il ms. laur. plut. xl 53 - Université Paris

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il ms. laur. plut. xl 53 - Université Paris
Camenulae 11, octobre 2014
Fabrizio Crasta
«INTENTIO AUCTORIS» E «CAUSA OPERIS» NELLA CITTÀ DI
VITA DI MATTEO PALMIERI: IL MS. LAUR. PLUT. XL 53
Il ms. XL 53 della Biblioteca Laurenziana di Firenze contiene la Città di vita, un
poema in volgare, l’ultima impresa dell’umanista fiorentino Matteo Palmieri1. Si tratta
di un’imponente opera di 15067 versi, di imitazione dantesca, che racconta un viaggio
oltremondano compiuto dallo stesso autore, nella forma del sogno; nel codice laurenziano
essa è accompagnata da un commento latino, le Expositiones in Civitatem vitae compilate
da uno stretto amico di Matteo Palmieri, Leonardo Dati2.
La compresenza dei due testi, che si presenta solo in questo codice3, rappresenta
un’operazione culturale di estremo interesse e per certi versi inedita, dove l’opera
1. Matteo Palmieri (1406-1475), umanista, uomo politico vicino a Lorenzo, è scrittore di una serie di opere
storiografiche e di un trattato morale, la Vita civile, che spicca nel panorama della sua produzione per qualità
e fortuna. Un recente volume di Alessandra Mita Ferraro (Matteo Palmieri. Una biografia intellettuale,
Genova, Name, 2005) costituisce il più aggiornato studio su questo autore; rimarchevole anche un lavoro
precedente di Claudio Finzi (Matteo Palmieri dalla ‘‘Vita civile’’ alla ‘‘Città di vita’’, Milano, Giuffré,
1984), mentre più datato ma ancora utile è quello di Antonio Messeri (Matteo Palmieri cittadino di Firenze
del secolo XV, Firenze, Cellini, 1894). Per una bibliografia più completa rimando al volume della Mita
Ferraro, che ha anche curato le uniche edizioni moderne di alcune delle opere di Palmieri (La presa di Pisa,
Bologna, Il Mulino, 1995; La Vita di Niccolò Acciaioli, Bologna, Il Mulino, 2001). Anche la Vita civile,
l’opera più nota dell’umanista, si legge in un’edizione moderna, curata da Gino Belloni (Firenze, Sansoni,
1982). Sulla fortuna dell’autore e della sua opera principale in Francia, si legga N. Bianchi Bensimon,
«Note sulla traduzione francese della ‘‘Vita Civile’’ di Matteo Palmieri», Interpres, XXI (2002), pp. 123-53.
2. Leonardo Dati (1408-1472), anch’egli fiorentino, fu un personaggio di spicco della vita intellettuale
del suo tempo, vicino a Palmieri come a Leon Battista Alberti (che gli dedicò il De cifris e lo coinvolse nel
Certame coronario del 1441); umanista e poeta latino, intraprese la carriera ecclesiastica sino a ricoprire
la carica di segretario particolare di Paolo II, che lo nominò vescovo di Massa nel 1467. Per un quadro
biografico del Dati occorre ricorrere al datato studio di Francesco Flamini («Leonardo di Piero Dati poeta
latino del XV secolo», Giornale storico della letteratura italiana, XIV (1890), pp. 1–107) oltreché alla nota
compilata da Renzo Ristori per il Dizionario Biografico degli Italiani («Dati Leonardo», in vol. XXXIII,
Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1987, pp. 44-52). Oltre alla «scena» volgare scritta per il Certame
del 1441 (che si legge in L. Bertolini, De vera amicitia. I testi del primo certame coronario, Modena, Panini,
1993), alcuni suoi carmi latini sono stati pubblicati da Aldo Onorato («Tre carmi alfonsini di Leonardo
Dati», Studi umanistici, IV-V, 1993-94, pp. 269-98); Onorato è anche uno degli editori dell’unica tragedia
datiana, lo Hyemsal (Hyempsal, a cura di A. Onorato, Centro interdipartimentale di studi umanistici,
Messina, 2000), già editato anche da J.R. Berrigan (Hiensal tragoedia. A critical edition with translation,
in Humanistica Lovaniensia, XXV, 1976, pp. 85-145) e successivamente da J.-F. Chevalier (Trois tragédies
latines humanistes: ‘‘Achilles’’ d’Antonio Loschi, ‘‘Progne’’ de Gregorio Correr et ‘‘Hiensal’’ de Leonardo
Dati, Paris, Les Belles Lettres, 2010). Di recente Thomas Lindner ha curato l’edizione critica del poemetto
latino Trophaeum anglaricum (Wien, Praesens, 2011).
