GLOB news - Anno III - 02/2009
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GLOB news - Anno III - 02/2009
www.globalstrategy.net Anno III - 02/2009 Cover story Convergenze parallele Message in a bottle Germano Calvi Il tema segreto della mente, il ritmo segreto del cuore Interviste Gianluigi Angelantoni Ernesto Gismondi Pasquale Pistorio Giorgio Squinzi 2 Convergenze parallele di Antonella Negri-Clementi e Domenico Greco Tensione al cambiamento come condizione ideale per il fluire del pensiero strategico, con sintonia rapida ed efficace fra obiettivi di lungo e breve periodo Il tema segreto Il passo più della mente, avanti di Mapei il ritmo segreto intervista a Giorgio Squinzi del cuore di Germano Calvi Capire che cosa ci impedisce di cambiare, abbattere le resistenze e agevolare un clima favorevole al nuovo La strategia della maggior multinazionale chimica italiana si fonda su tre pilastri: specializzazione, internazionalizzazione, innovazione Dalla tecnologia del freddo all’energia solare intervista a Gianluigi Angelantoni In Umbria c’è una media azienda diventata leader mondiale in applicazioni sulla frontiera tecnologica GLOB NEWS Anno III - N. 2 Dicembre 2009 Reg.Tribunale di Milano n. 493 del 06/09/2007 Direttore responsabile: Antonia Negri-Clementi Il design dura nel tempo, è l’azienda che cambia Diario di un innovatore seriale intervista a Ernesto Gismondi Intervista al padre di una multinazionale italiana attiva nell’hi-tech con grande successo nel mondo Per avere successo, un protagonista del design deve adeguare ai tempi che cambiano la sua organizzazione, la strategia e l'approccio al mercato intervista a Pasquale Pistorio GLOBAL STRATEGY S.r.l. Via Durini, 5 20122 Milano Tel. +39 02 784632 Fax +39 02 76013837 [email protected] www.globalstrategy.net Stampa: Arti Grafiche Fiorin S.p.A. Milano COPIA GRATUITA www.globalstrategy.net 3 Editoriale “ Venti di cambiamento Antonella Negri-Clementi Piero Cannas ” «Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono muri, altri mulini a vento» Proverbio cinese Michelangelo con pennelli e colori dell’epoca ha dipinto il giudizio universale nella Cappella Sistina. Beethoven aveva a disposizione un pianoforte come tanti altri, e ha composto tutti i capolavori che conosciamo. Einstein ha cambiato il modo di studiare l’universo utilizzando il proprio pensiero e le conoscenze matematiche della sua epoca. Ha cioè innovato nel modo di pensare più che inventato nuovi strumenti. Cambiamenti epocali con strumenti normali per le loro epoche. Cambiare non significa per forza inventare – Leonardo inventava cose avanti secoli rispetto al suo tempo – significa usare in modo nuovo, diverso, innovativo, gli strumenti che si hanno a disposizione. Pensiero nuovo con strumenti “normali”. È un concetto che ci sta molto a cuore, quello del cambiamento: perché riguarda, in egual misura, tutto il tessuto imprenditoriale italiano.Abbiamo ricordato alcuni esempi eclatanti di primato del pensiero sullo strumento, perché riteniamo che il Pensiero Strategico sia il vero motore del cambiamento. Che poi si esprime nell’uso migliore possibile degli strumenti di management che gli imprenditori e i manager “pensanti” devono avere a disposizione. Pensiero Strategico e strumenti di management alla portata di tutti, nessuno escluso, per dimensione o settore di appartenenza, che utilizzati nel modo giusto creino quella distintività che fa di ogni imprenditore il campione del proprio contesto industriale e di mercato. Quello che in fondo hanno fatto e continuano a fare esempi vincenti dell’imprenditoria italiana come Giorgio Squinzi e Ernesto Gismondi,o eccellenze manageriali di livello mondiale come Pasquale Pistorio, o talenti emergenti dalla “palude” delle PMI come Gianluigi Angelantoni, che abbiamo scelto di intervistare in questo numero. Sono solo alcuni esempi, ce ne sono ovviamente tanti altri, ma rappresentano trasversalmente – crediamo – tutto il tessuto imprenditoriale italiano: la grande azienda, i manager di caratura internazionale e le PMI che cambiano, crescono e diventano grandi. Esattamente come i Barilla, i Cao, gli Alessi intervistati nel numero precedente della nostra rivista: figure di riferimento le cui esperienze, il cui pensiero siamo convinti rappresentino uno spunto di riflessione per chi appartiene a questo mondo. Questo numero di GLOBnews racconta un po’ le loro storie, lette attraverso una lente particolare: quella che ci consente di capire come, eleggendo il cambiamento a colonna portante del proprio pensiero strategico, sono riusciti e tuttora stanno continuando a costruire l’imprenditoria italiana riconosciuta nel mondo.Il tutto accompagnato dall’articolo di Germano Calvi, psicologo d’impresa, che ci racconta le difficoltà che le persone incontrano nel proprio contesto lavorativo quando gli si pone davanti il cambiamento. La grande sfida che ci aspetta, imprenditori, istituzioni, banche e perché no, anche noi consulenti, è quella di rimettere il Pensiero Strategico e il cambiamento alla guida delle nostre imprese. Gli strumenti ci sono già tutti, basta usarli bene. 4 Convergenze parallele di Antonella Negri-Clementi e Domenico Greco «Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti» Charles Darwin Antonella Negri-Clementi Domenico Greco L’attenzione al cambiamento è sempre stata indispensabile alla sopravvivenza delle aziende. Il contesto competitivo, la velocità con cui nascono, si impongono e poi virano le tendenze di mercato e le evoluzioni sociali, rendono l’orientamento al “nuovo” una necessità per tutti gli operatori economici, nessuno escluso. Occorre anticipare il cambiamento, essere pronti a cavalcarlo con nuovi prodotti, tecnologie, processi produttivi, modelli organizzativi, d’impresa e di business. La crisi che stiamo attraversando ci insegna che anche la lettura del ciclo economico non può più essere la stessa. La distinzione classica tra dinamiche congiunturali e mutamenti strutturali non sembra più il discrimine operativo utile a guidare la politica economica e gli indirizzi suggeriti dagli economisti industriali e d’impresa. Insomma: anche le crisi cambiano. Come scrive Gary Hamel, “ciò che è cambiato di più è proprio il cambiamento”. Ciò che distingue la nostra epoca da tutte le altre non è l’impatto livellante delle comunicazioni, non è la vertiginosa crescita economica di Cina e India, non è il degrado del clima e non è neppure la reviviscenza di antiche animosità religiose. È, piuttosto, “il ritmo in frenetica accelerazione del cambiamento”. Per Hamel, “nei prossimi decenni, l’adattabilità di tutte le società, di tutte le organizzazioni e di tutti gli individui sarà messa alla prova con una severità senza precedenti [...] Le aziende si giocano il futuro quando confondono il temporaneo con l’eterno; e oggi, praticamente tutto è temporaneo”. OPPORTUNITÀ OBBLIGATA Proprio questo può essere il momento opportuno per concentrare le energie sul cambia- mento. Grazie alla crisi, le aziende possono, anzi devono rimescolare le carte, procedere a ristrutturazioni da tempo necessarie, avviare azioni di razionalizzazione e focalizzazione dell’offerta. Da sempre, durante le recessioni si assiste a una forte accelerazione dei processi di riorganizzazione e rinnovamento della struttura produttiva e di quella distributiva. Risorse male utilizzate si spostano verso impieghi più efficienti, nuove imprese prendono il posto di quelle che hanno ormai esaurito la propria spinta propulsiva. Inevitabilmente le maggiori energie dell’imprenditore e della sua squadra sono assorbite dalle esigenze operative di breve periodo quali la selezione della gamma di prodotti, l’acquisizione di ordini con margini soddisfacenti, il recupero dei crediti scaduti, la rinegoziazione del debito, eccetera. La priorità è la sopravvivenza dell’impresa stessa. Il modo vincente per riprendere ad avere un ruolo nel mercato è quello di combinare strategicamente le esigenze di breve con l’orientamento di mediolungo termine. Ovvero fermarsi a riflettere sugli scenari possibili all’uscita dalla crisi e su come riposizionarsi di conseguenza. Magari assumendo talenti manageriali, tecnici, professionali più facilmente reperibili e meno “viziati” dal mercato. O comprando “a prezzi di saldo” rami d’impresa che altri dismettono per l’urgenza di fare cassa. Nell’insieme è necessario ripensare a modelli di impresa che meglio si adattano e interpretano le richieste di tutti gli attori della nuova arena competitiva. Noi di Global Strategy vi proponiamo alcune riflessioni che non sono esaustive ma sicuramente autentiche: derivano dalla lunga esperienza quotidiana a fianco degli imprenditori e dallo scambio continuo www.globalstrategy.net Tensione al cambiamento come condizione ideale per il fluire del pensiero strategico, con sintonia rapida ed efficace fra obiettivi di lungo e breve periodo.Tensione al cambiamento come principio attivatore dell'innovazione con gli operatori finanziari e altri osservatori privilegiati. Spunti per essere pronti a cogliere i segnali e gli stimoli al cambiamento, comprendere il suo impatto sull’impresa e sulle persone che la compongono. PENSARE E SEMPLIFICARE Chi guida un’impresa non può più affidarsi e affidare i compiti di strategia e gestione a schemi, modelli e strumenti rigidi e immutabili. In un contesto di incertezza e variabilità cresce la necessità di avviare un processo di verifica-revisione continuo che si basa sull’intuito imprenditoriale