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edicinatalia
Le cellule staminali quale potenziale strategia
terapeutica nelle malattie infiammatorie croniche
R. CICCOCIOPPO, G.R. CORAZZA
Clinica Medica I, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Università di Pavia, Pavia
L’impiego delle cellule staminali adulte a scopo terapeutico rappresenta un recente traguardo della medicina. Grazie alle loro notevoli capacità proliferative e differenziative, tali cellule sono diventate
le protagoniste di una nuova era scientifica, offrendo la possibilità
non solo di riparare e rigenerare un tessuto senza incorrere nei
rischi di reazioni avverse, ma anche di superare le resistenze politiche e morali riguardo l’impiego di cellule staminali di derivazione
embrionale. Infatti, tra i vari tessuti impiegati per la loro estrazione,
il midollo osseo emopoietico e il cordone ombelicale appaiono le
fonti più accessibili e sicure. Quest’area di ricerca traslazionale è in
continua espansione in quanto di giorno in giorno cresce il numero
delle malattie in cui le tradizionali terapie farmacologiche e perfino
le più nuove terapie biologiche non sono in grado di fornire un adeguato controllo. Tra queste, le malattie infiammatorie croniche stanno diventando un importante campo di applicazione. D’altro canto,
nonostante i notevoli progressi compiuti nella gestione medica e
sociale di tali pazienti, la loro qualità di vita è scadente, non solo a
causa delle recidive legate alla malattia di base, ma soprattutto per
la necessità di assumere farmaci in modo continuativo con tutti gli
effetti collaterali legati a una terapia cronica.
L’utilizzo delle cellule staminali di derivazione midollare nella pratica clinica è stato introdotto in campo ematologico decenni orsono,
ancor prima che si conoscessero tutte le loro proprietà biologiche,
genetiche e funzionali. Nel midollo osseo sono presenti almeno due
tipi di cellule staminali, uno rappresentato dalle cellule emopoietiche, che esprimono sulla superficie cellulare la molecola CD34 e che
danno origine a tutte le linee cellulari presenti nel sangue circolante, e un secondo tipo non-emopoietico e meno caratterizzato che
sembra svolgere funzioni di supporto contribuendo a creare un
microambiente favorevole all’emopoiesi stessa. Queste ultime cellule sono state variamente denominate e oggi vengono più correttamente indicate con il termine di cellule stromali mesenchimali
(MSC). Inoltre, recenti studi compiuti sia in vitro che in vivo su
modelli animali di malattie infiammatorie croniche, nonchè iniziali
esperienze sull’uomo, hanno dimostrato che le cellule staminali di
derivazione midollare svolgono un ruolo importante non solo in
senso riparativo/rigenerativo, ma soprattutto immuno-modulatorio.
Nel corso degli ultimi anni si sono accumulate in letteratura crescenti e univoche evidenze relative alla capacità del trapianto di cellule staminali emopoietiche, sia autologo che allogenico, di indurre
una duratura remissione di patologie infiammatorie croniche in
pazienti sottoposti a tale trattamento per una concomitante patologia onco-ematologica [1]. In particolare, sono numerosi i casi
descritti di pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali, quali la malattia di Crohn (MC) e la rettocolite ulcerosa
(RCU), o sistemiche, quali il lupus eritematoso e l’artrite reumatoi-
de, che si sono giovati di tale strategia terapeutica anche se intrapresa per altro motivo. Sulla scorta di tali aneddotiche osservazioni
e delle approfondite conoscenze sulla patogenesi di tali condizioni,
negli USA è stato condotto uno studio pilota multicentrico in cui 12
pazienti con MC refrattaria sono stati sottoposti a trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche previa immunoablazione [2].
Tale procedura terapeutica ha indotto in tutti i casi la remissione
della malattia e in tutti, tranne uno, la persistenza della stessa dopo
un periodo medio di osservazione di 18 mesi. Più ampia è la casistica riguardante i pazienti affetti da malattie autoimmuni, quali il diabete mellito tipo I, la sclerosi sistemica progressiva, la sclerosi multipla, il lupus eritematoso sistemico e l’artrite reumatoide refrattari
alle terapie convenzionali, per i quali è già possibile porre l’indicazione al trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche [3]. È
chiaro che per queste patologie (Tabella 1), in cui il paziente non è
in pericolo di vita, la scelta del trapianto da effettuare come strategia terapeutica alternativa alla terapia farmacologica e biologica
cade su quello autologo, in quanto gravato da una mortalità inferiore allo 0,1% se eseguito presso Centri con comprovata esperienza; inoltre, il recente impiego di un regime di condizionamento non
più immunoablativo ha praticamente azzerato il rischio di mortalità.
Presso il nostro Centro, abbiamo potuto individuare e seguire cinque
pazienti affetti da MC, di cui 4 sottoposti a trapianto allogenico e
uno a trapianto autologo per concomitanti patologie onco-ematologiche. In tutti è stata osservata una duratura remissione non solo cli-
nica, ma anche istologica della patologia intestinale con possibilità
di sospendere la terapia precedentemente assunta per la MC.
