GLOB news - Anno III - 02/2009

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GLOB news - Anno III - 02/2009
www.globalstrategy.net Anno III - 02/2009
Cover story
Convergenze
parallele
Message in a bottle
Germano Calvi
Il tema segreto della mente,
il ritmo segreto del cuore
Interviste
Gianluigi Angelantoni
Ernesto Gismondi
Pasquale Pistorio
Giorgio Squinzi
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Convergenze
parallele
di Antonella
Negri-Clementi
e Domenico Greco
Tensione al cambiamento
come condizione ideale
per il fluire del pensiero
strategico, con sintonia rapida
ed efficace fra obiettivi
di lungo e breve periodo
Il tema segreto Il passo più
della mente,
avanti di Mapei
il ritmo segreto intervista a
Giorgio Squinzi
del cuore
di Germano Calvi
Capire che cosa ci impedisce
di cambiare, abbattere
le resistenze e agevolare
un clima favorevole al nuovo
La strategia della maggior
multinazionale chimica italiana
si fonda su tre pilastri:
specializzazione,
internazionalizzazione,
innovazione
Dalla tecnologia
del freddo
all’energia solare
intervista a
Gianluigi Angelantoni
In Umbria c’è una media azienda
diventata leader mondiale
in applicazioni sulla frontiera
tecnologica
GLOB NEWS
Anno III - N. 2
Dicembre 2009
Reg.Tribunale di Milano
n. 493 del 06/09/2007
Direttore responsabile:
Antonia Negri-Clementi
Il design dura
nel tempo,
è l’azienda che
cambia
Diario di un
innovatore seriale
intervista a
Ernesto Gismondi
Intervista al padre di una
multinazionale italiana attiva
nell’hi-tech con grande successo
nel mondo
Per avere successo, un
protagonista del design deve
adeguare ai tempi che cambiano
la sua organizzazione, la strategia
e l'approccio al mercato
intervista a
Pasquale Pistorio
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20122 Milano
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Editoriale
“
Venti di cambiamento
Antonella Negri-Clementi
Piero Cannas
”
«Quando soffia il vento
del cambiamento,
alcuni costruiscono muri,
altri mulini a vento»
Proverbio cinese
Michelangelo con pennelli e colori dell’epoca ha dipinto il giudizio universale nella Cappella Sistina. Beethoven aveva a disposizione un pianoforte come tanti altri, e ha composto tutti i capolavori che conosciamo. Einstein ha cambiato il modo di studiare l’universo utilizzando il proprio pensiero e le conoscenze matematiche della sua epoca. Ha
cioè innovato nel modo di pensare più che inventato nuovi strumenti.
Cambiamenti epocali con strumenti normali per le loro epoche. Cambiare non significa per forza inventare – Leonardo inventava cose avanti secoli rispetto al suo tempo –
significa usare in modo nuovo, diverso, innovativo, gli strumenti che si hanno a disposizione. Pensiero nuovo con strumenti “normali”.
È un concetto che ci sta molto a cuore, quello del cambiamento: perché riguarda, in
egual misura, tutto il tessuto imprenditoriale italiano.Abbiamo ricordato alcuni esempi
eclatanti di primato del pensiero sullo strumento, perché riteniamo che il Pensiero
Strategico sia il vero motore del cambiamento. Che poi si esprime nell’uso migliore
possibile degli strumenti di management che gli imprenditori e i manager “pensanti”
devono avere a disposizione.
Pensiero Strategico e strumenti di management alla portata di tutti, nessuno escluso,
per dimensione o settore di appartenenza, che utilizzati nel modo giusto creino quella
distintività che fa di ogni imprenditore il campione del proprio contesto industriale e di
mercato. Quello che in fondo hanno fatto e continuano a fare esempi vincenti dell’imprenditoria italiana come Giorgio Squinzi e Ernesto Gismondi,o eccellenze manageriali di livello mondiale come Pasquale Pistorio, o talenti emergenti dalla “palude” delle
PMI come Gianluigi Angelantoni, che abbiamo scelto di intervistare in questo numero.
Sono solo alcuni esempi, ce ne sono ovviamente tanti altri, ma rappresentano trasversalmente – crediamo – tutto il tessuto imprenditoriale italiano: la grande azienda, i
manager di caratura internazionale e le PMI che cambiano, crescono e diventano grandi. Esattamente come i Barilla, i Cao, gli Alessi intervistati nel numero precedente della
nostra rivista: figure di riferimento le cui esperienze, il cui pensiero siamo convinti rappresentino uno spunto di riflessione per chi appartiene a questo mondo.
Questo numero di GLOBnews racconta un po’ le loro storie, lette attraverso una lente
particolare: quella che ci consente di capire come, eleggendo il cambiamento a colonna
portante del proprio pensiero strategico, sono riusciti e tuttora stanno continuando a
costruire l’imprenditoria italiana riconosciuta nel mondo.Il tutto accompagnato dall’articolo di Germano Calvi, psicologo d’impresa, che ci racconta le difficoltà che le persone
incontrano nel proprio contesto lavorativo quando gli si pone davanti il cambiamento.
La grande sfida che ci aspetta, imprenditori, istituzioni, banche e perché no, anche noi
consulenti, è quella di rimettere il Pensiero Strategico e il cambiamento alla guida delle
nostre imprese. Gli strumenti ci sono già tutti, basta usarli bene.
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Convergenze parallele
di Antonella Negri-Clementi e Domenico Greco
«Non è la più forte
delle specie che sopravvive,
né la più intelligente, ma quella
più reattiva ai cambiamenti»
Charles Darwin
Antonella Negri-Clementi
Domenico Greco
L’attenzione al cambiamento è sempre stata
indispensabile alla sopravvivenza delle
aziende. Il contesto competitivo, la velocità
con cui nascono, si impongono e poi virano le
tendenze di mercato e le evoluzioni sociali,
rendono l’orientamento al “nuovo” una
necessità per tutti gli operatori economici,
nessuno escluso. Occorre anticipare il cambiamento, essere pronti a cavalcarlo con nuovi prodotti, tecnologie, processi produttivi,
modelli organizzativi, d’impresa e di business. La crisi che stiamo attraversando ci
insegna che anche la lettura del ciclo economico non può più essere la stessa. La distinzione classica tra dinamiche congiunturali e
mutamenti strutturali non sembra più il discrimine operativo utile a guidare la politica
economica e gli indirizzi suggeriti dagli economisti industriali e d’impresa. Insomma:
anche le crisi cambiano. Come scrive Gary
Hamel, “ciò che è cambiato di più è proprio il
cambiamento”. Ciò che distingue la nostra
epoca da tutte le altre non è l’impatto livellante delle comunicazioni, non è la vertiginosa crescita economica di Cina e India, non è il
degrado del clima e non è neppure la reviviscenza di antiche animosità religiose. È, piuttosto, “il ritmo in frenetica accelerazione del
cambiamento”. Per Hamel, “nei prossimi
decenni, l’adattabilità di tutte le società, di
tutte le organizzazioni e di tutti gli individui
sarà messa alla prova con una severità senza
precedenti [...] Le aziende si giocano il futuro
quando confondono il temporaneo con l’eterno; e oggi, praticamente tutto è temporaneo”.
OPPORTUNITÀ OBBLIGATA
Proprio questo può essere il momento opportuno per concentrare le energie sul cambia-
mento. Grazie alla crisi, le aziende possono,
anzi devono rimescolare le carte, procedere a
ristrutturazioni da tempo necessarie, avviare
azioni di razionalizzazione e focalizzazione
dell’offerta. Da sempre, durante le recessioni
si assiste a una forte accelerazione dei processi di riorganizzazione e rinnovamento della
struttura produttiva e di quella distributiva.
Risorse male utilizzate si spostano verso
impieghi più efficienti, nuove imprese prendono il posto di quelle che hanno ormai esaurito la propria spinta propulsiva. Inevitabilmente le maggiori energie dell’imprenditore
e della sua squadra sono assorbite dalle esigenze operative di breve periodo quali la
selezione della gamma di prodotti, l’acquisizione di ordini con margini soddisfacenti, il
recupero dei crediti scaduti, la rinegoziazione
del debito, eccetera. La priorità è la sopravvivenza dell’impresa stessa. Il modo vincente
per riprendere ad avere un ruolo nel mercato
è quello di combinare strategicamente le esigenze di breve con l’orientamento di mediolungo termine. Ovvero fermarsi a riflettere
sugli scenari possibili all’uscita dalla crisi e
su come riposizionarsi di conseguenza.
Magari assumendo talenti manageriali, tecnici, professionali più facilmente reperibili e
meno “viziati” dal mercato. O comprando “a
prezzi di saldo” rami d’impresa che altri dismettono per l’urgenza di fare cassa. Nell’insieme è necessario ripensare a modelli di
impresa che meglio si adattano e interpretano
le richieste di tutti gli attori della nuova arena
competitiva. Noi di Global Strategy vi proponiamo alcune riflessioni che non sono esaustive ma sicuramente autentiche: derivano
dalla lunga esperienza quotidiana a fianco
degli imprenditori e dallo scambio continuo
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Tensione al cambiamento come condizione ideale
per il fluire del pensiero strategico, con sintonia rapida ed efficace
fra obiettivi di lungo e breve periodo.Tensione al cambiamento
come principio attivatore dell'innovazione
con gli operatori finanziari e altri osservatori
privilegiati. Spunti per essere pronti a cogliere i segnali e gli stimoli al cambiamento,
comprendere il suo impatto sull’impresa e
sulle persone che la compongono.
