
Farini replicava che le
governo al lettino del
tartines, le prelibatezze
manicomio. Morirà nel
giuridiche di Cassinis,
1866.
dovevano rinviarsi a
Cassinis ha un altro
tempi migliori.
crepacuore nel settemDue anni dopo, nel
bre 1864, quando, predicembre 1862, Cassinis
sidente della Camera,
è dunque alle prese con
vede sulle strade di Tola formazione del quarrino decine e decine di
to governo italiano. Il
cadaveri in seguito alle
suo si prefigura in prafucilate ordinate dal
tica come un governo
ministero Minghettidella Padania.
Peruzzi contro la folla
Cassinis si muove con
che sfilava, silenziosa e
circospezione, non rilainoffensiva, per maniscia dichiarazioni uffifestare contro il traslociali. Ma il sospetto è
co della capitale, prima
nell’aria. Gli “unitari” si
a Firenze e poi a Roma.
agitano. Se ne fa portaNel 1865, per consolavoce il foglio milanese
re Cassinis, il re vuol
Mangiatori di maccheroni. Napoli, 1870 ca.
La Perseveranza, qualifarlo senatore. Pochi
ficando l’eventuale migiorni dopo la proponistero Cassinis come “un gesto di sfiducia e qua- sta, l’infelice vien trovato morto per suicidio.
si di abdicazione nei confronti di Napoli”.
Farini e Cassinis: due tragedie all’italiana.
I buoni propositi muoiono sul nascere. La crisi
Ad entrambi. Napoli e Roma avevano tolto il
ministeriale vien risolta affidando l’incarico a Fa- cervello e la vita.
Emigrazione padana
Di Mario Costa Cardol
(La Padania, 23 e 30 giugno 1999)
U
no dei pilastri del piagnisteo italiota è costituito dall’emigrazione di massa che ebbe protagonista la gente del Mezzogiorno;
che toccò il vertice di 500.000 emigrati nel
1913, ma che, prima del 1900, non superò mai
le 200.000 unità annue.
Sono comunque, intendiamoci bene, cifre imponenti. Ma se i nostri meridionalisti credono
che agli emigranti col mandolino spetti l’esclusiva dell’umana compassione, si sbagliano di
grosso. Solo della Germania, tra il 1870 e il 1900
circa, partirono in direzione delle Americhe
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200-300.000 persone all’anno. Bisognò attendere l’inizio del secolo XX perché l’eccezionale dinamismo industriale tedesco creasse per tutti
lavoro in patria.
L’esodo dal Mezzogiorno italiano cominciò dopo il 1885, e rimase, fino al 1900, largamente inferiore al numero di liguri, piemontesi, toscani,
emiliani e veneti che, già prima della formazione dell’Italia unita nel 1861, espatriavano tanto
verso i Paesi europei quanto verso le Americhe.
Ci sono le statistiche a dimostrarlo. Ma, se vogliamo conferire un tocco di effimero calcistico
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a questa breve storia riassuntiva, rammentiamo
Nella classe operaia, famiglie di dodici – trediai lettori più giovani che l’Italia vinse due cam- ci figli erano quasi la regola.
pionati del mondo, nel 1934 e nel 1938, con
L’industria inglese, pur essendo allora la prisquadre nazionali formate per quasi la metà da ma del mondo, non riusciva ad occupare tutti i
calciatori nati e cresciuti in Argentina o in Uru- figli della patria. E allora fuori! Se ne andassero,
guay perché figli di genitori emigrati dalla Pada- i disoccupati, nelle colonie, nelle terre che in vania. Alcuni nomi: Orsi, Monti, Guaita; Andreolo, ria forma istituzionale (Dominions, protettorati,
ed altri “oriundi”.
eccetera) sostituivano il più vasto impero coloCon esclusione della Francia, tutti i Paesi niale mai visto nell’orbe terracqueo.
d’Europa registrarono, nella seconda metà delL’egoismo delle classi alte britanniche cogliel’Ottocento, esodi altrettanto cospicui di quelli va, con l’emigrazione, due piccioni con una fava.
accompagnati alle note di “O sole mio”. VariaroPrimo: allontanava dall’isola un potenziale fono certe modalità: ma il calvario, nelle sostanza, colaio di rivolta. Secondo: fra i disperati mandati
fu identico ovunque. La scena pietosa di mi- a popolare l’Australia, il Canada o la nuova Zegliaia di derelitti, ammucchiati sui bastimenti landa, c’era chi, per buona ventura o spirito d’iper una traversata di disagi e di pericoli in cerca niziativa, otteneva di allargare la sfera d’influendella terra promessa, non fu dunque una prero- za economica del mondo anglosassone.
gativa del Mezzogiorno italiano.
