Leggi - dino nicolia
Transcript
Leggi - dino nicolia
TRIPS di Dino Nicolia Book Trailer: http://www.youtube.com/watch?v=OG39RpsShHA Ogni riferimento a fatti e/o persone reali è puramente casuale 2005 – LA SETE 31 gennaio Mumbay "Prendi anche l'ultima scatola, Avanish", disse Ekta, rivolgendosi al figlio. Lui la guardò interdetto. Non sapeva dove la madre l'avesse riposta. Si diresse di nuovo verso casa, entrò e, spostando leggermente la tenda, poté scorgerla. Si piegò sulla scatola di cartone, che si trovava proprio dietro la porta di entrata e la afferrò con entrambe le mani. Era pesante e, per poco, non gli sfuggì. "Maledizione!" esclamò Avanish. Fece appena in tempo a spingerla contro il muro, utilizzando le ginocchia, per non farla cadere. Tentò di riprendere stabilità, ma non riuscì a sollevarla. "E ora come faccio?" chiese a se stesso, restando immobile in quella scomoda posizione. Ritenne, allora, di avere sbagliato la presa e decise di riporre nuovamente la scatola per terra. Si rese conto che non avrebbe mai potuto farcela se non l'avesse afferrata per bene. Pensò che il segreto fosse nel lasciare scorrere la mano destra sotto la scatola, in modo da sollevarla leggermente, poi infilare l'altra mano e quindi fare uno scatto, come aveva visto fare ai sollevatori di pesi in televisione. Lui non avrebbe avuto la pretesa di portarsela sulla testa, come facevano i sollevatori di pesi, ma quello scatto sarebbe stato sufficiente per avanzare e giungere fino al vecchio pulmino, parcheggiato di fronte alla casa dello zio. Ekta stava attendendo fuori, mentre Ishan e Bina avevano già preso posto. Si erano seduti sul sedile posteriore. A fatica erano riusciti a ritagliarsi uno spazio striminzito, in mezzo alla risma dei pacchi e degli abiti, sistemati alla rinfusa. In verità, Bina non era neanche riuscita 2 a trovare il posto per sedersi comodamente. Al lato aveva dei vestiti sdruciti, caduti da una vecchia valigia di plastica marrone che Ekta e il cognato avevano, inutilmente, provato a chiudere con uno spago. La pressione dei panni aveva allentato lo spago e alcune magliette colorate erano cadute sul sedile. A quel punto, Bina aveva deciso di sedersi sopra le magliette colorate, senza fare molto caso a dove mettesse i piedi. La madre fece finta di non vedere. Non la rimproverò e lei rimase seduta sopra i panni. Ekta non aveva l'energia per rimproverarla. Stanca e disillusa, accettava l'evolversi della propria vita. A nulla sarebbe valso combattere. Era come se nella sua mente si fosse spento il ritmo della quotidianità. Quando Avanish giunse con la scatola di cartone nei pressi del pulmino, Ekta lo aiutò meccanicamente a deporla nel cofano. Anche lì non c'era spazio e dovettero fare una fatica enorme per farla entrare. La spinsero più volte, dapprima, verso destra, poi, verso sinistra. Finalmente riuscirono a trovare il varco giusto per infilarcela. Alla guida del pulmino c'era Namdev, un vecchio amico del cognato di Ekta. Avrebbe condotto ciò che restava di quella famiglia maledetta dalla parte opposta della città, dove la madre e i suoi figli erano riusciti a trovare un buco che li ospitasse. Namdev non tradiva le origini del suo nome. Era un poeta ma non perché scrivesse poesie. Era un poeta per la filosofia di vita che aveva adottato, fin dai tempi in cui amava perdersi nei campi. "La vita é come una margherita, che va sfogliata petalo per petalo", diceva Namdev, quando parlava della sua esistenza. I petali della sua vita non gli avevano dato molto, ma a lui, in fondo, era andata bene così. Gli era bastato sfogliare la sua margherita un petalo alla volta, per provare ad assaporarne il profumo. Quelli che lo conoscevano lo avevano apprezzato per questo. Ekta non lo aveva mai visto prima ma il cognato l'aveva assicurata che del poeta si sarebbe potuta fidare. "Ti darà una mano e, se necessario, ti aiuterà anche a sistemare la tua nuova casa". "Sai bene che non si tratta di una casa", gli aveva risposto Ekta ma il cognato aveva fatto finta di non sentire. Si era voltato e se ne era 3 tornato sull'uscio di casa. Dopo essere riuscita a trovare lo spazio per l'ultima scatola di cartone, per Ekta e i suoi figli non restava più niente da fare da quelle parti. Tra quelle mura avevano speso gli anni più belli della loro effimera esistenza, ma per loro non ci sarebbe stato più spazio. Avanish, che esattamente due mesi e due giorni prima aveva compiuto quattordici anni, appariva triste, mentre Ishan e Bina non lo erano. Ishan faceva le boccacce a Bina e Bina le faceva a Ishan. Entrambi facevano le boccacce e ridevano. Avanish, invece, era davvero triste. Nella sua giovane mente scorrevano i ricordi di quella breve vita. Il sorriso del padre, l'abbraccio della madre, la palla da tennis con cui giocava sul prato. Ekta se ne accorse e lo osservò. Aveva sempre avuto a che fare con i ragazzi e aveva imparato a leggerne i sentimenti. "Esiste nell'animo di un adolescente la percezione della fine?" Si chiese. "Non sarebbe logico e neanche coerente". Eppure, il viso di Avanish tradiva il senso della fine. Allora Ekta lo strinse a sé e gli diede un bacio sulla fronte. "Bisogna sempre sperare nel meglio, Avanish". Lo abbracciò ancora una volta e lo aiutò a salire sul pulmino. Avrebbe voluto sedersi davanti, ma Ekta non volle. Gli disse di sedersi dietro e Avanish lo fece. "Mi sembra che tutto sia stato caricato", osservò Namdev. "Si, si…è tutto qui dentro", sospirò Ekta. La donna volse lo sguardo verso il cognato. Avrebbe voluto abbracciarlo, sebbene nutrisse un forte risentimento nei suoi confronti. "Allora, sorridendo. andiamo…in marcia…", affermò Namdev, Avanish guardò Namdev, si girò dal lato delle mura, che stava abbandonando e poggiò la testa sul vetro. I capelli neri, schiacciati, ne ammorbidirono l'impatto. Tra quelli che partivano e quelli che restavano si apriva un baratro, che non sarebbe mai più stato colmato. Tutti ne avevano consapevolezza. Si scambiarono degli sguardi, poi si salutarono con la 4 mano, evitando qualsiasi contatto tra di loro. Ekta si sedette davanti, al lato di Namdev, che partì, facendo un cenno di saluto. Il vecchio amico fece qualche passo indietro, rinculando nuovamente sull'uscio. Vi rimase fin quando il pulmino di Namdev non sparì dal suo orizzonte visivo. Poi rientrò in casa, si sedette su una sedia nel piccolo cortile antistante e bevve. Faceva caldo e lui aveva sete. Bruxelles Erano da poco passate le quattro del pomeriggio ed Enzo Faramelli aveva sete. "Continuo a mozzicarmi la lingua. Invece, avrei bisogno di bagnarmi le labbra", sospirò. Aveva due opzioni possibili, una Coca-Cola al pian terreno oppure una birra al Wild Geese. Nel primo caso sarebbe dovuto uscire dall'ufficio, prendere l'ascensore, scendere tre piani, attraversare un lungo corridoio e giungere in caffetteria, dove avrebbe avuto la sua bibita preferita. Nel secondo caso, avrebbe dovuto attendere ancora un paio d'ore, fare parzialmente lo stesso percorso, uscire dall'edificio, attraversare Rue Joseph II ed entrare al Wild Geese. Rue Joseph II si snoda lungo noiosissimi palazzi di marmo, vetro e cemento, al centro di un quartiere senza anima, composto per l'ottanta per cento da uffici. Quando scende la notte, non resta nulla del vociare del giorno. E quando scende la nebbia sulla notte di Bruxelles, i noiosi palazzi di marmo si confondono nel grigio. Solo le luci del Wild Geese gli forniscono ossigeno per respirare. Non ci fosse il pub irlandese, si potrebbe perfino vedere il cappio al collo, che soffoca la strada e i suoi impavidi residenti. Enzo Faramelli, sorprendentemente, scelse la seconda opzione. Nonostante avesse sete, decise di attendere ancora due ore, prima di bere. Anzi, scelse di attendere due ore, proprio perché aveva sete. Il paradosso della scelta calzava a pennello sulla sua figura. Enzo associava la sete alla birra e quando aveva veramente sete non pensava ad altro che alla birra. Il Wild Geese, nel deserto di Rue Joseph II, lo 5 avrebbe aiutato a compiere il paradosso della sua scelta. A mezzogiorno e mezzo aveva mangiato una pizza intera alla Riviera, insieme a Javier Gonzales e Damien Kudada. Durante il pranzo aveva bevuto dell'acqua liscia ma, alle quattro, la sete gli era tornata prepotente. Nessuno dei suoi colleghi avrebbe potuto sospettare che Enzo avesse tanta sete. Solo chi ne ha tanta riesce a percepire la sensazione della sete degli altri. E solo chi non riesce a soddisfarla ne teme la sensazione quando arriva. Non era il caso di Enzo. Non era neanche il caso dei suoi colleghi. Sapevano che avrebbero potuto soddisfare la sete come avrebbero voluto. Enzo continuò a lavorare tranquillamente nel suo ufficio, facendo crescere il desiderio. Lo fece ancora per due ore, come aveva previsto. Alle sei in punto spense il computer e si alzò dalla sedia ergonomica, che aveva fatto portare apposta per alleviare i maledetti dolori alla schiena, che lo tormentavano dall'età di venti anni. La accostò alla scrivania e si mise in cammino. Doveva prendere l'ascensore, scendere tre piani e imboccare la porta d'uscita. In ascensore incrociò Jean Marc Brunet. I due si conoscevano. L'ufficio di Jean Marc non era lontano dal suo. Li separavano due porte, che davano entrambe sulle scale che, nessuno aveva mai utilizzato per scendere da un piano all'altro. Una volta era capitato che avessero discusso della conferenza di Copenhagen su Competizione industriale e apertura di nuovi mercati. Avevano preso parte alle riunioni preparatorie e, giunti a Copenhagen, si erano confrontati sui paesi terzi. Jean Marc gli aveva chiesto cosa lui intendesse per paesi terzi. Enzo gli aveva risposto, senza cadere nell'ipocrisia del politically correct. "Sono gli stati sfigati che, purtroppo per loro, non fanno parte del circolo virtuoso degli eletti europei. Si trovano alle porte dell'Europa, distanti lo spazio sufficiente per sentire l'odore del benessere". "Possono vedere ma non toccare". "Esattamente!" 6 Avevano parlato anche di concorrenza industriale e nuovi mercati, perché entrambi avrebbero dovuto preparare un briefing per il giorno successivo e avevano necessità di coordinare i loro input. Nonostante avessero avuto modo di parlare, quando Enzo entrò in ascensore e vide Jean Marc, non disse nulla. I due si ignorarono completamente. Enzo preferì fissare lo specchio, che aveva di fronte, mentre Jean Marc seguì la luce gialla posta sulla porta, che illuminò, dapprima il quattro, poi il tre, il due, l'uno e, infine, lo zero. Non si salutarono neanche di fronte alla porta d'uscita La varcarono continuando a ignorarsi, proprio come due perfetti sconosciuti. "Che strana sensazione quello specchio!" sospirò Enzo. Era abituato alle strade, alla polvere, alla puzza di gasolio, alle officine scalcinate. Si era sempre perso e ritrovato, senza mai guardarsi dentro. L'uomo amava fermarsi nelle bettole e nei piccoli alberghi, a ridosso delle frontiere e tra i faccendieri. Enzo amava tutto quello che il suo Mediterraneo rappresentava fuori dagli stereotipi e lontano dalle cartoline per i turisti. Il Mediterraneo lo aveva marchiato. Solo lui che c'era nato poteva averlo dentro. Il mare e il sole erano connaturati alla sua coscienza. La concezione della vita di Jean Marc non era tanto diversa da quella di Enzo ma nessuno dei due lo sapeva. Jean Marc era nato nel nord della Francia, quella che i niçoises neanche conoscono, immaginandola triste e piovosa, fredda e sconsolata. I francesi del sud la qualificano senza esserci mai stati. Eppure quella Francia è molto più mediterranea della Côte d'Azur. La gente parla, sorride, sa riconoscere l'ora del tramonto senza restarne abbagliata. Sarebbe stato nella natura di entrambi salutarsi e discutere. Eppure non lo fecero, lasciando prevalere un misterioso senso di riservatezza, che solo Bruxelles è capace di trasmettere. Se Enzo avesse incontrato Jean Marc da qualche altra parte del mondo, avrebbe certamente chiacchierato con lui. A Bruxelles, invece, riuscì ad ignorarlo, pur trovandosi a pochi centimetri di distanza. In quegli attimi di silenzio, gli tornarono in mente i vicoli del Mediterraneo, dove conta ancora il tempo perso al tavolino e il non fare niente per percepire se stessi. La paura del vuoto non si avverte e non c'è la necessità di riempire tutti gli spazi. A Bruxelles, ogni attimo, 7 ogni silenzio, ogni luogo deve essere riempito di azioni, di suoni o di merci da produrre e, poi, consumare. Uscì dall'ascensore subito dopo Jean Marc e si diresse verso l'uscita. Intravide il capo pelato dell'usciere calabrese. "Quando vai in Calabria?" gli chiese Enzo. "Purtroppo solo in estate, dottore", gli rispose l'usciere, che se ne stava seduto dietro il bancone dell'entrata, come se fosse al comando di una nave. "Dovresti dare più valore al riposo", gli fece notare Enzo, che, intanto, aveva appoggiato la mano destra sul bancone. "Non c'è tempo, dottore". "Ecco, la disponibilità del tempo…" "Il tempo, ci manca il tempo, dottore". "Tempo, spazio, calma sono beni persi nel tempo, resi sempre più scarsi e che proprio per questo dovrebbero rappresentare i nuovi status symbol. Dovrebbero essere i nuovi beni di lusso ai quali dovrebbero accedere quelli che stanno bene. Ma avere più tempo libero è davvero qualcosa che ognuno di noi debba augurarsi?" chiese Enzo, sviluppando un monologo, che solo lui era capace di intendere. L'usciere rimase interdetto, non sapendo cosa avrebbe dovuto e potuto rispondere. "Sarebbe meglio non affidare questi interrogativi ai sociologi. Meglio affidarli a Pascal", aggiunse Enzo "Come dice, dottore?" domandò l'usciere, sempre più interdetto. "Che chi vuole riempire tutti i vuoti, spesso lo fa per evitare di restare solo con se stesso". "Io ci resterei volentieri. Solo con me stesso, intendo. Se potessi, ovviamente…" "E perché non lo fai?" "Mia moglie, i bambini…non è facile". "E, invece, dovresti trovare il tempo per te stesso". 8 "…E poi il lavoro…i soldi…" "Ah, il lavoro…Ti assicuro che molti si rifugiano nella medicina del lavoro per evitare di restare soli con loro stessi. Sono quelli che non avrebbero neanche bisogno di lavorare". "Beati loro", concluse l'usciere calabrese. Il tempo libero è soprattutto dialogo con se stessi, ma é come la libertà di parola. Una volta ottenuta occorre che sia utilizzata per dire qualcosa. La disponibilità di tempo è una benedizione per pochi e una maledizione per molti. In fondo, se Enzo avesse trovato il tempo di riflettere, avrebbe potuto scoprire, suo malgrado, che si trattava di una maledizione anche per lui. Aveva lasciato la quiete della provincia per il dinamismo di Bruxelles, temendo che il suo piccolo paese lo potesse costringere a pensare. A Bruxelles, invece, il tempo per pensare non lo aveva mai trovato. Si svegliava la mattina presto, si precipitava al lavoro, ingurgitava un caffè durante una pausa volante, sbocconcellava un panino davanti al video del suo computer, correva a casa, sudava un paio d'ore in palestra, faceva un salto al supermercato, preparava in fretta la cena e, poi, usciva di nuovo per una serata al cinema, a teatro oppure in discoteca. La sera crollava, esausto. "Perché non riscoprire il valore positivo dell'ozio e metterlo al centro di uno stile di vita più sostenibile?" chiese Enzo all'usciere, che non gli rispose. Enzo avrebbe dovuto porre quella domanda soprattutto a se stesso. Nel mondo che aveva scoperto a Bruxelles, dominato dall'etica del lavoro, dall'efficienza, dai martellanti messaggi che incitano a fare, produrre, guadagnare, consumare, il non atto dell'ozio veniva considerato quasi un atto sovversivo, rivoluzionario. Avrebbe dovuto porre quella domanda soprattutto a se stesso perché da tempo aveva iniziato ad avvertire l'esigenza di riappropriarsi del proprio tempo e di percepire il profumo della libertà di vivere la vita che si vuole fare. Liberi da capi, salari, pendolarismo, consumi e debiti. Perché allora porre quella domanda all'usciere di origini calabresi? Era l'unico che lo salutava, pur non conoscendone il nome. L'uomo nella cabina di comando della nave era diverso da Jean Marc 9 Brunet. Era ormai un belga mediterraneo, benché lui si dichiarasse italiano ed Enzo avesse considerato come vera la sua dichiarazione. L'Italia l'aveva conosciuta attraverso il racconto della madre. Ci andava in vacanza d'estate, tre settimane in Calabria nel mese di agosto. Diceva di essere italiano perché durante il campionato europeo di calcio, aveva fatto il tifo per l'Italia, anche quando la squadra italiana aveva incrociato sul suo cammino la Nazionale belga. Enzo lo aveva interpretato come un atto di fede e aveva pensato che la soffice morbidezza dell'essenza mediterranea si fosse ben conservata sotto la crosta nordica. Si sarebbe volentieri fermato a discutere più a lungo, se avesse potuto. Però, andava di fretta. Aveva sete e doveva soddisfare la sua percezione. Aveva trascinato la sua sete per due ore e non aveva più la forza fisica per aspettare di bagnarsi le labbra. Il Wild Geese era a portata di mano. Altri cinque minuti, compresi i tempi morti spesi tra l'ordinazione e la rimessa della birra direttamente al tavolo, e si sarebbe finalmente dissetato. Percorse il cammino che lo separava dalla birra, a passo svelto. Entrò al Wild Geese e si sedette al primo tavolo che trovò libero. "Can I help you?" Le chiese la cameriera irlandese. "Una birra, fredda e bionda come quella signora", rispose Enzo, indicandola con il dito. La cameriera irlandese gli portò la birra. Subito dopo avergliela versata nel bicchiere stretto e alto, gli mostrò lo scontrino. Enzo, prima ancora di tirare fuori le monete per pagare, bevve la birra e si sentì rinascere. La butto giù in due soli sorsi. Pensò che l'attesa fosse stata ricompensata. Qualche minuto dopo, poté abbandonare il Wild Geese per ritrovarsi di nuovo nella strada senza anima. Mumbay Nel pomeriggio, Avanish scese in strada. Non conosceva ancora nessuno nel suo nuovo quartiere. Tirò la palla contro il muro di pietre ma non rimbalzò. Provò ancora una volta ma l'effetto fu lo stesso. Rinunciò a tirare la palla e si sedette in un angolo, con le spalle 10 appoggiate al muro di pietre. Gli apparve strano, deforme, come se non avesse un'anima. Ebbe nostalgia della vecchia casa ma, soprattutto, ebbe nostalgia di suo padre che non c'era più. Era morto da quasi un mese e non c'era stato un solo giorno che non avesse pensato a lui. Lo ricordò come un uomo dolce, capace di trasmettergli il gusto per le cose che possono piacere agli altri. Ricordò che il primo giorno di scuola lo aveva tenuto per mano. Allora, si portò la mano destra su quella sinistra. La strinse per provare a rivivere le sensazioni di quel giorno. Chiuse gli occhi per renderle ancora più vere ma, pochi attimi dopo, l'effetto si dissolse. Avanish aprì gli occhi e riprese contatto con la realtà. Si alzò in piedi e scagliò nuovamente la palla con rabbia contro il muro. Anche Ekta aveva pensato ogni giorno al marito. Da giovane era stata una bellissima ragazza, con la carnagione scura, gli occhi neri grandi, i capelli lunghissimi, lisci e neri. Elegante e aggraziata. Quando studiava all'università era stata innamorata di un suo compagno di studi. Ora non ne ricordava più neanche il nome. Lo frequentò per quasi un anno, fin quando la madre, una sera di aprile, le disse che insieme a suo padre avevano scelto per lei un altro uomo. "Perché?" domandò alla madre. "Perché non sei solo tu a sposarti". "Spero che mi piaccia". "Ti piacerà". Alla fine, accettò serenamente la scelta dei genitori. "Se piace a te, piacerà certamente anche a me", riferì alla madre. Le due famiglie organizzarono il matrimonio. La nonna, madre di suo padre, decorò le partecipazioni due giorni prima. Appose un cordoncino dorato, legato in fondo da un fiocchetto rosso, simbolo di buon augurio. La prima facciata della partecipazione, che rappresentava una scena di matrimonio, era simile a una miniatura incisa in oro e polvere rossa. "Vai da tua madre", le consigliò la nonna, "non perdere tempo qui con me". 11 Stava arrivando il futuro sposo e Ekta e la madre lo avrebbero accolto sulla porta. Prima, però, avrebbero dovuto preparare i dolci di benvenuto. "Cucina quelli con il miele, il burro fuso, le banane e il riso per accoglierlo nel migliore dei modi", gli suggerì la nonna. "Non sono facili da fare", commentò Ekta. "Per questo ti ho detto di andare da tua madre. Fatti aiutare da lei". Ekta fece una smorfia di disappunto. La nonna la rassicurò. "Anche tua madre non sapeva prepararli. Le ho fatto vedere io come si fa’ e ora lei lo farà vedere a te". Il futuro sposo giunse a casa di Ekta a cavallo. Erano le quattro del pomeriggio. Lei aveva cucinato i dolci con il miele, il burro fuso, le banane e il riso per accoglierlo nel migliore dei modi, così come le aveva proposto la nonna. Non era stato facile ma sua madre l'aveva aiutata. Il futuro sposo, dopo essere sceso da cavallo, salutò la madre, il padre e la nonna di Ekta. Finalmente si avvicinò alla sua futura moglie e le prese la mano. La sera prima delle nozze, Ekta si ritrovò con le amiche. "Scommetto che la prima cosa che ti chiederà sarà di fare un lungo viaggio in Europa", affermò Amita. "Non credo me lo chiederà. In Europa ci va per lavoro". "Lui ci andrà per lavoro e tu per piacere", la interruppe Amita, provocando l’ilarità delle altre ragazze. Anche Ekta sorrise. Poi aggiunse: "Non è importante. A me non interessa tanto l’Europa". "Però ti piacerebbe viaggiare?" Domandò Kusuma. "Non lo so", replicò Ekta. "Sarebbe un modo per conoscervi. Io ritengo di avere veramente conosciuto mio marito durante il viaggio in Rajasthan. La gente si svela completamente quando viaggia", aggiunse Rama, che era la meno giovane tra tutte. 12 "Vuoi dire che chi non viaggia non conoscerà mai suo marito?" "No, non sono tanto sciocca". "Vuole dire che chi viaggia conosce meglio", provò a spiegare Kusuma. "Chi viaggia si libera della maschera che indossa e mostra se stesso". "Un marito che resta a casa e non viaggia indosserà sempre una maschera", esclamò provocatoriamente Amita. "Non lo so, non lo so", rispose Rama, "mi state imbarazzando con le vostre osservazioni. Io volevo semplicemente dire che il viaggio svela la vera natura degli uomini". Smisero di parlare di viaggi e di uomini e ripresero a mangiare. L’aria calda della sera inteneriva il pane e ammorbidiva il riso. Il giorno successivo Ekta e il suo sposo celebrarono il matrimonio sotto una tettoia. Faceva molto caldo e non avrebbero resistito se si fossero esposti direttamente al sole. Lo sposo indossava un vestito bianco, al collo alcune ghirlande di fiori. Dai capelli gli scendeva sulla fronte un ornamento d'argento, che si andava a posare tra le due sopracciglia. Ekta vestiva un sahari bianco, finissimo, di toussour di seta con bordi in oro. Dalla madre, era stata ricoperta di monili di oro, parte della sua dote. Ghirlande di fiori e ornamenti in oro sulla fronte. Gli sposi vennero unti con unguenti profumati e polvere di zafferano. Fu ovviamente acceso il fuoco sacro, simbolo del Dio Honi, vicino al quale erano stati posti un vaso d'acqua e una pietra. Ekta e suo marito fecero un giro intorno al fuoco, compiendo il rito dei sette passi. Il marito, infine, toccò il cuore di Ekta, legandole il mangala subrabandhana al collo. La cerimonia fu molto lunga. Alla fine, entrambi gli sposi non desiderarono altro che riposare. Da quel matrimonio nacquero tre figli. Dapprima Avanish e, dopo qualche anno, Ishan e Bina. Ekta, in particolare, li aveva tanto desiderati e avrebbe voluto 13 goderseli a lungo. Invece, le cose non andarono come avrebbe sperato. Scoprì la malattia del marito ancora prima che il marito stesso ne venisse a conoscenza. I risultati delle analisi le furono comunicati dal medico dell'ospedale. "In questi casi preferisco parlarne dapprima con un congiunto e, solo nel caso venga esplicitamente autorizzato, ne parlo direttamente con il diretto interessato", affermò il medico. "Ne parli prima con me", confermò Ekta. "I risultati delle analisi sono inequivocabili. Suo marito ha contratto il virus". Ekta scoppiò in lacrime. "Non si deve disperare. Proveremo a curarlo", tentò di rassicurarla il medico. Ekta, invece, continuò a piangere. Era consapevole che le parole del medico rappresentavano una sentenza di morte. "Sarò io a parlarne con mio marito", propose Ekta. Non lo fece. Pensò che sarebbe stato come farlo morire prima del giorno che il destino gli aveva dato in sorte. Sapeva che non sarebbe stato possibile curarlo. Non in India. Forse da qualche altra parte del mondo. Quando fece ritorno a casa, nascose gli esiti delle analisi al marito ma, quando la situazione iniziò chiaramente a degenerare, non poté non confidargli il suo terribile segreto. "Dovrai lottare con tutte le tue forze, perché il male che è in te proverà a sopraffarti". "Non so quante forze mi siano rimaste". "Non importa quante te ne siano rimaste. E’ importante lottare". "Si deve lottare quando c’è una speranza di vincere. Tu pensi che io abbia una speranza?" "Si deve lottare sempre e comunque. Non conta il risultato della battaglia quanto la tensione che ci metti. Il giorno in cui esalerai l’ultimo respiro non dovrai rimproverarti di non avere lottato". 14 Il giorno dell’ultimo respiro giunse puntuale. Il marito di Ekta morì non senza potere dire di avere lottato fino alla fine. Anche Avanish sapeva che suo padre aveva lottato. Promise a se stesso che avrebbe ricordato per sempre quella lezione. Nel quartiere, tutti sapevano e tutti aspettavano il giorno della sua morte. Anche suo fratello attendeva il giorno della morte. Si trattava di un fatto ineluttabile, che non si sarebbe potuto evitare. Non si conosceva il giorno e l’ora, ma prima sarebbe accaduto e meglio sarebbe stato per tutti. Per la precisione, Avanish seppe che suo padre sarebbe morto il diciotto aprile 2001. Aveva solo dodici anni. Ekta, sua madre, lo prese in disparte e gli disse: "Ormai sei grande. È giusto che tu sappia". Avanish ascoltava le parole della madre benché non ne comprendesse le ragioni. Non capiva perché gli stesse dicendo che fosse grande, ma si sentì fiero di esserlo. Di fronte allo sguardo smarrito di Avanish, Ekta non seppe fare altro che prenderlo tra le braccia. "Tuo padre ci lascerà tra qualche tempo. Sarai tu l'uomo della famiglia". Avanish si sentì ancora più fiero. Non pensò che suo padre non ci sarebbe più stato ma che avrebbe fatto l'uomo di casa. Quando la madre lo abbracciò forte, avvertì il suo cuore pulsare più rapidamente. "Perché vuoi che io sia l'uomo della famiglia?" "Non sono io che lo voglio. Così è stato stabilito e così sarà". "E nostro padre?" "Tuo padre ci lascerà". "Per sempre?" "Per sempre!" A partire da quel momento Avanish si sentì più forte e anche il giorno in cui suo padre morì, non pianse. Era stato stabilito che dovesse essere l'uomo della famiglia e iniziò ad esserlo. 15 "Il pianto mi farebbe debole agli occhi degli altri". Avvertì, comunque, una tristezza che non lo avrebbe mai più abbandonato. In quegli istanti, a nulla valse pensare che suo padre avesse lottato fino all’ultimo respiro. Neanche Ekta pianse. La notte prima della morte, rimase accanto al marito, in attesa che gli ultimi attimi della loro unione si consumassero. "Voglio che tu sappia che percepisco tutti i tuoi brividi, di dolore e di sofferenza", gli confidò. "Prova a condividerli con me, per quanto questi brividi appartengano solo ed esclusivamente al mio corpo", le propose il marito. "Sono accanto a te proprio per condividere. La sofferenza e il dolore appartengono a tutti, benché i brividi siano solo tuoi". L'attimo in cui il moribondo esalò l'ultimo respiro non fu diverso da quelli precedenti. Ekta non riuscì a notare la differenza. "Non è facile vedere la morte nel momento in cui arriva. Sfugge, svanisce dopo avere preso quello che stava cercando". L'attimo in cui la morte prese il corpo del marito, Ekta rimase impassibile. Invece, Ishan e Bina piansero, ma solo perché avevano fame. Fu pura casualità. Avanish rimase freddo, come la madre. Sentì il sangue gelarsi dentro le vene. Si sedette per terra in un angolo e rimase immobile per quasi dieci minuti. Poi si alzò e si mise a guardare in strada dalla finestra, a destra della porta di entrata. Gli ricordarono che non doveva essere triste. "La morte non é un evento tragico, ma un momento di lode in cui l'anima si muove per incontrare il Supremo", precisò lo zio. Benché quelle parole fossero state accompagnate da un sorriso rassicurante, non suscitarono affatto sicurezza nell’animo di Avanish. Il rito funebre durò ben tredici giorni. Come era stato stabilito, nessuno pianse e nessuno si disperò. Il corpo del defunto venne lavato e rivestito con abiti nuovi. Venne deposto nel grande atrio di entrata per essere visibile a tutti. Accanto vennero lasciati un coltello, 16 un bracciale in acciaio inossidabile, un intimo, un piccolo pettine e dei capelli integri. I parenti si sedettero vicino alla bara. Avanish, invece, rimase dietro la finestra. Furono recitate le scritture senza sosta, per due giorni interi, notte e giorno. Anche nei dieci giorni successivi si recitarono le scritture per infondere consolazione e coraggio. Il tredicesimo giorno la salma venne condotta verso il crematorio. Lungo il cammino, si intonarono canti per favorire il distacco dell'anima dal corpo e anche prima della cremazione si recitarono le preghiere, invocando la benedizione per la partenza dell'anima. Avanish fu incaricato di infiammare la pira funebre, mentre tutti gli altri si sedettero poco lontano. Il ragazzo indossava un velo nero e anche tutti gli uomini che erano presenti al rito indossavano un velo nero. Ekta, invece, indossava un velo di colore bianco come tutte le altre donne. Mentre la salma bruciava, Avanish raggiunse la madre. Si abbracciarono. Le ceneri vennero raccolte per poi essere disperse nel mare. Dopo la cremazione, la famiglia rientrò a casa. Prima di entrare, tutti si lavarono come segno di purificazione, mentre una candela di ghee e cotone venne accesa per purificare la casa. Un buon odore si disperse dappertutto. I giorni seguenti li trascorsero a leggere e cantare. Ginevra Non ce la faceva più ad aspettare. Avvertiva uno strano odore di caffè, che proveniva dalla stanza vicina. Non riusciva a comprendere se fosse realtà oppure una strana illusione olfattiva. Quel pomeriggio Antoine aveva davvero voglia di dormire ed era sufficiente l’illusione del caffè a tenerlo sveglio. Si era alzato all'alba, anzi, molto prima del sorgere del sole. Il padre lo aveva caricato sulla sua vecchia Citroen a forma di squalo e lo aveva condotto velocemente alla stazione. Era in ritardo e, se ci fosse stato traffico, non sarebbe mai arrivato in tempo. Fortunatamente, a quell’ora, di macchine in giro ce n’erano pochissime ed era riuscito a 17 saltare, appena in tempo, sul treno delle cinque e trenta per Lione. Si sedette a fianco di una donna sulla quarantina che non lo degnò neanche di uno sguardo. Lui ne approfittò per sonnecchiare. Il viaggio non era lungo ma sarebbe bastato a ricaricarlo di quelle poche energie necessarie per affrontare il volo dall’aeroporto di Lione a Ginevra. Come il tragitto in treno, anche il volo non fu particolarmente significativo. Qualche turbolenza appena entrato nello spazio aereo svizzero ma non successe nulla che lo potesse rendere davvero indimenticabile. Non parlò con nessuno, neanche con i due uomini, ben vestiti, che gli erano a fianco. Giunse a Ginevra esattamente alle due e quattordici. Dopo avere ritirato il bagaglio, bevve un caffè. Alle quattro e mezzo lo attendeva Monsieur Herbert. All'appuntamento giunse puntuale, anzi con qualche minuto d'anticipo rispetto all'orario concordato. Il suo anticipo, tuttavia, non valse a niente. Monsieur Herbert era occupato e, non solo non avrebbe potuto riceverlo alle quattro e mezzo, come concordato, ma avrebbe dovuto attendere altri dieci minuti. Infatti, subito dopo essersi fatto annunciare, gli fu stato chiesto di pazientare. "Non c’è problema", rispose prontamente. "Bene!" Esclamò Mademoiselle Henriette, una giovane con il caschetto biondo, che Antoine non poté fare a meno di notare. Indossava un jeans sdrucito e un maglione a collo alto. "Se vuole, le faccio portare un caffè", aggiunse. "Molto volentieri. Ne ho davvero bisogno", le rispose Antoine. Stava per dirle che lui si era alzato presto e che il caffè lo avrebbe aiutato a tenersi sveglio ma non fece in tempo. La giovane con il caschetto biondo e il maglione a collo alto, non appena ebbe inteso l’indicazione di Antoine, si diresse verso la macchina del caffè, abbandonandolo alle sue frasi sospese. In attesa del caffè, si stravaccò sulla poltrona di pelle morbida, nel corridoio. Mademoiselle Henriette ritornò con la tazza in mano. La porse ad Antoine, che la sorseggiò in maniera regolare. Un sorso, una pausa, un altro sorso, un’altra pausa fino a svuotare la tazza. 18 Nonostante il caffè, faceva ugualmente fatica a tenere gli occhi aperti e avrebbe avuto bisogno di sonnecchiare ancora un po’, come aveva fatto in treno la mattina. Purtroppo, non poteva farlo. Monsieur Herbert avrebbe potuto chiamarlo da un momento all'altro e non sarebbe stato conveniente né educato, farsi trovare con gli occhi socchiusi e, magari, il nodo della cravatta sciolto. Non gli restava altro da fare che avere pazienza. Stravaccarsi e aspettare. Dopotutto, aveva fatto tanto per trovarsi proprio in quel posto e in quel preciso momento. Non poteva trattarsi neanche di un grande sacrificio. "Monsieur Herbert si è liberato. Può entrare", propose Mademoiselle Henriette, abbozzando un sorriso. "Mi scusi", replicò Antoine, riferendosi alla sua posizione da stravaccato. Mademoiselle Henriette fece cenno che non era importante e gli fece comprendere che, se avesse voluto, avrebbe potuto stravaccarsi come e quando volesse. Antoine rimase leggermente sorpreso da quella reazione. Non era così che immaginava quell'ambiente ovattato. Non si raffigurava i jeans e non pensava di potersi stravaccare sulle poltrone. Si era preparato al meglio, indossando un vestito scuro e una cravatta azzurra. Entrando nell'ufficio venne rassicurato dall'abbigliamento di Monsieur Herbert, che indossava un abito scuro, proprio come lui, ma che a differenza di lui completava con una cravatta rossa con dei pois blu. "Evidentemente Mademoiselle Henriette non fa testo", pensò, prima di salutare Herbert. Nel vederlo entrare, Herbert si sollevò dalla sedia e gli andò incontro. Lo salutò con una stretta di mano. "Prego, si accomodi", esordì con un tono gentile ma deciso. Antoine sorrise ma non disse nulla a parte il suo nome. C’erano alcuni documenti sulla scrivania che Herbert mise in ordine, accatastandole l’una sull’altra. Antoine sorrise di nuovo e Herbert iniziò a parlargli. "Ha fatto un buon viaggio?" 19 Non gli lasciò il tempo di reagire e aggiunse: "Spero di si". "Certo, un buon viaggio", confermò Antoine. "Non deve essere lontano Lione da Ginevra". Di nuovo non gli lasciò il tempo di reagire. Aggiunse: "Un'ora?" "Di volo effettivo anche meno", replicò prontamente Antoine. "Ah, anche meno di un’ora". "Cinquanta minuti". "Lione, Lione…il confine tra la Francia mediterranea e la Francia continentale", sospirò Herbert. Anche in questo caso, Antoine sorrise senza dire nulla. "Ha già trovato una sistemazione?" "No, non ancora" "Non ha trovato una sistemazione? E dove passerà la notte?" "Voglio dire che non ho ancora trovato una sistemazione definitiva". "Ah, ecco…" "Dovrò sistemarmi provvisoriamente in una pensione ma sarà solo per queste due notti". "Se domani avesse bisogno di una giornata libera per sistemarsi, non esiti a chiedermela", specificò Herbert. "Non si preoccupi. Non credo di averne bisogno. Approfitterò del prossimo fine settimana per sistemarmi definitivamente". "Ah, bene!" "Beh, si…a cosa serve il primo fine settimana se non a sistemarsi". "Le piace Ginevra?" "Non saprei. Non ho avuto ancora modo di visitarla". "Avrà tutto il tempo per farlo. Magari, non il primo fine settimana…", sorrise Herbert. 20 "Lo spero". "Questa città è particolarmente affascinante. Anche se parecchio popolosa, rimane ancora a misura d'uomo. Si troverà bene. La modernità di Ginevra è ben amalgamata con il classico dei monumenti. È elvetica per l'ordine delle strade e per la quasi maniacale concentrazione di orologi, ma è anche nordica per l'architettura dei suoi edifici". Antoine sorrideva, mentre Herbert raccontava. "La prima volta che ho passeggiato per Ginevra, l'atmosfera era ancora più particolare. Stava nevicando, non con grande intensità, ma quel tanto che bastasse a rendere il paesaggio urbano più ovattato, direi più fiabesco". Andò avanti ancora per qualche minuto, parlando di Ginevra, della neve e degli orologi. Gli mostrò anche un piccolo orologio che aveva sulla scrivania. "Mi è stato donato qualche giorno dopo essere giunto a Ginevra". "E’ molto bello", notò Antoine, con un misto di piaggeria e indifferenza. "Magari anche a lei doneranno un orologio". "Magari…" A quel punto, Antoine smise di seguirlo. Era stanco e non ne poteva più di Ginevra, degli orologi e della neve. Avrebbe voluto stravaccarsi su un letto qualsiasi ma doveva restare impalato dinanzi a quel distinto signore, che lo aveva accolto con gentilezza nel suo ufficio, fin quando non avesse smesso di raccontare. "Facevo fatica a camminare…I miei piedi affondavano nella neve che, soffice, si stava deponendo lungo i viali alberati della città. Era calata una leggera nebbia dalla quale emergevano, come fari, le luci dei lampioni". Con il passare del tempo, Antoine avrebbe voluto porre fine a quel discorso privo di senso, che Herbert stava portando avanti ma non poteva. Non restava altro da fare che aspettare. Prima o poi avrebbe 21 avuto la pietà di terminare. New York Due minuti dopo essere sceso in strada a cercare un taxi, che lo portasse dall'altra parte della città, aveva già perso la pazienza. "Puttana città e stronzi portoricani di merda", blaterò, dopo che l’ennesimo tassista gli aveva offerto il culo della sua macchina, senza cagarlo neanche di striscio. "Rompono i coglioni con le loro meschine storie di poveri derelitti ma quando servono non ci sono mai. Li ospitiamo per avere cosa in cambio? Il culo delle loro macchine di merda. Sanguisughe maledette…" Quel poco di pazienza che aveva avuto in dote, gli era saltata definitivamente. James D'Angelo aveva un appuntamento, che avrebbe saltato volentieri, ma non poteva. Se magari qualcuno si fosse preso la briga di avvertirli, i portoricani di merda, che gli sfilavano davanti con indifferenza, probabilmente si sarebbero fermati. Avrebbero potuto aiutare quell’americano che si dimenava in strada, con una valigetta di pelle marrone sotto il braccio. Invece, sfilavano via, indifferenti. "Maledetti, fermatevi…" Odysseas Vakrou lo aspettava per discutere il rinnovo del contratto. Come se non avesse già abbastanza compiti da portare avanti, gli era stata affidata anche la questione della sicurezza. "Che cazzo c’entro io con la sicurezza?" Aveva pensato nel preciso istante in cui il direttore generale di Axa Pharmaceuticals gli aveva conferito l’incarico. L’aveva solo pensato, ovviamente, perché non si era lasciato sfuggire una sola parola. Aveva sorriso e precisato. "Mi sembra naturale che sia io ad occuparmene". "Bene, D’Angelo!" Ed era vero. Che cazzo c’entra un manager che si occupa di aspetti commerciali con la questione della sicurezza degli edifici 22 dell’azienda in cui lavora? Non c’entra nulla e non sarebbe logico che se ne occupasse. Invece, Axa aveva una struttura interna che accoppiava ad ogni manager un paio di responsabilità. A D’Angelo era toccata in sorte la sicurezza. A pensarci bene, non ci sarebbe neanche stato motivo di lamentarsi. "In pratica si tratta di far firmare un contratto, strappare le migliori condizioni possibili e incrementare il fatturato. In fondo, é come fare del commerciale", pensò un attimo dopo ma solo un attimo dopo. James D’Angelo era il tipo dell’attimo dopo. Ci pensava solo un attimo dopo, mai in tempo reale. Se c’era uno incapace di cogliere l’attimo, questo era lui. Troppo orgoglioso, ripiegato sul proprio ego e inevitabilmente irascibile per sospirare il giusto e rimettere in linea i pensieri con la realtà. Anche nel caso della sicurezza, in fondo, un legame con il commerciale, si sarebbe potuto trovare. Bastava cercarlo. La decisione del doppio incarico non era stata neanche una scelta tattica del direttore generale ma una impostazione strategica elaborata direttamente dal consiglio di amministrazione. "Ogni manager del gruppo deve accorpare due incarichi", era stato marcato in grassetto nel rendiconto della riunione mensile del gennaio 1997. Struttura snella e condivisione delle responsabilità, sarebbero stati i due capisaldi dell’organizzazione di Axa. Con Odysseas avrebbe dovuto discutere della manutenzione preventiva, della sostituzione delle parti e dell'assistenza tecniconormativa. Riferiti in questi termini, James D'Angelo non sapeva con esattezza di cosa dovesse parlare. Il dossier lo aveva studiato, anche scrupolosamente, ma gli mancava l’esperienza. Nella sua carriera, non gli era mai capitato di occuparsi di manutenzione preventiva, sostituzione delle parti e assistenza tecnico-normativa. Non lo aveva mai fatto in Axa perché il contratto precedente, di durata decennale, era stato preparato e concluso da Vincent Del Vecchio, il manager che lo aveva preceduto nella responsabilità della sicurezza interna del gruppo. "Vincent era uno tosto. Non impiegava molto tempo a concludere gli affari. Ascoltava i primi dieci minuti e poi interveniva con decisione. Era come un cobra, indietreggiava se attaccato, attaccava se erano gli altri a indietreggiare", gli aveva riferito il direttore generale, 23 presentandogli il nuovo dossier. "Insomma, era uno con le palle, che ha sempre portato a casa dei buoni contratti". "Che cazzo ci vorrà di speciale per negoziare un buon contratto sulla sicurezza?" considerò James, tenendosi per sé le sue convinzioni. "Intendiamoci, nulla di speciale ma i conti li sa fare bene", aggiunse il direttore generale, quasi avesse letto nel pensiero di James. "Che figlio di puttana! Replica anche quando non pongo domande. Legge la mia mente, lo stronzo!" Concluse James, sfilando il suo ultimo pensiero. Lui, al contrario di quel Vincent Del Vecchio preferiva interagire. La controparte non doveva essere necessariamente considerata un nemico. Poteva anche trattarsi di un collaboratore. Burbero nel comportamento e negoziatore al tavolo. Questo era James D’Angelo. Contradditorio fino al paradosso. Negoziava, annusando le esigenze del suo opposto, perché ha sempre creduto profondamente nella teoria dei giochi, la scienza matematica che analizza le situazioni di conflitto e ne ricerca le soluzioni competitive e cooperative tramite i modelli. In realtà, le applicazioni e le interazioni della teoria dei giochi sono molteplici. Non si limitano alle strategie aziendali. Si va dal campo economico e finanziario a quello strategico-militare, dalla politica alla sociologia, dalla psicologia all'informatica, dalla biologia allo sport. Il burbero James D'Angelo credeva nella teoria dei giochi e preferiva giocare a carte scoperte. Tutti devono essere a conoscenza delle regole ed essere consapevoli delle conseguenze di ogni singola mossa. Vincent Del Vecchio non lo avrebbe mai fatto. Lo avrebbe considerato molto pericoloso e poco producente. "Ma pace all’anima sua! Ovunque fosse, al tavolo non ci deve stare lui". James D'Angelo credeva nella teoria dei giochi, probabilmente perché più giovane di Vincent e la gioventù lo spingeva a sperimentare. Seguiva sempre la stessa strategia. Partiva dal presupposto che dovesse esistere un modello che fosse soddisfacente per tutti i giocatori. 24 "Si possono massimizzare i risultati di tutti, se i giocatori proseguono un fine comune, almeno per la durata del gioco". Tuttavia, negli istanti in cui si trovava per strada, James non pensò assolutamente alla teoria dei giochi. La sua unica preoccupazione era quella di trovare un taxi e di inveire contro i portoricani di merda, che se ne fottevano di lui e del suo contratto. Erano trascorsi quasi dieci minuti da quando si trovava sul marciapiede ed ancora non aveva trovato un solo figlio di cane disposto a fermarsi. Eppure non mancava molto all'appuntamento. Lui aveva calcolato quindici minuti esatti di attesa. Ne mancavano solo cinque. Si era sciolto il nodo della cravatta e continuava ad agitarsi. Pochi secondi dopo, essersi portato le mani in tasca, come un segno di disfatta, un taxi che nemmeno aveva provato a chiamare, si fermò a due passi da lui. Un signore di mezza età scese e lui approfittò immediatamente. Si infilò proditoriamente, senza nemmeno chiedere se fosse disponibile. "Mi avete rotto i coglioni con la vostra arroganza. Ora basta!" Il tassista lo guardò con circospezione. Aveva visto l'uomo, che prima era in strada, saltare sulla sua auto. "Sulla Lexington, tra la settantaquattresima e la settantacinquesima strada, per favore", invocò James, accennando ad un sorriso di soddisfazione, dopo aver sfogato tutta la sua rabbia. Il tassista, un negro sui sessanta anni, dopo essersi portato la mano destra sul cappello per aggiustarselo, ingranò la marcia e partì. "Vatti a fidare dei portoricani. Se non fosse stato per questo benedetto cristiano, sarei ancora sul marciapiede". Dopo qualche minuto, anche il negro imprecava. Le sue prime parole le fece uscire dalla bocca per maledire il traffico impazzito di New York. "Questa è una città puttana, con maledetti portoricani di merda", lo supportò James. Prese a smanettare sul suo telefono portatile. Dopo trenta secondi inviò un sms. Sarebbe arrivato tardi all'appuntamento. 25 16 febbraio Bruxelles Nello stesso istante in cui James inviava il suo sms, Enzo Faramelli si alzava dalla sedia. "Mi sto distruggendo il collo!" esclamò. Era stato seduto per ore nella stessa posizione e non era riuscito a staccare neanche un minuto. La sua cervicobrachialgia si sarebbe inevitabilmente manifestata anche quella sera. Iniziava ad avvertire i primi dolori al braccio, nella parte anteriore, poco sopra il polso. Fece alcuni movimenti, spingendo il collo in avanti e poi indietro, in alto e poi in basso. Si portò le mani alla cintura e rifece i movimenti. "Potrei rivedere quel dottore…" Di nuovo le mani sulla cintura. "Come si chiama…Colli…Collison…no…Colli…dovrei avere il suo biglietto da visita da qualche parte". Il dottore al quale stava pensando gli aveva raccomandato movimento e soprattutto "Mai nella stessa posizione per più di mezz’ora". Invece, si era alzato dalla sua sedia ergonomica una sola volta, quando Michael Banzill, il capo, gli aveva spedito una email "Please, come and see me". "I’m coming", aveva replicato Enzo, dopo pochi secondi. Aveva messo da parte il documento che stava leggendo con attenzione ed era andato nell'ufficio di Michael, dal lato opposto in cui si trovava il suo. Aveva attraversato il corridoio a passo veloce. Giunto nei pressi della stanza 4/47, aveva bussato d’istinto, senza dare importanza al gesto che stava compiendo. Infatti, senza attendere che Michael rispondesse, varcò la porta. "Qual è la posizione degli USA?" Gli chiese Michael, vedendolo spuntare. "Vorrebbero limitare l'accordo solo ad alcune malattie". 26 "Ne sei certo?" "Assolutamente!" rispose Enzo, chiudendo la porta a qualsiasi dubbio. "E le altre? Non sono malattie anche quelle?" "Lo so, ma gli USA non intendono cambiare la loro posizione. Almeno per il momento". "E noi? Cosa dovremmo pensarne noi?" "Noi dovremmo mettere la salute della gente al primo posto", replicò Enzo senza tentennamenti. "Hmmmm", sibilò Michael Banzill, abbassando lo sguardo. Rimase per qualche secondo in silenzio. Poi disse a Enzo: "Segui con attenzione l'evolversi della situazione. La questione sta prendendo una piega sempre più importante e non si può rischiare di commettere errori". "La vicenda sta montando. Oggi ho trovato un articolo sul Guardian". "Che diceva?" "Che stiamo perdendo tempo, che la gente muore". "Perdere tempo…lo chiamano perdere tempo…come se fosse possibile trovare una soluzione con un colpo di bacchetta magica. Tu ce l'hai?" "Cosa, Michael?" "La bacchetta magica! Ce l'hai?" "Se ce l'avessi non starei qui". Michael sorrise. Probabilmente anche lui avrebbe pagato un milione di dollari per non trovarsi lì. Prima che Enzo si allontanasse, disse: "Non facciamo errori. Ci stanno con il fiato sul collo". "Stai tranquillo, Michael". Enzo rassicurò il capo, benché non comprendesse completamente cosa potesse significare non commettere errori. 27 Avrebbe dovuto limitarsi al significato letterale o cercarne il significato recondito? Da quando lavorava a Bruxelles, aveva appreso a leggere tra le righe e spesso il significato letterale non corrispondeva a quello effettivo. "Che voleva dire con quel non facciamo errori?" pensò attraversando il corridoio per ritornare nel suo loculo, due metri per due. Giunto alla sua scrivania, rivolse con naturalezza lo sguardo verso lo schermo del computer. Scorse una nuova e-mail. Gliela spediva il suo amico di Pisa, Fabio. Enzo la lesse con attenzione. "Ciao, come stai?" gli scriveva Fabio all'inizio del messaggio. Si conoscevano ormai da quasi due anni, da quando Enzo aveva incrociato Fabio a Bruxelles nel corso di un meeting. Si erano piaciuti subito. Avevano in comune la politica industriale delle case farmaceutiche e la passione per le giacche di velluto. Dopo il meeting di Bruxelles, si erano incontrati a Pisa, un giorno di primavera, quando Fabio invitò Enzo per partecipare ad un seminario. Gli studenti di Fabio apprezzarono Enzo e glielo fecero sapere tramite Fabio. Enzo Ne fu contento. Fisicamente, Fabio era il perfetto contraltare di Enzo. Robusto, alto, con i capelli rossicci. In un pub di Temple Bar sarebbe potuto passare per un irlandese. "Il livello di attenzione nei confronti di questa vicenda è destinato a crescere. Fai attenzione!" lo consigliava Fabio, nel messaggio. "C'é una forte anomalia strutturale nell'evoluzione della domanda mondiale dei farmaci. La domanda dovrebbe crescere di più dove la popolazione cresce di più, ma non é così. Non lo é mai stato. La domanda di farmaci dovrebbe crescere di più anche dove il bisogno é meno soddisfatto, ma non é così". Nei paesi dove la vita attesa era di trentacinque anni rispetto ai settantacinque di molti altri industrializzati e dove la mortalità infantile era estremamente elevata, la domanda di farmaci rimaneva stabile, mentre nel Nord America e in Europa le vendite dei farmaci crescevano. "Si tratta di un problema etico. Bisognerebbe rivedere le politiche internazionali di sostegno alla sviluppo. I bambini malati non 28 possono andare a scuola", aveva scritto Fabio nell'ultima frase del messaggio. Enzo ripensò alla sua adolescenza. Non gli era mai piaciuto andare a scuola. Forse un po’ all'inizio, ma non dopo. L’aveva trovata noiosa. "Ogni volta che tornavo a casa, avevo la sensazione di avere perso tempo con un branco di inconfessabili e maledetti frustrati. Mai un balzo di creatività, di estrapolazione. Solo ordine e normalità". Evidentemente il problema della creatività continuava ad essere un cruccio per Enzo Faramelli. Da qualche anno lavorava alla Commissione europea di Bruxelles e avvertiva sempre più il peso dell’assenza di creatività. La sola possibilità che aveva avuto per esprimerla era consistita nel rispondere alle domande di cui non conosceva le risposte. Terminò di leggere l'e-mail di Fabio. Provò nuovamente a concentrarsi, nonostante avvertisse il fastidioso dolore al braccio crescere. Finì per sentirlo anche nella mano e poi nelle dita. Come se non bastasse, le melanzane, che aveva mangiato a pranzo da Carina, gli ritornavano prepotentemente in gola. Non era una novità. Aveva fatto sempre fatica a digerirle ma non riusciva a farne a meno. Non conosceva altro rimedio se non la Coca Cola. Una strizzata alla lattina gli avrebbe alleviato il peso. Frugò nelle tasche alla ricerca di novanta centesimi. "Maledizione! Solo due euro. Ho solo una moneta da due euro". Avrebbe potuto utilizzare quella moneta se non fosse stato per i problemi della macchina distributrice. A volte si bloccava e succedeva proprio con le monete da due euro. Con i centesimi, invece, funzionava meravigliosamente. Più volte gli era capitato di non riuscire a fargli ingoiare quelle maledette monete da due euro. "Ho davvero bisogno di questa Coca Cola", pensò, incrociando le dita. Non poteva restare con il peso delle melanzane sullo stomaco. Inserì la moneta che la macchina distributrice prontamente rigettò. Enzo la riprese e con calma la strusciò più volte sul metallo in 29 modo da favorirne l'attrito. La inserì nuovamente. Al settimo tentativo, finalmente ebbe successo. Prese dal contenitore, in basso, la lattina, la aprì e ne bevve qualche sorso. Si sentì sollevato. Perlomeno ebbe la sensazione di sentirsi meglio. Rientrò lentamente in ufficio. Stava per sedersi, nella medesima posizione che avrebbe finito per tormentare la sua cervicale, quando venne attratto dal telefono portatile, al lato del computer. Lo prese tra le mani. Aprì la ribaltina. Aveva due messaggi. Erano di Jan. "Come va oggi...?? Per una volta non mi dispiace che sia lunedì mattina....ho sentito gli uccelli alle 5 questa mattina, non potevo più dormire. Allora fa già qualche ora che sono all'ufficio...ma ho dimenticato che lavoro fine alle 9 stasera con la formazione... :o((( Ieri sera tranquilla, dopo le fragole, ho letto sul divano, molto piacevole :o))) A dopo! Jan" "Ho finalmente sentito Franco Battiato…c’è un accesso a youtube e a xfatctor! Bellissima musica, mi piacciono i suoni diversi di un sintetizzatore e gli strumenti classici insieme...fa un po’ anni 80 vs l’opera :o) Anche bellissime parole...ma dovrebbe essere abbastanza difficile superare le forze della gravità !!! Buon pom! X". Enzo e Jan si erano conosciuti su Facebook. Facevano parte del gruppo che non avrebbe mai rinunciato a partecipare ad una mostra di Klimt, neanche se fosse stata organizzata sull'isola di Pasqua. Dell'artista austriaco apprezzavano particolarmente la rappresentazione della figura femminile. Klimt ritraeva le donne come figure allegoriche, prendendo spunto dai personaggi della vita quotidiana. Talvolta si trattava di puttane che, sebbene ingentilite dalle citazioni classiche, erano raffigurate con acconciature vaporose e trucco pesante. Le rappresentazioni di Klimt scandalizzarono la società viennese dell'epoca, che avrebbe accettato senza problemi personaggi femminili idealizzati, pur non potendo non notare l'eccessivo realismo di alcune figure. Il paradosso della scelta di Enzo e Jan stava proprio nella rappresentazione della figura femminile. Nulla sarebbe stato più lontano dal proprio immaginario di desiderio che la figura femminile eppure proprio la rappresentazione che Klimt faceva della donna li aveva fatti incontrare. Ed era la passione per lo scandalo che Klimt aveva suscitato nella bigotta società viennese dell'epoca ad averli intrigati. 