PENSARE E SEMPLIFICARE
Chi guida un’impresa non può più affidarsi e
affidare i compiti di strategia e gestione a
schemi, modelli e strumenti rigidi e immutabili. In un contesto di incertezza e variabilità
cresce la necessità di avviare un processo di
verifica-revisione continuo che si basa sull’intuito imprenditoriale e sulle capacità
manageriali. Il pensiero strategico, che riteniamo motore del cambiamento, tiene conto
degli scenari futuri per scegliere dove andare e pianificare come arrivarci. Se la disponibilità di scenari è scarsa, come ora, e
soprattutto nessuno si sente di assegnare un
ragionevole grado di probabilità al verificarsi degli stessi, è importante continuare a
pensare, per attuare continui aggiustamenti
e correzioni. Perché anche l’incertezza può
essere riconosciuta, definita e tenuta sotto
osservazione. E l’individuazione di segnali
deboli è di aiuto per rivedere le strategie. A
patto, naturalmente, che queste siano sufficientemente flessibili. Pensare strategicamente significa anche semplificare, e un
periodo di crisi può essere opportunamente
impiegato per liberare risorse ed energie.
Può essere il momento migliore per rivedere
le politiche di diversificazione che hanno
portato a un portafoglio di attività complesso e forse non ottimale in termini di potenziale inespresso dell’impresa. Può spingere
la ricerca di spazi di riduzione dei costi e
semplificazione delle funzioni d’uso che
permettano di migliorare il rapporto qualità/prezzo dei prodotti e servizi offerti. E la
scarsità di risorse è spesso uno stimolo eccezionale alla creatività. Pensiamo a ciò che ha
significato la grande crisi degli anni ’30 per
lo sviluppo delle materie plastiche nei
decenni successivi: dalla galalite e la bakelite come surrogati di avorio e ambra per
oggetti decorativi artigianali, al ruolo di protagonista onnipresente nella produzione
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Le aziende
possono, anzi devono
rimescolare le carte
industriale. Un giro tra le mille piccole vetrine di Palermo Viejo, a Buenos Aires, può far
riflettere sulla risposta alla “crisi” da parte di
artisti e stilisti: probabilmente tra le categorie meno disciplinate quanto a pensiero strategico, ma certo tra le più veloci a respirare
il cambiamento, interiorizzarlo e offrirne
segnali concreti. Pensare e semplificare,
infine, significa anche non farsi prendere
dall’ansia del cambiare tutto e subito. Ma
concentrarsi sulla combinazione degli strumenti giusti, al momento giusto, nel modo e
nella sequenza giusti. Se Kotter sottolinea
l’importanza d’introdurre in azienda il senso
di “urgenza del cambiamento” per contrastare l’inerzia e l’autocompiacimento da
risultati passati, l’urgenza non dev’essere
scambiata con l’affrettarsi inconcludente.
Spesso la frenesia è il risultato dell’adesione
a mode manageriali che hanno cambiato, di
volta in volta, la priorità dei supposti fattori
di successo. Ma nelle imprese che vincono è
difficilmente riconoscibile la supremazia di
una funzione aziendale. Se oggi la parola
d’ordine è “innovazione”, pensiamo che
vada intesa come una delle espressioni del
pensiero strategico e orientamento principe
di tutte le funzioni aziendali.
LE IMPRESE SONO FATTE DI PERSONE
Non è un luogo comune, non dimentichiamocene. Imprenditori, manager e dipendenti, ma anche i clienti e tutti gli stakeholder
reagiscono al cambiamento in quanto persone prima che lavoratori, consumatori, investitori. Affinché in azienda il cambiamento
sia compreso, accolto e valorizzato quando
viene dall’esterno, nonché costantemente stimolato e agevolato all’interno, è necessario
fare della tensione al cambiamento un valore
condiviso. È opinione comune da secoli che
gli imprenditori siano dotati di propensione
al rischio superiore alla media. Crediamo che
senza curiosità, flessibilità e adattabilità la
propensione al rischio non condurrebbe lontano. In questo senso, l’adagio molto in voga
che suggerisce di “diffondere l’imprenditorialità a tutti i livelli dell’organizzazione”
può assumere un significato più vasto: motivare e premiare la capacità di reazione e la
voglia di sperimentazione, oltre al raggiungimento di obiettivi quantitativi espressi come
risultati, standard o altro. La distinzione nonché la necessità di integrazione tra “hardware organizzativo” e “software comportamentale” è più che mai attuale e ci deve far riflettere sulla coerenza necessaria tra cambiamento collettivo e individuale. Scrive
Sumantra Ghoshal già nel 1996: “Il limite
principale di ogni processo di trasformazione
[…] sta nella capacità delle persone di assecondare il cambiamento” e individua “la
disciplina, il supporto, la tensione positiva
(stretch) e la fiducia” come “i quattro elementi vitali del contesto comportamentale
trasformazionale” che devono essere opportunamente richiesti, erogati e stimolati per
avere successo in una trasformazione d’azienda: “equilibrare tutte e quattro le dimensioni è la chiave per passare a uno stato di
continua rigenerazione”. Vogliamo sottolineare con Ghoshal l’ultimo dei quattro elementi: “la tensione positiva è una caratteristica del contesto di un’organizzazione che
aumenta le aspettative che le persone hanno
su se stesse e sull’impresa. Essa è il contrario
della timidezza e del gradualismo e si manifesta nel coraggio di battersi per obiettivi
ambiziosi invece che accettare la sicurezza di
bersagli facilmente raggiungibili”.
CAMBIAMENTO E INNOVAZIONE
Quando, da fattore di sopravvivenza, il cambiamento diviene fattore di successo rispetto
ai competitor? E’ sufficiente che l’imprenditore riconosca il valore del cambiamento, se
ne faccia motore in prima persona, ne senta
la responsabilità e crei un ambiente favorevole ad esso? L’esperienza sembra indicare
che due sono le componenti fondamentali: il
tempo e il contenuto di innovazione. L’innovazione (portare il nuovo dentro) è una forma possibile di cambiamento. E’ certamente
auspicabile in quanto si traduce in vantaggio
competitivo. È strettamente legata alle capacità di visione e percezione, ma a volte deriva da un colpo di fortuna. L’atteggiamento
“responsabile” dell’imprenditore nei confronti del cambiamento crea un terreno più
fertile per l’innovazione al di là della fortuna. La genesi dell’innovazione, tradizionale
oggetto di studio per economisti e tecnologi,
è oggi indagata proficuamente con il ricorso
ad altre discipline quali psicologia, sociologia, epistemologia e teoria della complessità.
In questo modo, come scrive Riccardo Viale,
“si rende giustizia alla dimensione istituzionale, culturale, conoscitiva, cognitiva ed
emozionale dei comportamenti e degli
ambienti ‘innogenetici’; un cambiamento
concettuale necessario per comprendere
l’innovazione in un’economia dove la componente immateriale è divenuta predominante su quella materiale”. La crucialità della componente immateriale emerge con forza anche dalla ricerca decennale di Roberto
Verganti che definisce “Design-Driven
Innovation” il processo che ha permesso ad
alcune imprese di “trasformare idee rivoluzionarie in business di successo” attraverso
la ri-definizione del significato dei prodotti.
Ne sono esempi significativi la Wii di Nintendo e l’iPod di Apple, che interpretano un
modo radicalmente nuovo di giocare e ascoltare musica, ma Verganti ne cita numerosi
altri anche nei servizi e nel B2B, sottolineando che “tutti i prodotti hanno un significato,
a prescindere dal particolare segmento di
mercato […] Né i significati sono ristretti a
determinati settori” ma esiste “un denominatore comune: le persone amano le cose che
hanno un significato”.
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RICOSTRUIRE PARTENDO DAL MERCATO
In un contesto caratterizzato da marcate
discontinuità potrebbe risultare proficuo
avviare un radicale ripensamento del proprio posizionamento in una logica di ridefinizione degli stessi confini dell’arena competitiva e della sua segmentazione, rivedendo di conseguenza la struttura dei propri modelli di business e d’impresa. Proprio questo potrebbe rivelarsi il momento
migliore per introdurre cambiamenti nelle
politiche d’integrazione orizzontale o verticale, così come in quelle di insourcing o
outsourcing - di nuovo: pensare e semplificare… Il riorientamento dei modelli richiede naturalmente un grande sforzo di business intelligence, e vorremmo sottolineare
tre fra quelli che sembrano emergere come
driver imprescindibili per gli scenari socioeconomici. In primis: sostenibilità. Indice
al tempo stesso di responsabilità e di attenzione a ciò che conta davvero, ma anche di
creazione di nuovo valore. Ne danno conferma ricerche di ogni tipo sul successo di
iniziative imprenditoriali che hanno innescato un circolo virtuoso tra sostenibilità e
innovazione: a partire dai nuovi mercati
del risparmio energetico, fino all’abbigliamento e al design. Il secondo driver: “value
for money”. Retrocessione dall’effimero
verso il concreto: un ritorno di attenzione
per la qualità e il suo “giusto” prezzo come
segno, riconoscimento d’intelligenza del
produttore e del consumatore. Più attenti,
non più in balia di “bolle”, senza per questo
rinunciare alle gratificazioni offerte dal
significato di beni e servizi. Con movimenti dei consumatori sia di “trading up” sia di
“trading down”. Nel primo caso vengono
premiati il brand, il made in, il contenuto
tecnologico o ecologico… Nel secondo
caso, il messaggio “low cost - high value”
introdotto all’origine da nuovi vettori
aerei. L’acquisto di un volo a prezzo contenuto, oggi, non è semplice sinonimo di disponibilità limitate, ma espressione di scelta
consapevole: sullo stesso aereo incontriamo globetrotter e turisti a cinque stelle. Il
terzo driver: nuovi modelli di business.
Sfociati in sistemi di offerta che affiancano
alla qualità un prezzo ragionevole, un ele-
vato livello di servizio e un contenuto esperienziale aggiuntivo nel processo d’acquisto. Casi di successo come Ikea, Zara e
ebay, che incontrano il favore di consumatori con caratteristiche socio-economiche
alquanto variegate, dimostrano che il prezzo, il canale e la localizzazione del punto
vendita (reale o virtuale) possono concorrere al significato del prodotto/servizio
anziché rappresentare un semplice vincolo
nella decisione d’acquisto.
