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DONNE ROMAGNOLE NELLE CORTI DEL RINASCIMENTO
Un libro di Marco Viroli edito da «Il Ponte Vecchio» di Cesena
di Piero Altieri
Nell’ambito dell’editoria delle province romagnole, una delle novità di più alto
rilievo è senza dubbio la collana “Signori di Romagna” progettata e diretta da Marzio
Casalini, titolare della Società Editrice «Il Ponte Vecchio». Non a caso la collana è
entrata tra i candidati della settima edizione del “Premio Italia Medievale” promosso
dall’Associazione Cultura Italia Medievale.
La collana, come i lettori ricorderanno, è stata aperta da
dello
scozzese John Larner, già pubblicato agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso
dal Mulino. A quel titolo è seguito
del
forlivese Marco Viroli. Il terzo titolo
, è dovuto alla scrittura raffinata del
forlivese Sergio Spada.
Ora, al quarto appuntamento della collana, «Il Ponte Vecchio» propone un titolo
intrigante, inevitabilmente destinato a destare curiosità. Si tratta di
, il libro
affidato a Marco Viroli.
Come il titolo evidenzia il nuovo libro racconta le vicende straordinarie delle figure
di donna che, presso le corti romagnole, si fecero protagoniste di una storia insieme
splendida e sanguinaria.
Nel libro passano, per riassumere velocemente lo schema, gli amori tragici di figure
rese immortali dalla letteratura, come Francesca da Rimini, presente in Dante e in
Silvio Pellico, e Parisina Malatesta (cui D’Annunzio dedicò una tragedia). Si
raccontano i tradimenti finiti nel sangue, nei quali le donne furono ora vittime
(come la dolente figura di Barbara Manfredi, se mai corrisponda al vero il suo
assassinio per mano di Pino Ordelaffi), ora implacabili congiurate, come la bolognese
Francesca Bentivoglio alla corte dei Manfredi, davvero torva congiurata, pronta ad
alzare il pugnale sul marito, in una notte fosca di sangue.
Ma il libro racconta anche degli eroismi di signore entrate nel mito, capaci di eroismi
Ma il libro racconta anche degli eroismi di signore entrate nel mito, capaci di ergersi
al modo di impavide guerriere sul palcoscenico della storia: è il caso di Cia degli
Ordelaffi, eroina sopra le mura della rocca di Cesena, capace di respingere le
insistenze del padre perché ceda all’assedio del cardinale Egidio Albornoz (
l’episodio rappresentato nella copertina del libro con una tela di Pompeo Randi), o
di Diamante Torelli, eroica guerriera in difesa delle mura faentine stratte d’assedio
dal duca Valentino. E poi, ancora, Orabile di Giaggiolo, Vannetta de’ Toschi, Caterina
Rangoni, Lucrezia Pico della Mirandola, Marsibilia Pio, Cassandra Pavoni: una galleria
di figure affascinanti e insieme le vicende complesse delle signorie romagnole.
Nel libro, molte pagine sono naturalmente dedicate alle raffinate Isotta degli Atti, la
compagna di Sigismondo Pandolfo Malatesta signore di Rimini. E molte a Violante di
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Montefeltro, sposa di Malatesta Novello, virtuosa e fin sfuggente nella sua
cristiana. Marco Viroli, che via via si appassiona nella rievocazione delle sue eroine,
eleva l’una e l’altra non solo a testimoni de3lla storia delle signori riminese e
cesenate ma a vere e proprie protagoniste, ritenendole le ispiratrici fondamentali
dei due capolavori del Rinascimento romagnolo: il Tempio Malatestiano di Rimini e
l’aurea Biblioteca Malatestiana di Cesena, “memoria del mondo”.
Quale che sia la verità storica nell’uno e nell’altro caso, è certo che nella storia delle
signore di Romagna, Violante si accampa come un
, per molti atti di singolare
grandezza e di profonda carità cristiana dei quali fu protagonista: gli orti
dell’Osservanza e codici del Bessarione, donati ai Frati Minori che fin da quegli anni,
a metà del ‘400, ebbero il loro convento fuori Porta Santa Maria, per non dire della
costruzione dell’ospedale del SS Crocifisso e poi il suo rifugio estremo (dopo la
morte dello sposo, 20 novembre 1465) nel convento ferrarese delle Clarisse del
Corpus Domini, nel quale concluse la sua vita terrena.
Sono alcuni dei riferimenti per elevarla sopra ogni altra nella nostra memoria.
Un bel profilo di questa (nostra) signora recentemente era stato proposto da Grazia
Bravetti Magnoni in
a cura di Anna Falcioni, edizione
Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Rimini 2004. Attendiamo ora i prossimi libri
della collana, dei quali sappiamo solo che saranno dedicati ai Manfredi signori di
Faenza (e alla penna di Fausto Renzi) e ai Da Polenta signori di Ravenna, libro al
quale sta lavorando la ravennate Serena Simoni.
