Caravaggio - Mondo Mostre

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Caravaggio - Mondo Mostre
Caravaggio Quadri dalla collezioni dei musei italiani e vaticani dal saggio in catalogo “Caravaggio, l’uomo e l’artista” di Rossella Vodret 1 Le committenze pubbliche Dal 1599 in poi possiamo ricostruire con relativa certezza, grazie alla documentazione disponibile, la cronologia del percorso artistico di Caravaggio, mentre si fanno scarse le informazioni sulla sua vita: tale mancanza è particolarmente grave, poiché proprio in questi anni i suoi tratti caratteriali, già più volte emersi, sembrano cronicizzarsi, la sua mente sembra progressivamente smarrirsi in un delirio di persecuzione e onnipotenza, e i suoi comportamenti si manifestano con sempre maggior violenza, fino alla fatale uccisione di Ranuccio Tomassoni nel 1606, che lo costringerà a lasciare Roma per sempre. A partire dal 1599/1600, le commissioni pubbliche e private affidate a Michelangelo si susseguirono senza sosta, quasi che a Roma possedere un suo quadro fosse diventato uno status symbol. Tutti sembrano volere le sue opere per le loro collezioni o per le cappelle di famiglia: monsignori (Tiberio Cerasi, tesoriere del Papa, Maffeo Barberini che nel 1623 diventerà papa Urbano VIII), nobili (Ciriaco Mattei, Vincenzo Giustiniani, i Massimo ed Ermete Cavalletti), banchieri (Ottavio Costa), giuristi (Laerte Cheubini), perfino confraternite (Palafrenieri). Le tele di questi anni, spesso pale d’altare, hanno di solito grandi dimensioni e più complesse strutture compositive rispetto a quelle giovanili. Fonti d’ispirazione e punti di riferimento riconoscibili, oltre ai pittori lombardo‐veneti, sono ora anche i capolavori dell’arte classica e i grandi maestri cinquecenteschi, primo fra tutti Michelangelo e la Sistina. Ma a caratterizzare prepotentemente la pittura sacra del Caravaggio è più d’ogni altra cosa il violento contrasto tra luce e tenebre, messo in scena come su un palcoscenico teatrale. Una rappresentazione quasi cinematografica in cui il pittore tese sempre di più a coinvolgere lo spettatore come parte attiva della composizione. Bellori racconta che il Merisi dipingeva sistemando i modelli in una camera buia, illuminati da una luce proveniente dall’alto “[…] a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra, a fine di recar forza con veeemenza di chiaro e di oscuro”. Ma Bellori ne vede anche gli aspetti negativi: scrive infatti che questa maniera manca di azione, elemento essenziale per una buona pittura di storia. Mancini, invece, nota con scetticismo che è impossibile mettere in una stanza una moltitudine di persone per rappresentare un fatto di storia utilizzando la luce di una sola finestra. Tuttavia nessuno dei due biografi coglie il simbolismo profondo del contrasto tra luce e ombra che animava già il cristianesimo delle origini e che era tornato in auge nella religiosità del Cinquecento. Fondamentale espressione di questa erano la pratica religiosa e le quotidiane 1
Soprintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico per il Polo Museale della città di
Roma e curatrice della mostra “Caravaggio. Quadri dalle collezioni dei musei italiani e vaticani”
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penitenze al buio di S. Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti, il quale, immaginando di trovarsi al cospetto di Dio, poneva al centro dei suoi esercizi la giustapposizione tra il cristiano colpevole e le tenebre del peccato. Allo stesso modo le tenebre avvolgevano anche la tormentata umanità che il Merisi metteva in scena intorno agli eventi salvifici da cui si sprigionava la luce. Legato al Giubileo è il debutto pubblico di Michelangelo: gli episodi della vita di San Matteo (Vocazione e il Martirio di San Matteo) per le pareti laterali della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, nel 1599, da completare entro un anno. Questa commissione fu una vera e propria “palestra” in cui Caravaggio mise a punto i suoi mezzi espressivi e sancì la sua trionfale affermazione sulla scena artistica romana. Per il suo debutto pubblico nell’ambiente artistico, Caravaggio doveva attenersi a indicazioni precise sugli standard da seguire: le tele, di un formato enorme, per lui inconsueto (323x343 cm circa), dovevano contenere numerose figure, e non i pochi personaggi che finora avevano animato i suoi dipinti. Non da ultimo, le due opere si sarebbero trovate a diretto confronto con gli affreschi della volta della cappella dipinti dal Cavalier d’Arpino, con il quale i rapporti non erano certo idilliaci. Anche per un artista così consapevole della propria bravura, al limite della presunzione, com’era Caravaggio, il compito non doveva essere facile. L’ansia e l’angoscia di completare per tempo l’impresa traspaiono chiaramente nel Martirio, dipinto in due redazioni diverse, una sopra l’altra, sulla stessa tela. La versione precedente, sottostante, ricordata anche da Bellori, è nota fin dal 1951, quando furono eseguite le prime radiografie. Nuove indagini diagnostiche hanno tuttavia accertato che la prima composizione, a figure più piccole del naturale, non era un semplice abbozzo come si pensava, ma una redazione perfettamente compiuta. Caravaggio, insoddisfatto, dovette coprire la prima versione con un altro sottile strato di preparazione per procedere con l’esecuzione della composizione definitiva che oggi è visibile nella cappella. Michelangelo avrebbe gradualmente affinato la sua tecnica esecutiva esercitandosi dapprima sul Martirio, che sarebbe così la prima tela eseguita, contrariamente all’opinione diffusa. Tale ipotesi appare avvalorata da una serie di “sgrammaticature”, sproporzioni e incertezze compositive presenti nel quadro, come se Caravaggio, di fronte ai nuovi giganteschi formati, avesse faticato a raggiungere un soddisfacente procedimento di ripresa diretta dai modelli, come invece avverrà già nella Vocazione e poi nelle opere successive. Dipinta negli stessi mesi del Martirio, la Vocazione appare nelle sue modalità esecutive molto diversa e più matura. Caravaggio, ormai consapevole delle sue potenzialità espressive anche in dimensioni monumentali, impostò la scena con sicurezza, secondo moduli a lui congeniali: una serie di persone sedute attorno ad un tavolo, tra i quali Matteo, esattore delle tasse, stanno contando il denaro delle gabelle. La scena è divisa in due blocchi: quello verticale, costituito da Cristo e Pietro, a destra, e l’altro, orizzontale, a sinistra. Principalmente, Caravaggio mise qui a punto un nuovo modo di comporre: le figure, e anche gli oggetti, sono dipinti per sovrapposizione, come se ognuno fosse stato eseguito come elemento singolo e poi, partendo dal fondo, inserito nella composizione. Nel gesto di Cristo è chiaramente riconoscibile la suggestione di Michelangelo nella Creazione di Adamo della cappella Sistina. Malgrado alcune voci denigratorie prontamente riferite da Baglione, il successo di queste tele fece sì che, nel giro di pochissimo tempo, si susseguissero altre prestigiose commissioni: la Deposizione per la Cappella Vittrice nella Chiesa Nuova , collocata sull’altare il 6 settembre del 1604, ma forse commissionata già nel 1600, da subito considerata un capolavoro; i dipinti per la Cappella Cerasi in S. Maria del Popolo, raffiguranti la Conversione di San Paolo e il Martirio di San Pietro, tra i più suggestivi capolavori della maturità, dei quali il pittore eseguì due versioni sperimentando 2