Nonostante l’accumularsi delle esperienze cliniche in tal senso, ad
oggi non è ancora noto se sia l’immunoablazione totale che precede
la procedura del trapianto stesso e/o il resetting del sistema immunitario conseguente al trapianto il meccanismo responsabile dell’induzione e della persistenza della remissione di tali patologie infiammatorie croniche. Nostri studi immunologici ancora in corso sembrano
propendere per entrambe le ipotesi, in quanto abbiamo rilevato una
critica riduzione delle cellule e delle molecole responsabili dell’infiammazione accompagnata a un parallelo aumento di quelle
responsabili della tolleranza immunologica. Inoltre, diversi studi suggeriscono che un contributo importante alla rigenerazione dell’epitelio intestinale sia dato anche dalle cellule staminali di derivazione
midollare, ponendo quindi le basi per la comprensione dei meccanismi di riparazione delle lesioni mucosali in queste condizioni [4].
Comunque, anche se tali preliminari risultati sono incoraggianti, le
indicazioni rimangono sempre estremamente limitate a quei pazienti con forme refrattarie e che possono tollerare una procedura terapeutica così invasiva. A tal proposito menzioniamo la recente indicazione a far ricorso a tale tipo di strategia terapeutica nella malattia
celiaca refrattaria. Anche le indicazioni al trapianto allogenico sono
state attualmente ampliate a patologie non onco-ematologiche
includendo, oltre ai difetti dell’eritropoiesi su base ereditaria coma la
Thalassemia major, a malattie metaboliche e citopenie autoimmuni,
Tabella 1. Nuove indicazioni al trapianto di cellule staminali emopoietiche e di cellule stromali mesenchimali nella pratica clinica
Trapianto di Cellule Staminali Emopoietiche
Trattamento con Cellule Stromali Mesenchimali
Malattie intestinali
- Malattia di Crohn refrattaria
- Malattia celiaca refrattaria
- IPEX
- Malattia di Behçet
Malattie intestinali
- Malattia di Crohn
- GvHD acuta
Malattie del tessuto connettivo
- Sclerosi sistemica
- Lupus eritematoso sistemico
- Polimiosite/dermatomiosite
- Sjögren
Malattie del fegato
- Cirrosi
Artriti
- Artrite reumatoide
- Artrite giovanile
· Artrite giovanile sistemica
· Altre artriti giovanili
· Artite giovanile poliarticolare
· Artrite psoriasica
Malattie osteoarticolari
- Osteogenesi imperfetta
- Artrite reumatoide
- Artrite giovanile
Vasculiti
- Wegener
- Takayasu
- Poliarterite nodosa microscopica
- Poliarterite nodosa classica
- Sindrome di Churg-Strauss
Malattie cerebrali
- Ischemia cerebrovascolare
- Malattia di Parkinson
- Malattia di Alzheimer
Malattie neurologiche
- Sclerosi multipla
- Myasthenia gravis
Malattie cardiovascolari
- Infarto del miocardio
- Cardiopatia ischemica cronica
- Malattia di Buerger
alcune patologie rare intestinali come la sindrome da immunodeficit,
poliendocrinopatie, enteropatia autoimmune X-linked (conosciuta
come IPEX) e alcuni gravi casi di malattia di Behçet.
L’impiego delle MSC nella pratica clinica ha seguito un percorso
completamente diverso da quello delle cellule staminali emopoietiche, in quanto il loro primo impiego è stato nell’ambito della medicina riparativa grazie non solo alle loro esuberanti proprietà proliferative e differenziative, quanto soprattutto alla capacità di migrare verso i tessuti lesi, sede di infiammazione (Tabella 1). Come già
accennato, tali cellule sono state identificate nel midollo osseo in
quanto non esprimenti i marcatori della linea staminale emopoietica (CD34), per poi essere ritrovate in molti altri tessuti, quali il tessuto adiposo, il tessuto muscolare, la placenta, il cordone ombelicale, il periostio, i follicoli del capillizio, il fegato, il polmone e la
milza, suggerendo una loro ampia distribuzione nell’organismo. Si
è visto che, in base a specifiche condizioni di coltura, le MSC hanno
la potenzialità di dare origine a un’ampia varietà di linee cellulari
non solo di derivazione mesenchimale quali adipociti, condroblasti,
osteoblasti e fibroblasti mediante un semplice processo di differenziazione, ma anche a miociti, cardiomiociti, precursori neurali, epatociti e cellule endoteliali attraverso un processo di transdifferenziazione. Da queste premesse risulta facilmente intuibile l’enorme
spazio per un loro impiego clinico nelle più disparate patologie
d’organo e sistemiche che hanno travalicato i confini della semplice terapia riparativa in ambito ortopedico, estetico, implantologico,
per arrivare alla cardiologia soprattutto per le forme ischemiche, e
alla neurologia per le malattie a prevalente impronta degenerativa
come il Parkinson e l’Alzheimer. Aspetto non trascurabile per un
loro potenziale ampio utilizzo nella pratica clinica è rappresentato
dal fatto che tali cellule possono essere facilmente isolate dal sangue midollare in quanto aderiscono alla piastra utilizzata per la loro
coltura e sono capaci di un’importante espansione numerica.
Inoltre, contrariamente a quelle di derivazione da tessuto adiposo,
le MSC da midollo mostrano stabilità genetica anche dopo molti
passaggi in vitro, a garanzia dell’assenza di una loro possibile
degenerazione neoplastica [5], e possono essere crioconservate
senza perdita delle loro caratteristiche morfologiche e funzionali.