APRIRSI A NUOVI SCHEMI COLLABORATIVI
Una riflessione sui vincoli di struttura che
spesso ostacolano imprese innovative nel
passaggio dall’idea alla realizzazione. Il
tessuto produttivo italiano è caratterizzato
dalla dimensione medio-piccola della grande maggioranza delle imprese, spesso non
sufficiente per sostenere i costi di un repar-
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Il cambiamento
richiesto rappresenta,
per la maggior parte
degli imprenditori attualmente
sul mercato, una sfida unica
to di ricerca e sviluppo. Per superare questa
criticità sarebbe senz’altro utile il ricorso
alla “Open Innovation”, termine coniato da
Henry Chesbrough, professore e direttore
esecutivo del Center for Open Innovation di
Berkeley, per definire “un paradigma che
afferma che le imprese possono e debbono
fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed
esterni ai mercati, se vogliono progredire
nelle loro competenze tecnologiche”. Partendo dalla constatazione che al giorno
d’oggi le informazioni possono essere trasferite in modo talmente facile che sembra
impossibile bloccarle, la filosofia Open
Innovation suggerisce che nel momento in
cui le aziende non possono bloccare questi
flussi di informazioni, devono capire come
utilizzare tutto ciò a proprio vantaggio per
incrementare l’efficienza e i ritorni dell’attività di ricerca. Le aziende dovrebbero perciò comprare o concedere in licenza le inno-
L’ideogramma “crisi” è l’unione di “pericolo” e “opportunità”
vazioni attraverso scambi tra loro. In particolare, le invenzioni sviluppate internamente ma non utilizzate nel proprio business, dovrebbero essere date all’esterno
(attraverso contratti di licenza, joint ventures, spin-off, o centri di ricerca cooperativi).
Nel nostro sistema produttivo è però presente un elemento di segno contrario: l’atteggiamento di fondo di moltissimi imprenditori italiani che considerano la proprietà
aziendale come un unicum, rinunciabile
solo in misura complessiva e a fronte di
eventi straordinari. Sarebbe invece necessario un atteggiamento di apertura nei confronti di partnership aziendali, così come di
ingressi nel capitale di nuovi soci, per soddisfare le necessità di risorse finanziarie o di
conoscenza che consentano di avviare e
sostenere i processi di innovazione. Così
come tra gli imprenditori va crescendo il
consenso sulla necessità di considerare il
mutato orientamento in termini ambientali
dei modelli di consumo, nonché sull’istanza
di internazionalizzazione (molti hanno iniziato o progettano di rivolgersi a nuovi mercati applicativi come quelli asiatici), ci
auguriamo possa diffondersi anche la convinzione che, data la struttura industriale
italiana, non si possa fare a meno di orientarsi verso schemi collaborativi più aperti.
CONVERGENZE PARALLELE
Temporaneo versus Eterno, Opportunità
versus Obbligo, Pensiero versus Semplificazione, Concorrenza versus Partnership
sono alcuni dei temi toccati in questo articolo. Concetti nel passato considerati antitetici, chiamano oggi gli imprenditori a una
sintesi obbligata che si traduce di fatto in
un cambiamento radicale. La riprogettazione dei modelli di impresa a fronte di
questo ribaltamento logico è molto più
complessa di quanto a prima vista possa
apparire, come emerge dall'approfondimento dei singoli temi all'interno dell'articolo. Il cambiamento richiesto rappresenta, per la maggior parte degli imprenditori
attualmente sul mercato, una sfida unica: la
sopravvivenza e il successo dipenderanno
dalla capacità di governare le vele con questa “nuova” Rosa dei Venti.
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Premio alle PMI
che hanno battuto la crisi
nel 2008 e nel 2009
Chi è stato capace di innovare e di ricercare soluzioni
e strategie di natura commerciale, finanziaria e industriale
può essere considerato il vero “simbolo” della ripresa.
Chi ce l’ha fatta va premiato, va valorizzato e il suo esempio
può essere di stimolo a tutto il sistema delle imprese
e a chi sta cercando soluzioni per risollevarsi.
Prima Edizione Nazionale
Milano, marzo 2010
Le candidature potranno essere presentate fino al 31 marzo 2010
Per informazioni e iscrizioni visitare il sito
www.tickmark.it
o telefonare aTickMark S.p.A. allo 02.43510726
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Il tema segreto della mente,
il ritmo segreto del cuore
di Germano Calvi
Germano Calvi,
P.h.d. in Psicologia, consulente HR
Le diverse discipline che si sono occupate di
cambiamento nelle organizzazioni hanno in
comune un vizio ideologico: l’assunto che il
cambiamento è buono e chi non cambia è
resistente al cambiamento perché non ne
coglie l’evidente bontà. A questo stesso assunto aderiscono molte aziende quando verificano le inevitabili resistenze che fanno
seguito ai cambiamenti introdotti. Anch’io,
per esperienza professionale, sono stato
ideologicamente schierato su questa idea di
base, ma nel tempo ho cercato di rivedere la
mia posizione. Anzitutto perché mi son reso
conto che quando ho avuto desiderio di cambiare in prima persona, la difficoltà è stata
enorme: oltre al desiderio sono necessari
impegno, disciplina e coraggio. Raramente
si hanno tutte queste qualità insieme, almeno
per quanto mi riguarda. Per altri versi è stata
illuminante l’esperienza di lavoro che ho
potuto realizzare all’interno di una fondazione no profit che si occupa di pazienti con
patologie molto gravi. Malattie oncologiche
o di altra specie che comunque giungono
all’improvviso e ti chiedono crudelmente di
rivedere del tutto il tuo modo di vivere, sentire e pensare la tua vita. Seguendo queste
persone ho compreso più a fondo la difficoltà insita nel cambiamento, pur in quella che è
paradossalmente la condizione purtroppo
più frequente per farlo: esservi obbligati.
Credo che nella stragrande maggioranza dei
casi il cambiamento avviene solo in quanto
forzato, necessario ed “estorto”. Se siamo
sfortunati, il cambiamento obbligato ci si
propone diverse volte nella vita, più spesso
nella maturità, in seguito a eventi più o meno
drammatici (abbandoni, malattie, perdita del
lavoro…).
USCIRE DAL QUADRATO
Che cosa, invece, ci impedisce di cambiare
quando lo desideriamo, o quando comunque
non siamo in presenza di eventi drammatici?
Fondamentalmente, qualcosa dentro di noi
che ci ostacola: le “idee parassite”. Si tratta
di idee che vivono nella nostra testa senza
che ne siamo consapevoli e ci procurano
danno, detrimento, penalizzazione. Parassiti, appunto, che vivono a nostre spese. Una
prova indiziaria di quest’affermazione è il
test dei nove punti da unire con quattro linee
senza staccare la penna dal foglio. Provate,
se vi garba.
È un gioco curioso, se non lo si fa diventare
irritante. La maggior parte delle persone (incluso il sottoscritto) tentano di trovare la
soluzione all’interno dell’area ideale delimitata dagli otto punti esterni. Tutti vedono
l’insieme dei punti come un quadrato e si
muovono lì dentro. Peccato che, finché rimaniamo dentro il quadrato, sia impossibile trovare la soluzione. Proprio come è irrealizzabile attuare un cambiamento “felice” finché
siamo dominati dalle idee parassite: “forme”
psicologiche che ci bloccano. La ricerca
antropologica ci ha insegnato che le idee
parassite sono presenti in tutte le culture e
portano come immediata conseguenza l’infelicità nel momento in cui ci si trova di fronte a un cambiamento obbligato, vissuto
come forzatura. Perciò quando lavoro sul
cambiamento cerco anzitutto di far sì che le
persone diano voce a ciò che dentro di sé le
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costringe a pensare alla situazione nuova in
modo critico, depressivo, frustrante. E, contemporaneamente, a definire il piacere presunto insito nel non-cambiamento. Se a tutto
ciò si dà un nome, è più facile trovare atteggiamenti congeniali per affrontare il mutamento. Emergono le “idee parassite”. E non
è necessario un lavoro psicoanalitico di anni:
spesso bastano poche ore di formazione.
Oltre al confronto con le idee parassite, per
poter attuare gli altri cambiamenti, quelli non
drammatici, non forzati, la miglior fonte d’ispirazione è l’ascolto. “Ascolto” è un termine
abusato quasi quanto “cambiamento”: abusato nella quotidianità, nel linguaggio dei formatori e nel messaggio cattolico. Ma l’ascolto è una disciplina, come quelle sportive o lo
yoga, che permette di cogliere aspetti imprevisti e inattesi della realtà. Spesso, ascoltando, si entra nel mondo delle emozioni. Ciò è
rilevante in quanto, se la testa permette di elaborare una strategia, le nostre emozioni hanno tempi e logiche completamente diversi da
quelli “cerebrali”. E quindi anche una volta
individuate le idee parassite non è detto che il
cambiamento sia facile: le emozioni hanno
forza, stabilità, bellezza e inerzia con cui dobbiamo fare i conti. In questa prospettiva, l’introduzione del piacere nell’esperienza di
cambiamento diviene la motivazione propulsiva dei cambiamenti successivi. L’ascolto
permette di individuare quali sono le aree in
cui è possibile che il piacere compensi la noia,
la routine. Come in un poliziesco: si cercano
indizi di gioia per stanare le rigidità fissate
alla lastra del quotidiano. Ciò è tanto più vero
e dimostrato dall’esperienza coi malati:
com’è possibile introdurre elementi ludici in
uno stato drammatico come la malattia? Eppure solo la scoperta di un eventuale elemento di piacere, che è poi arricchimento, gioia,
scoperta, consente di fare il salto necessario
per vivere meglio. E anche nei casi di malattia
che ho seguito ho visto avvenire il cambiamento solo dopo l’individuazione (spesso
favorita da un lavoro di scrittura) delle idee
parassite. La scoperta dà il senso quasi di un
potenziamento dei propri sensi (come potevo
non vedere? come potevo non sentire?).
