Leggi - dino nicolia

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TRIPS
di
Dino Nicolia
Book Trailer:
http://www.youtube.com/watch?v=OG39RpsShHA
Ogni riferimento a fatti e/o persone reali è puramente casuale
2005 – LA SETE
31 gennaio
Mumbay
"Prendi anche l'ultima scatola, Avanish", disse Ekta,
rivolgendosi al figlio.
Lui la guardò interdetto. Non sapeva dove la madre l'avesse
riposta. Si diresse di nuovo verso casa, entrò e, spostando leggermente
la tenda, poté scorgerla. Si piegò sulla scatola di cartone, che si trovava
proprio dietro la porta di entrata e la afferrò con entrambe le mani. Era
pesante e, per poco, non gli sfuggì.
"Maledizione!" esclamò Avanish.
Fece appena in tempo a spingerla contro il muro, utilizzando le
ginocchia, per non farla cadere. Tentò di riprendere stabilità, ma non
riuscì a sollevarla.
"E ora come faccio?" chiese a se stesso, restando immobile in
quella scomoda posizione.
Ritenne, allora, di avere sbagliato la presa e decise di riporre
nuovamente la scatola per terra. Si rese conto che non avrebbe mai
potuto farcela se non l'avesse afferrata per bene. Pensò che il segreto
fosse nel lasciare scorrere la mano destra sotto la scatola, in modo da
sollevarla leggermente, poi infilare l'altra mano e quindi fare uno scatto,
come aveva visto fare ai sollevatori di pesi in televisione. Lui non
avrebbe avuto la pretesa di portarsela sulla testa, come facevano i
sollevatori di pesi, ma quello scatto sarebbe stato sufficiente per
avanzare e giungere fino al vecchio pulmino, parcheggiato di fronte alla
casa dello zio.
Ekta stava attendendo fuori, mentre Ishan e Bina avevano già
preso posto. Si erano seduti sul sedile posteriore. A fatica erano riusciti
a ritagliarsi uno spazio striminzito, in mezzo alla risma dei pacchi e
degli abiti, sistemati alla rinfusa. In verità, Bina non era neanche riuscita
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a trovare il posto per sedersi comodamente. Al lato aveva dei vestiti
sdruciti, caduti da una vecchia valigia di plastica marrone che Ekta e il
cognato avevano, inutilmente, provato a chiudere con uno spago. La
pressione dei panni aveva allentato lo spago e alcune magliette colorate
erano cadute sul sedile. A quel punto, Bina aveva deciso di sedersi
sopra le magliette colorate, senza fare molto caso a dove mettesse i
piedi. La madre fece finta di non vedere. Non la rimproverò e lei
rimase seduta sopra i panni.
Ekta non aveva l'energia per rimproverarla. Stanca e disillusa,
accettava l'evolversi della propria vita. A nulla sarebbe valso
combattere. Era come se nella sua mente si fosse spento il ritmo della
quotidianità.
Quando Avanish giunse con la scatola di cartone nei pressi del
pulmino, Ekta lo aiutò meccanicamente a deporla nel cofano. Anche lì
non c'era spazio e dovettero fare una fatica enorme per farla entrare. La
spinsero più volte, dapprima, verso destra, poi, verso sinistra.
Finalmente riuscirono a trovare il varco giusto per infilarcela.
Alla guida del pulmino c'era Namdev, un vecchio amico del
cognato di Ekta. Avrebbe condotto ciò che restava di quella famiglia
maledetta dalla parte opposta della città, dove la madre e i suoi figli
erano riusciti a trovare un buco che li ospitasse. Namdev non tradiva le
origini del suo nome. Era un poeta ma non perché scrivesse poesie. Era
un poeta per la filosofia di vita che aveva adottato, fin dai tempi in cui
amava perdersi nei campi.
"La vita é come una margherita, che va sfogliata petalo per
petalo", diceva Namdev, quando parlava della sua esistenza.
I petali della sua vita non gli avevano dato molto, ma a lui, in
fondo, era andata bene così. Gli era bastato sfogliare la sua margherita
un petalo alla volta, per provare ad assaporarne il profumo. Quelli che
lo conoscevano lo avevano apprezzato per questo.
Ekta non lo aveva mai visto prima ma il cognato l'aveva
assicurata che del poeta si sarebbe potuta fidare.
"Ti darà una mano e, se necessario, ti aiuterà anche a sistemare
la tua nuova casa".
"Sai bene che non si tratta di una casa", gli aveva risposto Ekta
ma il cognato aveva fatto finta di non sentire. Si era voltato e se ne era
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tornato sull'uscio di casa.
Dopo essere riuscita a trovare lo spazio per l'ultima scatola di
cartone, per Ekta e i suoi figli non restava più niente da fare da quelle
parti. Tra quelle mura avevano speso gli anni più belli della loro
effimera esistenza, ma per loro non ci sarebbe stato più spazio.
Avanish, che esattamente due mesi e due giorni prima aveva
compiuto quattordici anni, appariva triste, mentre Ishan e Bina non lo
erano. Ishan faceva le boccacce a Bina e Bina le faceva a Ishan.
Entrambi facevano le boccacce e ridevano. Avanish, invece, era davvero
triste. Nella sua giovane mente scorrevano i ricordi di quella breve vita.
Il sorriso del padre, l'abbraccio della madre, la palla da tennis con cui
giocava sul prato.
Ekta se ne accorse e lo osservò. Aveva sempre avuto a che fare
con i ragazzi e aveva imparato a leggerne i sentimenti.
"Esiste nell'animo di un adolescente la percezione della fine?"
Si chiese. "Non sarebbe logico e neanche coerente".
Eppure, il viso di Avanish tradiva il senso della fine. Allora
Ekta lo strinse a sé e gli diede un bacio sulla fronte.
"Bisogna sempre sperare nel meglio, Avanish".
Lo abbracciò ancora una volta e lo aiutò a salire sul pulmino.
Avrebbe voluto sedersi davanti, ma Ekta non volle. Gli disse di sedersi
dietro e Avanish lo fece.
"Mi sembra che tutto sia stato caricato", osservò Namdev.
"Si, si…è tutto qui dentro", sospirò Ekta.
La donna volse lo sguardo verso il cognato. Avrebbe voluto
abbracciarlo, sebbene nutrisse un forte risentimento nei suoi confronti.
"Allora,
sorridendo.
andiamo…in
marcia…",
affermò
Namdev,
Avanish guardò Namdev, si girò dal lato delle mura, che stava
abbandonando e poggiò la testa sul vetro. I capelli neri, schiacciati, ne
ammorbidirono l'impatto.
Tra quelli che partivano e quelli che restavano si apriva un
baratro, che non sarebbe mai più stato colmato. Tutti ne avevano
consapevolezza. Si scambiarono degli sguardi, poi si salutarono con la
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mano, evitando qualsiasi contatto tra di loro.
Ekta si sedette davanti, al lato di Namdev, che partì, facendo
un cenno di saluto. Il vecchio amico fece qualche passo indietro,
rinculando nuovamente sull'uscio. Vi rimase fin quando il pulmino di
Namdev non sparì dal suo orizzonte visivo. Poi rientrò in casa, si
sedette su una sedia nel piccolo cortile antistante e bevve. Faceva caldo
e lui aveva sete.
Bruxelles
Erano da poco passate le quattro del pomeriggio ed Enzo
Faramelli aveva sete.
"Continuo a mozzicarmi la lingua. Invece, avrei bisogno di
bagnarmi le labbra", sospirò.
Aveva due opzioni possibili, una Coca-Cola al pian terreno
oppure una birra al Wild Geese. Nel primo caso sarebbe dovuto uscire
dall'ufficio, prendere l'ascensore, scendere tre piani, attraversare un
lungo corridoio e giungere in caffetteria, dove avrebbe avuto la sua
bibita preferita. Nel secondo caso, avrebbe dovuto attendere ancora un
paio d'ore, fare parzialmente lo stesso percorso, uscire dall'edificio,
attraversare Rue Joseph II ed entrare al Wild Geese.
Rue Joseph II si snoda lungo noiosissimi palazzi di marmo, vetro
e cemento, al centro di un quartiere senza anima, composto per
l'ottanta per cento da uffici. Quando scende la notte, non resta nulla del
vociare del giorno. E quando scende la nebbia sulla notte di Bruxelles, i
noiosi palazzi di marmo si confondono nel grigio. Solo le luci del Wild
Geese gli forniscono ossigeno per respirare. Non ci fosse il pub
irlandese, si potrebbe perfino vedere il cappio al collo, che soffoca la
strada e i suoi impavidi residenti.
Enzo Faramelli, sorprendentemente, scelse la seconda
opzione. Nonostante avesse sete, decise di attendere ancora due ore,
prima di bere. Anzi, scelse di attendere due ore, proprio perché aveva
sete. Il paradosso della scelta calzava a pennello sulla sua figura. Enzo
associava la sete alla birra e quando aveva veramente sete non pensava
ad altro che alla birra. Il Wild Geese, nel deserto di Rue Joseph II, lo
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avrebbe aiutato a compiere il paradosso della sua scelta.
A mezzogiorno e mezzo aveva mangiato una pizza intera alla
Riviera, insieme a Javier Gonzales e Damien Kudada. Durante il
pranzo aveva bevuto dell'acqua liscia ma, alle quattro, la sete gli era
tornata prepotente.
Nessuno dei suoi colleghi avrebbe potuto sospettare che Enzo
avesse tanta sete. Solo chi ne ha tanta riesce a percepire la sensazione
della sete degli altri. E solo chi non riesce a soddisfarla ne teme la
sensazione quando arriva. Non era il caso di Enzo. Non era neanche il
caso dei suoi colleghi. Sapevano che avrebbero potuto soddisfare la
sete come avrebbero voluto.
Enzo continuò a lavorare tranquillamente nel suo ufficio,
facendo crescere il desiderio. Lo fece ancora per due ore, come aveva
previsto. Alle sei in punto spense il computer e si alzò dalla sedia
ergonomica, che aveva fatto portare apposta per alleviare i maledetti
dolori alla schiena, che lo tormentavano dall'età di venti anni. La
accostò alla scrivania e si mise in cammino. Doveva prendere
l'ascensore, scendere tre piani e imboccare la porta d'uscita.
In ascensore incrociò Jean Marc Brunet. I due si conoscevano.
L'ufficio di Jean Marc non era lontano dal suo. Li separavano due
porte, che davano entrambe sulle scale che, nessuno aveva mai
utilizzato per scendere da un piano all'altro. Una volta era capitato che
avessero discusso della conferenza di Copenhagen su Competizione
industriale e apertura di nuovi mercati. Avevano preso parte alle
riunioni preparatorie e, giunti a Copenhagen, si erano confrontati sui
paesi terzi.
Jean Marc gli aveva chiesto cosa lui intendesse per paesi terzi.
Enzo gli aveva risposto, senza cadere nell'ipocrisia del politically
correct.
"Sono gli stati sfigati che, purtroppo per loro, non fanno parte
del circolo virtuoso degli eletti europei. Si trovano alle porte
dell'Europa, distanti lo spazio sufficiente per sentire l'odore del
benessere".
"Possono vedere ma non toccare".
"Esattamente!"
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Avevano parlato anche di concorrenza industriale e nuovi
mercati, perché entrambi avrebbero dovuto preparare un briefing per il
giorno successivo e avevano necessità di coordinare i loro input.
Nonostante avessero avuto modo di parlare, quando Enzo
entrò in ascensore e vide Jean Marc, non disse nulla. I due si
ignorarono completamente. Enzo preferì fissare lo specchio, che aveva
di fronte, mentre Jean Marc seguì la luce gialla posta sulla porta, che
illuminò, dapprima il quattro, poi il tre, il due, l'uno e, infine, lo zero.
Non si salutarono neanche di fronte alla porta d'uscita La varcarono
continuando a ignorarsi, proprio come due perfetti sconosciuti.
"Che strana sensazione quello specchio!" sospirò Enzo.
Era abituato alle strade, alla polvere, alla puzza di gasolio, alle
officine scalcinate. Si era sempre perso e ritrovato, senza mai guardarsi
dentro. L'uomo amava fermarsi nelle bettole e nei piccoli alberghi, a
ridosso delle frontiere e tra i faccendieri. Enzo amava tutto quello che il
suo Mediterraneo rappresentava fuori dagli stereotipi e lontano dalle
cartoline per i turisti. Il Mediterraneo lo aveva marchiato. Solo lui che
c'era nato poteva averlo dentro. Il mare e il sole erano connaturati alla
sua coscienza.
La concezione della vita di Jean Marc non era tanto diversa da
quella di Enzo ma nessuno dei due lo sapeva. Jean Marc era nato nel
nord della Francia, quella che i niçoises neanche conoscono,
immaginandola triste e piovosa, fredda e sconsolata. I francesi del sud
la qualificano senza esserci mai stati. Eppure quella Francia è molto più
mediterranea della Côte d'Azur. La gente parla, sorride, sa riconoscere
l'ora del tramonto senza restarne abbagliata.
Sarebbe stato nella natura di entrambi salutarsi e discutere.
Eppure non lo fecero, lasciando prevalere un misterioso senso di
riservatezza, che solo Bruxelles è capace di trasmettere. Se Enzo avesse
incontrato Jean Marc da qualche altra parte del mondo, avrebbe
certamente chiacchierato con lui. A Bruxelles, invece, riuscì ad
ignorarlo, pur trovandosi a pochi centimetri di distanza.
In quegli attimi di silenzio, gli tornarono in mente i vicoli del
Mediterraneo, dove conta ancora il tempo perso al tavolino e il non
fare niente per percepire se stessi. La paura del vuoto non si avverte e
non c'è la necessità di riempire tutti gli spazi. A Bruxelles, ogni attimo,
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ogni silenzio, ogni luogo deve essere riempito di azioni, di suoni o di
merci da produrre e, poi, consumare.
Uscì dall'ascensore subito dopo Jean Marc e si diresse verso
l'uscita. Intravide il capo pelato dell'usciere calabrese.
"Quando vai in Calabria?" gli chiese Enzo.
"Purtroppo solo in estate, dottore", gli rispose l'usciere, che se
ne stava seduto dietro il bancone dell'entrata, come se fosse al
comando di una nave.
"Dovresti dare più valore al riposo", gli fece notare Enzo, che,
intanto, aveva appoggiato la mano destra sul bancone.
"Non c'è tempo, dottore".
"Ecco, la disponibilità del tempo…"
"Il tempo, ci manca il tempo, dottore".
"Tempo, spazio, calma sono beni persi nel tempo, resi sempre
più scarsi e che proprio per questo dovrebbero rappresentare i nuovi
status symbol. Dovrebbero essere i nuovi beni di lusso ai quali
dovrebbero accedere quelli che stanno bene. Ma avere più tempo libero
è davvero qualcosa che ognuno di noi debba augurarsi?" chiese Enzo,
sviluppando un monologo, che solo lui era capace di intendere.
L'usciere rimase interdetto, non sapendo cosa avrebbe dovuto
e potuto rispondere.
"Sarebbe meglio non affidare questi interrogativi ai sociologi.
Meglio affidarli a Pascal", aggiunse Enzo
"Come dice, dottore?" domandò l'usciere, sempre più
interdetto.
"Che chi vuole riempire tutti i vuoti, spesso lo fa per evitare di
restare solo con se stesso".
"Io ci resterei volentieri. Solo con me stesso, intendo. Se
potessi, ovviamente…"
"E perché non lo fai?"
"Mia moglie, i bambini…non è facile".
"E, invece, dovresti trovare il tempo per te stesso".
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"…E poi il lavoro…i soldi…"
"Ah, il lavoro…Ti assicuro che molti si rifugiano nella
medicina del lavoro per evitare di restare soli con loro stessi. Sono
quelli che non avrebbero neanche bisogno di lavorare".
"Beati loro", concluse l'usciere calabrese.
Il tempo libero è soprattutto dialogo con se stessi, ma é come
la libertà di parola. Una volta ottenuta occorre che sia utilizzata per dire
qualcosa. La disponibilità di tempo è una benedizione per pochi e una
maledizione per molti. In fondo, se Enzo avesse trovato il tempo di
riflettere, avrebbe potuto scoprire, suo malgrado, che si trattava di una
maledizione anche per lui.
Aveva lasciato la quiete della provincia per il dinamismo di
Bruxelles, temendo che il suo piccolo paese lo potesse costringere a
pensare. A Bruxelles, invece, il tempo per pensare non lo aveva mai
trovato. Si svegliava la mattina presto, si precipitava al lavoro,
ingurgitava un caffè durante una pausa volante, sbocconcellava un
panino davanti al video del suo computer, correva a casa, sudava un
paio d'ore in palestra, faceva un salto al supermercato, preparava in
fretta la cena e, poi, usciva di nuovo per una serata al cinema, a teatro
oppure in discoteca. La sera crollava, esausto.
"Perché non riscoprire il valore positivo dell'ozio e metterlo al
centro di uno stile di vita più sostenibile?" chiese Enzo all'usciere, che
non gli rispose.
Enzo avrebbe dovuto porre quella domanda soprattutto a se
stesso. Nel mondo che aveva scoperto a Bruxelles, dominato dall'etica
del lavoro, dall'efficienza, dai martellanti messaggi che incitano a fare,
produrre, guadagnare, consumare, il non atto dell'ozio veniva
considerato quasi un atto sovversivo, rivoluzionario.
Avrebbe dovuto porre quella domanda soprattutto a se stesso
perché da tempo aveva iniziato ad avvertire l'esigenza di riappropriarsi
del proprio tempo e di percepire il profumo della libertà di vivere la
vita che si vuole fare. Liberi da capi, salari, pendolarismo, consumi e
debiti.
Perché allora porre quella domanda all'usciere di origini
calabresi? Era l'unico che lo salutava, pur non conoscendone il nome.
L'uomo nella cabina di comando della nave era diverso da Jean Marc
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Brunet. Era ormai un belga mediterraneo, benché lui si dichiarasse
italiano ed Enzo avesse considerato come vera la sua dichiarazione.
L'Italia l'aveva conosciuta attraverso il racconto della madre. Ci
andava in vacanza d'estate, tre settimane in Calabria nel mese di agosto.
Diceva di essere italiano perché durante il campionato europeo di
calcio, aveva fatto il tifo per l'Italia, anche quando la squadra italiana
aveva incrociato sul suo cammino la Nazionale belga. Enzo lo aveva
interpretato come un atto di fede e aveva pensato che la soffice
morbidezza dell'essenza mediterranea si fosse ben conservata sotto la
crosta nordica. Si sarebbe volentieri fermato a discutere più a lungo, se
avesse potuto. Però, andava di fretta. Aveva sete e doveva soddisfare la
sua percezione. Aveva trascinato la sua sete per due ore e non aveva più
la forza fisica per aspettare di bagnarsi le labbra.
Il Wild Geese era a portata di mano. Altri cinque minuti,
compresi i tempi morti spesi tra l'ordinazione e la rimessa della birra
direttamente al tavolo, e si sarebbe finalmente dissetato. Percorse il
cammino che lo separava dalla birra, a passo svelto. Entrò al Wild
Geese e si sedette al primo tavolo che trovò libero.
"Can I help you?" Le chiese la cameriera irlandese.
"Una birra, fredda e bionda come quella signora", rispose
Enzo, indicandola con il dito.
La cameriera irlandese gli portò la birra. Subito dopo avergliela
versata nel bicchiere stretto e alto, gli mostrò lo scontrino. Enzo, prima
ancora di tirare fuori le monete per pagare, bevve la birra e si sentì
rinascere.
La butto giù in due soli sorsi. Pensò che l'attesa fosse stata
ricompensata. Qualche minuto dopo, poté abbandonare il Wild Geese
per ritrovarsi di nuovo nella strada senza anima.
Mumbay
Nel pomeriggio, Avanish scese in strada. Non conosceva
ancora nessuno nel suo nuovo quartiere. Tirò la palla contro il muro di
pietre ma non rimbalzò. Provò ancora una volta ma l'effetto fu lo
stesso. Rinunciò a tirare la palla e si sedette in un angolo, con le spalle
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appoggiate al muro di pietre. Gli apparve strano, deforme, come se non
avesse un'anima. Ebbe nostalgia della vecchia casa ma, soprattutto,
ebbe nostalgia di suo padre che non c'era più. Era morto da quasi un
mese e non c'era stato un solo giorno che non avesse pensato a lui. Lo
ricordò come un uomo dolce, capace di trasmettergli il gusto per le
cose che possono piacere agli altri.
Ricordò che il primo giorno di scuola lo aveva tenuto per
mano. Allora, si portò la mano destra su quella sinistra. La strinse per
provare a rivivere le sensazioni di quel giorno. Chiuse gli occhi per
renderle ancora più vere ma, pochi attimi dopo, l'effetto si dissolse.
Avanish aprì gli occhi e riprese contatto con la realtà. Si alzò in piedi e
scagliò nuovamente la palla con rabbia contro il muro.
Anche Ekta aveva pensato ogni giorno al marito. Da giovane
era stata una bellissima ragazza, con la carnagione scura, gli occhi neri
grandi, i capelli lunghissimi, lisci e neri. Elegante e aggraziata.
Quando studiava all'università era stata innamorata di un suo
compagno di studi. Ora non ne ricordava più neanche il nome. Lo
frequentò per quasi un anno, fin quando la madre, una sera di aprile, le
disse che insieme a suo padre avevano scelto per lei un altro uomo.
"Perché?" domandò alla madre.
"Perché non sei solo tu a sposarti".
"Spero che mi piaccia".
"Ti piacerà".
Alla fine, accettò serenamente la scelta dei genitori.
"Se piace a te, piacerà certamente anche a me", riferì alla
madre.
Le due famiglie organizzarono il matrimonio. La nonna, madre
di suo padre, decorò le partecipazioni due giorni prima. Appose un
cordoncino dorato, legato in fondo da un fiocchetto rosso, simbolo di
buon augurio. La prima facciata della partecipazione, che rappresentava
una scena di matrimonio, era simile a una miniatura incisa in oro e
polvere rossa.
"Vai da tua madre", le consigliò la nonna, "non perdere tempo
qui con me".
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Stava arrivando il futuro sposo e Ekta e la madre lo avrebbero
accolto sulla porta. Prima, però, avrebbero dovuto preparare i dolci di
benvenuto.
"Cucina quelli con il miele, il burro fuso, le banane e il riso per
accoglierlo nel migliore dei modi", gli suggerì la nonna.
"Non sono facili da fare", commentò Ekta.
"Per questo ti ho detto di andare da tua madre. Fatti aiutare da
lei".
Ekta fece una smorfia di disappunto. La nonna la rassicurò.
"Anche tua madre non sapeva prepararli. Le ho fatto vedere io
come si fa’ e ora lei lo farà vedere a te".
Il futuro sposo giunse a casa di Ekta a cavallo. Erano le quattro
del pomeriggio. Lei aveva cucinato i dolci con il miele, il burro fuso, le
banane e il riso per accoglierlo nel migliore dei modi, così come le
aveva proposto la nonna. Non era stato facile ma sua madre l'aveva
aiutata.
Il futuro sposo, dopo essere sceso da cavallo, salutò la madre, il
padre e la nonna di Ekta. Finalmente si avvicinò alla sua futura moglie
e le prese la mano.
La sera prima delle nozze, Ekta si ritrovò con le amiche.
"Scommetto che la prima cosa che ti chiederà sarà di fare un
lungo viaggio in Europa", affermò Amita.
"Non credo me lo chiederà. In Europa ci va per lavoro".
"Lui ci andrà per lavoro e tu per piacere", la interruppe Amita,
provocando l’ilarità delle altre ragazze.
Anche Ekta sorrise. Poi aggiunse: "Non è importante. A me
non interessa tanto l’Europa".
"Però ti piacerebbe viaggiare?" Domandò Kusuma.
"Non lo so", replicò Ekta.
"Sarebbe un modo per conoscervi. Io ritengo di avere
veramente conosciuto mio marito durante il viaggio in Rajasthan. La
gente si svela completamente quando viaggia", aggiunse Rama, che era
la meno giovane tra tutte.
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"Vuoi dire che chi non viaggia non conoscerà mai suo
marito?"
"No, non sono tanto sciocca".
"Vuole dire che chi viaggia conosce meglio", provò a spiegare
Kusuma.
"Chi viaggia si libera della maschera che indossa e mostra se
stesso".
"Un marito che resta a casa e non viaggia indosserà sempre
una maschera", esclamò provocatoriamente Amita.
"Non lo so, non lo so", rispose Rama, "mi state imbarazzando
con le vostre osservazioni. Io volevo semplicemente dire che il viaggio
svela la vera natura degli uomini".
Smisero di parlare di viaggi e di uomini e ripresero a mangiare.
L’aria calda della sera inteneriva il pane e ammorbidiva il riso.
Il giorno successivo Ekta e il suo sposo celebrarono il
matrimonio sotto una tettoia. Faceva molto caldo e non avrebbero
resistito se si fossero esposti direttamente al sole.
Lo sposo indossava un vestito bianco, al collo alcune ghirlande
di fiori. Dai capelli gli scendeva sulla fronte un ornamento d'argento,
che si andava a posare tra le due sopracciglia.
Ekta vestiva un sahari bianco, finissimo, di toussour di seta con
bordi in oro. Dalla madre, era stata ricoperta di monili di oro, parte
della sua dote. Ghirlande di fiori e ornamenti in oro sulla fronte.
Gli sposi vennero unti con unguenti profumati e polvere di
zafferano. Fu ovviamente acceso il fuoco sacro, simbolo del Dio Honi,
vicino al quale erano stati posti un vaso d'acqua e una pietra. Ekta e suo
marito fecero un giro intorno al fuoco, compiendo il rito dei sette
passi. Il marito, infine, toccò il cuore di Ekta, legandole il mangala
subrabandhana al collo.
La cerimonia fu molto lunga. Alla fine, entrambi gli sposi non
desiderarono altro che riposare.
Da quel matrimonio nacquero tre figli. Dapprima Avanish e,
dopo qualche anno, Ishan e Bina.
Ekta, in particolare, li aveva tanto desiderati e avrebbe voluto
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goderseli a lungo. Invece, le cose non andarono come avrebbe sperato.
Scoprì la malattia del marito ancora prima che il marito stesso ne
venisse a conoscenza. I risultati delle analisi le furono comunicati dal
medico dell'ospedale.
"In questi casi preferisco parlarne dapprima con un congiunto
e, solo nel caso venga esplicitamente autorizzato, ne parlo direttamente
con il diretto interessato", affermò il medico.
"Ne parli prima con me", confermò Ekta.
"I risultati delle analisi sono inequivocabili. Suo marito ha
contratto il virus".
Ekta scoppiò in lacrime.
"Non si deve disperare. Proveremo a curarlo", tentò di
rassicurarla il medico.
Ekta, invece, continuò a piangere. Era consapevole che le
parole del medico rappresentavano una sentenza di morte.
"Sarò io a parlarne con mio marito", propose Ekta.
Non lo fece. Pensò che sarebbe stato come farlo morire prima
del giorno che il destino gli aveva dato in sorte. Sapeva che non sarebbe
stato possibile curarlo. Non in India. Forse da qualche altra parte del
mondo.
Quando fece ritorno a casa, nascose gli esiti delle analisi al
marito ma, quando la situazione iniziò chiaramente a degenerare, non
poté non confidargli il suo terribile segreto.
"Dovrai lottare con tutte le tue forze, perché il male che è in te
proverà a sopraffarti".
"Non so quante forze mi siano rimaste".
"Non importa quante te ne siano rimaste. E’ importante
lottare".
"Si deve lottare quando c’è una speranza di vincere. Tu pensi
che io abbia una speranza?"
"Si deve lottare sempre e comunque. Non conta il risultato
della battaglia quanto la tensione che ci metti. Il giorno in cui esalerai
l’ultimo respiro non dovrai rimproverarti di non avere lottato".
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Il giorno dell’ultimo respiro giunse puntuale. Il marito di Ekta
morì non senza potere dire di avere lottato fino alla fine.
Anche Avanish sapeva che suo padre aveva lottato. Promise a
se stesso che avrebbe ricordato per sempre quella lezione.
Nel quartiere, tutti sapevano e tutti aspettavano il giorno della
sua morte. Anche suo fratello attendeva il giorno della morte. Si
trattava di un fatto ineluttabile, che non si sarebbe potuto evitare. Non
si conosceva il giorno e l’ora, ma prima sarebbe accaduto e meglio
sarebbe stato per tutti.
Per la precisione, Avanish seppe che suo padre sarebbe morto
il diciotto aprile 2001. Aveva solo dodici anni.
Ekta, sua madre, lo prese in disparte e gli disse: "Ormai sei
grande. È giusto che tu sappia".
Avanish ascoltava le parole della madre benché non ne
comprendesse le ragioni. Non capiva perché gli stesse dicendo che
fosse grande, ma si sentì fiero di esserlo.
Di fronte allo sguardo smarrito di Avanish, Ekta non seppe
fare altro che prenderlo tra le braccia.
"Tuo padre ci lascerà tra qualche tempo. Sarai tu l'uomo della
famiglia".
Avanish si sentì ancora più fiero. Non pensò che suo padre
non ci sarebbe più stato ma che avrebbe fatto l'uomo di casa. Quando
la madre lo abbracciò forte, avvertì il suo cuore pulsare più
rapidamente.
"Perché vuoi che io sia l'uomo della famiglia?"
"Non sono io che lo voglio. Così è stato stabilito e così sarà".
"E nostro padre?"
"Tuo padre ci lascerà".
"Per sempre?"
"Per sempre!"
A partire da quel momento Avanish si sentì più forte e anche il
giorno in cui suo padre morì, non pianse. Era stato stabilito che
dovesse essere l'uomo della famiglia e iniziò ad esserlo.
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"Il pianto mi farebbe debole agli occhi degli altri".
Avvertì, comunque, una tristezza che non lo avrebbe mai più
abbandonato. In quegli istanti, a nulla valse pensare che suo padre
avesse lottato fino all’ultimo respiro.
Neanche Ekta pianse. La notte prima della morte, rimase
accanto al marito, in attesa che gli ultimi attimi della loro unione si
consumassero.
"Voglio che tu sappia che percepisco tutti i tuoi brividi, di
dolore e di sofferenza", gli confidò.
"Prova a condividerli con me, per quanto questi brividi
appartengano solo ed esclusivamente al mio corpo", le propose il
marito.
"Sono accanto a te proprio per condividere. La sofferenza e il
dolore appartengono a tutti, benché i brividi siano solo tuoi".
L'attimo in cui il moribondo esalò l'ultimo respiro non fu
diverso da quelli precedenti. Ekta non riuscì a notare la differenza.
"Non è facile vedere la morte nel momento in cui arriva.
Sfugge, svanisce dopo avere preso quello che stava cercando".
L'attimo in cui la morte prese il corpo del marito, Ekta rimase
impassibile. Invece, Ishan e Bina piansero, ma solo perché avevano
fame. Fu pura casualità.
Avanish rimase freddo, come la madre. Sentì il sangue gelarsi
dentro le vene. Si sedette per terra in un angolo e rimase immobile per
quasi dieci minuti. Poi si alzò e si mise a guardare in strada dalla
finestra, a destra della porta di entrata.
Gli ricordarono che non doveva essere triste.
"La morte non é un evento tragico, ma un momento di lode in
cui l'anima si muove per incontrare il Supremo", precisò lo zio.
Benché quelle parole fossero state accompagnate da un sorriso
rassicurante, non suscitarono affatto sicurezza nell’animo di Avanish.
Il rito funebre durò ben tredici giorni. Come era stato stabilito,
nessuno pianse e nessuno si disperò.
Il corpo del defunto venne
lavato e rivestito con abiti nuovi. Venne deposto nel grande atrio di
entrata per essere visibile a tutti. Accanto vennero lasciati un coltello,
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un bracciale in acciaio inossidabile, un intimo, un piccolo pettine e dei
capelli integri.
I parenti si sedettero vicino alla bara. Avanish, invece, rimase
dietro la finestra. Furono recitate le scritture senza sosta, per due giorni
interi, notte e giorno. Anche nei dieci giorni successivi si recitarono le
scritture per infondere consolazione e coraggio. Il tredicesimo giorno la
salma venne condotta verso il crematorio. Lungo il cammino, si
intonarono canti per favorire il distacco dell'anima dal corpo e anche
prima della cremazione si recitarono le preghiere, invocando la
benedizione per la partenza dell'anima.
Avanish fu incaricato di infiammare la pira funebre, mentre
tutti gli altri si sedettero poco lontano. Il ragazzo indossava un velo
nero e anche tutti gli uomini che erano presenti al rito indossavano un
velo nero. Ekta, invece, indossava un velo di colore bianco come tutte
le altre donne. Mentre la salma bruciava, Avanish raggiunse la madre. Si
abbracciarono. Le ceneri vennero raccolte per poi essere disperse nel
mare.
Dopo la cremazione, la famiglia rientrò a casa. Prima di
entrare, tutti si lavarono come segno di purificazione, mentre una
candela di ghee e cotone venne accesa per purificare la casa. Un buon
odore si disperse dappertutto.
I giorni seguenti li trascorsero a leggere e cantare.
Ginevra
Non ce la faceva più ad aspettare. Avvertiva uno strano odore
di caffè, che proveniva dalla stanza vicina. Non riusciva a comprendere
se fosse realtà oppure una strana illusione olfattiva. Quel pomeriggio
Antoine aveva davvero voglia di dormire ed era sufficiente l’illusione
del caffè a tenerlo sveglio.
Si era alzato all'alba, anzi, molto prima del sorgere del sole. Il
padre lo aveva caricato sulla sua vecchia Citroen a forma di squalo e lo
aveva condotto velocemente alla stazione. Era in ritardo e, se ci fosse
stato traffico, non sarebbe mai arrivato in tempo. Fortunatamente, a
quell’ora, di macchine in giro ce n’erano pochissime ed era riuscito a
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saltare, appena in tempo, sul treno delle cinque e trenta per Lione.
Si sedette a fianco di una donna sulla quarantina che non lo
degnò neanche di uno sguardo. Lui ne approfittò per sonnecchiare. Il
viaggio non era lungo ma sarebbe bastato a ricaricarlo di quelle poche
energie necessarie per affrontare il volo dall’aeroporto di Lione a
Ginevra.
Come il tragitto in treno, anche il volo non fu particolarmente
significativo. Qualche turbolenza appena entrato nello spazio aereo
svizzero ma non successe nulla che lo potesse rendere davvero
indimenticabile. Non parlò con nessuno, neanche con i due uomini,
ben vestiti, che gli erano a fianco.
Giunse a Ginevra esattamente alle due e quattordici. Dopo
avere ritirato il bagaglio, bevve un caffè. Alle quattro e mezzo lo
attendeva Monsieur Herbert.
All'appuntamento giunse puntuale, anzi con qualche minuto
d'anticipo rispetto all'orario concordato. Il suo anticipo, tuttavia, non
valse a niente. Monsieur Herbert era occupato e, non solo non avrebbe
potuto riceverlo alle quattro e mezzo, come concordato, ma avrebbe
dovuto attendere altri dieci minuti. Infatti, subito dopo essersi fatto
annunciare, gli fu stato chiesto di pazientare.
"Non c’è problema", rispose prontamente.
"Bene!" Esclamò Mademoiselle Henriette, una giovane con il
caschetto biondo, che Antoine non poté fare a meno di notare.
Indossava un jeans sdrucito e un maglione a collo alto.
"Se vuole, le faccio portare un caffè", aggiunse.
"Molto volentieri. Ne ho davvero bisogno", le rispose Antoine.
Stava per dirle che lui si era alzato presto e che il caffè lo
avrebbe aiutato a tenersi sveglio ma non fece in tempo. La giovane con
il caschetto biondo e il maglione a collo alto, non appena ebbe inteso
l’indicazione di Antoine, si diresse verso la macchina del caffè,
abbandonandolo alle sue frasi sospese.
In attesa del caffè, si stravaccò sulla poltrona di pelle morbida,
nel corridoio. Mademoiselle Henriette ritornò con la tazza in mano. La
porse ad Antoine, che la sorseggiò in maniera regolare. Un sorso, una
pausa, un altro sorso, un’altra pausa fino a svuotare la tazza.
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Nonostante il caffè, faceva ugualmente fatica a tenere gli occhi
aperti e avrebbe avuto bisogno di sonnecchiare ancora un po’, come
aveva fatto in treno la mattina. Purtroppo, non poteva farlo. Monsieur
Herbert avrebbe potuto chiamarlo da un momento all'altro e non
sarebbe stato conveniente né educato, farsi trovare con gli occhi
socchiusi e, magari, il nodo della cravatta sciolto. Non gli restava altro
da fare che avere pazienza. Stravaccarsi e aspettare.
Dopotutto, aveva fatto tanto per trovarsi proprio in quel posto
e in quel preciso momento. Non poteva trattarsi neanche di un grande
sacrificio.
"Monsieur Herbert si è liberato. Può entrare", propose
Mademoiselle Henriette, abbozzando un sorriso.
"Mi scusi", replicò Antoine, riferendosi alla sua posizione da
stravaccato.
Mademoiselle Henriette fece cenno che non era importante e
gli fece comprendere che, se avesse voluto, avrebbe potuto stravaccarsi
come e quando volesse.
Antoine rimase leggermente sorpreso da quella reazione. Non
era così che immaginava quell'ambiente ovattato. Non si raffigurava i
jeans e non pensava di potersi stravaccare sulle poltrone. Si era
preparato al meglio, indossando un vestito scuro e una cravatta azzurra.
Entrando nell'ufficio venne rassicurato dall'abbigliamento di Monsieur
Herbert, che indossava un abito scuro, proprio come lui, ma che a
differenza di lui completava con una cravatta rossa con dei pois blu.
"Evidentemente Mademoiselle Henriette non fa testo", pensò,
prima di salutare Herbert.
Nel vederlo entrare, Herbert si sollevò dalla sedia e gli andò
incontro. Lo salutò con una stretta di mano.
"Prego, si accomodi", esordì con un tono gentile ma deciso.
Antoine sorrise ma non disse nulla a parte il suo nome.
C’erano alcuni documenti sulla scrivania che Herbert mise in ordine,
accatastandole l’una sull’altra.
Antoine sorrise di nuovo e Herbert iniziò a parlargli.
"Ha fatto un buon viaggio?"
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Non gli lasciò il tempo di reagire e aggiunse: "Spero di si".
"Certo, un buon viaggio", confermò Antoine.
"Non deve essere lontano Lione da Ginevra".
Di nuovo non gli lasciò il tempo di reagire. Aggiunse:
"Un'ora?"
"Di volo effettivo anche meno", replicò prontamente Antoine.
"Ah, anche meno di un’ora".
"Cinquanta minuti".
"Lione, Lione…il confine tra la Francia mediterranea e la
Francia continentale", sospirò Herbert.
Anche in questo caso, Antoine sorrise senza dire nulla.
"Ha già trovato una sistemazione?"
"No, non ancora"
"Non ha trovato una sistemazione? E dove passerà la notte?"
"Voglio dire che non ho ancora trovato una sistemazione
definitiva".
"Ah, ecco…"
"Dovrò sistemarmi provvisoriamente in una pensione ma sarà
solo per queste due notti".
"Se domani avesse bisogno di una giornata libera per
sistemarsi, non esiti a chiedermela", specificò Herbert.
"Non si preoccupi. Non credo di averne bisogno. Approfitterò
del prossimo fine settimana per sistemarmi definitivamente".
"Ah, bene!"
"Beh, si…a cosa serve il primo fine settimana se non a
sistemarsi".
"Le piace Ginevra?"
"Non saprei. Non ho avuto ancora modo di visitarla".
"Avrà tutto il tempo per farlo. Magari, non il primo fine
settimana…", sorrise Herbert.
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"Lo spero".
"Questa città è particolarmente affascinante. Anche se
parecchio popolosa, rimane ancora a misura d'uomo. Si troverà bene.
La modernità di Ginevra è ben amalgamata con il classico dei
monumenti. È elvetica per l'ordine delle strade e per la quasi maniacale
concentrazione di orologi, ma è anche nordica per l'architettura dei
suoi edifici".
Antoine sorrideva, mentre Herbert raccontava.
"La prima volta che ho passeggiato per Ginevra, l'atmosfera
era ancora più particolare. Stava nevicando, non con grande intensità,
ma quel tanto che bastasse a rendere il paesaggio urbano più ovattato,
direi più fiabesco".
Andò avanti ancora per qualche minuto, parlando di Ginevra,
della neve e degli orologi. Gli mostrò anche un piccolo orologio che
aveva sulla scrivania.
"Mi è stato donato qualche giorno dopo essere giunto a
Ginevra".
"E’ molto bello", notò Antoine, con un misto di piaggeria e
indifferenza.
"Magari anche a lei doneranno un orologio".
"Magari…"
A quel punto, Antoine smise di seguirlo.
Era stanco e non ne poteva più di Ginevra, degli orologi e
della neve. Avrebbe voluto stravaccarsi su un letto qualsiasi ma doveva
restare impalato dinanzi a quel distinto signore, che lo aveva accolto
con gentilezza nel suo ufficio, fin quando non avesse smesso di
raccontare.
"Facevo fatica a camminare…I miei piedi affondavano nella
neve che, soffice, si stava deponendo lungo i viali alberati della città.
Era calata una leggera nebbia dalla quale emergevano, come fari, le luci
dei lampioni".
Con il passare del tempo, Antoine avrebbe voluto porre fine a
quel discorso privo di senso, che Herbert stava portando avanti ma non
poteva. Non restava altro da fare che aspettare. Prima o poi avrebbe
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avuto la pietà di terminare.
New York
Due minuti dopo essere sceso in strada a cercare un taxi, che
lo portasse dall'altra parte della città, aveva già perso la pazienza.
"Puttana città e stronzi portoricani di merda", blaterò, dopo
che l’ennesimo tassista gli aveva offerto il culo della sua macchina,
senza cagarlo neanche di striscio.
"Rompono i coglioni con le loro meschine storie di poveri
derelitti ma quando servono non ci sono mai. Li ospitiamo per avere
cosa in cambio? Il culo delle loro macchine di merda. Sanguisughe
maledette…"
Quel poco di pazienza che aveva avuto in dote, gli era saltata
definitivamente. James D'Angelo aveva un appuntamento, che avrebbe
saltato volentieri, ma non poteva. Se magari qualcuno si fosse preso la
briga di avvertirli, i portoricani di merda, che gli sfilavano davanti con
indifferenza, probabilmente si sarebbero fermati. Avrebbero potuto
aiutare quell’americano che si dimenava in strada, con una valigetta di
pelle marrone sotto il braccio. Invece, sfilavano via, indifferenti.
"Maledetti, fermatevi…"
Odysseas Vakrou lo aspettava per discutere il rinnovo del
contratto. Come se non avesse già abbastanza compiti da portare
avanti, gli era stata affidata anche la questione della sicurezza.
"Che cazzo c’entro io con la sicurezza?" Aveva pensato nel
preciso istante in cui il direttore generale di Axa Pharmaceuticals gli
aveva conferito l’incarico.
L’aveva solo pensato, ovviamente, perché non si era lasciato
sfuggire una sola parola. Aveva sorriso e precisato.
"Mi sembra naturale che sia io ad occuparmene".
"Bene, D’Angelo!"
Ed era vero. Che cazzo c’entra un manager che si occupa di
aspetti commerciali con la questione della sicurezza degli edifici
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dell’azienda in cui lavora? Non c’entra nulla e non sarebbe logico che se
ne occupasse. Invece, Axa aveva una struttura interna che accoppiava
ad ogni manager un paio di responsabilità. A D’Angelo era toccata in
sorte la sicurezza. A pensarci bene, non ci sarebbe neanche stato
motivo di lamentarsi.
"In pratica si tratta di far firmare un contratto, strappare le
migliori condizioni possibili e incrementare il fatturato. In fondo, é
come fare del commerciale", pensò un attimo dopo ma solo un attimo
dopo.
James D’Angelo era il tipo dell’attimo dopo. Ci pensava solo
un attimo dopo, mai in tempo reale. Se c’era uno incapace di cogliere
l’attimo, questo era lui. Troppo orgoglioso, ripiegato sul proprio ego e
inevitabilmente irascibile per sospirare il giusto e rimettere in linea i
pensieri con la realtà. Anche nel caso della sicurezza, in fondo, un
legame con il commerciale, si sarebbe potuto trovare. Bastava cercarlo.
La decisione del doppio incarico non era stata neanche una
scelta tattica del direttore generale ma una impostazione strategica
elaborata direttamente dal consiglio di amministrazione.
"Ogni manager del gruppo deve accorpare due incarichi", era
stato marcato in grassetto nel rendiconto della riunione mensile del
gennaio 1997. Struttura snella e condivisione delle responsabilità,
sarebbero stati i due capisaldi dell’organizzazione di Axa.
Con Odysseas avrebbe dovuto discutere della manutenzione
preventiva, della sostituzione delle parti e dell'assistenza tecniconormativa. Riferiti in questi termini, James D'Angelo non sapeva con
esattezza di cosa dovesse parlare. Il dossier lo aveva studiato, anche
scrupolosamente, ma gli mancava l’esperienza. Nella sua carriera, non
gli era mai capitato di occuparsi di manutenzione preventiva,
sostituzione delle parti e assistenza tecnico-normativa. Non lo aveva
mai fatto in Axa perché il contratto precedente, di durata decennale, era
stato preparato e concluso da Vincent Del Vecchio, il manager che lo
aveva preceduto nella responsabilità della sicurezza interna del gruppo.
"Vincent era uno tosto. Non impiegava molto tempo a
concludere gli affari. Ascoltava i primi dieci minuti e poi interveniva
con decisione. Era come un cobra, indietreggiava se attaccato, attaccava
se erano gli altri a indietreggiare", gli aveva riferito il direttore generale,
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presentandogli il nuovo dossier.
"Insomma, era uno con le palle, che ha sempre portato a casa
dei buoni contratti".
"Che cazzo ci vorrà di speciale per negoziare un buon
contratto sulla sicurezza?" considerò James, tenendosi per sé le sue
convinzioni.
"Intendiamoci, nulla di speciale ma i conti li sa fare bene",
aggiunse il direttore generale, quasi avesse letto nel pensiero di James.
"Che figlio di puttana! Replica anche quando non pongo
domande. Legge la mia mente, lo stronzo!" Concluse James, sfilando il
suo ultimo pensiero.
Lui, al contrario di quel Vincent Del Vecchio preferiva
interagire. La controparte non doveva essere necessariamente
considerata un nemico. Poteva anche trattarsi di un collaboratore.
Burbero nel comportamento e negoziatore al tavolo. Questo era James
D’Angelo. Contradditorio fino al paradosso.
Negoziava, annusando le esigenze del suo opposto, perché ha
sempre creduto profondamente nella teoria dei giochi, la scienza
matematica che analizza le situazioni di conflitto e ne ricerca le
soluzioni competitive e cooperative tramite i modelli. In realtà, le
applicazioni e le interazioni della teoria dei giochi sono molteplici. Non
si limitano alle strategie aziendali. Si va dal campo economico e
finanziario a quello strategico-militare, dalla politica alla sociologia,
dalla psicologia all'informatica, dalla biologia allo sport.
Il burbero James D'Angelo credeva nella teoria dei giochi e
preferiva giocare a carte scoperte. Tutti devono essere a conoscenza
delle regole ed essere consapevoli delle conseguenze di ogni singola
mossa. Vincent Del Vecchio non lo avrebbe mai fatto. Lo avrebbe
considerato molto pericoloso e poco producente.
"Ma pace all’anima sua! Ovunque fosse, al tavolo non ci deve
stare lui".
James D'Angelo credeva nella teoria dei giochi, probabilmente
perché più giovane di Vincent e la gioventù lo spingeva a sperimentare.
Seguiva sempre la stessa strategia. Partiva dal presupposto che dovesse
esistere un modello che fosse soddisfacente per tutti i giocatori.
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"Si possono massimizzare i risultati di tutti, se i giocatori
proseguono un fine comune, almeno per la durata del gioco".
Tuttavia, negli istanti in cui si trovava per strada, James non
pensò assolutamente alla teoria dei giochi. La sua unica preoccupazione
era quella di trovare un taxi e di inveire contro i portoricani di merda,
che se ne fottevano di lui e del suo contratto. Erano trascorsi quasi
dieci minuti da quando si trovava sul marciapiede ed ancora non aveva
trovato un solo figlio di cane disposto a fermarsi. Eppure non mancava
molto all'appuntamento. Lui aveva calcolato quindici minuti esatti di
attesa. Ne mancavano solo cinque. Si era sciolto il nodo della cravatta e
continuava ad agitarsi.
Pochi secondi dopo, essersi portato le mani in tasca, come un
segno di disfatta, un taxi che nemmeno aveva provato a chiamare, si
fermò a due passi da lui. Un signore di mezza età scese e lui approfittò
immediatamente. Si infilò proditoriamente, senza nemmeno chiedere se
fosse disponibile.
"Mi avete rotto i coglioni con la vostra arroganza. Ora basta!"
Il tassista lo guardò con circospezione. Aveva visto l'uomo, che
prima era in strada, saltare sulla sua auto.
"Sulla Lexington, tra la settantaquattresima e la
settantacinquesima strada, per favore", invocò James, accennando ad
un sorriso di soddisfazione, dopo aver sfogato tutta la sua rabbia.
Il tassista, un negro sui sessanta anni, dopo essersi portato la
mano destra sul cappello per aggiustarselo, ingranò la marcia e partì.
"Vatti a fidare dei portoricani. Se non fosse stato per questo
benedetto cristiano, sarei ancora sul marciapiede".
Dopo qualche minuto, anche il negro imprecava. Le sue prime
parole le fece uscire dalla bocca per maledire il traffico impazzito di
New York.
"Questa è una città puttana, con maledetti portoricani di
merda", lo supportò James.
Prese a smanettare sul suo telefono portatile. Dopo trenta
secondi inviò un sms.
Sarebbe arrivato tardi all'appuntamento.
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16 febbraio
Bruxelles
Nello stesso istante in cui James inviava il suo sms, Enzo
Faramelli si alzava dalla sedia.
"Mi sto distruggendo il collo!" esclamò.
Era stato seduto per ore nella stessa posizione e non era
riuscito a staccare neanche un minuto. La sua cervicobrachialgia si
sarebbe inevitabilmente manifestata anche quella sera. Iniziava ad
avvertire i primi dolori al braccio, nella parte anteriore, poco sopra il
polso. Fece alcuni movimenti, spingendo il collo in avanti e poi
indietro, in alto e poi in basso. Si portò le mani alla cintura e rifece i
movimenti.
"Potrei rivedere quel dottore…"
Di nuovo le mani sulla cintura.
"Come si chiama…Colli…Collison…no…Colli…dovrei avere
il suo biglietto da visita da qualche parte".
Il dottore al quale stava pensando gli aveva raccomandato
movimento e soprattutto "Mai nella stessa posizione per più di
mezz’ora". Invece, si era alzato dalla sua sedia ergonomica una sola
volta, quando Michael Banzill, il capo, gli aveva spedito una email
"Please, come and see me".
"I’m coming", aveva replicato Enzo, dopo pochi secondi.
Aveva messo da parte il documento che stava leggendo con
attenzione ed era andato nell'ufficio di Michael, dal lato opposto in cui
si trovava il suo. Aveva attraversato il corridoio a passo veloce. Giunto
nei pressi della stanza 4/47, aveva bussato d’istinto, senza dare
importanza al gesto che stava compiendo. Infatti, senza attendere che
Michael rispondesse, varcò la porta.
"Qual è la posizione degli USA?" Gli chiese Michael,
vedendolo spuntare.
"Vorrebbero limitare l'accordo solo ad alcune malattie".
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"Ne sei certo?"
"Assolutamente!" rispose Enzo, chiudendo la porta a qualsiasi
dubbio.
"E le altre? Non sono malattie anche quelle?"
"Lo so, ma gli USA non intendono cambiare la loro posizione.
Almeno per il momento".
"E noi? Cosa dovremmo pensarne noi?"
"Noi dovremmo mettere la salute della gente al primo posto",
replicò Enzo senza tentennamenti.
"Hmmmm", sibilò Michael Banzill, abbassando lo sguardo.
Rimase per qualche secondo in silenzio. Poi disse a Enzo:
"Segui con attenzione l'evolversi della situazione. La questione sta
prendendo una piega sempre più importante e non si può rischiare di
commettere errori".
"La vicenda sta montando. Oggi ho trovato un articolo sul
Guardian".
"Che diceva?"
"Che stiamo perdendo tempo, che la gente muore".
"Perdere tempo…lo chiamano perdere tempo…come se fosse
possibile trovare una soluzione con un colpo di bacchetta magica. Tu
ce l'hai?"
"Cosa, Michael?"
"La bacchetta magica! Ce l'hai?"
"Se ce l'avessi non starei qui".
Michael sorrise. Probabilmente anche lui avrebbe pagato un
milione di dollari per non trovarsi lì.
Prima che Enzo si allontanasse, disse: "Non facciamo errori.
Ci stanno con il fiato sul collo".
"Stai tranquillo, Michael".
Enzo rassicurò il capo, benché non comprendesse
completamente cosa potesse significare non commettere errori.
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Avrebbe dovuto limitarsi al significato letterale o cercarne il significato
recondito? Da quando lavorava a Bruxelles, aveva appreso a leggere tra
le righe e spesso il significato letterale non corrispondeva a quello
effettivo.
"Che voleva dire con quel non facciamo errori?" pensò
attraversando il corridoio per ritornare nel suo loculo, due metri per
due.
Giunto alla sua scrivania, rivolse con naturalezza lo sguardo
verso lo schermo del computer. Scorse una nuova e-mail. Gliela
spediva il suo amico di Pisa, Fabio. Enzo la lesse con attenzione.
"Ciao, come stai?" gli scriveva Fabio all'inizio del messaggio.
Si conoscevano ormai da quasi due anni, da quando Enzo
aveva incrociato Fabio a Bruxelles nel corso di un meeting. Si erano
piaciuti subito. Avevano in comune la politica industriale delle case
farmaceutiche e la passione per le giacche di velluto. Dopo il meeting di
Bruxelles, si erano incontrati a Pisa, un giorno di primavera, quando
Fabio invitò Enzo per partecipare ad un seminario. Gli studenti di
Fabio apprezzarono Enzo e glielo fecero sapere tramite Fabio. Enzo
Ne fu contento. Fisicamente, Fabio era il perfetto contraltare di Enzo.
Robusto, alto, con i capelli rossicci. In un pub di Temple Bar sarebbe
potuto passare per un irlandese.
"Il livello di attenzione nei confronti di questa vicenda è
destinato a crescere. Fai attenzione!" lo consigliava Fabio, nel
messaggio.
"C'é una forte anomalia strutturale nell'evoluzione della
domanda mondiale dei farmaci. La domanda dovrebbe crescere di più
dove la popolazione cresce di più, ma non é così. Non lo é mai stato.
La domanda di farmaci dovrebbe crescere di più anche dove il bisogno
é meno soddisfatto, ma non é così".
Nei paesi dove la vita attesa era di trentacinque anni rispetto ai
settantacinque di molti altri industrializzati e dove la mortalità infantile
era estremamente elevata, la domanda di farmaci rimaneva stabile,
mentre nel Nord America e in Europa le vendite dei farmaci
crescevano.
"Si tratta di un problema etico. Bisognerebbe rivedere le
politiche internazionali di sostegno alla sviluppo. I bambini malati non
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possono andare a scuola", aveva scritto Fabio nell'ultima frase del
messaggio.
Enzo ripensò alla sua adolescenza. Non gli era mai piaciuto
andare a scuola. Forse un po’ all'inizio, ma non dopo. L’aveva trovata
noiosa.
"Ogni volta che tornavo a casa, avevo la sensazione di avere
perso tempo con un branco di inconfessabili e maledetti frustrati. Mai
un balzo di creatività, di estrapolazione. Solo ordine e normalità".
Evidentemente il problema della creatività continuava ad
essere un cruccio per Enzo Faramelli. Da qualche anno lavorava alla
Commissione europea di Bruxelles e avvertiva sempre più il peso
dell’assenza di creatività. La sola possibilità che aveva avuto per
esprimerla era consistita nel rispondere alle domande di cui non
conosceva le risposte.
Terminò di leggere l'e-mail di Fabio. Provò nuovamente a
concentrarsi, nonostante avvertisse il fastidioso dolore al braccio
crescere. Finì per sentirlo anche nella mano e poi nelle dita.
Come se non bastasse, le melanzane, che aveva mangiato a
pranzo da Carina, gli ritornavano prepotentemente in gola. Non era
una novità.