30 Si erano conosciuti in una fredda serata di novembre. Un incontro tanto virtuale che più reale non si poteva. "Ai primi del Novecento si inaugura la mostra della Secessione viennese, che pubblica la sua propria rivista". "Sei sicuro che sia stato ai primi del Novecento? Mi sembra piuttosto che sia avvenuto alla fine dell’Ottocento". "Potrebbe essere. Io con le date non sono molto in sintonia". "Neanche io. C’era un tempo in cui le ricordavo tutte. Ricordo l’esame di storia moderna…imparai tutte le date a memoria". "Io non ricordo non solo le date ma anche i dettagli. Se mi chiedi il nome della rivista della Secessione viennese non te la saprei dire". "Ver Sacrum". "Cosa?" "Il nome della rivista della Secessione viennese". "Ver Sacrum? Ver Sacrum!" "Primavera sacra" "Si, primavera sacra. Alla prima mostra vengono esposte opere dello stesso Klimt, di Rodin, Puvis de Chavannes, Böcklin, Alfons Mucha e Fernand Khnopff". Dopo avere discusso della prima mostra della Secessione viennese, della rivista Ver Sacrum, ricordarono l'episodio in cui l'università di Vienna aveva commissionato all'artista la decorazione del soffitto dell'aula magna. "Il tema illuminista del trionfo delle luce sulle tenebre, doveva essere sviluppato su tre facoltà, Filosofia, Medicina e Giurisprudenza. I lavori, rimandati per anni, quando vengono presentati finiscono con il rispecchiare il mutamento di Klimt" "Non solo di Klimt. I pannelli avevano finito con il rispecchiare il nuovo orientamento della Secessione. Vennero duramente contestati dai committenti, che avevano immaginato una sobria rappresentazione del progresso della cultura. Si ritrovarono, invece, in un turbinio di corpi sensuali". 31 "Un centinaio di professori protestarono contro questa opera…" "…che, però, finì, con il vincere il primo premio all’esposizione di Parigi del 1900". "Questa data, però, la ricordi?" "Semplicemente perché si tratta di una cifra tonda". Ricordarono, poi, i viaggi a Vienna. Entrambi avevano visto i pannelli. "La protesta di quei cento professori giunse fino al Parlamento. Lo sapevi?" "Adoro la pittura e venero Klimt a partire da quello scandalo". La sera fredda di novembre in cui si erano incontrati su Facebook per merito di Klimt, avevano finito per discutere dello scandalo dei benpensanti. Ne conclusero asserendo che anche loro erano stati uno scandalo. Ognuno secondo le proprie modalità. Enzo era nato in un piccolo paese in provincia di Potenza, alla fine degli Anni Sessanta. Era da poco trascorso il periodo del boom economico ma nessuno sembrava essersene accorto. Se non fosse stato per la macchina del dipendente comunale Fiore, probabilmente non se ne sarebbe accorto neanche Enzo. I cafoni continuavano a vivere in campagna e gli altri in paese. Invece, la Cinquecento del dipendente comunale Fiore, appariva l’inizio di una nuova epoca. Stavano cambiando le condizioni economiche, presto sarebbero cambiate anche quelle sociali. La condizione di Enzo, invece, non sarebbe cambiata e alla fine aveva rinunciato anche a farlo. Partì. Scelse di studiare a Roma. La prima volta che attraversò Campo de' fiori avvertì uno strano profumo di libertà. Jan, invece, la vera libertà l'aveva trovata a Bruxelles. Proveniva da una famiglia che definire tardo prussiana sarebbe stato azzardato. Non perché il riferimento non calzasse, quanto piuttosto perché esistevano degli elementi che non sarebbe stato giusto tralasciare. Il padre, Bernhard, era un pastore protestante. Al figlio aveva impartito un semplice insegnamento, l'uomo si trova completamente immerso nel peccato. Non ha la possibilità di redimersi con le sue sole forze. 32 Solo la fede lo può salvare. Dio ordina tutto, l'essere e l'agire umano compresi. Il risultato era altrettanto semplice. Non vi sarebbe stato posto per il libero arbitrio, che avrebbe inevitabilmente finito con il compromettere la meritorietà del credente. "Ogni credente é sacerdote per se stesso, in grado di accedere direttamente alla scrittura", gli disse il padre. All’età di quarantadue anni, il padre era stato eletto dalla comunità con il compito di istruire i fedeli, predicare e celebrare i sacramenti. La sera fredda di novembre in cui conobbe Enzo, Jan gli aveva telefonato. Avevano parlato di loro stessi e della famiglia. Dopo aver riposto il telefono, Jan si era abbandonato sul divano. Era stanco ma non riusciva a riposare. Fu allora che decise di accendere il computer, inconsapevole che quel gesto gli avrebbe segnato la vita per sempre. Enzo, invece, era già collegato da quasi due ore. Rispondeva ai messaggi. Intorno alle dieci e cinque minuti, gli giunse anche la richiesta di amicizia di Jan. Rispose subito. Era quello un segno del destino. Anche lui era completamente all’oscuro di quanto importante sarebbe stato quel gesto. Normalmente rispondeva alle richieste di nuove amicizie, dopo qualche giorno. Quella sera rispose subito. Dopo aver discusso di Klimt, entrambi ebbero la sensazione che fosse successo qualcosa di importante. Sbagliando, ne legarono l’importanza all’artista austriaco. Klimt non avrebbe avuto un ruolo tanto decisivo, sebbene fosse divenuto il pretesto per nuovi incontri. Tuttavia, trascorsero diverse settimane prima del loro nuovo contatto virtuale. La seconda volta, subito dopo aver spento il computer, si resero conto di avere delle affinità, benché non potessero immediatamente realizzarne la portata. "Il tuo numero di telefono?" gli chiese Jan, "non vorrei perderti di nuovo". Si erano ritrovati per caso. Non valeva la pena sfidare ancora una volta il destino. Quando Enzo vide i messaggi di Jan ebbe una strana sensazione di felicità. Le melanzane, che fino ad allora gli avevano tormentato lo stomaco, si misero da parte. Il peso si alleggerì, come se 33 il miracolo della coca cola si fosse puntualmente compiuto. Non poteva essere Jan a farlo sentire meglio. "In fondo chi lo conosce? Si tratta di una conoscenza virtuale. E non esiste che un'entità di cui non conosco né l'aspetto fisico, né la voce mi faccia stare meglio". Prima, però, di rispondere agli sms di Jan, diede uno sguardo al dossier che si trovava sul suo tavolo. Era voluminoso e non era il suo. Non gli era neanche familiare. Per questo volle esaminarlo con attenzione. All'interno, sulla prima pagina, Michael vi aveva attaccato un post it, "please have a look and let me know". Enzo si sedette. Spostò leggermente il mouse, che con il filo copriva una pagina di appunti, annotati velocemente parlando al telefono con il suo collega, Thomas. Ritornò di nuovo al dossier. Lesse la prima pagina, quella in cui si trovava il post it. Quando nel 1998, trentanove case farmaceutiche intrapresero un'azione legale contro il governo sudafricano, pochi avrebbero sospettato che una specifica campagna nazionale contro l'Aids sarebbe divenuta nell'arco di pochi anni "il caso" su cui l'opinione pubblica si sarebbe divisa. Eppure essa ha portato l'attenzione su temi enormemente complessi, inserendosi nel quadro più generale degli effetti della globalizzazione. Per comprendere meglio quanto accaduto, appare utile menzionare alcuni dati provenienti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. La questione del Sudafrica, analogamente a quella verificatasi in Brasile, ha portato alla ribalta un tema molto delicato. Ha spinto l'opinione pubblica e le organizzazioni competenti a riflettere sugli effetti che l'esistente normativa internazionale in materia di tutela intellettuale ha sui paesi in via di sviluppo. Se nei paesi avanzati, il sistema brevettuale garantisce l'equilibrio tra accesso ai farmaci e incentivo all'innovazione, attraverso un'efficiente definizione di durata e ampiezza del brevetto, ciò può non verificarsi in quelli costretti a fronteggiare crisi sanitarie di enormi proporzioni e non abituate ad un sistema di protezione così stringente. Enzo fece una pausa. Afferrò la lattina di Coca Cola che aveva riposto sulla destra della sua scrivania e ne bevve ancora qualche sorso. "Maledette melanzane!" esclamò. Le sentiva di nuovo sullo stomaco, come un macigno. Bevve 34 ancora della coca cola, sperando in un nuovo miracolo. Poi guardò il cellulare, che aveva quasi incollato al mouse. Era indeciso. Valutava se fosse stato opportuno rispondere ai messaggi di Jan subito oppure, successivamente, con calma. "Il vantaggio di rispondere subito è di dargli un segnale di attenzione. Lo svantaggio, però, è di dargliene troppa". Alla fine, concluse, che sarebbe stato più saggio ponderare la risposta, per scrivere le cose che realmente avrebbe voluto dire. Riprese in mano il dossier e continuò nella lettura. Non riprese proprio dal punto in cui era arrivato ma dalla pagina successiva. Negli ultimi anni si è assistito a un animato dibattito in seno a vari ambienti sulla questione dell'accesso ai farmaci, in particolare alle cure per l'Aids e alle ragioni che impediscono ai pazienti che vivono nei paesi in via di sviluppo di accedere alle terapie necessarie per poter godere di un buono stato di salute. La situazione patologica dei paesi in via di sviluppo è caratterizzata dalla presenza costante di Aids, tubercolosi e malaria, le malattie che attualmente richiamano maggiormente l'attenzione in quanto il loro impatto sull'economia e la società è di portata estremamente rilevante. Tuttavia, non sono da dimenticare le altre malattie che affliggono i paesi in via di sviluppo, nella maggior parte dei casi di origine tropicale o legate a situazioni di povertà est... Enzo sentì squillare il telefono. Interruppe bruscamente la lettura. Ripiegò il volume, che aveva tra le mani, sul tavolo e prese la cornetta. Rispose con calma. "Enzo Faramelli" "Enzo, sono Fabio" "Ciao Fabio, come stai?" "Bene, bene, Enzo! Ti chiamavo per quella questione…" "Me ne sto occupando, Fabio". "Tre giorni fa ti ho scritto una e-mail". "Ho letto, Fabio, ho letto!" "E allora?" "Sto rileggendo il dossier. Michael, me lo ha lasciato sulla scrivania. Il dossier completo…sai…sto leggendo…" 35 "Fammi sapere…" "Certo, certo". Enzo riprese la lettura. …rema. Al pesante impatto delle epidemie si aggiunge l'assenza di farmaci, che causa innumerevoli decessi nonostante le cure esistano e siano facilmente somministrabili. Nelle regioni più povere del pianeta, la metà della popolazione non ha accesso ai farmaci salvavita, ma se il termine di paragone fosse la situazione nei paesi industrializzati, la proporzione di coloro che, secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno accesso ai farmaci sarebbe drasticamente ridotta. Enzo iniziava a conoscere i dettagli della vicenda. Soprattutto, iniziava a farsene un’opinione precisa. Fabio lo stava aiutando fornendogli una buona parte della documentazione scientifica di cui aveva bisogno. Nella e-mail che gli aveva inviato, aveva chiarito quale fosse la chiave del problema. L'evento che ha sollevato un aspro dibattito a livello internazionale in tema di accesso ai farmaci è stata l'approvazione dell'Accordo TRIPS sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, avvenuta nel 1995 in seguito a una lunga negoziazione all'interno dell'Uruguay Round. New York Marita Santana udì il bip del cellulare, mentre si trovava nel suo appartamento di Brooklin. Era da sola. I suoi due figli erano usciti entrambi un’ora prima. Lei, invece, se la stava prendendo con comodo, come sempre quando la sera precedente tornava a casa tardi. L’aveva presa comoda e si era svegliata da poco. Stava sorseggiando il caffè e, contemporaneamente soffiava sul bianco della schiuma per farlo raffreddare. Beveva lentamente, come sua abitudine. Immaginò che fosse il bastardo che se la scopava e che non voleva amarla. Per questo scelse di ignorare il messaggio. Il bastardo non lo meritava. Rimase con la tazza in mano a sorseggiare il caffè, benché la tentazione di prendere in mano quel cazzo di cellulare fosse 36 forte. "Fotti tua moglie e lasciami perdere", avrebbe dovuto essere la sua risposta, se Marita avesse dato sfogo a quel contorcersi di budella, che aveva nello stomaco. Invece, un recondito soffio di speranza pervadeva la sua anima. "Anche dentro un vigliacco dovrebbe esistere il coraggio", pensò. Il bastardo vigliacco continuava ad appoggiare il suo culo sul taxi del negro, mentre Marita terminava di bere il caffè. Aveva smesso di smanettare sul cellulare, come se il messaggio inviato alla donna lo avesse assolto dai suoi peccati. Dopo qualche secondo, prese a smanettare con i documenti sulla sicurezza dei palazzi della Axa Pharmaceuticals. Si trattava di tre cartelline, la prima di esse stracolma di documenti. Decise di accanirsi proprio su quella. La aprì e la richiuse nervosamente, dopo aver tirato fuori una pila di carte, zeppe di appunti. Le sfogliò, una a una, soffermandosi sulla lettura delle prime due righe. Il suo mandato era chiaro. "Quel mentecatto di Vakrou fa ormai prezzi fuori da ogni logica di mercato. Non se li può più permettere. Stringigli il cappio al collo e porta a casa il dieci per cento in meno rispetto al contratto precedente", gli aveva intimato il direttore generale. "Come se fosse un gioco", commentò James, nascondendo le sue preoccupazioni dietro l’ironia. Per il direttore generale, sembrava un risultato scontato. Invece, non sarebbe stato affatto facile ottenerlo. Vakrou gli aveva fatto recapitare la sua richiesta. "Il costo del lavoro è aumentato", si era giustificato, quando gli aveva chiesto un aumento del cinque per cento rispetto al contratto in scadenza. "È un mentecatto", gli aveva ribadito il direttore generale, "non può permettersi un aumento. Ai tempi in cui abbiamo stipulato il contratto, le case che si occupavano della sicurezza delle industrie farmaceutiche non erano molte. Ora, invece, potremmo scegliere e, 37 senza dubbio, lo faremo se quell'affarista greco non intendesse ridurre le sue pretese. Se crede di poterci fregare, pensando di vendere ouzo agli sprovveduti turisti di Hersonnysos, si sbaglia di grosso". "Probabilmente vuole solo ripartire da una base negoziale più solida". "Me ne fotto. Tagliami quel costo e basta". Anche James sapeva che la concorrenza era aumentata e che sarebbe stato possibile spuntare un prezzo migliore da qualche altra parte. Tuttavia, i rapporti con l'impresa rappresentata da Odysseas Vakrou fino ad allora erano stati buoni e non vi sarebbero stati motivi validi per cambiare. "I costi di un servizio non sono rappresentati solo dal prezzo di acquisto del servizio stesso", pensò James, ma come poteva farlo presente a quel rozzo dirigente che stava sopra di lui? Giunse al 37 West 54th Street. Riconobbe l'isolato. A soli dieci metri di distanza si trovava il negozio di Manolo Blahnik. C'era stato una volta con la moglie. Aveva speso novecentosessanta dollari per il modello Remor, in verde con dodici centimetri di tacco. Ricordava quel banale episodio, perché lo aveva regalato alla moglie, il giorno dopo aver conosciuto Marita Santana. Nella sua mente si era scatenato un infinito processo di associazioni. Da Odysseas giungeva a Marita e viceversa, passando da Manolo Blanhik. Si erano conosciuti a Brooklin, nel ristorante in cui Marita lavorava. "Che casualità! Che cazzo di casualità! Ero andato a Brooklin per rivedere…come diavolo si chiama? Terence…poi? Terence! Si, Terence!" James era andato a Brooklin, invitato da un vecchio compagno del college. Sebbene non ricordasse più il cognome del suo vecchio compagno ma solo il nome, Terence, conservava un buon ricordo di lui. Quando Terence lo aveva invitato a cena, non aveva avuto un attimo di esitazione. "Con piacere, ma non potrò trovarmi da quelle parti prima delle nove. Devo lavorare e poi il traffico…", gli aveva risposto. 38 "Quando vuoi, non c'è fretta". Quando si ritrovarono nei pressi del ristorante, James fece un largo sorriso a Terence. Si abbracciarono. Non si vedevano da oltre cinque anni, forse addirittura sei. "Come cazzo faccio a dimenticare i cognomi. Non è possibile, non mi ricordo come si chiama", meditò James. Erano stati ottimi amici e aveva dimenticato il suo cognome. "D'altra parte", rimuginò, "non deve essere importante. Non c'é bisogno di conoscere il cognome per cenare con un amico". Entrarono nel locale pochi minuti dopo essersi salutati. Fece il suo ingresso prima James, poi Terence. Venne ad accoglierli proprio Marita. "Prego, signori" "Non abbiamo prenotato", disse Terence, che aggiunse prima ancora che Marita potesse rispondere, "non ho pensato di prenotare. Dopo le nove, in genere, non ci sono molti clienti". "Dipende, signore", rispose Marita. "Vuol dire che non ci sono tavoli liberi", rispose James, sconsolato. "Dipende dalle serate, signore". "Questa sera?" "Questa sera siete stati fortunati. Ho un tavolo che si libera tra due minuti". "Bene!" Esclamò James. "I signori stanno pagando il conto", aggiunse Marita. "Ah, bene", sospirò anche Terence. A New York è consigliabile sempre prenotare. James lo sapeva e si stava chiedendo perché Terence non lo avesse fatto. Era stato avventato. Avrebbero potuto non cenare. D'altra parte, con un vecchio amico di college, non ci sarebbe stato bisogno di mettersi dietro un tavolo per chiacchierare. Sarebbe stato piacevole anche mangiare un hot dog per strada. 39 Terence, nell'attesa, ne approfittò per andare alla toilette. James, invece, per pensare. I suoi pensieri disordinati vennero presto interrotti da Marita. "Il tavolo si è appena liberato, signore" "Oh, grazie, me lo indica, per favore?" "La sto accompagnando", disse Marita con un sorriso. "Ah, certo", rispose James, leggermente imbarazzato. Marita lo precedeva nel breve cammino verso il tavolo. James la seguiva. Da dietro poté ammirarne la figura. Marita aveva trentacinque anni e conservava le forme di quando di anni ne aveva venti. Aveva avuto due figli ma non sembrava. James le guardò le gambe tornite. Erano solide. Ricordò un detto mongolo che invitava gli uomini a scegliere donne con le gambe solide. "Ecco il tavolo", disse Marita sorridendo. "Grazie, signora…", esclamò James, trascinando volontariamente la a finale di signora e invitando Marita a pronunciare il suo nome. "…Marita". "Grazie, signora Marita". James si sedette. Continuò a pensare alle gambe solide dei mongoli e alle gambe tornite di Marita. La combinazione di quei due pensieri gli suggeriva strane associazioni di idee. Non ebbe modo di approfondire perché lo raggiunse Terence, che aveva trovato il cammino dalla toilette al tavolo, senza bisogno di chiedere aiuto ai camerieri. "Non pensavo ci potesse essere tanta gente alle nove" "Siamo a New York, Terence. Non mi meraviglierebbe di trovare il ristorante pieno alle cinque del mattino". James e Terence sorrisero. 40 Ginevra Non aveva ancora scoperto dove si trovasse il toner della fotocopiatrice, posta in fondo al corridoio. "Cerca nell'armadio contenente i pacchi di carta bianca", gli aveva detto Ana. Antoine non solo non era riuscito a trovare il toner ma non riusciva a trovare neanche l'armadio. Ana glielo aveva spiegato in inglese. "On the left". In realtà, Ana aveva aggiunto anche altro ma Antoine non era riuscito a cogliere il significato dell'intera frase. Doveva essere per via dell'accento spagnolo, che rendeva incomprensibile l'inglese di Ana. Perlomeno lo rendeva incomprensibile ad Antoine, che l'inglese lo aveva studiato. Antoine aveva colto solo on the left e si era portato sulla sinistra del corridoio. Il problema era che da quelle parti non si trovava nessun armadio. "Come cavolo faccio queste stramaledette fotocopie?" Monsieur Herbert in persona gli aveva dato il compito di fotocopiare un intero dossier. "Chiedere di nuovo ad Ana non mi sembra un’idea geniale". Avrebbe dimostrato di non conoscere adeguatamente l'inglese. Non ci avrebbe fatto una bella figura. Nella sua domanda da stagiaire presso l'Organizzazione mondiale per il commercio, aveva dichiarato "di conoscere perfettamente l'inglese e di essere in grado di lavorare nella lingua veicolare di qualsiasi organizzazione internazionale". Il maledetto toner che cercava si stava nascondendo in qualche anfratto. Antoine rifletteva e le conclusioni del suo ragionamento non portavano ad altre soluzioni se non a quella che avrebbe dovuto arrangiarsi da solo. Passò in rassegna tutti gli armadi che si trovavano alla sinistra del corridoio. I primi due erano addirittura chiusi a chiave. Venne sfiorato dall'idea che il maledetto toner si celasse proprio negli armadi chiusi. Continuò a cercare. Finalmente lo trovò nel cassetto in basso di uno dei due armadi, dietro un mucchio di carte. 41 "Eccoti, bastardo!" Lo afferrò con soddisfazione. Giunto vicino la fotocopiatrice, rimpiazzò il contenitore di plastica appena consumato. Iniziò a fotocopiare il dossier. Mentre lo faceva, avvertì una strana sensazione di odio per le centinaia di pagine che sfilavano sotto la luce verde della fotocopiatrice. Tuttavia, non poteva fare altro che aspettare. Mentre i fogli si depositavano lentamente uno alla volta nel recipiente di plastica ebbe modo di leggere alcuni stralci. Déclaration sur l'accord sur les ADPIC et la santé publique, adoptée le 14 novembre 2001. Nous reconnaissons la gravité des problèmes de santé publique qui touchent le nombreux pays en développement et pays les moins avancés, en particulier ceux que résultent du VIH/SIDA, de la tuberculose, du paludisme et d'autre épidémies. Nous soulignons qu'il est nécessaire que l'Accord de l'OMC sur les aspects des droits de propriété intellectuelle qui touchent au commerce fasse partie de l'action nationale et internationale plus large visant à remédier à ces problèmes. Mentre leggeva, venne colto da uno strano pensiero. Non ebbe il tempo di realizzarlo perché Ana, dal profondo del suo ufficio, lo chiamò a voce alta. "Hai trovato l'armadio?" "Certo, l'ho trovato". "Come?" Rispose Ana, con un tono sempre più alto. "Sì, l'ho trovato", esclamò Antoine che non era abituato a parlare a voce alta. Al contrario, sembrava quasi accarezzare le parole per quanto le pronunciasse con un tono basso. Aveva gli occhi estremi, incavati, profondi nella loro perentorietà. Due pieghe sembravano sostenerli e condurli fuori dalle loro orbite naturali. Il naso perennemente rosso e la fronte profondamente incisa, per l'abitudine a stare aggrottato, completavano i tratti salienti della sua faccia. Sul viso non vi era disegnato null'altro che avrebbe potuto attirare l'attenzione. La bocca era esile e le labbra affatto pronunciate. Forse due fossette sulle gote ma neanche quelle, a pensarci bene, avrebbero potuto destare l'attenzione. Erano quasi invisibili, impercettibili se non dopo un'attenta osservazione. Tuttavia, non sembrava il caso di osservare Antoine tanto a lungo, se non per le gambe lunghe, esili, capaci di insinuare un ardito senso del movimento. Camminava con 42 circospezione, quasi conducesse i suoi lunghi piedi sulle uova. Aveva venticinque anni quando giunse a Ginevra. Fino ad allora non aveva mai lavorato, almeno che non si volesse considerare un lavoro l'animazione in una colonia per adolescenti. Aveva, studiato, però. Lo aveva fatto con zelo per colmare il desiderio atavico della sua famiglia di esprimere un diplomatico. Il padre, infatti, colonnello dell'esercito, riteneva le armi e la diplomazia le massime aspirazioni per un giovane. Antoine stava provando ad accontentarlo, benché la sua natura fosse poco incline alla sovrapposizione gerarchica. Odiava le strutture verticali. All'attivo aveva la passione per i viaggi e il desiderio del multiculturalismo. La combinazione disposta tra la passione per i viaggi e l'obbligo alla diplomazia aveva provocato in lui una strana passione per l'India. L'intermediazione culturale che lo aveva condotto all'India era stata la lettura dell'autobiografia di Gandhi, "La storia dei miei esperimenti con la verità". Gandhi aveva posto il concetto di non-violenza al centro della sua concezione del progresso umano. L'essere umano è sia animale, sia spirito. Come animale l'essere umano basa il suo rapporto con il mondo sulla trasformazione materiale dei corpi e dunque sull'uso della forza, sulla himsa. Come spirito, l'essere umano fonda le sue relazioni con il mondo sulla comunicazione verbale e sulla persuasione razionale, sulla a-himsa. Il progresso è la graduale riduzione del tasso di violenza presente nei rapporti umani e graduale affermazione della verità e della a-himsa, cioè della non-violenza, del bene, della giustizia, nella vita sociale e politica. "Ma qual è il mezzo con il quale l'uomo giusto può proporsi di affermare la verità e dunque la a-himsa nei rapporti umani?" Si chiese Antoine. L'unico mezzo possibile, secondo Gandhi, era la persuasione razionale di coloro che con i loro comportamenti causano ingiustizia. Antoine comprese che avrebbe dovuto apprendere la persuasione razionale che, per Gandhi, era basata su due cose, la discussione e la lotta non violenta. La differenza tra questi due metodi sta nel fatto che la discussione fa appello esclusivamente alla ragione dell'avversario, attraverso la dimostrazione teorica della sua ingiustizia, mentre la lotta non violenta fa appello anche al cuore dell'ingiusto, perché contiene una portentosa dimostrazione pratica della sua ingiustizia. 43 "L'uomo è un essere così razionale?" Antoine se lo chiese, man mano che i fogli del suo dossier fotocopiato scivolavano nel contenitore di plastica. Eppure, non poteva lasciare che i fogli morissero in quel contenitore. C'era qualcosa in quel dossier che lo intrigava. Nous reconnaissons que la protection de la propriété intellectuelle est importante pour le développement de nouveaux médicaments. Nous reconnaissons aussi les préoccupations concernant ses effets sur les prix. Si trattava del punto tre citato nella Declaration sur l'accord sur les ADPIC et la santé publique. Due anni prima era stato in India. La risposta all'uomo come essere razionale e La storia dei miei esperimenti con la verità lo avevano spinto a Mumbai. Nella sua lunga storia di leader rivoluzionario, prima in Sudafrica e poi in India, Gandhi aveva teorizzato e sperimentato un'ampia varietà di tecniche di lotta rivoluzionaria non violenta. Innanzitutto il boicottaggio non violento. Non acquistare liquori e tessuti stranieri, non iscrivere i figli alle scuole inglesi, non investire i propri risparmi in titoli di stato britannici, non accettare incarichi militari e civili o titoli onorifici dall'amministrazione coloniale britannica. Aveva formato gruppi di militanti non violenti davanti all'ingresso dei luoghi di lavoro o di quelli in cui si svolgevano attività boicottate, per invitare i lavoratori ad astenersi dal lavoro o a praticare il boicottaggio. La disobbedienza civile aveva colpito l'immaginario di Antoine più delle altre forme di lotta non violenta. Violare in modo pubblico le leggi oppure i comandi amministrativi, ritenuti evidentemente ingiusti, accettando, nello stesso tempo, le punizioni previste dalla legislazione vigente per le violazioni commesse, costituiva, insieme al digiuno, la forma culminante di resistenza non-violenta. A Mumbai, Antoine aveva conosciuto per caso Madan. Con lui aveva parlato in francese. La vita quotidiana di Mumbai è spesso fatta di necessità ma dove lavorava Madan non vi era nulla di necessario. Tutti i negozi, sotto le arcate, ostentavano le più deliziose cose inutili, gioielli, sete, velluti, vasi d'argento e di bronzo, scimitarre antiche cesellate e gemmate. Vi 44 erano anche tanti veli, sospesi al vento. Dalle tinte più colorate, si intrecciavano quasi a formare un caleidoscopio di colori. Alcuni di quei veli appartenevano a Madan, commerciante delle più deliziose cose inutili. Aveva anche tanti fiori nel suo negozio. Fiori in abbondanza. Dappertutto. Vendeva anche quelli. Piramidi di magnolie, di ibischi e di rose decapitate, che si lasciavano accarezzare dai veli tinti sospesi al vento. E poi c'era la folla di turisti che attraversava la strada. Strana gente che vive di colori, di profumi, di odori e di apparenza. Sembrava che i turisti di Mumbai fossero interessati proprio all'inutilità di quelle cose deliziose. Madan aveva visto per strada Antoine ma fu lui ad approcciarsi per primo. Madan era sull'uscio e Antoine gli passò accanto. Vide le scimitarre gemmate e cesellate. Ne fu attratto. Entrò nel negozio e si avvicinò alle scimitarre. Madan sorrise. "Sono autentiche?" Domandò Antoine con un accento che lasciava trasparire chiaramente la sua provenienza francese. "Mais bien sur", replicò Madan. Antoine non avrebbe mai sospettato che il proprietario di quel negozio di cose inutili e gradevoli potesse parlare la sua lingua. Avvertì una tenue sensazione di felicità. Si trovava da dodici giorni in India e non era mai successo. Continuarono a parlare. Madan spiegò a Antoine di avere appreso il francese nei suoi innumerevoli viaggi in Francia. "Ci vado tre volte l'anno in Provenza, per comprare dei fiori che poi rivendo agli stessi turisti francesi che vengono in India. Strano, vero?" "Sono i paradossi della globalizzazione", puntualizzò Antoine. Continuarono e parlarono a lungo. Antoine dimenticò le scimitarre e Madan dimenticò di doverle vendere. Parlarono di India, di Francia e di Vandana Shiva. Ne parlarono perché Madan disse che il fratello si era appena suicidato. "Perché si è ucciso?" Chiese Antoine. 45 "Era strozzato dei debiti", sentenziò Madan. "Nessuno poteva aiutarlo?" "Nessuno sapeva che lui fosse strozzato dai debiti". "Non ne aveva mai parlato con te?" "Era troppo orgoglioso per farlo". Antoine citò allora Vandana Shiva ma Madan non la conosceva. Chiese chi fosse. "È un'indiana". "Un'indiana?" "Sì, indiana come te. Asserisce che la globalizzazione ha prodotto in India suicidi di massa tra i contadini, strozzati, proprio come tuo fratello, dai debiti per l'aumento dei costi di produzione e la caduta dei prezzi". Madan lo seguiva ma non capiva. Lui aveva sempre venduto gradevoli cose inutili. Andava in Francia e ritornava in India. Comprava e vendeva. "Nel tuo paese l'ingresso delle grandi multinazionali come la Monsanto, si sta traducendo in una rovina per i piccoli produttori", disse ancora Antoine, facendo menzione di Vandana Shiva. "Vuoi dire che mio fratello si è suicidato per le grandi multinazionali?" "Non lo so. Tu conoscevi tuo fratello". "Mio fratello forse non stava bene con la testa". "E i debiti?" "Forse i debiti gli hanno rovinato la testa, ma lui non ha mai avuto la testa". Madan era duro con suo fratello. Il fatto che avesse pagato con la morte colpe probabilmente non sue, non mitigava il suo giudizio. "Non ci stava con la testa", aveva ripetuto. Antoine non aggiunse più nulla. Si rese conto che il dramma di Madan incrociava le sue perplessità. Pensò ancora una volta a Vandana 46 Shiva, "l'obbligo di acquistare le sementi presso le grandi multinazionali come la Monsanto, dal costo sempre più elevato, biologicamente modificate e utilizzabili solo per un raccolto, finisce per essere una rovina per i piccoli agricoltori". "Erano tutti contadini fuori di testa quelli che la morte si era portata via dalla loro terra? E se fosse davvero esistita una democrazia della terra, come dice Vandana Shiva?" meditò Antoine. "Siamo tutti membri della comunità terrestre. Abbiamo tutti il dovere di difendere i diritti e il benessere di tutte le specie e di tutti i popoli. Gli esseri umani non hanno il diritto di abusare dello spazio ecologico e di altri popoli o di trattarli con crudeltà e violenza". Antoine pensò, infine, a Madan, che comprava i fiori in Francia e li rivendeva ai turisti francesi. "Ecco i paradossi della globalizzazione che si ripercuotono sull'ambiente e sull'inquinamento dell'aria". "La conservazione delle risorse della terra e la creazione di adeguati e soddisfacenti mezzi di sussistenza si realizza più creativamente a livello locale, afferma Vandana Shiva che, purtroppo, Madan non conosceva. Erano le quattro e mezzo del pomeriggio. Faceva caldo a Mumbai. "Ti andrebbe di bere un thé?" chiese Madan ad Antoine. "Se non me lo avessi offerto, avrei finito per proportelo io", gli rispose Antoine. Quel giorno segnò l'inizio della loro amicizia. Madan, per la prima volta nella sua vita, sentì parlare di democrazia della terra. "Solo i beni e i servizi che arricchiscono davvero i mezzi di sussistenza e che non possono essere prodotti localmente, usando risorse e conoscenze locali, possono venire importate da distanze più grandi". Se Madan lo avesse saputo probabilmente non sarebbe andato in Francia a comprare i fiori, da rivendere ai turisti francesi che andavano in India. 47 New York "Ne é proprio sicuro?" gli chiese Odysseas Vakrou. "Assolutamente. Ne sono sicurissimo", ripose James, che si trovava, da pochi minuti, nel suo studio al quarantunesimo piano della St. James Hall. In realtà, non ne era completamente sicuro, ma le leggi del mercato non potevano non applicarsi al settore in cui agiva la società di Odysseas. "La concorrenza é aumentata. È un dato di fatto. Anche l'offerta a disposizione della Axa pharmaceuticals é cresciuta. Esistono diverse altre possibilità". L'obiettivo di James era quello di ottenere uno sconto del dieci per cento ma sarebbe stato disposto anche a scendere al sette, se Vakrou avesse tenuto duro. Oltre non sarebbe stato utile andare. Esistevano altre possibilità, appunto! L'importante per James era dare l'impressione della solidità. "Si tratta di una decisione già presa", disse James. Odysseas lo guardò negli occhi per capire se James stesse bluffando. Lo scrutò senza dare l'impressione di guardare. Tentò di cogliere un qualsiasi movimento del corpo per decifrarne il comportamento ma James evitò qualsiasi movimento. Non voleva offrirgli alcun punto di riferimento. "Va bene, chiudiamo al dieci per cento in meno, ma…" "Ma, cosa?", chiese James, che già assaporava l'odore della vittoria. "Ma allunghiamo il contratto di due anni. Che ne dice?" domandò Odysseas. James tirò un sospiro di sollievo. "Fammi pensare…" Non si trattava di una clausola particolarmente difficile da 48 accettare. Fece un rapido calcolo a mente. Si trattava di allungare il contratto per la sicurezza dei locali della Axa pharmaceuticals da dieci a dodici anni. In cambio, avrebbe portato a casa il target stabilito dal direttore generale. Gli venne in mente la teoria dei giochi e sentenziò, "OK. Per Axa é accettabile". "Ne ho bisogno per giustificare il ribasso del dieci per cento di fronte agli azionisti". "Capisco!" Rispose James. Sapeva che avrebbe potuto mettere Odysseas con le spalle al muro e chiedergli di accettare le sue condizioni tout court ma non sarebbe stato saggio. Non c'erano motivi di carattere economicofinanziario a fargli ritenere che non sarebbe stato saggio, quanto piuttosto motivi di opportunità. Non bisogna mai lasciare la controparte con l'idea di aver perso tutto. "Devo lasciargli la sensazione del pareggio oppure, al limite, della sconfitta di misura", pensò, guardando Odysseas. La teoria dei giochi, appunto! Un giorno avrebbe potuto esserne gratificato, benché quel giorno non sarebbe mai arrivato. "Va bene. Accetto il prolungamento del contratto. Non perdi neanche un dollaro, Odysseas", ribadì James. "Li perdo, James, ma va bene così". Presero un caffè per siglare l'intesa. Uscendo, James diede una pacca sulle spalle a Odysseas. Odysseas lo bloccò proprio sull'uscio. "Grazie, James!" Gli disse prima di uscire. James sorrise. Si rese conto che Odysseas aveva intuito il cammino che aveva fatto la sua mente. Forse lo condivideva. Sicuramente lo apprezzava e James ne fu contento. Uscì nel corridoio e percorse i pochi metri che lo separavano dall’ascensore. Attese pochi istanti e ci si infilò dentro. Entrando diede uno sguardo al suo telefono portatile. Constatò che erano trascorsi esattamente sessantasei minuti dal momento in cui aveva inviato il messaggio a Marita. "È certamente rientrata tardi, come sempre, quando lavora la 49 sera al ristorante, ma é anche solita svegliarsi presto. Il messaggio le è stato consegnato. Il suo cellulare é acceso. Perché allora non risponde? Forse a causa della discussione di pochi giorni fa? Dovrei avere pazienza", disse a se stesso. Tuttavia, l'attesa lo innervosiva. "Com’è possibile che le cose siano cambiate tanto drasticamente?" La sera in cui aveva conosciuto Marita, ogni tassello si era posizionato spontaneamente al proprio posto. Sembrava un contatto da predestinati. Infatti, dopo che Marita lo ebbe accompagnato al tavolo e dopo che James le chiese il nome, ci furono altre tre occasioni in cui i due ebbero l’opportunità di parlarsi. La prima volta si verificò quando James rimase da solo, in attesa che Terence tornasse dalla toilette. Marita si avvicinò. "Le porto da bere, mentre attende il suo amico". "Come dice?" rispose James, colto di sorpresa. "Le chiedevo se desiderasse da bere. È da solo e così ho pensato che mentre aspettava il suo amico avrebbe potuto sorseggiare uno dei nostri aperitivi. Mi creda, sono molto buoni". "Non saprei. Io...", tentennò James. "Abbia fiducia in me". "Sì, ma…" "Glielo porto. Mi dia retta". "Me lo chiede con tanta grazia, che non riesco proprio a dirle di no", rispose James, accettando l'offerta di Marita. Lei gli sorrise. In realtà lo faceva per abitudine professionale. Aveva visto un cliente da solo a tavola e, come sempre in questi casi, gli aveva proposto di bere un drink. James immaginò che si trattasse di una consuetudine ma apprezzò ugualmente. Il sorriso aperto di Marita non lo aveva lasciato indifferente. Nei due minuti successivi che separarono l'invito di Marita dal ritorno al tavolo di Terence, James pensò ancora una volta alla donna. Le guardò di nuovo le gambe ben 50 tornite. Al ritorno di Terence, smise di pensarci. La seconda volta che i due incrociarono i propri sguardi, avvenne mentre James stava parlando con Terence, proprio a metà della cena, dell'anno accademico 1986-87. I due menzionarono una serie di compagni di college. Terence fece riferimento a Sharlain. James non la ricordava. "Impossibile che non la ricordi", disse Terence perplesso. "Perché dovrei?" replicò James, altrettanto perplesso. "L'hai baciata", gli fece notare Terence. "Baciata?" "Baciata!" "Non si ricorda di una donna che ha baciato? È grave…molto grave", intervenne Marita, che si trovava a pochi passi dal tavolo e che aveva ascoltato la conversazione tra i due. "Come dice?" domandò James, rivolgendosi a Marita. "Mi scusi, ho ascoltato davvero per caso quello che stava dicendo", rispose Marita, leggermente imbarazzata. "No, no, non si senta affatto imbarazzata. Ha detto una cosa sacrosanta. Glielo ripeta, per favore", chiese Terence a Marita. "Cosa?" proseguì Marita. "Glielo dica. Suvvia…glielo dica che è grave", incalzò Terence. "Beh, se proprio insiste. Bene! Allora, devo dirle che non mi sembra appropriato non ricordarsi di una donna che si è baciato", ribadì Marita. "Come dice? Non le sembra appropriato?" intervenne James. "Grave, grave…deve dirgli che è grave", replicò Terence. "Grave, non appropriato? Scelga lei. Qualunque siano le parole che si vogliano utilizzare, non si possono dimenticare le labbra di chi si è voluto baciare. Il bacio è sentimento. Non è come fare l'amore. Quello lo si può fare con chiunque e poi magari dimenticarsene. Ma baciare…Cristo santo!" "Vuole dire che lei potrebbe ricordare più una persona che ha 51 baciato che una con cui ha fatto l'amore?" chiese James, stralunato. "Certo! Il bacio è intimità allo stato puro. Parlo di un vero bacio, ovviamente. Mi capisce?" "Sì, sì, la capisco. Il bacio è intimità, ma l'amore…per carità è molto di più". James scosse la testa, abbozzò il sorriso di chi non si sente pienamente d'accordo. Non ebbe, però, il tempo di reagire. "Mi scusi ma devo andare. Mi chiamano. Magari ne riparleremo", gli disse Marita, allontanandosi. "Certo, certo. Ne riparleremo", rispose James, mentre Marita si trovava ormai un paio di tavoli più in là. E mentre la donna che le aveva sbattuto in faccia la distinzione tra il bacio e il fare l'amore, scompariva nella stanza accanto, James ebbe la sensazione che Marita non fosse solo due gambe tornite. Era altro ma, per il momento, si trattava di sensazione allo stato puro. Terence non ebbe la stessa sensazione di James. Non avvertì nulla che potesse lasciargli supporre un seguito da dare a quella breve discussione. Infatti, nell'istante in cui James ebbe un momento di riflessione, Terence proseguì il discorso sulla stagione accademica 1986-87. "Come fai a non ricordarla?" Gli chiese, ritornando a parlare di Sharlain. "Ti giuro, davvero non la ricordo". "Ne parlavano come di una capace finanche di succhiarti il cervello". Risero, come solo due compagni di college possono ridere. La terza volta in cui Marita e James ebbero occasione di parlare quella sera, si verificò mentre James si apprestava a lasciare il ristorante. Terence aveva pagato il conto e stava rimettendo a posto la sua carta di credito. James, invece, si era appena alzato dal tavolo. Marita gli venne incontro. Aveva i cappotti di entrambi tra le mani. Li consegnò. "Dove potrei trovare degli stuzzicadenti?" domandò Terence. "Oh, gli stuzzicadenti?" esclamò Marita. 52 "Sì, mi scusi, ma ne ho davvero bisogno". "Certo, glieli prendo subito". "No, faccio io. Mi dica solo dove posso trovarli". "Guardi, chieda all'entrata. Vede quell'uomo in fondo?" Terence annuì con un cenno di assenso. "Bene, chieda a lui". James rimase solo con Marita. Lei lo aiutò a indossare il cappotto. Si trattava di uno di quei vecchi montgomery verdi. Andavano di moda in Europa negli Anni Ottanta. Nessuno li avrebbe più rivisti se non fosse stato per un negozio di New York sulla cinquantaseiesima, che periodicamente proponeva uno stile vintage. James adorava il vintage e adorava il vecchio montgomery. La combinazione dei suoi due piaceri si era sintetizzata nella scelta di indossare il vecchio montgomery verde. Marita non aveva mai visto il montgomery. Lo percepì pesante ma non disse nulla. James, invece, avvertì l'istinto di rivolgerle la parola. Lo fece, pensando alla discussione che avevano avuto in precedenza. "Ma davvero è convinta di quello che mi ha detto prima?" "Di cosa?" "Del bacio e del…" "Certo che ne sono convinta. Mi sembra naturale". "Come dice? Naturale?" "Sì, naturale". "Naturale. Me lo dovrebbe spiegare cosa vuole dire naturale". "Lo farei con piacere. Ora proprio non posso". "Come dice? Non può?" "Venga di nuovo a trovarci. Ne riparleremo". "Guardi, perdoni la mia irriverenza, ma se lei mi riferisce un suo recapito, potrei chiamarla…non so…". Marita lo guardò. Abbozzò a un sorriso freddo. James ebbe la sensazione di aver osato troppo. Marita lo rassicurò. 53 "Mi telefoni pure qui tra le cinque e le sette del pomeriggio. A quell'ora prendo le prenotazioni. Le risponderò io". Bruxelles "Cosa non farei per una Leffe!" Come sempre, quando aveva sete, il suo pensiero corse alla birra. Non avvertiva più il peso delle melanzane. "Ancora qualche minuto e corro al Wild Geese. Poi, rispondo ai messaggi di Jan. Intanto, questa merda…" Il voluminoso dossier se ne stava sospeso in un gelido folder blu sulla scrivania. Gli avrebbe portato via due giorni interi, se avesse deciso di leggerlo, riga per riga. La merda da una parte, il cellulare dall’altra. Lo riprese in mano e rilesse i messaggi che Jan gli aveva spedito. "Come va oggi...?? Per una volta non mi dispiace che sia lunedì mattina....ho sentito gli uccelli alle 5 questa mattina, non potevo più dormire. Allora fa già qualche ora che sono all'ufficio...ma ho dimenticato che lavoro fine alle 9 stasera con la formazione... :o((( Ieri sera tranquilla, dopo le fragole, ho letto sul divano, molto piacevole :o))) A dopo! Jan" "Ho finalmente sentito Franco Battiato…c’è un accesso a youtube e a xfatctor! Bellissima musica, mi piacciono i suoni diversi di un sintetizzatore e gli strumenti classici insieme...fa un po’ anni 80 vs l’opera :o) Anche bellissime parole...ma dovrebbe essere abbastanza difficile superare le forze della gravità !!! Buon pom! X". Guardò di nuovo la merda. Ne lesse qualche riga ma nella sua testa solo Jan e la birra. "Le melanzane cotte al forno o alla griglia non riesco proprio a mandarle giù, ma se sono state fritte, la situazione cambia. Non è che mi facciano impazzire anche se fritte, ma la situazione cambia di nuovo se si parla della mussaka, che mi crea dipendenza". Lasciò scorrere qualche minuto, surfando su Internet alla ricerca di una ricetta per cucinare la mussaka con le melanzane fritte. Poi, spense il computer. Rimise in ordine la scrivania. Si alzò lentamente dalla sedia e si avviò verso la porta, lasciandola socchiusa. 54 Il corridoio, l’ascensore e il portiere belga italiano. Il solito rituale. Percorse la strada, che separava il suo ufficio dal Wild Geese, mentre il pensiero di Jan si sovrapponeva a quello della birra e quello della birra alle melanzane. "Cosa cazzo gli rispondo?" Rue de la loi non gli suggeriva nulla. I palazzi di cemento ai fianchi e il traffico intenso delle macchine lo distraevano. Dopo essere giunto a meta di Rue de la loi, prese Rue de Spa. Si guardò ancora una volta intorno nel tentativo di cogliere uno spunto. "Sarà tanto importante trovare le parole giuste?" Non si erano ancora incontrati e il livello della loro amicizia rimaneva sospesa nel limbo della virtualità. Il balzo verso il reale dipendeva dalla sua risposta. Per questo avvertiva il peso della responsabilità. "Il dilemma di sempre nella mia vita. Non ho la percezione del momento in cui osare". Jan gli era piaciuto ma il timore era che lui non potesse piacergli. Quel rapporto virtuale era stato fantastico. Klimt e le donne dal trucco esagerato non ponevano particolari problemi di relazione. "Come sarebbe stato il contatto reale?" Sapeva che dalla sua risposta sarebbe dipesa l’evoluzione di quella relazione. "Se dovesse essere giunto il momento di osare, dovrei rispondergli con entusiasmo. Se rispondessi con ritrosia, darei un segnale di disinteresse". Sembrava fosse giunto il momento di osare ma gli vennero in mente le parole della nonna, "Fa attenzione ai tuoi desideri… Potrebbero avverarsi!" "Una risposta neutra, allora?" Fu il pensiero immediatamente successivo. Una risposta neutra sarebbe stata interpretata come un atteggiamento di ritrosia. "Rispondo con entusiasmo", esclamò mentre da Rue de Spa si portava a Rue Joseph II. 55 Il problema di fondo era che Jan gli interessava davvero. Sentiva di avere delle affinità importanti con lui. "Se quel maledetto mi stesse sul cazzo, non ci metterei niente a mandarlo a fare in culo". Invece, perdere quel contatto sarebbe stato un peccato. Le sue pippe mentali si arrestarono nel preciso istante in cui intravide il Wild Geese. Pochi metri lo separavano dal pub irlandese. Li percorse e varcò la porta d'entrata. Nel dedalo di stanze e stanzette, c'era molta più gente del solito. Un tizio velenoso di chiara origine nordica, zompettava sulla porta. Fumava e provava a scaldarsi. Enzo poté osservarlo per bene, perché un altro, al lato del nordico velenoso, gli sbarrava il passaggio. Era girato di spalle e la sua corazza ossea tradiva origini non distanti dall'altro tizio. Si accorse di Enzo, solo dopo qualche attimo. Il rumore assordante della musica spegneva una qualsiasi velleità di ascolto. Dopo avere scavalcato a fatica i due nordici che gli ostruivano il passaggio, Enzo, si ritrovò all'interno del pub. Con tutta quella gente intorno, il bancone gli apparve un miraggio. Troiette fresche di ufficio e burocrati inebetiti si accavallavano l'uno sull'altro, mentre trangugiavano birra e vino. Quell'ammasso di carne disordinato costituiva l'ultimo ostacolo tra lui e la birra. Il suo programma era chiaro. Avrebbe ordinato la birra direttamente al banco, si sarebbe seduto e avrebbe risposto, tra un rutto e un altro, ai messaggi di Jan. Afferrata la birra, mirò l’unico tavolo, ancora non occupato. Era in fondo, alla destra della porta di entrata, nella saletta adiacente quella principale. Con il bicchiere di birra, dopo averne trangugiato la metà, Enzo si decise ad occuparlo. Si guardò intorno. Alla sua destra erano seduti una giovane donna sui trenta anni e un uomo vicino ai quaranta con grossi baffi neri e capelli grigi. Parlavano in italiano benché fosse alquanto evidente che l`accento della donna chiarisse origini diverse. Enzo non poté non notarli. Ridevano e parlavano ad alta voce. Ad un certo punto, lui tentò di baciarla ma lei si ritrasse. Proprio mentre l`uomo con i grossi baffi neri e i capelli grigi 56 tentò di baciare la donna sui trenta anni che parlava in italiano benché non lo fosse, Enzo decise di scrivere il messaggio di risposta a Jan. "Ciao Jan. Mi fa molto piacere avere tue notizie. Bella giornata. Molto lavoro e difficili dossier da seguire. Battiato é super. Lo adoro. A presto!" Si trattava di un messaggio neutro. La lunga riflessione con cui era riuscito a stressare il suo cervello non era riuscito a fare niente altro che partorire uno stupido messaggio neutro. Che fine avevano fatto le sue intenzioni bellicose di osare? Come sempre, alla fine aveva ceduto alla paura. "Non sono pronto a velocizzare questa conoscenza", provò a giustificarsi. Dentro di sé, non se la sentiva di dare ritmo alla sua vita. "Perché io?" Era evidente che se qualcosa si fosse smosso nella calma piatta della sua esistenza, sarebbe stato per merito di Jan. Solo l’iniziativa presa da un altro avrebbe modificato i suoi ritmi lenti. "Sembri un vecchio, Enzo!" Gli ripeteva il nonno, "sei morto, morto!". Infatti, il vecchio si fece sentire. Dopo aver inviato il messaggio, ebbe una sensazione di sollievo. Nel suo subconscio, l`idea di incontrare Jan lo innervosiva. "Non sono pronto. Non sono pronto", sussurrò. La trentenne che parlava italiano senza esserlo ebbe la sensazione che stesse parlando con lei. Lo guardò in attesa di un segno fin quando l’uomo che stava con lei, non l’afferrò nuovamente per baciarla. Lei si ritrasse, come già aveva fatto in precedenza. "Come potrebbe essere nella vita reale?" Enzo era cattolico e la chiesa proclamava sempre la stessa dottrina a proposito di Internet. Internet ridefinisce in modo radicale il rapporto psicologico di una persona con lo spazio e con il tempo. Attrae l`attenzione di ciò che e tangibile, utile, subito disponibile. Potrebbe venire a mancare lo stimolo a un pensiero e ad una riflessione più profondi, mentre gli 57 esseri umani hanno bisogno vitale di tempo e di tranquillità interiore per ponderare ed esaminare la vita e i suoi misteri e per acquistare gradualmente un maturo dominio di sé e del mondo che li circonda. "Il desiderio di stringere amicizie virtuali non é di per sé negativo. Ci vuole la giusta attenzione per non banalizzare il concetto e l`esperienza dell`amicizia". Enzo fu più che mai convinto di aver preso la decisione giusta. 