e sulle capacità manageriali. Il pensiero strategico, che riteniamo motore del cambiamento, tiene conto degli scenari futuri per scegliere dove andare e pianificare come arrivarci. Se la disponibilità di scenari è scarsa, come ora, e soprattutto nessuno si sente di assegnare un ragionevole grado di probabilità al verificarsi degli stessi, è importante continuare a pensare, per attuare continui aggiustamenti e correzioni. Perché anche l’incertezza può essere riconosciuta, definita e tenuta sotto osservazione. E l’individuazione di segnali deboli è di aiuto per rivedere le strategie. A patto, naturalmente, che queste siano sufficientemente flessibili. Pensare strategicamente significa anche semplificare, e un periodo di crisi può essere opportunamente impiegato per liberare risorse ed energie. Può essere il momento migliore per rivedere le politiche di diversificazione che hanno portato a un portafoglio di attività complesso e forse non ottimale in termini di potenziale inespresso dell’impresa. Può spingere la ricerca di spazi di riduzione dei costi e semplificazione delle funzioni d’uso che permettano di migliorare il rapporto qualità/prezzo dei prodotti e servizi offerti. E la scarsità di risorse è spesso uno stimolo eccezionale alla creatività. Pensiamo a ciò che ha significato la grande crisi degli anni ’30 per lo sviluppo delle materie plastiche nei decenni successivi: dalla galalite e la bakelite come surrogati di avorio e ambra per oggetti decorativi artigianali, al ruolo di protagonista onnipresente nella produzione 5 6 Le aziende possono, anzi devono rimescolare le carte industriale. Un giro tra le mille piccole vetrine di Palermo Viejo, a Buenos Aires, può far riflettere sulla risposta alla “crisi” da parte di artisti e stilisti: probabilmente tra le categorie meno disciplinate quanto a pensiero strategico, ma certo tra le più veloci a respirare il cambiamento, interiorizzarlo e offrirne segnali concreti. Pensare e semplificare, infine, significa anche non farsi prendere dall’ansia del cambiare tutto e subito. Ma concentrarsi sulla combinazione degli strumenti giusti, al momento giusto, nel modo e nella sequenza giusti. Se Kotter sottolinea l’importanza d’introdurre in azienda il senso di “urgenza del cambiamento” per contrastare l’inerzia e l’autocompiacimento da risultati passati, l’urgenza non dev’essere scambiata con l’affrettarsi inconcludente. Spesso la frenesia è il risultato dell’adesione a mode manageriali che hanno cambiato, di volta in volta, la priorità dei supposti fattori di successo. Ma nelle imprese che vincono è difficilmente riconoscibile la supremazia di una funzione aziendale. Se oggi la parola d’ordine è “innovazione”, pensiamo che vada intesa come una delle espressioni del pensiero strategico e orientamento principe di tutte le funzioni aziendali. LE IMPRESE SONO FATTE DI PERSONE Non è un luogo comune, non dimentichiamocene. Imprenditori, manager e dipendenti, ma anche i clienti e tutti gli stakeholder reagiscono al cambiamento in quanto persone prima che lavoratori, consumatori, investitori. Affinché in azienda il cambiamento sia compreso, accolto e valorizzato quando viene dall’esterno, nonché costantemente stimolato e agevolato all’interno, è necessario fare della tensione al cambiamento un valore condiviso. È opinione comune da secoli che gli imprenditori siano dotati di propensione al rischio superiore alla media. Crediamo che senza curiosità, flessibilità e adattabilità la propensione al rischio non condurrebbe lontano. In questo senso, l’adagio molto in voga che suggerisce di “diffondere l’imprenditorialità a tutti i livelli dell’organizzazione” può assumere un significato più vasto: motivare e premiare la capacità di reazione e la voglia di sperimentazione, oltre al raggiungimento di obiettivi quantitativi espressi come risultati, standard o altro. La distinzione nonché la necessità di integrazione tra “hardware organizzativo” e “software comportamentale” è più che mai attuale e ci deve far riflettere sulla coerenza necessaria tra cambiamento collettivo e individuale. Scrive Sumantra Ghoshal già nel 1996: “Il limite principale di ogni processo di trasformazione […] sta nella capacità delle persone di assecondare il cambiamento” e individua “la disciplina, il supporto, la tensione positiva (stretch) e la fiducia” come “i quattro elementi vitali del contesto comportamentale trasformazionale” che devono essere opportunamente richiesti, erogati e stimolati per avere successo in una trasformazione d’azienda: “equilibrare tutte e quattro le dimensioni è la chiave per passare a uno stato di continua rigenerazione”. Vogliamo sottolineare con Ghoshal l’ultimo dei quattro elementi: “la tensione positiva è una caratteristica del contesto di un’organizzazione che aumenta le aspettative che le persone hanno su se stesse e sull’impresa. Essa è il contrario della timidezza e del gradualismo e si manifesta nel coraggio di battersi per obiettivi ambiziosi invece che accettare la sicurezza di bersagli facilmente raggiungibili”. CAMBIAMENTO E INNOVAZIONE Quando, da fattore di sopravvivenza, il cambiamento diviene fattore di successo rispetto ai competitor? E’ sufficiente che l’imprenditore riconosca il valore del cambiamento, se ne faccia motore in prima persona, ne senta la responsabilità e crei un ambiente favorevole ad esso? L’esperienza sembra indicare che due sono le componenti fondamentali: il tempo e il contenuto di innovazione. L’innovazione (portare il nuovo dentro) è una forma possibile di cambiamento. E’ certamente auspicabile in quanto si traduce in vantaggio competitivo. È strettamente legata alle capacità di visione e percezione, ma a volte deriva da un colpo di fortuna. L’atteggiamento “responsabile” dell’imprenditore nei confronti del cambiamento crea un terreno più fertile per l’innovazione al di là della fortuna. La genesi dell’innovazione, tradizionale oggetto di studio per economisti e tecnologi, è oggi indagata proficuamente con il ricorso ad altre discipline quali psicologia, sociologia, epistemologia e teoria della complessità. In questo modo, come scrive Riccardo Viale, “si rende giustizia alla dimensione istituzionale, culturale, conoscitiva, cognitiva ed emozionale dei comportamenti e degli ambienti ‘innogenetici’; un cambiamento concettuale necessario per comprendere l’innovazione in un’economia dove la componente immateriale è divenuta predominante su quella materiale”. La crucialità della componente immateriale emerge con forza anche dalla ricerca decennale di Roberto Verganti che definisce “Design-Driven Innovation” il processo che ha permesso ad alcune imprese di “trasformare idee rivoluzionarie in business di successo” attraverso la ri-definizione del significato dei prodotti. Ne sono esempi significativi la Wii di Nintendo e l’iPod di Apple, che interpretano un modo radicalmente nuovo di giocare e ascoltare musica, ma Verganti ne cita numerosi altri anche nei servizi e nel B2B, sottolineando che “tutti i prodotti hanno un significato, a prescindere dal particolare segmento di mercato […] Né i significati sono ristretti a determinati settori” ma esiste “un denominatore comune: le persone amano le cose che hanno un significato”. www.globalstrategy.net RICOSTRUIRE PARTENDO DAL MERCATO In un contesto caratterizzato da marcate discontinuità potrebbe risultare proficuo avviare un radicale ripensamento del proprio posizionamento in una logica di ridefinizione degli stessi confini dell’arena competitiva e della sua segmentazione, rivedendo di conseguenza la struttura dei propri modelli di business e d’impresa. Proprio questo potrebbe rivelarsi il momento migliore per introdurre cambiamenti nelle politiche d’integrazione orizzontale o verticale, così come in quelle di insourcing o outsourcing - di nuovo: pensare e semplificare… Il riorientamento dei modelli richiede naturalmente un grande sforzo di business intelligence, e vorremmo sottolineare tre fra quelli che sembrano emergere come driver imprescindibili per gli scenari socioeconomici. In primis: sostenibilità. Indice al tempo stesso di responsabilità e di attenzione a ciò che conta davvero, ma anche di creazione di nuovo valore. Ne danno conferma ricerche di ogni tipo sul successo di iniziative imprenditoriali che hanno innescato un circolo virtuoso tra sostenibilità e innovazione: a partire dai nuovi mercati del risparmio energetico, fino all’abbigliamento e al design. Il secondo driver: “value for money”. Retrocessione dall’effimero verso il concreto: un ritorno di attenzione per la qualità e il suo “giusto” prezzo come segno, riconoscimento d’intelligenza del produttore e del consumatore. Più attenti, non più in balia di “bolle”, senza per questo rinunciare alle gratificazioni offerte dal significato di beni e servizi. Con movimenti dei consumatori sia di “trading up” sia di “trading down”. Nel primo caso vengono premiati il brand, il made in, il contenuto tecnologico o ecologico… Nel secondo caso, il messaggio “low cost - high value” introdotto all’origine da nuovi vettori aerei. L’acquisto di un volo a prezzo contenuto, oggi, non è semplice sinonimo di disponibilità limitate, ma espressione di scelta consapevole: sullo stesso aereo incontriamo globetrotter e turisti a cinque stelle. Il terzo driver: nuovi modelli di business. Sfociati in sistemi di offerta che affiancano alla qualità un prezzo ragionevole, un ele- vato livello di servizio e un contenuto esperienziale aggiuntivo nel