nuove tecniche di percezione della visione; l’incarico, nel 1602, di dipingere la pala d’altare per la stessa Cappella Contarelli, raffigurante San Matteo con l’angelo in ginocchio su uno sgabello pericolosamente in bilico verso lo spettatore. È proprio l’impressionante rapidità di esecuzione a colpire maggiormente i coevi, come testimonia, non senza critiche, van Mander nel 1603: “C’è anche un Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose. [Però] accanto al buon grano c’è l’erbaccia: infatti, egli non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due, con la spada al fianco e un servo dietro di sé, e gira da un gioco di palla all’altro, sempre pronto ad attaccare briga e ad azzuffarsi, tanto che è raro che lo si possa frequentare. [...] Nonostante questo, la sua pittura è fuori discussione”. Il lato oscuro dell’irrequietezza e dell’aggressività sembrava andare di pari passo, in questi anni, col crescere dell’affermazione artistica. Dietro c’è forse il grande orgoglio di un artista consapevole della propria superiorità nei confronti degli altri. Più cresceva la sua fama, più saliva l’orgoglio e con esso le gelosie e i contrasti. Tra i fatti turbolenti di quel periodo spicca un avvenimento del 19 novembre 1600: uno studente dell’Accademia di San Luca, Girolamo Stampa da Montepulciano accusava il Merisi di averlo aggredito con spada e bastone, di notte, mentre, insieme al collega francese Horace Le Blanc, di ritorno verso casa, bussava alla porta di un venditore di candele in via della Scrofa. Nel giugno 1601 Caravaggio aveva già lasciato la residenza di Del Monte a Palazzo Madama e si era trasferito nel palazzo del cardinal Girolamo Mattei. Non per questo, tuttavia, i rapporti con il Del Monte si guastarono: alla potente protezione del “suo” Cardinale l’artista lombardo faceva ancora appello il 6 ottobre 1601, quando era arrestato per porto d’armi senza licenza. E’ probabile che il cambio di residenza abbia avuto soltanto motivazioni pratiche, legate alla necessità di avere più spazio per eseguire i dipinti di grande formato che gli venivano richiesti. Caravaggio potrebbe essere stato incoraggiato dall’amico di vecchia data Prospero Orsi, come lascia intendere Baglione, a trasferirsi presso i Mattei, nel palazzo dei fratelli Girolamo e Ciriaco alle Botteghe Oscure, dove il lombardo rimase fino al 1602‐1603. Sarà proprio Ciriaco il nuovo importante mecenate di questi anni: grazie alla scrupolosa documentazione nei libri dei conti della famiglia romana, possediamo preziose informazioni su una spettacolare serie di quadri eseguiti da Michelangelo per il suo committente. A partire dal 1601 egli esegue per Ciriaco la Cena di Emmaus (Londra, National Gallery), a cui segue il San Giovanni Battista, dei Musei Capitolini, ancora ispirato a Michelangelo e ai suoi Ignudi della Sistina, e la Presa di Cristo nell’orto (Dublino, National Gallery). Dopo il 1600 Caravaggio tornò al lavoro per Vincenzo Giustiniani, che ottenne dal pittore numerose opere per la propria collezione, purtroppo non tutte pervenute. Collocate nelle tre stanze “dei quadri antichi” di Palazzo Giustiniani, ben quindici tele di Caravaggio vengono registrate nell’inventario dei beni di famiglia del 1638: di queste ne sopravvivono solo cinque, sparse in vari musei del mondo. Al Suonatore di liuto si aggiunsero fra il 1601 e il 1604 l’impressionante Incredulità di San Tommaso (Berlino, Potsdam, Neues Palais), l’inquietante e sensualissimo l’Amore Vincitore (Berlino, Staatliche Museen), l’Incoronazione di spine (Vienna, Kunsthistorisches Museum), e un San Gerolamo, che alcuni identificano con l’esemplare conservato nell’Abbazia di S. Maria di Montserrat. L’altro grande estimatore del Merisi, il banchiere Ottavio Costa, già proprietario di due tele, il San Francesco in estasi di Hartford e la Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini, gli commissionava 3