Studi successivi hanno messo in evidenza le straordinarie capacità
immuno-modulanti e immuno-soppressive delle MSC che le hanno
rese candidabili anche alla terapia di malattie infiammatorie croniche
[6]. Un ulteriore vantaggio è rappresentato dal fatto che il loro trapianto, sia autologo che allogenico, non necessariamente richiede
una preventiva fase di immunoablazione, evitando così al paziente
sia i gravi rischi infettivi che i lunghi tempi di degenza connessi con
tale procedura. I primi studi clinici in cui le MSC sono state utilizzate non solo a scopo riparativo, ma più propriamente curativo, sono
stati condotti su pazienti affetti da osteogenesi imperfetta [7]. A questi hanno fatto seguito esperienze basate sulle loro proprietà immuno-modulanti e immuno-soppressive, tra cui i lusinghieri risultati
ottenuti nella cura della malattia da reazione di trapianto contro l’ospite (Graft versus Host Disease, GvHD) acuta, a localizzazione intestinale e refrattaria alle attuali terapie in uso [8], nonchè nell’eliminazione del rischio di mancato attecchimento delle cellule staminali
emopoietiche in caso di trapianto aploidentico grazie a una loro contemporanea infusione [9]. Parallelamente, sono stati condotti studi
sperimentali su modelli animali di malattie infiammatorie croniche
come l’enteropatia autoimmune, in cui l’infusione per via sistemica
di MSC è risultata efficace nel determinare la regressione delle lesioni intestinali grazie alla loro capacità di operare una reinduzione
della tolleranza immunologica, localizzandosi a livello dei linfonodi
mesenterici [10]. Ulteriore evidenza favorevole viene da un modello
animale di epatite fulminante, in cui l’infusione per via generale di
molecole prodotte dalle MSC ha determinato non solo la regressione delle lesioni a livello degli epatociti e dei dotti biliari, ma anche
un’efficace rigenerazione del fegato. Infine, del tutto recentemente è
stato pubblicato uno studio condotto su un modello animale di colite sperimentale in cui l’infusione locale di una sospensione di MSC
ha determinato la guarigione delle ulcere coloniche [11]. A tal proposito occorre menzionare uno studio condotto negli USA in cui
pazienti affetti da MC in fase di attività moderata o severa e che non
avevano risposto a precedenti trattamenti con farmaci immunosoppressori, sono stati trattati mediante infusione endovenosa di MSC
provenienti da midollo di donatori sani [12]. In tutti i casi è stata
osservata l’induzione della remissione con un critico miglioramento
delle condizioni generali a distanza di 28 giorni dall’infusione. Dopo
la GvHD, pertanto, la MC è la seconda patologia infiammatoria cronica intestinale, in cui tale terapia cellulare potrà trovare indicazione.
Recentemente, sono stati anche pubblicati i risultati di uno studio clinico condotto su pazienti affetti da MC fistolizzante e sottoposti a
infusioni locali di MSC autologhe ottenute da tessuto adiposo, che
ha dimostrato il conseguimento della chiusura delle fistole nel 75%
dei casi in assenza di effetti avversi [13].
Ulteriore campo di applicazione terapeutica delle MSC, come per
le staminali emopoietiche, è la reumatologia in cui, indipendentemente dalla patologia di base, nessuna terapia farmacologia o
biologica è attualmente in grado di revertire il danno articolare
quando già instaurato, con inesorabile progressione verso la
distruzione del tessuto e l’insufficienza funzionale. A tal proposito, il connubio tra le capacità riparative e rigenerative delle MSC
con quelle immuno-modulanti e immuno-soppressive ne fanno
un agente altamente indicato nella terapia di tale tipo di patologia umana. Infine, è degli ultimi mesi la proposta di sviluppare
dei target terapeutici che riescano a indirizzarsi verso le MSC
residenti e specifiche per ogni tipologia di tessuto al fine di stimolarle a rigenerare in loco e riparare le aree lese.
In conclusione, questo campo della ricerca è un tipico esempio di
medicina traslazionale in cui il passaggio dal laboratorio alla pratica clinica è diretto e immediato. Tali innovativi approcci di terapia cellulare sembrano promettenti non solo nell’ottica di migliorare la qualità di vita dei pazienti affetti, ma anche di modificare la storia naturale delle malattie infiammatorie croniche [14].
Occorre però tener presente che tali procedure terapeutiche
necessitano di un’alta tecnologia e di un’elevata integrazione tra
esperti di diverse discipline e, pertanto, possono essere espletate solo in Centri altamente specializzati e referenziati e solo
dopo un’attenta selezione dei pazienti candidati.
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Diagnosi e trattamento delle cause di tosse cronica
E. CHELLINI, C. MAGNI, F. LAVORINI, G.A. FONTANA
Dipartimento di Medicina Interna, Sezione di Immunoallergologia, Malattie dell’Apparato Respiratorie e Terapie Cellulari, Università
di Firenze, Firenze
La tosse rappresenta un evento sporadico nell’individuo sano
e, d’altra parte, la sua comparsa occasionale non ha necessariamente rilevanza clinica. La tosse è un meccanismo di difesa deputato a favorire l’eliminazione di corpi estranei penetrati accidentalmente nelle vie aeree e la rimozione di secrezioni mucose prodotte in eccesso. La tosse cronica e persistente ha grande importanza clinica e rappresenta uno dei
motivi più comuni per il quale si richiede l’intervento del
medico. Per l’elevata prevalenza e per le procedure diagnostiche e terapeutiche che talora richiede, la tosse costituisce un
costo notevole per il sistema sanitario. Stime relative al mercato italiano testimoniano la vendita annua di circa 35 milioni di confezioni di farmaci da banco per il trattamento della
tosse e sintomi a essa correlati.
Il motivo per cui i pazienti con tosse si rivolgono frequentemente al medico (Tabella 1) e investono rilevanti quantità
di denaro in farmaci è da ricercare nel fatto che questo sintomo ha frequentemente un impatto negativo sulla qualità
della vita e può talvolta causare importanti complicazioni
(Tabella 2).
