Untitled - Crema on line

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Untitled - Crema on line
Tempo e Memoria
Nino Antonaccio
La bambina libica
a Mario Mantovani
© 2009, Il Simposio delle Muse edizioni, Crema (CR)
ISBN 9788890420009
www.ilsimposiodellemuse.com
1.
Non aveva neanche pranzato, quel giorno lì.
«Che t’importa! Dove dobbiamo andare mangerai quattro
volte al giorno!»
Ma Linda aveva fame lo stesso. Tutte le promesse che aveva
sentito in quei giorni non le avevano fatto effetto. E anche le
parole di suo papà Angelo erano vuote, come le loro pance.
Aveva poco tempo per salutare tutte le sue cose. La nave doveva essere già stracolma e il segretario della federazione aveva
minacciato i capifamiglia di lasciare a terra chi avesse portato
più di un fardello. Angelo voleva che nulla impedisse loro di
prendere il largo. Nessuno, neanche sua moglie, avrebbe avuto
in mano più di quello che era consentito. Anzi, l’unica valigia
l’avrebbe portata lui. Dentro, i suoi vestiti e quelli di Giovanna, e di sette figli.
Linda guardava dalla veranda il piccolo cortile e i giochi,
costruiti con pazienza dal papà per giornate intere nei mesi invernali. Due carretti senza ruote, una casetta blu dal balconcino sgangherato, delle bocce che sembravano patate. Sul muro
un asse di noce, inchiodato negli angoli. Angelo, con scalpello
e mazza, aveva intagliato a sinistra e a destra due foglie ondeggianti. Linda ricordava il sudore di suo padre che colava nel
canale della nuca scossa dai contraccolpi. La foglia di sinistra
era più gonfia di quella di destra. Alla fine, il papà la guardò
con occhi obliqui, occhi verde scuro che lei non riusciva mai
a vedere del tutto.
«Guarda che domani te la coloro», le disse con voce incompleta.
No, andava bene così. La targa della cascina Zanatta. Tutti
ce l’avevano, anche il conte Piano, il padrone della terra di
suo padre. Con un punteruolo Linda incise subito, in basso, il
nome della mamma, quello del papà e quelli dei fratelli.
Con l’indice si mise a percorrere i solchi anneriti, le volute
faticose, e si vide il braccio e si ammirò il completo di cotone
blu dell’ultima festa di compleanno che aveva trovato accanto
al suo letto la mattina, appeso con una gruccia alla maniglia
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della finestra. Guardandosi nel grande specchio dell’armadio
dei genitori, si era fatta qualche smorfia di compiacimento.
Sua madre voleva farla viaggiare da principessa e a lei la cosa
non dispiaceva. Aveva sentito parlare di una nave, una grande
nave. Che avrebbero però prima viaggiato in un treno. Non
c’era mai entrata lì dentro e i disegni sul libro della scuola
erano pieni di persone. Allora ci doveva essere tanta gente e la
mamma non voleva farle fare brutta figura.
2.
Non fece caso alla confusione che giungeva dalla cucina. Il più
piccolo, Giuseppe, non voleva smettere di piangere mentre
Giovanna andava da un figlio all’altro a controllare i vestiti.
Angelo ogni tanto le spuntava da dietro per farle fretta, ché la
carrozza per la stazione passava tra un’ora.
E poi c’era la casa. Dovevano lasciare il piccolo podere a
Jesolo per non tornarci più. Una volta partiti per la Libia, il
padrone avrebbe trovato altri fittavoli.
«Che non si pensi che qui c’era gente sporca!»
«Vannina, mica ci mandano i carabinieri se c’è qualche cartaccia in giro.»
«Però tu sei stato due settimane a pulire gli attrezzi, a scopare
il pollaio, che non l’hai mai fatto.»
«Al conte gli dobbiamo riconoscenza.»
«Appunto, è quello che dico anch’io. Quindi fammi fare
perché ci può sempre servire. E se poi andasse male in Libia,
se poi dobbiamo tornare indietro?»
«Eh no! Balbo ha detto che c’è terra e lavoro per tutti, che lì
faremo i signori!»
«Angelo mio, che il Signore ti ascolti!»
Linda sentiva parole che non comprendeva. Dalla finestra
con le tendine rosa, ricamate dalla mamma proprio mentre
era incinta di lei, giungevano rumori ma ancora nessun ordine. Poteva stare tranquilla ancora per un po’. Scese i tre gradini della veranda e si recò verso la latrina che si trovava in un
angolo del cortile. C’erano nuvole grandi e vento che muove-
va da un paio di giorni l’aria. I suoi riccioli castani si lasciarono andare dove volevano. Un ciuffo le finì davanti agli occhi,
non facendole vedere la piccola cuccia di legno scorticato dove
andava a nascondersi Tobia, il suo cane. La urtò col piede, si
spaventò del rumore inatteso.