processo d’acquisto. Casi di successo come Ikea, Zara e ebay, che incontrano il favore di consumatori con caratteristiche socio-economiche alquanto variegate, dimostrano che il prezzo, il canale e la localizzazione del punto vendita (reale o virtuale) possono concorrere al significato del prodotto/servizio anziché rappresentare un semplice vincolo nella decisione d’acquisto. APRIRSI A NUOVI SCHEMI COLLABORATIVI Una riflessione sui vincoli di struttura che spesso ostacolano imprese innovative nel passaggio dall’idea alla realizzazione. Il tessuto produttivo italiano è caratterizzato dalla dimensione medio-piccola della grande maggioranza delle imprese, spesso non sufficiente per sostenere i costi di un repar- 7 8 Il cambiamento richiesto rappresenta, per la maggior parte degli imprenditori attualmente sul mercato, una sfida unica to di ricerca e sviluppo. Per superare questa criticità sarebbe senz’altro utile il ricorso alla “Open Innovation”, termine coniato da Henry Chesbrough, professore e direttore esecutivo del Center for Open Innovation di Berkeley, per definire “un paradigma che afferma che le imprese possono e debbono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati, se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche”. Partendo dalla constatazione che al giorno d’oggi le informazioni possono essere trasferite in modo talmente facile che sembra impossibile bloccarle, la filosofia Open Innovation suggerisce che nel momento in cui le aziende non possono bloccare questi flussi di informazioni, devono capire come utilizzare tutto ciò a proprio vantaggio per incrementare l’efficienza e i ritorni dell’attività di ricerca. Le aziende dovrebbero perciò comprare o concedere in licenza le inno- L’ideogramma “crisi” è l’unione di “pericolo” e “opportunità” vazioni attraverso scambi tra loro. In particolare, le invenzioni sviluppate internamente ma non utilizzate nel proprio business, dovrebbero essere date all’esterno (attraverso contratti di licenza, joint ventures, spin-off, o centri di ricerca cooperativi). Nel nostro sistema produttivo è però presente un elemento di segno contrario: l’atteggiamento di fondo di moltissimi imprenditori italiani che considerano la proprietà aziendale come un unicum, rinunciabile solo in misura complessiva e a fronte di eventi straordinari. Sarebbe invece necessario un atteggiamento di apertura nei confronti di partnership aziendali, così come di ingressi nel capitale di nuovi soci, per soddisfare le necessità di risorse finanziarie o di conoscenza che consentano di avviare e sostenere i processi di innovazione. Così come tra gli imprenditori va crescendo il consenso sulla necessità di considerare il mutato orientamento in termini ambientali dei modelli di consumo, nonché sull’istanza di internazionalizzazione (molti hanno iniziato o progettano di rivolgersi a nuovi mercati applicativi come quelli asiatici), ci auguriamo possa diffondersi anche la convinzione che, data la struttura industriale italiana, non si possa fare a meno di orientarsi verso schemi collaborativi più aperti. CONVERGENZE PARALLELE Temporaneo versus Eterno, Opportunità versus Obbligo, Pensiero versus Semplificazione, Concorrenza versus Partnership sono alcuni dei temi toccati in questo articolo. Concetti nel passato considerati antitetici, chiamano oggi gli imprenditori a una sintesi obbligata che si traduce di fatto in un cambiamento radicale. La riprogettazione dei modelli di impresa a fronte di questo ribaltamento logico è molto più complessa di quanto a prima vista possa apparire, come emerge dall'approfondimento dei singoli temi all'interno dell'articolo. Il cambiamento richiesto rappresenta, per la maggior parte degli imprenditori attualmente sul mercato, una sfida unica: la sopravvivenza e il successo dipenderanno dalla capacità di governare le vele con questa “nuova” Rosa dei Venti. www.globalstrategy.net Premio alle PMI che hanno battuto la crisi nel 2008 e nel 2009 Chi è stato capace di innovare e di ricercare soluzioni e strategie di natura commerciale, finanziaria e industriale può essere considerato il vero “simbolo” della ripresa. Chi ce l’ha fatta va premiato, va valorizzato e il suo esempio può essere di stimolo a tutto il sistema delle imprese e a chi sta cercando soluzioni per risollevarsi. Prima Edizione Nazionale Milano, marzo 2010 Le candidature potranno essere presentate fino al 31 marzo 2010 Per informazioni e iscrizioni visitare il sito www.tickmark.it o telefonare aTickMark S.p.A. allo 02.43510726 9 10 Il tema segreto della mente, il ritmo segreto del cuore di Germano Calvi Germano Calvi, P.h.d. in Psicologia, consulente HR Le diverse discipline che si sono occupate di cambiamento nelle organizzazioni hanno in comune un vizio ideologico: l’assunto che il cambiamento è buono e chi non cambia è resistente al cambiamento perché non ne coglie l’evidente bontà. A questo stesso assunto aderiscono molte aziende quando verificano le inevitabili resistenze che fanno seguito ai cambiamenti introdotti. Anch’io, per esperienza professionale, sono stato ideologicamente schierato su questa idea di base, ma nel tempo ho cercato di rivedere la mia posizione. Anzitutto perché mi son reso conto che quando ho avuto desiderio di cambiare in prima persona, la difficoltà è stata enorme: oltre al desiderio sono necessari impegno, disciplina e coraggio. Raramente si hanno tutte queste qualità insieme, almeno per quanto mi riguarda. Per altri versi è stata illuminante l’esperienza di lavoro che ho potuto realizzare all’interno di una fondazione no profit che si occupa di pazienti con patologie molto gravi. Malattie oncologiche o di altra specie che comunque giungono all’improvviso e ti chiedono crudelmente di rivedere del tutto il tuo modo di vivere, sentire e pensare la tua vita. Seguendo queste persone ho compreso più a fondo la difficoltà insita nel cambiamento, pur in quella che è paradossalmente la condizione purtroppo più frequente per farlo: esservi obbligati. Credo che nella stragrande maggioranza dei casi il cambiamento avviene solo in quanto forzato, necessario ed “estorto”. Se siamo sfortunati, il cambiamento obbligato ci si propone diverse volte nella vita, più spesso nella maturità, in seguito a eventi più o meno drammatici (abbandoni, malattie, perdita del lavoro…). USCIRE DAL QUADRATO Che cosa, invece, ci impedisce di cambiare quando lo desideriamo, o quando comunque non siamo in presenza di eventi drammatici? Fondamentalmente, qualcosa dentro di noi che ci ostacola: le “idee parassite”. Si tratta di idee che vivono nella nostra testa senza che ne siamo consapevoli e ci procurano danno, detrimento, penalizzazione. Parassiti, appunto, che vivono a nostre spese. Una prova indiziaria di quest’affermazione è il test dei nove punti da unire con quattro linee senza staccare la penna dal foglio. Provate, se vi garba. È un gioco curioso, se non lo si fa diventare irritante. La maggior parte delle persone (incluso il sottoscritto) tentano di trovare la soluzione all’interno dell’area ideale delimitata dagli otto punti esterni. Tutti vedono l’insieme dei punti come un quadrato e si muovono lì dentro. Peccato che, finché rimaniamo dentro il quadrato, sia impossibile trovare la soluzione. Proprio come è irrealizzabile attuare un cambiamento “felice” finché siamo dominati dalle idee parassite: “forme” psicologiche che ci bloccano. La ricerca antropologica ci ha insegnato che le idee parassite sono presenti in tutte le culture e portano come immediata conseguenza l’infelicità nel momento in cui ci si trova di fronte a un cambiamento obbligato, vissuto come forzatura. Perciò quando lavoro sul cambiamento cerco anzitutto di far sì che le persone diano voce a ciò che dentro di sé le www.globalstrategy.net costringe a pensare alla situazione nuova in modo critico, depressivo, frustrante. E, contemporaneamente, a definire il piacere presunto insito nel non-cambiamento. Se a tutto ciò si dà un nome, è più facile trovare atteggiamenti congeniali per affrontare il mutamento. Emergono le “idee parassite”. E non è necessario un lavoro psicoanalitico di anni: spesso bastano poche ore di formazione. Oltre al confronto con le idee parassite, per poter attuare gli altri cambiamenti, quelli non drammatici, non forzati, la miglior fonte d’ispirazione è l’ascolto. “Ascolto” è un termine abusato quasi quanto “cambiamento”: abusato nella quotidianità, nel linguaggio dei formatori e nel messaggio cattolico. Ma l’ascolto è una disciplina, come quelle sportive o lo yoga, che permette di cogliere aspetti imprevisti e inattesi della realtà. Spesso, ascoltando, si entra nel mondo delle emozioni. Ciò è rilevante in quanto, se la testa permette di elaborare una strategia, le nostre emozioni hanno tempi e logiche completamente diversi da quelli “cerebrali”. E quindi anche una volta individuate le idee parassite non è detto che il cambiamento sia facile: le emozioni hanno forza, stabilità, bellezza e inerzia con cui dobbiamo fare i conti. In questa prospettiva, l’introduzione del piacere nell’esperienza di cambiamento diviene la motivazione propulsiva dei cambiamenti successivi. L’ascolto permette di individuare quali sono le aree in cui è possibile che il piacere compensi la noia, la routine. Come in un poliziesco: si cercano indizi di gioia per stanare le rigidità fissate alla lastra del quotidiano. Ciò è tanto più vero e dimostrato dall’esperienza coi malati: com’è possibile introdurre elementi ludici in