In un libro uscito una quindicina d’anni fa
Una società armatoriale di Amburgo, la Ha- (The Lost Children of the Empire, i figli perduti
pag, ammassò una fortuna tragittando emigran- dell’Impero) si narrano sistemi raccapriccianti
ti dalla Germania, dalla Russia, dall’Austria-Un- rimasti a lungo ignorati.
gheria, dalla Scandinavia, da tutta l’Europa cenSi stipavano sulle navi gli orfani e i trovatelli
trale e orientale.
senza chiedere il permesso a nessuno, sulla base
Storia ed oleografia son due cose diverse, e di un tacito accordo fra le autorità locali e la diperciò sarà difficile persuadere il lettore che il rezione dei brefotrofi.
Paese allora più ricco, più potente, più induGiunti a destinazione, fanciulli di 9-10 anni vestrializzato del mondo, fu quello che, nel corso nivano poi avviati al lavoro dall’alba al tramonto,
di un secolo (l’Ottocento) riversò oltre gli oceani nelle officine o nei campi. Niente li proteggeva:
il più gran numero di sue creature. Dal Regno nessuna legge, nessun codice morale. Orrori che
Unito (Inghilterra, Scozia e Irlanda) l’espatrio fu gli storici britannici hanno cercato a lungo di tein parte spontaneo e in parte coatto. Tralascia- nere nascosti. Quindici anni fa se ne è fatto un
mo per pudore la fuga di milioni e milioni di Ir- gran parlare, in Inghilterra, ma le recriminazioni
landesi, spinti delibegiungevano un po’
Emigranti vedono la costa americana
ratamente alla fame
tardi.
da una classe diriQuesto per dire, caro
gente britannica che
lettore, che il tono
gli storici definiscopiagnucoloso e risenno maestra di demotito dei nostri mericrazia, ma che era in
dionalisti è bensì giurealtà più incline allo
stificato, ma dovrebbe
schiavismo e allo
inquadrarsi in un
sfruttamento.
contesto più ampio.
Questa oligarchia
E veniamo adesso a
sfruttatrice, un minoi padani. Se la vita
gliaio di famiglie –
non era allegra nei
ricordiamo che la
quartieri di Brooklyn
Camera ereditaria
o di Hoboken (dove
dei Lords deteneva
nacque Frank Sinaancora nel 1910 il
tra) lo era ancor mediritto di veto sulle
no nelle pampas e
leggi - era ossessionelle lande sterminanata dai pericoli delte dell’Uruguay e della sovrappopolaziol’Argentina. Gli emine.
granti. che erano
48 - Quaderni Padani
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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Negozi italiani a New York
108.000 nel 1876, si calcolavano in 218.000 nel
1889. Erano agricoltori, braccianti, montanari o
borghesi squattrinati che lasciavano il Piemonte, la Liguria, la Bassa Lombardia, il Veneto,
l’Emilia o la Toscana per gettarsi nell’avventura.
Una parte si dirigeva al Nord del nuovo continente; pescatori e viticoltori, ad esempio, riuscivano a prosperare nella zona della California intorno a San Francisco. Ed è in questo ambiente
che emergeva il famoso banchiere Peter Amedeo
Giannini, fondatore della Bank of America, ossia
del primo istituto bancario che accettasse anche
i depositi dei piccoli e piccolissimi risparmiatori.
Se l’immigrazione dell’Italia fosse rimasta, come rimase fino al 1885-90 circa, limitata alla Padania, nessun cittadino statunitense, argentino
o brasiliano si permetterebbe oggi di identificare
l’oriundo italiano con il mafioso. È ovvio che il
vizio di una collettività non si estende ad ogni
singolo individuo, e che su cento emigranti dal
Sud novantacinque forse erano onesti e bravi lavoratori. Ma bastavano gli altri cinque ad infettare l’intero corpo sociale. Nessun bacillo di mafia poteva invece allignare fra gli emigranti della
Padania. perché subito il tessuto sociale lo
avrebbe soffocato.
Ora vedremo da quanti secoli e da quante
trappole dovesse guardarsi il malcapitato che
dall’Italia centrosettentrionale volesse tentare la
sorte nelle Americhe.
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
Fino al 1901, il governo di Roma non si diede
cura di regolamentare l’espatrio, benché una
massa imponente di cittadini fosse già andata oltre frontiera a guadagnarsi il pane. Il sistema
politico-burocratico romano aveva semplicemente finto di non accorgersi che, dal 1861, circa 4 milioni di settentrionali erano emigrati
senza ritorno. Erano andati a costruire strade e
ferrovie in Francia, ad estrarre carbone in Belgio, a prosciugare paludi in ogni angolo del pianeta, ma soprattutto a dissodare terre vergini e
mettere a coltura praterie sconfinate nell’America del sud.