3. Per una descrizione del ms. Plut. XL 53, interamente consultabile online nella teca digitale della
biblioteca, si veda F. Gurrieri (a cura di), Disegni nei manoscritti laurenziani: sec. 10.-17., Firenze,
L.S. Olschki, 1979, scheda n. 141; I.G. Rao, Matteo Palmieri ‘‘Città di vita’’, in I luoghi della memoria
scritta. I libri del silenzio. I libri del decoro. I libri della porpora, a cura di G. Cavallo, Roma, Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato, 1994, p. 181. Si tratta del più autorevole dei codici che tramandano il
poema, da riconoscere in quello che, secondo la testimonianza di Alamanno Rinuccini, fu posato sul corpo
dell’autore nel corso delle sue esequie, avvenute il 15 aprile 1475 (cfr. A. Rinuccini, In funere M. Palmieri
oratio, in Lettere e orazioni, a cura di V.R. Giustiniani, Firenze, 1953, pp. 78-85). Esiste un altro codice,
interamente descritto dal Laurenziano, che tramanda insieme poema e commento: si tratta del ms. Ham. 476
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in volgare di un autore vivente viene commentata in latino, su precisa richiesta dello
stesso, per venire incontro alla necessità di renderla fruibile e comprensibile, oltreché
per una specifica esigenza di giustificarla nei suoi aspetti più controversi. Il commento di
Leonardo Dati fu espressamente richiesto e in qualche misura concordato con l’amico,
come testimonia uno scambio epistolare tra i due4, ed è fondamentale per comprendere
un poema ricchissimo ma molto articolato e complesso come la Città di vita. Questo
principio metodologico, l’esigenza ovvero di valutare insieme testo e commento, di non
poter prescindere dal secondo per spiegare il primo (se non addirittura per leggerlo) non
è sempre stata tenuto in debita considerazione dai pochi studiosi che si sono accostati a
questo poema5, ed è invece a mio parere essenziale per avvicinare l’opera; quando si badi
soltanto al problema che si pone al centro di questa comunicazione, cioè a dire che cosa
sia e dove vada ricercato il senso di un’opera letteraria, la necessità di leggere insieme
testo e commento è affatto confermata.
Dividerò in tre parti il mio discorso: in un breve prologo porterò all’attenzione alcune
osservazioni sul particolare tipo di genere letterario al quale appartiene la Città di vita,
la letteratura dei viaggi e delle visioni nell’aldilà, sempre in riferimento alla questione
del senso di un’opera e delle intenzioni del suo autore. Nella parte centrale analizzerò
alcuni passi del testo, o, meglio, del paratesto; mi riferisco al commento del Dati, e,
ancor più, alla sua ‘prefazione’ al poema, posta in capo al manoscritto secondo il noto
della Deutsche Staatsbibliothek di Berlino. Altri due codici contengono una selezione di passi, del poema
e del commento, copiati dal ms. Laurenziano: sono il ms. App. 211 = Gamma S 5 28 del Fondo Campori
della Biblioteca Estense di Modena e il ms. Ricc. 2123 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, copiato da
Giovanni Nesi. Gli altri codici che tramandano il poema senza il commento sono il ms. Magl. II.II.41 della
Biblioteca Nazionale di Firenze (con correzioni autografe dell’autore), il ms. F. 139 sup. della Biblioteca
Ambrosiana di Milano, il ms. Barb. Lat. 4109 della Biblioteca Apostolica Vaticana e il ms. Ricc. 1161 della
Biblioteca Riccardiana di Firenze. Il manoscritto modense è stato editato da Alessandra Mita Ferraro in un
recentissimo studio («Senza aver penne non si può volare». Un ‘sommario’ della Città di vita di Matteo
Palmieri, Firenze, Le Lettere, 2012).
4. Uno scambio epistolare di quattro lettere ci testimonia questo passaggio. Le quattro epistole, che
coprono l’arco temporale dal 21 agosto 1464 al 4 aprile 1466, non sono tramandate da un unico codice, ma
si trovano in due dei codici che trasmettono il poema, il ms. Plut. XL 53 della Biblioteca Laurenziana (c. 6r;
le prime due epistole) e il ms. F. 139 sup. della Biblioteca Ambrosiana (c. 4rv; le ultime due).
5. Il motivo principale della poca attenzione degli studiosi a questo fondamentale aspetto è da individuare
a mio avviso nel fatto che manca un’edizione critica soddisfacente del poema, mentre il commento è del
tutto inedito. Al momento, la Città di vita si legge in un’edizione semidiplomatica approntata da Margaret
Rooke (Libro del Poema chiamato Città di Vita composto da Matteo Palmieri: transcribed from the
Laurentian MS XL 53 and compared with Magliabechian II II 41, Northampton - Paris, Departments of
Modern Languages of Smith College, 1926-1927), che presenta molti errori di trascrizione e non facilita la
comprensione del testo; risulta a maggior ragione preferibile quindi rifarsi direttamente alla lettura diretta
del codice, disponibile nella teca digitale della biblioteca. Il commento di Leonardo Dati è invece del
tutto inedito. Attualmente sto lavorando all'allestimento dell’edizione critica del poema e del commento,
già oggetto della mia Tesi di Dottorato in “Civiltà dell'Umanesimo e del Rinascimento”, discussa nel
maggio 2014 presso l’Università di Firenze (relatore: prof. R. Cardini).
Tra gli studi specifici studi sul poema, si ricordino almeno E. Frizzi, «La città di vita. Poema inedito
di Matteo Palmieri», Il propugnatore XI, 1878, pp. 140-167; G. Boffito, «L’eresia di Matteo Palmieri
‘‘cittadin fiorentino’’», Giornale storico della letteratura italiana XXXVII, 1901, pp. 1-69; R.J. Palermino,
«Palmieri’s Città di vita: more evidence of Renaissance Platonism», Bibliothèque d’Humanisme et
Renaissance, 44, 1982, pp. 601-604; M. Martelli, «Palmeriana», Interpres V, 1983-1984, pp. 277-301. Lo
studio recente più specifico è il capitolo dedicato al poema da Alessandra Mita Ferraro («Palmieri poeta
teologo») in Id., Matteo Palmieri, pp. 353-478. Su questioni legate al rapporto con le arti figurative e in
particolare con Michelangelo si è concentrato lo studio di B. Cumbo, La Città di vita di Matteo Palmieri.