Aveva fatto sempre fatica a digerirle ma non riusciva a
farne a meno. Non conosceva altro rimedio se non la Coca Cola. Una
strizzata alla lattina gli avrebbe alleviato il peso. Frugò nelle tasche alla
ricerca di novanta centesimi.
"Maledizione! Solo due euro. Ho solo una moneta da due
euro".
Avrebbe potuto utilizzare quella moneta se non fosse stato per
i problemi della macchina distributrice. A volte si bloccava e succedeva
proprio con le monete da due euro. Con i centesimi, invece, funzionava
meravigliosamente. Più volte gli era capitato di non riuscire a fargli
ingoiare quelle maledette monete da due euro.
"Ho davvero bisogno di questa Coca Cola", pensò,
incrociando le dita. Non poteva restare con il peso delle melanzane
sullo stomaco.
Inserì la moneta che la macchina distributrice prontamente
rigettò. Enzo la riprese e con calma la strusciò più volte sul metallo in
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modo da favorirne l'attrito. La inserì nuovamente. Al settimo tentativo,
finalmente ebbe successo. Prese dal contenitore, in basso, la lattina, la
aprì e ne bevve qualche sorso. Si sentì sollevato. Perlomeno ebbe la
sensazione di sentirsi meglio. Rientrò lentamente in ufficio.
Stava per sedersi, nella medesima posizione che avrebbe finito
per tormentare la sua cervicale, quando venne attratto dal telefono
portatile, al lato del computer. Lo prese tra le mani. Aprì la ribaltina.
Aveva due messaggi. Erano di Jan.
"Come va oggi...?? Per una volta non mi dispiace che sia lunedì
mattina....ho sentito gli uccelli alle 5 questa mattina, non potevo più dormire.
Allora fa già qualche ora che sono all'ufficio...ma ho dimenticato che lavoro fine alle
9 stasera con la formazione... :o((( Ieri sera tranquilla, dopo le fragole, ho letto sul
divano, molto piacevole :o))) A dopo! Jan"
"Ho finalmente sentito Franco Battiato…c’è un accesso a youtube e a
xfatctor! Bellissima musica, mi piacciono i suoni diversi di un sintetizzatore e gli
strumenti classici insieme...fa un po’ anni 80 vs l’opera :o) Anche bellissime
parole...ma dovrebbe essere abbastanza difficile superare le forze della gravità !!!
Buon pom! X".
Enzo e Jan si erano conosciuti su Facebook. Facevano parte
del gruppo che non avrebbe mai rinunciato a partecipare ad una
mostra di Klimt, neanche se fosse stata organizzata sull'isola di Pasqua.
Dell'artista austriaco apprezzavano particolarmente la rappresentazione
della figura femminile. Klimt ritraeva le donne come figure allegoriche,
prendendo spunto dai personaggi della vita quotidiana. Talvolta si
trattava di puttane che, sebbene ingentilite dalle citazioni classiche,
erano raffigurate con acconciature vaporose e trucco pesante. Le
rappresentazioni di Klimt scandalizzarono la società viennese
dell'epoca, che avrebbe accettato senza problemi personaggi femminili
idealizzati, pur non potendo non notare l'eccessivo realismo di alcune
figure.
Il paradosso della scelta di Enzo e Jan stava proprio nella
rappresentazione della figura femminile. Nulla sarebbe stato più
lontano dal proprio immaginario di desiderio che la figura femminile
eppure proprio la rappresentazione che Klimt faceva della donna li
aveva fatti incontrare. Ed era la passione per lo scandalo che Klimt
aveva suscitato nella bigotta società viennese dell'epoca ad averli
intrigati.
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Si erano conosciuti in una fredda serata di novembre. Un
incontro tanto virtuale che più reale non si poteva.
"Ai primi del Novecento si inaugura la mostra della Secessione
viennese, che pubblica la sua propria rivista".
"Sei sicuro che sia stato ai primi del Novecento? Mi sembra
piuttosto che sia avvenuto alla fine dell’Ottocento".
"Potrebbe essere. Io con le date non sono molto in sintonia".
"Neanche io. C’era un tempo in cui le ricordavo tutte. Ricordo
l’esame di storia moderna…imparai tutte le date a memoria".
"Io non ricordo non solo le date ma anche i dettagli. Se mi
chiedi il nome della rivista della Secessione viennese non te la saprei
dire".
"Ver Sacrum".
"Cosa?"
"Il nome della rivista della Secessione viennese".
"Ver Sacrum? Ver Sacrum!"
"Primavera sacra"
"Si, primavera sacra. Alla prima mostra vengono esposte opere
dello stesso Klimt, di Rodin, Puvis de Chavannes, Böcklin, Alfons
Mucha e Fernand Khnopff".
Dopo avere discusso della prima mostra della Secessione
viennese, della rivista Ver Sacrum, ricordarono l'episodio in cui
l'università di Vienna aveva commissionato all'artista la decorazione del
soffitto dell'aula magna.
"Il tema illuminista del trionfo delle luce sulle tenebre, doveva
essere sviluppato su tre facoltà, Filosofia, Medicina e Giurisprudenza. I
lavori, rimandati per anni, quando vengono presentati finiscono con il
rispecchiare il mutamento di Klimt"
"Non solo di Klimt. I pannelli avevano finito con il
rispecchiare il nuovo orientamento della Secessione. Vennero
duramente contestati dai committenti, che avevano immaginato una
sobria rappresentazione del progresso della cultura. Si ritrovarono,
invece, in un turbinio di corpi sensuali".
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"Un centinaio di professori protestarono contro questa
opera…"
"…che, però, finì, con il vincere il primo premio
all’esposizione di Parigi del 1900".
"Questa data, però, la ricordi?"
"Semplicemente perché si tratta di una cifra tonda".
Ricordarono, poi, i viaggi a Vienna. Entrambi avevano visto i
pannelli.
"La protesta di quei cento professori giunse fino al Parlamento.
Lo sapevi?"
"Adoro la pittura e venero Klimt a partire da quello scandalo".
La sera fredda di novembre in cui si erano incontrati su
Facebook per merito di Klimt, avevano finito per discutere dello
scandalo dei benpensanti. Ne conclusero asserendo che anche loro
erano stati uno scandalo. Ognuno secondo le proprie modalità.
Enzo era nato in un piccolo paese in provincia di Potenza, alla
fine degli Anni Sessanta. Era da poco trascorso il periodo del boom
economico ma nessuno sembrava essersene accorto. Se non fosse stato
per la macchina del dipendente comunale Fiore, probabilmente non se
ne sarebbe accorto neanche Enzo. I cafoni continuavano a vivere in
campagna e gli altri in paese. Invece, la Cinquecento del dipendente
comunale Fiore, appariva l’inizio di una nuova epoca. Stavano
cambiando le condizioni economiche, presto sarebbero cambiate anche
quelle sociali.
La condizione di Enzo, invece, non sarebbe cambiata e alla
fine aveva rinunciato anche a farlo. Partì. Scelse di studiare a Roma. La
prima volta che attraversò Campo de' fiori avvertì uno strano profumo di
libertà.
Jan, invece, la vera libertà l'aveva trovata a Bruxelles. Proveniva
da una famiglia che definire tardo prussiana sarebbe stato azzardato.
Non perché il riferimento non calzasse, quanto piuttosto perché
esistevano degli elementi che non sarebbe stato giusto tralasciare. Il
padre, Bernhard, era un pastore protestante. Al figlio aveva impartito
un semplice insegnamento, l'uomo si trova completamente immerso
nel peccato. Non ha la possibilità di redimersi con le sue sole forze.
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Solo la fede lo può salvare. Dio ordina tutto, l'essere e l'agire umano
compresi. Il risultato era altrettanto semplice. Non vi sarebbe stato
posto per il libero arbitrio, che avrebbe inevitabilmente finito con il
compromettere la meritorietà del credente.
"Ogni credente é sacerdote per se stesso, in grado di accedere
direttamente alla scrittura", gli disse il padre.
All’età di quarantadue anni, il padre era stato eletto dalla
comunità con il compito di istruire i fedeli, predicare e celebrare i
sacramenti. La sera fredda di novembre in cui conobbe Enzo, Jan gli
aveva telefonato. Avevano parlato di loro stessi e della famiglia.
Dopo aver riposto il telefono, Jan si era abbandonato sul
divano. Era stanco ma non riusciva a riposare. Fu allora che decise di
accendere il computer, inconsapevole che quel gesto gli avrebbe
segnato la vita per sempre.
Enzo, invece, era già collegato da quasi due ore. Rispondeva ai
messaggi. Intorno alle dieci e cinque minuti, gli giunse anche la
richiesta di amicizia di Jan. Rispose subito. Era quello un segno del
destino. Anche lui era completamente all’oscuro di quanto importante
sarebbe stato quel gesto. Normalmente rispondeva alle richieste di
nuove amicizie, dopo qualche giorno. Quella sera rispose subito.
Dopo aver discusso di Klimt, entrambi ebbero la sensazione
che fosse successo qualcosa di importante. Sbagliando, ne legarono
l’importanza all’artista austriaco. Klimt non avrebbe avuto un ruolo
tanto decisivo, sebbene fosse divenuto il pretesto per nuovi incontri.
Tuttavia, trascorsero diverse settimane prima del loro nuovo
contatto virtuale. La seconda volta, subito dopo aver spento il
computer, si resero conto di avere delle affinità, benché non potessero
immediatamente realizzarne la portata.
"Il tuo numero di telefono?" gli chiese Jan, "non vorrei
perderti di nuovo".
Si erano ritrovati per caso. Non valeva la pena sfidare ancora
una volta il destino.
Quando Enzo vide i messaggi di Jan ebbe una strana
sensazione di felicità. Le melanzane, che fino ad allora gli avevano
tormentato lo stomaco, si misero da parte. Il peso si alleggerì, come se
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il miracolo della coca cola si fosse puntualmente compiuto.
Non poteva essere Jan a farlo sentire meglio.
"In fondo chi lo conosce? Si tratta di una conoscenza virtuale.
E non esiste che un'entità di cui non conosco né l'aspetto fisico, né la
voce mi faccia stare meglio".
Prima, però, di rispondere agli sms di Jan, diede uno sguardo al
dossier che si trovava sul suo tavolo. Era voluminoso e non era il suo.
Non gli era neanche familiare. Per questo volle esaminarlo con
attenzione.
All'interno, sulla prima pagina, Michael vi aveva attaccato un
post it, "please have a look and let me know".
Enzo si sedette. Spostò leggermente il mouse, che con il filo
copriva una pagina di appunti, annotati velocemente parlando al
telefono con il suo collega, Thomas. Ritornò di nuovo al dossier. Lesse
la prima pagina, quella in cui si trovava il post it.
Quando nel 1998, trentanove case farmaceutiche intrapresero un'azione
legale contro il governo sudafricano, pochi avrebbero sospettato che una specifica
campagna nazionale contro l'Aids sarebbe divenuta nell'arco di pochi anni "il
caso" su cui l'opinione pubblica si sarebbe divisa. Eppure essa ha portato
l'attenzione su temi enormemente complessi, inserendosi nel quadro più generale
degli effetti della globalizzazione. Per comprendere meglio quanto accaduto, appare
utile menzionare alcuni dati provenienti dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità. La questione del Sudafrica, analogamente a quella verificatasi in Brasile,
ha portato alla ribalta un tema molto delicato. Ha spinto l'opinione pubblica e le
organizzazioni competenti a riflettere sugli effetti che l'esistente normativa
internazionale in materia di tutela intellettuale ha sui paesi in via di sviluppo. Se
nei paesi avanzati, il sistema brevettuale garantisce l'equilibrio tra accesso ai
farmaci e incentivo all'innovazione, attraverso un'efficiente definizione di durata e
ampiezza del brevetto, ciò può non verificarsi in quelli costretti a fronteggiare crisi
sanitarie di enormi proporzioni e non abituate ad un sistema di protezione così
stringente.
Enzo fece una pausa. Afferrò la lattina di Coca Cola che aveva
riposto sulla destra della sua scrivania e ne bevve ancora qualche sorso.
"Maledette melanzane!" esclamò.
Le sentiva di nuovo sullo stomaco, come un macigno. Bevve
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ancora della coca cola, sperando in un nuovo miracolo. Poi guardò il
cellulare, che aveva quasi incollato al mouse.
Era indeciso. Valutava se fosse stato opportuno rispondere ai
messaggi di Jan subito oppure, successivamente, con calma.
"Il vantaggio di rispondere subito è di dargli un segnale di
attenzione. Lo svantaggio, però, è di dargliene troppa".
Alla fine, concluse, che sarebbe stato più saggio ponderare la
risposta, per scrivere le cose che realmente avrebbe voluto dire. Riprese
in mano il dossier e continuò nella lettura. Non riprese proprio dal
punto in cui era arrivato ma dalla pagina successiva.
Negli ultimi anni si è assistito a un animato dibattito in seno a vari
ambienti sulla questione dell'accesso ai farmaci, in particolare alle cure per l'Aids e
alle ragioni che impediscono ai pazienti che vivono nei paesi in via di sviluppo di
accedere alle terapie necessarie per poter godere di un buono stato di salute. La
situazione patologica dei paesi in via di sviluppo è caratterizzata dalla presenza
costante di Aids, tubercolosi e malaria, le malattie che attualmente richiamano
maggiormente l'attenzione in quanto il loro impatto sull'economia e la società è di
portata estremamente rilevante. Tuttavia, non sono da dimenticare le altre malattie
che affliggono i paesi in via di sviluppo, nella maggior parte dei casi di origine
tropicale o legate a situazioni di povertà est...
Enzo sentì squillare il telefono. Interruppe bruscamente la
lettura. Ripiegò il volume, che aveva tra le mani, sul tavolo e prese la
cornetta. Rispose con calma.
"Enzo Faramelli"
"Enzo, sono Fabio"
"Ciao Fabio, come stai?"
"Bene, bene, Enzo! Ti chiamavo per quella questione…"
"Me ne sto occupando, Fabio".
"Tre giorni fa ti ho scritto una e-mail".
"Ho letto, Fabio, ho letto!"
"E allora?"
"Sto rileggendo il dossier. Michael, me lo ha lasciato sulla
scrivania. Il dossier completo…sai…sto leggendo…"
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"Fammi sapere…"
"Certo, certo".
Enzo riprese la lettura.
…rema. Al pesante impatto delle epidemie si aggiunge l'assenza di
farmaci, che causa innumerevoli decessi nonostante le cure esistano e siano
facilmente somministrabili. Nelle regioni più povere del pianeta, la metà della
popolazione non ha accesso ai farmaci salvavita, ma se il termine di paragone fosse
la situazione nei paesi industrializzati, la proporzione di coloro che, secondo le
stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno accesso ai farmaci sarebbe
drasticamente ridotta.
Enzo iniziava a conoscere i dettagli della vicenda. Soprattutto,
iniziava a farsene un’opinione precisa. Fabio lo stava aiutando
fornendogli una buona parte della documentazione scientifica di cui
aveva bisogno. Nella e-mail che gli aveva inviato, aveva chiarito quale
fosse la chiave del problema.
L'evento che ha sollevato un aspro dibattito a livello
internazionale in tema di accesso ai farmaci è stata l'approvazione
dell'Accordo TRIPS sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà
intellettuale, avvenuta nel 1995 in seguito a una lunga negoziazione
all'interno dell'Uruguay Round.
New York
Marita Santana udì il bip del cellulare, mentre si trovava nel suo
appartamento di Brooklin. Era da sola. I suoi due figli erano usciti
entrambi un’ora prima. Lei, invece, se la stava prendendo con comodo,
come sempre quando la sera precedente tornava a casa tardi.
L’aveva presa comoda e si era svegliata da poco. Stava
sorseggiando il caffè e, contemporaneamente soffiava sul bianco della
schiuma per farlo raffreddare. Beveva lentamente, come sua abitudine.
Immaginò che fosse il bastardo che se la scopava e che non
voleva amarla. Per questo scelse di ignorare il messaggio. Il bastardo
non lo meritava. Rimase con la tazza in mano a sorseggiare il caffè,
benché la tentazione di prendere in mano quel cazzo di cellulare fosse
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forte.
"Fotti tua moglie e lasciami perdere", avrebbe dovuto essere la
sua risposta, se Marita avesse dato sfogo a quel contorcersi di budella,
che aveva nello stomaco.
Invece, un recondito soffio di speranza pervadeva la sua
anima.
"Anche dentro un vigliacco dovrebbe esistere il coraggio",
pensò.
Il bastardo vigliacco continuava ad appoggiare il suo culo sul
taxi del negro, mentre Marita terminava di bere il caffè. Aveva smesso
di smanettare sul cellulare, come se il messaggio inviato alla donna lo
avesse assolto dai suoi peccati. Dopo qualche secondo, prese a
smanettare con i documenti sulla sicurezza dei palazzi della Axa
Pharmaceuticals. Si trattava di tre cartelline, la prima di esse stracolma
di documenti. Decise di accanirsi proprio su quella. La aprì e la richiuse
nervosamente, dopo aver tirato fuori una pila di carte, zeppe di
appunti.
Le sfogliò, una a una, soffermandosi sulla lettura delle prime
due righe. Il suo mandato era chiaro.
"Quel mentecatto di Vakrou fa ormai prezzi fuori da ogni
logica di mercato. Non se li può più permettere. Stringigli il cappio al
collo e porta a casa il dieci per cento in meno rispetto al contratto
precedente", gli aveva intimato il direttore generale.
"Come se fosse un gioco", commentò James, nascondendo le
sue preoccupazioni dietro l’ironia.
Per il direttore generale, sembrava un risultato scontato.
Invece, non sarebbe stato affatto facile ottenerlo. Vakrou gli aveva fatto
recapitare la sua richiesta.
"Il costo del lavoro è aumentato", si era giustificato, quando gli
aveva chiesto un aumento del cinque per cento rispetto al contratto in
scadenza.
"È un mentecatto", gli aveva ribadito il direttore generale,
"non può permettersi un aumento. Ai tempi in cui abbiamo stipulato il
contratto, le case che si occupavano della sicurezza delle industrie
farmaceutiche non erano molte. Ora, invece, potremmo scegliere e,
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senza dubbio, lo faremo se quell'affarista greco non intendesse ridurre
le sue pretese. Se crede di poterci fregare, pensando di vendere ouzo
agli sprovveduti turisti di Hersonnysos, si sbaglia di grosso".
"Probabilmente vuole solo ripartire da una base negoziale più
solida".
"Me ne fotto. Tagliami quel costo e basta".
Anche James sapeva che la concorrenza era aumentata e che
sarebbe stato possibile spuntare un prezzo migliore da qualche altra
parte. Tuttavia, i rapporti con l'impresa rappresentata da Odysseas
Vakrou fino ad allora erano stati buoni e non vi sarebbero stati motivi
validi per cambiare.
"I costi di un servizio non sono rappresentati solo dal prezzo
di acquisto del servizio stesso", pensò James, ma come poteva farlo
presente a quel rozzo dirigente che stava sopra di lui?
Giunse al 37 West 54th Street. Riconobbe l'isolato. A soli dieci
metri di distanza si trovava il negozio di Manolo Blahnik. C'era stato
una volta con la moglie. Aveva speso novecentosessanta dollari per il
modello Remor, in verde con dodici centimetri di tacco. Ricordava quel
banale episodio, perché lo aveva regalato alla moglie, il giorno dopo
aver conosciuto Marita Santana.
Nella sua mente si era scatenato un infinito processo di
associazioni. Da Odysseas giungeva a Marita e viceversa, passando da
Manolo Blanhik.
Si erano conosciuti a Brooklin, nel ristorante in cui Marita
lavorava.
"Che casualità! Che cazzo di casualità! Ero andato a Brooklin
per rivedere…come diavolo si chiama? Terence…poi? Terence! Si,
Terence!"
James era andato a Brooklin, invitato da un vecchio compagno
del college. Sebbene non ricordasse più il cognome del suo vecchio
compagno ma solo il nome, Terence, conservava un buon ricordo di
lui. Quando Terence lo aveva invitato a cena, non aveva avuto un
attimo di esitazione.
"Con piacere, ma non potrò trovarmi da quelle parti prima
delle nove. Devo lavorare e poi il traffico…", gli aveva risposto.
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"Quando vuoi, non c'è fretta".
Quando si ritrovarono nei pressi del ristorante, James fece un
largo sorriso a Terence. Si abbracciarono. Non si vedevano da oltre
cinque anni, forse addirittura sei.
"Come cazzo faccio a dimenticare i cognomi. Non è possibile,
non mi ricordo come si chiama", meditò James.
Erano stati ottimi amici e aveva dimenticato il suo cognome.
"D'altra parte", rimuginò, "non deve essere importante. Non
c'é bisogno di conoscere il cognome per cenare con un amico".
Entrarono nel locale pochi minuti dopo essersi salutati. Fece il
suo ingresso prima James, poi Terence. Venne ad accoglierli proprio
Marita.
"Prego, signori"
"Non abbiamo prenotato", disse Terence, che aggiunse prima
ancora che Marita potesse rispondere, "non ho pensato di prenotare.
Dopo le nove, in genere, non ci sono molti clienti".
"Dipende, signore", rispose Marita.
"Vuol dire che non ci sono tavoli liberi", rispose James,
sconsolato.
"Dipende dalle serate, signore".
"Questa sera?"
"Questa sera siete stati fortunati. Ho un tavolo che si libera tra
due minuti".
"Bene!" Esclamò James.
"I signori stanno pagando il conto", aggiunse Marita.
"Ah, bene", sospirò anche Terence.
A New York è consigliabile sempre prenotare. James lo sapeva
e si stava chiedendo perché Terence non lo avesse fatto. Era stato
avventato. Avrebbero potuto non cenare. D'altra parte, con un vecchio
amico di college, non ci sarebbe stato bisogno di mettersi dietro un
tavolo per chiacchierare. Sarebbe stato piacevole anche mangiare un
hot dog per strada.
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Terence, nell'attesa, ne approfittò per andare alla toilette.
James, invece, per pensare.
I suoi pensieri disordinati vennero presto interrotti da Marita.
"Il tavolo si è appena liberato, signore"
"Oh, grazie, me lo indica, per favore?"
"La sto accompagnando", disse Marita con un sorriso.
"Ah, certo", rispose James, leggermente imbarazzato.
Marita lo precedeva nel breve cammino verso il tavolo. James
la seguiva. Da dietro poté ammirarne la figura. Marita aveva
trentacinque anni e conservava le forme di quando di anni ne aveva
venti. Aveva avuto due figli ma non sembrava. James le guardò le
gambe tornite. Erano solide. Ricordò un detto mongolo che invitava gli
uomini a scegliere donne con le gambe solide.
"Ecco il tavolo", disse Marita sorridendo.
"Grazie,
signora…",
esclamò
James,
trascinando
volontariamente la a finale di signora e invitando Marita a pronunciare
il suo nome.
"…Marita".
"Grazie, signora Marita".
James si sedette. Continuò a pensare alle gambe solide dei
mongoli e alle gambe tornite di Marita. La combinazione di quei due
pensieri gli suggeriva strane associazioni di idee. Non ebbe modo di
approfondire perché lo raggiunse Terence, che aveva trovato il
cammino dalla toilette al tavolo, senza bisogno di chiedere aiuto ai
camerieri.
"Non pensavo ci potesse essere tanta gente alle nove"
"Siamo a New York, Terence. Non mi meraviglierebbe di
trovare il ristorante pieno alle cinque del mattino".
James e Terence sorrisero.
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Ginevra
Non aveva ancora scoperto dove si trovasse il toner della
fotocopiatrice, posta in fondo al corridoio.
"Cerca nell'armadio contenente i pacchi di carta bianca", gli
aveva detto Ana.
Antoine non solo non era riuscito a trovare il toner ma non
riusciva a trovare neanche l'armadio.
Ana glielo aveva spiegato in inglese.
"On the left".
In realtà, Ana aveva aggiunto anche altro ma Antoine non era
riuscito a cogliere il significato dell'intera frase. Doveva essere per via
dell'accento spagnolo, che rendeva incomprensibile l'inglese di Ana.
Perlomeno lo rendeva incomprensibile ad Antoine, che l'inglese lo
aveva studiato. Antoine aveva colto solo on the left e si era portato
sulla sinistra del corridoio. Il problema era che da quelle parti non si
trovava nessun armadio.
"Come cavolo faccio queste stramaledette fotocopie?"
Monsieur Herbert in persona gli aveva dato il compito di
fotocopiare un intero dossier.
"Chiedere di nuovo ad Ana non mi sembra un’idea geniale".
Avrebbe dimostrato di non conoscere adeguatamente l'inglese.
Non ci avrebbe fatto una bella figura. Nella sua domanda da stagiaire
presso l'Organizzazione mondiale per il commercio, aveva dichiarato
"di conoscere perfettamente l'inglese e di essere in grado di lavorare
nella lingua veicolare di qualsiasi organizzazione internazionale".
Il maledetto toner che cercava si stava nascondendo in qualche
anfratto. Antoine rifletteva e le conclusioni del suo ragionamento non
portavano ad altre soluzioni se non a quella che avrebbe dovuto
arrangiarsi da solo. Passò in rassegna tutti gli armadi che si trovavano
alla sinistra del corridoio. I primi due erano addirittura chiusi a chiave.
Venne sfiorato dall'idea che il maledetto toner si celasse proprio negli
armadi chiusi. Continuò a cercare. Finalmente lo trovò nel cassetto in
basso di uno dei due armadi, dietro un mucchio di carte.
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"Eccoti, bastardo!"
Lo afferrò con soddisfazione. Giunto vicino la fotocopiatrice,
rimpiazzò il contenitore di plastica appena consumato. Iniziò a
fotocopiare il dossier. Mentre lo faceva, avvertì una strana sensazione
di odio per le centinaia di pagine che sfilavano sotto la luce verde della
fotocopiatrice. Tuttavia, non poteva fare altro che aspettare. Mentre i
fogli si depositavano lentamente uno alla volta nel recipiente di plastica
ebbe modo di leggere alcuni stralci.
Déclaration sur l'accord sur les ADPIC et la santé publique, adoptée le
14 novembre 2001. Nous reconnaissons la gravité des problèmes de santé publique
qui touchent le nombreux pays en développement et pays les moins avancés, en
particulier ceux que résultent du VIH/SIDA, de la tuberculose, du paludisme et
d'autre épidémies. Nous soulignons qu'il est nécessaire que l'Accord de l'OMC sur
les aspects des droits de propriété intellectuelle qui touchent au commerce fasse partie
de l'action nationale et internationale plus large visant à remédier à ces problèmes.
Mentre leggeva, venne colto da uno strano pensiero. Non ebbe
il tempo di realizzarlo perché Ana, dal profondo del suo ufficio, lo
chiamò a voce alta.
"Hai trovato l'armadio?"
"Certo, l'ho trovato".
"Come?" Rispose Ana, con un tono sempre più alto.
"Sì, l'ho trovato", esclamò Antoine che non era abituato a
parlare a voce alta.
Al contrario, sembrava quasi accarezzare le parole per quanto
le pronunciasse con un tono basso. Aveva gli occhi estremi, incavati,
profondi nella loro perentorietà. Due pieghe sembravano sostenerli e
condurli fuori dalle loro orbite naturali. Il naso perennemente rosso e la
fronte profondamente incisa, per l'abitudine a stare aggrottato,
completavano i tratti salienti della sua faccia. Sul viso non vi era
disegnato null'altro che avrebbe potuto attirare l'attenzione. La bocca
era esile e le labbra affatto pronunciate. Forse due fossette sulle gote
ma neanche quelle, a pensarci bene, avrebbero potuto destare
l'attenzione. Erano quasi invisibili, impercettibili se non dopo
un'attenta osservazione. Tuttavia, non sembrava il caso di osservare
Antoine tanto a lungo, se non per le gambe lunghe, esili, capaci di
insinuare un ardito senso del movimento. Camminava con
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circospezione, quasi conducesse i suoi lunghi piedi sulle uova.
Aveva venticinque anni quando giunse a Ginevra. Fino ad
allora non aveva mai lavorato, almeno che non si volesse considerare
un lavoro l'animazione in una colonia per adolescenti. Aveva, studiato,
però. Lo aveva fatto con zelo per colmare il desiderio atavico della sua
famiglia di esprimere un diplomatico. Il padre, infatti, colonnello
dell'esercito, riteneva le armi e la diplomazia le massime aspirazioni per
un giovane. Antoine stava provando ad accontentarlo, benché la sua
natura fosse poco incline alla sovrapposizione gerarchica. Odiava le
strutture verticali. All'attivo aveva la passione per i viaggi e il desiderio
del multiculturalismo. La combinazione disposta tra la passione per i
viaggi e l'obbligo alla diplomazia aveva provocato in lui una strana
passione per l'India. L'intermediazione culturale che lo aveva condotto
all'India era stata la lettura dell'autobiografia di Gandhi, "La storia dei
miei esperimenti con la verità".
Gandhi aveva posto il concetto di non-violenza al centro della
sua concezione del progresso umano. L'essere umano è sia animale, sia
spirito. Come animale l'essere umano basa il suo rapporto con il
mondo sulla trasformazione materiale dei corpi e dunque sull'uso della
forza, sulla himsa. Come spirito, l'essere umano fonda le sue relazioni
con il mondo sulla comunicazione verbale e sulla persuasione razionale,
sulla a-himsa. Il progresso è la graduale riduzione del tasso di violenza
presente nei rapporti umani e graduale affermazione della verità e della
a-himsa, cioè della non-violenza, del bene, della giustizia, nella vita
sociale e politica.
"Ma qual è il mezzo con il quale l'uomo giusto può proporsi di
affermare la verità e dunque la a-himsa nei rapporti umani?" Si chiese
Antoine.
L'unico mezzo possibile, secondo Gandhi, era la persuasione
razionale di coloro che con i loro comportamenti causano ingiustizia.
Antoine comprese che avrebbe dovuto apprendere la persuasione
razionale che, per Gandhi, era basata su due cose, la discussione e la
lotta non violenta. La differenza tra questi due metodi sta nel fatto che
la discussione fa appello esclusivamente alla ragione dell'avversario,
attraverso la dimostrazione teorica della sua ingiustizia, mentre la lotta
non violenta fa appello anche al cuore dell'ingiusto, perché contiene
una portentosa dimostrazione pratica della sua ingiustizia.
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"L'uomo è un essere così razionale?"
Antoine se lo chiese, man mano che i fogli del suo dossier
fotocopiato scivolavano nel contenitore di plastica. Eppure, non poteva
lasciare che i fogli morissero in quel contenitore. C'era qualcosa in quel
dossier che lo intrigava.
Nous reconnaissons que la protection de la propriété intellectuelle est
importante pour le développement de nouveaux médicaments. Nous reconnaissons
aussi les préoccupations concernant ses effets sur les prix.
Si trattava del punto tre citato nella Declaration sur l'accord sur les
ADPIC et la santé publique.
Due anni prima era stato in India. La risposta all'uomo come essere
razionale e La storia dei miei esperimenti con la verità lo avevano spinto a
Mumbai.
Nella sua lunga storia di leader rivoluzionario, prima in
Sudafrica e poi in India, Gandhi aveva teorizzato e sperimentato
un'ampia varietà di tecniche di lotta rivoluzionaria non violenta.
Innanzitutto il boicottaggio non violento. Non acquistare liquori e
tessuti stranieri, non iscrivere i figli alle scuole inglesi, non investire i
propri risparmi in titoli di stato britannici, non accettare incarichi
militari e civili o titoli onorifici dall'amministrazione coloniale
britannica. Aveva formato gruppi di militanti non violenti davanti
all'ingresso dei luoghi di lavoro o di quelli in cui si svolgevano attività
boicottate, per invitare i lavoratori ad astenersi dal lavoro o a praticare il
boicottaggio.
La disobbedienza civile aveva colpito l'immaginario di Antoine
più delle altre forme di lotta non violenta. Violare in modo pubblico le
leggi oppure i comandi amministrativi, ritenuti evidentemente ingiusti,
accettando, nello stesso tempo, le punizioni previste dalla legislazione
vigente per le violazioni commesse, costituiva, insieme al digiuno, la
forma culminante di resistenza non-violenta.
A Mumbai, Antoine aveva conosciuto per caso Madan. Con lui
aveva parlato in francese.
La vita quotidiana di Mumbai è spesso fatta di necessità ma
dove lavorava Madan non vi era nulla di necessario. Tutti i negozi, sotto
le arcate, ostentavano le più deliziose cose inutili, gioielli, sete, velluti,
vasi d'argento e di bronzo, scimitarre antiche cesellate e gemmate. Vi
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erano anche tanti veli, sospesi al vento. Dalle tinte più colorate, si
intrecciavano quasi a formare un caleidoscopio di colori. Alcuni di quei
veli appartenevano a Madan, commerciante delle più deliziose cose
inutili. Aveva anche tanti fiori nel suo negozio. Fiori in abbondanza.
Dappertutto. Vendeva anche quelli. Piramidi di magnolie, di ibischi e di
rose decapitate, che si lasciavano accarezzare dai veli tinti sospesi al
vento.
E poi c'era la folla di turisti che attraversava la strada. Strana
gente che vive di colori, di profumi, di odori e di apparenza. Sembrava
che i turisti di Mumbai fossero interessati proprio all'inutilità di quelle
cose deliziose.
Madan aveva visto per strada Antoine ma fu lui ad approcciarsi
per primo. Madan era sull'uscio e Antoine gli passò accanto. Vide le
scimitarre gemmate e cesellate. Ne fu attratto. Entrò nel negozio e si
avvicinò alle scimitarre.
Madan sorrise.
"Sono autentiche?" Domandò Antoine con un accento che
lasciava trasparire chiaramente la sua provenienza francese.
"Mais bien sur", replicò Madan.
Antoine non avrebbe mai sospettato che il proprietario di quel
negozio di cose inutili e gradevoli potesse parlare la sua lingua. Avvertì
una tenue sensazione di felicità. Si trovava da dodici giorni in India e
non era mai successo.
Continuarono a parlare. Madan spiegò a Antoine di avere
appreso il francese nei suoi innumerevoli viaggi in Francia.
"Ci vado tre volte l'anno in Provenza, per comprare dei fiori
che poi rivendo agli stessi turisti francesi che vengono in India. Strano,
vero?"
"Sono i paradossi della globalizzazione", puntualizzò Antoine.
Continuarono e parlarono a lungo. Antoine dimenticò le
scimitarre e Madan dimenticò di doverle vendere. Parlarono di India, di
Francia e di Vandana Shiva. Ne parlarono perché Madan disse che il
fratello si era appena suicidato.
"Perché si è ucciso?" Chiese Antoine.
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"Era strozzato dei debiti", sentenziò Madan.
"Nessuno poteva aiutarlo?"
"Nessuno sapeva che lui fosse strozzato dai debiti".
"Non ne aveva mai parlato con te?"
"Era troppo orgoglioso per farlo".
Antoine citò allora Vandana Shiva ma Madan non la
conosceva. Chiese chi fosse.
"È un'indiana".
"Un'indiana?"
"Sì, indiana come te. Asserisce che la globalizzazione ha
prodotto in India suicidi di massa tra i contadini, strozzati, proprio
come tuo fratello, dai debiti per l'aumento dei costi di produzione e la
caduta dei prezzi".
Madan lo seguiva ma non capiva. Lui aveva sempre venduto
gradevoli cose inutili. Andava in Francia e ritornava in India. Comprava
e vendeva.
"Nel tuo paese l'ingresso delle grandi multinazionali come la
Monsanto, si sta traducendo in una rovina per i piccoli produttori",
disse ancora Antoine, facendo menzione di Vandana Shiva.
"Vuoi dire che mio fratello si è suicidato per le grandi
multinazionali?"
"Non lo so. Tu conoscevi tuo fratello".
"Mio fratello forse non stava bene con la testa".
"E i debiti?"
"Forse i debiti gli hanno rovinato la testa, ma lui non ha mai
avuto la testa".
Madan era duro con suo fratello. Il fatto che avesse pagato con
la morte colpe probabilmente non sue, non mitigava il suo giudizio.
"Non ci stava con la testa", aveva ripetuto.
Antoine non aggiunse più nulla. Si rese conto che il dramma di
Madan incrociava le sue perplessità. Pensò ancora una volta a Vandana
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Shiva, "l'obbligo di acquistare le sementi presso le grandi multinazionali
come la Monsanto, dal costo sempre più elevato, biologicamente
modificate e utilizzabili solo per un raccolto, finisce per essere una
rovina per i piccoli agricoltori".
"Erano tutti contadini fuori di testa quelli che la morte si era
portata via dalla loro terra? E se fosse davvero esistita una democrazia
della terra, come dice Vandana Shiva?" meditò Antoine.
"Siamo tutti membri della comunità terrestre. Abbiamo tutti il
dovere di difendere i diritti e il benessere di tutte le specie e di tutti i
popoli. Gli esseri umani non hanno il diritto di abusare dello spazio
ecologico e di altri popoli o di trattarli con crudeltà e violenza".
Antoine pensò, infine, a Madan, che comprava i fiori in
Francia e li rivendeva ai turisti francesi.
"Ecco i paradossi della globalizzazione che si ripercuotono
sull'ambiente e sull'inquinamento dell'aria".
"La conservazione delle risorse della terra e la creazione di
adeguati e soddisfacenti mezzi di sussistenza si realizza più
creativamente a livello locale, afferma Vandana Shiva che, purtroppo,
Madan non conosceva.
Erano le quattro e mezzo del pomeriggio. Faceva caldo a
Mumbai.
"Ti andrebbe di bere un thé?" chiese Madan ad Antoine.
"Se non me lo avessi offerto, avrei finito per proportelo io", gli
rispose Antoine.
Quel giorno segnò l'inizio della loro amicizia. Madan, per la
prima volta nella sua vita, sentì parlare di democrazia della terra.
"Solo i beni e i servizi che arricchiscono davvero i mezzi di
sussistenza e che non possono essere prodotti localmente, usando
risorse e conoscenze locali, possono venire importate da distanze più
grandi".
Se Madan lo avesse saputo probabilmente non sarebbe andato
in Francia a comprare i fiori, da rivendere ai turisti francesi che
andavano in India.
47
New York
"Ne é proprio sicuro?" gli chiese Odysseas Vakrou.
"Assolutamente. Ne sono sicurissimo", ripose James, che si
trovava, da pochi minuti, nel suo studio al quarantunesimo piano della
St. James Hall.
In realtà, non ne era completamente sicuro, ma le leggi del
mercato non potevano non applicarsi al settore in cui agiva la società di
Odysseas.
"La concorrenza é aumentata. È un dato di fatto. Anche
l'offerta a disposizione della Axa pharmaceuticals é cresciuta. Esistono
diverse altre possibilità".
L'obiettivo di James era quello di ottenere uno sconto del dieci
per cento ma sarebbe stato disposto anche a scendere al sette, se
Vakrou avesse tenuto duro. Oltre non sarebbe stato utile andare.
Esistevano altre possibilità, appunto!
L'importante per James era dare l'impressione della solidità.
"Si tratta di una decisione già presa", disse James.
Odysseas lo guardò negli occhi per capire se James stesse
bluffando. Lo scrutò senza dare l'impressione di guardare. Tentò di
cogliere un qualsiasi movimento del corpo per decifrarne il
comportamento ma James evitò qualsiasi movimento. Non voleva
offrirgli alcun punto di riferimento.
"Va bene, chiudiamo al dieci per cento in meno, ma…"
"Ma, cosa?", chiese James, che già assaporava l'odore della
vittoria.
"Ma allunghiamo il contratto di due anni. Che ne dice?"
domandò Odysseas.
James tirò un sospiro di sollievo.
"Fammi pensare…"
Non si trattava di una clausola particolarmente difficile da
48
accettare. Fece un rapido calcolo a mente. Si trattava di allungare il
contratto per la sicurezza dei locali della Axa pharmaceuticals da dieci a
dodici anni. In cambio, avrebbe portato a casa il target stabilito dal
direttore generale. Gli venne in mente la teoria dei giochi e sentenziò,
"OK. Per Axa é accettabile".
"Ne ho bisogno per giustificare il ribasso del dieci per cento di
fronte agli azionisti".
"Capisco!" Rispose James.
Sapeva che avrebbe potuto mettere Odysseas con le spalle al
muro e chiedergli di accettare le sue condizioni tout court ma non
sarebbe stato saggio. Non c'erano motivi di carattere economicofinanziario a fargli ritenere che non sarebbe stato saggio, quanto
piuttosto motivi di opportunità. Non bisogna mai lasciare la
controparte con l'idea di aver perso tutto.
"Devo lasciargli la sensazione del pareggio oppure, al limite,
della sconfitta di misura", pensò, guardando Odysseas.
La teoria dei giochi, appunto! Un giorno avrebbe potuto
esserne gratificato, benché quel giorno non sarebbe mai arrivato.
"Va bene. Accetto il prolungamento del contratto. Non perdi
neanche un dollaro, Odysseas", ribadì James.
"Li perdo, James, ma va bene così".
Presero un caffè per siglare l'intesa. Uscendo, James diede una
pacca sulle spalle a Odysseas.
Odysseas lo bloccò proprio sull'uscio.
"Grazie, James!" Gli disse prima di uscire.
James sorrise. Si rese conto che Odysseas aveva intuito il
cammino che aveva fatto la sua mente. Forse lo condivideva.
Sicuramente lo apprezzava e James ne fu contento.
Uscì nel corridoio e percorse i pochi metri che lo separavano
dall’ascensore. Attese pochi istanti e ci si infilò dentro. Entrando diede
uno sguardo al suo telefono portatile. Constatò che erano trascorsi
esattamente sessantasei minuti dal momento in cui aveva inviato il
messaggio a Marita.
"È certamente rientrata tardi, come sempre, quando lavora la
49
sera al ristorante, ma é anche solita svegliarsi presto. Il messaggio le è
stato consegnato. Il suo cellulare é acceso. Perché allora non risponde?
Forse a causa della discussione di pochi giorni fa? Dovrei avere
pazienza", disse a se stesso.
Tuttavia, l'attesa lo innervosiva.
"Com’è possibile che le cose siano cambiate tanto
drasticamente?"
La sera in cui aveva conosciuto Marita, ogni tassello si era
posizionato spontaneamente al proprio posto. Sembrava un contatto da
predestinati.
Infatti, dopo che Marita lo ebbe accompagnato al tavolo e
dopo che James le chiese il nome, ci furono altre tre occasioni in cui i
due ebbero l’opportunità di parlarsi. La prima volta si verificò quando
James rimase da solo, in attesa che Terence tornasse dalla toilette.
Marita si avvicinò.
"Le porto da bere, mentre attende il suo amico".
"Come dice?" rispose James, colto di sorpresa.
"Le chiedevo se desiderasse da bere. È da solo e così ho
pensato che mentre aspettava il suo amico avrebbe potuto sorseggiare
uno dei nostri aperitivi. Mi creda, sono molto buoni".
"Non saprei. Io...", tentennò James.
"Abbia fiducia in me".
"Sì, ma…"
"Glielo porto. Mi dia retta".
"Me lo chiede con tanta grazia, che non riesco proprio a dirle
di no", rispose James, accettando l'offerta di Marita.
Lei gli sorrise. In realtà lo faceva per abitudine professionale.
Aveva visto un cliente da solo a tavola e, come sempre in questi casi, gli
aveva proposto di bere un drink. James immaginò che si trattasse di
una consuetudine ma apprezzò ugualmente. Il sorriso aperto di Marita
non lo aveva lasciato indifferente. Nei due minuti successivi che
separarono l'invito di Marita dal ritorno al tavolo di Terence, James
pensò ancora una volta alla donna. Le guardò di nuovo le gambe ben
50
tornite. Al ritorno di Terence, smise di pensarci.
La seconda volta che i due incrociarono i propri sguardi,
avvenne mentre James stava parlando con Terence, proprio a metà
della cena, dell'anno accademico 1986-87. I due menzionarono una
serie di compagni di college. Terence fece riferimento a Sharlain. James
non la ricordava.
"Impossibile che non la ricordi", disse Terence perplesso.
"Perché dovrei?" replicò James, altrettanto perplesso.
"L'hai baciata", gli fece notare Terence.
"Baciata?"
"Baciata!"
"Non si ricorda di una donna che ha baciato? È grave…molto
grave", intervenne Marita, che si trovava a pochi passi dal tavolo e che
aveva ascoltato la conversazione tra i due.
"Come dice?" domandò James, rivolgendosi a Marita.
"Mi scusi, ho ascoltato davvero per caso quello che stava
dicendo", rispose Marita, leggermente imbarazzata.
"No, no, non si senta affatto imbarazzata. Ha detto una cosa
sacrosanta. Glielo ripeta, per favore", chiese Terence a Marita.
"Cosa?" proseguì Marita.
"Glielo dica. Suvvia…glielo dica che è grave", incalzò Terence.
"Beh, se proprio insiste. Bene! Allora, devo dirle che non mi
sembra appropriato non ricordarsi di una donna che si è baciato",
ribadì Marita.
"Come dice? Non le sembra appropriato?" intervenne James.
"Grave, grave…deve dirgli che è grave", replicò Terence.
"Grave, non appropriato? Scelga lei. Qualunque siano le parole
che si vogliano utilizzare, non si possono dimenticare le labbra di chi si
è voluto baciare. Il bacio è sentimento. Non è come fare l'amore.
Quello lo si può fare con chiunque e poi magari dimenticarsene. Ma
baciare…Cristo santo!"
"Vuole dire che lei potrebbe ricordare più una persona che ha
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baciato che una con cui ha fatto l'amore?" chiese James, stralunato.
"Certo! Il bacio è intimità allo stato puro. Parlo di un vero
bacio, ovviamente. Mi capisce?"
"Sì, sì, la capisco. Il bacio è intimità, ma l'amore…per carità è
molto di più".
James scosse la testa, abbozzò il sorriso di chi non si sente
pienamente d'accordo. Non ebbe, però, il tempo di reagire.
"Mi scusi ma devo andare. Mi chiamano. Magari ne
riparleremo", gli disse Marita, allontanandosi.
"Certo, certo. Ne riparleremo", rispose James, mentre Marita si
trovava ormai un paio di tavoli più in là.
E mentre la donna che le aveva sbattuto in faccia la distinzione
tra il bacio e il fare l'amore, scompariva nella stanza accanto, James
ebbe la sensazione che Marita non fosse solo due gambe tornite. Era
altro ma, per il momento, si trattava di sensazione allo stato puro.
Terence non ebbe la stessa sensazione di James. Non avvertì
nulla che potesse lasciargli supporre un seguito da dare a quella breve
discussione. Infatti, nell'istante in cui James ebbe un momento di
riflessione, Terence proseguì il discorso sulla stagione accademica
1986-87.
"Come fai a non ricordarla?" Gli chiese, ritornando a parlare di
Sharlain.
"Ti giuro, davvero non la ricordo".
"Ne parlavano come di una capace finanche di succhiarti il
cervello".
Risero, come solo due compagni di college possono ridere.
La terza volta in cui Marita e James ebbero occasione di parlare
quella sera, si verificò mentre James si apprestava a lasciare il ristorante.
Terence aveva pagato il conto e stava rimettendo a posto la sua carta di
credito. James, invece, si era appena alzato dal tavolo. Marita gli venne
incontro. Aveva i cappotti di entrambi tra le mani. Li consegnò.
"Dove potrei trovare degli stuzzicadenti?" domandò Terence.
"Oh, gli stuzzicadenti?" esclamò Marita.
52
"Sì, mi scusi, ma ne ho davvero bisogno".
"Certo, glieli prendo subito".
"No, faccio io. Mi dica solo dove posso trovarli".
"Guardi, chieda all'entrata. Vede quell'uomo in fondo?"
Terence annuì con un cenno di assenso.
"Bene, chieda a lui".
James rimase solo con Marita. Lei lo aiutò a indossare il
cappotto. Si trattava di uno di quei vecchi montgomery verdi.
Andavano di moda in Europa negli Anni Ottanta. Nessuno li avrebbe
più rivisti se non fosse stato per un negozio di New York sulla
cinquantaseiesima, che periodicamente proponeva uno stile vintage.
James adorava il vintage e adorava il vecchio montgomery. La
combinazione dei suoi due piaceri si era sintetizzata nella scelta di
indossare il vecchio montgomery verde. Marita non aveva mai visto il
montgomery. Lo percepì pesante ma non disse nulla. James, invece,
avvertì l'istinto di rivolgerle la parola. Lo fece, pensando alla
discussione che avevano avuto in precedenza.
"Ma davvero è convinta di quello che mi ha detto prima?"
"Di cosa?"
"Del bacio e del…"
"Certo che ne sono convinta. Mi sembra naturale".
"Come dice? Naturale?"
"Sì, naturale".
"Naturale. Me lo dovrebbe spiegare cosa vuole dire naturale".
"Lo farei con piacere. Ora proprio non posso".
"Come dice? Non può?"
"Venga di nuovo a trovarci. Ne riparleremo".
"Guardi, perdoni la mia irriverenza, ma se lei mi riferisce un
suo recapito, potrei chiamarla…non so…".
Marita lo guardò. Abbozzò a un sorriso freddo. James ebbe la
sensazione di aver osato troppo. Marita lo rassicurò.
53
"Mi telefoni pure qui tra le cinque e le sette del pomeriggio. A
quell'ora prendo le prenotazioni. Le risponderò io".
Bruxelles
"Cosa non farei per una Leffe!"
Come sempre, quando aveva sete, il suo pensiero corse alla
birra. Non avvertiva più il peso delle melanzane.
"Ancora qualche minuto e corro al Wild Geese. Poi, rispondo
ai messaggi di Jan. Intanto, questa merda…"
Il voluminoso dossier se ne stava sospeso in un gelido folder
blu sulla scrivania. Gli avrebbe portato via due giorni interi, se avesse
deciso di leggerlo, riga per riga. La merda da una parte, il cellulare
dall’altra. Lo riprese in mano e rilesse i messaggi che Jan gli aveva
spedito.
"Come va oggi...?? Per una volta non mi dispiace che sia lunedì
mattina....ho sentito gli uccelli alle 5 questa mattina, non potevo più dormire.
Allora fa già qualche ora che sono all'ufficio...ma ho dimenticato che lavoro fine alle
9 stasera con la formazione... :o((( Ieri sera tranquilla, dopo le fragole, ho letto sul
divano, molto piacevole :o))) A dopo! Jan"
"Ho finalmente sentito Franco Battiato…c’è un accesso a youtube e a
xfatctor! Bellissima musica, mi piacciono i suoni diversi di un sintetizzatore e gli
strumenti classici insieme...fa un po’ anni 80 vs l’opera :o) Anche bellissime
parole...ma dovrebbe essere abbastanza difficile superare le forze della gravità !!!
Buon pom! X".
Guardò di nuovo la merda. Ne lesse qualche riga ma nella sua
testa solo Jan e la birra.
"Le melanzane cotte al forno o alla griglia non riesco proprio a
mandarle giù, ma se sono state fritte, la situazione cambia. Non è che
mi facciano impazzire anche se fritte, ma la situazione cambia di nuovo
se si parla della mussaka, che mi crea dipendenza".
Lasciò scorrere qualche minuto, surfando su Internet alla
ricerca di una ricetta per cucinare la mussaka con le melanzane fritte.
Poi, spense il computer. Rimise in ordine la scrivania. Si alzò
lentamente dalla sedia e si avviò verso la porta, lasciandola socchiusa.
54
Il corridoio, l’ascensore e il portiere belga italiano. Il solito
rituale. Percorse la strada, che separava il suo ufficio dal Wild Geese,
mentre il pensiero di Jan si sovrapponeva a quello della birra e quello
della birra alle melanzane.
"Cosa cazzo gli rispondo?"
Rue de la loi non gli suggeriva nulla. I palazzi di cemento ai
fianchi e il traffico intenso delle macchine lo distraevano. Dopo essere
giunto a meta di Rue de la loi, prese Rue de Spa. Si guardò ancora una
volta intorno nel tentativo di cogliere uno spunto.
"Sarà tanto importante trovare le parole giuste?"
Non si erano ancora incontrati e il livello della loro amicizia
rimaneva sospesa nel limbo della virtualità. Il balzo verso il reale
dipendeva dalla sua risposta. Per questo avvertiva il peso della
responsabilità.
"Il dilemma di sempre nella mia vita. Non ho la percezione del
momento in cui osare".
Jan gli era piaciuto ma il timore era che lui non potesse
piacergli. Quel rapporto virtuale era stato fantastico. Klimt e le donne
dal trucco esagerato non ponevano particolari problemi di relazione.
"Come sarebbe stato il contatto reale?"
Sapeva che dalla sua risposta sarebbe dipesa l’evoluzione di
quella relazione.
"Se dovesse essere giunto il momento di osare, dovrei
rispondergli con entusiasmo. Se rispondessi con ritrosia, darei un
segnale di disinteresse".
Sembrava fosse giunto il momento di osare ma gli vennero in
mente le parole della nonna, "Fa attenzione ai tuoi desideri…
Potrebbero avverarsi!"
"Una risposta neutra, allora?" Fu il pensiero immediatamente
successivo.
Una risposta neutra sarebbe stata interpretata come un
atteggiamento di ritrosia.
"Rispondo con entusiasmo", esclamò mentre da Rue de Spa si
portava a Rue Joseph II.
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Il problema di fondo era che Jan gli interessava davvero.
Sentiva di avere delle affinità importanti con lui.
"Se quel maledetto mi stesse sul cazzo, non ci metterei niente a
mandarlo a fare in culo".
Invece, perdere quel contatto sarebbe stato un peccato.
Le sue pippe mentali si arrestarono nel preciso istante in cui
intravide il Wild Geese. Pochi metri lo separavano dal pub irlandese. Li
percorse e varcò la porta d'entrata. Nel dedalo di stanze e stanzette,
c'era molta più gente del solito. Un tizio velenoso di chiara origine
nordica, zompettava sulla porta. Fumava e provava a scaldarsi.
Enzo poté osservarlo per bene, perché un altro, al lato del
nordico velenoso, gli sbarrava il passaggio. Era girato di spalle e la sua
corazza ossea tradiva origini non distanti dall'altro tizio. Si accorse di
Enzo, solo dopo qualche attimo. Il rumore assordante della musica
spegneva una qualsiasi velleità di ascolto.
Dopo avere scavalcato a fatica i due nordici che gli ostruivano
il passaggio, Enzo, si ritrovò all'interno del pub. Con tutta quella gente
intorno, il bancone gli apparve un miraggio. Troiette fresche di ufficio e
burocrati inebetiti si accavallavano l'uno sull'altro, mentre
trangugiavano birra e vino. Quell'ammasso di carne disordinato
costituiva l'ultimo ostacolo tra lui e la birra.
Il suo programma era chiaro. Avrebbe ordinato la birra
direttamente al banco, si sarebbe seduto e avrebbe risposto, tra un rutto
e un altro, ai messaggi di Jan.
Afferrata la birra, mirò l’unico tavolo, ancora non occupato.
Era in fondo, alla destra della porta di entrata, nella saletta adiacente
quella principale. Con il bicchiere di birra, dopo averne trangugiato la
metà, Enzo si decise ad occuparlo. Si guardò intorno. Alla sua destra
erano seduti una giovane donna sui trenta anni e un uomo vicino ai
quaranta con grossi baffi neri e capelli grigi. Parlavano in italiano
benché fosse alquanto evidente che l`accento della donna chiarisse
origini diverse.
Enzo non poté non notarli. Ridevano e parlavano ad alta voce.
Ad un certo punto, lui tentò di baciarla ma lei si ritrasse.
Proprio mentre l`uomo con i grossi baffi neri e i capelli grigi
56
tentò di baciare la donna sui trenta anni che parlava in italiano benché
non lo fosse, Enzo decise di scrivere il messaggio di risposta a Jan.
"Ciao Jan. Mi fa molto piacere avere tue notizie. Bella giornata.
Molto lavoro e difficili dossier da seguire. Battiato é super. Lo adoro. A
presto!"
Si trattava di un messaggio neutro. La lunga riflessione con cui
era riuscito a stressare il suo cervello non era riuscito a fare niente altro
che partorire uno stupido messaggio neutro. Che fine avevano fatto le
sue intenzioni bellicose di osare? Come sempre, alla fine aveva ceduto
alla paura.
"Non sono pronto a velocizzare questa conoscenza", provò a
giustificarsi.
Dentro di sé, non se la sentiva di dare ritmo alla sua vita.
"Perché io?"
Era evidente che se qualcosa si fosse smosso nella calma piatta
della sua esistenza, sarebbe stato per merito di Jan. Solo l’iniziativa
presa da un altro avrebbe modificato i suoi ritmi lenti.
"Sembri un vecchio, Enzo!" Gli ripeteva il nonno, "sei morto,
morto!".