in questo periodo anche un San Giovanni Battista, come sembra attestare una ricevuta di pagamento del 21 maggio 1602: la tela è stata identificata nel San Giovannino di Kansas City. Nel frattempo una nuova commissione arrivava, il 14 giugno 1601, da parte dell’avvocato Laerzio Cherubini da Norcia, per un dipinto con la Morte della Vergine per l’altare della sua cappella in S. Maria della Scala in Trastevere, da consegnare entro l’anno successivo, ma completato soltanto più tardi, tra il maggio 1605 e il maggio 1606, alla fine del periodo romano; ancora un formato enorme (369 x 245), all’origine probabilmente della singolare richiesta che Caravaggio fece alla sua padrona di casa di vicolo S. Biagio, Prudenzia Bruni, di poter togliere metà del solaio di una delle stanze, proprio per poter avere l’altezza necessaria per dipingere la grande pala e poter utilizzare la finestra della soffitta come seconda fonte di luce. Di pari passo col crescere della fama e l’intensificarsi della produzione artistica aumentavano anche gli episodi di violenza e i guai giudiziari in cui Caravaggio si lasciava coinvolgere. E’ del 1603 il processo che il Baglione intentò contro il Merisi, ritenuto autore di scritti diffamatori contro di lui. Il lavoro più ambizioso dell’artista romano, la grande tela con la Resurrezione per la chiesa del Gesù, eseguita probabilmente in quest’atmosfera d’invidia e accesa rivalità, fu esposta a Pasqua del 1603 e subito coperta di insulti da Caravaggio e dalla sua cricca, che misero in atto una vera e propria campagna diffamatoria a mezzo di poesie scurrili e offensive contro Baglione e il suo amico Tommaso (detto Mao) Salini. L’artista offeso querelò per diffamazione Caravaggio, Onorio Longhi e Orazio Gentileschi quali autori dei versi, aggiungendo in seguito un altro pittore, lo sconosciuto Filippo Trisegni, che aveva dato i testi a Salini. La posta in gioco era la supremazia nell’ambiente artistico romano e le testimonianze del processo, in questa luce, appaiono come un regolamento di conti fra artisti in un clima di accese rivalità e competizioni, di liti violente e brucianti invidia. Dopo aver scontato gli arresti domiciliari seguiti al processo, Caravaggio si allontanò da Roma per qualche tempo, chiamato a Tolentino, nelle Marche, per la commissione di una pala (perduta) che eseguì durante la breve permanenza nella regione, tra il 25 ottobre 1603, termine degli arresti, e l’8 gennaio 1604, data di un pagamento ricevuto a Roma da parte di Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, per un quadro con il Sacrificio di Isacco (Firenze, Uffizi), uno dei pochi quadri “chiari” di Caravaggio, in cui compare un luminoso paesaggio. Le successive, importanti commissioni pubbliche che Caravaggio ottenne tra 1604 e 1606 ebbero vicende travagliate, per il rifiuto degli stessi committenti o per lo scandalo suscitato dalle raffigurazioni che creavano turbamento con il loro scarso decoro. Avvenne così con capolavori assoluti come, ad esempio, la Madonna dei Pellegrini in S. Agostino, (c. 1605 – 1605), commissionato a Caravaggio alla fine del 1603 dalla famiglia Cavalletti, proprietaria dell’altare nella chiesa di S. Agostino, e consegnato dal pittore ante 2 marzo 1606, dove probabilmente egli usò come modelli la bellissima e sensuale cortigiana Maddalena Antognetti, sua amante, e il figlio di lei, Paolo, nato il 15 dicembre 1602. La raffigurazione del soggetto, dovuta alla devozione del marchese Cavalletti alla Madonna di Loreto, innovava radicalmente la rappresentazione tradizionale del volo della Santa Casa, seguito invece da Annibale Carracci nella tela pressoché contemporanea eseguita per la chiesa di S. Onofrio. Baglione non mancò di sottolineare le “volgarità” dei due pellegrini riprodotte da Caravaggio nel dipinto: i piedi fangosi di lui e la cuffia sdrucita e sudicia di lei, che suscitarono all’epoca “estremo schiamazzo”. Diverso il destino della Madonna dei Palafrenieri, dove è ancora raffigurata Lena con il figlio, commissionata a Caravaggio per l’altare dei Palafrenieri in San Pietro Vaticano il 1 dicembre 1605. Completata 4