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Corriere Cesenate
9 aprile 2010
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Il fantoccio che in vita abitai (Alessandro
Ramberti su Marco Viroli 16 luglio 2008)«Trova
la poesia / nella vita che hai»… Lo stesso uso
dell'inglese ci rivela in Marco Viroli un poeta molto
vicino alla musica e quindi al suono, al ritmo, alle
esigenze di una melodia: Marco Viroli scrive dunque
parole che possono essere considerate testi di
canzoni o ballate, anche per l'uso della rima, o della
ripresa e iterazione di certi versi. Ci sono squarci di
realtà, nelle poesie (fra la cronaca dei fatti e dei
sentimenti e l'immersione nella storia lontana) che
trovo più vicine al mio gusto, mi pare che esse
rimangano vividamente impressi, come un quadro
che si assapora per la sobria ricchezza di particolari:
«Le mie curiosità / le domande sui racconti / sul
romanzo mai pubblicato / su cosa spinga a scrivere
/ e quale sia il confine / tra prosa e poetica»; «In
silenzio tre sguardi / si incrociano perdendosi /
lontano molto lontano / più lontano del bosco»; «Ti
aspetto / nel mio letto / come si aspetta la morte»;
«non lasceresti il grano / a bruciare inutile / nei
campi a luglio»; «Il risveglio è improvviso / nel ventre materno / della calda e umida tenda.»
GLI INCONTRI D'AMORE DI MARCO VIROLI
“Eravamo grandi, stringevamo forte la nostra vita nel pugno, ma un giorno in un'osteria del
porto, abbiamo giocato al rialzo, abbiamo perso la mano, abbiamo perduto tutto tranne noi
stessi”. I versi sono quelli di Atlantide, una delle ottanta poesie raccolte in “Se incontrassi oggi
l'amore”, il primo libro scritto da Marco Viroli, forlivese, gestore di uno storico negozio di dischi
del centro storico di Forlì. Questa sera alle ore 21, l'autore presenterà la sua opera presso la
saletta della Banca di Forlì, in via Bruni. Il volume edito dalle Edizioni Farnedi di Cesena (al
prezzo 10 euro), raccoglie riflessioni, domande e risposte di una vita vissuta a scrivere su fogli
di carta, infilati poi in un cassetto, quasi dimenticati. «L'idea di raccogliere e pubblicare queste
riflessioni è nata solo sei mesi fa — spiega Marco Viroli — Un amico e una amica hanno letto la
poesia 'visiva' Clessidra. E' merito loro se mi hanno spinto a credere in questo libro».
Nell'introduzione scritta da Andrea Brigliadori “Se incontrassi oggi l'amore” viene definito come
«un vero e proprio ritratto del suo autore in una specie di sintesi libera da scansioni
temporali».
Le poesie seguono in realtà un ordine cronologico inverso: Alba, a pagina uno, è la più recente,
mentre i “Canti dei Temponauti” , nelle ultime pagine del volume, sono stati scritti dall'autore a
metà anni Ottanta, in età adolescenziale. Al centro della copertina di colore bianco, c'è un Tui,
il simbolo tratto da I King il libro dei mutamenti, che rappresenta la gioia, la calma,il sereno.
Del resto, come ricorda Marco Viroli in “Vecchio Marinaio”: «abita in ognuno di noi un vecchio
marinaio, che conosce e non teme il mare grande della vita».
Matteo Ranucci
Marco Viroli “Vivere il sogno sognando la realtà” di Matteo Zattoni (dicembre 2004)
“Tutto prima sapevo / nulla più ora so. - / La vita altro non è / che sogno inconsapevole. / E
mentre svaniscon le ombre, / nulla ne rimane.” sono i bei versi con cui Marco Viroli conclude il
suo ultimo poemetto, dal titolo “Lamento di Alexandros”, presentato a San Mauro Pascoli, nel
corso delle celebrazioni per i 150 anni della nascita del poeta romagnolo. Ho scelto di partire
dalla fine del percorso poetico di Viroli, perché in questi sei versi si racchiude non solo il
significato del titolo di questa lettura – che richiama l’opera del celebre drammaturgo Calderón
de la Barca, La Vida es sueño – ma anche molto del pensiero dell’autore. Per esemplificare
meglio, cito altri due versi da una poesia di Viroli, “Sogno e realtà”, dove si legge questa
invocazione: “Fa’ che il sogno / permanga reale”. Sfidando il dato anagrafico e le mutevoli
situazioni di una vita avventurosa che lo ha portato a spostarsi da Forlì a Milano, a Roma e poi
di nuovo a Forlì e a svolgere – dopo la Laurea in Economia – vari lavori (dall’impiego all’Ibm,
all’attività di dj, produttore e art director che prosegue tuttora), Marco Viroli si è dimostrato
uno di quegli uomini “capaci di attraversare gli anni senza che le ferite dell’esistenza li
scalfiscano”, per usare le parole calzanti di Pietro Caruso. Eppure non sono d’accordo con quel
“nulla ne rimane” iniziale, intendendo rispetto alla vita di un uomo, e le prove sono, nel caso
specifico, questi due libri che ho ora in mano: il primo, Se incontrassi oggi l’amore (Edizioni
Farnedi), e il successivo, Il mio amore è un’isola (Società Editrice “Il Ponte Vecchio”), che gli
sono valsi l’etichetta certo riduttiva di “poeta dell’amore”, nonché altri inediti donati per
amicizia. Ed è proprio da questi ultimi che ho tratto i versi introduttivi, oltre che per le ragioni
sopra enunciate, anche per dimostrare una certa continuità nell’opera di Viroli, che ha sempre
dimostrato un’attenzione, per non dire un’attrazione, verso la storia antica, anche mitica. A