La tosse è certamente il sintomo più comune in corso di
malattie respiratorie, ma può anche rappresentare uno dei
sintomi, se non il principale, in corso di patologie non respi-
Tabella 1. Motivi principali per i quali il paziente con tosse cronica richiede l’intervento del medico
Motivo
Percezione di qualcosa che non va
Esaurimento
Preoccupazione
Insonnia
Modificazioni secondarie delle abitudini di vita (*)
Dolore muscolo-scheletrico
Abbassamento della voce
Eccessiva sudorazione
Incontinenza urinaria
Vertigini
Paura di gravi malattie (cancro)
Mal di testa
Paura di gravi malattie (AIDS, TBC)
Conati di vomito
Vomito
Nausea
Anoressia
Crisi sincopali
Frequenza (%)
98
57
55
45
45
44
43
42
39
38
33
32
28
21
18
16
15
05
(*) Le modificazioni delle abitudini di vita includono impossibilità di parlare a lungo, di frequentare chiese o teatri, di cantare; tendenza a evitare contatti sociali per paura d’incontinenza urinaria e/o fecale
Tabella 2. Principali complicazioni della tosse
Cardiovascolari
Ipotensione
Perdita di coscienza
Rottura di vene congiuntivali, nasali, anali
Aritmie
Neurologiche
Sincope
Mal di testa
Embolia gassosa cerebrale
Compressione cervicale acuta
Ictus da rottura dei vasi cerebrali
Convulsioni
Gastro-intestinali
Episodi di reflusso gastro-esofageo
Rottura splenica
Ernia inguinale
Genito-urinarie
Incontinenza
Estrusione della vescica in uretra
Muscolo-scheletriche
Lesioni dei muscoli della parete addominale
Fratture costali
Aumento asintomatico della creatinfosfochinasi
Respiratorie
Enfisema interstiziale
Pneumomediastino
Trauma laringeo
Trauma (rottura) dei bronchi
Miscellanea
Porpora e petecchie
Peggioramento della qualità della vita
Rottura di suture chirurgiche
ratorie [1]. Per esempio, la tosse può costituire il sintomo d’esordio o l’unico della malattia da reflusso gastro-esofageo.
Assai più raramente, la tosse rappresenta un disturbo di tipo
comportamentale e come tale riveste interesse neurologico e
psichiatrico.
Fisiopatologia della tosse
La tosse può essere un atto volontario, ma nella maggior parte
dei casi è una manovra riflessa evocata principalmente da stimoli irritativi applicati sulla laringe o sull’albero tracheo-bronchiale. Essa comporta l’attivazione di molti muscoli, tutti a
prevalente funzione respiratoria, che agiscono sulla parete
toraco-addominale o sulle prime vie aeree [1, 2]. L’atto del tossire si realizza in tre fasi successive: una prima fase inspiratoria, in cui il soggetto inala un volume d’aria normalmente ben
superiore al volume corrente; una seconda fase, detta “compressiva”, in cui la glottide si chiude mentre i muscoli espiratori della parete toracica e addominale si contraggono intensamente; infine, una fase espulsiva, allorché la glottide si apre
consentendo l’espulsione ad alta velocità dell’aria precedentemente inalata e determinando la produzione di un caratteristico suono [3].
Tosse acuta, subacuta e cronica
Il carattere acuto o cronico della tosse è definito in base a criteri temporali del tutto arbitrari ma largamente condivisi. Si usa
pertanto distinguere la tosse acuta, quando il sintomo dura
meno di quattro settimane, la tosse subacuta, quando la durata
è compresa tra le quattro e le otto settimane, e la tosse cronica
quando persiste da oltre otto settimane [1].
Le cause più frequenti di tosse acuta e subacuta sono le infezioni a carico dell’apparato respiratorio, sia di tipo batterico
che virale: il raffreddore comune, la sinusite e rinite acuta, le
riacutizzazioni di patologie respiratorie pre-esistenti quali la
broncopneumopatia cronica ostruttiva, la pertosse [1]. Fra le
cause frequenti di tosse acuta di origine non infettiva ricordiamo la rinite allergica e l’inalazione di sostanze irritanti [1]. La
diagnosi differenziale tra queste forme spesso è possibile
attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo, in quanto hanno
una presentazione clinica abbastanza caratteristica. La terapia
della tosse acuta e subacuta può avvalersi di farmaci sintomatici [4].
La tosse cronica o persistente è più problematica dal punto di
vista diagnostico poiché riconosce molteplici cause talvolta
concomitanti. È ormai ampiamente accertato che, in un individuo non fumatore, che non faccia uso di farmaci ACE inibitori
(notoriamente capaci d’indurre tosse in chi li assume) e con
radiografia del torace normale, le principali cause di tosse cronica sono le sindromi asmatiche, le patologie rinosinusali,
spesso caratterizzate clinicamente da rinorrea posteriore (o
gocciolamento retronasale di muco), e il reflusso gastroesofageo [1]. Esistono altre condizioni patologiche che presentano
un’elevata prevalenza nella popolazione generale e che sono
accompagnate da tosse cronica. In questi casi, tuttavia, sono
presenti lesioni identificabili con la radiografia del torace e
raramente il paziente con queste affezioni si rivolge al medico
per il sintomo tosse di per sé, poiché l’attenzione è maggiormente rivolta ad altri sintomi o manifestazioni cliniche. Tali
malattie comprendono la bronchite cronica, il carcinoma polmonare, le bronchiectasie e la fibrosi polmonare idiopatica. La
tosse psicogena [5] è una diagnosi che viene posta quando
non si identificano altre cause plausibili che possano spiegare
il sintomo. Questo tipo di tosse è descritto con maggior frequenza nei bambini e negli adolescenti.