2 marzo New York Aveva gettato uno sguardo al suo cellulare più volte in quei giorni. Non era sua abitudine farlo, ma attendeva una risposta. Quattro giorni prima, aveva inviato un messaggio a Marita. "Mi disturba questo silenzio. Mi manda fuori di testa". Aveva sempre pensato di poter sopravvivere alla sua assenza ma ora che Marita era sparita dalla sua vita, non aveva più certezze. "Non é mai successo che quella puttana mi ignorasse per quattro giorni". La prima volta che James avesse scritto un messaggio alla puttana era stato sei giorni dopo averla conosciuta. Due giorni prima l`aveva chiamata al ristorante intorno alle sei del pomeriggio. Sarò al ristorante. Dalle cinque alle sette prendo le prenotazioni, gli aveva detto Marita la sera in cui si erano conosciuti. James, ovviamente, non lo aveva dimenticato. "Spero si ricordi di me", esclamò, non appena avvertì la cornetta sollevarsi dall’altra parte. "Perché maliziosamente. dovrei ricordarmene?" "Il bacio dimenticato…" "Ovviamente, il bacio dimenticato". 58 gli aveva risposto "E lei, allora?" "Cosa?" "L’amore dimenticato". "Molto più logico". "…ma irrazionale". "Ragionevole, direi". "Logico e ragionevole, quindi". "Appunto!" "Dovrebbe spiegarmelo ", specificò con irriverenza James. "Forse", gli rispose Marita. "Magari a cena", le propose con altrettanta irriverenza. "Magari!" esclamò Marita. Si accordarono per il giorno e l`ora. Non aggiunsero altro. Sarebbe stato tutto prosaicamente superfluo. Dieci minuti prima dell`appuntamento, James, inviò un messaggio a Marita. "Sono al tavolo. L`aspetto". "Arrivo", gli rispose Marita. I due cenarono amichevolmente. Non sembrava affatto che fosse il loro primo appuntamento. La conversazione fluiva in maniera naturale. Ritornarono sulla questione che li aveva avvicinati. "Io attribuisco un valore immenso al bacio", commentò Marita. "Per me sinceramente un bacio può essere anche un gioco. Un bacio che vale molto lo si da con il cuore, non solo con le labbra. Insomma, posso baciare con le labbra ma non con il cuore", sottolineò James. "Il bacio é la cosa più bella che ci possa essere in una relazione. Un bacio dice tutto…e quando baci la persona che ami davvero…beh, ti gira la testa per l`emozione". "E quando unisci il tuo corpo a quello di un altro?" 59 "Quello può essere piacere. Può anche non girarti la testa". James rimase sorpreso. Ebbe l'impressione di trovarsi di fronte ad un paradosso, benché non ne fosse completamente certo. "Quante persone hai baciato nella tua vita?" chiese a Marita, passando istintivamente dal lei al tu. "Ne ho baciate tre". "E con quante hai fatto l`amore?" "Ohhh, quello con molte di più". "E non le baciavi?" "Perche avrei dovuto farlo?" "Non lo so. Le avevi dentro di te". "Non mi emozionavano. Mi davano soltanto piacere e, a volte, neanche quello". "Hai fatto l'amore senza provare piacere?" "Certo". "Nel senso che non raggiungevi l'orgasmo?" "Potevo anche raggiungere l'orgasmo senza provare piacere". "Non capisco". Marita non aggiunse altro. Mangiarono il salmone fresco alla griglia, il foie gras trifolato e l’astice al burro fuso. Lei si sarebbe ricordata solo del salmone. Uscirono dal ristorante prima delle dieci. Forse dieci minuti prima delle dieci. Passeggiarono. Si ritrovavano non lontano da Union Square. Era una serata fredda, ma non freddissima. Non sarebbe stato agevole passeggiare ma si poteva farlo, se solo si avesse avuto voglia di respirare gelo e fumo. Marita indossava un cappotto nero. "Il cappotto nero ti copre le gambe", sospirò James. Lui vestiva con un impermeabile e un borsalino, di buona qualità, in feltre di lepre, con cinta cannettée. L`impermeabile era beige, il borsalino marrone. Marita non fece commenti sull`abbigliamento di 60 James. Lui, invece, disse a Marita che il cappotto le stava bene. "Purtroppo, ti copre le gambe", ripeté. Furono le sole cose di buon senso che riuscì a pronunciare. Il resto del tempo venne speso per commentare la cena. Complessivamente, durante la passeggiata, parlarono poco. Giunti a Union Square, James si diresse verso l`albero, al centro della piazza. Intorno a lui alcuni negri e un bianco che preparava le caldarroste. Sfiorò Marita con il palmo della mano destra per tentare di avvicinarla al banco delle caldarroste. La sfiorò nuovamente per mostrargliele. Dopo soli trenta secondi, tentò di baciarla. Marita si ritrasse. "Non sei ancora capace di emozionarmi". "Mi dispiace". "Non dispiacerti". "Mi piacerebbe emozionarti". "Forse un giorno ci riuscirai". "Un giorno?" "Forse un giorno". "Ora?" "Ora ho solo voglia di fare l`amore". "Ah…fare l’amore?" "Tu non mi desideri?" "Davvero lo vuoi?" "Sì, ma non provare a baciarmi". "Ovviamente…il bacio…certo!" "Appunto! Per fortuna, abbiamo avuto modo di parlarne". "Per fortuna!" "Saprai aspettare?" "Cosa?" 61 "Di giungere a casa mia, stupido! Prima di allora non dovrai toccarmi". "Cosa vuoi dire?" "Quello che ho appena detto. Che non dovrai toccarmi per strada". "E se dovessimo prendere un taxi?" "Non dovrai toccarmi ugualmente. Saprai aspettare?" "Ho solo voglia di fare l’amore con te". "E allora non perdere tempo. Ne ho voglia anch’io. Sei capace di fermare un taxi?" domandò con la sua malizia. James non perse tempo. Riuscì a fermare il primo taxi che passava da Union Square. Spinse leggermente Marita verso la macchina con la mano sinistra, mentre con l'altra mano le aprì lo sportello. "Sali! Non perdiamo tempo". I due si infilarono, senza neanche fare caso alle riviste di meccanica, che ingombravano i sedili posteriori. Presero posto al centro. "Dove vi porto?" si informò il taxi driver. Dal posto di guida, li guardava dallo specchietto retrovisore, con l'aria flemmatica di un beduino del Sinai. "391, Harrison Avenue". "Brooklin?" "Brooklin…Williamsburg!". "Sì, certo!" Improvvisamente, un rumore violento uscì dal tubo di scappamento e l'auto partì di scatto. James guardò la serie di palazzi attaccati l'uno all'altro. Vide che una scena simile si ripeteva ogni volta che l'auto svoltava un angolo, qualunque esso fosse. "387, 389, 391…ci siamo". "Tra qualche minuto potrai toccarmi. Complimenti per avere 62 resistito", sussurrò Marita. Nei pensieri di James le sue gambe tornite e, finalmente, il desiderio di poterle toccare. "Benedetto il cappotto!" esclamò. "Il cappotto?" "Devo ringraziare il cappotto se sono riuscito a resistere", sghignazzò. "Ovviamente, il cappotto!". Si liberarono velocemente del taxi che li aveva portati a Williamsburg. "Il ristorante in cui ci siamo incontrati è proprio dall’altra parte", gli fece notare Marita. "…lo aveva scelto Terence. Io non conosco questa zona", rispose James spontaneamente. "Meglio così", concluse Marita con la medesima naturalezza. Marita frugò nella borsa alla ricerca della chiave. "Dai, toccami il culo!" "Davvero vuoi che ti tasti il culo?" "Avevamo stabilito che non appena fossimo arrivati a casa mia, avresti potuto mettermi le mani addosso. Perché non lo fai?" "Non lo so". "Svegliati, tesoro!" James, allora, le palpò il culo. "Ora no! Non voglio essere toccata su comando. Avresti dovuto farlo spontaneamente". Salirono le scale che portavano al primo piano. Marita accese la luce e mise la chiave nella toppa della porta a destra delle scale. James le toccò il culo. "Bravo! Vedo che hai capito". Entrarono in casa, con la mano di James poggiata sul culo di 63 Marita. A parte una lampada nera di Kartell posta su un piccolo tavolino tondo tra lo stereo e la poltrona rossa del soggiorno, gli unici altri elementi decorativi della casa erano costituiti da due quadri. Uno era in stile Jean Timir, dove i toni del rosso, giallo e arancio risaltavano enormemente, dando luce e colore allo spazio. L’altro invece, a lato della grande libreria in frassino, era in stile imitazione Mirò, con predominanza del giallo, nero, bianco e azzurro. Entrambi arricchivano l’ambiente scarno di altri elementi decorativi. Il primo contatto tra la pelle dei due corpi avvenne in bagno. Mentre lei stava guardandosi allo specchio, lui l'abbracciò, infilando la mano sotto la sua gonna. Avrebbe voluto baciarla, ma lei si scostò repentinamente. "Non provare a baciarmi", gli disse con decisione, "toccami e basta!" James fu nuovamente perplesso e arrestò la sua azione. Rimase immobile, leggermente confuso. "Il mio primo contatto fisico è stato sempre con le labbra della donna". "Non con le mie. Non permetterti di sfiorarmi le labbra". "Non capisco". "Non toccarle con le tue". Continuò a guardarsi nello specchio con naturalezza. Era difficile sapere se avvertisse o meno l'imbarazzo di James. Semplicemente decise di non dargli peso. Dopo qualche istante, prese la sua mano e lasciò che le sfiorasse l’interno delle cosce. "Posso baciarti sul collo?", chiese James. "Fallo! Non domandare", rispose maliziosamente Marita. "Sei sicura?" "Ti ho forse detto di non baciarmi sul collo?" "Mi hai pregato di non baciarti". Marita scoppiò in una risata che James parve non gradire. 64 "Sulle labbra! Ti ho chiesto di non baciarmi sulle labbra". James preferì tacere. La baciò sul collo. Prima solo con le labbra, poi anche con la lingua. Scivolò con la lingua sulla spalla. Lei si girò e, con forza gli prese la testa. La sospinse sul suo seno. "Ora basta! Non farmi più aspettare". La prese in braccio e la condusse in camera da letto. La adagiò con calma, finendola di spogliare. Lei si contorse fin quando non lo ebbe dentro. James pensò allora di poterla baciare ma Marita si ritrasse. Ebbe la prova che il coito non è nella fisicità di un atto, ma nel valore. Quando ebbero finito, parlarono. Bruxelles "Va bene, ti chiamo io", lo rassicurò mentre scendeva dalla sua macchina. "Ci conto, dolcezza!" ribatté il napoletano, sporgendosi verso di lei e afferrandole il braccio. Eva si divincolò con calma, chiuse la portiera della macchina e si diresse verso il suo appartamento. Non era la prima volta che un uomo l’accompagnasse a casa, ma quella sera aveva la sensazione che fosse diverso. Aveva da poco scoperto il non-amore, il noncoinvolgimento, la non-passione. Era dura da digerire. "Sento il vuoto dentro", sospirò. Cosa ci fosse di diverso non riusciva ancora a realizzarlo. Da qualche parte aveva letto che l'amore é un disegno, mentre il nonamore è una fotografia. L'amore è una partita a carte, la sera davanti al caminetto; il non-amore è una partita a scacchi, una cadenza di mosse e contromosse, scandite dal tempo, sempre fisso e sempre uguale. L'amore è il silenzio, il non-amore è il rumore. Le frasi che aveva letto, ora le sembravano realtà. Aveva fisse nella sua mente le mosse e le contromosse vissute nella tana del napoletano. Era stata una partita a scacchi che lei aveva perso. 65 "Sento il vuoto dentro", ripeté. Aprendo la porta di casa avvertiva il peso della sconfitta. Quella mattina, alzandosi, aveva sentito un fremito sulla pelle. Era l’inizio del mese di marzo eppure faceva freddo. Non era una novità. Era stato un inverno freddo, molto freddo. Forse troppo. Era volata via diverse volte, proprio a causa del freddo che le piegava in due la schiena e le buttava sotto i tacchi il morale, ma quel fine settimana aveva deciso di rimanere a Bruxelles. Si era sempre lamentata del freddo, ma nessuno ci aveva mai fatto caso. Né i suoi amici né i suoi colleghi. A Bruxelles tutti si lamentano del freddo e del grigio. Si lamentano e continuano ugualmente a viverci. Sembra una forma di masochismo esasperata, che solo l’intervento di uno psicologo potrebbe aiutare a risolvere. Isabelle, che occupava l’ufficio adiacente al suo, non faceva altro che guardare continuamente dalla finestra, sperando che uno squarcio di azzurro potesse penetrare il grigiore. "Mi sveglio al mattino con un peso. Le nuvole basse sembrano sfiorare la mia testa. Me ne sto alla finestra ad aspettare, spesso invano, che si sollevino e che liberino lo spazio che mi opprime". Per Eva, il 2 marzo sarebbe stato l’inizio di un altro di quei tristi week-end lontano da casa e dalla famiglia. Non solo. Sarebbe stato un altro triste fine settimana lontano dalla sua città. Non che Eva fosse particolarmente legata a Bratislava. Da sempre aveva cercato di andare via, ma non poteva immaginare che l’approdo nella capitale europea potesse rivelarsi per lei tanto inospitale, da desiderare addirittura Bratislava. Si vestì molto lentamente, come era solita fare. Prese il primo paio di jeans e se lo infilò. Cambiò immediatamente ritmo quando scorse la sveglia sul suo comodino. "Le nove!" Si rese conto di essere in ritardo e sorseggiò il suo decaffeinato molto velocemente. Neanche il tempo di dare un rapido sguardo al libro, che aveva comprato il giorno prima, che udì il suono del citofono. "Gianuario!" 66 Aveva appuntamento con lui. Non sapeva se definirlo un collega oppure un amico. Forse era più un amico che un collega. Aveva tentato di baciarla al Wild Geese qualche sera prima ma lei si era sottratta. Aveva ritratto il capo quando lui si era sporto per tentare di incollare le sue labbra a quelle della donna che parlava italiano ma che veniva dalla Slovacchia. Un uomo mingherlino, certamente italiano, li stava osservando dal tavolo vicino. Si trattava di una fisionomia non completamente sconosciuta, che non rientrava nel novero delle sue conoscenze ma che, da qualche parte, aveva l'impressione di avere già scorto. "Perdi il tuo tempo", gli aveva ricordato Eva. Il mingherlino, per quanto facesse attenzione, non era riuscito a comprendere. Pride aveva coperto la voce di Eva. Per il napoletano non ci sarebbe stata alcuna speranza di avere successo al Wild Geese. Eva non avrebbe mai baciato in pubblico un uomo. Aveva un ruolo da rispettare e, per quanto la gente di Bruxelles se ne fottesse profondamente del comportamento degli altri, non ebbe la forza di farlo. Probabilmente non ebbe neanche la voglia di farlo. Gianuario, invece, aveva la faccia del corno. Senza dubbio, ci avrebbe riprovato. Veniva da uno di quei paesi di merda del napoletano, Pozzuoli. Era per questo che lo chiamavano il napoletano. Troppo complicato risalire a quei piccoli centri di merda. Molto più semplice fare riferimento alle grandi città. A differenza di Eva non aveva alcun ruolo da rispettare e nessun ostacolo estetico da superare. "Devi venire assolutamente con me", le aveva detto la sera prima. Aveva fallito nel suo intento al Wild Geese ma ci avrebbe certamente riprovato. "Con te dove?" "Devi consigliarmi". "Consigliarti?" "Si, consigliarmi. Devo comprare uno specchio". "Preferirei fare altro", le aveva risposto lei, spocchiosamente, ma lui aveva tanto insistito. 67 Alla fine decise di accettare. I napoletani hanno il dono del convincimento. Hanno la faccia del corno, un po’ come gli arabi. Meno decisi ma più insistenti. E’ un'arte che apprendono da bambini. Gianuario proveniva da una di quelle famiglie che non erano né ricche né povere. Suo padre era un impiegato dell’ufficio IVA di Pozzuoli, mentre la madre insegnava in una scuola elementare. Aveva appreso l’arte del convincimento dal nonno, faccia di corno come lui. Era stato giovane nel periodo tra le due guerre e aveva imparato ad arrangiarsi. Durante la Seconda guerra mondiale, aveva stretto rapporti con i soldati alleati che avevano occupato Napoli, dopo l’armistizio. Si procurava le sigarette che poi smerciava di contrabbando. Gianuario aveva appreso l’arte di arrangiarsi dal nonno. Soprattutto, aveva imparato a convincere la gente. Non era simpatico di suo, ma parlava talmente tanto che alla fine prevaleva per sfinimento. Con Eva, il napoletano non dovette neanche impegnarsi più di tanto. La slovacca non aveva motivo di resistere alle sue proposte. Solo per spocchia gli aveva detto che avrebbe preferito fare altro. Invece, sarebbe stato un altro dei suoi noiosi fine settimana brussellesi. Al grigio, sotto la pioggia, mentre altrove splendeva il sole. Pensò ad Isabelle. La immaginava nei pressi di una finestra ad aspettare che il grigiore facesse trapelare il desiderato squarcio d’azzurro. "Oppure Isabelle se ne sta ancora a letto", pensò. "Mi manca il calore", aveva detto a Gyorgi la sera prima. "Non capisco", le aveva risposto Gyorgi. "Come al solito", aveva sospirato, cambiando discorso. La mattina in cui aveva appuntamento con il napoletano scoprì che le mancava altro. Scese velocemente le scale, dopo aver richiuso la porta alle sue spalle. Salutò gentilmente la portiera, che con naturalezza le aveva aperto il portone di vetro del palazzo in cui abitava da qualche mese, e si incamminò verso la macchina del napoletano. Entrò senza fare caso a dove mettesse i piedi. Tirò giù il finestrino per lasciare entrare un po' d'aria. 68 "Il senso di claustrofobia mi tormenta fin da bambina", confidò, rivolgendosi alla faccia di corno. "Respira, respira", le consigliò lui. Mentre parlava sentì le sue mani sulle ginocchia. Aveva sempre cercato di evitarlo e così fece anche quella volta. Il napoletano, invece, cercava il contatto. "Non siamo in un luogo pubblico", precisò lui, mettendo in mostra la sua faccia di corno. Eva lo aveva sempre rifiutato, ma quella mattina il grigio si era impadronito di lei. Se fosse stata insieme a Isabelle, magari avrebbe potuto cercare lo squarcio d’azzurro ma in quella situazione non era possibile. Realizzò che anche lei avesse bisogno della mano di quella faccia di corno sulle ginocchia. Iniziò il suo gioco, a parlare come sempre. Avrebbe voluto stordirla, ma non ce n’era bisogno. Eva era già stordita. E non c’era neanche Isabelle che potesse darle l’illusione dello squarcio d’azzurro. Parlarono di tutto e di nulla, come sempre accade tra amici e colleghi che non sanno se essere più amici oppure più colleghi. Eva pensava di conoscerlo, ma in realtà, non lo conosceva affatto. Lo avrebbe conosciuto dopo poco. Lo aveva incontrato in aereo sul volo ViennaBruxelles una mattina di novembre. "Una sagoma bizzarra". Non era certo il suo tipo. Lui parlò tanto, ovviamente. Esordì chiedendole se avesse potuto sedersi al suo fianco. Eva stimò quella domanda strana. "Non vedo come potrei impedirtelo. I biglietti degli aerei sono numerati e assegnati personalmente". Tuttavia, considerò quella domanda come una gentilezza, superflua ma gradevole. "Un gesto da gentleman in un'epoca di nefandezze". Parlarono tanto, come solo due persone che non si conoscono possono fare. Argomenti diversi, voli pindarici. Se dovesse ora ricordare cosa si fossero detti, dovrebbe fare uno sforzo enorme, e, comunque, non lo ricorderebbe. 69 "Non vale la pena rammentarlo. Era letteratura superflua. Superflua e inutile. Inutile perché non resta niente". La mattina del 2 marzo, il napoletano era accanto a lei. Voleva che lo aiutasse a scegliere uno specchio per la camera, che stava arredando. "Non cerco nulla di speciale. Uno specchio, semplice e a buon prezzo. Per questo andremo a Zaventem". Entrando in auto, Eva avrebbe potuto comprenderlo da sola. Non aveva fatto attenzione a dove stesse mettendo i piedi e aveva calpestato un catalogo Ikea, uno di quelli che spesso ci si ritrova nella buca delle lettere. "Non farci caso, non l’ho neanche sfogliato", esclamò il napoletano. "Fa colore", rispose Eva. "Cosa fa?" domandò il napoletano. "Colore". "Ah, colore!" "L’ho buttato in macchina. Pensavo potesse essere utile da Ikea. Non pensavo al colore". "Ci ho pensato appena l’ho visto", tenne a precisare Eva. "Strano! Comunque, ora non serve. Ci sei tu. Non mi serve il catalogo". Lo disse per galanteria. Voleva che lei comprendesse il valore che le stava dando. "Mi affiderò al tuo gusto". Lei, invece, trovò l’affermazione del napoletano sgradevole. La scelta di uno specchio non poteva essere considerata un’operazione complicata. Lui stesso aveva appena detto che gliene sarebbe servito uno semplice. "Mi ha cercata perché lo aiutassi", pensò senza aggiungere nulla. Rimase in silenzio per qualche minuto, mentre il napoletano 70 continuava a toccarle il ginocchio. Mentre la toccava, parlava, tanto, come in aereo, come sempre. Tacque solo davanti allo specchio che avrebbe comprato. Poi riprese a parlare. "Ti porto a casa mia", le disse. La invitò per il pranzo. Le avrebbe preparato la pasta al sugo di pomodoro. "Con il basilico", precisò. "Perché proprio con il basilico?" "Mia mamma usa fare la ricetta semplice e classica. Pomodori freschi, tagliati a metà, olio extravergine di oliva, uno spicchio di aglio, un po’ di piccante. Fa indorare per qualche minuto e poi ci butta i pomodorini. Infine il basilico, senza cipolla, carote o altri mistici ingredienti. Semplice, semplice…e tanto sapore. Vedrai…" Eva lo ascoltava. Lui tacque per qualche secondo, poi aggiunse: "Bisogna dire che anche la qualità dei pomodori è da considerare per un ottimo sugo". Tacquero fin quando Eva gli chiese dove abitasse. "Non é lontano. Conosci Place Meiser?" "Non credo di esserci mai stata". "Non è lontano", ripeté. Non appena ebbe messo piede nella casa del napoletano, Eva ebbe una strana sensazione, come se fosse giunta nel mezzo del nulla. "E molto triste questo sabato". Il napoletano non commento e si diresse subito in cucina, con lo specchio ancora tra le mani. Ritornò sui suoi passi per sistemarlo nel corridoio. Eva lo seguì, sia in cucina, sia nel corridoio. Non sapeva bene cosa fare. Decise che lo avrebbe seguito e basta. Non era abituata a starsene in disparte e non sapeva neanche dove potersi sistemare. "Che appartamento di merda! Neanche un posto per sedersi", pensò. C’era, invece, un divano rosso, di provenienza Ikea, che le dava 71 uno strano senso di sporco. "Scegli il tipo di pasta che preferisci, io metto su l'acqua ed inizio a preparare il sugo" , le disse con voce roca, bassa. Il compito che il napoletano le aveva assegnato la liberava dalla necessità di trovare un posto per sedersi. Sarebbe potuta rimanere in piedi, senza sentirsi, per questo, imbarazzata. Il napoletano sembrava deciso, più del solito. "Dove trovo la pasta?" domandò Eva. "Cerca lì dentro". Lui le indicò con il dito una vecchia credenza di legno d'acero. Bianca o, forse, grigia. Ripensando alla credenza, Eva considerò che dovesse essere bianca. Sembrava grigia perché sporca di polvere. Era il segno che in quella casa mancasse una donna da tempo, troppo tempo per lui. La cosa, comunque, non riguardava Eva. Non voleva nemmeno che le riguardasse. In quel viaggio in aereo da Vienna a Bruxelles le aveva parlato dell'abbandono. Di una donna fuggita via e di una bambina, venuta alla luce da quel rapporto finito. "Hai mai provato l’abbandono?" chiese ad Eva. "Ho provato la solitudine". "Non è la stessa cosa". "Qual è la differenza?" "Il dolore". "Credi che non ci sia dolore nella solitudine?" "Penso che sia doloroso". "E allora, qual è la differenza?" "L’intensità. L’abbandono trasferisce il dolore dell’assenza". "La solitudine non è assenza?" "Non lo è, credimi". "Non ho mai provato l’abbandono, se vuoi che risponda alla tua domanda". 72 "Lo avevo capito". Il napoletano si era sposato a Pozzuoli con Ingrid, un’austriaca, conosciuta in una sala Bingo di Jesolo. Si erano incontrati alcuni anni prima e dopo un fidanzamento di soli sette mesi e quattordici giorni, avevano celebrato solennemente il matrimonio nel paese di merda di Gianuario. L’austriaca era rimasta incinta la terza volta che avevano fatto l’amore. La prima, Gianuario era riuscito ad interrompere il coito, la seconda, invece, aveva misteriosamente fallito. Il napoletano era da sempre convinto di sapersi gestire. Nelle sue precedenti relazioni, non era mai capitato nulla che lui non avesse voluto. Invece, la terza volta che fece l’amore con Ingrid le cose non andarono come lui avrebbe voluto. Decisero di tenere il bambino. Anzi, considerarono quella vicenda un segno del destino. Sul volo Vienna-Bruxelles aveva mostrato la foto della figlia ad Eva. Non le era piaciuta. Non era gradevole, come non lo era suo padre. "Come la trovi?" le chiese "non è bella?" aggiunse subito dopo, sperando di ricevere la sua approvazione. Eva fece un cenno di assenso con la testa. Mentì spudoratamente. In seguito avrebbe mentito più volte, soprattutto a se stessa. In mezzo alla confusione di pacchi aperti di pasta, Eva riuscì a trovarne un tipo che pensò potesse andare bene per entrambi. "Non so perché mi preoccupo di lui", pensò dopo avere scelto il tipo di pasta. Scelse le penne rigate. Sembravano il tipo più appropriato. Ricevette anche l’approvazione da faccia di corno. "Brava! Il sugo si incolla meglio alle penne rigate". Con il pacco di pasta, aperto, tra le mani, Eva si posizionò dietro di lui per porgerglielo. Lui la guardò con la coda dell'occhio, scorgendola dietro di lui. Glielo lasciò cadere dalle mani. La prese con forza e la baciò. "Bastardo!" Il primo istinto di Eva fu quello di sottrarsi. 73 Poi, percepì il grigio che la stava avvolgendo e si lasciò andare. Il napoletano iniziò ad esplorare il suo corpo. Dapprima, la sua bocca, poi i suoi seni. Eva non riusciva a guardarlo. Continuava a non piacergli, ma adorava quello che le stava facendo. E la intrigava l'idea che glielo stava facendo in cucina. Era sempre stata uno dei suoi luoghi fetish. Le stimolava la fantasia, più di altri luoghi. "Sesso e cibo sono da sempre un connubio perfetto". Il napoletano, dopo essersi assicurato di poterla avere quel giorno stesso, si fermò all'improvviso e tornò ad occuparsi del pranzo. Pensò che le cose andassero fatte con calma e che, prima di tutto, occorresse mangiare. Eva, invece, avrebbe voluto che Gianuario si fosse occupato ancora di lei, ma non aggiunse nulla. Decise di ricomporsi. Fece quel poco che poteva fare, mentre nella sua mente, stazionavano ancora le sue mani, il suo sguardo laido, i suoi baffi, che odiava. Li aveva odiati fin dal primo momento. Non era mai stata con un uomo con i baffi. Solo una volta, quando frequentava il secondo anno di università, aveva conosciuto un ragazzo più vecchio di lei di sei anni con i baffi. Lo aveva frequentato per circa tre settimane, ma tranne qualche sorriso e un abbraccio, non c’era mai stato niente. Fino ad allora aveva ritenuto che non sarebbe mai stata capace di stare con un uomo con i baffi. Non lo aveva mai desiderato. La pausa, cui l’aveva costretta il napoletano, non durò molto. Moriva di voglia anche lui. Decise di averla, anche se non completamente. L’acqua nella pentola stava per bollire e dopo qualche minuto avrebbe dovuto calare le penne. Poi, sarebbero occorsi dodici minuti di cottura. "Occupati di me, bastardo", avrebbe voluto gridargli in faccia ma non lo fece. Eva aspettò con pazienza e, quando lui rivolse lo sguardo verso il suo corpo, lei era già pronta. La baciò di nuovo, poi le tolse con forza i jeans che lei, a fatica e svogliatamente, aveva indossato la mattina. Scese con la sua bocca e i suoi baffi sempre più vicino alle sue gambe. Finalmente le aprì e iniziò con perizia a regalarle attimi di piacere intenso. Quell'uomo non le piaceva. Non aveva mai desiderato un uomo con i baffi. Li trovava orpelli estetici di altri tempi. In quel 74 momento, però, desiderava proprio quell'uomo, nonostante tutto. Quella situazione quasi non le sembrava reale. Era come se volesse conquistare il premio di sgualdrina del mese. Seguiva il suo istinto come una cavernicola. Mentre il corpo reagiva, la sua mente era altrove. Il suo giardino, la sua città, il suo sole avrebbero dovuto accompagnarla. Questa sarebbe stata la normalità. E lei avrebbe avuto voglia di normalità, ma il suo sole, il suo giardino, la sua normalità non c’erano. C'era lui che la tormentava e la scuoteva. Agitava il suo corpo, ma in realtà non faceva altro che svuotarle la mente. Finalmente era pronta. Eva stimò che fosse giunto il momento per concedersi completamente. Quello che aveva negato a uomini che la adoravano, ora se lo stavo prendendo quell’uomo con i baffi, che lei detestava. Il napoletano, invece, considerò che il momento di prendersi tutto non fosse ancora giunto. Voleva fare le cose con calma. Per questo frenò, ancora una volta, la sua azione. Voleva mangiare. Eva non sapeva cosa dire ed infatti non disse niente. Iniziarono a mangiare. Lui era avido. Il sugo gli sporcava i baffi che poco prima Eva aveva sentito sulla sua pelle. Le faceva ancora più ribrezzo. Quando aveva incontrato il ragazzo con i baffi all’università non aveva mai pensato a quali sensazioni avesse potuto provare se lui l’avesse presa e l’avesse baciata. Il napoletano mangiava e parlava del tempo, di questa maledetta Bruxelles e inveiva contro coloro che sosteneva essere la causa della sua tristezza e della sua desolazione. Eva mangiò velocemente, poi si accovacciò sul suo materasso. Quel bastardo di Gianuario non aveva neanche un letto in quella casa. Avrebbe dovuto vederlo il padre in quel frangente. Gli avrebbe fatto ribrezzo. Gli sarebbe apparso un passo indietro nel tempo e nella scala sociale. Il padre del napoletano era riuscito a progredire rispetto al proprio padre, che vendeva le sigarette di contrabbando. Era riuscito non solo ad avere un lavoro dignitoso e onesto, ma anche a comprare una casa, in cui abitava con la moglie e con la figlia Marianna, la sorella di Gianuario, che non aveva ancora deciso di sposarsi. Se avesse visto il 75 figlio vivere in una casa come quella in cui alloggiava con uno specchio, ma senza neanche un letto, avrebbe pensato che i sacrifici fatti per farlo studiare erano stati completamente inutili. Per fortuna di Gianuario, il padre non lo aveva mai visto in quella condizione. Ad un certo punto, mentre Eva se ne stava distesa sul materasso posto sul pavimento, Gianuario imbracciò la chitarra e iniziò a muovere le dita sulle corde. "Non riconosco nessuna di queste canzoni", gli disse Eva. "Non importa, ascolta!" replicò lui, con l’arroganza di sempre. "Bastardo!" avrebbe voluto nuovamente esclamare ma l’urlo le rimase soffocato in gola. Lui strimpellava, disteso. Metà di quello che voleva lo aveva già avuto. Non gli restava che prendersi il resto. Non aspettò molto e lo fece. Ancora i suoi baffi, la sua lingua, le sue labbra calarono sul corpo di Eva, che poté vedere il suo corpo, nudo. Iniziò a odiare anche quello, mentre con forza la penetrava. Il suo corpo godeva, mentre la sua mente rimaneva gelida. Non aveva mai realizzato quanto grande potesse essere il nonamore. L'unione di quei corpi glielo fece capire. Rimase ancora qualche minuto sotto le coperta. Sentiva ancora più forte quel brivido che l’aveva accompagnata dalla mattina. Andò in bagno e, poi, si rivestì. Molto più velocemente di quanto avevo fatto la mattina. "Resta anche questa notte", le chiese il napoletano. "Non posso", gli rispose Eva, mentendo. "Non vuoi?" "Portami a casa. Per favore…" Lui non insistette, prese le chiavi della macchina e andarono via. Eva fece ritorno a casa, triste. Sarebbe dovuta essere felice. Normalmente si è felici quando si fa l’amore con un uomo nuovo. In realtà, Eva era stata con un uomo con il quale non aveva voglia di stare. Era anche stanca, psicologicamente stanca. Sentiva la testa pesante, come un masso sul proprio corpo. Pensò a Isabelle, che ogni giorno provava puntualmente le sensazioni di quel momento. Avrebbe voluto 76 cercare uno squarcio d’azzurro che potesse in qualche modo consolarla, ma non lo fece. Non c’erano squarci d’azzurro quel sabato a Bruxelles. Eppure, quando rivide le luci del suo quartiere, le si infiammò il cuore. Avvertì un senso di liberazione. Entrò nel suo appartamento, lasciò il suo cappottino rosa sulla spalliera della sedia e cercò la bottiglia del cognac. Ne versò due dita nel bicchiere e si distese sul divano. New York "Posso infilarmelo, così, fino in fondo, senza avere la benché minima sensazione di piacere.", disse Marita, "come un gesto consueto". "Si può introdurre senza toccarsi, ma lasciando intatta la propria verginità?" si informò James. "Sì". "Senza alcuna esplorazione dei propri genitali?" "Vedi tu introduci la punta dell'involucro e poi spingi", mostrò Marita, "come una siringa". "Una siringa?" "Come per iniettarti qualcosa". "E cosa senti?" "Non senti niente". "Niente?" "Come se lasciassi intatta la tua verginità". "Non mi vorrai far credere che ti consideri vergine per questo?" "No, ovviamente". "Ah, ecco…" "Mi considero vergine rispetto all’amore che facevo con quegli uomini". 77 "Intanto facevi l’amore con loro". "No, introducevano il loro involucro e spingevano. Io non sentivo niente". "Fisicamente?" "Ovviamente". "Perché?" "Per il resto provavo solo disgusto". Gli descrisse la sensazione provata la prima volta, subito dopo avere fatto l’amore. Raccontò la scena. "Lui si tolse i vestiti e rimase in piedi davanti a me. Si sputò sulle mani e si toccò per bagnarsi il pene. Fu una cosa disgustosa. Io in quel momento avrei voluto scappare via, ma ormai era troppo tardi". "Perché non lo hai fatto?" domandò James. "Volevo soltanto che mi portasse via da quella casa. Che mi portasse via dalla morte di quella casa. Che mi facesse scappare. Non ho mai voluto che mi scopasse". "Continua a spogliarti da sola. Odio vederti vestita in questa casa", mi disse in maniera tenera e, allo stesso tempo, arrogante. Non avrei proprio voluto che mi scopasse. Mi fece sentire deprezzata. Eppure eseguivo i suoi ordini all’istante". "Avresti dovuto fermarti". "Invece, in pochi secondi mi denudai e mi chinai su di lui. Lui mi prese la testa ed accompagnò i miei movimenti", ripeté Marita, "il contatto con i suoi genitali è il solo ricordo che mi resta di lui di quella sera". Si era sentita una donna altrove. James ripercorreva nella sua testa l’ultima discussione avuta con Marita. Il suo periodo di latenza stava per terminare. Gli anfratti più reconditi della sua psiche gli suggerivano che non sarebbe più riuscito ad andare avanti senza sapere dove Marita potesse essere. "Potrebbe essere che un uomo se la stia sbattendo, proprio mentre io guardo il cellulare…come un coglione". 78 Altre mani si sarebbero appoggiate sul suo corpo e lui sarebbe rimasto a osservare. Le sue esitazioni sarebbero state punite. "Potrebbe essere, perché no?" Altre mani si erano già posate sul suo corpo e avevano allargato le sue gambe tornite. Volendole quantificare, erano trascorse cento ore dal momento in cui le aveva inviato il messaggio. "Perché non telefonarle, allora?" Non aveva risposto al primo messaggio, non avrebbe probabilmente risposto a un secondo. "Se le facessi squillare il telefono, se le dessi un segnale della mia presenza e della sua assenza?" James ragionava, calcolando elementi favorevoli e contrari a una sua precisa presa di posizione. "La telefonata può essere un'opzione possibile ma non convincente". Non riusciva proprio a ragionare con il cuore. Le sue azioni, anche le più semplici, erano dettate da calcoli e cifre, percentuali e poi da vantaggi e svantaggi, variabili dipendenti e indipendenti. Si sarebbe fatto calpestare da un camion ma non avrebbe mai agito d'istinto. Avrebbe finito per sotterrare qualsiasi impulso e meno che mai si sarebbe fatto prendere dalla smania di reagire, benché l'assenza di Marita fosse diventata un tormento. Esisteva la teoria dei giochi. "Se provassi con la teoria dei giochi…", pensava. La sera, dopo avere fatto la prima volta l'amore con Marita, James era ritornato a casa alle due del mattino. Aveva messo la chiave nella toppa senza fare rumore ma, aprendo la porta, aveva trovato il living completamente illuminato. "Paaapààà", aveva strillato Tom. James si era sorpreso. Era apparso sulla porta con indosso la camicia sgualcita, con il bottone in alto aperto e il nodo della cravatta storto e allentato. Tom si era aggrappato al padre, tenendo una tazza in 79 mano da cui stava tragugiando un sorso di latte caldo, con gli occhi sgranati. James strinse la valigetta di pelle tra le mani. Tom gliela avrebbe certamente distrutta se non l'avesse fatta sparire dai suoi occhi. Lo spiritello con i capelli biondi, il pigiama dei Power Rangers e le ciabatte di Kermit gli si era attaccato a una gamba. "Non riesce a dormire", sussurrò la moglie dall'altra parte della stanza. "Dovrebbe. Sono le due". "Provaci tu…a farlo dormire". Si era ritrovato nuovamente immerso nella sua apparente normalità. Le gambe tornite di Marita, che avevano accompagnato il suo rientro a casa, erano scomparse dalla mente. Il mattino seguente era giunto in ufficio alle otto e quarantacinque. Quasi un'ora in ritardo, rispetto alle sue abitudini. Eppure avrebbe avuto mille ragioni per stare seduto alla sua scrivania presto, molto presto. "La strategia…la strategia. La teoria dei giochi…la strategia", ripeteva, mentre tentava di sistemare la sua scrivania. "Un caffè, per cortesia", chiese a Clara, mentre, in piedi, con le mani sulla cintura dei pantaloni provava a dare un ordine ai suoi pensieri. "Macchiato, come al solito?" gli urlò Clara. "No, nero, forte, anzi molto forte. Ho bisogno di un caffè forte, che mi restituisca i pensieri persi nella notte", rispose. "Come dici?" "Niente! Un Caffè nero, forte". Aveva dormito poco quella notte. Si era svegliato alle sei. Suo figlio aveva avuto male di pancia e aveva pianto nella stanza accanto. Solo alle sei e mezzo si era riaddormentato ma il suo sonno non era durato molto. Alle sette era già in piedi. Non aveva riposato molto, era stanco, eppure si dovevano prendere delle decisioni. Sarebbe bastato applicare la teoria dei giochi? 80 Clara gli portò il caffè e lui lo bevve, tutto di un sorso. "Ah, Clara…avverti gli altri. Tra dieci minuti nella sala riunioni". "Quelli del gruppo?" "Che vengano tutti, mi raccomando". "Patrick sarà qui non prima delle dieci e Samantha ha telefonato". "Non mi dire che non può venire". "Non si sente bene". "Cosa ha questa volta? "Ha la febbre". "Chiama gli altri", ordinò James, nervoso. "Cosa dico?" "Cosa vorresti dirli? Che li aspetto". "Certo, James, tra dieci minuti nella sala riunioni". Esattamente dieci minuti dopo, James varcò la soglia della sala riunioni. Erano presenti tutti, tranne ovviamente Patrick, che li avrebbe raggiunti e Samantha, che aveva telefonato. Intorno al tavolo erano in otto, quattro senior, tre junior e un giovane in prova con un contratto da stagista. Oltre a James, i quattro senior erano Emer Broke, Francis Daily and Anthony Vitale. Dei quattro, Emer era quella che aveva più esperienza alla Axa Pharmaceuticals. Dieci anni trascorsi tra Seattle e New York. "Un caso eccezionale", lo aveva definito James. Il rapporto del reparto risorse umane sulla gestione ottimale del personale indicava che i manager Axa duravano mediamente nell’azienda cinque anni. "Il ciclo produttivo di un manager cresce fino al quinto anno di impiego, poi declina inesorabilmente. Fatta eccezione per il primo anno, che normalmente viene speso per l’apprendimento dei compiti del nuovo ruolo, esistono solo quattro anni nella fase produttiva in cui l’apporto del nuovo arrivato è crescente. Trascorsi i cinque anni, il 81 beneficio che un’azienda trae dall’ingresso di un nuovo manager è praticamente nullo". Che il consiglio di amministrazione di Axa avesse questo tipo di impostazione, non era un mistero per nessuno all’interno dell’azienda. Lo sapevano tutti. Più volte erano stati diffusi, sull’intranet della società, studi commissionati alle aziende di consulting per elaborare le migliori strategie possibili di allocazione del personale. I dieci anni di Emer erano certamente troppi. Quali erano allora le qualità che le consentivano di sopravvivere all’interno dell’azienda? Abile analista di mercato, mostrava una tempra d'acciaio e un fisico da prostituta del Bronx, abbondante in tutte le sue terminazioni fisiche. Conosceva il francese e il giapponese. Presi isolatamente, avrebbero potuto rappresentare atout importanti ma non decisivi. Presi in combinazione costituivano un ragguardevole vantaggio per la Axa. Il suo rapporto di notazione annuale spiegava l’anomalia. "Nei meeting tripartiti con le industrie e l’amministrazione delle maggiori aree produttrici mondiali, si tratta di un vantaggio comparativo importante. Emer è capace di comunicare con tutte le parti coinvolte, senza avere bisogno di alcun ausilio a livello interpretativo. Può cogliere le sfumature linguistiche che una traduzione, anche accurata, spesso non consente di cogliere". "Cosa c’è di nuovo, James", chiese Emer, mentre prendeva posto al tavolo. "Il bastardo alza continuamente l'asticella". "Cosa?" "Gli obiettivi fissati lo scorso dicembre non gli vanno più bene. Dice che non riusciamo a reggere il ritmo". "Erano già abbastanza". "Mi ha chiamato ieri. Mi ha chiesto di andare da lui. Mi alzo dalla scrivania e salgo al piano di sopra. Mi mostra una serie di grafici e mi dice che non ci siamo. I due milioni che noi dovremmo garantirgli non bastano. Mi ricorda che dobbiamo fare uno sforzo supplementare". 82 "Glielo hai detto che siamo al limite?" "Ovviamente no!" "Perché?" "Il bastardo ha già pronta una soluzione alternativa. Credi che non lo sappia?" "E cosa gli hai detto?" "Che mi serviva un po' di tempo per correggere la strategia". "Tutto qui?" "Cosa avrei dovuto dirgli?" "La verità". "E quale sarebbe la tua verità?" "Che anche due milioni sarebbe stato un obiettivo difficile da raggiungere". "E, invece, lo raggiungeremo. Io da qui non ho alcuna intenzione di muovermi". "E come?" "Ho già un'idea". Smisero di discutere nel momento in cui Anthony fece il suo ingresso nella sala. "James, io ho dovuto mollare tutto. Come ti viene in mente di convocare una riunione all'improvviso?" "Evidentemente ho bisogno di discutere con tutti voi!" "E non potevi attendere la riunione settimanale del lunedì?" "Ti ripeto…evidentemente ho bisogno di discutere con voi… ora!" Anthony prese posto vicino ad Emer. Si guardarono come se avessero qualcosa da dirsi. "Gli obiettivi dell’azienda sono chiari…", dichiarò James, aprendo la riunione, "il consiglio è stato chiaro. Dobbiamo aumentare i profitti se vogliamo sopravvivere. Non sarà facile ma non abbiamo alternative. Spremetevi, fate uscire anche l'ultima goccia di materia 83 cerebrale che avete in testa, ma datemi idee. Voglio idee…questa mattina voglio idee…solo idee…" "L'industria farmaceutica si presenta come un oligopolio piuttosto concentrato, ma non stabilmente collusivo e con una certa specializzazione internazionale del lavoro". James intervenne a gamba tesa. "Anthony, ti prego, non oggi…non ho voglia di ascoltare le tue cazzate sui mercati oligopolistici e sulle difficoltà di guadagnare fette di mercato. Ti prego, non oggi…oggi datemi soltanto idee…idee, cazzo!" Non sarebbe stata una riunione come le altre del lunedì. "Non ho nessuna intenzione di fare il punto della situazione. Io devo riposizionarmi. Non ho bisogno delle cazzate di Anthony sui mercati oligolipolistici. Serve altro, cazzo!" Eppure le considerazioni di Anthony Vitale erano corrette. L'industria farmaceutica appartiene a un settore globalizzato, per esigenze sia di mercato che industriali, che la rende particolarmente vulnerabile se non riesce a mantenere un buon livello di sviluppo. "James, non puoi ignorare la realtà. Il problema che dobbiamo affrontare tutti è legato alla congiuntura. Dopo una certa stabilità competitiva durata sino ai primi Anni Novanta, con tassi di sviluppo anche superiori al dieci per cento, il nuovo millennio si é aperto con un evidente rallentamento". "Io me ne fotto del rallentamento. Possono rallentare gli altri, non noi. La Axa si é sviluppata negli Anni Novanta, ma ormai da quasi quattro anni accusa, più di altre aziende, i segni della crisi". "Dipende da come si leggono i dati…" "Puoi leggerli come vuoi, Emer! L'unico dato che mi interessa è legato agli obiettivi dell'azienda. Mi chiedono di superare i due milioni di profitto e io li devo superare. Quello che fanno gli altri qui dentro non mi interessa. Se gli altri vogliono e devono restare sotto la quota… affari loro!" Dopo qualche secondo di silenzio, James provò a giustificarsi. "Scusami Anthony", esclamò con toni meno eccitati, "scusami per lo sfogo…ma le cause…le cause che hanno provocato l'instabilità 84 del mercato le conosciamo tutti. Siamo consapevoli delle politiche nazionali di taglio della spesa sanitaria e farmaceutica pubblica. Siamo anche consapevoli delle nuove famiglie tecnologiche con potenzialità e minacce non ancora ben definite. Conosciamo tutti i crescenti costi operativi alla restrizione della regolamentazione pubblica e, sappiamo che anche le piccole e medie imprese innovative hanno iniziato a trovare spazio. Ne siamo tutti consapevoli. Per questo, ragazzi, vi chiedo idee…." "L'attività di Axa Paharmaceuticals é concentrata sulla scoperta di nuove molecole e sulla riformulazione delle molecole note", spiegò Emer, "il secondo versante comporta l'avvio di una politica innovativa più bilanciata e dinamica". "Nelle imprese farmaceutiche l'innovazione comporta anche un elevato rischio dovuto essenzialmente all'incertezza sottesa all'attività di ricerca e sviluppo. Non possiamo prevedere quale possa essere l'esito tecnico e l'accettazione commerciale". "Anthony, il settore farmaceutico è un settore soggetto ad un'ampia regolamentazione pubblica e a frequente innovazione di prodotto". "Possiamo fare dei sacrifici per alimentare il progresso tecnologico…" "Ciò implica la necessità della registrazione pubblica per motivi di protezione brevettuale e di salute pubblica. L'autorizzazione ci offre tutela sul mercato, ma ci espone a rischi di immagine e ci comporta ritardi per l'introduzione sui mercati". "In questi anni, il sistema dell'innovazione del farmaco vive un momento di particolare criticità, perché si sta consumando il passaggio dal paradigma scientifico-tecnologico della sintesi chimica a quello delle biotecnologie. Ci sono profondi mutamenti della scienza e della tecnologia dai risvolti non ancora evidenti". La riunione proseguì per oltre un'ora. Più si procedeva e più ci si rendeva conto che la competizione mondiale e gli scenari in continua evoluzione imponevano alla Axa Pharmaceuticals nuovi modelli di comportamento e una strategia più intelligente per migliorare il proprio posizionamento. "Per potere reggere le nuove sfide, occorre aumentare le 85 entrate. Il consiglio di amministrazione é stato chiaro su questo punto", ribadì James. "E tu quali soluzioni intravedi?" "Ritengo che ci possano essere tre possibili opzioni. Non so se possano essere ritenute delle soluzioni, ma…" "Va bene! Opzioni…" "Si potrebbe migliorare l'offerta attraverso una politica mirata alla sperimentazione di nuovi principi attivi. Cosa ne pensate?" L'innovazione rappresentava un importante volàno per la promozione del benessere sociale e per il successo delle aziende. "Potrebbe essere un'opzione sebbene l'innovazione nel settore farmaceutico discenda da alcuni aspetti peculiari come la significativa correlazione che si riscontra tra investimenti in ricerca e sviluppo e fatturato", precisò Emer. "La seconda opzione agirebbe secondo i metodi tradizionali del commercio delle malattie". Sono proliferati gli operatori del marketing delle malattie, che utilizzano la sensibilizzazione ai problemi sanitari come uno strumento potente per vendere farmaci. Contemporaneamente sono aumentate a dismisura anche le pubblicità dei farmaci. A ogni ora del giorno vengono trasmessi spot per diffondere informazioni di malattie vere o presunte. È il commercio delle malattie, promozione commerciale camuffata da campagna di informazione sanitaria, spesso finanziata direttamente dalle industrie farmaceutiche. Si tratta di diffondere ansia e timori rispetto alla salute e poi di proporre l'acquisto del farmaco come un risolutore del problema. Tutti hanno interessi, gli specialisti che possono aumentare i pazienti e, di conseguenza, il reddito, gli amministratori dei centri di diagnosi o di cura, che reclutano un maggior numero di assistiti e fatturano un maggior volume di prestazioni, i produttori di apparecchiature diagnostiche e le Case farmaceutiche che agiscono come il vero motore dell'intera catena. Lo scopo é sempre lo stesso. Si deve amplificare l'importanza di questa o quella malattia per assoldare pazienti, moltiplicare le prestazioni, potenziare le strutture, sviluppare l'attività. Addirittura, data la mole degli affari e il livello ormai altissimo di mistificazione, c'é 86 chi si chiede se venga prima prodotto il farmaco e poi inventata la malattia. Il lavoro sporco consiste nel rendere patologico ogni sintomo o piccolo problema, per convincere la gente ad usare i farmaci. Le società farmaceutiche sono ormai diventate esperte nell'organizzazione di campagne pro-malattie, in cui si assoldano esperti o persone miracolosamente guarite grazie ai loro farmaci. Qualsiasi sistema va bene, riviste scientifiche, associazioni, medici, sponsor di vario tipo. Si crea il bisogno della cura prima di produrre il farmaco. "Potremmo fare entrare in campo mister Jonhson", propose Emer "si tratta di uno dei maggiori esperti del settore". "Con lui saremo certamente più credibili", assicurò Francis. In realtà per creare il bisogno prima della cura, é opportuno attivare scienziati di spicco, che durante i congressi possano parlare della malattia, della diagnosi e della cura. "Mister Jonhson può fare al caso della Axa Pharmaceuticals", ribadì James, "dobbiamo essere pronti a tutto". Lasciò che Emer spiegasse il proprio progetto. "Si potrebbe iniziare pubblicando un articolo, sotto firme diverse, per aumentare la notorietà di una nuova molecola e suggerire ai medici che i suoi vantaggi sono stati davvero confermati. Si potrebbe successivamente commerciarla sotto nomi diversi per imporla più rapidamente. Infine, potremmo fare la dovuta pressione". "In alternativa, potremmo proporre la strategia di nicchia. I laboratori suggerirebbero il loro medicinale nel sottodominio limitato di una patologia e in seguito lavorerebbero per allargare questo segmento di mercato, preparando i medici al depistaggio. Contemporaneamente potremmo preparare sia la stampa che il grande pubblico", aggiunse Francis. James seguiva lo scambio di opinioni tra Emer e Francis con molta attenzione. "Penso ad alcune forme di depressione breve o di schizofrenia precoce", aggiunse. "Depressione breve o schizofrenia precoce?" 