partire dal suo primo libro, Se incontrassi oggi l’amore, dove dedicava la poesia “Atlantide” al
mito di quest’isola dalla ricchezza meravigliosa, vista in contrapposizione con la rassicurante
indolenza della patria Itaca. In questo testo, centrale per capire gli sviluppi della sua poetica,
domina l’anafora per indicare la ripetizione dell’esistere (“abbiamo assediato… abbiamo vinto…
abbiamo ingannato…”) ed esso ha una struttura ciclica perché l’arrivo è lo stesso luogo di
partenza, cioè Itaca (“Il tuo viaggio termina dove era iniziato!”). Il tema della vita che si sogna
e che si risolve nel sognare un’altra vita (“Avevamo un grande viaggio da compiere davanti a
noi, / ora si è ridotto a un fardello che ci incurva le spalle”) aveva indotto il critico Andrea
Brigliadori a parlare di una sorta di “ulissismo”, provocato da una “inquietudine che porta a non
fermarsi mai”. Anche l’ultima sezione del libro era significativamente intitolata “I canti dei
temponauti”, dove questi apparivano come la versione moderna degli Argonauti, in un gioco di
echi tra passato e futuro. Il poeta come Ulisse, dunque, ma anche come Giasone, per arrivare
fino ad Alessandro Magno. E la poesia di Viroli, coerentemente, appare un canto di viaggio o un
viaggiar cantando, come dimostra la partizione del secondo libro, Il mio amore è un’isola, in
due sezioni: prima “I canti dell’isola”, quindi “I canti del viaggio”. In questo cammino si
salvano dalla distruzione dell’oblìo momenti privilegiati quali: “Sei così piccola”, “In un bacio” o
“Quel che noi ci diciamo”. Altrove il vento pare placarsi e si lascia spazio al ricordo e ai bilanci
generazionali ad esempio in “Nostalgia”, ne “Il cielo al contrario” (dove si dice “Ognuno
impegnato / a dimenticare qualcosa”) e nella ben riuscita “Bei Tempi”. La poesia di Marco Viroli
è quasi una colonna sonora, un cd di quelli da mettere nella borsa prima di partire da casa per
un lungo periodo. E con la musica, in particolare con la forma-canzone, questa poesia ha un
debito. Intanto risulta evidente nella ripartizione abituale in strofe oppure, all’interno del
medesimo testo o della medesima strofa, nella ripetizione di certi versi con o senza variatio.
Eppure così darei solo parzialmente conto della cifra stilistica di Viroli che, invece, propone, con
il verso lungo e piano della sua più recente produzione, una rilettura personale del grande
Raymond Carver, da lui molto amato. La prosastica concretezza dell’uno si trova specchiata
nella voce dell’altro come in un dialogo. Certamente Viroli, scrivendo, aveva presente quei
versi straordinari dello scrittore americano: “Metti a frutto le cose che ti circondano” e ancora,
sempre riferito al fare poesia, “Mettici dentro tutto, / mettilo a frutto”. Per restare fedele al
pensiero di Viroli, concluderò laddove avevo iniziato, riportando altri tre versi del “Lamento di
Alexandros”, che, tuttavia, in simmetrica contrapposizione con quelli introduttivi, danno il
senso di una speranza possibile: Prima di chiudere gli occhi,
voglio rivolgere un’ultima volta
lo sguardo verso il cielo.
Se incontrassi oggi l’amore
di Guido Passini
Se incontrassi oggi l’amore di Marco Viroli è un libro suggestivo, che decreta la nascita di
questo autore nel mondo della poesia stampata su carta. Cosi il suo cammino prosegue
riportando attimi di vita vissuta con la stessa eleganza e velocità con cui inizia e termina il
proprio libro. Non è certo un caso se Marco sceglie di aprire Se incontrassi oggi l’amore con la
poesia “Alba” e terminare con la poesia “Notte”. Sembra quasi voler mettere in evidenza come
la vita sia un cerchio che si ricollega sempre a un fattore comune, in questo caso direi
“l’emozione”.
Il libro presenta una copertina bianca, candida come la naturalezza e delicatezza che l’autore
riesce a emanare in ogni testo. La scelta del simbolo nella prima di copertina credo abbia un
compito ben preciso sia nel libro stesso che probabilmente nella vita di Marco. Infatti a mio
vedere funge da talismano, un portafortuna che porta questo libro a vendere oltre mille copie
in brevissimo tempo. Il simbolo, un esagramma, rappresenta la gioia, la calma, il sereno.
Citando la nota nella seconda di copertina capisco che “Lo stato d’animo sereno è contagioso e
pertanto porta buona riuscita. La forza della letizia, della calma gioiosa, dell’armonia e della
serenità interiori riescono a trovare la via per entrare in ogni cuore. Il segreto di molti successi
è tutto qui.” Ogni scelta non è mai casuale, e per questo credo che rappresenti molto la figura
di Marco. Un uomo sempre tranquillo, ma al tempo stesso con la penna affilata, che sa
precisamente in quale verso posare la propria anima e in quale fare un piccolo balzo e
provocare un senso di graffiante malinconia. Leggere la poesia “The day of my funeral” infatti
ha un doppio senso a mio vedere, dapprima leggo la tristezza, il dolore di un uomo che
affronta la morte, ma al tempo stesso si può leggere la forza di un uomo che riflette, guarda il
futuro dritto negli occhi, pensando a come tutto avverrà.
