Testo Otto Simboli Mongoli maggio 2004

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Testo Otto Simboli Mongoli maggio 2004
OTTO SIMBOLI MONGOLI
Capitolo XVIII
“Le terre nascoste del Tibet”
Wang Lhund entrò nel suo alloggio che si trovava nel cortile interno
dell’Università buddista. Più di centocinquanta monaci avevano la loro
residenza nel Monastero di Gandan Khiid. Ma le sue stanze erano
situate lontano dall’ala che ospitava i confratelli.
In quei due locali spartani, uno era dedicata alla preghiera con un
piccolo altare, sul quale c’erano sette coppe d’acqua, tre lampade
alimentate a burro e un “mandala” (rappresentazione circolare del
mondo tridimensionale tantrico), fatto di semi come offerte. E c’era
anche un Sipa Khorlo, la ruota della vita, lo strumento che aiuta
l’uomo a comprendere la delusione della mente, nonché una
complessa rappresentazione del mondo, in cui il desiderio incatena gli
individui al “samsara”, l’infinito ciclo di nascita, morte e rinascita.
L’altra stanza conteneva il suo semplice giaciglio di tavolato coperto di
stuoie, un tavolo ingombro di carte vergate a mano dalla scrittura
cuneiforme, alcuni scranni e una stufa molto simile a quelle delle gher
che forse riusciva appena a intiepidire i due vani durante l’inverno di
Ulaan Baatar a 30 gradi sotto zero.
Quel giorno il Lama osservava il digiuno e non si era recato al
refettorio generale. Sedette nella stanza dedicata alla preghiera nella
classica posa meditativa di fronte al thangka, appeso alla parete: un
drappo di finissima seta antica dipinta a pigmenti vegetali, raffigurante
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un soggetto religioso, velato da due strati di seta più leggera: uno
color arancio e l’altro dorato.
Immobile come un idolo del tempio, si concentrò nella preghiera e
lentamente cominciarono ad affiorare immagini e visioni del passato.
-----------------------------------------------------------La donna nel classico costume tibetano riscaldava l’acqua per il bo
cha, il the al burro di yak, alimento base del popolo che contiene sale,
latte, bicarbonato, foglie di the, amalgamate in una sorta di tubo di
legno.
Il bambino di circa sei anni stava davanti alla porta con un gattino fra
le braccia e aveva le gote accese dall’aria tagliente delle altitudini.
Vide i tre monaci entrare nella cucina e parlare con la donna, la quale
diede subito sfogo a manifestazioni di grandissima gioia. E non pianse
una lacrima quando, avvolto in un manto di lana marrone, il bambino
venne portato via.
Nel monastero di Drepung, a pochi chilometri da Lhasa, la grande
sala delle riunioni, sostenuta da numerose colonne, alcune ornate da
armature, era in penombra. I thangka appesi alle pareti emanavano
caldi bagliori dorati.
Il bambino adesso era seduto su una sorta di altare attorniato da una
moltitudine di religiosi che eseguivano riti a lui sconosciuti.
All’improvviso l’immagine si trasformò. Un giovane monaco stava
prendendo i voti che comportano la rinuncia alla vita secolare, il
celibato e lunghi anni di studio.
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Quel giovane ascetico dal viso glabro, scavato dai patimenti sofferti
durante il periodo dell'invasione cinese quando i monasteri erano
cannoneggiati e distrutti e i lama perseguitati dal nuovo regime
comunista, aveva sempre negli occhi il capodanno tibetano del 1959.
Come tutte le feste precedenti richiamò a Lhasa grandi folle che
raddoppiarono la popolazione della città. Oltre ai festeggiamenti
consueti i cinesi ne avevano aggiunto uno: l’esibizione di un gruppo di
danza cinese presso la base militare di Lhasa. L’invito al Dalai Lama
perché intervenisse fu fatto in forma velatamente minacciosa. Il Dalai
Lama, non volendo recare offesa accettò.