entro l’8 aprile 1606, la pala rimase esposta solo pochi giorni: il 16 aprile venne smontata dall’altare per poi essere acquistata il 16 giugno successivo – solo diciotto giorni dopo l’assassinio di Ranuccio Tomassoni ‐ da Scipione Borghese che per averla pagò la misera cifra di 100 scudi alla Confraternita dei Palafrenieri. Caravaggio elaborò la composizione concependo l’esistenza di due nuclei separati, la cui distanza veniva accentuata dall’uso di più fonti luminose. Ne derivava una novità che, agli occhi della Congregazione della Fabbrica e dei cardinali “controllori”, doveva sembrare come una separazione tra l’azione condotta dalla Vergine e il Bambino, che pestavano la testa del serpente – ossia la Chiesa che con Cristo redimeva l’umanità dal peccato – e quella solitaria e “secondaria” della Sant’Anna, il cui nome significava Grazia. Anche la Morte della Vergine subì la stessa sorte e il rifiuto da parte dei Padri carmelitani, titolari di S. Maria della Scala, per il grande scandalo sorto a causa della voce che fosse stato preso a modello per la figura della Vergine morta una prostituta annegata. E’ uno dei più importanti dipinti di Caravaggio che raffigura qui la scena come una vera e propria rappresentazione teatrale a cui lo spettatore assiste, secondo uno schema che verrà in seguito più volte utilizzato. La luce che irrompe violentemente da sinistra si ferma sul viso e sul corpo della Madonna, fulcro dell’intera composizione, le cui spoglie non sono ancora state composte, ma giacciono abbandonate sul letto, a sottolineare la morte avvenuta nel sonno. La Roma degli ultimi anni di Clemente VIII Aldobrandini vide un intensificarsi di episodi tumultuosi: il malcontento della popolazione oppressa dalle imposte e ridotta alla fame nell’estate del 1604 esplose in una violenta sommossa. Mentre tutta la città era in preda a disordini e tumulti, Caravaggio riprese a comportarsi come sempre, lasciandosi andare sempre più spesso a liti e violenti sfoghi di aggressività: di mese in mese, mentre continuava a mietere ammirazione e trionfi pubblici, ultimo quello della Deposizione, collocata in S. Maria in Vallicella (ante 1 settembre 1604), non poteva sottrarsi al fascino che esercitavano su di lui gli ambienti più degradati e pericolosi, le osterie e i bordelli, dove trascorreva tanta parte del suo tempo. Tra il 24 e il 25 aprile del 1604, il Merisi veniva denunciato dal garzone di un’osteria, a cui aveva tirato in faccia un piatto di carciofi, minacciandolo con la spada, mentre, tra il 19 e il 20 ottobre, veniva arrestato in via del Babuino e incarcerato a Tor di Nona per aver lanciato pietre e per aver insultato i gendarmi, e ancora, dopo un mese, il 18 novembre, finiva in prigione per insulti contro un ufficiale che voleva accertare il possesso del porto d’armi. L’artista sembra incamminato pericolosamente verso la rovina personale e sociale e la sua esistenza arrangiata e raminga. Nel maggio del 1604, Caravaggio affittava una casa in vicolo dei SS. Cecilia e Biagio. L’abitazione era di proprietà di Laerzio Cherubini ‐ il giureconsulto che aveva ordinato all’artista la Morte della Vergine ‐ ma di cui è usufruttuaria una donna, Prudenzia Bruni; nel contratto di locazione venne inserita una clausola che autorizzava l’artista a “scoprire la metà della sala”, ovvero a smontare il tavolato di una parte del soffitto per ottenere un ambiente di lavoro più spazioso e una luce maggiore. Insieme con lui abitava un servo di nome Francesco, identificato da alcuni con Cecco del Caravaggio. Nel frattempo gli incidenti giudiziari diventavano sempre più frequenti: il nuovo arresto, il 28 maggio 1605, ancora una volta per detenzione non autorizzata di armi, vicino alla casa di Lena Antonietti con il quale sembra che Caravaggio avesse un legame davvero speciale. Poche settimane dopo, mentre probabilmente era alle prese con l’esecuzione di un Ecce Homo, oggi da alcuni studiosi identificato con la tela conservata in Palazzo Rosso a Genova per Massimo 5
