sull`economia - Nonsolobanca

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sull`economia - Nonsolobanca
RIFLESSIONI
sull’economia
NOTIZIARIO
Economia-Finanza
SERGIO RICOSSA
Professore Emerito Facoltà di Economia
Università di Torino
Che la scienza economica, nonostante la massa straripante di pubblicazioni edite, incida poco sulla cultura generale dell’epoca è dimostrabile
in vari modi. Quando ancora facevo
lezione (ora sono in pensione) in una
facoltà universitaria mi divertivo a sottoporre gli studenti a un esperimento:
leggevo citazioni di Adam Smith e di
Karl Marx in forma anonima, e invitavo a riconoscere chi dei due fosse l’autore. Ebbene, era comune che un brano di Smith venisse attribuito a Marx
e viceversa. Gli studenti stentavano ad
ammettere che Marx dedicasse elogi
sperticati al capitalismo industriale,
mentre Smith lo criticava per le tendenze monopolistiche dei “manifatturieri”. Nessuno aveva mai letto veramente e meditato le opere fondamentali di quegli scrittori. Nessuno, per
REFLECTIONS ON THE ECONOMY
The mainstay of the economical game in a capitalistic
system consists in predicting costs in the hopes of uncertain and risky future profits. Production assumes the
aspect of a lottery and the economy brings to mind
gambling. The free market is open to experimentation,
to those with something advantageous to offer. Innovation means gambling on something which is unusual and of interest. Through its development, capitalism has invented much merchandise that is qualitatively new: keeping the market economy going becomes a matter of creativity. Everything revolves
around the production of new, non-essential goods:
there cannot be stability in a market of hazardous
games. In the Marxist system, the alternative is the end
of the economy with the fulfilment of all socially useful needs, according to the definition which it gives political authority.
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ECONOMIA-FINANZA
esempio, sapeva che in Marx esiste
una giustificazione valida del profitto
(lo stesso Marx sembra dimenticarsene in altre parti della sua opera) per
cui esso è una categoria contabile esistente in qualunque economia, insopprimibile, sia nel capitalismo privato
e sia nel socialismo più spinto o comunismo che dir si voglia; pertanto
prendersela col profitto, denigrarlo, è
inutile o sviante. Quando esisteva
l’Unione Sovietica, quel Paese contava certamente più capitalisti retribuiti col profitto di quanti ne contassero
gli Stati Uniti. E il paradosso è presto
spiegato.
Nell’Unione Sovietica, tutta la popolazione, lo volesse o no, partecipava all’anticipazione dei costi del prodotto, in vista di ricavi futuri e incerti. E la differenza tra ricavi posticipati e costi anticipati è per l’appunto il
profitto (o perdita, se negativa). Negli
Stati Uniti, invece, partecipava e partecipa alle anticipazioni solamente chi
vuole e può. Anticipare è una funzione volontaria nel capitalismo privato
del tipo americano; era una funzione
pubblica e obbligatoria nel capitalismo di tipo sovietico. Ma è anche vero che nel capitalismo privato le anticipazioni dei costi sono così frequenti che talvolta diventiamo anticipatori, quindi capitalisti, quindi percettori di profitti, senza neanche accorgercene.
Per esempio, se ci abboniamo a
un giornale o a una rivista, anticipiamo qualcosa all’editore, il quale ci ringrazia concedendoci uno sconto (un
profitto) rispetto a quanto pagheremmo comperando in edicola il giornale
o la rivista con esborsi meno anticipati. Gli impiegati che incassano il loro salario a fine mese, anticipano, lavorando gratis per un mese il costo
del loro lavoro. Qui si tratta, ovviamente, di una breve anticipazione ma
comunque tale da poter dire che gli
impiegati sono lavoratori-capitalisti e
che ricevono uno stipendio comprensivo di una quota di profitto, anche se
nessuno ci bada.
Le anticipazioni più importanti riguardano non un mese bensì un anno,
un decennio, un secolo. Per produrre
bisogna già avere assunto gli operai e
gli impiegati, comperato le materie prime e le macchine, costruito lo stabilimento, costruito gli stabilimenti dei
fornitori. Si determina una catena di
anticipazioni, che forma nel tempo un
retrocedere quasi all’infinito. La produzione si sa quando finisce (con un
bene di consumo), non si sa quando
comincia, tanto sono remote nel passato le sue origini, proprio come non
si sa dire se nasce prima l’uovo o la
gallina.
Che si debbano anticipare i costi
(gran parte dei costi) con la speranza
di ricavi futuri profittevoli ma incerti e
rischiosi, rende qualunque produzione
capitalistica simile a una lotteria, in cui
prima si compra il biglietto e poi, se
siamo fortunati, vinceremo un premio.
Tutta l’economia è un gioco d’azzardo,
piaccia o non piaccia, anche se vi sono giochi economici più rischiosi e altri meno. È inutile prendersela con gli
“speculatori”. Qualcuno è obbligato a
sopportare il rischio. Chi non ama il rischio si contenti di attività poco rischiose, se ve ne sono. Nell’Unione Sovietica sovente il rischio era collettivo,
legato ad anticipazioni collettive, ma
esisteva lo stesso, essendo connesso
a ogni attività umana.
Nel capitalismo privato le anticipazioni sono individuali, riservate a
chi è più tentato a correre il rischio.
Questo è un vantaggio. Tuttavia ciò
comporta un altro rischio: che persone scorrette riescano a trasferire una
perdita, una disavventura, a carico di
altri innocenti. E a ben guardare, nel
capitalismo pubblico esiste il rischio
politico che, similmente, le colpe dei
forti (diciamo: i pianificatori) ricadano
sui deboli privi di diritti tutelati. Così
il discorso cambia: usciamo dall’economia in senso stretto ed entriamo
nella politica, nel diritto, nell’etica.
Il discorso non sarebbe soddisfacente senza almeno un cenno alla tecnica e all’innovazione anche merceologica. Ciò permette di precisare che
in economia non tutto è questione di
azzardo. Il mercato capitalistico libero ha la funzione di permettere di sperimentare a chi ritiene di avere qualcosa di nuovo e di conveniente da proporre per sé e per i clienti e i consumatori dei suoi prodotti. Se l’innovatore ha visto giusto e trova una via migliore da percorrere tra costi e ricavi,
il vantaggio finirà presto o tardi col
diffondersi in tutto il mercato. Ma, appunto, bisogna che abbia visto giusto,
nonostante il maggior rischio derivante dal percorrere una via nuova,
anziché battere le solite, vecchie strade, che tutti conoscono.
Gli allibratori pagano poco o nulla a chi scommette su un cavallo i cui
pregi sono noti a tutti. Pagano molto,
inizialmente, a chi conosce prima degli altri i pregi di un nuovo campione
degli ippodromi. Così l’innovatore nel
mercato è spinto a puntare su quanto
è inusitato. Può trattarsi di un processo produttivo o di una merce (innovazione merceologica). Il capitalismo privato sarebbe finito da un pezzo se oggi ci limitassimo a produrre le
merci (cioè, in ultimo, i beni di consumo) che conoscevamo e si vendevano
alla fine dell’Ottocento. Al contrario,
per un altro secolo e oltre si sono “inventate” merci nuove qualitativamente: dall’automobile alla radio e alla musica registrata, dal cinematografo alla
televisione, eccetera.
In termini puramente quantitativi,
il capitalismo rischia sempre la sovrapproduzione. Ma il progresso non è
solo quantitativo, è soprattutto qualitativo, e può continuare all’infinito, purché la fantasia degli innovatori non venga a mancare nello scoprire modi di
soddisfare bisogni nuovi, o vecchi bisogni in forme nuove e appetibili. È una
questione di fantasia a tenere in vita
l’economia di mercato. Sembra che la
grande maggioranza dei consumatori
apprezzi tale lato della faccenda. Ma
c’è pure chi, almeno a parole, lamenta
la deriva dell’economia verso la produzione di nuovi beni “non essenziali”.
C’è del vero in questa critica. Tuttavia,
ammettiamolo, è la gran massa dei consumatori a dover giudicare se un nuovo bene è superfluo od opportuno.
E la gran massa dei consumatori
pare d’accordo con Oscar Wilde: «Datemi il superfluo e rinuncerò al neces-
sario». Così stando le cose, la fine
dell’economia per saturazione dell’offerta, la fine definitiva, è improbabile
senza un intervento pubblico coercitivo, che imponga quanto spontaneamente la gente non accetterebbe. Infatti il marxismo si riprometteva la fine dell’economia con la soddisfazione
di tutti i bisogni, una volta per sempre,
ma sottintendeva: tutti i bisogni “socialmente utili” secondo la definizione
di una autorità politica, dotata dei poteri necessari.
Ovviamente, ovunque esiste una
autorità del genere: perfino nei Paesi
più liberali certi consumi sono vietati
e certi altri sono obbligatori. Da noi, in
Italia, lo spaccio di droghe è vietato e
la scuola è obbligatoria. Sono casi eccezionali. In Unione Sovietica l’eccezione era diventata la regola, se non
che l’Unione Sovietica infine si disgregò. Est modus in rebus. La nostra
natura di esseri umani si direbbe
conforme al detto di Oscar Wilde, che
è poi connesso al pensiero di parecchi
filosofi, da Hume ad Adam Smith e Leopardi. Può darsi che la nostra natura
ci inganni, ci spinga a giocare giochi
che non valgono la candela, ci induca
a compiere sforzi superflui per ingordigia. Ma se l’umanità si fosse sempre
contentata del disponibile senza l’urgenza di andare oltre, non avremmo
avuto la civiltà come l’intendiamo comunemente.
Vivremmo come Diogene e gli altri filosofi “cinici”, cioè appunto ci contenteremmo di una “vita da cani”. E da
cani randagi, non da cani curatissimi
come talvolta vediamo nelle nostre
città, nei concorsi di bellezza. Dunque,
riflettere sull’economia porta inevitabilmente alla politica, al diritto, all’etica, alla filosofia, alla storia della cosiddetta civiltà. Però le riflessioni sull’economia occorrono ampie, non ristrette, come ancora oggi in troppi testi per gli studenti, dove si spreca tanta carta per questioni insensate. Un
esempio per tutti: le chiacchiere sull’equilibrio economico. Come può esserci equilibrio in un mercato se i giochi sono aleatori e se lo scopo del libero mercato è l’innovazione, e l’innovazione mira a rompere gli eventuali equilibri preesistenti?
Forse è per questo che la gran
massa della letteratura economica in䡵
cide poco sulla cultura generale.
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La Sede del Fondo Monetario Internazionale
a Washington.
The Headquarters of the
International Monetary Fund
in Washington.
Il ruolo delle
ISTITUZIONI INTERNAZIONALI
nell’economia mondiale
RENATA TARGETTI LENTI
Professore Ordinario di Economia Politica e Presidente
del corso di laurea triennale “Scienze Sociali per la
Cooperazione e lo Sviluppo (CeSV)” presso la Facoltà
di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Pavia
Nel 1944 a Bretton Wood, cittadina dello Stato del New Hampshire
(Usa), i delegati di Stati Uniti, Regno
Unito ed altri 42 Paesi si riunirono per
creare le istituzioni che avrebbero dovuto instaurare un nuovo ordine economico internazionale. Due istituzioni, in particolare, all’interno del complesso sistema delle Nazioni Unite sono state create con compiti di natura
finanziaria. Il Fondo Monetario Internazionale (IMF) è nato per assicurare
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la stabilità del sistema economico internazionale; la Banca Mondiale (WB)
è sorta per reperire le risorse finanziarie necessarie alla ricostruzione
postbellica dei Paesi europei. Nel corso del tempo l’azione di queste due
Organizzazioni si è concentrata prevalentemente verso i Paesi in via di
sviluppo, con l’obiettivo di promuovere la crescita economica e di prevenire crisi finanziarie locali o internazionali, e si è diretta pure verso le economie socialiste per favorirne la transizione verso l’economia di mercato.
Pur appartenendo al sistema delle Nazioni Unite il Fondo Monetario e
la Banca Mondiale godono di una totale indipendenza rispetto all’Assemblea Generale. La Banca Mondiale ha
un presidente, tradizionalmente un
americano (attualmente è James Wolfenshon, il penultimo è stato John Stiglitz). Il Fondo Monetario è diretto da
un managing director, solitamente un
europeo (attualmente è Horst Koeler).
I rappresentanti di ogni Paese (24 executive directors) non appartengono al
corpo diplomatico ma vengono designati dai rispettivi ministeri del Tesoro, ed hanno un potere di voto sostanzialmente proporzionale al contributo finanziario del Paese all’organismo e cioè alle cosiddette quote (1).
Nella soluzione delle crisi e nelle decisioni di finanziamento finisce così
con il prevalere l’interesse dei Paesi
economicamente più forti (Stati Uniti,
Europa) a scapito di quelli più deboli
e cioè dei Paesi in Via di Sviluppo
(PVS) (2).
Oltre a monitorare il sistema economico internazionale per preservarne la stabilità e favorirne la crescita, il
Fondo agisce come un intermediario finanziario raccogliendo fondi nei Paesi industrializzati e concedendo pre-
stiti ai Paesi in difficoltà, ed in particolare ai Paesi in via di sviluppo. Il controllo sui flussi finanziari internazionali esercitato dal Fondo è superiore
a quanto possa apparire dall’ammontare dei prestiti direttamente gestiti.
Infatti anche le linee di credito concesse dalla Banca Mondiale, da altre
istituzioni multilaterali e da parte di
istituzioni private sono soggette all’approvazione del Fondo (3).
L’attività dell’IMF e della WB si è
via via concentrata a favore di quei
Paesi che accettano di promuovere
programmi di riforme e di riduzione
della povertà, e che si impegnano a
creare istituzioni finanziarie trasparenti, efficienti, solide in grado di stimolare la formazione interna di risparmio. Negli ultimi venti anni la concessione di tali crediti è stata vincolata all’adozione di specifiche politiche
di stabilizzazione e/o di aggiustamento strutturale (le cosiddette conditionalities) per assicurare un contesto
economico favorevole a politiche sia
di riduzione degli squilibri macroeconomici sia di crescita. Queste politiche sono state nel corso del tempo, ed
in particolare in questi ultimi anni, oggetto di critiche e attacchi anche aspri,
che ne hanno sottolineato la scarsa efficacia e l’inadeguatezza a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Con particolare riferimento alla
Banca Mondiale si può osservare come i suoi interventi si siano modificati nel corso degli anni in relazione non
solo ai diversi obiettivi, ma anche in
relazione ai modelli ed alle teorie del
sottosviluppo che si andavano via via
elaborando. Questa istituzione ha progressivamente ampliato i suoi compiti divenendo nel corso del tempo il più
importante centro di analisi e di for-
mulazione di politiche per promuovere lo sviluppo economico e per ridurre la povertà (4).
Negli anni ’60 l’obiettivo principale è stato quello della crescita del
reddito pro-capite; negli anni ’70 è diventato la riduzione della povertà ed
il soddisfacimento dei bisogni fondamentali; negli anni ’80 e ’90 gli interventi sono stati diretti al cosiddetto
aggiustamento strutturale ed alla promozione dell’economia di mercato.
Nel primo periodo (anni ’60) l’impostazione seguita dalla Banca Mondiale per la selezione dei progetti da
finanziare è quella dei “banchieri” nel
senso che viene privilegiato il finanziamento di singoli progetti in relazione anche al tasso di rendimento atteso. La condizione per concedere l’aiuto è che i progetti siano “meritevoli”.
In questo periodo la Banca Mondiale
diventa una vera e propria agenzia di
sviluppo, per l’identificazione, la negoziazione e la supervisione dei progetti. Gli interventi sono diretti prevalentemente nel settore delle infrastrutture e delle public utilities (centrali elettriche e sistemi di trasporto)
per favorire lo sviluppo industriale. Essa diventa un “catalizzatore” di progetti e fonte di assistenza tecnica. Una
buona parte degli interventi è diretta
verso il settore agricolo.
A partire dall’inizio degli anni ’70
l’evidenza empirica ed i risultati in termini di crescita e di riduzione della povertà, tuttavia, mostrano ben presto
l’inadeguatezza di politiche basate
esclusivamente sull’accumulazione
del capitale e sulla riduzione del rapporto capitale/prodotto. Gli effetti attesi di sgocciolamento (trickle down)
e di diffusione dei benefici a tutto il sistema economico in realtà non si era-
1)
Le quote sono versate all’IMF e sono
misurate in parte in Diritti Speciali di Prelievo (un SDR =1,32 dollari circa) ed in parte in
valuta nazionale. La quota misura anche i
massimali che il Paese membro può prendere a prestito dall’IMF a seconda delle diverse linee di credito (di solito un Paese può
prendere a prestito dal 300% al 500% della
propria quota).
2)
Per esempio gli executive directors italiani (che rappresentano anche Malta, Portogallo, Albania, Grecia, San Marino e Cipro) hanno
il 4,23% dei voti totali del Board of executive directors. Il rappresentante americano invece, visto che il suo Paese contribuisce in maniera
più cospicua, ha oltre il 17% delle quote di vo-
to; il Giappone e la Germania poco più del 6%,
la Francia e l’Inghilterra poco sopra il 5%. L’intera America Latina arriva solo al 4,5%.
3)
I flussi di credito concessi direttamente dall’IMF e dalla WB ai Paesi in via di sviluppo potrebbero apparire modesti in relazione a quelli globali, ma restano molto rilevanti per i Paesi riceventi. Basti ricordare che
il flusso di capitali privati verso i PVS è cresciuto nel tempo, anche se circa il 75% è andato solo a 9 Paesi (Cina, Corea, Malesia, Indonesia, Thailandia, India, Messico, Brasile,
Argentina).
4)
Our dream: a World free of poverty sono le parole con cui si apre oggi il sito della
Banca Mondiale.
no verificati. Si modifica la natura degli interventi che vengono diretti verso il soddisfacimento dei bisogni di base come la sanità, l’educazione, l’alimentazione (teoria dei basic needs). I
due obiettivi prioritari diventano quelli di ridurre la povertà e la diseguaglianza nella distribuzione personale
del reddito e di conciliare la redistribuzione del reddito con la crescita.
A cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 il mutamento del contesto internazionale costringe ad una modificazione degli obiettivi e delle politiche
di intervento. Due shocks petroliferi
(nel 1973-74 e nel 1979) hanno prodotto una situazione di “stagflazione”
e di elevato indebitamento verso
l’estero nei Paesi in via di sviluppo.
Vengono messi in discussione i vecchi modelli. Per frenare i processi inflazionistici e per ridurre la domanda
aggregata si adottano politiche monetarie restrittive che provocano un rialzo dei tassi di interesse. Gli effetti negativi sui Paesi debitori sono immediati. Aumenta il peso del debito estero contratto dai PVS. Nello stesso tempo il rallentamento del tasso di crescita dei Paesi industrializzati provoca una contrazione nella domanda di
materie prime (per molti Paesi debitori la principale fonte di ricavi da
esportazione) e di conseguenza diminuiscono i prezzi delle stesse. Cresce
il rapporto debito/esportazioni.
Molti Paesi, ed in particolare
quelli dell’America Latina, che avevano perseguito una strategia di sostituzione delle importazioni, sperimentano serie difficoltà esterne. Alcuni di essi, come il Messico per primo nel 1982,
giungono ad una vera e propria crisi
di insolvenza. Viene abbandonato il
modello protezionistico e di controllo
dell’economia da parte del settore
pubblico fino ad allora perseguito. Si
afferma un nuovo modello basato sulla liberalizzazione del mercato e degli
scambi internazionali. Da parte del
Fondo Monetario e della Banca Mondiale si suggeriscono politiche di stabilizzazione e di riduzione degli squilibri macroeconomici. L’erogazione
dei fondi viene condizionata al fatto
che i PVS adottino politiche macroeconomiche virtuose. Si verifica una
convergenza negli interventi dell’IMF e
della WB. Da una parte il Fondo Monetario si è spostato dagli interventi di
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breve a quelli di medio periodo stimolando l’adozione di riforme strutturali. Dall’altra la Banca Mondiale si
sposta da strategie a lungo termine a
quelle a medio termine. Il Fondo concentra la propria azione sugli aspetti
macro (bilancio, moneta, tassi di cambio). La Banca Mondiale concentra la
propria azione sugli interventi di natura settoriale (trasporti, energia, commercio, agricoltura).
Si afferma il cosiddetto approccio monetario alla bilancia dei pagamenti. L’obiettivo è quello di ridurre il
disavanzo nella bilancia dei pagamenti attraverso una politica monetaria restrittiva. La stabilizzazione ed il rialzo
nei tassi d’interesse dovrebbe frenare
l’uscita di capitali e trattenere le riserve internazionali. Anche la politica
fiscale diviene restrittiva al fine di ridurre il disavanzo del settore pubblico. Il primo ed immediato effetto è la
crescita della disoccupazione. Questo
effetto negativo è aggravato dalle politiche di riduzione delle spese di natura sociale, che hanno immediate
conseguenze sui redditi monetari.
Un secondo gruppo di politiche
suggerite dal Fondo e dalla Banca
Mondiale nella seconda metà degli anni ’80 sono quelle note come politiche
di aggiustamento strutturale. Esse
consistono nella progressiva liberalizzazione di tutti i mercati. In primo luogo si interviene sul mercato estero mediante l’eliminazione delle diverse forme di protezionismo e di una progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale. Privatizzazione
dell’apparato produttivo e liberalizzazione dei movimenti di capitale erano
e sono scelte quasi necessariamente
complementari dal momento che in
assenza di un mercato interno sufficientemente vasto bisogna permettere che ad acquistare le azioni sia il capitale straniero.
Le politiche di aggiustamento
strutturale trovano un riferimento teorico nel cosiddetto Washington Consensus che si sviluppa all’interno della Banca Mondiale come una vera e
propria teoria a partire dall’inizio degli anni ’90. Si tratta di una vera e propria svolta rispetto alle politiche per
lo svilupppo che erano state perseguite fino a quel momento. Le giustificazioni teoriche di stampo neo-liberista sono formulate da un gruppo di
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ECONOMIA-FINANZA
James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale.
James Wolfensohn, President of the World Bank.
economisti dello sviluppo che appartengono al cosiddetto “mainstream”.
Le ipotesi alla base di questo modello
sono che i mercati siano caratterizzati da concorrenza perfetta, che l’informazione sia perfetta, che la distribuzione del reddito e le istituzioni non
contino. L’impostazione di fondo si basa sull’ipotesi “forte” che la principale differenza tra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati consista nella diversa dotazione di capitale (fisico ed
umano) e che anche nei PVS sussistano condizioni di trasparenza e di concorrenza perfetta nei diversi mercati.
Se si adottano politiche che rimuovano i diversi ostacoli di natura strutturale (protezionismo, controlli dei prezzi e dei mercati) sarà possibile avviare un processo di sviluppo del tutto
analogo a quello che aveva caratterizzato in passato le economie oggi industrializzate.
L’insieme di provvedimenti che
costituiscono questa politica possono essere sintetizzati in una rigorosa
disciplina fiscale e di spesa pubblica,
nella liberalizzazione dei tassi d’interesse e dei tassi di cambio, nella privatizzazione delle industrie statali e
nel rafforzamento dei diritti di proprietà. Nel giro di pochi anni ben 80
Paesi adottano politiche di deregulation per favorire la crescita. I prezzi diventano un segnale di scarsità. L’eliminazione della protezione tariffaria e
di un cambio sopravalutato conduce
ad un aumento della competitività
con l’estero, ad un miglioramento nel
saldo della bilancia dei pagamenti e
ad una progressiva riduzione del debito estero.
Le politiche basate sullo Washington Consensus hanno ottenuto
buoni risultati dal punto di vista della riduzione degli equilibri macroeconomici. Le conseguenze economiche e sociali, tuttavia, in termini di
crescita della diseguaglianza e della
povertà sono state molto pesanti.
L’esperienza di molti Paesi mostra
con evidenza quali siano stati gli effetti recessivi conseguenti alle politiche di aggiustamento strutturale
(America Latina) e di gestione delle
crisi finanziarie (Russia, Sud-Est asiatico) suggerite dal Fondo Monetario
e dalla Banca Mondiale. In quasi tutti i Paesi in via di sviluppo la crescita del reddito pro-capite ha subìto, in
seguito a queste politiche, un netto
rallentamento. Il rallentamento ha
colpito prevalentemente i Paesi a più
basso livello di reddito.
In Russia il Fondo Monetario ha
insistito nel mantenere un tasso di
cambio sopravalutato favorendo la
crescita dei tassi d’interesse, dell’indebitamento verso l’estero ed ha finito con il provocare una bolla speculativa a scapito degli investimenti e
dell’economia reale. Lo stesso tipo di
politica è stata perseguita in Brasile
nel 1998. Si possono citare anche casi
opposti e cioè di Paesi che, non avendo seguito i suggerimenti del Fondo,
sono stati colpiti dalla crisi in modo
più lieve. La Malesia, invece di lasciar
crescere il tasso di interesse, ha imposto controlli sui flussi in uscita della propria moneta riuscendo a ridurre
progressivamente l’indebitamento nei
confronti dell’estero. La crescita del
reddito pro-capite è avvenuta solo in
quei Paesi che non hanno adottato
riforme di stampo liberista come la Cina e l’India. La Cina mantiene un rigido controllo del cambio ed un elevato
grado di protezionismo.
La recente crisi in Argentina può
essere considerata un esempio emblematico degli effetti negativi delle
politiche suggerite dal Fondo Monetario e l’effetto finale di una serie di errori compiuti nell’arco di un decennio.
Per dirla con Stiglitz non è che l’ultimo di una serie di salvataggi guidati
dal Fondo Monetario Internazionale
che si sono conclusi con uno sperpero di miliardi di dollari e che non hanno salvato le economie che intendevano aiutare.