IMPRIMERE UN RITMO
Per indurre un clima favorevole al cambiamento in un’azienda è anche importante
capire che l’idea del “bisogna cambiare a
tutti i costi” non paga, mentre spesso ciò che
agevola il cambiamento è la partenza da
aspetti reputati marginali. Come formatore
mi sono occupato spesso di “public speaking”: apparentemente un tema prettamente
tecnico. Ma se si va oltre gli aspetti retorici
e di relazione con l’uditorio e si lavora sulla
voce intesa come partitura musicale, si può
vedere come la possibilità di intervenire sulla propria vocalità sia un’occasione straordinaria per cambiare e trarre grande soddisfazione dal parlare in pubblico. Il lavoro
sulla respirazione, sulla musicalità, sulle
pause e sul ritmo è un’esperienza che permette di riconoscere che sono soltanto
“intoppi” personali a impedire il piacere di
comunicare. È un successo che agisce da
volano di quell’energia che è necessaria per
evolversi ulteriormente. Infine, riguardo
all’introduzione e all’agevolazione del
cambiamento nelle organizzazioni è utile
fare riferimento ai cosiddetti sistemi complessi, quali ad esempio lo sciame e il formicaio in biologia o il cervello in neurologia. Ammassi di elementi semplici che producono risultati straordinari. Dove ciò che
caratterizza gli elementi semplici è la grande capacità di adattarsi,
di cambiare. Immaginiamo tanti orologi a
pendolo appesi a una
parete, e che il nostro
compito sia quello di
sincronizzarli tutti. Se
partiamo da uno e procediamo singolarmente,
non arriveremo mai allo
scopo: appena avremo
sincronizzato l’ultimo
dovremo tornare a regolare il primo che nel
frattempo sarà andato
fuori sincrono, e così
via. Se abbandoniamo il
pensiero logico, se
usciamo dal “quadrato”
delle idee, scopriamo
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che è sufficiente imprimere pressione
costante al muro (un ritmo) per ottenere che
tutti gli orologi, in pochi minuti, si sincronizzino fra loro grazie alle vibrazioni della
parete. Allo stesso modo sarebbe spesso
possibile ottenere risultati in azienda imprimendo un ritmo, invece di affannarsi a regolare con procedure i singoli pendoli. Il ritmo
è fatto di idee probiotiche (vicine, ma contrarie, ai parassiti). Valori, sogni, visione,
missione... È un salto culturale richiesto al
leader, e sarà tanto più facile metterlo in atto
quanto più il responsabile potrà confidare
sulla condivisione di valori all’interno dalla
sua organizzazione. Molte ricerche hanno
dimostrato che più un’azienda ha valori
condivisi (non solo una “carta dei valori”,
da etichetta), meno ha bisogno di regole,
procedure, routine. Se è irrealistico pensare
a un’organizzazione totalmente priva di
regole e procedure, è però importante capire
che si può sperimentare: si possono creare
almeno alcune aree auto-organizzate in cui
ottenere livelli di efficacia e di creatività
altrimenti non raggiungibili in azienda. Prima, tuttavia, bisogna avere il coraggio di
lasciare le idee che crediamo sicure e invece
ci rendono infermi. Con Rilke: «noi, che
pensiamo alla felicità come cosa che sale,
avremo l’emozione, quasi sgomenta, di una
cosa felice cadendo».
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Il design dura nel tempo,
è l’azienda che cambia
«Tutti sanno che una cosa
è impossibile da realizzare fino
a quando arriva uno sprovveduto
che non lo sa e la inventa»
Albert Einstein
Ernesto Gismondi, Presidente di Artemide
Il cambiamento, leitmotiv dell’imprenditoria sana, prende forme e strategie diverse a
seconda del settore di appartenenza dell’azienda e della sua storia. In questa intervista, affrontiamo l’argomento con Ernesto
Gismondi, fondatore, presidente, amministratore delegato, anima di Artemide, marchio leader nell’illuminazione di alta qualità e design.
«Io pensavo di fare gli aeroplani e poi i
missili, ma per farli bisognava avere tanti
soldi, quindi ho chiuso con la partita missili. Mi sono divertito ad aprire Artemide
mentre insegnavo al Politecnico», racconta oggi Gismondi, che ama scherzare:
«sono anch’io uno di quegli italiani che se
non ha due o tre lavori non passa bene la
giornata!».
Artemide è un portabandiera del made in
Italy nel mondo. La società è stata fondata
nel 1960 da Ernesto Gismondi e Sergio
Mazza, con l’obiettivo di disegnare apparecchi di illuminazione capaci di conseguire un perfetto equilibrio tra design, innovazione, funzionalità ed efficienza. Una
volontà che negli anni è divenuta il centro
della mission dell’azienda. Grazie anche
alla collaborazione con i più importanti
artisti e designer italiani, tra i quali ci sono
Giò Ponti, Vico Magistretti e Gae Aulenti.
In questi anni nascono lampade di culto
come Eclisse di Vico Magistretti, che vince
nel 1967 il primo Compasso d’oro, e Nesso
di Giancarlo Mattioli. Successivamente,
verranno attivate collaborazioni anche con
Richard Sapper, Mario Botta, Santiago
Calatrava. La lampada Tizio, progettata da
Richard Sapper nel 1972, è ancora adesso
un prodotto considerato internazionalmente un’icona del design contemporaneo.
Come altri prodotti leggendari dal nome di
Tolomeo, Logico, Castore, Pipe (premio
Compasso D’Oro 2004). Oltre a progetti
sull’illuminazione in ambito contract di
grande prestigio, come la Torre Pirelli alla
Bicocca di Milano in collaborazione con lo
studio Gregotti, il Palais del Luxembourg a
Parigi e la Torre Scenica del Teatro alla
Scala di Milano.
Artemide è un’azienda di successo nel
mondo, vincitrice di prestigiosi premi quali l’European Design Price nel 1995 e il
Compasso D’Oro alla carriera nel 1997.
Nel 2008, nonostante la congiuntura eco-
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Per avere successo, un protagonista del design deve adeguare ai tempi
che cambiano la sua organizzazione, la strategia e l'approccio al mercato.
Ma il valore del design sta invece nella sua capacità di resistere
al tempo che scorre. Come le piramidi, le uova di Fabergé,
il cubo di Rubik e le lampade Artemide. Emblema di un gusto
che resiste allo scorrere degli anni
nomica negativa, ha fatturato 127 milioni
di euro, il 9,1% in più dell’anno precedente. I dati sul 2009 non sono ancora stati resi
noti, ma la previsione è comunque di una
ulteriore crescita. La società vende i prodotti in 83 Paesi del mondo (l’Italia è il
mercato principale, seguito da Germania,
Stati Uniti e Francia), ha circa 750 dipendenti diretti (59 dei quali a tempo pieno in
attività di ricerca e sviluppo). Opera attraverso 24 società controllate e partecipate, e
utilizza una rete di 51 negozi monomarca:
nel 2009 sono stati inaugurati i nuovi
showroom di Zurigo a maggio, e quelli di
Vienna e Francoforte a ottobre.
tempo. In particolare, abbiamo affiancato
alla Tizio tradizionale una nuova versione
“led” a basso impatto ambientale e risparmio energetico».
D. Pensa di avviare un percorso di
diversificazione per la sua azienda nel
prossimo futuro?
R. «Se per diversificazione si intende la
proposta di prodotti diversi dal nostro core
business storico dell’illuminazione, non
credo proprio. Anzi, da questo punto di
D. Che cosa significa fare design per
Artemide?
R. «Le rispondo spiegando che cosa non è
design. Ad esempio, i mobili di Joseph
Hoffmann e i tessuti di William Morris sono considerati due tra i primi esempi di
design nella storia. Non sono d’accordo
con questa affermazione: il gusto per lo stile dei manufatti di Hoffmann e Morris è
sostanzialmente finito con loro. Il design
ha un valore immutato nel tempo, pertanto
non dovrebbe essere confuso con la moda e
le tendenze».
D. È quindi qualcosa che dura nel tempo?
R. «Certo, pensi solo alla nostra lampada
“Tizio”, un progetto di Richard Sapper che
da quasi 40 anni rimane immutata nelle sue
forme ed è venduta in tutto il mondo. I
motivi del successo della Tizio sono da
imputarsi non solo al design, ma anche alla
tecnologia. È su questo versante che introduciamo il cambiamento in ciò che dura nel
Tolomeo tavolo, design Michele De Lucchi & Giancarlo Fassina
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22
Innovazione
è quindi la parola d’ordine
con cui Artemide prosegue
la propria missione di leader
vista oggi Artemide è meno diversificata
di un tempo. Penso alla nostra esperienza
nel mercato dei mobili in plastica, che
abbiamo abbandonato quando il nostro
concorrente di riferimento, Kartell, si è
definitivamente imposto come leader di
settore. Alla diversificazione preferiamo la
differenziazione, intesa come allargamento della produzione nell’ambito in cui
abbiamo maggiori competenze, ovvero
l’illuminotecnica. Ad esempio, recentemente abbiamo iniziato a produrre lampade da esterno, che stanno incontrando il
gradimento del mercato».
D. E l’innovazione, che cosa significa
per voi?