Nei successivi paragrafi esamineremo le cause di tosse cronica di più frequente osservazione in pazienti non fumatori,
che non fanno uso di farmaci inibitori dell’enzima di conversione e con radiografia del torace normale: le sindromi asmatiche, le patologie rino-sinusali e la malattia da reflusso
gastro-esofageo.
Sindromi asmatiche
Con questo termine si raggruppano una serie di forme morbose
accomunate dalla presenza di flogosi eosinofila delle vie aeree e
che possono tuttavia manifestarsi in forme clinicamente assai
diverse: l’asma bronchiale propriamente detto, l’asma “variante
tosse” e la bronchite eosinofila.
L’asma bronchiale è una malattia infiammatoria cronica delle
vie aeree che si manifesta con difficoltà respiratoria, specie
sotto sforzo, respiro sibilante, senso di oppressione toracica e
tosse secca e stizzosa. È caratterizzata da iperreattività bronchiale e ostruzione al flusso aereo reversibile. La terapia dell’asma e della tosse che l’accompagna consiste in genere nella
somministrazione di corticosteroidi e broncodilatatori per via
inalatoria.
L’asma variante tosse è una sindrome asmatica che si manifesta
con tosse persistente come unico sintomo, in presenza di iperreattività bronchiale. Le crisi broncospastiche sono assenti. La
terapia è identica a quella dell’asma classico. Talora la tosse è
produttiva, con piccole quantità di escreato, generalmente verde
per la presenza di eosinofili. Sebbene l’asma variante tosse
migliori con la terapia inalatoria, una minoranza di pazienti
risponde solo al trattamento con steroidi per via sistemica o ai
farmaci antagonisti dei leucotrieni.
Il termine bronchite eosinofila è riservato alle sindromi asmatiche caratterizzate da tosse persistente in pazienti che non
mostrano broncocostrizione né iperreattività bronchiale. Per la
diagnosi definitiva in genere è necessario documentare la presenza di flogosi eosinofila per mezzo della citologia dell’escreato o del lavaggio bronchiale. I pazienti di norma rispondono positivamente al trattamento con corticosteroidi per via inalatoria o
sistemica.
Patologie rino-sinusali
Tali patologie si possono presentare con rinorrea anteriore e
posteriore, quest’ultima intesa come sgocciolamento retro nasale di muco soprattutto durante decubito supino. Le patologie
rino-sinusali che possono indurre tosse cronica includono tutte le
forme di sinusite e di rinite (allergica, vasomotoria, infettiva, da
agenti irritanti); di particolare rilievo è la rinite in corso di reflusso gastroesofageo (vedi sotto), che può verificarsi qualora il
reflusso di contenuto gastrico si estenda in direzione prossimale
fino ad interessare le vie aeree superiori.
Reflusso gastro-esogageo
Per reflusso gastroesofageo (RGE) si intende il flusso retrogrado di contenuto gastrico in esofago. Entro certi limiti, il RGE è
un fenomeno fisiologico; quando tuttavia gli episodi di reflusso sono eccessivamente frequenti o provocano danni alla
mucosa esofagea o si accompagnano a sintomi, si parla di
malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE). I pazienti affetti
da MRGE possono quasi sempre essere identificati per mezzo
della storia clinica perché riferiscono sintomi tipici, quali pirosi
e dolore retrosternale e fenomeni di rigurgito. Talvolta i sintomi del reflusso possono interessare organi extra-esofagei e
generare una sintomatologia atipica, come nel caso dei pazienti che riferiscono come unico sintomo di reflusso la tosse cro-
nica. La genesi della tosse in pazienti con RGE è ancora oggetto di discussione. La somministrazione di farmaci inibitori della
pompa protonica rappresenta la scelta terapeutica più logica in
pazienti con tosse cronica da reflusso; in associazione è talvolta opportuno somministrare procinetici come la metoclopramide e il domperidone e i comuni antiacidi.
Tosse da farmaci inibitori dell’enzima di conversione
(ACE)
La tosse da ACE inibitori colpisce circa il 15% dei pazienti in trattamento con tali agenti. Si può manifestare all’inizio del trattamento, anche per dosaggi bassi, ovvero dopo anni di terapia
apparentemente ben tollerata. La tosse da ACE inibitori sembra
essere causata dall’accumulo di bradichinina, agente broncospastico e tussigeno, il cui catabolismo è parzialmente inibito dai
farmaci in questione.
Il ruolo del Centro per lo Studio e la Diagnosi della Tosse
La tosse cronica ha una prevalenza elevata e impegna notevoli risorse economiche e sanitarie. La diagnosi e il trattamento
della tosse cronica spesso richiedono la consulenza di personale specializzato quale quello che opera presso il Centro per lo
Studio e la Diagnosi della Tosse (Centro Tosse) afferente al
Dipartimento di Medicina Interna dell’Università degli Studi di
Firenze. Le visite sono prenotabili al 055-413183 specificando
“visita per tosse”.