Le tematiche di Marco in questo libro sono svariate, dall’amore alla riflessione, alla passione,
quella per la vita, a cui Marco in alcuni punti sembra aggrapparsi senza timore, sudando i
propri versi, meditandoli ma al tempo stesso gettandoli con impeto, alleggerendo la propria
anima. Se incontrassi oggi l’amore è un libro che rappresenta l’autore in tutto e per tutto, la
crescita evocativa e stilistica mano a mano che si sfogliano le pagine. Ogni poesia è un piccolo
pezzo dell’anima di Viroli che il lettore può utilizzare come meglio crede, anche se il modo
migliore è quello di dissetarsi con questi versi, senza pensare tanto a cosa l’autore volesse
dire, ma solo semplicemente lasciandosi cullare dai suoni che emana e renderla propria.
Le poesie sono numerose e sarebbe drastico citarle tutte, quindi farò una selezione di quelle
che mi hanno lasciato un qualcosa in più delle altre, forse per esperienze simili, vuoi per la
semplice bellezza della poesia, una su tutte “Tu non mia”, un testo scorrevole e ben
improntato nel sentire dell’autore. Altra poesia di notevole caratura è “Fragile”, dove l’autore ti
cattura con il suo modo semplice e intuitivo di tergiversare sulle metafore. Poi per ovviare a
tutte le altre scelte, andrei a citare “In viaggio sul tuo corpo” una poesia che sa di passione,
ma al tempo stesso di decisione e delicatezza.
Se incontrassi oggi l’amore è un libro che sono felice di aver letto, di aver gustato, portandomi
a conoscere ancora di più il caro Marco. Quanti libri sono pieni di parole, intrisi di stupende
parole, metricamente perfetti, ma al tempo stesso non dicono nulla, ebbene questo non è il
caso del libro di Marco.
Questo è un libro dai versi ricercati, che in ogni poesia ha un immagine: l’anima di Marco. Per
questo motivo sono fiero di avere una copia di Se incontrassi oggi l’amore nella mia libreria.
Il mio amore è un’isola
di Guido Passini
Prima di iniziare questa recensione, vorrei spendere due parole sul significato che ha avuto,
ma soprattutto per quello che ha ancora questo libro per me.
Ricordo bene il giorno in cui gironzolando per la libreria di Forli venni catturato da questa
copertina nera che risaltava in mezzo a tutte le altre bianche, molto simili tra loro.
Sinceramente non avevo la minima idea di chi fosse Marco Viroli, ma acquistai subito il libro.
Un giorno qualcosa mi spinse a scrivere una mail a Marco e da subito scoprii quanto fosse
generoso, disponibile e sensibile, proprio come quello che le sue poesie lasciavano trapelare.
Posso così dire con assoluta sincerità che questo libro ha una notevole importanza in questo
mio cammino personale, sia nel mondo della poesia che in quello di tutti i giorni.
Questo Il mio amore è un’isola mi ha “donato” una persona su cui contare, ma soprattutto un
buon amico.
Chiusa questa parentesi ininfluente per i fini di questa recensione, passiamo a un’analisi più
dettagliata del libro. Innanzitutto mi soffermerei per un attimo sulla scelta della copertina.
Sfondo nero e scritta bianca con annesso un simbolo. La scelta conoscendo Marco non credo
sia casuale, infatti credo che da qui inizi il vero significato di questo libro. Io vedo questa scelta
come un collegamento tra il presente (rappresentato dal colore bianco) e il passato
(rappresentato dal colore nero), rafforzato dal simbolo che cercherò di svelare nel finale di
questa recensione (almeno per il mio sentire e leggere questo libro).
Il mio amore è un isola è un libro suddiviso in due sezioni “I canti dell’isola” e “I canti del
viaggio”, entrambe con un forte impatto sull’anima del lettore che entra con semplicità nei
versi di Marco.
L’autore riesce nell’intento di rendere la prima poesia e l’ultima di ogni sezione concatenate tra
loro riportando il lettore al punto di partenza, proprio come chi si ritrova su una piccola isola e
ne compie l’intero percorso ritrovandosi sulle sue prime orme.
Nella prima sezione si leggono poesie d’amore, sia in lingua italiana che in lingua inglese, che
all’apparenza possono sembrare semplici, ma in realtà sono molto curate nella punteggiatura,
nelle pause scelte e soprattutto nella musicalità dei versi. Alcune poesie, lette con una musica
di sottofondo adatta potrebbero tranquillamente essere canzoni come la graziosa “I Love You”
o “Abbi cura di te” (tra l’altro una delle mie preferite di questo libro).
Proseguendo nella lettura, testo per testo emergono le tante figure retoriche, a volte forse
leggere ma costanti nelle pagine di questo libro.