Massimi, per il quale aveva già eseguito un’Incoronazione di spine (secondo parte della critica da identificare con l’opera oggi conservata presso il Palazzo degli Alberti a Prato), il pittore venne incarcerato, il 19 luglio, per aver danneggiato la porta e la facciata della casa in cui abitavano due donne, Laura e Isabella della Vecchia, abitanti nei pressi della basilica dei SS. Ambrogio e Carlo al Corso. L’episodio è forse da mettere in relazione con un’altra vicenda avvenuta nello stesso giorno, 19 luglio: Lena aveva denunciato il suo convivente Gaspare Albertini per averla aggredita e sfregiata alcuni giorni prima. I due eventi non sono forse casuali, è probabile che le due vicine avessero riferito qualche pettegolezzo al convivente di Lena, il quale aveva reagito sfregiandola. Caravaggio era quindi intervenuto sulle vicine per vendicare la sua donna, che sempre più dimostra di aver avuto per lui un ruolo molto, molto particolare. Alla stessa vicenda dell’aggressione e del ferimento di Lena deve essere legato anche un altro fatto delittuoso che lo vede coinvolto. Il 29 luglio, solo dieci giorni dopo la denuncia della donna, a Piazza Navona, una sera d’estate, il Merisi attaccava alle spalle e feriva il notaio Mariano Pasqualone de Accumulo, che riceveva in testa un violento colpo di spada. Pur non avendo visto in faccia lʹaggressore, nel corso della sua denuncia, il Pasqualone si diceva certo della sua identità e rivelava che nei giorni precedenti aveva avuto a che dire con Caravaggio a causa della sua donna, Lena, definita dallo stesso notaio “donna di Michelangelo”. Lo stesso Pasqualone riferiva anche che, dopo l’aggressione, il pittore era fuggito subito verso la casa del cardinal Del Monte, distante pochi metri da piazza Navona. Anche questo è un dato importante e dimostra come lo stretto legame di Caravaggio con il suo primo protettore fosse rimasto inalterato negli anni. Accortosi di essere stato riconosciuto, Michelangelo fuggiva a Genova: la scelta della città ligure è stata messa in relazione con la protezione dei Colonna, legati ai Doria da una recente parentela. Le strane vicissitudini di Caravaggio a Genova ci sono note attraverso una lettera del 6 agosto 1605, scritta a Roma dall’ambasciatore estense Fabio Masetti al conte Giovanni Battista Laderchi, segretario del Duca di Modena Cesare D’Este. Masetti riferiva che “Caravaggio è in contumacia della corte per alcune ferite ch’egli diede ad un sustituto del Spada notar del Vicario, et com’intendo si ritrova a Genova”. In un’epistola successiva, del 24 agosto, quando Caravaggio era già tornato a Roma, il solerte Masetti ci informa di un’allettante occasione di lavoro che il pittore si era lasciato scappare: “Et havendo inteso che il Caravaggio è comparso a Roma per la speranza della pace, son ricorso all’Illustrissimo Del Monte, che faccia comandargli l’ispeditione del quadro di Sua Altezza, che me l’ha con molta prontezza promesso, ancorchè s’assicura poco di lui, dicendo che è un cervello stravagantissimo, et che pur era stato ricercato dal principe Doria a dipingergli una loggia, che voleva dargli sei mila scudi et non ha voluto accettare il partito….”