Infatti, il vecchio si fece sentire. Dopo aver inviato il
messaggio, ebbe una sensazione di sollievo. Nel suo subconscio, l`idea
di incontrare Jan lo innervosiva.
"Non sono pronto. Non sono pronto", sussurrò.
La trentenne che parlava italiano senza esserlo ebbe la
sensazione che stesse parlando con lei. Lo guardò in attesa di un segno
fin quando l’uomo che stava con lei, non l’afferrò nuovamente per
baciarla. Lei si ritrasse, come già aveva fatto in precedenza.
"Come potrebbe essere nella vita reale?"
Enzo era cattolico e la chiesa proclamava sempre la stessa
dottrina a proposito di Internet.
Internet ridefinisce in modo radicale il rapporto psicologico di
una persona con lo spazio e con il tempo. Attrae l`attenzione di ciò che
e tangibile, utile, subito disponibile. Potrebbe venire a mancare lo
stimolo a un pensiero e ad una riflessione più profondi, mentre gli
57
esseri umani hanno bisogno vitale di tempo e di tranquillità interiore
per ponderare ed esaminare la vita e i suoi misteri e per acquistare
gradualmente un maturo dominio di sé e del mondo che li circonda.
"Il desiderio di stringere amicizie virtuali non é di per sé
negativo. Ci vuole la giusta attenzione per non banalizzare il concetto e
l`esperienza dell`amicizia".
Enzo fu più che mai convinto di aver preso la decisione giusta.
2 marzo
New York
Aveva gettato uno sguardo al suo cellulare più volte in quei
giorni. Non era sua abitudine farlo, ma attendeva una risposta. Quattro
giorni prima, aveva inviato un messaggio a Marita.
"Mi disturba questo silenzio. Mi manda fuori di testa".
Aveva sempre pensato di poter sopravvivere alla sua assenza
ma ora che Marita era sparita dalla sua vita, non aveva più certezze.
"Non é mai successo che quella puttana mi ignorasse per
quattro giorni".
La prima volta che James avesse scritto un messaggio alla
puttana era stato sei giorni dopo averla conosciuta. Due giorni prima
l`aveva chiamata al ristorante intorno alle sei del pomeriggio.
Sarò al ristorante. Dalle cinque alle sette prendo le
prenotazioni, gli aveva detto Marita la sera in cui si erano conosciuti.
James, ovviamente, non lo aveva dimenticato.
"Spero si ricordi di me", esclamò, non appena avvertì la
cornetta sollevarsi dall’altra parte.
"Perché
maliziosamente.
dovrei
ricordarmene?"
"Il bacio dimenticato…"
"Ovviamente, il bacio dimenticato".
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gli
aveva
risposto
"E lei, allora?"
"Cosa?"
"L’amore dimenticato".
"Molto più logico".
"…ma irrazionale".
"Ragionevole, direi".
"Logico e ragionevole, quindi".
"Appunto!"
"Dovrebbe spiegarmelo ", specificò con irriverenza James.
"Forse", gli rispose Marita.
"Magari a cena", le propose con altrettanta irriverenza.
"Magari!" esclamò Marita.
Si accordarono per il giorno e l`ora. Non aggiunsero altro.
Sarebbe stato tutto prosaicamente superfluo.
Dieci minuti prima dell`appuntamento, James, inviò un
messaggio a Marita.
"Sono al tavolo. L`aspetto".
"Arrivo", gli rispose Marita.
I due cenarono amichevolmente. Non sembrava affatto che
fosse il loro primo appuntamento. La conversazione fluiva in maniera
naturale. Ritornarono sulla questione che li aveva avvicinati.
"Io attribuisco un valore immenso al bacio", commentò
Marita.
"Per me sinceramente un bacio può essere anche un gioco. Un
bacio che vale molto lo si da con il cuore, non solo con le labbra.
Insomma, posso baciare con le labbra ma non con il cuore", sottolineò
James.
"Il bacio é la cosa più bella che ci possa essere in una relazione.
Un bacio dice tutto…e quando baci la persona che ami davvero…beh,
ti gira la testa per l`emozione".
"E quando unisci il tuo corpo a quello di un altro?"
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"Quello può essere piacere. Può anche non girarti la testa".
James rimase sorpreso. Ebbe l'impressione di trovarsi di fronte
ad un paradosso, benché non ne fosse completamente certo.
"Quante persone hai baciato nella tua vita?" chiese a Marita,
passando istintivamente dal lei al tu.
"Ne ho baciate tre".
"E con quante hai fatto l`amore?"
"Ohhh, quello con molte di più".
"E non le baciavi?"
"Perche avrei dovuto farlo?"
"Non lo so. Le avevi dentro di te".
"Non mi emozionavano. Mi davano soltanto piacere e, a volte,
neanche quello".
"Hai fatto l'amore senza provare piacere?"
"Certo".
"Nel senso che non raggiungevi l'orgasmo?"
"Potevo anche raggiungere l'orgasmo senza provare piacere".
"Non capisco".
Marita non aggiunse altro. Mangiarono il salmone fresco alla
griglia, il foie gras trifolato e l’astice al burro fuso. Lei si sarebbe
ricordata solo del salmone.
Uscirono dal ristorante prima delle dieci. Forse dieci minuti
prima delle dieci. Passeggiarono. Si ritrovavano non lontano da Union
Square. Era una serata fredda, ma non freddissima. Non sarebbe stato
agevole passeggiare ma si poteva farlo, se solo si avesse avuto voglia di
respirare gelo e fumo.
Marita indossava un cappotto nero.
"Il cappotto nero ti copre le gambe", sospirò James.
Lui vestiva con un impermeabile e un borsalino, di buona
qualità, in feltre di lepre, con cinta cannettée. L`impermeabile era beige,
il borsalino marrone. Marita non fece commenti sull`abbigliamento di
60
James.
Lui, invece, disse a Marita che il cappotto le stava bene.
"Purtroppo, ti copre le gambe", ripeté.
Furono le sole cose di buon senso che riuscì a pronunciare. Il
resto del tempo venne speso per commentare la cena.
Complessivamente, durante la passeggiata, parlarono poco.
Giunti a Union Square, James si diresse verso l`albero, al centro
della piazza. Intorno a lui alcuni negri e un bianco che preparava le
caldarroste. Sfiorò Marita con il palmo della mano destra per tentare di
avvicinarla al banco delle caldarroste. La sfiorò nuovamente per
mostrargliele. Dopo soli trenta secondi, tentò di baciarla. Marita si
ritrasse.
"Non sei ancora capace di emozionarmi".
"Mi dispiace".
"Non dispiacerti".
"Mi piacerebbe emozionarti".
"Forse un giorno ci riuscirai".
"Un giorno?"
"Forse un giorno".
"Ora?"
"Ora ho solo voglia di fare l`amore".
"Ah…fare l’amore?"
"Tu non mi desideri?"
"Davvero lo vuoi?"
"Sì, ma non provare a baciarmi".
"Ovviamente…il bacio…certo!"
"Appunto! Per fortuna, abbiamo avuto modo di parlarne".
"Per fortuna!"
"Saprai aspettare?"
"Cosa?"
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"Di giungere a casa mia, stupido! Prima di allora non dovrai
toccarmi".
"Cosa vuoi dire?"
"Quello che ho appena detto. Che non dovrai toccarmi per
strada".
"E se dovessimo prendere un taxi?"
"Non dovrai toccarmi ugualmente. Saprai aspettare?"
"Ho solo voglia di fare l’amore con te".
"E allora non perdere tempo. Ne ho voglia anch’io. Sei capace
di fermare un taxi?" domandò con la sua malizia.
James non perse tempo. Riuscì a fermare il primo taxi che
passava da Union Square. Spinse leggermente Marita verso la macchina
con la mano sinistra, mentre con l'altra mano le aprì lo sportello.
"Sali! Non perdiamo tempo".
I due si infilarono, senza neanche fare caso alle riviste di
meccanica, che ingombravano i sedili posteriori. Presero posto al
centro.
"Dove vi porto?" si informò il taxi driver.
Dal posto di guida, li guardava dallo specchietto retrovisore,
con l'aria flemmatica di un beduino del Sinai.
"391, Harrison Avenue".
"Brooklin?"
"Brooklin…Williamsburg!".
"Sì, certo!"
Improvvisamente, un rumore violento uscì dal tubo di
scappamento e l'auto partì di scatto.
James guardò la serie di palazzi attaccati l'uno all'altro. Vide
che una scena simile si ripeteva ogni volta che l'auto svoltava un angolo,
qualunque esso fosse.
"387, 389, 391…ci siamo".
"Tra qualche minuto potrai toccarmi. Complimenti per avere
62
resistito", sussurrò Marita.
Nei pensieri di James le sue gambe tornite e, finalmente, il
desiderio di poterle toccare.
"Benedetto il cappotto!" esclamò.
"Il cappotto?"
"Devo ringraziare il cappotto se sono riuscito a resistere",
sghignazzò.
"Ovviamente, il cappotto!".
Si liberarono velocemente del taxi che li aveva portati a
Williamsburg.
"Il ristorante in cui ci siamo incontrati è proprio dall’altra
parte", gli fece notare Marita.
"…lo aveva scelto Terence. Io non conosco questa zona",
rispose James spontaneamente.
"Meglio così", concluse Marita con la medesima naturalezza.
Marita frugò nella borsa alla ricerca della chiave.
"Dai, toccami il culo!"
"Davvero vuoi che ti tasti il culo?"
"Avevamo stabilito che non appena fossimo arrivati a casa mia,
avresti potuto mettermi le mani addosso. Perché non lo fai?"
"Non lo so".
"Svegliati, tesoro!"
James, allora, le palpò il culo.
"Ora no! Non voglio essere toccata su comando. Avresti
dovuto farlo spontaneamente".
Salirono le scale che portavano al primo piano.
Marita accese la luce e mise la chiave nella toppa della porta a
destra delle scale. James le toccò il culo.
"Bravo! Vedo che hai capito".
Entrarono in casa, con la mano di James poggiata sul culo di
63
Marita.
A parte una lampada nera di Kartell posta su un piccolo
tavolino tondo tra lo stereo e la poltrona rossa del soggiorno, gli unici
altri elementi decorativi della casa erano costituiti da due quadri. Uno
era in stile Jean Timir, dove i toni del rosso, giallo e arancio risaltavano
enormemente, dando luce e colore allo spazio. L’altro invece, a lato
della grande libreria in frassino, era in stile imitazione Mirò, con
predominanza del giallo, nero, bianco e azzurro. Entrambi arricchivano
l’ambiente scarno di altri elementi decorativi.
Il primo contatto tra la pelle dei due corpi avvenne in bagno.
Mentre lei stava guardandosi allo specchio, lui l'abbracciò, infilando la
mano sotto la sua gonna. Avrebbe voluto baciarla, ma lei si scostò
repentinamente.
"Non provare a baciarmi", gli disse con decisione, "toccami e
basta!"
James fu nuovamente perplesso e arrestò la sua azione. Rimase
immobile, leggermente confuso.
"Il mio primo contatto fisico è stato sempre con le labbra della
donna".
"Non con le mie. Non permetterti di sfiorarmi le labbra".
"Non capisco".
"Non toccarle con le tue".
Continuò a guardarsi nello specchio con naturalezza. Era
difficile sapere se avvertisse o meno l'imbarazzo di James.
Semplicemente decise di non dargli peso. Dopo qualche istante, prese
la sua mano e lasciò che le sfiorasse l’interno delle cosce.
"Posso baciarti sul collo?", chiese James.
"Fallo! Non domandare", rispose maliziosamente Marita.
"Sei sicura?"
"Ti ho forse detto di non baciarmi sul collo?"
"Mi hai pregato di non baciarti".
Marita scoppiò in una risata che James parve non gradire.
64
"Sulle labbra! Ti ho chiesto di non baciarmi sulle labbra".
James preferì tacere.
La baciò sul collo. Prima solo con le labbra, poi anche con la
lingua. Scivolò con la lingua sulla spalla. Lei si girò e, con forza gli prese
la testa. La sospinse sul suo seno.
"Ora basta! Non farmi più aspettare".
La prese in braccio e la condusse in camera da letto. La adagiò
con calma, finendola di spogliare. Lei si contorse fin quando non lo
ebbe dentro. James pensò allora di poterla baciare ma Marita si ritrasse.
Ebbe la prova che il coito non è nella fisicità di un atto, ma nel valore.
Quando ebbero finito, parlarono.
Bruxelles
"Va bene, ti chiamo io", lo rassicurò mentre scendeva dalla sua
macchina.
"Ci conto, dolcezza!" ribatté il napoletano, sporgendosi verso
di lei e afferrandole il braccio.
Eva si divincolò con calma, chiuse la portiera della macchina e
si diresse verso il suo appartamento. Non era la prima volta che un
uomo l’accompagnasse a casa, ma quella sera aveva la sensazione che
fosse diverso. Aveva da poco scoperto il non-amore, il noncoinvolgimento, la non-passione. Era dura da digerire.
"Sento il vuoto dentro", sospirò.
Cosa ci fosse di diverso non riusciva ancora a realizzarlo. Da
qualche parte aveva letto che l'amore é un disegno, mentre il nonamore è una fotografia. L'amore è una partita a carte, la sera davanti al
caminetto; il non-amore è una partita a scacchi, una cadenza di mosse e
contromosse, scandite dal tempo, sempre fisso e sempre uguale.
L'amore è il silenzio, il non-amore è il rumore.
Le frasi che aveva letto, ora le sembravano realtà. Aveva fisse
nella sua mente le mosse e le contromosse vissute nella tana del
napoletano. Era stata una partita a scacchi che lei aveva perso.
65
"Sento il vuoto dentro", ripeté.
Aprendo la porta di casa avvertiva il peso della sconfitta.
Quella mattina, alzandosi, aveva sentito un fremito sulla pelle.
Era l’inizio del mese di marzo eppure faceva freddo. Non era una
novità. Era stato un inverno freddo, molto freddo. Forse troppo. Era
volata via diverse volte, proprio a causa del freddo che le piegava in due
la schiena e le buttava sotto i tacchi il morale, ma quel fine settimana
aveva deciso di rimanere a Bruxelles.
Si era sempre lamentata del freddo, ma nessuno ci aveva mai
fatto caso. Né i suoi amici né i suoi colleghi. A Bruxelles tutti si
lamentano del freddo e del grigio. Si lamentano e continuano
ugualmente a viverci. Sembra una forma di masochismo esasperata, che
solo l’intervento di uno psicologo potrebbe aiutare a risolvere. Isabelle,
che occupava l’ufficio adiacente al suo, non faceva altro che guardare
continuamente dalla finestra, sperando che uno squarcio di azzurro
potesse penetrare il grigiore.
"Mi sveglio al mattino con un peso. Le nuvole basse sembrano
sfiorare la mia testa. Me ne sto alla finestra ad aspettare, spesso invano,
che si sollevino e che liberino lo spazio che mi opprime".
Per Eva, il 2 marzo sarebbe stato l’inizio di un altro di quei
tristi week-end lontano da casa e dalla famiglia. Non solo. Sarebbe stato
un altro triste fine settimana lontano dalla sua città. Non che Eva fosse
particolarmente legata a Bratislava. Da sempre aveva cercato di andare
via, ma non poteva immaginare che l’approdo nella capitale europea
potesse rivelarsi per lei tanto inospitale, da desiderare addirittura
Bratislava.
Si vestì molto lentamente, come era solita fare. Prese il primo
paio di jeans e se lo infilò. Cambiò immediatamente ritmo quando
scorse la sveglia sul suo comodino.
"Le nove!"
Si rese conto di essere in ritardo e sorseggiò il suo decaffeinato
molto velocemente. Neanche il tempo di dare un rapido sguardo al
libro, che aveva comprato il giorno prima, che udì il suono del
citofono.
"Gianuario!"
66
Aveva appuntamento con lui.
Non sapeva se definirlo un collega oppure un amico. Forse era
più un amico che un collega. Aveva tentato di baciarla al Wild Geese
qualche sera prima ma lei si era sottratta. Aveva ritratto il capo quando
lui si era sporto per tentare di incollare le sue labbra a quelle della
donna che parlava italiano ma che veniva dalla Slovacchia.
Un uomo mingherlino, certamente italiano, li stava osservando
dal tavolo vicino. Si trattava di una fisionomia non completamente
sconosciuta, che non rientrava nel novero delle sue conoscenze ma che,
da qualche parte, aveva l'impressione di avere già scorto.
"Perdi il tuo tempo", gli aveva ricordato Eva.
Il mingherlino, per quanto facesse attenzione, non era riuscito
a comprendere. Pride aveva coperto la voce di Eva.
Per il napoletano non ci sarebbe stata alcuna speranza di avere
successo al Wild Geese. Eva non avrebbe mai baciato in pubblico un
uomo. Aveva un ruolo da rispettare e, per quanto la gente di Bruxelles
se ne fottesse profondamente del comportamento degli altri, non ebbe
la forza di farlo. Probabilmente non ebbe neanche la voglia di farlo.
Gianuario, invece, aveva la faccia del corno. Senza dubbio, ci
avrebbe riprovato. Veniva da uno di quei paesi di merda del napoletano,
Pozzuoli. Era per questo che lo chiamavano il napoletano. Troppo
complicato risalire a quei piccoli centri di merda. Molto più semplice
fare riferimento alle grandi città. A differenza di Eva non aveva alcun
ruolo da rispettare e nessun ostacolo estetico da superare.
"Devi venire assolutamente con me", le aveva detto la sera
prima.
Aveva fallito nel suo intento al Wild Geese ma ci avrebbe
certamente riprovato.
"Con te dove?"
"Devi consigliarmi".
"Consigliarti?"
"Si, consigliarmi. Devo comprare uno specchio".
"Preferirei fare altro", le aveva risposto lei, spocchiosamente,
ma lui aveva tanto insistito.
67
Alla fine decise di accettare.
I napoletani hanno il dono del convincimento. Hanno la faccia
del corno, un po’ come gli arabi. Meno decisi ma più insistenti. E’
un'arte che apprendono da bambini.
Gianuario proveniva da una di quelle famiglie che non erano
né ricche né povere. Suo padre era un impiegato dell’ufficio IVA di
Pozzuoli, mentre la madre insegnava in una scuola elementare. Aveva
appreso l’arte del convincimento dal nonno, faccia di corno come lui.
Era stato giovane nel periodo tra le due guerre e aveva imparato ad
arrangiarsi. Durante la Seconda guerra mondiale, aveva stretto rapporti
con i soldati alleati che avevano occupato Napoli, dopo l’armistizio. Si
procurava le sigarette che poi smerciava di contrabbando.
Gianuario aveva appreso l’arte di arrangiarsi dal nonno.
Soprattutto, aveva imparato a convincere la gente. Non era simpatico di
suo, ma parlava talmente tanto che alla fine prevaleva per sfinimento.
Con Eva, il napoletano non dovette neanche impegnarsi più di
tanto. La slovacca non aveva motivo di resistere alle sue proposte. Solo
per spocchia gli aveva detto che avrebbe preferito fare altro.
Invece, sarebbe stato un altro dei suoi noiosi fine settimana
brussellesi. Al grigio, sotto la pioggia, mentre altrove splendeva il sole.
Pensò ad Isabelle. La immaginava nei pressi di una finestra ad aspettare
che il grigiore facesse trapelare il desiderato squarcio d’azzurro.
"Oppure Isabelle se ne sta ancora a letto", pensò.
"Mi manca il calore", aveva detto a Gyorgi la sera prima.
"Non capisco", le aveva risposto Gyorgi.
"Come al solito", aveva sospirato, cambiando discorso.
La mattina in cui aveva appuntamento con il napoletano scoprì
che le mancava altro.
Scese velocemente le scale, dopo aver richiuso la porta alle sue
spalle. Salutò gentilmente la portiera, che con naturalezza le aveva
aperto il portone di vetro del palazzo in cui abitava da qualche mese, e
si incamminò verso la macchina del napoletano. Entrò senza fare caso
a dove mettesse i piedi. Tirò giù il finestrino per lasciare entrare un po'
d'aria.
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"Il senso di claustrofobia mi tormenta fin da bambina",
confidò, rivolgendosi alla faccia di corno.
"Respira, respira", le consigliò lui.
Mentre parlava sentì le sue mani sulle ginocchia. Aveva sempre
cercato di evitarlo e così fece anche quella volta.
Il napoletano, invece, cercava il contatto.
"Non siamo in un luogo pubblico", precisò lui, mettendo in
mostra la sua faccia di corno.
Eva lo aveva sempre rifiutato, ma quella mattina il grigio si era
impadronito di lei. Se fosse stata insieme a Isabelle, magari avrebbe
potuto cercare lo squarcio d’azzurro ma in quella situazione non era
possibile. Realizzò che anche lei avesse bisogno della mano di quella
faccia di corno sulle ginocchia.
Iniziò il suo gioco, a parlare come sempre. Avrebbe voluto
stordirla, ma non ce n’era bisogno. Eva era già stordita. E non c’era
neanche Isabelle che potesse darle l’illusione dello squarcio d’azzurro.
Parlarono di tutto e di nulla, come sempre accade tra amici e colleghi
che non sanno se essere più amici oppure più colleghi. Eva pensava di
conoscerlo, ma in realtà, non lo conosceva affatto. Lo avrebbe
conosciuto dopo poco. Lo aveva incontrato in aereo sul volo ViennaBruxelles una mattina di novembre.
"Una sagoma bizzarra".
Non era certo il suo tipo. Lui parlò tanto, ovviamente.
Esordì chiedendole se avesse potuto sedersi al suo fianco. Eva
stimò quella domanda strana.
"Non vedo come potrei impedirtelo. I biglietti degli aerei sono
numerati e assegnati personalmente".
Tuttavia, considerò quella domanda come una gentilezza,
superflua ma gradevole.
"Un gesto da gentleman in un'epoca di nefandezze".
Parlarono tanto, come solo due persone che non si conoscono
possono fare. Argomenti diversi, voli pindarici. Se dovesse ora
ricordare cosa si fossero detti, dovrebbe fare uno sforzo enorme, e,
comunque, non lo ricorderebbe.
69
"Non vale la pena rammentarlo. Era letteratura superflua.
Superflua e inutile. Inutile perché non resta niente".
La mattina del 2 marzo, il napoletano era accanto a lei. Voleva
che lo aiutasse a scegliere uno specchio per la camera, che stava
arredando.
"Non cerco nulla di speciale. Uno specchio, semplice e a buon
prezzo. Per questo andremo a Zaventem".
Entrando in auto, Eva avrebbe potuto comprenderlo da sola.
Non aveva fatto attenzione a dove stesse mettendo i piedi e aveva
calpestato un catalogo Ikea, uno di quelli che spesso ci si ritrova nella
buca delle lettere.
"Non farci caso, non l’ho neanche sfogliato", esclamò il
napoletano.
"Fa colore", rispose Eva.
"Cosa fa?" domandò il napoletano.
"Colore".
"Ah, colore!"
"L’ho buttato in macchina. Pensavo potesse essere utile da Ikea.
Non pensavo al colore".
"Ci ho pensato appena l’ho visto", tenne a precisare Eva.
"Strano! Comunque, ora non serve. Ci sei tu. Non mi serve il
catalogo".
Lo disse per galanteria. Voleva che lei comprendesse il valore
che le stava dando.
"Mi affiderò al tuo gusto".
Lei, invece, trovò l’affermazione del napoletano sgradevole. La
scelta di uno specchio non poteva essere considerata un’operazione
complicata. Lui stesso aveva appena detto che gliene sarebbe servito
uno semplice.
"Mi ha cercata perché lo aiutassi", pensò senza aggiungere
nulla.
Rimase in silenzio per qualche minuto, mentre il napoletano
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continuava a toccarle il ginocchio. Mentre la toccava, parlava, tanto,
come in aereo, come sempre. Tacque solo davanti allo specchio che
avrebbe comprato. Poi riprese a parlare.
"Ti porto a casa mia", le disse.
La invitò per il pranzo. Le avrebbe preparato la pasta al sugo di
pomodoro.
"Con il basilico", precisò.
"Perché proprio con il basilico?"
"Mia mamma usa fare la ricetta semplice e classica. Pomodori
freschi, tagliati a metà, olio extravergine di oliva, uno spicchio di aglio,
un po’ di piccante. Fa indorare per qualche minuto e poi ci butta i
pomodorini. Infine il basilico, senza cipolla, carote o altri mistici
ingredienti. Semplice, semplice…e tanto sapore. Vedrai…"
Eva lo ascoltava. Lui tacque per qualche secondo, poi
aggiunse: "Bisogna dire che anche la qualità dei pomodori è da
considerare per un ottimo sugo".
Tacquero fin quando Eva gli chiese dove abitasse.
"Non é lontano. Conosci Place Meiser?"
"Non credo di esserci mai stata".
"Non è lontano", ripeté.
Non appena ebbe messo piede nella casa del napoletano, Eva
ebbe una strana sensazione, come se fosse giunta nel mezzo del nulla.
"E molto triste questo sabato".
Il napoletano non commento e si diresse subito in cucina, con
lo specchio ancora tra le mani. Ritornò sui suoi passi per sistemarlo nel
corridoio. Eva lo seguì, sia in cucina, sia nel corridoio. Non sapeva
bene cosa fare. Decise che lo avrebbe seguito e basta.
Non era abituata a starsene in disparte e non sapeva neanche
dove potersi sistemare.
"Che appartamento di merda! Neanche un posto per sedersi",
pensò.
C’era, invece, un divano rosso, di provenienza Ikea, che le dava
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uno strano senso di sporco.
"Scegli il tipo di pasta che preferisci, io metto su l'acqua ed
inizio a preparare il sugo" , le disse con voce roca, bassa.
Il compito che il napoletano le aveva assegnato la liberava dalla
necessità di trovare un posto per sedersi. Sarebbe potuta rimanere in
piedi, senza sentirsi, per questo, imbarazzata.
Il napoletano sembrava deciso, più del solito.
"Dove trovo la pasta?" domandò Eva.
"Cerca lì dentro".
Lui le indicò con il dito una vecchia credenza di legno d'acero.
Bianca o, forse, grigia. Ripensando alla credenza, Eva considerò che
dovesse essere bianca. Sembrava grigia perché sporca di polvere. Era il
segno che in quella casa mancasse una donna da tempo, troppo tempo
per lui. La cosa, comunque, non riguardava Eva. Non voleva nemmeno
che le riguardasse.
In quel viaggio in aereo da Vienna a Bruxelles le aveva parlato
dell'abbandono. Di una donna fuggita via e di una bambina, venuta alla
luce da quel rapporto finito.
"Hai mai provato l’abbandono?" chiese ad Eva.
"Ho provato la solitudine".
"Non è la stessa cosa".
"Qual è la differenza?"
"Il dolore".
"Credi che non ci sia dolore nella solitudine?"
"Penso che sia doloroso".
"E allora, qual è la differenza?"
"L’intensità. L’abbandono trasferisce il dolore dell’assenza".
"La solitudine non è assenza?"
"Non lo è, credimi".
"Non ho mai provato l’abbandono, se vuoi che risponda alla
tua domanda".
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"Lo avevo capito".
Il napoletano si era sposato a Pozzuoli con Ingrid,
un’austriaca, conosciuta in una sala Bingo di Jesolo. Si erano incontrati
alcuni anni prima e dopo un fidanzamento di soli sette mesi e
quattordici giorni, avevano celebrato solennemente il matrimonio nel
paese di merda di Gianuario. L’austriaca era rimasta incinta la terza
volta che avevano fatto l’amore. La prima, Gianuario era riuscito ad
interrompere il coito, la seconda, invece, aveva misteriosamente fallito.
Il napoletano era da sempre convinto di sapersi gestire. Nelle
sue precedenti relazioni, non era mai capitato nulla che lui non avesse
voluto. Invece, la terza volta che fece l’amore con Ingrid le cose non
andarono come lui avrebbe voluto. Decisero di tenere il bambino. Anzi,
considerarono quella vicenda un segno del destino.
Sul volo Vienna-Bruxelles aveva mostrato la foto della figlia ad
Eva. Non le era piaciuta. Non era gradevole, come non lo era suo
padre.
"Come la trovi?" le chiese "non è bella?" aggiunse subito dopo,
sperando di ricevere la sua approvazione.
Eva fece un cenno di assenso con la testa. Mentì
spudoratamente. In seguito avrebbe mentito più volte, soprattutto a se
stessa.
In mezzo alla confusione di pacchi aperti di pasta, Eva riuscì a
trovarne un tipo che pensò potesse andare bene per entrambi.
"Non so perché mi preoccupo di lui", pensò dopo avere scelto
il tipo di pasta.
Scelse le penne rigate. Sembravano il tipo più appropriato.
Ricevette anche l’approvazione da faccia di corno.
"Brava! Il sugo si incolla meglio alle penne rigate".
Con il pacco di pasta, aperto, tra le mani, Eva si posizionò
dietro di lui per porgerglielo. Lui la guardò con la coda dell'occhio,
scorgendola dietro di lui. Glielo lasciò cadere dalle mani. La prese con
forza e la baciò.
"Bastardo!"
Il primo istinto di Eva fu quello di sottrarsi.
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Poi, percepì il grigio che la stava avvolgendo e si lasciò andare.
Il napoletano iniziò ad esplorare il suo corpo. Dapprima, la sua bocca,
poi i suoi seni. Eva non riusciva a guardarlo. Continuava a non
piacergli, ma adorava quello che le stava facendo. E la intrigava l'idea
che glielo stava facendo in cucina. Era sempre stata uno dei suoi luoghi
fetish. Le stimolava la fantasia, più di altri luoghi.
"Sesso e cibo sono da sempre un connubio perfetto".
Il napoletano, dopo essersi assicurato di poterla avere quel
giorno stesso, si fermò all'improvviso e tornò ad occuparsi del pranzo.
Pensò che le cose andassero fatte con calma e che, prima di tutto,
occorresse mangiare. Eva, invece, avrebbe voluto che Gianuario si
fosse occupato ancora di lei, ma non aggiunse nulla. Decise di
ricomporsi.
Fece quel poco che poteva fare, mentre nella sua mente,
stazionavano ancora le sue mani, il suo sguardo laido, i suoi baffi, che
odiava. Li aveva odiati fin dal primo momento. Non era mai stata con
un uomo con i baffi. Solo una volta, quando frequentava il secondo
anno di università, aveva conosciuto un ragazzo più vecchio di lei di sei
anni con i baffi. Lo aveva frequentato per circa tre settimane, ma tranne
qualche sorriso e un abbraccio, non c’era mai stato niente. Fino ad
allora aveva ritenuto che non sarebbe mai stata capace di stare con un
uomo con i baffi. Non lo aveva mai desiderato.
La pausa, cui l’aveva costretta il napoletano, non durò molto.
Moriva di voglia anche lui. Decise di averla, anche se non
completamente. L’acqua nella pentola stava per bollire e dopo qualche
minuto avrebbe dovuto calare le penne. Poi, sarebbero occorsi dodici
minuti di cottura.
"Occupati di me, bastardo", avrebbe voluto gridargli in faccia
ma non lo fece. Eva aspettò con pazienza e, quando lui rivolse lo
sguardo verso il suo corpo, lei era già pronta.
La baciò di nuovo, poi le tolse con forza i jeans che lei, a fatica
e svogliatamente, aveva indossato la mattina. Scese con la sua bocca e i
suoi baffi sempre più vicino alle sue gambe. Finalmente le aprì e iniziò
con perizia a regalarle attimi di piacere intenso.
Quell'uomo non le piaceva. Non aveva mai desiderato un
uomo con i baffi. Li trovava orpelli estetici di altri tempi. In quel
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momento, però, desiderava proprio quell'uomo, nonostante tutto.
Quella situazione quasi non le sembrava reale. Era come se
volesse conquistare il premio di sgualdrina del mese. Seguiva il suo
istinto come una cavernicola.
Mentre il corpo reagiva, la sua mente era altrove. Il suo
giardino, la sua città, il suo sole avrebbero dovuto accompagnarla.
Questa sarebbe stata la normalità. E lei avrebbe avuto voglia di
normalità, ma il suo sole, il suo giardino, la sua normalità non c’erano.
C'era lui che la tormentava e la scuoteva. Agitava il suo corpo, ma in
realtà non faceva altro che svuotarle la mente.
Finalmente era pronta. Eva stimò che fosse giunto il momento
per concedersi completamente. Quello che aveva negato a uomini che
la adoravano, ora se lo stavo prendendo quell’uomo con i baffi, che lei
detestava. Il napoletano, invece, considerò che il momento di prendersi
tutto non fosse ancora giunto. Voleva fare le cose con calma. Per
questo frenò, ancora una volta, la sua azione. Voleva mangiare. Eva
non sapeva cosa dire ed infatti non disse niente.
Iniziarono a mangiare. Lui era avido. Il sugo gli sporcava i baffi
che poco prima Eva aveva sentito sulla sua pelle. Le faceva ancora più
ribrezzo.
Quando aveva incontrato il ragazzo con i baffi all’università
non aveva mai pensato a quali sensazioni avesse potuto provare se lui
l’avesse presa e l’avesse baciata.
Il napoletano mangiava e parlava del tempo, di questa
maledetta Bruxelles e inveiva contro coloro che sosteneva essere la
causa della sua tristezza e della sua desolazione.
Eva mangiò velocemente, poi si accovacciò sul suo materasso.
Quel bastardo di Gianuario non aveva neanche un letto in quella casa.
Avrebbe dovuto vederlo il padre in quel frangente. Gli avrebbe fatto
ribrezzo. Gli sarebbe apparso un passo indietro nel tempo e nella scala
sociale.
Il padre del napoletano era riuscito a progredire rispetto al
proprio padre, che vendeva le sigarette di contrabbando. Era riuscito
non solo ad avere un lavoro dignitoso e onesto, ma anche a comprare
una casa, in cui abitava con la moglie e con la figlia Marianna, la sorella
di Gianuario, che non aveva ancora deciso di sposarsi. Se avesse visto il
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figlio vivere in una casa come quella in cui alloggiava con uno specchio,
ma senza neanche un letto, avrebbe pensato che i sacrifici fatti per farlo
studiare erano stati completamente inutili. Per fortuna di Gianuario, il
padre non lo aveva mai visto in quella condizione.
Ad un certo punto, mentre Eva se ne stava distesa sul
materasso posto sul pavimento, Gianuario imbracciò la chitarra e iniziò
a muovere le dita sulle corde.
"Non riconosco nessuna di queste canzoni", gli disse Eva.
"Non importa, ascolta!" replicò lui, con l’arroganza di sempre.
"Bastardo!" avrebbe voluto nuovamente esclamare ma l’urlo le
rimase soffocato in gola.
Lui strimpellava, disteso. Metà di quello che voleva lo aveva già
avuto. Non gli restava che prendersi il resto. Non aspettò molto e lo
fece.
Ancora i suoi baffi, la sua lingua, le sue labbra calarono sul
corpo di Eva, che poté vedere il suo corpo, nudo. Iniziò a odiare anche
quello, mentre con forza la penetrava. Il suo corpo godeva, mentre la
sua mente rimaneva gelida.
Non aveva mai realizzato quanto grande potesse essere il nonamore. L'unione di quei corpi glielo fece capire. Rimase ancora qualche
minuto sotto le coperta. Sentiva ancora più forte quel brivido che
l’aveva accompagnata dalla mattina. Andò in bagno e, poi, si rivestì.
Molto più velocemente di quanto avevo fatto la mattina.
"Resta anche questa notte", le chiese il napoletano.
"Non posso", gli rispose Eva, mentendo.
"Non vuoi?"
"Portami a casa. Per favore…"
Lui non insistette, prese le chiavi della macchina e andarono
via. Eva fece ritorno a casa, triste. Sarebbe dovuta essere felice.
Normalmente si è felici quando si fa l’amore con un uomo nuovo. In
realtà, Eva era stata con un uomo con il quale non aveva voglia di stare.
Era anche stanca, psicologicamente stanca. Sentiva la testa pesante,
come un masso sul proprio corpo. Pensò a Isabelle, che ogni giorno
provava puntualmente le sensazioni di quel momento. Avrebbe voluto
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cercare uno squarcio d’azzurro che potesse in qualche modo
consolarla, ma non lo fece.
Non c’erano squarci d’azzurro quel sabato a Bruxelles. Eppure,
quando rivide le luci del suo quartiere, le si infiammò il cuore. Avvertì
un senso di liberazione. Entrò nel suo appartamento, lasciò il suo
cappottino rosa sulla spalliera della sedia e cercò la bottiglia del cognac.
Ne versò due dita nel bicchiere e si distese sul divano.
New York
"Posso infilarmelo, così, fino in fondo, senza avere la
benché minima sensazione di piacere.", disse Marita, "come un gesto
consueto".
"Si può introdurre senza toccarsi, ma lasciando intatta la
propria verginità?" si informò James.
"Sì".
"Senza alcuna esplorazione dei propri genitali?"
"Vedi tu introduci la punta dell'involucro e poi spingi", mostrò
Marita, "come una siringa".
"Una siringa?"
"Come per iniettarti qualcosa".
"E cosa senti?"
"Non senti niente".
"Niente?"
"Come se lasciassi intatta la tua verginità".
"Non mi vorrai far credere che ti consideri vergine per
questo?"
"No, ovviamente".
"Ah, ecco…"
"Mi considero vergine rispetto all’amore che facevo con quegli
uomini".
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"Intanto facevi l’amore con loro".
"No, introducevano il loro involucro e spingevano. Io non
sentivo niente".
"Fisicamente?"
"Ovviamente".
"Perché?"
"Per il resto provavo solo disgusto".
Gli descrisse la sensazione provata la prima volta, subito dopo
avere fatto l’amore. Raccontò la scena.
"Lui si tolse i vestiti e rimase in piedi davanti a me. Si sputò
sulle mani e si toccò per bagnarsi il pene. Fu una cosa disgustosa. Io in
quel momento avrei voluto scappare via, ma ormai era troppo tardi".
"Perché non lo hai fatto?" domandò James.
"Volevo soltanto che mi portasse via da quella casa. Che mi
portasse via dalla morte di quella casa. Che mi facesse scappare. Non
ho mai voluto che mi scopasse".
"Continua a spogliarti da sola. Odio vederti vestita in questa
casa", mi disse in maniera tenera e, allo stesso tempo, arrogante. Non
avrei proprio voluto che mi scopasse. Mi fece sentire deprezzata.
Eppure eseguivo i suoi ordini all’istante".
"Avresti dovuto fermarti".
"Invece, in pochi secondi mi denudai e mi chinai su di lui. Lui
mi prese la testa ed accompagnò i miei movimenti", ripeté Marita, "il
contatto con i suoi genitali è il solo ricordo che mi resta di lui di quella
sera".
Si era sentita una donna altrove.
James ripercorreva nella sua testa l’ultima discussione avuta
con Marita. Il suo periodo di latenza stava per terminare. Gli anfratti
più reconditi della sua psiche gli suggerivano che non sarebbe più
riuscito ad andare avanti senza sapere dove Marita potesse essere.
"Potrebbe essere che un uomo se la stia sbattendo, proprio
mentre io guardo il cellulare…come un coglione".
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Altre mani si sarebbero appoggiate sul suo corpo e lui sarebbe
rimasto a osservare. Le sue esitazioni sarebbero state punite.
"Potrebbe essere, perché no?"
Altre mani si erano già posate sul suo corpo e avevano
allargato le sue gambe tornite.
Volendole quantificare, erano trascorse cento ore dal momento
in cui le aveva inviato il messaggio.
"Perché non telefonarle, allora?"
Non aveva risposto al primo messaggio, non avrebbe
probabilmente risposto a un secondo.
"Se le facessi squillare il telefono, se le dessi un segnale della
mia presenza e della sua assenza?"
James ragionava, calcolando elementi favorevoli e contrari a
una sua precisa presa di posizione.
"La telefonata può essere un'opzione possibile ma non
convincente".
Non riusciva proprio a ragionare con il cuore. Le sue azioni,
anche le più semplici, erano dettate da calcoli e cifre, percentuali e poi
da vantaggi e svantaggi, variabili dipendenti e indipendenti. Si sarebbe
fatto calpestare da un camion ma non avrebbe mai agito d'istinto.
Avrebbe finito per sotterrare qualsiasi impulso e meno che mai si
sarebbe fatto prendere dalla smania di reagire, benché l'assenza di
Marita fosse diventata un tormento.
Esisteva la teoria dei giochi.
"Se provassi con la teoria dei giochi…", pensava.
La sera, dopo avere fatto la prima volta l'amore con Marita,
James era ritornato a casa alle due del mattino. Aveva messo la chiave
nella toppa senza fare rumore ma, aprendo la porta, aveva trovato il
living completamente illuminato.
"Paaapààà", aveva strillato Tom.
James si era sorpreso. Era apparso sulla porta con indosso la
camicia sgualcita, con il bottone in alto aperto e il nodo della cravatta
storto e allentato. Tom si era aggrappato al padre, tenendo una tazza in
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mano da cui stava tragugiando un sorso di latte caldo, con gli occhi
sgranati.
James strinse la valigetta di pelle tra le mani. Tom gliela
avrebbe certamente distrutta se non l'avesse fatta sparire dai suoi occhi.
Lo spiritello con i capelli biondi, il pigiama dei Power Rangers e le
ciabatte di Kermit gli si era attaccato a una gamba.
"Non riesce a dormire", sussurrò la moglie dall'altra parte della
stanza.
"Dovrebbe. Sono le due".
"Provaci tu…a farlo dormire".
Si era ritrovato nuovamente immerso nella sua apparente
normalità. Le gambe tornite di Marita, che avevano accompagnato il
suo rientro a casa, erano scomparse dalla mente.
Il mattino seguente era giunto in ufficio alle otto e
quarantacinque. Quasi un'ora in ritardo, rispetto alle sue abitudini.
Eppure avrebbe avuto mille ragioni per stare seduto alla sua scrivania
presto, molto presto.
"La strategia…la strategia. La teoria dei giochi…la strategia",
ripeteva, mentre tentava di sistemare la sua scrivania.
"Un caffè, per cortesia", chiese a Clara, mentre, in piedi, con le
mani sulla cintura dei pantaloni provava a dare un ordine ai suoi
pensieri.
"Macchiato, come al solito?" gli urlò Clara.
"No, nero, forte, anzi molto forte. Ho bisogno di un caffè
forte, che mi restituisca i pensieri persi nella notte", rispose.
"Come dici?"
"Niente! Un Caffè nero, forte".
Aveva dormito poco quella notte. Si era svegliato alle sei. Suo
figlio aveva avuto male di pancia e aveva pianto nella stanza accanto.
Solo alle sei e mezzo si era riaddormentato ma il suo sonno non era
durato molto. Alle sette era già in piedi.
Non aveva riposato molto, era stanco, eppure si dovevano
prendere delle decisioni. Sarebbe bastato applicare la teoria dei giochi?
80
Clara gli portò il caffè e lui lo bevve, tutto di un sorso.
"Ah, Clara…avverti gli altri. Tra dieci minuti nella sala
riunioni".
"Quelli del gruppo?"
"Che vengano tutti, mi raccomando".
"Patrick sarà qui non prima delle dieci e Samantha ha
telefonato".
"Non mi dire che non può venire".
"Non si sente bene".
"Cosa ha questa volta?
"Ha la febbre".
"Chiama gli altri", ordinò James, nervoso.
"Cosa dico?"
"Cosa vorresti dirli? Che li aspetto".
"Certo, James, tra dieci minuti nella sala riunioni".
Esattamente dieci minuti dopo, James varcò la soglia della sala
riunioni. Erano presenti tutti, tranne ovviamente Patrick, che li avrebbe
raggiunti e Samantha, che aveva telefonato.
Intorno al tavolo erano in otto, quattro senior, tre junior e un
giovane in prova con un contratto da stagista. Oltre a James, i quattro
senior erano Emer Broke, Francis Daily and Anthony Vitale. Dei
quattro, Emer era quella che aveva più esperienza alla Axa
Pharmaceuticals. Dieci anni trascorsi tra Seattle e New York.
"Un caso eccezionale", lo aveva definito James.
Il rapporto del reparto risorse umane sulla gestione ottimale
del personale indicava che i manager Axa duravano mediamente
nell’azienda cinque anni.
"Il ciclo produttivo di un manager cresce fino al quinto anno
di impiego, poi declina inesorabilmente. Fatta eccezione per il primo
anno, che normalmente viene speso per l’apprendimento dei compiti
del nuovo ruolo, esistono solo quattro anni nella fase produttiva in cui
l’apporto del nuovo arrivato è crescente. Trascorsi i cinque anni, il
81
beneficio che un’azienda trae dall’ingresso di un nuovo manager è
praticamente nullo".
Che il consiglio di amministrazione di Axa avesse questo tipo
di impostazione, non era un mistero per nessuno all’interno
dell’azienda. Lo sapevano tutti. Più volte erano stati diffusi, sull’intranet
della società, studi commissionati alle aziende di consulting per elaborare
le migliori strategie possibili di allocazione del personale.
I dieci anni di Emer erano certamente troppi. Quali erano
allora le qualità che le consentivano di sopravvivere all’interno
dell’azienda?
Abile analista di mercato, mostrava una tempra d'acciaio e un fisico da
prostituta del Bronx, abbondante in tutte le sue terminazioni fisiche.
Conosceva il francese e il giapponese. Presi isolatamente, avrebbero
potuto rappresentare atout importanti ma non decisivi. Presi in
combinazione costituivano un ragguardevole vantaggio per la Axa.
Il suo rapporto di notazione annuale spiegava l’anomalia.
"Nei meeting tripartiti con le industrie e l’amministrazione
delle maggiori aree produttrici mondiali, si tratta di un vantaggio
comparativo importante. Emer è capace di comunicare con tutte le
parti coinvolte, senza avere bisogno di alcun ausilio a livello
interpretativo. Può cogliere le sfumature linguistiche che una
traduzione, anche accurata, spesso non consente di cogliere".
"Cosa c’è di nuovo, James", chiese Emer, mentre prendeva
posto al tavolo.
"Il bastardo alza continuamente l'asticella".
"Cosa?"
"Gli obiettivi fissati lo scorso dicembre non gli vanno più
bene. Dice che non riusciamo a reggere il ritmo".
"Erano già abbastanza".
"Mi ha chiamato ieri. Mi ha chiesto di andare da lui. Mi alzo
dalla scrivania e salgo al piano di sopra. Mi mostra una serie di grafici e
mi dice che non ci siamo. I due milioni che noi dovremmo garantirgli
non bastano. Mi ricorda che dobbiamo fare uno sforzo
supplementare".
82
"Glielo hai detto che siamo al limite?"
"Ovviamente no!"
"Perché?"
"Il bastardo ha già pronta una soluzione alternativa. Credi che
non lo sappia?"
"E cosa gli hai detto?"
"Che mi serviva un po' di tempo per correggere la strategia".
"Tutto qui?"
"Cosa avrei dovuto dirgli?"
"La verità".
"E quale sarebbe la tua verità?"
"Che anche due milioni sarebbe stato un obiettivo difficile da
raggiungere".
"E, invece, lo raggiungeremo. Io da qui non ho alcuna
intenzione di muovermi".
"E come?"
"Ho già un'idea".
Smisero di discutere nel momento in cui Anthony fece il suo
ingresso nella sala.
"James, io ho dovuto mollare tutto. Come ti viene in mente di
convocare una riunione all'improvviso?"
"Evidentemente ho bisogno di discutere con tutti voi!"
"E non potevi attendere la riunione settimanale del lunedì?"
"Ti ripeto…evidentemente ho bisogno di discutere con voi…
ora!"
Anthony prese posto vicino ad Emer. Si guardarono come se
avessero qualcosa da dirsi.
"Gli obiettivi dell’azienda sono chiari…", dichiarò James,
aprendo la riunione, "il consiglio è stato chiaro. Dobbiamo aumentare i
profitti se vogliamo sopravvivere. Non sarà facile ma non abbiamo
alternative. Spremetevi, fate uscire anche l'ultima goccia di materia
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cerebrale che avete in testa, ma datemi idee. Voglio idee…questa
mattina voglio idee…solo idee…"
"L'industria farmaceutica si presenta come un oligopolio
piuttosto concentrato, ma non stabilmente collusivo e con una certa
specializzazione internazionale del lavoro".
James intervenne a gamba tesa.
"Anthony, ti prego, non oggi…non ho voglia di ascoltare le tue
cazzate sui mercati oligopolistici e sulle difficoltà di guadagnare fette di
mercato. Ti prego, non oggi…oggi datemi soltanto idee…idee, cazzo!"
Non sarebbe stata una riunione come le altre del lunedì.
"Non ho nessuna intenzione di fare il punto della situazione.
Io devo riposizionarmi. Non ho bisogno delle cazzate di Anthony sui
mercati oligolipolistici. Serve altro, cazzo!"
Eppure le considerazioni di Anthony Vitale erano corrette.
L'industria farmaceutica appartiene a un settore globalizzato, per
esigenze sia di mercato che industriali, che la rende particolarmente
vulnerabile se non riesce a mantenere un buon livello di sviluppo.
"James, non puoi ignorare la realtà. Il problema che dobbiamo
affrontare tutti è legato alla congiuntura. Dopo una certa stabilità
competitiva durata sino ai primi Anni Novanta, con tassi di sviluppo
anche superiori al dieci per cento, il nuovo millennio si é aperto con un
evidente rallentamento".
"Io me ne fotto del rallentamento. Possono rallentare gli altri,
non noi. La Axa si é sviluppata negli Anni Novanta, ma ormai da quasi
quattro anni accusa, più di altre aziende, i segni della crisi".
"Dipende da come si leggono i dati…"
"Puoi leggerli come vuoi, Emer! L'unico dato che mi interessa
è legato agli obiettivi dell'azienda. Mi chiedono di superare i due milioni
di profitto e io li devo superare. Quello che fanno gli altri qui dentro
non mi interessa. Se gli altri vogliono e devono restare sotto la quota…
affari loro!"
Dopo qualche secondo di silenzio, James provò a giustificarsi.
"Scusami Anthony", esclamò con toni meno eccitati, "scusami
per lo sfogo…ma le cause…le cause che hanno provocato l'instabilità
84
del mercato le conosciamo tutti. Siamo consapevoli delle politiche
nazionali di taglio della spesa sanitaria e farmaceutica pubblica. Siamo
anche consapevoli delle nuove famiglie tecnologiche con potenzialità e
minacce non ancora ben definite. Conosciamo tutti i crescenti costi
operativi alla restrizione della regolamentazione pubblica e, sappiamo
che anche le piccole e medie imprese innovative hanno iniziato a
trovare spazio. Ne siamo tutti consapevoli. Per questo, ragazzi, vi
chiedo idee…."
"L'attività di Axa Paharmaceuticals é concentrata sulla scoperta
di nuove molecole e sulla riformulazione delle molecole note", spiegò
Emer, "il secondo versante comporta l'avvio di una politica innovativa
più bilanciata e dinamica".
"Nelle imprese farmaceutiche l'innovazione comporta anche
un elevato rischio dovuto essenzialmente all'incertezza sottesa
all'attività di ricerca e sviluppo. Non possiamo prevedere quale possa
essere l'esito tecnico e l'accettazione commerciale".
"Anthony, il settore farmaceutico è un settore soggetto ad
un'ampia regolamentazione pubblica e a frequente innovazione di
prodotto".
"Possiamo fare dei sacrifici per alimentare il progresso
tecnologico…"
"Ciò implica la necessità della registrazione pubblica per motivi
di protezione brevettuale e di salute pubblica. L'autorizzazione ci offre
tutela sul mercato, ma ci espone a rischi di immagine e ci comporta
ritardi per l'introduzione sui mercati".
"In questi anni, il sistema dell'innovazione del farmaco vive un
momento di particolare criticità, perché si sta consumando il passaggio
dal paradigma scientifico-tecnologico della sintesi chimica a quello delle
biotecnologie. Ci sono profondi mutamenti della scienza e della
tecnologia dai risvolti non ancora evidenti".
La riunione proseguì per oltre un'ora. Più si procedeva e più ci
si rendeva conto che la competizione mondiale e gli scenari in continua
evoluzione imponevano alla Axa Pharmaceuticals nuovi modelli di
comportamento e una strategia più intelligente per migliorare il proprio
posizionamento.
"Per potere reggere le nuove sfide, occorre aumentare le
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entrate. Il consiglio di amministrazione é stato chiaro su questo punto",
ribadì James.
"E tu quali soluzioni intravedi?"
"Ritengo che ci possano essere tre possibili opzioni. Non so se
possano essere ritenute delle soluzioni, ma…"
"Va bene! Opzioni…"
"Si potrebbe migliorare l'offerta attraverso una politica mirata
alla sperimentazione di nuovi principi attivi. Cosa ne pensate?"
L'innovazione rappresentava un importante volàno per la
promozione del benessere sociale e per il successo delle aziende.
"Potrebbe essere un'opzione sebbene l'innovazione nel settore
farmaceutico discenda da alcuni aspetti peculiari come la significativa
correlazione che si riscontra tra investimenti in ricerca e sviluppo e
fatturato", precisò Emer.
"La seconda opzione agirebbe secondo i metodi tradizionali
del commercio delle malattie".
Sono proliferati gli operatori del marketing delle malattie, che
utilizzano la sensibilizzazione ai problemi sanitari come uno strumento
potente per vendere farmaci. Contemporaneamente sono aumentate a
dismisura anche le pubblicità dei farmaci. A ogni ora del giorno
vengono trasmessi spot per diffondere informazioni di malattie vere o
presunte. È il commercio delle malattie, promozione commerciale
camuffata da campagna di informazione sanitaria, spesso finanziata
direttamente dalle industrie farmaceutiche. Si tratta di diffondere ansia
e timori rispetto alla salute e poi di proporre l'acquisto del farmaco
come un risolutore del problema. Tutti hanno interessi, gli specialisti
che possono aumentare i pazienti e, di conseguenza, il reddito, gli
amministratori dei centri di diagnosi o di cura, che reclutano un
maggior numero di assistiti e fatturano un maggior volume di
prestazioni, i produttori di apparecchiature diagnostiche e le Case
farmaceutiche che agiscono come il vero motore dell'intera catena.
Lo scopo é sempre lo stesso. Si deve amplificare l'importanza
di questa o quella malattia per assoldare pazienti, moltiplicare le
prestazioni, potenziare le strutture, sviluppare l'attività. Addirittura,
data la mole degli affari e il livello ormai altissimo di mistificazione, c'é
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chi si chiede se venga prima prodotto il farmaco e poi inventata la
malattia.
Il lavoro sporco consiste nel rendere patologico ogni sintomo
o piccolo problema, per convincere la gente ad usare i farmaci. Le
società farmaceutiche sono ormai diventate esperte nell'organizzazione
di campagne pro-malattie, in cui si assoldano esperti o persone
miracolosamente guarite grazie ai loro farmaci. Qualsiasi sistema va
bene, riviste scientifiche, associazioni, medici, sponsor di vario tipo.
Si crea il bisogno della cura prima di produrre il farmaco.
"Potremmo fare entrare in campo mister Jonhson", propose
Emer "si tratta di uno dei maggiori esperti del settore".
"Con lui saremo certamente più credibili", assicurò Francis.
In realtà per creare il bisogno prima della cura, é opportuno
attivare scienziati di spicco, che durante i congressi possano parlare
della malattia, della diagnosi e della cura.
"Mister Jonhson può fare al caso della Axa Pharmaceuticals",
ribadì James, "dobbiamo essere pronti a tutto".
Lasciò che Emer spiegasse il proprio progetto.
"Si potrebbe iniziare pubblicando un articolo, sotto firme
diverse, per aumentare la notorietà di una nuova molecola e suggerire ai
medici che i suoi vantaggi sono stati davvero confermati. Si potrebbe
successivamente commerciarla sotto nomi diversi per imporla più
rapidamente. Infine, potremmo fare la dovuta pressione".
"In alternativa, potremmo proporre la strategia di nicchia. I
laboratori suggerirebbero il loro medicinale nel sottodominio limitato
di una patologia e in seguito lavorerebbero per allargare questo
segmento di mercato, preparando i medici al depistaggio.
Contemporaneamente potremmo preparare sia la stampa che il grande
pubblico", aggiunse Francis.
James seguiva lo scambio di opinioni tra Emer e Francis con
molta attenzione.
"Penso ad alcune forme di depressione breve o di schizofrenia
precoce", aggiunse.
"Depressione breve o schizofrenia precoce?"
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"Sì, potremmo proporre la strategia di nicchia. I laboratori
propongono il loro medicinale e noi lavoriamo per allargare la nicchia".
"In questo caso, dovremmo utilizzare tutti gli stratagemmi del
sistema pubblicitario, utilizzando le tattiche di comunicazione che si
indirizzano direttamente alle masse", precisò Francis.