Tobia era andato a stare dalla zia Adele e con lui i pochi
vestiti della famiglia. La sua cascina era poco più grande della
loro e lì tutto era stato sistemato in un angolo del solaio, in
un baule.
Adesso il cortile, in ordine come non lo era mai stato, con
tutti gli attrezzi ammucchiati sotto il portico, senza ammassi
di pacciame, con le cassette di legno allineate lungo il muro di
cinta, adesso sembrava tutto vuoto e silenzioso. Linda prese la
cuccia e la portò in un punto dove i nuovi fittavoli potessero
vederla, e forse non buttarla via. Si avvicinò alla porta della
latrina, ma non volle entrare. Fece la pipì nell’orto, dove la
faceva sempre, sotto un albero di ciliegie.
Si ricordò perché era lì. Sul muro esterno di quello stanzino
c’era la sua piccola cassaforte che però si poteva raggiungere
solo con l’aiuto di una cassa. Si tirò su. Scostò un mattone ben
preciso con una mano, con l’altra frugò nel buco tirando fuori
un fazzoletto con i quattro angoli annodati tra loro. Una volta
a terra, Linda si recò sul retro, alla larga dalla vista dei fratelli.
Nel fazzoletto c’era una piccola medaglia ovale legata ad una
catenina argentata. Gliel’aveva regalata la nonna Jole quando
era andata a trovarla a Treviso, nel suo vecchio e piccolo appartamento che dava su un vicolo scuro, che per raggiungerlo
aveva fatto strade storte e scivolose. Suo padre, tra un’imprecazione e l’altra, le aveva giurato che non l’avrebbe più portata
là, in mezzo a quella sporcizia. Linda era contenta di rivedere
la sua nonna dal viso luminoso e per tutta la loro visita erano
rimaste a parlottare fitto fitto e a ridere su piccoli giochi di parole, forse rivolti anche ad Angelo che, in un angolo, leggeva
annoiato il bollettino della parrocchia, e ogni tanto le scrutava
infastidito. Al momento di accomiatarsi la nonna le regalò la
medaglietta.
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«Tieni, questa si mette nelle occasioni importanti. È di latta
ma resistente. L’ho tenuta per tanti anni. È la Madonna del
Rosario. Tu, ogni tanto, di’ una preghiera. E lei, se tu le parli
bene e ti fai capire, ti aiuterà.»
La medaglietta doveva partire con Linda e la Madonnina
doveva ascoltarla, almeno lei. Nessuno, da giorni, le dava più
retta. Il viaggio, la Libia, il treno, la nave, la grande nave, la
terra, solo questo si sentiva dire. Lei non poteva, invece, fare
domande.
3.
«Le bottiglie, te le sei ricordate?»
Domenico comparve all’improvviso, come suo solito, arrivando con passo di gatto. Alto com’era, Linda alzò lo sguardo
e lo fissò e si ricordò quello che la mamma le aveva chiesto di
fare. Doveva riempire le piccole bottiglie che ognuno di loro
doveva portarsi in viaggio. Ebbe un vuoto che dalla testa passò
allo stomaco. Ora il tempo cominciava ad accorciarsi davvero.
Si tirò su le maniche, facendo bene attenzione a non stropicciarle troppo, e prese da una credenza scrostata nove bottiglie vuote di birra, ognuna col tappo di ceramica e il ferretto.
Le sistemò in una piccola cassa di legno e le portò alla vasca
di cemento, dove c’era il rubinetto e lo specchietto del papà
sul muro. Mentre portava la cassetta con le due mani, si rese
conto che non ce la poteva fare da sola, doveva farsi aiutare da
Pietro. Entrò in casa per cercarlo. Era seduto in cucina, che
leggeva L’Avventuroso sgranando gli occhi, incurante di tutto
quell’andirivieni. Si era messo comodo, con i piedi su un’altra
sedia, già vestito per la partenza, con su la divisa da balilla ed
il fez calzato in testa. Sembrava la pausa di una parata. Linda
gli toccò la spalla. Pietro sbuffò senza distogliere lo sguardo
dai disegni.
«Vieni che dobbiamo tirar su l’acqua. Ci sono le bottiglie da
lavare e da riempire. Dài!»
Lo scappellotto secco di Giovanna sulla nuca gli fece perdere
il segno. Il fez andò a finire in un angolo.