87 "Sì, potremmo proporre la strategia di nicchia. I laboratori propongono il loro medicinale e noi lavoriamo per allargare la nicchia". "In questo caso, dovremmo utilizzare tutti gli stratagemmi del sistema pubblicitario, utilizzando le tattiche di comunicazione che si indirizzano direttamente alle masse", precisò Francis. In una società in cui si semina paura, insicurezza e complessi estetici non sarebbe stato difficile convincere la gente che qualcosa non funzionasse nel proprio organismo e che avesse la necessità di assumere farmaci. "Il marketing delle malattie punta a renderci tutti malati e farci ritenere che la scienza sia capace di risolvere anche gli scompensi psicologici che lo stesso ambiente ci spinge ad avere. Si ingigantiscono i problemi, si fanno stime elevate per far credere che facilmente si possa essere colpiti da una specifica malattia", aggiunse Emer. La fonte da cui proviene l'informazione viene spacciata sempre più autorevole e scientifica per rendere l'informazione più persuasiva. Spesso si tratta di cifre approssimative o completamente inventate. "In diverse campagne promozionali dei farmaci, gli sponsor raggiungono i loro obiettivi grazie a programmi televisivi in cui l'informazione appare come dovuta a motivi di tutela sanitaria. Vengono utilizzati professionisti di marketing di alto livello, per rendere le campagne promozionali efficaci, e camuffare un'iniziativa di natura commerciale in uno spazio dedicato al bene comune". "Si tratta di dire ai sani che sono malati", esclamò James in un grassa e prolungata risata. Risero tutti. "Nel settore della produzione dei farmaci, soltanto sei industrie controllano il settanta per cento del mercato mondiale, compresa la ricerca scientifica", fece notare Emer. "E la Axa Pharmaceuticals era una di queste e deve tornare a esserlo", le rispose James con decisione. I cartelli farmaceutici hanno il potere di creare farmaci e di metterli in commercio, senza accertarne i rischi per la salute di chi li assumerà. Gli effetti collaterali sono spesso talmente pesanti da generare vere e proprie patologie o da compromettere gravemente la 88 salute del paziente. "Per vendere i nuovi farmaci si deve suscitare fiducia", ripeté Emer, "un mezzo efficace sarebbe quello di utilizzare le riviste più autorevoli del settore scientifico". I lettori delle riviste sono indotti a credere che gli articoli siano obiettivi. Invece, spesso sono sponsorizzati dalla case farmaceutiche allo scopo di sostenere un nuovo prodotto che presto entrerà sul mercato. "Però…", sospirò James. "Però…" "Però potrebbe non funzionare". "Un attimo, James…solo un attimo fa sembravi entusiasta di questa opzione…ora, invece, ci dici che non potrebbe funzionare". "Si, James…" "Le pubblicità possono essere spesso ingannevoli e i profitti nell'ordine dei milioni sono troppo in bella vista", si giustificò James. "In effetti, quello che dice James non è campato per aria", intervenne Anthony. "I profitti sono sotto gli occhi della critica", aggiunse James, "sarebbe meglio una soluzione alternativa, un’opzione diversa". "C’era una terza opzione, giusto?" Chiese Anthony. "La terza opzione, invece, è quella di combattere le licenze obbligatorie". "Anche questa soluzione, come le altre, è legata al problema dei brevetti", fece notare Emer. "Infatti. Il problema dei brevetti". "Lo definisci bene. Si tratta di un problema". "Sono convinto che uno dei problemi da risolvere sia quello della protezione brevettuale di una scoperta scientifica. I tempi si stanno riducendo e sono sempre più corti". "Non certo per colpa nostra. I tempi si stanno riducendo per una serie di motivi, come la richiesta di dossier sempre più allargati e 89 approfonditi da parte delle organizzazione internazionali, che richiedono studi clinici lunghi e documentati". "Esiste, inoltre, anche la necessità di prevedere una sorta di ombrello brevettuale di copertura sempre più esteso e dettagliato, per evitare che aziende concorrenti possano, con una minima modifica d'uso, aggirare la protezione brevettuale e accedere allo sfruttamento economico e commerciale della scoperta". "Non mi interessa indagare. Mi importa il dato che emerge. I tempi si stanno riducendo! Sono sempre più corti e non ci consentono di recuperare gli investimenti miliardari, necessari per passare dall'intuizione dei ricercatori alla commercializzazione dei prodotti", disse James. "Se decidiamo di basare la nostra strategia sui brevetti, allora dobbiamo intervenire dal lato della comunicazione". "Francis cosa ne pensi?" Chiese James. "Io direi qualcosa del tipo…I frutti di anni di ricerca, di investimenti industriali considerevoli e ad alto rischio in ogni passaggio a fasi successive dello sviluppo di una nuova molecola fino alla sua possibile commercializzazione devono essere sempre più considerati come il vero senso dell'innovazione e segno differenziale del patrimonio farmaceutico. Tali frutti si concretizzano in brevetti, primo e indiscutibile strumento a protezione di una nuova scoperta che apporta valore all'azienda". Il marketing delle malattie poneva problemi di fronte all’opinione pubblica. Sarebbe stato come giocare a carte scoperte. La teoria dei giochi gli avrebbe consigliato di mostrare le sue carte per massimizzare gli interessi di tutti gli attori in gioco. Eppure James non voleva. "Il risultato che Axa vuole raggiungere non ha nulla a che fare con l'interesse di tutti. È troppo alta la posta in palio per lasciare che altri possano partecipare alla spartizione". Bruxelles 90 Sentì squillare il telefono, era Gyorgy, suo marito. La chiamava sempre, ogni sera. "Mi manchi, tesoro". "Anche tu mi manchi", gli rispose Eva. Era stata quella maledetta idea di Europa a portarla via. Si erano sposati otto anni prima, in una piccola città dell'Ungheria, Hortobagy. Alla cerimonia avevano partecipato in pochi, i parenti e qualche amico. Tra i parenti erano assenti ben sei cugini di primo grado e oltre una decina di secondo grado. Eva e Gyorgy non vi avevano fatto molto caso. Avevano scelto Hortobagy perché appartenevano alla minoranza ungherese della Slovacchia. Nelle loro vene pulsava sangue magiaro. Dopo aver parlato con suo marito, Eva uscì con Ivanka. Le venne una gran voglia di cheesecake, di quelle meravigliose torte leggere come l'aria e con un profumo delizioso. "Mi tornano in mente le torte che mia madre preparava ogni venerdì, quando finiva di lavorare. Tornavo a casa e venivo sopraffatta da quel profumo. Era irresistibile". Il profumo riusciva a guidarla fino alla porta di casa. "Ricordo che, una volta, una signora uscì sulle scale e non sapeva chi fossi. Era una nuova inquilina. Iniziò ad urlarmi contro". "Urlarti contro?" domandò Ivanka. "Vattene via, che ci fai qui? Mi urlò. Mi lasci spiegare, signora, provai a dirle ma lei mi interruppe, non hai nulla da spiegare, impertinente". "Che stronza!" commentò Ivanka. "Un attimo solo…sii gentile, provai a chiederle, timidamente ma lei non volle sapere ragione. Continuò a urlarmi contro, neanche un secondo, devi andare via, via. Allora scappai via impaurita. Raccontai tutto a mia madre. Lei mi disse di restare calma e di non preoccuparsi. Ci avrebbe pensato lei a regolare le cose. Disse anche che non bisognava disturbare quella signora. Era anziana e aveva perduto parte della sua ragione. Rimasi perplessa a fissare le labbra di mia madre. Lei 91 se ne accorse e mi sorrise. Non aggiunse altro, se non che avrei capito con il tempo". Lasciò Ivanka e tornò a casa alle dieci. Non riusciva a spiegarsi come mai avesse avuto il ricordo del cheesecake. Cercò per tutto l'appartamento una delle ricette di sua madre. Avrebbe voluto preparare una torta, ma non poteva. Il suo frigorifero era completamente vuoto. Non avrebbe mai potuto prepararsi da sola neanche la più semplice delle torte che la madre le faceva trovare il venerdì sera. "La voglia non mi passa, anzi, cresce sempre di più". Pensò anche che sarebbe potuta uscire a comprarne una fetta subito, senza attendere la mattina, ma non le andava di lasciare il caldo conforto del suo appartamento. Sarebbe stato molto meglio lasciarsi andare sul divano. Anche la voglia di cheesecake si sarebbe spenta. In quel momento squillò nuovamente il telefono. Era il napoletano. "Vorrei ringraziarti. È stato meraviglioso, dolcezza", le disse. "Anche per me", mentì Eva. Era tutto così assurdo. Avrebbe avuto tanti motivi per volersi bene, tante ragioni per sentirsi orgogliosa eppure decideva deliberatamente di ignorarle. In quel momento non aveva risposte. Non le stava neanche cercando. "Credo che tutti si siano odiati nella propria vita", sussurrò a voce bassa. In quel preciso istante, odiò se stessa e non c'era nessuno con lei che fosse in grado di aiutarla. Si abbandonò sul divano. Mise da parte la voglia di cheesecake, mentre i pensieri più disparati continuavano ad affastellarsi nella propria mente. Pensò alla sua terra, al giardino, alle torte della mamma. Non in questo ordine, ma ci pensò. Un processo emotivo, fatto di ricordi, che andavano dal particolare al generale. Iniziavano nella sua vecchia casa fino ad arrivare alla Slovacchia, entrata in Europa nel 2004. In realtà, la Slovacchia in Europa c'é sempre stata ma a Bruxelles conta la geopolitica. Quasi che si volesse mettere da una parte i buoni e, dall'altra, i cattivi. Quelli dentro l'enorme scatolone 92 dell'Unione europea devono essere considerati buoni; gli altri, i cattivi. Ad Occidente c'erano i buoni, la democrazia, le libertà individuali, la ricchezza, l'economia di mercato, la concorrenza e perfino la capacità degli individui di poter consumare qualsiasi bene. Dall'altra parte, i cattivi, e con essi la collettivizzazione, il totalitarismo, l'assenza delle libertà individuali. La Slovacchia era finalmente tra i buoni. "Un'occasione da non perdere", aveva pensato Eva, di fronte al nuovo corso storico. Era il desiderio di andare oltre il limitato orizzonte della sua terra. Sognava l'Occidente e il benessere, ricordando le notti serene trascorse insieme a Ludmilla a parlare del futuro. "Come saranno i nostri trenta anni?" Guardavano le stelle sopra il cielo della Slovacchia e, quando cadevano, esprimevano desideri. L'Europa, quella politica, non quella geografica, era una prospettiva intrigante e finalmente ce l'aveva a portata di mano. Non le interessava partecipare al grande disegno di costruire l'Europa dei popoli europei. Non era giunta a Bruxelles per principio, né per soldi. Aveva voglia di conoscere. Non avrebbe più avuto lo stress di correre dappertutto per mettere insieme un salario decente, ma la tranquillità di poter aspettare la fine del mese, sapendo di riceverne sempre e, comunque, uno. Bruxelles le dava le certezze che in Slovacchia non aveva e non avrebbe potuto avere. Un salario sicuro, un lavoro reputato onorevole e qualche vantaggio sociale. A Bratislava si era occupata di consulenza. Aveva costituito una piccola società e offriva servizi alle imprese che investivano in Slovacchia. Agevolava l'ingresso e lo sviluppo del business delle aziende straniere sul mercato slovacco. Le supportava nella ricerca di fornitori, contatti e finanziamenti. Tuttavia, l’Europa unita o presunta tale, che l'aveva accolta era già diventata triste, egoista, disillusa. Solo i governanti non lo avevano capito. Eva a Bruxelles scoprì che l'Europa era un limone già spremuto. "Dopo il dominio sovietico, ci stiamo rifugiando in un altro 93 imbuto. Questa volta, non ci sono carri armati a spingerci. Tutto avviene deliberatamente, nella totale consapevolezza degli avvenimenti". Aveva trovato un'Europa divisa e lacerata. Sempre più aspro era il confronto tra la visione di un'Europa intergovernativa fondata su una zona di libero scambio e quella di un'Europa comunitaria frutto di una vera integrazione politica. Era un'Europa che aveva già dato il meglio di sé. "Siamo arrivati tardi!" Mumbai Era trascorso esattamente un mese dal giorno in cui Ekta aveva lasciato la casa del cognato. Giorni che non erano serviti per farla abituare alla sua nuova realtà. Quel quartieraccio, ammasso di case e capanne, continuava a non piacergli. "Manca tutto. Non c’é l’acqua e l’elettricità va e viene. L’acqua bisogna andare a prenderla ogni giorno con dei grandi secchi". Avanish se ne incaricava, ma non lo faceva con piacere. "Perché sempre io?" "Perché sei il più grande e questi sono compiti per chi comanda la famiglia". "Nessuno mi sta mai a sentire", si lamentò Avanish. Ci andava alle sette di mattina. A volte doveva ritornarci alle dieci, perché alle sette non sempre l’acqua scorreva. Altre volte mancava del tutto. "Devi avere pazienza", gli disse Ekta, "l’anima si può nutrire ogni giorno anche senza bere". I giorni in cui l’acqua non c’era, Ekta meditava. In realtà, lo faceva sempre ma meditava più a lungo nei giorni in cui mancava l’acqua. Restava assorta in un angolo, dritta sulle ginocchia, gli occhi socchiusi. Avanish la guardava e tentava di imitarla. Ci riusciva per alcuni minuti, poi si distraeva e apriva gli occhi. La madre lo guardava e gli sorrideva. 94 "Occhi chiusi, occhi chiusi", gli sussurrava. Dopo essere stata costretta ad abbondare la casa del cognato, Ekta iniziò a cercare un lavoro. Non era facile andare avanti nel marasma di gente, macchine, smog e confusione che la circondava. Sapeva insegnare e provò a farlo ma era come se avessero paura di lei. "In questo maledetto quartiere non lavora nessuno". La maggior parte della gente viveva nelle baracche, altri addirittura abitavano per strada. E per strada era anche il loro lavoro. Il cognato, prima di invitarli a lasciare la sua casa, li aveva riforniti di riso e rupie. Il riso era quasi finito e le rupie non sarebbero durate a lungo. Se Ekta non si fosse data da fare, sarebbe stata dura sopravvivere. Avanish andava per strada e per strada ci andavano anche i suoi due fratelli più giovani. Rientravano sempre alla sera. La sera del 2 marzo, alle undici, non erano ancora rientrati. Ekta iniziò a preoccuparsi. "Deve essere successo qualcosa. Non può essere…non può essere…" Uscì per strada. Chiese ad Arjanata se avesse visto i suoi tre figli. "Questa mattina li ho visti", rispose Arjanata. "Dove li hai visti?" "Vicino la fontana" "La fontana?" "Però non c’era l’acqua". Ekta sospirò. "Ho aspettato insieme a loro ma l’acqua non è arrivata", aggiunse Arjanata. "E i secchi? Dove hanno messo i secchi?" "I secchi li aveva Avanish". "Saranno andati all’altra fontana", suggerì Arjanata. "Saranno dieci chilometri. È lontana". 95 "Avanish ha il passo svelto. Non sono tanti dieci chilometri per lui". Ekta sperò che Avanish fosse davvero andato alla fontana che si trovava a dieci chilometri di distanza e avesse trascinato con sé anche i suoi due fratelli. Salutò Arjanata e si incamminò verso la fontana. Attraversò marciapiedi pieni di uomini e di donne distese per terra. Alcuni dormivano, altri non si sapeva se dormissero o fossero morti. Incrociò un uomo con un secchio che gettava acqua su quegli uomini riversi per terra. "Perché getti l’acqua su di loro" si informò Ekta. "Per sapere chi di loro sia vivo e chi, invece, morto". Ekta rabbrividì. A volte, a Mumbai, la gente muore anche senza che gli altri se ne accorgano. Smettono di respirare ma non sempre nel caldo umido di Mumbai chi sta accanto a un uomo che smette di respirare percepisce l’assenza della vita. Occorre fare attenzione e non sempre c’è il tempo e il modo di riporre attenzione. Esiste allora il sistema dell’acqua. "Dove hai preso l’acqua?" chiese Ekta all’uomo. "L’ho presa alla fontana". "Quale fontana?" "Quella lontana". Si trattava della fontana distante dieci chilometri. Ekta continuò sul suo cammino. Lungo il percorso si concentrò sulla vita per scacciare le paure. Finalmente giunse alla fontana che distava dieci chilometri ma i suoi tre figli non c’erano. "Io non li ho visti", sospirò Ekta. Non li aveva incontrati lungo il cammino. In verità sarebbe stato difficile riconoscerli perché le zone di penombra erano tante. La luce illuminava il cammino solo a tratti. Se i suoi tre figli si fossero trovati nelle zone di penombra, probabilmente non li avrebbe visti. Forse avrebbe potuto anche riconoscerli ma sarebbe stato davvero un colpo di fortuna. Rimase sconsolata. Un fremito di disperazione la colse all’improvviso. Pensò al marito morto. 96 "Quando lui era vivo, non é mai successo che non fossero rincasati a casa". Quando vivevano nella casa del cognato c’era ordine. "Devo scacciare i cattivi pensieri". Riprese a meditare ma era difficile ritrovare la concentrazione per strada. Il buio l’aiutava. Ripercorse a ritroso il cammino che aveva appena fatto. Incrociò di nuovo l’uomo con il secchio di acqua. "Ci sono dei bambini tra i morti di questa sera?" "Non mi sembra", gli rispose l’uomo con il secchio di acqua. "Non c’erano bambini?" domandò di nuovo Ekta. "No, non mi sembra", rispose di nuovo l’uomo. Ekta avvertì una strana emozione. Riprese forza e vigore. Accelerò il passo per tornare verso casa. Era stanca ma una strana forza la sospingeva. Avrebbe voluto fermarsi. "Ho sete!" esclamò. Ma non c’era nessuno che potesse darle dell’acqua. Non restava altro che camminare, se possibile più velocemente. Dopo circa due ore e mezzo di cammino, Ekta si ritrovò a casa. "Sono stanca, molto stanca". Prese dell’acqua dalle scorte che aveva nel ripostiglio. Bevve dapprima con foga, poi con calma. Si sedette in un angolo. Sentì il rumore del motore di una vecchia macchina avvicinarsi. Una luce fioca entrò dalla finestra. Illuminò per un attimo la stanza. Ekta si emozionò. Vide i suoi tre figli che dormivano. New York Rientrando a casa, James vide i suoi due figli dormire. Si avvicinò a Tom e lo strinse a sé. "Ancora qualche minuto", gli urlò la moglie dalla cucina. James udì ma non rispose. Lasciò scivolare il piccolo Tom nel 97 letto e raggiunse il living. Si sedette sul divano, in attesa della cena. Afferrò la prima rivista capitatagli tra le mani e iniziò a sfogliarla. Si soffermò sull'articolo di Kenneth Wintherspoure. L’antica Dion era per i Macedoni città sacra, il suo nome deriva da Dios genitivo di Zeus. Era situata ai piedi del monte Olimpo, il monte degli Dei. Si calcola che nel suo periodo fiorente, contasse 15.000 abitanti. Il re Archelao (413 – 399 a.C.) vi fece costruire, tra l’altro, un tempio a Zeus, un teatro e uno stadio, organizzandovi dei giochi che facessero concorrenza a Olimpia. Alessandro Magno offrì sacrifici agli dei a Dion prima di iniziare la sua spedizione in Persia. Penso che il momento giusto per approdare a Dion fosse già passato da qualche secolo. "Bisognava essere a Dion quando Euripide figlio vi allestì la prima delle Baccanti", sussurrò. Le Baccanti che Euripide padre, chiamato dal nonno di Alessandro, Archelao, aveva scritto poco prima di morire nel 406. "Sarebbe stato interessante andare a Dion per vedere l'invincibile armata". Nella primavera del 334 Avanti Cristo, il generalissimo Alessandro, ventenne, radunò su questa spianata, vicino all’altare di Zeus benedicente, i trentacinquemila mila dell’invincibile armata che gli avrebbe regalato prima la Persia e poi il mondo. "Sarebbe stato interessante capitare a Dion almeno per assistere ai riti religiosi. Allora bisognava andare a Dion. Ora sarebbe stato troppo tardi". Aspettava di cenare, leggeva di Dion e avvertiva la sensazione del ritardo. Sebbene non fosse stato facile organizzarlo, il sospirato incontro con Marita era avvenuto il giorno precedente, primo marzo. "Forse anche Marita è arrivata troppo tardi". Dion e Marita, entrambe capitate al momento sbagliato. L'associazione di idee, lo rimandò indietro nel tempo. Ripensò alla storia con la sua puttana. Dopo averle inviato il messaggio, nonostante avesse atteso cinque giorni, non aveva ricevuto alcuna risposta. 98 "Basta! La chiamo", aveva deciso. Aveva ragionato con il cuore o aveva semplicemente applicato la teoria dei giochi? "Sono stanca della tua gelosia retroattiva", le aveva detto Marita al telefono, "non ne posso più delle tue manie. Sei uno psicopatico, mi ripeti sempre le stesse cose da mesi". "Non è colpa mia se sei stata con altri uomini. Non avresti dovuto". "È successo, maledizione! Non posso cambiare il mio passato. Lo farei volentieri, ma non posso tornare indietro". "Avresti dovuto pensarci prima di farlo". A quel punto, Marita aveva riattaccato. Prima, però, gli aveva urlato, "Voglio chiudere con te! So di essere emotivamente legata ma non mi meriti! Non mi meriti!" Dopo aver fatto l’amore la prima volta, si erano amati altre volte. Lo avevano fatto sempre con passione, tranne l'ultima volta, quando lui l'aveva fatta sentire una donna altrove. Ripensò al giorno in cui avvertì le prime sensazioni di gelosia retroattiva, quattro mesi dopo averla amata per la prima volta. Avvenne improvvisamente, mentre stavano cenando a casa di lei. Riavvolse il nastro fino all'attimo in cui, quella sera, uscì dall'ufficio. Aveva comprato il cibo dal ristorante Hong Kong, che si trovava di fronte alla porta di entrata dell'Axa. Ricordava perfino cosa avesse comprato, nouddles saltate con i gamberetti, ravioli ripieni e insalata. "Avevo perfino chiesto una bottiglia di salsa di soja grande". L'azione era stata pressante, veloce, come se scivolasse su di una sorta di circuito preferenziale. Dopo Honk Kong, si era infilato in un taxi e si era precipitato da Marita. "Sarei dovuto tornare a casa alle dieci". Ricordava di non avere avuto molto tempo. "Dissi al tassista di fare in fretta e di evitare di prendere la Lincoln. Da quelle parti ci sarebbe stato troppo traffico. Il tassista, un portoricano arrivato a New York da oltre dieci anni, mi fece cenno che avrebbe fatto come desideravo". 99 Giunti a casa di Marita, cenarono. "Mangiai di gusto il cibo cinese che avevo comprato". Erano ancora seduti a tavola, quando James fu preso dalla curiosità. "Chiesi a Marita quante volte avesse fatto l’amore dopo avere mangiato del cibo cinese". "È capitato più volte", gli rispose Marita. "Sempre con lo stesso uomo o con uomini diversi?" "Con diversi uomini", precisò Marita. Poi si alzò verso James per dargli un bacio, e aggiunse, "Solo due uomini ho baciato dopo aver mangiato il cibo cinese. Tu sei il terzo. Quello che conta di più per me". Per la prima volta aveva provato a baciarlo. "Il bacio rappresenta un sentimento speciale che potrei concedere solo all'uomo di cui si sono davvero innamorata". James non volle, benché avesse atteso da sempre quel momento. Spostò il capo ed evitò che le sue labbra potessero incontrare le sue. "Le mie sensazioni nei suoi confronti si erano improvvisamente modificate. Ebbi la strana sensazione di essere stato tradito da lei ma non dissi nulla". Provò a fornire una spiegazione fasulla. "Dissi che aveva l’alito cattivo". Marita non capì quel comportamento e si distese sul divano. Attese che James la prendesse tra le sue braccia per condurla in camera da letto, come era solito fare. Lui, invece, rimase in silenzio. Non si sollevò dalla sedia e non prese Marita tra le braccia. "Anzi, decisi di andare via". Uscendo, esitò prima di prendere un taxi. "Avvertii una strana sensazione nell'anima". Il suo subconscio emergeva, benché lui tentasse inutilmente di 100 scacciarlo. Ebbe la sensazione del tradimento. La puttana non meritava la sua attenzione. "Marita era il tempio dorato che altri avevano profanato". Quanti altri? Non lo chiese. Come sua abitudine non porse domande. Eppure avrebbe voluto sapere quanti uomini l’avessero toccata, leccata, penetrata, prima di lui. "Una strana curiosità stava pervadendo la sua anima". Erano interrogativi che si stavano incuneandosi morbosamente nella sua mente. Avrebbe finito per corroderla. "Eppure, sembrava funzionare meravigliosamente". James aveva avuto le gambe tornite di Marita. Come nella tradizione mongola, si era scelto una donna dalla gambe solide. Bruxelles "Dai, un'altra birra, poi andiamo via". Enzo gli fece un cenno di assenso con la testa. Non avrebbe mai rifiutato una birra, benché non avesse più sete. Oltre alla passione per Klimt, Jan ed Enzo sapevano di avere in comune anche il gusto per la birra. Lo avevano scoperto il giorno stesso in cui si erano incontrati per la prima volta. Era stato Jan a smuovere le acque. Se fosse dipeso da Enzo, l'incontro sarebbe stato rinviato all'infinito. Gli aveva detto di non sentirsi pronto. "A volte sento di essere al di fuori di me stesso come se il mio corpo appartenesse a un altro", aveva confessato Enzo. "È normale, apparteniamo a corpi che non ci appartengono", gli aveva risposto Jan. Avevano continuato a discutere per tutta la notte. Botte e risposte, a volte immediate, a volte trascinate, altre volte partorite dopo profonde riflessioni. "Non parlo della mia sessualità". "Di cosa, allora?" 101 "Della mia dimensione". "A volte sento di sfuggire". "Alla tua dimensione?" "Sì. A te non capita?" "No. Sento di appartenere a un corpo non mio, ma credo di avere una dimensione ben definita". "Io no. Ci soffro per questo". "Fisicamente o psicologicamente?" "Fisicamente, anche se non so se, in realtà, sia un fatto fisico o psicologico". "Cosa vuoi dire?" "Ci soffro fisicamente. Ho male alla testa, a volte mi sembra di soffocare, come se avessi un peso sullo stomaco". "Un dolore fisico?" "Sì, fisico ma non so se sia realmente fisico. Capisci cosa voglio dire?" "Ti stai avvitando in un linguaggio che non comprendo". "Voglio dire che l'effetto è certamente fisico, ma la natura credo sia psicologica". "Hai provato con uno strizzacervelli?" "No, non mi fido". "Dovresti provare". "Tu lo hai fatto?" "Sì". "Ma sei hai appena detto di essere a posto con la tua dimensione". "Lo sono ora, ma non è stato facile per me. Ringrazio Dio di avermi fatto gay". "Ecco, l'hai detto…" "Si, l'ho detto! Solo pochi anni fa non avrei mai pensato e, 102 soprattutto, non avrei mai avuto il coraggio di scriverlo. Anzi, avevo provato a scriverlo…" "Chi avevi incontrato quella volta?" "No, non avevo incontrato nessuno. Provai a scriverlo a un politico di sinistra. Lui parlava della scelta di essere gay". "La scelta?" "La scelta di essere omosessuali. Io gli scrissi che se avessi potuto scegliere, avrei voluto essere eterosessuale. La mia vita sarebbe stata molto più facile. Non avrei dovuto nascondermi, non avrei dovuto affrontare lunghi anni di paure, insomma avrei fatto una vita da dio". "Non dire questo…mi fai stare male…", invocò Enzo. "Dai…Enzo… chi, sano di mente, sceglierebbe mai una strada molto, molto più difficile nel cammino e molto, molto più incerta nei risultati? Chi, sano di mente, farebbe questa scelta?" "Un masochista", rispose Enzo. "Lo hai detto, un masochista!" Entrambi sorrisero, benché nessuno dei due potesse vedere il sorriso dell'altro. "Jan, confessalo, chi sano di mente sceglierebbe mai una strada molto più difficile? La risposta te la suggerisco io, un pazzo! Io non ho scelto di essere gay, è stata la natura che mi ha voluto così, ha scelto la mia combinazione di cromosomi. Una scelta divina? Il caso? Non lo so. Quello che ora so è che non vorrei essere eterosessuale". "Se potessi scegliere ora?" "Rimarrei così come sono". "Capisco l'orgoglio di Pride, l'orgoglio di essere ciò che si é. Mi sono sempre chiesto, ma orgoglio di che? Se questa è la mia natura, di cosa dovrei essere orgoglioso? Non ho mai visto che uno sia orgoglioso di essere alto, biondo, bello, moro, grasso, magro…non ho mai sentito nessuno esprimere questo tipo di orgoglio. Si è nati in una certa maniera, non è il caso di farsene un vanto". "Invece, è quando capisci e accetti la tua natura e riesci a 103 viverla in piena libertà, allora sì che puoi essere orgoglioso. Cristo ci dice che la verità ci farà liberi e, vivendo nella verità, io mi sento libero perché sono libero. E lasciami dire una cosa…" "Cosa?" "Sono orgoglioso alla faccia di quanti ci vorrebbero peccatori in privato e, fino al confessionale, pretendono che ci mettessimo in pubblico una maschera per non mostrare chi noi siamo veramente". "Io posso dire solo che se non fossi stato gay, a parte la tragedia che non saremmo stati qui a parlare, non sarei stato pronto ad accettare le differenze, a valorizzarle, a condividerle". "La mia spiritualità viene esaltata dal mio essere omosessuale, perché vivere il Vangelo, un messaggio di piena accettazione dell'amore di Dio, è la consapevolezza di vivere un miracolo". "Dimentichi la condanna all'omosessualità…" "Io dico solo…per l'amore che ho conosciuto e per quello cercherò di condividere nella mia vita. Grazie Dio per avermi fatto così". Tentare di procrastinare l'incontro non avrebbe avuto più senso di fronte alle confessioni. Il problema era Enzo. Temeva di non piacere. Non era mai stato a suo agio con il suo corpo. Perlomeno in quella che era divenuta la sua esistenza potenziale. Sapeva di poter piacere alle donne ma non era certo di poter piacere agli uomini. Il volto delicato, il filo di barba, le mani curate erano state apprezzate ma la delicatezza del suo corpo non lo rassicurava. Aveva le spalle esili, le giacche gli cadevano senza fasciarlo. Per questo voleva aspettare. Jan, invece, era alto, robusto ma soprattutto era consapevole del suo essere. Era questa la differenza più marcata. Se anche Enzo fosse stato consapevole, sarebbe stato certamente più facile, perfino più logico. Il primo incontro non fu affatto facile, né logico, come Jan avrebbe immaginato. La conversazione, tanto fluida nel mondo virtuale, incespicava in quello reale e si perdeva in lunghi silenzi. "Sai, Klimt…" "Già Klimt…" "Come mai, Klimt?" 104 "Le donne, il trucco…" "Già, le donne, il trucco…" Sarebbe stato possibile immaginare una conversazione più banale di quella? Jan provò a renderla logica, coerente ma alla fine dovette rassegnarsi. "Il supermercato…sai, la spesa…alle otto chiudono", si scusò Enzo. Si erano incontrati poco dopo le sei. Quaranta minuti dopo si erano già lasciati. "Non è andata come avrei potuto immaginare", pensò Jan. La seconda volta, invece, andò meglio. Ritornarono a parlare di Klimt e lo fecero con naturalezza. "Klimt associa l'idea dell'arte e del bello a quello della decadenza, del dissolvimento del tutto e del precario sopravvivere della forma alla fine della sostanza". "Il suo pensiero va all'arte bizantina con l'utilizzo del colore oro per gli sfondi e le decorazioni delle sue tele". "Ma proprio questo utilizzo dell'oro rimanda l'opera all'astrazione, mentre la scelta di elementi figurativi la lega a una percezione naturalistica". "Nelle sue opere viene centralizzato ciò che prima era oggetto di un'attenzione laterale, la decorazione". "Ecco, bravo! La decorazione, appunto! Nei dipinti di Klimt, fisso e centrale resta il volto umano, disegnato e dipinto in modo deciso e preciso, mentre il corpo si sfalda nei contorni e si amalgama con lo sfondo". Conclusero nella maniera più spontanea possibile. "Klimt è il pittore per eccellenza dell'erotismo". Enzo si rese conto che sarebbe stato sufficiente parlare con naturalezza per sentirsi a proprio agio. "Il mio problema é…" "Ecco, bravo! Finalmente…" 105 "Finalmente?" "Finalmente, ti sento intimo, come su Facebook…" "Il mio problema é che per la prima volta incontro un uomo". "E per questo hai paura?" "Non lo so. Probabilmente non é neanche questo che mi impedisce di essere naturale" "Allora, quale?" "Forse la mia natura?" "Ma di cosa stai parlando?" "Della mia fede, Jan…della fede…" Enzo era cattolico per nascita e per estrazione. Era anche praticante. La domenica andava a messa. A volte ci andava di mattina, alle dieci, alla chiesa di San Nicola, altre volte di sera, alla chiesa della Madeleine. Jan, invece, era protestante, consapevole della sua esistenza reale e potenziale. "Sin da bambino, ho sempre preferito la compagnia maschile a quella femminile. Non che le detestassi, semplicemente non mi emozionava. Nei miei sogni c'erano solo i ragazzi come me, anzi, più grandi di me". "E le ragazze?" "Solo ragazzi. Anzi, uomini più che ragazzi". "Io ho avuto la mia prima cotta a quattordici anni. Sono stato con una ragazza e non è stato importante. Poi, a sedici anni, ho conosciuto Alessandra", confidò Enzo. "Ed è stato con lei che hai fatto l'amore?" "Come fai a saperlo?" "Me ne hai già parlato". "Dopo tre mesi, facemmo l'amore. È stato il mio primo e unico rapporto eterosessuale". "Ti disgustò?" "Non mi fece schifo ma non mi entusiasmò". 106 "Dopo cosa hai fatto?" "Lasciai perdere Alessandra e lasciai perdere anche la scuola, benché continuassi a studiare. Sentivo di non essere a mio agio. Mi tuffai nello studio e per tre anni, non feci altro che studiare. Mi resi conto di non essere più adatto per il piccolo mondo che il mio piccolo borgo lucano poteva rappresentare". "La fine di un'epoca!" "Diciamo che non pensai più ad Alessandra e non pensai neanche alle donne. Non pensai e basta!" " E quando hai ripreso a pensare?" "Forse a Bruxelles". "Che strano!" "Sono qui per caso. Odio il freddo e odio il cielo grigio. Mi sento mediterraneo, fin dentro il midollo. Eppure, è proprio qui che ho ripreso a pensare". Jan gli era subito apparso come l'unica nota di colore ma fino alle sette e dieci di quella sera del 3 marzo non era stato convinto di volere colorare la sua vita. Fino ad allora, aveva trovato logico solo il cielo di Bruxelles per quanto odiasse il grigio. "Non posso continuare solo ad odiare. Per questo ho deciso di incontrarti. Non mi sentivo pronto ma allo stesso tempo sentivo di non poter continuare solo ad odiare". La sera del 3 marzo al Wild Geese di fronte all'ennesima birra, Enzo si sentì finalmente a suo agio. Avvertì una strana sensazione di coerenza. Bevve la birra e sorrise a Jan. Ginevra "Ho provato a telefonare a Madan ma non sono riuscito a mettermi in contatto con lui". Il numero di telefono, che Madan gli aveva scritto su uno straccio di carta, quando si erano incontrati a Mumbai, era fuori servizio. 107 "Ho provato e riprovato ma non ha mai risposto nessuno". Mentre si trovava a casa, seduto al tavolo della sua piccola cucina, pensò di nuovo all’India e a quell’esperienza tanto particolare. Lo fece per alcuni minuti. Ricordò il giorno in cui avevano iniziato a discutere con Madan di scimitarre e avevano finito con il riflettere sul processo di globalizzazione. Alle cinque di pomeriggio di quel 2 marzo, aveva appreso che la carne americana, trattata con ormoni artificiali, era pericolosa per la salute dei cittadini e l’Europa aveva deciso di non importarla. La precauzione era costata molto cara. Trecento miliardi di sanzioni americane contro l'Europa, che l'Organizzazione Mondiale per il Commercio aveva deciso come ritorsione, nel nome delle regole della globalizzazione. "L'OMC é il grande motore della globalizzazione e, allo stesso tempo, é estremamente impopolare". Antoine non aveva impiegato molto tempo per rendersene conto. A Ginevra gli dicevano di farsene una ragione. Si trattava del destino comune a molte altre organizzazioni internazionali. "Le istituzioni europee sono impopolari, il fondo monetario é impopolare e anche la Banca Mondiale è impopolare. La gente si sente lontano dai grandi palazzi di Ginevra e Bruxelles. Le persone comuni non capiscono chi sia e cosa realmente faccia l'esercito di funzionari, vestiti di grigio, che animano i grandi palazzi". I pensieri di Antoine si contorcevano in maniera bizzarra. Si andava dalla globalizzazione a Madan, passando dalla Svizzera all’India. "Come posso rintracciare Madan?" L'omino indiano, che trattava di scimitarre e di fiori, gli era rimasto nel cuore. Durante il suo soggiorno a Mumbai, si erano incontrati tutti i giorni, verso le cinque del pomeriggio per bere il thè e per parlare. "Ci ritroveremo in Francia", si erano ripromessi ma, fino ad allora, non era mai capitato. Se non dovesse rispondere neanche questa volta, sarà impossibile rintracciarlo, pensò Antoine alle otto di quella sera. 108 Dopo cinque minuti esatti, si rese conto che esisteva un'altra possibilità. "E se gli scrivessi una lettera?" Non scriveva una lettera da tempo immemorabile e, a pensarci bene, forse, una lettera vera non l'aveva mai scritta. Andò a cercare l'indirizzo di Madan, segnato su un biglietto da visita, che aveva riposto in un anfratto della sua scrivania. Ritornò in cucina e, tra un pezzo di tonno e un pomodoro aperto in due, iniziò a scrivergli. Impiegò due giorni per terminare la lettera. Ebbe difficoltà a trovare le parole giuste. Quindi, gli scrisse le parole più banali che avrebbe potuto immaginare. "Vorrei tornare in India per rivedere le tue scimitarre". Inizialmente pensò che lui utilizzasse le scimitarre come pretesto per attrarre potenziali clienti. "Io stesso sono entrato nel tuo negozio per via delle scimitarre", gli confessò Antoine. Pomeriggio dopo pomeriggio, sorseggiando il thè e discutendo di globalizzazione aveva preso coscienza del rapporto esistente tra Madan e le sue scimitarre. Le curava con scrupolo e, con meticolosità certosina, le spolverava e le lucidava. "In India, il significato della scimitarra é molto più profondo rispetto a quello che puoi immaginare. Non é solo un'arma, ma un segno del destino. Ha un potere liberatorio, che nessun'altra arma, da nessun'altra parte del mondo, potrebbe mai avere", gli aveva detto Madan Antoine lo aveva ascoltato, felice di poter discorrere di un’arma, divenuta ormai ornamentale, capace di suscitare fantasie da Mille e una Notte. "Ē stata usata dai persiani, poi da musulmani, quando nel XV secolo attaccarono Otranto ma, in realtà, la scimitarra è stata un'arma tipica dell'Impero ottomano. Grazie ad essa sono state condotte e vinte molte battaglie". Nei primi confronti con le armi da fuoco, nel XVI secolo, la scimitarra perse il suo predominio e iniziò un lungo declino. L'artiglieria pesante le diede il colpo di grazia. 109 "Le tengo in negozio proprio per le fantasie che possono suscitare", spiegò Madan. "Aiutano a liberare la mente". "Infatti! Solo una mente libera può essere capace di condurre alla conoscenza di sé, a una ricerca del sacro, presente in ogni individualità". "Probabilmente anche tu ne sei stato attratto per la voglia di liberare la mente, benché ancora non fossi a conoscenza del loro potere liberatorio". "Da alcuni anni ero alla ricerca del sacro e non pensavo di trovarlo nelle scimitarre". La lettera di Antoine non venne mai letta. Non venne neanche mai ritirata. Smise di pensare a Madan. Incrociò nel corridoio Ana. Le sorrise. Lei lo guardo con intensità. Non si dissero nulla. New York Chissà per quale strano motivo, ma lo stesso giorno in cui Antoine decideva di scrivere a Madan, intorno alle due del pomeriggio, a James venne in mente di scrivere a Marita. Non si vedevano da tanto e James aveva anche perso l'abitudine di pensare alla sua puttana. Lo aveva fatto quasi regolarmente per oltre sei mesi. Poi, sempre più di rado. L'ultima volta che si erano incontrati, avevano parlato a lungo senza riuscire a spiegarsi. "Non ho mai avuto la sensazione di aver avuto la tua comprensione", gli disse Marita. Avevano parlato del lungo silenzio che era intercorso tra i due e delle ragioni che avevano spinto Marita a non rispondere ai suoi messaggi. "Non so se lo fai per ignoranza o ne sei cosciente, ma il mio problema con te è nel tuo distacco". 110 Marita non riusciva a sentirsi amata e, purtroppo per James, da lui, non pretendeva che l'amore. "So che appartieni a un’altra donna ma io non desidero l’appartenenza. Mi basta che tu mi dica che mi ami", gli chiese. James, invece, scelse di non pronunciare le parole che Marita avrebbe voluto ascoltare. Anzi, non solo non le pronunciò ma gli disse anche di dimenticare la possibilità di poterle ascoltare dalla sua bocca. "Non te lo dirò mai!" Aveva deciso che sarebbe rimasto con lei senza dirle di amarla. "Io voglio essere amata e, soprattutto, voglio che tu capisca quanto sia importante per me ascoltarlo dalla tua bocca". D'altra parte, aveva la sensazione che James, in fondo, l'amasse, benché non riuscisse a riconoscerlo apertamente "Non mi basta e non mi importa che sia realtà o illusione". "E se dovesse essere solo un'illusione?" "Per me è importante che tu non rompa la mia illusione, se di illusione dovesse trattarsi". "E se io decidessi di rompere la tua illusione? Quale sarebbe il senso della tua relazione con me?" "Sarebbe difficile dargli un senso". Per questo, alla fine, aveva deciso di non rispondere alle sue sollecitazioni. "Ho diritto all’amore e tu non avresti potuto negarmelo". "Come puoi identificare il diritto all'amore con il diritto all'illusione?" "Ho pienamente diritto almeno all'illusione dell'amore". Decise che nel momento in cui James glielo avesse tolto, lei avrebbe tolto a James la sua presenza. "Altrimenti, io ti negherò il mio amore", precisò. Il giorno precedente la rottura avevano provato a chiarirsi. "Te lo chiedo per l’ultima volta, pronuncia quelle maledette 111 parole", gli aveva richiesto Marita. "Non posso, non me la sento", le aveva risposto James. "Almeno regalami un’illusione", lo aveva implorato Marita. "Non credo di farcela". "Io le pronuncio e tu non neghi. Ti prego, regalami un’illusione". "Non riesco a non negare". "Non ti sto chiedendo troppo" . James non rispose. Non sentiva alcuna emozione. Lui aveva bisogno di Marita ma alle sue condizioni. Lei, invece, chiarì che non avrebbe accettato le sue condizioni. Si lasciarono, pertanto, senza chiarire il senso della loro relazione. Il giorno successivo alla rottura, James partì per l'Europa. Aveva in programma un incontro con Jeoren Van Boxem, direttore generale del dipartimento industria della Commissione europea, per discutere la riforma della legislazione farmaceutica. "Ci concentreremo sul problema dei brevetti. Chiederemo all’Europa di estendere il periodo di tutela". Con l’estensione, i profitti sarebbero potuti aumentare del quattro per cento e consentire ad Axa di restare tra le prime sei aziende mondiali, capaci di detenere il settanta per cento del mercato. Prima di partire, aveva comunicato la sua decisione al consiglio di amministrazione, "Fai in modo che la tua strategia funzioni. Perché non avrai un’altra possibilità", era stata la risposta. In realtà, gli avevano espresso fiducia. Nella sostanza, gli avevano lasciato intendere che non avrebbe potuto giocare una carta di riserva, se l’obiettivo non fosse stato raggiunto. "Utilizza tutti gli strumenti che ritieni opportuno", era stata la raccomandazione. L’appuntamento con Jeroen Van Boxen sarebbe avvenuto al terzo piano del palazzo della direzione generale industria, in Rue de la loi. 112 "Chiamo Marita", pensò prima di imbarcarsi, ma non lo fece. Ritenne che ci sarebbe stato il tempo di chiarirsi al suo ritorno. Bruxelles L'aereo proveniente da New York, come previsto, atterrò a Bruxelles alle sei e venticinque del mattino. James, dopo aver recuperato il bagaglio, afferrò un taxi e si fece condurre in albergo. "Hotel Europa", chiese al tassista. "Hotel Europa? Dovrebbe essere in Boulevard Charlemagne". James diede una sbirciata alla prenotazione, che aveva tra le mani. "Si, Boulevard Charlemagne", confermò. "Evito di prendere l'autostrada. C'è molto traffico a quest'ora della mattina. Sa, i pendolari…" "Ok", rispose James. Non conosceva Bruxelles e qualsiasi strada il tassista avesse deciso di prendere, sarebbe andata bene. L'importante era arrivare prima delle nove e mezzo, quando si sarebbe dovuto trovare nell'ufficio di Jeroen Van Boxem. La strada, che porta da Zaventem all'aeroporto, dopo un breve tratto di incroci autostradali, si delinea in un lungo viale alberato. Hotel e uffici di compagnie straniere le fanno da contorno. James ebbe modo di poterle osservare. A un tratto, sulla sua sinistra vide spuntare una miriade di bandiere. "Siamo arrivati?" domandò al tassista. "Non ancora", gli rispose l'uomo, un moro con tratti somatici molto lontani da quelli fiamminghi. "Pensavo che le bandiere…", commentò James. "Ah…quelle…", fece chiarezza il tassista, indicandole, "siamo di fronte la NATO". 113 Se l'autostrada, come aveva detto il tassista, non fosse consigliabile a quell'ora della mattina, altrettanto sconsigliabile sarebbe stato prendere Place Meiser. Un fiume di auto provenienti da una serie impressionante di direzioni diverse, attraversava l'incrocio delle piazza. Non sarebbe stato facile venire fuori da quella confusione in meno di venti minuti. "Non c'è un'altra possibilità?" si informò allora James. "Mi creda, è la migliore che abbiamo", lo rassicurò il tassista. "Farò tardi…", commentò James. "Si tratta solo di passare questo maledetto incrocio. Poi non avremo problemi. Mi creda, se l'avessi condotta attraverso l'autostrada, saremmo ancora bloccati a Zaventem". James preferì non replicare. Continuò a guardare fuori dal finestrino dell'auto, che, intanto, lentamente, guadagnava posizioni su posizioni e si avvicinava a varcare il semaforo, per dirigersi verso Chaussée de Louvain. "È sempre così?" chiese James. "La mattina e la sera, dalle cinque alle sette. Dove vive lei, non è così?" "Come dice?" "Volevo sapere se anche dove vive lei c'è questo casino". "Oh, anche peggio!" "Meno male. Almeno sarà abituato", rispose il tassista. Bruxelles si manifestava a James come l'aveva immaginata, secondo il suo più classico stereotipo, grigia e simmetricamente disordinata. Giunto in albergo, non poté rinfrescarsi in camera, perché il check in era previsto dopo mezzogiorno. Dovette rimediare nel bagno, al piano terra, esattamente a dieci metri sulla sinistra della reception. L'appuntamento con Jeroen Van Boxem era stato fissato alle nove e mezzo. Aveva ancora poco meno di mezz’ora da spendere. James prese i documenti dalla valigia e, sebbene li avesse già letti in aereo e ne conoscesse i dettagli, diede un ultimo sguardo. 114 Domandò al portiere dell’Europa Hotel di indicargli il dipartimento industria della Commissione europea. "Dipartimento industria?" ripeté stupito il portiere. "Sì dipartimento industria", confermò James. "Un attimo, mi faccia pensare". "Non lo conosce?" chiese James, stupito, a sua volta. "Mercato comune…suppongo…", disse il portiere. "Commissione europea", provò a chiarire James. "Sì, mercato comune…noi lo conosciamo come mercato comune. Un tempo si chiamava così", spiegò il portiere, "vada a Schuman. Esca dall'albergo, giri l'angolo e prosegua fino alla rotonda". James si incamminò verso Schuman, seguendo le indicazioni che il portiere gli aveva consigliato. Dopo un centinaio di metri, si trovò di fronte un palazzo in vetro e cemento, simile ai molti altri che gli erano a fianco. Il numero, impresso in metallo, a fianco della porta d’ingresso, corrispondeva a quello che aveva notato nella sua agenda elettronica. "È il dipartimento industria". Nonostante le indicazioni del portiere fossero state vaghe, aveva fatto centro al primo colpo. Tra i tanti palazzi di vetro e cemento, si era trovato proprio di fronte all’indirizzo, che aveva annotato. Dopo aver superato la porta girevole, si trovò nella hall, di fianco a un gruppo di giapponesi, che si differenziavano l’uno dall’altro per il solo colore della cravatta. Il taglio dei capelli e l’abito scuro, identici per tutti, sembravano renderli adepti di un’unica confraternita. Attese il suo turno, quindi si presentò alla reception. "Avrei appuntamento con il direttore Jeroen Van Boxem", esordì James. L’usciere prese nota, gli disse di compilare il modulo d’entrata. "Un documento, per favore", aggiunse. James lo cercò nella tasca interna della giacca e lo porse all’usciere. 115 Dopo aver verificato le generalità, annunciò James alla segreteria del direttore Van Boxem. Poi, gli indicò il cammino da seguire. "Prenda l’ascensore, qui sulla destra e vada al terzo piano. L’ufficio del direttore si trova al numero centoventi. L’assistente verrà ad accoglierla all’uscita dell’ascensore". L’usciere, belga, gli consegnò il badge da visitatore, che James incollò sul bavero della giacca. Indossava un abito grigio scuro con camicia azzurra e cravatta rossa a pois blu. Il badge bianco con iscrizioni blu faceva pendant con il blu dei pois della cravatta. James guardò soddisfatto la combinazione. In quell'attimo pensò a Marita. "Cosa avrebbe pensato di questo curioso abbinamento?" Attraversò con calma il lungo corridoio che gli era stato indicato dall'usciere belga di origini italiane e si recò nei pressi dell'ascensore. Salì al terzo piano. Ad attenderlo c’era una giovane danese, dai capelli lunghi biondi e dalle gambe tornite. Per la seconda volta, nel giro di pochi minuti James pensò nuovamente a Marita. "Bonjour", gli disse la bionda con le gambe tornite, "il direttore la sta aspettando. Spero abbia fatto un buon viaggio". "Sì, un ottimo viaggio", rispose James. Si incamminarono lungo il corridoio che dagli ascensori conduceva fino all’ufficio. "Dobbiamo percorrerlo tutto, fino in fondo", precisò la bionda. James sorrise. Seguiva la bionda e poteva osservarla. Oltre alle gambe tornite, anche l’ondeggiare del culo gli ricordava Marita. Lo aveva notato la prima volta che l’aveva vista al ristorante. "Prego, si accomodi", gli disse la bionda, giunti alla fine del corridoio. James smise di pensare a Marita e si immerse nella realtà. Jeroen Van Boxem lo accolse sulla porta, in compagnia di Enzo Faramelli, responsabile del dossier. Nel caso si fosse entrati in dettagli tecnici, Enzo sarebbe intervenuto come supporto. Anche la settimana precedente, Enzo lo aveva affiancato in uno dei tanti incontri con i rappresentati dell’industria. 116 Bruxelles era diventata un magnete, che attirava i gruppi di pressione industriali, le imprese di relazioni pubbliche e numerosi studi legali. Centinaia di laboratori di idee, finanziati dall'industria, capaci di far sentire la loro voce all’interno delle istituzioni, dove si produce oltre la metà di tutta la legislazione europea. Anche la Axa Pharmaceuticals aveva stabilito una propria sede operativa a Bruxelles, esattamente a Zaventem, non lontano dall'aeroporto. I procedimenti complessi, la mancanza di un vero dibattito pubblico europeo e la relativa debolezza dei gruppi sociali, avevano creato le condizioni ideali del successo della lobby industriale. L’incontro tra Axa e la Commissione europea si svolgeva in questo ambito, secondo regole non scritte ma chiare a tutti i partecipanti. Quando James entrò nell'ufficio, il direttore generale Van Boxem lo salutò con una calorosa stretta di mano. Si sedettero intorno al grande tavolo ricoperto di documenti, occupandone solo una parte. Bevvero un caffè e iniziarono a discutere. ANNO 2006 – IL VUOTO 117 31 gennaio 2006 Bruxelles Tarik era uscito di casa. Erano più o meno le nove e mezza dell’ultimo giorno di gennaio. "Dovevo urgentemente finire un lavoro per il giorno successivo", dichiarò all’ispettore capo di Schaerbeek. "Lavora sempre di domenica?" "No, ma come le dicevo dovevo finire un lavoro urgente". Tarik aveva lasciato la sua abitazione, i figli ancora nel letto e si era incamminato verso il suo negozio di calzolaio. Era una bella giornata d’inverno. C'erano il sole e l’aria fresca. Per le strade poca gente. "Poi cosa è successo?" gli chiese l’ispettore capo. "Ho fatto pochi passi e ho raggiunto l'angolo tra Rue du Noyer e Rue Gerard. C’era una barriera di metallo, come quelle che si usano nei cantieri". "Si trattava di un cantiere, probabilmente", disse l’ispettore capo, esitando, affinché Tarik potesse confermare. "Beh, certo, di un cantiere. C’era una barriera che impediva il passaggio ai pedoni. Si doveva per forza cambiare strada". "E lei cambiò strada?" "Stavo per farlo". "Ma non lo fece". "No". "Perché?" "Venni attratto da uno strano oggetto sull’asfalto. No, non direi neanche che si trattasse di un oggetto". "No? Di cosa, allora?" "Ripensandoci ora, direi piuttosto qualcosa simile a un pacco". 