Dalla Liguria, il flusso migratorio era iniziato
ben prima dell’unità italiana, e si era rivolto
principalmente al continente sudamericano. A
questo traffico di navi, uomini e mercanzie, presiedeva la spregiudicata regola della Gran Bretagna, alla quale premeva che le repubbliche nate
dal crollo del dominio spagnolo diventassero
presto un mercato di sbocco per i tessuti di
Manchester, gli aratri di Sheffield, i mobili di
Londra. La Gran Bretagna era rimasta l’unica
potenza industriale del mondo, giacché la Francia, che nel Settecento le aveva brillantemente
contrastato. il passo, si era in pratica autoeliminata in vent’anni di rivoluzione, giacobinismo,
terrore e poi guerre napoleoniche.
Una volta finito di occuparsi di Napoleone,
l’Inghilterra si era rivolta al sud America per liQuaderni Padani - 49
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berarlo dal gioco della Spagna. Insuperabili nell’ammantare di nobili principi gli interessi materiali, gli inglesi fornirono armi e denaro ad
ogni avventuriero capace di battersi contro l’esercito spagnolo. Garibaldi era fra questi. Liberando i nativi, l’Inghilterra liberava anche sé
stessa dalle altissime barriere doganali che Madrid innalzava contro le merci britanniche.
Nella scia di Garibaldi, già dal 1830, parecchi
liguri si erano fatti argentini, cileni, uruguayani.
Il flusso migratorio s’ingrossò poi ai piemontesi,
veneti ed altri padani cenciosi ma intrepidi.
Qualcuno arrivò al lusso e all’agiatezza; altri ci
rimisero la salute e la vita.
Come dicevamo, il governo di Roma si mosse
a tutela degli espatriandi solo nel primo Novecento, quando il fenomeno migratorio mutò la
prevalenza padana in prevalenza meridionale.
Non completamente, perché, nella cifra massima annua del 1913, su 873.000 emigrati, quasi
250.000 erano ancora italiani del Centro e del
Nord. Furono però le corde dei mandolini a
muovere finalmente a pietà gli accidiosi politicanti, a burocrati plasmati dal clima di Roma.
Vennero emanate norme per tutelare gli emigrati dagli ‘imbroglioni e dai mercanti di braccia.
Senza entrare nel merito di tali previdenze,
vediamo piuttosto ciò che accadeva prima, ossia
quando l’emigrante-tipo era un padano.
Il meschino non aveva altra scelta che rivolgersi a un maneggione, detto pomposamente
“impresario generale”. Questi esigeva un versamento immediato di 200-300 lire: quattro volte il
salario mensile di un operaio non specializzato.
“Bisogna unger le ruote. I carabinieri, la questura, possono rifiutare o concedere il passaporto a loro arbitrio”. Quindi l’impresario sconsigliava assolutamente paesi europei come il Belgio, l’Olanda, l’Austria o la Francia.
“Meglio l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay... Là
c’è terra quanta ne vuoi”.
La verità era che i paesi europei imponevano
all’impresario generale un deposito di garanzia a
tutela dell’immigrato: se questi non riusciva a
campare od era palesemente sfruttato a sangue,
scattava il rimpatrio d’ufficio col biglietto pagato grazie al fondo di garanzia.
Nell’America Latina, era invece l’impero della
giungla. Laggiù poteva capitare di tutto. Il Corriere di Chiavari rubricava le nefandezze sotto il
titolo in lingua spagnola “Cosas de America”, e
commentava l’11 novembre 1883: “Le democrazie tiranniche, rapaci e turbolente che successero al governo spagnolo (...) in mezzo a prove
50 - Quaderni Padani
magnifiche di valore guerresco, hanno offerto lo
spettacolo di una società rudimentalmente affamata di stragi. L’Italia ha laggiù il maggior numero di sudditi, e la nostra opinione pubblica
finge di commuoversi per la loro sorte, ma poi il
governo e il paese dimenticano...”.
La polizia argentina era formata da ladri e da
assassini. “La legislazione scritta gareggia senza dubbio colle migliori europee in fatto di garanzie, ma in pratica, l’arbitrio domina
sovrano” scriveva il Corriere di Chiavari.
Mazzini, nel 1850, si estasiava al pensiero che
il sistema repubblicano avesse trionfato in tutta
l’America del sud; ma, evidentemente, la parola
“repubblica” non bastava da sola a incivilire le
popolazioni.
Dalle cronache degli stessi giornali argentini,
rimbalzate in Italia, apprendiamo fatti che non
erano episodici, ma tanto frequenti da costituire
una sorta di normalità. La più numerosa comunità italiana d’Argentina si trovava tra Rosario e
Santa Fè nella provincia di Cordoba. Nel 1883, il
commissario della polizia di Cordoba, un certo
Perez, dava in pratica ai suoi uomini licenza di
torturare. I suoi sgherri infierivano a capriccio.
Uno di essi, ispezionando una sperduta fattoria, accusa il lavoratore italiano Antonio Macera
di avergli rubato il cavallo.