Osservando proprio queste sue scelte metriche posso dire con tutto rispetto che Marco Viroli è
un autore “poliedrico” (so quanto ci tiene a questa parola … ), in quanto non segue una visuale
“standard” della poesia come la maggior parte di molti autori che si sofferma spesso sulla
stessa forma di poesia. Un punto a favore di questo libro risulta essere dettato dalle emozioni
dell’autore che dopo averle elaborate, ne ritma i versi con grande caparbietà. Sfogliando
questo libro infatti si possono trovare poesie con ritmi incalzanti, quasi compulsivi, come la
sempreverde “In un bacio”, per passare a un ritmo lento, melodioso con la poesia che dà poi il
titolo al libro “Il mio amore è un isola” . Rasenta poi la prosa con la passionale “La luna”, un
testo imponente dal punto di vista sentimentale.
La seconda sezione I canti del viaggio sotto alcuni aspetti risulta essere più ermetica della
precedente, in quanto Marco parla della vita sotto forma di viaggio e come scritto in
precedenza ricollega la prima poesia di questa sezione all’ultima completando un circolo. Un
viaggio nell’ignoto, nonostante ci sia la consapevolezza di un punto di arrivo, rafforzata dalla
poesia “E nella fine” che porta i titoli di coda al libro.
Anche in questa sezione l’uso delle metafore è predominante, come nella struggente “Paura” o
la malinconica “Icaro” che rappresenta forse, uno dei viaggi più significativi dell’anima di
Marco.
La seconda parte quindi può essere considerata la parte introspettiva de Il mio amore è
un’isola.
Ho il brutto vizio di leggere più volte lo stesso libro e più continuo a sfogliare queste pagine più
ricollego il simbolo della copertina di questo libro alla seconda parte, e quindi non vedo queste
sue poesie introspettive come una resa, ma più come un volere svuotare il cassetto delle
emozioni e anche solo per un attimo alleggerire la propria anima per affrontare la rinascita,
interiore o esteriore che sia.
Il mio amore è un’isola credo che sia un libro in grado di dare molto al lettore che saprà
ascoltare l’anima di Marco Viroli, proprio come ho cercato di fare io leggendolo; mi permetto di
dire che questo è davvero un ottimo libro.
Consiglio vivamente questo libro a tutti i lettori che sono alla ricerca di un libro che sappia
portare riflessioni mai scadenti e allo stesso tempo ottime emozioni da gustare.
Doverosi a questo punto i complimenti al poeta e a questo libro che ha già dato molte
soddisfazioni a Marco.
Nessun motivo per essere felice
di Guido Passini
Intendo recensire quest’oggi il terzo libro di Marco Viroli Nessun motivo per essere felice. Un
libro che nasce dalla collaborazione tra Marco e Nicoletta Conti che ci accompagnano in un
viaggio nel passato tanto quanto nel presente. Suggestivo a partire dal titolo che mette di per
sé in atto una prima potente riflessione.
L'inizio del libro corrisponde con l’ottima introduzione di Andrea Brigliadori, che con grande
sicurezza cattura l'attenzione del lettore con cenni storici e presenta le ottime foto di Nicoletta
Conti.
Proseguendo nelle pagine, si può leggere uno scritto ispirato alle due lettere di Plinio il Giovane
a Tacito, dirette testimonianze oculari dell'eruzione del Vesuvio del 24-25 agosto dell'anno 79
d.C.
Prima di analizzare il testo di Marco, vorrei soffermarmi sul lavoro di Nicoletta, un gruppo di
ottime fotografie in bianco e nero che riportano ciò che rimane di una devastata Pompei.
Immagini toccanti che grazie a giochi di ombre concedono emozioni sobrie e intense. A mio
avviso Nicoletta compie un lavoro perfetto, basandosi su viste in prospettiva che evidenziano
quanto questo luogo sia deserto, quanto tutto sia stato cancellato di tutto quello che
rappresentava la vita, lasciando solo un triste spazio adornato di fredde pareti nude, di un
sogno spento da lava incandescente…
Ora resta da sapere se in questa realizzazione siano nate prima le immagini di Nicoletta o i
versi di Marco, o ma rimane il fatto che la sintonia è perfetta.
Nessun motivo per essere felice rappresenta un altro viaggio dell’anima di Marco, dopo i primi
due libri infatti, questo lo si potrebbe considerare un terzo atto, di quella che mi piace vedere
come una trilogia tanto introspettiva, quanto riflessiva.
Un terzo atto che riporta una conclusione, un osservare la realtà e, basandosi su i fatti, dare la
propria versione a un gruppo di eventi costantemente sovversivi al mondo. La scelta di
affrontare questo viaggio in chiave aulica basandosi su eventi paragonabili a eventi personali, a
mio avviso è ottima. “Nessun motivo per essere felici”, di questo ne sono consapevole, mi
verrebbe da dire leggendo pagina per pagina le tante vicissitudini citate.
Un ottimo lavoro che Marco compie in una rincorsa dei propri pensieri, un riepilogo della storia,
un prosieguo nel labirinto del mondo. Prendo spunto dalle parole di Marco “Nulla è mai stato
come sembrava, e mai sembrerà come un realtà sarà” per evidenziare ancora una volta senza
falsa retorica, la realtà che ci viene posta davanti agli occhi giorno per giorno.