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«Muoviti, che dobbiamo andare! Vai con Linda alla fontana
e lascia stare ‘sti maledetti giornalini! E non ti sporcare, che
non ti cambio più!»
Serrò le labbra, chiuse le pagine. Guardò accigliato sua sorella
che era rimasta in piedi accanto alla sua sedia, braccia conserte.
Era il secondogenito, il fratello preferito che era nato due anni
prima di lei, e qualcuno diceva che sembravano gemelli. Stessi
occhi, stesse labbra fini. Quando ridevano insieme era come se si
specchiassero.
«Tu non sei triste che andiamo via?» chiese a suo fratello mentre
tagliavano l’aia.
«Papà ha detto che staremo meglio e che non ci saranno più
pozzanghere.»
«A me dispiace. Non vedrò più Elvira e Vittoria.»
Le aveva salutate il giorno prima, le sue due amiche dei giochi
delle mammine. Si erano abbracciate fino a stritolarsi. I sorrisi e
le rassicurazioni degli adulti non riuscivano a cancellare minimamente la loro piccola morte.
Anche adesso, mentre il getto puliva il vetro, piangeva un poco.
Pietro la scrutava di tanto in tanto, e gli veniva un po’ da ridere.
4.
Aveva aloni d’acqua sul vestito blu come se fosse un cielo di tempesta. Si sarebbero asciugati presto, con tutto quel vento. Nelle
stanze la confusione aumentava. Giovanna chiamava tutti i figli a
raccolta, davanti alla porta d’ingresso. L’ora della partenza si avvicinava ed Angelo era già pronto sul ciglio della strada, l’orologio in
mano, ad osservare il punto da dove sarebbe arrivata la carrozza.
«Madonna, non assomigliare a tuo padre se no non prendi
mai moglie! Lo vedi che fretta ci mette a tutti, che manca ancora
mezz’ora, lo vedi?»
Giovanna ce l’aveva con il grande, Domenico. Aveva la divisa
da avanguardista ma le scarpe erano sporche, di quello sporco che
non andava più via. Erano le scarpe che dal nonno erano passate al padre e poi a lui. Ma erano fatte bene, con cuoio di prima
scelta, un peccato lasciarle nel baule di zia Adele. Per Angelo era
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come portarsi dietro la memoria della buonanima di Piero, il padre morto a cinquant’anni mentre andava al mercato a vendere le
sue galline. Come tutte le domeniche, sempre ben abbigliato,
con la cravatta nera a nodo stretto, la camicia bianca ed il
completo grigio scuro. E con le sue scarpe, che aveva fatto fare
su misura dal calzolaio. Domenico non se lo ricordava più, il
nonno, però toccavano a lui quelle scarpe e gli andavano pure
bene. Quella mattina aveva passato tanto tempo a buttarci su
lucido nero e a strofinarle. Lucide erano lucide, ma ancora
graffiate da sembrare sporche. E allora lui ritornava a spalmarle, ma i segni rimanevano come cicatrici aperte.
Domenico voleva fare il pilota di aerei, non il contadino.
Leggeva sulle riviste le grandi imprese degli eroi del cielo, ammirava i sorrisi che dicevano che per loro trasvolare l’oceano
era facile come bere un bicchiere d’acqua. Lassù voleva andare,
e non quaggiù a scavare la terra tra le zanzare.
Angelo aveva capito le sue idee ma non poteva farci nulla. Se
lo portava dietro nei campi che la bonifica aveva reso coltivabili
e che non aspettavano altro che braccia buone per farli fruttare. Padre e figlio davano giù di zappa e bastonavano il bue. Ma
i loro desideri non erano gli stessi. Ascoltavano le promesse
del Duce che inondava i muri dei paesi con le immagini delle
colonie, con i proclami del nuovo benessere che li aspettava
in quelle terre una volta aride ma ora, grazie alle trivellazioni,
piene d’acqua che sgorgava a catinelle, pronta a inondare i
campi per i nuovi raccolti. E poi c’era la casa nuova.
Via da questo posto. Domenico aveva sedici anni e aveva
voglia di volare. In Libia forse sarebbe stato facile. Tra qualche
anno si sarebbe arruolato e chissà se un giorno, un aereo…
Raggiunse il padre, barcollando.
«Vedi che è sempre meglio essere in anticipo, che poi la fretta
la conosci, ti fa perdere la testa. Ora dobbiamo solo aspettare.
La mamma ha finito di mettere a posto?»
«E che ne so?»
«Ha finito di fare la valigia, ha vestito i bambini? Il pane?
L’acqua?»