“Signore, io non so di che Ella parli”. “Come,
non lo sai, birbante. Ora vedrai come te lo faccio confessare”: Segue l’immancabile supplizio
dell’estaqueo. Condotto al più vicino posto di
guardia, il Macera vien tenuto sospeso orizzontalmente per oltre un’ora, a mezzo ai funi pendenti dal soffitto e annodate ai polsi e alle caviglie. Il giorno dopo tocca a un altro lavorante
italiano, Battista Natta, immigrato dalla Liguria.
Il console d’Argentina a Genova, signor Calvari, ebbe il fegato di protestare che i giornali italiani facessero risalire al suo governo la responsabilità degli “eccessi” del commissario Perez.
Gli replicò Il telegrafo di Livorno: “Non vogliamo dire che il presidente della Repubblica Argentina, generale Giulio A. Roca, ed i suoi ministri, siano complici del commissario Perez nella
sua raffinata barbarie di torturatore spagnolo,
ma ci pare estremamente arrischiata l’asserzione del console Calvari che gli italiani stabiliti
nella Repubblica Argentina godano, ora come
ora, ed effettivamente, delle garanzie più estese
sotto le savie e paterne cure del governo argentino”. E Il telegrafo concludeva: “Andatelo a
raccontare agli innumerevoli italiani che hanno
avuto le ossa rotte...”.
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Biblioteca
Padana
Roberto Corbella
La vita esagerata e le avventure
straordinarie del Giuanin senza
paura.
Varese: Macchione Editore, 2006
135 pagine, € 20,00
Questo rilevante contributo di ricerca antropologica rappresenta
una gradevole analisi “del più popolare eroe della regione prealpina tra
Lombardia, Piemonte e Svizzera”,
Provenza e Savoia. Sono infatti
molte le località padano-alpine in
cui si trova traccia del personaggio.
In una nota in fondo al libro, l’autore precisa come una delle difficoltà
incontrate sia stata proprio la raccolta del materiale nelle diverse lingue locali, caratterizzate dall’uso
talvolta eccessivamente “colorito”
di nomi e soprannomi dei vari personaggi che popolano le vicende relative al Giuanin.
L’area di ricerca interessata è davvero estesa: da una vasta zona del Cuneese (Entraque), Biellese (Roppolo
e Adorno), Novarese e Verbano (Arona, Val Vigezzo o Stresa e Cannobio), Vercellese (Carcoforo in Valsesia) al Varesotto (Castelseprio, Gavirate, Laveno,e Arcumeggia), in
Brianza (Erba); Giuanin è parte delle tradizioni comuni alla fascia alpina del Canton Ticino, della Provenza
e della Savoia. Data la progressiva
tendenza a cancellare le culture locali padane a opera dello Stato italiano è un fondamentale recupero
identitario. Ma non è assente nemmeno un tocco di esotismo e interesse per luoghi geograficamente
lontani come la Roma vaticana, l’Africa del torrido Perse dei Barlafussi
(vocabolo tipicamente lombardo per
cianfrusaglie) o la Terra Santa dei
pellegrini.
Di qualità esasperate, Giuanin è
frutto della cultura orale contadinamontanara; ricorda i personaggi del
francese Rabelais, nonostante Corbella precisi di non volerne ricercare
una discendenza letteraria che rimanda ai prototipi ancestrali del
mondo celtico e gallico. Eppure vi
sono richiami al robusto appetito e
abbondanti libagioni dei giganti
Gargantua e Pantagruel, alla loro
giocosa e innocente capacità di godere di ogni aspetto sensuale e godereccio della vita. Un senso di abbondanza pervade l’esistenza intera
di Giuanin fin dall’allattamento, che provoca addirittura la
morte della madre e,
non a caso, egli è dotato di un sacco magico con cui sfamarsi. Vi è una dimensione magica e fantastica tipica delle favole e dei racconti orali, così che un’incredibile serie di imprese avventurose fa di
Giuanin un moderno James Bond
“in una approssimativa dimensione
temporale medievale”, ammirato da
donne e uomini. È una biografia improntata all’eccesso anche in ogni
sua manifestazione: fortissimo, furbo, goloso, sensuale, determinato e
con un coraggio sovraumano che lo
porta ad affrontare gesta eroiche col
nodoso bastone alla mano, ma sempre in favore della sua gente. Deve
però liberarsi dalla “straripante” Pitalarga, la strabordante moglie-strega ottima cuoca ma possessiva che,
dopo una luna di miele trascorsa in
taverne lombarde e piemontesi lungo il Lago Maggiore, tenta di derubare il marito con uno zabaione
drogato. Giuanin si batte strenuamente contro streghe, draghi, orsi,
guerrieri in Terrasanta, zingari, boschi incantati, donne innamorate, il
Diavolo e creature antropomorfe.