R. «Artemide è un brand globale e robusto: il momento difficile che l’economia
sta passando si rivela per noi una fonte di
Cosmic Leaf sospensione, design R. Lovegrove
grandi opportunità. Il nostro obiettivo oggi
è quello di pensare e costruire prodotti
ancora più forti e innovativi, perché quando il mercato è difficile si vince solo con
l’innovazione. Innovazione è quindi la
parola d’ordine con cui Artemide prosegue
la propria missione di leader a livello internazionale nel mondo della luce, e la ricerca è l’energia propulsiva che consente
all’azienda di essere credibile e propositiva. Investiamo in ricerca circa l’8% del
fatturato e questo garantisce ad Artemide
di mantenersi saldamente ai vertici di un
settore in cui da sempre le sue lampade
costituiscono nuovi standard e nuovi livelli di prestazione. L’innovazione nasce in
azienda da uno solo, se c’è un leader, altrimenti da uno staff di menti pensanti, che
studiano che cosa si deve e che cosa si può
fare in funzione di che cosa sa fare l’azienda. Il reparto che si chiama ricerca e sviluppo studia che cosa si può fare nel lungo
periodo: ha il compito di “sognare” un po’,
inventare delle cose, avendo contatti con
istituti di ricerca esterni, firmando contratti con dipartimenti universitari. Si pensa
più in grande rispetto al voler far funzionare meglio qualcosa che si ha già. Il gruppo
ha il vantaggio di essere formato da “suonati” che devono pensare cose diverse, ma
anche lo svantaggio di essere formato da
“suonati” che pensano cose tanto diverse
che poi è difficile tradurre in pratica. Su
questi progetti a lungo termine dobbiamo
innestare la macchina del “che fare nel
medio termine”, che vuol dire creare una
politica dell’azienda e decidere cosa fare
per continuare ad avere successo. E successo vuol dire, a mio avviso, da una parte
avere i denari per tutti, dall’altra la soddisfazione di fare qualche cosa di importante, qualcosa con cui segnare la vita dell’uomo in quel momento, lasciare un
segno piccolo o grande che sia».
D. Come fare?
R. «Bisogna guardarsi intorno nel mondo
e capire che cosa c’è, chi sono i concorrenti, come si muove la società, quali sono
le nuove tendenze. Questo è ciò che si fa
nel medio termine, in due tre-anni il pro-
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gramma stabilito deve essere realizzato.
Anche se in realtà il programma non è mai
uno solo, ma ci si muove lungo strade
diverse per riuscire a fare prodotti che siano interessanti».
D. Il vostro design è orientato da una
filosofia che avete definito “The human
light”. Può spiegarci di cosa si tratta?
R. «Gli oggetti prodotti da Artemide non
sono solo design e performance tecniche.
Sono soprattutto oggetti che nascono dall’esperienza degli uomini per i bisogni
degli uomini in termini di luce, uno degli
elementi base della vita. La nostra ambizione non è semplicemente quella di illuminare lo spazio, bensì le diverse attività e
i bisogni dell’uomo nei vari spazi e
momenti della sua vita, assecondandone
gli stati d’animo e contribuendo al suo
benessere».
D. Recentemente avete iniziato un percorso di quotazione, con la previsione di
sbarcare a Piazza Affari non appena
l’andamento dei mercati finanziari lo
renderà possibile e conveniente. Perché
avete scelto questa forma di finanziamento dello sviluppo piuttosto di altre?
R. «L’alternativa alla quotazione sono i
fondi, uno strumento finanziario che non
mi convince. Il fondo è una macchina a
tempo, ci sono delle regole ferree che ne
regolano l’ingresso e l’uscita dal capitale
in pochi anni nel corso dei quali l’investimento deve apprezzarsi. Dato che non mi
piace avere questi vincoli ho preferito
optare per la quotazione in Borsa, tale per
cui il capitale conferito rimane nel patrimonio aziendale ed è il mercato a decidere se premiare o meno la società. Inoltre
trovo giusto che con la quotazione aumentino gli adempimenti riguardo alla governance e agli organi di controllo societario,
a salvaguardia di tutti gli azionisti».
D. Che cosa si sentirebbe di raccomandare agli imprenditori italiani che iniziano oggi?
R. «Non mi piace fare prediche o dare
consigli non richiesti. Se qualcuno me lo
Pirelli Bicocca & Real Estate, Milano.
Architectural project: Studio Gregotti Associati International
chiedesse, gli suggerirei di essere realista e di scegliere ciò che ama, lavorare
con tutto l’impegno di cui è capace, trovando soddisfazione soprattutto nel
lavoro svolto bene. Se l’approccio è questo, i riconoscimenti, poi, molto probabilmente arrivano. Ma non bisogna farsi
mai illusioni».
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Diario di un innovatore
seriale:Pasquale Pistorio
Pasquale Pistorio
Presidente onorario di STMicroelectronics
«A volte il vincitore
è semplicemente un sognatore
che non ha mai mollato»
Jim Morrison
Pasquale Pistorio è la dimostrazione vivente
che il cambiamento può sempre funzionare,
che negli affari vince chi è tenace e al tempo
stesso trasmette alla sua squadra un senso di
urgenza per il cambiamento, che qualunque
situazione di crisi può produrre opportunità
inaspettate e preziose. Passare del tempo con
lui è toccare con mano che cosa significa un
approccio entuasiasta e curioso alla vita intera, e come si manifesta la passione imprenditoriale. Passione che Pistorio conserva ancora adesso quando, dopo aver lasciato la guida della sua creatura STMicroelectronics
(della quale resta presidente onorario) si
dedica al sociale (Pistorio Foundation) e siede nei board di Fiat, Atos Origin, Brembo e
Sagem Wirless (di cui è presidente).
D. Ingegner Pistorio, quali sono stati i
cambiamenti più significativi nella sua
carriera professionale?
R. «Il cambiamento, ma soprattutto la sfida
più importante è senz’altro il risanamento
della SGS. Sono stato invitato a prenderne la
guida nel 1980, quando era di proprietà dell’IRI, e ho lasciato la Motorola dove dirigevo le attività internazionali per i semiconduttori. La SGS era praticamente fallita dieci anni prima, e sopravviveva solo grazie al
cosiddetto “risanamento perdite”: un’assegno a pie’ di lista firmato puntualmente dall’azionista statale. L’azienda ripartiva ogni
anno da zero, non investiva e continuava a
perdere dal 20 al 50% del fatturato. Era al
ventiquattresimo posto nella classifica mondiale dei produttori di semiconduttori.
Voglio ricordare che l’azienda aveva ottimi
talenti e alcune tecnologie molto valide. Era
carente nei comparti industriali e commer-
ciali come tutte le altre società europee del
settore in quel periodo. Il cambiamento consisteva soprattutto nel vincere la resistenza
sia all’interno sia dell’azionista, in un periodo di grande peso del sindacato, prima della
marcia dei 40.000 della Fiat. Si trattò anzitutto di un cambiamento culturale imponente. Nel primo mese dovetti dismettere un
quarto dei dirigenti. A partire da quello che
mi disse “se lo stato vuole permettersi il lusso di un’azienda strategica, deve sapere che
è normale che un’azienda strategica perda
soldi”. Così come il direttore marketing che
era convinto che la qualità dei prodotti fosse
molto bassa, e rassegnato all’idea!».
D. Come l’ha affrontato?
R. «Ho sempre creduto che il leader, di
qualsiasi organizzazione, debba avere cinque ruoli fondamentali. Il primo è quello di
avere una visione o, come io preferisco chiamarla, un sogno. Il secondo è costruire la
squadra. Il terzo è installare la cultura. Il
quarto è definire la road map. Il quinto è forzare l’esecuzione. Così, alla prima riunione
dissi ai miei colleghi che i nostri obiettivi
erano tre: diventare profittevoli, sfondare in
America e diventare membri del “Billion
Dollar Club”. Darsi il profitto come obiettivo sembra una banalità, ma in quell’azienda
erano abituati non solo a perdere, ma a considerare l’essere in perdita congeniale alla
natura dell’azienda, corroborati anche dal
fatto che tutta l’industria europea dei semiconduttori era allora in perdita».
D. Le reazioni all’interno?
R. «Tre, e tutte leggibili da subito. Quelli che
sembravano ascoltare ciò che avevano sem-
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Intervista al padre di una multinazionale italiana
attiva nell’hi-tech con grande successo nel mondo.
Che racconta il suo metodo per introdurre il cambiamento
in azienda e farlo diventare una leva potentissima
pre sognato – gli “eroi immediati”. Quelli che
mi credevano pazzo ma erano comunque
desiderosi di seguirmi – gli “eroi potenziali”.
Quelli che pensavano “gli passerà… aspetto
che gli passi…”, quei venti su ottanta che ho
allontanato. Ma una volta stabilita la cultura
non si deve tollerare la presenza nella squadra di chi non la condivide: l’azienda non è
un’istituzione democratica. È un’istituzione
dove, purtroppo o per fortuna, il consenso è
benvenuto ma il Ceo ha il dovere e il diritto di
decidere. Nel mese successivo attaccai la
fascia più bassa licenziando gli assenteisti.
Allora nel gruppo IRI il tasso medio di assenteismo era del 22%. Chiesi di individuare i
dipendenti con più del 50% di assenze per tre
anni consecutivi: ce n’erano diciassette che
rispondevano a questo criterio! Licenziati
questi, con sollevazioni sindacali e caldi inviti dalla presidenza dell’IRI a riassumerli…,
nel giro di due-tre mesi l’assenteismo scese
al 5%. Il cambiamento della cultura passa
necessariamente attraverso l’introduzione di
concetti fondamentali quali il merito, l’ownership, la responsabilità per gli impegni
assunti. Naturalmente non potevo spingere
solo il cambiamento culturale. Abbiamo
chiuso impianti all’estero e ridotto pesantemente l’organico in Italia: da 5.300 persone a
3.900. Ma mentre razionalizzavo e riducevo
overhead di tutti i tipi, aumentavo enormemente gli investimenti in ricerca. Siamo arrivati al 22% del fatturato: una quota allora mai
raggiunta da nessuno e che anche oggi appare eccessiva, perché la norma nell’industria
dei semiconduttori sta tra il 10 e il 15%.
Doveva cambiare anche l’allocazione degli
investimenti in ricerca, in modo congruo alla
razionalizzazione del portafoglio prodotti
che avevamo avviato. E alla fine del 1980
attaccammo gli Stati Uniti».