La stabilizzazione suggerita dal
Fondo Monetario ha effettivamente
abbassato l’inflazione, ma ha finito
con il bloccare la crescita. Secondo
Stiglitz è il Fondo Monetario ad aver
commesso «il suo errore fatale. Incoraggiando una politica fiscale restrittiva, ha ripercorso la strada già sbagliata nel Sud-Est asiatico, con le stesse disastrose conseguenze. L’austerità fiscale avrebbe dovuto ripristinare la fiducia: qualsiasi economista
avrebbe previsto che le politiche restrittive avrebbero provocato un rallentamento dell’economia, e che gli
obiettivi di bilancio non sarebbero
stati soddisfatti» (5).
Sempre secondo Stiglitz le lezioni da trarre oggi sono che in un mondo di tassi variabili, stabilizzare una
singola valuta nei confronti del dollaro è rischioso e provoca una progressiva perdita di competitività. Adeguamenti nel tempo dei tassi di cambio
fanno parte del meccanismo di reazione. Concentrarsi sull’inflazione,
senza tenere conto degli effetti delle
politiche sulla disoccupazione e sul
tasso di crescita, è rischioso. Qualsiasi governo persegua politiche che la-
scino larghi strati di popolazione disoccupata o sottoccupata fallisce nella propria missione primaria. La crescita richiede istituzioni finanziarie in
grado di finanziare in primo luogo le
aziende nazionali. Vendere la proprietà delle banche agli stranieri, senza adeguate misure di salvaguardia,
può bloccare la crescita e la stabilità.
Raramente si ripristina la fiducia con
politiche che provochino situazioni recessive. Le politiche di stabilizzazione
possono essere adeguate nel breve periodo, ma finiscono con il produrre effetti perversi qualora siano perseguite troppo a lungo nel tempo.
Queste esperienze segnalano
quanto sia urgente una riforma sia
dell’architettura finanziaria internazionale sia della natura degli interventi e delle politiche delle istituzioni internazionali. Proprio a partire dalla fine degli anni ’90 Stiglitz avvia un processo di revisione critica delle politiche suggerite dal Fondo Monetario e
dalla Banca Mondiale. In particolare
individua nelle politiche liberiste adottate in modo generalizzato, in sistemi
economici che non presentavano le
caratteristiche proprie del modello
neo-classico, nella mancanza di prospettiva storica e nella scarsa considerazione della complessità del processo di sviluppo le cause degli esiti
fallimentari delle stesse politiche.
Si sviluppa una nuova impostazione nota come Post-Washington Consensus i cui principi dovrebbero essere alla base di politiche di sviluppo più
THE ROLE OF
INTERNATIONAL INSTITUTIONS
IN THE WORLD ECONOMY
Much ground has been covered since Bretton Wood
created the International Monetary Fund and the
World bank in 1944. At that time the aim was to establish a new international order. The “Fund” was
then directed towards making loans to Countries in difficulty and in the process of development. The “Bank”
has progressively extended its work areas: favouring
the growth of pro-capita earnings during the 60’s, reducing poverty in the 70’s, making structural adjustments and promotion of the financial market in the
final two decades of the Twentieth century. At times
these actions have not produced, even marginally, the
hoped for outcomes. In Russia it primes a speculation
bubble to the detriment of investments and the real
economy. In Argentina an incredible dissipation of billions has certainly not favoured the economic conditions that needed assistance.
efficaci e più adeguate alle esigenze
dei PVS. Lo sviluppo deve essere considerato come un processo di trasformazione della società da una fondata
su relazioni tradizionali ad una moderna, che porti ad una riduzione delle diverse forme di dualismo. Le diverse politiche suggerite devono tenere conto del fatto che i Paesi in via
di sviluppo sono sostanzialmente differenti dai Paesi sviluppati, ma anche
diversi tra di loro e dunque dovrebbero seguire specifici percorsi di sviluppo. La costituzione di istituzioni
economiche (finanziarie e creditizie),
di istituzioni politiche e sociali credibili, la formazione di capitale umano e
di capitale sociale sono i capisaldi di
queste politiche.
Il concetto di “capitale sociale”,
inteso come la fiducia e le norme che
regolano la convivenza civile viene
considerato da Stiglitz come una condizione per l’avvio del processo di sviluppo. Concentrare l’attenzione unicamente sull’inflazione e sugli squilibri macroeconomici, come hanno fatto il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, è non solo insufficiente ma può
rallentare invece che promuovere lo
sviluppo. Una condizione essenziale
per l’avvio e la promozione d’ogni
processo di sviluppo è la fiducia. Ed
è proprio la fiducia che viene a mancare quando si instaurano processi
recessivi.
I programmi di sviluppo devono
essere predisposti con l’obiettivo non
solo di accrescere il reddito, ma anche
di ridurre la povertà, di tutelare l’ambiente e di promuovere la democrazia. Nel corso degli anni ’90 si individuano anche nuovi criteri guida per la
concessione dei prestiti. Alla “condizionalità economica” e cioè all’impegno ad adottare politiche di riforme
strutturali si aggiunge la “condizionalità democratica”. Si individua, cioè,
un preciso legame tra sviluppo, democrazia e tutela dei diritti umani. La
Banca Mondiale introduce la tutela dei
diritti umani, la lotta alla corruzione,
l’efficienza e la trasparenza nella pubblica amministrazione come principi
䡵
di good governance.
5)
Cfr. STIGLITZ J.E., Il Fondo Monetario.
Quegli errori che pesano sull’Argentina, Corriere della Sera, gennaio 2002. Si rimanda pure a STIGLITZ J.E., La globalizzazione e i suoi
oppositori, Einaudi editore, Torino 2002.
ECONOMIA-FINANZA 55
ungiornale
PER AMICO
Un gruppo di amici, alcuni adulti, altri più giovani, ma tutti animati
dallo stesso spirito, mi accompagnano nella mia vita quotidiana, domeniche comprese. L’amico delle domeniche è forse quello al quale sono più affezionato e grato. È l’amico che mi
parla di filosofia (uno dei miei amori
di gioventù), di sociologia, di arti, di
cultura varia e, perché no, di gastronomia. E mentre mi informa dei fatti
del sabato, mi presenta la sua collezione di lettere che gli pervengono da
altri amici sparsi per l’Italia.
A questo amico sono grato per
avermi fatto scoprire i libri la cui lettura mi ha arricchito nel corso degli
anni, così come in gioventù avevano
fatto Silvio Romano, Bordin, Cotta,
Passerin d’Entreves e gli altri miei docenti universitari.
Ma, dicevo, questo è un gruppo di
amici, ciascuno dei quali gioca un suo
ruolo, nel gruppo.
Il più anziano mi accompagna,
vorrei dire da sempre, nella mia vita di
lavoro e nella gestione dei miei risparmi e, da qualche tempo, ogni sabato
mi dedica una seduta speciale, una seduta-plus, nel corso della quale sviluppa argomenti specifici, oltre ad aiutarmi a rimettere in ordine le notizie
dalle quali sono stato bombardato nel
corso della settimana.
Ed ora ci sono anche gli amici più
giovani che mi parlano attraverso
l’etere in qualsiasi momento della giornata io decida di collegarmi con loro.
Mi danno notizie generali, di economia
56
ECONOMIA-FINANZA
e finanza, di benessere, di sport e di
helzapoppin.
Fuori di metafora, gli amici sono i
vari bracci operativi del Gruppo Editoriale Il Sole-24 Ore.
Non dimentico del fatto che guadagnai il primo argent de poche a 17 anni lavorando per qualche periodico e
per un quotidiano, ho deciso di abbandonare il ruolo di intervistato, al
quale mi sono abituato quando la mia
carriera nel mondo industriale, in particolare in Brasile, me lo ha imposto,
per tornare a giocare quello di intervistatore, almeno per un giorno.
Gli amici (persone fisiche in questo caso) del Gruppo Il Sole-24 Ore
hanno accettato di riunirsi intorno ad
“IL SOLE-24 ORE”:
A NEWSPAPER AS A FRIEND
There are various reasons that make the recent development stage of “Il Sole-24 Ore” totally significant.
In particular, as well as a development of qualitative
and quantitative nature, it is the philosophy of the
communication that has changed. The paper has converted itself from an organ of information to a training tool for an economic culture that has never been
more important. It is now the true critical spirit for a
Country that is trying, perhaps with difficulty but always with determination to invent, discover, build and
grow. And, seeing the results, there can be no doubts
that it is performing this mission particularly well. In
Italy daily sales of “Il Sole” are double those of the “Financial Times” in England. Economic information on
printed paper remains the principal vocation, but currently the group also manages important radio and TV
services, as well as conferences and training courses
aimed at business operators.
FRANCO BENOFFI GAMBAROVA
un tavolo con me e rispondere alle
mie domande.
Alla guida de Il Sole-24 Ore c’è ora
Guido Gentili, direttore dal luglio 2001
che si è trovato subito a navigare in
uno scenario difficile (pensiamo al G8
di Genova e all’11 settembre) ma che
ha, nello stesso tempo, ridato slancio
al giornale con significativi aggiornamenti grafici, con il colore in prima pagina, con nuovi collaboratori e rubriche di approfondimento, oltre che con
il lancio del settimanale Plus dedicato,
al sabato, alla finanza e risparmio. La
direzione è completata da Gianfranco
Fabi, vicedirettore vicario, che è un po’
il decano dei giornalisti del Sole, avendo percorso all’interno del giornale tutte le tappe della sua carriera, dal ’79 ad
oggi, e da Edoardo De Biasi, chiamato
alla vicedirezione del Sole all’inizio del
2002 dopo essere stato responsabile
della pagine economiche del Corriere
della Sera. Un gruppo affiatato e competente che così delinea le realtà e le
prospettive de Il Sole-24 Ore.
D. Mi pare di poter dire che la famiglia de Il Sole-24 Ore ha avuto, negli ultimi anni, accanto ad uno sviluppo quantitativo e qualitativo in generale, un ampliamento della sua “mission”: da organo di informazione “tecnica” a organo
di formazione, di creatore di una cultura (nel senso in cui Lal usa il termine in
Unintended Consequences) e che ha
destato il mio entusiasmo, perché sono
convinto che sia un fattore chiave della
vita sociale, oggi come e più di ieri.
R. Il Sole-24 Ore è molto cambiato
negli ultimi anni. È cresciuto in diffusione, ora è il terzo quotidiano italiano,
è cresciuto, come dicono le indagini di
mercato, in autorevolezza e credibilità. Crediamo di essere in fondo una
positiva anomalia di un Paese che, forse, avrà anche le “pile scariche”, ma
che continua ad avere una grande voglia di inventare, scoprire, costruire,
crescere, raggiungere nuovi traguardi
e, in fondo, un maggiore benessere. Il
Sole vuole interpretare e offrire un appoggio critico a questo Paese.
Un appoggio approfondendo e
migliorando (è sempre possibile migliorare!) la dimensione del servizio al
lettore, dell’offrire una guida aggiornata e tempestiva per muoversi nel labirinto di leggi, adempimenti, dichiarazioni e procedure di cui è “ricca” la vita quotidiana delle persone, delle famiglie e soprattutto delle imprese. Un
appoggio anche tentando di decifrare
una realtà dinamica, in evoluzione,
con gli scenari della globalizzazione e
di un’Europa sempre più larga che si
affiancano a quelli della grande trasformazione di un Paese che non è più
“industriale”, ma non è ancora postindustriale. Il Sole-24 Ore vende ogni
giorno in Italia il doppio di quanto venda il Financial Times in Gran Bretagna,
in proporzione agli abitanti vende più
di quanto venda il Wall Street Journal
negli Stati Uniti. Siamo uno dei, purtroppo, pochi primati italiani con il
cruccio che è un primato che non si
può esportare: siamo vincolati al nostro mercato interno, a questa meravigliosa, ma minoritaria lingua italiana.
E sarebbe temerario e pericolosamente presuntuoso pensare di uscire
all’esterno, in territori sconosciuti. E
in fondo c’è ancora molto spazio per
crescere in Italia.
D. E, nello svolgere questo ruolo più
ampio, Voi siete stati più anglosassoni
degli anglosassoni, in quanto avete curato in modo anche graficamente inequivoco la separazione fra informazione obiettiva e commenti, cioè opinioni soggettive dal confronto delle
quali il lettore può giungere a formarsi
la sua. Voglio dire che Cerretelli informatrice non può mai essere confusa
con Cerretelli commentatrice autorevole (eccellente nella sua spietatezza costruttiva).
Guido Gentili, direttore de Il Sole-24 Ore.
R. Il nostro obiettivo è di raggiungere una doppia autorevolezza: l’autorevolezza delle notizie, cioè il dare informazioni corrette basate sulla realtà e
non l’interesse di qualcuno o di qualche gruppo economico, e l’autorevolezza dei commenti che vogliono essere un aiuto a inquadrare i fatti e le opinioni nel più vasto scenario economico e politico.
In questo i punti fermi devono restare la libertà dei mercati nella convinzione che il mercato è il lato economico della democrazia, ma anche
nella prospettiva di una libertà che, da
un punto di vista personale, va coniugata con i valori della solidarietà e
che, dal punto di vista dell’organizzazione politica, va inserita in un sistema dinamico di regole di inquadramento e di garanzia.
D. Alla carta stampata si sono affiancati TV e radio: di VentiquattroreTV sono spettatore nelle prime ore
del mattino ed apprezzo i servizi esau-
Guido Gentili, editor of Il Sole-24 Ore.
stivi e stringati nonché una rassegna
stampa che non ha uguali per accuratezza. Di Radio24 sono innamorato per
la varietà dei suoi temi in un contesto
che ha delle guidelines molto ben definite. Il modello è ormai “a regime” oppure soggetto ad evoluzioni/rivoluzioni, ora che avete un pubblico altamente fidelizzato?
R. La missione aziendale è quella di
fornire l’informazione economica con
tutti i mezzi che il mercato può richiedere. Il giornale, non solo per tradizione ma anche per una precisa
scelta strategica, resta al centro, ma
intorno si costruisce una galassia capace di valorizzare, attraverso altre
forme, le capacità del gruppo di produrre informazione.
Ecco quindi la radio, che si sta affermando tra le emittenti di informazione e che rimane peraltro l’unica
nell’informazione per l’intero arco di
programmazione. Ecco la televisione
che in un mercato difficile e affollato si
ECONOMIA-FINANZA 57
della radio, della televisione, dell’agenzia di stampa, dell’on-line, della
parte editoriale (nel senso dei libri).
Ed a proposito di libri è allo studio anche qualche iniziativa particolare su cui tuttavia è bene mantenere ancora le carte coperte.
D. Una ulteriore domanda, davvero
l’ultima. Oggi siamo europei oltre che
italiani. Non ritenete che si debba pensare a dotare il nostro giornale di una
pagina che utilizzi l’esperanto-inglese?
Lo ha fatto nel 2000 il Giornale di Lecco al servizio degli stranieri presenti nel
territorio ed io ben volentieri collaborai
all’iniziativa. Ma in questo caso penso
a qualcosa di diverso, cioè ad una pagina o ad una mezza colonna ogni pagina (che complica un po’ la vita) con
flashes che sintetizzino il contenuto del
giornale o della pagina. Così come per
Radio24 penso ad uno dei Tg in inglese, soprattutto d’estate quando l’Italia è
piena di turisti.
Gianfranco Fabi, vicedirettore vicario de Il Sole-24 ore.
Gianfranco Fabi, deputy editor of Il Sole-24 ore.
sta comunque imponendo per i programmi di informazione e approfondimento contraddistinti dalla qualità
(anche in contrapposizione con l’informazione-spettacolo delle grandi reti
pubbliche e private).
Ma poi ci sono i settimanali e i
quindicinali tecnico-tematici: dalla
scuola alla sanità, dai trasporti allo
sport. E l’agenzia di stampa Il Sole-24
Ore Radiocor per l’informazione finanziaria on-line.
E ancora il sito Internet per l’aggiornamento continuo dei temi del
quotidiano.
E i convegni e i corsi di formazione per un contatto diretto con professionisti e uomini d’impresa. E tante altre iniziative nell’ottica di dare una risposta alle più diverse esigenze di
informazione e di approfondimento.
geriale mi entusiasmò perché io sono
sempre stato un manager imperfetto che
prima decide e poi pensa, nel suo “lavorare positivo”). Avete qualche nuova
iniziativa nel cassetto, per esempio
quella di proporre qualche libro straniero, ben tradotto?
Dico ben tradotto perché ricordo
alcuni libri, fra i quali uno di Soros che
mi ha richiesto lo sforzo di capire “come” il traduttore aveva sbagliato.
D. Last but not least, la parte editoriale che, come sa chi di Voi è stato nel
mio ufficio, è ben rappresentata alle
mie spalle, con “imperfezione manageriale” addirittura sopra Milton Friedman
e Mancur Olson (imperfezione mana-
58
ECONOMIA-FINANZA
R. In questo 2003 ci sono molte iniziative. Rafforzare il numero del lunedì, dare più visibilità e spazio alla sezione “Norme e tributi”, migliorare
l’informazione regionale di pari passo
con il crescere delle competenze decentrate. In prospettiva il 2003 si chiuderà con un passaggio importante: il
trasferimento di tutti gli uffici milanesi
del gruppo in una nuova sede che si
sta realizzando, con un progetto di
Renzo Piano, in zona piazzale Lotto,
tra la Fiera e San Siro. Sarà questo anche un modo di integrare maggiormente tutti i mezzi e in particolare la
redazione del quotidiano con quelli
R. Direi di no: siamo in un mercato
editoriale certamente ampio e anche
in Italia arrivano in migliaia di copie i
giornali stranieri. Un’informazione necessariamente piccola su di un giornale in una lingua sconosciuta (come
sarebbe il Sole per uno straniero che
non conoscesse l’italiano) sarebbe
difficilmente una motivazione d’acquisto tale da compensare gli sforzi
di marketing necessari per far conoscere l’iniziativa. Questo per il giornale, per la radio il discorso è leggermente diverso e probabilmente più interessante. Ma, ripeto, il giornale ha
ancora larghi spazi per crescere in
qualità e mercato seguendo la strada
maestra di dare notizie e commenti
veri e utili, il che non è, purtroppo,
per nulla scontato almeno a guardare
la stampa italiana.
La mia conclusione
Il Sole-24 Ore è passato nel giro di
vent’anni da 130 a 420 mila copie. Per
un giornale che non ha cronaca, sport,
spettacoli e varietà è un risultato sicuramente apprezzabile. Ma è anche un
risultato che indica il fatto che in questo Paese quando si fa qualcosa in senso professionale, e non per ambizioni
di potere, si possono creare vere storie di successo. Forse è proprio questo
䡵
fatto che mi fa sentire fra amici.
MA LA
BORSA È SEMPRE
IL MIGLIORE
INVESTIMENTO
?
GIANCARLO GALLI
Opinionista di Avvenire e saggista
economico-finanziario
In convalescenza dopo quasi tre
anni di “male oscuro”, o ancora sotto
tenda a ossigeno e con prognosi incerta? È l’interrogativo che assilla (e
spesso angoscia) trecento milioni di
risparmiatori sparsi per il mondo:
quanti hanno investito i propri soldi in
Borsa. Direttamente o attraverso i Fondi d’investimento nella “Vecchia” come nella mitizzata “Nuova” economia.
In Italia quasi sei milioni.
Pur in presenza di un’epidemia
planetaria, è pertanto sulla nostra
Piazza Affari che intendiamo focalizzare l’attenzione e l’analisi, partendo
dal momento della devastante comparsa del virus del ribasso, la primavera del Duemila, in un organismo che
pareva esplodere per salute. Al culmiIS THE STOCK EXCHANGE
THE BEST INVESTMENT?
The Stock Exchange is an organism with perpetually
unstable health; it is capable of enormously unpredictable performances and subject to equally unpredictable viruses which threaten its stability. 300 million
investors in the world and almost six million in Italy
alone have been affected by its condition. In the spring
of 2000, the Stock Exchange was struck by the reduction disease: a devastating epidemic which in two years
time reduced the quoted companies’ value by half.
Despite the financial scandals of the American companies and the tragedy of the Twin Towers, the Stock
Exchange held its own and the global bankruptcy that
some had predicted, did not occur. In consideration of
these contrasts, it is worthwhile to aim at the Stock Exchange for a valid investment provided that good
shares are chosen, avoiding the pursuit of excessive
profits.
ne del boom, la capitalizzazione delle
297 società quotate aveva raggiunto i
900 miliardi di euro, ed ogni giorno si
scambiavano titoli per 4-5 miliardi. Impossibile dimenticare le Aem a 8,71;
IntesaBci a 5,52; Generali a 43,2; Fiat a
35; Mediobanca a 14,74; Olivetti a 4,50;
Telecom a 20,07.
Alla fine del 2002, le 295 società
iscritte al listino (quasi sempre le stesse) “valevano” 457 miliardi. Ovvero la
metà.
Tuttavia, la brutale correzione intervenuta, l’esplosione di scandali finanziari a catena specie in Usa, il default dell’Argentina, resi più acuti dalla tragedia dell’11 settembre (l’attacco
terroristico alle Twin Towers di New
York) non hanno prodotto quel dissesto planetario, la “bancarotta globale”,
che qualcuno era andato, nelle ore più
cupe, profetizzando. Semmai fra rabbia e disincanto, il risparmiatore-investitore ha constatato a sue spese (e
quali spese!), l’esistenza di un preciso
rapporto fra le possibilità di guadagnare molto ed il livello di rischio. Riscoprendo un’eterna, immutabile legge della finanza: la sicurezza è legata
ai “giusti rendimenti”, alle reali potenzialità delle imprese. Pericoloso dunque lasciarsi incantare dalle sirene: i
manager troppo disinvolti, i raider
troppo rampanti e cinici, gli analisti
troppo con le mani in pasta. Poiché alla fine ci si brucia. Infatti in ogni Piazza Affari, mentre mai crescerà l’albero
degli zecchini d’oro, continuano a circolare i gatti e le volpi di collodiana
memoria, lesti a gabbare i Pinocchio di
passaggio. Stabilito ciò, ovvero l’incidenza dei fenomeni speculativi, resta
da capire il motivo, vero e profondo,
dello scatenarsi delle crisi economicofinanziarie. Che esplodono all’improvviso, quali temporali estivi in un cielo
apparentemente sereno, senza la possibilità di presagire come e quando la
tempesta si placherà. Col ritorno
dell’arcobaleno, della speranza, degli
investimenti: e del Toro in Borsa, in
gergo.
Autentico mistero, e rimasto tale,
quello dei cicli: ogni “quanti” anni?
Punto di partenza la Bibbia, con i sette anni delle “vacche grasse” seguiti
dai sette delle “vacche magre”, tanto
che Giuseppe è “il primo economista
per avere intuito i cicli”, secondo lo
storico francese Paul Bairoch. Però il
buon Giuseppe viveva in epoca preindustriale; con le sorti del progresso
umano dipendenti dalle bizzarrie meteorologiche. In una certa misura più
prevedibili.
Mutano tempi e scenari. L’industria sopravanza l’agricoltura quale
fonte di sviluppo, gli scambi si moltiplicano, compaiono nel Seicento le
Borse. Un successo ritmato dai periodici crac: quelli dei Tulipani, delle
Compagnie dei Mari del Sud, di John
Law, il finanziere scozzese inventore
della carta moneta, delle azioni al portatore... E sempre ad interrogarsi: come mai? Si cimentarono nelle analisi
economisti del peso di Henry Torton
(che nell’Ottocento puntò il dito conECONOMIA-FINANZA 59
tro la finanza “degenerata”), seguito
da Joseph Schumpeter con le teorie
sui cicli quarantennali, contrastato dal
Nobel Simon Kuznet (cicli di 14-22 anni), Clement Jugar (cicli di nove anni).
Sbagliarono tutti. Nel senso che le intermittenti crisi ebbero sempre un impatto limitato. Non bastasse, il succedersi delle guerre scompaginava le statistiche e relative proiezioni.
Finché comparve lo studioso russo Nikolaj Kondrat’ev che, divenuto
consigliere economico di Stalin al
Cremlino, anticipò il tracollo di Wall
Street dell’ottobre 1929. Non seppe
però interpretarlo a fondo, in quanto
immaginò la fine del capitalismo. Il dittatore gli prestò fede ma l’anno successivo, vedendo che il capitalismo
nonostante tutto resisteva, prima destituì Kondrat’ev da responsabile della congiuntura economica dell’Urss,
poi lo spedì in un gulag. Dove scomparve.
Il pensiero di Kondrat’ev e
Schumpeter continua però ad influenzare il mondo del big-business, della
politica. Ho ben presente, in un ristorante di New York (eravamo nel 1996),
un breve scambio di vedute con Alan
Greenspan, presidente della Federal
Reserve. Sosteneva che il Dow Jones
arrivato a “quota 6.500” era follia pura; espresse dubbi sulla New Economy, col Nasdaq che aveva superato
“quota 2.000”. Poche settimane dopo,
pubblicamente manifestò le sue perplessità sulla “irrazionale esuberanza
dei mercati”. I quali mercati gli risposero in controrima portando il Dow a
11.500, il Nasdaq a 5.000.
L’avessimo ascoltato! Senonché
i grilli parlanti sono raramente accetti. Però, guardiamoci anche in faccia:
nonostante il ciclone, il Dow continua
a veleggiare fra gli otto ed i novemila
punti; il Nasdaq pur avendo perso
moltissimo, i due terzi, è ancora vivacissimo, la New Economy non è morta. Anzi, pur in una darwiniana selezione, esattamente come in altre circostanze. A metà dell’Ottocento, con
le ferrovie: di un migliaio di società
presenti nella City londinese, se ne
salvarono una dozzina, che poi fecero faville. All’inizio del Novecento, con
le automobili: nelle Borse italiane, le
Fiat da cento lire di capitale nominale, salite sino a 1.885 lire (1° luglio
1906), precipitano in agosto a 715.
60
ECONOMIA-FINANZA
L’anno successivo le si ritrova a 40 lire. Scandalo, processi. Ma chi ha
nell’azienda assoluta fiducia (Giovanni Agnelli, all’epoca semplice segretario nel Consiglio d’amministrazione),
anziché vendere, rastrella, vincendo
una scommessa che pareva impossibile. Si ripeterà il miracolo?