Perché “dove si faceva più a botte,
dove era più pericolosa la lotta, lì
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
c’era il Giuanin…e chi stava dalla
sua parte vinceva sempre.” Incarna
il coraggio e talvolta sfiora la sfrontatezza, consolidando la sua fama di
eroe vendicatore. Il suo unico rivale,
presente nella cultura francofona,
“di pari forza” è Janot “l’ammazzasette”, con cui lo scontro per un
“immenso e ricchissimo podere”
dura per ben tre giorni. Assumendo
di volta in volta delle caratteristiche
soprannaturali, parla con gli uccelli
ed è pronto all’azione; libera e vendica coloro che soffrono o subiscono
torti e incantesimi. Non a caso - si
afferma - Giuanin affronta demoni, diventa papa (ma vi rinuncia per evitare le
privazioni connesse
ai voti religiosi) e va
in paradiso senza
morire. Sfida la Morte e la sua coscienza
beffandole così da allungarsi la durata
della vita. Ma l’eternità è noiosa; la vita,
priva di amici e del
suo mondo, perde tutto quel gusto
trasgressivo e gioioso di un tempo:
padrone della sua esistenza, riesce a
entrare in paradiso con un astuto
stratagemma.
A eccezione del finale moraleggiante, la prorompente e concreta vitalità padano-alpina è costante nelle
avventure narrate con estrema naturalezza e ironia, non sempre però
confacenti ai canoni delle tradizionali favole edulcorate per bambini.
Ma trionfa l’ottimismo del coraggio
e del continuo mettersi in gioco.
D’altra parte, è forse il riflesso della
saggezza degli “anziani”, che si proponeva di offrire valori reali, anche
agli adulti scoraggiati e delusi. La
biografia del Giuanin segnata da
uno stile di vita reattivo, si carica,
dunque, di una valenza propositiva
per l’uomo contemporaneo, che, se
privo della propria cultura locale, è
sperduto.
Silvia Garbelli
Quaderni Padani - 51
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La Rubrica
Silenziosa
Ogni anno il Sole 24 Ore pubblica una classifica della qualità
della vita nelle province italiane, basandola sulla comparazione di
una serie di dati statistici cui è attribuito un punteggio.
Si tratta di dati interessanti ma confrontati sempre in maniera
molto, ma molto, politicamente corretta. Si mettono infatti insieme parametri estremamente importanti con altri molto più
marginali. Qualche volta sono addirittura interpretati in maniera
molto settaria: perchè – ad esempio – il numero di extracomunitari regolari è considerato un elemento positivo? Come si può attribuire lo stesso valore alla ricchezza prodotta e al numero di sale cinematografiche? Come è calcolato (e cosa significa) “il piacere di fare gruppo”? Non è neppure molto chiaro il rapporto fra la
città capoluogo (cui sembrano a volte riferirsi i dati) e il territorio
provinciale.
Si tratta sempre di informazioni interessanti e spesso significative che vale comunque la pena di ricordare.
Per antica consuetudine li collochiamo geograficamente usando diverse tonalità di grigio, conservando le stesse valenze attribuite dal Sole 24 Ore, senza esprimere commenti. La loro graficizzazione rende comunque – soprattutto per i dati più significativi – bene l’idea delle differenze territoriali. I dati riportati sono
tutti riferiti al territorio e non alla provenienza delle persone oggetto di indagine: sappiamo così – ad esempio – il luogo dove
vengono commessi i delitti ma non la provincia di origine di chi
li commette, che sarebbe molto più significativo.
Anche così risulta piuttosto evidente che esistono sempre almeno quattro realtà distinte e abbastanza omogenee al loro interno
(e soprattutto omogenee rispetto all’esterno): 1) la Padania, 2) le
regioni centrali (Toscana, Umbria e Marche, e – in misura minore
– l’Abruzzo) che in molte tematiche somigliano alle regioni padano-alpine, 3) il Meridione e 4) Roma, che ha statistiche tutte particolari, legate all’enorme flusso di ricchezze che vi viene fatto
confluire.
Tutte le 36 tabelle sono riportate con le denominazioni originali e usando quattro tonalità di grigio. I due toni più chiari indicano le province che hanno dati migliori della media nazionale e
quelli più scuri si riferiscono a quelli peggiori. La ulteriore suddivisione dei due campi è data dall’essere sopra o sotto il valore posto a metà fra quello medio nazionale e l’estremità della classifica. Sono anche riportati il valore medio e i due estremi con le rispettive province.