D. Quando avete visto gli effetti di un
cambiamento così radicale?
R. «Nel giugno dell’83 la SGS dava profitti
ed era la prima azienda europea di semiconduttori ad andare in attivo. Siemens, Philips
e Thompson che fino ad allora studiavano
come dismettere le attività, capirono che
l’industria europea poteva svoltare».
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26
Il modo
vincente di affrontare
una crisi è sempre
un cambiamento drastico
dell’offerta
D. Cosa succede al superamento della discontinuità? Come si procede da lì?
R. «Nel nostro caso, con un altro cambiamento di grande portata: la fusione con
Thompson nel 1987. E di nuovo una grande
sfida: partivamo mettendo assieme le perdite dei francesi e i nostri debiti! La Bocconi ci
fece oggetto di un case study e previde che
saremmo falliti entro due anni. Ma questa è
la storia dell’albatros che amo spesso raccontare: è provato scientificamente che l’albatros non può volare, ma lui non lo sa e
quindi continua a farlo. Così, ignari della
nostra morte annunciata, siamo entrati nell’élite dei primi cinque produttori mondiali… Anche in questo caso all’inizio c’erano
azionisti molto perplessi, anche in questo
caso la velocità è stata cruciale per il successo. A quattro mesi dalla fusione la società
era una: le matrici italiana e francese erano
indistinguibili. La ricetta la stessa: la visione, la squadra, la cultura, la road map, l’esecuzione. E per me, in quanto Ceo, il dovere
fondamentale di conoscere a fondo l’azienda: nelle prime sei settimane dozzine e dozzine di colloqui con tutti i manager dei primi
Responsibility. Da questo punto di vista è
sempre stato stimolante il confronto con mio
figlio che per età condivideva valori generazionali nuovi rispetto ai miei. E sempre a proposito della dialettica manager-imprenditore,
direi che i cinque ruoli del leader sono la bussola. La visione e la cultura sono più pertinenti all’imprenditore che al manager; la
costruzione del team è comune; road map ed
esecuzione sono più pertinenti al manager. Il
leader di successo, quindi, sa essere imprenditore e manager al tempo stesso. Può possedere in misura diversa la capacità di assolvere i cinque compiti, ma non può esserne privo
se vuol fare grande la sua azienda. Lo stesso
vale per tutti i componenti della squadra che
a loro volta ne guidano altre. Credo nel
deployment degli obiettivi per ciascuna unità
che compone l’organizzazione e nell’autonomia per il raggiungimento degli stessi. Credo
nella delega e nell’empowerment dei manager, purché visione e cultura siano sempre
assolutamente uguali per tutte queste unità».
D. Può essere utile istituire una struttura
dedicata al cambiamento?
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inventare nuovi prodotti a maggior valore
aggiunto che consentano prezzi più elevati.
L’innovazione è di due tipi: “disruptive” e
graduale, continua: quella che ha origine dal
cercare di fare ogni giorno un po’ meglio.
Ma l’innovazione disruptive va comunque
perseguita. È una direttrice vitale».
D. Lei si è occupato molto d’innovazione
anche in Confindustria…
R. «È stata un’esperienza entusiasmante di
servizio al Paese sui temi che mi stanno più a
cuore: ricerca e innovazione. Abbiamo avuto
l’approvazione in toto del Governo alla piattaforma per la ricerca privata, che avevamo
formulato a seguito di un benchmark internazionale. Purtroppo in seguito l’impulso istituzionale è andato affievolendosi. Credo che
i quattro pilastri sui quali si fondava andrebbero ripresi in seria considerazione perché
l’Italia possa essere dotata di strumenti competitivi. Si trattava del credito d’imposta
automatico del 10% sulla ricerca interna; credito d’imposta del 40% sulle commesse di
ricerca ai centri pubblici e universitari; agevolazioni fiscali agli start-up innovativi; allo-
enormi a quella privata. E c’è l’orientamento
esplicito delle istituzioni alla cosiddetta
“inclusione” sociale (di etnie, culture, religioni diverse) che è garanzia di pace sociale.
Questi, assieme alla sicurezza e alla certezza
del diritto, sono gli elementi che rendono un
paese attrattivo per gli investimenti. Non a
caso Singapore rappresenta oggi il punto
d’ingresso ideale per le piccole e medie
imprese che vogliano affrontare l’Asia. Per
questo considero Singapore come area pivotale del fondo di investimento bilaterale (Italia-Singapore) finalizzato all’accompagnamento di PMI italiane nello sviluppo sui mercati asiatici e per il quale sarà avviato il fund
raising nei prossimi mesi».
D. Il suo pensiero sulla crisi economica
che stiamo attraversando?
R. «La mia convinzione è che ogni crisi possa offrire grandi opportunità, e questa non fa
eccezione. Un’azienda sana e competitiva,
con un management visionario e aggressivo,
può cogliere queste grandi opportunità. Vale
quello che raccomandavo ai miei colleghi nei
momenti difficili per i semiconduttori:
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Anche
i fattori critici di successo
subiscono dei mutamenti
12
Il passo più avanti
di Mapei
Giorgio Squinzi,
Presidente del Gruppo Mapei
«La logica vi porterà da A a B.
L'immaginazione
vi porterà dappertutto»
Albert Einstein
«Nel 1937 mio padre Rodolfo aveva tre
collaboratori nella sua sede alle porte di
Milano. Oggi siamo un gruppo di 6.100
persone che lavorano in più di sessanta
consociate nel mondo. C’è un’unica cosa
che non cambia mai ed è la nostra filosofia: essere sempre un passo avanti. L’obiettivo di mio padre, condiviso da me e
dai miei familiari oggi, è sempre lo stesso:
dare risposte innovative alle esigenze del
mercato dell’edilizia. Quindi essere
costantemente attenti, saper interpretare
queste esigenze sul nascere e fare ricerca
sempre». Parola di Giorgio Squinzi, presidente di Mapei, multinazionale italiana
leader mondiale nel settore degli adesivi
per l’edilizia.
Mapei, acronimo di materiali ausiliari per
l’edilizia e l’industria, è la maggior azienda chimica italiana, con 1,7 miliardi di
euro di fatturato atteso per l’esercizio
2009. In ogni anno della sua storia è sempre cresciuta, riuscendo a produrre risultati migliori anche nel biennio 20082009, afflitto dalla crisi economica mondiale. La sua crescita si deve sia alle
acquisizioni sia allo sviluppo interno di
nuovi prodotti. In entrambi i casi il driver
è l’innovazione. Mapei compra o fa ricerca sempre con lo scopo di offrire prodotti
nuovi al mercato che cambia. Tra le
acquisizioni, l’ ultima in ordine cronologico è l’americana Apac (All purpose
adhesive company), comprata nel maggio
2009, che ha portato a 18 il numero dei
siti produttivi Mapei nelle Americhe (11
negli Usa, 4 in Canada, uno in Argentina,
uno in Venezuela e uno a Portorico). La
crescita interna è resa possibile dall’atti-
vità di ben dieci centri ricerca, che impiegano il 12% dei dipendenti. «In famiglia e
in azienda il cambiamento lo consideriamo una necessità costante: non si può
rimanere ancorati alla tradizione. L’importante è che ogni azione sia coerente
alla strategia dell’azienda. Nel nostro
caso, la strategia si fonda da sempre su tre
pilastri: specializzazione, internazionalizzazione, innovazione. Siamo attivi in
diversi business nella chimica per l’edilizia e nel nostro gruppo il cambiamento è
basato essenzialmente sull’innovazione.
È l’impegno continuo ad anticipare il
cambiamento che ci permette di crescere:
significa allargare e ridefinire il portafoglio prodotti, ed essere in grado di reagire
per tempo ai cambiamenti imposti dal
mercato. Ad esempio: i prodotti per la
posa delle piastrelle ceramiche rappresentavano circa il 40% del nostro fatturato mondiale. Ma la ceramica sta perdendo
popolarità come prodotto per pavimenti e
rivestimenti, e quest’anno stiamo assistendo a un calo del 15% nel nostro core
business! Se negli ultimi anni non avessimo individuato altre nicchie di prodotto
non saremmo certo stati in grado di assorbire un cambiamento di questa entità.
L’individuazione dei nuovi prodotti, lo
sviluppo di alcuni e una serie di acquisizioni per altri, ci permettono invece di
chiudere un anno difficile come il 2009
con un fatturato consolidato in crescita
rispetto a quello dell’anno precedente».
D. Ci sono dei talenti personali particolari che l’hanno favorita maggiormente rispetto alla capacità di stimolare e
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La strategia della maggior multinazionale chimica italiana
si fonda su tre pilastri: specializzazione, internazionalizzazione,
innovazione. Così, nel giro di una generazione
si è trasformata da pmi lombarda a multinazionale
leader mondiale nel suo settore
agevolare il cambiamento nella sua
azienda?
R. «Nel nostro caso c’è una passione per
la chimica che sembra trasmettersi nel
DNA familiare. Prima di assumere la guida del gruppo alla morte di mio padre, ho
guidato per tanti anni la ricerca. Oggi il
responsabile della ricerca mondiale è mio
figlio Marco, laureato in chimica industriale come me. Ci guidano passione e
competenze tecniche, ma anche un atteggiamento generale: spesso ripeto che siamo una famiglia con l’ossessione della
crescita. Siamo i primi a metterci in gioco,
e con noi tutta la nostra struttura».
D. Come definite ruoli e responsabilità
nel cambiamento tra proprietà e management in Mapei?