Ipotesi su una fonte quattrocentesca per gli affreschi di Michelangelo nella Volta Sistina, Palermo, Due
punti, 2006.
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schema dell’accessus ad auctorem; vedremo come soprattutto sulla soglia e ai margini del
poema sia possibile trovare più facilmente e compiutamente le risposte che cerchiamo.
A tal proposito, in conclusione, porterò alcune riflessioni sull’operazione editoriale
rappresentata dal codice laurenziano, e, più in generale, sull’utilità degli elementi
paratestuali per la comprensione del senso di quest’opera.
La letteratura di viaggi e visioni nell’aldilà: due elementi strutturali
La Città di vita appartiene ad un singolare genere letterario, quello della letteratura dei
viaggi e visioni nell’aldilà, che comprende opere di argomento oltremondano contenenti
visioni e rivelazioni vissute in genere da un protagonista dotato di ispirazione divina o
per vari motivi condotto a vivere un’esperienza visionaria. Un ‘‘viaggiatore’’ d’eccezione
tra questi è certamente San Paolo, che in qualche modo inaugura (malgré soi) il genere,
per mezzo della celebre dichiarazione contenuta nella seconda Epistola ai Corinzi, dove
fa menzione di essere asceso al terzo cielo e di aver inteso rivelazioni che non è possibile
per l’uomo riferire6. Le numerose versioni della Visio Pauli diffuse in tutta Europa a
partire dal III secolo testimoniano l’influenza della presunta esperienza paolina su autori
cristiani, ispirati anche da altri autorevoli testi di questo genere (si pensi ai Dialoghi di
Gregorio Magno) così come, pur su un diverso piano, dai ben noti racconti pagani di
viaggi nell’aldilà, e in particolare dal sesto dell’Eneide. Il genere, inutile ribadirlo, troverà
la sua consacrazione proprio in Italia con l’incredibile impresa della Commedia dantesca,
che si pone presto (e ben oltre i precedenti tentativi nei volgari italiani, di Bonvesin da
la Riva e Giacomino da Verona) come vertice pressoché irraggiungibile e inimitabile
modello per i posteri.
Tra i vari studi dedicati a queste opere e a questo genere letterario7, alcuni hanno posto
più propriamente l’attenzione sugli elementi strutturali che lo caratterizzano8, e in questa
medesima direzione vorrei qua sottoporre alcune minime osservazioni che possano poi
condurmi a mostrare il riuso di quelle stesse strutture nella Città di vita del Palmieri.
6. II Cor. 12, 2-4: «Scio hominem in Christo ante annos quatuordecim, sive in corpore nescio, sive extra
corpus nescio, Deus scit, raptum huiusmodi usque ad tertium caelum. Et scio huiusmodi hominem sive in
corpore, sive extra corpus nescio, Deus scit: quomiam raptus est in paradisum; audivit arcana verba quae
non licet homini loqui».
7. Tra i molti studi dedicati al genere si vedano almeno J. Amat, Songes et visions. L’au-delà dans la
littérature latine tardive, Paris, Études Augustiniennes, 1985; M.P. Ciccarese, Visioni dell’aldilà in
occidente: fonti, modelli e testi, Firenze, Nardini, 1987; C. Kappler, L’Apocalypse latine de Paul, in Id. (a
cura di), Apocalypses et voyages dans l’au-delà, Paris, Éditions du Cerf, 1987, pp. 237-266; M.P. Ciccarese,
«Le visioni dell’aldilà come genere letterario: fonti antiche e sviluppi medievali», Schede Medievali, XIX,
1990, pp. 266-277; E. Gardiner, Medieval visions of Heaven and Hell. A sourcebook, New York-London,
Garland, 1993; C. Carozzi, Le voyage de l’âme dans l’au-delà. D’après la littérature latine (ve-xiiie siècle),
Roma, ÉFR, 1994. Con particolare riguardo all’opera di Dante: A. Morgan, Dante and the medieval other
world, Cambridge, Cambridge UP, 1990; G. Tardiola (a cura di), I viaggiatori del Paradiso. Mistici,
visionari, sognatori alla ricerca dell’Aldilà prima di Dante, Firenze, Le Lettere, 1993; H. Legros, Les récits
de voyage dans l’au-delà avant Dante, in H. Lévillain (a cura di), Dante et ses lecteurs: du Moyen Âge au
xxe siecle, Poitiers, Maison des sciences de l’homme et de la société, 2001, pp. 11-21; T. Barolini, Why did
Dante write the «Commedia»? Dante and the visionary tradition, in Id., Dante and the origins of Italian
literary culture, New York, Fordham UP, 2006, pp. 126-131.
8. Voglio qua ricordare almeno gli studi di C. Segre, Viaggi e visioni d’oltremondo sino alla «Commedia»
di Dante, in Id. Fuori del mondo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 25-48; e G. Ledda, «Dante e la tradizione delle
visioni medievali», Letture classensi, XXXVII («Le tre Corone»), 2008, pp. 119-142.