L’attività clinica svolta presso il Centro Tosse si rivolge esclusivamente a soggetti con tosse cronica e consiste sostanzialmente in
visite ambulatoriali in occasione delle quali al paziente vengono
poste delle domande molto semplici con lo scopo di caratterizzare in maniera precisa la tosse stessa e di valutare l’eventuale
presenza di sintomi di accompagnamento. Tale colloquio, in
aggiunta a un accurato esame clinico, permette quasi sempre di
delineare un quadro preciso delle cause della tosse e, di conseguenza, indirizza verso alcuni utili approfondimenti diagnostici e
possibili trattamenti efficaci.
Le visite specialistiche presso il Centro per lo Studio e la Diagnosi
della Tosse di Firenze sono prenotabili al 055-413183, specificando “visita per tosse”.
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Eventi emorragici da anticoagulanti II:
Aspetti di farmacogenetica
M. MOSCHINI1, F. LAPI1, E. CECCHI2, E. GALLO1, M. VIETRI1, G. BANCHELLI1, A. FAZZINI1, M. DI PIRRO1, A. MUGELLI1,
D. PRISCO3, B. GIUSTI3, A. VANNACCI1
1Dipartimento di Farmacologia, Università degli Studi di Firenze, Firenze; 2U.O. Emergenza e Accettazione ASL 4 Prato, Prato; 3Dipartimento
di Area Critica Medico Chirurgica, Università degli Studi di Firenze, Firenze
Per il Sistema di FarmacoVigilanza della Regione Toscana, Area Vasta Centro, (www.farmacovigilanza.toscana.it)
Inquadramento del problema
I trial clinici condotti negli ultimi decenni hanno costantemente
dimostrato l’efficacia del warfarin per la prevenzione primaria e
secondaria del tromboembolismo arterioso e venoso [1].
Nonostante il diffuso utilizzo, questo farmaco presenta numerose difficoltà di applicazione terapeutica, che determinano un
potenziale rischio di induzione di eventi emorragici.
L’anticoagulazione con warfarin necessita, infatti, di un costante
follow-up clinico a causa della ristretta finestra terapeutica, dell’ampia variabilità del rapporto dose-risposta e delle numerose
interazioni farmacologiche e alimentari [2]. Tuttavia, è ben noto
che caratteristiche del paziente in trattamento con warfarin come
l’età, la presenza di stati patologici concomitanti e la terapia con altri farmaci sono
solo parzialmente responsabili di questa variabilità [1-6]. Dal momento che tali elementi sono stati oggetto di un precedente articolo, qui esamineremo alcuni degli
aspetti di farmacogenetica che condizionano la risposta farmacologica e tossicologica alla terapia anticoagulante orale con warfarin.
Aspetti di farmaco genetica
Le notevoli differenze nella dose terapeutica del warfarin che si verificano nei pazienti possono essere dovute a variabilità nella clearance del farmaco, oltre che a modificazioni nella sua capacità di limitare l’attività procoagulante nei diversi individui. Il
warfarin viene infatti metabolizzato tramite passaggi complessi mediati dal sistema
epatico del citocromo P450 (CYP450) [1]. Eventuali variazioni interindividuali della
funzionalità enzimatica di isoforme del CYP450 possono influenzare la clearance del
warfarin, portando a un aumento o a una diminuzione delle concentrazioni del farmaco e quindi a una risposta variabile alla terapia. Un altro possibile meccanismo alla
base della variabilità dose-risposta è riconducibile a differenze di attività dell’enzima
vitamina K epossido reduttasi (VKOR), deputato alla ricostituzione della vitamina K
nella sua forma attiva: la vitamina KH2. La vitamina KH2 è necessaria per la gammacarbossilazione dei fattori della coagulazione II, VII, IX e X. Il trattamento con warfarin interferisce nel ricircolo della vitamina K, impedendo la carbossilazione di questi
fattori e determinando quindi una ridotta attività procoagulante.
Nella ricerca di un substrato genetico per tale variabilità, sono stati identificati alcuni importanti polimorfismi dei geni che codificano per questi due sistemi enzimatici.
Polimorfismi del sistema epatico del CYP450
Il warfarin viene assunto in forma di miscela racemica dei due enantiomeri R- e S[1]. L’S-warfarin ha un effetto di inibizione della VKOR dalle 3 alle 5 volte superiore
all’isomero destrogiro [5]. L’S-warfarin è metabolizzato dall’isoforma 2C9 del
CYP450. Il prodotto di questa reazione è il 7-idrossiwarfarin, un metabolita inattivo.
Le isoforme CYP1A2, CYP2C19 e CYP3A4 degradano invece l’R-warfarin per metabolismo ossidativo. Sulla base del profilo farmacocinetico del warfarin, il CYP2C9
rappresentava un bersaglio intuitivo per gli studi genetici iniziali. Fra i circa 12 diversi alleli del CYP2C9 finora descritti, ne sono stati identificati 3 che presentano differenti velocità di metabolismo del warfarin [7]. L’allele wild-type è stato identificato come CYP2C9*1, mentre i due alleli varianti sono stati contrassegnati come
CYP2C9*2 e CYP2C9*3. Si stima che il 30% degli individui di origine europea possieda uno o più alleli varianti (*2 o *3). La frequenza allelica di CYP2C9*2 è stimata intorno allo 0,1 e quella di CYP2C9*3 intorno allo 0,08. L’allele wild-type predomina nelle popolazioni afroamericane e asiatiche con una frequenza del 95% [7].