R. «Il cambiamento è possibile se ci si
crede tutti assieme: credo che la chiave
del nostro successo sia un management
compatto e tutto focalizzato sul tema della crescita. Oltre a me, in prima linea ci
sono quattro membri della famiglia. Mio
figlio Marco guida la ricerca, mia figlia
Veronica la pianificazione strategica e le
acquisizioni, mia moglie il marketing
operativo e mio genero le attività minerarie del gruppo. Ma siamo cinque su una
prima linea di circa centocinquanta persone! Abbiamo scelto di essere italiani in
Italia e di avere manager locali alla guida
di ogni nostra attività all’estero. Non
abbiamo italiani espatriati su base permanente, ma un gruppo di una cinquantina di
persone sempre in movimento per “passare” la filosofia dell’azienda nel mondo e
controllare che venga applicata. Sono
quelli che amo chiamare i nostri “piccioni
viaggiatori”: risorse umane di valore nei
settori della produzione, della ricerca,
dell’assistenza tecnica, del marketing,
dell’IT. E in ogni sede del gruppo c’è un
sistema di videoconferenza per essere
sempre in contatto. Se ci sono valori condivisi è più facile anche reagire. Nel primo trimestre di quest’anno abbiamo
affrontato una situazione di mercato dav-
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vero disastrosa: in gennaio eravamo in
calo del 32%! C’erano tutti i presupposti
per tagliare e lasciare a casa persone, ma
non l’abbiamo fatto perché crediamo di
avere un capitale umano di grande valore
e abbiamo sempre investito molto nella
selezione e nella formazione».
È l’impegno
continuo ad anticipare
il cambiamento
che ci permette di crescere
D. Com’è organizzata nel Gruppo
Mapei la struttura dedicata al cambiamento?
R. «L’innovazione è per Mapei una politica globale. Investiamo in ricerca e sviluppo il 5% del nostro fatturato e il 12% del
nostro personale è impegnato in queste
attività nei nostri laboratori nel mondo:
circa 280 persone in Italia e più di 500
all’estero. Oltre che in Italia, facciamo
ricerca organizzata in Francia, Germania,
Norvegia, Canada e Stati Uniti. Stiamo
avviando strutture dedicate anche in area
Asia-Pacifico. In ogni caso ognuno dei
nostri 56 stabilimenti nel mondo è dotato
di un laboratorio di controllo qualità».
D. Quali sono i filoni di ricerca più
importanti?
Uno dei centri ricerca Mapei
R. «Circa due terzi dei nostri investimenti in ricerca e sviluppo sono destinati a
prodotti e sistemi più compatibili con
l’uomo e con l’ambiente. I temi principali sono il “Green Building” e il sistema di
certificazione LEED (Leadership in
Energy and Environmental Design) per la
sostenibilità energetica e ambientale nell’edilizia. Oggi offriamo più di 110 prodotti con la certificazione LEED e ne siamo davvero fieri. Negli ultimi anni, l’impegno maggiore per noi è stata l’eliminazione o la riduzione di solventi e sostanze
volatili nei nostri prodotti. Non è stato
facile, ma abbiamo ottenuto risultati molto gratificanti. Altro tema guida di rilievo
per la ricerca è il risparmio energetico:
nei nostri processi produttivi, ma soprattutto nei processi che implicano l’impiego dei nostri prodotti. Ad esempio l’isolamento per edifici cosiddetto “a cappotto”: abbiamo sviluppato tecnologie che
consentono di controllare termicamente
gli ambienti con un consumo di gasolio
pari a un quinto o meno di quanto era
necessario prima. E c’è ancora molto spazio di miglioramento!».
D. Cosa vi differenzia dai concorrenti?
Quali vantaggi competitivi ottenete
proprio dal cambiamento e dall’innovazione?
R. «Premetto che tutta la chimica si è
impegnata molto in Italia negli ultimi vent’anni, e in tema di risparmio energetico
oggi siamo largamente in anticipo sui
parametri del Protocollo di Kyoto. Il tempo è un fattore di successo essenziale. Ad
esempio: Mapei è stata la prima a introdurre le colle per moquette senza solventi
nel nord America nel ’90-91, allora eravamo al decimo posto tra i competitor e oggi
siamo al primo. Ciò che conta è la capacità di intuire che è possibile cambiare se
non addirittura rivoluzionare i mercati.
Anche attraverso contributi “indiretti”: è
quello che abbiamo fatto sviluppando
additivi per calcestruzzo che permettono
di ridurre l’acqua d’impasto per il cemento e l’emissione di CO2 nel processo. I
chimici nei laboratori sono il nostro
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“braccio armato”, ma l’input arriva sempre dal mercato. I nostri venditori, le
nostre strutture di assistenza tecnica e
quelle di promozione raccolgono ogni
richiesta che proviene dal mercato. Il
sistema di gestione della qualità filtra ed
elabora questi input per passarli ai laboratori di ricerca».
D. La crisi che stiamo attraversando ha
cambiato qualcosa nel suo modo di
essere imprenditore?
R. «Cambiato no, accelerato senz’altro.
Ci ha confermato che il nostro modo di
agire è quello giusto: il cambiamento va
sempre anticipato».
D. Nonostante questo atteggiamento di
fondo, ci sono nella storia della Mapei
cambiamenti inaspettati o in parte
spinti da fatti contingenti?
R. «Naturalmente sì. Nel ’76 un nostro
cliente italiano, Mondo, ha ottenuto l’appalto per le piste delle Olimpiadi di Montreal e noi gli abbiamo fornito tutti gli
adesivi necessari. Sono andato là per
l’occasione e mi sono reso conto che in
Quebec il mercato dell’edilizia era quasi
tutto affidato a maestranze italiane. È stata l’occasione che ci ha spinto a realizzare il nostro primo stabilimento all’estero
nel 1978. Una strada che abbiamo poi
seguito costantemente: da allora abbiamo
costruito o acquisito altri 47 stabilimenti
all’estero! Un altro episodio significativo
è l’acquisizione di Vinavil da Eni nel
1994. Lì abbiamo visto una duplice
opportunità: di integrare la produzione di
alcune materie prime per noi molto
importanti e di sviluppare nuove tecnologie. Tra l’altro con Vinavil ci rivolgiamo
per una larga quota a un mercato per noi
non tradizionale: quello della produzione
alimentare. Perché è il polimero meno
tossico che esista: pochi sanno che il 6%
di ogni chewing gum è Vinavil! E a proposito di sviluppo di nuove tecnologie,
abbiamo già brevettato per il nostro maggiore cliente, Perfetti, una formulazione
che consente di rimuovere il chewing
gum dai tessuti».
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I numeri diI sem.Mapei
2005
1,7 miliardi di Euro di fatturato totale
Più di 1.300 prodotti (adesivi, sigillanti, prodotti chimici per edilizia)
Più di 18.000 tonnellate di prodotti spedite ogni giorno
Fonte: Mapei
Lo stabilimento di Robbiano di Mediglia
D. Cosa può dirci a proposito di cambiamento in quanto Presidente di
Federchimica?
R. «Come spesso succede, quelli che sembrano eventi disastrosi possono in realtà
stimolare e favorire salti in avanti. La chimica italiana, proprio in seguito alle
vicende dei colossi come Eni e Montedison, si è spostata dalla chimica di base e
dalla petrolchimica e siamo oggi all’avanguardia in Europa per la chimica fine, delle specialità e delle formulazioni. Un trend
che oggi seguono tutti i concorrenti europei, ma che noi italiani siamo stati i primi
a segnare».
Quelli
che sembrano eventi disastrosi
possono in realtà stimolare
e favorire salti in avanti
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Dalla tecnologia del freddo
all’energia solare
Gianluigi Angelantoni,
AD di Angelantoni Industrie SpA
«Non possiamo pretendere
che le cose cambino, se agiamo
sempre nella stessa maniera»
Albert Einstein
Da piccolo produttore umbro di sistemi per la
refrigerazione commerciale e industriale a
media azienda leader internazionale in applicazioni tecnologiche di frontiera, come i tubi
ricevitori per le centrali solari termodinamiche, i simulatori spaziali per satelliti, le
camere di test per l’industria auto e i congelatori a bassissima temperatura per il biotech. È
Angelantoni Industrie, un’azienda familiare
di Massa Martana (Perugia), che fattura 126
milioni di euro, ha unità produttive in Francia, Germania, Cina e India, e si è data una
missione ambiziosissima. Ha puntato infatti
su un settore talmente innovativo da non
avere ancora concorrenti sul mercato globale: il solare termodinamico basato sulla tecnologia a sali fusi inventata da Carlo Rubbia
e da ENEA. La sua Archimede Solar Energy
ha subito attirato l’attenzione dei tedeschi di
Siemens, che sono entrati nell’azionariato
con una partecipazione del 28%. Dal nuovo
stabilimento, che sarà operativo a fine 2010
usciranno oltre centomila tubi all’anno, pari a
oltre 200 MW elettrici. Abbiamo intervistato
Gianluigi Angelantoni, Ad del Gruppo Angelantoni, per capire attraverso quali processi di
governance e cambiamento un piccolo gruppo familiare è riuscito a coltivare progetti
così ambiziosi e a tradurli in realtà.
D. Quali sono stati i cambiamenti più significativi nella sua vita d’imprenditore?
R. «Lo spartiacque è il 1994 quando l’azienda aveva ancora qualche problema per
la crisi del 1992-1993 e, per una triste coincidenza, son venuti a mancare in pochi mesi
sia mio padre che mio fratello Oreste. All’epoca eravamo tre fratelli e ognuno guidava
un’azienda; tutte facevano capo a una so-
cietà finanziaria di famiglia. Il capitale era
diviso in parti uguali fra noi tre fratelli e due
sorelle. Allora io seguivo la simulazione
ambientale, Oreste il bio-medicale e Cesare, il maggiore, la refrigerazione industriale. Nonostante fossi il più giovane, il consiglio di amministrazione a fine ’94 decise di
affidare a me la guida del Gruppo».