uno stato drammatico come la malattia? Eppure solo la scoperta di un eventuale elemento di piacere, che è poi arricchimento, gioia, scoperta, consente di fare il salto necessario per vivere meglio. E anche nei casi di malattia che ho seguito ho visto avvenire il cambiamento solo dopo l’individuazione (spesso favorita da un lavoro di scrittura) delle idee parassite. La scoperta dà il senso quasi di un potenziamento dei propri sensi (come potevo non vedere? come potevo non sentire?). IMPRIMERE UN RITMO Per indurre un clima favorevole al cambiamento in un’azienda è anche importante capire che l’idea del “bisogna cambiare a tutti i costi” non paga, mentre spesso ciò che agevola il cambiamento è la partenza da aspetti reputati marginali. Come formatore mi sono occupato spesso di “public speaking”: apparentemente un tema prettamente tecnico. Ma se si va oltre gli aspetti retorici e di relazione con l’uditorio e si lavora sulla voce intesa come partitura musicale, si può vedere come la possibilità di intervenire sulla propria vocalità sia un’occasione straordinaria per cambiare e trarre grande soddisfazione dal parlare in pubblico. Il lavoro sulla respirazione, sulla musicalità, sulle pause e sul ritmo è un’esperienza che permette di riconoscere che sono soltanto “intoppi” personali a impedire il piacere di comunicare. È un successo che agisce da volano di quell’energia che è necessaria per evolversi ulteriormente. Infine, riguardo all’introduzione e all’agevolazione del cambiamento nelle organizzazioni è utile fare riferimento ai cosiddetti sistemi complessi, quali ad esempio lo sciame e il formicaio in biologia o il cervello in neurologia. Ammassi di elementi semplici che producono risultati straordinari. Dove ciò che caratterizza gli elementi semplici è la grande capacità di adattarsi, di cambiare. Immaginiamo tanti orologi a pendolo appesi a una parete, e che il nostro compito sia quello di sincronizzarli tutti. Se partiamo da uno e procediamo singolarmente, non arriveremo mai allo scopo: appena avremo sincronizzato l’ultimo dovremo tornare a regolare il primo che nel frattempo sarà andato fuori sincrono, e così via. Se abbandoniamo il pensiero logico, se usciamo dal “quadrato” delle idee, scopriamo 11 che è sufficiente imprimere pressione costante al muro (un ritmo) per ottenere che tutti gli orologi, in pochi minuti, si sincronizzino fra loro grazie alle vibrazioni della parete. Allo stesso modo sarebbe spesso possibile ottenere risultati in azienda imprimendo un ritmo, invece di affannarsi a regolare con procedure i singoli pendoli. Il ritmo è fatto di idee probiotiche (vicine, ma contrarie, ai parassiti). Valori, sogni, visione, missione... È un salto culturale richiesto al leader, e sarà tanto più facile metterlo in atto quanto più il responsabile potrà confidare sulla condivisione di valori all’interno dalla sua organizzazione. Molte ricerche hanno dimostrato che più un’azienda ha valori condivisi (non solo una “carta dei valori”, da etichetta), meno ha bisogno di regole, procedure, routine. Se è irrealistico pensare a un’organizzazione totalmente priva di regole e procedure, è però importante capire che si può sperimentare: si possono creare almeno alcune aree auto-organizzate in cui ottenere livelli di efficacia e di creatività altrimenti non raggiungibili in azienda. Prima, tuttavia, bisogna avere il coraggio di lasciare le idee che crediamo sicure e invece ci rendono infermi. Con Rilke: «noi, che pensiamo alla felicità come cosa che sale, avremo l’emozione, quasi sgomenta, di una cosa felice cadendo». 20 Il design dura nel tempo, è l’azienda che cambia «Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare fino a quando arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa» Albert Einstein Ernesto Gismondi, Presidente di Artemide Il cambiamento, leitmotiv dell’imprenditoria sana, prende forme e strategie diverse a seconda del settore di appartenenza dell’azienda e della sua storia. In questa intervista, affrontiamo l’argomento con Ernesto Gismondi, fondatore, presidente, amministratore delegato, anima di Artemide, marchio leader nell’illuminazione di alta qualità e design. «Io pensavo di fare gli aeroplani e poi i missili, ma per farli bisognava avere tanti soldi, quindi ho chiuso con la partita missili. Mi sono divertito ad aprire Artemide mentre insegnavo al Politecnico», racconta oggi Gismondi, che ama scherzare: «sono anch’io uno di quegli italiani che se non ha due o tre lavori non passa bene la giornata!». Artemide è un portabandiera del made in Italy nel mondo. La società è stata fondata nel 1960 da Ernesto Gismondi e Sergio Mazza, con l’obiettivo di disegnare apparecchi di illuminazione capaci di conseguire un perfetto equilibrio tra design, innovazione, funzionalità ed efficienza. Una volontà che negli anni è divenuta il centro della mission dell’azienda. Grazie anche alla collaborazione con i più importanti artisti e designer italiani, tra i quali ci sono Giò Ponti, Vico Magistretti e Gae Aulenti. In questi anni nascono lampade di culto come Eclisse di Vico Magistretti, che vince nel 1967 il primo Compasso d’oro, e Nesso di Giancarlo Mattioli. Successivamente, verranno attivate collaborazioni anche con Richard Sapper, Mario Botta, Santiago Calatrava. La lampada Tizio, progettata da Richard Sapper nel 1972, è ancora adesso un prodotto considerato internazionalmente un’icona del design contemporaneo. Come altri prodotti leggendari dal nome di Tolomeo, Logico, Castore, Pipe (premio Compasso D’Oro 2004). Oltre a progetti sull’illuminazione in ambito contract di grande prestigio, come la Torre Pirelli alla Bicocca di Milano in collaborazione con lo studio Gregotti, il Palais del Luxembourg a Parigi e la Torre Scenica del Teatro alla Scala di Milano. Artemide è un’azienda di successo nel mondo, vincitrice di prestigiosi premi quali l’European Design Price nel 1995 e il Compasso D’Oro alla carriera nel 1997. Nel 2008, nonostante la congiuntura eco- www.globalstrategy.net Per avere successo, un protagonista del design deve adeguare ai tempi che cambiano la sua organizzazione, la strategia e l'approccio al mercato. Ma il valore del design sta invece nella sua capacità di resistere al tempo che scorre. Come le piramidi, le uova di Fabergé, il cubo di Rubik e le lampade Artemide. Emblema di un gusto che resiste allo scorrere degli anni nomica negativa, ha fatturato 127 milioni di euro, il 9,1% in più dell’anno precedente. I dati sul 2009 non sono ancora stati resi noti, ma la previsione è comunque di una ulteriore crescita. La società vende i prodotti in 83 Paesi del mondo (l’Italia è il mercato principale, seguito da Germania, Stati Uniti e Francia), ha circa 750 dipendenti diretti (59 dei quali a tempo pieno in attività di ricerca e sviluppo). Opera attraverso 24 società controllate e partecipate, e utilizza una rete di 51 negozi monomarca: nel 2009 sono stati inaugurati i nuovi showroom di Zurigo a maggio, e quelli di Vienna e Francoforte a ottobre. tempo. In particolare, abbiamo affiancato alla Tizio tradizionale una nuova versione “led” a basso impatto ambientale e risparmio energetico». D. Pensa di avviare un percorso di diversificazione per la sua azienda nel prossimo futuro? R. «Se per diversificazione si intende la proposta di prodotti diversi dal nostro core business storico dell’illuminazione, non credo proprio. Anzi, da questo punto di D. Che cosa significa fare design per Artemide? R. «Le rispondo spiegando che cosa non è design. Ad esempio, i mobili di Joseph Hoffmann e i tessuti di William Morris sono considerati due tra i primi esempi di design nella storia. Non sono d’accordo con questa affermazione: il gusto per lo stile dei manufatti di Hoffmann e Morris è sostanzialmente finito con loro. Il design ha un valore immutato nel tempo, pertanto non dovrebbe essere confuso con la moda e le tendenze». D. È quindi qualcosa che dura nel tempo? R. «Certo, pensi solo alla nostra lampada “Tizio”, un progetto di Richard Sapper che da quasi 40 anni rimane immutata nelle sue forme ed è venduta in tutto il mondo. I motivi del successo della Tizio sono da imputarsi non solo al design, ma anche alla tecnologia. È su questo versante che introduciamo il cambiamento in ciò che dura nel Tolomeo tavolo, design Michele De Lucchi & Giancarlo Fassina 21 22 Innovazione è quindi la parola d’ordine con cui Artemide prosegue la propria missione di leader vista oggi Artemide è meno diversificata di un tempo. Penso alla nostra esperienza nel mercato dei mobili in plastica, che abbiamo abbandonato quando il nostro concorrente di riferimento, Kartell, si è definitivamente imposto come leader di settore. Alla diversificazione preferiamo la differenziazione, intesa come allargamento della produzione nell’ambito in cui abbiamo maggiori competenze, ovvero l’illuminotecnica. Ad esempio, recentemente abbiamo iniziato a produrre lampade da esterno, che stanno incontrando il gradimento del mercato». D. E l’innovazione, che cosa significa per voi? R. «Artemide è un brand globale e robusto: il momento difficile che l’economia sta passando si rivela per noi una fonte di Cosmic Leaf sospensione, design R. Lovegrove grandi opportunità. Il nostro obiettivo oggi è quello di pensare e costruire prodotti ancora più forti e innovativi, perché quando il mercato è difficile si vince solo con l’innovazione. Innovazione è quindi la parola d’ordine con cui Artemide prosegue la propria missione di leader a livello