52 - Quaderni Padani
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La Rubrica
Silenziosa
La ricchezza prodotta
Valore aggiunto per abitante in Euro
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Prometeia
Valore medio: 21.685
Massimo: Milano (34.270)
Minimo: Crotone (12.721)
I risparmi allo sportello
Depositi bancari per abitante in Euro
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Abi-bankitalia-Istat
Valore medio: 9.990
Massimo: Milano (25.689)
Minimo: Vibo Valentia (4.183)
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La Rubrica
Silenziosa
Le pensioni
Importo medio mensile in Euro
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Inps
Valore medio: 629,86
Massimo: Milano ( 911,93)
Minimo: Isernia (423,39)
Una vita assicurata
Premi polizze Vita per abitante in Euro
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Prometeia
Valore medio: 1.050,70
Massimo: Trieste (3.103,10)
Minimo: Nuoro (342,2)
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La Rubrica
Silenziosa
I consumi della famiglia
Spesa per abitante in Euro (auto, moto,
mobili, elettricità)
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Findomestic
Valore medio: 817,20
Massimo: Aosta (1.201,80)
Minimo. Avellino (498,4)
L’abitazione
Costo al mq in semicentro in Euro
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Scenari Immobiliari
Valore medio: 2.205
Valore più basso: Caltanissetta (1.050)
Valore più alto: Roma (4.900)
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La Rubrica
Silenziosa
Lo spirito d’iniziativa
Imprese registrate ogni 1.000 abitanti
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati Movimprese-Infocamere
Valore medio: 10,59
Massimo: Grosseto (13,96)
Minimo: Palermo (7,77)
Chi apre e chi si ritira
Rapporto iscrizioni/cancellazioni alle Camere di Commercio
Anno: 2005-2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Movimprese-Infocamere
Valore medio: 1,20
Massimo: Crotone (1,69)
Minimo: Enna (0,88)
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La Rubrica
Silenziosa
Alla ricerca di un posto
Percentuale di persone in cerca di lavoro
sulla forza lavoro
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat
Valore medio: 7,90
Minimo: Bologna (2,70)
Massimo: Enna (19,42)
Lavoratori dall’estero
Numero di extracomunitari occupati su
100 occupati
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Caritas-Migrantes
Valore medio: 8,79
Massimo: Treviso (17,05)
Minimo: Cagliari (1,72)
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La Rubrica
Silenziosa
I debiti non pagati
Rapporto sofferenze/impieghi bancari
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Unioncamere-Tagliacarne
Valore medio: 5,5
Minimo: Milano e Trento (1,5)
Massimo: Frosinone (21,2)
I prestiti alle imprese
Tassi di interesse su prestiti a breve
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Unioncamere-Tagliacarne
Valore medio: 6,60
Minimo: Firenze (4,63)
Massimo: Reggio Calabria (9,09)
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La Rubrica
Silenziosa
La pagella ecologica
Indice Legambiente ecosistema
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati Legambiente
Valore medio: 54,19
Massimo: Bolzano (69,4)
Minimo: L’Aquila (31,4)
La presenza di infrastrutture
Indice Tagliacarne dotazione infrastrutture
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Unioncamere-Tagliacarne
Valore medio: 100,0
Massimo: Lodi (404,2)
Minimo: Ragusa (24,8)
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La Rubrica
Silenziosa
Bello stabile
Differenza in gradi fra il mese più caldo e
quello più freddo
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Osservatorio Meteo Milano duomo
Valore medio: 21,36
Minimo: Palermo (15,15)
Massimo: Vercelli (27,60)
La longevità
Le aspettative di vita della popolazione nel
suo complesso
Anno: 2003
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat
Valore medio: 80,03
Massimo: Firenze (81,35)
Minimo: Napoli (78,00)
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La Rubrica
Silenziosa
L’efficienza della giustizia
Percentuale di cause esaurite su quelle
nuove e pendenti
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Ministero giustizia
Valore medio: 51,13
Massimo: Verona (95,46)
Minimo: Bari (32,93)
Il rischio sulle strade
Incidenti automobilistici ogni 100.000 abitanti
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat-Aci
Valore medio: 357,6
Minimo: Potenza (76,9)
Massimo: Rimini (864,7)
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La Rubrica
Silenziosa
Allarme rapine
Rapine denunciate ogni 100.000 abitanti
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Ministero giustizia
Valore medio: 43,37
Minimo: Matera (8,33)
Massimo: Napoli (404,26)
Gli appartamenti svaligiati
Furti in casa denunciati ogni 100.000 abitanti
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Ministero giustizia
Valore medio: 201,80
Minimo: Isernia (40,19)
Massimo: Asti (436,96)
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La Rubrica
Silenziosa
I furti d’auto
Furti d’auto denunciati ogni 100.000 abitanti
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Ministero giustizia
Valore medio: 171,57
Minimo: Belluno (22,15)
Massimo: Roma (753,19)
La microcriminalità
Scippi e borseggi denunciati ogni 100.000
abitanti
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Ministero giustizia
Valore medio: 155,64
Minimo: Isernia (8,93)
Massimo: Bologna (960,39)
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La Rubrica
Silenziosa