Se il “sistema” ha tutto sommato
retto, il merito principale non va ai
grandi azionisti, bensì al sangue freddo mostrato dalla massa dei risparmiatori. Sebbene tosati, hanno tenuto
botta, nel convincimento che “dopo il
brutto tornerà il bello”, come recita
un proverbio contadino attribuito al
saggio Bertoldo. Rozzo ma lungimirante. Proviamo infatti ad osservare il
trend borsistico di Piazza Affari nell’ultimo decennio.
La “fase Toro” (rialzo), ha inizio
nel 1993, con un robusto +37,4 per cento, e le 259 società quotate che capitalizzano 128 miliardi di euro. Ad un
successivo biennio fiacco, segue un
balzo del 13 per cento. Poi l’autentico
boom: +58,2 nel 1997; +40,7 nel 1998;
+22,5 per cento nel 1999. Quel che for-
se più conta, una vertiginosa crescita
negli scambi, passati da 212 milioni di
euro quotidiani (1993), a 3.412 del Duemila.
Gli italiani, si può ben dirlo, hanno “scoperto” la Borsa. Da meno di un
milione che erano, si moltiplicano per
cinque. Trascinati, certo, dagli exploit
di Wall Street, ma anche da motivazioni endogene: la prospettiva dell’euro e di un mercato unico europeo; le
massicce privatizzazioni che, complici i pilotati ribassi dei tassi d’interesse, inducono ad abbandonare Bot e
Cct; la creazione del Nuovo Mercato
incentrato sulle società della New Economy; la prospettiva dei Fondi pensionistici privati; i manager che si distribuiscono le stock-option... Soprattutto, la fiducia (esaltata dai media) in
una finanza davvero trasparente che fa
da leva alla crescita globale.
Parecchio di vero in tali affermazioni, ma anche molti equivoci. Giochi
stile “tre tavolette”, o peggio. Tuttavia
i dati globali sulla Borsa confortano:
nonostante gli alti ed i bassi delle quotazioni, “in media” (ovviamente teorica, poiché nessuno dispone di un portafoglio che abbracci l’intero listino)
sono prossimi a quelli del 1998, ma triplicati sul 1993. Il che non è poco: a
patto, ovviamente, che il risparmiatore investitore abbia privilegiato le
“buone azioni” rispetto ai titoli più speculativi, che non si sia indebitato, che
conservi il suo giardinetto.
In Italia mancano purtroppo precisi studi al riguardo, e c’è da augurarsi che Mediobanca, estendendo
l’ottica del suo prezioso annuario Indici e dati, colmi la lacuna. Ma facendo ricorso alla recentissima edizione
della francese Insee (Istituto statistico
parigino), sul mercato transalpino la
cui evoluzione è pressoché identica a
quella di Piazza Affari, sono possibili
valutazioni e riflessioni. La prima è che
partendo dal 1913, vigilia della Prima
Guerra mondiale, ai giorni nostri un
articolato ed oculato investimento
azionario ha moltiplicato di 31 volte il
potere d’acquisto reale del capitale.
Che un investimento fatto in azioni nel
1951 ha reso addirittura 81 volte il capitale iniziale, di gran lunga superiore
sia a quello delle obbligazioni sia degli immobili o dell’oro. Va da sé che i
conteggi sono di una complessità
estrema, dovendo tenere conto degli
oneri indiretti (per gli immobili le spese di manutenzione), del fisco, dei costi di gestione. La conclusione dell’Insee è peraltro categorica: in un arco
temporale superiore ai trent’anni,
«non v’è dubbio che la Borsa costituisca il miglior investimento possibile».
Con però una triplice avvertenza: 1) tenere costantemente sotto controllo il
proprio capitale; 2) ridurre al minimo
gli investimenti speculativi poiché
“qualunque società” può fallire; 3) fare il possibile per entrare in Borsa nei
periodi di debolezza, non esitando a
vendere nelle stagioni dell’euforia.
Consigli in apparenza banali, in
realtà preziosi. Concretamente, tuffandoci nel presente: chi avesse messo piede in Piazza Affari un lustro fa,
può dormire fra due guanciali o quasi.
Non lo stesso dicasi per quanti si sono lasciati incantare dalle successive
sirene. Sebbene il carissimo amico Urbano Aletti mai cessi di ricordarmi,
con la saggezza che gli deriva da mezzo secolo di tycoon, di ex presidente
della Federazione mondiale degli agenti di cambio: «Per le buone azioni, i
prezzi ritornano...».
Già. Ma occorre si tratti davvero
di “buone azioni”. Quali? Vengono allora alla mente gli insegnamenti di un
altro maestro, l’indimenticabile, poliedrico (ed un po’ cinico) Aldo Ravelli:
«Le buone azioni? Bisogna cercarle col
lanternino... Ma ci sono!». Poi: «Non
facciamola lunga. In Borsa si guadagna e si perde... Vincono i bravi, perdono i presuntuosi, i “pirla”...». Dopo
aver proposto all’Aldone di precisare
meglio, lo sentii replicare: «Hai da capire, in Borsa chi riesce a fare sei operazioni buone su dieci è bravo, sette
su dieci è un genio. Se ti dicono otto
su dieci, l’è minga vera!». Passando a
raccontare crolli di fortune memorabili: Virgillito, Sindona e Calvi, l’Anna
Bonomi. Non fosse morto anzitempo,
chissà chi altri metterebbe nel mazzo.
Personalissima confessione, nella
speranza non turbi il lettore. Affascinato dalla Borsa sin dalla più tenera infanzia come ho avuto occasione di
narrare in qualche mio libro (il nonno
paterno finì in braghe di tela con la
crisi del ’29, un precettore mi lasciò in
eredità qualche titolo), sono in qualche maniera cresciuto a “pane & listino”, ed il mio sogno, da studente in ragioneria al “Carlo Cattaneo” di Milano
era d’approdare alle mitiche corbeilles. Prevalse la suggestione del giornalismo, ma il “primo amore” non lo si
dimentica. Così, nelle mie peregrinazioni, finisco sempre lì: a Wall Street,
alla City... A Barcellona come a Parigi
o Francoforte. Evito ormai di far scommesse (avendo pochi soldi) eppur non
so sottrarmi alla suggestione: perché
nella Borsa aleggia lo spirito del capitalismo, dell’impossibile che si trasforma in probabile, del risparmio che
da inetto si trasforma in dinamico. Lì,
deprecabile od esaltante, vi è il “nostro” futuro. Quello dell’Occidente.
Che sarebbe di noi senza le Borse? Interrogativo per nulla retorico, e me lo
mise sul piatto (metaforicamente ma
nemmeno troppo: in un lunch a
Manhattan) nientemeno che Warren
Buffett. Estate 2001, e già Wall Street
barcollava. Disse: «Aspetto che il treno deragli, quindi...».
Tutto sommato Warren non si discostava nei “princìpi” dall’Aldone Ravelli: «Comperare quando va giù!». Quasi ritmando la cantilena dell’Urbano
Aletti: «I prezzi ritornano...». Quali, resta da capire, da interpretare. A meno
che la storia economica di tre secoli sia
impazzita (ipotesi da non escludere in
assoluto sebbene non trovi riscontri),
tutto lascia supporre che le Borse “prima o poi” torneranno a ruggire. Quando, impossibile pronosticare. Tuttavia,
di fronte ad un treno fermo e sbuffante in Piazza Affari, che sembra destinato a finire su un binario morto, beh!,
chi crede nel capitalismo ci pensi. E ripensi. Vi sono occasioni che si presentano raramente, e questa potrebbe
essere una di quelle. Di una cosa essendo certo: che la Borsa non muore
mai. Che, al pari della mitica fenice, risorge dalle ceneri. Vero o meno, ci credo. Ciascun lettore di queste righe la
prenda poi come preferisce; un altro
mio mentore, Guido Carli, governatore
della Banca d’Italia, avendomi insegnato: «Che ciascuno vinca o perda seguendo il suo istinto...». Già: in Borsa,
mai dimentichiamolo, si vince e si perde. Ma il “partecipare” è probabilmente una delle più alte espressioni della
democrazia. Quella finanziaria. La vera ragione per cui, nonostante le sue tare, originarie o acquisite strada facendo, il capitalismo sia, se non “il meglio”, almeno “il meno peggio” nella so䡵
cietà contemporanea.
ECONOMIA-FINANZA 61
IL
R AT I N G
UNA PAGELLA IN
ALESSANDRO BOLOGNESI
Do you speak english? Parlate inglese? Nel mondo degli affari, come
nelle relazioni umane, e oramai anche
nelle scuole dell’obbligo, la lingua inglese è diventata una materia fissa, se
è vero che già nelle elementari verrà
stabilita una lezione per consentire, fin
dai primi anni di istruzione delle scolaresche, di dialogare anche nella lingua anglosassone. Sembra che il parlare inglese sia recepito anche fuori
del globo terrestre: tempo addietro, in
una trasmissione televisiva si era addirittura indicato, in un paradosso, come dei navigatori di altri mondi, avvicinandosi al nostro pianeta, abbiano
intuito di essere in prossimità della
Terra, proprio dai messaggi radio diffusi nell’universo, messaggi che si
esprimevano evidentemente in lingua
inglese.
In alcuni settori dell’economia i
rapporti d’affari, e personali, avvengono addirittura, se non esclusivamente,
RATING, A REPORT
WITH LIGHTS AND SHADES
The term is one of the many that have been transplanted to our language from English, also and especially in the area of economics. It means “examination” and in practice stands for the judgement given
on a company or on an industrial or financial group.
It is pointless to stress the significance that this assessment can have as a guide for investors. Rating specialists, in fact, carry out a daily check of the development of a company and the sector in which it operates. Even if the role of rating analysis is fundamental in the stock market, it does not mean that it
is always infallible. Also because, if this forecasting skill
were truly practicable, the analysts would have enormous power in defining the successes and failures of
companies and groups. But the errors, even clamorous
ones, prove that the margin of imponderability exists
and is consistent.
62
ECONOMIA-FINANZA
CHIAROSCURO
nell’idioma di sua Maestà britannica; o
meglio in quello di Wall Street. Senza
parlare della new economy, ove sono
stati forgiati termini, dei quali non esiste una traduzione letterale in altre lingue: decoder, server, software, hardware, screensaver, ecc. e tutta quella serie di vocaboli intraducibili in termini
già noti in altri idiomi.
Per quanto riguarda le Borse ed i
mercati finanziari l’assimilazione della
lingua inglese è continua e costante.
Nello scorrere la relazione di fine 2002
dei vertici di Piazza Affari si possono
osservare indicazioni come “business
system italiano”, ed ancora “government bonds”, per non parlare delle
performances nella “exchange industry”, ecc.
Un vocabolo che però assume un
ruolo sempre più importante nella dialettica societaria e finanziaria è quello
del rating che, nel suo termine di dizionario, vuol dire esame; e che pertanto rappresenta un giudizio su di
una società, su di un gruppo industriale o finanziario.
Esistono società che svolgono
professionalmente questo compito:
con analisi del settore in cui l’azienda
in esame svolge la sua attività, la struttura economica e produttiva inserita
nel contesto del settore, le aziende
concorrenti, i mercati di sbocco dei
prodotti, ecc. Dopo di che emettono
un giudizio, un rating che dovrebbe
servire da guida per gli investitori. Un
giudizio che ora viene utilizzato da una
molteplicità di esperti e di analisti, che
operano in banche di affari, studi professionali legati alla Borsa, giornalisti
economici, ecc.
Oramai i listini azionari, ma anche
obbligazionari, sono condizionati da
questi giudizi, o rating; per il solo mercato del debito, o meglio precisato,
delle obbligazioni, un peso determinante hanno avuto i rating sui debiti di
alcuni Paesi dell’America latina; ma, di
recente, anche su prestiti di aziende
italiane in difficoltà, con quotazioni di
queste obbligazioni taglieggiate rispetto ai prezzi di emissione e che, in gergo anglosassone, vengono chiamati
junke bond (titoli spazzatura). Oggetto,
queste emissioni, di strascichi, ricorsi
e polemiche anche da parte di associazioni di risparmiatori.
Come vengono dati, e come si
esprimono, questi giudizi che, d’ora in
poi, indicheremo sempre come rating?
Le agenzie di rating seguono, giorno per giorno, l’andamento di una società e del settore in cui opera, accentrando l’interesse sui cicli produttivi e
sulla commercializzazione dei prodotti (quando si parla, ovviamente, di una
azienda che produce beni o servizi).
Mi capita spesso di essere presente in
incontri tra i vertici di società quotate
e gli analisti finanziari,che spesso sono
gli estensori di questi rating. Si tratta,
quasi sempre, di dibattiti serrati, di richieste anche tecniche circa le prospettive del settore e dell’azienda che
vi opera: insomma, di un esame “in
profondità”, dal quale scaturisce il giudizio finale; quale? Da buy a sell (cioè
l’indicazione di comperare o vendere
quel determinato titolo), che passa
però attraverso una serie di altri avvertimenti: accumulate, underperform,
in line, market perform, overweight,
neutral, equal weight, hold, reduce, per
finire a sell. Una serie di avvertimenti
che vengono tenuti in considerazione
dai gestori di patrimoni e dagli operatori di Borsa. Ma non solo, perché que-
sti giudizi servono anche per assicurare il collocamento di emissioni obbligazionarie o la concessione di fidi e
di prestiti. In questo caso le formule
sono del tutto particolari ed il meglio
(cioè l’affidabilità del debitore) viene
espresso con una serie di AAA, per finire solitamente con la lettera C, ove
lo stesso debitore ha poche possibilità
di collocare i propri titoli, se non a
condizioni svantaggiose; che porterebbero addirittura a tassi doppi, ma
anche tripli rispetto ai debitori più af-
fidabili, come lo sono oggi gli Stati
dell’Unione europea.
Vi sono giornate in cui i listini azionari restano sospesi, in attesa del rating su di una importante società, quotata a Wall Street o su altri listini azionari. E sarà questo rating a condizionare il successivo andamento del titolo di
quella società, di altre aziende del settore, se non di tutta la Borsa. Esempi a
questo riguardo non sono mancati nel
recente passato, specie per quanto riguarda aziende del settore della new
economy, il cui andamento ha trovato
riscontro, prima ancora dei risultati
aziendali, nella quotazione di Borsa.
Se il rating venisse utilizzato come
l’unico “metro” per misurare lo stato
di salute di una azienda, ci sarebbe da
preoccuparsi; se non altro perché gli
estensori del rating avrebbero in mano
un potere enorme: quello di stabilire il
futuro andamento delle quotazioni di
Borsa, ma anche la stessa sopravvivenza della società. Ed al riguardo bisognerebbe arguire che si tratta di giudizi fatti sì da esperti, ma che pur sempre si tratta di individui che possono
essere tratti in errore (errare umanum
est); se non addirittura giudizi avventati o, peggio ancora, dolosi.
La storia recente, se non la cronaca di questi ultimi anni, ci indica come per alcune grosse compagnie americane, Enron, Worldcom, ecc. fino
all’ultimo momento siano stati espressi giudizi (rating) di tutta tranquillità,
fino allo scoppio del “caso”. Ovviamente non è misurabile il danno arrecato a milioni di azionisti e risparmiatori per l’entità della bolla speculativa
che si è prodotta e che ha portato conseguenze a danno non solo dei risparmiatori, ma di intere economie.
Circa la non infallibilità dei rating
gli esempi sono molteplici, ma l’esame
di ciascuno ci induce a considerazioni
che non porterebbero giovamento alla società presa in esame dai rating. C’è
stato un importante gruppo italiano
sul quale, fino ad un anno fa, veniva
espresso un rating positivo, con una
quotazione più che doppia rispetto ai
livelli attuali: l’abbassamento del rating, e del prezzo, viene ora giustificato con la perdita di valore del portafoglio titoli: giusto, i listini di Borsa hanno subìto perdite notevoli, mentre una
grossa partecipazione estera è stata
svalutata. Però, evidentemente, in questi giudizi non si è tenuto conto della
cospicua rivalutazione del patrimonio
immobiliare, contabilizzato, anche per
motivi fiscali, oltre che di pratica di bilancio, ai valori di carico; e che riguarda le tre compagnie principali del
gruppo; rivalutazione che è sotto gli
occhi di tutti, anche se, ovviamente,
l’intero patrimonio immobiliare non è
smobilizzabile in tempi brevi, o medio
brevi (ma qualcosa si sta muovendo a
questo riguardo), come sarebbe pos䡵
sibile per un portafoglio titoli.
ECONOMIA-FINANZA 63
IMPOSTE
TRANSAZIONI
E
CRESCITA
ECONOMICA
Per onorare e proseguire una lunga tradizione negli studi economici e
giuridici, che data dal 1937, la Rivista di Diritto finanziario e Scienza delle
finanze organizza una “Lecture” annuale, intitolata a Ezio Vanoni, illustre
collaboratore della Rivista.
La prima “Lecture Vanoni” si è svolta nell’Università di Pavia
il 16 dicembre 2002, con il contributo della Banca Popolare di Sondrio
e di Palladio Finanziaria.
Ne è stato protagonista il prof. Vito Tanzi, attualmente Sottosegretario
di Stato alle Finanze, studioso di chiara fama, ed in precedenza
Direttore del Dipartimento di Finanza pubblica del Fondo Monetario
Internazionale, Senior Associate del Carnegie Endowment
for International Peace e consulente della Banca Mondiale
e delle Nazioni Unite.
Silvia Cipollina
VITO TANZI
1.
Introduzione
Per molti anni, con i loro scritti, esperti di imposte hanno
contribuito a definire le caratteristiche che il sistema fiscale di un
paese dovrebbe avere per facilitare lo sviluppo economico e per
raggiungere un alto livello di benessere della popolazione.
Il sistema fiscale dovrebbe avere caratteristiche di neutralità,
nel senso che non dovrebbe cambiare i prezzi relativi dei beni e
dei servizi che la gente compra, prezzi che dovrebbero essere determinati dall’azione del mercato. Un sistema fiscale che spinge i
consumatori a comprare più mele e meno arance, perché le arance sono più tassate delle mele, riduce il livello di benessere del
pubblico a meno che non ci siano delle ragioni specifiche che giustifichino la tassazione più alta di arance rispetto a quella delle
mele.
Una ragione specifica per tassare un prodotto con aliquote
più alte può essere l’esistenza di esternalità negative. Queste
esternalità esistono quando il consumo di un bene crea dei costi
per la società, costi che non sono direttamente sostenuti dai consumatori del prodotto. Per esempio, il consumo di sigarette può:
a) danneggiare la salute dei non fumatori (fumatori passivi); b)
creare incendi; c) far aumentare le spese sanitarie pubbliche. Questi costi non ricadono sul fumatore, ma su altre persone e sulla
64 ECONOMIA-FINANZA
società. Il consumo di bevande alcoliche può produrre più incidenti stradali causando danni a persone che non bevono e costi
alla società in generale. Il consumo di carburante da parte di automobili e camion può inquinare l’aria e danneggiare le strade
creando necessità di spese che devono essere coperte dalla società. In tutti questi casi può essere giustificato tassare un prodotto o un servizio con aliquote più alte, anche se a prima vista
questa azione sembrerebbe essere in contrasto con il principio
di neutralità impositiva.
Le esternalità negative a volte possono essere causate non
dal consumo di un prodotto ma dalla sua produzione. In questi
casi le imposte penalizzanti dovrebbero essere poste sulle imprese produttrici e non sui consumatori.
Il principio di neutralità ha portato a preferire imposte che
non cambiano i prezzi relativi dei beni e dei prodotti, come per
esempio l’Iva o l’imposta sulle vendite al dettaglio con aliquota
unica. L’eccezione, come già menzionata, è la tassazione con aliquote più alte per l’uso o la produzione di prodotti che generano
esternalità negative.
Un sistema fiscale dovrebbe avere anche caratteristiche di
efficienza economica nel senso che non dovrebbe scoraggiare più
del necessario persone che intraprendono sforzi o assumono ri-
Per determinare l’entità del pagamento delle imposte sul
schi superiori alla norma. Per esempio, in un Paese in cui la giornata lavorativa normale è di otto ore una persona che decidesse reddito e per preparare correttamente la dichiarazione di impodi lavorare dieci ore al giorno non dovrebbe essere penalizzata sta, i cittadini di molti paesi hanno spesso bisogno dell’assistensul suo reddito marginale derivante dalle due ore addizionali. Ciò za di specialisti ben remunerati (tributaristi, dottori commerciasuccede quando il reddito marginale è tassato con aliquote più listi). Senza questa assistenza molti contribuenti non sarebbero
alte della media. La teoria dell’imposta ottima (optimal taxation capaci di completare la loro dichiarazione dei redditi; oppure imtheory) tasserebbe questo reddito marginale con una aliquota ze- piegherebbero troppo tempo per farlo o lo farebbero con frero. Al contrario i sistemi tributari che esistono nella maggior par- quenti errori.
Negli ultimi anni c’è stata una tendenza da parte delle amte dei Paesi penalizzano questo sforzo addizionale attraverso l’uso
di imposte progressive sul reddito. Quando lo sforzo marginale ministrazioni tributarie ad assegnare sempre più responsabilità
viene così penalizzato, c’è meno impegno, riducendo così il red- ai contribuenti per cui i costi di adempimento per alcune categorie di contribuenti sono aumentati causando non poche difficoltà
dito totale della persona e del Paese.
Simili considerazioni si possono fare rispetto ad attività che per i contribuenti. Ciò è specialmente vero per le imprese (4).
Un contenimento, o meglio una riduzione, di questi costi di
comportano rischi. Per esempio se due attività ricevono compensi
diversi, perché una è più rischiosa dell’altra, la tassazione non do- gestione e di adempimento dovrebbe essere un obiettivo imporvrebbe ridurre il compenso addizionale per l’attività più rischiosa, tante delle riforme fiscali. Sistemi fiscali che danno eccessiva attenzione alle caratteristiche particolaperché questo porterebbe a scelte meri di singoli contribuenti (imposte fatno rischiose con possibile danno al bete su misura o taylor made) compornessere economico del Paese.
tano inevitabilmente costi di gestione
Generalmente imposte molto
e di adempimento molto più alti di un
progressive sui redditi delle persone
sistema fiscale che ignora caratteristifisiche inducono le persone a non inche individuali e che si basa su carattraprendere sforzi addizionali o attiteristiche medie o normali.
vità più rischiose (1). Le imposte proAltre caratteristiche che si rigressive probabilmente riducono anchiedono ai sistemi fiscali sono quella
che la propensione al risparmio
dell’equità e, sempre più frequentequando i redditi finanziari fanno parmente nella letteratura moderna, quelte del reddito globale di una persona
la della certezza fiscale.
e questo reddito è tassato nella sua
Ci sono due aspetti di equità fitotalità con imposte progressive.
scale che attirano attenzione: equità
Questa è una delle ragioni per cui alverticale ed equità orizzontale.
cuni Paesi, come l’Italia, non tassano
L’equità verticale, che è quella che
il reddito totale di una persona, ma
spesso riceve più attenzione, richiede
tassano i redditi finanziari differenteche i contribuenti più ricchi paghino
mente dai redditi derivanti da attività
imposte che in proporzione ai loro
normali (2). Un’altra e più recente raredditi siano più alte che per i contrigione per questa differenziazione è
buenti meno ricchi (5). La Costituzioche i risparmi possono emigrare verne italiana richiede espressamente
so paradisi fiscali, evadendo così le
questa caratteristica, ma non specifica
imposte nel Paese di origine del conil grado di progressività. Il grado di
tribuente. Quest’ultima è una delle raprogressività desiderabile è fonte di
gioni per cui la Delega fiscale presengrandi controversie anche perché, cotata al Parlamento nel 2002 dal Go- Lo statista valtellinese Ezio Vanoni.
verno Berlusconi ha proposto un’ali- Ezio Vanoni, the statesman from Valtellina.
quota del 12,5 per cento per i redditi
1)
Per queste ragioni dopo la rivoluzione introdotta dall’economia
finanziari, aliquota che è molto più bassa di quelle sui redditi da dell’offerta (supply-side economics) le imposte sui redditi sono diventate
lavoro.
meno progressive.
Le imposte devono essere caratterizzate da bassi costi di ge- 2)
Vari autori (Mill, Einaudi, Kaldor) hanno sostenuto che il reddito ristione (administrative costs), per le autorità tributarie, e da bassi sparmiato non dovrebbe essere tassato.
Per l’analisi più dettagliata di questi costi si veda il Capitolo 7 di
costi di adempimento (compliance costs) per i contribuenti. I co- 3)
C., Why Tax Systems Differ, London, Fiscal Publications, 2000 e
sti di gestione dovrebbero costituire una piccola proporzione del SSANDFORD
ANDFORD C., Administrative and Compliance Cost of Taxation, London, Fiscal
gettito fiscale che il governo riceve. Negli Stati Uniti, ad esempio, Publications, 2000. Per una discussione di questi costi per l’Italia si veda:
i costi di gestione sono al di sotto dell’uno per cento del gettito Allegato n. 11 “Costo di Gestione dei Tributi” in CNEL, Ipotesi di riordinatotale. In altri Paesi, per varie ragioni, questi costi sono spesso mento dell’attuale apparato normativo in materia fiscale, Allegati, Roma, 1994.
4)
Per esempio il sistema di trattenuta alla fonte e il dovere di fornire
molto più alti.
Mentre i costi di gestione hanno ricevuto attenzione nella alle amministrazioni fiscali varie informazioni su redditi pagati come per
i redditi finanziari, hanno aumentato i costi di adempimento per le imprese
letteratura tributaria, i costi di adempimento ne hanno ricevuto ma possono aver ridotto questi costi per le persone fisiche.
molto meno (3). Questi costi sono stati spesso ignorati da tribu- 5)
Bisogna ricordare che l’idea che le imposte sul reddito devono estaristi e da economisti che si occupano di imposte. Ma l’eviden- sere progressive non è universalmente accettata. Per esempio Antonio de
za indica che questi costi possono essere molto alti anche se la Viti de Marco e James Buchanan hanno espresso scetticismo a riguardo
loro quantificazione è difficile. Per esempio in alcuni Paesi, il pa- delle imposte progressive sul reddito. De Viti de Marco menzionava che
gamento delle imposte fondiarie o di registro richiede la presen- persino la Rivoluzione francese, con tutto il suo radicalismo, aveva legiferato un sistema di tassazione proporzionale. Si veda DE VITI DE MARCO A.,
za fisica del contribuente e la necessità di stare in fila per ore. In First Principles of Public Finance, London, Jonathan Cape, 1936, p. 184. Ma
alcuni casi ed in alcuni periodi (Brasile) questo costo diventò tal- uno dei massimi esponenti di quella rivoluzione, Maximilien Robespierre
mente alto da provocare delle dimostrazioni, occasionalmente era chiaramente a favore di imposte progressive. Vedi, ROBESPIERRE M., La
Rivoluzione Giacobina, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992, p. 115.
anche violente, da parte dei contribuenti.