Tabella 1. Distribuzione nella popolazione dei principali polimorfismi del complesso vitamina K epossido reduttasi. Da [4]
Posizione
1173
3730
Polimorfismo
CC 36,8%
GG 45,5%
CT 46,9%
GA 39,5%
TT 16,3%
AA 15,0%
Polimorfismi del complesso vitamina K epossido reduttasi
Per mezzo di alcuni studi di genomica, condotti anche in campioni italiani di soggetti sottoposti a terapia anticoagulante
orale, è stato possibile identificare dei polimorfismi del gene
relativo al complesso enzimatico vitamina K epossido reduttasi
1 (VKORC1). In particolare, sono stati identificati due polimorfismi genetici: una sostituzione C>T in posizione 1173 e G>A
in posizione 3730. La distribuzione di questi polimorfismi nella
popolazione italiana è riportata in Tabella 1.
Tali polimorfismi possiedono una notevole rilevanza clinica, dal
momento che i pazienti con il genotipo 1173CC necessitano di
una dose giornaliera media di warfarin più elevata rispetto agli
individui con il genotipo CT o TT; anche il genotipo 3730AA richiede una dose di
warfarin maggiore rispetto a GG.
Conclusioni
La rilevanza delle varianti geniche nella risposta terapeutica alle dosi convenzionali
di warfarin non può in alcun modo essere sottovalutata; in quest’ottica nel 2007,
anche la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato una modifica alla scheda informativa del farmaco introducendo il concetto che il profilo genico del paziente rappresenta una importante caratteristica condizionante le dosi terapeutiche [8].
Recentemente, studiando prima 4043 pazienti e validando poi il dato su una coorte di 1009 soggetti, è stato sviluppato un algoritmo per la predizione del dosaggio
di warfarin iniziale individuale che tiene conto anche dei dati farmacogenetici [9].
Sebbene una recente analisi condotta con la metodologia genome-wide abbia
concluso che non c’è da aspettarsi l’individuazione di altri significativi polimorfismi genici condizionanti la risposta a questo farmaco [10], le varianti finora individuate non spiegano completamente il fenomeno. In base, infatti, ai dati riportati anche nella scheda tecnica del warfarin, circa il 30% della variabilità può
essere attribuita al solo gene VKORC1, valore che raggiunge il 40% per la combinazione con CYP2C9. Se si aggiungono a questi due genotipi altri fattori quali
età, altezza, peso, indicazioni terapeutiche e farmaci interagenti, si arriva a spiegare il 55% della variabilità nella risposta.
In conclusione, sebbene la ricerca genomica abbia permesso un grande salto di qualità nella comprensione del profilo farmaco-tossicologico del warfarin, sono necessari ulteriori studi in questo settore perché il quadro sia veramente completo.
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“Chi si innamora di pratica senza scienza è come il nocchiero che entra
in Naviglio senza timone o bussola: che dove vada nessuna ha certezza”
(Leonardo da Vinci)
Buone pratiche e rischio trombo embolico
Introduzione
I pazienti ricoverati nei Reparti di Medicina Interna spesso sono anziani, affetti da più
di una patologia e sono diversi da quelli arruolati nei trial clinici dai quali derivano le
evidenze su cui si dovrebbe basare la terapia. Proprio per la loro complessità, spesso
sono soggetti a rischio se non viene instaurata un’adeguata profilassi, ma lo sono altresì se questa azione non tiene conto delle possibili interferenze con altre terapie e dei
molteplici operatori sanitari (medici di medicina generale, medici specialisti, infermieri)
con cui, una volta dimessi, dovranno interfacciarsi in ragione della loro polipatologia.
La profilassi del tromboembolismo venoso nei pazienti ricoverati in Medicina e la profilassi
del cardioembolismo nei pazienti con fibrillazione atriale sono due situazioni che bene
spiegano quanto esposto. Il loro elevato impatto epidemiologico in ambito clinico e la possibilità di ridurre i rischi connessi hanno mosso il Gruppo Toscano di Gestione del rischio
Clinico (GRC), con la collaborazione di esperti del settore, a definire delle modalità di azione intese come “buone pratiche“ per minimizzare in modo preventivo i rischi individuati.
Profilassi del tromboembolismo venoso (TEV) in Medicina Interna
Da molto tempo è noto che il TEV, nelle sue forme di trombosi venosa profonda
(TVP) e di embolia polmonare (EP), è una complicazione frequente nei pazienti ricoverati in Ortopedia e in Chirurgia, mentre è più recente la consapevolezza che il
rischio è elevato anche per determinati soggetti ricoverarti in Medicina.
Il rischio elevato di TEV è frequente in Medicina Interna
Nel 2000 un gruppo di ricercatori di Boston riportava una rilevazione effettuata nel
loro Ospedale, il Brigham and Women’s Hospital: su 384 casi di TEV, il 44% si era
verificato in Medicina, il 16% in Chirurgia e il 9% in Ortopedia [1]. Gli stessi Autori
alcuni anni dopo riferivano come su 5451 casi di TVP diagnosticati in 183 Ospedali
degli USA, il 71% si era verificato in pazienti che non facevano alcuna profilassi e
di questi il 59% era ricoverato in Reparti Medici e il 41% in reparti Chirurgici [2].
Da questi dati emergeva che il TEV è frequente in ambito medico e che la profilassi
era maggiormente effettuata nei Reparti Chirurgici, soprattutto in Ortopedia.
Il rischio individuale di sviluppare TEV può essere calcolato in quanto deriva dalla
somma dei fattori predisponenti e dei fattori di esposizione rappresentati dalla condizione morbosa che ha determinato il ricovero.
Assegnando un valore numerico a ciascun fattore di predisposizione e di esposizione (2 se aumentano il rischio (R) fra 2 e 9 volte e 1 se R <2) si ottiene un punteggio che identifica i soggetti ad alto e basso rischio [3].