internazionale nel mondo della luce, e la ricerca è l’energia propulsiva che consente all’azienda di essere credibile e propositiva. Investiamo in ricerca circa l’8% del fatturato e questo garantisce ad Artemide di mantenersi saldamente ai vertici di un settore in cui da sempre le sue lampade costituiscono nuovi standard e nuovi livelli di prestazione. L’innovazione nasce in azienda da uno solo, se c’è un leader, altrimenti da uno staff di menti pensanti, che studiano che cosa si deve e che cosa si può fare in funzione di che cosa sa fare l’azienda. Il reparto che si chiama ricerca e sviluppo studia che cosa si può fare nel lungo periodo: ha il compito di “sognare” un po’, inventare delle cose, avendo contatti con istituti di ricerca esterni, firmando contratti con dipartimenti universitari. Si pensa più in grande rispetto al voler far funzionare meglio qualcosa che si ha già. Il gruppo ha il vantaggio di essere formato da “suonati” che devono pensare cose diverse, ma anche lo svantaggio di essere formato da “suonati” che pensano cose tanto diverse che poi è difficile tradurre in pratica. Su questi progetti a lungo termine dobbiamo innestare la macchina del “che fare nel medio termine”, che vuol dire creare una politica dell’azienda e decidere cosa fare per continuare ad avere successo. E successo vuol dire, a mio avviso, da una parte avere i denari per tutti, dall’altra la soddisfazione di fare qualche cosa di importante, qualcosa con cui segnare la vita dell’uomo in quel momento, lasciare un segno piccolo o grande che sia». D. Come fare? R. «Bisogna guardarsi intorno nel mondo e capire che cosa c’è, chi sono i concorrenti, come si muove la società, quali sono le nuove tendenze. Questo è ciò che si fa nel medio termine, in due tre-anni il pro- www.globalstrategy.net gramma stabilito deve essere realizzato. Anche se in realtà il programma non è mai uno solo, ma ci si muove lungo strade diverse per riuscire a fare prodotti che siano interessanti». D. Il vostro design è orientato da una filosofia che avete definito “The human light”. Può spiegarci di cosa si tratta? R. «Gli oggetti prodotti da Artemide non sono solo design e performance tecniche. Sono soprattutto oggetti che nascono dall’esperienza degli uomini per i bisogni degli uomini in termini di luce, uno degli elementi base della vita. La nostra ambizione non è semplicemente quella di illuminare lo spazio, bensì le diverse attività e i bisogni dell’uomo nei vari spazi e momenti della sua vita, assecondandone gli stati d’animo e contribuendo al suo benessere». D. Recentemente avete iniziato un percorso di quotazione, con la previsione di sbarcare a Piazza Affari non appena l’andamento dei mercati finanziari lo renderà possibile e conveniente. Perché avete scelto questa forma di finanziamento dello sviluppo piuttosto di altre? R. «L’alternativa alla quotazione sono i fondi, uno strumento finanziario che non mi convince. Il fondo è una macchina a tempo, ci sono delle regole ferree che ne regolano l’ingresso e l’uscita dal capitale in pochi anni nel corso dei quali l’investimento deve apprezzarsi. Dato che non mi piace avere questi vincoli ho preferito optare per la quotazione in Borsa, tale per cui il capitale conferito rimane nel patrimonio aziendale ed è il mercato a decidere se premiare o meno la società. Inoltre trovo giusto che con la quotazione aumentino gli adempimenti riguardo alla governance e agli organi di controllo societario, a salvaguardia di tutti gli azionisti». D. Che cosa si sentirebbe di raccomandare agli imprenditori italiani che iniziano oggi? R. «Non mi piace fare prediche o dare consigli non richiesti. Se qualcuno me lo Pirelli Bicocca & Real Estate, Milano. Architectural project: Studio Gregotti Associati International chiedesse, gli suggerirei di essere realista e di scegliere ciò che ama, lavorare con tutto l’impegno di cui è capace, trovando soddisfazione soprattutto nel lavoro svolto bene. Se l’approccio è questo, i riconoscimenti, poi, molto probabilmente arrivano. Ma non bisogna farsi mai illusioni». 23 24 Diario di un innovatore seriale:Pasquale Pistorio Pasquale Pistorio Presidente onorario di STMicroelectronics «A volte il vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato» Jim Morrison Pasquale Pistorio è la dimostrazione vivente che il cambiamento può sempre funzionare, che negli affari vince chi è tenace e al tempo stesso trasmette alla sua squadra un senso di urgenza per il cambiamento, che qualunque situazione di crisi può produrre opportunità inaspettate e preziose. Passare del tempo con lui è toccare con mano che cosa significa un approccio entuasiasta e curioso alla vita intera, e come si manifesta la passione imprenditoriale. Passione che Pistorio conserva ancora adesso quando, dopo aver lasciato la guida della sua creatura STMicroelectronics (della quale resta presidente onorario) si dedica al sociale (Pistorio Foundation) e siede nei board di Fiat, Atos Origin, Brembo e Sagem Wirless (di cui è presidente). D. Ingegner Pistorio, quali sono stati i cambiamenti più significativi nella sua carriera professionale? R. «Il cambiamento, ma soprattutto la sfida più importante è senz’altro il risanamento della SGS. Sono stato invitato a prenderne la guida nel 1980, quando era di proprietà dell’IRI, e ho lasciato la Motorola dove dirigevo le attività internazionali per i semiconduttori. La SGS era praticamente fallita dieci anni prima, e sopravviveva solo grazie al cosiddetto “risanamento perdite”: un’assegno a pie’ di lista firmato puntualmente dall’azionista statale. L’azienda ripartiva ogni anno da zero, non investiva e continuava a perdere dal 20 al 50% del fatturato. Era al ventiquattresimo posto nella classifica mondiale dei produttori di semiconduttori. Voglio ricordare che l’azienda aveva ottimi talenti e alcune tecnologie molto valide. Era carente nei comparti industriali e commer- ciali come tutte le altre società europee del settore in quel periodo. Il cambiamento consisteva soprattutto nel vincere la resistenza sia all’interno sia dell’azionista, in un periodo di grande peso del sindacato, prima della marcia dei 40.000 della Fiat. Si trattò anzitutto di un cambiamento culturale imponente. Nel primo mese dovetti dismettere un quarto dei dirigenti. A partire da quello che mi disse “se lo stato vuole permettersi il lusso di un’azienda strategica, deve sapere che è normale che un’azienda strategica perda soldi”. Così come il direttore marketing che era convinto che la qualità dei prodotti fosse molto bassa, e rassegnato all’idea!». D. Come l’ha affrontato? R. «Ho sempre creduto che il leader, di qualsiasi organizzazione, debba avere cinque ruoli fondamentali. Il primo è quello di avere una visione o, come io preferisco chiamarla, un sogno. Il secondo è costruire la squadra. Il terzo è installare la cultura. Il quarto è definire la road map. Il quinto è forzare l’esecuzione. Così, alla prima riunione dissi ai miei colleghi che i nostri obiettivi erano tre: diventare profittevoli, sfondare in America e diventare membri del “Billion Dollar Club”. Darsi il profitto come obiettivo sembra una banalità, ma in quell’azienda erano abituati non solo a perdere, ma a considerare l’essere in perdita congeniale alla natura dell’azienda, corroborati anche dal fatto che tutta l’industria europea dei semiconduttori era allora in perdita». D. Le reazioni all’interno? R. «Tre, e tutte leggibili da subito. Quelli che sembravano ascoltare ciò che avevano sem- www.globalstrategy.net Intervista al padre di una multinazionale italiana attiva nell’hi-tech con grande successo nel mondo. Che racconta il suo metodo per introdurre il cambiamento in azienda e farlo diventare una leva potentissima pre sognato – gli “eroi immediati”. Quelli che mi credevano pazzo ma erano comunque desiderosi di seguirmi – gli “eroi potenziali”. Quelli che pensavano “gli passerà… aspetto che gli passi…”, quei venti su ottanta che ho allontanato. Ma una volta stabilita la cultura non si deve tollerare la presenza nella squadra di chi non la condivide: l’azienda non è un’istituzione democratica. È un’istituzione dove, purtroppo o per fortuna, il consenso è benvenuto ma il Ceo ha il dovere e il diritto di decidere. Nel mese successivo attaccai la fascia più bassa licenziando gli assenteisti. Allora nel gruppo IRI il tasso medio di assenteismo era del 22%. Chiesi di individuare i dipendenti con più del 50% di assenze per tre anni consecutivi: ce n’erano diciassette che rispondevano a questo criterio! Licenziati questi, con sollevazioni sindacali e caldi inviti dalla presidenza dell’IRI a riassumerli…, nel giro di due-tre mesi l’assenteismo scese al 5%. Il cambiamento della cultura passa necessariamente attraverso l’introduzione di concetti fondamentali quali il merito, l’ownership, la responsabilità per gli impegni assunti. Naturalmente non potevo spingere solo il cambiamento culturale. Abbiamo chiuso impianti all’estero e ridotto pesantemente l’organico in Italia: da 5.300 persone a 3.900. Ma mentre razionalizzavo e riducevo overhead di tutti i tipi, aumentavo enormemente gli investimenti in ricerca. Siamo arrivati al 22% del fatturato: una quota allora mai raggiunta da nessuno e che anche oggi appare eccessiva, perché la norma nell’industria dei semiconduttori sta tra il 10 e il 15%. Doveva cambiare anche l’allocazione degli investimenti in ricerca, in modo congruo alla razionalizzazione del portafoglio prodotti che avevamo avviato. E alla fine del 1980 attaccammo gli Stati Uniti». D. Quando avete visto gli effetti di un cambiamento così radicale? R. «Nel giugno dell’83 la SGS dava profitti ed era la prima azienda europea di semiconduttori ad andare in attivo. Siemens, Philips e Thompson che fino ad allora studiavano come dismettere le attività, capirono che l’industria europea poteva svoltare». 