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Pare utile osservare anzitutto come le opere appartenenti a questo genere sembrino
più di altre adatte a veicolare una chiara e diretta intenzione dell’autore, che si fa in
genere latore di un messaggio, appreso durante l’esperienza oltremondana, salvifico per
l’umanità o la parte di umanità al quale è rivolto. La rivelazione della sorte oltremondana
delle anime e del legame causale tra il loro stato post mortem e la loro esistenza terrena
costituisce un elementare contenuto edificante che deve portare nelle intenzioni dell’autore
a un ravvedimento morale dei lettori, inebriati dalle possibili delizie paradisiache o, a
maggior ragione, atterriti dalla sorte di chi ha meritato le pene dell’inferno. Questo fine
didascalico non è sempre reso esplicito nel testo con una dichiarazione programmatica, per
così dire, essendo il messaggio sostanzialmente implicito (specie per un lettore devoto),
ma in alcuni casi – e tra questi, vedremo, anche il nostro – l’intenzione dell’autore è
chiaramente espressa.
Un altro elemento tipico di questo genere, sul piano più propriamente narrativo, è
che il protagonista della visione è esplicitamente indotto, quando non costretto, a riferire
il contenuto della sua esperienza nell’aldilà. Ciò dipende dal fatto che le rivelazioni
presenti nel testo si pretendono vere e riguardano temi escatologici; è necessario quindi
comunicare al lettore l’autorità che le riferisce, e l’autorità spesso coincide in tutto o in
parte con la divinità stessa. Per questo i narratori si servono volentieri, per lo più all’inizio
della loro diegesi, del modello dell’investitura profetica, così diffuso in tanti libri profetici
dell’Antico Testamento, e presente più volte, e già nella primissima scena, nel racconto
giovanneo dell’Apocalisse: «Et audivi post me vocem magnam tanquam tubae, dicentis:
‘‘Quod vides scribe in libro’’» (Apoc. 1, 11).
La ‘prefazione’ di Leonardo Dati e l’intentio auctoris
Anche la Città di vita presenta questi due elementi; come anticipato, essi possono
essere rintracciati nelle parti scritte da Leonardo Dati più che nel poema stesso. Veniamo
dunque, date queste premesse, alla parte centrale del nostro discorso, andando ad
interrogare il testo della prefazione al poema di Leonardo Dati. Così il commentatore
enuncia la motivazione dell’autore:
Intentio scribentis est ostendere omnibus hominibus innatam esse libertatem arbitrii, qua
duce ire possunt per viam sinistram in perditionem et per dextram ad salutem aeternam; et
tandem inducere omnes per illam viam quae facit homines esse beatos. (c. 7v)
La formulazione di Dati è estremamente chiara e sembra già costituire una prima
risposta alla nostra domanda sul senso dell’opera e l’intenzione dell’autore, che pare
dunque voler mostrare come sia innata nell’uomo la facoltà del libero arbitrio, e come
sia quindi sua propria la responsabilità della scelta tra il bene e il male. Si notino due
elementi: il carattere universale dell’opera, rivolta a tutta l’umanità indistintamente
(«omnibus hominibus»; proposito autoriale molto ambizioso, ma tipico appunto delle
opere di questo genere) e il riferimento così netto ed esclusivo al tema del libero arbitrio,
che si potrà meglio comprendere quando, a breve, diremo di una particolare dottrina che
caratterizza questo poema.
Non si tratta naturalmente dell’unico accenno al libero arbitrio, che anzi percorre come
un leitmotiv tutta l’opera, e in particolare il primo dei tre libri, nel quale viene raccontata
l’incarnazione dell’anima umana, che scende dai campi Elisi sino alla terra attraverso
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i pianeti ricevendo da ciascuna sfera le inflessioni corrispondenti, che influenzano (ma
non determinano) il suo agire terreno. Nel commento all’opera, Leonardo Dati è sempre
molto attento a segnalare e mettere in rilievo i momenti in cui Palmieri tocca o anche solo
lambisce il tema del libero arbitrio.
Vediamo qualche esempio. Nel terzo capitolo del primo libro, dedicato alla descrizione
di Dio e delle sue facoltà, Palmieri sta esponendo il tema della caduta dell’uomo dallo
stato di purezza originaria:
In paradiso Adam fu fatto tale,
era di stato sì netto et purgato
lecito gli era star fermo et leale;
ma l’appetito59 a l’huom nel senso nato
tanto s’oppone al celestial precepto
macula el vero lume gli fu dato.
Città di Vita I.3.106-111
Nel commentare il v. 109 Dati ribadisce la realtà del libero arbitrio, e quindi della
cattiva scelta di Adamo, infiorendo la sua nota con due citazioni, entrambe non dichiarate,
una da Macrobio, e una dal Vangelo di Luca:
59. Ostendit in omni statu humano inesse libertatem arbitrii datam, ut nemo salvetur nisi
volens. Et ideo, licet virtutes animi purghati sint ab omni huius mundi aspergine purae et
tersae9, tamen, dum vivit homo, mutari possunt et in malum decidere, et ideo praeceptum
fuit Yhesu Christi ad discipulos: «Neminem per viam salutaveritis»10 (c. 25 r).
La salvezza, ribadisce Dati, può essere assicurata all’uomo solo dalla sua volontà, ed
egli deve, lungo e sino al termine del percorso della sua vita, astenersi da ogni tentazione
di peccato, come insegna Cristo.