118 "Un pacco? In mezzo alla strada?" "Beh, sì…come dire…un grosso pacco, ricoperto da un’incerata". "Quindi, la sua attenzione venne attratta da un grosso pacco, sistemato sull’asfalto, ricoperto da un’incerata". "Mi avvicinai con cautela, preso dalla curiosità. Percorsi ancora dieci metri per osservare più da vicino". "E cosa vide?" Tarik aggrottò la fronte e spinse gli occhi in avanti. "A guardarla bene, non si trattava di un’incerata ma di un impermeabile", "Dunque, non un’incerata ma un impermeabile". "Si trattava di un semplice impermeabile, che ricopriva un corpo". "Si avvicinò per rendersene conto?" "Certo!" "E cosa fece? "Merda, esclamai e poi mi ritrassi istintivamente". Tarik alle nove e mezzo dell’ultimo giorno di gennaio, si trovò di fronte il corpo di un uomo, riverso per terra. "Lo stesso istinto, che mi aveva spinto a ritrarmi, mi spinse, dopo pochi istanti, ad avanzare lentamente in direzione del corpo, disteso. Lo guardai nuovamente". "L’impermeabile le ricordava qualcuno che conosceva?" "No, per fortuna no!" "Ne fu immediatamente certo?" "Beh, no! Non immediatamente. Come le dicevo, ho dovuto avvicinarmi per rendermene conto". Tarik poté tirare un sospiro di sollievo. "Mi guardai intorno e vidi, dall’altra parte della strada, la panetteria aperta. Attraversai velocemente ed entrai. Non c’era ancora 119 nessun cliente e il vecchio, dall’altra parte del bancone, sistemava le baguette nel cesto". "Ha avvertito qualcuno?" Tarik raccontò il dialogo avvenuto all’interno della panetteria. "Un morto, esclamai. Il vecchio si girò verso di me, Calmati, mi rassicurò, vedendomi ansimare. Un morto, ripetei io. Un morto? Chiese lui, perplesso. Sì, dietro lì, dissi io. Stavo per indicargli la barriera di metallo del cantiere ma il vecchio lasciò le baguette, che aveva in mano, e uscì per strada. Dove? Mi chiese. Io non dissi nulla. Feci segno con la mano di avanzare verso la barriera. Allora il vecchio attraversò la strada e si diresse verso il cantiere. Scorse l’incerata. Gli feci ancora segno di avanzare, fino al punto in cui io avevo potuto osservare il corpo dell’uomo". L’ispettore capo fece chiamare il vecchio panettiere. Aveva uno strano cappello, che continuò ad avere ben saldo sulla testa, anche durante la testimonianza. "Il morto…eccolo, mi disse Tarik. Lo conosci? domandai. Non credo. Non riconosco il suo impermeabile, rispose Tarik". "E lei lo conosce?" gli chiese, a sua volta, l’ispettore capo. "Spero di non conoscerlo", gli rispose. "Se spera, significa che forse lo riconosce". "Si tratta di un tedesco. Veniva a comprare la baguette, la domenica mattina, molto presto. Indossava spesso un impermeabile come quello del morto". "Perché allora ha detto di non conoscerlo?" "Perché, in realtà, non lo conoscevo. Voglio dire…si trattava solo di un cliente, non di un amico". "Cosa avete fatto dopo il ritrovamento del cadavere?" "Siamo tornati indietro verso la panetteria. Abbiamo telefonato alla polizia. Fu Tarik a farlo, dal mio telefono. Dopo pochi minuti giunsero due auto. Quattro agenti vennero verso di noi. Io e Tarik li stavano attendendo sull’uscio. Tarik ha ripetuto la stessa scena. Ha attraversato la strada e, poi, ha indicato agli agenti di avanzare. Giunti nei pressi della barriera del cantiere, hanno potuto vedere loro 120 stessi il corpo". L’ispettore capo disse a Tarik e al vecchio panettiere di tenersi a disposizione. Sia l’uno che l’altro, dopo avere lasciato il posto di polizia andarono a lavorare. Il vecchio tornò dietro il banco a vendere le baguette. Tarik terminò le scarpe, che avrebbe dovuto consegnare il giorno seguente. Il corpo venne prelevato dopo che gli agenti ebbero concluso i rilievi e il medico legale constatato l’avvenuto decesso. Rimasero le barriere del cantiere e i lavori da terminare. Bruxelles stava provando a disegnarsi un look da capitale per far rifiorire i palazzi di art nouveau. All’una di quello stesso giorno, Enzo fece una telefonata. "Jan è morto!" Esclamò con la voce rotta dall'emozione. Dall'altro capo del telefono, solo silenzio. Dopo qualche attimo, poté percepire un lungo respiro. "Raggiungerò Bruxelles con il primo aereo disponibile", rispose il padre di Jan. Enzo e il padre di Jan non si erano mai piaciuti. In realtà, non si erano mai visti. Il padre di Jan sapeva dell'esistenza di Enzo e viceversa, ma non si erano mai neanche parlati. Il loro mancato incontro non era stato un fatto casuale. Al contrario! "Non accetterò mai quella specie di amico che hai trovato a Bruxelles", il padre gli aveva detto. Jan, inizialmente, aveva provato a spiegare ma era stato inutile. "Non insistere. Sprechi solo fiato con me". Per suo padre, sarebbe rimasto, per sempre, un mistero, come un mistero era, ora, la sua morte. Ginevra "Madan è morto!" 121 "L'uomo delle scimitarre?" chiese Ana. "Sì, il mio amico. È morto!" ribadì Antoine. "Gli avevi scritto?" "Non mi hai mai risposto". "Era già morto?" "Era già morto". "Come lo hai saputo?" "Sono andato in India lo scorso novembre. Non c'erano più scimitarre ma strumenti musicali". "Strumenti musicali?" "Sì, il suo negozio non c'era più. Al suo posto un altro negozio, pieno di violini, chitarre, tamburi e sitar". "E le scimitarre?" "Morte insieme a lui". "Come lo hai saputo?" "Me lo ha detto l'uomo del negozio che ho trovato al suo posto". "E di lui nessuna traccia?" "Nessuna!" "Non ha aggiunto altro?" "Solo che i tabla set con due tamburi, sonagli e un martelletto per accordare le pelli erano tra le cose più vendute. Mi ha chiesto se volessi comprarli." "Li hai comprati?" "Ho pensato a Madan". "E non li hai comprati?" "Sono riuscito a pensare solo a Madan". Antoine smise di dialogare con Ana. "Non ho più voglia di parlare", aggiunse. 122 Era sceso dal lato giusto del letto ma il ricordo della brutta fine di Madam gli aveva fatto perdere il buon umore. "Ti prego, Antoine, non rovinare il nostro anniversario", si raccomandò Ana. La sera precedente era giunto a Ginevra. "Ti ho rivisto dopo un anno". "Ana, non ho nessuna voglia di rovinare il nostro anniversario". Si erano incontrati esattamente un anno prima, al terzo piano della sede dell'organizzazione mondiale per il commercio. "Avevo appena iniziato lo stage, mentre tu eri a Ginevra già da alcuni anni". "Da allora abbiamo lavorato fianco a fianco per cinque mesi". "Sarebbe più corretto dire che io ho lavorato per te. Io ero un giovane stagiaire, mentre tu, da sedici anni, facevi il funzionario". "Quindici". "OK, quindici". "I primi giorni ci siamo completamente ignorati". "Non avevamo avuto tempo per parlare". "Mi hai salutato solo formalmente". ‘Welcome’ gli aveva detto Ana. ‘Merci’, aveva semplicemente risposto Antoine, d'istinto, per poi correggersi immediatamente, con un più internazionale ‘Thank you’. Parla pure in francese, gli aveva sorriso Ana, siamo a Ginevra, lei è francese e io sono spagnola. Siamo latini entrambi. Il francese andrà benissimo. "Non mi restò altro da fare che sorridere. Mi ero preparato a lungo per parlare in inglese ma mi sfuggì quel merci, forse per istinto, forse a causa della stanchezza". "Certo, la stanchezza", confermò Ana. "Mi ero svegliato molto presto quella mattina e se non fosse 123 stato per monsieur Herbert, che mi fece attendere a lungo prima di salutarlo, mi sarei volentieri infilato sotto le coperte". "Che sensazione avvertivi mentre mi salutavi?" "Non provai nessuna emozione particolare. Perché vuoi saperlo? "Ti trovavi di fronte una donna di venti anni più vecchia". "In quel momento non ci pensai". "Poi ci hai pensato?" replicò Ana, sorridendo. "Non più di tanto", concluse Antoine. Ana aveva superato da qualche anno i quaranta. Nata a Valencia, aveva sempre vissuto tra il mare e Plaza de la Reyna. Amava perdersi lungo l'immensa spiaggia per ritrovarsi nei vicoli, vicino la Catedral del Santo Cáliz. In uno di quei vicoli conobbe Javier, l’uomo che decise di sposarla. "Me lo chiese subito, senza darmi neanche il tempo di ponderare la sua richiesta". "Perché me lo dici ora?" domandò Antoine. "Non c’è una ragione particolare. Mi ci hai fatto riflettere, parlando dei miei anni. Con lui ho vissuto la situazione opposta. Era lui ad avere venti anni più di me". "Forse è per questo che avresti dovuto pensarci". "Non mi diede il tempo di capire se potesse essere davvero il tipo di uomo che desideravo". "Come si fa a dire chi sia l’uomo o la donna giusta? Devi provare per avere la risposta". "Può darsi che tu abbia ragione ma se avessi avuto il tempo di riflettere…" "Riflettere?" "Il sesso, per esempio. Conta molto in una coppia, sai?" "E con Javier non andava bene?" 124 "Quando Javier mi prendeva con dolcezza, mi faceva arrabbiare. A volte, mi risultava addirittura disgustoso. Potevo accettare quella dolcezza da mia madre, da mio padre, perfino da mio fratello ma non da mio marito". "Non me lo avevi detto…" "La dolcezza dell’uomo mi spaventa e ancor più mi impaurisce la dolcezza del mio uomo. Non mi sembra amore ma solo bisogno. È insopportabile!" Ana si distese sulle gambe di Antoine. Allungò le mani verso l’alto per cercare i suoi capelli. "Non ho nessuna coscienza di come io abbia maturato un senso di profonda ripugnanza verso la dolcezza. Ricordo con certezza che, da bambina, aveva imparato a non fidarmi delle persone che esprimono tenerezza". "Non capisco cosa possa impaurirti della dolcezza". "Le persone dolci finiscono sempre per abbandonarmi. Mi lasciano sola e mi fanno paura." "Impara a controllare la tua paura. Finirai per determinare anche la tua vita". "Io ho solo un bisogno. Vuoi sapere quale?" "Posso immaginarlo". "Non credo". "Hai bisogno di un uomo che prenda il controllo su di te. In fondo, la dolcezza ti spaventa perché temi che l’uomo dolce non sia capace di prendere il controllo su di te". "No, non è quello che pensi". "Cosa, allora?" "Io ho bisogno di libertà e di cercare un posto dove trovare un equilibrio. Valencia non é mai stata il posto ideale. La spiaggia mi allontana da me stessa, mentre i vicoli mi aiutano a ritrovarmi". "Equilibrio, vicoli? E io che pensavo fosse solo un banale bisogno di protezione". 125 "Oddio! Non pensavo di essere tanto banale". "E che non potevo immaginare…" "Ti prego, Antoine! Potrei offendermi", lo interruppe Ana, maliziosamente. "E che non potevo immaginare quanto fossi complessa". "Dici complessa?" "Complessa, complessa", precisò Antoine, "complessa e non complicata". Ana sorrise. Poi aggiunse: "Quando mi trovo nei vicoli ho la sensazione di scivolare via, come attraverso la fessura di una porta". "Ho il sospetto che Javier non abbia mai afferrato il tuo bisogno di fuga". "Non ha mai colto il bisogno che hanno le donne di sentirsi evanescenti". "Evanescenti?" "Significa esserci, ma, nello stesso, non esserci". "Fuga?" "Chiamala come vuoi". "È questo che ti ha spinto ad abbandonare Valencia?" "Questo è quello che mi ha spinto ad abbandonare Javier, lasciandolo emotivamente, prima ancora che fisicamente". "E di conseguenza Valencia" "Certo! Di conseguenza Valencia", confermò Ana. "Io credo che lasciare il posto in cui si è nati nasca dalla voglia di fuggire dalle emozioni. Non so come dire, ma sai quell’amarezza che ti lascia il cambiamento?" "Non credo". "Voglio dire. Il cambiamento inevitabilmente si porta via le cose, le persone, gli affetti e non sempre siamo pronti ad affrontare il vuoto che comporta. Ecco, in quel caso è meglio lasciare i luoghi in cui 126 si è vissuto con quelle cose e con quelle persone. Si fugge per non fare i conti con i propri sentimenti". "Io sarei anche stata disposta a fare i conti con il vuoto. Ma credimi…proprio non potevo". "Se avessi avuto la forza di fare i conti con te stessa, non avresti avvertito il vuoto intorno a te". "Io ho avvertito la voglia di scivolare via, attraverso la fessura di una porta anche qui a Ginevra, come mi era capitato a Valencia. Quindi, se davvero fosse stata fuga, come tu pensi, non avrei dovuto avvertire le stesse sensazioni ma lasciarmele alle spalle". "Invece, non sempre la fuga ti rende immune. Le sensazioni continuano a inseguirti e non basta abbandonare un luogo per lasciarsi indietro i sentimenti". "Se vuoi che ti dica la verità…" "Ecco, finalmente, la verità…" "Beh, se vuoi che ti dica la verità, io sarei voluta scivolare via da una fessura anche quando per la prima volta l’ho tradito". "E’ successo a Valencia, tanto tempo fa". "No, non è mai successo a Valencia". "Dove, allora?" "A Ginevra". "Qui?" "E’ successo a Ginevra, qualche mese dopo il mio arrivo. Pensavo di averlo fatto per rabbia. In realtà l’ho tradito perché lo volevo. Devo dirti che lo desideravo con tutto il mio cuore e non sapevo di desiderarlo tanto fin quando non l’ho fatto". A Ginevra, Ana aveva incontrato Karl. "Con lui non fu amore, ma neanche non-amore". Karl l'aveva presa in una vecchia Audi Tre, rossa come il sole di Valencia, una sera d’agosto, non lontano dal lago. Lei indossava una gonna nera, corta, con dei piccoli bottoni sulla parte anteriore. Un top che le arrivava fino all’ombelico e le lasciava scoperta una piccola parte 127 del ventre. Indossava anche delle scarpe con tacchi molto alti. Ana era più alta di Karl. Grazie a quei tacchi, ovviamente, che le davano un senso di superiorità. "In fondo ero superiore a lui. Io avevo studiato, mentre lui era solo un operaio. Lavorava in una piccola azienda di laminati, come ce ne sono tante in Svizzera. Conosceva poche cose. Non aveva maniere. Eppure Karl si sentiva più importante di me. Io ero solo una povera ragazza spagnola, giunta nella ricca Svizzera". "Ma come hai fatto a fare l’amore con un ignorante del genere?" "Per lui ero una povera ragazza spagnola che fuggiva dalla miseria e dalla dittatura franchista." "Poco importava che Franco fosse morto già da qualche anno e che la Spagna fosse brillantemente avviata sulla strada della crescita economica e democratica". "Per Karl, la Svizzera restava la Svizzera e il resto dell'Europa contava per quello che era il valore che lui gli attribuiva. Poco o niente". "E tu eri parte di quel poco". "Ė vero, non conoscevo Louis Vuitton, non avevo mai comprato le scarpe di Salvatore Ferragamo, ma stavo bene. Avevo tutto quello che una donna poteva normalmente desiderare. Eppure Karl riusciva a umiliarmi ugualmente. A volte si vergognava di me e di come fossi vestita. Non gli piacevano quei vestiti a fiori che in Spagna andavano tanto di moda". Semplicemente Ana non gli sembrava abbastanza glamour. "Eppure Karl non era riuscito neanche a farmi godere. Mi era saltato addosso in quella macchina vecchia. Mi aveva spogliata con impeto, promettendomi molto, ma non dandomi niente. Non aveva né le doti fisiche, né le capacità per provocarmi un orgasmo. Né allora, né dopo". "Quante volte ha provato a farti godere?" "Lo abbiamo fatto tante altre volte ma Karl fu sempre deludente". "Che disastro!" commentò con asprezza Antoine. 128 "Però non fu non-amore. Mi umiliava, ma mi voleva bene. E io ne volevo a lui. Ho tradito Javier per tre anni per fare l’amore con lui". Allo scadere del terzo anno, Ana pose fine al suo matrimonio. "Ormai era pura finzione e non aveva più senso continuare". Javier accolse la richiesta di Ana quasi con indifferenza. "Mi disse solo che avrebbe voluto continuare a vivere nella nostra casa di Valencia". "E tu eri d’accordo?" "Io non mi opposi". Il pensiero di Madan abbandonò lentamente la mente di Antoine nell’istante in cui Ana gli disse di avere fame. "Ho lavorato tutto il giorno. Ho trangugiato velocemente solo un panino con mozzarella, pomodoro e uova soda, poco dopo mezzogiorno", esclamò Antoine. "Anch’io ho fame". "Andiamo da Red Ox Steakhouse?" "Come ai vecchi tempi". "Abbiamo bisogno di ricordare i vecchi tempi?" "No, non credo". "Perché allora parli di vecchi tempi?" "Per nessuna ragione particolare. L’ho detto tanto per dire". Antoine aveva fame e l’invito di Ana gli aveva fatto ritornare il sorriso. Quella discussione, per certi versi assurda, per altri paradossale, lo aveva spento. Si infilarono nella vecchia Audi tre di Ana e dopo dieci minuti si trovarono nei pressi di Boulevard des Tranchees. Durante il tragitto non dissero molto. Parlarono di se stessi e delle pause delle loro vite. Era tutto maledettamente scontato e se non fosse stato per il pensiero di Madan anche tutto straordinariamente banale. Eppure il loro incontro non era stato affatto banale. Lo era stato i primi giorni, quando si sorridevano e si salutavano senza aggiungere altro, ma non lo era più stato a partire dal ventesimo giorno di permanenza di Antoine a Ginevra. 129 "Nel corridoio, incrociandoti per l’ennesima volta, avevo intravisto una strana luce nei tuoi occhi. Ti sorrisi anche con un pizzico di malizia". "Non mi accorsi di nulla e continuai il mio percorso". "Dove posso trovare il toner? mi hai chiesto. In uno degli armadi...quelli che si trovano giù nell’angolo, ti risposi". Ana mostrò una cortesia tale da non poter più essere definita di rito. Qualche istante dopo si ritrovarono di fronte a una tazza di caffè. Tre giorni più tardi si scambiarono un tenero bacio sull’uscio dell’appartamento di Ana. Il giorno successivo al bacio, fecero l’amore. "Non credo che il nostro sia stato un incontro banale", puntualizzò Antoine. "Non riesco a razionalizzarlo", rispose Ana, "la prima volta che abbiamo fatto l’amore, ho avuto l’impressione di infilarmi in un vicolo cieco". "Io sarei il vicolo cieco?" "Potresti essere mio figlio". "Per me tu non sei una madre", le rispose Antoine, stizzito. Aveva visto altre donne infilarsi in quello che lei aveva appena definito un vicolo cieco ma non aveva mai pensato che quella disavventura potesse realmente capitare a lei. "Anche Karl ha avuto un senso", disse Ana,. "Con questo vorresti dire che io non ce l’ho". Ana non rispose. Un anno prima gli aveva confessato di non sentire attrazione verso di lui. "Se non fosse stata per la strana luce dei tuoi occhi", aveva detto, "probabilmente non mi sarei avvicinata". Antoine se l’era presa ma con il tempo aveva imparato a non darle troppo peso. "Si è verificato un rapido succedersi di eventi che non ho avuto il tempo di gestire". 130 "Non ti ho dato il tempo di pensare", precisò Antoine, "ed è stata la tua fortuna. Troppe volte avresti dovuto farti travolgere da una passione e non lo hai fatto. Non hai mai consentito a un pensiero illogico e apparentemente irrazionale di prendere possesso del tuo cervello". "Tu sei il pensiero più illogico e irrazionale che mi sia mai capitato", gli rispose Ana, "dal giorno del mio divorzio non ho più intrecciato nessuna relazione, neanche solo per una notte". "Solo un pensiero illogico e irrazionale poteva spezzare la monotonia della tua esistenza". "Non credere di essere stato partorito solo da un pensiero illogico e irrazionale. La strana luce dei tuoi occhi arriva dove nessuno potrebbe". Ana non aggiunse altro. Lasciò che i suoi ricordi andassero liberamente a ritroso. Pensò al primo invito di Antoine, esattamente un anno prima. "Quando giunsi a casa tua, ti guardai con più attenzione. Osservai come eri vestito e poi la tavola…il vino. A quel punto mi resi conto di come la cena fosse il nome in codice di sesso" Antoine aveva predisposto l'intero apparato, come un vero e proprio rituale. "Si vedeva che non sapevi cucinare. Però ti eri dato da fare". Come antipasto aveva preparato lui stesso del sushi, California rolls, solo per fare scena. "E cosa pensasti?" "Pensai che quello fosse il problema di quando si inizia una relazione. Fare scena. Se vuoi fare del sushi, allora frequenta un fottuto corso oppure vai in un alimentare giapponese. Non usare il riso grosso oppure il granchio surgelato ma, ovviamente, non dissi niente. Avevo compreso perfettamente che quella cena sarebbe stato solo il preludio di noi due a letto. La cena era solo un dettaglio". Non gli era dispiaciuto andare a letto con lui, anche se non aveva avuto un vero e proprio desiderio. "L’ho vissuto come un atto premeditato. Non c'era nulla di 131 spontaneo. Ebbi l’impressione di un rituale d'accompagnamento, come quello dei Masai in Tanzania". "Comunque, dopo aver appena addentato i California rolls, ti alzasti e mi spingesti verso la camera da letto". "Iniziamo a fare sesso. Era molto tempo che non avevi rapporti con una donna". "Feci un casino. Fu un vero disastro", "Né più né meno dell’esperienza con Karl". Durante la cena, prima di scopare, Ana pensò a Javier. Si erano sposati molto giovani. Ana lo amava e lui amava Ana. Come però Javier era capace di amare. Non lunghe dichiarazioni d’amore, non parole particolari o frasi d’effetto, ma lunghi silenzi riempiti da gesti teneri, semplici, una carezza sul viso, una mano tesa, un abbraccio. Allora ad Ana le bastavano. Era giovane. "Spesso mi prendeva tra le sue braccia. Lo faceva soprattutto di sera, quando tornava dal lavoro. Era stanco, ma prima di addormentarsi aveva sempre un momento per me, che lo aspettavo, felice che fosse proprio lui l’uomo che stava per varcare la soglia di casa. Ti piacerebbe che ti toccassi là sotto mi diceva. Sì, certo…fallo gli rispondevo". "Parlamene", le chiese Antoine. "Sentivo le sue mani, sotto la gonna risalire lentamente lungo le gambe. Non appena percepiva il mio piacere ascendere sempre più decisamente, si bloccava e mi sussurrava con dolcezza all’orecchio toccati per me". "Sei eccitante, sai…", le disse Antoine. Ana si sentì incentivata a continuare. "Sempre più immersa nell'eccitazione lo facevo senza pudore, felice per lui e per me stessa. In quei momenti non desideravo nessun altro e non avrei potuto neanche. Era solo quello l’uomo che conoscevo ed era solo quello l’amore che avevo provato". "Perché?" "Javier mi sembrava un buon compagno, intelligente, piacevole, sufficientemente benestante. Insomma, l'uomo migliore che 132 avessi mai potuto desiderare al mio fianco". "E tu, per lui?" "Anche per lui ero la donna migliore che avesse potuto desiderare. Me lo aveva detto più volte. Gli piaceva la mia sensibilità e anche la mia leggerezza". Javier rappresentava l'uomo dalle spalle larghe che Eva aveva sempre desiderato. "Poteva assicurarmi sicurezza e protezione". "Sei una donna sensibile, ma ti piace vivere sicura. Credi molto nella stabilità e nelle regole". "Potrebbe essere. Ogni cosa nel momento e nel posto giusto". "Sei quel tipo di persona che desidera avere tutto in ordine sulla sua scrivania, a casa come al lavoro, altrimenti non riesce a carburare". "Credo di sì. Non solo la mia vita professionale, ma anche la mia vita privata necessita di ordine. Solo così riesco a funzionare bene". "Ma cosa si può fare quando i giorni diventano tutti uguali? Sempre e soltanto gli stessi. Cosa si deve fare per evitare la monotonia aggressiva della quotidianità?" Ana non rispose. Antoine, allora, ripeté "Cosa si deve fare per evitare la monotonia aggressiva della quotidianità?" "Javier mi aveva sposata perché aveva una grande casa che voleva riempire. Desiderava tanto dei figli, che non erano mai arrivati. I suoi genitori mi adoravano e mi adorano tuttora. Impazzirono all'idea che mi sposasse. Lo apprezzavano soprattutto per la sua capacità di stare con i piedi per terra. E’ molto utile per te avere a fianco qualcuno capace di vivere il presente, mi dicevano". "Temevano molto i tuoi cambi di umore, i tuoi voli pindarici, il lento divagare della tua mente". "E anche tu li temi. Vero?" "Anch’io li temo", confermò Antoine. 133 Mumbai "Ekta è morta!" disse Avanish al messo postale. "E tu chi sei?" chiese il messo postale. "Io sono il figlio", rispose Avanish. "Di Ekta?" "Sì". "Mmmhhh…il figlio…", trascinò le parole il messo postale, portandosi il dorso della mano sulla fronte. Faceva caldo, il sudore gli usciva a gocce da sotto il bavero della divisa. Aveva già percorso diversi chilometri in bicicletta per raggiungere gli angoli nascosti della città. Avanish lo fissava, con la mano destra appoggiata alla maniglia della porta. Non sapeva se quell’uomo volesse entrare o meno ma non osava chiederglielo. Il suo sguardo non prometteva niente di buono e i suoi occhi finivano con il penetrare il ragazzo. "Va bene, va bene. Io devo semplicemente consegnare questa ingiunzione di pagamento", esclamò con un tono piuttosto contraddetto. Avanish allungò la mano sinistra per afferrare la busta che il messo postale aveva con sé. "Non so se posso consegnarla a te. Questa è una cosa seria. Riconosci di cosa si tratta?" domandò ad Avanish. "No", rispose il ragazzo, provando a sbirciare la lettera. "Non hai idea di cosa possa essere?" chiese nuovamente il messo postale. Avanish scosse la testa. "Allora te lo dico io. Questa é un’ingiunzione di pagamento", sentenziò, mostrandogli la lettera, fin sotto il muso. "Ingiunzione di pagamento", ripeté Avanish, per mostrargli di 134 aver compreso. Non vedeva l’ora di toglierselo davanti. Invece, quell’uomo sudato e arrabbiato lo torturava con le sue incomprensibili domande. "Si tratta di una cosa seria", aggiunse. Si fermò a riflettere. Portò nuovamente il dorso della mano destra sul volto e si asciugò il sudore. "Ce l'hai dell'acqua?" chiese ad Avanish. "No", ribatté secco Avanish. "Bah…come fate senza acqua con questo caldo…", gli disse, mostrando, per la prima volta, compassione. "Si va alla fontana", replicò Avanish. "Alla fontana?" "Sì, alla fontana". "E dove si trova questa fontana?" "La fontana è lontana". "Quanto lontana?" "Circa dieci chilometri" "Sono tanti. E io come faccio?" "Per fare cosa?" "Per bere. Ho sete". "Non lo so. Per me dieci chilometri non sono tanti". "Quando hai sete, devi percorrere dieci chilometri?" "Sì" "Non c’è una fontana più vicina?" "Sì, c’è ma da qualche giorno non c’è più acqua". "Prima c’era?" "A volte. Qualche giorno c’è l’acqua ma non sempre". Il messo postale rifletté di nuovo, portandosi la mano destra sul viso. Aveva due problemi, la sete e l'ingiunzione da consegnare. Per 135 risolvere il primo problema sembrava che non ci fosse niente da fare. Alla prossima porta a cui avrebbe bussato, avrebbe chiesto dell’acqua. Per quel che riguardava, invece, l’ingiunzione di pagamento sarebbe stato meglio consegnare la lettera a un adulto, ma se proprio non ci fosse stato alcun adulto allora non restava altro da fare che porgerla nelle mani di quel ragazzo. Avanish se ne stava in piedi davanti alla porta. Nell'angolo opposto i suoi due fratelli. "Chi sono quei bambini?" si informò il messo postale. "I miei fratelli", rispose Avanish. "E chi se ne occupa?" "Me ne occupo io", esclamò orgoglioso Avanish. Il messo postale, che fino ad allora era rimasto sull’uscio, fece due passi ed entrò in casa. Avvertì tutto il fetore che quelle quattro mura erano capaci di emanare. Erano giorni che le pareti non prendevano aria. Avevano assorbito il caldo e la puzza che quei vicoli di Mumbai sprigionavano, senza sosta. "Sei capace di firmare?" chiese il messo postale ad Avanish. Avanish fece un leggero cenno con il capo. "Va bene! Allora firmerai tu. Questa lettera la prendi tu", sentenziò il messo postale con decisione. "E che me ne faccio?" "Non lo so. Non è affare mio. Leggila, comunque". Avanish guardò il messo postale perplesso. "Sai leggere o sai solo firmare?" "So anche leggere". "E allora leggila". "E poi?" "Non lo so. Non é affare mio". Dall'angolo i suoi due fratelli si rotolavano per terra. "Fate silenzio, voi, piccoli bastardi", disse loro Avanish. 136 I due fratelli continuarono a rotolare per terra, incuranti del tono minaccioso di Avanish. "Ragazzo, ora vai a prendere l'acqua. Ne avrai bisogno con questo caldo", suggerì il messo postale. "Ora non posso. Ci andrò questa sera", rispose Avanish. "Come farete a resistere fino a sera?" chiese il messo postale, perplesso. Avanish non rispose. Era consapevole di dovere resistere e avrebbe resistito. La sete è uno sforzo dell’anima. "Non lo dico per te, ma per quei poveri esseri che si trovano nell'angolo", aggiunse il messo postale. "Ci andrò più tardi". "I tuoi fratelli avranno sete. Ecco, vai a prendere l'acqua per loro. Moriranno di sete". "Moriranno comunque". Il messo postale andò via, dopo essersi ancora una volta asciugato il sudore con il dorso della mano destra. Avanish guardò l'ombra del messo postale scomparire dal suo cono visivo. Nello stesso tempo avvertì una profonda sensazione di solitudine che si stava avvicinando a lui, a piccoli passi, in punta di piedi, senza farsi sentire. La solitudine lo coglieva di spalle mentre il suo sguardo si perdeva. Aveva le spalle leggermente ricurve, mentre il ciuffo dei suoi capelli svolazzavano portati via da un alito di vento inesistente. Percepì una strana presenza dietro di lui e cercò di non farsi trovare impreparato. Si voltò di scatto per guardare la solitudine fissa negli occhi. Aveva il freddo nel cuore anche quando il sole picchiava forte sulla sua città. I fratelli, che stavano nell'angolo, smisero di ciarlare e di rotolarsi per terra. Per alcuni istanti rimasero in silenzio. Attimi di silenzio da spezzare senza pietà. La luce sugli occhi di Avanish era intensa. Un raggio di sole, che penetrava non si sa bene da quale fessura, lo colpiva tanto da fargli socchiudere le palpebre. La solitudine pensò di averlo conquistato. Avanish, senza voltarsi, si mise in ginocchio. Rivolse lo sguardo al soffitto. 137 Chiese alla solitudine: "Per che cosa sei venuta a curiosare dentro la mia anima, tu che già tieni compagnia ai poveri e ai deboli di tutto il mondo?" Ci furono ancora attimi di silenzio. I suoi fratelli sembravano partecipare al raccoglimento liturgico che l'uscita del messo postale aveva creato. Il suo essere adolescente avvertì tutta la vulnerabilità che un ragazzo può avvertire. Capì di essere escluso e di non avere alternative. Alla morte del padre, avvenuta un anno prima, Avanish aveva avuto un forte risentimento ma la presenza della madre gli aveva consentito di relativizzare la sua situazione. La scomparsa della madre aveva creato intorno a lui il vuoto, il deserto, l'emarginazione reale. "E gli altri? Possibile che nessuno si accorga di me?" Il crollo della rete sicura degli affetti familiari lo aveva abbandonato nel suo nido. E aveva abbandonato anche i suoi fratelli. Dove si trovava Avanish, nel deserto degli affollati vicoli di Mumbai, non c’era posto per la sofferenza degli altri. Inginocchiato, com’era, continuò a dialogare con la solitudine, mentre i suoi fratelli tornarono a rotolarsi per terra. New York "Non è morta!" Esclamò l'infermiere Thomas Benitez del Coney Island Hospital di Brooklyn. Tirò un sospiro profondo e aggiunse, "è ridotta male, però". "Che previsioni si sente di fare?" chiese James con un filo di voce. "Non le so dire niente di più di quello che le ho detto. I medici sostengono che si deve avere pazienza e aspettare" "Aspettare che significa?" "Aspettare, signore. Mi dispiace non possiamo fare altro". "Quanto tempo?…giorni, mesi…" James avrebbe voluto aggiungere anni, ma non lo fece per non accrescere il peso del suo 138 personale tormento. "Mi dispiace ma, per il momento, non posso dirle altro che aspettare", rispose Thomas Benitez. "La curerete?" "Certo, la signora Marita avrà tutte le cure del caso. Stia tranquillo". "Certamente…tranquillo…", ripeté James, trascinando le parole. "Lei è il marito?" "No, non sono il marito", rispose James, dopo aver esitato qualche secondo. "Lei è un parente?" gli domandò allora Thomas Benitez. "No, no. Non sono neanche un parente". "Non è un parente?" ribadì sorpreso l’infermiere. "Sono un amico", precisò James. "Un amico", comunicò Thomas Benitez a David Scott, l’altro infermiere che lo assisteva. "Potrebbe aiutarci a rintracciare i parenti della signora?" chiese di rimbalzo David Scott. "Certo, i suoi due figli, ma sono piccoli", rispose prontamente James. I due infermieri accennarono un segno d’intesa. "Non li fate spaventare…vi prego", aggiunse James. "Ha un marito la signora?" "Ce l'aveva…credo…non lo so". James sussurrò le ultime parole. Era stanco. Visibilmente stanco. E oltre a essere stanco, si sentiva affranto. Da mesi non vedeva Marita e il giorno stesso in cui l’aveva rivista avrebbe potuto non rivederla più. Il loro era uno strano destino. "Ė colpa mia", pensò James nello stesso istante in cui evocò il destino. 139 "Se non fosse stato per colpa della mia gelosia retroattiva, Marita non si sarebbe trovata in quel letto di ospedale", avrebbe potuto pensare ma non lo fece. Lo percepì nell’inconscio, però. Sulla barella del pronto soccorso del Coney Island Hospital, Marita giaceva riversa in posizione supina. Aveva escoriazioni dappertutto, il volto tumefatto e il sangue che gli colava dal viso che sembrava non volerne sapere di arrestarsi. Quelli che l’avevano vista distesa sull’asfalto, avevano avuto l’impressione che per lei non ci sarebbe stato nulla da fare. E anche James, dal lato opposto della strada, aveva avuto la loro stessa sensazione. La flebile speranza che l’infermiere del Coney Island Hospital gli aveva offerto, gli dava la possibilità di riordinare le poche idee confuse che agitavano la sua mente. L’evoluzione sistematica del suo pensiero venne interrotta da un agente della polizia, che lo invitò a seguirlo. "E’ stato terribile!" esclamò James. L’agente, ricostruì l’incidente insieme a James, poi uscì dalla stanza, giusto al lato della reception. Qualche secondo dopo, uscì anche James. Riprese a pensare alle sue colpe: "Avrei potuto avere Marita, ma l’ho lasciata andare". A un certo punto, il peso della gelosia retroattiva era diventato insostenibile. Marita non aveva potuto fare altro che abbandonarlo. "Ho provato a ritrovarla, ma ho lasciato che il tempo terminasse la sua folle corsa", sospirò con un filo di voce. Avevano deciso di incontrarsi dopo mesi passati nella freddezza e nell’assenza reciproca. James le aveva telefonato. Le prime battute della loro chiacchierata erano state come da copione. Il risentimento di Marita e le manie ossessive di James sembravano essere svanite. "Le scarpe che indossi sono nuove?" aveva chiesto James a sorpresa "No, non sono nuove. Non le indossavo da tempo ma non sono nuove" 140 "Ti piacciono?" "Sì, mi piacciono. Perché me lo chiedi?" "Sai…le tue gambe tornite…ho pensato a quelle…ho pensato alle scarpe". "Strano!" aveva osservato Marita, guardando d’istinto le proprie scarpe. Poi, dopo avere esitato e distorto lo sguardo dai suoi piedi, aveva aggiunto, "sono molto felice che tu mi abbia chiamato". "Sicuro, quindi ti sono mancato", aveva azzardato James con impertinenza. "Sì, è così", gli aveva risposto Marita, irrigidendo i muscoli del viso. Aveva fatto una smorfia strana, di tensione, che James, ovviamente, non aveva potuto cogliere. L’emozione che Marita riusciva a stento a mascherare, le contorceva il viso. "Nonostante il nostro ultimo penoso incontro", aveva aggiunto Marita, abbozzando un sorriso "Sì", le aveva risposto James. "Davvero?" aveva chiesto Marita per avere nuovamente la percezione del suo interesse. "Sì, credo che la prospettiva di non vederti più mi abbia molto spaventato". "Perdere una donna con le gambe sode è una cosa così dolorosa?" ribatté Marita in maniera ironica, per celare il suo evidente imbarazzo. Intanto lui non perse più tempo e cambiό definitivamente registro. "E’ doloroso perdere te", le disse James, senza mezzi termini, "ti dispiace che non te lo abbia detto prima?" "No, ma non capisco perché dirmelo ora. Perché non prima?" "Perché…", stava provando a spiegare James, quando venne interrotto da Marita "Si tratta di uno scherzo?" chiese lei, in maniera falsamente 141 ingenua. "Ti sembra che stia scherzando?" rispose lui sempre più serio. "Ma allora perché dirmelo solo adesso? Insomma…è difficile per me da credere". "Ma è la verità. Sto cercando di dirti cosa provo per te. Credo che meriti di saperlo. Credo sia ora che tu lo sappia". "Cosa?" "Che provo qualcosa per te. Ti penso continuamente. A volte mi manchi molto e…no, non solo a volte…spesso, mi manchi. Molto spesso…" Marita conosceva bene James e la fatica che aveva impiegato per tentare di strappargli una semplice parola d’amore. Mise da parte l’emozione e tentò di riprendere il controllo di se stessa. "D'accordo. E adesso? Non so perché, ma questa storia non mi convince. Tu non mi convinci", gli disse. "Non ti convinco perché ti ho confidato di provare qualcosa per te?" Le chiese in maniera arrogante. "Ora ho capito. Mi stai mettendo alla prova?" "No". Marita continuava a sospirare, confusa. amareggiata allo stesso tempo. Felice e incerta. Lusingata e Dopo alcuni secondi di silenzio, rispose un semplice "OK, bene…allora cosa facciamo?" "Non lo so" le replicò lui, "potrei…accidenti. Non so da dove cominciare". "Prova ad iniziare da quello che senti", gli domandò Marita. "Tu sei nel mio cuore. Sono emotivamente coinvolto in questa storia e non farò mai niente che ti possa ferire. Te lo prometto!" Lei replicò con un mormorio indistinto, facendogli capire che avrebbe provato a fidarsi di lui. Il terrore che l’aveva accompagnata alcuni attimi prima sembrava improvvisamente scomparso. "Sta succedendo qualcosa di speciale tra noi. Tu lo sai. Non 142 lasciare che vinca la paura", le disse James per rassicurarla. Fu un dialogo piacevole ma non durò a lungo. Decisero finalmente di ritrovarsi per un caffè. Avrebbero parlato di loro stessi e delle loro vita. Una settimana dopo si ritrovarono, come avevano stabilito. Sarebbe andato tutto come concordato se il destino non si fosse messo di traverso. "Ė colpa mia", sospirò James, davanti la porta del Coney Island Hospital. Si sedette sulla sedia verde, di plastica pesante. Sospinse il busto indietro alla ricerca della posizione giusta. Il cappotto che non aveva mai smesso di indossare si aprì sulle ginocchia. Infilò le mani in tasca per chiuderlo nuovamente. Mentre lo stava facendo, sentì squillare il telefonino. Nonostante avesse le mani in tasca, riuscì a rispondere dopo soli due squilli. "Tutto come previsto", gli confermò un uomo all’altro capo del telefono. "Ci sono stati problemi?" "Tutto bene". "Bene!" sentenziò James, mettendo giù la ribaltina del telefono, per mettere fine a quel breve dialogo. Apparve risollevato, come se fosse riuscito a risolvere una situazione complicata. Si risistemò il cappotto sulle ginocchia e sospinse nuovamente il busto indietro alla ricerca della posizione. La sensazione di serenità finì inevitabilmente per scontrarsi con il dramma di Marita che, con le poche forze rimaste, stava tentando di aggrapparsi alla vita. Dopo quattro ore dal ricovero, i medici non avevano fornito ulteriori particolari sulle sue condizioni. "Non ho un dio al quale rivolgermi. Non l’ho mai avuto e non mi sembra il momento di trovarmene uno. Non sarebbe corretto, prima di tutto nei miei confronti. E poi….cosa dovrei chiedergli?" pensò James, "che Marita possa sopravvivere?…ma non sarebbe giusto. Deve essere il suo destino a definirlo". James avrebbe accettato qualsiasi decisione il destino avesse 143 preso. Se il destino avesse decretato che Marita doveva sopravvivere sarebbe stato felice ma, se il destino avesse optato in senso contrario, non se ne sarebbe fatto un problema. Sarebbe ugualmente tornato a casa, avrebbe riabbracciato la moglie e i figli. Non avrebbe raccontato nulla di quello che aveva visto e vissuto quel giorno. L'incidente di Marita sarebbe rimasto per sempre soffocato nella sua memoria. "E’ stata solo casualità!" Ripeté nella sua mente la versione data all’agente della polizia, che lo aveva pregato di ricostruire l’episodio. "La stavo aspettando dall'altro lato della strada. Lei stava attraversando. Una Toyota nera l'ha presa in pieno e scaraventata a quindici metri di distanza. Il conducente ha provato a frenare, non andava neanche troppo veloce, ma non é servito a niente. Marita é rimasta distesa sull'asfalto, sotto i miei occhi. Alcune persone si sono radunate intorno al corpo. Uno di loro si é chinato per vedere se respirasse ancora. ‘Bisogna fare presto’, ha detto. ‘Presto…presto…’, hanno ripetuto gli altri, che gli erano accanto. ‘Un’ambulanza… presto…presto…’, ho gridato io, mentre raggiungevo Marita, distesa sull’asfalto". "Si é chinato sulla signora per verificarne le condizioni?" gli aveva domandato l’agente di polizia. "No. Mi sono fidato delle sensazioni di quelli che lo avevano fatto. L'ambulanza é giunta dopo soli cinque minuti. Sono scesi due portantini e un dottore in divisa bianca. Non la toccate hanno intimato a tutti noi che ci trovavamo vicino al corpo". "E qualcuno l’ha toccata?" aveva chiesto l’agente. "Nessuno l'ha toccata", assicurò James, "dopo pochi minuti l’hanno sollevata delicatamente dall'asfalto e deposta sulla barella. L'ambulanza è partita a sirene spiegate verso l'ospedale. Mi sono seduto al suo fianco. Durante il tragitto, ho ripetutamente provato a interloquire con il medico che l’assisteva. Ho chiesto quali fossero le sue condizioni ma il medico, guardandomi di sfuggita, mi ha risposto semplicemente ‘Vedremo’". Ritornò con i suoi pensieri al presente. "Se Marita dovesse morire, parteciperò ai suoi funerali. 144 Stringerò la mano ai suoi familiari". Avrebbe rappresentato il suo dolore a quegli stessi familiari che, in passato, si era rifiutato di conoscere. "Non sarà difficile individuarli", pensò, "andrò nella stessa direzione in cui andranno gli altri". Nella sala accanto, intanto, Marita, ebbe un sussulto. "Presto…", si sentì urlare un medico. James rimase impassibile. Continuò a infilare i suoi pensieri, sempre più lucidamente, come se quella situazione appartenesse a un altro uomo. "E se ai funerali di Marita non ci dovesse essere nessuno? Io parteciperò comunque. Mi inventerò una riunione di lavoro. Poi andrò al crematorio. Resterò lì fin quando il suo corpo non sarà stato completamente bruciato. Lo devo idealmente a Marita. Ho posseduto il suo corpo e sarà giusto vivere il momento in cui quel corpo si sarà totalmente dissolto". Ebbe un sussulto di umanità. Smise, per un attimo, di pianificare il futuro, come un manager assuefatto ai suoi compiti. "Darei qualsiasi cosa per vedere ancora Marita". Trovò paradossale la sua esistenza. Quella mattina si era trovato a desiderare contemporaneamente la sopravvivenza di una persona e la morte di un'altra. Bruxelles Anche Enzo stava percependo la solitudine. Non era la prima volta. "Con te sono parte di un insieme. Senza, mi sento orfano di un progetto di vita". Quando si era scoperto omosessuale aveva avuto paura di dire chi fosse veramente. "Ho nascosto la parte più importante di me alle persone più 145 care per paura di perderle". Poi si era reso conto che agli altri fondamentalmente non interessa né la verità né la libertà né la giustizia. "Sono scomode e la gente preferisce adagiarsi nella bugia e nella schiavitù" aveva detto a Jan, la seconda volta che si erano incontrati. "Ci si rotolano dentro come maiali", gli aveva risposto Jan. "Come maiali…", aveva ripetuto Enzo. Poi Jan si era fatto serio e lo aveva inchiodato alle sue responsabilità. "Anche l’omissione della propria condizione rappresenta una forma di schiavitù". Non ebbe bisogno di aggiungere altro perché Enzo, dopo avere abbassato lo sguardo, ebbe la forza di fissarlo negli occhi. "Dovrei fissare la gente negli occhi?" gli chiese. "Dovresti dire chi sei veramente. Ascoltami, ne vale davvero la pena conoscerti per quello che…" "Per quello che…", lo interruppe Enzo. "…Per quello che sei veramente, Enzo", aggiunse Jan. Jan gli aveva indicato il progetto di vita, che avevano deciso di condividere. Gli aveva restituito l’identità che la sua morte improvvisa non gli avrebbe tolto. La sua eredità era fondamentalmente quella. Lo aveva capito quando aveva provato a parlare delle sue sensazioni. "Non mi interessano più gli intellettuali e i finti rivoluzionari acclamati, accolti dalla società bigotta e ignorante. Mi interessano i poveri cristi che si battono da soli, liberi da schemi e da dottrine, da discussioni teologiche e da violenze inutili". Aveva trovato conforto nella fede benché molti di quelli che vivevano la sua condizione continuavano a pensarla diversamente. "Continua a cercare mondi diversi, dove ognuno è qualcuno e dove la libertà e la felicità esistono veramente", gli aveva detto Jan. Da allora lui era filato dritto per la sua strada. 146 "La Chiesa vuol farci credere che il suo è l'unico universo possibile. E chi si ribella finisce in un buco nero. Povero Dio che non ha scelta e non ha colpe. Gli uomini hanno scelta e hanno colpe. È a queste persone che bisogna ribellarsi. Dobbiamo avere dignità, non essere inerti, non essere rassegnati. Dobbiamo provare a stropicciarci gli occhi. Ne resteremo incantati… ": erano le parole di Jan, che nel silenzio della propria solitudine, gli tornavano in mente. "Le grandi tradizioni religiose hanno sempre condannato l'amore omosessuale come una perversione della natura. I pensatori religiosi sono convinti che l'orientamento eterosessuale sia universale e che gli atti omosessuali siano comportamenti anomali, che trasgrediscono una legge essenziale della natura umana". "L'omosessualità, però, non è un orientamento scelto e stabile. Non si può chiedere agli omosessuali di convertirsi", aveva risposto Jan, "siamo membri del corpo mistico di Gesù. Abbiamo una dignità intrinseca. Il Dio dell'universo, che ha creato una maggioranza eterosessuale, ha ugualmente deciso di creare una minoranza omosessuale. Io non mi lamento di fronte a Dio. Sono fiero dell'essere che Dio mi ha dato". "Con te mi sono aperto all'amore, praticando la reciprocità e la condivisione". Ma Jan non c'era più e non ci sarebbe più stato. Si erano incontrati per l’ultima volta la sera precedente il suo assassinio. Avevano cenato a casa di Enzo. Spaghetti con i peperoni cruschi e olive verdi di Ferrandina. Avevano bevuto del vino e dopo pranzo della grappa. Si erano abbracciati sul divano ma non avevano fatto l'amore. Si erano baciati teneramente. Mentre pensava agli ultimi soffi di vita insieme, Enzo si sentì gelare il sangue. Avvertì un profondo senso di solitudine. "Per la prima volta penso alle cose non dette e a quelle non fatte". Ripercorse a ritroso gli ultimi giorni. Erano stati difficili. "Andiamo a casa mia", gli aveva chiesto Jan, sperando che finalmente potessero vivere insieme. Enzo, invece, aveva esitato. 147 "Vedremo…decideremo con calma nelle prossime settimane". Jan aveva fatto buon viso a cattivo gioco. I tentennamenti di Enzo gli risultavano incomprensibili ma aveva preferito evitare di mostrare il suo disappunto. Enzo, tuttavia, lo aveva percepito ugualmente. "Lo annusavo nell’aria che respiravamo". I minuti che seguirono il ritrovamento del cadavere di Jan furono molto concitati. Enzo provò una forte nausea che lo spinse sull’orlo del vomito. Provò anche un forte male di testa. Più volte provò ad aggrondare la fronte per provare ad alleviare il dolore ma non ci riuscì. Il dolore si attenuava ma poi ritornava anche più prepotente di prima. "Se solo riuscissi a dormire". Ricordò che all’età di quattordici anni gli era capitato più volte di provare nausea e senso di vomito. "Mi capitava mentre avvertivo un senso di vuoto". Maturando aveva sofferto meno. "Vorrei tanto dormire". Se ne andò a casa e si distese sul divano. Intanto, il cadavere di Jan venne portato all’obitorio per l’autopsia di rito, prima della sepoltura. "Vorrei sotterrarlo in Germania", domandò suo padre. Disteso sul divano, Enzo ebbe l’impressione di avergli fatto un torto. "Vivendo insieme lo avrei reso felice". Avrebbe potuto ma non lo aveva fatto. "Ora è troppo tardi". Mentre lo pensava, il dolore alla testa divenne lancinante, il senso del vuoto insopportabile. Eppure erano trascorse solo poche ore dalla scomparsa del suo compagno. "Temo che con il passare dei giorni, il dolore diventi sempre più intenso e il senso del vuoto sempre più insopportabile". 148 Lo stesso senso di vuoto, che riempiva l’animo di Enzo colse, in quegli stessi minuti, anche Eva, mentre faceva l’amore con il napoletano. Erano andati a cena insieme. Avevano bevuto. Poi erano ritornati nell’appartamento del napoletano, dove Eva si era data, per la prima volta, per inerzia. Si era abbandonata al non amore, perdendo quel poco di stima che nutriva verso se stessa. "Il vino eccita sessualmente le donne, ma soffoca il desiderio sessuale degli uomini", gli disse Eva. "Come mai me lo stai dicendo?" chiese il napoletano. "Non so perché te ne sto parlando", rispose Eva. Probabilmente si trattava di un modo per dirottare la conversazione sul sesso e fare andare avanti le cose. Un segnale per dargli nuovamente il via libero per l'attacco. Il napoletano non rimase molto turbato. Si limitò a cambiare argomento, come se lei avesse detto qualcosa di sgradevole. Da quel momento in poi non riuscì più ad abbozzare neanche un sorriso. "L’altra volta morivi dalla voglia di avermi", gli disse Eva, dopo avere constatato la sua reticenza ad agire. "Non ti avevo mai avuta. Era diverso". "Diverso, dici…" "Per me, sì". Il napoletano non aggiunse altro. Se avesse voluto trovare un modo per farla sentire ulteriormente uno schifo, c’era perfettamente riuscito. Aveva davanti una donna, più importante e socialmente elevata di lui, eppure riusciva a umiliarla. Il peggio era che lei si lasciava umiliare da quell’uomo repellente, come se dovesse pagare il dazio di una colpa non sufficientemente espiata. Da quel momento in poi, il napoletano iniziò a parlargli di suo marito. "Perfino a letto", osservò lei per frenarlo, ma non ottenne alcun effetto. Lui cercava di sfruttare ogni possibilità per metterla a disagio. Pensò di averle fatto passare la voglia. Sembrava davvero schifato, consapevolmente demotivato. Tuttavia, scoparono ugualmente come 149 due animali in calore. Lui non ce l'aveva molto duro. Così arrivò in fretta. Si alzò dal letto e corse in bagno per fare una doccia. Disse solo un freddo, "mi dispiace". "Forse ti senti in colpa? E perché dovresti? Sono io quella che dovrebbe avvertire il senso della colpa. Sono io che tradisco". Dopo aver scopato, lui si diresse in cucina. Si accovacciò su una sedia e iniziò a fare dei cruciverba. Non leggeva molto, ma era bravissimo con i cruciverba. Eva, invece, si raggomitolò sotto le coperte, cercando il calore che il napoletano gli aveva negato. Ginevra Ana si fece portare un porto rouge. Afferrò il bicchiere tra le mani e lo tenne sospeso per alcuni secondi. Lo posò di nuovo sul tavolo, evitando di bere. Si guardò intorno. Ebbe la sensazione di trovarsi nel posto sbagliato con la persona sbagliata. Antoine la guardò teneramente ma non disse nulla. Le prese la mano e gliela strinse. Con l'altra mano le accarezzò i capelli. Ana abbassò lo sguardo e sorrise. "Perché non mi hai chiamato?" volle sapere Antoine. "Sai, il lavoro, mia figlia…", rispose Ana. "Non ci vuole tanto tempo. Basta sollevare la cornetta…" "Lo so…comunque, lo hai fatto tu. Ti ho sempre risposto, no?" "Non sempre" "Quando non ti ho risposto?" "È capitato più di una volta". "Non ricordo". "Non fa niente. L'importante è che ora io sia insieme a te". Ana abbassò nuovamente lo sguardo. Poi aggiunse: "Ho fame!" "Mangiamo…", rispose Antoine. 150 "Se solo questo maledetto cameriere si avvicinasse", fece notare Ana, girandosi sulla sedia alla ricerca di una persona qualsiasi che potesse aiutarla a uscire da quella situazione imbarazzante. Non si trovava affatto a proprio agio. "Con te mi è sfuggita la razionalità della mia mente", sussurrò, piegando lo sguardo. Antoine aveva finito con il penetrare la sua cortina difensiva, che aveva eretto a sua protezione da quando era finita la storia con Javier. Era stato un muro invalicabile. "Da quando mi sono separata fisicamente da mio marito, non mi sono più fidata degli uomini". "Del tedesco ti sei fidata, però", le disse Antoine, riferendosi alla storia che Ana aveva avuto con Karl. "Mi è capitato di fidarmi di Karl ma è successo quando la separazione da mio marito era emotiva, non fisica". "Poi ti sei fidata di me", aggiunse Antoine. "Forse perché non ti ho mai visto come un uomo". "Ti sei lasciata andare". "Si ma da quel momento in poi tu sei diventato un uomo per me e io degli uomini non mi fido". Il muro aveva ceduto e la sensazione era che con lui non ci sarebbe mai stata la possibilità di erigerne uno nuovo, in grado di proteggerla. "Degli uomini non mi fido", ripeté. Seduta al tavolo, di fronte al suo porto rouge, avvertiva tutto il senso della sua fragilità. "Ho freddo". "Ma che dici?" le domandò, sorpreso Antoine. "Ho freddo", ribadì Ana. "C'è un camino lì nell'angolo. Potremmo chiedere di cambiare tavolo". 