25 26 Il modo vincente di affrontare una crisi è sempre un cambiamento drastico dell’offerta D. Cosa succede al superamento della discontinuità? Come si procede da lì? R. «Nel nostro caso, con un altro cambiamento di grande portata: la fusione con Thompson nel 1987. E di nuovo una grande sfida: partivamo mettendo assieme le perdite dei francesi e i nostri debiti! La Bocconi ci fece oggetto di un case study e previde che saremmo falliti entro due anni. Ma questa è la storia dell’albatros che amo spesso raccontare: è provato scientificamente che l’albatros non può volare, ma lui non lo sa e quindi continua a farlo. Così, ignari della nostra morte annunciata, siamo entrati nell’élite dei primi cinque produttori mondiali… Anche in questo caso all’inizio c’erano azionisti molto perplessi, anche in questo caso la velocità è stata cruciale per il successo. A quattro mesi dalla fusione la società era una: le matrici italiana e francese erano indistinguibili. La ricetta la stessa: la visione, la squadra, la cultura, la road map, l’esecuzione. E per me, in quanto Ceo, il dovere fondamentale di conoscere a fondo l’azienda: nelle prime sei settimane dozzine e dozzine di colloqui con tutti i manager dei primi Responsibility. Da questo punto di vista è sempre stato stimolante il confronto con mio figlio che per età condivideva valori generazionali nuovi rispetto ai miei. E sempre a proposito della dialettica manager-imprenditore, direi che i cinque ruoli del leader sono la bussola. La visione e la cultura sono più pertinenti all’imprenditore che al manager; la costruzione del team è comune; road map ed esecuzione sono più pertinenti al manager. Il leader di successo, quindi, sa essere imprenditore e manager al tempo stesso. Può possedere in misura diversa la capacità di assolvere i cinque compiti, ma non può esserne privo se vuol fare grande la sua azienda. Lo stesso vale per tutti i componenti della squadra che a loro volta ne guidano altre. Credo nel deployment degli obiettivi per ciascuna unità che compone l’organizzazione e nell’autonomia per il raggiungimento degli stessi. Credo nella delega e nell’empowerment dei manager, purché visione e cultura siano sempre assolutamente uguali per tutte queste unità». D. Può essere utile istituire una struttura dedicata al cambiamento? www.globalstrategy.net inventare nuovi prodotti a maggior valore aggiunto che consentano prezzi più elevati. L’innovazione è di due tipi: “disruptive” e graduale, continua: quella che ha origine dal cercare di fare ogni giorno un po’ meglio. Ma l’innovazione disruptive va comunque perseguita. È una direttrice vitale». D. Lei si è occupato molto d’innovazione anche in Confindustria… R. «È stata un’esperienza entusiasmante di servizio al Paese sui temi che mi stanno più a cuore: ricerca e innovazione. Abbiamo avuto l’approvazione in toto del Governo alla piattaforma per la ricerca privata, che avevamo formulato a seguito di un benchmark internazionale. Purtroppo in seguito l’impulso istituzionale è andato affievolendosi. Credo che i quattro pilastri sui quali si fondava andrebbero ripresi in seria considerazione perché l’Italia possa essere dotata di strumenti competitivi. Si trattava del credito d’imposta automatico del 10% sulla ricerca interna; credito d’imposta del 40% sulle commesse di ricerca ai centri pubblici e universitari; agevolazioni fiscali agli start-up innovativi; allo- enormi a quella privata. E c’è l’orientamento esplicito delle istituzioni alla cosiddetta “inclusione” sociale (di etnie, culture, religioni diverse) che è garanzia di pace sociale. Questi, assieme alla sicurezza e alla certezza del diritto, sono gli elementi che rendono un paese attrattivo per gli investimenti. Non a caso Singapore rappresenta oggi il punto d’ingresso ideale per le piccole e medie imprese che vogliano affrontare l’Asia. Per questo considero Singapore come area pivotale del fondo di investimento bilaterale (Italia-Singapore) finalizzato all’accompagnamento di PMI italiane nello sviluppo sui mercati asiatici e per il quale sarà avviato il fund raising nei prossimi mesi». D. Il suo pensiero sulla crisi economica che stiamo attraversando? R. «La mia convinzione è che ogni crisi possa offrire grandi opportunità, e questa non fa eccezione. Un’azienda sana e competitiva, con un management visionario e aggressivo, può cogliere queste grandi opportunità. Vale quello che raccomandavo ai miei colleghi nei momenti difficili per i semiconduttori: 27 Anche i fattori critici di successo subiscono dei mutamenti 12 Il passo più avanti di Mapei Giorgio Squinzi, Presidente del Gruppo Mapei «La logica vi porterà da A a B. L'immaginazione vi porterà dappertutto» Albert Einstein «Nel 1937 mio padre Rodolfo aveva tre collaboratori nella sua sede alle porte di Milano. Oggi siamo un gruppo di 6.100 persone che lavorano in più di sessanta consociate nel mondo. C’è un’unica cosa che non cambia mai ed è la nostra filosofia: essere sempre un passo avanti. L’obiettivo di mio padre, condiviso da me e dai miei familiari oggi, è sempre lo stesso: dare risposte innovative alle esigenze del mercato dell’edilizia. Quindi essere costantemente attenti, saper interpretare queste esigenze sul nascere e fare ricerca sempre». Parola di Giorgio Squinzi, presidente di Mapei, multinazionale italiana leader mondiale nel settore degli adesivi per l’edilizia. Mapei, acronimo di materiali ausiliari per l’edilizia e l’industria, è la maggior azienda chimica italiana, con 1,7 miliardi di euro di fatturato atteso per l’esercizio 2009. In ogni anno della sua storia è sempre cresciuta, riuscendo a produrre risultati migliori anche nel biennio 20082009, afflitto dalla crisi economica mondiale. La sua crescita si deve sia alle acquisizioni sia allo sviluppo interno di nuovi prodotti. In entrambi i casi il driver è l’innovazione. Mapei compra o fa ricerca sempre con lo scopo di offrire prodotti nuovi al mercato che cambia. Tra le acquisizioni, l’ ultima in ordine cronologico è l’americana Apac (All purpose adhesive company), comprata nel maggio 2009, che ha portato a 18 il numero dei siti produttivi Mapei nelle Americhe (11 negli Usa, 4 in Canada, uno in Argentina, uno in Venezuela e uno a Portorico). La crescita interna è resa possibile dall’atti- vità di ben dieci centri ricerca, che impiegano il 12% dei dipendenti. «In famiglia e in azienda il cambiamento lo consideriamo una necessità costante: non si può rimanere ancorati alla tradizione. L’importante è che ogni azione sia coerente alla strategia dell’azienda. Nel nostro caso, la strategia si fonda da sempre su tre pilastri: specializzazione, internazionalizzazione, innovazione. Siamo attivi in diversi business nella chimica per l’edilizia e nel nostro gruppo il cambiamento è basato essenzialmente sull’innovazione. È l’impegno continuo ad anticipare il cambiamento che ci permette di crescere: significa allargare e ridefinire il portafoglio prodotti, ed essere in grado di reagire per tempo ai cambiamenti imposti dal mercato. Ad esempio: i prodotti per la posa delle piastrelle ceramiche rappresentavano circa il 40% del nostro fatturato mondiale. Ma la ceramica sta perdendo popolarità come prodotto per pavimenti e rivestimenti, e quest’anno stiamo assistendo a un calo del 15% nel nostro core business! Se negli ultimi anni non avessimo individuato altre nicchie di prodotto non saremmo certo stati in grado di assorbire un cambiamento di questa entità. L’individuazione dei nuovi prodotti, lo sviluppo di alcuni e una serie di acquisizioni per altri, ci permettono invece di chiudere un anno difficile come il 2009 con un fatturato consolidato in crescita rispetto a quello dell’anno precedente». D. Ci sono dei talenti personali particolari che l’hanno favorita maggiormente rispetto alla capacità di stimolare e www.globalstrategy.net La strategia della maggior multinazionale chimica italiana si fonda su tre pilastri: specializzazione, internazionalizzazione, innovazione. Così, nel giro di una generazione si è trasformata da pmi lombarda a multinazionale leader mondiale nel suo settore agevolare il cambiamento nella sua azienda? R. «Nel nostro caso c’è una passione per la chimica che sembra trasmettersi nel DNA familiare. Prima di assumere la guida del gruppo alla morte di mio padre, ho guidato per tanti anni la ricerca. Oggi il responsabile della ricerca mondiale è mio figlio Marco, laureato in chimica industriale come me. Ci guidano passione e competenze tecniche, ma anche un atteggiamento generale: spesso ripeto che siamo una famiglia con l’ossessione della crescita. Siamo i primi a metterci in gioco, e con noi tutta la nostra struttura». D. Come definite ruoli e responsabilità nel cambiamento tra proprietà e management in Mapei? R. «Il cambiamento è possibile se ci si crede tutti assieme: credo che la chiave del nostro successo sia un management compatto e tutto focalizzato sul tema della crescita. Oltre a me, in prima linea ci sono quattro membri della famiglia. Mio figlio Marco guida la ricerca, mia figlia Veronica la pianificazione strategica e le acquisizioni, mia moglie il marketing operativo e