Quando si avvicinò il momento dello spettacolo, il capo della sicurezza
del Dalai Lama fu sorpreso nell’apprendere che i cinesi avevano
previsto che il Dalai Lama stesso dovesse essere presente in segreto
e senza la consueta scorta di venticinque guardie del corpo. Benché
avesse accettato queste condizioni, la notizia si diffuse rapidamente e
l’insofferenza latente verso i cinesi esplose tra la folla nelle strade.
Alla gente sembrava ovvio che i cinesi stessero per rapire il Dalai
Lama. Una gran folla si radunò presso il Palazzo d’estate di
Norbulingka e giurò di proteggere il Dalai Lama a costo della vita.
Nell’ultimo disperato tentativo di evitare un massacro e dopo aver
offerto la propria persona, il quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin
Gyatso, umiliato dai cinesi, fu costretto a fuggire travestito da soldato:
due settimane dopo era in India.
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Da quel momento la tensione a Lhasa, colma di una moltitudine di
fedeli,
giunse al parossismo. Inaspettatamente
l’artiglieria cinese
comincia a sparare sulla folla e sul Potala.
I monaci cadono falciati insieme al popolo: i cadaveri si accumulano
per le strade. La soldataglia cinese si scatena stuprando e sgozzando
donne e bambini. Alla fine di quei tre giorni dell’orrore si contano
migliaia di vittime.
Il giovane monaco in fuga, ferito ad una spalla, trova soccorso in una
tenda di nomadi a pochi chilometri da Lhasa.
Un anziano tibetano abbigliato con una lunga chuba, veste di panno
verde scuro dalle maniche lunghissime legate intorno ai fianchi, stretta
in vita da una cintura d’argento, accoglie il profugo barcollante e lo fa
stendere su una coperta. Lo sveste e gli medica la ferita con unguenti
e decotti di erbe.
Il giovane, colto da una febbre altissima, delira per tutta la notte,
inseguito da visioni di orge e di massacri.
Quando si sveglia è molto debole. Una mano gli sta sostenendo la
testa per fargli bere una ciotola di latte caldo. Il piccolo viso di una
fanciulla lo sfiora per aiutarlo a coprirsi. E’ la prima volta nella sua vita
che lui ha accanto una presenza femminile dopo sua madre.
Lei si chiama Tara: è la nipote diciottenne del vecchio nomade, il
quale, non appena lo vede in forze, smonta la tenda e attacca uno yak
al carro che li trasporta lontano dalle stragi.
Dzong, il pastore nomade, è molto malato. Per cercare scampo alla
furia dei soldati cinesi, decide di raggiungere una località remota
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lontano dai monasteri più famosi che sono nel mirino degli invasori. Si
dirigono verso le terre nascoste del Tibet che danno protezione in
tempo di guerra e di carestia. Il luogo dove è facile trovare la pace
spirituale. Si trovano nella regione di Pemako, a sud di Pomi, che è
una delle sedici “terre nascoste” sull’Himalaya, rese invisibili da Guru
Rimpoche, il sacro Lama dei miracoli, per permettere alla gente di
rifugiarvisi in caso di pericolo. Le guide per raggiungere queste terre
rimasero segrete fino al diciassettesimo secolo quando furono
riscoperte dai terton (cercatori di tesori).
Il lungo viaggio però porta il vecchio nomade allo stremo delle forze e
prima di giungere nella regione di Pemako, Dzong assistito
amorevolmente da Tara e confortato dalle preghiere del giovane
monaco, muore.
Il corpo, vestito con la sua chuba migliore, calzato con gli stivali a
punta arrotolata per non calpestare gli insetti, viene tenuto
ventiquattro ore in posizione seduta mentre il monaco recita le
preghiere del libro tibetano dei morti per aiutare l’anima nel suo
viaggio. Poi, secondo il rito, Tara gli taglia i lunghi capelli candidi e il
giovane lo trasporta fino al piccolo spiazzo scelto per la sepoltura a
cielo aperto.
Gli animali che si ciberanno dei suoi resti mortali aiuteranno
quell’anima a reincarnarsi in cicli ravvicinati.