In altri punti il nostro commentatore torna sul tema del libero arbitrio e sullo scopo
generale dell’opera, specie quando, all’inizio di un nuovo capitolo, desidera, riprendendo
il filo della sua esposizione, effettuare un riepilogo di quanto enunciato sino a quel
momento. Così, in apertura del terzo libro, scrive:
Cum presentis poematis universalis sit finis mostrare animas e caelo descendere et per virtutes in caelum salvas redire, et iam in primo libro earum descensionem pene depinxerit, et
in secundo fecerit illas sinistram vitiorum perquirere viam, saequitur in viam salutis redire,
et per virtutes in caelum ascendere (c. 213v).
9. Adattato da Macr., Somn. I.8.9: «Tertiae sunt purgati iam defaecatique animi et ab omni mundi huius
aspergine presse pureque detersi».
10. Lc. 10, 4. Le citazioni sono entrambe non dichiarate ma naturalmente ben diverso è il peso della
reticenza considerato il differente statuto dei due testi e il fatto che il passo evangelico poteva essere
facilmente noto al lettore della Città di vita (e delle Expositiones). Si tratta peraltro di un caso piuttosto raro,
quello dell’omissione della fonte, in un commentatore come Leonardo Dati sempre attento e scrupoloso nel
riferire l’origine dei testi citati. Non v’è modo in questa sede di dilungarsi, ma tutto lo statuto del commento
e il meccanismo di individuazione e di proposta delle fonti meriterebbe un’indagine a parte, tanta è la
varietà e la ricchezza dei casi.
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Il passo, oltre a sintetizzare con efficacia il contenuto dei tre libri di cui si compone
il poema, aggiunge un dato fondamentale che rimaneva soltanto implicito nella
formulazione proemiale e nel poema stesso: la salvezza e il bene si ottengono per virtutes.
Non è presente invece il tema della beatitudine delle anime, che torna però, in maniera
ancora più esplicita di quanto non lo fosse nel proemio, nella prima nota del Dati al
sesto capitolo del terzo libro, mostrando ancora l’intenzione da parte del commentatore
di ribadire di tanto in tanto, in mezzo a una tale vastità di argomentazioni e non appena ne
abbia l’occasione, i principi fondamentali dell’opera che sta illustrando:
Presentis poematis principalis intentio est animas beatas efficere, quae beatitudo est finis
quem per se ipsum expetimus (c. 226v).
Mi sia concessa qua una breve parentesi; è impossibile infatti non rilevare in questa
formula, che riecheggia il passo prefatorio dell’accessus analizzato precedentemente11,
una stretta somiglianza con l’analogo passo dell’Epistola a Cangrande attribuita a Dante,
laddove, sempre nel contesto di un (auto) accessus ad auctorem, l’Alighieri descriveva il
soggetto e il fine della sua opera:
Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per
arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est. [...]
Finis totius et partis esse posset et multiplex, scilicet propinquus et remotus; sed, omissa
subtili investigatione, dicendum est breviter quod finis totius et partis est removere viventes
in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis (Ep. XIII 25, 39).
Si noti l’assonanza con l’accessus palmieriano, sia per quanto riguarda il tema del
libero arbitrio e quindi della responsabilità di ciascuna anima nella sua salvezza, sia per
quanto riguarda il fine dell’opera, col riferimento alla volontà di procurare con essa la
beatitudine dei viventi che la leggeranno e la faranno propria.
L’accostamento a Dante è d’altronde obbligato per un’opera come la Città di vita
che della Commedia ricalca perfettamente la struttura (essendo organizzata in tre libri e
cento capitoli)12, il metro e appunto l’argomento principale e lo scopo. Se non per diretto
tramite dell’epistola dantesca, questa interpretazione della Commedia poteva facilmente
essere giunta al nostro autore (o meglio alla nostra coppia di autori), dal momento che
un medesimo schema introduttivo alla Commedia era invalso tra i primi commentatori,
11. «Intentio scribentis est ostendere omnibus hominibus innatam esse libertatem arbitrii, qua duce ire
possunt per viam sinistram in perditionem et per dextram ad salutem aeternam; et tandem inducere omnes
per illam viam quae facit homines esse beatos» (c. 7v).
12. Non esiste uno studio specifico sui rapporti tra Dante e Palmieri, e pochi accenni al tema si trovano nei
principali studi sulla Città di vita. Al Palmieri sono dedicate alcune importanti pagine del recente volume di
Simon Gilson (Dante and Renaissance Florence, Cambridge, Cambridge UP, 2005, pp. 104-112, 147-150)
che traccia un quadro della fortuna di Dante nel Quattrocento e contiene un quadro bibliografico aggiornato.
Ad argomenti specifici che riguardano i due autori sono dedicate due tesi di dottorato, una sul tema degli
angeli neutrali (J. Freccero, The Neutral Angels from Dante to Matteo Palmieri, Doctoral Dissertation,
Johns Hopkins University, Baltimore, 1958), l’altra su una presunta presenza di teorie origeniane nei due
autori (A. Soro, La Divina Commedia e l’apocatastasi di Origene, Università di Sassari, Dottorato di
Ricerca in Scienze dei Sistemi culturali, a.a. 2008-2009).
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come si può osservare in Jacopo della Lana13, Guido da Pisa14, e soprattutto Giovanni
Boccaccio, che con espressione del tutto simile scrive:
È adunque il suggetto, secondo il senso litterale, lo stato dell’anime dopo la morte de’ corpi
semplicemente preso, per ciò che di quello, e intorno a quello, tutto il processo della presente
opera intende; il suggetto secondo il senso allegorico è: come l’uomo, per lo libero arbitrio
meritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire obligato. [...]