Nessun motivo per essere felice è scritto in maniera affermata e lineare nel linguaggio e
conferma la forte cultura di Marco, che non si da tregua nell’inanellare eventi reali con altri
mitologici. Con maestria detta una poesia che si propaga incessantemente per ventuno pagine
senza dare cenno di spaesamento. Un piccolo capolavoro dove si riesce ad assaporare la
continuità dell’emotività degli autori, e la superba arte di esternare il proprio sentire.
Credo non sia da tutti riuscire a creare un testo composto da una sola e intensa poesia,
esordendo in un potente tributo al mondo.
Personalmente ho apprezzato molto questo libro per la sicurezza nella costruzione e
impaginazione dei versi. Non vorrei svelare null’altro, in quanto questo libro vuole essere
sfogliato e vissuto, accompagnato pagina per pagina fino alla chiusa, eterna.
…vorrei parlare di una poesia, contenuta nel libro di Marco Viroli che lui stesso mi ha regalato
appena arrivata in libreria, si intitola: "Nessun motivo per essere felice". Vedendo il titolo (ecco
un altro pregiudizietto!) ho pensato: mado' che pesantezza! Poi invece, da sola nel cortile
dietro la libreria, ho iniziato a leggerla e sono stata sopraffatta. Un'ondata di male mi ha
squassato e, anche se non l'ho detto a Marco per ovvi motivi di pudore, mi sono anche scese le
lacrime. Occhei è vero, una volta mi sono commossa anche vedendo Un posto al sole.. (ora i
pregiudizi non abbiateli voi!) Ma vorrei ringraziare Marco e la sua poesia che è una specie di
apocalisse sul male nell'uomo, sul lato oscuro della forza per intenderci (ma Marco lo dice
molto meglio, senza una parola di troppo), che dovrebbero leggere tutti, perché essere sempre
allegri, sforzarsi di vedere sempre il lato buono delle cose come faccio io, rischia di farci
dimenticare che il mondo sta sanguinando. Marco scrive semplice per essere un poeta, e arriva
dritto al cuore delle cose. Grazie. Carolina Cutolo da www.pornoromantica.splinder.com
Da “In mezzo al niente” di Andrea Brigliadori (agosto 2003)
Nella poesia di Viroli la metafora della vita come viaggio, e come viaggio di
avventura, di scoperta e conquista, era già dominante nel primo libro, dove a me
parve di riconoscere addirittura una sorta di “ulissismo” nello spirito che
evocava i miti di Itaca e di Atlantide, nella “inquietudine che porta a non
fermarsi mai”, e che “ci spinge inevitabilmente a ripartire ogni volta”.
Il tema rimane: I canti del viaggio occupano appunto la seconda parte di questo libro.
Ma è meno fervido e più perplesso, più complicato, direi, dall’insicurezza e dal
dubbio, meno energico e volitivo.
Al di là dell’ansia del viaggio e del desiderio di avventura e di ignoto, sembra
dunque prevalere, almeno in questa età della vita e della poesia di Viroli, la
consapevolezza, intermittente ma pur costantemente avvertibile, che “il
viaggio”, muovendo dall’insofferenza del quotidiano e dell’insignificante (il
tempo, la noia, l’abitudine), è destinato poi, necessariamente, all’approdo del
nulla e della morte.
L’istante, il suo fascino ma anche la sua illusione presto dissolta, è parola
(e dunque stato reale) ricorrente nella poesia di Viroli, e specialmente in quelle
poesie d’amore che occupano la prima parte del libro (Il mio amore è un’isola),
tutte riunite dal vocativo tu (anonimo e quasi impersonale) a cui sono dirette,
ma poi anche quasi sbriciolate in una varietà multiforme di situazioni e momenti
che sembrano concludersi, e, appunto, dissolversi, ciascuno in sé stesso, a formare
tutti insieme una sorta di uniforme, monotono pulviscolo:
“tutti quei cuori / che non ho amato / come avrei voluto”.
[Dalla introduzione a “Se incontrassi oggi l’amore” di Andrea Brigliadori]
Da “Nel gran mare dell’essere” di Andrea Brigliadori (ottobre 2004)
Di fronte a un libro che, a dire del suo non più giovane ma ancor giovane autore,
accoglie e riunisce, pur con le dovute scelte, i testi di tutta la vita fino ad ora
vissuta e trascritta (risalendo, mi dice Marco Viroli, al termine del 1976), si
sarebbe tentati (anzi: si è certamente indotti) di seguire il filo di una cronologia,
di datare almeno approssimativamente gli atti di nascita di ciascuna poesia. E
non tanto per collegarli a più o meno significativi e precisi avvenimenti di una
esistenza (anche se questo ha pur un suo peso nelle ragioni della poesia), quanto
piuttosto per rintracciare e riconoscere, di pagina in pagina, i segni, come si
dice, di una evoluzione stilistica, di una maniera formale, di una maturazione
espressiva. Seguire insomma, da un testo all’altro, il nascere e il crescere di un
poeta. Si sarebbe tentati, dicevo.
Ma a dissuaderci da questo provvede lo stesso Viroli il quale, nei suoi giovanili
modi gentili e signorili, ci avverte solo del fatto che in questo suo libro i testi
sono disposti come a ritroso rispetto al tempo, che i primi che si leggono sono
in realtà gli ultimi da lui scritti, e che dunque, procedendo nella lettura in realtà
si retrocede negli anni, fino a quel tempo, pressoché adolescente, delle origini,
quando cominciò a prender vita, insieme con la scoperta della vita, l’intenzione
della poesia.