Giovani “fuorilegge”
Minori denunciati ogni 1.000 punibili
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Ministero giustizia
Valore medio: 13,74
Minimo: Matera (3,24)
Massimo: Verbania (45,37)
Il trend
Percentuale dei delitti rispetto quelli denunciati nel 2001
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Ministero giustizia
Valore medio: 121,39
Minimo: Pistoia (76,02)
Massimo: Mantova (188,79)
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La Rubrica
Silenziosa
La densità demografica
Numero di abitanti per chilometro quadrato
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat
Valore medio: 248,79
Minimo: Nuoro (37,31)
Massimo: Napoli (2.635,59)
Nelle culle
Nati ogni 1.000 abitanti in rapporto all’indice 2001
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat
Valore medio: 1,006
Massimo: Ferrara (1,134)
Minimo: Bari (0,897))
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La Rubrica
Silenziosa
Arrivi e partenze
Rapporto fra immigrazione ed emigrazione
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat
Valore medio: 122,58
Massimo: Livorno (202,40)
Minimo:Caltanissetta (67,33)
Gli stranieri
Immigrati regolari in percentuale sulla popolazione
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Caritas-Migrantes
Valore medio: 4,7
Massimo: Prato (12,6)
Minimo: Enna (0,7)
66 - Quaderni Padani
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
Quad73imp
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La Rubrica
Silenziosa
Investimento in formazione
Numero di laureati su 1.000 giovani fra i 19
e i 25 anni
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat
Valore medio: 53,09
Massimo: Trieste (85,14)
Minimo: Bolzano (27,25)
Matrimoni in crisi
Divorzi e separazioni ogni 10.000 famiglie
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat
Valore medio: 55,81
Minimo: Avellino (22,24)
Massimo: Lodi (96,48)
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
Quaderni Padani - 67
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La Rubrica
Silenziosa
Il piacere di fare gruppo
Attività culturali e ricreative su 100.000
abitanti
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Movimprese-Infocamere
Valore medio: 116,04
Massimo: Rimini (397,89)
Minimo: Agrigento (59,37)
Acquisti in libreria
Indice di acquisto di libri in percentuale
sulla popolazione
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Messaggerie libri
Valore medio: 1,16
Massimo: Milano (4,53)
Minimo: Crotone (0,01)
68 - Quaderni Padani
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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La Rubrica
Silenziosa
La passione per i film
Cinema ogni 100.000 abitanti
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Movimprese-Infocamere
Valore medio: 3,24
Massimo: La Spezia (8,20)
Minimo: Crotone (0,58)
Il gusto a tavola
Indice enogastronomia di qualità
Anno: 2006
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Aci-Censis Srvizi
Valore medio: 72,7
Massimo: Cuneo (192,4)
Minimo: Isernia (2,6)
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
Quaderni Padani - 69
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La Rubrica
Silenziosa
In forma
Indice vocazione sportiva
Anno: 2005
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Coni-Censis Servizi
Valore medio: 346,50
Massimo: Aosta (927,62)
Minimo: Crotone (55,52)
L’impegno per gli altri
Volontari ogni 1.000 abitanti
Anno: 2003
Fonte: Elaborazione Sole 24 Ore su dati
Istat
Valore medio: 15,81
Massimo: Bolzano (168,87)
Minimo: Trapani (2,30)
70 - Quaderni Padani
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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La forza della Padania
sono le idee
I Quaderni Padani sono pubblicati bimestralmente da La Libera Compagnia Padana, una associazione che ha fini solo culturali e che riunisce tutti
coloro che - al di là delle differenze ideologiche - credono nell’autonomia
dei popoli padano-alpini.
Il solo modo per ricevere con continuità i Quaderni è di aderire alla Libera
Compagnia.
La quota associativa annuale è di € 50.
Essa dà diritto a ricevere i Quaderni, un libro e ogni altra pubblicazione o
materiale edito dalla Compagnia.
Il pagamento può essere effettuato:
❏ Inviando la quota all’indirizzo postale de “La Libera Compagnia Padana”
(Casella Postale 55, Largo Costituente 4, 28100 Novara) con assegno non
trasferibile intestato a “La Libera Compagnia Padana”.
❏ Mediante bonifico sul Conto Corrente Bancario numero 1403, intestato a
“La Libera Compagnia Padana” presso l’agenzia di Novara della Banca Popolare di Novara (Cod. ABI 5608, Cab 10101).
❏ Mediante Conto Corrente Postale numero 38261202, intestato a “La Libera Compagnia Padana”.
Si prega di allegare o far pervenire in ogni caso alla sede postale della
Compagnia la scheda di adesione compilata in ogni sua parte.
Si raccomanda di non pagare con Vaglia Postale!
Lo statuto dell’Associazione è stato pubblicato sul numero 51-52
dei Quaderni Padani.
Le Norme per i collaboratori sono state pubblicate
sul numero 68.
Entrambi i documenti sono reperibili anche sul sito
dell’Associazione.
La Libera Compagnia Padana
Casella Postale 55, Largo Costituente 4, 28100 Novara
E-mail: [email protected]
Sito Internet: www.laliberacompagnia.org
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
Quaderni Padani - 71
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Scheda di adesione
a La Libera Compagnia Padana
Cognome
Nome
Luogo di nascita
Data di nascita
Residenza: Città
Prov.
Cap.