. Il misterioso e munifico principe sarebbe, per alcuni critici, Marcantonio Doria, futuro committente della Sant’Orsola, mentre Calvesi propone un’altra identificazione: quella con Giovanni Andrea Doria di Melfi, proprietario di una villa a Fassolo, più ricco e famoso del giovane Marcantonio, in grado quindi di offrire una cifra esorbitante per le pitture di una loggia e, non ultimo, imparentato con la marchesa Costanza Colonna. Le ragioni del rifiuto di un’offerta così cospicua da parte di un artista perennemente in difficoltà economiche qual era Caravaggio rimangono al momento oscure. A Roma Michelangelo ritornò nell’agosto del 1605, quando, con l’intercessione del Cardinale Scipione Borghese, nipote di Paolo V, riuscì a concordare col notaio aggredito una riconciliazione. E’ la prima volta che troviamo il “cardinal nepote” ufficialmente in relazione con Caravaggio ed è forse in segno di gratitudine che quest’ultimo gli faceva dono del San Girolamo, oggi alla galleria 6
Borghese. Tuttavia, lo stesso giorno in cui il pittore si riconciliava con Pasqualone, con un tempismo perfetto, la locatrice romana Prudenzia Bruni, a cui Merisi doveva sei mesi di affitto, faceva sequestrare tutti i beni del pittore rimasti nell’alloggio‐ trattenendo, a rivalsa, parte del valore dei beni sequestrati, valutati soltanto 80 scudi, ben al di sotto del loro valore reale – dei quali venne stilato un inventario in data 26 agosto, e impedendo all’artista di ritornare a casa. Nell’inventario, che registra i poveri beni posseduti da Caravaggio nel suo alloggio nei pressi di Palazzo Firenze, tra via dei Prefetti e via della Torretta, a parte un letto a due colonne, varie armi (due pugnali e due spade) e vestiti stracciati, sono citati oggetti per lo più di scarso valore, che forse gli erano utili per i dipinti: un paio di pendenti, un cinturino vecchio, il battente di una porta, armi da duello, una cassettina di legno con dentro un coltello, una chitarra, un violino e alcuni libri, arnesi da lavoro, tele. Tra gli oggetti sono elencati anche alcuni quadri, uno dei quali grande su tavola ‐ che da soli valevano una fortuna viste le quotazioni delle opere di Caravaggio in quegli anni ‐ due specchi: “un specchio grande” e “un scudo a specchio”, apparentemente estranei al contesto in cui sono inseriti, ma che ci danno preziose indicazioni sulle metodologie di lavoro di Caravaggio. Sfrattato da casa e senza più i suoi strumenti di lavoro e soprattutto senza i suoi quadri, il pittore non trovò di meglio per vendicarsi della sua padrona di casa che crearle qualche fastidio: dalla denuncia poi sporta da Prudenzia sappiamo che nella notte tra il 31 agosto e il 1° settembre il pittore si era appostato sotto la sua casa prendendo a sassate la finestra (rompendone la persiana), infastidendola con schiamazzi e suonando la chitarra con altri tre suoi amici fino a notte inoltrata. Non sappiamo dove Caravaggio abbia trovato rifugio in quel frangente, ma un verbale di interrogatorio del 24 ottobre 1605 indica che egli era degente nell’abitazione dell’avvocato Andrea Ruffetti, nelle vicinanze di piazza Colonna, a causa di misteriose ferite riportate alla gola e all’orecchio sinistro. Interrogato in proposito, Caravaggio, nel più puro stile omertoso, dichiarava di essersi fatto male da solo cadendo per strada sulla sua stessa spada. E’ forse a questo periodo che si deve far risalire la magnifica Madonna del Rosario, forse in origine destinata ad un altare, date le sue dimensioni. Sulla committenza e la destinazione di quest’opera, non documentata, esistono diverse ipotesi: alcuni la ritengono una commissione dei Colonna, cui alluderebbe la grande colonna scanalata a sinistra, forse risalente agli ultimi anni del soggiorno romano, come farebbero pensare alcune cifre stilistiche, la solenne monumentalità dei personaggi, l’uso della luce, la realizzazione delle ombre che sottolinea la compattezza plastica delle forme, per altri si tratta di un’opera del primo periodo napoletano, luogo dove la tela si trovava già nell’autunno 1607. Considerata una delle opere più “barocche” di Caravaggio il dipinto, chiaramente destinato ad una chiesa domenicana, sottolinea l’alto livello