151 "No, non mi sembra il caso. Portami a casa. Ti prego". Antoine fece una smorfia di disappunto. "Non capisco cosa realmente vuoi. Dici di avere fame e poi non vuoi mangiare. Ora il freddo…" Non terminò la frase e non fece altre osservazioni. In fondo, il cambiamento di programma poteva anche stargli bene. Desiderava fare l'amore con lei e fin dall'inizio aveva considerato la cena come un'inutile perdita di tempo. Alla fine, interpretò il freddo come un suo prezioso alleato. "Certo, ti porto a casa", le disse, alzandosi dalla sedia. Si avvicinò il cameriere. "Qualcosa non va, signori?" "No, niente. Ho un terribile mal di testa. Ci scusi ma preferiamo andare via". Antoine non aggiunse altro. Il cameriere, invece, spostò con raffinata educazione la sedia di Ana, permettendole di sollevarsi. Fuori dal locale, Antoine abbracciò Ana, che si strinse al suo petto. Giunsero nei pressi dell'Audi tre, parcheggiata nel piazzale antistante. Si baciarono. In realtà non fu un bacio lungo perché Ana disse nuovamente di avere freddo. "Dove ti porto?" Ana volle sapere da Antoine. "A casa tua. Ho voglia di fare l'amore con te". "Ho freddo e ho un terribile male di testa", rispose Ana, poggiando il capo sul volante della sua auto. "Andiamo a casa tua, ti prego", domandò con dolcezza Antoine. "D'accordo. Ma non faremo l’amore. Mi parlerai dell'India". "Io voglio fare l’amore e tu vuoi che ti parli dell’India?" "Possibile che tu non riesca a capire che non devi implorare di fare l’amore. Vuoi farlo, allora arriviamo a casa, mi sbatti contro il muro e lo facciamo. Non devi chiederlo". "E per fare l’amore, devo dirti che ho voglia di parlare 152 dell’India?" "Si. Mi dici che hai voglia di parlare dell’India e poi, invece, mi sbatti contro il muro". "Come sei complicata, Ana!" "No, non sono io a essere complicata. Sei tu che sei un ragazzino". "Non ho voglia di litigare. Io adoro parlare dell’India", concluse Antoine. Durante il tragitto dal ristorante a casa, non si scambiarono nessuna parola, temendo inconsapevolmente che ogni sillaba avrebbe potuto alterare l’equilibrio faticosamente raggiunto. Giunti a destinazione, parcheggiarono l’Audi tre. Antoine aiutò Ana a scendere dall’auto. Attraversarono i pochi metri che li separavano dal portone, rimanendo abbracciati. Giunti a casa, però, la scena si modificò improvvisamente, come se una mano invisibile avesse toccato le corde emotive di entrambi. Antoine, per quanto desiderasse Ana, non riusciva a fare alcun movimento, come se quella mano invisibile gli avesse bloccato i muscoli. Se ne stava seduto sul divano con le gambe unite e i gomiti poggiati sulle ginocchia. Una posizione strana che Ana fece finta di non notare. "Non sono a mio agio", disse Antoine, "sono stato felicissimo di rivederti ma i tuoi comportamenti mi confondono". Probabilmente lei non udì. Si trovava in cucina e il rumore dello spremiagrumi si sovrapponeva alla voce di Antoine. Non rispose. Antoine si guardò intorno. Il parquet scuro contribuiva in maniera determinante a rendere il living caldo e accogliente. Fece caso a tutte le venature e poi spostò lo sguardo verso l'alto. Il soffitto era bianco, ma non di un bianco luminoso. Due lampadari di Kartell, di plastica ruvida, pendevano attraverso un filo lungo di acciaio. Uno dei due, di colore rosso, pendeva nella zona in cui erano collocati i due divani, posti ad angolo retto, di pelle beige, e faceva pendant con il tappeto, lavorato a mano con prevalenza di tonalità rossa. Nello spazio lasciato libero dall'angolatura provocata dai due divani, si incastrava con naturalezza un tavolinetto di vetro. Su di esso, Ana aveva collocato uno stereo di piccole dimensioni e alcuni portacenere colorati. Si trattava semplicemente di decorazione perché i portacenere restavano 153 costantemente intonsi. Ana non fumava e i suoi ospiti, se fumatori, preferivano affacciarsi dalla splendida terrazza. Antoine ne vedeva entrare il riflesso dalle vetrate, grazie al quale la stanza si illuminava e lui riusciva a vedere la figura di Ana, il suo corpo gracile e i suoi lunghi capelli. "Non sono a mio agio e i tuoi comportamenti mi confondono", ripeté con un tono leggermente più alto. Dopo qualche istante, la gracile figura e i lunghi capelli si trovarono a pochi passi da lui. Avrebbe voluto accarezzarli, come aveva fatto la prima volta che aveva messo piede in quella casa, ma i suoi muscoli non riuscivano a reagire. Erano bloccati. "Raccontami dell'India", gli domandò Ana, ignorando nuovamente le sue parole. "Fantastica ma triste", affermò, allora, Antoine. Ana spense la luce in cucina. Si avvicinò lentamente verso i divani. Aveva in mano un piccolo vassoio di plastica sul quale aveva deposto una tazza di caffè e un bicchiere enorme di succo d’arancia. Posò il vassoio di plastica sul tavolinetto di vetro che quasi si incastrava tra i due divani e si mise a sedere. Si posizionò di fronte ad Antoine, che intanto stava seguendo tutti i movimenti della donna. Mentre lo faceva, parlava: "Se non fosse stato per la lettera spedita a Madan, non sarei tornato in India". "Ma se l'India è da sempre la tua passione?" gli fece notare Ana, sorridendo. "È stato un porto d'arrivo e non pensavo potesse essere anche un porto di partenza", rispose Antoine, poggiando la testa sullo schienale del divano. "Cosa vuoi dire, Antoine?" "Se non fosse stato per Madan, non ci sarei andato. Non avevo nessuna intenzione di andarci ma mi tormentava il peso di Madan. Non era mai successo che non avesse risposto a un mio messaggio. A volte non rispondeva subito, ma poi un segnale me lo inviava. Invece, l'ultima volta che gli ho scritto non ho ricevuto alcuna risposta. Ho provato a cercarlo ma nessuno sapeva darmi indicazioni precise". "Non sapevo che questo Madan fosse tanto importante per 154 te", lo interruppe Ana. "Neanche io lo sapevo", sostenne Antoine. "E allora perché sei andato a cercarlo?" "Perché in quei giorni mi stavo occupando di un dossier…sai quello sui medicinali" " E cosa centra Madan?" "Apparentemente nulla. Nella sostanza, invece c'entra tanto". "Antoine, sei sorprendente, sai? Quando ti ho conosciuto, mi sei apparso un tipo tranquillo, finanche ordinario. Non avrei mai potuto immaginare che fossi il genere di uomo da farsi trascinare in India per investigare un dossier". "Il tuo problema è che mi hai sempre osservato con sufficienza, come se i tuoi quaranta anni ti dessero il diritto di infierire su di me". "Credimi, se tu riuscissi a guardarti con i miei occhi, faresti le mie stesse osservazioni". "Non esserne tanto certa". "Lascia perdere…cosa c’entra il tuo amico indiano, allora?" "Il dossier di cui mi stavo occupando…sai, c'era in ballo la questione dell'accesso dei medicinali nei paesi in via di sviluppo. Negli ultimi anni, il ruolo che il brevetto può avere nell'impedire o limitare l'accesso alle cure nelle aree sottosviluppate è stato oggetto di un acceso dibattito internazionale. L'accesso ai farmaci essenziali può essere principalmente garantito dall'abolizione dei brevetti". Ana lo lasciò parlare. Poi intervenne. "Dall'altro lato, l'industria farmaceutica ritiene che il brevetto costituisca un diritto irrinunciabile in quanto incentivo fondamentale allo svolgimento di attività di ricerca e sviluppo". "Che tipo di incentivi?" si informò ironicamente Antoine. "Incentivi alla scoperta di nuovi e migliori presidi terapeutici". indiano "Ascolta, Ana", disse Antoine "l'anno scorso, il Parlamento ha approvato una legge che, così come imposto 155 dall'Organizzazione Mondiale per il Commercio, introduce in India i brevetti sui farmaci". "Dove vuoi arrivare?" "La verità è che la nuova legge ha impedito a milioni di persone malate nei paesi più poveri di avere accesso a farmaci economici e di qualità, a partire da quello contro l'Aids". "Avrebbero potuto bloccare l’approvazione della legge, se, come pensi tu, i risultati sono tanto terribili". "La legge è stata approvata, nonostante la mobilitazione degli attivisti di tutto il mondo, dall'India alla Francia, all'Africa". "Devo ammettere che, negli anni scorsi, l'India abbia giocato un ruolo essenziale nella produzione di farmaci generici di qualità ed economici da esportare nei paesi in via di sviluppo". "Non solo. L'India è stata anche il paese leader nel dibattito sulle barriere all'accesso ai farmaci provocate dai brevetti nell'ambito dell’OMC e ha sempre difeso la necessità di fare in modo che le norme internazionali sui brevetti farmaceutici non ostacolassero la tutela della salute pubblica". "Ma, in quanto membro del OMC, a partire dal 2005, l'India ha l'obbligo di rilasciare brevetti ventennali sui farmaci". "La vita di milioni di persone che nel modo dipendono dai farmaci indiani per potersi curare è così in pericolo", sentenziò Antoine. "Cosa c'entra Madan?" volle sapere, ancora una volta, Ana. "Lasciami finire…" "Scusami. Il tuo problema è che non arrivi mai al punto". "Il tuo, invece, è di trattarmi con superficialità. Avresti lasciato parlare chiunque non fosse stato Antoine". "Antoine, l’altro tuo problema è la permalosità. Te l’ho detto già, mi sembra…" Antoine preferì continuare nella sua descrizione. ruolo 156 "Il caso dei farmaci contro l'Aids è l'esempio più eclatante del vitale svolto dalle industrie farmaceutiche indiane. L'Organizzazione Mondiale per la Sanità stima che nei paesi poveri almeno sei milioni di persone hanno urgente bisogno di terapie antiretrovirali contro l'Aids. Oggi solo settecentomila persone ne hanno accesso. A circa il cinquanta per cento di loro vengono somministrati farmaci indiani. Prima che i farmaci antiretrovirali indiani fossero largamente disponibili sul mercato internazionale, le terapie per i malati di Aids costavano diecimila dollari l'anno per paziente, quaranta volte di più del prezzo delle terapie indiane. I produttori indiani erano anche stati i primi a realizzare formulazioni tre in uno che permettono ai pazienti di assumere solo due pillole al giorno, invece, delle sei/dodici di quelle che erano previste con i farmaci occidentali. Questa semplificazione aveva rivoluzionato il trattamento dell'Aids nei paesi più poveri. Tutto era stato reso possibile solo grazie al fatto che in India non fossero in vigore i brevetti sui farmaci. In assenza dei brevetti è stato infatti possibile combinare tre principi attivi in una sola pillola. Con l'approvazione della legge indiana tutti i nuovi farmaci sono stati coperti da brevetto e la fonte dei farmaci low cost si è esaurita". "Non mi hai ancora risposto. Cosa c'entra Madan?" "Madan era malato di Aids ed è morto a gennaio del 2005". "Mio Dio!" esclamò Ana. Mumbai Uno strano senso di vuoto nella casa. Avanish lo percepì forte nel momento in cui il messo postale volle sapere di sua madre, Ekta. "Non é la prima volta", notò il ragazzo. Era successo anche dopo la morte del padre. Eppure quella morte non era stata per nulla inattesa. "Era malato di Aids e un giorno o l’altro sarebbe dovuto morire". Era come se Avanish si fosse preparato al senso del vuoto, che sarebbe inevitabilmente giunto. E quando finalmente arrivò, Avanish ritenne di essere pronto per affrontarlo. 157 "Sono forte, sono forte, sono forte", sussurrò tre volte nell’attimo in cui il padre spirò. Il male del padre era stato difficile da affrontare e avrebbe segnato definitivamente la sua vita. Non lo aveva raccontato ai suoi amici per non rompere l’incantevole meccanismo della perfezione della vita. A quell’epoca, lui aveva un padre, una madre, due fratelli, una casa e viveva una vita assolutamente adeguata alla sua età di adolescente. Il padre aveva anche un lavoro, vendeva meravigliosi orpelli per i turisti, che sognavano di riportare a casa un pezzo di India. Anche la madre lavorava. La casa in cui abitavano non era grande ma abbastanza confortevole. Avanish non aveva una camera tutta per sé ma andava bene ugualmente. Giocava perché gli piaceva e studiava quando doveva farlo. La malattia del padre giunse improvvisa. L’uomo aveva appena compiuto quarantacinque anni. In quel periodo aveva iniziato a masturbarsi in profonde riflessioni sulla fine, sentendosi stranamente vecchio, quando i primi dolori apparvero a inclinare il fisico, fino ad allora perfetto. Se fosse nato in Occidente avrebbe potuto invocare la lettura del De Senectute di Cicerone, per dare un senso al tempo che passa. In realtà non ne ebbe bisogno e non perché fosse indiano, quanto perché la vecchiaia per lui non sarebbe mai arrivata. Il responso secco e definitivo del medico dell’ospedale giunse inevitabile e inappellabile. L’uomo era malato e sarebbe certamente morto. Nessuna via di scampo. Non avrebbe avuto tempo per prepararsi alla vecchiaia, né per viverla. Il giorno in cui gli venne fatta conoscere la sentenza morì per la prima volta. Avanish e i suoi fratelli non si accorsero del dramma e continuarono a giocare. La madre, Ekta, pianse ma li rassicurò. "Tornerò presto a sorridere", rassicurò loro. Infatti, l’uomo e sua moglie, pochi giorni dopo la sentenza di morte, decisero che non sarebbe stato il caso di arrendersi facilmente. Se proprio la morte avesse voluto l’uomo, allora avrebbe dovuto lottare per averlo. "Da domani, inizierai la terapia", gli promise Ekta, che aveva parlato con il medico dell’ospedale. "Spero ci possano essere i presupposti", precisò il medico. 158 Il riferimento del medico era ai farmaci antiretrovirali di cui il marito avrebbe avuto bisogno. "Cosa intende, dottore?" domandò Ekta "I farmaci costano", rispose il dottore seccamente. Purtroppo, per il marito di Ekta i farmaci non sarebbero stati disponibili. "Costano troppo e non possiamo permetterceli". Del resto, pochi in India avrebbero potuto permetterseli. Anche Avanish sapeva che senza medicine adeguate, la vita del padre non sarebbe durata a lungo e la morte puntualmente si presentò all’appuntamento. Da quel giorno, la sua vita cambiò in maniera definitiva e drammatica. "Non possiamo continuare a vivere nella casa in cui abbiamo abitato finora", riferì Ekta ai figli, "dobbiamo andare via". Sarebbero mancati i soldi che il padre portava a casa. Quelli che la madre avrebbe guadagnato non sarebbero bastati per vivere in quel quartiere. Si trasferirono dall’altra parte della città, dove la vita era diversa, certamente più difficile. Mancava anche l’acqua e, a volte, l’elettricità. Nonostante stesse per conoscere i mille volti della povertà di Mumbai, Avanish non avvertì il senso di vuoto che, solo dopo la scomparsa della madre, si infilò nel suo cuore. Fece amicizia con Maalai, una mendicante di Dharavi, che aveva conosciuto il secondo giorno, dopo il suo trasferimento. La bambina, nata con una malformazione alla mano a causa dei materiali tossici usati per costruire le baracche, sopravviveva raccogliendo l’immondizia nelle discariche. "Mi aiuteresti domani?" aveva chiesto ad Avanish. "Non l’ho mai fatto" aveva replicato Avanish. "Non è difficile. All’inizio potrai osservare me". "Ma a me non piace l’immondizia". "Qui dovrai fartela piacere". 159 Avanish era rimasto perplesso. Quando viveva a casa dello zio, non aveva mai dovuto farsi piacere l’immondizia. "Non so se ci riuscirò", aveva precisato Avanish. "Dovrai pur sopravvivere", aveva concluso Maalai. Avanish non aveva avvertito quel senso di vuoto neanche quando aveva incontrato Faiza, la piccola prostituta che aveva reclamato le rupie che aveva in tasca per fare l’amore oppure Udar, il lebbroso, abbandonato per strada dai suoi genitori. New York Mentre si trovava, solo, nella sala d’aspetto del pronto soccorso, James venne preso da uno strano senso di vuoto. Non lo aveva mai provato prima. In realtà, lui avvertì solo una strana sensazione che non riuscì a definire. Chi, però, avesse potuto percepire quella strana sensazione, avrebbe senza dubbio detto che si trattava del senso di vuoto. La strana sensazione di James o la sensazione del vuoto per chi avesse saputo definirla, durò alcuni minuti. "È la percezione dell’assenza per la probabile morte di Marita oppure il desiderio della morte di un bastardo?" si chiese James. Sapeva, inoltre, che lui non si era solo limitato a desiderare la morte di un uomo ma si era anche adoperato affinché avvenisse realmente. "Non è il momento di pensare agli altri, morti o vivi che siano", ripeté a se stesso per uscire dalla situazione di empasse mentale in cui si era andato a cacciare. "Non posso restare qui a lungo", pensò nella sala d’aspetto del pronto soccorso, "sono successi fatti troppo importanti". Concluse che lo spiacevole incidente di cui era stata vittima Marita rappresentava un imprevisto che andava accettato. "E se quella strana sensazione fosse riconducibile proprio alla paura dell’assenza di Marita?" 160 James rifletté. "Non posso escluderlo ma solo il tempo potrà darmi delle risposte". Solo il tempo avrebbe potuto stabilire con certezza la natura di quello strano malessere che lo aveva colto. "Aspetto ancora trenta minuti e poi torno in ufficio". Si adagiò sulla poltrona, sospinse il busto indietro e piegò la testa sopra le ginocchia. Poteva riflettere e, nel contempo, evitare le luci della sala d’attesa, che gli comprimevano le tempia. "Le andrebbe un caffè?" James sollevò la testa. Si trovò dinanzi la stessa infermiera, che aveva accolto Marita al pronto soccorso. La riconobbe, guardandole le gambe, tornite come quelle di Marita. "Mi scusi, come dice?" "Domandavo se avesse voglia di prendere un caffè". "Certo…un caffè…" "L’ho vista molto affranto…non possiamo fare altro che aspettare…venga a prendere un caffè…ne ha bisogno". James si alzò dalla sedia, sulla quale era rimasto inchiodato fin dall’arrivo di Marita al pronto soccorso e si accodò all’infermiera. Percorsero un corridoio lungo e giunsero nei pressi di un distributore di bevande calde. L’infermiera tirò fuori delle monete. James ebbe un sussulto. "Mi permetta di offrirglielo". L’infermiera sorrise e rimise in tasca le monete. "Si vede che lei ci tiene molto a quella donna", insinuò l’infermiera. "Non riesco ad amarla ma non posso farne a meno". "La contraddizione degli uomini è connaturato al loro essere". "Non capisco…" "Non potrebbe dare sfogo ai suoi sentimenti, piuttosto che 161 razionalizzarli". "Vuole dire che la mia mente blocca il mio cuore?" "Vedo che conosce la risposta". "Non ci riesco". "A me purtroppo succede il contrario. Ragiono con lo stomaco, anche quando dovrei mettere in azione il cervello". "Immagino…", sorrise James. "Mi butto dentro storie che farei molto meglio a evitare. Scelgo gli uomini sbagliati ed evito con una cura che, definirei maniacale, quelli che potrebbero rendermi tranquilla". "Forse perché la tranquillità non è proprio nella sua natura". "Forse ma mi farebbe un gran bene". "Allora, vede che può comprendermi. Mi dice di non lasciarmi condizionare dalla ragione, di farmi guidare dal cuore e poi rimpiange la tranquillità che non ha e che non potrà mai avere se dovesse continuare ad agire d’istinto". "Sì, ha ragione. Dico sempre di dovere scegliere la tranquillità ma poi…mi succede che la noia della tranquillità mi uccide e torno a vibrare…" "Non sono facili le relazioni…non ci sono ricette…" "Forse ha ragione lei…non ci sono ricette…" Con il caffè ancora in mano, tornarono verso la sala d’attesa. "E ora, cosa pensa di fare?" si informò l’infermiera, prima di lasciarlo. "Non vorrei che fosse troppo tardi. Vorrei continuare a non poterne fare a meno". "E iniziare ad amarla?" "Non lo so. Vorrei non poterne farne a meno". L’infermiera si allontanò. James pensò a suo padre, morto l’anno precedente. Aveva aspettato, insieme a sua madre, nella sala d’attesa del pronto soccorso. 162 Il padre, colpito da un infarto improvviso, si era accasciato nella sua camera da letto ed era stato condotto in fin di vita in ospedale. Aveva provato a lottare contro la morte ma la sera era spirato. L’attesa, che stava vivendo, era tanto simile, eppure tanto diversa. Tornò a sedersi, con le braccia incrociate sopra le ginocchia e il capo chino, per evitare che le luci potessero comprimergli la testa. 16 febbraio Bruxelles Il padre di Eva, Lajos, era nato in un piccolo paese, non lontano da Bratislava. Veniva da una famiglia di contadini poveri. Era entrato in politica giovanissimo, agli inizi degli Anni Sessanta. Non aveva ancora compiuto diciotto anni. Prima nell'organizzazione dei lavoratori, poi nel partito. Era rimasto per sempre legato al suo piccolo paese. Eva, invece, adorava la città. Al paese c’era andata solo qualche volta per visitare i nonni. "Non capisco come si possa vivere in questo universo limitato e ristretto per mentalità e natura". Lajos si era sforzato, per tutta la vita, di essere vicino ai problemi della sua gente. Era onesto. Avevo spirito di sacrificio. "Credo che tu sia un esemplare quasi perfetto di socialista cecoslovacco", gli faceva notare Eva. Una volta era andato a trovarlo mentre lui era al ristorante con alcuni suoi compagni di partito. Erano seduti in un posto laterale, molto defilato. "Perché qui?" voleva sapere uno dei suoi compagni, "il tavolo dei dirigenti è laggiù". "Cominciamo a comportarci da buoni socialisti", aveva replicato fiero, Lajos. Era fatto così. Un'altra volta, aveva assistito casualmente a una conversazione tra due agenti. L'aveva raccontata, tornando a casa. 163 Aveva ascoltato uno dei due. "Per la tua richiesta di identificazione targa della vettura sotto casa, sappi che si tratta dell'auto del funzionario Budnak". L'altro aveva ribattuto, "Budnak? I pezzi grossi vanno lasciati fuori. Pertanto, ho aggiustato il tuo rapporto. Da oggi non scriverai più niente su di lui. Se dovessi vedere qualcosa, lo riferirai soltanto a me". Il primo aveva piegato la testa, mentre l’altro aveva precisato. "Aiuteremo un membro del comitato centrale a liberarsi dai suoi avversari. Non occorre che sottolinei quanto siano importanti per la mia carriera le informazioni che mi darai sul suo conto…e per la tua, ovviamente. Se dovessimo scoprire qualcosa…" Il secondo aveva provato a comprendere: "Noi abbiamo una missione. Abbiamo giurato a suo tempo di essere scudo e spada del partito". Ma il primo non lo aveva neanche lasciato terminare, tranciando subito il discorso e affermando seccamente: "I tuoi dirigenti non sono l'anima del partito? Se uno di loro c'è grato, meglio per noi". Era l'espressione di un'idea di partito socialista e di politica socialista, che portava con sé il cinismo e l'ipocrisia di quella generazione. E la generazione di Lajos portava con sé anche il marchio di parte del fallimento di quell'idea. Non tutto era stato come si sperava. E molti ne avevano approfittato. Lajos, invece, non aveva approfittato dei poveri che soffrivano fame e miseria, ma sapeva che bisognava sopravvivere con la propria famiglia. I suoi figli avevano diritto a un futuro migliore. "Sarò io a mostrarvi il cammino da seguire. Voi siete ancora troppo giovani per tracciarlo". All'epoca, Eva non capiva cosa intendesse dire. Più tardi, crescendo, avrebbe compreso sulla sua pelle il significato di quelle parole. Erano state tanto rassicuranti da piccola, quanto minacciose da grande. Lajos, d’altra parte, non aveva mai creduto a tutto quello che gli avevano detto di credere. Aveva fatto finta, come tutti. "Non ho mai creduto che l'organizzazione politica ed 164 economica dei paesi socialisti rappresentasse un modello valido e funzionante. Nello stesso tempo, non ho mai avuto molti motivi per lamentarmi. In fondo non stavamo tanto male", sosteneva. Lo pensavano in tanti. E lui continuava a pensarlo anche ora che esisteva la democrazia e che sua figlia era andata a Bruxelles. Eva lo considerava un reazionario. "Ti dovresti trasferire in Cina", gli ripeteva ironicamente, "da quelle parti, il socialismo è riuscito a sopravvivere". "Quello non è socialismo", ribatteva Lajos, "è solo forma. Non è sostanza. Quella è sparita anche in Cina". E poi aggiungeva ironico: "Semmai ce ne fosse veramente stata in passato". Lajos aveva sempre avuto l’anima di un socialista realista. E il suo sarcasmo non faceva altro che accentuarla. Quando iniziò a occuparsi di politica credeva che i rivoltosi dell'Ungheria del 1956 fossero eroi che stessero lottando per la propria gente e per la propria nazione. Mentre i comunisti occidentali ignoravano quello che stesse succedendo e credevano profondamente che tutto quanto di negativo fosse successo da quelle parti, fosse dovuto a errori e limiti umani. Pensavano si trattasse di episodi accidentali. In Cecoslovacchia, invece, si aveva piena coscienza di quella che potesse essere una lotta di liberazione nazionale. Il socialismo era nell'aria che la gente respirava. In Occidente, invece, era pura rappresentazione idealistica. Era questa la differenza. Ci si limitava a vivere il proprio tempo. Non era concesso altro da fare. In fondo, il sistema funzionava e i lati positivi compensavano quelli negativi. "Ci è stato dato quello di cui avevamo bisogno, il lavoro, la casa, la vita sociale. Non si dovevano fare tanti sforzi per vivere". "Io non ho mai avuto l'impressione di vivere in una società di diritto con regole rispettate da tutti", gli aveva risposto Eva. "Però, hai sempre avuto la percezione che, tutto sommato, una vita dignitosa fosse assicurata a tutti". "Non ne sono certa". "Io, invece, ho un’altra sensazione. Sempre più forte. La vita dignitosa condivisa di quei tempi non esiste più. Non ci sono più lavoro, casa e sicurezza sociale per tutti. La libertà e il capitalismo 165 avevano promesso ricchezza e benessere per tutti. Nulla é stato ottenuto. Non è nella natura del capitalismo arricchire i cittadini indiscriminatamente. Al contrario! È la legge del più forte che regna". "Per favore, papà, tappati quella bocca". "Come nella giungla. Homo homini lupus", aggiungeva Lajos. Allo stesso tempo, si rendeva ugualmente conto che le idee e le parole che le generazioni precedenti collegavano ai propri desideri di cambiamento rappresentassero ormai idee e parole svilite, vituperate, infangate. Eva lo lasciava parlare, pur non condividendo le cose che fingeva di sostenere. "Il futuro sarà certamente migliore". Non aveva esitato a impegnarsi anche lei in politica e poi a partire per Bruxelles. I sentimenti che nutriva verso il padre erano contradditori. Quanto il padre era un tipo preciso, tanto Eva era mentalmente disordinata. "Lui arriva sempre dritto al cuore delle cose. È come il ferro, come l'acciaio". Eva, invece, tergiversava. "Ci sono mille parabole che mi inseguono e che io inseguo a mia volta". È difficile da decifrare, come se avesse una colpa da espiare. "Se penso all'acciaio, mi viene in mente qualcosa di indistruttibile, ma allo stesso ne percepisco la freddezza". Eva é, invece, calore allo stato puro. Si scioglie nello sguardo di un uomo. È passione, intensità, voluttà. "Ma l'acciaio può battere pericolosamente un materiale morbido e duttile. Mio padre é stato tanto potente e soverchiante da trasmettermi il terrore di essere annientata". Ginevra 166 Si erano lasciati senza neanche scambiarsi un bacio, ma il pensiero di Ana non aveva abbandonato la sua mente. La sera in cui si erano ritrovati a casa sua, l’evoluzione delle cose non era assolutamente andata come Antoine avrebbe desiderato. Aveva preventivato una notte d’amore, si era ritrovato a parlare di India e di morte. A distanza di quindici giorni, i pensieri di quella sera ritornarono con prepotenza nella sua mente. In India aveva perso un amico, a Ginevra aveva perso la sua illusone d’amore. Ana lo aveva chiamato solo una volta. "Al Parlamento europeo di Bruxelles è in atto un’indagine conoscitiva". "Potresti almeno dirmi perché hai deciso di sparire". "Non ho molto tempo, scusami". "Perché mi chiami, allora?" "Perché potrebbe essere importante per te". "Per me sarebbe più importante che mi spiegassi perché hai deciso di sparire". "Te lo spiegherò. Ora non posso dilungarmi, ascoltami…" "Ti ascolto". "Dunque, indagine conoscitiva al Parlamento europeo". "OK! Vai avanti". "Indagine conoscitiva sui brevetti dei medicinali. Tu li hai studiati in profondità quando hai fatto lo stage alla OMC. Potresti certamente essere utile a quella gente". "E io che ci guadagno?" "Ti potrebbe essere offerto un contratto temporaneo". "Interessante?" "E’ interessante, fidati! Da quelle parti pagano molto bene". "Chi devo contattare?" "0032…2…2875347". "Lo farò", rispose svogliatamente Antoine. 167 Non aveva voglia di andare a Bruxelles e non aveva voglia di lavorare al Parlamento europeo. L’esperienza fatta alla OMC era stata sufficiente per consentirgli di odiare la tecnocrazia. "Non intraprenderò mai questa strada", aveva promesso a se stesso. Tuttavia la questione dei brevetti lo intrigava. L’aveva davvero studiata in profondità e la morte del suo amico Madan non faceva altro che infondergli un ulteriore senso di rabbia. "È un’ingiustizia che si compie, giorno per giorno". Prima di buttare giù il telefono, implorò Ana. "Non vuoi vedermi prima di partire?" "Non ora", rispose lei. "Perché?" "Sono le cose della vita". "Avrei diritto a capire". "Capirai…con il tempo capirai. Ora non ha importanza". Antoine interruppe la telefonata. Ana ritornò alla noia del suo lavoro. "La noia é la mia peggiore nemica. Perdo il controllo di me stessa". Ripensò a Javier, a quanto fosse meticoloso e materialista. Un uomo che teneva molto alle sue cose e che non perdeva mai il controllo. Quando lo conobbe, alla Bodeguilla, Ana non aveva ancora compiuto diciotto anni. Lui la vide ballare. "Avvertii il suo sguardo posarsi con forza su di me. Non avevo mai percepito una tale pesantezza". Antoine, invece, era stata leggerezza. Quel ragazzo francese così riservato le sembrava avesse rotto i propri argini. "Era come se fosse sceso dal suo piedistallo immaginario e si fosse mescolato alla plebe". Lei non aveva fatto altro che accoglierlo. 168 "Ho avuto un insegnamento molto rigido". Sua madre, molto religiosa, le aveva insegnato a diffidare degli uomini. "Non farti mai vedere disponibile. Se lo farai approfitteranno di te", le diceva, quando notava le timide occhiate degli uomini scrutarla maliziosamente. In realtà, da bambina non era lei la fonte d’attrazione della famiglia ma sua sorella. La madre per prudenza avvertiva anche lei, perché non le costava nulla ripetere due volte le medesime istruzioni. "Ho sempre avuto un buon rapporto con Dio. Sono convinta che mi volesse bene". Non pensò mai di averlo deluso, nonostante il percorso della sua esistenza avesse intrapreso una direzione che Dio avrebbe potuto non approvare. "Antoine non potrebbe capire. Ē troppo giovane e troppo distante dalla mia cultura", ripeté Ana a se stessa ritornando alla noia del suo lavoro. 2 marzo Bruxelles Chiese dove si trovasse il Parlamento europeo a un passante con i capelli rossi. "Non è lontano da qui. Vada fino al prossimo semaforo e poi svolti sulla sinistra. Segua la strada fino in fondo. Troverà anche lì un semaforo. Dovrà scendere sulla sinistra ma a quel punto non avrà nessun problema a trovarlo. Il Parlamento europeo le si parerà dinanzi". Antoine ringraziò il passante con i capelli rossi e si diresse lungo il percorso che gli era stato segnalato. Prima di giungere al semaforo, si voltò indietro e fece un cenno di assenso al passante. Poi lo salutò con la mano. 169 "Sarà certamente uno scozzese. Per la fisionomia ma anche per l’accento". Il passante aveva usato una terminologia bizzarra. "Io non avrei mai detto ‘le si parerà dinanzi’", pensò Antoine. Giunto a Rue Belliard si trovò di fronte il Parlamento europeo, proprio come gli era stato segnalato dal passante con i capelli rossi. Attraversò Rue Belliard velocemente e si diresse verso l’entrata. "E ora dove vado?" Si rese conto che le difficoltà di localizzazione stavano iniziando. Non era stato difficile trovare l'edificio, molto più complicato sarebbe stato trovare l'entrata. Da Rue Belliard se ne intravedeva una che faceva ad angolo. Aveva l’aspetto angusto. "Non può essere quella". L’entrata che faceva ad angolo non corrispondeva di certo a quella che si sarebbe potuta presumere essere l’entrata di una delle più importanti istituzioni europee. Decise di soprassedere e di cercarne un’altra più consona. L’uomo, presunto scozzese, con i capelli rossi, non gli aveva fornito indicazioni ulteriori. Gli aveva semplicemente detto che una volta superato il semaforo si sarebbe trovato di fronte al palazzo che stava cercando. Antoine si guardò intorno. Fece ancora una decina di passi e intravide una larga spianata, che terminava con delle enormi porte di vetro girevoli. Si guardò nuovamente intorno e avanzò senza indugiare ulteriormente. Giunto nei pressi, si fermò. Attese qualche secondo, sospirò e decise di entrarvi. Un giovane, filiforme, con la barba e con lo sguardo attento gli si fece incontro. "La reception, per favore", si informò Antoine. "Proprio dietro di lei", precisò il giovane filiforme, con la barba. Antoine non poteva non notarla, eppure era brillantemente riuscito a non scorgerla. Probabilmente era emozionato. Aveva preso appuntamento con l’ufficio della parlamentare europea per le ore undici e trenta. "Non mi prenderà più di un’ora". 170 Dopo sarebbe andato a mangiare. Non conosceva molti indizi sul membro del Parlamento europeo che avrebbe dovuto incontrare. Ana gli aveva semplicemente detto: "Si chiama Eva. È giovane. È slovacca". Antoine aveva in mano il voluminoso dossier sui brevetti, in un folder di colore rosso, che aveva sotto il braccio destro. Ripensò al momento in cui Monsieur Herbert glielo aveva consegnato. "Potrai trovarlo lungo, farraginoso e poco chiaro ma ti assicuro che vale la pena approfondirlo". "Di cosa si tratta?" si era informato Antoine. "Si parla di malattie e di aspetti giuridici". Antoine venne colpito dal nome apposto sulla copertina, TRIPS, che in inglese significa anche viaggi. Aveva considerato il viaggio la migliore rappresentazione del suo modo di essere. "Non riconosco alcun porto che possa essere sicuro". Per questo cercava continuamente dei posti nuovi. Quando Monsieur Herbert gli consegnò il dossier sui brevetti, il suo primo pensiero corse, pertanto, al viaggio. "A me piace molto viaggiare…", precisò. Monsieur Herbert lo interruppe, "…il dossier non ha nulla a che vedere con i viaggi. TRIPS sta per Trattato sui diritti derivanti dalla Proprietà Intellettuale". "Non ne ho mai sentito parlare", rispose Antoine. "D’ora in avanti ne sentirai parlare spesso. Tradizionalmente, la dicitura proprietà intellettuale indica un sistema di tutela giuridica dei beni immateriali, che hanno una sempre maggiore rilevanza economica. Ci si riferisce cioè ai frutti dell’attività creativa e inventiva umana, come ad esempio le opere artistiche e letterarie, le invenzioni industriali, il design e i marchi". 171 "Malattie e proprietà intellettuale. Che strano?", notò Antoine, rileggendo il titolo del dossier, che si trovava tra le mani. "Non te ne meravigliare, Antoine. L’incidenza di malattie quali l’Aids, la tubercolosi o la malattia del sonno, influenzano profondamente l’economia di un paese. Il Kenia, per esempio, ha subìto una diminuzione del PIL dell’uno e cinque per cento, in seguito alla decimazione della propria popolazione compresa tra i quindici e i trentacinque anni". "Un dramma…" "Le emergenze umanitarie stanno diventando emergenze strutturali. Il settantacinque per cento dell’umanità ha accesso al quindici per cento dei farmaci mondiali. Mentre l’Occidente gode di farmaci contro la calvizie, l’obesità e l’invecchiamento cutaneo, il Sud del mondo non ha i farmaci essenziali per curare alcune importanti malattie mortali. Ė vero che non ci si ammala per mancanza di farmaci. La salute è anche legata a fattori economici quali l’acqua e le condizioni igieniche, ma tre milioni di individui sono morti nell’ultimo anno a causa di malattie curabili. Molti ammalati di malattie incurabili avrebbero potuto vedere il loro tenore di vita migliorato, per non parlare dei tredici milioni di orfani presenti nel mondo a causa dell’Aids". Antoine aveva scoperto, nel suo ultimo viaggio in India, che anche il suo amico Madan era stato una delle vittime dell’egoismo dei paesi occidentali. "Tra i tredici milioni di orfani, ci sono anche i tre figli di Madan", disse a monsieur Herbert, che non capì. Da allora, il dossier rosso che aveva sotto il braccio era diventato ancora più rosso, sempre più sporco di sangue. "L’accessibilità ai farmaci salvavita é una questione complessa che tocca i governi occidentali, gli interessi delle grandi multinazionali farmaceutiche e le politiche di sviluppo economico", concluse Monsieur Herbert. Giungendo al Parlamento europeo, sentì il cuore stringersi. Era emozionato. Ora ne aveva la conferma. Rilesse l’appunto sulla copertina del dossier. 172 Il TRIPS sancisce i diritti della proprietà intellettuale dei medicinali. Di fatto, per i venti anni successivi a un ritrovato farmacologico, il prodotto può essere commercializzato solo dalle industrie che detengono il copyright. Come se non bastasse, i venti anni possono essere facilmente raddoppiati, cambiando leggermente la composizione, la posologia o scoprendo che il farmaco sia in grado di avere effetti anche su altri disturbi. La protezione brevettuale eccessiva comporta un grave danno ai paesi che di questi farmaci hanno un grandissimo bisogno e che non possono pagare gli alti prezzi imposti dalle multinazionali farmaceutiche. New York Era ancora distesa nel suo letto di ospedale, ma finalmente la prognosi era stata sciolta. Marita non era più in pericolo di vita. L’aveva scampata per un pelo. Non riusciva a parlare ma comprendeva benissimo. Muoveva la testa e le mani. Riusciva a comunicare, benché si trattasse di una comunicazione senza parole, forse, proprio per questo, più efficace. Erano le sedici e diciotto minuti del 2 marzo 2006. Dopo quarantadue minuti, James sarebbe andato a trovarla. Ci andava ogni due giorni, alle cinque del pomeriggio. Si fermava per oltre un’ora al capezzale del suo letto. Le teneva la mano e comunicavano senza parlare. Il maledetto incidente li aveva ravvicinati. Nei quarantadue minuti che la separavano dal consueto incontro, Marita ebbe modo di pensare al passato. "Sono stata certamente innamorata. Forse, anche lui di me". Passò velocemente in rassegna il suo rapporto. "È stato proprio il passato a separarmi da lui. Non mi ha mai accettato". I tanti uomini che avevano avuto il suo corpo provocavano in James un senso di rigetto. "Non é mai riuscito a gestire le sue emozioni, benché più volte 173 mi avesse promesso di farlo". A nulla erano valse le parole di Marita. "Gli ho detto che ho baciato solamente altre due persone prima di lui". Era stato un modo per fargli capire che prima di lui aveva veramente amato solo altri due uomini ma le sue parole non erano servite a niente. Le troppe mani che l’avevano toccata, i membri, giovani e vecchi, che l’avevano penetrata, lo sperma che lei aveva visto troppe volte fuoriuscire, non potevano essere dimenticati. "In fondo, posso anche capire le sue ragioni. Probabilmente, al suo posto, avrei reagito alla stessa maniera". Mentre, nella sua mente affaticata, si affollavano i pensieri, James arrivò. Entrò in camera con delicatezza, sfiorando quasi la porta. Marita sorrise e mosse entrambe le mani, accennando un saluto. James prese la sedia, addossata alla parte, l’avvicinò al letto e si sedette. Le prese la mano e la guardò intensamente. Si rese conto di avere voglia di lei. "L'amore, finché dura, é in bilico sull'orlo della sconfitta", pensò Marita. Sperava che il suo amore, mano a mano che avanzasse, potesse dissolvere il proprio passato, lasciando alle spalle trincee fortificate in cui potersi ritrarre e cercare rifugio in caso di guai. Comunicarono senza parlare. "Non so cosa possa riservarmi il futuro". "Ho solo bisogno di avere la fiducia sufficiente per disperdere le nubi e debellare l'ansia della crisi". "L'amore é un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto e imperscrutabile". "Ciò non toglie che quando ci si innamora ci si illuda che possa essere per sempre". "Il legame di coppia rappresenta, nel modo più puro e acceso, il desiderio di eternità. Costituisce l'esigenza di superare i limiti e l'indeterminatezza di una persona, ma non solo. Rappresenta anche la voglia di superare la contingenza delle cose per poterne fissare i confini 174 nell'eternità". "Il tradimento rappresenta in modo esemplare, lo scetticismo nei confronti dell’identità dell’uomo. Si disperde nel mondo esterno, ingabbia gli uomini nella propria maledetta precarietà. Ci fa capire come tutto sia vacuo. È un pugno nello stomaco". La prima volta che James aveva tradito la moglie, però, non fu per noia, ma per rabbia. "Avvertivo una sorta di regressione adolescenziale unita all'esigenza di sedare il mio rancore verso la donna in quanto tale". Un turbinio di emozioni si era innescato nella sua anima. "Sentivo il bisogno di incontri nei quali armonizzare lo scarico delle pulsioni libidiche con il bisogno di dare e ricevere tenerezza ed affetto". Il giorno che incontrò casualmente Marita nel ristorante di Brooklin, dove lei faceva la cameriera, il suo quadro psicologico era del tutto impreparato alla nuova situazione. "Con te ho varcato la soglia del tradimento con tutta la rabbia, il risentimento e la furia di cui fossi capace". Non erano soltanto i suoi quotidiani sbalzi di umore a muovere l’adrenalina dentro di lui, ma altro. Aveva radici più profonde. Il suo rancore atavico verso la madre, che aveva abbandonato il padre, fuoriusciva incandescente dalle sue vene. "Ho finito per scagliare quel rancore contro di te, colpevole ai miei occhi di essere la donna sulla quale avrei potuto riversare la mia rabbia, attraverso una spirale di gelosia retroattiva". La vita gli stava offrendo un’altra possibilità. "Questa volta non me la farò sfuggire". Promise a se stesso che non avrebbe sprecato la sua seconda possibilità. "Sono stato superficiale ed egoista. Non ripeterò gli errori che ho fatto". Guardò fuori dalla finestra. Non era ancora calato il buio benché le luci della città fossero già intense. 175 Bruxelles "Dovrei farle conoscere un funzionario di nome Enzo Faramelli", disse Eva ad Antoine. "Perché?" rispose Antoine. "Se oggi sono qui con lei è perché questa persona ci ha messo in contatto. Voglio dire…non lei direttamente…ma senza la sua, diciamo… intermediazione non ci saremmo incontrati". "Non ci saremmo mai incontrati?" chiese Antoine, sorpreso. "Non ne avremmo avuto motivo", replicò Eva. Antoine faceva fatica a capire. Accigliò la fronte, come faceva di solito, quando le cose non gli apparivano chiare. Eva si rese conto di essere stata assai criptica. La sua spiegazione necessitava di una esplicitazione più convincente. "Sono stata contattata dal signor Faramelli poche settimane fa. Io sono a capo della Commissione sanità del Parlamento e mi occupo della riforma della legislazione farmaceutica. Il signor Faramelli mi ha trasmesso un dossier". "Un dossier? Che tipo di dossier?" volle sapere Antoine. "Le spiego tutto dall'inizio". "Bene!" "Deve sapere, ma forse lo sa già, che a Bruxelles agiscono oltre mille gruppi di interesse. A volte si tratta di associazioni di piccole dimensioni, spesso avulse dalle preoccupazioni generali della gente. Altre volte di grandi e potenti gruppi di pressione". "Lobby, intende?" "Gruppi di pressione, lobby…le chiami come vuole. Sono stati capaci di far passare di tutto, dal divieto di vendere mele sotto un certo calibro a esenzioni fiscali per particolari business, dal diritto di definire cioccolato un materiale fatto con il grasso di jojoba e non con burro di cacao". "Le definirei massonerie". 176 "Le ripeto, le chiami come vuole. Diciamo allora che si tratta di massonerie di ogni genere, poteri forti e poteri occulti. Hanno assunto quindicimila lobbisti con il compito di diffondere i loro interessi ed i loro diktat che ricadono inevitabilmente sui cittadini". "Se la legge lo consente, non c'è niente di male", aggiunse Antoine. "La legge lo consente. Ha ragione! A volte, però, predispongono accordi quasi segreti". "Non mi stupisce". "Beh, le ho riferito tutto questo per farle capire che il signor Faramelli mi ha fatto presente uno di questi accordi semi-segreti". "E come potrei aiutarla? Io sono stato stagiaire alla OMC, ho viaggiato ma sono completamente estraneo a qualsiasi tipo di associazione". "Lo so. Non si preoccupi", gli rispose Eva, sorridendo. Il sorriso di Eva rassicurò Antoine. "Avevo bisogno di un aiuto ed ho telefonato alla OMC. Una funzionaria mi ha segnalato il suo nome ed eccoci qui a discutere", precisò Eva. Antoine sorseggiò il caffè che Eva aveva fatto portare. Continuò ad ascoltare la giovane parlamentare europea. "Ho iniziato il mio mandato da quasi due anni". La sua nuova attività era scaturita da un impegno politico nato per caso, più per contrastare il predominio paterno che per reale convinzione personale. Eppure l'idea della nuova Europa l'aveva conquistata, benché Bruxelles non corrispondesse per niente al suo ideale di città. "È molto diversa da Bratislava". Sul Danubio, Eva ci andava per svolgere i suoi allenamenti di kayak. A pochi minuti dal centro della città, in un angolo disperso, nel nulla della landa desolata slovacca. Il paesino che stava a mezz'ora di cammino, il più vicino, era un ammasso di casupole semidistrutte. In una di queste casupole si fermava a mangiare per meno di ottanta corone. Piatto unico con dolce e vino bianco. Di quelle giornate, ad 177 Eva era rimasto il colore rosso del sole che l’accecava. "Quando tornavo dall'Austria, al passaggio della frontiera, ero subito colpita dal colore rosso intenso. Mi fa dimenticare in fretta il grigio di Bruxelles". Tutto è grigio a Bruxelles. Grigio il cielo quando è bel tempo, grigia è la strada, grigie sono le case e grigi sono i vestiti delle persone che vi risiedono. Grigia è anche l'erba che ti trovi sotto i piedi, quella poca salvata dagli ammassi di blocchi cementificati, che hanno fatto sprofondare la città in un buco nero di cemento e catrame. "Grigio é anche il mio sentimento, quando passo la frontiera per prendere l'aereo a Vienna". Il rosso della sua Slovacchia risplende sui cartelloni pubblicitari che si trovano lungo la strada, colorati, di merce americana. Il primo anno, dopo la caduta del muro di Berlino, erano due, il secondo quattro, il terzo otto e via di seguito, in una continua crescita consumistica, che continua ad avanzare sempre più velocemente. "La gente di Bratislava vuole recuperare gli anni persi sotto il socialismo". Intanto, mentre si recupera il tempo, i prezzi corrono, anche quelli sempre più velocemente. "All'inizio, i costi erano irrisori per tutto. Per esempio, nei ristoranti sembrava quasi che la gente volesse pagarti per un piatto unico con il dolce e il vino bianco". Eva era nata nel centro di Bratislava. "Carino, a parte gli omini di ferro, così inquietanti, che ti osservano dal tombino o mentre sei seduto su una panchina". Non sono dei bei monumenti. Eva se li era ritrovati anche a Bruxelles. "A Place Sainctaclette ce n'è uno di bronzo molto bizzarro". Si tratta di un poliziotto che esce dal tombino e che afferra un ladro per una gamba. "Quando li vedevo a Bratislava, pensavo fossero stati messi dal regime socialista per farci capire che, qualunque cosa facessimo, il grande fratello ci osservasse". 178 In Slovacchia c'erano ancora gli altoparlanti, usati per avvisare che iniziava o finiva il coprifuoco o per impartire ordini. "Ora sono lì che gracchiano qualche vecchia canzone". Al padre, vecchio socialista, gli altoparlanti piacevano. "Ha sofferto il giorno in cui gli abbiamo detto che la sezione del partito avrebbe chiuso. Ha conservato la tessera e nessuno avrebbe potuto portargliela via". E nessuno lo avrebbe fatto. Forse nessuno avrebbe neanche avuto voglia di farlo. "Mio padre pensava che il giorno in cui avrebbero chiuso la sezione non sarebbe mai arrivato". Tutti lo pensavano. "Invece arrivò anche quello. ‘E’ finita, Lajos!’ Disse il compagno segretario della sezione. ‘Come finita?’ Rispose mio padre. ‘E’ finita per davvero. Da domani si cambia.’ Non voleva crederci. Il monumentale partito comunista chiudeva bottega. E per un muro che veniva abbattuto. ‘E poi quel muro di chi era? Era forse nostro?’ Continuava a ripetere, in maniera quasi ossessiva". L’uomo di acciaio, freddo, capace per anni di celare qualsiasi sentimento, aveva lasciato trasparire, per la prima volta, una vera emozione. "Il muro caduto ha significato anche il via libera per me. Lui ha provato a trattenermi ma non c'é riuscito". "Proverò a chiamare il mio amico Pavol, vedrai lui riuscirà a trovarti un buon lavoro. Vedi, tua sorella l’abbiamo sistemata", le diceva il padre. Ma Eva non voleva. "Ero troppo orgogliosa per lasciarmi sistemare da lui. E poi non volevo rimanere ingabbiata in quel mondo. C’era altro e c’era di meglio. Ne era convinta!" Antoine era rimasto ad ascoltare. "Perché mi racconta la sua vita?" "Perché voglio che sappia che di me si può fidare". 179 "Non capisco. Francamente non capisco". "Capirà che si tratta soprattutto di una questione di fiducia". Mumbai Ekta se ne era andata via per sempre. Morta per la stessa malattia che aveva colpito il marito. Molto probabilmente era stato proprio lui a contagiarla. Prima di morire cercò di affidare i suoi tre figli allo zio, fratello di suo marito. "Ci mandi via perché temi che io possa contagiarti. Dopo la mia morte, riprendi i miei figli", lo aveva implorato Ekta. "Sono malati anche loro, Ekta", le aveva detto il cognato, rifiutando l’offerta. "Non lo sono". "Lo sono, Ekta. Non voglio che contagino i miei figli". "Ti prego". "Mi dispiace! Non posso", le aveva risposto seccamente il cognato. Dopo la morte del fratello, pretese che tutta la famiglia abbandonasse la sua casa. Ekta provò a resistere fino all’ultimo giorno. "Mi dispiace! La mia casa non è un sanatorio. Non posso assolutamente permettere che i miei figli possano correre dei rischi", concluse il cognato. Aggiunse che comprendeva le sue difficoltà. "Allo stesso tempo, ti prego di capire le mie ragioni". Ekta non disse nulla. Ritornò nella sua casa, benché sentisse che le forze iniziavano a mancarle e che non ci sarebbe stato un lungo percorso da compiere davanti a lei. Parlò con suo figlio, Avanish, la sera stessa. "Oramai sei un uomo. Sarai tu il padre e la madre dei tuoi 180 fratelli". "No, non ne sono capace". Era stato orgoglioso quando aveva ricevuto l’investitura da parte della madre di fare da padre per i suoi fratelli, ma ora la madre gli chiedeva di compiere uno sforzo troppo grande per lui. "Ho quindici anni. I miei amici non fanno queste cose". "Dovrai farlo. Devi promettermi che lo farai", gli disse la madre. "Non ne ho le forze". "I tuoi fratelli potrebbero morire se tu non te ne occuperai". "Moriranno ugualmente come morirò io". "Non pensarlo". "Come posso non pensarlo. Nostro padre è andato via l'anno scorso, quest'anno tocca a te. A chi toccherà l'anno prossimo?" Ekta non rispose. Il dolore per la sua malattia non era tanto grande quanto il dolore di vedere il figlio in pena. "Ho accettato la morte di nostro padre con rassegnazione. Ora dovrei accettare anche il dolore per la tua morte?" "So che non sarà facile". La vita dopo la morte del padre era stata difficile. Le poche provviste, che avevano avuto dallo zio il giorno del congedo erano finite. "Ho l’impressione di essere stato risucchiato da un buco nero, sempre più nero e sempre più profondo. Un buco che sembra non avere più un limite di fronte al quale potersi arrestare". Il dialogo tra Ekta e il ragazzo terminò in un lungo silenzio. "Prendi i secchi che si trovano per terra, al lato della porta di entrata, e vieni con me", disse Avanish al più grande dei suoi fratelli, "devi imparare come prendere l'acqua". I due uscirono per strada e si incamminarono verso la grande fontana. La sorella più giovane rimase in casa con la madre. Lungo la strada, quando ormai mancavano poche centinaia di metri alla fontana, 181 incontrarono Udar. "Hey, Udar!" urlò Avanish. Udar gli sorrise e gli fece segno di avvicinarsi. Se ne stava appoggiato al muro, un bicchiere di carta usurato con alcune rupie davanti e un vecchio cartone bianco sotto il culo. "Sto andando a prendere l’acqua", lo informò Avanish. "Allora devi andare all’altra fontana", gli suggerì Udar, "le ultime gocce le ho viste scorrere questa mattina". "Maledizione!" esclamò Avanish. Era stanco e non aveva voglia di camminare ma non poteva fare altrimenti. In casa era finita anche la riserva di acqua che, normalmente, sua madre conservava. "Ne approfitto per salutare Faiza", pensò. La sua giovane amica viveva in una baracca, vicino la fontana. Era stato Abhik a trovargli quel rifugio. "Torna a casa", disse a suo fratello, "vado io solo a prendere l’acqua". Giunse nei pressi della baracca di Faiza. La porta era socchiusa. La spinse ed entrò. "Chi è?" la sentì urlare. "Avanish!" "Non entrare", ribatté Faiza. Avanish, che era già entrato, fece alcuni passi indietro e ritornò sull’uscio. La baracca di Faiza aveva due ambienti. Nel primo si perdevano, dispersi negli angoli, una serie infinita di stracci, nel secondo, invece, c’erano solo un materasso ricoperto da un panno bianco e due sedie di legno. "Aspetta, Avanish", aggiunse Faiza, dopo qualche secondo. Avanish rimase sull’uscio, in attesa che Faiza gli desse il permesso di entrare. Si mise sdraiato per terra. Faceva caldo più del solito e senza acqua non avrebbe resistito a lungo. Dopo pochi minuti, vide uscire un uomo, né giovane né vecchio che lo guardò senza 182 rivolgergli la parola. "Entra, entra…", gli ordinò Faiza. Avanish si sollevò da terra e si precipitò in casa. Trovò Faiza, vicino al letto, che si stava rivestendo. Sulla sedia poche rupie. "Non c’era acqua all’altra fontana", le disse Avanish. "Non mi sorprende. Non c’è quasi mai". "Sono passato a salutarti". "Hai fatto bene, Avanish. Mi fa sempre piacere vederti". "Anche a me", le sussurrò Avanish. "Dai, avvicinati…", lo invitò Faiza ad avanzare, sgranando i suoi enormi occhi neri. Avanish andò a sedersi vicino a lei. "Resta un po’ qui, anche se Abhik non vuole che perda tempo". "Perché?" "Vuole che lavori". "Capisco". "Ma domani, nel pomeriggio, devo andare a trovare mia madre. Se vuoi, puoi venire con me". "Certo, domani pomeriggio", promise Avanish. "Ora vai, però…" Avanish si alzò dal materasso e si avvicinò alla porta. "A domani" "A domani", rispose Faiza. New York Emer Brok era incazzata ma non poteva fare altro che aspettare. 