mio genero le attività minerarie del gruppo. Ma siamo cinque su una prima linea di circa centocinquanta persone! Abbiamo scelto di essere italiani in Italia e di avere manager locali alla guida di ogni nostra attività all’estero. Non abbiamo italiani espatriati su base permanente, ma un gruppo di una cinquantina di persone sempre in movimento per “passare” la filosofia dell’azienda nel mondo e controllare che venga applicata. Sono quelli che amo chiamare i nostri “piccioni viaggiatori”: risorse umane di valore nei settori della produzione, della ricerca, dell’assistenza tecnica, del marketing, dell’IT. E in ogni sede del gruppo c’è un sistema di videoconferenza per essere sempre in contatto. Se ci sono valori condivisi è più facile anche reagire. Nel primo trimestre di quest’anno abbiamo affrontato una situazione di mercato dav- 13 14 vero disastrosa: in gennaio eravamo in calo del 32%! C’erano tutti i presupposti per tagliare e lasciare a casa persone, ma non l’abbiamo fatto perché crediamo di avere un capitale umano di grande valore e abbiamo sempre investito molto nella selezione e nella formazione». È l’impegno continuo ad anticipare il cambiamento che ci permette di crescere D. Com’è organizzata nel Gruppo Mapei la struttura dedicata al cambiamento? R. «L’innovazione è per Mapei una politica globale. Investiamo in ricerca e sviluppo il 5% del nostro fatturato e il 12% del nostro personale è impegnato in queste attività nei nostri laboratori nel mondo: circa 280 persone in Italia e più di 500 all’estero. Oltre che in Italia, facciamo ricerca organizzata in Francia, Germania, Norvegia, Canada e Stati Uniti. Stiamo avviando strutture dedicate anche in area Asia-Pacifico. In ogni caso ognuno dei nostri 56 stabilimenti nel mondo è dotato di un laboratorio di controllo qualità». D. Quali sono i filoni di ricerca più importanti? Uno dei centri ricerca Mapei R. «Circa due terzi dei nostri investimenti in ricerca e sviluppo sono destinati a prodotti e sistemi più compatibili con l’uomo e con l’ambiente. I temi principali sono il “Green Building” e il sistema di certificazione LEED (Leadership in Energy and Environmental Design) per la sostenibilità energetica e ambientale nell’edilizia. Oggi offriamo più di 110 prodotti con la certificazione LEED e ne siamo davvero fieri. Negli ultimi anni, l’impegno maggiore per noi è stata l’eliminazione o la riduzione di solventi e sostanze volatili nei nostri prodotti. Non è stato facile, ma abbiamo ottenuto risultati molto gratificanti. Altro tema guida di rilievo per la ricerca è il risparmio energetico: nei nostri processi produttivi, ma soprattutto nei processi che implicano l’impiego dei nostri prodotti. Ad esempio l’isolamento per edifici cosiddetto “a cappotto”: abbiamo sviluppato tecnologie che consentono di controllare termicamente gli ambienti con un consumo di gasolio pari a un quinto o meno di quanto era necessario prima. E c’è ancora molto spazio di miglioramento!». D. Cosa vi differenzia dai concorrenti? Quali vantaggi competitivi ottenete proprio dal cambiamento e dall’innovazione? R. «Premetto che tutta la chimica si è impegnata molto in Italia negli ultimi vent’anni, e in tema di risparmio energetico oggi siamo largamente in anticipo sui parametri del Protocollo di Kyoto. Il tempo è un fattore di successo essenziale. Ad esempio: Mapei è stata la prima a introdurre le colle per moquette senza solventi nel nord America nel ’90-91, allora eravamo al decimo posto tra i competitor e oggi siamo al primo. Ciò che conta è la capacità di intuire che è possibile cambiare se non addirittura rivoluzionare i mercati. Anche attraverso contributi “indiretti”: è quello che abbiamo fatto sviluppando additivi per calcestruzzo che permettono di ridurre l’acqua d’impasto per il cemento e l’emissione di CO2 nel processo. I chimici nei laboratori sono il nostro www.globalstrategy.net “braccio armato”, ma l’input arriva sempre dal mercato. I nostri venditori, le nostre strutture di assistenza tecnica e quelle di promozione raccolgono ogni richiesta che proviene dal mercato. Il sistema di gestione della qualità filtra ed elabora questi input per passarli ai laboratori di ricerca». D. La crisi che stiamo attraversando ha cambiato qualcosa nel suo modo di essere imprenditore? R. «Cambiato no, accelerato senz’altro. Ci ha confermato che il nostro modo di agire è quello giusto: il cambiamento va sempre anticipato». D. Nonostante questo atteggiamento di fondo, ci sono nella storia della Mapei cambiamenti inaspettati o in parte spinti da fatti contingenti? R. «Naturalmente sì. Nel ’76 un nostro cliente italiano, Mondo, ha ottenuto l’appalto per le piste delle Olimpiadi di Montreal e noi gli abbiamo fornito tutti gli adesivi necessari. Sono andato là per l’occasione e mi sono reso conto che in Quebec il mercato dell’edilizia era quasi tutto affidato a maestranze italiane. È stata l’occasione che ci ha spinto a realizzare il nostro primo stabilimento all’estero nel 1978. Una strada che abbiamo poi seguito costantemente: da allora abbiamo costruito o acquisito altri 47 stabilimenti all’estero! Un altro episodio significativo è l’acquisizione di Vinavil da Eni nel 1994. Lì abbiamo visto una duplice opportunità: di integrare la produzione di alcune materie prime per noi molto importanti e di sviluppare nuove tecnologie. Tra l’altro con Vinavil ci rivolgiamo per una larga quota a un mercato per noi non tradizionale: quello della produzione alimentare. Perché è il polimero meno tossico che esista: pochi sanno che il 6% di ogni chewing gum è Vinavil! E a proposito di sviluppo di nuove tecnologie, abbiamo già brevettato per il nostro maggiore cliente, Perfetti, una formulazione che consente di rimuovere il chewing gum dai tessuti». 15 I numeri diI sem.Mapei 2005 1,7 miliardi di Euro di fatturato totale Più di 1.300 prodotti (adesivi, sigillanti, prodotti chimici per edilizia) Più di 18.000 tonnellate di prodotti spedite ogni giorno Fonte: Mapei Lo stabilimento di Robbiano di Mediglia D. Cosa può dirci a proposito di cambiamento in quanto Presidente di Federchimica? R. «Come spesso succede, quelli che sembrano eventi disastrosi possono in realtà stimolare e favorire salti in avanti. La chimica italiana, proprio in seguito alle vicende dei colossi come Eni e Montedison, si è spostata dalla chimica di base e dalla petrolchimica e siamo oggi all’avanguardia in Europa per la chimica fine, delle specialità e delle formulazioni. Un trend che oggi seguono tutti i concorrenti europei, ma che noi italiani siamo stati i primi a segnare». Quelli che sembrano eventi disastrosi possono in realtà stimolare e favorire salti in avanti 16 Dalla tecnologia del freddo all’energia solare Gianluigi Angelantoni, AD di Angelantoni Industrie SpA «Non possiamo pretendere che le cose cambino, se agiamo sempre nella stessa maniera» Albert Einstein Da piccolo produttore umbro di sistemi per la refrigerazione commerciale e industriale a media azienda leader internazionale in applicazioni tecnologiche di frontiera, come i tubi ricevitori per le centrali solari termodinamiche, i simulatori spaziali per satelliti, le camere di test per l’industria auto e i congelatori a bassissima temperatura per il biotech. È Angelantoni Industrie, un’azienda familiare di Massa Martana (Perugia), che fattura 126 milioni di euro, ha unità produttive in Francia, Germania, Cina e India, e si è data una missione ambiziosissima. Ha puntato infatti su un settore talmente innovativo da non avere ancora concorrenti sul mercato globale: il solare termodinamico basato sulla tecnologia a sali fusi inventata da Carlo Rubbia e da ENEA. La sua Archimede Solar Energy ha subito attirato l’attenzione dei tedeschi di Siemens, che sono entrati nell’azionariato con una partecipazione del 28%. Dal nuovo stabilimento, che sarà operativo a fine 2010 usciranno oltre centomila tubi all’anno, pari a oltre 200 MW elettrici. Abbiamo intervistato Gianluigi Angelantoni, Ad del Gruppo Angelantoni, per capire attraverso quali processi di governance e cambiamento un piccolo gruppo familiare è riuscito a coltivare progetti così ambiziosi e a tradurli in realtà. D. Quali sono stati i cambiamenti più significativi nella sua vita d’imprenditore? R. «Lo spartiacque è il 1994 quando l’azienda aveva ancora qualche problema per la crisi del 1992-1993 e, per una triste coincidenza, son venuti a mancare in pochi mesi sia mio padre che mio fratello Oreste. All’epoca eravamo tre fratelli e ognuno guidava un’azienda; tutte facevano capo a una so- cietà finanziaria di famiglia. Il capitale era diviso in parti uguali fra noi tre fratelli e due sorelle. Allora io seguivo la simulazione ambientale, Oreste il bio-medicale e Cesare, il maggiore, la refrigerazione industriale. Nonostante fossi il più giovane, il consiglio di amministrazione a fine ’94 decise di affidare a me la guida del Gruppo». D. Che cosa è successo? R. «La prima decisione che ho preso è stata di separare il consiglio d’amministrazione dal consiglio di famiglia e di indirizzare la società alla massima trasparenza. Così, già dall’anno successivo avevamo i bilanci certificati. L’uscita di familiari “silenti” è stata accompagnata dall’ingresso in Consiglio di amministrazione di tre membri indipendenti sui sette che lo componevano. Al tempo stesso ho voluto eliminare dall’azienda i piccoli privilegi che si erano venuti a consolidare negli anni e tutto ciò non è stato facile sul piano dei rapporti familiari. Ma quando, a