In una società in cui si semina paura, insicurezza e complessi
estetici non sarebbe stato difficile convincere la gente che qualcosa non
funzionasse nel proprio organismo e che avesse la necessità di
assumere farmaci.
"Il marketing delle malattie punta a renderci tutti malati e farci
ritenere che la scienza sia capace di risolvere anche gli scompensi
psicologici che lo stesso ambiente ci spinge ad avere. Si ingigantiscono i
problemi, si fanno stime elevate per far credere che facilmente si possa
essere colpiti da una specifica malattia", aggiunse Emer.
La fonte da cui proviene l'informazione viene spacciata sempre
più autorevole e scientifica per rendere l'informazione più persuasiva.
Spesso si tratta di cifre approssimative o completamente inventate.
"In diverse campagne promozionali dei farmaci, gli sponsor
raggiungono i loro obiettivi grazie a programmi televisivi in cui
l'informazione appare come dovuta a motivi di tutela sanitaria.
Vengono utilizzati professionisti di marketing di alto livello, per rendere
le campagne promozionali efficaci, e camuffare un'iniziativa di natura
commerciale in uno spazio dedicato al bene comune".
"Si tratta di dire ai sani che sono malati", esclamò James in un
grassa e prolungata risata.
Risero tutti.
"Nel settore della produzione dei farmaci, soltanto sei
industrie controllano il settanta per cento del mercato mondiale,
compresa la ricerca scientifica", fece notare Emer.
"E la Axa Pharmaceuticals era una di queste e deve tornare a
esserlo", le rispose James con decisione.
I cartelli farmaceutici hanno il potere di creare farmaci e di
metterli in commercio, senza accertarne i rischi per la salute di chi li
assumerà. Gli effetti collaterali sono spesso talmente pesanti da
generare vere e proprie patologie o da compromettere gravemente la
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salute del paziente.
"Per vendere i nuovi farmaci si deve suscitare fiducia", ripeté
Emer, "un mezzo efficace sarebbe quello di utilizzare le riviste più
autorevoli del settore scientifico".
I lettori delle riviste sono indotti a credere che gli articoli siano
obiettivi. Invece, spesso sono sponsorizzati dalla case farmaceutiche
allo scopo di sostenere un nuovo prodotto che presto entrerà sul
mercato.
"Però…", sospirò James.
"Però…"
"Però potrebbe non funzionare".
"Un attimo, James…solo un attimo fa sembravi entusiasta di
questa opzione…ora, invece, ci dici che non potrebbe funzionare".
"Si, James…"
"Le pubblicità possono essere spesso ingannevoli e i profitti
nell'ordine dei milioni sono troppo in bella vista", si giustificò James.
"In effetti, quello che dice James non è campato per aria",
intervenne Anthony.
"I profitti sono sotto gli occhi della critica", aggiunse James,
"sarebbe meglio una soluzione alternativa, un’opzione diversa".
"C’era una terza opzione, giusto?" Chiese Anthony.
"La terza opzione, invece, è quella di combattere le licenze
obbligatorie".
"Anche questa soluzione, come le altre, è legata al problema
dei brevetti", fece notare Emer.
"Infatti. Il problema dei brevetti".
"Lo definisci bene. Si tratta di un problema".
"Sono convinto che uno dei problemi da risolvere sia quello
della protezione brevettuale di una scoperta scientifica. I tempi si
stanno riducendo e sono sempre più corti".
"Non certo per colpa nostra. I tempi si stanno riducendo per
una serie di motivi, come la richiesta di dossier sempre più allargati e
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approfonditi da parte delle organizzazione internazionali, che
richiedono studi clinici lunghi e documentati".
"Esiste, inoltre, anche la necessità di prevedere una sorta di
ombrello brevettuale di copertura sempre più esteso e dettagliato, per
evitare che aziende concorrenti possano, con una minima modifica
d'uso, aggirare la protezione brevettuale e accedere allo sfruttamento
economico e commerciale della scoperta".
"Non mi interessa indagare. Mi importa il dato che emerge. I
tempi si stanno riducendo! Sono sempre più corti e non ci consentono
di recuperare gli investimenti miliardari, necessari per passare
dall'intuizione dei ricercatori alla commercializzazione dei prodotti",
disse James.
"Se decidiamo di basare la nostra strategia sui brevetti, allora
dobbiamo intervenire dal lato della comunicazione".
"Francis cosa ne pensi?" Chiese James.
"Io direi qualcosa del tipo…I frutti di anni di ricerca, di
investimenti industriali considerevoli e ad alto rischio in ogni passaggio
a fasi successive dello sviluppo di una nuova molecola fino alla sua
possibile commercializzazione devono essere sempre più considerati
come il vero senso dell'innovazione e segno differenziale del
patrimonio farmaceutico. Tali frutti si concretizzano in brevetti, primo
e indiscutibile strumento a protezione di una nuova scoperta che
apporta valore all'azienda".
Il marketing delle malattie poneva problemi di fronte
all’opinione pubblica. Sarebbe stato come giocare a carte scoperte. La
teoria dei giochi gli avrebbe consigliato di mostrare le sue carte per
massimizzare gli interessi di tutti gli attori in gioco. Eppure James non
voleva.
"Il risultato che Axa vuole raggiungere non ha nulla a che fare
con l'interesse di tutti. È troppo alta la posta in palio per lasciare che
altri possano partecipare alla spartizione".
Bruxelles
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Sentì squillare il telefono, era Gyorgy, suo marito. La chiamava
sempre, ogni sera.
"Mi manchi, tesoro".
"Anche tu mi manchi", gli rispose Eva.
Era stata quella maledetta idea di Europa a portarla via. Si
erano sposati otto anni prima, in una piccola città dell'Ungheria,
Hortobagy. Alla cerimonia avevano partecipato in pochi, i parenti e
qualche amico. Tra i parenti erano assenti ben sei cugini di primo grado
e oltre una decina di secondo grado. Eva e Gyorgy non vi avevano
fatto molto caso. Avevano scelto Hortobagy perché appartenevano alla
minoranza ungherese della Slovacchia. Nelle loro vene pulsava sangue
magiaro.
Dopo aver parlato con suo marito, Eva uscì con Ivanka. Le
venne una gran voglia di cheesecake, di quelle meravigliose torte
leggere come l'aria e con un profumo delizioso.
"Mi tornano in mente le torte che mia madre preparava ogni
venerdì, quando finiva di lavorare. Tornavo a casa e venivo sopraffatta
da quel profumo. Era irresistibile".
Il profumo riusciva a guidarla fino alla porta di casa.
"Ricordo che, una volta, una signora uscì sulle scale e non
sapeva chi fossi. Era una nuova inquilina. Iniziò ad urlarmi contro".
"Urlarti contro?" domandò Ivanka.
"Vattene via, che ci fai qui? Mi urlò. Mi lasci spiegare, signora,
provai a dirle ma lei mi interruppe, non hai nulla da spiegare,
impertinente".
"Che stronza!" commentò Ivanka.
"Un attimo solo…sii gentile, provai a chiederle, timidamente
ma lei non volle sapere ragione. Continuò a urlarmi contro, neanche un
secondo, devi andare via, via. Allora scappai via impaurita. Raccontai
tutto a mia madre. Lei mi disse di restare calma e di non preoccuparsi.
Ci avrebbe pensato lei a regolare le cose. Disse anche che non
bisognava disturbare quella signora. Era anziana e aveva perduto parte
della sua ragione. Rimasi perplessa a fissare le labbra di mia madre. Lei
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se ne accorse e mi sorrise. Non aggiunse altro, se non che avrei capito
con il tempo".
Lasciò Ivanka e tornò a casa alle dieci. Non riusciva a spiegarsi
come mai avesse avuto il ricordo del cheesecake. Cercò per tutto
l'appartamento una delle ricette di sua madre. Avrebbe voluto
preparare una torta, ma non poteva. Il suo frigorifero era
completamente vuoto. Non avrebbe mai potuto prepararsi da sola
neanche la più semplice delle torte che la madre le faceva trovare il
venerdì sera.
"La voglia non mi passa, anzi, cresce sempre di più".
Pensò anche che sarebbe potuta uscire a comprarne una fetta
subito, senza attendere la mattina, ma non le andava di lasciare il caldo
conforto del suo appartamento. Sarebbe stato molto meglio lasciarsi
andare sul divano. Anche la voglia di cheesecake si sarebbe spenta.
In quel momento squillò nuovamente il telefono. Era il
napoletano.
"Vorrei ringraziarti. È stato meraviglioso, dolcezza", le disse.
"Anche per me", mentì Eva.
Era tutto così assurdo. Avrebbe avuto tanti motivi per volersi
bene, tante ragioni per sentirsi orgogliosa eppure decideva
deliberatamente di ignorarle.
In quel momento non aveva risposte.
Non le stava neanche cercando.
"Credo che tutti si siano odiati nella propria vita", sussurrò a
voce bassa.
In quel preciso istante, odiò se stessa e non c'era nessuno con
lei che fosse in grado di aiutarla. Si abbandonò sul divano. Mise da
parte la voglia di cheesecake, mentre i pensieri più disparati
continuavano ad affastellarsi nella propria mente. Pensò alla sua terra,
al giardino, alle torte della mamma. Non in questo ordine, ma ci pensò.
Un processo emotivo, fatto di ricordi, che andavano dal particolare al
generale. Iniziavano nella sua vecchia casa fino ad arrivare alla
Slovacchia, entrata in Europa nel 2004.
In realtà, la Slovacchia in Europa c'é sempre stata ma a
Bruxelles conta la geopolitica. Quasi che si volesse mettere da una
parte i buoni e, dall'altra, i cattivi. Quelli dentro l'enorme scatolone
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dell'Unione europea devono essere considerati buoni; gli altri, i cattivi.
Ad Occidente c'erano i buoni, la democrazia, le libertà individuali, la
ricchezza, l'economia di mercato, la concorrenza e perfino la capacità
degli individui di poter consumare qualsiasi bene. Dall'altra parte, i
cattivi, e con essi la collettivizzazione, il totalitarismo, l'assenza delle
libertà individuali.
La Slovacchia era finalmente tra i buoni.
"Un'occasione da non perdere", aveva pensato Eva, di fronte
al nuovo corso storico.
Era il desiderio di andare oltre il limitato orizzonte della sua
terra. Sognava l'Occidente e il benessere, ricordando le notti serene
trascorse insieme a Ludmilla a parlare del futuro.
"Come saranno i nostri trenta anni?"
Guardavano le stelle sopra il cielo della Slovacchia e, quando
cadevano, esprimevano desideri.
L'Europa, quella politica, non quella geografica, era una
prospettiva intrigante e finalmente ce l'aveva a portata di mano. Non le
interessava partecipare al grande disegno di costruire l'Europa dei
popoli europei. Non era giunta a Bruxelles per principio, né per soldi.
Aveva voglia di conoscere.
Non avrebbe più avuto lo stress di correre dappertutto per
mettere insieme un salario decente, ma la tranquillità di poter aspettare
la fine del mese, sapendo di riceverne sempre e, comunque, uno.
Bruxelles le dava le certezze che in Slovacchia non aveva e non avrebbe
potuto avere. Un salario sicuro, un lavoro reputato onorevole e qualche
vantaggio sociale.
A Bratislava si era occupata di consulenza. Aveva costituito
una piccola società e offriva servizi alle imprese che investivano in
Slovacchia. Agevolava l'ingresso e lo sviluppo del business delle aziende
straniere sul mercato slovacco. Le supportava nella ricerca di fornitori,
contatti e finanziamenti.
Tuttavia, l’Europa unita o presunta tale, che l'aveva accolta era
già diventata triste, egoista, disillusa. Solo i governanti non lo avevano
capito. Eva a Bruxelles scoprì che l'Europa era un limone già spremuto.
"Dopo il dominio sovietico, ci stiamo rifugiando in un altro
93
imbuto. Questa volta, non ci sono carri armati a spingerci. Tutto
avviene deliberatamente, nella totale consapevolezza degli
avvenimenti".
Aveva trovato un'Europa divisa e lacerata. Sempre più aspro
era il confronto tra la visione di un'Europa intergovernativa fondata su
una zona di libero scambio e quella di un'Europa comunitaria frutto di
una vera integrazione politica. Era un'Europa che aveva già dato il
meglio di sé.
"Siamo arrivati tardi!"
Mumbai
Era trascorso esattamente un mese dal giorno in cui Ekta
aveva lasciato la casa del cognato. Giorni che non erano serviti per farla
abituare alla sua nuova realtà. Quel quartieraccio, ammasso di case e
capanne, continuava a non piacergli.
"Manca tutto. Non c’é l’acqua e l’elettricità va e viene. L’acqua
bisogna andare a prenderla ogni giorno con dei grandi secchi".
Avanish se ne incaricava, ma non lo faceva con piacere.
"Perché sempre io?"
"Perché sei il più grande e questi sono compiti per chi
comanda la famiglia".
"Nessuno mi sta mai a sentire", si lamentò Avanish.
Ci andava alle sette di mattina. A volte doveva ritornarci alle
dieci, perché alle sette non sempre l’acqua scorreva. Altre volte
mancava del tutto.
"Devi avere pazienza", gli disse Ekta, "l’anima si può nutrire
ogni giorno anche senza bere".
I giorni in cui l’acqua non c’era, Ekta meditava. In realtà, lo
faceva sempre ma meditava più a lungo nei giorni in cui mancava
l’acqua. Restava assorta in un angolo, dritta sulle ginocchia, gli occhi
socchiusi. Avanish la guardava e tentava di imitarla. Ci riusciva per
alcuni minuti, poi si distraeva e apriva gli occhi. La madre lo guardava e
gli sorrideva.
94
"Occhi chiusi, occhi chiusi", gli sussurrava.
Dopo essere stata costretta ad abbondare la casa del cognato,
Ekta iniziò a cercare un lavoro. Non era facile andare avanti nel
marasma di gente, macchine, smog e confusione che la circondava.
Sapeva insegnare e provò a farlo ma era come se avessero paura di lei.
"In questo maledetto quartiere non lavora nessuno".
La maggior parte della gente viveva nelle baracche, altri
addirittura abitavano per strada. E per strada era anche il loro lavoro.
Il cognato, prima di invitarli a lasciare la sua casa, li aveva
riforniti di riso e rupie. Il riso era quasi finito e le rupie non sarebbero
durate a lungo. Se Ekta non si fosse data da fare, sarebbe stata dura
sopravvivere. Avanish andava per strada e per strada ci andavano anche
i suoi due fratelli più giovani. Rientravano sempre alla sera.
La sera del 2 marzo, alle undici, non erano ancora rientrati.
Ekta iniziò a preoccuparsi.
"Deve essere successo qualcosa. Non può essere…non può
essere…"
Uscì per strada. Chiese ad Arjanata se avesse visto i suoi tre
figli.
"Questa mattina li ho visti", rispose Arjanata.
"Dove li hai visti?"
"Vicino la fontana"
"La fontana?"
"Però non c’era l’acqua".
Ekta sospirò.
"Ho aspettato insieme a loro ma l’acqua non è arrivata",
aggiunse Arjanata.
"E i secchi? Dove hanno messo i secchi?"
"I secchi li aveva Avanish".
"Saranno andati all’altra fontana", suggerì Arjanata.
"Saranno dieci chilometri. È lontana".
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"Avanish ha il passo svelto. Non sono tanti dieci chilometri per
lui".
Ekta sperò che Avanish fosse davvero andato alla fontana che
si trovava a dieci chilometri di distanza e avesse trascinato con sé anche
i suoi due fratelli. Salutò Arjanata e si incamminò verso la fontana.
Attraversò marciapiedi pieni di uomini e di donne distese per terra.
Alcuni dormivano, altri non si sapeva se dormissero o fossero morti.
Incrociò un uomo con un secchio che gettava acqua su quegli uomini
riversi per terra.
"Perché getti l’acqua su di loro" si informò Ekta.
"Per sapere chi di loro sia vivo e chi, invece, morto".
Ekta rabbrividì.
A volte, a Mumbai, la gente muore anche senza che gli altri se
ne accorgano. Smettono di respirare ma non sempre nel caldo umido di
Mumbai chi sta accanto a un uomo che smette di respirare percepisce
l’assenza della vita. Occorre fare attenzione e non sempre c’è il tempo e
il modo di riporre attenzione. Esiste allora il sistema dell’acqua.
"Dove hai preso l’acqua?" chiese Ekta all’uomo.
"L’ho presa alla fontana".
"Quale fontana?"
"Quella lontana".
Si trattava della fontana distante dieci chilometri.
Ekta continuò sul suo cammino. Lungo il percorso si
concentrò sulla vita per scacciare le paure. Finalmente giunse alla
fontana che distava dieci chilometri ma i suoi tre figli non c’erano.
"Io non li ho visti", sospirò Ekta.
Non li aveva incontrati lungo il cammino. In verità sarebbe
stato difficile riconoscerli perché le zone di penombra erano tante. La
luce illuminava il cammino solo a tratti. Se i suoi tre figli si fossero
trovati nelle zone di penombra, probabilmente non li avrebbe visti.
Forse avrebbe potuto anche riconoscerli ma sarebbe stato davvero un
colpo di fortuna. Rimase sconsolata. Un fremito di disperazione la
colse all’improvviso. Pensò al marito morto.
96
"Quando lui era vivo, non é mai successo che non fossero
rincasati a casa".
Quando vivevano nella casa del cognato c’era ordine.
"Devo scacciare i cattivi pensieri".
Riprese a meditare ma era difficile ritrovare la concentrazione
per strada. Il buio l’aiutava. Ripercorse a ritroso il cammino che aveva
appena fatto. Incrociò di nuovo l’uomo con il secchio di acqua.
"Ci sono dei bambini tra i morti di questa sera?"
"Non mi sembra", gli rispose l’uomo con il secchio di acqua.
"Non c’erano bambini?" domandò di nuovo Ekta.
"No, non mi sembra", rispose di nuovo l’uomo.
Ekta avvertì una strana emozione. Riprese forza e vigore.
Accelerò il passo per tornare verso casa. Era stanca ma una strana
forza la sospingeva. Avrebbe voluto fermarsi.
"Ho sete!" esclamò.
Ma non c’era nessuno che potesse darle dell’acqua. Non
restava altro che camminare, se possibile più velocemente. Dopo circa
due ore e mezzo di cammino, Ekta si ritrovò a casa.
"Sono stanca, molto stanca".
Prese dell’acqua dalle scorte che aveva nel ripostiglio. Bevve
dapprima con foga, poi con calma. Si sedette in un angolo. Sentì il
rumore del motore di una vecchia macchina avvicinarsi. Una luce fioca
entrò dalla finestra. Illuminò per un attimo la stanza. Ekta si emozionò.
Vide i suoi tre figli che dormivano.
New York
Rientrando a casa, James vide i suoi due figli dormire. Si
avvicinò a Tom e lo strinse a sé.
"Ancora qualche minuto", gli urlò la moglie dalla cucina.
James udì ma non rispose. Lasciò scivolare il piccolo Tom nel
97
letto e raggiunse il living. Si sedette sul divano, in attesa della cena.
Afferrò la prima rivista capitatagli tra le mani e iniziò a sfogliarla. Si
soffermò sull'articolo di Kenneth Wintherspoure.
L’antica Dion era per i Macedoni città sacra, il suo nome deriva da Dios
genitivo di Zeus. Era situata ai piedi del monte Olimpo, il monte degli Dei. Si
calcola che nel suo periodo fiorente, contasse 15.000 abitanti. Il re Archelao (413
– 399 a.C.) vi fece costruire, tra l’altro, un tempio a Zeus, un teatro e uno stadio,
organizzandovi dei giochi che facessero concorrenza a Olimpia. Alessandro Magno
offrì sacrifici agli dei a Dion prima di iniziare la sua spedizione in Persia.
Penso che il momento giusto per approdare a Dion fosse già
passato da qualche secolo.
"Bisognava essere a Dion quando Euripide figlio vi allestì la
prima delle Baccanti", sussurrò.
Le Baccanti che Euripide padre, chiamato dal nonno di
Alessandro, Archelao, aveva scritto poco prima di morire nel 406.
"Sarebbe stato interessante andare a Dion per vedere
l'invincibile armata".
Nella primavera del 334 Avanti Cristo, il generalissimo
Alessandro, ventenne, radunò su questa spianata, vicino all’altare di
Zeus benedicente, i trentacinquemila mila dell’invincibile armata che gli
avrebbe regalato prima la Persia e poi il mondo.
"Sarebbe stato interessante capitare a Dion almeno per
assistere ai riti religiosi. Allora bisognava andare a Dion. Ora sarebbe
stato troppo tardi".
Aspettava di cenare, leggeva di Dion e avvertiva la sensazione
del ritardo.
Sebbene non fosse stato facile organizzarlo, il sospirato
incontro con Marita era avvenuto il giorno precedente, primo marzo.
"Forse anche Marita è arrivata troppo tardi".
Dion e Marita, entrambe capitate al momento sbagliato.
L'associazione di idee, lo rimandò indietro nel tempo. Ripensò alla
storia con la sua puttana.
Dopo averle inviato il messaggio, nonostante avesse atteso
cinque giorni, non aveva ricevuto alcuna risposta.
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"Basta! La chiamo", aveva deciso.
Aveva ragionato con il cuore o aveva semplicemente applicato
la teoria dei giochi?
"Sono stanca della tua gelosia retroattiva", le aveva detto
Marita al telefono, "non ne posso più delle tue manie. Sei uno
psicopatico, mi ripeti sempre le stesse cose da mesi".
"Non è colpa mia se sei stata con altri uomini. Non avresti
dovuto".
"È successo, maledizione! Non posso cambiare il mio passato.
Lo farei volentieri, ma non posso tornare indietro".
"Avresti dovuto pensarci prima di farlo".
A quel punto, Marita aveva riattaccato. Prima, però, gli aveva
urlato, "Voglio chiudere con te! So di essere emotivamente legata ma
non mi meriti! Non mi meriti!"
Dopo aver fatto l’amore la prima volta, si erano amati altre
volte. Lo avevano fatto sempre con passione, tranne l'ultima volta,
quando lui l'aveva fatta sentire una donna altrove.
Ripensò al giorno in cui avvertì le prime sensazioni di gelosia
retroattiva, quattro mesi dopo averla amata per la prima volta. Avvenne
improvvisamente, mentre stavano cenando a casa di lei. Riavvolse il
nastro fino all'attimo in cui, quella sera, uscì dall'ufficio. Aveva
comprato il cibo dal ristorante Hong Kong, che si trovava di fronte alla
porta di entrata dell'Axa. Ricordava perfino cosa avesse comprato,
nouddles saltate con i gamberetti, ravioli ripieni e insalata.
"Avevo perfino chiesto una bottiglia di salsa di soja grande".
L'azione era stata pressante, veloce, come se scivolasse su di
una sorta di circuito preferenziale. Dopo Honk Kong, si era infilato in
un taxi e si era precipitato da Marita.
"Sarei dovuto tornare a casa alle dieci".
Ricordava di non avere avuto molto tempo.
"Dissi al tassista di fare in fretta e di evitare di prendere la
Lincoln. Da quelle parti ci sarebbe stato troppo traffico. Il tassista, un
portoricano arrivato a New York da oltre dieci anni, mi fece cenno che
avrebbe fatto come desideravo".
99
Giunti a casa di Marita, cenarono.
"Mangiai di gusto il cibo cinese che avevo comprato".
Erano ancora seduti a tavola, quando James fu preso dalla
curiosità.
"Chiesi a Marita quante volte avesse fatto l’amore dopo avere
mangiato del cibo cinese".
"È capitato più volte", gli rispose Marita.
"Sempre con lo stesso uomo o con uomini diversi?"
"Con diversi uomini", precisò Marita.
Poi si alzò verso James per dargli un bacio, e aggiunse, "Solo
due uomini ho baciato dopo aver mangiato il cibo cinese. Tu sei il
terzo. Quello che conta di più per me".
Per la prima volta aveva provato a baciarlo.
"Il bacio rappresenta un sentimento speciale che potrei
concedere solo all'uomo di cui si sono davvero innamorata".
James non volle, benché avesse atteso da sempre quel
momento. Spostò il capo ed evitò che le sue labbra potessero
incontrare le sue.
"Le mie sensazioni nei suoi confronti si erano
improvvisamente modificate. Ebbi la strana sensazione di essere stato
tradito da lei ma non dissi nulla".
Provò a fornire una spiegazione fasulla.
"Dissi che aveva l’alito cattivo".
Marita non capì quel comportamento e si distese sul divano.
Attese che James la prendesse tra le sue braccia per condurla in camera
da letto, come era solito fare. Lui, invece, rimase in silenzio. Non si
sollevò dalla sedia e non prese Marita tra le braccia.
"Anzi, decisi di andare via".
Uscendo, esitò prima di prendere un taxi.
"Avvertii una strana sensazione nell'anima".
Il suo subconscio emergeva, benché lui tentasse inutilmente di
100
scacciarlo. Ebbe la sensazione del tradimento. La puttana non meritava
la sua attenzione.
"Marita era il tempio dorato che altri avevano profanato".
Quanti altri? Non lo chiese. Come sua abitudine non porse
domande. Eppure avrebbe voluto sapere quanti uomini l’avessero
toccata, leccata, penetrata, prima di lui.
"Una strana curiosità stava pervadendo la sua anima".
Erano interrogativi che si stavano incuneandosi
morbosamente nella sua mente. Avrebbe finito per corroderla.
"Eppure, sembrava funzionare meravigliosamente".
James aveva avuto le gambe tornite di Marita. Come nella
tradizione mongola, si era scelto una donna dalla gambe solide.
Bruxelles
"Dai, un'altra birra, poi andiamo via".
Enzo gli fece un cenno di assenso con la testa. Non avrebbe
mai rifiutato una birra, benché non avesse più sete.
Oltre alla passione per Klimt, Jan ed Enzo sapevano di avere
in comune anche il gusto per la birra. Lo avevano scoperto il giorno
stesso in cui si erano incontrati per la prima volta. Era stato Jan a
smuovere le acque. Se fosse dipeso da Enzo, l'incontro sarebbe stato
rinviato all'infinito. Gli aveva detto di non sentirsi pronto.
"A volte sento di essere al di fuori di me stesso come se il mio
corpo appartenesse a un altro", aveva confessato Enzo.
"È normale, apparteniamo a corpi che non ci appartengono",
gli aveva risposto Jan.
Avevano continuato a discutere per tutta la notte. Botte e
risposte, a volte immediate, a volte trascinate, altre volte partorite dopo
profonde riflessioni.
"Non parlo della mia sessualità".
"Di cosa, allora?"
101
"Della mia dimensione".
"A volte sento di sfuggire".
"Alla tua dimensione?"
"Sì. A te non capita?"
"No. Sento di appartenere a un corpo non mio, ma credo di
avere una dimensione ben definita".
"Io no. Ci soffro per questo".
"Fisicamente o psicologicamente?"
"Fisicamente, anche se non so se, in realtà, sia un fatto fisico o
psicologico".
"Cosa vuoi dire?"
"Ci soffro fisicamente. Ho male alla testa, a volte mi sembra di
soffocare, come se avessi un peso sullo stomaco".
"Un dolore fisico?"
"Sì, fisico ma non so se sia realmente fisico. Capisci cosa
voglio dire?"
"Ti stai avvitando in un linguaggio che non comprendo".
"Voglio dire che l'effetto è certamente fisico, ma la natura
credo sia psicologica".
"Hai provato con uno strizzacervelli?"
"No, non mi fido".
"Dovresti provare".
"Tu lo hai fatto?"
"Sì".
"Ma sei hai appena detto di essere a posto con la tua
dimensione".
"Lo sono ora, ma non è stato facile per me. Ringrazio Dio di
avermi fatto gay".
"Ecco, l'hai detto…"
"Si, l'ho detto! Solo pochi anni fa non avrei mai pensato e,
102
soprattutto, non avrei mai avuto il coraggio di scriverlo. Anzi, avevo
provato a scriverlo…"
"Chi avevi incontrato quella volta?"
"No, non avevo incontrato nessuno. Provai a scriverlo a un
politico di sinistra. Lui parlava della scelta di essere gay".
"La scelta?"
"La scelta di essere omosessuali. Io gli scrissi che se avessi
potuto scegliere, avrei voluto essere eterosessuale. La mia vita sarebbe
stata molto più facile. Non avrei dovuto nascondermi, non avrei
dovuto affrontare lunghi anni di paure, insomma avrei fatto una vita da
dio".
"Non dire questo…mi fai stare male…", invocò Enzo.
"Dai…Enzo… chi, sano di mente, sceglierebbe mai una strada
molto, molto più difficile nel cammino e molto, molto più incerta nei
risultati? Chi, sano di mente, farebbe questa scelta?"
"Un masochista", rispose Enzo.
"Lo hai detto, un masochista!"
Entrambi sorrisero, benché nessuno dei due potesse vedere il
sorriso dell'altro.
"Jan, confessalo, chi sano di mente sceglierebbe mai una strada
molto più difficile? La risposta te la suggerisco io, un pazzo! Io non ho
scelto di essere gay, è stata la natura che mi ha voluto così, ha scelto la
mia combinazione di cromosomi. Una scelta divina? Il caso? Non lo so.
Quello che ora so è che non vorrei essere eterosessuale".
"Se potessi scegliere ora?"
"Rimarrei così come sono".
"Capisco l'orgoglio di Pride, l'orgoglio di essere ciò che si é. Mi
sono sempre chiesto, ma orgoglio di che? Se questa è la mia natura, di
cosa dovrei essere orgoglioso? Non ho mai visto che uno sia
orgoglioso di essere alto, biondo, bello, moro, grasso, magro…non ho
mai sentito nessuno esprimere questo tipo di orgoglio. Si è nati in una
certa maniera, non è il caso di farsene un vanto".
"Invece, è quando capisci e accetti la tua natura e riesci a
103
viverla in piena libertà, allora sì che puoi essere orgoglioso. Cristo ci
dice che la verità ci farà liberi e, vivendo nella verità, io mi sento libero
perché sono libero. E lasciami dire una cosa…"
"Cosa?"
"Sono orgoglioso alla faccia di quanti ci vorrebbero peccatori
in privato e, fino al confessionale, pretendono che ci mettessimo in
pubblico una maschera per non mostrare chi noi siamo veramente".
"Io posso dire solo che se non fossi stato gay, a parte la
tragedia che non saremmo stati qui a parlare, non sarei stato pronto ad
accettare le differenze, a valorizzarle, a condividerle".
"La mia spiritualità viene esaltata dal mio essere omosessuale,
perché vivere il Vangelo, un messaggio di piena accettazione dell'amore
di Dio, è la consapevolezza di vivere un miracolo".
"Dimentichi la condanna all'omosessualità…"
"Io dico solo…per l'amore che ho conosciuto e per quello
cercherò di condividere nella mia vita. Grazie Dio per avermi fatto
così".
Tentare di procrastinare l'incontro non avrebbe avuto più
senso di fronte alle confessioni. Il problema era Enzo. Temeva di non
piacere. Non era mai stato a suo agio con il suo corpo. Perlomeno in
quella che era divenuta la sua esistenza potenziale. Sapeva di poter
piacere alle donne ma non era certo di poter piacere agli uomini. Il
volto delicato, il filo di barba, le mani curate erano state apprezzate ma
la delicatezza del suo corpo non lo rassicurava. Aveva le spalle esili, le
giacche gli cadevano senza fasciarlo. Per questo voleva aspettare. Jan,
invece, era alto, robusto ma soprattutto era consapevole del suo essere.
Era questa la differenza più marcata. Se anche Enzo fosse stato
consapevole, sarebbe stato certamente più facile, perfino più logico.
Il primo incontro non fu affatto facile, né logico, come Jan
avrebbe immaginato. La conversazione, tanto fluida nel mondo
virtuale, incespicava in quello reale e si perdeva in lunghi silenzi.
"Sai, Klimt…"
"Già Klimt…"
"Come mai, Klimt?"
104
"Le donne, il trucco…"
"Già, le donne, il trucco…"
Sarebbe stato possibile immaginare una conversazione più
banale di quella? Jan provò a renderla logica, coerente ma alla fine
dovette rassegnarsi.
"Il supermercato…sai, la spesa…alle otto chiudono", si scusò
Enzo.
Si erano incontrati poco dopo le sei. Quaranta minuti dopo si
erano già lasciati.
"Non è andata come avrei potuto immaginare", pensò Jan.
La seconda volta, invece, andò meglio. Ritornarono a parlare di
Klimt e lo fecero con naturalezza.
"Klimt associa l'idea dell'arte e del bello a quello della
decadenza, del dissolvimento del tutto e del precario sopravvivere della
forma alla fine della sostanza".
"Il suo pensiero va all'arte bizantina con l'utilizzo del colore
oro per gli sfondi e le decorazioni delle sue tele".
"Ma proprio questo utilizzo dell'oro rimanda l'opera
all'astrazione, mentre la scelta di elementi figurativi la lega a una
percezione naturalistica".
"Nelle sue opere viene centralizzato ciò che prima era oggetto
di un'attenzione laterale, la decorazione".
"Ecco, bravo! La decorazione, appunto! Nei dipinti di Klimt,
fisso e centrale resta il volto umano, disegnato e dipinto in modo
deciso e preciso, mentre il corpo si sfalda nei contorni e si amalgama
con lo sfondo".
Conclusero nella maniera più spontanea possibile.
"Klimt è il pittore per eccellenza dell'erotismo".
Enzo si rese conto che sarebbe stato sufficiente parlare con
naturalezza per sentirsi a proprio agio.
"Il mio problema é…"
"Ecco, bravo! Finalmente…"
105
"Finalmente?"
"Finalmente, ti sento intimo, come su Facebook…"
"Il mio problema é che per la prima volta incontro un uomo".
"E per questo hai paura?"
"Non lo so. Probabilmente non é neanche questo che mi
impedisce di essere naturale"
"Allora, quale?"
"Forse la mia natura?"
"Ma di cosa stai parlando?"
"Della mia fede, Jan…della fede…"
Enzo era cattolico per nascita e per estrazione. Era anche
praticante. La domenica andava a messa. A volte ci andava di mattina,
alle dieci, alla chiesa di San Nicola, altre volte di sera, alla chiesa della
Madeleine. Jan, invece, era protestante, consapevole della sua esistenza
reale e potenziale.
"Sin da bambino, ho sempre preferito la compagnia maschile a
quella femminile. Non che le detestassi, semplicemente non mi
emozionava. Nei miei sogni c'erano solo i ragazzi come me, anzi, più
grandi di me".
"E le ragazze?"
"Solo ragazzi. Anzi, uomini più che ragazzi".
"Io ho avuto la mia prima cotta a quattordici anni. Sono stato
con una ragazza e non è stato importante. Poi, a sedici anni, ho
conosciuto Alessandra", confidò Enzo.
"Ed è stato con lei che hai fatto l'amore?"
"Come fai a saperlo?"
"Me ne hai già parlato".
"Dopo tre mesi, facemmo l'amore. È stato il mio primo e
unico rapporto eterosessuale".
"Ti disgustò?"
"Non mi fece schifo ma non mi entusiasmò".
106
"Dopo cosa hai fatto?"
"Lasciai perdere Alessandra e lasciai perdere anche la scuola,
benché continuassi a studiare. Sentivo di non essere a mio agio. Mi
tuffai nello studio e per tre anni, non feci altro che studiare. Mi resi
conto di non essere più adatto per il piccolo mondo che il mio piccolo
borgo lucano poteva rappresentare".
"La fine di un'epoca!"
"Diciamo che non pensai più ad Alessandra e non pensai
neanche alle donne. Non pensai e basta!"
" E quando hai ripreso a pensare?"
"Forse a Bruxelles".
"Che strano!"
"Sono qui per caso. Odio il freddo e odio il cielo grigio. Mi
sento mediterraneo, fin dentro il midollo. Eppure, è proprio qui che ho
ripreso a pensare".
Jan gli era subito apparso come l'unica nota di colore ma fino
alle sette e dieci di quella sera del 3 marzo non era stato convinto di
volere colorare la sua vita. Fino ad allora, aveva trovato logico solo il
cielo di Bruxelles per quanto odiasse il grigio.
"Non posso continuare solo ad odiare. Per questo ho deciso di
incontrarti. Non mi sentivo pronto ma allo stesso tempo sentivo di non
poter continuare solo ad odiare".
La sera del 3 marzo al Wild Geese di fronte all'ennesima birra,
Enzo si sentì finalmente a suo agio. Avvertì una strana sensazione di
coerenza. Bevve la birra e sorrise a Jan.
Ginevra
"Ho provato a telefonare a Madan ma non sono riuscito a
mettermi in contatto con lui".
Il numero di telefono, che Madan gli aveva scritto su uno
straccio di carta, quando si erano incontrati a Mumbai, era fuori
servizio.
107
"Ho provato e riprovato ma non ha mai risposto nessuno".
Mentre si trovava a casa, seduto al tavolo della sua piccola
cucina, pensò di nuovo all’India e a quell’esperienza tanto particolare.
Lo fece per alcuni minuti. Ricordò il giorno in cui avevano iniziato a
discutere con Madan di scimitarre e avevano finito con il riflettere sul
processo di globalizzazione.
Alle cinque di pomeriggio di quel 2 marzo, aveva appreso che
la carne americana, trattata con ormoni artificiali, era pericolosa per la
salute dei cittadini e l’Europa aveva deciso di non importarla. La
precauzione era costata molto cara. Trecento miliardi di sanzioni
americane contro l'Europa, che l'Organizzazione Mondiale per il
Commercio aveva deciso come ritorsione, nel nome delle regole della
globalizzazione.
"L'OMC é il grande motore della globalizzazione e, allo stesso
tempo, é estremamente impopolare".
Antoine non aveva impiegato molto tempo per rendersene
conto. A Ginevra gli dicevano di farsene una ragione. Si trattava del
destino comune a molte altre organizzazioni internazionali.
"Le istituzioni europee sono impopolari, il fondo monetario é
impopolare e anche la Banca Mondiale è impopolare. La gente si sente
lontano dai grandi palazzi di Ginevra e Bruxelles. Le persone comuni
non capiscono chi sia e cosa realmente faccia l'esercito di funzionari,
vestiti di grigio, che animano i grandi palazzi".
I pensieri di Antoine si contorcevano in maniera bizzarra. Si
andava dalla globalizzazione a Madan, passando dalla Svizzera all’India.
"Come posso rintracciare Madan?"
L'omino indiano, che trattava di scimitarre e di fiori, gli era
rimasto nel cuore. Durante il suo soggiorno a Mumbai, si erano
incontrati tutti i giorni, verso le cinque del pomeriggio per bere il thè e
per parlare.
"Ci ritroveremo in Francia", si erano ripromessi ma, fino ad
allora, non era mai capitato.
Se non dovesse rispondere neanche questa volta, sarà
impossibile rintracciarlo, pensò Antoine alle otto di quella sera.
108
Dopo cinque minuti esatti, si rese conto che esisteva un'altra
possibilità.
"E se gli scrivessi una lettera?"
Non scriveva una lettera da tempo immemorabile e, a pensarci
bene, forse, una lettera vera non l'aveva mai scritta. Andò a cercare
l'indirizzo di Madan, segnato su un biglietto da visita, che aveva riposto
in un anfratto della sua scrivania. Ritornò in cucina e, tra un pezzo di
tonno e un pomodoro aperto in due, iniziò a scrivergli. Impiegò due
giorni per terminare la lettera. Ebbe difficoltà a trovare le parole giuste.
Quindi, gli scrisse le parole più banali che avrebbe potuto immaginare.
"Vorrei tornare in India per rivedere le tue scimitarre".
Inizialmente pensò che lui utilizzasse le scimitarre come
pretesto per attrarre potenziali clienti.
"Io stesso sono entrato nel tuo negozio per via delle
scimitarre", gli confessò Antoine.
Pomeriggio dopo pomeriggio, sorseggiando il thè e discutendo
di globalizzazione aveva preso coscienza del rapporto esistente tra
Madan e le sue scimitarre. Le curava con scrupolo e, con meticolosità
certosina, le spolverava e le lucidava.
"In India, il significato della scimitarra é molto più profondo
rispetto a quello che puoi immaginare. Non é solo un'arma, ma un
segno del destino. Ha un potere liberatorio, che nessun'altra arma, da
nessun'altra parte del mondo, potrebbe mai avere", gli aveva detto
Madan
Antoine lo aveva ascoltato, felice di poter discorrere di
un’arma, divenuta ormai ornamentale, capace di suscitare fantasie da
Mille e una Notte.
"Ē stata usata dai persiani, poi da musulmani, quando nel XV
secolo attaccarono Otranto ma, in realtà, la scimitarra è stata un'arma
tipica dell'Impero ottomano. Grazie ad essa sono state condotte e vinte
molte battaglie".
Nei primi confronti con le armi da fuoco, nel XVI secolo, la
scimitarra perse il suo predominio e iniziò un lungo declino.
L'artiglieria pesante le diede il colpo di grazia.
109
"Le tengo in negozio proprio per le fantasie che possono
suscitare", spiegò Madan.
"Aiutano a liberare la mente".
"Infatti! Solo una mente libera può essere capace di condurre
alla conoscenza di sé, a una ricerca del sacro, presente in ogni
individualità".
"Probabilmente anche tu ne sei stato attratto per la voglia di
liberare la mente, benché ancora non fossi a conoscenza del loro potere
liberatorio".
"Da alcuni anni ero alla ricerca del sacro e non pensavo di
trovarlo nelle scimitarre".
La lettera di Antoine non venne mai letta. Non venne neanche
mai ritirata.
Smise di pensare a Madan. Incrociò nel corridoio Ana. Le
sorrise. Lei lo guardo con intensità. Non si dissero nulla.
New York
Chissà per quale strano motivo, ma lo stesso giorno in cui
Antoine decideva di scrivere a Madan, intorno alle due del pomeriggio,
a James venne in mente di scrivere a Marita. Non si vedevano da tanto
e James aveva anche perso l'abitudine di pensare alla sua puttana. Lo
aveva fatto quasi regolarmente per oltre sei mesi. Poi, sempre più di
rado.
L'ultima volta che si erano incontrati, avevano parlato a lungo
senza riuscire a spiegarsi.
"Non ho mai avuto la sensazione di aver avuto la tua
comprensione", gli disse Marita.
Avevano parlato del lungo silenzio che era intercorso tra i due
e delle ragioni che avevano spinto Marita a non rispondere ai suoi
messaggi.
"Non so se lo fai per ignoranza o ne sei cosciente, ma il mio
problema con te è nel tuo distacco".
110
Marita non riusciva a sentirsi amata e, purtroppo per James, da
lui, non pretendeva che l'amore.
"So che appartieni a un’altra donna ma io non desidero
l’appartenenza. Mi basta che tu mi dica che mi ami", gli chiese.
James, invece, scelse di non pronunciare le parole che Marita
avrebbe voluto ascoltare. Anzi, non solo non le pronunciò ma gli disse
anche di dimenticare la possibilità di poterle ascoltare dalla sua bocca.
"Non te lo dirò mai!"
Aveva deciso che sarebbe rimasto con lei senza dirle di amarla.
"Io voglio essere amata e, soprattutto, voglio che tu capisca
quanto sia importante per me ascoltarlo dalla tua bocca".
D'altra parte, aveva la sensazione che James, in fondo, l'amasse,
benché non riuscisse a riconoscerlo apertamente
"Non mi basta e non mi importa che sia realtà o illusione".
"E se dovesse essere solo un'illusione?"
"Per me è importante che tu non rompa la mia illusione, se di
illusione dovesse trattarsi".
"E se io decidessi di rompere la tua illusione? Quale sarebbe il
senso della tua relazione con me?"
"Sarebbe difficile dargli un senso".
Per questo, alla fine, aveva deciso di non rispondere alle sue
sollecitazioni.
"Ho diritto all’amore e tu non avresti potuto negarmelo".
"Come puoi identificare il diritto all'amore con il diritto
all'illusione?"
"Ho pienamente diritto almeno all'illusione dell'amore".
Decise che nel momento in cui James glielo avesse tolto, lei
avrebbe tolto a James la sua presenza.
"Altrimenti, io ti negherò il mio amore", precisò.
Il giorno precedente la rottura avevano provato a chiarirsi.
"Te lo chiedo per l’ultima volta, pronuncia quelle maledette
111
parole", gli aveva richiesto Marita.
"Non posso, non me la sento", le aveva risposto James.
"Almeno regalami un’illusione", lo aveva implorato Marita.
"Non credo di farcela".
"Io le pronuncio e tu non neghi. Ti prego, regalami
un’illusione".
"Non riesco a non negare".
"Non ti sto chiedendo troppo" .
James non rispose. Non sentiva alcuna emozione. Lui aveva
bisogno di Marita ma alle sue condizioni. Lei, invece, chiarì che non
avrebbe accettato le sue condizioni. Si lasciarono, pertanto, senza
chiarire il senso della loro relazione.
Il giorno successivo alla rottura, James partì per l'Europa.
Aveva in programma un incontro con Jeoren Van Boxem, direttore
generale del dipartimento industria della Commissione europea, per
discutere la riforma della legislazione farmaceutica.
"Ci concentreremo sul problema dei brevetti. Chiederemo
all’Europa di estendere il periodo di tutela".
Con l’estensione, i profitti sarebbero potuti aumentare del
quattro per cento e consentire ad Axa di restare tra le prime sei aziende
mondiali, capaci di detenere il settanta per cento del mercato.
Prima di partire, aveva comunicato la sua decisione al consiglio
di amministrazione,
"Fai in modo che la tua strategia funzioni. Perché non avrai
un’altra possibilità", era stata la risposta.
In realtà, gli avevano espresso fiducia. Nella sostanza, gli
avevano lasciato intendere che non avrebbe potuto giocare una carta di
riserva, se l’obiettivo non fosse stato raggiunto.
"Utilizza tutti gli strumenti che ritieni opportuno", era stata la
raccomandazione.
L’appuntamento con Jeroen Van Boxen sarebbe avvenuto al
terzo piano del palazzo della direzione generale industria, in Rue de la
loi.
112
"Chiamo Marita", pensò prima di imbarcarsi, ma non lo fece.
Ritenne che ci sarebbe stato il tempo di chiarirsi al suo ritorno.
Bruxelles
L'aereo proveniente da New York, come previsto, atterrò a
Bruxelles alle sei e venticinque del mattino. James, dopo aver
recuperato il bagaglio, afferrò un taxi e si fece condurre in albergo.
"Hotel Europa", chiese al tassista.
"Hotel Europa? Dovrebbe essere in Boulevard Charlemagne".
James diede una sbirciata alla prenotazione, che aveva tra le
mani.
"Si, Boulevard Charlemagne", confermò.
"Evito di prendere l'autostrada. C'è molto traffico a quest'ora
della mattina. Sa, i pendolari…"
"Ok", rispose James.
Non conosceva Bruxelles e qualsiasi strada il tassista avesse
deciso di prendere, sarebbe andata bene. L'importante era arrivare
prima delle nove e mezzo, quando si sarebbe dovuto trovare nell'ufficio
di Jeroen Van Boxem.
La strada, che porta da Zaventem all'aeroporto, dopo un breve
tratto di incroci autostradali, si delinea in un lungo viale alberato. Hotel
e uffici di compagnie straniere le fanno da contorno. James ebbe modo
di poterle osservare. A un tratto, sulla sua sinistra vide spuntare una
miriade di bandiere.
"Siamo arrivati?" domandò al tassista.
"Non ancora", gli rispose l'uomo, un moro con tratti somatici
molto lontani da quelli fiamminghi.
"Pensavo che le bandiere…", commentò James.
"Ah…quelle…", fece chiarezza il tassista, indicandole, "siamo
di fronte la NATO".
113
Se l'autostrada, come aveva detto il tassista, non fosse
consigliabile a quell'ora della mattina, altrettanto sconsigliabile sarebbe
stato prendere Place Meiser. Un fiume di auto provenienti da una serie
impressionante di direzioni diverse, attraversava l'incrocio delle piazza.
Non sarebbe stato facile venire fuori da quella confusione in meno di
venti minuti.
"Non c'è un'altra possibilità?" si informò allora James.
"Mi creda, è la migliore che abbiamo", lo rassicurò il tassista.
"Farò tardi…", commentò James.
"Si tratta solo di passare questo maledetto incrocio. Poi non
avremo problemi. Mi creda, se l'avessi condotta attraverso l'autostrada,
saremmo ancora bloccati a Zaventem".
James preferì non replicare. Continuò a guardare fuori dal
finestrino dell'auto, che, intanto, lentamente, guadagnava posizioni su
posizioni e si avvicinava a varcare il semaforo, per dirigersi verso
Chaussée de Louvain.
"È sempre così?" chiese James.
"La mattina e la sera, dalle cinque alle sette. Dove vive lei, non
è così?"
"Come dice?"
"Volevo sapere se anche dove vive lei c'è questo casino".
"Oh, anche peggio!"
"Meno male. Almeno sarà abituato", rispose il tassista.
Bruxelles si manifestava a James come l'aveva immaginata,
secondo il suo più classico stereotipo, grigia e simmetricamente
disordinata.
Giunto in albergo, non poté rinfrescarsi in camera, perché il
check in era previsto dopo mezzogiorno. Dovette rimediare nel bagno,
al piano terra, esattamente a dieci metri sulla sinistra della reception.
L'appuntamento con Jeroen Van Boxem era stato fissato alle
nove e mezzo. Aveva ancora poco meno di mezz’ora da spendere.
James prese i documenti dalla valigia e, sebbene li avesse già letti in
aereo e ne conoscesse i dettagli, diede un ultimo sguardo.
114
Domandò al portiere dell’Europa Hotel di indicargli il
dipartimento industria della Commissione europea.
"Dipartimento industria?" ripeté stupito il portiere.
"Sì dipartimento industria", confermò James.
"Un attimo, mi faccia pensare".
"Non lo conosce?" chiese James, stupito, a sua volta.
"Mercato comune…suppongo…", disse il portiere.
"Commissione europea", provò a chiarire James.
"Sì, mercato comune…noi lo conosciamo come mercato
comune. Un tempo si chiamava così", spiegò il portiere, "vada a
Schuman. Esca dall'albergo, giri l'angolo e prosegua fino alla rotonda".
James si incamminò verso Schuman, seguendo le indicazioni
che il portiere gli aveva consigliato. Dopo un centinaio di metri, si
trovò di fronte un palazzo in vetro e cemento, simile ai molti altri che
gli erano a fianco. Il numero, impresso in metallo, a fianco della porta
d’ingresso, corrispondeva a quello che aveva notato nella sua agenda
elettronica.
"È il dipartimento industria".
Nonostante le indicazioni del portiere fossero state vaghe,
aveva fatto centro al primo colpo. Tra i tanti palazzi di vetro e cemento,
si era trovato proprio di fronte all’indirizzo, che aveva annotato.
Dopo aver superato la porta girevole, si trovò nella hall, di
fianco a un gruppo di giapponesi, che si differenziavano l’uno dall’altro
per il solo colore della cravatta. Il taglio dei capelli e l’abito scuro,
identici per tutti, sembravano renderli adepti di un’unica confraternita.
Attese il suo turno, quindi si presentò alla reception.
"Avrei appuntamento con il direttore Jeroen Van Boxem",
esordì James.
L’usciere prese nota, gli disse di compilare il modulo d’entrata.
"Un documento, per favore", aggiunse.
James lo cercò nella tasca interna della giacca e lo porse
all’usciere.
115
Dopo aver verificato le generalità, annunciò James alla
segreteria del direttore Van Boxem. Poi, gli indicò il cammino da
seguire.
"Prenda l’ascensore, qui sulla destra e vada al terzo piano.
L’ufficio del direttore si trova al numero centoventi. L’assistente verrà
ad accoglierla all’uscita dell’ascensore".
L’usciere, belga, gli consegnò il badge da visitatore, che James
incollò sul bavero della giacca. Indossava un abito grigio scuro con
camicia azzurra e cravatta rossa a pois blu. Il badge bianco con
iscrizioni blu faceva pendant con il blu dei pois della cravatta. James
guardò soddisfatto la combinazione. In quell'attimo pensò a Marita.
"Cosa avrebbe pensato di questo curioso abbinamento?"
Attraversò con calma il lungo corridoio che gli era stato
indicato dall'usciere belga di origini italiane e si recò nei pressi
dell'ascensore. Salì al terzo piano. Ad attenderlo c’era una giovane
danese, dai capelli lunghi biondi e dalle gambe tornite. Per la seconda
volta, nel giro di pochi minuti James pensò nuovamente a Marita.
"Bonjour", gli disse la bionda con le gambe tornite, "il
direttore la sta aspettando. Spero abbia fatto un buon viaggio".
"Sì, un ottimo viaggio", rispose James.
Si incamminarono lungo il corridoio che dagli ascensori
conduceva fino all’ufficio.
"Dobbiamo percorrerlo tutto, fino in fondo", precisò la
bionda.
James sorrise. Seguiva la bionda e poteva osservarla. Oltre alle
gambe tornite, anche l’ondeggiare del culo gli ricordava Marita. Lo
aveva notato la prima volta che l’aveva vista al ristorante.
"Prego, si accomodi", gli disse la bionda, giunti alla fine del
corridoio. James smise di pensare a Marita e si immerse nella realtà.
Jeroen Van Boxem lo accolse sulla porta, in compagnia di
Enzo Faramelli, responsabile del dossier. Nel caso si fosse entrati in
dettagli tecnici, Enzo sarebbe intervenuto come supporto. Anche la
settimana precedente, Enzo lo aveva affiancato in uno dei tanti incontri
con i rappresentati dell’industria.
116
Bruxelles era diventata un magnete, che attirava i gruppi di
pressione industriali, le imprese di relazioni pubbliche e numerosi studi
legali. Centinaia di laboratori di idee, finanziati dall'industria, capaci di
far sentire la loro voce all’interno delle istituzioni, dove si produce oltre
la metà di tutta la legislazione europea. Anche la Axa Pharmaceuticals
aveva stabilito una propria sede operativa a Bruxelles, esattamente a
Zaventem, non lontano dall'aeroporto.
I procedimenti complessi, la mancanza di un vero dibattito
pubblico europeo e la relativa debolezza dei gruppi sociali, avevano
creato le condizioni ideali del successo della lobby industriale.
L’incontro tra Axa e la Commissione europea si svolgeva in questo
ambito, secondo regole non scritte ma chiare a tutti i partecipanti.
Quando James entrò nell'ufficio, il direttore generale Van
Boxem lo salutò con una calorosa stretta di mano. Si sedettero intorno
al grande tavolo ricoperto di documenti, occupandone solo una parte.
Bevvero un caffè e iniziarono a discutere.
ANNO 2006 – IL VUOTO
117
31 gennaio 2006
Bruxelles
Tarik era uscito di casa. Erano più o meno le nove e mezza
dell’ultimo giorno di gennaio.
"Dovevo urgentemente finire un lavoro per il giorno
successivo", dichiarò all’ispettore capo di Schaerbeek.
"Lavora sempre di domenica?"
"No, ma come le dicevo dovevo finire un lavoro urgente".
Tarik aveva lasciato la sua abitazione, i figli ancora nel letto e si
era incamminato verso il suo negozio di calzolaio. Era una bella
giornata d’inverno. C'erano il sole e l’aria fresca. Per le strade poca
gente.
"Poi cosa è successo?" gli chiese l’ispettore capo.
"Ho fatto pochi passi e ho raggiunto l'angolo tra Rue du Noyer
e Rue Gerard. C’era una barriera di metallo, come quelle che si usano
nei cantieri".
"Si trattava di un cantiere, probabilmente", disse l’ispettore
capo, esitando, affinché Tarik potesse confermare.
"Beh, certo, di un cantiere. C’era una barriera che impediva il
passaggio ai pedoni. Si doveva per forza cambiare strada".
"E lei cambiò strada?"
"Stavo per farlo".
"Ma non lo fece".
"No".
"Perché?"
"Venni attratto da uno strano oggetto sull’asfalto. No, non
direi neanche che si trattasse di un oggetto".
"No? Di cosa, allora?"
"Ripensandoci ora, direi piuttosto qualcosa simile a un pacco".
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"Un pacco? In mezzo alla strada?"
"Beh, sì…come dire…un grosso pacco, ricoperto da
un’incerata".
"Quindi, la sua attenzione venne attratta da un grosso pacco,
sistemato sull’asfalto, ricoperto da un’incerata".
"Mi avvicinai con cautela, preso dalla curiosità. Percorsi ancora
dieci metri per osservare più da vicino".
"E cosa vide?"
Tarik aggrottò la fronte e spinse gli occhi in avanti.
"A guardarla bene, non si trattava di un’incerata ma di un
impermeabile",
"Dunque, non un’incerata ma un impermeabile".