ECONOMIA-FINANZA 65
me già detto, più progressive sono le imposte, più disincentivi
creano. C’e quindi un inevitabile trade-off tra giustizia sociale ed
efficienza economica. Il grado di progressività è stato uno dei temi che hanno ricevuto più attenzione nella discussione della Delega fiscale in Italia (6).
L’equità orizzontale richiede che due contribuenti con uguale reddito paghino le stesse imposte. Diventa difficile soddisfare
questo obiettivo quando il sistema fiscale riconosce molte circostanze che possono giustificare un trattamento speciale per vari
gruppi o varie persone. È anche difficile soddisfare il criterio di
equità orizzontale quando le possibilità di evasione sono differenziate tra i gruppi di contribuenti (per esempio tra lavoratori
dipendenti e autonomi). Ciò ha giustificato in alcuni Paesi aliquote
o deduzioni diverse per differenti tipi di reddito (7).
La certezza fiscale è considerata un elemento fondamentale da molta letteratura recente e specialmente dalla letteratura
teorica che assume il concetto di razionalità da parte degli agenti economici. Nelle economie moderne molte imprese, ma anche
molte persone, hanno bisogno di prendere delle decisioni su spese o investimenti che determineranno i loro redditi per molti anni futuri. Nei loro calcoli hanno quindi bisogno di assumere quale sarà il trattamento fiscale dei loro redditi futuri. Questa previsione è necessaria per poter fare delle anticipazioni sulla redditività futura degli investimenti, compresi, per le persone fisiche, gli
investimenti in istruzione. Se il sistema fiscale cambia spesso,
creando incertezza permanente e possibilità di politiche fiscali caratterizzate da inconsistenza intertemporanea (time inconsistency), come è spesso successo in Italia, è probabile che si faranno meno investimenti e si prenderanno meno decisioni che nel
tempo avrebbero potuto far crescere l’economia (8).
In questo saggio l’attenzione viene rivolta ad una caratteristica del sistema fiscale che, secondo l’autore, non ha ricevuto
l’attenzione che merita; cioè il ruolo che possono avere le imposte nell’ostacolare le transazioni. La tesi principale è che se le imposte ostacolano le transazioni o gli scambi tra agenti economici, esse ostacoleranno anche la crescita economica del Paese.
Conseguentemente imposte che sono dirette specificamente a
transazioni e specialmente ad alcuni tipi di transazioni, che sono
particolarmente importanti per la crescita economica, dovrebbero essere eliminate. Ovviamente, molte imposte hanno come fatto imponibile una qualche transazione. Per questa ragione è necessario identificare i tipi di transazione che si ritengono particolarmente desiderabili altrimenti si rischia di eliminare la gran
parte delle imposte. In conclusione, un sistema fiscale di buona
qualità dovrebbe ostacolare il meno possibile gli scambi o le transazioni tra coloro che operano nell’economia.
2.
Transazioni e crescita economica
La letteratura sulla crescita economica è relativamente recente, essendo per la gran parte un prodotto degli ultimi 50 anni.
Prima della Seconda Guerra mondiale pochissimi economisti si
erano occupati della crescita. Infatti gli unici economisti importanti di quel periodo che avevano un modello, anche se implicito, di crescita economica erano Adam Smith e specialmente Joseph Alois Schumpeter (9).
I primi modelli di crescita economica che apparvero dopo
la Seconda Guerra mondiale davano particolare importanza al fattore capitale e quindi agli investimenti. Non importava se gli investimenti fossero pubblici o privati. L’idea principale era che gli
investimenti generano l’accumulazione di capitale; e più capitale
c’è in una economia, più produzione ci sarà. Un Governo che aumentava la pressione fiscale, senza aumentare la spesa pubblica
corrente, poteva aumentare gli investimenti pubblici e così poteva far crescere l’economia. Questo spiega perché negli anni 1950
e 1960 c’era molto interesse sulla possibilità di aumentare la pressione fiscale e molta letteratura sui fattori che la determinavano.
66 ECONOMIA-FINANZA
Il ministro professor Giulio Tremonti.
Queste teorie della crescita economica erano legate ai nomi di
Harrod, Domar, Rostow ed altri importanti economisti di quel periodo.
Col passare del tempo l’importanza del capitale fisico nella
crescita economica fu molto ridimensionata dagli economisti perché ci si rese conto che spesso l’aumento degli investimenti e del
capitale non produceva l’effetto sperato sulla crescita. Si cominciò a dare più peso al “capitale umano” che, nella letteratura economica, diventò il fattore determinante della crescita. Questo ripensamento cominciò con Simon Kuznets e Robert Solow. In questo periodo si credeva che il capitale umano si poteva aumentare principalmente aumentando la spesa per l’istruzione e quella
per la ricerca e lo sviluppo.
Negli anni più recenti l’idea centrale del classico libro di
Schumpeter sulla “Teoria dello Sviluppo Economico” – che metteva al centro dello sviluppo economico l’uso piuttosto che la
quantità dei fattori di produzione (capitale e lavoro) e quindi implicitamente sottolineava l’importanza degli scambi tra agenti
economici – ha acquistato una posizione fondamentale, sebbene
non esplicitamente riconosciuta, nella “New Growth Theory” o
“Nuova Teoria della Crescita” che ora domina la letteratura economica sulla crescita.
Il libro di Schumpeter è straordinario perché fu scritto quasi un secolo fa. Rimane uno dei libri più importanti nella letteratura sulla crescita economica. Vale la pena citare uno dei suoi passaggi più rilevanti per il presente saggio:
Il lento e continuo aumento nel tempo nell’offerta dei fattori nazionali di produzione e dei risparmi è ovviamen-
È chiaro che per poter usare in modo diverso le risorse esistenti non ci devono essere ostacoli al loro nuovo uso da parte
di coloro che sono in grado di usarle efficientemente.
Nel mondo moderno nuove idee con potenziale valore economico appaiono continuamente. Alcune vengono dall’estero; altre hanno origine domestica. Alcune vengono dai laboratori scientifici delle grandi imprese; altre dalle università o dalle attività dilettantistiche di inventori di fine settimana che spesso usano i loro garage come piccoli laboratori di ricerca. Per alcune idee è possibile ottenere un brevetto. Per molte non è possibile.
Alcune delle idee tendono a ridurre i costi di produzione di
ciò che già si produce. Altre creano nuovi prodotti o spesso nuove versioni di prodotti che già esistono. Alcune si riferiscono principalmente ad aspetti organizzativi. Ma l’uso di queste idee richiede o la creazione di nuove imprese o qualche riorganizzazione delle attività o dei centri di produzione già esistenti. Queste
nuove creazioni o riorganizzazioni spesso richiedono autorizzazioni da parte di enti pubblici e la ricombinazione di fattori di produzione cioè di lavoratori, capannoni, macchinari, terreni e fabbricati, e capitale finanziario. Lavoratori, terreni, fabbricati, macchinari devono cambiare uso e la scadenza del capitale finanziario ottenuto in credito deve anche cambiare.
Se un Paese impedisce o ostacola queste ricombinazioni
perché:
a) è difficile, o richiede troppo tempo, ottenere nuove autorizzazioni o nuovi permessi dagli enti pubblici;
b) un mercato del lavoro rigido non permette il facile spostamento di lavoratori da attività in declino ad attività nuove;
c) il mercato finanziario non ha la flessibilità necessaria nel finanziare attività nuove ed a più alto rischio o che possono richiedere un lungo periodo di gestione prima di diventare redditizie;
d) il sistema fiscale impedisce o rende costosa la ricombinazione;
e) il sistema giudiziario è incapace di proteggere i diritti di proprietà o nel garantire la santità dei contratti,
allora la disponibilità di nuove idee non risulterà in attività economiche che faranno crescere il Paese. Specialmente quando la
produzione di nuove idee aumenta, come per esempio è succes-
so negli anni Novanta quando nuove tecnologie sono diventate disponibili, gli ostacoli menzionati diventano più importanti. In queste fasi i Paesi con meno ostacoli cresceranno di più.
Secondo la “Nuova Teoria della Crescita”, le economie dei
Paesi si sviluppano specialmente quando il capitale intangibile -costituito da nuove idee, nuove tecnologie, nuovi modi di organizzare i processi di produzione, nuovi modi di canalizzare i risparmi verso attività produttive, nuovi modi di usare le risorse lavorative disponibili e così via, -- aumenta. La Nuova Teoria della
Crescita rimuove dal centro del fenomeno della crescita economica l’aumento di fattori reali (capitale e lavoro) e lo sostituisce
almeno in parte con l’aumento di fattori intangibili (10). La Nuova Teoria della Crescita dà implicitamente molta importanza alla
facilità, da parte di coloro che operano nell’economia, di poter
combinare in modi diversi tutte le risorse disponibili sia tangibili sia intangibili e quindi, implicitamente, alla facilità di scambio
ed alla quantità di transazioni. Se ostacoli di varia natura, inclusi
ostacoli fiscali o burocratici, non permettono la ricombinazione
a basso costo di questi fattori in modo diverso dal passato, la crescita economica ne soffrirà. In questo contesto ogni ostacolo burocratico, amministrativo o fiscale può diventare importante nel
ridurre la crescita. In questo paper l’attenzione è sugli ostacoli fiscali ma ovviamente altri ostacoli (mercato del lavoro rigido, burocrazia intrusiva, ecc.) sono ugualmente importanti o possono
anche essere più importanti.
Una differenza fondamentale tra le società del passato e
quelle moderne è il numero di transazioni o, se si vuole, di contratti impliciti o espliciti che hanno luogo. Mentre nelle economie
del passato (e non solo in quelle di sussistenza) c’erano poche
transazioni tra i cittadini, perché c’era poca specializzazione e
molte attività di sussistenza, nelle economie moderne il livello di
specializzazione è molto più alto e le transazioni tra i partecipanti di queste economie molto più frequenti (11).
Per apprezzare pienamente il ruolo delle transazioni in una
economia moderna conviene partire dalla posizione di un individuo che vive solo e senza possibilità di contatti con altri individui. È in altre parole la situazione in cui si trovava Robinson Crusoe, il famoso marinaio inglese che naufragò in un’isola deserta.
Dopo il naufragio, il suo tenore di vita, cioè il suo reddito, dipendeva dalle risorse naturali nell’ambiente in cui viveva (frutti degli
alberi, pesci nel mare, animali commestibili della foresta), dalla
tecnologia a sua immediata disposizione (coltelli, ecc.), dalla sua
abilità, e dallo sforzo che era disposto a sostenere, misurato da
numero di ore lavorative e dalla intensità dello sforzo. Per Robinson Crusoe non c’era vantaggio nella specializzazione perché
non c’era possibilità di scambi. Se raccoglieva più frutta di quanto voleva consumare, non poteva scambiarla con pesci pescati da
un’altra persona. Il fatto di non potersi specializzare implicava che
6)
Si veda per esempio, BALDINI M., La riforma dell’imposta sul reddito:
aspetti di equità e di efficienza, in Politica Economica, 3/2002, pp. 303-340.
7)
Ancora una volta si può ricordare la posizione di Antonio de Viti de
Marco che giustificava le aliquote differenziate sui redditi provenienti da
fonti diverse in base alle differenti possibilità di evasione. Gli aspetti connessi all’equità orizzontale sono stati analizzati in molte pubblicazioni da
Peter Lambert, un economista inglese. Si veda anche, PATRIZI V., Equità verticale e orizzontale: I problemi dell’Irpef, in I Centogiorni e Oltre: verso una
rifondazione del Rapporto Fisco-Economia, a cura di LONGOBARDI E., De Agostini professionale, 2002, pp. 363-380.
8)
Questo aspetto è legato alla letteratura su “optimal value of waiting”
specialmente discussa da Avinash Dixit. Si veda DIXIT A., Investiment and
Hysteresis, in Journal of Economic Perspectives, Vol. 6, Number 1, pp. 107132. La sostanza di questa teoria è che quando c’è incertezza può essere
più conveniente aspettare prima di fare un investimento. Può essere più
costoso investire troppo presto che con ritardo. Ci sono casi di inconsistenza intertemporale quando per esempio un investimento viene fatto in
base ad un incentivo fiscale esistente ma, dopo aver incoraggiato l’investimento, l’incentivo viene eliminato per aumentare il gettito.
9)
SMITH A., An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776; SCHUMPETER J. A., The Theory of Economic Development, New
York, Oxford University Press, 1961. La prima versione del libro di Schumpeter risale all’inizio del secolo passato.
10) Per questa ragione le istituzioni di un Paese che ne rappresentano
l’infrastruttura sociale diventano estremamente importanti e per questa ragione stanno ricevendo sempre più attenzione nella letteratura economica. Buone istituzioni permettono e facilitano la ricombinazione dei vari fattori e risorse che producono l’aumento del prodotto interno lordo. Queste istituzioni assicurano altri che i guadagni andranno a coloro che sono
stati all’origine di questi cambiamenti. Una eccellente introduzione alla
teoria moderna della crescita è: JONES C. I., Introduction to Economic Growth,
second edition, New York e Londra, W.W. Nortond Company, 2002.
11) Si ricordi che nel mondo di oggi più di 1.000 miliardi di euro al giorno sono scambiati da una moneta all’altra. Le transazioni che hanno luogo nelle Borse sono anche enormi. Ostacoli a queste transazioni diminuiscono la capitalizzazione delle Borse. Naturalmente alcune di queste transazioni possono essere di tipo speculativo e possono così contribuire meno o niente affatto alla crescita.
te un fattore importante nella spiegazione della storia
economica attraverso i secoli, ma è di gran lunga meno
importante del fatto che lo sviluppo economico consiste
principalmente nell’impiegare le risorse esistenti in modi diversi, nel fare nuove cose con queste risorse, non
importa se queste risorse aumentano o no.
JOSEPH A. SCHUMPETER, The Theory of Economic Development,
Oxford University Press, 1961, p. 68. Traduzione dell’autore.
ECONOMIA-FINANZA 67
la sua produttività rimaneva bassa ed il suo tenore di vita non poteva migliorare.
Supponiamo ora che un giorno Robinson Crusoe scopra un
altro individuo nell’isola, forse un altro naufrago. Questa scoperta apre la possibilità di scambio tra i due e quindi la possibilità di
specializzazione. Magari Robinson Crusoe è più bravo a pescare,
mentre l’altro è più bravo a raccogliere frutta. La specializzazione nell’attività in cui ciascuno ha un vantaggio comparato può aumentare la produttività e attraverso gli scambi ambedue possono aumentare il loro tenore di vita. Allo stesso tempo ognuno dei
due può usare le idee dell’altro e così, possibilmente, aumentare
la propria capacità produttiva.
Una economia moderna è caratterizzata da milioni di individui e di imprese ciascuno specializzato in qualche particolare
attività e ciascuno potenzialmente capace di produrre nuove idee.
Questi individui ed imprese operano in diverse regioni e in diversi
Paesi. Il mercato nazionale che è sempre più globalizzato porta le
loro attività in contatto e garantisce che le loro azioni sono dirette
in qualche modo alla massimizzazione del bene comune.
In questo contesto il famoso esempio di Adam Smith, della
produzione di spille, acquista significato ed importanza. Una persona (o una impresa) che si specializza diventa più efficiente nel
produrre ciò che produce. Ma, naturalmente, si presenta la necessità di scambiare l’eccesso di ciò che produce (oltre a ciò che si
può usare direttamente) con beni utili, ma prodotti da altre persone o altre imprese. Anche i Paesi si possono specializzare in alcuni prodotti, come è il caso della Finlandia con i telefonini o della Corea e la Malesia con componenti di prodotti elettronici. Quando, seguendo il principio del vantaggio comparato, un Paese si specializza, il Paese ha bisogno di esportare, importando da altri Paesi prodotti nella produzione dei quali esso stesso è meno efficiente.
Molta letteratura ha criticato gli ostacoli fiscali alle importazioni ed alle esportazioni, cioè agli scambi tra Paesi, e durante
gli anni recenti nella gran parte dei Paesi le imposte alle importazioni sono state molto ridotte, mentre quelle alle esportazioni
sono quasi scomparse. Ci si è resi conto che queste imposte producono molte distorsioni ed inefficienze e riducono il benessere
economico. Naturalmente il commercio mondiale è ancora lontano dall’essere completamente libero da ostacoli, inclusi quelli di
carattere fiscale. Imposte sulle importazioni continuano ad esistere ed a creare situazioni in cui alcuni beni vengono prodotti
domesticamente da produttori meno efficienti ed a costi molti alti, mentre questi beni potrebbero essere comprati a prezzi più
bassi da produttori stranieri. Queste imposte penalizzano i consumatori domestici e dirigono le scarse risorse di un Paese verso
attività meno produttive ma protette. Al contrario le imposte sulle esportazioni penalizzano la produzione domestica, mentre incentivano il consumo domestico del prodotto la cui esportazione
è tassata. Queste imposte riducono l’esportazione.
Nel passato sia le imposte alle importazioni sia quelle alle
esportazioni erano molto comuni e contribuivano in proporzioni
TAXES, TRANSACTIONS AND ECONOMIC GROWTH
There are several criteria for giving value to taxes in the economic dynamic. Managed according to various scenarios, they can increase or depress the development
level of society. In general, if taxes impede the transactions or exchanges between
brokers, they also automatically block the economic growth of the Country. A good
quality economic system should therefore constrain these economic relationships
as little as possible. The first economic growth models appeared after the Second
World War. In this context, specialist literature has often criticised the fiscal obstacles facing imports and exports, namely exchanges between various Countries. We
have become aware that they create distortions and inefficiency and reduce economic well-being. In Italy it would be advisable to increasingly modify the taxes on
transactions still in force, such as registration dues and stamp duty.
68 ECONOMIA-FINANZA
importanti al gettito fiscale di molti Paesi. Per esempio nel XIX secolo il Governo degli Stati Uniti riceveva quasi il 50 per cento del
suo gettito fiscale da imposte sulle importazioni, mentre nel XX
secolo l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, la Costa d’Avorio ed altri
Paesi hanno tassato con aliquote alte (e ricevuto gettito importante da) alcune delle loro esportazioni (carne, caffè, cacao).
In una economia di mercato il sistema dei prezzi è fondamentale per l’esistenza di un mercato efficiente. I prezzi determinano ciò che gli agenti economici dovranno pagare per comprare un bene o che riceveranno dalla vendita di un bene.
In un mercato efficiente, caratterizzato da mancanza di monopoli e da completa trasparenza, e quindi dalla disponibilità della stessa informazione per chi compra e chi vende, le transazioni
tra i partecipanti, eseguite a prezzi di mercato, portano ad un equilibrio che (se alcune circostanze sono soddisfatte) è, nel gergo degli economisti, Pareto-efficiente. Cioè, non è possibile migliorare la
situazione di alcuni agenti senza peggiorare quella di altri.
Nell’economia di mercato descritta sopra, se non ci sono
ostacoli alle transazioni e non ci sono problemi di informazione
asimmetrica (come per esempio nel caso in cui chi vende o chi
compra ha più informazione sulla qualità del prodotto dell’altra
parte), ogni persona che volontariamente partecipa delle transazioni migliora la propria situazione. Se vendo X per comprare Y,
vuol dire che Y ha più valore per me di X. Se ciò non fosse vero,
lo scambio non avverrebbe.
Quindi, o nelle vesti di consumatori o in quelle di produttori, i partecipanti alle attività di mercato (come compratori o venditori) sono continuamente alla ricerca dei vantaggi che si possono ottenere attraverso lo scambio di ciò che si ha per ciò che
si desidera. Questi scambi sono o informali (come l’acquisto di
un cappuccino) o formali (come l’acquisto di un’ automobile o di
una casa). Tutti comunque implicano dei contratti, alcuni impliciti altri espliciti (12).
Si può affermare che, se gli scambi migliorano le condizioni
di benessere di coloro che vi partecipano come consumatori, o
migliorano la produttività di altri, che partecipano come produttori e che attraverso gli scambi possono trasformare nuove idee
in possibilità con conseguenze economiche, più scambi ci sono,
più alto sarà, ceteris paribus, il benessere economico di un Paese.
La ricerca continua di migliori combinazioni, incentivata da innovazioni di carattere manageriale, tecnologiche, stilistiche o finanziarie, porterà alla crescita economica. Nei Paesi dell’Est, prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica, a causa della pianificazione economica e del ruolo limitato dei prezzi di mercato,
c’erano pochi scambi e poco benessere economico. Nei Paesi ricchi ci sono molte transazioni e più benessere. La nostra tesi è che
le transazioni contribuiscono in misura consistente alla crescita
economica di un Paese.
Nella nostra discussione ignoreremo situazioni o condizioni che possono a volte invalidare le conclusioni sopra raggiunte.
Alcune di queste condizioni, e specialmente quelle che trattano il
problema di informazione asimmetrica, sono state discusse nella
letteratura economica ed alcuni economisti (Akerlof, Stiglitz,
Spence) hanno ricevuto il premio Nobel in economia per aver contribuito a questa letteratura. In alcuni settori dell’economia di
mercato, come per esempio nella vendita di automobili usate, o
in alcuni aspetti dei mercati finanziari o dei mercati di capitale o
di assicurazioni, l’esistenza di “informazione asimmetrica” (cioè
quando un lato della transazione ha migliore informazione su ciò
che si sta scambiando dell’altro lato) può portare a situazioni in
cui una transazione non migliora il benessere di tutti e due i partecipanti. In alcuni casi una transazione non è spontanea ma forzata per cui il risultato è non ottimale per alcuni partecipanti (13).
A queste eccezioni si potrebbero aggiungere anche quelle che
coinvolgono transazioni di carattere puramente speculativo. Infatti, circa 20 anni fa, queste transazioni avevano spinto James Tobin
Nella foto, da sinistra a destra: il professor Adalberto Majocchi, il professor Roberto
Schmid, Magnifico Rettore dell’Università di Pavia, il professor Vito Tanzi e il
professor Emilio Gerelli.
In the photo, from left to right: Professor Adalberto Majocchi, Professor Roberto
Schmid, Magnificent Rector of the University of Pavia, Professor Vito Taniz and
Professor Emilio Gerelli.
a proporre un’imposta, la ormai famosa Tobin Tax, che si pone
l’obiettivo di ridurre queste transazioni (14). Questi aspetti possono essere importanti in alcuni settori o in alcune situazioni, ma restano eccezioni che non invalidano la conclusione generale che la
gran parte delle transazioni migliora il benessere economico dei
partecipanti e fa crescere l’economia. Se i partecipanti sono razionali, hanno piena informazione e hanno la libertà di azione avranno sempre la scelta di non partecipare ad una transazione.
Come già detto il sistema dei prezzi dipende dalle transazioni. Ma le transazioni non sono senza costo. In alcuni casi, le transazioni richiedono informazione e ottenere informazione può essere costoso. Per questo un’economia di mercato ha anche bisogno di regole che assicurino la più grande trasparenza possibile e
che in vari casi riducano o eliminino, per i partecipanti, la necessità di ottenere informazioni (15). Nella prossima sezione la nostra
attenzione sarà diretta ad ostacoli creati dal governo, e specialmente a quelli relativi ad imposte che colpiscono le transazioni.
Ostacoli burocratici o che derivano da regolamenti particolari, inclusi quelli creati dai sindacati sul mercato del lavoro, non sono
discussi, sebbene questi ostacoli siano spesso molto importanti.
che hanno bisogno di meno lavoratori, o di lavoratori con specializzazioni diverse, devono poter adattare, senza ostacoli, la loro forza lavorativa alle nuove necessità. Terreni, fabbricati, capannoni, e risorse finanziarie vincolate in alcuni usi devono potersi svincolare da attività in declino ed essere canalizzati verso
altri usi in cui si possono anticipare rendimenti più elevati, e devono poterlo fare senza costi eccessivi. La crescita economica richiede la ricerca continua di questi rendimenti più alti e la riorganizzazione frequente dei fattori di produzione.
Sarebbe ideale se tutto questo potesse accadere senza frizioni e senza ostacoli. Ovviamente, questo non è possibile perché
ci sono spesso ostacoli naturali o artificiali che impediscono queste riorganizzazioni. Per esempio, piani regolatori spesso impediscono cambi nell’uso dei terreni. L’evidenza indica che questi
ostacoli sono molto più rigidi in alcuni Paesi rispetto ad altri. I Paesi dove questi ostacoli sono meno rigidi, come gli Stati Uniti, generalmente crescono più rapidamente (16). In questa sezione discuteremo principalmente di ostacoli di natura fiscale.
3.
Imposte e transazioni
Nella sezione precedente si è sostenuto che le transazioni
sono l’olio che lubrifica l’economia di un Paese e che le permette di svilupparsi e di crescere. Quando le transazioni non crescono, generalmente la crescita si ferma. Questa era la situazione nel periodo prima della rivoluzione industriale. Come già detto, la crescita economica richiede riorganizzazioni continue ed usi
diversi dei fattori di produzione per sfruttare nuove idee e nuove
tecnologie. È così che le innovazioni ed i nuovi processi di produzione vengono introdotti nel sistema produttivo. Se queste riorganizzazioni e cambi di uso sono ostacolati da impedimenti burocratici o fiscali ci sarà sabbia nel meccanismo e la crescita economica sarà meno rapida. Lavoratori impegnati in attività che sono divenute meno produttive e meno competitive devono potersi trasferire senza troppi ostacoli nelle nuove attività. Imprese
12) Nella teoria economica vi è stato molto sviluppo negli ultimi anni
sulla “teoria dei contratti”.