183 "Vorrei rientrare prima a casa. Mia figlia ha la febbre". "Devo necessariamente vederti", le manifestò James, "fatti trovare nel mio ufficio esattamente alle otto". James abbandonò l'ospedale alle sei, come faceva di solito. Fece chiamare un taxi e si diresse verso la sede di Axa. Durante il tragitto, l’immagine di Marita, immobile nel suo letto di ospedale, si alternava alle sue strategie di mercato. Ripercorse mentalmente la discussione che aveva condotto alla decisione di agire sulla regolamentazione. "Bisogna combattere il sistema delle licenze obbligatorie e allungare il periodo di protezione brevettuale. Ecco la nostra soluzione. Né innovazione né marketing delle malattie, né pubblicità né articoli su riviste scientifiche. Dobbiamo agire dal lato della regolamentazione focalizzando l'attenzione sul mercato europeo". James riprese fiato, poi aggiunse: "vedete, per esempio, quello che è successo in India a causa di un farmaco per la terapia dell'Aids…" "Dobbiamo agire dal lato della regolamentazione e sotto traccia", aveva precisato Antony Vitale. "Dobbiamo iniziare dall'Europa. Non possiamo venire allo scoperto nei paesi in via di sviluppo perché potremmo attirare l'attenzione della stampa mondiale" aveva suggerito Emer Brok. "Certo! Dobbiamo agire con discrezione. Il mercato europeo ci interessa particolarmente. La nostra quota è intorno al due per cento. Non è male", aveva risposto James. "Non è male. Potrebbe andare meglio", aveva risposto Emer. James le aveva chiesto di presentare il quadro della situazione, utilizzando alcune slides. 184 • Molte leggi che regolano il sistema dei brevetti, concedono le licenze obbligatorie, in una varietà di situazioni. • Gli accordi TRIPS stabiliscono disposizioni specifiche che devono essere seguite se una licenza obbligatoria é rilasciata. •• Tutti i sistemi brevetto conformi ai requisiti L'accordo TRIPSdiconcede che devono le istanzeessere per una licenza obbligatoria dell'accordo TRIPS possano essere revocate in particolari situazioni, in casi particolari di emergenza nazionale o di estrema urgenza in casi di uso pubblico non commerciale. • Sebbene l'accordo TRIPS permetta la concessione delle licenze obbligatorie, le Nazioni spesso mancano della tecnologia per adempiere una richiesta locale. Pertanto non risulta possibile, produrre i farmaci e importarli. • Questa istanza fu indirizzata nella Dichiarazione di Doha, che riconobbe il problema e richiese al TRIPS Council di trovare una soluzione. • Axa Pharmaceuticals deve fare pressione per ammorbidire l'applicazione di questa dichiarazione e ridurre gli effetti sul bilancio. Inoltre, deve fare pressione sugli organismi internazionali per allungare il periodo di protezione del brevetto. *******Manca numero di pagina 165 "Occorre agire sulle organizzazioni internazionali e iniziare un'opera persuasiva", aveva concluso Emer. James aveva successivamente individuato e ripartito i compiti. "Io mi occuperò di fare pressione in Europa. Emer, invece, 185 coordinerà il lavoro al livello del TRIPS Council. Antonhy, farà qualche missione nei paesi che più ci interessano. La lista la stabiliremo nei prossimi giorni, sulle basi delle indicazioni economiche che ci verranno fornite". La sua regressione si interruppe quindici minuti dopo, quando giunse in ufficio. Erano esattamente le otto. Emer lo stava aspettando. "Io dovrei andare, James. Sai…mia figlia…" "Certo, Emer…scusami ma volevo che da questa sera fosse chiara la nostra strategia. Non possiamo più perdere tempo. Axa non ha alternative. È una questione di vita o di morte…per noi e per l'azienda". "I conti sono in rosso. Ormai, lo sanno tutti". "Dovevano restare segreti". "Impossibile farli rimanere segreti". "Si, lo so. Credevo che non avrebbero fatto sapere i dati reali". "Infatti, non mi riferisco a quelli". "E allora come fai a saperli?" "Ti ripeto, li sanno tutti". "Ma tutti chi?" "Io, Anthony e Francis". "Tu da chi li hai saputi?" "James, per favore…ti basta sapere che li so". "OK, OK…comunque, se i dati dovessero essere confermati, rischiamo di saltare tutti, io per primo, ovviamente". "Immagino…" "Non abbiamo altra scelta". "Se ti riferisci alle decisioni prese, condivido". "Beh, sappi che la decisione è stata resa esecutiva". "Te lo hanno comunicato". "Certo! La strada dovrebbe essere spianata". 186 "Credi?" "Credo di sì". "Sei troppo ottimista". "Allora, cazzo, perché avremmo dovuto farlo?" "Perché non avevamo scelta ma questo non significa che la strada sia spianata". "Va bene, voglio dire…abbiamo riconquistato margini di manovra". "Lo vedemo". "Emer, non è un gioco". "È un brutto affare, James". James scosse la testa. "Vado James…", disse Emer. "A domani", le rispose James. Bruxelles Dalla posizione in cui si trovava Antoine, non riusciva ad osservare il cielo. Avrebbe dovuto piegarsi sulla sedia per farlo e, probabilmente, non avrebbe visto che uno squarcio. "Per caso sono stato implicato nella l'industria farmaceutica. Avevo iniziato il mio speranza di approfondire alcuni aspetti internazionale. Non pensavo assolutamente d'industria farmaceutica". questione che riguarda stage a Ginevra con la legati al commercio di dovermi occupare "Chi glielo ha proposto?" "Ana De La Fuente mi ha proposto di occuparmene e io ho accettato. Leggendolo, ho trovato il dossier molto interessante". "Ana De La Fuente?" "Si, Ana, mi ha detto che lei poteva essere interessata a me". 187 "Possiamo darci del tu", propose "Certo". "È stata lei a segnalarmi il tuo nome". "Era il mio consigliere di stage". "Telefonai all'OMC alla ricerca di informazioni e lei mi propose di parlare con te. Mi disse che te ne eri occupato in profondità. Avevi fatto un lavoro molto utile per l'istituzione". "Non avrei mai immaginato di rimanerne tanto colpito". "Lo hai fatto per delle ragioni particolari?" "Sono stato colpito dalla vicenda capitata a un mio amico. Preferisco non parlarne ora". "Capisco". "Mi fa molto male pensarci". "Non è necessario che ne discutiamo". "Non ora". "Che idea ti sei fatto?" "L'accesso ai prodotti farmaceutici a prezzi accessibili nei paesi in via di sviluppo sarebbe essenziale per ridurre la povertà, aumentare la sicurezza umana e promuovere i diritti e lo sviluppo sostenibile". "Ritieni che la politica dell'Unione europea debba massimizzare la disponibilità di prodotti farmaceutici a prezzi accessibili nei paesi poveri?" "C'è bisogno di adottare con urgenza misure supplementari per trasferire le tecnologie nel settore dei prodotti farmaceutici". "Posso interrompere la discussione?" domandò sommessamente l'assistente di Eva, una ragazza giovane, anch'essa slovacca. "Entra, entra…", le disse Eva. "Avresti un appuntamento tra dieci minuti. Sono già arrivati. Ti aspettano…" "Certo…", rispose Eva. 188 "Se deve andare, possiamo riprendere quando vuoi….", le propose Enzo. "Vorrei solo chiarire alcuni aspetti". "Quali?" "Il meccanismo creato dalla decisione OMC e dal protocollo sull'accordo TRIPS rappresenta solo una parte della soluzione al problema costituito dall'acceso ai medicinali". "Credo sia il punto dal quale si debba obbligatoriamente iniziare. Sono indispensabili altre misure. Bisogna sostenere la trasparenza da parte dei richiedenti del brevetto". "Appunto! Questo è il tema principale. Io sono stata allertata da Enzo Faramelli. Sembrerebbe che ci sia in atto un tentativo di corruzione da parte di un'industria farmaceutica nei confronti di alcuni alti funzionari della Commissione. Enzo Faramelli non può denunciare il fatto perché il suo capo è direttamente coinvolto". "Perché non si è rivolto alla polizia?" "Si tratta di un caso non semplice da risolvere. Occorre un'iniziativa politica". "Dovresti spiegarmi quello che è successo". "Lo farò ma ora non posso" "Prima di tutto bisogna davvero capire come funzionino le cose". "Occorre un'indagine, Antoine". Eva si alzò dalla sedia e strinse la mano ad Antoine. "Ora devo proprio andare", gli disse. Antoine raccolse le sue cose e uscì dalla stanza. 189 ANNO 2007 – LA PENA 31 gennaio Bruxelles "L'imputato si alzi". La voce del giudice riecheggiò nell'aula. Seguì un trambusto di sedie che permise all'accusato di alzarsi. James non si sentì affatto tranquillo. Quando il giudice disse: "Portatelo via", le due guardie che gli stavano vicino, lo presero sottobraccio. Lo condussero in una cella piccola e con poca luce. C'erano un letto e uno sgabello. Non poteva guardare fuori poiché il finestrino era molto in alto e lo sgabello non era sufficiente a raggiungerlo. Cominciò a trascorrere il suo tempo infinito. "Le notti sono buie e silenziose e io dormo senza sogni", scrisse all’alba, "i giorni passano e non ricordo più bene nemmeno come sia fatto fuori". Iniziò a rendersi conto che senza sogni non sarebbe stato possibile immaginare un futuro diverso. "Anche la fantasia non vola più. Tutto sembra tetro, grigio e maledettamente uguale a se stesso". Si affacciò sulla sua angoscia e vide un abisso. Comprese la sua condanna, senza, tuttavia, comprenderla del tutto. "Ho la sensazione marcata della noia. Il sole non illumina mai la mia cella". Per molti giorni venne disturbato dall'assenza dei sogni. Un giorno, nel cortile, calciò un sasso che finì lontano. Poi la rabbia lo assalì e gli montò dentro come la lava di un vulcano. Pianse, di rabbia e le sue lacrime gli bruciarono le guance. Non poteva più amare Marita. Né sarebbe stato più amato da lei. Ebbe una sensazione terribile di soffocamento. 190 "Ho perso definitivamente i miei sogni e le mie illusioni. Se solo potessi tornare indietro". La sua maledetta gelosia retroattiva lo aveva allontanato da lei, che lo aveva amato con tutte le sue forze. "Non sono riuscito ad accettare il suo passato tetro". Tuttavia, il buio della sua cella, per contrasto, gli faceva apparire quel passato meno oscuro. "Tutti gli uomini che hanno approfittato del corpo di Marita mi sembrano più lontani. Tutti indistintamente". Erano stati centinaia, forse migliaia gli uomini che avevano fatto l'amore con lei, alcuni solo velocemente, altri esplorando e percorrendo il suo corpo in ogni minimo dettaglio. "Marita lo ha fatto per soldi, non per amore. Non avrebbe potuto amare mille uomini". Nella vita ci si innamora al massimo tre volte gli aveva detto, la sera in cui aveva provato a convincerlo di amarla. La donna con le gambe tornite, che aveva acceso la sua fantasia, era giunta negli Stati Uniti dal Portorico quando aveva solo sedici anni. "Mi fu sufficiente un solo giorno di permanenza a New York per comprendere fino in fondo il mio destino", gli disse. Inizialmente vi andò incontro con naturalezza. "Non mi importava vendermi, mi gratificava il guadagno". Poi cominciò ad annoiarsi e decise di smettere, senza smettere fino in fondo. "Dopo i primi tre anni di soggiorno, iniziai a vendermi per scelta, solo a chi mi piaceva". Dopo la nascita del suo primo figlio, smise di vendersi del tutto. "Avevo guadagnato abbastanza e potevo finalmente svolgere un lavoro normale". Iniziò a lavorare nel ristorante in cui James l'avrebbe incontrata 191 qualche anno dopo. Prima di cominciare aveva dovuto concedersi solo una volta al suo boss, ma non le era costato molto perché ritenne di averlo fatto per una giusta causa. Non ne fu neanche completamente dispiaciuta. Il suo boss successivamente non le chiese più di averla e lei si chiese sempre il perché. "Forse non le piaccio abbastanza o forse non ho saputo dargli molto". Il giorno in cui James la incontrò, Marita non aveva fatto l'amore con nessuno. Anzi, erano quasi tre mesi che non faceva più l'amore. Non avvertiva neanche la necessità di farlo. "Ero serena e la conversazione con James mi divertì". Non poteva immaginare di avere colpito l'immaginario erotico di James con le sue gambe ben tornite. "L'incontro con lei fu un'attrazione puramente erotica", ricordò James. Marita, invece, ne apprezzava le maniere. Eleganti, dolci da gentleman. Anche la sua prima telefonata si innestò lungo questo percorso. "Marita, gradirei molto invitarla a cena. Mi piacerebbe potere approfondire la discussione iniziata al ristorante", le disse James con delicatezza. "Accetto con molto piacere", rispose Marita. Da allora si sviluppò un turbinio di passioni che James fu in grado di gestire solo per qualche settimana. Dopo subentrò la gelosia retroattiva. "Non mi importava nulla che lei avesse deciso di dedicarsi completamente a me, nonostante fossi sposato". Marita non avrebbe preteso nulla, se non il suo amore, ma James non volle concederglielo. "Il suo passato mi tormentava". Marita non glielo aveva nascosto, benché glielo avesse fatto comprendere poco alla volta. Avrebbe voluto prepararlo, ma il suo sforzo non diede i risultati sperati. 192 "Avrei anche potuto nascondere il mio passato. Anzi, sarebbe stato perfino legittimo". Alla fine non si sentì di farlo. "Un amore come questo non può avere angoli nascosti. Ha bisogno della luce del sole per poter risplendere. Altrimenti, non dovrebbe esistere". Il giorno in cui James comprese fino in fondo il passato di Marita, a New York faceva quasi caldo. Una leggera brezza proveniva dall'Atlantico. Marita aveva le finestre del suo appartamento spalancate. James la stava osservando e lei si lasciò andare. "Per la roba che ho visto, era inevitabile che sarei diventata una puttana. Sapevo che avrei avuto un po' di assistenza ma non sarebbe stato abbastanza. Io, invece, volevo una posizione. È così che funziona, no?" James ascoltava. "Ho sempre vissuto a Brooklin. Certo non è Manhattan ma non è male. A molti di quelli che sono arrivati con me è andata decisamente peggio. C'è il tramonto più bello fino a quando ti accorgi di non essere parte di quel tramonto". "E allora che fai?" "Hai bisogno di liberare la mente. Sono una maestra del travestimento, muovendomi velocemente nelle strettoie riconosco che non ho davvero niente da nascondere". "Non hai mai avuto paura?" "Mi ricordo quando ci spaventavano, quando ci venivano dietro. Una volta dicevano che stavano cercando di prenderci ma hanno preso quelle sbagliate". "Chi cercava di prendervi? Non capisco". "La polizia. Voleva rispedirci nelle nostre baracche ma non ce l'ha mai fatta. Sono cresciuta con gente che odiava, proprio sotto il mio stesso tetto. Non c'era mai cibo, né il whiskey. Non c'era la penicillina. Mia sorella, una volta stava commettendo un omicidio vendendo droga…questa è stata la mia vita". James ascoltava il racconto concitato e disordinato di Marita. 193 Non era facile seguirla nei suoi voli pindarici. Era chiaro che quella donna avesse un passato molto diverso dal suo. Marita finì per raccontargli tutto, dal suo arrivo negli Stati Uniti e del sesso consumato dappertutto, dapprima con chiunque fosse disposto a pagarla, poi solo con chi fosse disposta a concedergli qualcosa in più. Gli raccontò anche del lavoro trovato al ristorante e dell'amore preteso dal suo boss. Marita descrisse ogni dettaglio, anche quelli che avrebbe potuto continuare a custodire, senza che la sua coscienza potesse sentirsi profanata. Lo fece con leggerezza, benché utilizzasse espressioni forti. "L'uomo che mi ha portato qui, mi ha messo in un club, gli piacevano quelle senza un quattrino. Guardava mentre mi scopavano, mentre lui ne scopava altre. Solo quando il gioco diventava corrosivo, lui tornava verso di me". "Ora capisco perché fosse cosi difficile per te baciare", affermò James. "Certo! Puoi dare il tuo corpo a chiunque, ma baciare lo riservi solo alle persone che ami", replicò Marita. "Perché hai impiegato tanto tempo a baciarmi?" "L'amore richiede tempo, tesoro. Per avermi si deve avere pazienza". "Ma che dici? Di quale pazienza parli? Ti ha avuto quasi tutta New York!", esclamò James, con irritazione. Marita piegò la testa e poi rispose: "Non capisci niente...niente", e scoppiò in un lungo pianto. James si avvicinò verso la finestra, guardò le luci della città che sembravano risplendere con un'intensità che non aveva mai visto prima. La prese tra le braccia senza dire nulla. Marita rimase stupita dai suoi atteggiamenti. Si sentiva attaccata e desiderata allo stesso tempo. Fecero l'amore, poi si lasciarono. I giorni successivi furono diversi da quelli precedenti. Marita avvertì un distacco progressivo da parte di James. Volle sapere se l'amasse ma lui non rispose. "Allora non vale la pena che io ti veda", annunciò Marita. Non reagì più ai suoi messaggi e alle sue telefonate. Il loro comune obiettivo fu attendere che la fiamma della passione si spegnesse lentamente. Finirono per ritrovarsi solo dopo un anno. 194 "Decidemmo di incontrarci per pranzo al Joe’s Tokyo restaurant di Tribeca". Sushi e sashimi per James, tempura per Marita, che odiava il pesce crudo. All'appuntamento, James giunse in orario, Marita, invece, in ritardo. Lei lo vide, alla fermata della metropolitana e cercò di raggiungerlo. Provò ad attraversare velocemente la strada che lo separava da lui. Non vi riuscì. Una Toyota grigia che proveniva in senso contrario, la prese in pieno, non riuscendo a frenare che dopo dieci metri. James seguì l'intera vicenda dal posto in cui si trovava e corse verso di lei. Anche altri corsero verso Marita. L'autoambulanza sopraggiunse velocemente. Venne trasportata nell'ospedale più vicino al luogo dell'incidente. Sembrava morta. "Avvertii una profonda tristezza e un forte risentimento verso me stesso". Gli stessi sentimenti che ora provava nel cortile del carcere in cui era rinchiuso, esattamente un anno dopo aver rivisto Marita. "Ho cercato di resistere alle voci di dentro, ma alla fine ho mollato". Troppo forte erano i suoi sentimenti nei confronti della donna per consentirgli di accettare il suo passato. Rinchiuso nel carcere, Stava avvertendo tutto il peso dei suoi errori. "Ho ancora mia moglie e i bambini. Mi sono rimasti loro". Benché il cortile fosse di dimensioni medie, si mise a correre forte, come se, correndo forte, fosse possibile tornare indietro. Infine cadde in ginocchio, singhiozzando, rivolgendosi ai suoi dei. Si era preso gioco dell'amore e ora non avrebbe più potuto amare. Aveva rigettato il suo amore per Marita ed aveva provocato la morte di una persona. "A cosa mi serve più questa vita? Forse mia moglie, i miei bambini…" Cadde nel buio. Rientrò nella sua cella e si buttò sul letto. 195 New York Aveva ripreso a camminare, sebbene ancora non correttamente. Zoppicava leggermente e l'andatura, claudicante, la rendeva riconoscibile da lontano. Alle due e mezzo, decise di fare una passeggiata. Indossò il cappotto e uscì di casa. Faceva ancora freddo. Giunta in strada, sbottonò il primo bottone in alto per permettere all'aria fresca di poter raggiungere la sua pelle. Tirò fuori dalla tasca una busta ed estrasse un foglio di carta: Marita, un lampo gelato ha cambiato il mio modo di vedere le cose finora. Penso sempre di potermi abituare alle situazioni, di svegliarmi al mattino e di ritrovarmi accanto a te. Come sempre, come ti aspetti che succeda. No, non dare mai per scontate le persone che ami. Giri lo sguardo e la persona che ti ha accompagnato fino a quel momento può non essere lì con te ad attendere una nuova alba. In questa gabbia in cui mi sono rinchiuso, ho visto tutti i momenti stupendi che mi hai regalato. Li ho rivisti, credimi! Ho sentito ancora le stesse emozioni che, però, sono solo eco delle sensazioni che sei riuscita a farmi provare. Semmai, Iddio vorrà concedermi ancora qualche attimo di vita con te, vivrò a fondo ogni momento che passeremo insieme. È una promessa! Forse, quegli attimi non arriveranno mai. Muoio al pensiero di non avere più un domani in cui svegliarmi accanto a te. Inutile mentire per tenertelo nascosto. Ora posso solo conservare ogni singola frazione di tempo che porterà impressa il tuo nome. La rilesse ancora una volta. No, non dare mai per scontate le persone che ami. Giri lo sguardo e la persona che ti ha accompagnato fino a quel momento può non essere lì con te ad attendere una nuova alba. Durante la sua degenza, James era stato in ospedale ogni pomeriggio. Comunicavano senza parlare. "Speravo che quei momenti potessero rappresentare l'inizio di una nuova vita insieme. Non ho mai creduto che potesse abbandonare la moglie e i figli e non mi interessava neanche che lo facesse. Avrei voluto che fosse riuscito ad accettarmi per quello che ero, una donna 196 innamorata", rifletté Marita. In quell’istante non ricordava bene, ma aveva l'impressione che James, nel letto dell’ospedale, le avesse sussurrato di amarla. Lo avrebbe fatto quando lei non aveva ancora completamente ripreso tutte le sue funzioni. "Sei l’angelo della mia vita. L’unico che abbia amato". Non era certa che James avesse pronunciato quelle parole ma le piaceva pensare che lo avesse fatto. Erano trascorsi tre mesi e dodici giorni dal giorno in cui lo aveva visto per l'ultima volta, nei pressi del Moma Museum. "Non ricordo il nome del caffè". James era apparso teso. Discussero di tappeti. "Che ne dici di prendere in affitto un loft a Soho?" Aveva proposto James "…e magari ironicamente Marita. ricoprirlo di tappeti?" Aveva risposto "Perché no! Potremmo andare noi due direttamente a Fes a comprarli…magari nella medina". "Un viaggio insieme a te? Non ci posso credere", aveva replicato Marita, con la stessa ironia, che aveva mostrato in precedenza. Poi aveva aggiunto, con tono ironico: "Ne abbiamo sempre parlato ma non lo abbiamo mai fatto". "Non mi sembra una cattiva idea iniziare da Fes". "Sei sicuro che non sia pericoloso andare in Marocco?" "Potrebbe esserlo per me che sono americano", precisò James, sorridendo. "Non ridere. Non credo che gli americani siano ben accetti da quelle parti". James le spiegò che il Marocco é un paese arabo moderato e che non avrebbero avuto problemi. "È un'esperienza che vorrei tu facessi", disse James a Marita. 197 "Perché?" "Per saltare in un universo completamente diverso dal nostro. Vorrei che tu visitassi la medina di Fes. Non puoi immaginare quanti vicoli che si intersecano…un labirinto…" "Perché vuoi che visiti una medina?" "Perché è vivace, animata, proprio come nel Medioevo". "E perché vuoi che sia proprio quella di Fes?" "È la medina più bella che io abbia mai visto. È la parte più vecchia della città. Un tempo ospitava la più antica università del mondo. Era il tempo della dinastia dei Merinidi, quando era la capitale del regno del Marocco al posto di Marrakech. I monumenti principali, le locande, le carovane di cammelli che venivano dal deserto e che trasportavano argento e spezie, i fundkus, i palazzi, le moschee, le fontane, quasi tutto risale a quel periodo". Marita fece un cenno di assenso. Poi volle sapere dei tappeti. "Ne ho in mente tanti di quelli che ho visto a Fes. Vedrai, ti piaceranno". Marita ripeté il cenno di assenso, senza capire fino in fondo cosa James le volesse dire. Si lasciarono poco dopo avere bevuto un cappuccino e una tazza di thè alla menta, che James ordinò per fare gustare a Marita l'odore del Marocco. Uscendo dal locale, presero direzioni opposte. "Non potevo immaginare che avremmo percorso strade parallele che si sarebbero incrociate solo all’infinito". Il giorno seguente, James venne arrestato dall'Interpol. La magistratura belga aveva spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti. I capi di accusa erano particolarmente gravi. "È stato accusato di essere il mandante dell'omicidio di un uomo, avvenuto a Bruxelles un anno fa". Gli agenti lo prelevarono nella sua abitazione all'alba. James non diede l'impressione di essere sorpreso. Sua moglie, invece, rimase frastornata e lo fu per molto tempo. "Dove si trova il Belgio?" si informò. 198 "In Europa", le risposero. "In Europa, ci va per affari". "Evidentemente non solo per quello". Bruxelles La prima volta di James a Bruxelles fu a causa dell’appuntamento con Jeroen Van Boxem, direttore generale del dipartimento industria della Commissione europea. Riforma della legislazione farmaceutica aveva scritto nella sua agenda. Discussero a lungo. "La riforma della legislazione é destinata ad apportare vantaggi concreti ai pazienti e ai consumatori europei, nonché alla salute degli animali, in un contesto caratterizzato dalla rapidità dei progressi scientifici in campo farmaceutico", precisò il direttore generale, sollevando lo sguardo. James si sforzava di mostrare interesse. Era stanco. In aereo non era riuscito a dormire se non per un paio di ore. Si era girato e rigirato sulla sua poltrona in business class, senza riuscire a soddisfare la sua stanchezza. "In fondo, il direttore generale non dice nulla di interessante", pensò. Quindi, avrebbe potuto divagare ma non gli sembrava il caso. "Devo sforzarmi di tenere gli occhi aperti". Pertanto, annuiva. Lo faceva con cadenza regolare e seguendo una procedura quasi liturgica. Il direttore generale parlava, lui accigliava lo sguardo per alcuni secondi, poi rilassava i muscoli del viso, sfociando in un sorriso abbozzato, accompagnato da un lieve movimento del capo dall'alto verso il basso. Le mani le teneva incrociate, il busto dritto. "La revisione si propone due obiettivi fondamentali, la necessità di garantire un elevato livello di protezione della salute ai cittadini europei e il completamento del mercato interno dei prodotti farmaceutici". 199 Venne interrotto da un rumore sordo, proveniente dalla porta di entrata. Qualcuno stava bussando. Smise di parlare di legislazione farmaceutica ed esclamò in francese: "Venez, venez". Entrò una signora di mezza età. Bionda, probabilmente tinta, non alta, sottile in vita e dai fianchi larghi. Enzo Faramelli si voltò repentinamente, anche James lo fece. "Venez, venez", ripeté il direttore generale. La bionda, probabilmente tinta, sorrise. Avanzò lentamente, attenta a non fare cadere il vassoio di legno, che aveva tra le mani. Sul vassoio, cinque bicchieri di plastica, due grandi termos, alcune bustine di zucchero, altre di thé. Lo posò con grazia sul tavolo. "Merci, merci", ringraziò il direttore generale. Ripeteva sempre due volte, come se una non fosse sufficiente. Dopo aver predisposto i termos, i bicchieri di carta, le bustine di zucchero e di thé sul tavolo, la signora tinta bionda fece ritorno sui suoi passi ed uscì. "Per favore, potresti versare del caffè?", sollecitò il direttore generale ad Enzo. Enzo eseguì. "Io preferirei un thé", disse James. Enzo avvicinò il termos dalla sua parte del tavolo. James lo versò nel bicchiere. Intanto, il direttore generale, prima ancora che James iniziasse a bere, riprese il discorso, laddove il rumore sordo provocato dalla porta, lo aveva interrotto. "Dobbiamo promuovere la competitività dell'industria farmaceutica e raccogliere le sfide della globalizzazione". "Assolutamente!" ribatté secco James. "Bene! La nostra proposta mira a fare approfittare i pazienti di un maggiore accesso a farmaci nuovi e innovativi. La riforma interessa anche l'industria farmaceutica attraverso l'introduzione di procedure più chiare e il permesso di eseguire test sui medicinali prima della scadenza dei brevetti". 200 "L'attività di ricerca e di sviluppo, nonché l'innovazione tecnologica assumono un ruolo fondamentale nell'economia moderna e tale ruolo è destinato a diventare sempre più centrale", precisò James. Jeroen Van Boxem fece un cenno con la testa mentre Enzo finse di prendere appunti. Dopo la breve introduzione, James prese la parola. "Gli strumenti per lo sviluppo dell'innovazione tecnologica e dell'attività di ricerca sono i diritti di proprietà intellettuale, la cui centralità emerge nell'ambito del commercio internazionale". James si guardò intorno per verificare la reazione dei suoi interlocutori. Fece un attimo di pausa. Jeroen Van Boxem fece nuovamente un cenno con la testa, mentre Enzo continuò a fingere di prendere appunti. James proseguì: "Emerge, altresì, la necessità, oggi, impellente, di una tutela adeguata dei diritti di proprietà intellettuale, che operi su scala internazionale e che sia il più uniforme possibile". James fece di nuovo una pausa. "Devo verificare la reazione dei miei interlocutori", pensò, mentre introduceva i principi-chiave della sua esposizione. Jeroen Van Boxem fece l'ennesimo movimento con la testa, mentre Enzo chiese di intervenire. Il direttore generale gli fece un cenno con la mano per consentirgli di prendere la parola. "Bisogna, però, tenere presente che la tendenza internazionale al rafforzamento della tutela della proprietà intellettuale può facilmente sfociare in eccessi protezionistici che, nel lungo periodo, pregiudicano le condizioni di concorrenza internazionali". "Cosa vuol dire?" domandò James, sorpreso. "Voglio dire che si arreca danno, in particolare modo, ai paesi in via di sviluppo e a quelli di recente industrializzazione". "Lei potrebbe anche avere ragione", chiarì James, "ma tenga conto che negli ultimi decenni, la ricerca farmaceutica è stata condotta in prevalenza dall'industria. Non le sembra che sia necessario concedere la possibilità di tutelare gli investimenti effettuati con il brevetto?" 201 "Mi sembra opportuno", intervenne il direttore generale, pregando James di andare avanti. "Se lei si riferisce all'accordo TRIPS…" "Non specificatamente", rispose Enzo. "Beh, comunque, tenga conto che il TRIPS ha stabilito una serie di regole per il sostegno e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. La parte relativa ai brevetti ne regola la commercializzazione e stabilisce l'accesso ai farmaci nei paesi aderenti all'organizzazione mondiale per il commercio", chiarì James. "Se vuole parlare di TRIPS….beh, il brevetto su un farmaco garantisce un monopolio sul prodotto o anche su un determinato processo di produzione, vietando, in tutti gli stati membri, la produzione, l'impiego e il commercio di prodotti equivalenti, senza l'autorizzazione del titolare del brevetto". "Mi sembra sacrosanto", ribadì James. "Le può anche sembrare sacrosanto, ma in questo quadro si inserisce il problema dell'accesso ai farmaci essenziali nei paesi in via di sviluppo", fece notare Enzo. "Il considerevole costo dei farmaci per curare la malattie specifiche è determinato principalmente dagli oneri della ricerca e dello sviluppo del prodotto stesso e dal ruolo che ogni medicinale svolge nel mantenimento di una ricerca complessa e di una struttura di sviluppo", precisò James. "Gentlemans, sarebbe opportuno mettere da parte la questione TRIPS. La prego, vada avanti, signor D'Angelo", intervenne il direttore generale per tentare di chiudere quella che stava diventando una querelle personale tra James ed Enzo. New York Il secondo viaggio di James a Bruxelles si verificò a distanza di tre settimane dal primo. L’organizzazione della missione di lavoro si svolse in maniera lineare. Otto giorni prima della partenza, Nicole, la segretaria, gli chiese: "Desideri alloggiare nello stesso albergo in cui sei 202 stato la volta scorsa?" "Certo. Non vedo perché cambiare". Nicole non fece alcuna considerazione, se non un leggero movimento del capo, difficilmente decifrabile. James la guardò, mentre si stava allontanando. Prima che uscisse, esclamò: "Camera doppia, per cortesia". A quel punto Nicole ebbe un sussulto. "Tua moglie viene con te?" "Può darsi", le rispose James. In realtà, aveva chiesto alla sua amante di accompagnarlo. Nicole rimase perplessa, ma fece in modo di nascondere i suoi dubbi a James. Uscì dall’ufficio, chiudendo la porta dietro di sé. James rimase solo. Da diversi giorni, non vedeva Marita. Si erano incontrati un paio di settimane prima. Da allora, solo telefonate e qualche messaggio. Avevano provato a chiarire una situazione che vedevano da angolature completamente opposte. "Voglio che tu mi dica che mi ami". "Non posso". "Provaci…almeno per una volta". "Non posso". "Allora, che senso ha continuare questa specie di relazione che abbiamo?" James non rispose. Ripensando a quella conversazione, Marita, ritenne che probabilmente avrebbe anche potuto temporeggiare. "Se fossi andata con lui, forse gli avrei impedito di mettersi nei guai". Un anno prima, però, aveva scelto di procedere diversamente. "Per me non era importante il senso, quanto la forza per uscirne. Non avevo la forza per dire basta ma James, senza averne coscienza, aveva oltrepassato il limite". 203 Quando James le telefonò per dirle che avrebbe voluto portarla con sé a Bruxelles, Marita stava lavorando. Squillò il cellulare mentre indicava a due clienti abituali il loro solito tavolo. Rispose solo dopo che i due clienti ebbero preso posto. "Dimmi", gli rispose in maniera secca, quasi perentoria. "Come stai?" "Bene. Dimmi", ripeté Marita con lo stesso tono secco, quasi perentorio. "Vorrei vederti" "Sai dove trovarmi. Ora ti lascio. Devo lavorare". Marita ripose il cellulare in tasca. James non ebbe neanche il tempo di aggiungere una sola frase. "La odio", pensò semplicemente, dopo averla percepita fredda e adirata. Gli atteggiamenti di Marita lo avevano fatto cadere in uno stato di prostrazione. "Temo di perderla", sussurrò immediatamente dopo avere pensato all’odio. Aggiunse: "Quando avverto la sensazione dell’assenza, mi prende l’ansia". Dopo quella telefonata, James chiamò sua moglie. "Non aspettarmi, non torno a casa presto. Devo lavorare. Mangerò un paio di ravioli al ristorante cinese, vicino l’ufficio". "Se devi lavoravi, non preoccuparti", prese atto la moglie. Sarebbe stato appropriato definire il loro, un lungo gelido rapporto. James aveva conosciuto Helen alla Columbia University esattamente il 2 aprile 1989. Quel giorno non faceva né caldo né freddo e James ricordò per sempre quella data, anche per la vittoria dei Kniks contro i Celtics. Il fidanzamento non ebbe sussulti particolari. La cerimonia che li unì in matrimonio fu sobria, all’insegna del minimalismo e con pochi invitati. I primi anni furono sereni. James lavorava nell’ufficio risorse umane della Marlden & Marlden, un’azienda media, come ce ne sono tante a New York. Il salario di base non era elevato ma i benefit gli garantivano un discreto benessere. Visti dalla parte della moglie, i primi anni non furono altrettanto sereni. Due 204 gravidanze difficili le impedirono un approccio sistematico e continuativo al lavoro. La nascita dei due figli completò la compagine familiare non facendola, però, mai diventare una vera famiglia. Rimasero rapporti freddi. Amichevoli, ma freddi. "Con te vedo il fuoco della passione, che con mia moglie non si é mai acceso", disse a Marita il primo giorno che fecero l’amore. Mentre passeggiava, Marita ripercorreva la sua relazione. "Avrei potuto aspettare che lui maturasse la convinzione di poter vivere fino in fondo i suoi sentimenti nei miei confronti". Era venuto a conoscenza della sua vera storia solo dopo aver fatto l’amore con lei per la quinta volta. Fino ad allora, aveva vissuto l’illusione di essere stato il suo maestro, di vita e di sesso. "La prima volta fu tenero. James non durò a lungo ma riuscii ugualmente a godere". La seconda volta, invece, l’atto sessuale fu molto più significativo. "Mi prese in auto, mentre stavo tornando a casa. Mi infilò la mano destra in mezzo alle gambe. Non lo fece con delicatezza. Fu piuttosto burbero". Marita non gradì. "Le spostai la mano ma lui insisteva e lo lasciai fare". James introdusse due dita nella sua vagina. "Mi sentii come una bambola di pezza nelle sue mani". Non fu una sensazione piacevole. "Molte volte nella vita ho avuto l'impressione di essere una bambola di pezza". Con lui avrebbe voluto non esserlo. "Non lo faceva con malizia. Era il modo di esprimere la sua sessualità". Tuttavia, la sensazione della bambola di pezza era sempre lì, insieme ai suoi ricordi e alle sue frustrazioni passate. "Lo lasciai fare, come avevo lasciato fare tanti altri prima di 205 lui". Quando finalmente James ebbe finito, si sentì come sollevata. Lo prese tra le sue braccia e gli chiese di baciarlo. "Sulle labbra, teneramente", aggiunse, guardandolo dritto negli occhi. Solo allora fu felice. Smise di tormentare le sue gambe e la sua vagina. "Continuò a baciarmi, teneramente". Marita non ebbe più la sensazione della bambola di pezza e si lasciò andare, confondendo le sue emozioni con quelle di James. Si baciarono a lungo prima di fare l'amore. E quando finirono, furono entrambi felici. Da parte sua, James aveva interpretato l’iniziale ritrosia di Marita come il frutto dell’inesperienza. "Quella donna ha già dei figli ma probabilmente non é mai stata presa come una donna dovrebbe esserlo", pensò, ingenuamente. Ebbe come un fremito di orgoglio e si distese al volante della sua Mitsubishi. Marita, invece, rimase fredda sul proprio sedile, reclinando la testa sulla sua spalla per dimenticare le brutte sensazioni della bambola di pezza. "Confondendo i miei pensieri tra le mille luci di New York, mi abbandonai al dolce tepore di quel momento". James tornò a casa, soddisfatto. Pensò che avrebbe iniziato progressivamente Marita ad un'attività sessuale meno tenera e più sensuale per sprigionare la sua carica erotica. "Non conosce le sue potenzialità", pensava, mentre lentamente apriva la porta del suo appartamento. Quella notte non avrebbe mai potuto immaginare la realtà. Forse, sarebbe stato meglio non scoprirla. 206 Bruxelles Marita rimase a New York e James partì da solo. Giunto a Bruxelles alle sette e venticinque del mattino orario locale, non ebbe il tempo di andare in albergo. Si recò immediatamente all'incontro che aveva fissato in agenda. Alle nove e venti entrò nel dipartimento industria della Commissione europea e ne uscì visibilmente soddisfatto due ore dopo. Durante la riunione più volte ebbe il timore che gli interventi improvvidi di Enzo Faramelli potessero compromettere la sua strategia. Le espressioni convincenti di Jeroen Van Boxem lo rassicurarono. "Di lui ci si può fidare", pensò, "le osservazioni di quel funzionaretto fuori dal mondo non faranno breccia". James aveva ricevuto il mandato di fare pressione su tutti gli organi comunitari, coinvolti nel processo decisionale, per ottenere l'estensione del periodo di protezione del brevetto sui prodotti farmaceutici. "Nessun altro deve legittimamente copiarli". In altre parole, più ricavi e meno concorrenza. L'estensione della protezione avrebbe significato un'adeguata ricompensa in termini di bonus e azioni per il management di Axa. Durante il consiglio di amministrazione, si era infatti stabilito che se i profitti dell'azienda fossero cresciuti del cinque per certo, la ricompensa per il management sarebbe stata valutata intorno ai dieci milioni di euro. "Ci vogliono parametri precisi da applicare, ovviamente, ma l'ordine di grandezza può essere stabilito nell'ordine di quella cifra", aveva detto il direttore generale. "Interverremo in Europa. Tenteremo di cogliere le opportunità che dovessero provenire dalla riforma della legislazione farmaceutica", aveva precisato James. All’incontro con Jeroen Van Boxem aveva giocato abilmente le sue carte. Uscendo dal dipartimento industria, appariva visibilmente 207 soddisfatto. "Jeroen è stato molto comprensivo con le esigenze di Axa ma, il futuro é incerto. Occorre un piano ben più dettagliato per potere evitare possibili trappole". Gli passò davanti Enzo Faramelli. James stava riponendo i documenti nella borsa di pelle, dopo averli attentamente ripiegati. Enzo si accorse della sua presenza. "A presto!" salutò. "A presto!" rispose James. Enzo infilò la porta e si diresse verso il Wild Geese. Aveva appuntamento con Jan. Percorse velocemente la strada che lo separava dal pub irlandese. Lo raggiunse in cinque minuti. Varcò la soglia d’entrata e scorse il suo compagno, seduto non lontano dal banco. "Conoscendo le sue abitudini, avrebbe preferito un tavolo defilato ma la sala é già piena e i tavoli migliori sono occupati", pensò. Il tavolo, scelto da Jan, aveva il difetto di essere vicino al bancone ma il pregio di trovarsi in un angolo piacevole del locale. La luce arrivava per magica rifrazione e sempre preceduta da un ronzio di motore. Penetrava come un improvviso e gradevole lampo giallo, che illuminava le sedie di legno scuro con le gambe rachitiche. Il Wild Geese sembrava scricchiolare per l'improvviso mutamento di luce. Ogni cosa sembrava assumere un aspetto nuovo. Anche la macchina del caffè smetteva di sbuffare i suoi vapori d'aria, mentre lo spinatore raccoglieva l'ultima goccia di birra che se ne stava indecisa se cadere o meno nella vaschetta. Il vero problema del posto scelto da Jan era al tavolo adiacente. Spesso capitava un malaugurato cliente che se ne stava lì per oltre due ore, fumando e battendo insistentemente l'accendino sul tavolo. E quel giorno, purtroppo, il malaugurato cliente, stava lì. Era seduto, fumava e batteva l'accendino sul tavolo, come al solito. Quando Enzo entrò nel locale, Jan lo vide da lontano. Gli fece segno di avvicinarsi. Enzo fece un cenno con la testa. Si mosse lentamente, guardandosi intorno. "Ho chiesto a Matthew di metterci anche solo una lampadina 208 appesa al muro. Non sono i problemi di estetica che contano. Almeno riusciremmo a guardarci in faccia senza sminuire quell'aura da refugium peccatorum, che da un tocco così retrò", disse Enzo, non appena si sedette. Quel giorno sembrava che tutto il mondo si fosse ricordato di avere un appuntamento in sospeso, mentre la giovane cameriera irlandese correva avanti e indietro dal bancone ai tavoli. Aveva le gambe corte e un po' storte. Salutava i clienti con un tono talmente basso da sembrare un miagolio. Dal fondo della sala, qualcuno stava cercando di attirare la sua attenzione, mentre sgusciava tra i tavoli con lo sguardo altrove. Il grembiule bianco svolazzava per la sala, nascondendo a malapena i polpacci carnosi. Jan la bloccò e ordinò per lui e per Enzo. "Ali di pollo ben abbrustolite con patatine all'aceto". Chiese di portare anche un paio di birre. La cameriera con le gambe corte e un po' storte fece in fretta. Dopo soli cinque minuti ritornò al tavolo con le ali di pollo, le patatine all'aceto e le birre. Apparecchiò il tavolo in maniera speculare, con le stesse cose, da una parte e dall'altra. Jan afferrò un'ala di pollo ben abbrustolita. Stava per addentarla, quando si accorse dello sguardo di Enzo. Gli occhi bassi sembravano fissare un punto indefinito nel piatto. "Che fai? Non mangi?" Enzo mugugnò con gli occhi bassi. "Non hai fame? Non mangi?" ripeté Jan. "Oh, scusami. Certo, certo che mangio". "Prendi quella", esclamò particolarmente abbrustolita. Jan, indicandogli un'ala "Avrei voglia di vomitare, prima ancora che mangiare". "Cosa dici?" "Avrei voglia di vomitare per lo spettacolo a cui ho assistito questa mattina". "Spettacolo?" 209 "Dramma, direi…proprio un dramma". "Dramma?" "Uno spettacolo avvilente. Un dramma". "Quante volte ti ho detto di non somatizzare il lavoro? Esprimi all'esterno i conflitti che non hai mai risolto". "Ma dai, smettila….io provo rabbia, tanta rabbia". "Le cause dei disturbi psicosomatici hanno origine nei rancori vissuti in esperienze infantili o adolescenziali. Un conflitto irrisolto può provocare rabbia verso il prossimo". "In altri termini?" "Voglio dire che la repressione della tua libera espressione sessuale continua a provocarti rabbia. Si tratta di una manifestazione inconscia del tuo ego represso". "Se avessi ascoltato quello che ho ascoltato io…" "Tesoro, ti ascolto…" "Non si può negare l'accesso ai medicinali alle persone più bisognose e più povere". "Chi vuole negarlo?" "In pratica sarebbe questo il risultato". "Il risultato di cosa?" "Il risultato finale". Jan non capì. Enzo era stato difficile da decifrare. Nessuno avrebbe potuto comprendere quello strano discorso. Seguì un lungo silenzio. Jan ed Enzo mangiarono le ali di pollo abbrustolite. Alla penultima ala di pollo, Enzo finalmente fece chiarezza. "Gran parte dei farmaci prodotti in Occidente, costa troppo per i paesi africani. Molta gente muore per malattie che si possono curare. Il problema è che non possono permetterselo. In India, per esempio, si producono farmaci generici che vengono poi venduti in Africa. I farmaci generici prodotti, però, vìolano i brevetti". 210 James, non lontano, poté osservare Jan ed Enzo discutere animatamente. New York Un'ora prima del previsto decollo, Bruxelles venne ricoperta di nuvole nere, grasse come vacche da mungere. Si scatenò l'inferno e non fu possibile decollare né atterrare. Il Boeing che avrebbe dovuto riportarlo a casa, rimase fermo sulla pista. Poté ripartire solo dopo avere accumulato due ore di ritardo. Spento il segnale di cinture allacciate, James si fece portare una coperta e allungò il sedile. "Sono stanco. Ho bisogno assolutamente di dormire". Durante il volo, tuttavia, non dormì soltanto. Ebbe anche il tempo di pensare a Marita. "Le telefonerò il prima possibile. Mi manca", concluse. L'aereo atterrò a New York e James si recò immediatamente negli uffici di Axa per riferire i risultati del colloquio con Jeroen Van Boxem. Seduti al tavolo, trovò i soliti tre, Emer Broke, Francis Daily and Anthony Vitale. "Ho trovato un buon supporto a Bruxelles", esordì James, "il direttore generale comprende le nostre ragioni ed è disposto a sostenere la nostra proposta". "Vuoi dire che riusciremo ad estendere il periodo di protezione della proprietà intellettuale?" "Voglio dire che abbiamo buone possibilità di farcela, benché…." "Benché?" chiese Antony Vitale. "Benché Bruxelles non è Washington e gli USA non sono l'Europa". "Siamo diversi", constatò Emer. "Siamo diversi ed abbiamo sistemi diversi", ribatté James. "Diversi, ma simili", disse, a sua volta, Francis. 211 "Il nostro sistema è differente dal loro. Da noi è chiaro chi decida, come e quando. Da loro non si comprende bene chi abbia il potere e quali siano i tempi". "E questo direttore generale quanto conta, allora?" "Può proporre ma non decide. La sua proposta deve essere approvata". "Puoi essere un po' più chiaro? Un direttore generale che propone ma non decide non ha nessuna competenza", borbottò Antony. "Si tratta di un sistema complicato. I principali organi decisionali sono tre. La Commissione, in cui lavora Jeroen Van Boxem, propone, in seguito il Consiglio e il Parlamento approvano la proposta". "Tu dicevi che bisognava agire su Van Boxem. Ora tiri fuori altre giri". "Si tratta di una situazione delicata. Ha ragione, Francis", sostenne Emer. "Lasciatemi spiegare. Van Boxem è il personaggio chiave. Tuttavia, non è sufficiente. Bisognerà agire anche su altre componenti. Le decisioni vengono prese su stadi diversi e tutti i livelli vanno coperti. Occorrerà agire anche sul Parlamento e sul Consiglio". "Se Van Boxem non basta, allora siamo fottuti". "Un attimo! Avete fiducia in me?" sollecitò James. "Sai già come agire?" lo incalzò Emer. "So come agire ma bisogna individuare gli altri personaggi sui quali fare pressione". "Tornerai a Bruxelles?" "Certo. Fra tre settimane. Non bisogna perdere tempo". James illustrò le sue intenzioni al resto del team. Non tutti conoscevano il sistema decisionale europeo. Alcuni non lo conoscevano per niente. "Costituisce un mistero difficile da svelare a noi americani"... 212 In realtà, il processo decisionale europeo coinvolge diverse istituzioni. Alla base si pone la Commissione, che ha il potere di proposta. In seguito intervengono il Parlamento europeo e il Consiglio. Di norma, è la Commissione a proporre le nuove leggi, ma sono il Consiglio ed il Parlamento ad adottarle. Ogni proposta per una nuova legge europea si basa su un articolo specifico del trattato che costituisce la base giuridica e determina il tipo di procedura da seguire. La procedura di codecisione è quella utilizzata di prevalenza in base alla quale il Parlamento e il Consiglio condividono il potere di adottare le proposte fatte dalla Commissione. Di fatto, le leggi europee si basano sulla buona cooperazione tra le istituzioni. "Jeroen Van Boxem dovrebbe gestire la proposta. Tuttavia, non ci può assicurare che la proposta formulata dalla Commissione vada in porto senza emendamenti". "L’Europa è troppo complicata". "Si tratta di un sistema decisamente complesso, che noi americani non siamo mai riusciti a comprendere completamente. Mi sono informato nei dettagli". James aveva scoperto che le proposte della Commissione, specie le più tecniche, spesso arrivavano in porto così come venivano formulate inizialmente. Più raramente, venivano apportate delle leggere modifiche. "La proposta iniziale difficilmente viene stravolta. Pertanto, la strategia di Axa non cambia. Il fulcro rimane Jeroen Van Boxem, benché occorrerà oliare il meccanismo nella sua totalità". "Devi trovare un supporto anche al Consiglio e al Parlamento", suggerì Emer. "Ho un appuntamento già fissato con il presidente della Commissione industria del Parlamento europeo", chiarì James. "Si tratta di una persona affidabile?" volle sapere Antony. "Non lo so. Non l’ho mai incontrata prima. Spero di si". "Incontrata? Ė una donna?" "Confermo, una donna". "Speriamo lo sia, altrimenti siamo nella merda", concluse 213 Emer. 16 febbraio 2007 Bruxelles Eva doveva rendere una testimonianza. Giunse in tribunale dieci minuti prima dell'inizio dell'udienza. Uscendo di casa, aveva comprato il giornale nell'edicola di fronte. Lo aveva sfogliato in metropolitana e aveva scoperto che il processo in cui si apprestava a testimoniare veniva menzionato a pagina sedici tra gli articoli di cronaca giudiziaria. Non lesse l'articolo per intero. Si soffermò solo sulle prime quindici riga. Preferì procedere oltre. "Devo distrarmi piuttosto che pensare alla testimonianza". Era tesa. Non era mai stata in un'aula di tribunale per deporre. "L’aula centosedici B, per favore?" chiese all’usciere. "La porta sulla destra, poi prosegua fino alle scale. Salga al primo piano. Troverà le indicazioni". "Grazie!" Eva infilò la porta sulla destra e proseguì fino alle scale. Raccolse i pensieri, pensando alle domande che il pubblico ministero avrebbe potuto rivolgerle. Si sedette davanti la porta di entrata dell'aula. Dopo pochi minuti venne chiamata ed invitata ad entrare. Dall'altra parte della sala, James scorse Eva ma non fece alcun movimento del corpo. Rimase impassibile, nonostante il brusìo che si levò nell'aula. Mosse soltanto gli occhi per seguirla mentre si avvicinava al banco dei testimoni. "Le ricordo i suoi doveri", disse il giudice, snocciolando la serie di obblighi a cui avrebbe dovuto attenersi. Successivamente diede la parola all'accusa. "Prego, proceda all’interrogazione del teste". "In che occasione ha conosciuto l'imputato?" esordì il 214 pubblico ministero. "Venni sollecitata per un incontro esattamente un anno fa. Era il 16 febbraio del 2006. Ricevetti una telefonata intorno alle undici e trenta della mattina. Fu la mia assistente ad avvisarmi". "Cosa le disse esattamente?" "Mi disse che al telefono c'era un certo James D'Angelo, che chiamava da New York". "Rispose subito?" "No! Risposi dopo qualche minuto. Ero impegnata sull'altra linea, quella interna". "Cosa le chiese il signor D’Angelo?" "Il signor D'Angelo mi informava che aveva necessità di incontrarmi durante uno dei suoi prossimi viaggi a Bruxelles. Avrebbe voluto illustrarmi alcune problematiche inerenti il settore dei medicinali. Mi disse anche che rappresentava una delle maggiori case farmaceutiche americane". "Cosa gli rispose?" "Che avrei consultato la mia agenda e, nel caso il suo viaggio fosse coinciso con una mia permanenza a Bruxelles, ci saremmo potuti incontrare". "Gli diede, pertanto, la sua disponibilità?" "Certo. Perché non avrei dovuto farlo?" "Non lo so. Me lo dica lei Non credo che lei sia disponibile con tutte le persone che chiedono di incontrarla". "Generalmente si. Sono molto disponibile. Se posso, trovo sempre un momento libero". "Quindi, l'incontro con James D'Angelo non costituiva un atto...diciamo, di cortesia particolare". "Assolutamente no. Rientra nel mio modo di lavorare. Sono sempre pronta ad accogliere esponenti della società civile che esprimono l'intenzione di interagire con coloro che li rappresentano". "E quando avvenne l'incontro?" 