sociale del committente, nonché l’aristocrazia della Vergine e dei santi, contrapposta agli altri protagonisti. Di grande efficacia è la complessità compositiva, che pur utilizzando la tradizionale struttura a triangolo, si concentra nella metà inferiore della tela con uno strabiliante gioco di luci e intreccio di mani. Il 31 ottobre 1605, Merisi veniva contattato per la commissione più prestigiosa ed ambita della sua carriera, da parte della Congregazione della Reverenda Fabbrica di S. Pietro: una pala d’altare per la cappella di S. Anna, della Compagnia dei Palafrenieri, all’interno della Basilica di S. Pietro, la Madonna dei Palafrenieri che, come abbiamo visto, sarà poi rifiutata, senza chiare motivazioni, dai committenti, e acquistata da Scipione Borghese l’anno dopo, il 16 giugno 1606. 7
Solo poche settimane prima Caravaggio era incorso in una sventura che avrebbe cambiato irreversibilmente il corso della sua vita. Era domenica 28 maggio 1606, ricorreva a Roma il primo anniversario dell’incoronazione del pontefice Paolo V e i festeggiamenti erano degenerati in risse e scontri violenti. La sera stessa, in Campo Marzio, durante un gioco di pallacorda, si affrontarono due gruppi di uomini armati: da una parte Caravaggio con Onorio Longhi, Petronio Toppa, capitano bolognese, e un quarto uomo non meglio identificato, dall’altra Ranuccio Tomassoni, il fratello Giovan Francesco, capo rione di Campo Marzio, e i due cognati Ignazio e Giovan Federico Giugoli. Qualche giorno prima Caravaggio e Ranuccio si erano azzuffati a causa della spavalderia con cui la famiglia Tomassoni dettava legge nel quartiere, quella sera i due si sfidarono a duello: quando Ranuccio cadde a terra, fu colpito mortalmente alla gamba (“nel pesce” ‐ cioè nel muscolo ‐ “della coscia” precisa Baglione) da Caravaggio. Il pittore, anche lui ferito, si diede alla fuga e sparì da Roma qualche giorno: il mercoledì successivo al fattaccio era già al sicuro sui colli Albani; i fratelli Tomassoni si affidarono alla protezione dei Farnese, a Parma, mentre Longhi tornò nella sua Milano. Solo il Toppa, ferito e pieno di tagli, finì in prigione, a Tor di Nona. Per circa un mese, le cose non ebbero seguito, poi, il 28 giugno, il magistrato Angelo Turco dichiarò contumaci e perseguibili dalla corte tutti i personaggi coinvolti. La vicenda provocò grande scalpore a Roma ed occupò numerosi resoconti sulle gazzette, mentre gli ambasciatori si affrettavano a riportare i fatti in toni coloriti alle varie corti italiane. Le fonti coeve risentirono dei diversi punti di vista nel raccontare l’episodio: l’ostile Baglione ‐ anche lui caporione di Castello come i Tomassoni, ai quali forse lo lega una certa amicizia ‐ usa parole benevole nei confronti di Ranuccio e toni critici verso Caravaggio; Mancini, più neutrale, non fa cenno alla pallacorda, ma lascia intendere che Caravaggio fosse stato provocato e “per salvarsi aiutato da Onorio Longhi ammazzò l’inimico”. Nei confronti del pittore, come risulta da una gazzetta dell’epoca, fu emesso un bando capitale che incomberà come una minaccia implacabile sugli ultimi anni della sua vita tormentata. Quattro giorni dopo l’omicidio, il 31 maggio 1606, Michelangelo era già lontano da Roma, nei feudi Colonna, a Palestrina e Zagarolo dove dipinse la cupa e angosciosa Cena in Emmaus conservata oggi a Brera e forse anche il San Francesco in meditazione di Carpineto Romano (in deposito presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di palazzo Barberini) e una Maddalena, da alcuni individuata nell’esemplare in collezione Klain. Lo attendevano quattro anni di esilio, di fughe, di agguati, di rocambolesche evasioni prima di trovare la morte quel fatidico 18 luglio 1610 nell’ospedale di Porto Ercole. Nell’amata Roma il grande e sventurato artista lombardo non riuscì più a fare ritorno. 8