"Si trattava di un semplice impermeabile, che ricopriva un
corpo".
"Si avvicinò per rendersene conto?"
"Certo!"
"E cosa fece?
"Merda, esclamai e poi mi ritrassi istintivamente".
Tarik alle nove e mezzo dell’ultimo giorno di gennaio, si trovò
di fronte il corpo di un uomo, riverso per terra.
"Lo stesso istinto, che mi aveva spinto a ritrarmi, mi spinse,
dopo pochi istanti, ad avanzare lentamente in direzione del corpo,
disteso. Lo guardai nuovamente".
"L’impermeabile le ricordava qualcuno che conosceva?"
"No, per fortuna no!"
"Ne fu immediatamente certo?"
"Beh, no! Non immediatamente. Come le dicevo, ho dovuto
avvicinarmi per rendermene conto".
Tarik poté tirare un sospiro di sollievo.
"Mi guardai intorno e vidi, dall’altra parte della strada, la
panetteria aperta. Attraversai velocemente ed entrai. Non c’era ancora
119
nessun cliente e il vecchio, dall’altra parte del bancone, sistemava le
baguette nel cesto".
"Ha avvertito qualcuno?"
Tarik raccontò il dialogo avvenuto all’interno della panetteria.
"Un morto, esclamai. Il vecchio si girò verso di me, Calmati,
mi rassicurò, vedendomi ansimare. Un morto, ripetei io. Un morto?
Chiese lui, perplesso. Sì, dietro lì, dissi io. Stavo per indicargli la barriera
di metallo del cantiere ma il vecchio lasciò le baguette, che aveva in
mano, e uscì per strada. Dove? Mi chiese. Io non dissi nulla. Feci segno
con la mano di avanzare verso la barriera. Allora il vecchio attraversò la
strada e si diresse verso il cantiere. Scorse l’incerata. Gli feci ancora
segno di avanzare, fino al punto in cui io avevo potuto osservare il
corpo dell’uomo".
L’ispettore capo fece chiamare il vecchio panettiere. Aveva uno
strano cappello, che continuò ad avere ben saldo sulla testa, anche
durante la testimonianza.
"Il morto…eccolo, mi disse Tarik. Lo conosci? domandai.
Non credo. Non riconosco il suo impermeabile, rispose Tarik".
"E lei lo conosce?" gli chiese, a sua volta, l’ispettore capo.
"Spero di non conoscerlo", gli rispose.
"Se spera, significa che forse lo riconosce".
"Si tratta di un tedesco. Veniva a comprare la baguette, la
domenica mattina, molto presto. Indossava spesso un impermeabile
come quello del morto".
"Perché allora ha detto di non conoscerlo?"
"Perché, in realtà, non lo conoscevo. Voglio dire…si trattava
solo di un cliente, non di un amico".
"Cosa avete fatto dopo il ritrovamento del cadavere?"
"Siamo tornati indietro verso la panetteria. Abbiamo
telefonato alla polizia. Fu Tarik a farlo, dal mio telefono. Dopo pochi
minuti giunsero due auto. Quattro agenti vennero verso di noi. Io e
Tarik li stavano attendendo sull’uscio. Tarik ha ripetuto la stessa scena.
Ha attraversato la strada e, poi, ha indicato agli agenti di avanzare.
Giunti nei pressi della barriera del cantiere, hanno potuto vedere loro
120
stessi il corpo".
L’ispettore capo disse a Tarik e al vecchio panettiere di tenersi
a disposizione. Sia l’uno che l’altro, dopo avere lasciato il posto di
polizia andarono a lavorare. Il vecchio tornò dietro il banco a vendere
le baguette. Tarik terminò le scarpe, che avrebbe dovuto consegnare il
giorno seguente.
Il corpo venne prelevato dopo che gli agenti ebbero concluso i
rilievi e il medico legale constatato l’avvenuto decesso. Rimasero le
barriere del cantiere e i lavori da terminare. Bruxelles stava provando a
disegnarsi un look da capitale per far rifiorire i palazzi di art nouveau.
All’una di quello stesso giorno, Enzo fece una telefonata.
"Jan è morto!" Esclamò con la voce rotta dall'emozione.
Dall'altro capo del telefono, solo silenzio. Dopo qualche
attimo, poté percepire un lungo respiro.
"Raggiungerò Bruxelles con il primo aereo disponibile",
rispose il padre di Jan.
Enzo e il padre di Jan non si erano mai piaciuti. In realtà, non
si erano mai visti. Il padre di Jan sapeva dell'esistenza di Enzo e
viceversa, ma non si erano mai neanche parlati. Il loro mancato
incontro non era stato un fatto casuale. Al contrario!
"Non accetterò mai quella specie di amico che hai trovato a
Bruxelles", il padre gli aveva detto.
Jan, inizialmente, aveva provato a spiegare ma era stato inutile.
"Non insistere. Sprechi solo fiato con me".
Per suo padre, sarebbe rimasto, per sempre, un mistero, come
un mistero era, ora, la sua morte.
Ginevra
"Madan è morto!"
121
"L'uomo delle scimitarre?" chiese Ana.
"Sì, il mio amico. È morto!" ribadì Antoine.
"Gli avevi scritto?"
"Non mi hai mai risposto".
"Era già morto?"
"Era già morto".
"Come lo hai saputo?"
"Sono andato in India lo scorso novembre. Non c'erano più
scimitarre ma strumenti musicali".
"Strumenti musicali?"
"Sì, il suo negozio non c'era più. Al suo posto un altro
negozio, pieno di violini, chitarre, tamburi e sitar".
"E le scimitarre?"
"Morte insieme a lui".
"Come lo hai saputo?"
"Me lo ha detto l'uomo del negozio che ho trovato al suo
posto".
"E di lui nessuna traccia?"
"Nessuna!"
"Non ha aggiunto altro?"
"Solo che i tabla set con due tamburi, sonagli e un martelletto
per accordare le pelli erano tra le cose più vendute. Mi ha chiesto se
volessi comprarli."
"Li hai comprati?"
"Ho pensato a Madan".
"E non li hai comprati?"
"Sono riuscito a pensare solo a Madan".
Antoine smise di dialogare con Ana.
"Non ho più voglia di parlare", aggiunse.
122
Era sceso dal lato giusto del letto ma il ricordo della brutta fine
di Madam gli aveva fatto perdere il buon umore.
"Ti prego, Antoine, non rovinare il nostro anniversario", si
raccomandò Ana.
La sera precedente era giunto a Ginevra.
"Ti ho rivisto dopo un anno".
"Ana, non ho nessuna voglia di rovinare il nostro
anniversario".
Si erano incontrati esattamente un anno prima, al terzo piano
della sede dell'organizzazione mondiale per il commercio.
"Avevo appena iniziato lo stage, mentre tu eri a Ginevra già da
alcuni anni".
"Da allora abbiamo lavorato fianco a fianco per cinque mesi".
"Sarebbe più corretto dire che io ho lavorato per te. Io ero un
giovane stagiaire, mentre tu, da sedici anni, facevi il funzionario".
"Quindici".
"OK, quindici".
"I primi giorni ci siamo completamente ignorati".
"Non avevamo avuto tempo per parlare".
"Mi hai salutato solo formalmente".
‘Welcome’ gli aveva detto Ana. ‘Merci’, aveva semplicemente
risposto Antoine, d'istinto, per poi correggersi immediatamente, con un
più internazionale ‘Thank you’.
Parla pure in francese, gli aveva sorriso Ana, siamo a Ginevra,
lei è francese e io sono spagnola. Siamo latini entrambi. Il francese
andrà benissimo.
"Non mi restò altro da fare che sorridere. Mi ero preparato a
lungo per parlare in inglese ma mi sfuggì quel merci, forse per istinto,
forse a causa della stanchezza".
"Certo, la stanchezza", confermò Ana.
"Mi ero svegliato molto presto quella mattina e se non fosse
123
stato per monsieur Herbert, che mi fece attendere a lungo prima di
salutarlo, mi sarei volentieri infilato sotto le coperte".
"Che sensazione avvertivi mentre mi salutavi?"
"Non provai nessuna emozione particolare. Perché vuoi
saperlo?
"Ti trovavi di fronte una donna di venti anni più vecchia".
"In quel momento non ci pensai".
"Poi ci hai pensato?" replicò Ana, sorridendo.
"Non più di tanto", concluse Antoine.
Ana aveva superato da qualche anno i quaranta. Nata a
Valencia, aveva sempre vissuto tra il mare e Plaza de la Reyna. Amava
perdersi lungo l'immensa spiaggia per ritrovarsi nei vicoli, vicino la
Catedral del Santo Cáliz. In uno di quei vicoli conobbe Javier, l’uomo
che decise di sposarla.
"Me lo chiese subito, senza darmi neanche il tempo di
ponderare la sua richiesta".
"Perché me lo dici ora?" domandò Antoine.
"Non c’è una ragione particolare. Mi ci hai fatto riflettere,
parlando dei miei anni. Con lui ho vissuto la situazione opposta. Era lui
ad avere venti anni più di me".
"Forse è per questo che avresti dovuto pensarci".
"Non mi diede il tempo di capire se potesse essere davvero il
tipo di uomo che desideravo".
"Come si fa a dire chi sia l’uomo o la donna giusta? Devi
provare per avere la risposta".
"Può darsi che tu abbia ragione ma se avessi avuto il tempo di
riflettere…"
"Riflettere?"
"Il sesso, per esempio. Conta molto in una coppia, sai?"
"E con Javier non andava bene?"
124
"Quando Javier mi prendeva con dolcezza, mi faceva
arrabbiare. A volte, mi risultava addirittura disgustoso. Potevo accettare
quella dolcezza da mia madre, da mio padre, perfino da mio fratello ma
non da mio marito".
"Non me lo avevi detto…"
"La dolcezza dell’uomo mi spaventa e ancor più mi impaurisce
la dolcezza del mio uomo. Non mi sembra amore ma solo bisogno. È
insopportabile!"
Ana si distese sulle gambe di Antoine. Allungò le mani verso
l’alto per cercare i suoi capelli.
"Non ho nessuna coscienza di come io abbia maturato un
senso di profonda ripugnanza verso la dolcezza. Ricordo con certezza
che, da bambina, aveva imparato a non fidarmi delle persone che
esprimono tenerezza".
"Non capisco cosa possa impaurirti della dolcezza".
"Le persone dolci finiscono sempre per abbandonarmi. Mi
lasciano sola e mi fanno paura."
"Impara a controllare la tua paura. Finirai per determinare
anche la tua vita".
"Io ho solo un bisogno. Vuoi sapere quale?"
"Posso immaginarlo".
"Non credo".
"Hai bisogno di un uomo che prenda il controllo su di te. In
fondo, la dolcezza ti spaventa perché temi che l’uomo dolce non sia
capace di prendere il controllo su di te".
"No, non è quello che pensi".
"Cosa, allora?"
"Io ho bisogno di libertà e di cercare un posto dove trovare
un equilibrio. Valencia non é mai stata il posto ideale. La spiaggia mi
allontana da me stessa, mentre i vicoli mi aiutano a ritrovarmi".
"Equilibrio, vicoli? E io che pensavo fosse solo un banale
bisogno di protezione".
125
"Oddio! Non pensavo di essere tanto banale".
"E che non potevo immaginare…"
"Ti prego, Antoine! Potrei offendermi", lo interruppe Ana,
maliziosamente.
"E che non potevo immaginare quanto fossi complessa".
"Dici complessa?"
"Complessa, complessa", precisò Antoine, "complessa e non
complicata".
Ana sorrise. Poi aggiunse: "Quando mi trovo nei vicoli ho la
sensazione di scivolare via, come attraverso la fessura di una porta".
"Ho il sospetto che Javier non abbia mai afferrato il tuo
bisogno di fuga".
"Non ha mai colto il bisogno che hanno le donne di sentirsi
evanescenti".
"Evanescenti?"
"Significa esserci, ma, nello stesso, non esserci".
"Fuga?"
"Chiamala come vuoi".
"È questo che ti ha spinto ad abbandonare Valencia?"
"Questo è quello che mi ha spinto ad abbandonare Javier,
lasciandolo emotivamente, prima ancora che fisicamente".
"E di conseguenza Valencia"
"Certo! Di conseguenza Valencia", confermò Ana.
"Io credo che lasciare il posto in cui si è nati nasca dalla voglia
di fuggire dalle emozioni. Non so come dire, ma sai quell’amarezza che
ti lascia il cambiamento?"
"Non credo".
"Voglio dire. Il cambiamento inevitabilmente si porta via le
cose, le persone, gli affetti e non sempre siamo pronti ad affrontare il
vuoto che comporta. Ecco, in quel caso è meglio lasciare i luoghi in cui
126
si è vissuto con quelle cose e con quelle persone. Si fugge per non fare i
conti con i propri sentimenti".
"Io sarei anche stata disposta a fare i conti con il vuoto. Ma
credimi…proprio non potevo".
"Se avessi avuto la forza di fare i conti con te stessa, non
avresti avvertito il vuoto intorno a te".
"Io ho avvertito la voglia di scivolare via, attraverso la fessura
di una porta anche qui a Ginevra, come mi era capitato a Valencia.
Quindi, se davvero fosse stata fuga, come tu pensi, non avrei dovuto
avvertire le stesse sensazioni ma lasciarmele alle spalle".
"Invece, non sempre la fuga ti rende immune. Le sensazioni
continuano a inseguirti e non basta abbandonare un luogo per lasciarsi
indietro i sentimenti".
"Se vuoi che ti dica la verità…"
"Ecco, finalmente, la verità…"
"Beh, se vuoi che ti dica la verità, io sarei voluta scivolare via
da una fessura anche quando per la prima volta l’ho tradito".
"E’ successo a Valencia, tanto tempo fa".
"No, non è mai successo a Valencia".
"Dove, allora?"
"A Ginevra".
"Qui?"
"E’ successo a Ginevra, qualche mese dopo il mio arrivo.
Pensavo di averlo fatto per rabbia. In realtà l’ho tradito perché lo
volevo. Devo dirti che lo desideravo con tutto il mio cuore e non
sapevo di desiderarlo tanto fin quando non l’ho fatto".
A Ginevra, Ana aveva incontrato Karl.
"Con lui non fu amore, ma neanche non-amore".
Karl l'aveva presa in una vecchia Audi Tre, rossa come il sole
di Valencia, una sera d’agosto, non lontano dal lago. Lei indossava una
gonna nera, corta, con dei piccoli bottoni sulla parte anteriore. Un top
che le arrivava fino all’ombelico e le lasciava scoperta una piccola parte
127
del ventre. Indossava anche delle scarpe con tacchi molto alti. Ana era
più alta di Karl. Grazie a quei tacchi, ovviamente, che le davano un
senso di superiorità.
"In fondo ero superiore a lui. Io avevo studiato, mentre lui era
solo un operaio. Lavorava in una piccola azienda di laminati, come ce
ne sono tante in Svizzera. Conosceva poche cose. Non aveva maniere.
Eppure Karl si sentiva più importante di me. Io ero solo una povera
ragazza spagnola, giunta nella ricca Svizzera".
"Ma come hai fatto a fare l’amore con un ignorante del
genere?"
"Per lui ero una povera ragazza spagnola che fuggiva dalla
miseria e dalla dittatura franchista."
"Poco importava che Franco fosse morto già da qualche anno
e che la Spagna fosse brillantemente avviata sulla strada della crescita
economica e democratica".
"Per Karl, la Svizzera restava la Svizzera e il resto dell'Europa
contava per quello che era il valore che lui gli attribuiva. Poco o niente".
"E tu eri parte di quel poco".
"Ė vero, non conoscevo Louis Vuitton, non avevo mai
comprato le scarpe di Salvatore Ferragamo, ma stavo bene. Avevo tutto
quello che una donna poteva normalmente desiderare. Eppure Karl
riusciva a umiliarmi ugualmente. A volte si vergognava di me e di come
fossi vestita. Non gli piacevano quei vestiti a fiori che in Spagna
andavano tanto di moda".
Semplicemente Ana non gli sembrava abbastanza glamour.
"Eppure Karl non era riuscito neanche a farmi godere. Mi era
saltato addosso in quella macchina vecchia. Mi aveva spogliata con
impeto, promettendomi molto, ma non dandomi niente. Non aveva né
le doti fisiche, né le capacità per provocarmi un orgasmo. Né allora, né
dopo".
"Quante volte ha provato a farti godere?"
"Lo abbiamo fatto tante altre volte ma Karl fu sempre
deludente".
"Che disastro!" commentò con asprezza Antoine.
128
"Però non fu non-amore. Mi umiliava, ma mi voleva bene. E io
ne volevo a lui. Ho tradito Javier per tre anni per fare l’amore con lui".
Allo scadere del terzo anno, Ana pose fine al suo matrimonio.
"Ormai era pura finzione e non aveva più senso continuare".
Javier accolse la richiesta di Ana quasi con indifferenza.
"Mi disse solo che avrebbe voluto continuare a vivere nella
nostra casa di Valencia".
"E tu eri d’accordo?"
"Io non mi opposi".
Il pensiero di Madan abbandonò lentamente la mente di
Antoine nell’istante in cui Ana gli disse di avere fame.
"Ho lavorato tutto il giorno. Ho trangugiato velocemente solo
un panino con mozzarella, pomodoro e uova soda, poco dopo
mezzogiorno", esclamò Antoine.
"Anch’io ho fame".
"Andiamo da Red Ox Steakhouse?"
"Come ai vecchi tempi".
"Abbiamo bisogno di ricordare i vecchi tempi?"
"No, non credo".
"Perché allora parli di vecchi tempi?"
"Per nessuna ragione particolare. L’ho detto tanto per dire".
Antoine aveva fame e l’invito di Ana gli aveva fatto ritornare il
sorriso. Quella discussione, per certi versi assurda, per altri paradossale,
lo aveva spento. Si infilarono nella vecchia Audi tre di Ana e dopo dieci
minuti si trovarono nei pressi di Boulevard des Tranchees. Durante il
tragitto non dissero molto. Parlarono di se stessi e delle pause delle loro
vite. Era tutto maledettamente scontato e se non fosse stato per il
pensiero di Madan anche tutto straordinariamente banale. Eppure il
loro incontro non era stato affatto banale. Lo era stato i primi giorni,
quando si sorridevano e si salutavano senza aggiungere altro, ma non lo
era più stato a partire dal ventesimo giorno di permanenza di Antoine a
Ginevra.
129
"Nel corridoio, incrociandoti per l’ennesima volta, avevo
intravisto una strana luce nei tuoi occhi. Ti sorrisi anche con un pizzico
di malizia".
"Non mi accorsi di nulla e continuai il mio percorso".
"Dove posso trovare il toner? mi hai chiesto. In uno degli
armadi...quelli che si trovano giù nell’angolo, ti risposi".
Ana mostrò una cortesia tale da non poter più essere definita
di rito. Qualche istante dopo si ritrovarono di fronte a una tazza di
caffè. Tre giorni più tardi si scambiarono un tenero bacio sull’uscio
dell’appartamento di Ana. Il giorno successivo al bacio, fecero l’amore.
"Non credo che il nostro sia stato un incontro banale",
puntualizzò Antoine.
"Non riesco a razionalizzarlo", rispose Ana, "la prima volta
che abbiamo fatto l’amore, ho avuto l’impressione di infilarmi in un
vicolo cieco".
"Io sarei il vicolo cieco?"
"Potresti essere mio figlio".
"Per me tu non sei una madre", le rispose Antoine, stizzito.
Aveva visto altre donne infilarsi in quello che lei aveva appena
definito un vicolo cieco ma non aveva mai pensato che quella
disavventura potesse realmente capitare a lei.
"Anche Karl ha avuto un senso", disse Ana,.
"Con questo vorresti dire che io non ce l’ho".
Ana non rispose.
Un anno prima gli aveva confessato di non sentire attrazione
verso di lui.
"Se non fosse stata per la strana luce dei tuoi occhi", aveva
detto, "probabilmente non mi sarei avvicinata".
Antoine se l’era presa ma con il tempo aveva imparato a non
darle troppo peso.
"Si è verificato un rapido succedersi di eventi che non ho
avuto il tempo di gestire".
130
"Non ti ho dato il tempo di pensare", precisò Antoine, "ed è
stata la tua fortuna. Troppe volte avresti dovuto farti travolgere da una
passione e non lo hai fatto. Non hai mai consentito a un pensiero
illogico e apparentemente irrazionale di prendere possesso del tuo
cervello".
"Tu sei il pensiero più illogico e irrazionale che mi sia mai
capitato", gli rispose Ana, "dal giorno del mio divorzio non ho più
intrecciato nessuna relazione, neanche solo per una notte".
"Solo un pensiero illogico e irrazionale poteva spezzare la
monotonia della tua esistenza".
"Non credere di essere stato partorito solo da un pensiero
illogico e irrazionale. La strana luce dei tuoi occhi arriva dove nessuno
potrebbe".
Ana non aggiunse altro. Lasciò che i suoi ricordi andassero
liberamente a ritroso. Pensò al primo invito di Antoine, esattamente un
anno prima.
"Quando giunsi a casa tua, ti guardai con più attenzione.
Osservai come eri vestito e poi la tavola…il vino. A quel punto mi resi
conto di come la cena fosse il nome in codice di sesso"
Antoine aveva predisposto l'intero apparato, come un vero e
proprio rituale.
"Si vedeva che non sapevi cucinare. Però ti eri dato da fare".
Come antipasto aveva preparato lui stesso del sushi, California
rolls, solo per fare scena.
"E cosa pensasti?"
"Pensai che quello fosse il problema di quando si inizia una
relazione. Fare scena. Se vuoi fare del sushi, allora frequenta un fottuto
corso oppure vai in un alimentare giapponese. Non usare il riso grosso
oppure il granchio surgelato ma, ovviamente, non dissi niente. Avevo
compreso perfettamente che quella cena sarebbe stato solo il preludio
di noi due a letto. La cena era solo un dettaglio".
Non gli era dispiaciuto andare a letto con lui, anche se non
aveva avuto un vero e proprio desiderio.
"L’ho vissuto come un atto premeditato. Non c'era nulla di
131
spontaneo. Ebbi l’impressione di un rituale d'accompagnamento, come
quello dei Masai in Tanzania".
"Comunque, dopo aver appena addentato i California rolls, ti
alzasti e mi spingesti verso la camera da letto".
"Iniziamo a fare sesso. Era molto tempo che non avevi
rapporti con una donna".
"Feci un casino. Fu un vero disastro",
"Né più né meno dell’esperienza con Karl".
Durante la cena, prima di scopare, Ana pensò a Javier. Si erano
sposati molto giovani. Ana lo amava e lui amava Ana. Come però Javier
era capace di amare. Non lunghe dichiarazioni d’amore, non parole
particolari o frasi d’effetto, ma lunghi silenzi riempiti da gesti teneri,
semplici, una carezza sul viso, una mano tesa, un abbraccio. Allora ad
Ana le bastavano. Era giovane.
"Spesso mi prendeva tra le sue braccia. Lo faceva soprattutto
di sera, quando tornava dal lavoro. Era stanco, ma prima di
addormentarsi aveva sempre un momento per me, che lo aspettavo,
felice che fosse proprio lui l’uomo che stava per varcare la soglia di
casa. Ti piacerebbe che ti toccassi là sotto mi diceva. Sì, certo…fallo gli
rispondevo".
"Parlamene", le chiese Antoine.
"Sentivo le sue mani, sotto la gonna risalire lentamente lungo
le gambe. Non appena percepiva il mio piacere ascendere sempre più
decisamente, si bloccava e mi sussurrava con dolcezza all’orecchio
toccati per me".
"Sei eccitante, sai…", le disse Antoine.
Ana si sentì incentivata a continuare.
"Sempre più immersa nell'eccitazione lo facevo senza pudore,
felice per lui e per me stessa. In quei momenti non desideravo nessun
altro e non avrei potuto neanche. Era solo quello l’uomo che
conoscevo ed era solo quello l’amore che avevo provato".
"Perché?"
"Javier mi sembrava un buon compagno, intelligente,
piacevole, sufficientemente benestante. Insomma, l'uomo migliore che
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avessi mai potuto desiderare al mio fianco".
"E tu, per lui?"
"Anche per lui ero la donna migliore che avesse potuto
desiderare. Me lo aveva detto più volte. Gli piaceva la mia sensibilità e
anche la mia leggerezza".
Javier rappresentava l'uomo dalle spalle larghe che Eva aveva
sempre desiderato.
"Poteva assicurarmi sicurezza e protezione".
"Sei una donna sensibile, ma ti piace vivere sicura. Credi molto
nella stabilità e nelle regole".
"Potrebbe essere. Ogni cosa nel momento e nel posto giusto".
"Sei quel tipo di persona che desidera avere tutto in ordine
sulla sua scrivania, a casa come al lavoro, altrimenti non riesce a
carburare".
"Credo di sì. Non solo la mia vita professionale, ma anche la
mia vita privata necessita di ordine. Solo così riesco a funzionare bene".
"Ma cosa si può fare quando i giorni diventano tutti uguali?
Sempre e soltanto gli stessi. Cosa si deve fare per evitare la monotonia
aggressiva della quotidianità?"
Ana non rispose.
Antoine, allora, ripeté "Cosa si deve fare per evitare la
monotonia aggressiva della quotidianità?"
"Javier mi aveva sposata perché aveva una grande casa che
voleva riempire. Desiderava tanto dei figli, che non erano mai arrivati. I
suoi genitori mi adoravano e mi adorano tuttora. Impazzirono all'idea
che mi sposasse. Lo apprezzavano soprattutto per la sua capacità di
stare con i piedi per terra. E’ molto utile per te avere a fianco qualcuno
capace di vivere il presente, mi dicevano".
"Temevano molto i tuoi cambi di umore, i tuoi voli pindarici,
il lento divagare della tua mente".
"E anche tu li temi. Vero?"
"Anch’io li temo", confermò Antoine.
133
Mumbai
"Ekta è morta!" disse Avanish al messo postale.
"E tu chi sei?" chiese il messo postale.
"Io sono il figlio", rispose Avanish.
"Di Ekta?"
"Sì".
"Mmmhhh…il figlio…", trascinò le parole il messo postale,
portandosi il dorso della mano sulla fronte.
Faceva caldo, il sudore gli usciva a gocce da sotto il bavero
della divisa. Aveva già percorso diversi chilometri in bicicletta per
raggiungere gli angoli nascosti della città.
Avanish lo fissava, con la mano destra appoggiata alla maniglia
della porta. Non sapeva se quell’uomo volesse entrare o meno ma non
osava chiederglielo. Il suo sguardo non prometteva niente di buono e i
suoi occhi finivano con il penetrare il ragazzo.
"Va bene, va bene. Io devo semplicemente consegnare questa
ingiunzione di pagamento", esclamò con un tono piuttosto
contraddetto.
Avanish allungò la mano sinistra per afferrare la busta che il
messo postale aveva con sé.
"Non so se posso consegnarla a te. Questa è una cosa seria.
Riconosci di cosa si tratta?" domandò ad Avanish.
"No", rispose il ragazzo, provando a sbirciare la lettera.
"Non hai idea di cosa possa essere?" chiese nuovamente il
messo postale.
Avanish scosse la testa.
"Allora te lo dico io. Questa é un’ingiunzione di pagamento",
sentenziò, mostrandogli la lettera, fin sotto il muso.
"Ingiunzione di pagamento", ripeté Avanish, per mostrargli di
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aver compreso.
Non vedeva l’ora di toglierselo davanti. Invece, quell’uomo
sudato e arrabbiato lo torturava con le sue incomprensibili domande.
"Si tratta di una cosa seria", aggiunse.
Si fermò a riflettere. Portò nuovamente il dorso della mano
destra sul volto e si asciugò il sudore.
"Ce l'hai dell'acqua?" chiese ad Avanish.
"No", ribatté secco Avanish.
"Bah…come fate senza acqua con questo caldo…", gli disse,
mostrando, per la prima volta, compassione.
"Si va alla fontana", replicò Avanish.
"Alla fontana?"
"Sì, alla fontana".
"E dove si trova questa fontana?"
"La fontana è lontana".
"Quanto lontana?"
"Circa dieci chilometri"
"Sono tanti. E io come faccio?"
"Per fare cosa?"
"Per bere. Ho sete".
"Non lo so. Per me dieci chilometri non sono tanti".
"Quando hai sete, devi percorrere dieci chilometri?"
"Sì"
"Non c’è una fontana più vicina?"
"Sì, c’è ma da qualche giorno non c’è più acqua".
"Prima c’era?"
"A volte. Qualche giorno c’è l’acqua ma non sempre".
Il messo postale rifletté di nuovo, portandosi la mano destra
sul viso. Aveva due problemi, la sete e l'ingiunzione da consegnare. Per
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risolvere il primo problema sembrava che non ci fosse niente da fare.
Alla prossima porta a cui avrebbe bussato, avrebbe chiesto dell’acqua.
Per quel che riguardava, invece, l’ingiunzione di pagamento sarebbe
stato meglio consegnare la lettera a un adulto, ma se proprio non ci
fosse stato alcun adulto allora non restava altro da fare che porgerla
nelle mani di quel ragazzo.
Avanish se ne stava in piedi davanti alla porta. Nell'angolo
opposto i suoi due fratelli.
"Chi sono quei bambini?" si informò il messo postale.
"I miei fratelli", rispose Avanish.
"E chi se ne occupa?"
"Me ne occupo io", esclamò orgoglioso Avanish.
Il messo postale, che fino ad allora era rimasto sull’uscio, fece
due passi ed entrò in casa. Avvertì tutto il fetore che quelle quattro
mura erano capaci di emanare. Erano giorni che le pareti non
prendevano aria. Avevano assorbito il caldo e la puzza che quei vicoli di
Mumbai sprigionavano, senza sosta.
"Sei capace di firmare?" chiese il messo postale ad Avanish.
Avanish fece un leggero cenno con il capo.
"Va bene! Allora firmerai tu. Questa lettera la prendi tu",
sentenziò il messo postale con decisione.
"E che me ne faccio?"
"Non lo so. Non è affare mio. Leggila, comunque".
Avanish guardò il messo postale perplesso.
"Sai leggere o sai solo firmare?"
"So anche leggere".
"E allora leggila".
"E poi?"
"Non lo so. Non é affare mio".
Dall'angolo i suoi due fratelli si rotolavano per terra.
"Fate silenzio, voi, piccoli bastardi", disse loro Avanish.
136
I due fratelli continuarono a rotolare per terra, incuranti del
tono minaccioso di Avanish.
"Ragazzo, ora vai a prendere l'acqua. Ne avrai bisogno con
questo caldo", suggerì il messo postale.
"Ora non posso. Ci andrò questa sera", rispose Avanish.
"Come farete a resistere fino a sera?" chiese il messo postale,
perplesso.
Avanish non rispose. Era consapevole di dovere resistere e
avrebbe resistito. La sete è uno sforzo dell’anima.
"Non lo dico per te, ma per quei poveri esseri che si trovano
nell'angolo", aggiunse il messo postale.
"Ci andrò più tardi".
"I tuoi fratelli avranno sete. Ecco, vai a prendere l'acqua per
loro. Moriranno di sete".
"Moriranno comunque".
Il messo postale andò via, dopo essersi ancora una volta
asciugato il sudore con il dorso della mano destra.
Avanish guardò l'ombra del messo postale scomparire dal suo
cono visivo. Nello stesso tempo avvertì una profonda sensazione di
solitudine che si stava avvicinando a lui, a piccoli passi, in punta di
piedi, senza farsi sentire. La solitudine lo coglieva di spalle mentre il
suo sguardo si perdeva. Aveva le spalle leggermente ricurve, mentre il
ciuffo dei suoi capelli svolazzavano portati via da un alito di vento
inesistente. Percepì una strana presenza dietro di lui e cercò di non farsi
trovare impreparato. Si voltò di scatto per guardare la solitudine fissa
negli occhi. Aveva il freddo nel cuore anche quando il sole picchiava
forte sulla sua città. I fratelli, che stavano nell'angolo, smisero di ciarlare
e di rotolarsi per terra. Per alcuni istanti rimasero in silenzio. Attimi di
silenzio da spezzare senza pietà.
La luce sugli occhi di Avanish era intensa. Un raggio di sole,
che penetrava non si sa bene da quale fessura, lo colpiva tanto da fargli
socchiudere le palpebre. La solitudine pensò di averlo conquistato.
Avanish, senza voltarsi, si mise in ginocchio. Rivolse lo sguardo al
soffitto.
137
Chiese alla solitudine: "Per che cosa sei venuta a curiosare
dentro la mia anima, tu che già tieni compagnia ai poveri e ai deboli di
tutto il mondo?"
Ci furono ancora attimi di silenzio. I suoi fratelli sembravano
partecipare al raccoglimento liturgico che l'uscita del messo postale
aveva creato. Il suo essere adolescente avvertì tutta la vulnerabilità che
un ragazzo può avvertire. Capì di essere escluso e di non avere
alternative.
Alla morte del padre, avvenuta un anno prima, Avanish aveva
avuto un forte risentimento ma la presenza della madre gli aveva
consentito di relativizzare la sua situazione. La scomparsa della madre
aveva creato intorno a lui il vuoto, il deserto, l'emarginazione reale.
"E gli altri? Possibile che nessuno si accorga di me?"
Il crollo della rete sicura degli affetti familiari lo aveva
abbandonato nel suo nido. E aveva abbandonato anche i suoi fratelli.
Dove si trovava Avanish, nel deserto degli affollati vicoli di Mumbai,
non c’era posto per la sofferenza degli altri. Inginocchiato, com’era,
continuò a dialogare con la solitudine, mentre i suoi fratelli tornarono a
rotolarsi per terra.
New York
"Non è morta!" Esclamò l'infermiere Thomas Benitez del
Coney Island Hospital di Brooklyn.
Tirò un sospiro profondo e aggiunse, "è ridotta male, però".
"Che previsioni si sente di fare?" chiese James con un filo di
voce.
"Non le so dire niente di più di quello che le ho detto. I medici
sostengono che si deve avere pazienza e aspettare"
"Aspettare che significa?"
"Aspettare, signore. Mi dispiace non possiamo fare altro".
"Quanto tempo?…giorni, mesi…" James avrebbe voluto
aggiungere anni, ma non lo fece per non accrescere il peso del suo
138
personale tormento.
"Mi dispiace ma, per il momento, non posso dirle altro che
aspettare", rispose Thomas Benitez.
"La curerete?"
"Certo, la signora Marita avrà tutte le cure del caso. Stia
tranquillo".
"Certamente…tranquillo…", ripeté James, trascinando le
parole.
"Lei è il marito?"
"No, non sono il marito", rispose James, dopo aver esitato
qualche secondo.
"Lei è un parente?" gli domandò allora Thomas Benitez.
"No, no. Non sono neanche un parente".
"Non è un parente?" ribadì sorpreso l’infermiere.
"Sono un amico", precisò James.
"Un amico", comunicò Thomas Benitez a David Scott, l’altro
infermiere che lo assisteva.
"Potrebbe aiutarci a rintracciare i parenti della signora?" chiese
di rimbalzo David Scott.
"Certo, i suoi due figli, ma sono piccoli", rispose prontamente
James.
I due infermieri accennarono un segno d’intesa.
"Non li fate spaventare…vi prego", aggiunse James.
"Ha un marito la signora?"
"Ce l'aveva…credo…non lo so".
James sussurrò le ultime parole. Era stanco. Visibilmente
stanco. E oltre a essere stanco, si sentiva affranto. Da mesi non vedeva
Marita e il giorno stesso in cui l’aveva rivista avrebbe potuto non
rivederla più. Il loro era uno strano destino.
"Ė colpa mia", pensò James nello stesso istante in cui evocò il
destino.
139
"Se non fosse stato per colpa della mia gelosia retroattiva,
Marita non si sarebbe trovata in quel letto di ospedale", avrebbe potuto
pensare ma non lo fece. Lo percepì nell’inconscio, però.
Sulla barella del pronto soccorso del Coney Island Hospital,
Marita giaceva riversa in posizione supina. Aveva escoriazioni
dappertutto, il volto tumefatto e il sangue che gli colava dal viso che
sembrava non volerne sapere di arrestarsi. Quelli che l’avevano vista
distesa sull’asfalto, avevano avuto l’impressione che per lei non ci
sarebbe stato nulla da fare. E anche James, dal lato opposto della
strada, aveva avuto la loro stessa sensazione. La flebile speranza che
l’infermiere del Coney Island Hospital gli aveva offerto, gli dava la
possibilità di riordinare le poche idee confuse che agitavano la sua
mente.
L’evoluzione sistematica del suo pensiero venne interrotta da
un agente della polizia, che lo invitò a seguirlo.
"E’ stato terribile!" esclamò James.
L’agente, ricostruì l’incidente insieme a James, poi uscì dalla
stanza, giusto al lato della reception. Qualche secondo dopo, uscì anche
James.
Riprese a pensare alle sue colpe: "Avrei potuto avere Marita,
ma l’ho lasciata andare".
A un certo punto, il peso della gelosia retroattiva era diventato
insostenibile. Marita non aveva potuto fare altro che abbandonarlo.
"Ho provato a ritrovarla, ma ho lasciato che il tempo
terminasse la sua folle corsa", sospirò con un filo di voce.
Avevano deciso di incontrarsi dopo mesi passati nella
freddezza e nell’assenza reciproca. James le aveva telefonato. Le prime
battute della loro chiacchierata erano state come da copione. Il
risentimento di Marita e le manie ossessive di James sembravano essere
svanite.
"Le scarpe che indossi sono nuove?" aveva chiesto James a
sorpresa
"No, non sono nuove. Non le indossavo da tempo ma non
sono nuove"
140
"Ti piacciono?"
"Sì, mi piacciono. Perché me lo chiedi?"
"Sai…le tue gambe tornite…ho pensato a quelle…ho pensato
alle scarpe".
"Strano!" aveva osservato Marita, guardando d’istinto le
proprie scarpe.
Poi, dopo avere esitato e distorto lo sguardo dai suoi piedi,
aveva aggiunto, "sono molto felice che tu mi abbia chiamato".
"Sicuro, quindi ti sono mancato", aveva azzardato James con
impertinenza.
"Sì, è così", gli aveva risposto Marita, irrigidendo i muscoli del
viso.
Aveva fatto una smorfia strana, di tensione, che James,
ovviamente, non aveva potuto cogliere. L’emozione che Marita riusciva
a stento a mascherare, le contorceva il viso.
"Nonostante il nostro ultimo penoso incontro", aveva
aggiunto Marita, abbozzando un sorriso
"Sì", le aveva risposto James.
"Davvero?" aveva chiesto Marita per avere nuovamente la
percezione del suo interesse.
"Sì, credo che la prospettiva di non vederti più mi abbia molto
spaventato".
"Perdere una donna con le gambe sode è una cosa così
dolorosa?" ribatté Marita in maniera ironica, per celare il suo evidente
imbarazzo. Intanto lui non perse più tempo e cambiό definitivamente
registro.
"E’ doloroso perdere te", le disse James, senza mezzi termini,
"ti dispiace che non te lo abbia detto prima?"
"No, ma non capisco perché dirmelo ora. Perché non prima?"
"Perché…", stava provando a spiegare James, quando venne
interrotto da Marita
"Si tratta di uno scherzo?" chiese lei, in maniera falsamente
141
ingenua.
"Ti sembra che stia scherzando?" rispose lui sempre più serio.
"Ma allora perché dirmelo solo adesso? Insomma…è difficile
per me da credere".
"Ma è la verità. Sto cercando di dirti cosa provo per te. Credo
che meriti di saperlo. Credo sia ora che tu lo sappia".
"Cosa?"
"Che provo qualcosa per te. Ti penso continuamente. A volte
mi manchi molto e…no, non solo a volte…spesso, mi manchi. Molto
spesso…"
Marita conosceva bene James e la fatica che aveva impiegato
per tentare di strappargli una semplice parola d’amore. Mise da parte
l’emozione e tentò di riprendere il controllo di se stessa.
"D'accordo. E adesso? Non so perché, ma questa storia non
mi convince. Tu non mi convinci", gli disse.
"Non ti convinco perché ti ho confidato di provare qualcosa
per te?" Le chiese in maniera arrogante.
"Ora ho capito. Mi stai mettendo alla prova?"
"No".
Marita continuava a sospirare, confusa.
amareggiata allo stesso tempo. Felice e incerta.
Lusingata
e
Dopo alcuni secondi di silenzio, rispose un semplice "OK,
bene…allora cosa facciamo?"
"Non lo so" le replicò lui, "potrei…accidenti. Non so da dove
cominciare".
"Prova ad iniziare da quello che senti", gli domandò Marita.
"Tu sei nel mio cuore. Sono emotivamente coinvolto in questa
storia e non farò mai niente che ti possa ferire. Te lo prometto!"
Lei replicò con un mormorio indistinto, facendogli capire che
avrebbe provato a fidarsi di lui. Il terrore che l’aveva accompagnata
alcuni attimi prima sembrava improvvisamente scomparso.
"Sta succedendo qualcosa di speciale tra noi. Tu lo sai. Non
142
lasciare che vinca la paura", le disse James per rassicurarla.
Fu un dialogo piacevole ma non durò a lungo. Decisero
finalmente di ritrovarsi per un caffè. Avrebbero parlato di loro stessi e
delle loro vita.
Una settimana dopo si ritrovarono, come avevano stabilito.
Sarebbe andato tutto come concordato se il destino non si fosse messo
di traverso.
"Ė colpa mia", sospirò James, davanti la porta del Coney Island
Hospital.
Si sedette sulla sedia verde, di plastica pesante. Sospinse il
busto indietro alla ricerca della posizione giusta. Il cappotto che non
aveva mai smesso di indossare si aprì sulle ginocchia. Infilò le mani in
tasca per chiuderlo nuovamente. Mentre lo stava facendo, sentì squillare
il telefonino. Nonostante avesse le mani in tasca, riuscì a rispondere
dopo soli due squilli.
"Tutto come previsto", gli confermò un uomo all’altro capo
del telefono.
"Ci sono stati problemi?"
"Tutto bene".
"Bene!" sentenziò James, mettendo giù la ribaltina del telefono,
per mettere fine a quel breve dialogo.
Apparve risollevato, come se fosse riuscito a risolvere una
situazione complicata. Si risistemò il cappotto sulle ginocchia e
sospinse nuovamente il busto indietro alla ricerca della posizione. La
sensazione di serenità finì inevitabilmente per scontrarsi con il dramma
di Marita che, con le poche forze rimaste, stava tentando di aggrapparsi
alla vita. Dopo quattro ore dal ricovero, i medici non avevano fornito
ulteriori particolari sulle sue condizioni.
"Non ho un dio al quale rivolgermi. Non l’ho mai avuto e non
mi sembra il momento di trovarmene uno. Non sarebbe corretto,
prima di tutto nei miei confronti. E poi….cosa dovrei chiedergli?"
pensò James, "che Marita possa sopravvivere?…ma non sarebbe giusto.
Deve essere il suo destino a definirlo".
James avrebbe accettato qualsiasi decisione il destino avesse
143
preso. Se il destino avesse decretato che Marita doveva sopravvivere
sarebbe stato felice ma, se il destino avesse optato in senso contrario,
non se ne sarebbe fatto un problema. Sarebbe ugualmente tornato a
casa, avrebbe riabbracciato la moglie e i figli. Non avrebbe raccontato
nulla di quello che aveva visto e vissuto quel giorno. L'incidente di
Marita sarebbe rimasto per sempre soffocato nella sua memoria.
"E’ stata solo casualità!"
Ripeté nella sua mente la versione data all’agente della polizia,
che lo aveva pregato di ricostruire l’episodio.
"La stavo aspettando dall'altro lato della strada. Lei stava
attraversando. Una Toyota nera l'ha presa in pieno e scaraventata a
quindici metri di distanza. Il conducente ha provato a frenare, non
andava neanche troppo veloce, ma non é servito a niente. Marita é
rimasta distesa sull'asfalto, sotto i miei occhi. Alcune persone si sono
radunate intorno al corpo. Uno di loro si é chinato per vedere se
respirasse ancora. ‘Bisogna fare presto’, ha detto. ‘Presto…presto…’,
hanno ripetuto gli altri, che gli erano accanto. ‘Un’ambulanza…
presto…presto…’, ho gridato io, mentre raggiungevo Marita, distesa
sull’asfalto".
"Si é chinato sulla signora per verificarne le condizioni?" gli
aveva domandato l’agente di polizia.
"No. Mi sono fidato delle sensazioni di quelli che lo avevano
fatto. L'ambulanza é giunta dopo soli cinque minuti. Sono scesi due
portantini e un dottore in divisa bianca. Non la toccate hanno intimato
a tutti noi che ci trovavamo vicino al corpo".
"E qualcuno l’ha toccata?" aveva chiesto l’agente.
"Nessuno l'ha toccata", assicurò James, "dopo pochi minuti
l’hanno sollevata delicatamente dall'asfalto e deposta sulla barella.
L'ambulanza è partita a sirene spiegate verso l'ospedale. Mi sono seduto
al suo fianco. Durante il tragitto, ho ripetutamente provato a
interloquire con il medico che l’assisteva. Ho chiesto quali fossero le
sue condizioni ma il medico, guardandomi di sfuggita, mi ha risposto
semplicemente ‘Vedremo’".
Ritornò con i suoi pensieri al presente.
"Se Marita dovesse morire, parteciperò ai suoi funerali.
144
Stringerò la mano ai suoi familiari".
Avrebbe rappresentato il suo dolore a quegli stessi familiari
che, in passato, si era rifiutato di conoscere.
"Non sarà difficile individuarli", pensò, "andrò nella stessa
direzione in cui andranno gli altri".
Nella sala accanto, intanto, Marita, ebbe un sussulto.
"Presto…", si sentì urlare un medico.
James rimase impassibile. Continuò a infilare i suoi pensieri,
sempre più lucidamente, come se quella situazione appartenesse a un
altro uomo.
"E se ai funerali di Marita non ci dovesse essere nessuno? Io
parteciperò comunque. Mi inventerò una riunione di lavoro. Poi andrò
al crematorio. Resterò lì fin quando il suo corpo non sarà stato
completamente bruciato. Lo devo idealmente a Marita. Ho posseduto il
suo corpo e sarà giusto vivere il momento in cui quel corpo si sarà
totalmente dissolto".
Ebbe un sussulto di umanità. Smise, per un attimo, di
pianificare il futuro, come un manager assuefatto ai suoi compiti.
"Darei qualsiasi cosa per vedere ancora Marita".
Trovò paradossale la sua esistenza. Quella mattina si era
trovato a desiderare contemporaneamente la sopravvivenza di una
persona e la morte di un'altra.
Bruxelles
Anche Enzo stava percependo la solitudine. Non era la prima
volta.
"Con te sono parte di un insieme. Senza, mi sento orfano di un
progetto di vita".
Quando si era scoperto omosessuale aveva avuto paura di dire
chi fosse veramente.
"Ho nascosto la parte più importante di me alle persone più
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care per paura di perderle".
Poi si era reso conto che agli altri fondamentalmente non
interessa né la verità né la libertà né la giustizia.
"Sono scomode e la gente preferisce adagiarsi nella bugia e
nella schiavitù" aveva detto a Jan, la seconda volta che si erano
incontrati.
"Ci si rotolano dentro come maiali", gli aveva risposto Jan.
"Come maiali…", aveva ripetuto Enzo.
Poi Jan si era fatto serio e lo aveva inchiodato alle sue
responsabilità.
"Anche l’omissione della propria condizione rappresenta una
forma di schiavitù".
Non ebbe bisogno di aggiungere altro perché Enzo, dopo
avere abbassato lo sguardo, ebbe la forza di fissarlo negli occhi.
"Dovrei fissare la gente negli occhi?" gli chiese.
"Dovresti dire chi sei veramente. Ascoltami, ne vale davvero la
pena conoscerti per quello che…"
"Per quello che…", lo interruppe Enzo.
"…Per quello che sei veramente, Enzo", aggiunse Jan.
Jan gli aveva indicato il progetto di vita, che avevano deciso di
condividere. Gli aveva restituito l’identità che la sua morte improvvisa
non gli avrebbe tolto. La sua eredità era fondamentalmente quella. Lo
aveva capito quando aveva provato a parlare delle sue sensazioni.
"Non mi interessano più gli intellettuali e i finti rivoluzionari
acclamati, accolti dalla società bigotta e ignorante. Mi interessano i
poveri cristi che si battono da soli, liberi da schemi e da dottrine, da
discussioni teologiche e da violenze inutili".
Aveva trovato conforto nella fede benché molti di quelli che
vivevano la sua condizione continuavano a pensarla diversamente.
"Continua a cercare mondi diversi, dove ognuno è qualcuno e
dove la libertà e la felicità esistono veramente", gli aveva detto Jan.
Da allora lui era filato dritto per la sua strada.
146
"La Chiesa vuol farci credere che il suo è l'unico universo
possibile. E chi si ribella finisce in un buco nero. Povero Dio che non
ha scelta e non ha colpe. Gli uomini hanno scelta e hanno colpe. È a
queste persone che bisogna ribellarsi. Dobbiamo avere dignità, non
essere inerti, non essere rassegnati. Dobbiamo provare a stropicciarci
gli occhi. Ne resteremo incantati… ": erano le parole di Jan, che nel
silenzio della propria solitudine, gli tornavano in mente.
"Le grandi tradizioni religiose hanno sempre condannato
l'amore omosessuale come una perversione della natura. I pensatori
religiosi sono convinti che l'orientamento eterosessuale sia universale e
che gli atti omosessuali siano comportamenti anomali, che
trasgrediscono una legge essenziale della natura umana".
"L'omosessualità, però, non è un orientamento scelto e stabile.
Non si può chiedere agli omosessuali di convertirsi", aveva risposto
Jan, "siamo membri del corpo mistico di Gesù. Abbiamo una dignità
intrinseca. Il Dio dell'universo, che ha creato una maggioranza
eterosessuale, ha ugualmente deciso di creare una minoranza
omosessuale. Io non mi lamento di fronte a Dio. Sono fiero dell'essere
che Dio mi ha dato".
"Con te mi sono aperto all'amore, praticando la reciprocità e la
condivisione".
Ma Jan non c'era più e non ci sarebbe più stato.
Si erano incontrati per l’ultima volta la sera precedente il suo
assassinio. Avevano cenato a casa di Enzo. Spaghetti con i peperoni
cruschi e olive verdi di Ferrandina. Avevano bevuto del vino e dopo
pranzo della grappa. Si erano abbracciati sul divano ma non avevano
fatto l'amore. Si erano baciati teneramente.
Mentre pensava agli ultimi soffi di vita insieme, Enzo si sentì
gelare il sangue. Avvertì un profondo senso di solitudine.
"Per la prima volta penso alle cose non dette e a quelle non
fatte".
Ripercorse a ritroso gli ultimi giorni. Erano stati difficili.
"Andiamo a casa mia", gli aveva chiesto Jan, sperando che
finalmente potessero vivere insieme.
Enzo, invece, aveva esitato.
147
"Vedremo…decideremo con calma nelle prossime settimane".
Jan aveva fatto buon viso a cattivo gioco. I tentennamenti di
Enzo gli risultavano incomprensibili ma aveva preferito evitare di
mostrare il suo disappunto. Enzo, tuttavia, lo aveva percepito
ugualmente.
"Lo annusavo nell’aria che respiravamo".
I minuti che seguirono il ritrovamento del cadavere di Jan
furono molto concitati. Enzo provò una forte nausea che lo spinse
sull’orlo del vomito. Provò anche un forte male di testa. Più volte
provò ad aggrondare la fronte per provare ad alleviare il dolore ma non
ci riuscì. Il dolore si attenuava ma poi ritornava anche più prepotente di
prima.
"Se solo riuscissi a dormire".
Ricordò che all’età di quattordici anni gli era capitato più volte
di provare nausea e senso di vomito.
"Mi capitava mentre avvertivo un senso di vuoto".
Maturando aveva sofferto meno.
"Vorrei tanto dormire".
Se ne andò a casa e si distese sul divano.
Intanto, il cadavere di Jan venne portato all’obitorio per
l’autopsia di rito, prima della sepoltura.
"Vorrei sotterrarlo in Germania", domandò suo padre.
Disteso sul divano, Enzo ebbe l’impressione di avergli fatto un
torto.
"Vivendo insieme lo avrei reso felice".
Avrebbe potuto ma non lo aveva fatto.
"Ora è troppo tardi".
Mentre lo pensava, il dolore alla testa divenne lancinante, il
senso del vuoto insopportabile. Eppure erano trascorse solo poche ore
dalla scomparsa del suo compagno.
"Temo che con il passare dei giorni, il dolore diventi sempre
più intenso e il senso del vuoto sempre più insopportabile".
148
Lo stesso senso di vuoto, che riempiva l’animo di Enzo colse,
in quegli stessi minuti, anche Eva, mentre faceva l’amore con il
napoletano. Erano andati a cena insieme. Avevano bevuto. Poi erano
ritornati nell’appartamento del napoletano, dove Eva si era data, per la
prima volta, per inerzia. Si era abbandonata al non amore, perdendo
quel poco di stima che nutriva verso se stessa.
"Il vino eccita sessualmente le donne, ma soffoca il desiderio
sessuale degli uomini", gli disse Eva.
"Come mai me lo stai dicendo?" chiese il napoletano.
"Non so perché te ne sto parlando", rispose Eva.
Probabilmente si trattava di un modo per dirottare la
conversazione sul sesso e fare andare avanti le cose. Un segnale per
dargli nuovamente il via libero per l'attacco. Il napoletano non rimase
molto turbato. Si limitò a cambiare argomento, come se lei avesse detto
qualcosa di sgradevole. Da quel momento in poi non riuscì più ad
abbozzare neanche un sorriso.
"L’altra volta morivi dalla voglia di avermi", gli disse Eva, dopo
avere constatato la sua reticenza ad agire.
"Non ti avevo mai avuta. Era diverso".
"Diverso, dici…"
"Per me, sì".
Il napoletano non aggiunse altro. Se avesse voluto trovare un
modo per farla sentire ulteriormente uno schifo, c’era perfettamente
riuscito. Aveva davanti una donna, più importante e socialmente elevata
di lui, eppure riusciva a umiliarla. Il peggio era che lei si lasciava
umiliare da quell’uomo repellente, come se dovesse pagare il dazio di
una colpa non sufficientemente espiata.
Da quel momento in poi, il napoletano iniziò a parlargli di suo
marito.
"Perfino a letto", osservò lei per frenarlo, ma non ottenne
alcun effetto.
Lui cercava di sfruttare ogni possibilità per metterla a disagio.
Pensò di averle fatto passare la voglia. Sembrava davvero schifato,
consapevolmente demotivato. Tuttavia, scoparono ugualmente come
149
due animali in calore. Lui non ce l'aveva molto duro. Così arrivò in
fretta. Si alzò dal letto e corse in bagno per fare una doccia.
Disse solo un freddo, "mi dispiace".
"Forse ti senti in colpa? E perché dovresti? Sono io quella che
dovrebbe avvertire il senso della colpa. Sono io che tradisco".
Dopo aver scopato, lui si diresse in cucina. Si accovacciò su
una sedia e iniziò a fare dei cruciverba. Non leggeva molto, ma era
bravissimo con i cruciverba. Eva, invece, si raggomitolò sotto le
coperte, cercando il calore che il napoletano gli aveva negato.
Ginevra
Ana si fece portare un porto rouge. Afferrò il bicchiere tra le
mani e lo tenne sospeso per alcuni secondi. Lo posò di nuovo sul
tavolo, evitando di bere. Si guardò intorno. Ebbe la sensazione di
trovarsi nel posto sbagliato con la persona sbagliata. Antoine la guardò
teneramente ma non disse nulla. Le prese la mano e gliela strinse. Con
l'altra mano le accarezzò i capelli. Ana abbassò lo sguardo e sorrise.
"Perché non mi hai chiamato?" volle sapere Antoine.
"Sai, il lavoro, mia figlia…", rispose Ana.
"Non ci vuole tanto tempo. Basta sollevare la cornetta…"
"Lo so…comunque, lo hai fatto tu. Ti ho sempre risposto,
no?"
"Non sempre"
"Quando non ti ho risposto?"
"È capitato più di una volta".
"Non ricordo".
"Non fa niente. L'importante è che ora io sia insieme a te".
Ana abbassò nuovamente lo sguardo.
Poi aggiunse: "Ho fame!"
"Mangiamo…", rispose Antoine.
150
"Se solo questo maledetto cameriere si avvicinasse", fece
notare Ana, girandosi sulla sedia alla ricerca di una persona qualsiasi
che potesse aiutarla a uscire da quella situazione imbarazzante.