215 "Un paio di settimane dopo. Esattamente il 2 marzo". 'Come fa a ricordarlo con precisione?" "Immaginavo che me lo chiedesse e ieri mi sono premurata di verificare la mia agenda". "Cosa ricorda di quel giorno?" "Cosa intende dire?" "Insomma…come si svolse l'incontro?" "Ah, l'incontro fu molto cordiale. Il signor D'Angelo mi regalò una scatola di cioccolate e un piccolo pensiero della città di New York". "Ricorda di cosa si trattasse?" "Di una spilla con la scritta NY". "Una spilla di valore?" "Una spilla in argento". "La accettò?" "Non avevo intenzione di prenderla". "La prese?" "La presi perché il signor D'Angelo insistette. Precisò che si trattava di un semplice omaggio a cui non bisognava dare alcuna importanza, se non quella di esprimere il suo personale ringraziamento per la disponibilità ad incontrarlo. Mi disse anche di guardare al gesto e non al valore dell'oggetto". "Quindi, lei la prese come un semplice atto di cortesia". "Esatto!" "Continui…" "Beh, iniziammo a discutere. Il signor D'Angelo mi fece presente che la Commissione europea stava preparando la riforma della legislazione farmaceutica e che presto sarebbe stata discussa anche in sede parlamentare". "Immagino che non costituisse una novità per lei". "No, ne ero al corrente e glielo dissi. Lui mi fece presente i problemi che l'industria farmaceutica riscontrava a causa dei brevetti". 216 "Si può spiegare?" "Mi disse che l'industria farmaceutica sosteneva il peso dell'innovazione tecnologica e che sarebbe stato giusto trovare il modo di ricompensarla adeguatamente. Gli chiesi se il sistema vigente non fosse già adeguato". "E il D'Angelo cosa le rispose?" "Mi disse che il vero problema consisteva nella necessità di proteggere i farmaci brevettati dalle imitazioni. Mi spiegò il caso di alcuni paesi e mi fece menzione del problema delle importazioni parallele". "Lei cosa rispose?" "Che me ne sarei occupata e che avrei approfondito la vicenda". "Espresse una sua opinione?" "No. Non entrai affatto nel merito della vicenda. In verità, mi venne riferita una serie di cose molte tecniche, che non compresi completamente". "Non comprendeva cosa il D'Angelo le stesse dicendo?" "In parte comprendevo, in parte no. Sa…le cose tecniche. Comunque, precisai alla mia assistente di annotare tutto e di procurarmi i documenti necessari". "Il D'Angelo rimase soddisfatto?" "Non lo so". "Le fece altre richieste?" "Mi disse che la Commissione se ne stava occupando, che aveva avuto già un incontro con loro e che…" Eva fece una pausa. Il giudice intervenne. "Continui…e che?" "Mi sembra che facesse riferimento ad un funzionario che non trattava adeguatamente il dossier in Commissione. Sul momento non feci particolare caso a quello che intendesse affermare". "Che significa non trattare adeguatamente un dossier?" 217 "Sul momento non ho realizzato cosa volesse dire". "…ma alla luce degli sviluppi successivi, quelle frasi assumono un'importanza molto più significativa", chiarì il rappresentante dell'accusa. "Si, concordo". "Cosa le disse in particolare?" "Come ho detto non riposi molta attenzione a quelle frasi sul funzionario che non trattava adeguatamente il dossier. Pertanto, non saprei riportarle con esattezza cosa il signor D'Angelo volesse significare in particolare". "Provi a ricordarlo?" "Beh…un funzionario non trattava adeguatamente il dossier e temeva che si potessero creare dei fraintesi". "Nient'altro?" "Un attimo…credo di avergli chiesto perché si preoccupasse tanto di un semplice funzionario". "Quale fu la risposta dell'imputato?" "I pesci piccoli, a volte, riescono anche a mangiare quelli grandi". "Non le apparve strana quella considerazione?" "Come le ho detto seguii questa parte della conversazione in maniera un po' distratta". "Io non ho altre richieste", concluse il pubblico ministero. Il giudice chiese all'avvocato difensore di James se avesse delle domande da porre all'imputato. "Un paio da parte mia, signor giudice", rispose l'avvocato. "Lei scorse particolare livore nel volto del signor D'Angelo quando fece riferimento al funzionario che non trattava adeguatamente il dossier oppure le sembrò una normale preoccupazione per un manager che prende a cuore la corretta gestione di un dossier rilevante?" "Non notai nulla di particolare. Per questo non diedi 218 importanza a quella parte della conversazione". "Lei ha precisato di non avere compreso cosa il mio assistito le avesse riferito. Conferma?" "In parte non capisco…gli aspetti tecnici che lui citava…a volte non capivo". "Io ho finito", concluse l'avvocato difensore. Il giudice congedò Eva, che uscì frettolosamente dall'aula. 219 2 marzo 2007 Bruxelles Aveva trascorso la notte insonne. Solo al mattino era riuscito a sonnecchiare, sopraffatto dalla stanchezza. Alle sette venne buttato giù dal letto dal secondino, che aveva fatto brutalmente ingresso nella cella che condivideva con Regis, un belga accusato di omicidio e rapina. "Controllo!" esclamò il secondino, accompagnato da altri due agenti. James non rispose nulla e si levò dal letto. Venne spinto contro il muro da uno dei due agenti, che agitava un manganello. Anche Regis venne spinto verso il muro ma dall'altra parte della stanza. Il controllo durò pochi minuti. "Si tratta di una formalità da espletare ogniqualvolta un detenuto debba andare in aula per il processo", spiegò l’agente, "occorre evitare che i detenuti abbiano oggetti pericolosi". James doveva assistere ad una nuova udienza del processo, che lo vedeva accusato di omicidio per la morte di Jan Schiller, avvenuta a Bruxelles un anno prima. Il procuratore del re del tribunale di Bruxelles lo accusava di essere il mandante. A chiamarlo in causa era stato l’uomo che aveva materialmente ucciso Jan, un marocchino di Casablanca, di nome Alim Cherkaz, di ventisei anni, alquanto noto negli ambienti malavitosi. Alim era stato arrestato dieci giorni dopo la morte di Jan. La telecamera dell'istituto di credito Dexia lo aveva ripreso mentre sparava tre colpi di pistola. "Non mi sono reso conto di essere sotto gli occhi della telecamera", dichiarò dopo l’arresto. Era stato immortalato con la pistola in pugno. "Dopo avere pronunciato il suo nome, per accertarmi che fosse davvero lui, gli ho sparato da distanza molto ravvicinata", confessò Alim, preso con le mani nel sacco. 220 Il primo colpo raggiunse Jan al petto, il secondo alla spalla, il terzo al cranio. Era stata una vera e propria esecuzione. Alim, dopo il suo arresto, provò a giustificarsi. "Ho tentato una rapina ma è andata male". Venne arrestato ad Anversa, dopo aver consumato un rapporto sessuale con una prostituta nel quartiere a luci rosse. Portato al commissariato venne identificato e incriminato. Il fatto ebbe ampio risalto sulla stampa. In un primo momento, l'omicidio di Jan era stato collegato ad una serie di episodi che stavano colpendo la comunità omosessuale della capitale belga. L'identificazione di Alim sgombrò il terreno da questa ipotesi. Il marocchino, in realtà, era conosciuto negli ambienti criminali per essere un freddo sicario. Non fu creduto quando sostenne la tesi della rapina. Tre giorni dopo l'arresto, modificò la sua versione "Sono stato pagato da un americano per compiere l'omicidio di Jan Schiller". La polizia belga si mise immediatamente alla ricerca dell’americano. Non fu difficile risalire a lui. Alim svelò tutte le informazioni di cui disponeva. "L'ho conosciuto a Londra. Lavoravamo nella stessa impresa di pulizie. Lui è più vecchio di me". "Era al corrente della tua vera attività?" "Dovetti sparare ad un vecchio porco e lui mi coprì. Se non fosse stato per quel lavoro non l'avrebbe saputo. In quel caso mi fu molto utile". "Come sei stato ricontattato?' "Una sera, ho sentito squillare il telefono. Era lui. Non lo sentivo da un pezzo. Mi chiese se fossi disponibile per un lavoro". "Cosa hai risposto?" "Risposi che dipendeva dal compenso e dalla difficoltà". "Difficoltà?" "Si, difficoltà. Se fosse stato un caso difficile non l'avrei fatto. Oppure l'avrei fatto ma solo dietro un compenso adeguato. Veramente 221 adeguato". "Vi accordaste subito?" "No. La prima telefonata si chiuse sulla questione del compenso. Mi disse ‘ Non lo so. Ti faccio sapere ’." "Dopo quanto tempo ti ha richiamato?" "Una settimana dopo, credo. Aggiunse che mi avrebbero dato ventimila prima e ventimila dopo". "Ventimila euro?" "No, dollari" "Hai accettato?" "No". "Perché?" "Non mi sarei mosso per meno di settantamila. Quaranta subito e il resto dopo". "La tua proposta fu accolta?" "No. Mi disse che non era lui a decidere. Mi avrebbe fatto sapere". "E la settimana seguente si fece sentire?" "No. Il giorno dopo. Poco prima di mezzanotte. Me lo ricordo perché stavo scopando in un bordello di Anversa". "In quell'occasione vi accordaste, giusto?" "Giusto! Ci accordammo per settantamila dollari". L'americano si chiamava Richard Ashton. La polizia di New York lo bloccò e lo interrogò quattro giorni dopo la confessione di Alim. Ashton ammise il contatto. "Tuttavia, ho fatto semplicemente da tramite. Alim potrà confermarlo". "E chi sarebbe il mandante?" gli chiesero a New York. "Io sono stato contattato da un tale che non avevo mai visto 222 prima". "Il nome?" "Anthony Vitale". Anthony venne fermato nella sua casa negli Hamptons. Confessò non appena giunto al commissariato di polizia. Descrisse nel dettaglio il sistema di subappalto del crimine, dal quale spuntò il nome di James D'Angelo. "Ho solo eseguito gli ordini del mio capo", si difese. "È stato lui a ordinarle di contattare Richard Ashton?" "Lui mi ha imposto di prendere contatto con un tizio, Kenneth Clayton". "Chi è questo Clayton?" "Una persona di fiducia, mi fece sapere James D'Angelo". "E lei lo fece?" "Cosa?" "Lei contattò Kenneth Clayton, come le era stato ordinato di fare?" "Lo incontrai velocemente in un pub sulla cinquantasettesima. Mi segnò su un pezzo di carta un nome e un indirizzo". "Il nome di Richard Ashton?" "Esattamente!" "Lei si recò subito all'appuntamento?" "No. Ci andai il giorno seguente". "All'indirizzo che le era stato comunicato da Kenneth Clayton". "Esattamente! Si trattava di una sala biliardo nel Queens. Non mi ricordo con precisione dove fosse". "E fu allora che commissionò l'omicidio da compiersi a Bruxelles?" "No. Riferii semplicemente che il mio capo aveva bisogno di un favore e che lui era stato segnalato come la persona giusta. Mi 223 rispose che avrebbe verificato e che mi avrebbe fatto sapere". "Lei a questo punto esce di scena?" "Io riportai il tutto a James D'Angelo. Lui mi chiese di informare Ashton di rivolgersi direttamente a lui". "La decisione, quindi, la presa D'Angelo?" "E chi altri avrebbe potuto prenderla?" Gli inquirenti appurarono che James fosse stato più volte in Belgio, che aveva conosciuto Enzo Faramelli, compagno di Jan Schiller e che ne temeva il comportamento. "Perché?" vollero sapere. "Perché si occupava di questioni molto più grandi di lui". Alla domanda successiva degli inquirenti, in cui gli veniva richiesto di chiarire, James preferì non rispondere. "Non aggiungo altro. Mi dichiaro semplicemente vittima di un errore giudiziario. Non ho mai ordinato la morte di nessuno". Ginevra Antoine ritornò a Ginevra il primo marzo. Riabbracciò Ana, che finalmente si lasciò andare. Gli ricambiò l'abbraccio. In verità, i due si baciarono e molto probabilmente avrebbero fatto l'amore la sera successiva. Non vi era naturalmente nessun impegno ma l'atmosfera sembrava presagire un'evoluzione positiva. "Le mie remore sono scomparse", disse, "mi hai dimostrato di volermi per davvero". La differenza di età, temuta da Ana, non costituiva più un ostacolo. "Ho avvertito la tua mancanza", gli confessò. Ana aveva vissuto la partenza di Antoine come un abbandono, benché fosse stata lei a spingerlo ad andare via. "Ti sono sempre stato vicino", le disse Antoine. 224 "Hai fatto bene". Antoine non aveva mai smesso di telefonarle e, ogni volta che aveva potuto, era andato a Ginevra. "Ora non partirò più. Ho intenzione di vivere qui, insieme a te". Aveva deciso di vivere a Ginevra. Il suo contratto di collaborazione con il Parlamento europeo era terminato. Aveva scelto di non rinnovarlo, benché la collaborazione con Eva fosse stata alquanto proficua. Lo aveva sottolineato anche al processo. "In che cosa consisteva il suo rapporto di collaborazione?" domandò il pubblico ministero. "In maniera prevalente mi sono occupato della riforma della legislazione farmaceutica, assistendo il deputato Eva Sedlakova nella preparazione di briefings e nella stesura di rapporti da discutere in Commissione industria". L'accusa non perse tempo e all’approfondimento dei fatti processuali. passò immediatamente "Come ha fatto conoscenza con l'imputato James D'Angelo?" "Ho conosciuto D'Angelo al Parlamento europeo, in occasione di una delle sue visite alla signora Sedlakova. Mi occupavo direttamente delle questioni legate ai medicinali e partecipavo agli incontri". "Dove ha maturato la sua esperienza?" "Me ne sono interessato prevalentemente all'OMC". "In sede di indagini ha riferito di ragioni personali che lo avrebbero spinto a occuparsene. Potrebbe ripeterle?" "Ho avuto delle ragioni personali che mi hanno spinto a dedicarmi al problema dell’accesso dei medicinali nei paesi in via di sviluppo", rispose senza esitazioni Antoine. "Benissimo! Potrebbe riferirle alla Corte?" "Decisi di incuriosirmi in seguito ad una tragedia che mi ha colpito direttamente. Un mio carissimo amico di Mumbai é morto di Aids. In India non era stato possibile curarlo adeguatamente". "Perché?" 225 "Perché non erano state rese disponibili le medicine necessarie". "Vuole dire che il fatto di vivere in India gli ha impedito di curarsi?" "Non sarebbe stato possibile curarlo in Nigeria, in Pakistan o in qualsiasi altro paese povero". "Non solo in India, quindi". "In qualsiasi paese povero non sarebbe stato possibile curarlo". "Stava parlando del suo amico indiano…" "Ero molto legato a Madan e la sua scomparsa mi ha colpito profondamente. Conoscevo la sua famiglia, aveva tre figli e una moglie che sarebbe morta successivamente per le stesse ragioni. Promisi a me stesso che avrei dedicato la mia esistenza per migliorare il livello di vita di quelli come Madan, che il destino fa nascere nella periferia del mondo". "E per questo decise di interessarsi di industria farmaceutica?" "Diciamo che decisi di occuparmi dell'accesso ai medicinali per la gente che vive nei paesi poveri". "Può spiegare nei dettagli?" "Certo", ribatté prontamente Antoine, ma il giudice lo interruppe, chiedendo al pubblico ministero di rivolgere all'imputato solo domande relative al processo. "Si tratta di domande importanti per la comprensione dei fatti. Il processo ruota intorno alla questione dell'accesso ai medicinali per i paesi più sfortunati. Il giudice lo guardò dubbioso, consentendo che il teste potesse replicare alla domanda che le era stata rivolta. "Dunque, il vero problema è che gli stati meno sviluppati non possono avere a disposizione i medicinali essenziali per curare alcune malattie importanti come l'Aids. Non le hanno fruibili perché non hanno a disposizione i soldi per comprarle. Potrebbero copiare i farmaci ma l'industria farmaceutica di fatto lo impedisce. Il Trattato TRIPS sulla proprietà intellettuale costituisce un ulteriore ostacolo perché protegge i medicinali con brevetti a lunga durata. Si potrebbe 226 aggirare l'ostacolo con le importazioni parallele ma l'industria farmaceutica non vuole e, anche qualora acconsentisse, ci sarebbe sempre il problema legato alle esportazioni". "Spieghi meglio". "Che le licenze obbligatorie potrebbero anche essere concesse ma avrebbero valore solo per la produzione interna e non per le esportazioni. Come potrebbe, in quel caso, uno stato con una struttura industriale inadeguata, produrre i medicinali?" "Era questo che chiedeva l'imputato. Una maggiore protezione dei brevetti?" "L'imputato chiedeva di estendere il periodo di protezione brevettuale". "Ed era questo il motivo delle sue visite alla signora Sedlakova?" "Si trattava di un'attività di lobby, del tutto lecita. Il signor D'Angelo spiegava le ragioni del'industria farmaceutica, la signora Sedlakova le ascoltava, come del resto ascoltava anche quelle delle altre parti in causa". "Ovvero?" "Mi riferisco alle associazioni dei consumatori, per esempio o ai rappresentanti degli stati meno sviluppati che, invece, chiedevano di alleggerire il peso dei brevetti". "Qual era in realtà la posizione della signora Sedlakova?" "Il problema della salute dei cittadini di tutti i paesi costituiva certamente l'aspetto prioritario". "Di conseguenza, le richieste del signor D'Angelo non vennero accolte?" "Non potevano essere accolte ma c'era bisogno anche dell'accordo della Commissione". "Si spieghi…." "Le proposte legislative nascono in Commissione ed è importante che partano con il piede giusto. Capisce cosa intendo dire?" "Me lo spieghi lei". 227 "Voglio dire che il Parlamento ha la possibilità di emendare le proposte della Commissione, ma l'impianto di base resta quello della Commissione, che, se lo ritiene opportuno, ha il potere di fare marcia indietro". "Marcia indietro?" "Si…insomma…può ritirare la sua proposta". "Signori, capisco la necessità di percorrere il quadro teorico che è alla base della vicenda ma io preferirei che si entrasse nel merito del crimine commesso", affermò il giudice, con tono severo. "Signor giudice, mi consenta di completare il quadro", propose il pubblico ministero. "Lo faccia ma in maniera più aderente al crimine", intimò il giudice. "Prego, prosegua…", rivolgendosi ad Antoine. "Si, in pratica…quello che stavo dicendo…è da precisare che un forte potere appartiene alla Commissione che propone. Nella fattispecie si trattava di una proposta molto favorevole alla richiesta dell'industria. Noi non ne capivamo le ragioni, finché un giorno venimmo sollecitati da un funzionario. Si trattava di Enzo Faramelli". "Enzo Faramelli, ovvero il compagno della vittima", precisò il rappresentante dell'accusa, interrompendo l'esposizione di Antoine. "Il signor Faramelli aveva chiesto un incontro per il giorno 16 giugno. Giunse puntuale e venne ricevuto nell'ufficio della signora Sedlakova, in presenza mia, del signor Faramelli e della signora Sturc, la segretaria. Il signor Faramelli venne fatto accomodare e subito si entrò nel vivo della discussione. In verità, né io né la signora Sedlakova avevano compreso quali fossero le ragioni che avessero spinto il signor Faramelli a contattare la signora". "Non avevate neanche un’idea del perché?" "Ritenevamo che la questione da discutere fosse legata ai medicinali ma non potevamo assolutamente immaginarne i contorni esatti. Al telefono, il signor Faramelli era stato piuttosto vago lasciando intendere che sarebbe stato molto importante incontrarsi e parlare di 228 persona". "Come avete reagito a quella proposta?" "Eravamo certamente incuriositi". "Una curiosità legittima". "…una curiosità che venne presto ripagata". "Cosa vi disse Faramelli?" "Ci disse che bisognava agire per impedire di presentare una proposta di riforma pericolosa, in grado di mettere in pericolo la salute di milioni di persone". "Si spieghi meglio", esigette il pubblico ministero. "Durante l’incontro, Faramelli fu molto preciso e dettagliato. Ci illustrò il progetto di revisione della legislazione farmaceutica, dalla questione della pubblicità a quella della medicina omeopatica, per esempio. Tuttavia, l'aspetto sul quale Faramelli si soffermò riguardava la questione dei brevetti. Ci disse che proteggere un farmaco era importante, ma proteggerlo eccessivamente poteva essere dannoso". "In che termini?" "Nel senso che sarebbe legittimo e anche auspicabile che il brevetto di un farmaco venga protetto. Ci sono diversi anni di ricerca e investimenti importanti che non verrebbero fatti se non fosse garantito un ritorno dal punto di vista economico. Nessuna industria potrebbe permettersi di fare ricerca gratuitamente. Il brevetto impedisce che il farmaco venga copiato e assicura un certo ritorno dal punto di vista economico. D'altra parte bisognerebbe verificare se questo ritorno sia adeguato oppure eccessivo". "E Faramelli cosa disse al riguardo?" "Faramelli ci mostrò dei grafici. Risultava che solo una parte di quei profitti serviva a coprire gli investimenti fatti e solo una percentuale modesta veniva reinvestita". "Si spieghi in maniera che tutti possano capire", sollecitò il pubblico ministero, guardando i presenti in aula. "Una parte importante di quei profitti rappresentano un guadagno netto per l'industria. Si tratta di un guadagno non giustificato 229 dalla ricerca sostenuta ma reso possibile esclusivamente dall'eccessiva protezione che i prodotti ricevono attraverso i brevetti". "E quali sono le conseguenze più importanti?" "La conseguenza più importante consiste nell'impossibilità di copiarli. Non potendoli copiare non possono essere messi a disposizione di quelli che non possono permettersi di sostenere prezzi elevati per acquistare gli originali. Il caso più eclatante riguarda i farmaci che vengono utilizzati per curare alcune malattie specifiche, come l'Aids, nei paesi in via di sviluppo". "Era questo che intendeva all'inizio quando ha fatto riferimento alla possibilità di mettere in pericolo la salute di milioni persone nel mondo?" "Sì, era questa la preoccupazione di Faramelli. Un progetto di riforma che, invece di ridurre, estendesse il periodo di protezione brevettuale avrebbe avuto queste conseguenze". "E si stava lavorando su un progetto che estendesse il periodo di protezione?" "In realtà no. Si stava lavorando per un periodo che lo riducesse ma la pressione condotta dall'industria farmaceutica avrebbe potuto modificare il progetto iniziale. Faramelli stava lavorando sulla bozza di riforma". "E cosa le riferì?". "Ci avvertì che le pressioni stavano aumentando e che il progetto iniziale stava per essere modificato. Il direttore generale gli aveva, diciamo, suggerito di cambiare la bozza. Lui si era rifiutato di farlo e il progetto gli era stato sottratto. Inoltre, era stata avviata un'azione disciplinare nei suoi confronti per essersi opposto agli ordini della gerarchia. A quel punto, temendo delle sanzioni, si era rivolto a noi". Ana lo prese tra le braccia. Antoine aveva fame. Era ormai stanco di raccontare e avrebbe voluto solo mangiare e riposare. Più tardi avrebbe fatto certamente l'amore con lei. 230 Bruxelles "Chiamami ogni volta che puoi", gli disse il padre di Jan prima di mettere giù il telefono, "per me queste conversazioni rappresentano una consolazione". Eppure, Enzo non gli era immediatamente piaciuto. Diceva al figlio di non fidarsi degli italiani, "Quell’ossuto fuscello mediterraneo ti farà soffrire". La morte di Jan aveva eliminato i contrasti. Enzo aveva preso l'abitudine di telefonargli ogni sera, anche se per pochi minuti. "Ci unisce la tragedia". Si trattava di un'operazione che aveva per entrambi un valore catartico, quasi come se la condivisione riuscisse a lenire il dolore. Purtroppo, però, il dolore non é rappresentato da una somma zero della sofferenza, per cui condividere significa dimezzarne gli effetti. Il dolore restava intatto per entrambi. Durante la conversazione, i due non parlavano quasi mai di Jan. Si raccontavano le loro giornate e si soffermavano sugli episodi più leggeri. Quella sera, invece, parlarono di Jan. "Domattina, devo deporre al processo", riferì Enzo. Chiuse la conversazione e venne assalito dai ricordi. Si distese sul divano e pensò intensamente. "Non è nostalgia ma necessità. Devo ricordare ogni particolare che possa essere di aiuto all'accertamento della verità". Senza quasi rendersene conto, finì per addormentarsi. Si svegliò alle quattro del mattino e si diresse in camera da letto. Il divano gli aveva spezzato le reni e necessitava un posto soffice. Si distese sul letto ma non riuscì più a riprendere sonno. Poco dopo le sei, si alzò. Si rase con attenzione, evitando di provocare le piccole ferite sul viso che avrebbero finito con il macchiare la camicia fresca del mattino. Evitò anche di prendere il caffè per timore di accrescere la tensione che da giorni lo stava torturando. "Non so come reagirò emotivamente. Oggi sono obbligato a ricordare". 231 Uscì di casa e si trovò nei pressi del Tribunale, molto in anticipo rispetto a quanto avrebbe dovuto. Non entrò subito e preferì attendere. Per ammazzare il tempo che sembrava non passare mai, iniziò a passeggiare sulla Avenue della Toison D'Or. Si soffermò davanti le vetrine, senza riuscire a riporre attenzione agli oggetti esposti. "Le nove, finalmente!" esclamò guardando l’orologio. Si diresse verso l'aula, dopo avere chiesto all’usciere dove si trovasse. Scoprì di essere il primo a dovere testimoniare. "Prego, venga avanti e si segga in corrispondenza del banco dell’accusa", lo invitarono. Enzo si guardò intorno e non riconobbe nessuno dei presenti. "Giudice, io vorrei iniziare l'interrogatorio del teste, partendo proprio dall'ultima deposizione, quella di Antoine Sagna", chiese l'accusa. "Prego", rispose il giudice. "Dunque, signor Faramelli, il signor Sagna ha riferito in aula del suo incontro con il deputato Eva Sedlakova". Dopo una breve pausa si rivolse al giudice per spiegare: "Signor giudice, pongo questa domanda perché costituisce un elemento determinante per comprendere il ruolo giocato dall'imputato in questa vicenda. L'incontro in questione è molto importante perché rappresenta l'ostacolo che viene posto al disegno di James D'Angelo di fare promuovere una riforma della legislazione farmaceutica in senso favorevole all'industria che rappresentava". "Proceda pure", gli rispose ancora una volta il giudice, invitando il pubblico ministero a proseguire. "Signor Faramelli, la prego..." "All'epoca in sui sono successi i fatti, io mi occupavo di gestire il dossier riguardante la riforma della legislazione farmaceutica". "Può chiarire il concetto di gestione del dossier? Mi spiego, potrebbe precisare quali fossero le sue mansioni?" "Gestivo il dossier nel senso che ero io, in prima persona, a 232 occuparmene. Ero io che preparavo i progetti che sarebbero poi stati successivamente approvati. Naturalmente, prima di giungere alla stesura di un progetto di riforma, occorre procedere in maniera tale da ascoltare tutte le parti in causa. Vengono stabiliti dei gruppi di lavoro e si raccolgono i suggerimenti che emergono. Successivamente occorre materialmente scrivere la proposta. Ecco, io mi occupavo di redigere il testo". "Dunque, lei ha scritto materialmente il testo di base?" "Confermo! In larga parte, mi sono occupato di redigere materialmente il testo". "Quali erano le indicazioni emerse durante le riunioni dei gruppi di lavoro?" "Indicazioni contrastanti. Le associazioni dei consumatori chiedevano un accesso meno regolamentato ai farmaci e più attenzione alla sicurezza. I rappresentanti dell'industria, da parte loro, puntavano molto all'estensione del periodo di protezione brevettuale". "Ecco, desidererei che lei approfondisse questo aspetto. Perché l'industria ha scelto di focalizzare la sua attenzione sui brevetti?" "In parole semplici, perché brevetti vogliono dire profitti. Più si estende la protezione brevettuale di un prodotto e meno esiste la possibilità di averne uno simile sul mercato". "Profitti?" "Si moltiplicano i guadagni attraverso i brevetti". "Guadagni giustificati?" "In parte, perché l'industria sostiene il peso della ricerca. In parte no". "In parte no?" "In parte no perché alimentano superprofitti a svantaggio della salute di molti uomini". "Cosa prevedeva il testo originale della riforma farmaceutica che lei aveva materialmente redatto?" "Prevedeva una riduzione del periodo di protezione brevettuale di un farmaco da venti a diciotto anni". 233 "Cosa, invece, pretendeva l’associazione degli industriali?" "Un’ estensione del periodo di protezione brevettuale da venti a venticinque anni". "Chi rappresentava l'industria nei gruppi di lavoro?" "Karl Schultz, Simon Weiss e James D'Angelo". "Lei venne contattato da James D'Angelo?" "No. Io ho incontrato il signor James D'Angelo nell'ufficio del direttore generale ma non ho mai avuto nessun contatto diretto con lui". "Chi era il direttore generale a cui fa riferimento?" "Si tratta di Jeroen Van Boxen" "Quali erano i rapporti tra Jeroen Van Boxen e James D'Angelo?" "Immagino avessero buoni rapporti. Oddio! Erano rapporti formali ma i due mi davano l'impressione di conoscersi". "Cosa glielo faceva pensare?" "Si erano salutati con una calorosa stretta di mano. Avevano fatto riferimento a delle situazioni avvenute in passato. Tuttavia, non erano tanto questi elementi che mi portavano a ritenere che i due si conoscessero quanto piuttosto quello che avvenne successivamente la stesura della bozza di riforma". "Può riferire alla Corte cosa avvenne?" "Venni convocato dal direttore generale, insieme al mio capo unità. Mi venne espressamente domandato di modificare alcuni aspetti della bozza, che avevamo precedentemente concordato". "Cosa le veniva richiesto?" "In particolare, di modificare completamente gli aspetti relativi ai brevetti. Non solo non si riduceva il periodo di estensione brevettuale ma si proponeva di allungarlo". "Era accolta la proposta dell’industria". "Esatto! Veniva accolta la proposta dell'industria". 234 "Lei come reagì?" "Dissi che mi sembrava scorretto nei confronti delle associazioni che avevano partecipato ai gruppi di lavoro e che ci saremmo ritrovati l'opinione pubblica contro. Soprattutto feci notare che alla base esisteva una questione etica imprescindibile, la salute di milioni di persone nel mondo". "Potrebbe precisare?" "La riforma avrebbe avuto effetti anche sulla questione legata all'accesso dei medicinali negli stati meno sviluppati. Se, invece, di ridurre il sistema di protezione, lo allungavamo, avremmo finito per dare un segnale negativo. Ne avrebbe risentito tutto il sistema". "Lei disse che lo fece presente al direttore generale". "Certo, non solo lo feci presente, ma entrai nei dettagli. Spiegai quali sarebbero state le conseguenze?" "Cosa le rispose il direttore generale?" "Ascoltò le mie argomentazioni in silenzio. Mi lasciò terminare e poi mi disse semplicemente di apportare le modifiche che mi aveva richiesto". "…ovvero di allungare il periodo di protezione brevettuale fino a venticinque anni", chiosò il rappresentante dell'accusa rivolgendosi al giudice e successivamente ai presenti in aula. "Esattamente!" replicò Enzo, senza aggiungere nulla. A quel punto, il giudice intervenne per richiamare ancora una volta l'accusa a ragionare in maniera più attinente il crimine commesso. "Altrimenti si rischia di trasformare l'aula del tribunale in un forum scientifico". Il pubblico ministero non replicò direttamente, ma chiese a Enzo di spiegare quali fossero le sue impressioni riguardo alle richieste che gli venivano fatte. "Ebbi la sensazione che ci fossero degli interessi ben specifici da coprire perché quando mi opposi alla richiesta fattami dal direttore generale, lui non fece altro che rispondere ‘Qualcuno la farà al suo posto ‘". 235 "Le sembrava una minaccia?" "Il direttore generale è un mio diretto superiore e avrebbe avuto il potere di rimuovermi nel caso io non avessi fatto il mio lavoro come avrei dovuto. "Lei la definirebbe una minaccia?", ripeté il rappresentante dell'accusa. "Posso dirle che ebbi la sensazione di avere ricevuto una minaccia. Io stavo facendo il mio lavoro, seguendo le regole del caso. La richiesta fatta dal direttore generale, non motivata e non aderente a quello che era stato il lavoro svolto fino ad allora, mi diede l'impressione di un intervento esterno". "Un intervento esterno di che tipo?" "Era come se fosse intervenuto un potere superiore capace di dirigere il corso degli eventi. "Potrebbe essere più chiaro?" "Mi faccia una domanda precisa". "Ebbe, di fatto, la sensazione che il direttore generale prendesse ordini da entità esterne", precisò il rappresentante dell'accusa. "Non la metterei in questo modo". "E come la metterebbe?" "Non mi diede l'impressione di essere un burattino, se è questo che intende. No, direi piuttosto che ebbi l'impressione di un uomo facente parte di un sistema di interessi". "E cosa le fece pensare che il direttore generale fosse collegato all'imputato?" Prima ancora che Enzo avesse la possibilità di rispondere, intervenne con veemenza l'avvocato difensore di James. "La domanda è pretestuosa. Non c'è nulla che il testimone abbia detto finora che sia riconducibile all'imputato". Il giudice intervenne per tranquillizzare l'avvocato difensore e, nello stesso tempo, per precisare l'andamento dell'interrogatorio che si stava svolgendo. 236 "La prego, faccia rispondere. Ho appena chiesto all'accusa di attenersi maggiormente al contesto del crimine commesso". Enzo venne autorizzato a rispondere. "Nel momento in cui il direttore generale mi chiese di effettuare le modifiche, non pensai assolutamente al legame con l'imputato". "Ecco, è soddisfatto ora?" domandò, ironicamente, l'avvocato difensore al rappresentante dell'accusa. Enzo intervenne chiedendo di poter terminare. "Un attimo, avvocato. Faccia finire il teste", rispose il pubblico ministero, consapevole che la partita, sulla domanda che aveva provocato il risentimento dell'avvocato difensore, non fosse affatto chiusa. "Non ebbi allora questa sensazione, ma poi, tornando a casa, iniziai a riflettere sull'intera vicenda. Mi tornarono in mente gli incontri che il direttore generale aveva avuto con l'imputato e al quale io stesso avevo assistito". James seguiva la testimonianza resa da Enzo, apparentemente senza emozioni. Il suo viso non mostrava alcuna espressione particolare, neanche quando si fece allusione al suo ruolo. Si mosse solo due volte per afferrare un bicchiere. Sorseggiò dell'acqua e si ricompose. Enzo evitò di guardarlo, probabilmente per fuggire dalle emozioni. "Devo ricordare con attenzione tutti i dettagli", pensò. Continuò ad esporre i fatti. "Negli incontri abbiamo discusso di brevetti". "Solo brevetti?" volle sapere il giudice. "No! Tuttavia, l'aspetto più importate su cui ci siamo soffermati è stato, senza dubbio, la questione della protezione brevettale dei prodotti". "Si soffermi sul ruolo del signor D’Angelo". "Il signor D'Angelo fece presente le ragioni dell'industria. Le sue richieste furono chiare". 237 "Potrebbe ripeterle?" "Fece presente che l'estensione della patente, lui la chiamò così, utilizzando il termine inglese, rappresentasse un elemento importante della riforma e che l'industria ne avrebbe avuto assolutamente bisogno". "Lei ebbe modo di controbattere alle argomentazioni del signor D'Angelo?" "Ebbi modo solo parzialmente di controbattere. Iniziai a spiegare le mie ragioni, ma il direttore generale pretese che non mi dilungassi molto sulla questione". "Come interpretò il comportamento del direttore generale?" "Allora ebbi l'impressione che lui avesse le idee chiare e che preferisse non approfondire per evitare di scoprire le nostre carte di fronte ad un rappresentante dell'industria". "Quindi, ebbe un’impressione poi rivelatasi sbagliata". "Devo ammetterlo, purtroppo! Fino ad allora, del resto, non mi aveva assolutamente impedito di proseguire nel mio lavoro". "Per questo si trovò, come dire….spiazzato, di fronte alla richiesta del direttore generale di modificare il testo che avevate in precedenza ampiamente concordato?" "Fui sorpreso e non riuscivo a capirne le ragioni". "Pensa di averle comprese ora?" "Tornando a casa, cercai di mettere in ordine i tasselli. Ricordai le riunioni fatte alla presenza del signor D'Angelo e le modifiche pretese dal direttore generale. Ebbene…quelle modifiche coincidevano con le richieste dell'industria". "Cosa decise di fare allora?" "Decisi di resistere. Non avrei apportato le modifiche che mi venivano richieste". "Era consapevole che avrebbe rischiato la perdita del dossier?" "Ci tenevo a trattare il dossier. Mi dava molta visibilità e sarebbe stato importante per la mia carriera, ma non avrei fatto il semplice scribacchino di una legge ingiusta. Quando mi venne tolto, 238 feci delle osservazioni scritte per riaverlo indietro". "Cosa le venne risposto?" "Mi venne risposto che era nel potere del direttore generale modificare l'assegnazione dei compiti e che avrei dovuto farmene una ragione per evitare sanzioni". "Sanzioni di che genere?" "Sanzioni disciplinari". "Chi avrebbe potuto impartirgliele" "Era nel potere del direttore generale modificare l'assegnazione dei dossier. Era un mio superiore gerarchico e poteva farlo, ma sulla base di una giusta motivazione che io facevo fatica a trovare. Mi consultai con i sindacati e mi venne consigliato di insistere. Mi dissero che non avrei dovuto cedere ai soprusi e che loro sarebbero stati certamente al mio fianco. Mi dissero che Van Boxen era un cosiddetto paracadutato dalla politica, messo in quel posto per fare gli interessi dell'industria". "E decise, pertanto, di andare avanti…" "Esatto, decisi di proseguire. Feci ancora delle osservazioni scritte alle quali, senza alcuna spiegazione, seguì l'apertura di un'azione disciplinare nei miei confronti, per grave negligenza. A quel punto, mi sono sentito messo con le spalle al muro". "Ha avuto paura di essere licenziato?" "Ho avuto paura di perdere il lavoro ma, soprattutto, non volevo perdere la mia dignità. Ne ho fatto una questione di principio. E, allora, se avessi dovuto perdere il lavoro, lo avrei perso combattendo". "A quel punto decise di contattare la signora Eva Sedlakova…". "Un’opzione possibile era quella di interessare i membri del Parlamento europeo. Loro ne avrebbero potuto fare una questione politica. "In che modo?" "Nel caso avessero condiviso le mie preoccupazioni, avrebbero 239 potuto darmi l'appoggio che io, da semplice burocrate, non avrei mai potuto avere". "Decise, pertanto, di chiedere un incontro alla signora Sedlakova". "Infatti! Mi rivolsi alla signora Sedlakova, in quanto presidente della Commissione industria del Parlamento europeo. Ecco, lei ne avrebbe potuto fare un caso politico se avesse voluto". "E lei supponeva che lo avrebbe fatto?" "Non ne ero certo ma non avevo altra scelta se non quella di provare" Il rappresentante dell’inchiesta. dell'accusa menzionò uno stralcio "Come risulta dalle testimonianze già rese dalla signora Sedlakova e dal suo assistente Antoine Sagna, il signor Faramelli prese appuntamento e incontrò la signora Sedlakova al Parlamento europeo". Quindi, chiese a Enzo Faramelli. "Quale fu il risultato di quell'incontro?" "Il risultato fu positivo. La signora Sedlakova prestò attenzione alle mie parole. Disse, finanche, che condivideva le mie preoccupazioni. Fu soprattutto il suo assistente a incoraggiarmi. Mi disse che la questione dell'accesso dei medicinali negli stati più poveri era estremamente importante". "E lei proseguì nella sua azione…." "Io proseguii nella mia azione ma anche loro procedettero nella loro. Io non potei più occuparmi del dossier, il testo venne modificato e spedito in Parlamento per l'approvazione definitiva. Si sarebbe dovuto approvare secondo la procedura di codecisione che coinvolge il Parlamento e il Consiglio in maniera congiunta. Per quel che mi riguarda venne avviata l'azione disciplinare". "A parte l'azione disciplinare, ricevette anche delle minacce?" "Sì. Ho ricevuto alcune lettere anonime". "Potrebbe specificare?" "Una sera, mentre mi trovavo con il mio compagno, la mia 240 auto venne affiancata da un'altra. Dovetti frenare improvvisamente per evitare di finire in una scarpata. Jan disse che l'auto mi aveva affiancato inavvertitamente. Io ebbi la sensazione di qualcosa di strano ma non denunciai l'accaduto. Non avrei avuto alcun elemento concreto da riferire". "Le lettere anonime costituivano un elemento concreto", precisò il pubblico ministero. "Non proprio. Vi erano una serie di avvertimenti generici. Non si faceva alcun riferimento alla questione della riforma della legislazione farmaceutica. Io avevo il presentimento che il riferimento fosse alla riforma ma Jan non era d’accordo. Riteneva che fosse da rapportare alla nostra relazione". "In che senso?" "Una relazione tra omosessuali poteva essere stata presa di mira da gruppi omofobi". "Veniamo al delitto. Perché Jan e non lei? Era lei il bersaglio dopotutto". "Non so spiegarmelo se non come una sorta di avvertimento di tipo mafioso. Una vendetta trasversale". Dopo la risposta di Enzo, l'avvocato difensore insorse affermando che il rappresentante dell'accusa stava cercando di influenzare la Corte con domande che contenevano già un verdetto. Il giudice redarguì il pubblico ministero, accogliendo le proteste dell'avvocato difensore di James. "Non si tenga conto della risposta del teste", affermò. Infine, fece presente al rappresentante dell'accusa: "Se non ci sono ulteriori richieste, il teste può essere congedato". "Non ci sono ulteriori domande", confermò il pubblico ministero. Enzo si sollevò dalla sedia e si diresse verso l'uscita. Lungo il cammino, incrociò lo sguardo di James. Visse un attimo di commozione. Pensò a Jan ma non lo diede a vedere. 241 Ginevra Smise di parlare improvvisamente, sfinito per la stanchezza. Disteso sul divano, si addormentò tra le sue braccia. Si svegliò dopo due ore. Ana lo teneva ancora con sé. Lo accarezzò sulla fronte e lui le sorrise. "Sono contento di riaverti di nuovo vicino", le disse. Antoine socchiuse di nuovo gli occhi. Era stanco dopo aver trascorso gran parte di quel 2 marzo in treno. Di ritorno a Ginevra, aveva avuto tutto il tempo per ripercorrere l’intera giornata, ad iniziare dal traumatico risveglio, provocato da un’autoambulanza, sfrecciata, alle cinque, sotto casa sua. "Maledetta sirena!" esclamò. Aveva avuto un sussulto e immediatamente si era messo a pensare alla deposizione che avrebbe dovuto rendere. Ripensò all'incontro con Enzo Faramelli. "Non avrei mai potuto immaginarne le conseguenze". Eppure vedendolo entrare nell'ufficio di Eva, aveva potuto notare la preoccupazione dipinta sul suo volto. "Rimasi colpito. Era evidente che quell’uomo avesse difficoltà a riposare". Sul viso, già di per sé scarno e ossuto, si potevano notare due profonde occhiaie, esageratamente nere. A partire da quelle concavità, si sporgevano due occhi spiritati, che i raggi del sole illuminavano di uno strano colore rosso. "Nonostante facesse caldo, l'uomo si torturava con una giacca di panno di colore marrone totalmente inappropriata. Era certamente di una taglia più grande perché gli cadeva male sulle spalle. Lo incartocciava come un adolescente costretto a vestire un abito da uomo. Anche i pantaloni gli cadevano male e si sorreggevano solo grazie ad una cintura di pelle". A ritmo cadenzato, quasi ogni cinque minuti, Enzo tirava su la 242 cintura per rimodellarli sulle gambe, anch'esse scarne e filiformi. "Lo osservai e anche Eva lo fece". Benché l’uomo ossuto si esprimesse in francese, si poteva cogliere uno strano accento che lo accomunava al tizio con il quale aveva fatto l'amore qualche tempo prima. Eva, di fronte a Enzo Faramelli, aveva pensato al napoletano, ‘l'uomo che mi ha avuta senza che io lo volessi ’. Che strano destino il suo! Rigida e austera sul lavoro, debole e remissiva nella vita privata. Si era concessa al napoletano per un ricordo mal digerito. L’incontro con l’accento di Enzo, l’aveva riportata indietro nel tempo. "La memoria involontaria, innescata da quell’accento mi diede una carica di energia positiva", Eva confessò a se stessa. Antoine ed Eva rimasero impressionati dal racconto dell’uomo ossuto. Entrambi avvertirono un forte sentimento di responsabilità. "Ha coraggio!" sostenne Eva, parlando di Enzo. "Andrebbe aiutato", mormorò Antoine. "Ci devo pensare", rispose Eva. Si trattava di una decisione importante. "Dovrei fare la fronda alla Commissione", aggiunse. "Sarebbe più difficile fronteggiare la reazione degli industriali". Antoine, ancora tra le braccia di Ana, pensò al seguito di quell’incontro. "Eva, come promesso, prese la decisione di supportarne l'azione. Mi pregò di approfondire gli aspetti della riforma e di soffermarsi sulla questione dei brevetti". Quando la proposta venne discussa in sessione plenaria del Parlamento europeo, Eva fu molto chiara. Il 15 aprile 1994 é stato creata l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, come ultimo atto dell'Uruguay Round. Le parti firmatarie hanno aderito agli accordi multilaterali sul commercio delle merci, e soprattutto all'accordo sugli aspetti di diritti di proprietà intellettuale, TRIPS. Nel 1995 anche i farmaci 243 sono stati inclusi tra i beni da brevettare e regolamentati dall'OMC, come i CD o come una Barbie. Prima dell'Uruguay Round e della nascita dell'OMC, numerosi stati non riconoscevano il diritto dei brevetti sui prodotti farmaceutici, con grande rammarico dei maggiori laboratori farmaceutici, i cui prodotti non potevano essere protetti ovunque. I farmaci protetti dai brevetti sono costosi. Il detentore del brevetto, che ha il monopolio del farmaco, cerca di trarne il massimo profitto ma non appena è possibile la concorrenza dei generici, il prezzo crolla. Quando nel 2000 il governo brasiliano iniziò a produrre farmaci generici per l'Aids, i prezzi scesero dell'82%. I brevetti costituiscono un ostacolo importante all'accesso a nuovi farmaci in paesi con poche risorse. Le aziende investono preferibilmente in mercati commercialmente remunerativi e tendono a dimenticare quelli poco redditizi, cioè le aree in cui i bisogni sanitari sono maggiori. Il modello d'incentivazione, in genere, ritenuto adatto a stimolare l'invenzione di nuovi prodotti per la salute pubblica nel Nord del mondo pare avere poco o nessun valore quando si parla di bisogni della gente nei paesi poveri. Si tratta di una conseguenza logica del meccanismo di ricerca e sviluppo basato sui brevetti, su cui poggia oggi la nostra società. Bruxelles "Mi sembra sia giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla riforma della legislazione farmaceutica", riferì Eva ai colleghi riuniti in seduta plenaria. In un mondo in cui i farmaci sono diventati brevettabili ovunque le istituzioni, ad iniziare da quelle europee, devono garantire un forte sostegno politico all'obiettivo primario che è quello di proteggere la salute dei cittadini. L'accesso ai farmaci essenziali rappresenta una necessità e un diritto fondamentale di ogni popolazione. La riforma che siamo chiamati ad approvare deve creare le condizioni affinché i farmaci essenziali siano disponibili in modo adeguato, tempestivo e sostenibile per tutte le popolazioni, incluse quelle vulnerabili. Si devono cercare altresì le condizioni per colmare lo squilibrio esistente fra i paesi industrializzati e quelli poveri per quel che riguarda il diritto all'accesso a terapie essenziali e salvavita. 244 Contemporaneamente, al Tribunale, qualche minuto dopo la testimonianza di Enzo Faramelli, l'avvocato difensore di James chiese alla Corte se il suo assistito potesse rendere delle dichiarazioni spontanee. Il rappresentante dell'accusa allora si rivolse verso James e lo guardò intensamente, mentre il giudice, con una flemma tipicamente belga, si limitò a dare la parola all'imputato. James si alzò in piedi. Era stanco. Aveva trascorso l'ennesima notte insonne, spesa a ripercorrere la sua storia con Marita e il rapporto con la sua famiglia. Il pensiero dei figli era stato prepotente e devastante, quello per la moglie dolce e, allo stesso tempo, irriverente. Sentì di essere sfuggito alla sua dimensione. "Non posso liberarmene. Se anche dovessi uscire incolume dal processo, rimarrebbe una cicatrice profonda. Ho provato a giocare un gioco più grande di me e ne sono uscito sconfitto". Il giudizio di assoluzione o di colpevolezza avrebbe cambiato poco la sua condizione. Dopo aver osservato i presenti, sollevò lo sguardo verso il giudice. "Sono qui per riconoscere la mia sconfitta. Dio solo sa quanto possa desiderare non aver fatto quello che ho fatto. Ho chiesto io di dare una lezione a Enzo Faramelli. Non avrei mai immaginato di riuscire a ordinare l'eliminazione di un essere umano eppure ci sono riuscito. Non era Jan Schiller che andava eliminato ma Enzo Faramelli. Credo che la morte di Jan Schiller sia stata un errore. Ora sono qui per ammettere la mia colpevolezza". "Non sa cosa sta dicendo…", affermò il suo avvocato difensore. "La prego, avvocato…", rispose James. "Chiedo che la deposizione del mio assistito non venga messa a verbale. Il signor D'Angelo è molto stanco". "La prego, avvocato, lo lasci terminare", ordinò il giudice. "Non ho niente altro da aggiungere, se non invocare il vostro perdono", concluse James. 245 Mumbai Avanish posò la tazza sul tavolo. Poi si alzò dalla sedia e andò fuori. Faceva già molto caldo ma quel che è peggio l'umidità sembrava fermargli il respiro. Il grido di perdono che James stava pronunciando nell'aula di tribunale era diretto sopratutto a lui, benché non potesse udirlo. Antoine gli avrebbe riferito quel grido, due mesi dopo, il 2 maggio. "Hai paura del perdono?" gli domandò Antoine. Avanish non rispose. Ricordava la prima volta che lo aveva incontrato. Era stato drammatico. "È morto!" gli disse, senza giri di parole. "E il negozio di scimitarre?" "Non esiste più". Antoine era risalito ad Avanish, proprio a partire dal negozio di scimitarre che non c'era più. Aveva impiegato qualche giorno per trovare il cammino che conducesse alla verità su Madan. "È morto perché non si é potuto curare", disse Avanish ad Antoine. "Cosa resta di lui?" "Io e i miei due fratelli". Il 2 maggio, Antoine ritornò in India con Ana. "Mi prenderò cura di voi", promise Antoine. Avanish tornò a sorridere. Ana gli si avvicinò. "Vieni qui". Poi lo strinse e lo baciò. "Verrete con noi a Ginevra. Dovremo abituarci a vivere insieme". 246 247