13) Come può succedere quando organizzazioni mafiose forzano una
persona a vendere una proprietà od un’impresa ad un prezzo chiaramente
al di sotto del prezzo di mercato.
14) Per una discussione di questa imposta si veda CIPOLLINA S., Profilo
della De-Tax, nella Rivista di Diritto finanziario e Scienza delle finanze, 2002,
I, 2, pp. 244-267.
15) Per esempio regole sulla contabilità delle imprese che costringono
le imprese a dare informazioni corrette sui profitti sono necessarie se l’acquisto di azioni di quelle imprese non produrrà risultati negativi per gli
investitori. Il caso Enron è chiaramente rilevante e molti attribuiscono la
caduta del valore delle Borse negli ultimi mesi al fatto che molti investitori hanno ora meno fiducia nell’informazione data dalle imprese. Anche
regole che richiedono la certificazione per praticare alcune attività (per
esempio nel campo medico) riducono o eliminano, per chi compra servizi da queste attività, la necessità di informarsi.
16) Molti rapporti preparati da centri di ricerca o da organismi internazionali indicano che questi ostacoli sono più grandi in Italia che in molti altri Paesi industrializzati.
ECONOMIA-FINANZA 69
Nelle pagine precedenti sono state presentate varie considerazioni che portano alla conclusione che i governi dovrebbero
fare il possibile per non ostacolare transazioni volontarie e legittime tra coloro che operano nel mercato. Il governo dovrebbe facilitare queste transazioni attraverso regole sulla trasparenza e attraverso attività di certificazione quando le transazioni coinvolgono l’acquisto di servizi che richiedono abilità o addestramento
particolari (medici, farmacisti, piloti, avvocati, ecc).
Naturalmente ci sono situazioni in cui, per varie e valide ragioni, il governo vorrebbe impedire che alcune transazioni abbiano luogo. Ciò sicuramente riguarda le attività che comportano
crimini. Scambi che coinvolgono sostanze pericolose (droghe, armi, ecc.) devono essere proibite.
Altre attività che non comportano crimini, ma che sono considerate dannose all’economia o all’ambiente possono non essere proibite ma intenzionalmente scoraggiate. Questo potrebbe accadere per attività di carattere fondamentalmente speculative
(17). Infatti, come già detto, la Tobin Tax è stata giustificata e difesa dai suoi sostenitori in parte perché, presumibilmente, scoraggerebbe o rallenterebbe movimenti da Paese a Paese di capitali di carattere speculativo.
Ritornando ora alle transazioni legittime, in un sistema fiscale efficiente si dovrebbe fare il possibile per non ostacolare
queste transazioni. Bisogna riconoscere che, se si interpreta il significato di transazione in un modo ampio, molte imposte colpiscono qualche transazione. Sicuramente questo è il caso delle imposte sulle vendite che richiedono un contratto, esplicito o implicito, ed uno scambio di denaro per ottenere un oggetto o un
servizio.
Lo stesso si può dire per le imposte sul reddito che si basano su uno scambio tra l’uso del tempo a disposizione di un lavoratore contro un salario. In linea di principio una persona rinuncia al tempo a disposizione (leisure time) per avere accesso a
dei beni e servizi necessari per la sua esistenza o per il suo benessere. Quindi in sostanza scambia prima il tempo libero per un
salario e poi il salario per dei beni. Imposte con aliquote alte sul
reddito guadagnato possono indurre un lavoratore a lavorare meno (18), o un’imposta con aliquota alta sul consumo può indurre
un consumatore a risparmiare di più. In generale si può affermare che imposte con aliquote “non eccessive” (19) e proporzionali sul reddito non causano reazioni significative da parte dei lavoratori. Imposte “non eccessive” con aliquota unica sul consumo (come nel caso dell’Iva ad aliquota unica) non causano reazioni significative da parte dei consumatori.
Un sistema fiscale basato principalmente su imposte sul
reddito con aliquote proporzionali o anche con moderata progressività (20) e su imposte sulle vendite o sul consumo con aliquota unica, soddisferebbe fondamentalmente il criterio di libertà
fiscale delle transazioni legittime. Questo sistema potrebbe anche
permettere l’uso di imposte più alte per attività che creano esternalità negative o nella produzione o nel consumo. Quindi accise
sul tabacco, sull’alcool, sulla benzina e su altri simili prodotti, ed
imposte ambientali su imprese che creano inquinamento farebbero parte di questo sistema fiscale.
La discussione precedente non ci fornisce una guida su come tassare i redditi finanziari. Questi redditi potrebbero essere tassati con la stessa aliquota proporzionale con cui vengono tassati
i redditi da lavoro dipendente; o, prendendo in considerazione la
mobilità potenziale di questi redditi verso paradisi fiscali, i redditi finanziari potrebbero essere tassati con aliquote più basse.
Ci sono altre imposte che meritano attenzione perché scoraggiano alcune transazioni che possono essere particolarmente
importanti nel migliorare l’efficienza dell’economia. Consideriamo
alcuni esempi pratici.
Supponiamo che il signor Rossi viva in una cittadina della
Calabria e sia o disoccupato o abbia un lavoro poco remunerato.
70 ECONOMIA-FINANZA
Gli viene offerto un lavoro più remunerato a Verona in una attività che vorrebbe sfruttare una nuova idea o una nuova tecnologia. Il signor Rossi vive in una casa di sua proprietà che potrebbe vendere prima di spostarsi a Verona ed usare il capitale ottenuto per comprare un alloggio a Verona. Se la vendita della casa
in Calabria e l’acquisto di una casa a Verona comportano delle
imposte, il signor Rossi potrebbe rinunciare allo spostamento con
effetti negativi sia sull’occupazione sia sull’economia.
Il signor Rossi ed il signor Bianchi vivono a Roma ai due lati opposti della città in due appartamenti di loro proprietà. Il lavoro del signor Rossi è vicino alla casa del signor Bianchi, mentre quello del signor Bianchi è vicino alla casa del signor Rossi.
Entrambi impiegano molto tempo e sostengono spese per raggiungere il proprio posto di lavoro. Sarebbe conveniente per entrambi e per l’economia se Rossi vendesse il suo appartamento a
Bianchi e viceversa così che entrambi possano abitare vicino al
proprio luogo di lavoro. Imposte alte su queste transazioni possono scoraggiare lo scambio. Così ciascuno di essi continuerà a
spendere tempo e denaro per arrivare al lavoro mantenendo più
bassa l’efficienza dell’economia.
Il signor Rossi ha vissuto e lavorato a Milano per molti anni. Ha raggiunto l’età pensionabile e vorrebbe vendere la sua casa e ritornare al suo paese nativo in Sicilia. Se ci sono imposte elevate sulla vendita e sul possibile acquisto in Sicilia, forse non lo
farà riducendo l’offerta potenziale di case a Milano, riduzione che
contribuirà a mantenere alti gli affitti a Milano impedendo ad altri lavoratori di spostarsi verso Milano.
Il signor Bianchi ha comprato delle azioni in un’impresa, ma
pensa che il futuro di questa impresa non sia roseo. Quindi vorrebbe vendere le azioni e reinvestire il denaro ottenuto nelle azioni di un’altra impresa. Non lo fa perché le transazioni verrebbero
colpite da imposte elevate. Quindi rimarrà vincolato nell’investimento originale riducendo il meccanismo che rende dinamico il
mercato finanziario e che canalizza il capitale verso le imprese più
efficienti.
Il signor Rossi ha creato un’impresa che ha avuto successo.
Vorrebbe venderla e dedicarsi ad un’altra attività creando una
nuova impresa che svilupperebbe una nuova idea o userebbe una
nuova tecnologia. Le imposte che si applicano a queste transazioni di “uscita” da un’attività (exit taxes) sono importanti per le
decisioni di alcuni imprenditori (21). La ragione è che in alcuni
Paesi, e specialmente negli Stati Uniti, c’è ora un tipo di imprenditore che si specializza nel creare nuove imprese o nel ristrutturare imprese esistenti con l’esplicita intenzione di venderle non
appena queste imprese si affermano sul mercato. Per queste attività, spesso finanziate da “venture capital”, e dirette da professionisti delle imprese, le “imposte all’uscita”, incluse quelle sui capital gains, sono molto importanti.
Il signor Rossi ha una idea per una nuova attività e vorrebbe
creare una nuova impresa. La creazione dell’impresa comporta
molti costi di carattere fiscale (registro, bollo) che fanno aumentare le necessità finanziarie di cui ha bisogno. Per questa ragione,
l’idea non si realizza e l’economia ne soffre le conseguenze.
Questi sono solo alcuni esempi di attività che possono essere scoraggiate da imposte sulle transazioni. Sarebbe facile aggiungerne degli altri. Queste imposte possono prendere varie forme. Possono colpire il trasferimento di proprietà o di impresa, i
capital gains, la registrazione di attività, o vari altri aspetti. Alcuni di questi costi possono essere costi di adempimento e non solo costi pecuniari.
Per le imposte di registro questi costi di adempimento sono particolarmente alti. La conseguenza è la stessa: queste imposte mettono sabbia nel meccanismo delle transazioni e nel funzionamento del mercato impedendo o rallentando il movimento
di risorse economiche da attività in declino verso attività più redditizie.
IMPOSTE SUGLI AFFARI (1997-2201)
Registro
Bollo
Ipotecaria e catastale
Concessioni governative
Successioni e donazioni
Invim
Totale
1997
1998
1999
2000*
2001*
3.166
4.551
1.213
2.639
734
1.267
3.421
4.297
1.405
1.187
784
1.064
3.930
3.849
1.575
1.063
807
1.274
7.446
7.429
1.566
1.044
885
969
1.545
1.108
904
792
13.570 12.158 12.498
11.910 11.778
Importi in milioni di euro
(*) Per gli anni 2000 e 2001 non è ancora disponibile il dato disaggregato
tra l’imposta di registro e l’imposta di bollo. L’imposta catastale è stata stimata in base ai dati del 1998 e 1999, mentre l’imposta ipotecaria è dedotta dalla Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese 2001.
4.
Imposte sulle transazioni in Italia
Dall’insieme delle imposte indirette, è possibile isolare quelle che in Italia colpiscono parte delle transazioni economiche oppure atti connessi allo svolgimento di attività.
Nella Tabella sono state evidenziate le seguenti imposte: imposta di registro, ipotecaria, catastale, imposta di bollo e sulle
concessioni governative. La Tabella mostra una serie storica del
gettito per il periodo 1997-2001. Circa l’1% del Pil è fornito da queste imposte al fisco italiano. Questa è una percentuale molto alta
a livello internazionale e per di più nasconde i costi di gestione e
di adempimento che per queste imposte sono molto alti (22).
L’imposta di registro viene pagata ogni qualvolta si ha un trasferimento di bene mobile o immobile. È una imposta che sicuramente scoraggia i trasferimenti. Il gettito prevalente è attribuibile ai trasferimenti di beni immobili. L’imposta di registro si paga anche quando si registra un contratto di affitto. La misura di
tale imposta è proporzionale ed in funzione del tipo di bene trasferito: 3%, se immobile adibito a prima abitazione; 7% per le seconde abitazioni; 8% per gli altri tipi di immobili; 8% o 15% per
terreni agricoli. Per la registrazione dei contratti di affitto, invece,
la percentuale è del 2,5% da applicare annualmente al valore del
canone indicato nel contratto.
Sempre legate al mercato immobiliare si hanno le imposte
ipotecarie e catastali le quali vengono pagate ogni qualvolta si ha
una trascrizione nei registri immobiliari dovuta ad un trasferimento di immobili, sia a titolo gratuito sia oneroso.
L’imposta di bollo, invece, è dovuta per gli atti rogati ricevuti o autenticati da notai o da altri pubblici ufficiali. Essa è dovuta anche per gli estratti di qualunque atto o per le copie di esso. L’imposta è dovuta, in genere, su qualsiasi atto che viene presentato alla registrazione presso gli uffici unici delle entrate. Il bollo si paga, anche, per le scritture private contenenti indicazioni
17) Sfortunatamente non è facile determinare quando una attività è fondamentalmente speculativa.
18) In teoria potrebbero indurre il lavoratore a lavorare anche di più se
l’effetto reddito predomina sull’effetto sostituzione ma questa alternativa
è considerata meno probabile.
19) Naturalmente il significato di “non eccessive” può essere soggetto
a differenti interpretazioni.
20) Per esempio una “linear income tax”, con una parte del reddito
esente e con il resto tassato con un’aliquota proporzionale, sarebbe tecnicamente progressiva ma rispetterebbe ancora i criteri descritti sopra.
21) Queste “exit taxes” possono prendere varie forme.
22) Il rapporto del CNEL, Ipotesi di riordinamento dell’attuale apparato
normativo in materia fiscale, Roma, 1994, riferisce a questi tributi come
“tributi che non rendono o che rendono meno di quello che costano”.
circa i rapporti giuridici di ogni specie e per una serie di documenti che vanno dalle carte di credito alle fatture. L’imposta di
bollo può essere riscossa in modo ordinario, mediante carta bollata; in modo straordinario, mediante marche da bollo, bollo a vista o a punzone; in modo virtuale, direttamente dagli uffici o mediante il pagamento di un bollettino di conto corrente postale.
Le Concessioni governative, prima del 1996, venivano pagate per una lunga serie di provvedimenti. A partire dal 1° gennaio
1998, con la Legge n. 549/95 (art. 3, co 138), sono state soppresse le CC.GG. sugli atti concernenti la registrazione delle persone
giuridiche e le modificazioni dei relativi atti costitutivi e degli statuti nonché l’iscrizione nel registro delle imprese. Gli unici atti su
cui ancora sono dovute le Concessioni governative sono quelli relativi al passaporto, al porto d’armi, alle case da gioco, alle attività relative ai metalli preziosi, alla pesca professionale marittima,
alle proprietà industriali ed intellettuali (brevetti), alle patenti nautiche, alle radio diffusioni e al servizio radiomobile pubblico terrestre.
Un commento a parte meritano le imposte di successione e
donazione e l’Invim.
Le prime due sono state completamente riformulate a
partire dal 1° gennaio 2001 e poi completamente abolite da ottobre 2001. In luogo dell’imposta delle donazioni, viene pagata, solamente per la quota spettante al donatario oltre i 180.759,91 € e
se il grado di parentela è oltre il sesto, l’imposta tipica del bene
che viene trasferito a titolo gratuito. Dal 2002 le uniche entrate
imputabili alle imposte di successione e donazione saranno quelle derivanti da successioni aperte e da donazioni registrate in data antecedente alle riforme sopra richiamate. L’Invim è l’imposta
che veniva pagata al momento della vendita di un immobile sull’incremento di valore registrato dall’immobile stesso nel periodo intercorso tra la data di acquisto e quella di vendita.
A partire dal 1° gennaio 2002, tale imposta è stata abolita.
La Tabella mostra che le imposte di transazione o sugli affari sono molto importanti in Italia, sebbene ci sia stata una certa riduzione negli ultimi anni.
Questi costi ignorano i costi di gestione e di adempimento
che per queste imposte sono molto alti. Queste imposte sicuramente riducono le transazioni ed inoltre spingono i contribuenti
a dichiarare valori arbitrari mettendo così in moto una contabilità non corretta e non trasparente che ha un effetto corrosivo sulle relazioni economiche.
Conclusioni
L’obiettivo di questo paper è stato quello di dirigere l’attenzione di economisti e di tributaristi verso alcune imposte che
colpiscono principalmente transazioni che sono importanti per il
funzionamento dell’economia.
Queste imposte hanno ricevuto relativamente poca attenzione, specialmente dagli economisti. Il paper ha presentato argomenti derivati principalmente da sviluppi recenti della teoria
della crescita economica.
Questi argomenti suggeriscono che queste imposte dovrebbero essere ridotte o ancor meglio abolite.
Queste imposte sono ancora in vigore in Italia sebbene la loro importanza in termini di gettito si sia ridotta negli ultimi anni
con l’abolizione, tra l’altro, dell’imposta sulle successioni. Se le argomentazioni di questo paper sono valide, le riforme fiscali dei
prossimi anni dovrebbero prevedere l’eliminazione di queste imposte.
䡵
La “Lecture Vanoni 2002” è pubblicata sul fascicolo n. 1/2003
della Rivista di Diritto finanziario e Scienza delle finanze. Si
pubblica per gentile concessione della Casa editrice Giuffrè.
ECONOMIA-FINANZA 71
PER UNA
storia
ANDREA SILVESTRI
Professore ordinario di Sistemi elettrici
per l’energia al Politecnico di Milano,
dove insegna anche Storia della tecnica
SALUTO DEL RETTORE
DEL POLITECNICO DI MILANO
Da questo numero comincia
a collaborare alla rivista
il Politecnico di Milano, con
articoli che vogliono gettare luce
su aspetti particolarmente
significativi dei suoi contributi
didattici e di ricerca
all’innovazione nel nostro Paese
e non soltanto.
Ho voluto che la serie fosse aperta
da una sintetica rievocazione
della storia del Politecnico,
affidata pertinentemente all’amico
e collega Andrea Silvestri,
che ha fondato e dirige il Centro
per la Storia dell’Ateneo.
Per un prossimo fascicolo spero
di potere io stesso illustrare ai
lettori del “Notiziario della Banca
Popolare di Sondrio” le novità,
i progetti e le sfide attuali
del Politecnico
Giulio Ballio
72
ECONOMIA-FINANZA
del
di
POLITECNICO
Milano
L’attenzione per la propria storia
è stata una costante del Politecnico di
Milano, con riflessioni sia a vasto raggio (1) sia via via più specifiche (di cui
si darà qualche esempio in nota). Qui
si forniranno sinteticamente i lineamenti di un’istituzione che nel 2013 celebrerà i suoi centocinquant’anni, che
è stata la prima a livello universitario
milanese, e che ha sempre avuto rapporti profondi con il mondo produttivo nazionale e non soltanto. Infine, un
breve cenno sarà dedicato ad alcuni
contatti tra Politecnico e provincia di
Sondrio.
Gli antefatti
Milano e la Lombardia erano da
secoli interessate al contributo determinante di ingegneri, architetti, geometri, idraulici, agrimensori, nell’edilizia pubblica e privata, nella gestione
delle acque, nella conduzione di proprietà immobiliari e agricole, nella responsabilità in manifatture e opifici
che nella prima metà dell’Ottocento
sempre più ricorrevano – oltreché al-
La sede del Politecnico a Città degli Studi,
in una foto di fine anni Venti.
The site of the Polytechnic at Città degli Studi,
in a photo from the late twenties.
le ruote idrauliche – alle moderne macchine a vapore messe a disposizione
dalla prima rivoluzione industriale. Il
contesto era anche di grande attenzione per i temi del ruolo e della formazione dell’ingegnere, ma più in generale della preparazione tecnico-professionale come elemento propulsore
dello sviluppo economico. Attraverso
le eredità dell’illuminismo (la riforma
teresiana degli studi, le innovazioni del
catasto, delle strade, dell’agricoltura)
e poi della rivoluzione francese (l’istruzione dell’ingegnere incanalata anch’essa nelle università, prima del tirocinio pratico), questa lunga storia
era giunta ormai, molto vicino alla nascita del Politecnico, alla maturazione
di grandi dibattiti e proposte.
Si pensi innanzitutto all’impegno
di Carlo Cattaneo e della sua rivista Il
Politecnico, per la valorizzazione delle
«arti utili» accanto alle «arti belle», con
lo scopo di diffondere ogni innovazione attinente lo sviluppo tecnico-scientifico e più in generale civile. Ma Cattaneo e la sua rivista non erano soli.
Nel 1838, ad esempio, per iniziativa di
industriali e commercianti milanesi,
poi via via con il sostegno dei ceti colti e produttivi, era nata la Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri, con la
finalità di «migliorare le arti utili e le
manifatture», e presto attiva – pur con
alterne vicende – nell’avviare scuole
tecniche, laboratori, pubbliche lezioni,
premi. Per parte sua l’Istituto lombardo di Scienze e Lettere, che patrocinava concorsi per «utili scoperte» e aveva un gabinetto tecnologico aperto alla città, nel 1848 promuoveva un progetto di riforma di tutto il sistema scolastico, in particolare di quello formativo degli ingegneri, che ebbe come relatore lo stesso Cattaneo, già peraltro
coinvolto nella Società d’Incoraggiamento. L’anno dopo, anche Antonio
Bordoni – direttore dello Studio matematico dell’Università di Pavia – elaborava una proposta di riordino della
sua Facoltà che non ebbe séguito, ma
che voleva fondare la professione di
Ingegnere civile su un percorso più armonicamente teorico-pratico.
La nascita del Politecnico
Alla vigilia dell’Unità, la legge Casati del 1859 riformava l’intero sistema scolastico italiano, e in ambito tecnico-scientifico istituiva due organismi
d’istruzione superiore: il Regio Istituto
Tecnico Superiore di Milano (RITS), e
la Scuola di applicazione per ingegneri di Torino. Il Politecnico, come ben
presto venne indicato il RITS, fu in
realtà inaugurato nel 1863, con la grossa novità – frutto del diretto coinvolgimento del fondatore Francesco Brio-
schi (2) (matematico di fama internazionale e direttore del Politecnico fino
alla morte nel 1897) nell’elaborazione
della legge Casati e negli orientamenti
scolastici dei primi governi postunitari – di tre distinte sezioni: per ingegneri
civili, per ingegneri meccanici, e per
futuri insegnanti di materie scientifiche nelle scuole superiori (sezione,
quest’ultima, di poco successo, spenta nel 1923). I docenti erano perlopiù
menti tecnici per le costruzioni con
quelli artistici già presenti all’Accademia di belle arti di Brera: il personaggio più eminente ne fu Camillo Boito.
Gli allievi accedevano al Politecnico iscrivendosi al triennio di specializzazione, avendo avuto la loro formazione di base nei bienni delle Facoltà di scienze matematiche e fisiche
di un’Università del Regno. Solo nel
1875 Brioschi otterrà l’istituzione au-
Da sinistra: Francesco Brioschi fondatore del Politecnico e Giuseppe Colombo suo collaboratore e successore.
From left: Francesco Brioschi, founder of the Polytechnic, and Giuseppe Colombo, his collaborator and successor.
provenienti dall’Università di Pavia,
come lo stesso Brioschi e il suo più
stretto collaboratore e poi successore
Giuseppe Colombo. Una quarta sezione sorgerà nel 1865, quella per architetti civili, che collegava gli insegna-
Il Palazzo della Canonica, sede del Politecnico dal 1866 al 1927.
Palazzo della Canonica, site of the Polytechnic from 1866 to 1927.
tonoma al Politecnico di un biennio di
scuola preparatoria, con un insegnamento delle discipline matematiche, fisiche, chimiche già funzionale allo specifico indirizzo tecnico-scientifico.
Il Politecnico fino al 1866 occupò
alcuni spazi del palazzo del Senato, con
lezioni, esercitazioni e laboratori che si
svolgevano in parte presso Enti (che
collaboravano anche con personale e
attrezzature) quali la Società d’Incoraggiamento o il Museo Civico di Storia naturale; la nuova sede sarà il Palazzo della Canonica di piazza Cavour,
fino al trasferimento a piazza Leonardo
da Vinci in Città Studi (1927).
1)
Cfr. almeno: F. LORI, Storia del Politecnico di Milano, CORDANI, Milano 1941; Il Politecnico di Milano 1863-1914, ELECTA, Milano
1981 (dove si veda l’acuto e documentato
profilo generale di C.G. Lacaita); Il Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963),
2 voll., CARIPLO LATERZA, Milano 1988.
2)
Cfr. Francesco Brioschi e il suo tempo
(1824-1897), a cura di C. LACAITA e A. SILVESTRI,
Franco Angeli, Milano 2000.
ECONOMIA-FINANZA 73
Politecnico e industria
L’avvio della Scuola è contemporaneo e sinergico con l’ascesa dell’industria italiana, e vede scambi di competenze e personalità fortemente significativi. Tra i primi laureati al Politecnico (oltre a coloro che avrebbero
proseguito a lavorarvi come docenti,
tra cui Cesare Saldini, Ettore Paladini,
Giuseppe Ponzio) si contano nomi poi
notissimi, come quelli di Giovanni Battista Pirelli o Alberto Riva, ma anche
altri personaggi di rilievo quali nel
mondo elettromeccanico Bartolomeo
Cabella del Tecnomasio, o nel settore
tessile-cotoniero i fratelli Gavazzi e Pio
Borghi, o come Aristide Rubini proprietario delle ferriere poi acquisite
dall’ingegnere alsaziano Giorgio Enrico Falck.
Il movimento dell’imprenditoria
a favore del Politecnico è documentato almeno dalle donazioni dell’industriale cotoniero Eugenio Cantoni per
creare un corso di economia industriale (1871) e dell’industriale farmaceutico Carlo Erba per fondare (1886)
quella che sarebbe stata l’Istituzione
Elettrotecnica Carlo Erba. Le applicazioni industriali dell’elettromagnetismo, a partire dalle fondamentali invenzioni di Edison, avevano già toc-
Giacinto Motta (il quinto da sinistra) durante una gita d’istruzione con alcuni studenti. Tra di essi Maria Artini,
la prima laureata in elettrotecnica d’Italia. - Sotto: veduta aerea della sede di Bovisa del Politecnico.
Giacinto Motta (fifth from the left) during a training trip with several students. They include Maria Artini, the
first female electrotechnics graduate in Italy – Below: aerial view of the Polytechnic site at Bovisa.
cato Milano con la creazione (1881)
da parte di Colombo della Società Edison, destinata a grandi successi anche
internazionali, e con la realizzazione
della pionieristica centrale termoelettrica a corrente continua di S. Radegonda (1883); per conoscere poi – con
l’affermazione della corrente alternata, con le accresciute possibilità di trasmissione a grande distanza grazie an-
che all’invenzione del trasformatore,
con la diffusione degli impieghi per
forza motrice oltreché per l’illuminazione, con la nascita a fine secolo
dell’Associazione Elettrotecnica Italiana (3), con lo sfruttamento tra i due
secoli delle ricche disponibilità idriche italiane per produrre energia elettrica – grandiosi risultati che allineavano l’Italia tra le nazioni protagoniste
della seconda rivoluzione industriale.