La causa finale della presente opera è: rimuovere quegli, che nella presente vita vivono,
dallo stato della miseria allo stato della felicità15.
Come per Dante dunque, anche per Palmieri l’argomento centrale del poema e la
causa primigenia della sua scrittura è l’affermazione della realtà del libero arbitrio e della
responsabilità dell’uomo per la sua salvezza. Nel nostro autore, questa attenzione così
marcata al problema si può spiegare alla luce di una singolare teoria esposta nel poema,
quella sull’origine dell’anima umana, che viene presentata per la prima volta non nel
poema, ma, ancora, nell’introduzione compilata dal Dati, all’interno del lungo capitolo
dedicato alla causa operis, che segue direttamente, secondo manuale, il passo sopra
analizzato sulla intentio auctoris.
Le cose si fanno qua più complesse e affascinanti. Dati dice di riferire un racconto
dello stesso Palmieri («scribendi causam operis auctor talem mihi fuisse narravit»), al
quale, durante le festività per Santa Brigida, nel 1451, poco fuori Firenze, nella località
nota come “Paradisus”, sarebbe apparso in visione Cipriano Rucellai, già compagno di
studi dei due amici e scomparso in giovane età, che gli avrebbe riferito alcune rivelazioni
apprese dopo la morte, in particolare riguardo alla natura dell’anima umana. Ecco il passo
più importante del racconto:
Adverte igitur quod in creationis principio creavit Deus innumeros angelos, qui statim divisi
sunt: in ea divisione, pars eorum Luciferum sedem in aquilone ponere volentem sequuti
sunt, pars vero con Michaele adheserunt Deo, tertia pars vero per se steterunt medii, nec
Deum nec Luciferum imitantes. Deo victore, Lucifer cum suis expulsi sunt in infernum,
Michael cum suis in caelo remansere, deo ministrantes. Qui per se medii steterunt reservati
sunt in Elyseis, donec ex his infunduntur animae humanis corporibus ad probandum iterum
eas quid in sui arbitrii libertate eligant. (c. 7v)
13. Jacopo della Lana, Nota introduttiva all’Inferno: «Un altro modo può esser considerando la
materia overo subietto d’essa: cioè lo uomo lo quale per lo libero arbitrio può meritare overo peccare;
per lo quale merito overo colpa ello li è attribuito gloria overo punito all’altro mondo. [...] La quarta e
ultima cosa che è da notare è la finale cagione della ditta Comedia, cioè a che fine e intenzione ella fue
fatta, la quale si può considerare in tre modi. Lo primo per manifestare polita parladura. Secondo per
narrare molte novelle le quali tornano molto a destro ad udire per esemplo alcuna fiata. Terzo e ultimo
per rimuovere le persone che sono al mondo dal vivere misero e in peccato e produrli al virtuoso e
grazioso stato».
14. Guido da Pisa, Nota introduttiva all’Inferno: «Si vero subiectum accipiatur allegorice, dico quod
subiectum sive materia est ipse homo prout merendo vel demerendo per arbitrii libertatem, iustitie
premiandi et puniendi obnoxius est, propter quod meritum sive culpam tribuitur ipsi homini gloria sive
pena. [...] Est autem principalis eius intentio removere viventes a statu miserie, relinquendo peccata, et sic
composuit Infernum; reducere ad virtutes, et sic composuit Purgatorium; ut sic eos perducat ad gloriam,
et sic composuit Paradisum».
15. G. Boccaccio, Nota introduttiva all’Inferno. Il passo di Boccaccio, come quelli degli altri commentatori
danteschi, è citato dal testo disponibile online nel database del Dartmouth Dante Project (http://dante.
dartmouth.edu).
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Secondo questo racconto gli uomini sarebbero dunque l’incarnazione degli angeli
neutrali, i quali, non avendo preso alcuna posizione nel confronto tra Dio e Lucifero,
sarebbero ora sottoposti a una seconda prova, dalla quale non potranno esimersi: la scelta
tra il bene e il male. La tesi è esposta in dettaglio nel quinto canto del primo libro, e
ulteriori precisazioni sono fornite in un capitolo successivo, il decimo, quando Matteo
interroga Sibilla sul carattere nuovo e apparentemente eterodosso di questa teoria, che
viene giustificata dalla sua guida con un ragionamento che chiamando in causa le autorità
del Deuteronomio, dell’Apocalisse, di Agostino e di Gregorio Magno giunge a una vera e
propria prova matematica dell’esistenza degli angeli neutrali16.