Angelo guardò suo figlio solo pochi istanti per capire che
ognuno dei due era al solito posto. Lo vide sedersi sulla pietra
che indicava la distanza per Jesolo, con le mani nella tasca
della giacca. Prese a guardare le nuvole. Suo padre, in piedi,
con la catena dell’orologio che gli pendeva dalla mano destra,
pensò che il destino di suo figlio non dipendeva da lui e che
forse era un bene rimescolare le carte, provare ad andarsene
per giocarsela di nuovo, come se l’era giocata lui, quando era
riuscito ad avere quel podere per portarci la sua famiglia e lavorare, finalmente, e avere una casa.
E poi erano nati anche altri sei figli davanti a quei campi del
conte Piano, quello che veniva a controllare se il grano cresceva o no, a dare la colpa al cielo capriccioso o a ringraziarlo
per la sua clemenza. Certo, il conte non si impicciava dei fatti
suoi e di sua moglie, ma se l’avesse fatto si sarebbe accorto che
la tovaglia sul tavolo della cucina era la stessa da anni, e aveva
toppe slabbrate di colore diverso.
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5.
Tutti stavano aspettando senza fare nulla. La mamma era sulla soglia d’ingresso, con lo sguardo amorevole su Domenico,
sempre a testa in su, mentre Giuseppe le stava attaccato alla
gamba. Pietro stava in cucina a parlottare con Linda e a dare
piccoli calci ad un chiodo che spuntava da anni da un’asse. Michele e Jolanda stavano seduti sulla cassapanca dell’anticamera
e si tenevano la mano. Da qualche giorno si facevano paura a
vicenda, raccontandosi storie terribili sulla Libia, come quelle
che gli dicevano gli amici a scuola. Inventavano mostri neri
che uscivano dai pozzi mentre i bambini dormivano, guerrieri
armati fino ai denti che li aspettavano sulle coste e che avrebbero affondato la loro nave prima che attraccasse. E adesso
gliene venivano in mente altre ma non avevano il coraggio di
parlarne. Jolanda era comunque convinta che la sua compagna
di banco fosse invidiosa che loro andassero lì. E come lei tanti
bambini che erano diventati così antipatici negli ultimi giorni.
«I libici, i libici!» dicevano, indicandoli come degli appestati.
Erano invidiosi, sicuro. Michele all’inizio non ci faceva caso.
Solo che una volta gli avevano messo un ragnone peloso conficcato con uno spillo sul banco e, sotto, un foglietto che diceva Io sono il più piccolo dei miei fratelli ragni libici e andiamo
di notte nei letti dei bambini! Michele era tornato a casa con la
febbre addosso e quella notte fece brutti sogni.
Fu il primo a rompere il silenzio, con un filo di voce.
«Mamma, mamma.»
«Che c’è?»
«Devo andare in bagno.»
Guglielmo li vide e li seguì, ma Michele lo scansò.
«Mamma, mandalo via!»
«Hai sentito tuo fratello? Vai dal papà in strada e guarda se
arriva la carrozza, su.»
Pietro intanto lo teneva d’occhio. Non lo perdeva di vista
dal giorno in cui la mamma gli aveva detto che Guglielmo
avrebbe potuto essere più debole degli altri fratelli. Le aveva
chiesto spiegazioni, una sera, mentre raccoglieva le briciole sul
tavolo della cucina, lei aveva parlato solo di una sofferenza, la
levatrice era arrivata tardi, ma niente di cui preoccuparsi. Poi
era corsa subito da un’altra parte, lasciando cadere tutto sul
pavimento.
L’ansia richiamò in casa Angelo che sbuffò cercando una sedia.
«Dove sono la mamma e Michele?», urlò senza convinzione.
«Michele se la sta facendo sotto. Si è cagato addosso!» rispose
Pietro.
In altri momenti gli avrebbe mollato un ceffone ma adesso
l’impulso non gli passava neanche per la testa. Sentì Domenico che diceva qualcosa.
«Ho detto che è arrivata la carrozza, non la vedi?»
Si voltò alla sua sinistra e la vide rallentare a pochi metri. Il
guidatore già gridava per mettergli fretta. Non c’era un istante
da perdere.
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Avrebbe voluto essere in un deserto.
I vetri delle finestre della stanza erano caldi a fine giornata.
Non voleva più uscire dal collegio. Fuori era una vergogna.
Aveva sempre lo stesso vestito, quello che metteva dentro.
Lo lavava una volta a settimana e se lo asciugava addosso.
Il deserto sarebbe stato davvero il posto giusto.
ISBN 978-88-904200-0-9
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