---------------------------------------------------- -----I due giovani sono soli. Raggiungono un luogo impervio dove un
piccolo lago di montagna rispecchia il colore nero delle rocce. E’
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protetto dai venti e dalla presenza umana. Là erigono la tenda e
trovano riposo dopo tanta fatica e tanto dolore.
Il giovane inizia una vita ancestrale con la donna che il destino gli ha
posto accanto. Si cibano di caccia, dei pesci del lago, del latte della
coppia di yak.
L’alba e il tramonto scandiscono i confini dei loro giorni. Le notti gelide
trascorrono nella fusione dei loro corpi che si scaldano a vicenda.
Il giovane conosce per la prima volta la dolcezza di un rapporto
amoroso, il miracolo dell’intimità con una donna che lo appaga nei
sensi e nell’anima. Per la prima volta conosce il significato della parola
“tenerezza”.
Tara vive solo per lui: infaticabile, accudisce gli animali, prepara il
cibo, porta l’acqua dalla sorgente che sgorga limpida dalla montagna.
Il giovane pensa che è quello il suo soggiorno terreno. Inutile lottare
contro le follie del mondo e degli uomini. Però quando Tara dorme
serena, lui talvolta esce dalla tenda e alla luce delle stelle prega e
sente di dover espiare per aver abbandonato la sua missione di
monaco.
Durante un’escursione di caccia si allontana molto più del solito, e a
un tratto gli appare la lontana visione di un piccolo monastero che lo
sconvolge.
E’ l’antico monastero Gelugpa di Buchu con il suo straordinario tetto
dorato che risale al settimo secolo. Lo attira inesorabilmente e lui lo
raggiunge quasi senza rendersene conto. Vi abitano soltanto tre lama
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e cinque monaci anziani che non hanno mai lasciato le terre nascoste
del Tibet.
Quando il giovane arriva nella cappella principale, fiancheggiata da
inconsueti dipinti murali che raffigurano le divinità tutelari, il lama più
anziano gli viene incontro.
“ Sei tornato finalmente nel tuo mondo che è il mondo della preghiera
e della contemplazione.”
Il giovane adesso è prostrato davanti all’anziano che gli tiene la mano
sul capo. Avverte che l’atmosfera del tempio è la dimensione
temporale della sua vita. Non tornerà più alla tenda sotto la montagna.
------------------------------------------------------------La Rivoluzione culturale a Lhasa prosegue nel suo intento distruttivo
di modificare dalle radici il mondo tibetano.
I contadini sono costretti alla collettivizzazione nelle comuni e viene
loro imposto quello che devono coltivare e quando.
Le feste religiose sono proibite: le donne sono private dei loro
ornamenti e agli uomini vengono tagliate le tradizionali trecce nelle
strade dalle guardie rosse. Chi oppone resistenza è arrestato e
costretto al thamzing ( incontro di lotta).
Il giovane monaco, tornato a Lhasa, per continuare la sua missione,
viene imprigionato. Sottoposto a estenuanti interrogatori e minacce
con l’accusa di volersi opporre alle verità della Rivoluzione.
Trascorrono lunghi mesi di vessazioni fisiche e morali fino a quando
con sommo stupore i suoi carcerieri diventano meno crudeli. Avverte
un cambiamento.
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Ora gli interrogatori hanno assunto toni suadenti. Gli fanno balenare
che la sua adesione al nuovo corso comunista potrebbe essere
compensata con il trasferimento lontano dal Tibet: in un paese dalle
terre vergini. Dove potrà finire i suoi studi religiosi superiori: ritrovare
la sua vita di monaco e diventare finalmente “geshe” dell’ordine
Gelugpa. Tutto ciò, è ovvio, sotto l’egida del Partito. A lui la scelta.
--------------------------------------------------------I colori del Thangka riprendevano luminosità.
L’alto Lama Wang Lhund si riscosse. Le visioni erano svanite. Lui
adesso era nella Mongolia Esteriore libera, il paese delle terre vergini,
scrigno di ricchezze, ambite dalla cupidigia insaziabile del mondo del
ventunesimo secolo.
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