Non si trovava affatto a proprio agio.
"Con te mi è sfuggita la razionalità della mia mente", sussurrò,
piegando lo sguardo.
Antoine aveva finito con il penetrare la sua cortina difensiva,
che aveva eretto a sua protezione da quando era finita la storia con
Javier. Era stato un muro invalicabile.
"Da quando mi sono separata fisicamente da mio marito, non
mi sono più fidata degli uomini".
"Del tedesco ti sei fidata, però", le disse Antoine, riferendosi
alla storia che Ana aveva avuto con Karl.
"Mi è capitato di fidarmi di Karl ma è successo quando la
separazione da mio marito era emotiva, non fisica".
"Poi ti sei fidata di me", aggiunse Antoine.
"Forse perché non ti ho mai visto come un uomo".
"Ti sei lasciata andare".
"Si ma da quel momento in poi tu sei diventato un uomo per
me e io degli uomini non mi fido".
Il muro aveva ceduto e la sensazione era che con lui non ci
sarebbe mai stata la possibilità di erigerne uno nuovo, in grado di
proteggerla.
"Degli uomini non mi fido", ripeté.
Seduta al tavolo, di fronte al suo porto rouge, avvertiva tutto il
senso della sua fragilità.
"Ho freddo".
"Ma che dici?" le domandò, sorpreso Antoine.
"Ho freddo", ribadì Ana.
"C'è un camino lì nell'angolo. Potremmo chiedere di cambiare
tavolo".
151
"No, non mi sembra il caso. Portami a casa. Ti prego".
Antoine fece una smorfia di disappunto.
"Non capisco cosa realmente vuoi. Dici di avere fame e poi
non vuoi mangiare. Ora il freddo…"
Non terminò la frase e non fece altre osservazioni. In fondo, il
cambiamento di programma poteva anche stargli bene. Desiderava fare
l'amore con lei e fin dall'inizio aveva considerato la cena come
un'inutile perdita di tempo. Alla fine, interpretò il freddo come un suo
prezioso alleato.
"Certo, ti porto a casa", le disse, alzandosi dalla sedia.
Si avvicinò il cameriere.
"Qualcosa non va, signori?"
"No, niente. Ho un terribile mal di testa. Ci scusi ma
preferiamo andare via".
Antoine non aggiunse altro. Il cameriere, invece, spostò con
raffinata educazione la sedia di Ana, permettendole di sollevarsi. Fuori
dal locale, Antoine abbracciò Ana, che si strinse al suo petto. Giunsero
nei pressi dell'Audi tre, parcheggiata nel piazzale antistante. Si
baciarono. In realtà non fu un bacio lungo perché Ana disse
nuovamente di avere freddo.
"Dove ti porto?" Ana volle sapere da Antoine.
"A casa tua. Ho voglia di fare l'amore con te".
"Ho freddo e ho un terribile male di testa", rispose Ana,
poggiando il capo sul volante della sua auto.
"Andiamo a casa tua, ti prego", domandò con dolcezza
Antoine.
"D'accordo. Ma non faremo l’amore. Mi parlerai dell'India".
"Io voglio fare l’amore e tu vuoi che ti parli dell’India?"
"Possibile che tu non riesca a capire che non devi implorare di
fare l’amore. Vuoi farlo, allora arriviamo a casa, mi sbatti contro il muro
e lo facciamo. Non devi chiederlo".
"E per fare l’amore, devo dirti che ho voglia di parlare
152
dell’India?"
"Si. Mi dici che hai voglia di parlare dell’India e poi, invece, mi
sbatti contro il muro".
"Come sei complicata, Ana!"
"No, non sono io a essere complicata. Sei tu che sei un
ragazzino".
"Non ho voglia di litigare. Io adoro parlare dell’India",
concluse Antoine.
Durante il tragitto dal ristorante a casa, non si scambiarono
nessuna parola, temendo inconsapevolmente che ogni sillaba avrebbe
potuto alterare l’equilibrio faticosamente raggiunto. Giunti a
destinazione, parcheggiarono l’Audi tre. Antoine aiutò Ana a scendere
dall’auto. Attraversarono i pochi metri che li separavano dal portone,
rimanendo abbracciati. Giunti a casa, però, la scena si modificò
improvvisamente, come se una mano invisibile avesse toccato le corde
emotive di entrambi. Antoine, per quanto desiderasse Ana, non riusciva
a fare alcun movimento, come se quella mano invisibile gli avesse
bloccato i muscoli. Se ne stava seduto sul divano con le gambe unite e i
gomiti poggiati sulle ginocchia. Una posizione strana che Ana fece finta
di non notare.
"Non sono a mio agio", disse Antoine, "sono stato felicissimo
di rivederti ma i tuoi comportamenti mi confondono".
Probabilmente lei non udì. Si trovava in cucina e il rumore
dello spremiagrumi si sovrapponeva alla voce di Antoine. Non rispose.
Antoine si guardò intorno. Il parquet scuro contribuiva in
maniera determinante a rendere il living caldo e accogliente. Fece caso
a tutte le venature e poi spostò lo sguardo verso l'alto. Il soffitto era
bianco, ma non di un bianco luminoso. Due lampadari di Kartell, di
plastica ruvida, pendevano attraverso un filo lungo di acciaio. Uno dei
due, di colore rosso, pendeva nella zona in cui erano collocati i due
divani, posti ad angolo retto, di pelle beige, e faceva pendant con il
tappeto, lavorato a mano con prevalenza di tonalità rossa. Nello spazio
lasciato libero dall'angolatura provocata dai due divani, si incastrava con
naturalezza un tavolinetto di vetro. Su di esso, Ana aveva collocato uno
stereo di piccole dimensioni e alcuni portacenere colorati. Si trattava
semplicemente di decorazione perché i portacenere restavano
153
costantemente intonsi. Ana non fumava e i suoi ospiti, se fumatori,
preferivano affacciarsi dalla splendida terrazza. Antoine ne vedeva
entrare il riflesso dalle vetrate, grazie al quale la stanza si illuminava e
lui riusciva a vedere la figura di Ana, il suo corpo gracile e i suoi lunghi
capelli.
"Non sono a mio agio e i tuoi comportamenti mi
confondono", ripeté con un tono leggermente più alto.
Dopo qualche istante, la gracile figura e i lunghi capelli si
trovarono a pochi passi da lui. Avrebbe voluto accarezzarli, come aveva
fatto la prima volta che aveva messo piede in quella casa, ma i suoi
muscoli non riuscivano a reagire. Erano bloccati.
"Raccontami dell'India", gli domandò Ana, ignorando
nuovamente le sue parole.
"Fantastica ma triste", affermò, allora, Antoine.
Ana spense la luce in cucina. Si avvicinò lentamente verso i
divani. Aveva in mano un piccolo vassoio di plastica sul quale aveva
deposto una tazza di caffè e un bicchiere enorme di succo d’arancia.
Posò il vassoio di plastica sul tavolinetto di vetro che quasi si incastrava
tra i due divani e si mise a sedere. Si posizionò di fronte ad Antoine,
che intanto stava seguendo tutti i movimenti della donna. Mentre lo
faceva, parlava: "Se non fosse stato per la lettera spedita a Madan, non
sarei tornato in India".
"Ma se l'India è da sempre la tua passione?" gli fece notare
Ana, sorridendo.
"È stato un porto d'arrivo e non pensavo potesse essere anche
un porto di partenza", rispose Antoine, poggiando la testa sullo
schienale del divano.
"Cosa vuoi dire, Antoine?"
"Se non fosse stato per Madan, non ci sarei andato. Non avevo
nessuna intenzione di andarci ma mi tormentava il peso di Madan. Non
era mai successo che non avesse risposto a un mio messaggio. A volte
non rispondeva subito, ma poi un segnale me lo inviava. Invece,
l'ultima volta che gli ho scritto non ho ricevuto alcuna risposta. Ho
provato a cercarlo ma nessuno sapeva darmi indicazioni precise".
"Non sapevo che questo Madan fosse tanto importante per
154
te", lo interruppe Ana.
"Neanche io lo sapevo", sostenne Antoine.
"E allora perché sei andato a cercarlo?"
"Perché in quei giorni mi stavo occupando di un dossier…sai
quello sui medicinali"
" E cosa centra Madan?"
"Apparentemente nulla. Nella sostanza, invece c'entra tanto".
"Antoine, sei sorprendente, sai? Quando ti ho conosciuto, mi
sei apparso un tipo tranquillo, finanche ordinario. Non avrei mai potuto
immaginare che fossi il genere di uomo da farsi trascinare in India per
investigare un dossier".
"Il tuo problema è che mi hai sempre osservato con
sufficienza, come se i tuoi quaranta anni ti dessero il diritto di infierire
su di me".
"Credimi, se tu riuscissi a guardarti con i miei occhi, faresti le
mie stesse osservazioni".
"Non esserne tanto certa".
"Lascia perdere…cosa c’entra il tuo amico indiano, allora?"
"Il dossier di cui mi stavo occupando…sai, c'era in ballo la
questione dell'accesso dei medicinali nei paesi in via di sviluppo. Negli
ultimi anni, il ruolo che il brevetto può avere nell'impedire o limitare
l'accesso alle cure nelle aree sottosviluppate è stato oggetto di un
acceso dibattito internazionale. L'accesso ai farmaci essenziali può
essere principalmente garantito dall'abolizione dei brevetti".
Ana lo lasciò parlare. Poi intervenne.
"Dall'altro lato, l'industria farmaceutica ritiene che il brevetto
costituisca un diritto irrinunciabile in quanto incentivo fondamentale
allo svolgimento di attività di ricerca e sviluppo".
"Che tipo di incentivi?" si informò ironicamente Antoine.
"Incentivi alla scoperta di nuovi e migliori presidi terapeutici".
indiano
"Ascolta, Ana", disse Antoine "l'anno scorso, il Parlamento
ha approvato una legge che, così come imposto
155
dall'Organizzazione Mondiale per il Commercio, introduce in India i
brevetti sui farmaci".
"Dove vuoi arrivare?"
"La verità è che la nuova legge ha impedito a milioni di
persone malate nei paesi più poveri di avere accesso a farmaci
economici e di qualità, a partire da quello contro l'Aids".
"Avrebbero potuto bloccare l’approvazione della legge, se,
come pensi tu, i risultati sono tanto terribili".
"La legge è stata approvata, nonostante la mobilitazione degli
attivisti di tutto il mondo, dall'India alla Francia, all'Africa".
"Devo ammettere che, negli anni scorsi, l'India abbia giocato
un ruolo essenziale nella produzione di farmaci generici di qualità ed
economici da esportare nei paesi in via di sviluppo".
"Non solo. L'India è stata anche il paese leader nel dibattito
sulle barriere all'accesso ai farmaci provocate dai brevetti nell'ambito
dell’OMC e ha sempre difeso la necessità di fare in modo che le norme
internazionali sui brevetti farmaceutici non ostacolassero la tutela della
salute pubblica".
"Ma, in quanto membro del OMC, a partire dal 2005, l'India
ha l'obbligo di rilasciare brevetti ventennali sui farmaci".
"La vita di milioni di persone che nel modo dipendono dai
farmaci indiani per potersi curare è così in pericolo", sentenziò
Antoine.
"Cosa c'entra Madan?" volle sapere, ancora una volta, Ana.
"Lasciami finire…"
"Scusami. Il tuo problema è che non arrivi mai al punto".
"Il tuo, invece, è di trattarmi con superficialità. Avresti lasciato
parlare chiunque non fosse stato Antoine".
"Antoine, l’altro tuo problema è la permalosità. Te l’ho detto
già, mi sembra…"
Antoine preferì continuare nella sua descrizione.
ruolo
156
"Il caso dei farmaci contro l'Aids è l'esempio più eclatante del
vitale svolto dalle industrie farmaceutiche indiane.
L'Organizzazione Mondiale per la Sanità stima che nei paesi poveri
almeno sei milioni di persone hanno urgente bisogno di terapie
antiretrovirali contro l'Aids. Oggi solo settecentomila persone ne
hanno accesso. A circa il cinquanta per cento di loro vengono
somministrati farmaci indiani. Prima che i farmaci antiretrovirali indiani
fossero largamente disponibili sul mercato internazionale, le terapie per
i malati di Aids costavano diecimila dollari l'anno per paziente, quaranta
volte di più del prezzo delle terapie indiane. I produttori indiani erano
anche stati i primi a realizzare formulazioni tre in uno che permettono
ai pazienti di assumere solo due pillole al giorno, invece, delle
sei/dodici di quelle che erano previste con i farmaci occidentali. Questa
semplificazione aveva rivoluzionato il trattamento dell'Aids nei paesi
più poveri. Tutto era stato reso possibile solo grazie al fatto che in
India non fossero in vigore i brevetti sui farmaci. In assenza dei
brevetti è stato infatti possibile combinare tre principi attivi in una sola
pillola. Con l'approvazione della legge indiana tutti i nuovi farmaci
sono stati coperti da brevetto e la fonte dei farmaci low cost si è
esaurita".
"Non mi hai ancora risposto. Cosa c'entra Madan?"
"Madan era malato di Aids ed è morto a gennaio del 2005".
"Mio Dio!" esclamò Ana.
Mumbai
Uno strano senso di vuoto nella casa. Avanish lo percepì forte
nel momento in cui il messo postale volle sapere di sua madre, Ekta.
"Non é la prima volta", notò il ragazzo.
Era successo anche dopo la morte del padre. Eppure quella
morte non era stata per nulla inattesa.
"Era malato di Aids e un giorno o l’altro sarebbe dovuto
morire".
Era come se Avanish si fosse preparato al senso del vuoto, che
sarebbe inevitabilmente giunto. E quando finalmente arrivò, Avanish
ritenne di essere pronto per affrontarlo.
157
"Sono forte, sono forte, sono forte", sussurrò tre volte
nell’attimo in cui il padre spirò.
Il male del padre era stato difficile da affrontare e avrebbe
segnato definitivamente la sua vita. Non lo aveva raccontato ai suoi
amici per non rompere l’incantevole meccanismo della perfezione della
vita. A quell’epoca, lui aveva un padre, una madre, due fratelli, una casa
e viveva una vita assolutamente adeguata alla sua età di adolescente. Il
padre aveva anche un lavoro, vendeva meravigliosi orpelli per i turisti,
che sognavano di riportare a casa un pezzo di India. Anche la madre
lavorava. La casa in cui abitavano non era grande ma abbastanza
confortevole. Avanish non aveva una camera tutta per sé ma andava
bene ugualmente. Giocava perché gli piaceva e studiava quando doveva
farlo.
La malattia del padre giunse improvvisa. L’uomo aveva appena
compiuto quarantacinque anni. In quel periodo aveva iniziato a
masturbarsi in profonde riflessioni sulla fine, sentendosi stranamente
vecchio, quando i primi dolori apparvero a inclinare il fisico, fino ad
allora perfetto. Se fosse nato in Occidente avrebbe potuto invocare la
lettura del De Senectute di Cicerone, per dare un senso al tempo che
passa. In realtà non ne ebbe bisogno e non perché fosse indiano,
quanto perché la vecchiaia per lui non sarebbe mai arrivata.
Il responso secco e definitivo del medico dell’ospedale giunse
inevitabile e inappellabile. L’uomo era malato e sarebbe certamente
morto. Nessuna via di scampo. Non avrebbe avuto tempo per
prepararsi alla vecchiaia, né per viverla. Il giorno in cui gli venne fatta
conoscere la sentenza morì per la prima volta. Avanish e i suoi fratelli
non si accorsero del dramma e continuarono a giocare. La madre, Ekta,
pianse ma li rassicurò.
"Tornerò presto a sorridere", rassicurò loro.
Infatti, l’uomo e sua moglie, pochi giorni dopo la sentenza di
morte, decisero che non sarebbe stato il caso di arrendersi facilmente.
Se proprio la morte avesse voluto l’uomo, allora avrebbe dovuto lottare
per averlo.
"Da domani, inizierai la terapia", gli promise Ekta, che aveva
parlato con il medico dell’ospedale.
"Spero ci possano essere i presupposti", precisò il medico.
158
Il riferimento del medico era ai farmaci antiretrovirali di cui il
marito avrebbe avuto bisogno.
"Cosa intende, dottore?" domandò Ekta
"I farmaci costano", rispose il dottore seccamente.
Purtroppo, per il marito di Ekta i farmaci non sarebbero stati
disponibili.
"Costano troppo e non possiamo permetterceli".
Del resto, pochi in India avrebbero potuto permetterseli.
Anche Avanish sapeva che senza medicine adeguate, la vita del
padre non sarebbe durata a lungo e la morte puntualmente si presentò
all’appuntamento. Da quel giorno, la sua vita cambiò in maniera
definitiva e drammatica.
"Non possiamo continuare a vivere nella casa in cui abbiamo
abitato finora", riferì Ekta ai figli, "dobbiamo andare via".
Sarebbero mancati i soldi che il padre portava a casa. Quelli
che la madre avrebbe guadagnato non sarebbero bastati per vivere in
quel quartiere. Si trasferirono dall’altra parte della città, dove la vita era
diversa, certamente più difficile. Mancava anche l’acqua e, a volte,
l’elettricità.
Nonostante stesse per conoscere i mille volti della povertà di
Mumbai, Avanish non avvertì il senso di vuoto che, solo dopo la
scomparsa della madre, si infilò nel suo cuore.
Fece amicizia con Maalai, una mendicante di Dharavi, che
aveva conosciuto il secondo giorno, dopo il suo trasferimento. La
bambina, nata con una malformazione alla mano a causa dei materiali
tossici usati per costruire le baracche, sopravviveva raccogliendo
l’immondizia nelle discariche.
"Mi aiuteresti domani?" aveva chiesto ad Avanish.
"Non l’ho mai fatto" aveva replicato Avanish.
"Non è difficile. All’inizio potrai osservare me".
"Ma a me non piace l’immondizia".
"Qui dovrai fartela piacere".
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Avanish era rimasto perplesso. Quando viveva a casa dello zio,
non aveva mai dovuto farsi piacere l’immondizia.
"Non so se ci riuscirò", aveva precisato Avanish.
"Dovrai pur sopravvivere", aveva concluso Maalai.
Avanish non aveva avvertito quel senso di vuoto neanche
quando aveva incontrato Faiza, la piccola prostituta che aveva
reclamato le rupie che aveva in tasca per fare l’amore oppure Udar, il
lebbroso, abbandonato per strada dai suoi genitori.
New York
Mentre si trovava, solo, nella sala d’aspetto del pronto
soccorso, James venne preso da uno strano senso di vuoto. Non lo
aveva mai provato prima. In realtà, lui avvertì solo una strana
sensazione che non riuscì a definire. Chi, però, avesse potuto percepire
quella strana sensazione, avrebbe senza dubbio detto che si trattava del
senso di vuoto.
La strana sensazione di James o la sensazione del vuoto per chi
avesse saputo definirla, durò alcuni minuti.
"È la percezione dell’assenza per la probabile morte di Marita
oppure il desiderio della morte di un bastardo?" si chiese James.
Sapeva, inoltre, che lui non si era solo limitato a desiderare la
morte di un uomo ma si era anche adoperato affinché avvenisse
realmente.
"Non è il momento di pensare agli altri, morti o vivi che
siano", ripeté a se stesso per uscire dalla situazione di empasse mentale
in cui si era andato a cacciare.
"Non posso restare qui a lungo", pensò nella sala d’aspetto del
pronto soccorso, "sono successi fatti troppo importanti".
Concluse che lo spiacevole incidente di cui era stata vittima
Marita rappresentava un imprevisto che andava accettato.
"E se quella strana sensazione fosse riconducibile proprio alla
paura dell’assenza di Marita?"
160
James rifletté.
"Non posso escluderlo ma solo il tempo potrà darmi delle
risposte".
Solo il tempo avrebbe potuto stabilire con certezza la natura di
quello strano malessere che lo aveva colto.
"Aspetto ancora trenta minuti e poi torno in ufficio".
Si adagiò sulla poltrona, sospinse il busto indietro e piegò la
testa sopra le ginocchia. Poteva riflettere e, nel contempo, evitare le luci
della sala d’attesa, che gli comprimevano le tempia.
"Le andrebbe un caffè?"
James sollevò la testa. Si trovò dinanzi la stessa infermiera, che
aveva accolto Marita al pronto soccorso. La riconobbe, guardandole le
gambe, tornite come quelle di Marita.
"Mi scusi, come dice?"
"Domandavo se avesse voglia di prendere un caffè".
"Certo…un caffè…"
"L’ho vista molto affranto…non possiamo fare altro che
aspettare…venga a prendere un caffè…ne ha bisogno".
James si alzò dalla sedia, sulla quale era rimasto inchiodato fin
dall’arrivo di Marita al pronto soccorso e si accodò all’infermiera.
Percorsero un corridoio lungo e giunsero nei pressi di un distributore
di bevande calde. L’infermiera tirò fuori delle monete. James ebbe un
sussulto.
"Mi permetta di offrirglielo".
L’infermiera sorrise e rimise in tasca le monete.
"Si vede che lei ci tiene molto a quella donna", insinuò
l’infermiera.
"Non riesco ad amarla ma non posso farne a meno".
"La contraddizione degli uomini è connaturato al loro essere".
"Non capisco…"
"Non potrebbe dare sfogo ai suoi sentimenti, piuttosto che
161
razionalizzarli".
"Vuole dire che la mia mente blocca il mio cuore?"
"Vedo che conosce la risposta".
"Non ci riesco".
"A me purtroppo succede il contrario. Ragiono con lo
stomaco, anche quando dovrei mettere in azione il cervello".
"Immagino…", sorrise James.
"Mi butto dentro storie che farei molto meglio a evitare.
Scelgo gli uomini sbagliati ed evito con una cura che, definirei
maniacale, quelli che potrebbero rendermi tranquilla".
"Forse perché la tranquillità non è proprio nella sua natura".
"Forse ma mi farebbe un gran bene".
"Allora, vede che può comprendermi. Mi dice di non lasciarmi
condizionare dalla ragione, di farmi guidare dal cuore e poi rimpiange
la tranquillità che non ha e che non potrà mai avere se dovesse
continuare ad agire d’istinto".
"Sì, ha ragione. Dico sempre di dovere scegliere la tranquillità
ma poi…mi succede che la noia della tranquillità mi uccide e torno a
vibrare…"
"Non sono facili le relazioni…non ci sono ricette…"
"Forse ha ragione lei…non ci sono ricette…"
Con il caffè ancora in mano, tornarono verso la sala d’attesa.
"E ora, cosa pensa di fare?" si informò l’infermiera, prima di
lasciarlo.
"Non vorrei che fosse troppo tardi. Vorrei continuare a non
poterne fare a meno".
"E iniziare ad amarla?"
"Non lo so. Vorrei non poterne farne a meno".
L’infermiera si allontanò.
James pensò a suo padre, morto l’anno precedente. Aveva
aspettato, insieme a sua madre, nella sala d’attesa del pronto soccorso.
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Il padre, colpito da un infarto improvviso, si era accasciato nella sua
camera da letto ed era stato condotto in fin di vita in ospedale. Aveva
provato a lottare contro la morte ma la sera era spirato.
L’attesa, che stava vivendo, era tanto simile, eppure tanto
diversa. Tornò a sedersi, con le braccia incrociate sopra le ginocchia e il
capo chino, per evitare che le luci potessero comprimergli la testa.
16 febbraio
Bruxelles
Il padre di Eva, Lajos, era nato in un piccolo paese, non
lontano da Bratislava. Veniva da una famiglia di contadini poveri. Era
entrato in politica giovanissimo, agli inizi degli Anni Sessanta. Non
aveva ancora compiuto diciotto anni. Prima nell'organizzazione dei
lavoratori, poi nel partito. Era rimasto per sempre legato al suo piccolo
paese. Eva, invece, adorava la città. Al paese c’era andata solo qualche
volta per visitare i nonni.
"Non capisco come si possa vivere in questo universo limitato
e ristretto per mentalità e natura".
Lajos si era sforzato, per tutta la vita, di essere vicino ai
problemi della sua gente. Era onesto. Avevo spirito di sacrificio.
"Credo che tu sia un esemplare quasi perfetto di socialista
cecoslovacco", gli faceva notare Eva.
Una volta era andato a trovarlo mentre lui era al ristorante con
alcuni suoi compagni di partito. Erano seduti in un posto laterale,
molto defilato.
"Perché qui?" voleva sapere uno dei suoi compagni, "il tavolo
dei dirigenti è laggiù".
"Cominciamo a comportarci da buoni socialisti", aveva
replicato fiero, Lajos.
Era fatto così. Un'altra volta, aveva assistito casualmente a una
conversazione tra due agenti. L'aveva raccontata, tornando a casa.
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Aveva ascoltato uno dei due.
"Per la tua richiesta di identificazione targa della vettura sotto
casa, sappi che si tratta dell'auto del funzionario Budnak".
L'altro aveva ribattuto, "Budnak? I pezzi grossi vanno lasciati
fuori. Pertanto, ho aggiustato il tuo rapporto. Da oggi non scriverai più
niente su di lui. Se dovessi vedere qualcosa, lo riferirai soltanto a me".
Il primo aveva piegato la testa, mentre l’altro aveva precisato.
"Aiuteremo un membro del comitato centrale a liberarsi dai
suoi avversari. Non occorre che sottolinei quanto siano importanti per
la mia carriera le informazioni che mi darai sul suo conto…e per la tua,
ovviamente. Se dovessimo scoprire qualcosa…"
Il secondo aveva provato a comprendere: "Noi abbiamo una
missione. Abbiamo giurato a suo tempo di essere scudo e spada del
partito".
Ma il primo non lo aveva neanche lasciato terminare,
tranciando subito il discorso e affermando seccamente: "I tuoi dirigenti
non sono l'anima del partito? Se uno di loro c'è grato, meglio per noi".
Era l'espressione di un'idea di partito socialista e di politica
socialista, che portava con sé il cinismo e l'ipocrisia di quella
generazione.
E la generazione di Lajos portava con sé anche il marchio di
parte del fallimento di quell'idea. Non tutto era stato come si sperava.
E molti ne avevano approfittato. Lajos, invece, non aveva approfittato
dei poveri che soffrivano fame e miseria, ma sapeva che bisognava
sopravvivere con la propria famiglia. I suoi figli avevano diritto a un
futuro migliore.
"Sarò io a mostrarvi il cammino da seguire. Voi siete ancora
troppo giovani per tracciarlo".
All'epoca, Eva non capiva cosa intendesse dire. Più tardi,
crescendo, avrebbe compreso sulla sua pelle il significato di quelle
parole. Erano state tanto rassicuranti da piccola, quanto minacciose da
grande. Lajos, d’altra parte, non aveva mai creduto a tutto quello che gli
avevano detto di credere. Aveva fatto finta, come tutti.
"Non ho mai creduto che l'organizzazione politica ed
164
economica dei paesi socialisti rappresentasse un modello valido e
funzionante. Nello stesso tempo, non ho mai avuto molti motivi per
lamentarmi. In fondo non stavamo tanto male", sosteneva.
Lo pensavano in tanti. E lui continuava a pensarlo anche ora
che esisteva la democrazia e che sua figlia era andata a Bruxelles.
Eva lo considerava un reazionario.
"Ti dovresti trasferire in Cina", gli ripeteva ironicamente, "da
quelle parti, il socialismo è riuscito a sopravvivere".
"Quello non è socialismo", ribatteva Lajos, "è solo forma. Non
è sostanza. Quella è sparita anche in Cina". E poi aggiungeva ironico:
"Semmai ce ne fosse veramente stata in passato".
Lajos aveva sempre avuto l’anima di un socialista realista. E il
suo sarcasmo non faceva altro che accentuarla. Quando iniziò a
occuparsi di politica credeva che i rivoltosi dell'Ungheria del 1956
fossero eroi che stessero lottando per la propria gente e per la propria
nazione. Mentre i comunisti occidentali ignoravano quello che stesse
succedendo e credevano profondamente che tutto quanto di negativo
fosse successo da quelle parti, fosse dovuto a errori e limiti umani.
Pensavano si trattasse di episodi accidentali. In Cecoslovacchia, invece,
si aveva piena coscienza di quella che potesse essere una lotta di
liberazione nazionale. Il socialismo era nell'aria che la gente respirava.
In Occidente, invece, era pura rappresentazione idealistica. Era questa
la differenza. Ci si limitava a vivere il proprio tempo. Non era concesso
altro da fare. In fondo, il sistema funzionava e i lati positivi
compensavano quelli negativi.
"Ci è stato dato quello di cui avevamo bisogno, il lavoro, la
casa, la vita sociale. Non si dovevano fare tanti sforzi per vivere".
"Io non ho mai avuto l'impressione di vivere in una società di
diritto con regole rispettate da tutti", gli aveva risposto Eva.
"Però, hai sempre avuto la percezione che, tutto sommato, una
vita dignitosa fosse assicurata a tutti".
"Non ne sono certa".
"Io, invece, ho un’altra sensazione. Sempre più forte. La vita
dignitosa condivisa di quei tempi non esiste più. Non ci sono più
lavoro, casa e sicurezza sociale per tutti. La libertà e il capitalismo
165
avevano promesso ricchezza e benessere per tutti. Nulla é stato
ottenuto. Non è nella natura del capitalismo arricchire i cittadini
indiscriminatamente. Al contrario! È la legge del più forte che regna".
"Per favore, papà, tappati quella bocca".
"Come nella giungla. Homo homini lupus", aggiungeva Lajos.
Allo stesso tempo, si rendeva ugualmente conto che le idee e le
parole che le generazioni precedenti collegavano ai propri desideri di
cambiamento rappresentassero ormai idee e parole svilite, vituperate,
infangate. Eva lo lasciava parlare, pur non condividendo le cose che
fingeva di sostenere.
"Il futuro sarà certamente migliore".
Non aveva esitato a impegnarsi anche lei in politica e poi a
partire per Bruxelles. I sentimenti che nutriva verso il padre erano
contradditori. Quanto il padre era un tipo preciso, tanto Eva era
mentalmente disordinata.
"Lui arriva sempre dritto al cuore delle cose. È come il ferro,
come l'acciaio".
Eva, invece, tergiversava.
"Ci sono mille parabole che mi inseguono e che io inseguo a
mia volta".
È difficile da decifrare, come se avesse una colpa da espiare.
"Se penso all'acciaio, mi viene in mente qualcosa di
indistruttibile, ma allo stesso ne percepisco la freddezza".
Eva é, invece, calore allo stato puro. Si scioglie nello sguardo di
un uomo. È passione, intensità, voluttà.
"Ma l'acciaio può battere pericolosamente un materiale
morbido e duttile. Mio padre é stato tanto potente e soverchiante da
trasmettermi il terrore di essere annientata".
Ginevra
166
Si erano lasciati senza neanche scambiarsi un bacio, ma il
pensiero di Ana non aveva abbandonato la sua mente. La sera in cui si
erano ritrovati a casa sua, l’evoluzione delle cose non era assolutamente
andata come Antoine avrebbe desiderato. Aveva preventivato una notte
d’amore, si era ritrovato a parlare di India e di morte. A distanza di
quindici giorni, i pensieri di quella sera ritornarono con prepotenza
nella sua mente. In India aveva perso un amico, a Ginevra aveva perso
la sua illusone d’amore. Ana lo aveva chiamato solo una volta.
"Al Parlamento europeo di Bruxelles è in atto un’indagine
conoscitiva".
"Potresti almeno dirmi perché hai deciso di sparire".
"Non ho molto tempo, scusami".
"Perché mi chiami, allora?"
"Perché potrebbe essere importante per te".
"Per me sarebbe più importante che mi spiegassi perché hai
deciso di sparire".
"Te lo spiegherò. Ora non posso dilungarmi, ascoltami…"
"Ti ascolto".
"Dunque, indagine conoscitiva al Parlamento europeo".
"OK! Vai avanti".
"Indagine conoscitiva sui brevetti dei medicinali. Tu li hai
studiati in profondità quando hai fatto lo stage alla OMC. Potresti
certamente essere utile a quella gente".
"E io che ci guadagno?"
"Ti potrebbe essere offerto un contratto temporaneo".
"Interessante?"
"E’ interessante, fidati! Da quelle parti pagano molto bene".
"Chi devo contattare?"
"0032…2…2875347".
"Lo farò", rispose svogliatamente Antoine.
167
Non aveva voglia di andare a Bruxelles e non aveva voglia di
lavorare al Parlamento europeo. L’esperienza fatta alla OMC era stata
sufficiente per consentirgli di odiare la tecnocrazia.
"Non intraprenderò mai questa strada", aveva promesso a se
stesso.
Tuttavia la questione dei brevetti lo intrigava. L’aveva davvero
studiata in profondità e la morte del suo amico Madan non faceva altro
che infondergli un ulteriore senso di rabbia.
"È un’ingiustizia che si compie, giorno per giorno".
Prima di buttare giù il telefono, implorò Ana.
"Non vuoi vedermi prima di partire?"
"Non ora", rispose lei.
"Perché?"
"Sono le cose della vita".
"Avrei diritto a capire".
"Capirai…con il tempo capirai. Ora non ha importanza".
Antoine interruppe la telefonata. Ana ritornò alla noia del suo
lavoro.
"La noia é la mia peggiore nemica. Perdo il controllo di me
stessa".
Ripensò a Javier, a quanto fosse meticoloso e materialista. Un
uomo che teneva molto alle sue cose e che non perdeva mai il
controllo. Quando lo conobbe, alla Bodeguilla, Ana non aveva ancora
compiuto diciotto anni. Lui la vide ballare.
"Avvertii il suo sguardo posarsi con forza su di me. Non
avevo mai percepito una tale pesantezza".
Antoine, invece, era stata leggerezza. Quel ragazzo francese
così riservato le sembrava avesse rotto i propri argini.
"Era come se fosse sceso dal suo piedistallo immaginario e si
fosse mescolato alla plebe".
Lei non aveva fatto altro che accoglierlo.
168
"Ho avuto un insegnamento molto rigido".
Sua madre, molto religiosa, le aveva insegnato a diffidare degli
uomini.
"Non farti mai vedere disponibile. Se lo farai approfitteranno
di te", le diceva, quando notava le timide occhiate degli uomini
scrutarla maliziosamente.
In realtà, da bambina non era lei la fonte d’attrazione della
famiglia ma sua sorella. La madre per prudenza avvertiva anche lei,
perché non le costava nulla ripetere due volte le medesime istruzioni.
"Ho sempre avuto un buon rapporto con Dio. Sono convinta
che mi volesse bene".
Non pensò mai di averlo deluso, nonostante il percorso della
sua esistenza avesse intrapreso una direzione che Dio avrebbe potuto
non approvare.
"Antoine non potrebbe capire. Ē troppo giovane e troppo
distante dalla mia cultura", ripeté Ana a se stessa ritornando alla noia
del suo lavoro.
2 marzo
Bruxelles
Chiese dove si trovasse il Parlamento europeo a un passante
con i capelli rossi.
"Non è lontano da qui. Vada fino al prossimo semaforo e poi
svolti sulla sinistra. Segua la strada fino in fondo. Troverà anche lì un
semaforo. Dovrà scendere sulla sinistra ma a quel punto non avrà
nessun problema a trovarlo. Il Parlamento europeo le si parerà
dinanzi".
Antoine ringraziò il passante con i capelli rossi e si diresse
lungo il percorso che gli era stato segnalato. Prima di giungere al
semaforo, si voltò indietro e fece un cenno di assenso al passante. Poi
lo salutò con la mano.
169
"Sarà certamente uno scozzese. Per la fisionomia ma anche per
l’accento".
Il passante aveva usato una terminologia bizzarra.
"Io non avrei mai detto ‘le si parerà dinanzi’", pensò Antoine.
Giunto a Rue Belliard si trovò di fronte il Parlamento europeo,
proprio come gli era stato segnalato dal passante con i capelli rossi.
Attraversò Rue Belliard velocemente e si diresse verso l’entrata.
"E ora dove vado?"
Si rese conto che le difficoltà di localizzazione stavano
iniziando. Non era stato difficile trovare l'edificio, molto più
complicato sarebbe stato trovare l'entrata. Da Rue Belliard se ne
intravedeva una che faceva ad angolo. Aveva l’aspetto angusto.
"Non può essere quella".
L’entrata che faceva ad angolo non corrispondeva di certo a
quella che si sarebbe potuta presumere essere l’entrata di una delle più
importanti istituzioni europee. Decise di soprassedere e di cercarne
un’altra più consona.
L’uomo, presunto scozzese, con i capelli rossi, non gli aveva
fornito indicazioni ulteriori. Gli aveva semplicemente detto che una
volta superato il semaforo si sarebbe trovato di fronte al palazzo che
stava cercando. Antoine si guardò intorno. Fece ancora una decina di
passi e intravide una larga spianata, che terminava con delle enormi
porte di vetro girevoli. Si guardò nuovamente intorno e avanzò senza
indugiare ulteriormente. Giunto nei pressi, si fermò. Attese qualche
secondo, sospirò e decise di entrarvi. Un giovane, filiforme, con la
barba e con lo sguardo attento gli si fece incontro.
"La reception, per favore", si informò Antoine.
"Proprio dietro di lei", precisò il giovane filiforme, con la
barba.
Antoine non poteva non notarla, eppure era brillantemente
riuscito a non scorgerla. Probabilmente era emozionato. Aveva preso
appuntamento con l’ufficio della parlamentare europea per le ore
undici e trenta.
"Non mi prenderà più di un’ora".
170
Dopo sarebbe andato a mangiare.
Non conosceva molti indizi sul membro del Parlamento
europeo che avrebbe dovuto incontrare.
Ana gli aveva semplicemente detto: "Si chiama Eva. È giovane.
È slovacca".
Antoine aveva in mano il voluminoso dossier sui brevetti, in
un folder di colore rosso, che aveva sotto il braccio destro.
Ripensò al momento in cui Monsieur Herbert glielo aveva
consegnato.
"Potrai trovarlo lungo, farraginoso e poco chiaro ma ti assicuro
che vale la pena approfondirlo".
"Di cosa si tratta?" si era informato Antoine.
"Si parla di malattie e di aspetti giuridici".
Antoine venne colpito dal nome apposto sulla copertina,
TRIPS, che in inglese significa anche viaggi.
Aveva considerato il viaggio la migliore rappresentazione del
suo modo di essere.
"Non riconosco alcun porto che possa essere sicuro".
Per questo cercava continuamente dei posti nuovi.
Quando Monsieur Herbert gli consegnò il dossier sui brevetti,
il suo primo pensiero corse, pertanto, al viaggio.
"A me piace molto viaggiare…", precisò.
Monsieur Herbert lo interruppe, "…il dossier non ha nulla a
che vedere con i viaggi. TRIPS sta per Trattato sui diritti derivanti dalla
Proprietà Intellettuale".
"Non ne ho mai sentito parlare", rispose Antoine.
"D’ora in avanti ne sentirai parlare spesso. Tradizionalmente, la
dicitura proprietà intellettuale indica un sistema di tutela giuridica dei
beni immateriali, che hanno una sempre maggiore rilevanza economica.
Ci si riferisce cioè ai frutti dell’attività creativa e inventiva umana, come
ad esempio le opere artistiche e letterarie, le invenzioni industriali, il
design e i marchi".
171
"Malattie e proprietà intellettuale. Che strano?", notò Antoine,
rileggendo il titolo del dossier, che si trovava tra le mani.
"Non te ne meravigliare, Antoine. L’incidenza di malattie quali
l’Aids, la tubercolosi o la malattia del sonno, influenzano
profondamente l’economia di un paese. Il Kenia, per esempio, ha
subìto una diminuzione del PIL dell’uno e cinque per cento, in seguito
alla decimazione della propria popolazione compresa tra i quindici e i
trentacinque anni".
"Un dramma…"
"Le emergenze umanitarie stanno diventando emergenze
strutturali. Il settantacinque per cento dell’umanità ha accesso al
quindici per cento dei farmaci mondiali. Mentre l’Occidente gode di
farmaci contro la calvizie, l’obesità e l’invecchiamento cutaneo, il Sud
del mondo non ha i farmaci essenziali per curare alcune importanti
malattie mortali. Ė vero che non ci si ammala per mancanza di farmaci.
La salute è anche legata a fattori economici quali l’acqua e le condizioni
igieniche, ma tre milioni di individui sono morti nell’ultimo anno a
causa di malattie curabili. Molti ammalati di malattie incurabili
avrebbero potuto vedere il loro tenore di vita migliorato, per non
parlare dei tredici milioni di orfani presenti nel mondo a causa
dell’Aids".
Antoine aveva scoperto, nel suo ultimo viaggio in India, che
anche il suo amico Madan era stato una delle vittime dell’egoismo dei
paesi occidentali.
"Tra i tredici milioni di orfani, ci sono anche i tre figli di
Madan", disse a monsieur Herbert, che non capì.
Da allora, il dossier rosso che aveva sotto il braccio era
diventato ancora più rosso, sempre più sporco di sangue.
"L’accessibilità ai farmaci salvavita é una questione complessa
che tocca i governi occidentali, gli interessi delle grandi multinazionali
farmaceutiche e le politiche di sviluppo economico", concluse
Monsieur Herbert.
Giungendo al Parlamento europeo, sentì il cuore stringersi. Era
emozionato. Ora ne aveva la conferma.
Rilesse l’appunto sulla copertina del dossier.
172
Il TRIPS sancisce i diritti della proprietà intellettuale dei
medicinali. Di fatto, per i venti anni successivi a un ritrovato
farmacologico, il prodotto può essere commercializzato solo dalle
industrie che detengono il copyright. Come se non bastasse, i venti
anni possono essere facilmente raddoppiati, cambiando leggermente la
composizione, la posologia o scoprendo che il farmaco sia in grado di
avere effetti anche su altri disturbi.
La protezione brevettuale eccessiva comporta un grave danno
ai paesi che di questi farmaci hanno un grandissimo bisogno e che non
possono pagare gli alti prezzi imposti dalle multinazionali
farmaceutiche.
New York
Era ancora distesa nel suo letto di ospedale, ma finalmente la
prognosi era stata sciolta. Marita non era più in pericolo di vita. L’aveva
scampata per un pelo. Non riusciva a parlare ma comprendeva
benissimo. Muoveva la testa e le mani. Riusciva a comunicare, benché si
trattasse di una comunicazione senza parole, forse, proprio per questo,
più efficace.
Erano le sedici e diciotto minuti del 2 marzo 2006. Dopo
quarantadue minuti, James sarebbe andato a trovarla. Ci andava ogni
due giorni, alle cinque del pomeriggio. Si fermava per oltre un’ora al
capezzale del suo letto. Le teneva la mano e comunicavano senza
parlare. Il maledetto incidente li aveva ravvicinati.
Nei quarantadue minuti che la separavano dal consueto
incontro, Marita ebbe modo di pensare al passato.
"Sono stata certamente innamorata. Forse, anche lui di me".
Passò velocemente in rassegna il suo rapporto.
"È stato proprio il passato a separarmi da lui. Non mi ha mai
accettato".
I tanti uomini che avevano avuto il suo corpo provocavano in
James un senso di rigetto.
"Non é mai riuscito a gestire le sue emozioni, benché più volte
173
mi avesse promesso di farlo".
A nulla erano valse le parole di Marita.
"Gli ho detto che ho baciato solamente altre due persone
prima di lui".
Era stato un modo per fargli capire che prima di lui aveva
veramente amato solo altri due uomini ma le sue parole non erano
servite a niente. Le troppe mani che l’avevano toccata, i membri,
giovani e vecchi, che l’avevano penetrata, lo sperma che lei aveva visto
troppe volte fuoriuscire, non potevano essere dimenticati.
"In fondo, posso anche capire le sue ragioni. Probabilmente, al
suo posto, avrei reagito alla stessa maniera".
Mentre, nella sua mente affaticata, si affollavano i pensieri,
James arrivò. Entrò in camera con delicatezza, sfiorando quasi la porta.
Marita sorrise e mosse entrambe le mani, accennando un saluto. James
prese la sedia, addossata alla parte, l’avvicinò al letto e si sedette. Le
prese la mano e la guardò intensamente. Si rese conto di avere voglia di
lei.
"L'amore, finché dura, é in bilico sull'orlo della sconfitta",
pensò Marita.
Sperava che il suo amore, mano a mano che avanzasse, potesse
dissolvere il proprio passato, lasciando alle spalle trincee fortificate in
cui potersi ritrarre e cercare rifugio in caso di guai.
Comunicarono senza parlare.
"Non so cosa possa riservarmi il futuro".
"Ho solo bisogno di avere la fiducia sufficiente per disperdere
le nubi e debellare l'ansia della crisi".
"L'amore é un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto e
imperscrutabile".
"Ciò non toglie che quando ci si innamora ci si illuda che possa
essere per sempre".
"Il legame di coppia rappresenta, nel modo più puro e acceso,
il desiderio di eternità. Costituisce l'esigenza di superare i limiti e
l'indeterminatezza di una persona, ma non solo. Rappresenta anche la
voglia di superare la contingenza delle cose per poterne fissare i confini
174
nell'eternità".
"Il tradimento rappresenta in modo esemplare, lo scetticismo
nei confronti dell’identità dell’uomo. Si disperde nel mondo esterno,
ingabbia gli uomini nella propria maledetta precarietà. Ci fa capire
come tutto sia vacuo. È un pugno nello stomaco".
La prima volta che James aveva tradito la moglie, però, non fu
per noia, ma per rabbia.
"Avvertivo una sorta di regressione adolescenziale unita
all'esigenza di sedare il mio rancore verso la donna in quanto tale".
Un turbinio di emozioni si era innescato nella sua anima.
"Sentivo il bisogno di incontri nei quali armonizzare lo scarico
delle pulsioni libidiche con il bisogno di dare e ricevere tenerezza ed
affetto".
Il giorno che incontrò casualmente Marita nel ristorante di
Brooklin, dove lei faceva la cameriera, il suo quadro psicologico era del
tutto impreparato alla nuova situazione.
"Con te ho varcato la soglia del tradimento con tutta la rabbia,
il risentimento e la furia di cui fossi capace".
Non erano soltanto i suoi quotidiani sbalzi di umore a
muovere l’adrenalina dentro di lui, ma altro. Aveva radici più profonde.
Il suo rancore atavico verso la madre, che aveva abbandonato il padre,
fuoriusciva incandescente dalle sue vene.
"Ho finito per scagliare quel rancore contro di te, colpevole ai
miei occhi di essere la donna sulla quale avrei potuto riversare la mia
rabbia, attraverso una spirale di gelosia retroattiva".
La vita gli stava offrendo un’altra possibilità.
"Questa volta non me la farò sfuggire".
Promise a se stesso che non avrebbe sprecato la sua seconda
possibilità.
"Sono stato superficiale ed egoista. Non ripeterò gli errori che
ho fatto".
Guardò fuori dalla finestra. Non era ancora calato il buio
benché le luci della città fossero già intense.
175
Bruxelles
"Dovrei farle conoscere un funzionario di nome Enzo
Faramelli", disse Eva ad Antoine.
"Perché?" rispose Antoine.
"Se oggi sono qui con lei è perché questa persona ci ha messo
in contatto. Voglio dire…non lei direttamente…ma senza la sua,
diciamo… intermediazione non ci saremmo incontrati".
"Non ci saremmo mai incontrati?" chiese Antoine, sorpreso.
"Non ne avremmo avuto motivo", replicò Eva.
Antoine faceva fatica a capire. Accigliò la fronte, come faceva
di solito, quando le cose non gli apparivano chiare. Eva si rese conto di
essere stata assai criptica. La sua spiegazione necessitava di una
esplicitazione più convincente.
"Sono stata contattata dal signor Faramelli poche settimane fa.
Io sono a capo della Commissione sanità del Parlamento e mi occupo
della riforma della legislazione farmaceutica. Il signor Faramelli mi ha
trasmesso un dossier".
"Un dossier? Che tipo di dossier?" volle sapere Antoine.
"Le spiego tutto dall'inizio".
"Bene!"
"Deve sapere, ma forse lo sa già, che a Bruxelles agiscono oltre
mille gruppi di interesse. A volte si tratta di associazioni di piccole
dimensioni, spesso avulse dalle preoccupazioni generali della gente.
Altre volte di grandi e potenti gruppi di pressione".
"Lobby, intende?"
"Gruppi di pressione, lobby…le chiami come vuole. Sono stati
capaci di far passare di tutto, dal divieto di vendere mele sotto un certo
calibro a esenzioni fiscali per particolari business, dal diritto di definire
cioccolato un materiale fatto con il grasso di jojoba e non con burro di
cacao".
"Le definirei massonerie".
176
"Le ripeto, le chiami come vuole. Diciamo allora che si tratta di
massonerie di ogni genere, poteri forti e poteri occulti. Hanno assunto
quindicimila lobbisti con il compito di diffondere i loro interessi ed i
loro diktat che ricadono inevitabilmente sui cittadini".
"Se la legge lo consente, non c'è niente di male", aggiunse
Antoine.
"La legge lo consente. Ha ragione! A volte, però,
predispongono accordi quasi segreti".
"Non mi stupisce".
"Beh, le ho riferito tutto questo per farle capire che il signor
Faramelli mi ha fatto presente uno di questi accordi semi-segreti".
"E come potrei aiutarla? Io sono stato stagiaire alla OMC, ho
viaggiato ma sono completamente estraneo a qualsiasi tipo di
associazione".
"Lo so. Non si preoccupi", gli rispose Eva, sorridendo.
Il sorriso di Eva rassicurò Antoine.
"Avevo bisogno di un aiuto ed ho telefonato alla OMC. Una
funzionaria mi ha segnalato il suo nome ed eccoci qui a discutere",
precisò Eva.
Antoine sorseggiò il caffè che Eva aveva fatto portare.
Continuò ad ascoltare la giovane parlamentare europea.
"Ho iniziato il mio mandato da quasi due anni".
La sua nuova attività era scaturita da un impegno politico nato
per caso, più per contrastare il predominio paterno che per reale
convinzione personale. Eppure l'idea della nuova Europa l'aveva
conquistata, benché Bruxelles non corrispondesse per niente al suo
ideale di città.
"È molto diversa da Bratislava".
Sul Danubio, Eva ci andava per svolgere i suoi allenamenti di
kayak. A pochi minuti dal centro della città, in un angolo disperso, nel
nulla della landa desolata slovacca. Il paesino che stava a mezz'ora di
cammino, il più vicino, era un ammasso di casupole semidistrutte. In
una di queste casupole si fermava a mangiare per meno di ottanta
corone. Piatto unico con dolce e vino bianco. Di quelle giornate, ad
177
Eva era rimasto il colore rosso del sole che l’accecava.
"Quando tornavo dall'Austria, al passaggio della frontiera, ero
subito colpita dal colore rosso intenso. Mi fa dimenticare in fretta il
grigio di Bruxelles".
Tutto è grigio a Bruxelles. Grigio il cielo quando è bel tempo,
grigia è la strada, grigie sono le case e grigi sono i vestiti delle persone
che vi risiedono. Grigia è anche l'erba che ti trovi sotto i piedi, quella
poca salvata dagli ammassi di blocchi cementificati, che hanno fatto
sprofondare la città in un buco nero di cemento e catrame.
"Grigio é anche il mio sentimento, quando passo la frontiera
per prendere l'aereo a Vienna".
Il rosso della sua Slovacchia risplende sui cartelloni pubblicitari
che si trovano lungo la strada, colorati, di merce americana. Il primo
anno, dopo la caduta del muro di Berlino, erano due, il secondo
quattro, il terzo otto e via di seguito, in una continua crescita
consumistica, che continua ad avanzare sempre più velocemente.
"La gente di Bratislava vuole recuperare gli anni persi sotto il
socialismo".
Intanto, mentre si recupera il tempo, i prezzi corrono, anche
quelli sempre più velocemente.
"All'inizio, i costi erano irrisori per tutto. Per esempio, nei
ristoranti sembrava quasi che la gente volesse pagarti per un piatto
unico con il dolce e il vino bianco".
Eva era nata nel centro di Bratislava.
"Carino, a parte gli omini di ferro, così inquietanti, che ti
osservano dal tombino o mentre sei seduto su una panchina".
Non sono dei bei monumenti. Eva se li era ritrovati anche a
Bruxelles.
"A Place Sainctaclette ce n'è uno di bronzo molto bizzarro".
Si tratta di un poliziotto che esce dal tombino e che afferra un
ladro per una gamba.
"Quando li vedevo a Bratislava, pensavo fossero stati messi dal
regime socialista per farci capire che, qualunque cosa facessimo, il
grande fratello ci osservasse".
178
In Slovacchia c'erano ancora gli altoparlanti, usati per avvisare
che iniziava o finiva il coprifuoco o per impartire ordini.
"Ora sono lì che gracchiano qualche vecchia canzone".
Al padre, vecchio socialista, gli altoparlanti piacevano.
"Ha sofferto il giorno in cui gli abbiamo detto che la sezione
del partito avrebbe chiuso. Ha conservato la tessera e nessuno avrebbe
potuto portargliela via".
E nessuno lo avrebbe fatto. Forse nessuno avrebbe neanche
avuto voglia di farlo.
"Mio padre pensava che il giorno in cui avrebbero chiuso la
sezione non sarebbe mai arrivato".
Tutti lo pensavano.
"Invece arrivò anche quello. ‘E’ finita, Lajos!’ Disse il
compagno segretario della sezione. ‘Come finita?’ Rispose mio padre.
‘E’ finita per davvero. Da domani si cambia.’ Non voleva crederci. Il
monumentale partito comunista chiudeva bottega. E per un muro che
veniva abbattuto. ‘E poi quel muro di chi era? Era forse nostro?’
Continuava a ripetere, in maniera quasi ossessiva".
L’uomo di acciaio, freddo, capace per anni di celare qualsiasi
sentimento, aveva lasciato trasparire, per la prima volta, una vera
emozione.
"Il muro caduto ha significato anche il via libera per me. Lui ha
provato a trattenermi ma non c'é riuscito".
"Proverò a chiamare il mio amico Pavol, vedrai lui riuscirà a
trovarti un buon lavoro. Vedi, tua sorella l’abbiamo sistemata", le diceva
il padre.
Ma Eva non voleva.
"Ero troppo orgogliosa per lasciarmi sistemare da lui. E poi
non volevo rimanere ingabbiata in quel mondo. C’era altro e c’era di
meglio. Ne era convinta!"
Antoine era rimasto ad ascoltare.
"Perché mi racconta la sua vita?"
"Perché voglio che sappia che di me si può fidare".
179
"Non capisco. Francamente non capisco".
"Capirà che si tratta soprattutto di una questione di fiducia".
Mumbai
Ekta se ne era andata via per sempre. Morta per la stessa
malattia che aveva colpito il marito. Molto probabilmente era stato
proprio lui a contagiarla. Prima di morire cercò di affidare i suoi tre figli
allo zio, fratello di suo marito.
"Ci mandi via perché temi che io possa contagiarti. Dopo la
mia morte, riprendi i miei figli", lo aveva implorato Ekta.
"Sono malati anche loro, Ekta", le aveva detto il cognato,
rifiutando l’offerta.
"Non lo sono".
"Lo sono, Ekta. Non voglio che contagino i miei figli".
"Ti prego".
"Mi dispiace! Non posso", le aveva risposto seccamente il
cognato.
Dopo la morte del fratello, pretese che tutta la famiglia
abbandonasse la sua casa.
Ekta provò a resistere fino all’ultimo giorno.
"Mi dispiace! La mia casa non è un sanatorio. Non posso
assolutamente permettere che i miei figli possano correre dei rischi",
concluse il cognato.
Aggiunse che comprendeva le sue difficoltà.
"Allo stesso tempo, ti prego di capire le mie ragioni".
Ekta non disse nulla. Ritornò nella sua casa, benché sentisse
che le forze iniziavano a mancarle e che non ci sarebbe stato un lungo
percorso da compiere davanti a lei. Parlò con suo figlio, Avanish, la sera
stessa.
"Oramai sei un uomo. Sarai tu il padre e la madre dei tuoi
180
fratelli".
"No, non ne sono capace".
Era stato orgoglioso quando aveva ricevuto l’investitura da
parte della madre di fare da padre per i suoi fratelli, ma ora la madre gli
chiedeva di compiere uno sforzo troppo grande per lui.
"Ho quindici anni. I miei amici non fanno queste cose".
"Dovrai farlo. Devi promettermi che lo farai", gli disse la
madre.
"Non ne ho le forze".
"I tuoi fratelli potrebbero morire se tu non te ne occuperai".
"Moriranno ugualmente come morirò io".
"Non pensarlo".
"Come posso non pensarlo. Nostro padre è andato via l'anno
scorso, quest'anno tocca a te. A chi toccherà l'anno prossimo?"