L’investitura profetica di Cipriano Rucellai
Ma il carattere universale dell’opera e questa pericolosa teoria sull’origine delle anime
avevano necessità di una legittimazione per poter essere pronunciate liberamente ed
espresse lungo tutto il poema. Leonardo Dati si affida qua ad un vero e proprio tópos
di questo genere letterario, a cui abbiamo già fatto riferimento, l’investitura profetica: il
protagonista della visione viene incaricato da un altro personaggio (di norma, la guida
che lo accompagna) della missione di riferire quel che ha appreso durante l’esperienza
ultraterrena, a tutto vantaggio degli uomini che vorranno ascoltarlo. Sinora abbiamo infatti
potuto osservare come la dottrina degli angeli neutrali sia rivelata a Matteo in sogno da
Cipriano Rucellai. Ma per giungere al momento dell’investitura profetica è necessario
conoscere altri elementi di questo sogno e opportuno tornare quindi al racconto; ascoltate
le riflessioni di Cipriano sulla miseria della condizione umana, Matteo si commuove e si
risveglia improvvisamente, interrompendo la visione, ma annotando ciò che gli è capitato:
Haec verba Mattheo auctori vim lachrimarum promoverunt, quibus experrectus, Cyprianus refulgens evanuit. Singultus vero et lachrimae per longum spatium Mattheum invitum
continuere. Postea vero exurgens haec quae viderat fideliter annotavit. (c. 8r)
Egli tuttavia non rivela a nessuno (e tantomeno scrive) il contenuto di quella visione,
così che, quattro anni più tardi, nel 1455, Cipriano Rucellai gli appare una seconda volta,
invitandolo esplicitamente a riferire il contenuto della sua visione:
Anno deinde salutis Mcccclv, cum ad Alfonsum regem orator Neapoli esset, et quae antea
dicta sunt oblivioni pene tradidisset, accidit ut circa auroram paschatis spiritus sancti
idem Cyprianus dormiente illo iterum per visum adesset, et pigritiam redarguens dixit:
«Nihil secuti de his quae dixi tibi: scias quia nec a me veni nec a me venio, sed angeli
Dei ut venirem monuerunt. Surge et spera te bene facturum: conatus bonos adiuvat ipse
Deus. Vide animas illas quas dixi esse in Elyseis quemadmodum per planetas descendunt
in corpora et in unoquoque planeta capiunt impressiones animales iuxta planetae naturam,
deinde ad elementa venientes formant corpora cum elementorum qualitatibus; dum in
corpore vivunt ducunt ab angelis, bono scilicet aut malo, ut alias tibi praedixi. Per hanc
peregrinationem si eam perficit anima, quadraginta conficit mansiones, de quibus scriptum
est: ‘‘Quam amabilia sunt tabernacula tua domine’’!». Cum hoc ille dixisset: «Gaudeo
16. Cfr. Città di vita I.5.100-105; I.5.130-141; I.10.49-78. Mi permetto di segnalare un mio intervento
specifico sulla questione: F. Crasta, Gli angeli neutrali da Dante a Matteo Palmieri, in Alma Dante 2013, a
cura di G. Ledda e F. Zanini, Bologna, Aspasia, di prossima pubblicazione.
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– Mattheus dixit – haec cognovisse et tibi habeo gratias, sed quid vis faciam?». «Canas
haec – inquit – ternario versu, ut Dantes fecit». «Non valerem – respondit – nec unquam
tales versus composui». «Incipe – inquit – bene vertet Deus» (c. 8r).
La scena ci pare molto importante poiché vengono aggiunti alcuni fondamentali
elementi, e uno in particolare: Cipriano Rucellai comunica a Matteo che queste rivelazioni
non provengono da lui ma da un angelo di Dio, e che Dio stesso contribuirà alla sua
opera se egli avrà il coraggio di intraprenderla («‘‘Nihil secuti de his quae dixi tibi: scias
quia nec a me veni nec a me venio, sed angeli Dei ut venirem monuerunt. Surge et spera te
bene facturum: conatus bonos adiuvat ipse Deus’’. [...] ‘‘Incipe – inquit – bene vertet Deus’’»).
Molto significativo è inoltre il fatto che per ottenere il suo scopo Cipriano sia costretto
ad apparire una seconda volta a Matteo, richiamandolo per non aver obbedito al suo
precedente ordine. Già alcune visioni medievali presentano questa variante al racconto
dell’investitura profetica, con la presenza di una doppia apparizione, o di un doppio
richiamo, e una, in particolare, offre una scena molto simile. Si tratta della Visio Wettini,
scritta nel IX secolo in due versioni, una in prosa e una in poesia di Valafrido Strabone.
Da quest’ultima versione riporto la seguente citazione:
Tunc Wettinus ait: «Domine, haec proferre pauesco,
Vilis enim persona mihi est, nec congruit isti
Indicio, quod ad humanas transmittitur aures».
Angelus e contra, magnam promotus in iram,
Incusat: «Quod summa dei sententia iussit
Non audes proferre pigro torpore retentus?». (vv. 672-677, ed. F. Stella)
Pur se pare abbastanza improbabile, data la non capillare diffusione di questo testo17,
che Dati conoscesse questa scena così simile a quella che riproduce nel suo accessus,
la coincidenza dimostra almeno la presenza di una casistica simile in opere dello stesso
genere. Come Matteo di pigrizia, così Vetti viene accusato di indolenza («pigro torpore
retentus»), e l’angelo che lo istruisce deve ribadire, per convincerlo a riferire la visione,
che le sue rivelazioni provengono direttamente da Dio («quod summa dei sententia iussit
/ non audes proferre pigro torpore retentus?»).