Nell’ambito della quale non sono irrilevanti anche nel nostro Paese i progressi della chimica: e al Politecnico
nel 1902 nasce, con cospicui finanziamenti della Cariplo, la Scuola di elettrochimica Principessa Jolanda per
sostenere la ricerca applicata in questo settore.
Nel 1913 si laurea la prima donna
ingegnere civile a Milano, Gaetanina
Calvi, mentre nel 1918 Maria Artini (figlia di Ettore, professore di Mineralogia allo stesso Politecnico) è la prima
italiana laureata ingegnere elettricista,
poi in posizione di rilievo alla Edison.
Due vedute della nuova sede di Bovisa.
Le donne ingegnere (4) a Milano resteranno a lungo poco numerose (ancora alla fine degli anni Ottanta del Novecento erano circa il 4% degli immatricolati), e non solo a Milano, per crescere poi rapidamente.
Dalle guerre mondiali
alla ricostruzione
La prima guerra mondiale, evidenziando carenze industriali e produttive, aveva portato alla ribalta la
necessità di uno sviluppo tecnicoscientifico maggiore e più indipendente dall’estero, in un clima sempre
più marcatamente nazionalista, fino
all’espansionismo coloniale e al fascismo. Il Politecnico è partecipe di questo potenziamento, accentuando le attività di ricerca anche per conto terzi
rispetto alle precedenti e prevalenti finalità didattiche, aprendo nuovi laboratori, fruendo di sostegni anche eco-
Two views of the new site at Bovisa.
nomici da parte del mondo industriale: per esempio la Fondazione politecnica italiana nasce nel 1925 grazie a
Giacinto Motta, laureato e poi docente al Politecnico, che dalla sua posizione ai vertici della Edison aveva vo-
luto «promuovere gli studi, gli insegnamenti e le ricerche in tutti i campi
dell’ingegneria». In questo clima la sezione industriale si specializza negli indirizzi meccanico (il più frequentato
tra le due guerre), elettrotecnico (che
sarà invece prevalente negli anni 195060) e chimico; nel 1933 la sezione di Architettura (che nel 1928 aveva laureato le prime donne, Carla Maria Bassi e
Elvira Luisa Morassi) dà luogo all’omonima Facoltà, distinta da quella di Ingegneria.
In epoca fascista, il contributo dei
tecnici è funzionale agli obiettivi economico-militari del regime, ma contemporaneamente e contraddittoriamente perdura la supremazia della tradizione umanistica. Significativa a questo proposito l’esperienza di Giuseppe
Belluzzo, professore al Politecnico e
poi ministro dell’economia nazionale
e successivamente della pubblica
istruzione, che dovette ridimensionare
i suoi ambiziosi progetti a favore
dell’istruzione professionale-tecnicoscientifica per la contrarietà di Giovanni Gentile, già autore (1923) di una
nota riforma scolastica.
L’opposizione al fascismo nel Politecnico era latente, ma le leggi del
1938, e l’allontanamento per motivi
razziali di docenti anche fedeli, turbarono persino il rettore fascista Gaudenzio Fantoli, idraulico insigne. Finché nel 1943 i professori elessero democraticamente rettore il noto topografo Gino Cassinis, che sarebbe stato
il rettore della Liberazione e della ricostruzione post-bellica (5), oltreché –
più tardi – il primo sindaco milanese di
una coalizione che anticipava l’esperienza nazionale del centro-sinistra.
Verso l’attualità
Il secondo dopoguerra pose anche al Politecnico gravissimi problemi, non tanto per le distruzioni belliche, quanto per la duplice esigenza
(affrontata sotto la vigile guida di Cassinis) di riavviare i laboratori e le ricerche, e di rinnovare le strutture didattiche. Al proposito si possono ri3)
Cfr. Galileo Ferraris e l’AEI, a cura di A.
SILVESTRI, Scheiwiller, Milano 1998.
4)
Cfr. Donne politecniche, a cura di A. GALBANI, Scheiwiller, Milano 2001.
5)
Cfr. Il ruolo del Politecnico di Milano nel
periodo della Liberazione, a cura di A. SILVESTRI, Scheiwiller, Milano 1996.
ECONOMIA-FINANZA 75
La sala macchine della Centrale idroelettrica dell’AEM a Grosotto.
The machine room of the AEM hydroelectric Power Station at Grosotto.
cordare, solo a mo’ d’esempi, il caso
del primo calcolatore elettronico importato al Politecnico dall’America
nell’ambito del Piano Marshall (1954)
e il conseguente avvio del settore elettronico e informatico; l’inizio degli studi nucleari e la realizzazione di un
reattore atomico nello stesso 1954; il
premio Nobel per la chimica a Giulio
Natta nel 1963; la nascita dell’ingegneria aeronautica e di programmi di ricerca sulle comunicazioni spaziali; fino al riassetto di alcuni indirizzi (con
le lauree in ingegneria civile, edile, per
l’ambiente e il territorio), alle nuove
lauree in ingegneria gestionale, biomedica, dei materiali, in disegno industriale, in architettura civile, e alle
recentissime in ingegneria matematica e in ingegneria fisica.
La crescente presenza studentesca (anche quella femminile, soprattutto ad architettura) ha reso progressivamente insufficiente la sede di piazza Leonardo da Vinci, consigliando negli anni ’90 lo spostamento di alcune
facoltà alla nuova sede di Bovisa, in
una significativa area industriale dismessa, rivitalizzata da questi insediamenti universitari. Ma contemporaneamente è partito il grandioso progetto del Politecnico-rete, con la creazione di nuovi poli a Como, Lecco, Cremona, Mantova, e – persino fuori di
Lombardia – Piacenza.
76
ECONOMIA-FINANZA
Il Politecnico
e la provincia di Sondrio
La presenza del Politecnico fu
soprattutto determinante nella pionieristica impresa della centrale
idroelettrica dell’AEM a Grosotto. Alla fine del 1903 il Consiglio comunale
di Milano aveva deciso – con l’ostilità
della Edison – la costituzione di
un’Azienda Elettrica Municipale
(AEM). Nel 1906 Milano acquisisce la
concessione per lo sfruttamento della forza idraulica dell’Adda in Alta ValTomaso Buzzi in un ritratto di Gio Ponti.
Tomaso Buzzi in a portrait by Gio Ponti.
tellina, essendo assessore ai lavori
pubblici il professore del Politecnico
Giuseppe Ponzio; il quale elabora il
relativo progetto tecnico-finanziario,
mentre quello idraulico è affidato a
Gaudenzio Fantoli, e quello meccanico ed elettrico a due laureati del Politecnico, Carlo Mina e Giacinto Motta
(che più tardi sarebbe arrivato, come
è già stato detto, ai vertici della Edison). L’impianto di Grosotto utilizzava un salto idraulico di 320 m e aveva
una potenza di 20 MW, che era trasportata a Milano con una linea di 150
km a 65 kV: soluzioni tecniche tutte
estremamente innovative.
Si citano infine i numerosi architetti del Politecnico che hanno lasciato importanti tracce in provincia di
Sondrio, soprattutto nella realizzazione di altre centrali idroelettriche; almeno tre nomi di grande rilievo, tutti
milanesi di nascita: Piero Portaluppi
(centrale del Roasco); Giovanni Muzio
(le centrali di Lanzada e di Sondrio, oltreché – prima, in epoca fascista – il
palazzo del Governo e della Provincia
nel capoluogo); Gio Ponti (le centrali
di Prata Camportaccio, di Gordona, di
Isolato a Madesimo e di Prestone).
Mentre un altro estroso protagonista dell’architettura milanese del Novecento, Tomaso Buzzi (laureato architetto nel 1923 al Politecnico, dove
poi insegnò Disegno dal vero), è nato
e vissuto a lungo a Sondrio, ma – nonostante numerosi progetti – non vi ha
lasciato nessuna realizzazione.
䡵
FOR A HISTORY OF MILAN
POLYTECHNIC
The Polytechnic has now been part of the history of
Milan for almost 150 years. The city’s interest and
commitment to technology reinforced during the
Illuminist period and mainly through the lessons of
Carlo Cattaneo. The Casati Law, on the eve of Unity,
instituted the Regio Istituto Tecnico Superiore di
Milano (RITS) [Royal Upper Technical Institute of
Milan], now Polytechnic of Milan, that started activity
in 1863 with three separate sections: for civil
engineers, mechanical engineers and teachers of
scientific subjects in the high schools. In 1875 the
Polytechnic completed the study cycle with two initial
preparatory years. It was only in 1927 that the location
was transferred to Piazza Leonardo da Vinci in the
Città Studi.The paper documentes the close
cooperation between the Polytechnic and the
Lombard entrepreneurial environment. It focuses on
the research and industrial development culminating
with the great innovations of our time our days (for
example new degrees and premises).
il CLUB della
NOTIZIARIO
cortesia
Elzeviri
LUCA GOLDONI
Tempo fa, sul Corriere della
Sera, scrissi d’essere preoccupato, più che della società multi-etnica di domani, della società mono-cafona di oggi. Ed elencavo i diversi atteggiamenti dei cittadini
screanzati (una minoranza, per fortuna, ma incombente). Quelli che
parcheggiano in seconda fila e ti
bloccano l’auto (e non sono entrati un momento al bar, no: sono
andati dal dentista). Quelli che il
cieco si arrangi, se il fuoristrada è
posteggiato sul marciapiede. Quelle che scuotono la polvere dal davanzale. Quelli che in autobus ti
costringono all’apnea, perché non
usano lo stick; e che, scesi alla
fermata, buttano il biglietto in terra anche se c’è il cestino rifiuti.
Quelli che, appena saliti sull’aereo, pretendono di sistemare il bagaglio con la massima calma obbligando la fila a sostare sulla scaletta. Quelli che d’estate al mare
ti svegliano a notte fonda con gli
ululati delle loro moto smarmittate. E tanti altri eccetera. Concludevo con un invito: difendiamoci
con un club della cortesia. La mia
proposta ha avuto successo e mi
sono giunte montagne di lettere di
adesione. Tante e così appassionate da crearmi un leggero imbarazzo. La mia idea si riferiva infatti a un club virtuale, poiché fondarne uno reale è impresa disperata (quantomeno nella burocratica Italia): richieste in carta bollata,
documentazioni, timbri, intermina-
bili attese di concessione. E quindi la prassi regolamentare: assemblea per eleggere il consiglio,
riunioni per nominare presidente,
revisori, probiviri, ricerca di una sede, delle attrezzature, del personale. Senza contare i finanziamenti, i registri, i bilanci. Altro problema: anche nel club più innocente esistono dei ruoli, delle cariche e, fatalmente, delle ambizioni, delle rivalità, delle manovre di
corridoio. Il club della cortesia rischierebbe dunque di naufragare
fra sgarbi e sgambetti. Gli italiani
sono fatti così: singolarmente
brav’uomini, ma basta un’assemblea condominiale e si mettono a
litigare anche per lo zerbino in fondo alle scale. Amici miei, la morale è una sola: comunichiamoci la
cortesia con gesti civili (e con
l’esempio forse potremo anche
convertire qualche cafone folgorato sulla via di Damasco o in via Garibaldi). Attraverso i nostri comportamenti finiremo per riconoscerci fra noi, prendere un caffè insieme, scambiarci gli indirizzi. Ma
per carità, rinunciamo alle tessere
e alle assemblee. La cortesia te䡵
niamocela nell’anima.
ELZEVIRI 77
THE COURTESY
CLUB
The displays of rudeness
which everyday experience
forces us to put up with are
frequent, too frequent. It
is not always easy to be
able to resist the temptation of showing healthy indignation. One solution
could be that of a courtesy
club. Clearly you must
think of a purely virtual association, without any
pretensions to official
stamped paper for registration, members’ meetings or company obligations. Indeed today both
negative and positive excesses are very evident.
You also cannot run the
risk that, in safeguarding
courtesy, the cure may be
worse than the disease. As
with all virtues courtesy is
fed by healthy discretion.
Simple everyday behaviour
can and must decide at
least membership of the
courtesy club for all those
who truly have at heart a
life guided by politeness.
il FAUST
dopo
GOETHE
Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) in una incisione di J. Stiller.
Johann Wolfgang Goethe (1749-1832). Engraving by J. Stiller.
CLAUDIO MAGRIS
Germanista e critico; Professore Ordinario presso
il Dipartimento di Letteratura e Civiltà
Anglo-Germaniche - Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università degli Studi di Trieste
Il personaggio di Faust – come Ulisse, Antigone, Don Giovanni e altri – è una di quelle figure divenute, scriveva Paul Valéry, «strumenti dello spirito universale: esse vanno di là da ciò che furono
nell’opera del loro autore. Egli ha
dato loro “funzioni”, più che parti;
le ha consacrate per sempre
all’espressione di taluni estremi
dell’umano e dell’inumano; e,
quindi, svincolate da ogni avventura particolare».
Il Faust per antonomasia, certo, è quello di Goethe. Ma per rendersi conto di ciò che significa il
Faust di Goethe credo sia utile ripercorrere la storia di quello che è
successo dopo il grandissimo
Faust goethiano nei centosettant’anni che ci dividono dalla morte di Goethe e dunque dalla conclusione del suo capolavoro “incommensurabile”, com’egli lo de-
78 ELZEVIRI
finiva pochi giorni prima di morire.
Proprio per capire cosa significa
oggi per noi il Faust può essere fecondo ricordarci di ciò che è avvenuto in questi centosettant’anni,
di ciò che il capolavoro di Goethe
ha significato per la civiltà europea
e mondiale in questo secolo e
mezzo e più, di come è stato accolto o rifiutato, capito o frainteso;
di come è divenuto un punto di riferimento per ogni generazione e
per ogni grande evento storico.
Si potrebbe dire che quasi
tutta questa storia, in questi centosettant’anni, è, molto spesso, la
storia di un fraintendimento o di
un rifiuto del Faust di Goethe, di
un allontanamento, di un no, proferito magari con rispetto ma insistente. Tante volte si è cercato di
allontanarsi dal Faust di Goethe, di
scavalcarlo, di tornare indietro alle radici faustiane della leggenda
e del vecchio libro popolare; si è
cercato non dico di ignorare, perché è impossibile, ma in qualche
modo di mettere da parte il capolavoro goethiano. Il tema faustiano, che rielabora pure tradizioni
antiche come il mito di Prometeo
o la leggenda di Simon Mago, trova la sua espressione canonica
nel Volksbuch, nell’anonimo libro
popolare tedesco del 1587, che
racconta – condannandola da una
cupa prospettiva medioevaleggiante e luterana – la sete di sapere, di piacere e di dominio di un
uomo che vuole impadronirsi dei
segreti della natura e della vita.
Anche Il mago prodigioso di Calderòn, un capolavoro poetico, è
una variazione del mito di Faust,
con un forte accento posto – secondo una visione classica e cattolica – sulla dialettica fra il condizionamento fisico, sensuale degli
impulsi e la libertà morale delle
azioni. Un titano demonico e possente, disperato e grande nella
sua colpevole disperazione e inevitabile dannazione, è il Faust della stupenda tragedia di Marlowe.
Una speranza di salvezza si profila invece, secondo la fede illuminista nella ragione e nella libertà
della ricerca, al personaggio faustiano abbozzato dal grande Lessing. Ma il fascino che il tema faustiano emana sui contemporanei
guarda alla tradizione precedente
a Goethe e implica una distanza
dal capolavoro di quest’ultimo,
che è anche distanza dalla fede
nel progresso. Per tutte queste ragioni, oggi noi ci dobbiamo porre,
nei confronti del Faust, le domande fondamentali, simili alla famosa “Gretchenfrage”, la domanda
che Margherita rivolge a Faust
quando gli chiede se crede in Dio.
Così noi oggi dobbiamo chiederci
se crediamo nel Faust e dobbiamo
anche chiederci cosa significa, oggi, credere nel Faust. Proprio per
questo è utile vedere come le generazioni passate, e i loro grandi
rappresentanti, si sono confrontati con questa domanda.
Potremmo partire da molti
episodi, c’è solo l’imbarazzo della
scelta. Un esordio significativo e
scherzoso potrebbe essere l’incontro fra Goethe e il giovane Heine, allora ancora sconosciuto, il
quale si reca, pieno di reverenza,
a visitare Goethe nel 1824, quando Goethe è già il grandissimo
poeta riconosciuto in tutta Europa,
il vegliardo rispettato e venerato
come un nume, la cui casa di Weimar è una meta per le più grandi
figure di tutta Europa. Alla fine
dell’udienza, quando Goethe domanda a Heine a che cosa stia lavorando, il giovane risponde con
sfrontatezza: «A un Faust, eccellenza», sapendo che questa risposta costituisce una improntitudine,
quasi una espressione di sfacciata familiarità. È molto significativo
che protagonista di questo episodio sia Heine, proprio perché è stato Heine, più tardi, a dire che con
la morte di Goethe si chiudeva
“l’età artistica” ovvero un grandissimo periodo della civiltà tedesca
ed europea, in cui la poesia aveva
potuto essere non soltanto creazione di grandi opere d’arte, ma
soprattutto creazione di opere che
rispondevano alle grandi domande
della vita e della civiltà, che davano il senso della totalità e dell’unità della vita e ne afferravano
il significato – opere quindi il cui
valore, nella realtà degli individui e
della società, andava anche ben al
di là della stessa perfezione artistica.
Il Faust è in questo senso
un’opera suprema, una sintesi di
tutta una civiltà, che raccoglie tutta l’eredità del passato e si protende verso il futuro, un’opera che
sarà appunto letta non solo come
un capolavoro poetico, ma anche
come un vangelo dell’esistenza
moderna. Lo stesso Heine, che da
giovane proclama di lavorare a un
Faust e che lo scriverà veramente,
pochi anni dopo dà malinconicamente il congedo all’epoca del
Faust, all’epoca in cui era possibile scrivere dei capolavori come
Faust, e si considera scrittore di
un’altra epoca, un’epoca moderna
ed epigonale, frantumata ed ironica, che secondo lui stesso non
permette più la creazione di simili
opere d’arte, di opere d’arte come
il Faust, e non per mancanza di talento dell’uno o dell’altro scrittore,
ma proprio perché l’esistenza frantumata, non più classica, non per-
mette più la creazione di grandi
opere, di grandi sintesi classiche
della vita e della storia, quali appunto il Faust di Goethe.
Interrogando la figura di
Faust, ogni generazione si interroga sul significato della vita e della
storia e anche sul significato di se
stessa. Io cercherò di parlare in
modo molto rapido, e quindi fatalmente superficiale e incompleto,
di queste domande che sono state poste al Faust negli ultimi centosettant’anni, cercando solo di
dare un’immagine, certo inadeguata, di questo grandioso capitolo della storia della cultura. La prima grande domanda riguarda soprattutto il secondo Faust, il finale: Faust si salva o non si salva?
e se si salva, perché, grazie a che
cosa? Goethe, elusivo e reticente
come sempre, ha posto per primo
le fondamenta di questa incertezza e di questa oscillazione, di questa ardua domanda che sembra
sfidare ogni risposta definitiva. Egli
ha parlato di una soluzione al cinquanta per cento, come se Faust
si salvasse metà per merito suo,
grazie allo Streben, al suo incessante anelito che avrebbe dunque
in sé, perfino nei suoi errori e nelle sue colpe, la propria giustificazione, e per metà grazie a qualcosa d’altro, qualcosa che Goethe si
guarda bene dal definire e lascia
appunto indefinibile, indicando solo in qualche modo che l’uomo ha
bisogno anche di qualcosa d’altro,
esterno a lui, insomma di una
qualche grazia, anche se Goethe è
lontanissimo da ogni professione
o fede religiosa.
La domanda fondamentale
dunque, che si ritrova continuamente con le risposte più contrastanti, riguarda il significato del
faustismo ossia dello Streben,
dell’anelito, della tensione faustiana. È una domanda tipicamente moderna, perché il mondo antico non conosce e non può conoscere nessun Faust e nessun faustismo: il mondo antico ignora il
problema dello Streben; se Faust
desidera l’attimo e sogna la possibilità di poter dire all’attimo di
fermarsi, di trovare un attimo degno di questa invocazione, il mon-
do classico antico non conosceva
questa inquietudine, proprio perché conosceva il possesso dell’attimo e abitava serenamente nel
presente. Per gli eroi classici sono
innumerevoli gli attimi cui si potrebbe dire di fermarsi, tutta la vita ha questa autosufficienza pervasa di significato; l’individuo della classicità, direbbe il nostro Michelstaedter, conosceva la persuasione. Per Michelstaedter, come egli scrive nel suo capolavoro
La persuasione e la rettorica
(1918), la persuasione significa il
possesso presente della propria
vita, la capacità di vivere l’attimo,
ogni attimo e non solo quelli privilegiati ed eccezionali, senza sacrificarlo al futuro, senza considerarlo semplicemente un momento da
far passare presto per raggiungere qualcosa d’altro. Quasi sempre,
nella nostra esistenza, abbiamo
troppe ragioni per sperare che essa passi il più rapidamente possibile, che il presente diventi presto
futuro, che il domani arrivi quanto
prima, perché attendiamo con ansia il responso del medico, l’inizio
delle vacanze, il risultato di un’attività e così viviamo non per vivere, ma per essere già vissuti, per
essere già morti. L’epoca contemporanea ha accelerato questo processo; l’ansiosa velocità con cui il
presente ci viene strappato e veniamo scagliati nel futuro.
Faust non conosce la persuasione, il sereno sostare nell’attimo e nel presente; brucia invece
tutta la vita, ogni attimo e ogni presente nel suo Streben. Questa prima grande domanda, che le generazioni successive pongono al
faustismo, riguarda dunque l’essenza di quest’ultimo: per taluni,
soprattutto per coloro che credono
nella operosa e fattiva civiltà moderna e nel suo progresso, il faustismo è un’incessante azione che
redime e giustifica la vita; per altri
invece il faustismo, la febbrile e inquieta smania di agire, sarà invece inquietudine, nevrosi, assillo,
angoscia – sarà la Cura, la Sorge
di cui tanto parlerà l’esistenzialismo e che compare anche nel
Faust di Goethe, a insinuare appunto l’angoscia.
ELZEVIRI 79
Faust. Disegno a
china di Harry Clarke
per il Faust di J. W.
Goethe, edizione del
1925. Il dottor Faust,
ringiovanito, è
raffigurato insieme a
Mefistofele.
Faust. India ink
drawing by Harry
Clarke for J. W.
Goethe’s Faust,
1925 edition.
A rejuvenated
Dr. Faust, depicted
with Mephistopheles.
La seconda grande domanda,
che ci si comincia a porre subito
dopo la morte di Goethe (ma talora anche prima), riguarda soprattutto il secondo Faust, nel quale talora Goethe sembra cambiare direzione di marcia rispetto al primo
e soprattutto rispetto alla sua “faustiana” fede nell’incessante forza
creatrice della natura. Nel secondo
Faust Goethe mette in scena anche e soprattutto il trionfo dell’artificio, rappresenta l’esistenza e la
storia anche come una specie di
Café Chantant; esprime inquietanti presagi del carattere sempre più
artefatto, posticcio, della vita e della civiltà. Goethe esprime una gran-
80 ELZEVIRI
de crisi, la grande crisi della classicità e della fede classica nella
forza della natura, di quella natura
fuori dalla quale, per il Goethe giovane, non si poteva invece cadere
e che presiedeva, sfingica e ironica, anche alle manifestazioni che
sembrano negarla.
Nel secondo Faust Goethe
mette in crisi questa fede nella autenticità naturale, nella organicità
della vita, nella vitalità stessa; il
secondo Faust è anche il poema
drammatico della vita artificiale,
della società che sostituisce la natura, come rivelano tanti episodi –
basti pensare alla creazione di Homunculus, l’uomo creato in labo-
ratorio, o al grottesco carnevale in
cui la natura viene sopraffatta dalla moda e la poesia dal danaro, allo stesso episodio di Elena, che si
dissolve in una mera parvenza.
Ci si è chiesti se Goethe abbia voluto esprimere la crisi di
un’epoca, della sua epoca, conservando tuttavia la sua fede
nell’eterna capacità della natura di
rinnovarsi oltre ogni crisi, e conservando quindi anche la fede nella storia e pure nell’arte classica,
la fede nella possibilità che, dopo
ogni crisi storica, ci si possa riaccostare all’universale-umano e
creare opere classiche che lo rappresentino.
Ma ci si è chiesti anche se
Goethe invece non abbia, nel secondo Faust, dato in qualche modo un tragico addio definitivo ad
ogni classicità, ad ogni fiducia nella vita e nella storia, ad ogni fede
nell’eterna capacità di rinnovarsi
della natura. In questo caso, la crisi che Goethe rappresenta nel secondo Faust non sarebbe un’eclissi, ma un tramonto definitivo
dell’universale-umano classico. È
chiaro che, a seconda della risposta che si dà a queste domande,
cambia completamente non soltanto il giudizio sul significato del
Faust, ma cambia anche il senso
con cui si vivono la propria vita e
la propria stagione storica. Ecco
perché ogni discorso sul Faust,
ogni rappresentazione, ogni confronto col Faust investono in qualche modo le cose ultime.
Goethe stesso ha potuto assistere all’inizio di questa crisi del
Faust, perché già nel 1791, un anno dopo il suo Fragment faustiano,
uno scrittore dello Sturm und
Drang, Klinger, scrive un romanzo
in cui il protagonista è Faust ed è
votato al nichilismo, al non-senso,
alla perdizione. Uno scrittore che
Goethe amava moltissimo, che
amava in modo profondo e inquietante anche se era così lontano da
lui, ossia Byron, ha scritto, quando Goethe era vivo (del resto
Goethe gli è sopravvissuto), un
suo Faust, il Manfred, pervaso anch’esso di disperazione nichilista,
di inquietudine irresoluta, un’opera in cui certo il faustismo non tro-
va salvezza, anche se conserva
una grandezza demonica.