Via
tel. casa
telefonino
tel. ufficio
fax
E-mail:
Professione:
Quota di adesione: € 50
❐ Rinnovo ❐ Nuovo associato
Modalità con cui è stato effettuato il pagamento:
❐ Contanti
❐ Bonifico bancario
cc 1403 Banca Popolare Novara
cod. ABI 5608, CAB10101
Firma
❐ Assegno bancario
❐ Versamento in cc postale
❐ Assegno circolare
N° 38261202
Data
La Libera Compagnia Padana, C. P. 55, Largo Costituente 4, 28100 Novara
E-mail: [email protected], Sito Internet: www.laliberacompagnia.org
Secondo quanto previsto dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675, i dati personali verranno impiegati solo ed esclusivamente per
uso interno all’Associazione e non verranno in alcun modo divulgati.
72 - Quaderni Padani
Anno Xlll, N. 73 - Settembre-Ottobre 2007
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Pagina 3
Abbiamo pubblicato:
Quaderni n. 69-70 - Gennaio-Aprile 2007
● Le interviste a Gianfranco Miglio
L’inestimabile patrimonio di un uomo
di straordinario coraggio - Alessandro Vitale
10-1990 - Rai
07-12-90 - Europeo
24-05-91 - Europeo
21-06-91 - Europeo
04-08-91 - L’Espresso
12-10-91 - Il Giornale
09-02-92 - L’Espresso
08-04-92 - Il Messaggero
19-04-92 - L’Espresso
12-05-92 - Corriere della Sera
29-05-92 - Europeo
24-07-92 - Europeo
13-01-93 - L’Italia
07-03-93 - L’Espresso
09-06-93 - Il Giorno
21-08-93 - Televisione ungherese
14-09-93 - Alto Adige
29-09-93 - La Repubblica
29-09-93 - La Stampa
24-10-93 - L’Espresso
17-12-93 - Lega Nord
31-12-93 - Panorama
40-1993 - Famiglia Cristiana
26-01-94 - Gazzetta Ticinese
28-01-94 - L’Espresso
06-02-94 - Il Giornale49
07-03-94 - La Prealpina
13-04-94 - Lega Nord
16-04-94 - Panorama
19-04-94 - Il Giorno
22-05-94 - Corriere della Sera
16-06-94 - L’Indipendente
10-08-94 - La Stampa
25-10-94 - La Voce
1994 - Quale federalismo
20-01-95 - Il Giornale
06-05-95 - La Nazione
18-05-95 - L’Indipendente
24-05-95 - Il Giornale
27-07-95 - Corriere della Sera
31-07-95 - Mondo Economico
02-09-95 - L’Indipendente
24-11-95 - Il Giornale
01-12-95 - Il Giorno
06-05-96 - Il Giornale
07-05-96 - Corriere del Ticino
07-05-96 - Il Giornale
12-05-96 - Epoca
14-05-96 - Il Giornale
04-06-96 - Il Giornale
08-06-96 - L’Adige
12-06-96 - Il Giornale
20-08-96 - Il Giornale
19-09-96 - Panorama
7-1996 - Quaderni Padani
04-01-97 - Il Messaggero
13-02-97 - Corriere della Sera
29-04-97 - Il Messaggero
14-05-97 - Corriere della Sera
30-05-97 - Corriere della Sera
21-10-97 - Il Gazzettino
1997 - Il Risorgimento imperfetto
25-01-98 - La Provincia di Como
04-03-98 - Radio Bergamo
12-04-98 - Il Corriere di Como
3-1998 - Genova-Liguria
04-08-98 - La Stampa
04-08-98 - La Padania
04-08-98 - Il Giornale
20-03-99 - Il Giornale
15-06-00 - La Padania
Quaderni n. 71 - Maggio-Giugno 2007
Questo è il villagio di Asterix - Brenno
L’evoluzione della forma di Stato
in Italia: dal federalismo mancato a un regionalismo
asimmetrico? - Fabio Ratto Trabucco
Padania: il nome della nostra patria - Gianfrancesco Ruggeri
Tibet: la tragedia di un popolo - Roberto Locatelli
● Il lavoro di Gualtiero Ciola
Politica coloniale sull’esempio degli Stati Uniti
Oreste Del Buono, l’italiano che offende il popolo veneto
Prima veneziani e poi cristiani
Longobardi, baluardo del Vecchio Continente
Quaderni n. 72 - Luglio-Agosto 2007
Perché loro sì e noi no? - Brenno
● Convegno di Belgirate - 13 Maggio 2007
La Catalogna fra globalizzazione economica
e globalismo giuridico - Marco Bassani
Catalogna nazione - Chiara Battistoni
Catalunya - Sergio Salvi
● Schede di aggiornamento
La Catalogna dal 1973 a oggi
Scheda tecnica della Catalunya estricta
Sintesi dell’iter legislativo e dei principali contenuti
del nuovo “Statuto di autonomia” approvato
con referendum popolare il 18 giugno 2006
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