partire dall’anno dopo, l’azienda ha cominciato a produrre di nuovo utili e distribuire dividendi, i familiari hanno capito e apprezzato». Valore della produzione www.globalstrategy.net In Umbria c’è una media azienda diventata leader mondiale in applicazioni sulla frontiera tecnologica. Grazie alla capacità di cambiare ed evolversi continuamente, pur restando fedeli ai propri valori D. E negli anni successivi? R. «Da allora il momento in cui più sento la necessità di cambiamento è questo che stiamo vivendo: perché la discontinuità dell’economia impone decisioni rapide e continue come mai in passato». D. Come reagisce? R. «Mi avvalgo molto della collaborazione dei manager e di consulenti esterni ma mi confronto spesso con i miei colleghi imprenditori. Ascolto molto e cerco di stimolare tutti a produrre idee. Ciò mi consente di adottare correzioni di rotta continue». D. Grande flessibilità, dunque… R. «Assolutamente. Credo che i miei fratelli e io abbiamo ereditato da nostro padre un DNA molto ricco quanto a innovazione e ricerca, al quale ho la fortuna di aggiungere proprio la flessibilità che ai tempi di mio padre non era così indispensabile. Ascolto molto perché amo il confronto con le persone di cui mi fido e non ho difficoltà ad adeguarmi a decisioni che spesso devono essere prese rapidamente anche Margine operativo lordo in campi che non rientrano tra le mie competenze. Sono convinto che la voglia di conoscere e la capacità di ascoltare siano presupposti indispensabili per la flessibilità. Ho incontrato spesso persone assolutamente competenti in ambiti specifici, soprattutto tecnici, ma proprio per questo incapaci di allargare la considerazione oltre quell’orizzonte. Io ho fatto studi scientifici ma non così specialistici: so di non poter prendere da solo certe decisioni che richiedono conoscenze scientifiche più vaste. Ma questa è la mia fortuna: la necessità di confronto mi salva dalla rigidità che contraddistingue molti imprenditori. La specializzazione è nemica della flessibilità. In quanto imprenditore prendo decisioni e mi assumo responsabilità, ma questo mio fare un po’ da “gestore di teste” è uno degli aspetti più belli e più ricchi del mio mestiere. Certo, bisogna avere fortuna nell’essere circondati da persone valide. Soprattutto in aziende di medie dimensioni come la nostra, dove i processi di recrutiting non possono essere più di tanto sofisticati». D. Cosa chiede ai suoi manager oltre alle competenze? R. «Condivisione di valori. Penso che nella nostra azienda si percepisca il valore che diamo alla creatività, all’inventiva e alla capacità di prendere decisioni. Credo che chi limita il raggio d’azione di un manager valido fa un investimento sbagliato. Una volta chiare le strategie di gruppo, le persone devono potersi esprimere, devono metterci anche fantasia. Perché i problemi nuovi non possono essere risolti coi metodi vecchi». 17 18 Il valore che diamo alla creatività, all’inventiva e alla capacità di prendere decisioni Stabilimento AMEC Beijing China D. Queste vostre aspettative sono esplicite e formalizzate? R. «Le responsabilità e le deleghe sono messe per iscritto in ogni lettera di assunzione, ma non sono sufficienti. La creatività non può essere specificata in un mansionario! I top manager fanno parte dei cda di Angelantoni Industrie o delle società controllate, e sono comunque invitati ai cda della capogruppo. Poi ci sono riunioni periodiche e molta comunicazione interna, anche con il ricorso alla videoconferenza per essere vicini anche ai manager delle nostre aziende in altre parti d’Italia e del mondo. Devo riconoscere che nell’attrarre talenti siamo molto agevolati dalla visibilità e dalla reputazione di cui godiamo nel nostro territorio pur così decentrato dai grandi poli industriali. Naturalmente poi bisogna essere capaci di tenerli con sé, questi talenti… È importante creare in azienda un tessuto culturale vivo e interessante. Così come è importante che il territorio sia attraente per qualità della vita e dell’ambiente. Per questo cerchiamo sempre di interagire con la comunità della nostra regione, come fanno altre importanti aziende umbre. Ma soprat- tutto chi viene da noi sa che troverà spazio e molta enfasi sulla creatività che saprà mettere nella gestione del business. Da parte mia cerco sempre di trasmettere un sogno, e non solo all’interno. Per fare un esempio: anche le banche devono sentire che in azienda abbiamo un sogno, un progetto!». D. I processi di cambiamento si possono strutturare e codificare in modo sistematico? R. «Per rispondere devo aprire una parentesi e parlare di mio padre, il fondatore di questa azienda. Mio padre è stato un grande innovatore. Negli anni cinquanta e sessanta ha depositato molti brevetti nel campo della refrigerazione. Per esempio, è stato il primo in Europa a scendere sotto i cento gradi centigradi con sistemi meccanici, e sono suoi i primi compressori a doppio stadio. Talvolta capitava persino che questi brevetti non venissero sfruttati adeguatamente, perché lui passava a inventare qualcos’altro. Lo sforzo dei miei fratelli e mio è stato di strutturare il suo modo di procedere, per cercare sempre nuove e più rilevanti applicazioni di tecnologie in cui siamo esperti. Quindi, non solo innovazione di prodotto, ma anche di processo e di business. E quanto più possibile innovazione radicale anziché incrementale. La curiosità, che era il motore di mio padre, è stata alla base della continua ricerca che ci ha guidati dalla tecnologia del freddo alla simulazione ambientale in camere ad alto vuoto, alla deposizione in alto vuoto di materiali con tecnologia a film sottile che trova applicazione nei tubi ricevitori solari a sali fusi. Al tempo stesso, dai primi sistemi di refrigerazione per i camion negli anni cinquanta siamo arrivati a tutte le applicazioni tecnologiche del freddo nel bio-medicale come, ad esempio, banche degli organi per i trapianti e storage di campioni biologici per la ricerca clinica e farmaceutica. E abbiamo sperimentato anche formule di business innovative: l’aggregazione, di cui oggi si parla spesso, noi l’abbiamo attuata già nel 2003 con un concorrente italiano, fondendoci insieme con scambio di azioni». D. Quanto gioca a favore o contro il cambiamento il carattere di azienda familiare? www.globalstrategy.net 19 Tubi ricevitori Archimede Solar Energy R. «Penso che l’impresa di famiglia debba avere all’interno degli ottimi manager e che tra i soci familiari ci debba essere un leader, specie se la famiglia si è allargata come la nostra con la terza generazione. E se il leader può contare su un pacchetto rilevante di azioni è certamente facilitato. È fondamentale far capire alle generazioni successive che i soci familiari non operativi possono tutelare i propri interessi con la presenza nel consiglio di famiglia, e non cercando di intervenire in azienda dove i manager non devono mai sentirsi scavalcati o deresponsabilizzati. Un ambiente più professionale garantisce la continuità dell’azienda familiare a vantaggio di tutta la famiglia. E rende l’azienda più attraente in caso di apertura del capitale a investitori finanziari o di quotazione». D. La crisi attuale è solo un problema o può offrire l’opportunità di importanti cambiamenti? R. «Anzitutto penso cha la parte peggiore di questa crisi, cioè i riflessi sull’occupazione, non l’abbiamo ancora vista, purtroppo. Credo che dovremmo tenere in grande considerazione i cambiamenti negli stili di vita che la crisi richiede e richiederà ancora. Tra questi il risparmio energetico. Io preferisco parlare di efficienza energetica. Perché “risparmio” è un termine triste, che sa di privazione, mentre “efficienza” rimanda a una sfida che raccolgo volentieri: implica curiosità, intelligenza e innovazione per fare di più consumando di meno. Da un certo punto di vista la prospettiva di anni di attesa prima della ripresa può essere vista in positivo come periodo da dedicare alla progettazione di cose nuove, a patto però di non perdere mai di vista i vincoli finanziari. Purtroppo per molte aziende questo oggi non è possibile, e in questo senso è necessario un atteggiamento diverso da parte del sistema bancario: dobbiamo riprendere a rischiare insieme». Cerchiamo sempre nuove e più rilevanti applicazioni di tecnologie in cui siamo esperti EPSILON Onlus è una associazione laica nata nell’ottobre 2004 da un gruppo di amici e presieduta da Claudio Stabon, con l’obiettivo di aiutare i bambini del terzo mondo su temi di sanità, alimentazione ed educazione. Dal 2004 Epsilon ha aiutato 190.000 bambini disagiati in 15 paesi tra Africa e Sud America. Global Strategy ha scelto di aiutare assieme a Epsilon cento bambini della scuola materna di Tchebebe in Togo garantendogli un pasto al giorno per un intero anno scolastico. Sostenete anche voi Epsilon. Per saperne di più: www.epsilon-onlus.org 20122 Milano, Italia Tel. +39 02 784632 Fax +39 02 76013837 [email protected] www.globalstrategy.net Global Strategy è una società italiana di consulenza strategica e finanziaria costituita da professionisti con esperienze solide e complementari. Affianca le imprese nelle fasi di crescita, cambiamento, internazionalizzazione, risoluzione di crisi industriali e finanziarie, operazioni straordinarie e M&A. Caratteristiche distintive sono il pragmatismo delle soluzioni e la partnership con i clienti: capacità di affiancamento nell’implementazione dei progetti e nell’attività di business development.