Gli esempi sono moltissimi,
soltanto il loro mero elenco ci porterebbe al di là dei limiti di tempo
di questa chiacchierata. Ancora
prima della morte di Goethe, uno
scrittore teatrale tedesco di scomposto ma grande talento, Grabbe,
scrive nel 1829 un dramma interessantissimo, Don Juan und
Faust. Anche questa è un’opera
estremamente malinconica, che
rappresenta amaramente un faustismo in crisi: nel mondo degradato in cui Grabbe sente di vivere
– appunto nel mondo che non conosce più la possibilità di grandi e
forti sentimenti, di speranze storico-politiche e di opere che le rappresentino – la vitalità di Don Giovanni, sia pure spogliata dei suoi
significati metafisici, conserva il
suo significato, la sua brada e quasi animale ma eroica vitalità, mentre Faust, con i suoi tormenti filosofici, diventa quasi una marionetta, una figura patetica di dotto
tedesco inadeguato alla vita e alla realtà, tragico proprio perché patetico.
Molti decenni più tardi, Nietzsche vedrà in Faust l'incarnazione
di una incapacità molto tedesca di
vivere la vita, di una tedesca passione cerebrale e interiore incapace di tradursi in realtà, e ironizzerà
questa figura; dirà di ridere di
Faust. Nel mondo messo in scena
da Grabbe, che è un mondo senza significato, la figura di Faust è
destinata a una caduta, sia pure
nobile e grande, a una condanna,
sia pure alta. Faust è già un personaggio non più da tragedia, ma
quasi da commedia, nel senso
usato da Marx, quando diceva che
le figure della storia universale,
che per la prima volta sono comparse in forma di tragedia, nella loro fase finale ricompaiono ma in
forma degradata di commedia, in
forma di parodia. Anche nel Doktor Faustus Thomas Mann farà della parodia la chiave essenziale del
suo faustismo.
Nelle tante critiche rivolte al
Faust di Goethe, critiche che all’inizio trovano consenzienti quasi tutti, conservatori e progressisti, con-
cordano pure molti teologi sia cattolici sia protestanti. I cattolici danno la colpa ai protestanti, vedono
nel faustismo un fenomeno tipicamente protestante, e i protestanti
vedono invece nel Faust qualcosa
di cattolico e rimproverano soprattutto a Goethe il finale cattolicheggiante. Criticano il Faust di
Goethe anche gli intellettuali progressisti, gli scrittori della Giovane
Germania: le accuse sono quelle
di non avere capito la rinascita della Germania e le sue trasformazioni sociali, di essere stato insensibile nei confronti del proprio
Paese e soprattutto di essersi concentrati su una grande figura individuale strappata dal suo contesto
sociale umano e più ampio. Anche
filosofi notevoli e degni di tutto rispetto rimprovereranno a Goethe
di aver mancato la possibilità di fare del suo Faust un’opera classica e universale proprio per averlo
avulso dal grande contesto dello
sviluppo storico corale e collettivo.
Una delle accuse più curiose
e frequenti, avanzata dalle parti
più diverse e anche ideologicamente più lontane, sarà quella che
rinfaccerà a Goethe di non aver capito Faust, suggerendo implicitamente che Faust è più di Goethe,
come se il vecchio tema popolare,
tardomedioevale e rinascimentale
che vedeva Faust finire dannato
contenesse alcune verità essenziali, che Goethe poi non avrebbe
capito. Infatti molti proporranno di
ritornare alle origini pre-goethiane
del Faust, come se, nel mondo
della crisi contemporanea che non
conosce più le grandi speranze e
le grandi fedi del progressismo
moderno (quello che induce a celebrare il Faust di Goethe come un
“Vangelo” dell’azione), bisognasse tornare al Faust pre-moderno.
Questo Faust pre-moderno, che si
danna e che non crede più nella
armoniosa evoluzione dell’umanità, ci sarebbe più vicino, nella
nostra sensibilità contemporanea,
del Faust di Goethe, del Faust che
si salva. Insomma un Faust veramente attuale sarebbe il Faust in
cui è il diavolo a vincere la sua
scommessa. Infatti non è un caso
che quasi tutti i Faust (sono mol-
tissimi, potrò solo citarne qualcuno) successivi a quello goethiano
finiscano dannati, perdano la loro
scommessa.
Molte di queste critiche contengono anche degli spunti estremamente acuti. Un importante filone di critica antifaustiana proviene dall’Austria absburgica, cioè
dalla cultura austriaca barocco-cattolica, a cominciare dagli anni tra
il 1830 e il 1840; questa cultura
accusa il faustismo, la smania
soggettivistica di azione senza
scopo – ossia lo Streben – di essere un tipico fenomeno moderno,
una prevaricazione soggettiva
dell’individuo che pretende di proclamarsi un titano e in tal modo
perde le sue radici nell’Essere e
cade preda dell’angoscia, della cura. Questa critica vuole difendere
l’Essere, la vita dalle prevaricazioni e dai turbamenti della Sorge,
della Cura e quindi dallo Streben.
Un teologo danese, Martensen,
avanzerà questa critica nei confronti del Faust di Goethe e vedrà
un Faust più autentico in quello di
Lenau, grande poeta lirico austroslavo-ungherese morto pazzo, il
quale nel suo poema faustiano
mostra un Faust negativo e straziato, lacerato, incapace anche di
godere e afferrare la vita e che alla fine si uccide perché pensa di
essere soltanto un sogno inquietante di Dio.
L’opera di Lenau è un’opera
poeticamente bellissima, nella
quale tuttavia non a caso ogni
unità epica e anche ogni tensione
drammatica si dissolvono in una liricizzazione, in una frantumazione
lirica. Se il Faust di Goethe ha una
sua epicità, un senso fortissimo
dell’unità della vita nonostante i
drammi di cui essa è costellata, il
Faust di Lenau, come quasi tutti gli
altri Faust dannati, è volutamente
privo di questa unità epica e di questa tensione drammatica. È
un’espressione del Weltschmerz,
del dolore cosmico; Martensen vedeva in Lenau la giusta rappresentazione di un male moderno.
Dalla scuola viennese, che si
rifà soprattutto alle lezioni faustiane o antifaustiane di Enk von der
Burg, usciranno degli anti-Faust
ELZEVIRI 81
che opporranno il primato dell’Essere allo smanioso fare moderno;
il più recente è un curioso romanzo uscito nel 1969, Die Fabel von
der Freundschaft (La favola dell’amicizia) di Albert Paris Gütersloh, una curiosa e bizzarra figura
di romanziere e pittore, un’opera
antititanica nella quale è Faust a
sedurre il diavolo.
In genere, si rimprovererà
spesso a Goethe di aver riconosciuto troppo poco potere al diavolo, di avere avuto una eccessiva
fiducia nella dialettica della storia:
non a caso nel Faust di Goethe
Mefistofele dice di essere colui
che vuole il male ma che, suo malgrado, è costretto a fare il bene, a
svolgere una funzione che ha un
senso nel disegno della storia, che
è anche positiva. Alla coscienza
contemporanea verrà sempre più
spesso a mancare proprio questa
fiducia nella dialettica, nella capacità della storia di integrare il negativo e il male. Anche un grande
poeta lirico romantico tedesco, Eichendorff, autore di tanti incantevoli Lieder musicati da Schumann
e da Schubert, rimprovererà
Goethe di aver dato troppo poca
realtà al diavolo, ossia al negativo;
gli rimprovererà la hybris tipicamente moderna del soggetto che
si autodivinizza, titanicamente, e
in tal modo perde il proprio rapporto armonioso col mondo e anche con se stesso.
Invece i critici legati a concezioni positive della storia, che credono nel progresso storico, celebreranno proprio il Faust goethiano come simbolo di questo progresso: da Karl Rosenkranz, per il
quale il Faust di Goethe è il Vangelo moderno della civiltà che si
redime nell’azione, sino a Lukács,
per il quale, nella sua concezione
dialettica marxista, il Faust di
Goethe è il grande poema drammatico di una umanità che procede e avanza, nonostante tutti gli
errori, le colpe, le ricadute e le
sconfitte, verso mete e realizzazioni sempre più alte.
Altri scrittori, intellettuali e filosofi progressisti saranno invece
piuttosto negativi o comunque critici nei confronti del capolavoro
82 ELZEVIRI
goethiano. Uno di questi è Friedrich Theodor Vischer, il geniale filosofo autore di una celebre teoria
del comico e soprattutto inventore
o scopritore della “perfidia dell’oggetto”, del disagio dell’uomo contemporaneo fra gli oggetti e nella
realtà, e degli aspetti tragicomici di
questo disagio, che emergeranno
ad esempio più tardi nei film di Buster Keaton o di Chaplin. Per Vischer, Goethe non avrebbe mostrato l’emancipazione politica del
suo eroe in connessione con il suo
mondo; un autentico Faust avrebbe dovuto essere anche un rivoluzionario sociale. Al Faust di
Goethe, per Vischer, manca il
“Bauernkrieg”, la grande guerra dei
contadini del secolo in cui è vissuto Faust ossia lo sfondo sociale. Il
Faust sarebbe oppresso da una seriosità tipicamente tedesca, contro
la quale Vischer, come Nietzsche,
invoca una risata aristofanesca,
proprio per liberare Goethe dal falso culto che lo mummifica. Vischer
stesso scrisse una parodia del secondo Faust, una specie di terzo
Faust, anche scurrile.
Molte critiche rifiutano il secondo Faust, misconoscendolo
nella sua grandezza e accusandolo di astrazione, di cerebralismo, di
allegorismo. Critiche che arriveranno fino a Benedetto Croce e
che misconoscono proprio la grandezza suprema del secondo Faust,
che racconta già la nostra storia;
il poema che porta Faust e tutti noi
nel “grande mondo”. Un’opera, il
secondo Faust, forse troppo in anticipo sul proprio tempo per poter
essere compresa. Perfino Mazzini,
che in un saggio giovanile esalta il
primo Faust di Goethe, dice che
l’eroe goethiano è l’eroe del tempo intermedio, della crisi tra il vecchio mondo e il nuovo che non è
ancora sorto e che dovrà avere un
altro eroe; Mazzini afferma, alla fine di questo saggio, che non ci
sarà un secondo Faust. Quando
invece Goethe, più tardi, scrisse
questo secondo Faust, Mazzini si
mostrò cautamente indeciso, ma
sostanzialmente lontano anch’egli
da quell’opera, avverso al suo carattere pretesamente allegorico e
medioevale.
Il primo grande storico della
letteratura tedesca, Gervinus, accusa Goethe di non saper superare la dimensione privata e di esser
privo di un sentimento nazionalprogressivo, accusa ribadita da un
altro notevole storico della letteratura, Julian Schmidt, e da un romanziere come Friedrich Spielhagen, per il quale i Faust sono degli individui morbosamente incapaci di agire; lo Streben non appare più come l’azione, ma soltanto come una smania inquieta
che impedisce una vera azione.
L’aggettivo “faustiano” è spesso
usato in un senso negativo; in una
lettera, il padre di Marx rimprovera al figlio atteggiamenti o idee
“faustiane” ovvero negativamente
inconcludenti. Questa inattività
sarà una costante accusa rivolta
all’eroe di Goethe; dopo la seconda guerra mondiale, Eisler scriverà
un’opera musicale sul Faust, nella quale Faust appare il simbolo
dell’intellettuale umanista egoista
che non sa unirsi al popolo nella
guerra dei contadini – Eisler scrive
il suo testo nei primi anni del secondo dopoguerra, nella Repubblica Democratica Tedesca, in un
momento di ortodossia marxista
di uno dei più ortodossi regimi
marxisti, dei quali egli è fautore.
Pochi anni dopo la morte di
Goethe, Heine scrive il suo Faust
e ne fa un balletto: Mefistofele diventa una seducentissima Mefistofela, ballerina in calzamaglia, e
tutta la storia faustiana diventa
una parodia dolorosa e beffarda,
un malinconico e addolorato congedo che Heine rivolge al senso
faustiano della vita, un congedo alla grande stagione della grande
poesia dato da uno dei più grandi
poeti tedeschi. Estremamente interessanti sono anche le annotazioni di Schopenhauer, per il quale lo Streben diventa la manifestazione dell’ingannevole volontà
di vivere e l’eroina del poema diventa Margherita, proprio perché
sa soffocare in sé la volontà di vivere, la dolorosa illusione di vivere, e sa così raggiungere la verità.
Bisognerebbe parlare anche dei
numerosi Faust che nascono in
terra non tedesca, da quello di Pu-
skin del 1826 al racconto di Turgeniev, dal dramma dell’ungherese Imre Madách all’italiano Boito,
ai Faust dell’America Latina, che
spesso prendono lo spunto dall’opera di Gounod e pongono l’accento soprattutto sulla funzione redentrice del personaggio femminile. Come ha osservato Borges a
proposito di un Faust argentino di
Estanislao Del Campo, anche in
questo caso si ritorna spesso
all’antico motivo pre-goethiano.
Nel 1871, con la fondazione
del Reich, ci sono invece molte
celebrazioni entusiaste ed esaltate del Faust, nelle quali il faustismo e lo Streben faustiano diventano il simbolo dell’espansionismo dell’impero tedesco che deve andare verso l’illimitato, diventano espressione di una pretesa
essenza faustiana dello spirito tedesco, diventano la quintessenza
del germanesimo. Tutto ciò va, ovviamente, contro lo spirito di
Goethe, cosmopolita e universale
e proprio per questo spesso rimproverato di scarsa tedeschità dai
tedeschi; spesso dunque anche
in questa esaltazione dello spirito
faustiano (di un Faust che diventa quasi una specie di Sigfrido), si
assiste a una dissociazione fra
Goethe e il Faust. Naturalmente
stiamo parlando di grandi fenomeni, di atteggiamenti culturali
dell’epoca, e non della vera e propria critica letteraria, che continua
a dare delle interpretazioni fedeli,
accurate e acute del capolavoro
goethiano.
Più tardi ancora, questa esaltazione del faustismo come essenza del germanesimo e della
sua tensione all’illimitato viene
esasperata, ma al contempo cambia di significato. Fra i tanti esem-
pi, basti ricordare quello che li riassume tutti ossia quello di Spengler, l’autore del celeberrimo Tramonto dell’Occidente. Per Spengler l’anima faustiana è l’anima
occidentale ossia l’anima tedesca, lo spirito che non ha mai requie ed è sempre destinato ad agire, a lottare, ad avanzare, a conquistare ma per il nulla; non, come per i teorici patriottardi dell’impero guglielmino, per creare un
grande mondo tedesco, ma piuttosto per andare incontro alla catastrofe e alle distruzioni con lo
spirito tedesco di amore della fatalità e anche della propria distruzione. Questo faustismo di Spengler, ovviamente, non ha nulla in
comune con quello di Goethe e
nemmeno con quello della tradizione precedente.
Anche tra i Faust non tedeschi si diffonde una profonda inquietudine, un senso dolorosissimo che l’avventura di Faust è l’avventura suprema, ma – in un mondo come quello contemporaneo –
comincia a scricchiolare. Il senso
del Faust (della scommessa, della domanda di Margherita sulla fede o no in Dio, della salvezza o della perdizione) esiste soltanto
quando c’è la fede in un individuo
in qualche modo forte, finché si
pensa che esista un individuo, magari infelice, tragico, percosso dalle sofferenze ma dotato di una precisa e forte individualità, in grado
dunque di porre il problema della
propria salvezza o della propria
dannazione, sia che la si intenda
sul piano religioso sia che la si intenda su quello storico-politico-sociale. Quando invece una gran parte della cultura moderna, negli ultimi decenni del XIX secolo, comincia a dubitare che esista l’individuo e comincia a credere che
l’individuo sia soltanto un provvisorio e labile insieme di pulsioni e
contraddizioni, un’“anarchia di atomi”, come diranno Nietzsche e
Musil, un “flatus vocis” non più
reale di una giacca che ci si mette addosso, allora il problema del
faustismo comincia a entrare in
una grande crisi e nascono grandi
Faust che vivono proprio di questa
angoscia.
ELZEVIRI 83
Faust e Margherita
in giardino.
Cromolitografia da
un’illustrazione di
Eugen Klimsch, 1903.
Faust and Margaret
in the garden.
A chromolithograph
from a Eugen Klimsch
illustration, 1903.
Una scena del Faust
di Gounod messo in
scena al Bastille
Opera di Parigi
nel 2001.
A scene from
Gounod’s Faust as
performed at the
Bastille Opera
of Paris in 2001.
Se non esiste più l’individuo,
se l’individuo si dissolve nel magma delle sue pulsioni, come afferma tanta cultura del secolo scorso, da Nietzsche a tante filosofie
analitiche, allora Faust non può
essere se non una dolorosa parodia dello Streben faustiano, che è
la quintessenza dell’individualismo. Infatti nelle culture in cui
esiste ancora – magari nella tragedia – una forte fede in quello
che San Paolo chiama “il buon
combattimento” della vita, c’è anche la fede nel Faust: Bulgakov
scrive per decenni Il Maestro e
Margherita, in una delle situazioni
più difficili e tragiche della storia,
ma scrive un’opera in cui trapela
una fede nella scommessa faustiana, nel problema della salvezza o non salvezza, proprio perché
Bulgakov vive in una cultura animata dal senso che la vita, anche
nella tragedia, è costituita dai
grandi interrogativi, e dal senso
che gli individui, magari travolti e
stritolati, sono individui la cui esistenza ha un significato.
La cultura occidentale appare invece spesso permeata dal
senso del niente, da uno svuotamento della fede nell’individuo. Il
famoso monologo iniziale faustiano sulla vanità dello studio diventa, in Flaubert, la comica, grandiosa e grandiosamente imbecille enciclopedia di Bouvard e Pécuchet;
nel 1924 Michel de Ghelderode
scrive una Mort du Docteur Faust,
in cui Faust non è più vivo ma monologa facendo la parodia di se
stesso; la storia del Faust diventa
la storia delle complicazioni tra i
veri personaggi del mito faustiano
e gli attori che interpretano la loro
parte, in un pandemonio di equivoci che declassa la vicenda faustiana a grottesca e pagliaccesca
insensatezza; solo il diavolo conserva una sua dignità e rifiuta l’anima di Faust, senza neanche dirgli
se ne abbia una o no.
Una delle più grandi pagine
sullo svuotamento del Faust l’ha
scritta Svevo. Si tratta di uno dei
più grandi Faust anche se è un
apologo brevissimo, una mezza
pagina scritta sul retro di uno degli ultimi racconti incompiuti e chia-
84 ELZEVIRI
mata convenzionalmente “L’ora di
Mefistofele”. Svevo immagina che
il protagonista – il quale è sempre
un vecchio, dovrebbe essere il vecchio Zeno che continua a vivere
dopo aver scritto La coscienza di
Zeno – stia andando a letto. È
mezzanotte, la moglie sta dormendo e russando pesantemente, come la descrive Svevo con
scarsa galanteria coniugale, e il
vecchio che si sta spogliando pensa: è mezzanotte, quindi è l’ora in
cui potrebbe venire Mefistofele e
propormi il vecchio patto. E da uomo secolarizzato, completamente
polverizzato dalla secolarizzazione
come è lui, pensa: certo che gli darei l’anima, subito, ma per cosa?
Per la giovinezza? Per carità, la gio-
vinezza è dolorosa e piena d’inquietudini e di malinconia, anche
se la vecchiaia non diventa per
questo più allegra. Per l’immortalità? È un’idea terribile questa di
non poter morire mai, non per
niente Gesù nella leggenda ha
condannato l’ebreo errante a una
vita eterna, ma non per questo la
morte diventa meno orribile. E il
vecchio s’accorge che non ha
niente da domandare. E a questa
terribile immagine, una delle spiagge estreme del nichilismo occidentale, si sovrappone un’altra immagine: il vecchio si figura Mefistofele che nell’inferno si gratta
perplesso la barba, come un viaggiatore di commercio di una ditta i
cui prodotti sono scarsamente ri-
ca contemporanea. È significativo
che pure un grande scrittore classico e vicino a Goethe come Thomas Mann, forse l’unico scrittore
contemporaneo veramente vicino
a Goethe, abbia sentito il bisogno,
per accostarsi a Faust, di riandare
indietro, di risalire alla fase precedente a quella goethiana.
Potrei fare ancora molti altri
esempi, di più o meno recenti
Faust tedeschi e non tedeschi. Ricorderò soltanto, fra le diagnosi
sulla fine del Faust, la famosa battuta di Günther Anders, secondo il
quale nell’era della bomba atomica, di una catastrofe completamente sottratta alle possibilità della responsabilità individuale,
Faust è morto, non è più possibile. Ricorderò ancora il Faust croato di Snaider, un Faust ambientato durante la seconda guerra
mondiale, che si rifà a un reale
episodio della guerra e della resistenza in Jugoslavia e che intreccia la rappresentazione del Faust
di Goethe alla vicenda che coinvolge gli attori di questa rappresentazione nella resistenza e nella lotta contro i nazisti e gli ustascia (Margherita ad esempio viene
torturata dagli ustascia e così via).
Si tratta di una attualizzazione e
dunque, a differenza degli esempi
precedenti, di un atto comunque di
fede nel Faust o nel faustismo.
Ma il più grande atto di fede
faustiano relativamente recente si
trova in un capolavoro della narrativa universale, nel Grande Sertâo
di Jôao Guimâraes Rosa, un
Faust brasiliano che non soltanto
costituisce uno dei vertici della
narrativa mondiale, ma anche recupera quella dimensione epica
che è necessaria ad ogni autentico confronto con il tema faustiano.
Il protagonista, una notte, va ad attendere il diavolo e il diavolo non
viene, perché il diavolo è proprio il
nulla, colui che non c’è, colui che
non viene. Il diavolo è appunto il
terribile gorgo del nulla, la massima tentazione; il più grande pericolo che corre il protagonista è
quello di cedere a questa rivelazione del niente, di credere a ciò
che vede e cioè di non credere a
niente. È una pagina breve, ma a
ˆ
chiesti. A questa immagine del diavolo come viaggiatore di commercio in crisi, egli ride forte, con una
delle più terribili risate, veramente
nietzscheane, che siano echeggiate nella letteratura. Mentre ride,
s’infila fra le coperte, e la moglie,
mezza svegliata, gli dice che lui è
ben fortunato ad aver voglia di ridere anche a mezzanotte, e si volta e continua a russare dall’altra
parte.
Qualche anno più tardi, nel
Mon Faust di Paul Valéry, scritto
fra il 1941 e il 1945, Mefistofele
non si raccapezza più e nemmeno
Faust sa bene se esiste o no, crede di esistere soltanto perché esiste in un libro; la crisi dell’identità
faustiana comporta la crisi di ogni
individualità, si può soltanto tirare
a sorte per sapere chi uno sia stato. Un niente vertiginoso pervade
anche il Faust di Pessoa; Tommaso Landolfi mostra nel suo Faust
(’67) un Faust che non vuole diventare personaggio; diversamente dal personaggio pirandelliano
che preme perché il drammaturgo
gli dia vita, questo è un personaggio che non vuole nascere e trova
in questa sua volontà di non essere il suo unico significato. Nel
Votre Faust di Butor-Posseur, una
pièce scritta fra il ’60 e il ’68 in
varie stesure, con l’ambizione di
creare una pièce variabile, dalla
quale ogni spettatore possa scegliere la sua parte, come in un testo mobile, si immagina un direttore di teatro che commissiona un
Faust a un drammaturgo. La tentazione sarebbe appunto quella di
scrivere il Faust, con tutte le implicazioni politiche, sociali ed esistenziali; alla fine il protagonista,
il drammaturgo, si salva proprio
perché si rifiuta di scrivere un
Faust.
Il più grande esempio di ritorno alle origini pre-goethiane del
Faust è ovviamente il Doktor
Faust di Thomas Mann, nel quale
il mito faustiano diventa l’essenza
sia della catastrofe dell’intera storia tedesca sia della tragedia
dell’arte contemporanea, con tutte le implicazioni e le note polemiche insite in questa concezione
dell’arte e soprattutto della musi-
mio avviso una delle più grandi pagine faustiane, di tutta la storia del
faustismo. Nonostante la terribile
notte (notte canonica della tradizione faustiana dell’evocazione del
diavolo) al mattino il protagonista
risale a cavallo, rigenerato anch’egli nel rosso dell’aurora come
il Faust di Goethe, e riprende la
sua vita, si rituffa, com’egli dice,
nell’andirivieni, ossia nella vita,
pieno di turbamento ma non senza destino. È una delle rare proposte contemporanee in cui lo
Streben continua, sia pure in altre
forme, ad avere un significato.
Ho abusato del tempo che mi
è stato concesso, anche se ho tralasciato tante, troppe cose, e senza soffermarmi, come avrei dovuto e dovrei, sui grandi testi di critica letteraria che hanno tracciato
egregiamente la storia del Faust e
del faustismo e ai quali è debitrice anche questa chiacchierata. Ho
cercato di passare in rassegna
uno stato d’animo che dura da un
secolo e mezzo. Una domanda
che ci dobbiamo porre è anche
quella che parecchi anni fa ho posto a Giorgio Strehler in occasione
della sua traduzione, messinscena e interpretazione dell’intero
Faust goethiano I e II al Piccolo di
Milano e che è questa: la storia
del faustismo, un grande capitolo
di storia, è la storia di una crisi. Si
tratta di una crisi storicamente
provvisoria o assoluta, definitiva?
Che cosa significa oggi rappresentare il Faust? Quando un grande uomo d’arte si pone davanti al
Faust, naturalmente ben consapevole di tutto ciò che è accaduto col
faustismo e anche della crisi che
lo ha investito nell’ultimo secolo e
mezzo, come fa a salvare quel
senso classico, universale-umano
del Faust, senza ignorare la crisi
contemporanea e anche il suo
scetticismo nei confronti del
Faust, ma attraversando a fondo
questa crisi, per superarla? È anche questo un Faust, un’impresa
davvero “incommensurabile”, come Goethe diceva del Faust? Forse, come aveva più o meno detto
Strehler, lo Streben di tante inesauribili riprese e messinscene è
䡵
già una risposta.