D. Che cosa è successo?
R. «La prima decisione che ho preso è stata
di separare il consiglio d’amministrazione
dal consiglio di famiglia e di indirizzare la
società alla massima trasparenza. Così, già
dall’anno successivo avevamo i bilanci certificati. L’uscita di familiari “silenti” è stata
accompagnata dall’ingresso in Consiglio di
amministrazione di tre membri indipendenti
sui sette che lo componevano. Al tempo stesso ho voluto eliminare dall’azienda i piccoli
privilegi che si erano venuti a consolidare
negli anni e tutto ciò non è stato facile sul piano dei rapporti familiari. Ma quando, a partire dall’anno dopo, l’azienda ha cominciato a
produrre di nuovo utili e distribuire dividendi, i familiari hanno capito e apprezzato».
Valore della produzione
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In Umbria c’è una media azienda diventata
leader mondiale in applicazioni sulla frontiera tecnologica.
Grazie alla capacità di cambiare ed evolversi continuamente,
pur restando fedeli ai propri valori
D. E negli anni successivi?
R. «Da allora il momento in cui più sento
la necessità di cambiamento è questo che
stiamo vivendo: perché la discontinuità
dell’economia impone decisioni rapide e
continue come mai in passato».
D. Come reagisce?
R. «Mi avvalgo molto della collaborazione dei manager e di consulenti esterni ma
mi confronto spesso con i miei colleghi
imprenditori. Ascolto molto e cerco di stimolare tutti a produrre idee. Ciò mi consente di adottare correzioni di rotta continue».
D. Grande flessibilità, dunque…
R. «Assolutamente. Credo che i miei fratelli e io abbiamo ereditato da nostro padre
un DNA molto ricco quanto a innovazione
e ricerca, al quale ho la fortuna di aggiungere proprio la flessibilità che ai tempi di
mio padre non era così indispensabile.
Ascolto molto perché amo il confronto
con le persone di cui mi fido e non ho difficoltà ad adeguarmi a decisioni che spesso devono essere prese rapidamente anche
Margine operativo lordo
in campi che non rientrano tra le mie competenze. Sono convinto che la voglia di
conoscere e la capacità di ascoltare siano
presupposti indispensabili per la flessibilità. Ho incontrato spesso persone assolutamente competenti in ambiti specifici,
soprattutto tecnici, ma proprio per questo
incapaci di allargare la considerazione
oltre quell’orizzonte. Io ho fatto studi
scientifici ma non così specialistici: so di
non poter prendere da solo certe decisioni
che richiedono conoscenze scientifiche
più vaste. Ma questa è la mia fortuna: la
necessità di confronto mi salva dalla rigidità che contraddistingue molti imprenditori. La specializzazione è nemica della
flessibilità. In quanto imprenditore prendo
decisioni e mi assumo responsabilità, ma
questo mio fare un po’ da “gestore di
teste” è uno degli aspetti più belli e più
ricchi del mio mestiere. Certo, bisogna
avere fortuna nell’essere circondati da
persone valide. Soprattutto in aziende di
medie dimensioni come la nostra, dove i
processi di recrutiting non possono essere
più di tanto sofisticati».
D. Cosa chiede ai suoi manager oltre alle
competenze?
R. «Condivisione di valori. Penso che nella
nostra azienda si percepisca il valore che diamo alla creatività, all’inventiva e alla capacità di prendere decisioni. Credo che chi limita il raggio d’azione di un manager valido fa
un investimento sbagliato. Una volta chiare
le strategie di gruppo, le persone devono
potersi esprimere, devono metterci anche
fantasia. Perché i problemi nuovi non possono essere risolti coi metodi vecchi».
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Il valore
che diamo alla creatività,
all’inventiva e alla capacità
di prendere decisioni
Stabilimento AMEC Beijing China
D. Queste vostre aspettative sono esplicite e formalizzate?
R. «Le responsabilità e le deleghe sono
messe per iscritto in ogni lettera di assunzione, ma non sono sufficienti. La creatività
non può essere specificata in un mansionario! I top manager fanno parte dei cda di
Angelantoni Industrie o delle società controllate, e sono comunque invitati ai cda della capogruppo. Poi ci sono riunioni periodiche e molta comunicazione interna, anche
con il ricorso alla videoconferenza per essere vicini anche ai manager delle nostre
aziende in altre parti d’Italia e del mondo.
Devo riconoscere che nell’attrarre talenti
siamo molto agevolati dalla visibilità e dalla reputazione di cui godiamo nel nostro territorio pur così decentrato dai grandi poli
industriali. Naturalmente poi bisogna essere
capaci di tenerli con sé, questi talenti… È
importante creare in azienda un tessuto culturale vivo e interessante. Così come è
importante che il territorio sia attraente per
qualità della vita e dell’ambiente. Per questo cerchiamo sempre di interagire con la
comunità della nostra regione, come fanno
altre importanti aziende umbre. Ma soprat-
tutto chi viene da noi sa che troverà spazio e
molta enfasi sulla creatività che saprà mettere nella gestione del business. Da parte
mia cerco sempre di trasmettere un sogno, e
non solo all’interno. Per fare un esempio:
anche le banche devono sentire che in
azienda abbiamo un sogno, un progetto!».
D. I processi di cambiamento si possono
strutturare e codificare in modo sistematico?
R. «Per rispondere devo aprire una parentesi
e parlare di mio padre, il fondatore di questa
azienda. Mio padre è stato un grande innovatore. Negli anni cinquanta e sessanta ha depositato molti brevetti nel campo della refrigerazione. Per esempio, è stato il primo in Europa
a scendere sotto i cento gradi centigradi con
sistemi meccanici, e sono suoi i primi compressori a doppio stadio. Talvolta capitava
persino che questi brevetti non venissero
sfruttati adeguatamente, perché lui passava a
inventare qualcos’altro. Lo sforzo dei miei
fratelli e mio è stato di strutturare il suo modo
di procedere, per cercare sempre nuove e più
rilevanti applicazioni di tecnologie in cui siamo esperti. Quindi, non solo innovazione di
prodotto, ma anche di processo e di business.
E quanto più possibile innovazione radicale
anziché incrementale. La curiosità, che era il
motore di mio padre, è stata alla base della
continua ricerca che ci ha guidati dalla tecnologia del freddo alla simulazione ambientale
in camere ad alto vuoto, alla deposizione in
alto vuoto di materiali con tecnologia a film
sottile che trova applicazione nei tubi ricevitori solari a sali fusi. Al tempo stesso, dai primi sistemi di refrigerazione per i camion negli
anni cinquanta siamo arrivati a tutte le applicazioni tecnologiche del freddo nel bio-medicale come, ad esempio, banche degli organi
per i trapianti e storage di campioni biologici
per la ricerca clinica e farmaceutica. E abbiamo sperimentato anche formule di business
innovative: l’aggregazione, di cui oggi si parla spesso, noi l’abbiamo attuata già nel 2003
con un concorrente italiano, fondendoci
insieme con scambio di azioni».
D. Quanto gioca a favore o contro il cambiamento il carattere di azienda familiare?
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Tubi ricevitori Archimede Solar Energy
R. «Penso che l’impresa di famiglia debba
avere all’interno degli ottimi manager e
che tra i soci familiari ci debba essere un
leader, specie se la famiglia si è allargata
come la nostra con la terza generazione. E
se il leader può contare su un pacchetto
rilevante di azioni è certamente facilitato.
È fondamentale far capire alle generazioni
successive che i soci familiari non operativi possono tutelare i propri interessi con la
presenza nel consiglio di famiglia, e non
cercando di intervenire in azienda dove i
manager non devono mai sentirsi scavalcati o deresponsabilizzati. Un ambiente più
professionale garantisce la continuità dell’azienda familiare a vantaggio di tutta la
famiglia. E rende l’azienda più attraente in
caso di apertura del capitale a investitori
finanziari o di quotazione».
D. La crisi attuale è solo un problema o
può offrire l’opportunità di importanti
cambiamenti?
R. «Anzitutto penso cha la parte peggiore
di questa crisi, cioè i riflessi sull’occupazione, non l’abbiamo ancora vista, purtroppo. Credo che dovremmo tenere in grande
considerazione i cambiamenti negli stili di
vita che la crisi richiede e richiederà ancora. Tra questi il risparmio energetico. Io
preferisco parlare di efficienza energetica.
Perché “risparmio” è un termine triste, che
sa di privazione, mentre “efficienza”
rimanda a una sfida che raccolgo volentieri: implica curiosità, intelligenza e innovazione per fare di più consumando di meno.
Da un certo punto di vista la prospettiva di
anni di attesa prima della ripresa può essere vista in positivo come periodo da dedicare alla progettazione di cose nuove, a
patto però di non perdere mai di vista i vincoli finanziari. Purtroppo per molte aziende questo oggi non è possibile, e in questo
senso è necessario un atteggiamento diverso da parte del sistema bancario: dobbiamo
riprendere a rischiare insieme».
Cerchiamo
sempre nuove e più rilevanti
applicazioni di tecnologie
in cui siamo esperti
EPSILON Onlus è una associazione laica nata nell’ottobre 2004 da un gruppo di amici e presieduta da Claudio Stabon,
con l’obiettivo di aiutare i bambini del terzo mondo su temi di sanità, alimentazione ed educazione.
Dal 2004 Epsilon ha aiutato 190.000 bambini disagiati in 15 paesi tra Africa e Sud America.
Global Strategy ha scelto di aiutare assieme a Epsilon cento bambini della scuola materna di Tchebebe in Togo
garantendogli un pasto al giorno per un intero anno scolastico.
Sostenete anche voi Epsilon.
Per saperne di più: www.epsilon-onlus.org
20122 Milano, Italia
Tel. +39 02 784632
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Global Strategy è una società italiana di consulenza strategica e finanziaria costituita da professionisti con esperienze solide e complementari.
Affianca le imprese nelle fasi di crescita, cambiamento,
internazionalizzazione, risoluzione di crisi industriali e
finanziarie, operazioni straordinarie e M&A.
Caratteristiche distintive sono il pragmatismo delle soluzioni e la partnership con i clienti: capacità di affiancamento
nell’implementazione dei progetti e nell’attività di business
development.