Da una ricerca effettuata nel 2008 dalla FADOI (Federazione delle Associazioni dei
Dirigenti Ospedalieri Internisti) in 29 Reparti di Medicina Interna della Toscana su
1648 ricoverati di età media 78 anni è emerso che il 68% era ad alto rischio e il
40% aveva 3 o piu fattori di rischio di sviluppare TEV.
Dato il numero dei ricoverati in Medicina, l’impatto epidemiologico del TEV è elevato,
verosimilmente maggiore che per le discipline chirurgiche, e il peso prognostico è rilevante se si pensa che l’EP ha ancora, con la miglior terapia, una mortalità dell’8-10%.
La prevenzione è possibile: una nuova buona pratica
Tre grandi trial, condotti fra il 1998 e il 2003, hanno dimostrato che la profilassi con
eparine a basso peso molecolare e con il pentasaccaride fondaparinux determina riduzioni del rischio relativo di TEV da un minimo del 47% a un massimo del 63% [4-6].
Da quanto esposto risulta l’importanza di sviluppare la cultura della prevenzione, la
necessità di identificare fra i pazienti ricoverati in Medicina quelli a rischio di sviluppare TEV e l’efficacia della profilassi adeguatamente effettuata.
Il GRC ha coordinato la realizzazione di una scheda che deve essere parte integrante della
cartella clinica da compilare all’ammissione del paziente in Medicina per identificare, tramite un sistema a punti, i soggetti nei quali è appropriato instaurare la profilassi. Nella
scheda sono anche indicate le possibili opzioni farmacologiche e i dosaggi appropriati
oltre alle misure non farmacologiche nei casi di elevato rischio emorragico.
che in questa fascia di popolazione è elevata la frequenza di comorbilità.
Anche i dati di incidenza corretti per l’età dimostrano che questa aritmia è in
aumento: esattamente del 12,6% dal 1980 al 2000 e le previsioni sono di un
costante ulteriore incremento nei prossimi anni [8].
Efficacia e rischi legati alla prevenzione
Numerosi trial hanno dimostrato negli anni precedenti che il rischio cardioembolico
determinato dalla FA può essere ridotto con l’uso di anticoagulanti orali che agiscono interferendo con l’azione della vitamina K nella sintesi di alcune proteine della
coagulazione. Una metanalisi effettuata nel 1999 su 6 grandi trial ha dimostrato
come l’uso di uno di questi farmaci, il warfarin , determini una riduzione del rischio
relativo di ictus del 62% [9].
Questi dati di efficacia sono però legati a un dosaggio adeguato che mantenga la misura di
azione (definita da INR - International Normalized Ratio) in un ambito molto ristretto (fra 2
e 3). Per valori inferiori di INR si riduce l’azione protettiva e per valori superiori aumenta il
rischio emorragico. A differenza degli altri farmaci, non esiste una dose fissa ma il dosaggio
ottimale dipende dalle caratteristiche individuali e dall’interazione con alimenti e farmaci.
I pazienti appartenenti alla fascia di età più avanzata sono a più alto rischio di emorragie maggiori, verosimilmente in ragione della maggior difficoltà a dosare il farmaco e a causa delle possibili interferenze con le altre terapie effettuate per le comorbiltà associate. In uno studio effettuato al Massachusetts General Hospital di Boston
le emorragie maggiori a 1 anno di terapia con warfarin [10] erano lo 0,04% nei soggetti con età <80 anni, ma salivano allo 0,1% in quelli con età >80 anni. Inoltre, lo
stesso studio dimostrava che nei primi mesi il rischio di abbandonare la terapia anticoagulante era di circa 3 volte maggiore per i pazienti più anziani.
Una buona pratica “sperimentata”: il farmamemo
L’indicazione e l’efficacia della terapia anticoagulante sono conoscenze consolidate al
pari di quelle che sono, in base alle linee guida, le controindicazioni. I maggiori limiti
di applicazioni sono legati alla sicurezza di impiego che nei pazienti affetti da molteplici patologie, seguiti da vari medici, in terapia con altri farmaci può indurre all’abbandono e quindi all’inefficacia oppure può determinare effetti collaterali gravi.
Per smantellare il doppio rischio, di non assunzione e di effetti tossici, è stato progettato e sperimentato in alcune ASL della Toscana il sistema “farmamemo” le cui
caratteristiche sono state estesamente descritte in questa stessa rubrica.
In sintesi, la sua applicazione prevede che il paziente venga educato a gestire la
terapia anticoagulante e che l’interfaccia con il laboratorio di analisi e con i vari
medici avvenga per iscritto tramite un booklet su cui sono ripetute le conoscenze
necessarie a un’applicazione della terapia efficace e sicura.
L’esperienza maturata rende oggi auspicabile che anche in altri ambiti clinici la preventiva individuazione dei rischi porti alla definizione di procedure che ne riducano,
per quanto possibile, le conseguenze negative.
G. Pettinà
Direttore, UOC Medicina Interna Ospedale di Pistoia
Clinical Risk Manager ASL 3 Pistoia
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aumenta con l’età e fra 70-80 anni è di 10-20/1000persone/anno. Da notare
115:2689-2696
IMPRESSUM
Inserto alla rivista "Internal and Emergency Medicine" Vol. 4 Num. 4
Editore: Springer-Verlag Italia Srl, Via Decembrio 28, 20137 Milano
Stampa: Grafiche Porpora, Segrate (MI) – Copyright © SIMI, Società Italiana di Medicina Interna