Ekta non rispose. Il dolore per la sua malattia non era tanto
grande quanto il dolore di vedere il figlio in pena.
"Ho accettato la morte di nostro padre con rassegnazione. Ora
dovrei accettare anche il dolore per la tua morte?"
"So che non sarà facile".
La vita dopo la morte del padre era stata difficile. Le poche
provviste, che avevano avuto dallo zio il giorno del congedo erano
finite.
"Ho l’impressione di essere stato risucchiato da un buco nero,
sempre più nero e sempre più profondo. Un buco che sembra non
avere più un limite di fronte al quale potersi arrestare".
Il dialogo tra Ekta e il ragazzo terminò in un lungo silenzio.
"Prendi i secchi che si trovano per terra, al lato della porta di
entrata, e vieni con me", disse Avanish al più grande dei suoi fratelli,
"devi imparare come prendere l'acqua".
I due uscirono per strada e si incamminarono verso la grande
fontana. La sorella più giovane rimase in casa con la madre. Lungo la
strada, quando ormai mancavano poche centinaia di metri alla fontana,
181
incontrarono Udar.
"Hey, Udar!" urlò Avanish.
Udar gli sorrise e gli fece segno di avvicinarsi. Se ne stava
appoggiato al muro, un bicchiere di carta usurato con alcune rupie
davanti e un vecchio cartone bianco sotto il culo.
"Sto andando a prendere l’acqua", lo informò Avanish.
"Allora devi andare all’altra fontana", gli suggerì Udar, "le
ultime gocce le ho viste scorrere questa mattina".
"Maledizione!" esclamò Avanish.
Era stanco e non aveva voglia di camminare ma non poteva
fare altrimenti. In casa era finita anche la riserva di acqua che,
normalmente, sua madre conservava.
"Ne approfitto per salutare Faiza", pensò.
La sua giovane amica viveva in una baracca, vicino la fontana.
Era stato Abhik a trovargli quel rifugio.
"Torna a casa", disse a suo fratello, "vado io solo a prendere
l’acqua".
Giunse nei pressi della baracca di Faiza. La porta era
socchiusa. La spinse ed entrò.
"Chi è?" la sentì urlare.
"Avanish!"
"Non entrare", ribatté Faiza.
Avanish, che era già entrato, fece alcuni passi indietro e ritornò
sull’uscio. La baracca di Faiza aveva due ambienti. Nel primo si
perdevano, dispersi negli angoli, una serie infinita di stracci, nel
secondo, invece, c’erano solo un materasso ricoperto da un panno
bianco e due sedie di legno.
"Aspetta, Avanish", aggiunse Faiza, dopo qualche secondo.
Avanish rimase sull’uscio, in attesa che Faiza gli desse il
permesso di entrare. Si mise sdraiato per terra. Faceva caldo più del
solito e senza acqua non avrebbe resistito a lungo. Dopo pochi minuti,
vide uscire un uomo, né giovane né vecchio che lo guardò senza
182
rivolgergli la parola.
"Entra, entra…", gli ordinò Faiza.
Avanish si sollevò da terra e si precipitò in casa. Trovò Faiza,
vicino al letto, che si stava rivestendo. Sulla sedia poche rupie.
"Non c’era acqua all’altra fontana", le disse Avanish.
"Non mi sorprende. Non c’è quasi mai".
"Sono passato a salutarti".
"Hai fatto bene, Avanish. Mi fa sempre piacere vederti".
"Anche a me", le sussurrò Avanish.
"Dai, avvicinati…", lo invitò Faiza ad avanzare, sgranando i
suoi enormi occhi neri.
Avanish andò a sedersi vicino a lei.
"Resta un po’ qui, anche se Abhik non vuole che perda
tempo".
"Perché?"
"Vuole che lavori".
"Capisco".
"Ma domani, nel pomeriggio, devo andare a trovare mia
madre. Se vuoi, puoi venire con me".
"Certo, domani pomeriggio", promise Avanish.
"Ora vai, però…"
Avanish si alzò dal materasso e si avvicinò alla porta.
"A domani"
"A domani", rispose Faiza.
New York
Emer Brok era incazzata ma non poteva fare altro che
aspettare.
183
"Vorrei rientrare prima a casa. Mia figlia ha la febbre".
"Devo necessariamente vederti", le manifestò James, "fatti
trovare nel mio ufficio esattamente alle otto".
James abbandonò l'ospedale alle sei, come faceva di solito.
Fece chiamare un taxi e si diresse verso la sede di Axa. Durante il
tragitto, l’immagine di Marita, immobile nel suo letto di ospedale, si
alternava alle sue strategie di mercato. Ripercorse mentalmente la
discussione che aveva condotto alla decisione di agire sulla
regolamentazione.
"Bisogna combattere il sistema delle licenze obbligatorie e
allungare il periodo di protezione brevettuale. Ecco la nostra soluzione.
Né innovazione né marketing delle malattie, né pubblicità né articoli su
riviste scientifiche. Dobbiamo agire dal lato della regolamentazione
focalizzando l'attenzione sul mercato europeo".
James riprese fiato, poi aggiunse: "vedete, per esempio, quello
che è successo in India a causa di un farmaco per la terapia
dell'Aids…"
"Dobbiamo agire dal lato della regolamentazione e sotto
traccia", aveva precisato Antony Vitale.
"Dobbiamo iniziare dall'Europa. Non possiamo venire allo
scoperto nei paesi in via di sviluppo perché potremmo attirare
l'attenzione della stampa mondiale" aveva suggerito Emer Brok.
"Certo! Dobbiamo agire con discrezione. Il mercato europeo
ci interessa particolarmente. La nostra quota è intorno al due per cento.
Non è male", aveva risposto James.
"Non è male. Potrebbe andare meglio", aveva risposto Emer.
James le aveva chiesto di presentare il quadro della situazione,
utilizzando alcune slides.
184
•
Molte leggi che regolano il sistema dei brevetti, concedono le licenze
obbligatorie, in una varietà di situazioni.
•
Gli accordi TRIPS stabiliscono disposizioni specifiche che devono
essere seguite se una licenza obbligatoria é rilasciata.
••
Tutti
i sistemi
brevetto
conformi
ai requisiti
L'accordo
TRIPSdiconcede
che devono
le istanzeessere
per una
licenza obbligatoria
dell'accordo
TRIPS
possano essere revocate in particolari situazioni, in casi particolari di
emergenza nazionale o di estrema urgenza in casi di uso pubblico non
commerciale.
•
Sebbene l'accordo TRIPS permetta la concessione delle licenze
obbligatorie, le Nazioni spesso mancano della tecnologia per
adempiere una richiesta locale. Pertanto non risulta possibile, produrre
i farmaci e importarli.
•
Questa istanza fu indirizzata nella Dichiarazione di Doha, che
riconobbe il problema e richiese al TRIPS Council di trovare una
soluzione.
•
Axa Pharmaceuticals deve fare pressione per ammorbidire
l'applicazione di questa dichiarazione e ridurre gli effetti sul bilancio.
Inoltre, deve fare pressione sugli organismi internazionali per
allungare il periodo di protezione del brevetto.
*******Manca numero di pagina 165
"Occorre agire sulle organizzazioni internazionali e iniziare
un'opera persuasiva", aveva concluso Emer.
James aveva successivamente individuato e ripartito i compiti.
"Io mi occuperò di fare pressione in Europa. Emer, invece,
185
coordinerà il lavoro al livello del TRIPS Council. Antonhy, farà qualche
missione nei paesi che più ci interessano. La lista la stabiliremo nei
prossimi giorni, sulle basi delle indicazioni economiche che ci verranno
fornite".
La sua regressione si interruppe quindici minuti dopo, quando
giunse in ufficio. Erano esattamente le otto. Emer lo stava aspettando.
"Io dovrei andare, James. Sai…mia figlia…"
"Certo, Emer…scusami ma volevo che da questa sera fosse
chiara la nostra strategia. Non possiamo più perdere tempo. Axa non
ha alternative. È una questione di vita o di morte…per noi e per
l'azienda".
"I conti sono in rosso. Ormai, lo sanno tutti".
"Dovevano restare segreti".
"Impossibile farli rimanere segreti".
"Si, lo so. Credevo che non avrebbero fatto sapere i dati reali".
"Infatti, non mi riferisco a quelli".
"E allora come fai a saperli?"
"Ti ripeto, li sanno tutti".
"Ma tutti chi?"
"Io, Anthony e Francis".
"Tu da chi li hai saputi?"
"James, per favore…ti basta sapere che li so".
"OK, OK…comunque, se i dati dovessero essere confermati,
rischiamo di saltare tutti, io per primo, ovviamente".
"Immagino…"
"Non abbiamo altra scelta".
"Se ti riferisci alle decisioni prese, condivido".
"Beh, sappi che la decisione è stata resa esecutiva".
"Te lo hanno comunicato".
"Certo! La strada dovrebbe essere spianata".
186
"Credi?"
"Credo di sì".
"Sei troppo ottimista".
"Allora, cazzo, perché avremmo dovuto farlo?"
"Perché non avevamo scelta ma questo non significa che la
strada sia spianata".
"Va bene, voglio dire…abbiamo riconquistato margini di
manovra".
"Lo vedemo".
"Emer, non è un gioco".
"È un brutto affare, James".
James scosse la testa.
"Vado James…", disse Emer.
"A domani", le rispose James.
Bruxelles
Dalla posizione in cui si trovava Antoine, non riusciva ad
osservare il cielo. Avrebbe dovuto piegarsi sulla sedia per farlo e,
probabilmente, non avrebbe visto che uno squarcio.
"Per caso sono stato implicato nella
l'industria farmaceutica. Avevo iniziato il mio
speranza di approfondire alcuni aspetti
internazionale. Non pensavo assolutamente
d'industria farmaceutica".
questione che riguarda
stage a Ginevra con la
legati al commercio
di dovermi occupare
"Chi glielo ha proposto?"
"Ana De La Fuente mi ha proposto di occuparmene e io ho
accettato. Leggendolo, ho trovato il dossier molto interessante".
"Ana De La Fuente?"
"Si, Ana, mi ha detto che lei poteva essere interessata a me".
187
"Possiamo darci del tu", propose
"Certo".
"È stata lei a segnalarmi il tuo nome".
"Era il mio consigliere di stage".
"Telefonai all'OMC alla ricerca di informazioni e lei mi
propose di parlare con te. Mi disse che te ne eri occupato in profondità.
Avevi fatto un lavoro molto utile per l'istituzione".
"Non avrei mai immaginato di rimanerne tanto colpito".
"Lo hai fatto per delle ragioni particolari?"
"Sono stato colpito dalla vicenda capitata a un mio amico.
Preferisco non parlarne ora".
"Capisco".
"Mi fa molto male pensarci".
"Non è necessario che ne discutiamo".
"Non ora".
"Che idea ti sei fatto?"
"L'accesso ai prodotti farmaceutici a prezzi accessibili nei paesi
in via di sviluppo sarebbe essenziale per ridurre la povertà, aumentare
la sicurezza umana e promuovere i diritti e lo sviluppo sostenibile".
"Ritieni che la politica dell'Unione europea debba
massimizzare la disponibilità di prodotti farmaceutici a prezzi
accessibili nei paesi poveri?"
"C'è bisogno di adottare con urgenza misure supplementari
per trasferire le tecnologie nel settore dei prodotti farmaceutici".
"Posso
interrompere
la
discussione?"
domandò
sommessamente l'assistente di Eva, una ragazza giovane, anch'essa
slovacca.
"Entra, entra…", le disse Eva.
"Avresti un appuntamento tra dieci minuti. Sono già arrivati.
Ti aspettano…"
"Certo…", rispose Eva.
188
"Se deve andare, possiamo riprendere quando vuoi….", le
propose Enzo.
"Vorrei solo chiarire alcuni aspetti".
"Quali?"
"Il meccanismo creato dalla decisione OMC e dal protocollo
sull'accordo TRIPS rappresenta solo una parte della soluzione al
problema costituito dall'acceso ai medicinali".
"Credo sia il punto dal quale si debba obbligatoriamente
iniziare. Sono indispensabili altre misure. Bisogna sostenere la
trasparenza da parte dei richiedenti del brevetto".
"Appunto! Questo è il tema principale. Io sono stata allertata
da Enzo Faramelli. Sembrerebbe che ci sia in atto un tentativo di
corruzione da parte di un'industria farmaceutica nei confronti di alcuni
alti funzionari della Commissione. Enzo Faramelli non può denunciare
il fatto perché il suo capo è direttamente coinvolto".
"Perché non si è rivolto alla polizia?"
"Si tratta di un caso non semplice da risolvere. Occorre
un'iniziativa politica".
"Dovresti spiegarmi quello che è successo".
"Lo farò ma ora non posso"
"Prima di tutto bisogna davvero capire come funzionino le
cose".
"Occorre un'indagine, Antoine".
Eva si alzò dalla sedia e strinse la mano ad Antoine.
"Ora devo proprio andare", gli disse.
Antoine raccolse le sue cose e uscì dalla stanza.
189
ANNO 2007 – LA PENA
31 gennaio
Bruxelles
"L'imputato si alzi".
La voce del giudice riecheggiò nell'aula. Seguì un trambusto di
sedie che permise all'accusato di alzarsi. James non si sentì affatto
tranquillo. Quando il giudice disse: "Portatelo via", le due guardie che
gli stavano vicino, lo presero sottobraccio. Lo condussero in una cella
piccola e con poca luce. C'erano un letto e uno sgabello. Non poteva
guardare fuori poiché il finestrino era molto in alto e lo sgabello non
era sufficiente a raggiungerlo. Cominciò a trascorrere il suo tempo
infinito.
"Le notti sono buie e silenziose e io dormo senza sogni",
scrisse all’alba, "i giorni passano e non ricordo più bene nemmeno
come sia fatto fuori".
Iniziò a rendersi conto che senza sogni non sarebbe stato
possibile immaginare un futuro diverso.
"Anche la fantasia non vola più. Tutto sembra tetro, grigio e
maledettamente uguale a se stesso".
Si affacciò sulla sua angoscia e vide un abisso. Comprese la sua
condanna, senza, tuttavia, comprenderla del tutto.
"Ho la sensazione marcata della noia. Il sole non illumina mai
la mia cella".
Per molti giorni venne disturbato dall'assenza dei sogni.
Un giorno, nel cortile, calciò un sasso che finì lontano. Poi la
rabbia lo assalì e gli montò dentro come la lava di un vulcano. Pianse,
di rabbia e le sue lacrime gli bruciarono le guance. Non poteva più
amare Marita. Né sarebbe stato più amato da lei. Ebbe una sensazione
terribile di soffocamento.
190
"Ho perso definitivamente i miei sogni e le mie illusioni. Se
solo potessi tornare indietro".
La sua maledetta gelosia retroattiva lo aveva allontanato da lei,
che lo aveva amato con tutte le sue forze.
"Non sono riuscito ad accettare il suo passato tetro".
Tuttavia, il buio della sua cella, per contrasto, gli faceva
apparire quel passato meno oscuro.
"Tutti gli uomini che hanno approfittato del corpo di Marita
mi sembrano più lontani. Tutti indistintamente".
Erano stati centinaia, forse migliaia gli uomini che avevano
fatto l'amore con lei, alcuni solo velocemente, altri esplorando e
percorrendo il suo corpo in ogni minimo dettaglio.
"Marita lo ha fatto per soldi, non per amore. Non avrebbe
potuto amare mille uomini".
Nella vita ci si innamora al massimo tre volte gli aveva detto, la
sera in cui aveva provato a convincerlo di amarla.
La donna con le gambe tornite, che aveva acceso la sua
fantasia, era giunta negli Stati Uniti dal Portorico quando aveva solo
sedici anni.
"Mi fu sufficiente un solo giorno di permanenza a New York
per comprendere fino in fondo il mio destino", gli disse.
Inizialmente vi andò incontro con naturalezza.
"Non mi importava vendermi, mi gratificava il guadagno".
Poi cominciò ad annoiarsi e decise di smettere, senza smettere
fino in fondo.
"Dopo i primi tre anni di soggiorno, iniziai a vendermi per
scelta, solo a chi mi piaceva".
Dopo la nascita del suo primo figlio, smise di vendersi del
tutto.
"Avevo guadagnato abbastanza e potevo finalmente svolgere
un lavoro normale".
Iniziò a lavorare nel ristorante in cui James l'avrebbe incontrata
191
qualche anno dopo. Prima di cominciare aveva dovuto concedersi solo
una volta al suo boss, ma non le era costato molto perché ritenne di
averlo fatto per una giusta causa. Non ne fu neanche completamente
dispiaciuta. Il suo boss successivamente non le chiese più di averla e lei
si chiese sempre il perché.
"Forse non le piaccio abbastanza o forse non ho saputo dargli
molto".
Il giorno in cui James la incontrò, Marita non aveva fatto
l'amore con nessuno. Anzi, erano quasi tre mesi che non faceva più
l'amore. Non avvertiva neanche la necessità di farlo.
"Ero serena e la conversazione con James mi divertì".
Non poteva immaginare di avere colpito l'immaginario erotico
di James con le sue gambe ben tornite.
"L'incontro con lei fu un'attrazione puramente erotica",
ricordò James.
Marita, invece, ne apprezzava le maniere. Eleganti, dolci da
gentleman. Anche la sua prima telefonata si innestò lungo questo
percorso.
"Marita, gradirei molto invitarla a cena. Mi piacerebbe potere
approfondire la discussione iniziata al ristorante", le disse James con
delicatezza.
"Accetto con molto piacere", rispose Marita.
Da allora si sviluppò un turbinio di passioni che James fu in
grado di gestire solo per qualche settimana. Dopo subentrò la gelosia
retroattiva.
"Non mi importava nulla che lei avesse deciso di dedicarsi
completamente a me, nonostante fossi sposato".
Marita non avrebbe preteso nulla, se non il suo amore, ma
James non volle concederglielo.
"Il suo passato mi tormentava".
Marita non glielo aveva nascosto, benché glielo avesse fatto
comprendere poco alla volta. Avrebbe voluto prepararlo, ma il suo
sforzo non diede i risultati sperati.
192
"Avrei anche potuto nascondere il mio passato. Anzi, sarebbe
stato perfino legittimo".
Alla fine non si sentì di farlo.
"Un amore come questo non può avere angoli nascosti. Ha
bisogno della luce del sole per poter risplendere. Altrimenti, non
dovrebbe esistere".
Il giorno in cui James comprese fino in fondo il passato di
Marita, a New York faceva quasi caldo. Una leggera brezza proveniva
dall'Atlantico. Marita aveva le finestre del suo appartamento spalancate.
James la stava osservando e lei si lasciò andare.
"Per la roba che ho visto, era inevitabile che sarei diventata una
puttana. Sapevo che avrei avuto un po' di assistenza ma non sarebbe
stato abbastanza. Io, invece, volevo una posizione. È così che funziona,
no?"
James ascoltava.
"Ho sempre vissuto a Brooklin. Certo non è Manhattan ma
non è male. A molti di quelli che sono arrivati con me è andata
decisamente peggio. C'è il tramonto più bello fino a quando ti accorgi
di non essere parte di quel tramonto".
"E allora che fai?"
"Hai bisogno di liberare la mente. Sono una maestra del
travestimento, muovendomi velocemente nelle strettoie riconosco che
non ho davvero niente da nascondere".
"Non hai mai avuto paura?"
"Mi ricordo quando ci spaventavano, quando ci venivano
dietro. Una volta dicevano che stavano cercando di prenderci ma
hanno preso quelle sbagliate".
"Chi cercava di prendervi? Non capisco".
"La polizia. Voleva rispedirci nelle nostre baracche ma non ce
l'ha mai fatta. Sono cresciuta con gente che odiava, proprio sotto il mio
stesso tetto. Non c'era mai cibo, né il whiskey. Non c'era la penicillina.
Mia sorella, una volta stava commettendo un omicidio vendendo
droga…questa è stata la mia vita".
James ascoltava il racconto concitato e disordinato di Marita.
193
Non era facile seguirla nei suoi voli pindarici. Era chiaro che quella
donna avesse un passato molto diverso dal suo. Marita finì per
raccontargli tutto, dal suo arrivo negli Stati Uniti e del sesso consumato
dappertutto, dapprima con chiunque fosse disposto a pagarla, poi solo
con chi fosse disposta a concedergli qualcosa in più. Gli raccontò
anche del lavoro trovato al ristorante e dell'amore preteso dal suo boss.
Marita descrisse ogni dettaglio, anche quelli che avrebbe potuto
continuare a custodire, senza che la sua coscienza potesse sentirsi
profanata. Lo fece con leggerezza, benché utilizzasse espressioni forti.
"L'uomo che mi ha portato qui, mi ha messo in un club, gli
piacevano quelle senza un quattrino. Guardava mentre mi scopavano,
mentre lui ne scopava altre. Solo quando il gioco diventava corrosivo,
lui tornava verso di me".
"Ora capisco perché fosse cosi difficile per te baciare",
affermò James.
"Certo! Puoi dare il tuo corpo a chiunque, ma baciare lo riservi
solo alle persone che ami", replicò Marita.
"Perché hai impiegato tanto tempo a baciarmi?"
"L'amore richiede tempo, tesoro. Per avermi si deve avere
pazienza".
"Ma che dici? Di quale pazienza parli? Ti ha avuto quasi tutta
New York!", esclamò James, con irritazione.
Marita piegò la testa e poi rispose: "Non capisci
niente...niente", e scoppiò in un lungo pianto.
James si avvicinò verso la finestra, guardò le luci della città che
sembravano risplendere con un'intensità che non aveva mai visto
prima. La prese tra le braccia senza dire nulla. Marita rimase stupita dai
suoi atteggiamenti. Si sentiva attaccata e desiderata allo stesso tempo.
Fecero l'amore, poi si lasciarono. I giorni successivi furono diversi da
quelli precedenti. Marita avvertì un distacco progressivo da parte di
James. Volle sapere se l'amasse ma lui non rispose.
"Allora non vale la pena che io ti veda", annunciò Marita.
Non reagì più ai suoi messaggi e alle sue telefonate. Il loro
comune obiettivo fu attendere che la fiamma della passione si
spegnesse lentamente. Finirono per ritrovarsi solo dopo un anno.
194
"Decidemmo di incontrarci per pranzo al Joe’s Tokyo
restaurant di Tribeca".
Sushi e sashimi per James, tempura per Marita, che odiava il
pesce crudo. All'appuntamento, James giunse in orario, Marita, invece,
in ritardo. Lei lo vide, alla fermata della metropolitana e cercò di
raggiungerlo. Provò ad attraversare velocemente la strada che lo
separava da lui. Non vi riuscì. Una Toyota grigia che proveniva in senso
contrario, la prese in pieno, non riuscendo a frenare che dopo dieci
metri. James seguì l'intera vicenda dal posto in cui si trovava e corse
verso di lei. Anche altri corsero verso Marita. L'autoambulanza
sopraggiunse velocemente. Venne trasportata nell'ospedale più vicino al
luogo dell'incidente. Sembrava morta.
"Avvertii una profonda tristezza e un forte risentimento verso
me stesso".
Gli stessi sentimenti che ora provava nel cortile del carcere in
cui era rinchiuso, esattamente un anno dopo aver rivisto Marita.
"Ho cercato di resistere alle voci di dentro, ma alla fine ho
mollato".
Troppo forte erano i suoi sentimenti nei confronti della donna
per consentirgli di accettare il suo passato. Rinchiuso nel carcere, Stava
avvertendo tutto il peso dei suoi errori.
"Ho ancora mia moglie e i bambini. Mi sono rimasti loro".
Benché il cortile fosse di dimensioni medie, si mise a correre
forte, come se, correndo forte, fosse possibile tornare indietro. Infine
cadde in ginocchio, singhiozzando, rivolgendosi ai suoi dei.
Si era preso gioco dell'amore e ora non avrebbe più potuto
amare. Aveva rigettato il suo amore per Marita ed aveva provocato la
morte di una persona.
"A cosa mi serve più questa vita? Forse mia moglie, i miei
bambini…"
Cadde nel buio. Rientrò nella sua cella e si buttò sul letto.
195
New York
Aveva ripreso a camminare, sebbene ancora non
correttamente. Zoppicava leggermente e l'andatura, claudicante, la
rendeva riconoscibile da lontano.
Alle due e mezzo, decise di fare una passeggiata. Indossò il
cappotto e uscì di casa. Faceva ancora freddo. Giunta in strada,
sbottonò il primo bottone in alto per permettere all'aria fresca di poter
raggiungere la sua pelle. Tirò fuori dalla tasca una busta ed estrasse un
foglio di carta:
Marita,
un lampo gelato ha cambiato il mio modo di vedere le cose finora. Penso
sempre di potermi abituare alle situazioni, di svegliarmi al mattino e di ritrovarmi
accanto a te. Come sempre, come ti aspetti che succeda. No, non dare mai per
scontate le persone che ami. Giri lo sguardo e la persona che ti ha accompagnato
fino a quel momento può non essere lì con te ad attendere una nuova alba. In
questa gabbia in cui mi sono rinchiuso, ho visto tutti i momenti stupendi che mi hai
regalato. Li ho rivisti, credimi! Ho sentito ancora le stesse emozioni che, però, sono
solo eco delle sensazioni che sei riuscita a farmi provare. Semmai, Iddio vorrà
concedermi ancora qualche attimo di vita con te, vivrò a fondo ogni momento che
passeremo insieme. È una promessa! Forse, quegli attimi non arriveranno mai.
Muoio al pensiero di non avere più un domani in cui svegliarmi accanto a te.
Inutile mentire per tenertelo nascosto. Ora posso solo conservare ogni singola
frazione di tempo che porterà impressa il tuo nome.
La rilesse ancora una volta.
No, non dare mai per scontate le persone che ami. Giri lo sguardo e la
persona che ti ha accompagnato fino a quel momento può non essere lì con te ad
attendere una nuova alba.
Durante la sua degenza, James era stato in ospedale ogni
pomeriggio.
Comunicavano senza parlare.
"Speravo che quei momenti potessero rappresentare l'inizio di
una nuova vita insieme. Non ho mai creduto che potesse abbandonare
la moglie e i figli e non mi interessava neanche che lo facesse. Avrei
voluto che fosse riuscito ad accettarmi per quello che ero, una donna
196
innamorata", rifletté Marita.
In quell’istante non ricordava bene, ma aveva l'impressione che
James, nel letto dell’ospedale, le avesse sussurrato di amarla. Lo avrebbe
fatto quando lei non aveva ancora completamente ripreso tutte le sue
funzioni.
"Sei l’angelo della mia vita. L’unico che abbia amato".
Non era certa che James avesse pronunciato quelle parole ma
le piaceva pensare che lo avesse fatto.
Erano trascorsi tre mesi e dodici giorni dal giorno in cui lo
aveva visto per l'ultima volta, nei pressi del Moma Museum.
"Non ricordo il nome del caffè".
James era apparso teso. Discussero di tappeti.
"Che ne dici di prendere in affitto un loft a Soho?" Aveva
proposto James
"…e magari
ironicamente Marita.
ricoprirlo
di
tappeti?"
Aveva
risposto
"Perché no! Potremmo andare noi due direttamente a Fes a
comprarli…magari nella medina".
"Un viaggio insieme a te? Non ci posso credere", aveva
replicato Marita, con la stessa ironia, che aveva mostrato in precedenza.
Poi aveva aggiunto, con tono ironico: "Ne abbiamo sempre
parlato ma non lo abbiamo mai fatto".
"Non mi sembra una cattiva idea iniziare da Fes".
"Sei sicuro che non sia pericoloso andare in Marocco?"
"Potrebbe esserlo per me che sono americano", precisò James,
sorridendo.
"Non ridere. Non credo che gli americani siano ben accetti da
quelle parti".
James le spiegò che il Marocco é un paese arabo moderato e
che non avrebbero avuto problemi.
"È un'esperienza che vorrei tu facessi", disse James a Marita.
197
"Perché?"
"Per saltare in un universo completamente diverso dal nostro.
Vorrei che tu visitassi la medina di Fes. Non puoi immaginare quanti
vicoli che si intersecano…un labirinto…"
"Perché vuoi che visiti una medina?"
"Perché è vivace, animata, proprio come nel Medioevo".
"E perché vuoi che sia proprio quella di Fes?"
"È la medina più bella che io abbia mai visto. È la parte più
vecchia della città. Un tempo ospitava la più antica università del
mondo. Era il tempo della dinastia dei Merinidi, quando era la capitale
del regno del Marocco al posto di Marrakech. I monumenti principali,
le locande, le carovane di cammelli che venivano dal deserto e che
trasportavano argento e spezie, i fundkus, i palazzi, le moschee, le
fontane, quasi tutto risale a quel periodo".
Marita fece un cenno di assenso. Poi volle sapere dei tappeti.
"Ne ho in mente tanti di quelli che ho visto a Fes. Vedrai, ti
piaceranno".
Marita ripeté il cenno di assenso, senza capire fino in fondo
cosa James le volesse dire. Si lasciarono poco dopo avere bevuto un
cappuccino e una tazza di thè alla menta, che James ordinò per fare
gustare a Marita l'odore del Marocco. Uscendo dal locale, presero
direzioni opposte.
"Non potevo immaginare che avremmo percorso strade
parallele che si sarebbero incrociate solo all’infinito".
Il giorno seguente, James venne arrestato dall'Interpol. La
magistratura belga aveva spiccato un mandato di cattura nei suoi
confronti. I capi di accusa erano particolarmente gravi.
"È stato accusato di essere il mandante dell'omicidio di un
uomo, avvenuto a Bruxelles un anno fa".
Gli agenti lo prelevarono nella sua abitazione all'alba. James
non diede l'impressione di essere sorpreso. Sua moglie, invece, rimase
frastornata e lo fu per molto tempo.
"Dove si trova il Belgio?" si informò.
198
"In Europa", le risposero.
"In Europa, ci va per affari".
"Evidentemente non solo per quello".
Bruxelles
La prima volta di James a Bruxelles fu a causa
dell’appuntamento con Jeroen Van Boxem, direttore generale del
dipartimento industria della Commissione europea. Riforma della
legislazione farmaceutica aveva scritto nella sua agenda.
Discussero a lungo.
"La riforma della legislazione é destinata ad apportare vantaggi
concreti ai pazienti e ai consumatori europei, nonché alla salute degli
animali, in un contesto caratterizzato dalla rapidità dei progressi
scientifici in campo farmaceutico", precisò il direttore generale,
sollevando lo sguardo.
James si sforzava di mostrare interesse. Era stanco. In aereo
non era riuscito a dormire se non per un paio di ore. Si era girato e
rigirato sulla sua poltrona in business class, senza riuscire a soddisfare
la sua stanchezza.
"In fondo, il direttore generale non dice nulla di interessante",
pensò.
Quindi, avrebbe potuto divagare ma non gli sembrava il caso.
"Devo sforzarmi di tenere gli occhi aperti".
Pertanto, annuiva. Lo faceva con cadenza regolare e seguendo
una procedura quasi liturgica. Il direttore generale parlava, lui accigliava
lo sguardo per alcuni secondi, poi rilassava i muscoli del viso, sfociando
in un sorriso abbozzato, accompagnato da un lieve movimento del
capo dall'alto verso il basso. Le mani le teneva incrociate, il busto dritto.
"La revisione si propone due obiettivi fondamentali, la
necessità di garantire un elevato livello di protezione della salute ai
cittadini europei e il completamento del mercato interno dei prodotti
farmaceutici".
199
Venne interrotto da un rumore sordo, proveniente dalla porta
di entrata. Qualcuno stava bussando. Smise di parlare di legislazione
farmaceutica ed esclamò in francese: "Venez, venez".
Entrò una signora di mezza età. Bionda, probabilmente tinta,
non alta, sottile in vita e dai fianchi larghi. Enzo Faramelli si voltò
repentinamente, anche James lo fece.
"Venez, venez", ripeté il direttore generale.
La bionda, probabilmente tinta, sorrise. Avanzò lentamente,
attenta a non fare cadere il vassoio di legno, che aveva tra le mani. Sul
vassoio, cinque bicchieri di plastica, due grandi termos, alcune bustine
di zucchero, altre di thé. Lo posò con grazia sul tavolo.
"Merci, merci", ringraziò il direttore generale.
Ripeteva sempre due volte, come se una non fosse sufficiente.
Dopo aver predisposto i termos, i bicchieri di carta, le bustine
di zucchero e di thé sul tavolo, la signora tinta bionda fece ritorno sui
suoi passi ed uscì.
"Per favore, potresti versare del caffè?", sollecitò il direttore
generale ad Enzo.
Enzo eseguì.
"Io preferirei un thé", disse James.
Enzo avvicinò il termos dalla sua parte del tavolo. James lo
versò nel bicchiere.
Intanto, il direttore generale, prima ancora che James iniziasse
a bere, riprese il discorso, laddove il rumore sordo provocato dalla
porta, lo aveva interrotto.
"Dobbiamo promuovere la competitività dell'industria
farmaceutica e raccogliere le sfide della globalizzazione".
"Assolutamente!" ribatté secco James.
"Bene! La nostra proposta mira a fare approfittare i pazienti di
un maggiore accesso a farmaci nuovi e innovativi. La riforma interessa
anche l'industria farmaceutica attraverso l'introduzione di procedure
più chiare e il permesso di eseguire test sui medicinali prima della
scadenza dei brevetti".
200
"L'attività di ricerca e di sviluppo, nonché l'innovazione
tecnologica assumono un ruolo fondamentale nell'economia moderna
e tale ruolo è destinato a diventare sempre più centrale", precisò James.
Jeroen Van Boxem fece un cenno con la testa mentre Enzo
finse di prendere appunti.
Dopo la breve introduzione, James prese la parola.
"Gli strumenti per lo sviluppo dell'innovazione tecnologica e
dell'attività di ricerca sono i diritti di proprietà intellettuale, la cui
centralità emerge nell'ambito del commercio internazionale".
James si guardò intorno per verificare la reazione dei suoi
interlocutori. Fece un attimo di pausa. Jeroen Van Boxem fece
nuovamente un cenno con la testa, mentre Enzo continuò a fingere di
prendere appunti.
James proseguì: "Emerge, altresì, la necessità, oggi, impellente,
di una tutela adeguata dei diritti di proprietà intellettuale, che operi su
scala internazionale e che sia il più uniforme possibile".
James fece di nuovo una pausa.
"Devo verificare la reazione dei miei interlocutori", pensò,
mentre introduceva i principi-chiave della sua esposizione.
Jeroen Van Boxem fece l'ennesimo movimento con la testa,
mentre Enzo chiese di intervenire. Il direttore generale gli fece un
cenno con la mano per consentirgli di prendere la parola.
"Bisogna, però, tenere presente che la tendenza internazionale
al rafforzamento della tutela della proprietà intellettuale può facilmente
sfociare in eccessi protezionistici che, nel lungo periodo, pregiudicano
le condizioni di concorrenza internazionali".
"Cosa vuol dire?" domandò James, sorpreso.
"Voglio dire che si arreca danno, in particolare modo, ai paesi
in via di sviluppo e a quelli di recente industrializzazione".
"Lei potrebbe anche avere ragione", chiarì James, "ma tenga
conto che negli ultimi decenni, la ricerca farmaceutica è stata condotta
in prevalenza dall'industria. Non le sembra che sia necessario
concedere la possibilità di tutelare gli investimenti effettuati con il
brevetto?"
201
"Mi sembra opportuno", intervenne il direttore generale,
pregando James di andare avanti.
"Se lei si riferisce all'accordo TRIPS…"
"Non specificatamente", rispose Enzo.
"Beh, comunque, tenga conto che il TRIPS ha stabilito una
serie di regole per il sostegno e la protezione dei diritti di proprietà
intellettuale. La parte relativa ai brevetti ne regola la
commercializzazione e stabilisce l'accesso ai farmaci nei paesi aderenti
all'organizzazione mondiale per il commercio", chiarì James.
"Se vuole parlare di TRIPS….beh, il brevetto su un farmaco
garantisce un monopolio sul prodotto o anche su un determinato
processo di produzione, vietando, in tutti gli stati membri, la
produzione, l'impiego e il commercio di prodotti equivalenti, senza
l'autorizzazione del titolare del brevetto".
"Mi sembra sacrosanto", ribadì James.
"Le può anche sembrare sacrosanto, ma in questo quadro si
inserisce il problema dell'accesso ai farmaci essenziali nei paesi in via di
sviluppo", fece notare Enzo.
"Il considerevole costo dei farmaci per curare la malattie
specifiche è determinato principalmente dagli oneri della ricerca e dello
sviluppo del prodotto stesso e dal ruolo che ogni medicinale svolge nel
mantenimento di una ricerca complessa e di una struttura di sviluppo",
precisò James.
"Gentlemans, sarebbe opportuno mettere da parte la questione
TRIPS. La prego, vada avanti, signor D'Angelo", intervenne il direttore
generale per tentare di chiudere quella che stava diventando una
querelle personale tra James ed Enzo.
New York
Il secondo viaggio di James a Bruxelles si verificò a distanza di
tre settimane dal primo. L’organizzazione della missione di lavoro si
svolse in maniera lineare. Otto giorni prima della partenza, Nicole, la
segretaria, gli chiese: "Desideri alloggiare nello stesso albergo in cui sei
202
stato la volta scorsa?"
"Certo. Non vedo perché cambiare".
Nicole non fece alcuna considerazione, se non un leggero
movimento del capo, difficilmente decifrabile. James la guardò, mentre
si stava allontanando. Prima che uscisse, esclamò: "Camera doppia, per
cortesia".
A quel punto Nicole ebbe un sussulto.
"Tua moglie viene con te?"
"Può darsi", le rispose James.
In realtà, aveva chiesto alla sua amante di accompagnarlo.
Nicole rimase perplessa, ma fece in modo di nascondere i suoi
dubbi a James. Uscì dall’ufficio, chiudendo la porta dietro di sé. James
rimase solo. Da diversi giorni, non vedeva Marita. Si erano incontrati
un paio di settimane prima. Da allora, solo telefonate e qualche
messaggio. Avevano provato a chiarire una situazione che vedevano da
angolature completamente opposte.
"Voglio che tu mi dica che mi ami".
"Non posso".
"Provaci…almeno per una volta".
"Non posso".
"Allora, che senso ha continuare questa specie di relazione che
abbiamo?"
James non rispose.
Ripensando a quella conversazione, Marita, ritenne che
probabilmente avrebbe anche potuto temporeggiare.
"Se fossi andata con lui, forse gli avrei impedito di mettersi nei
guai".
Un anno prima, però, aveva scelto di procedere diversamente.
"Per me non era importante il senso, quanto la forza per
uscirne. Non avevo la forza per dire basta ma James, senza averne
coscienza, aveva oltrepassato il limite".
203
Quando James le telefonò per dirle che avrebbe voluto
portarla con sé a Bruxelles, Marita stava lavorando. Squillò il cellulare
mentre indicava a due clienti abituali il loro solito tavolo. Rispose solo
dopo che i due clienti ebbero preso posto.
"Dimmi", gli rispose in maniera secca, quasi perentoria.
"Come stai?"
"Bene. Dimmi", ripeté Marita con lo stesso tono secco, quasi
perentorio.
"Vorrei vederti"
"Sai dove trovarmi. Ora ti lascio. Devo lavorare".
Marita ripose il cellulare in tasca. James non ebbe neanche il
tempo di aggiungere una sola frase.
"La odio", pensò semplicemente, dopo averla percepita fredda
e adirata.
Gli atteggiamenti di Marita lo avevano fatto cadere in uno
stato di prostrazione.
"Temo di perderla", sussurrò immediatamente dopo avere
pensato all’odio. Aggiunse: "Quando avverto la sensazione dell’assenza,
mi prende l’ansia".
Dopo quella telefonata, James chiamò sua moglie.
"Non aspettarmi, non torno a casa presto. Devo lavorare.
Mangerò un paio di ravioli al ristorante cinese, vicino l’ufficio".
"Se devi lavoravi, non preoccuparti", prese atto la moglie.
Sarebbe stato appropriato definire il loro, un lungo gelido
rapporto. James aveva conosciuto Helen alla Columbia University
esattamente il 2 aprile 1989. Quel giorno non faceva né caldo né freddo
e James ricordò per sempre quella data, anche per la vittoria dei Kniks
contro i Celtics. Il fidanzamento non ebbe sussulti particolari. La
cerimonia che li unì in matrimonio fu sobria, all’insegna del
minimalismo e con pochi invitati. I primi anni furono sereni. James
lavorava nell’ufficio risorse umane della Marlden & Marlden,
un’azienda media, come ce ne sono tante a New York. Il salario di base
non era elevato ma i benefit gli garantivano un discreto benessere. Visti
dalla parte della moglie, i primi anni non furono altrettanto sereni. Due
204
gravidanze difficili le impedirono un approccio sistematico e
continuativo al lavoro. La nascita dei due figli completò la compagine
familiare non facendola, però, mai diventare una vera famiglia.
Rimasero rapporti freddi. Amichevoli, ma freddi.
"Con te vedo il fuoco della passione, che con mia moglie non
si é mai acceso", disse a Marita il primo giorno che fecero l’amore.
Mentre passeggiava, Marita ripercorreva la sua relazione.
"Avrei potuto aspettare che lui maturasse la convinzione di
poter vivere fino in fondo i suoi sentimenti nei miei confronti".
Era venuto a conoscenza della sua vera storia solo dopo aver
fatto l’amore con lei per la quinta volta. Fino ad allora, aveva vissuto
l’illusione di essere stato il suo maestro, di vita e di sesso.
"La prima volta fu tenero. James non durò a lungo ma riuscii
ugualmente a godere".
La seconda volta, invece, l’atto sessuale fu molto più
significativo.
"Mi prese in auto, mentre stavo tornando a casa. Mi infilò la
mano destra in mezzo alle gambe. Non lo fece con delicatezza. Fu
piuttosto burbero".
Marita non gradì.
"Le spostai la mano ma lui insisteva e lo lasciai fare".
James introdusse due dita nella sua vagina.
"Mi sentii come una bambola di pezza nelle sue mani".
Non fu una sensazione piacevole.
"Molte volte nella vita ho avuto l'impressione di essere una
bambola di pezza".
Con lui avrebbe voluto non esserlo.
"Non lo faceva con malizia. Era il modo di esprimere la sua
sessualità".
Tuttavia, la sensazione della bambola di pezza era sempre lì,
insieme ai suoi ricordi e alle sue frustrazioni passate.
"Lo lasciai fare, come avevo lasciato fare tanti altri prima di
205
lui".
Quando finalmente James ebbe finito, si sentì come sollevata.
Lo prese tra le sue braccia e gli chiese di baciarlo.
"Sulle labbra, teneramente", aggiunse, guardandolo dritto negli
occhi.
Solo allora fu felice. Smise di tormentare le sue gambe e la sua
vagina.
"Continuò a baciarmi, teneramente".
Marita non ebbe più la sensazione della bambola di pezza e si
lasciò andare, confondendo le sue emozioni con quelle di James. Si
baciarono a lungo prima di fare l'amore. E quando finirono, furono
entrambi felici.
Da parte sua, James aveva interpretato l’iniziale ritrosia di
Marita come il frutto dell’inesperienza.
"Quella donna ha già dei figli ma probabilmente non é mai
stata presa come una donna dovrebbe esserlo", pensò, ingenuamente.
Ebbe come un fremito di orgoglio e si distese al volante della
sua Mitsubishi. Marita, invece, rimase fredda sul proprio sedile,
reclinando la testa sulla sua spalla per dimenticare le brutte sensazioni
della bambola di pezza.
"Confondendo i miei pensieri tra le mille luci di New York, mi
abbandonai al dolce tepore di quel momento".
James tornò a casa, soddisfatto. Pensò che avrebbe iniziato
progressivamente Marita ad un'attività sessuale meno tenera e più
sensuale per sprigionare la sua carica erotica.
"Non conosce le sue potenzialità", pensava, mentre lentamente
apriva la porta del suo appartamento.
Quella notte non avrebbe mai potuto immaginare la realtà.
Forse, sarebbe stato meglio non scoprirla.
206
Bruxelles
Marita rimase a New York e James partì da solo. Giunto a
Bruxelles alle sette e venticinque del mattino orario locale, non ebbe il
tempo di andare in albergo. Si recò immediatamente all'incontro che
aveva fissato in agenda. Alle nove e venti entrò nel dipartimento
industria della Commissione europea e ne uscì visibilmente soddisfatto
due ore dopo. Durante la riunione più volte ebbe il timore che gli
interventi improvvidi di Enzo Faramelli potessero compromettere la
sua strategia. Le espressioni convincenti di Jeroen Van Boxem lo
rassicurarono.
"Di lui ci si può fidare", pensò, "le osservazioni di quel
funzionaretto fuori dal mondo non faranno breccia".
James aveva ricevuto il mandato di fare pressione su tutti gli
organi comunitari, coinvolti nel processo decisionale, per ottenere
l'estensione del periodo di protezione del brevetto sui prodotti
farmaceutici.
"Nessun altro deve legittimamente copiarli".
In altre parole, più ricavi e meno concorrenza.
L'estensione della protezione avrebbe significato un'adeguata
ricompensa in termini di bonus e azioni per il management di Axa.
Durante il consiglio di amministrazione, si era infatti stabilito che se i
profitti dell'azienda fossero cresciuti del cinque per certo, la ricompensa
per il management sarebbe stata valutata intorno ai dieci milioni di
euro.
"Ci vogliono parametri precisi da applicare, ovviamente, ma
l'ordine di grandezza può essere stabilito nell'ordine di quella cifra",
aveva detto il direttore generale.
"Interverremo in Europa. Tenteremo di cogliere le
opportunità che dovessero provenire dalla riforma della legislazione
farmaceutica", aveva precisato James.
All’incontro con Jeroen Van Boxem aveva giocato abilmente le
sue carte. Uscendo dal dipartimento industria, appariva visibilmente
207
soddisfatto.
"Jeroen è stato molto comprensivo con le esigenze di Axa ma,
il futuro é incerto. Occorre un piano ben più dettagliato per potere
evitare possibili trappole".
Gli passò davanti Enzo Faramelli. James stava riponendo i
documenti nella borsa di pelle, dopo averli attentamente ripiegati. Enzo
si accorse della sua presenza.
"A presto!" salutò.
"A presto!" rispose James.
Enzo infilò la porta e si diresse verso il Wild Geese. Aveva
appuntamento con Jan. Percorse velocemente la strada che lo separava
dal pub irlandese. Lo raggiunse in cinque minuti. Varcò la soglia
d’entrata e scorse il suo compagno, seduto non lontano dal banco.
"Conoscendo le sue abitudini, avrebbe preferito un tavolo
defilato ma la sala é già piena e i tavoli migliori sono occupati", pensò.
Il tavolo, scelto da Jan, aveva il difetto di essere vicino al
bancone ma il pregio di trovarsi in un angolo piacevole del locale. La
luce arrivava per magica rifrazione e sempre preceduta da un ronzio di
motore. Penetrava come un improvviso e gradevole lampo giallo, che
illuminava le sedie di legno scuro con le gambe rachitiche.
Il Wild Geese sembrava scricchiolare per l'improvviso
mutamento di luce. Ogni cosa sembrava assumere un aspetto nuovo.
Anche la macchina del caffè smetteva di sbuffare i suoi vapori d'aria,
mentre lo spinatore raccoglieva l'ultima goccia di birra che se ne stava
indecisa se cadere o meno nella vaschetta.
Il vero problema del posto scelto da Jan era al tavolo adiacente.
Spesso capitava un malaugurato cliente che se ne stava lì per oltre due
ore, fumando e battendo insistentemente l'accendino sul tavolo. E quel
giorno, purtroppo, il malaugurato cliente, stava lì. Era seduto, fumava e
batteva l'accendino sul tavolo, come al solito.
Quando Enzo entrò nel locale, Jan lo vide da lontano. Gli fece
segno di avvicinarsi. Enzo fece un cenno con la testa. Si mosse
lentamente, guardandosi intorno.
"Ho chiesto a Matthew di metterci anche solo una lampadina
208
appesa al muro. Non sono i problemi di estetica che contano. Almeno
riusciremmo a guardarci in faccia senza sminuire quell'aura da refugium
peccatorum, che da un tocco così retrò", disse Enzo, non appena si
sedette.
Quel giorno sembrava che tutto il mondo si fosse ricordato di
avere un appuntamento in sospeso, mentre la giovane cameriera
irlandese correva avanti e indietro dal bancone ai tavoli. Aveva le
gambe corte e un po' storte. Salutava i clienti con un tono talmente
basso da sembrare un miagolio.
Dal fondo della sala, qualcuno stava cercando di attirare la sua
attenzione, mentre sgusciava tra i tavoli con lo sguardo altrove. Il
grembiule bianco svolazzava per la sala, nascondendo a malapena i
polpacci carnosi. Jan la bloccò e ordinò per lui e per Enzo.
"Ali di pollo ben abbrustolite con patatine all'aceto".
Chiese di portare anche un paio di birre.
La cameriera con le gambe corte e un po' storte fece in fretta.
Dopo soli cinque minuti ritornò al tavolo con le ali di pollo, le patatine
all'aceto e le birre. Apparecchiò il tavolo in maniera speculare, con le
stesse cose, da una parte e dall'altra.
Jan afferrò un'ala di pollo ben abbrustolita. Stava per
addentarla, quando si accorse dello sguardo di Enzo. Gli occhi bassi
sembravano fissare un punto indefinito nel piatto.
"Che fai? Non mangi?"
Enzo mugugnò con gli occhi bassi.
"Non hai fame? Non mangi?" ripeté Jan.
"Oh, scusami. Certo, certo che mangio".
"Prendi quella", esclamò
particolarmente abbrustolita.
Jan,
indicandogli
un'ala
"Avrei voglia di vomitare, prima ancora che mangiare".
"Cosa dici?"
"Avrei voglia di vomitare per lo spettacolo a cui ho assistito
questa mattina".
"Spettacolo?"
209
"Dramma, direi…proprio un dramma".
"Dramma?"
"Uno spettacolo avvilente. Un dramma".
"Quante volte ti ho detto di non somatizzare il lavoro?
Esprimi all'esterno i conflitti che non hai mai risolto".
"Ma dai, smettila….io provo rabbia, tanta rabbia".
"Le cause dei disturbi psicosomatici hanno origine nei rancori
vissuti in esperienze infantili o adolescenziali. Un conflitto irrisolto può
provocare rabbia verso il prossimo".
"In altri termini?"
"Voglio dire che la repressione della tua libera espressione
sessuale continua a provocarti rabbia. Si tratta di una manifestazione
inconscia del tuo ego represso".
"Se avessi ascoltato quello che ho ascoltato io…"
"Tesoro, ti ascolto…"
"Non si può negare l'accesso ai medicinali alle persone più
bisognose e più povere".
"Chi vuole negarlo?"
"In pratica sarebbe questo il risultato".
"Il risultato di cosa?"
"Il risultato finale".
Jan non capì.
Enzo era stato difficile da decifrare. Nessuno avrebbe potuto
comprendere quello strano discorso. Seguì un lungo silenzio. Jan ed
Enzo mangiarono le ali di pollo abbrustolite. Alla penultima ala di
pollo, Enzo finalmente fece chiarezza.
"Gran parte dei farmaci prodotti in Occidente, costa troppo
per i paesi africani. Molta gente muore per malattie che si possono
curare. Il problema è che non possono permetterselo. In India, per
esempio, si producono farmaci generici che vengono poi venduti in
Africa. I farmaci generici prodotti, però, vìolano i brevetti".
210
James, non lontano, poté osservare Jan ed Enzo discutere
animatamente.
New York
Un'ora prima del previsto decollo, Bruxelles venne ricoperta di
nuvole nere, grasse come vacche da mungere. Si scatenò l'inferno e non
fu possibile decollare né atterrare. Il Boeing che avrebbe dovuto
riportarlo a casa, rimase fermo sulla pista. Poté ripartire solo dopo
avere accumulato due ore di ritardo.
Spento il segnale di cinture allacciate, James si fece portare una
coperta e allungò il sedile.
"Sono stanco. Ho bisogno assolutamente di dormire".
Durante il volo, tuttavia, non dormì soltanto. Ebbe anche il
tempo di pensare a Marita.
"Le telefonerò il prima possibile. Mi manca", concluse.
L'aereo atterrò a New York e James si recò immediatamente
negli uffici di Axa per riferire i risultati del colloquio con Jeroen Van
Boxem. Seduti al tavolo, trovò i soliti tre, Emer Broke, Francis Daily
and Anthony Vitale.
"Ho trovato un buon supporto a Bruxelles", esordì James, "il
direttore generale comprende le nostre ragioni ed è disposto a
sostenere la nostra proposta".
"Vuoi dire che riusciremo ad estendere il periodo di protezione
della proprietà intellettuale?"
"Voglio dire che abbiamo buone possibilità di farcela,
benché…."
"Benché?" chiese Antony Vitale.
"Benché Bruxelles non è Washington e gli USA non sono
l'Europa".
"Siamo diversi", constatò Emer.
"Siamo diversi ed abbiamo sistemi diversi", ribatté James.
"Diversi, ma simili", disse, a sua volta, Francis.
211
"Il nostro sistema è differente dal loro. Da noi è chiaro chi
decida, come e quando. Da loro non si comprende bene chi abbia il
potere e quali siano i tempi".
"E questo direttore generale quanto conta, allora?"
"Può proporre ma non decide. La sua proposta deve essere
approvata".
"Puoi essere un po' più chiaro? Un direttore generale che
propone ma non decide non ha nessuna competenza", borbottò
Antony.
"Si tratta di un sistema complicato. I principali organi
decisionali sono tre. La Commissione, in cui lavora Jeroen Van Boxem,
propone, in seguito il Consiglio e il Parlamento approvano la
proposta".
"Tu dicevi che bisognava agire su Van Boxem. Ora tiri fuori
altre giri".
"Si tratta di una situazione delicata. Ha ragione, Francis",
sostenne Emer.
"Lasciatemi spiegare. Van Boxem è il personaggio chiave.
Tuttavia, non è sufficiente. Bisognerà agire anche su altre componenti.
Le decisioni vengono prese su stadi diversi e tutti i livelli vanno coperti.
Occorrerà agire anche sul Parlamento e sul Consiglio".
"Se Van Boxem non basta, allora siamo fottuti".
"Un attimo! Avete fiducia in me?" sollecitò James.
"Sai già come agire?" lo incalzò Emer.
"So come agire ma bisogna individuare gli altri personaggi sui
quali fare pressione".
"Tornerai a Bruxelles?"
"Certo. Fra tre settimane. Non bisogna perdere tempo".
James illustrò le sue intenzioni al resto del team. Non tutti
conoscevano il sistema decisionale europeo. Alcuni non lo
conoscevano per niente.
"Costituisce un mistero difficile da svelare a noi americani"...
212
In realtà, il processo decisionale europeo coinvolge diverse
istituzioni. Alla base si pone la Commissione, che ha il potere di
proposta. In seguito intervengono il Parlamento europeo e il Consiglio.
Di norma, è la Commissione a proporre le nuove leggi, ma sono il
Consiglio ed il Parlamento ad adottarle. Ogni proposta per una nuova
legge europea si basa su un articolo specifico del trattato che costituisce
la base giuridica e determina il tipo di procedura da seguire. La
procedura di codecisione è quella utilizzata di prevalenza in base alla
quale il Parlamento e il Consiglio condividono il potere di adottare le
proposte fatte dalla Commissione. Di fatto, le leggi europee si basano
sulla buona cooperazione tra le istituzioni.
"Jeroen Van Boxem dovrebbe gestire la proposta. Tuttavia,
non ci può assicurare che la proposta formulata dalla Commissione
vada in porto senza emendamenti".
"L’Europa è troppo complicata".
"Si tratta di un sistema decisamente complesso, che noi
americani non siamo mai riusciti a comprendere completamente. Mi
sono informato nei dettagli".
James aveva scoperto che le proposte della Commissione,
specie le più tecniche, spesso arrivavano in porto così come venivano
formulate inizialmente. Più raramente, venivano apportate delle leggere
modifiche.
"La proposta iniziale difficilmente viene stravolta. Pertanto, la
strategia di Axa non cambia. Il fulcro rimane Jeroen Van Boxem,
benché occorrerà oliare il meccanismo nella sua totalità".
"Devi trovare un supporto anche al Consiglio e al
Parlamento", suggerì Emer.
"Ho un appuntamento già fissato con il presidente della
Commissione industria del Parlamento europeo", chiarì James.
"Si tratta di una persona affidabile?" volle sapere Antony.
"Non lo so. Non l’ho mai incontrata prima. Spero di si".
"Incontrata? Ė una donna?"
"Confermo, una donna".
"Speriamo lo sia, altrimenti siamo nella merda", concluse
213
Emer.