E questo è il punto più significativo sul quale conviene soffermarsi: la pretesa avanzata
dall’autore che questa visione provenga direttamente dal verbo divino. Fatto tanto più
impressionante, nel nostro caso, se si consideri la non totale ortodossia del poema in
merito alla questione della preesistenza delle anime e della loro incarnazione. E non
si tratta, si badi, di un puro topos letterario, perché l’idea dell’ispirazione divina viene
ribadita anche all’inizio del poema, nel II capitolo del I libro, quando Sibilla (la guida di
Matteo nell’aldilà) inizia uno dei suoi lunghi monologhi con queste parole:
Cantando con fervor la donna sancta
seguì, sedendo sopra un fermo molo:
«Quello or dirò né carne5 o sangue el canta...» (Città di vita I.2.1-3).
17. Cfr. l’introduzione di F. Stella all’edizione (Valafrido Strabone, La visione di Vetti: il primo viaggio
poetico nell’aldilà, revisione del testo, introduzione, traduzione e note a cura di F. Stella, Ospedaletto-Pisa,
Pacini, 2009).
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Il terzo verso reca in sé una citazione evangelica, prontamente evidenziata nel
commento dal Dati, alla nota 5:
5. Iuxta illud in Evangelio Matthei dicentis: «Beatus es Simon Baryona, quia caro et sanguis non revelavit tibi».
Nel passo, dal Vangelo di Matteo, Gesù afferma in un dialogo coi discepoli di considerare
Pietro beato perché non ha avuto la conoscenza di Cristo tramite i sensi umani, ma per
rivelazione diretta di Dio. Ecco la citazione completa:
Respondens autem Iesus dixit ei: «Beatus es, Simon Bariona, quia caro et sanguis non
revelavit tibi, sed Pater meus, qui in caelis est» (Mt. 16, 17).
La rivelazione di Sibilla a sua volta, afferma qua Palmieri tramite Dati, non proviene
‘dalla carne e dal sangue’, cioè dall’uomo, ma direttamente dalla parola di Dio; un
altro modo per ribadire il concetto già espresso, con maggiore evidenza, nel prologo
all’opera.
Il ruolo del paratesto e il senso del codice
In conclusione, ritengo opportuno rimarcare ancora come l’investitura profetica, il
momento cioè nel quale il protagonista della visione viene incaricato di redigere l’opera,
non sia situata nel testo, come accade normalmente nelle visiones medievali e, com’è
noto, nella Commedia dantesca, ma nella sua parte introduttiva, e affidata quindi non
direttamente all’autore ma al commentatore, Leonardo Dati18. C’è una ragione specifica
che giustifichi questa scelta? Un’ipotesi può essere avanzata, ma se ne potrà qua soltanto
accennare: è credibile pensare che il fatto di affidare questo contenuto non alla penna
di Palmieri (nel poema) ma a quella di Dati nella ‘prefazione’ possa essere dipeso dalla
necessità di accreditarla maggiormente agli occhi del lettore; Dati, giova ricordarlo, era
uomo di Chiesa, e dunque voce più autorevole in questioni di dottrina rispetto a quella
del laico Palmieri. Una delle ragioni d’essere, o anzi, del senso, del commento datiano
risiede d’altronde nel tentativo di conferire maggiore credibilità alle dottrine esposte
nel poema, attraverso il ricorso ad autorità cristiane che sappiano indurre una corretta
interpretazione del testo; un’interpretazione, soprattutto, non contraria ai dettami ufficiali
della Chiesa.
18. Invano il lettore cercherà nell’opera una scena simile a quella dei dialoghi di Dante personaggio con
Beatrice nel Paradiso terrestre (Pg. XXXII 103-105; XXXIII 52-57) o con Cacciaguida nel cielo di Marte
(Pd. XVII 124-142), o anche solo un dialogo tra il viaggiatore e il suo adiuvante in merito alla necessità
e agli scopi del viaggio. Un’unica eccezione è rappresentata da un passaggio del secondo capitolo del
secondo libro, proprio all’inizio della catabasi infernale, dove Sibilla, appena scorta una scritta minacciosa
sulla porta dell’inferno (del tutto simile a quella dell’inferno dantesco!), si rivolge a Matteo con queste
parole: «Per certe – dixe – este parole nota, / et fa che nella mente te le scriva!» (Città di vita II.2.1415), con un’allusione al «quod vides, scribe» dell’Apocalisse cui abbiamo fatto riferimento. Ma si tratta
di un riferimento isolato e limitato alla necessità di memorizzare le parole che Matteo personaggio ha
appena letto sulla porta dell’inferno; al contrario, rimarchevole è il fatto che la scena madre dell’investitura,
presente in tutte le visioni (compreso il Somnium ciceroniano, altra fonte privilegiata dal Palmieri), si trovi
in un testo contiguo all’opera, l’accessus compilato da Dati.
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Attraverso due paratesti, la ‘prefazione’ e il commento, Leonardo Dati contribuisce
direttamente a dare significato a questo testo, ad attribuirgli un senso determinato e
anche una funzione pragmatica, di azione diretta sul lettore. Più che di ‘senso dell’opera’
si potrà allora parlare nel nostro caso di ‘senso del codice’, registrando come pure da
questa specola (la questione fondamentale, spesso paradossalmente trascurata, del senso
dell’opera) risulti evidente l’importanza del codice laurenziano e la sua preminenza
rispetto agli altri codici che tramandano il poema senza i contenuti ‘paratestuali’ forniti
qua dall’accessus e dal commento del Dati: un prodotto editoriale unico, concepito come
tale nella mente del Palmieri, e dal quale non si può prescindere quando si voglia entrare
in contatto con un’opera così complessa e affascinante come la Città di vita.
BIBLIOGRAFIA
Testi
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