Allora, per esempio, vuol dire che la breve e raffinata serie di haiku che si legge
nelle ultime pagine precede, e forse di molto, i visual poems e l’omaggio a Pablo
Neruda e la bella sequenza di Itaca e Atlantide, che aprono il libro. Ma questo,
una volta che ci sia chiaro, non è un modo di confondere il lettore. E’ in realtà
un modo di proporre non tanto un percorso di queste poesie da un punto (magari
incerto e acerbo) di partenza a un punto (magari pieno e maturo) di arrivo;
quanto piuttosto (ed è ciò che, mi pare, interessa all’autore) una loro
contemporaneità nel presente, un loro attuale coesistere, in virtù, soprattutto,
dell’interno (dunque non occasionale né sparso) sviluppo di un modo di sentire e
di un modo di vedere l’esperienza del vivere che rimangono, pur nel volgere del
tempo e delle private stagioni, sostanzialmente fedeli, se non in tutto uguali, a sé
stessi.
[Dalla introduzione “Nel gran mare dell’essere” di Andrea Brigliadori]
IL
BIANCO
E
IL
NERO
Introduzione
a
“Nessun
motivo
per
essere
felice”
Gli scavi dell’antica Pompei cominciarono nel 1748. Fu dissepolta la morte e il mondo ne
rimase incantato. Riemerse la città così com’era nell’istante in cui il cataclisma di ceneri e lapilli
ne fermò la vita per sempre. La curiosità archeologica e il gusto antiquario si saziarono per
decenni di quella miniera di innumerevoli scoperte. Ma vide bene, o meglio di tutti, con i suoi
occhi ormai quasi ciechi, Giacomo Leopardi, un secolo dopo, nel 1836, quando dalla villa
Ferrigni a Torre del Greco ebbe di fronte a sé lo spettacolo di quella riesumazione. Che gli
parve orrida, spettrale, come se quegli scavi avessero rivelato al mondo non i segni magnifici
dell’antica vita ma la annichilente eternità della morte. E scrisse La ginestra o il fiore del
deserto, premettendovi, in greco, quel versetto del Vangelo di Giovanni che dice dell’amore
degli uomini, i quali prediligono “piuttosto le tenebre che la luce” (luce di ragione, per
Leopardi, e tenebre di cieca paura superstiziosa e visionaria): “Torna al celeste raggio / dopo
l’antica obblivion l’estinta / Pompei, come sepolto / scheletro, cui di terra / avarizia o pietà
rende all’aperto; / e dal deserto foro / diritto infra le file / dei mozzi colonnati il peregrino /
lunge contempla il bipartito giogo / e la cresta fumante, / che alla sparsa ruina ancor
minaccia”. Cesare Garboli parlò di “luttuosa suggestione”, proveniente dai “vacui teatri”, dai
“templi deformi”, dalle “rotte case”, che “il baglior della funerea lava” tingeva ancora
tutt’intorno di rossastri riverberi. Con tale animo Giacomo Leopardi guardò “l’estinta Pompei”,
leggendovi non la gloria delle “etadi antiche”, ma la mortale signoria della natura su “genti e
linguaggi” umani, cioè sulla storia. Non un’apocalisse, ma la natura che persegue indifferente
la propria legge in cui “la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e
distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente
all’altra, ed alla conservazione del mondo” (Dialogo della Natura e di un Islandese). Oggi il
“peregrino” leopardiano, il visitatore, veste le fattezze gentili e l’occhio limpido di Nicoletta
Conti. La sua visita a Pompei è diurna. Percorre le antiche vie ordinate dall’attenta cura degli
archeologi, visita case ripulite e catalogate, attraversa piazze e colonne salvaguardate dai
restauri, fitte di folle di turisti. Ma Nicoletta sa che è un luogo di vita estinta. E la sua macchina
fotografica si lascia condurre da lei stessa, vede ciò che lei vuole che si veda. La Pompei di
Nicoletta Conti è un luogo assolutamente vuoto, una geometria del nulla: fughe di porte in
prospettive che si prolungano da pietra a pietra, in spazi deserti; teorie di colonne che il sole
illumina di silenzio; capitelli che si sporgono nudi nel cielo vuoto; facciate di templi aperte al
nulla dell’aria; interni di fontane solitarie, invasi dall’ombra; e strade abbandonate, che
attraversano muri ciechi e vanno non sai dove; cortili solitari e vuoti. Nicoletta ha “visto”
l’anima vera di Pompei, quella che si respira nella sua aria immobile: ha visto l’assenza. E le ha
dato, con la scelta del bianco-e-nero, il solo “colore” che l’assenza può assumere: tolta la
storia, tolta la vita, resta il bianco dei deserti e il nero delle ombre.