16 febbraio 2007
Bruxelles
Eva doveva rendere una testimonianza. Giunse in tribunale
dieci minuti prima dell'inizio dell'udienza. Uscendo di casa, aveva
comprato il giornale nell'edicola di fronte. Lo aveva sfogliato in
metropolitana e aveva scoperto che il processo in cui si apprestava a
testimoniare veniva menzionato a pagina sedici tra gli articoli di
cronaca giudiziaria. Non lesse l'articolo per intero. Si soffermò solo
sulle prime quindici riga. Preferì procedere oltre.
"Devo distrarmi piuttosto che pensare alla testimonianza".
Era tesa. Non era mai stata in un'aula di tribunale per deporre.
"L’aula centosedici B, per favore?" chiese all’usciere.
"La porta sulla destra, poi prosegua fino alle scale. Salga al
primo piano. Troverà le indicazioni".
"Grazie!"
Eva infilò la porta sulla destra e proseguì fino alle scale.
Raccolse i pensieri, pensando alle domande che il pubblico ministero
avrebbe potuto rivolgerle. Si sedette davanti la porta di entrata dell'aula.
Dopo pochi minuti venne chiamata ed invitata ad entrare. Dall'altra
parte della sala, James scorse Eva ma non fece alcun movimento del
corpo. Rimase impassibile, nonostante il brusìo che si levò nell'aula.
Mosse soltanto gli occhi per seguirla mentre si avvicinava al banco dei
testimoni.
"Le ricordo i suoi doveri", disse il giudice, snocciolando la serie
di obblighi a cui avrebbe dovuto attenersi.
Successivamente diede la parola all'accusa.
"Prego, proceda all’interrogazione del teste".
"In che occasione ha conosciuto l'imputato?" esordì il
214
pubblico ministero.
"Venni sollecitata per un incontro esattamente un anno fa. Era
il 16 febbraio del 2006. Ricevetti una telefonata intorno alle undici e
trenta della mattina. Fu la mia assistente ad avvisarmi".
"Cosa le disse esattamente?"
"Mi disse che al telefono c'era un certo James D'Angelo, che
chiamava da New York".
"Rispose subito?"
"No! Risposi dopo qualche minuto. Ero impegnata sull'altra
linea, quella interna".
"Cosa le chiese il signor D’Angelo?"
"Il signor D'Angelo mi informava che aveva necessità di
incontrarmi durante uno dei suoi prossimi viaggi a Bruxelles. Avrebbe
voluto illustrarmi alcune problematiche inerenti il settore dei
medicinali. Mi disse anche che rappresentava una delle maggiori case
farmaceutiche americane".
"Cosa gli rispose?"
"Che avrei consultato la mia agenda e, nel caso il suo viaggio
fosse coinciso con una mia permanenza a Bruxelles, ci saremmo potuti
incontrare".
"Gli diede, pertanto, la sua disponibilità?"
"Certo. Perché non avrei dovuto farlo?"
"Non lo so. Me lo dica lei Non credo che lei sia disponibile
con tutte le persone che chiedono di incontrarla".
"Generalmente si. Sono molto disponibile. Se posso, trovo
sempre un momento libero".
"Quindi, l'incontro con James D'Angelo non costituiva un
atto...diciamo, di cortesia particolare".
"Assolutamente no. Rientra nel mio modo di lavorare. Sono
sempre pronta ad accogliere esponenti della società civile che
esprimono l'intenzione di interagire con coloro che li rappresentano".
"E quando avvenne l'incontro?"
215
"Un paio di settimane dopo. Esattamente il 2 marzo".
'Come fa a ricordarlo con precisione?"
"Immaginavo che me lo chiedesse e ieri mi sono premurata di
verificare la mia agenda".
"Cosa ricorda di quel giorno?"
"Cosa intende dire?"
"Insomma…come si svolse l'incontro?"
"Ah, l'incontro fu molto cordiale. Il signor D'Angelo mi regalò
una scatola di cioccolate e un piccolo pensiero della città di New York".
"Ricorda di cosa si trattasse?"
"Di una spilla con la scritta NY".
"Una spilla di valore?"
"Una spilla in argento".
"La accettò?"
"Non avevo intenzione di prenderla".
"La prese?"
"La presi perché il signor D'Angelo insistette. Precisò che si
trattava di un semplice omaggio a cui non bisognava dare alcuna
importanza, se non quella di esprimere il suo personale ringraziamento
per la disponibilità ad incontrarlo. Mi disse anche di guardare al gesto e
non al valore dell'oggetto".
"Quindi, lei la prese come un semplice atto di cortesia".
"Esatto!"
"Continui…"
"Beh, iniziammo a discutere. Il signor D'Angelo mi fece
presente che la Commissione europea stava preparando la riforma della
legislazione farmaceutica e che presto sarebbe stata discussa anche in
sede parlamentare".
"Immagino che non costituisse una novità per lei".
"No, ne ero al corrente e glielo dissi. Lui mi fece presente i
problemi che l'industria farmaceutica riscontrava a causa dei brevetti".
216
"Si può spiegare?"
"Mi disse che l'industria farmaceutica sosteneva il peso
dell'innovazione tecnologica e che sarebbe stato giusto trovare il modo
di ricompensarla adeguatamente. Gli chiesi se il sistema vigente non
fosse già adeguato".
"E il D'Angelo cosa le rispose?"
"Mi disse che il vero problema consisteva nella necessità di
proteggere i farmaci brevettati dalle imitazioni. Mi spiegò il caso di
alcuni paesi e mi fece menzione del problema delle importazioni
parallele".
"Lei cosa rispose?"
"Che me ne sarei occupata e che avrei approfondito la
vicenda".
"Espresse una sua opinione?"
"No. Non entrai affatto nel merito della vicenda. In verità, mi
venne riferita una serie di cose molte tecniche, che non compresi
completamente".
"Non comprendeva cosa il D'Angelo le stesse dicendo?"
"In parte comprendevo, in parte no. Sa…le cose tecniche.
Comunque, precisai alla mia assistente di annotare tutto e di
procurarmi i documenti necessari".
"Il D'Angelo rimase soddisfatto?"
"Non lo so".
"Le fece altre richieste?"
"Mi disse che la Commissione se ne stava occupando, che
aveva avuto già un incontro con loro e che…"
Eva fece una pausa. Il giudice intervenne.
"Continui…e che?"
"Mi sembra che facesse riferimento ad un funzionario che non
trattava adeguatamente il dossier in Commissione. Sul momento non
feci particolare caso a quello che intendesse affermare".
"Che significa non trattare adeguatamente un dossier?"
217
"Sul momento non ho realizzato cosa volesse dire".
"…ma alla luce degli sviluppi successivi, quelle frasi assumono
un'importanza molto più significativa", chiarì il rappresentante
dell'accusa.
"Si, concordo".
"Cosa le disse in particolare?"
"Come ho detto non riposi molta attenzione a quelle frasi sul
funzionario che non trattava adeguatamente il dossier. Pertanto, non
saprei riportarle con esattezza cosa il signor D'Angelo volesse
significare in particolare".
"Provi a ricordarlo?"
"Beh…un funzionario non trattava adeguatamente il dossier e
temeva che si potessero creare dei fraintesi".
"Nient'altro?"
"Un attimo…credo di avergli chiesto perché si preoccupasse
tanto di un semplice funzionario".
"Quale fu la risposta dell'imputato?"
"I pesci piccoli, a volte, riescono anche a mangiare quelli
grandi".
"Non le apparve strana quella considerazione?"
"Come le ho detto seguii questa parte della conversazione in
maniera un po' distratta".
"Io non ho altre richieste", concluse il pubblico ministero.
Il giudice chiese all'avvocato difensore di James se avesse delle
domande da porre all'imputato.
"Un paio da parte mia, signor giudice", rispose l'avvocato.
"Lei scorse particolare livore nel volto del signor D'Angelo
quando fece riferimento al funzionario che non trattava adeguatamente
il dossier oppure le sembrò una normale preoccupazione per un
manager che prende a cuore la corretta gestione di un dossier
rilevante?"
"Non notai nulla di particolare. Per questo non diedi
218
importanza a quella parte della conversazione".
"Lei ha precisato di non avere compreso cosa il mio assistito le
avesse riferito. Conferma?"
"In parte non capisco…gli aspetti tecnici che lui citava…a
volte non capivo".
"Io ho finito", concluse l'avvocato difensore.
Il giudice congedò Eva, che uscì frettolosamente dall'aula.
219
2 marzo 2007
Bruxelles
Aveva trascorso la notte insonne. Solo al mattino era riuscito a
sonnecchiare, sopraffatto dalla stanchezza. Alle sette venne buttato giù
dal letto dal secondino, che aveva fatto brutalmente ingresso nella cella
che condivideva con Regis, un belga accusato di omicidio e rapina.
"Controllo!" esclamò il secondino, accompagnato da altri due
agenti.
James non rispose nulla e si levò dal letto. Venne spinto contro
il muro da uno dei due agenti, che agitava un manganello. Anche Regis
venne spinto verso il muro ma dall'altra parte della stanza. Il controllo
durò pochi minuti.
"Si tratta di una formalità da espletare ogniqualvolta un
detenuto debba andare in aula per il processo", spiegò l’agente,
"occorre evitare che i detenuti abbiano oggetti pericolosi".
James doveva assistere ad una nuova udienza del processo, che
lo vedeva accusato di omicidio per la morte di Jan Schiller, avvenuta a
Bruxelles un anno prima. Il procuratore del re del tribunale di Bruxelles
lo accusava di essere il mandante. A chiamarlo in causa era stato l’uomo
che aveva materialmente ucciso Jan, un marocchino di Casablanca, di
nome Alim Cherkaz, di ventisei anni, alquanto noto negli ambienti
malavitosi. Alim era stato arrestato dieci giorni dopo la morte di Jan. La
telecamera dell'istituto di credito Dexia lo aveva ripreso mentre sparava
tre colpi di pistola.
"Non mi sono reso conto di essere sotto gli occhi della
telecamera", dichiarò dopo l’arresto.
Era stato immortalato con la pistola in pugno.
"Dopo avere pronunciato il suo nome, per accertarmi che
fosse davvero lui, gli ho sparato da distanza molto ravvicinata",
confessò Alim, preso con le mani nel sacco.
220
Il primo colpo raggiunse Jan al petto, il secondo alla spalla, il
terzo al cranio. Era stata una vera e propria esecuzione. Alim, dopo il
suo arresto, provò a giustificarsi.
"Ho tentato una rapina ma è andata male".
Venne arrestato ad Anversa, dopo aver consumato un
rapporto sessuale con una prostituta nel quartiere a luci rosse. Portato
al commissariato venne identificato e incriminato. Il fatto ebbe ampio
risalto sulla stampa. In un primo momento, l'omicidio di Jan era stato
collegato ad una serie di episodi che stavano colpendo la comunità
omosessuale della capitale belga. L'identificazione di Alim sgombrò il
terreno da questa ipotesi.
Il marocchino, in realtà, era conosciuto negli ambienti criminali
per essere un freddo sicario. Non fu creduto quando sostenne la tesi
della rapina. Tre giorni dopo l'arresto, modificò la sua versione
"Sono stato pagato da un americano per compiere l'omicidio
di Jan Schiller".
La polizia belga si mise immediatamente alla ricerca
dell’americano. Non fu difficile risalire a lui. Alim svelò tutte le
informazioni di cui disponeva.
"L'ho conosciuto a Londra. Lavoravamo nella stessa impresa
di pulizie. Lui è più vecchio di me".
"Era al corrente della tua vera attività?"
"Dovetti sparare ad un vecchio porco e lui mi coprì. Se non
fosse stato per quel lavoro non l'avrebbe saputo. In quel caso mi fu
molto utile".
"Come sei stato ricontattato?'
"Una sera, ho sentito squillare il telefono. Era lui. Non lo
sentivo da un pezzo. Mi chiese se fossi disponibile per un lavoro".
"Cosa hai risposto?"
"Risposi che dipendeva dal compenso e dalla difficoltà".
"Difficoltà?"
"Si, difficoltà. Se fosse stato un caso difficile non l'avrei fatto.
Oppure l'avrei fatto ma solo dietro un compenso adeguato. Veramente
221
adeguato".
"Vi accordaste subito?"
"No. La prima telefonata si chiuse sulla questione del
compenso. Mi disse ‘ Non lo so. Ti faccio sapere ’."
"Dopo quanto tempo ti ha richiamato?"
"Una settimana dopo, credo. Aggiunse che mi avrebbero dato
ventimila prima e ventimila dopo".
"Ventimila euro?"
"No, dollari"
"Hai accettato?"
"No".
"Perché?"
"Non mi sarei mosso per meno di settantamila. Quaranta
subito e il resto dopo".
"La tua proposta fu accolta?"
"No. Mi disse che non era lui a decidere. Mi avrebbe fatto
sapere".
"E la settimana seguente si fece sentire?"
"No. Il giorno dopo. Poco prima di mezzanotte. Me lo ricordo
perché stavo scopando in un bordello di Anversa".
"In quell'occasione vi accordaste, giusto?"
"Giusto! Ci accordammo per settantamila dollari".
L'americano si chiamava Richard Ashton. La polizia di New
York lo bloccò e lo interrogò quattro giorni dopo la confessione di
Alim.
Ashton ammise il contatto.
"Tuttavia, ho fatto semplicemente da tramite. Alim potrà
confermarlo".
"E chi sarebbe il mandante?" gli chiesero a New York.
"Io sono stato contattato da un tale che non avevo mai visto
222
prima".
"Il nome?"
"Anthony Vitale".
Anthony venne fermato nella sua casa negli Hamptons.
Confessò non appena giunto al commissariato di polizia. Descrisse nel
dettaglio il sistema di subappalto del crimine, dal quale spuntò il nome
di James D'Angelo.
"Ho solo eseguito gli ordini del mio capo", si difese.
"È stato lui a ordinarle di contattare Richard Ashton?"
"Lui mi ha imposto di prendere contatto con un tizio, Kenneth
Clayton".
"Chi è questo Clayton?"
"Una persona di fiducia, mi fece sapere James D'Angelo".
"E lei lo fece?"
"Cosa?"
"Lei contattò Kenneth Clayton, come le era stato ordinato di
fare?"
"Lo incontrai velocemente in un pub sulla cinquantasettesima.
Mi segnò su un pezzo di carta un nome e un indirizzo".
"Il nome di Richard Ashton?"
"Esattamente!"
"Lei si recò subito all'appuntamento?"
"No. Ci andai il giorno seguente".
"All'indirizzo che le era stato comunicato da Kenneth
Clayton".
"Esattamente! Si trattava di una sala biliardo nel Queens. Non
mi ricordo con precisione dove fosse".
"E fu allora che commissionò l'omicidio da compiersi a
Bruxelles?"
"No. Riferii semplicemente che il mio capo aveva bisogno di
un favore e che lui era stato segnalato come la persona giusta. Mi
223
rispose che avrebbe verificato e che mi avrebbe fatto sapere".
"Lei a questo punto esce di scena?"
"Io riportai il tutto a James D'Angelo. Lui mi chiese di
informare Ashton di rivolgersi direttamente a lui".
"La decisione, quindi, la presa D'Angelo?"
"E chi altri avrebbe potuto prenderla?"
Gli inquirenti appurarono che James fosse stato più volte in
Belgio, che aveva conosciuto Enzo Faramelli, compagno di Jan Schiller
e che ne temeva il comportamento.
"Perché?" vollero sapere.
"Perché si occupava di questioni molto più grandi di lui".
Alla domanda successiva degli inquirenti, in cui gli veniva
richiesto di chiarire, James preferì non rispondere.
"Non aggiungo altro. Mi dichiaro semplicemente vittima di un
errore giudiziario. Non ho mai ordinato la morte di nessuno".
Ginevra
Antoine ritornò a Ginevra il primo marzo. Riabbracciò Ana,
che finalmente si lasciò andare. Gli ricambiò l'abbraccio. In verità, i due
si baciarono e molto probabilmente avrebbero fatto l'amore la sera
successiva. Non vi era naturalmente nessun impegno ma l'atmosfera
sembrava presagire un'evoluzione positiva.
"Le mie remore sono scomparse", disse, "mi hai dimostrato di
volermi per davvero".
La differenza di età, temuta da Ana, non costituiva più un
ostacolo.
"Ho avvertito la tua mancanza", gli confessò.
Ana aveva vissuto la partenza di Antoine come un abbandono,
benché fosse stata lei a spingerlo ad andare via.
"Ti sono sempre stato vicino", le disse Antoine.
224
"Hai fatto bene".
Antoine non aveva mai smesso di telefonarle e, ogni volta che
aveva potuto, era andato a Ginevra.
"Ora non partirò più. Ho intenzione di vivere qui, insieme a
te".
Aveva deciso di vivere a Ginevra. Il suo contratto di
collaborazione con il Parlamento europeo era terminato. Aveva scelto
di non rinnovarlo, benché la collaborazione con Eva fosse stata
alquanto proficua. Lo aveva sottolineato anche al processo.
"In che cosa consisteva il suo rapporto di collaborazione?"
domandò il pubblico ministero.
"In maniera prevalente mi sono occupato della riforma della
legislazione farmaceutica, assistendo il deputato Eva Sedlakova nella
preparazione di briefings e nella stesura di rapporti da discutere in
Commissione industria".
L'accusa non perse tempo e
all’approfondimento dei fatti processuali.
passò
immediatamente
"Come ha fatto conoscenza con l'imputato James D'Angelo?"
"Ho conosciuto D'Angelo al Parlamento europeo, in occasione
di una delle sue visite alla signora Sedlakova. Mi occupavo direttamente
delle questioni legate ai medicinali e partecipavo agli incontri".
"Dove ha maturato la sua esperienza?"
"Me ne sono interessato prevalentemente all'OMC".
"In sede di indagini ha riferito di ragioni personali che lo
avrebbero spinto a occuparsene. Potrebbe ripeterle?"
"Ho avuto delle ragioni personali che mi hanno spinto a
dedicarmi al problema dell’accesso dei medicinali nei paesi in via di
sviluppo", rispose senza esitazioni Antoine.
"Benissimo! Potrebbe riferirle alla Corte?"
"Decisi di incuriosirmi in seguito ad una tragedia che mi ha
colpito direttamente. Un mio carissimo amico di Mumbai é morto di
Aids. In India non era stato possibile curarlo adeguatamente".
"Perché?"
225
"Perché non erano state rese disponibili le medicine
necessarie".
"Vuole dire che il fatto di vivere in India gli ha impedito di
curarsi?"
"Non sarebbe stato possibile curarlo in Nigeria, in Pakistan o
in qualsiasi altro paese povero".
"Non solo in India, quindi".
"In qualsiasi paese povero non sarebbe stato possibile curarlo".
"Stava parlando del suo amico indiano…"
"Ero molto legato a Madan e la sua scomparsa mi ha colpito
profondamente. Conoscevo la sua famiglia, aveva tre figli e una moglie
che sarebbe morta successivamente per le stesse ragioni. Promisi a me
stesso che avrei dedicato la mia esistenza per migliorare il livello di vita
di quelli come Madan, che il destino fa nascere nella periferia del
mondo".
"E per questo decise di interessarsi di industria farmaceutica?"
"Diciamo che decisi di occuparmi dell'accesso ai medicinali per
la gente che vive nei paesi poveri".
"Può spiegare nei dettagli?"
"Certo", ribatté prontamente Antoine, ma il giudice lo
interruppe, chiedendo al pubblico ministero di rivolgere all'imputato
solo domande relative al processo.
"Si tratta di domande importanti per la comprensione dei fatti.
Il processo ruota intorno alla questione dell'accesso ai medicinali per i
paesi più sfortunati.
Il giudice lo guardò dubbioso, consentendo che il teste potesse
replicare alla domanda che le era stata rivolta.
"Dunque, il vero problema è che gli stati meno sviluppati non
possono avere a disposizione i medicinali essenziali per curare alcune
malattie importanti come l'Aids. Non le hanno fruibili perché non
hanno a disposizione i soldi per comprarle. Potrebbero copiare i
farmaci ma l'industria farmaceutica di fatto lo impedisce. Il Trattato
TRIPS sulla proprietà intellettuale costituisce un ulteriore ostacolo
perché protegge i medicinali con brevetti a lunga durata. Si potrebbe
226
aggirare l'ostacolo con le importazioni parallele ma l'industria
farmaceutica non vuole e, anche qualora acconsentisse, ci sarebbe
sempre il problema legato alle esportazioni".
"Spieghi meglio".
"Che le licenze obbligatorie potrebbero anche essere concesse
ma avrebbero valore solo per la produzione interna e non per le
esportazioni. Come potrebbe, in quel caso, uno stato con una struttura
industriale inadeguata, produrre i medicinali?"
"Era questo che chiedeva l'imputato. Una maggiore protezione
dei brevetti?"
"L'imputato chiedeva di estendere il periodo di protezione
brevettuale".
"Ed era questo il motivo delle sue visite alla signora
Sedlakova?"
"Si trattava di un'attività di lobby, del tutto lecita. Il signor
D'Angelo spiegava le ragioni del'industria farmaceutica, la signora
Sedlakova le ascoltava, come del resto ascoltava anche quelle delle altre
parti in causa".
"Ovvero?"
"Mi riferisco alle associazioni dei consumatori, per esempio o
ai rappresentanti degli stati meno sviluppati che, invece, chiedevano di
alleggerire il peso dei brevetti".
"Qual era in realtà la posizione della signora Sedlakova?"
"Il problema della salute dei cittadini di tutti i paesi costituiva
certamente l'aspetto prioritario".
"Di conseguenza, le richieste del signor D'Angelo non vennero
accolte?"
"Non potevano essere accolte ma c'era bisogno anche
dell'accordo della Commissione".
"Si spieghi…."
"Le proposte legislative nascono in Commissione ed è
importante che partano con il piede giusto. Capisce cosa intendo dire?"
"Me lo spieghi lei".
227
"Voglio dire che il Parlamento ha la possibilità di emendare le
proposte della Commissione, ma l'impianto di base resta quello della
Commissione, che, se lo ritiene opportuno, ha il potere di fare marcia
indietro".
"Marcia indietro?"
"Si…insomma…può ritirare la sua proposta".
"Signori, capisco la necessità di percorrere il quadro teorico
che è alla base della vicenda ma io preferirei che si entrasse nel merito
del crimine commesso", affermò il giudice, con tono severo.
"Signor giudice, mi consenta di completare il quadro", propose
il pubblico ministero.
"Lo faccia ma in maniera più aderente al crimine", intimò il
giudice.
"Prego, prosegua…", rivolgendosi ad Antoine.
"Si, in pratica…quello che stavo dicendo…è da precisare che
un forte potere appartiene alla Commissione che propone. Nella
fattispecie
si trattava di una proposta molto favorevole alla richiesta dell'industria.
Noi non ne capivamo le ragioni, finché un giorno venimmo sollecitati
da un funzionario. Si trattava di Enzo Faramelli".
"Enzo Faramelli, ovvero il compagno della vittima", precisò il
rappresentante dell'accusa, interrompendo l'esposizione di Antoine.
"Il signor Faramelli aveva chiesto un incontro per il giorno 16
giugno. Giunse puntuale e venne ricevuto nell'ufficio della signora
Sedlakova, in presenza mia, del signor Faramelli e della signora Sturc, la
segretaria. Il signor Faramelli venne fatto accomodare e subito si entrò
nel vivo della discussione. In verità, né io né la signora Sedlakova
avevano compreso quali fossero le ragioni che avessero spinto il signor
Faramelli a contattare la signora".
"Non avevate neanche un’idea del perché?"
"Ritenevamo che la questione da discutere fosse legata ai
medicinali ma non potevamo assolutamente immaginarne i contorni
esatti. Al telefono, il signor Faramelli era stato piuttosto vago lasciando
intendere che sarebbe stato molto importante incontrarsi e parlare di
228
persona".
"Come avete reagito a quella proposta?"
"Eravamo certamente incuriositi".
"Una curiosità legittima".
"…una curiosità che venne presto ripagata".
"Cosa vi disse Faramelli?"
"Ci disse che bisognava agire per impedire di presentare una
proposta di riforma pericolosa, in grado di mettere in pericolo la salute
di milioni di persone".
"Si spieghi meglio", esigette il pubblico ministero.
"Durante l’incontro, Faramelli fu molto preciso e dettagliato.
Ci illustrò il progetto di revisione della legislazione farmaceutica, dalla
questione della pubblicità a quella della medicina omeopatica, per
esempio. Tuttavia, l'aspetto sul quale Faramelli si soffermò riguardava
la questione dei brevetti. Ci disse che proteggere un farmaco era
importante, ma proteggerlo eccessivamente poteva essere dannoso".
"In che termini?"
"Nel senso che sarebbe legittimo e anche auspicabile che il
brevetto di un farmaco venga protetto. Ci sono diversi anni di ricerca e
investimenti importanti che non verrebbero fatti se non fosse garantito
un ritorno dal punto di vista economico. Nessuna industria potrebbe
permettersi di fare ricerca gratuitamente. Il brevetto impedisce che il
farmaco venga copiato e assicura un certo ritorno dal punto di vista
economico. D'altra parte bisognerebbe verificare se questo ritorno sia
adeguato oppure eccessivo".
"E Faramelli cosa disse al riguardo?"
"Faramelli ci mostrò dei grafici. Risultava che solo una parte di
quei profitti serviva a coprire gli investimenti fatti e solo una
percentuale modesta veniva reinvestita".
"Si spieghi in maniera che tutti possano capire", sollecitò il
pubblico ministero, guardando i presenti in aula.
"Una parte importante di quei profitti rappresentano un
guadagno netto per l'industria. Si tratta di un guadagno non giustificato
229
dalla ricerca sostenuta ma reso possibile esclusivamente dall'eccessiva
protezione che i prodotti ricevono attraverso i brevetti".
"E quali sono le conseguenze più importanti?"
"La conseguenza più importante consiste nell'impossibilità di
copiarli. Non potendoli copiare non possono essere messi a
disposizione di quelli che non possono permettersi di sostenere prezzi
elevati per acquistare gli originali. Il caso più eclatante riguarda i
farmaci che vengono utilizzati per curare alcune malattie specifiche,
come l'Aids, nei paesi in via di sviluppo".
"Era questo che intendeva all'inizio quando ha fatto
riferimento alla possibilità di mettere in pericolo la salute di milioni
persone nel mondo?"
"Sì, era questa la preoccupazione di Faramelli. Un progetto di
riforma che, invece di ridurre, estendesse il periodo di protezione
brevettuale avrebbe avuto queste conseguenze".
"E si stava lavorando su un progetto che estendesse il periodo
di protezione?"
"In realtà no. Si stava lavorando per un periodo che lo
riducesse ma la pressione condotta dall'industria farmaceutica avrebbe
potuto modificare il progetto iniziale. Faramelli stava lavorando sulla
bozza di riforma".
"E cosa le riferì?".
"Ci avvertì che le pressioni stavano aumentando e che il
progetto iniziale stava per essere modificato. Il direttore generale gli
aveva, diciamo, suggerito di cambiare la bozza. Lui si era rifiutato di
farlo e il progetto gli era stato sottratto. Inoltre, era stata avviata
un'azione disciplinare nei suoi confronti per essersi opposto agli ordini
della gerarchia. A quel punto, temendo delle sanzioni, si era rivolto a
noi".
Ana lo prese tra le braccia. Antoine aveva fame. Era ormai
stanco di raccontare e avrebbe voluto solo mangiare e riposare. Più
tardi avrebbe fatto certamente l'amore con lei.
230
Bruxelles
"Chiamami ogni volta che puoi", gli disse il padre di Jan prima
di mettere giù il telefono, "per me queste conversazioni rappresentano
una consolazione".
Eppure, Enzo non gli era immediatamente piaciuto. Diceva al
figlio di non fidarsi degli italiani,
"Quell’ossuto fuscello mediterraneo ti farà soffrire".
La morte di Jan aveva eliminato i contrasti. Enzo aveva preso
l'abitudine di telefonargli ogni sera, anche se per pochi minuti.
"Ci unisce la tragedia".
Si trattava di un'operazione che aveva per entrambi un valore
catartico, quasi come se la condivisione riuscisse a lenire il dolore.
Purtroppo, però, il dolore non é rappresentato da una somma zero
della sofferenza, per cui condividere significa dimezzarne gli effetti. Il
dolore restava intatto per entrambi.
Durante la conversazione, i due non parlavano quasi mai di
Jan. Si raccontavano le loro giornate e si soffermavano sugli episodi più
leggeri. Quella sera, invece, parlarono di Jan.
"Domattina, devo deporre al processo", riferì Enzo.
Chiuse la conversazione e venne assalito dai ricordi. Si distese
sul divano e pensò intensamente.
"Non è nostalgia ma necessità. Devo ricordare ogni particolare
che possa essere di aiuto all'accertamento della verità".
Senza quasi rendersene conto, finì per addormentarsi. Si
svegliò alle quattro del mattino e si diresse in camera da letto. Il divano
gli aveva spezzato le reni e necessitava un posto soffice. Si distese sul
letto ma non riuscì più a riprendere sonno. Poco dopo le sei, si alzò. Si
rase con attenzione, evitando di provocare le piccole ferite sul viso che
avrebbero finito con il macchiare la camicia fresca del mattino. Evitò
anche di prendere il caffè per timore di accrescere la tensione che da
giorni lo stava torturando.
"Non so come reagirò emotivamente. Oggi sono obbligato a
ricordare".
231
Uscì di casa e si trovò nei pressi del Tribunale, molto in
anticipo rispetto a quanto avrebbe dovuto. Non entrò subito e preferì
attendere.
Per ammazzare il tempo che sembrava non passare mai, iniziò
a passeggiare sulla Avenue della Toison D'Or. Si soffermò davanti le
vetrine, senza riuscire a riporre attenzione agli oggetti esposti.
"Le nove, finalmente!" esclamò guardando l’orologio.
Si diresse verso l'aula, dopo avere chiesto all’usciere dove si
trovasse. Scoprì di essere il primo a dovere testimoniare.
"Prego, venga avanti e si segga in corrispondenza del banco
dell’accusa", lo invitarono.
Enzo si guardò intorno e non riconobbe nessuno dei presenti.
"Giudice, io vorrei iniziare l'interrogatorio del teste, partendo
proprio dall'ultima deposizione, quella di Antoine Sagna", chiese
l'accusa.
"Prego", rispose il giudice.
"Dunque, signor Faramelli, il signor Sagna ha riferito in aula
del suo incontro con il deputato Eva Sedlakova".
Dopo una breve pausa si rivolse al giudice per spiegare:
"Signor giudice, pongo questa domanda perché costituisce un elemento
determinante per comprendere il ruolo giocato dall'imputato in questa
vicenda. L'incontro in questione è molto importante perché
rappresenta l'ostacolo che viene posto al disegno di James D'Angelo di
fare promuovere una riforma della legislazione farmaceutica in senso
favorevole all'industria che rappresentava".
"Proceda pure", gli rispose ancora una volta il giudice,
invitando il pubblico ministero a proseguire.
"Signor Faramelli, la prego..."
"All'epoca in sui sono successi i fatti, io mi occupavo di gestire
il dossier riguardante la riforma della legislazione farmaceutica".
"Può chiarire il concetto di gestione del dossier? Mi spiego,
potrebbe precisare quali fossero le sue mansioni?"
"Gestivo il dossier nel senso che ero io, in prima persona, a
232
occuparmene. Ero io che preparavo i progetti che sarebbero poi stati
successivamente approvati. Naturalmente, prima di giungere alla
stesura di un progetto di riforma, occorre procedere in maniera tale da
ascoltare tutte le parti in causa. Vengono stabiliti dei gruppi di lavoro e
si raccolgono i suggerimenti che emergono. Successivamente occorre
materialmente scrivere la proposta. Ecco, io mi occupavo di redigere il
testo".
"Dunque, lei ha scritto materialmente il testo di base?"
"Confermo! In larga parte, mi sono occupato di redigere
materialmente il testo".
"Quali erano le indicazioni emerse durante le riunioni dei
gruppi di lavoro?"
"Indicazioni contrastanti. Le associazioni dei consumatori
chiedevano un accesso meno regolamentato ai farmaci e più attenzione
alla sicurezza. I rappresentanti dell'industria, da parte loro, puntavano
molto all'estensione del periodo di protezione brevettuale".
"Ecco, desidererei che lei approfondisse questo aspetto. Perché
l'industria ha scelto di focalizzare la sua attenzione sui brevetti?"
"In parole semplici, perché brevetti vogliono dire profitti. Più
si estende la protezione brevettuale di un prodotto e meno esiste la
possibilità di averne uno simile sul mercato".
"Profitti?"
"Si moltiplicano i guadagni attraverso i brevetti".
"Guadagni giustificati?"
"In parte, perché l'industria sostiene il peso della ricerca. In
parte no".
"In parte no?"
"In parte no perché alimentano superprofitti a svantaggio della
salute di molti uomini".
"Cosa prevedeva il testo originale della riforma farmaceutica
che lei aveva materialmente redatto?"
"Prevedeva una riduzione del periodo di protezione
brevettuale di un farmaco da venti a diciotto anni".
233
"Cosa, invece, pretendeva l’associazione degli industriali?"
"Un’ estensione del periodo di protezione brevettuale da venti
a venticinque anni".
"Chi rappresentava l'industria nei gruppi di lavoro?"
"Karl Schultz, Simon Weiss e James D'Angelo".
"Lei venne contattato da James D'Angelo?"
"No. Io ho incontrato il signor James D'Angelo nell'ufficio del
direttore generale ma non ho mai avuto nessun contatto diretto con
lui".
"Chi era il direttore generale a cui fa riferimento?"
"Si tratta di Jeroen Van Boxen"
"Quali erano i rapporti tra Jeroen Van Boxen e James
D'Angelo?"
"Immagino avessero buoni rapporti. Oddio! Erano rapporti
formali ma i due mi davano l'impressione di conoscersi".
"Cosa glielo faceva pensare?"
"Si erano salutati con una calorosa stretta di mano. Avevano
fatto riferimento a delle situazioni avvenute in passato. Tuttavia, non
erano tanto questi elementi che mi portavano a ritenere che i due si
conoscessero quanto piuttosto quello che avvenne successivamente la
stesura della bozza di riforma".
"Può riferire alla Corte cosa avvenne?"
"Venni convocato dal direttore generale, insieme al mio capo
unità. Mi venne espressamente domandato di modificare alcuni aspetti
della bozza, che avevamo precedentemente concordato".
"Cosa le veniva richiesto?"
"In particolare, di modificare completamente gli aspetti relativi
ai brevetti. Non solo non si riduceva il periodo di estensione
brevettuale ma si proponeva di allungarlo".
"Era accolta la proposta dell’industria".
"Esatto! Veniva accolta la proposta dell'industria".
234
"Lei come reagì?"
"Dissi che mi sembrava scorretto nei confronti delle
associazioni che avevano partecipato ai gruppi di lavoro e che ci
saremmo ritrovati l'opinione pubblica contro. Soprattutto feci notare
che alla base esisteva una questione etica imprescindibile, la salute di
milioni di persone nel mondo".
"Potrebbe precisare?"
"La riforma avrebbe avuto effetti anche sulla questione legata
all'accesso dei medicinali negli stati meno sviluppati. Se, invece, di
ridurre il sistema di protezione, lo allungavamo, avremmo finito per
dare un segnale negativo. Ne avrebbe risentito tutto il sistema".
"Lei disse che lo fece presente al direttore generale".
"Certo, non solo lo feci presente, ma entrai nei dettagli. Spiegai
quali sarebbero state le conseguenze?"
"Cosa le rispose il direttore generale?"
"Ascoltò le mie argomentazioni in silenzio. Mi lasciò terminare
e poi mi disse semplicemente di apportare le modifiche che mi aveva
richiesto".
"…ovvero di allungare il periodo di protezione brevettuale
fino a venticinque anni", chiosò il rappresentante dell'accusa
rivolgendosi al giudice e successivamente ai presenti in aula.
"Esattamente!" replicò Enzo, senza aggiungere nulla.
A quel punto, il giudice intervenne per richiamare ancora una
volta l'accusa a ragionare in maniera più attinente il crimine commesso.
"Altrimenti si rischia di trasformare l'aula del tribunale in un
forum scientifico".
Il pubblico ministero non replicò direttamente, ma chiese a
Enzo di spiegare quali fossero le sue impressioni riguardo alle richieste
che gli venivano fatte.
"Ebbi la sensazione che ci fossero degli interessi ben specifici
da coprire perché quando mi opposi alla richiesta fattami dal direttore
generale, lui non fece altro che rispondere ‘Qualcuno la farà al suo
posto ‘".
235
"Le sembrava una minaccia?"
"Il direttore generale è un mio diretto superiore e avrebbe
avuto il potere di rimuovermi nel caso io non avessi fatto il mio lavoro
come avrei dovuto.
"Lei la definirebbe una minaccia?", ripeté il rappresentante
dell'accusa.
"Posso dirle che ebbi la sensazione di avere ricevuto una
minaccia. Io stavo facendo il mio lavoro, seguendo le regole del caso.
La richiesta fatta dal direttore generale, non motivata e non aderente a
quello che era stato il lavoro svolto fino ad allora, mi diede
l'impressione di un intervento esterno".
"Un intervento esterno di che tipo?"
"Era come se fosse intervenuto un potere superiore capace di
dirigere il corso degli eventi.
"Potrebbe essere più chiaro?"
"Mi faccia una domanda precisa".
"Ebbe, di fatto, la sensazione che il direttore generale
prendesse ordini da entità esterne", precisò il rappresentante
dell'accusa.
"Non la metterei in questo modo".
"E come la metterebbe?"
"Non mi diede l'impressione di essere un burattino, se è questo
che intende. No, direi piuttosto che ebbi l'impressione di un uomo
facente parte di un sistema di interessi".
"E cosa le fece pensare che il direttore generale fosse collegato
all'imputato?"
Prima ancora che Enzo avesse la possibilità di rispondere,
intervenne con veemenza l'avvocato difensore di James.
"La domanda è pretestuosa. Non c'è nulla che il testimone
abbia detto finora che sia riconducibile all'imputato".
Il giudice intervenne per tranquillizzare l'avvocato difensore e,
nello stesso tempo, per precisare l'andamento dell'interrogatorio che si
stava svolgendo.
236
"La prego, faccia rispondere. Ho appena chiesto all'accusa di
attenersi maggiormente al contesto del crimine commesso".
Enzo venne autorizzato a rispondere.
"Nel momento in cui il direttore generale mi chiese di
effettuare le modifiche, non pensai assolutamente al legame con
l'imputato".
"Ecco, è soddisfatto ora?" domandò, ironicamente, l'avvocato
difensore al rappresentante dell'accusa.
Enzo intervenne chiedendo di poter terminare.
"Un attimo, avvocato. Faccia finire il teste", rispose il pubblico
ministero, consapevole che la partita, sulla domanda che aveva
provocato il risentimento dell'avvocato difensore, non fosse affatto
chiusa.
"Non ebbi allora questa sensazione, ma poi, tornando a casa,
iniziai a riflettere sull'intera vicenda. Mi tornarono in mente gli incontri
che il direttore generale aveva avuto con l'imputato e al quale io stesso
avevo assistito".
James seguiva la testimonianza resa da Enzo, apparentemente
senza emozioni. Il suo viso non mostrava alcuna espressione
particolare, neanche quando si fece allusione al suo ruolo. Si mosse
solo due volte per afferrare un bicchiere. Sorseggiò dell'acqua e si
ricompose. Enzo evitò di guardarlo, probabilmente per fuggire dalle
emozioni.
"Devo ricordare con attenzione tutti i dettagli", pensò.
Continuò ad esporre i fatti.
"Negli incontri abbiamo discusso di brevetti".
"Solo brevetti?" volle sapere il giudice.
"No! Tuttavia, l'aspetto più importate su cui ci siamo
soffermati è stato, senza dubbio, la questione della protezione
brevettale dei prodotti".
"Si soffermi sul ruolo del signor D’Angelo".
"Il signor D'Angelo fece presente le ragioni dell'industria. Le
sue richieste furono chiare".
237
"Potrebbe ripeterle?"
"Fece presente che l'estensione della patente, lui la chiamò
così, utilizzando il termine inglese, rappresentasse un elemento
importante della riforma e che l'industria ne avrebbe avuto
assolutamente bisogno".
"Lei ebbe modo di controbattere alle argomentazioni del
signor D'Angelo?"
"Ebbi modo solo parzialmente di controbattere. Iniziai a
spiegare le mie ragioni, ma il direttore generale pretese che non mi
dilungassi molto sulla questione".
"Come interpretò il comportamento del direttore generale?"
"Allora ebbi l'impressione che lui avesse le idee chiare e che
preferisse non approfondire per evitare di scoprire le nostre carte di
fronte ad un rappresentante dell'industria".
"Quindi, ebbe un’impressione poi rivelatasi sbagliata".
"Devo ammetterlo, purtroppo! Fino ad allora, del resto, non
mi aveva assolutamente impedito di proseguire nel mio lavoro".
"Per questo si trovò, come dire….spiazzato, di fronte alla
richiesta del direttore generale di modificare il testo che avevate in
precedenza ampiamente concordato?"
"Fui sorpreso e non riuscivo a capirne le ragioni".
"Pensa di averle comprese ora?"
"Tornando a casa, cercai di mettere in ordine i tasselli. Ricordai
le riunioni fatte alla presenza del signor D'Angelo e le modifiche
pretese dal direttore generale. Ebbene…quelle modifiche coincidevano
con le richieste dell'industria".
"Cosa decise di fare allora?"
"Decisi di resistere. Non avrei apportato le modifiche che mi
venivano richieste".
"Era consapevole che avrebbe rischiato la perdita del dossier?"
"Ci tenevo a trattare il dossier. Mi dava molta visibilità e
sarebbe stato importante per la mia carriera, ma non avrei fatto il
semplice scribacchino di una legge ingiusta. Quando mi venne tolto,
238
feci delle osservazioni scritte per riaverlo indietro".
"Cosa le venne risposto?"
"Mi venne risposto che era nel potere del direttore generale
modificare l'assegnazione dei compiti e che avrei dovuto farmene una
ragione per evitare sanzioni".
"Sanzioni di che genere?"
"Sanzioni disciplinari".
"Chi avrebbe potuto impartirgliele"
"Era nel potere del direttore generale modificare
l'assegnazione dei dossier. Era un mio superiore gerarchico e poteva
farlo, ma sulla base di una giusta motivazione che io facevo fatica a
trovare. Mi consultai con i sindacati e mi venne consigliato di insistere.
Mi dissero che non avrei dovuto cedere ai soprusi e che loro sarebbero
stati certamente al mio fianco. Mi dissero che Van Boxen era un
cosiddetto paracadutato dalla politica, messo in quel posto per fare gli
interessi dell'industria".
"E decise, pertanto, di andare avanti…"
"Esatto, decisi di proseguire. Feci ancora delle osservazioni
scritte alle quali, senza alcuna spiegazione, seguì l'apertura di un'azione
disciplinare nei miei confronti, per grave negligenza. A quel punto, mi
sono sentito messo con le spalle al muro".
"Ha avuto paura di essere licenziato?"
"Ho avuto paura di perdere il lavoro ma, soprattutto, non
volevo perdere la mia dignità. Ne ho fatto una questione di principio.
E, allora, se avessi dovuto perdere il lavoro, lo avrei perso
combattendo".
"A quel punto decise di contattare la signora Eva
Sedlakova…".
"Un’opzione possibile era quella di interessare i membri del
Parlamento europeo. Loro ne avrebbero potuto fare una questione
politica.
"In che modo?"
"Nel caso avessero condiviso le mie preoccupazioni, avrebbero
239
potuto darmi l'appoggio che io, da semplice burocrate, non avrei mai
potuto avere".
"Decise, pertanto, di chiedere un incontro alla signora
Sedlakova".
"Infatti! Mi rivolsi alla signora Sedlakova, in quanto presidente
della Commissione industria del Parlamento europeo. Ecco, lei ne
avrebbe potuto fare un caso politico se avesse voluto".
"E lei supponeva che lo avrebbe fatto?"
"Non ne ero certo ma non avevo altra scelta se non quella di
provare"
Il rappresentante
dell’inchiesta.
dell'accusa
menzionò
uno
stralcio
"Come risulta dalle testimonianze già rese dalla signora
Sedlakova e dal suo assistente Antoine Sagna, il signor Faramelli prese
appuntamento e incontrò la signora Sedlakova al Parlamento europeo".
Quindi, chiese a Enzo Faramelli.
"Quale fu il risultato di quell'incontro?"
"Il risultato fu positivo. La signora Sedlakova prestò attenzione
alle mie parole. Disse, finanche, che condivideva le mie preoccupazioni.
Fu soprattutto il suo assistente a incoraggiarmi. Mi disse che la
questione dell'accesso dei medicinali negli stati più poveri era
estremamente importante".
"E lei proseguì nella sua azione…."
"Io proseguii nella mia azione ma anche loro procedettero
nella loro. Io non potei più occuparmi del dossier, il testo venne
modificato e spedito in Parlamento per l'approvazione definitiva. Si
sarebbe dovuto approvare secondo la procedura di codecisione che
coinvolge il Parlamento e il Consiglio in maniera congiunta. Per quel
che mi riguarda venne avviata l'azione disciplinare".
"A parte l'azione disciplinare, ricevette anche delle minacce?"
"Sì. Ho ricevuto alcune lettere anonime".
"Potrebbe specificare?"
"Una sera, mentre mi trovavo con il mio compagno, la mia
240
auto venne affiancata da un'altra. Dovetti frenare improvvisamente per
evitare di finire in una scarpata. Jan disse che l'auto mi aveva affiancato
inavvertitamente. Io ebbi la sensazione di qualcosa di strano ma non
denunciai l'accaduto. Non avrei avuto alcun elemento concreto da
riferire".
"Le lettere anonime costituivano un elemento concreto",
precisò il pubblico ministero.
"Non proprio. Vi erano una serie di avvertimenti generici. Non
si faceva alcun riferimento alla questione della riforma della legislazione
farmaceutica. Io avevo il presentimento che il riferimento fosse alla
riforma ma Jan non era d’accordo. Riteneva che fosse da rapportare alla
nostra relazione".
"In che senso?"
"Una relazione tra omosessuali poteva essere stata presa di
mira da gruppi omofobi".
"Veniamo al delitto. Perché Jan e non lei? Era lei il bersaglio
dopotutto".
"Non so spiegarmelo se non come una sorta di avvertimento
di tipo mafioso. Una vendetta trasversale".
Dopo la risposta di Enzo, l'avvocato difensore insorse
affermando che il rappresentante dell'accusa stava cercando di
influenzare la Corte con domande che contenevano già un verdetto. Il
giudice redarguì il pubblico ministero, accogliendo le proteste
dell'avvocato difensore di James.
"Non si tenga conto della risposta del teste", affermò.
Infine, fece presente al rappresentante dell'accusa: "Se non ci
sono ulteriori richieste, il teste può essere congedato".
"Non ci sono ulteriori domande", confermò il pubblico
ministero.
Enzo si sollevò dalla sedia e si diresse verso l'uscita. Lungo il
cammino, incrociò lo sguardo di James. Visse un attimo di
commozione. Pensò a Jan ma non lo diede a vedere.
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Ginevra
Smise di parlare improvvisamente, sfinito per la stanchezza.
Disteso sul divano, si addormentò tra le sue braccia. Si svegliò dopo
due ore. Ana lo teneva ancora con sé. Lo accarezzò sulla fronte e lui le
sorrise.
"Sono contento di riaverti di nuovo vicino", le disse.
Antoine socchiuse di nuovo gli occhi. Era stanco dopo aver
trascorso gran parte di quel 2 marzo in treno.
Di ritorno a Ginevra, aveva avuto tutto il tempo per
ripercorrere l’intera giornata, ad iniziare dal traumatico risveglio,
provocato da un’autoambulanza, sfrecciata, alle cinque, sotto casa sua.
"Maledetta sirena!" esclamò.
Aveva avuto un sussulto e immediatamente si era messo a
pensare alla deposizione che avrebbe dovuto rendere.
Ripensò all'incontro con Enzo Faramelli.
"Non avrei mai potuto immaginarne le conseguenze".
Eppure vedendolo entrare nell'ufficio di Eva, aveva potuto
notare la preoccupazione dipinta sul suo volto.
"Rimasi colpito. Era evidente che quell’uomo avesse difficoltà
a riposare".
Sul viso, già di per sé scarno e ossuto, si potevano notare due
profonde occhiaie, esageratamente nere. A partire da quelle concavità,
si sporgevano due occhi spiritati, che i raggi del sole illuminavano di
uno strano colore rosso.
"Nonostante facesse caldo, l'uomo si torturava con una giacca
di panno di colore marrone totalmente inappropriata. Era certamente
di una taglia più grande perché gli cadeva male sulle spalle. Lo
incartocciava come un adolescente costretto a vestire un abito da
uomo. Anche i pantaloni gli cadevano male e si sorreggevano solo
grazie ad una cintura di pelle".
A ritmo cadenzato, quasi ogni cinque minuti, Enzo tirava su la
242
cintura per rimodellarli sulle gambe, anch'esse scarne e filiformi.
"Lo osservai e anche Eva lo fece".
Benché l’uomo ossuto si esprimesse in francese, si poteva
cogliere uno strano accento che lo accomunava al tizio con il quale
aveva fatto l'amore qualche tempo prima.
Eva, di fronte a Enzo Faramelli, aveva pensato al napoletano,
‘l'uomo che mi ha avuta senza che io lo volessi ’.
Che strano destino il suo! Rigida e austera sul lavoro, debole e
remissiva nella vita privata. Si era concessa al napoletano per un ricordo
mal digerito. L’incontro con l’accento di Enzo, l’aveva riportata indietro
nel tempo.
"La memoria involontaria, innescata da quell’accento mi diede
una carica di energia positiva", Eva confessò a se stessa.
Antoine ed Eva rimasero impressionati dal racconto dell’uomo
ossuto. Entrambi avvertirono un forte sentimento di responsabilità.
"Ha coraggio!" sostenne Eva, parlando di Enzo.
"Andrebbe aiutato", mormorò Antoine.
"Ci devo pensare", rispose Eva.
Si trattava di una decisione importante.
"Dovrei fare la fronda alla Commissione", aggiunse.
"Sarebbe più difficile fronteggiare la reazione degli industriali".
Antoine, ancora tra le braccia di Ana, pensò al seguito di
quell’incontro.
"Eva, come promesso, prese la decisione di supportarne
l'azione. Mi pregò di approfondire gli aspetti della riforma e di
soffermarsi sulla questione dei brevetti".
Quando la proposta venne discussa in sessione plenaria del
Parlamento europeo, Eva fu molto chiara.
Il 15 aprile 1994 é stato creata l'Organizzazione Mondiale per il
Commercio, come ultimo atto dell'Uruguay Round. Le parti firmatarie hanno
aderito agli accordi multilaterali sul commercio delle merci, e soprattutto all'accordo
sugli aspetti di diritti di proprietà intellettuale, TRIPS. Nel 1995 anche i farmaci
243
sono stati inclusi tra i beni da brevettare e regolamentati dall'OMC, come i CD o
come una Barbie.
Prima dell'Uruguay Round e della nascita dell'OMC, numerosi stati
non riconoscevano il diritto dei brevetti sui prodotti farmaceutici, con grande
rammarico dei maggiori laboratori farmaceutici, i cui prodotti non potevano essere
protetti ovunque.
I farmaci protetti dai brevetti sono costosi. Il detentore del brevetto, che ha
il monopolio del farmaco, cerca di trarne il massimo profitto ma non appena è
possibile la concorrenza dei generici, il prezzo crolla. Quando nel 2000 il governo
brasiliano iniziò a produrre farmaci generici per l'Aids, i prezzi scesero dell'82%.
I brevetti costituiscono un ostacolo importante all'accesso a nuovi farmaci
in paesi con poche risorse. Le aziende investono preferibilmente in mercati
commercialmente remunerativi e tendono a dimenticare quelli poco redditizi, cioè le
aree in cui i bisogni sanitari sono maggiori. Il modello d'incentivazione, in genere,
ritenuto adatto a stimolare l'invenzione di nuovi prodotti per la salute pubblica nel
Nord del mondo pare avere poco o nessun valore quando si parla di bisogni della
gente nei paesi poveri. Si tratta di una conseguenza logica del meccanismo di ricerca
e sviluppo basato sui brevetti, su cui poggia oggi la nostra società.
Bruxelles
"Mi sembra sia giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla
riforma della legislazione farmaceutica", riferì Eva ai colleghi riuniti in seduta
plenaria.
In un mondo in cui i farmaci sono diventati brevettabili ovunque le
istituzioni, ad iniziare da quelle europee, devono garantire un forte sostegno politico
all'obiettivo primario che è quello di proteggere la salute dei cittadini. L'accesso ai
farmaci essenziali rappresenta una necessità e un diritto fondamentale di ogni
popolazione.
La riforma che siamo chiamati ad approvare deve creare le condizioni
affinché i farmaci essenziali siano disponibili in modo adeguato, tempestivo e
sostenibile per tutte le popolazioni, incluse quelle vulnerabili. Si devono cercare
altresì le condizioni per colmare lo squilibrio esistente fra i paesi industrializzati e
quelli poveri per quel che riguarda il diritto all'accesso a terapie essenziali e
salvavita.
244
Contemporaneamente, al Tribunale, qualche minuto dopo la
testimonianza di Enzo Faramelli, l'avvocato difensore di James chiese
alla Corte se il suo assistito potesse rendere delle dichiarazioni
spontanee. Il rappresentante dell'accusa allora si rivolse verso James e
lo guardò intensamente, mentre il giudice, con una flemma tipicamente
belga, si limitò a dare la parola all'imputato.
James si alzò in piedi. Era stanco. Aveva trascorso l'ennesima
notte insonne, spesa a ripercorrere la sua storia con Marita e il rapporto
con la sua famiglia. Il pensiero dei figli era stato prepotente e
devastante, quello per la moglie dolce e, allo stesso tempo, irriverente.
Sentì di essere sfuggito alla sua dimensione.
"Non posso liberarmene. Se anche dovessi uscire incolume dal
processo, rimarrebbe una cicatrice profonda. Ho provato a giocare un
gioco più grande di me e ne sono uscito sconfitto".
Il giudizio di assoluzione o di colpevolezza avrebbe cambiato
poco la sua condizione.
Dopo aver osservato i presenti, sollevò lo sguardo verso il
giudice.
"Sono qui per riconoscere la mia sconfitta. Dio solo sa quanto
possa desiderare non aver fatto quello che ho fatto. Ho chiesto io di
dare una lezione a Enzo Faramelli. Non avrei mai immaginato di
riuscire a ordinare l'eliminazione di un essere umano eppure ci sono
riuscito. Non era Jan Schiller che andava eliminato ma Enzo Faramelli.
Credo che la morte di Jan Schiller sia stata un errore. Ora sono qui per
ammettere la mia colpevolezza".
"Non sa cosa sta dicendo…", affermò il suo avvocato
difensore.
"La prego, avvocato…", rispose James.
"Chiedo che la deposizione del mio assistito non venga messa
a verbale. Il signor D'Angelo è molto stanco".
"La prego, avvocato, lo lasci terminare", ordinò il giudice.
"Non ho niente altro da aggiungere, se non invocare il vostro
perdono", concluse James.
245
Mumbai
Avanish posò la tazza sul tavolo. Poi si alzò dalla sedia e andò
fuori. Faceva già molto caldo ma quel che è peggio l'umidità sembrava
fermargli il respiro. Il grido di perdono che James stava pronunciando
nell'aula di tribunale era diretto sopratutto a lui, benché non potesse
udirlo.
Antoine gli avrebbe riferito quel grido, due mesi dopo, il 2
maggio.
"Hai paura del perdono?" gli domandò Antoine.
Avanish non rispose. Ricordava la prima volta che lo aveva
incontrato. Era stato drammatico.
"È morto!" gli disse, senza giri di parole.
"E il negozio di scimitarre?"
"Non esiste più".
Antoine era risalito ad Avanish, proprio a partire dal negozio
di scimitarre che non c'era più. Aveva impiegato qualche giorno per
trovare il cammino che conducesse alla verità su Madan.
"È morto perché non si é potuto curare", disse Avanish ad
Antoine.
"Cosa resta di lui?"
"Io e i miei due fratelli".
Il 2 maggio, Antoine ritornò in India con Ana.
"Mi prenderò cura di voi", promise Antoine.
Avanish tornò a sorridere. Ana gli si avvicinò.
"Vieni qui".
Poi lo strinse e lo baciò.
"Verrete con noi a Ginevra. Dovremo abituarci a vivere
insieme".
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