Appropriandosi delle foto di Nicoletta e connettendole, innestandole all’interno delle pagine
occupate dai suoi versi, dalle sue “strofe lunghe”, Marco Viroli (e con lui Nicoletta) ha creato
una sorta di contrappunto: contrappunto di tempi antichi (il mese di agosto dell’anno 79 dopo
Cristo, quando lo “sterminator Vesevo” scatenò l’esplosione che distrusse e sommerse Pompei,
evocato con la lunga parafrasi delle lettere di Plinio il Giovane: “Agli occhi ancora smarriti / le
cose si presentarono / con forme nuove e pure, / coperte di una coltre di cenere / che
somigliava a candida neve”), e di tempi moderni (la Pompei dissepolta, le sue “forme nuove e
pure” così ben viste dall’occhio fotografico di Nicoletta); e contrappunto, anche, di suoni (tutta
la convulsa scena dell’eruzione e del terrore dei vivi) e di silenzi (quelli che avvertì Leopardi,
quelli che Nicoletta ha rappresentato): rumore e grida di allora, e silenzio di ora, la “candida
neve” della morte.
Ma l’apocalisse è altra cosa; è umana; viene, verrà, dalla storia degli uomini. Forse è già
venuta, è in atto. Ed ecco Marco Viroli andare oltre il tema pompeiano della prima parte, oltre
il tacito nitore delle immagini di Nicoletta Conti. Nessun motivo per essere felice si avventura
in una lunga, lunghissima sequenza poetica in cui l’invettiva succede al compianto, la
deprecazione all’angoscia, la desolazione alla solitudine, in un’alternanza di situazioni private
(“Mi svegliano voci stridenti / in stanze d’albergo sconosciute”) e di terrori collettivi (“Il mattino
nucleare ripropone / ineluttabile il teorema”), di mitiche simbologie degradate (“Giasone e gli
Argonauti / fiaccati dalle droghe, / giacciono vinti ed ebbri / insieme a donne comuni”) e di
fulminanti domande (“Ma noi chi siamo?”), di immersioni nel quotidiano (“Non ho motivo di
essere felice / se lavoro 12 ore al giorno / per pagare ciò di cui / mi sono circondato”) e di
diagnosi infauste sugli eventi del mondo attuale (“Neonati gettati nell’immondizia, / figli che
colpiscono i genitori, / madri che scalciano / i frutti del proprio ventre”). Gli orrori della storia
che viviamo ogni giorno vengono tutti attraversati: dalle “orde di nuovi barbari” alle “rivolte
delle periferie”, dalle “false speranze” (leggi: immigrati clandestini) agli “uomini grigi dalle
lunghe barbe” (leggi: talebani). Viene detto: “L’inferno torna sulla Terra” (ma quando mai se
n’è andato?, mi chiedo io), e si avvia un lungo passaggio evocativo dell’11 settembre, e poi dei
kamikaze, degli attentati, delle esecuzioni, delle guerre e dei bombardamenti. Il tutto
mescolato agli affari di chi traffica in droghe, “commercia in mostri sbraitanti”, in petrolio, in
“programmi tv”.
Cade fitta una pioggia incessante, carica di simbolici presentimenti notturni, diventa vera
pioggia sulla “città del jazz / dove nessuno / suonerà più”. La “Madre Terra”, sconvolta, genera
i suoi mostri: terremoti e maremoti “squassano / le croste terrestri”. Fugge l’arte dal mondo
moribondo: dove sono andati Bach e Mozart, e i quadri di Claude Monet, e le pagine dei poeti?
La “triste litania” si ripete con ossessiva cadenza: “nessun motivo per essere felice”. E Socrate
? E Platone? E Gesù? E Buddha?
Così il lungo compianto diventa poesia dell’assenza, proprio come nelle foto pompeiane di
Nicoletta Conti; poesia non del mondo che non c’è più, ma del “non esserci più” del mondo,
poesia del vuoto e del nulla, per quanto pigiati di folle essi siano.
L’invettiva si innalza a colpire i “politici mercanti”, le certezze che poggiano su “armi e barili”,
e, di contro, la morte per fame di “trenta bambini al minuto”, i falsi miti del falso progresso, gli
abusi della ricchezza e del potere. Il finale ha un crescendo visionario: “Ho visto...”, ripete
l’anafora del poeta; e si aprono scenari di infamia insopportabile, quelli che in realtà noi
sopportiamo ogni giorno. Si prepara così, con accenti che stanno tra lo Ecclesiaste e la
Apocalisse (ma chi legge con l’avvertimento della memoria può risentire l’Urlo di Allen Ginsberg
o La terra desolata di Eliot), la scena propriamente “apocalittica” in cui va a sfociare, con
l’urgenza di un fiume in piena, la lunga corsa di Marco Viroli nel male labirintico del mondo così
com’è o come appare che sia.
Scendono gli angeli, suonano le trombe, arriva il galoppo dei cavalli, compare la bestia, si
spezza il settimo sigillo, “e di Babilonia resterà solo cenere”. C’è ancora il tempo per
“esprimere l’ultimo desiderio”. Il desiderio è il Silenzio. Nel crepuscolo di “una lampadina
accesa in un angolo”, prima della eterna notte imminente, “restano il bianco e il nero / e
infinite variazioni del grigio”.
Qui il cerchio si chiude; il “bianco-e-nero” del mondo che finisce nella apocalisse di Marco Viroli
è lo stesso della “estinta Pompei” di Nicoletta Conti.
Forlì, 7 novembre 2006
Andrea Brigliadori