ELZEVIRI 85
FAUST
AFTER GOETHE
The figure of Faust is so
significantly symbolic that
each generation which
confronts it must ponder
the meaning of life, history and itself. The fundamental question is whether
Faust can save himself,
mainly thanks to his inner
yearning to live fully the
passing moment. The truth
is that high calibre authors
such as F. Nietzsche and T.
Mann gave many facets to
this character. G. Mazzini
depicted him as the hero
of the conflict between the
old and new world that
has yet to appear. With the
foundation of the Reich in
1871, Faustism was celebrated as the symbol of the
expansionism of the German empire which must
seek the infinite. Svevo too
challenges Faust, giving
rise to a definitive crisis of
identity and individuality.
DANTE
POETA delle
stelle
ANNA BORDONI DI TRAPANI
Docente di Letteratura italiana
DANTE, POET
OF THE STARS
The stars are a fundamental symbol in Dantean poetry: they are the imaginary destination in his other-worldly journey towards
God. The definitions of Inferno as “a starless sky” or
rather “a place of muted
light” are certainly not coincidental. And when the
journey’s trials among the
damned come to an end,
Dante will “once again see
the stars”. The night’s starry vault is often a source of
comfort to the poet. After
the less enthralling interlude in Purgatory, the light
symbology is further embellished in Paradise: the
movement of the celestial
spheres is represented as
harmonious music and unrestricted light. The greatest joy of the blessed souls
is defined as bringing
greater contributions of
light. The centrality of the
“holy light” theme is further evidenced by the fact
that the word “star” reconfirms all three of the
Comedy’s cantos: a choice
that goes beyond the simple bonds of medieval symbology.
Dante è il poeta italiano che con maggiore intensità e rapimento ha rivolto gli occhi al cielo
stellato. Solo Leopardi può stargli a fianco, ma
molto diverse furono in lui la sensibilità e le motivazioni che lo inducevano a “ragionar” con le stelle “sul paterno giardino scintillanti”.
Qui ci dedichiamo a Dante, e ci proponiamo
di fermare la nostra attenzione soprattutto sugli
esiti più intensamente lirici di quel suo straordinario interesse per i fenomeni celesti, a cui si devono anche le numerosissime descrizioni astronomiche e cosmologiche che impreziosiscono il
tessuto della Divina Commedia. Ma esse sono
spesso così difficili da interpretare, per la loro
complessa elaborazione stilistica e concettuale, e
così lontane dal nostro gusto moderno, che certo
non si prestano ad una fruizione immediata, né noi
intendiamo qui approfittare troppo della pazienza
dei lettori. Non ci cimenteremo perciò, come facevamo sui banchi di scuola, con tutte quelle raffinate e circostanziate perifrasi astronomiche, né
con i loro importanti risvolti scientifici, filosofici,
allegorici e religiosi, ma ci limiteremo a sfogliare
il testo un po’ svagatamente, per soffermarci su alcune immagini celesti di grande potenza rappresentativa, su certi indimenticabili squarci contemplativi, capaci di evocare e rinnovare in noi
l’emozione e il coinvolgimento che la lettura della
Commedia ci ha altre volte regalato.
Per Dante le stelle sono anzitutto la meta reale e ideale del suo epico e simbolico viaggio ultraterreno: significativamente la parola in rima
“stelle” suggella tutte e tre le cantiche della Com86
ELZEVIRI
media, né si tratta di una pura simmetria di gusto
medievale, ma di un motivo che percorre e lega
tutto il poema. Nella cosmologia dantesca infatti
le stelle sono “luci sante”, attraverso le quali risplende la luce divina, e l’influenza che esse esercitano sul mondo e sugli uomini si iscrive appunto entro il piano provvidenziale di Dio.
La sua avventura ha inizio con il drammatico
smarrimento in una “selva selvaggia e aspra e forte”, e soprattutto immersa nel buio di una notte
“oscura”. Dante è terrorizzato, ma quando, guardando in alto, scorge finalmente le pendici di un
colle “vestite già de’ raggi del pianeta, / che mena
dritto altrui per ogni calle”, ne è molto rincuorato
e spera ancora di uscirne sano e salvo. Il sole è fonte di ogni luce (nel sistema cosmologico dantesco
anche le stelle brillano della sua luce riflessa) ed
è, nella simbologia del poema, l’immagine primaria di Dio.
Anche l’ora mattutina e la congiunzione del
sole con la costellazione primaverile dell’Ariete
sembrano di buon auspicio al pellegrino, che spera perciò di poter respingere le tre belve che gli si
oppongono all’uscita dalla selva e di salire quanto prima “il dilettoso colle”:
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava in su con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle
sì ch’a bene sperar m’era cagione...
(INF. I, 37-41)
Speranza mal riposta, perché ben altro viaggio hanno predisposto per lui i disegni imper-
scrutabili di Dio. A farglieli conoscere sarà Virgilio, l’inviato speciale della Provvidenza, accorso in
suo aiuto; ma per indurre Dante a seguirlo in un
viaggio nell’aldilà, egli dovrà far ricorso a tutte le
risorse dell’arte della persuasione. Quando Dante,
con molta perplessità, finalmente si accinge a seguire la sua guida, il cielo si andava ormai oscurando sulla terra:
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì della pietate
che ritrarrà la mente che non erra.
(INF. II, 1-6)
Lo attendono infatti “l’aere sanza stelle”
dell’Inferno, la “valle d’abisso dolorosa” che subito si mostra al pellegrino non appena Virgilio lo introduce “giù nel cieco mondo”. Nel buio fondo
dell’Inferno, in quel “loco d’ogni luce muto”, non
c’è cielo, non ci sono stelle, se non nelle parole di
Virgilio, che in quell’“aura sanza tempo tinta”, si
preoccupa di tenere via via informato Dante dello
scorrere del tempo:
...già ogne stella cade che saliva
quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta.
(INF. VII 98-99)
È dunque circa la mezzanotte. E dopo una
breve sosta notturna, il maestro sollecita il discepolo a riprendere il cammino:
Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,...
(INF. XI, 112-113)
Breve perifrasi astronomica per indicare che
si avvicina l’alba (i Pesci precedono immediatamente l’Ariete, che ora è in
congiunzione col sole): incomincia così per Dante la seconda giornata di discesa
nell’Inferno. Solo dopo averlo tutto dolorosamente attraversato, egli potrà “riveder le belle stelle”, come gli
augureranno nostalgicamente tre illustri fiorentini dannati fra i sodomiti.
Ma lungo il viaggio Virgilio continua a fornire, di
tanto in tanto, le coordinate
astronomiche, perché Dante
non smarrisca, in quel buio
d’inferno, la nozione del tempo che scorre:
E già la luna è sotto
i nostri piedi;
lo tempo è poco omai
che n’è concesso,
e altro è da veder che tu
non vedi.
(INF. XXIX, 10-12)
Sono cioè circa le tredici e al tramonto bisognerà iniziare la lunga risalita. Virgilio è una guida
assolutamente puntuale e, giunta l’ora stabilita,
non transige:
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto.
(INF. XXXIV, 68-69)
E così il pellegrino e la sua guida si mettono
in cammino, risalendo faticosamente dalla profonda notte infernale. Quando Dante finalmente giungerà all’estremo della cavità che lo riporta “nel
chiaro mondo”, subito il suo sguardo istintivamente correrà, attraverso un’apertura tonda, a “le
cose belle, che porta ’l ciel” e finalmente potrà
sbucar fuori all’aperto e tornare “a riveder le stelle” (INF. XXXIV,139).
E qual piacere è per lui, appena uscito “fuor
de l’aura morta” poter contemplare, dall’isola del
Purgatorio, il “dolce color d’oriental zaffiro” che si
diffonde nel sereno puro del cielo mattutino, ancora trapunto di stelle!
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’oriente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle;
(PURG. I, 17-25)
Allo spettacolo degli astri splendenti il viandante si riconforta e volge intorno lo sguardo a godere del paesaggio che l’alba ormai lascia chiaramente intravedere:
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
ELZEVIRI 87
William Blake, La
Divina Commedia,
Bibliotéque de l’Image,
Paris, 2000.
Inseguito da tre fiere,
Dante viene salvato
da Virgilio.
William Blake, The
Divine Comedy,
Bibliotéque de l’Image,
Paris, 2000.
Pursued by three wild
animals, Dante is saved
by Virgil.
William Blake, La
Divina Commedia,
Bibliotéque de l’Image,
Paris, 2000.
Dante e Stazio
dormono mentre
Virgilio veglia.
William Blake, The
Divine Comedy,
Bibliotéque de l’Image,
Dante and Statius sleep
while Virgil keeps
watch.
conobbi il tremolar de la marina.
(PURG. I, 115-117)
D’ora in poi il viaggio di Dante si svolgerà sotto la volta confortante del cielo; egli spesso volgerà
lo sguardo verso l’alto per contemplarla, e anche
per definire, attraverso le rivoluzioni degli astri, le
coordinate spaziali e temporali della sua ascesa.
Più frequente si fa perciò la poesia dell’astronomia,
con l’effetto di collocare l’avventura ultraterrena
dell’umile “viator” sullo sfondo sconfinato dei fenomeni celesti.
I due pellegrini si mettono dunque in cammino, costeggiando la riva del mare, perché per ora
le ripide pareti del monte appaiono inaccessibili:
già Catone, il custode del Purgatorio, era intervenuto a rassicurarli:
lo sol vi mostrerà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita.
(PURG. I, 107-108)
E nel frattempo, il colore del cielo che già era
passato dal bianco dell’alba al rosso dell’aurora,
88
ELZEVIRI
si va stingendo in un giallo dorato:
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov’ i’ era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
(PURG. II, 7-9)
Sta spuntando il sole che in breve tempo saetterà la sua luce in tutte le direzioni. Ora Dante e
Virgilio camminano lungo la parete rocciosa, col
sole alle spalle “che dietro fiammeggiava roggio”
e Dante drizza gli occhi alla grande mole del monte “che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga”: potranno iniziarne la scalata solo quando finalmente troveranno un luogo dove il ripido pendio si faccia
più accessibile, “sì che possa salir chi va sanz’ala”.
Soltanto allora incomincia la salita del Purgatorio:
Virgilio davanti, e Dante affannosamente “carpando appresso lui”.
Qualche breve pausa i due pellegrini se la
concedono, per parlare con le anime che incontrano, ma sempre Virgilio incalza il discepolo a riprendere il cammino, “ché perder tempo a chi più
sa più spiace”.
Quando ormai “il poggio l’ombra getta” e
scende la sera, essi sono però costretti a fermarsi in una valletta verde per ritemprare le forze e
aspettare che sorga il nuovo giorno. E intanto nel
cielo australe appaiono le stelle:
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo.
E ’l duca mio: «Figliuol, che là su guarde?»
E io a lui: «A quelle tre facelle
di che ’l polo di qua tutto quanto arde».
Ond’elli a me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov’eran quelle»
(PURG. VIII, 85-93)
Trascorse quasi tre ore dall’inizio della notte, Dante, “vinto dal sonno” e dalla stanchezza, si
addormenta profondamente sull’erba fiorita. Si
sveglierà tardi, quando “’l sole er’alto già più che
due ore” e si troverà accanto il maestro che affettuosamente lo rassicura. Assieme riprendono la
salita, trattenendosi e dialogando con le anime che
incontrano di cornice in cornice. Un’altra intera
giornata di cammino, perché la saggia guida non
concede di interrompere la salita prima che scenda l’ombra della sera:
procacciam di salir pria che s’abbui,
ché poi non si poria, se ’l dì non riede.
(PURG. XVII 62-63)
Ma poco dopo il sole tramonta e Dante si sente ormai “la possa de le gambe posta in triegue”.
Non è più possibile andare avanti: nell’ombra del
crepuscolo cominciano ad apparire in cielo le prime stelle:
Già eran sovra noi tanto levati
li ultimi raggi che la notte segue,
che le stelle apparivan da più lati.
(PURG. XVII, 70-72)
Questa volta Virgilio, per trarre “buon frutto”
dalla sosta, intrattiene il suo discepolo in dotte disquisizioni sull’amore e la libertà. Dante ascolta interessato e pone domande, ma, terminata la lezione del maestro, corre ancora una volta con lo
sguardo al cielo, dove la luna, col suo brillante
chiarore ramato, fa impallidire le stelle:
La luna, quasi a mezzanotte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta come un secchion che tuttor arda;
(PURG. XVIII, 76-78)
Dante, immerso in questo suggestivo e rassicurante paesaggio notturno, passa di pensiero in
pensiero, “com’om che sonnolento vana”, finché
piano piano il “pensamento” si tramuta in sogno.
Dormirà a lungo, sprofondato in un drammatico
sogno simbolico, tanto che si farà chiamare ben
tre volte da Virgilio, prima di destarsi. E perciò il
sole era già alto sull’orizzonte, quando i due viandanti si incamminano “col sol novo alle reni”.
Inizia così un’altra giornata, fitta di incontri e
di slanci affettivi e quando i pellegrini arrivano
all’ultimo girone, ormai il giorno sta declinando:
per anni il sole in sull’omero destro,
che già, raggiando, tutto l’occidente
mutava in bianco aspetto di cilestro.
(PURG. XXVI, 4-6)
Sullo sfondo luminoso del tramonto si svolge
il colloquio di Dante con Guido Guinizzelli, ani-
mato da grande slancio affettivo, ed intensa gratitudine.
Questa volta sarà un angelo ad esortare i viandanti perché sfruttino al meglio il tempo a disposizione per la salita:
«Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera;
non v’arrestate, ma studiate il passo,
mentre che l’occidente non s’annera».
(PURG. XXVII, 61-63)
Ma il sole “era già basso”, tanto che stendeva una lunga ombra davanti a Dante. Perciò i pellegrini fanno appena in tempo a salire alcuni gradini che il sole tramonta alle loro spalle. La sosta
è ormai obbligata e, prima che il cielo diventi di
un unico colore e la notte nasconda tutto nelle sue
tenebre, essi si coricano ciascuno su un gradino
dell’erta scala, scavata nella roccia. Di lì Dante,
chiuso fra le pareti rocciose, poco può vedere della volta celeste,
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori
(PURG. XXVII, 89-90)
Ormai la cima del Purgatorio è vicina e, contemplate da quell’alta specola, più vicine sembrano a Dante anche le stelle. Nel silenzio di questa
pausa contemplativa, egli scivola lentamente nel
sonno:
Sì ruminando e sì mirando in quelle
mi prese sonno...
(PURG. XXVII, 91-92)
e saranno, questa volta, sonni tranquilli, attraversati da un sogno profetico e rassicurante.
L’indomani il risveglio sarà puntuale all’alba:
a svegliarlo saranno “li splendori antelucani”:
le tenebre fuggian di tutti lati
e ’l sonno mio con esse; ond’io leva’mi,
(PURG. XXVII, 112-113)
I due viandanti si rimettono dunque in cammino: ormai manca poco alla meta del Paradiso
terrestre, dove Dante è atteso da “li occhi belli” di
Beatrice. Virgilio affettuosamente glielo ricorda ed
egli si riempie di gioia e di alacrità:
Tanto voler sopra voler mi venne
de l’esser su, ch’ad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne.
(PURG. XXVII, 121-123)
Ed infatti i gradini della ripida scala che ancora lo separano dalla meta agognata voleranno
via sotto i suoi piedi. Qui Virgilio si accomiata da
lui, perché ormai Dante non ha più bisogno della
la sua guida: “Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce”, gli
dice per rassicurarlo dell’ormai recuperato stato
di grazia.
Nel Paradiso terrestre Dante troverà una Beatrice altera e risentita, ma decisa comunque a salvare “quei che l’amò tanto”, e lei sa bene attraverso quali rimedi e riti purificatori potrà renderlo finalmente “puro e disposto a salire a le stelle”
(PURG. XXXIII, 145).
Il viaggio di Dante e Beatrice dalla cima del
Purgatorio verso l’Empireo inizia significativaELZEVIRI 89
Silografia di una
rarissima edizione del
1544, accompagnata
dal commento di
Landino e Vellutello.
Bergamo, Biblioteca
Civica Angelo Mai.
Woodcut of a very rare
edition of 1544,
accompanied by the
comment of Landino
and Vellutello.
Bergamo, Angelo Mai
Civic Library.
William Blake, La
Divina Commedia,
Bibliotéque de l’Image,
Paris, 2000.
Dante e Beatrice nella
costellazione dei
Gemelli.
William Blake, The
Divine Comedy,
Bibliotéque de l’Image,
Dante and Beatrice in
the constellation
of the Gemini.
mente sotto il sole di mezzogiorno, come precisa
subito Dante, attraverso una solenne e circostanziata perifrasi astronomica, tesa a fornire, secondo il gusto medioevale, le coordinate spazio-temporali dell’eccezionale evento.
Egli vede Beatrice tutta rivolta a “riguardar
nel sole” e non gli resta che imitarla:
...e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.
(PAR. I, 54)
Ma subito dopo aggiunge :
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno
com’ferro che bogliente esce del foco;
e di subito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole adorno.
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là su rimote.
(PAR. I, 58-66)
Con lei Dante sta attraversando, più veloce di
un fulmine, la sfera del fuoco, che nella cosmologia aristotelica è l’estremo confine del mondo sublunare.
Da questo momento Beatrice sarà la sua “dolce guida e cara” e, grazie a lei “ch’a l’alto volo gli
vestì le piume”, Dante potrà compiere la sua vertiginosa scalata al cielo, fino a vedere, nel profondo dell’essenza di Dio,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna.
(PAR. XXXIII, 86-87)
Il pellegrino celeste salirà di pianeta in pianeta, dal cielo della Luna, che è “la prima stella”
al cielo di Saturno, che è il “settimo splendore”, e
su ancora, fino al cielo delle stelle fisse, “’l ciel cui
tanti lumi fanno bello”, e di lì al primo mobile, il
“cielo velocissimo” che, trasparente e uniforme,
imprime il movimento a tutti gli altri cieli, ed infine all’Empireo, il “ciel ch’è pura luce” e che immateriale e immobile racchiude e muove tutto
l’universo.
Nel Paradiso gli scenari celesti che si schiudono all’alto volo di Dante sono ben diversi dalle
90
ELZEVIRI
suggestive notti stellate che il pellegrino contemplava con rapito stupore salendo il monte del Purgatorio. Qui nessuna magia di cieli notturni, non
luminosità di tramonti, né “splendori antelucani”,
qui il moto rotante delle sfere celesti si manifesta
a Dante esclusivamente come musica armoniosa
e luce dilagante. I pianeti sono “corpi levi” incastonati nella materia diafana dei cieli, che Dante
via via attraversa penetrandoli.
E con quanta esaltazione egli entrerà nel cielo del sole!
lo ministro maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
e col suo lume il tempo ne misura
...
e io era con lui;
(PAR. X, 28-30; 34)
Il motivo della luce, che diventa sempre più
intensa e radiosa man mano che si sale, fa parte
della struttura stessa del Paradiso. La diversa intensità luminosa dei cieli è il segno delle peculiari virtù dei “santi giri”: ciascuno di essi provvidenzialmente esercita specifiche influenze sulla
terra e sulla vita umana, imprimendo il proprio
“suggello a la cera mortale”. Anche le costellazioni con le quali il sole si trova via via congiunto nel
corso dell’anno, sono sapientemente predisposte
dai disegni divini lungo la fascia dello zodiaco per
drizzare “ciascun seme ad alcun fine, / secondo
che le stelle son compagne”.
E – segno tangibile della grazia divina che lo
assiste nella sua esaltante ascesa celeste – Dante,
quando giungerà nel cielo delle stelle fisse, si verrà
a trovare proprio nei Gemelli, la costellazione che
l’ha visto nascere, la sua “stella”, grazie alla quale
già il suo maestro, Brunetto Latini, giù nel buio inferno, gli aveva predetto:
Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella.
(INF. XV, 55-57)
Ora, tutto immerso proprio nella costellazione dei Gemelli, il pellegrino celeste innalza commosso una vibrante preghiera di ringraziamento:
O gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogni mortal vita,
quand’io senti’ di prima l’aere tosco;
e poi, quando mi fu grazia largita
d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
la vostra region mi fu sortita.
(PAR. XXII, 112-120)
A questo punto Dante è ormai “sì presso a l’ultima salute”, che Beatrice lo esorta a guardare in
giù, un’ultima volta, perché si renda conto del cammino compiuto:
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
...
E tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
(PAR. XXII, 133-135; 148-154)
Man mano che Dante sale, la sua vista va intensificandosi e i cieli si smaterializzano sempre
più ai suoi occhi, diventano immensi laghi di luce.
Anche le anime dei beati vanno “vie più lucendo”
e se nel cielo della luna conservano ancora l’aspetto di “specchiati sembianti”, già a partire dal cielo di Mercurio esse si presentano come “splendori” che si accendono “del lume che per tutto il ciel
si spazia”, e per il loro fulgore sono inafferrabili alla vista.
Il tema della luce, che cresce in corrispondenza della maggior letizia delle anime, diventa
ormai il filo conduttore nella rappresentazione degli spiriti beati: essi risplendono “come in fiamma
favilla”, sono “ardenti soli” la cui luminosità supera quella solare, sono “sempiterne fiamme” che si
dispongono in vere e proprie “costellazioni”, in
forma di tre corone concentriche, di croce luminosa che spicca sullo sfondo rosso del cielo, di
grande aquila araldica “ con l’ali aperte”. Le “luci
sante” sembrano “lucidi lapilli”, “fuochi” scintillanti come le stelle, brillanti come rubini e Dante
li contempla affascinato:
parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse si acceso,
che ne’ miei occhi rifrangesse lui.
(PAR. XIX, 4-6)
Nei momenti di maggior rapimento contemplativo, lo spettacolo ineffabile che le “vive luci”
gli offrono, sempre evoca alla mente di Dante la
sua esperienza terrestre di attento osservatore dei
fenomeni celesti:
Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma,
lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende;
e questo atto del ciel mi venne a mente,...
(PAR. XX, 1-7)
Siamo nel cielo di Giove: è il momento magico in cui l’aquila celeste cessa di parlare e al suo
silenzio succede il canto melodioso delle anime
che la compongono. Nel loro coro la voce dell’aquila si articola in tante voci singole, come nelle stelle si moltiplica la luce del sole che è calato
dietro l’orizzonte.
E più su, quando Dante si appresta a descrivere il trionfo di Cristo con tutti i beati dei sette cieli, è ancora lo spettacolo di una notte serena di plenilunio, trapuntata di stelle, ad offrirsi
come possibile termine di paragone all’ineffabile visione:
Quale ne’ plenilunii sereni
Trivia ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid’i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
come fa ’l nostro le viste superne;
(PAR. XXIII, 25-30)
Anche il primo canto dell’Empireo si apre con
un affresco naturalistico di grande suggestione lirica: un cielo stellato che si illumina gradualmente all’alba, quando avanzando l’aurora, messaggera del sole, a poco a poco si spengono le stelle,
prima le meno luminose, e poi via via anche le più
splendenti.
...quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
di vista in vista infino alla più bella.
(PAR. XXX, 5-9)
“Non altrimenti”, – dice Dante per chiarire la
funzione comparativa della descrizione –, scompaiono progressivamente ai suoi occhi incantati le
gerarchie angeliche trionfanti che salgono verso
l’Empireo.
Lo spettacolo del cielo stellato, che, coi suoi
crepuscoli e tramonti, con le sue albe ed aurore,
ha ispirato le pagine più suggestive del Purgatorio, si affaccia nel Paradiso alla memoria del poeta come inesauribile campo metaforico. Ad esso
l’“alta fantasia” attinge i correlati oggettivi di
un’esperienza ultraterrena assolutamente ineffabile, nel tentativo di conferire, per via analogica,
una qualche concretezza empirica alla descrizione dei prodigiosi scenari paradisiaci, materiati di
pura luce, dilagante in una immensità senza confini e senza tempo. Fino a perdersi nella folgorante visione mistica di Dio:
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(PAR. XXXIII, 145) 䡵
ELZEVIRI 91
“Quando ’l mezzo del
cielo, a noi profondo”...
“While in the depth
of heaven”...
DIARIO
LUIGI MALERBA
delle
delusioni
G
per ragioni ancora una volta di potere. Il tentativo è chiaramente
quello di creare un nuovo culto,
quello dell’atomo, in sostituzione
delle religioni antiche e ormai logore. Ma talvolta avviene un clinamen che rimette in gioco l’impenetrabilità e il mistero della tecnologia e si liberano nel cielo gli atomi impazziti, gli invisibili chernobyls.
A DIARY OF
DISAPPOINTMENTS
Invisible poisons are the
most devious and toxic.
“Nuclear” supporters have
repeatedly tried to hide
the objective contraindications of this type of energy, and have also given
such cryptic technological
explanations as to seem
the secret code of a sect of
conspirators. But then lies
and trivia come to the surface. At one time the gallantry of a man when presented to a woman was
considered a style to be
recommended; today, with
aggressive feminism, it
stands the risk of being
taken for unacceptable
provocation. At times one
is lucky enough to be confronted by landscapes so
well-tended and harmonious that they seem to be
the work of a skilled
painter; some also reach
the exaggerated point of
looking for the signature
of the painter of the landscape by glancing at the
bottom right.
N
emico invisibile. Esistono i
veleni colorati come l’E 123
denominato amaranto, bel
nome elegante, e altri veleni che
si sprigionano in fumi e nuvole e
schiume, ma i più temibili sono
quelli invisibili. Le radiazioni atomiche sono invisibili. L’invisibilità
al servizio delle forze distruttive è
tanto più temibile in quanto sfugge non solo alla vista ma al tatto,
all’olfatto, a tutti i sensi. È il nemico che i teologi pazzi dell’atomo
credono di controllare, sul quale
fondano la loro potenza come gli
antichi sacerdoti fondavano la loro
sulle oscure forze del Male. Le formule e i riti scientifici di oggi sono
manipolati dai tecnocrati con la
stessa aura esclusiva degli antichi
sacerdoti, e il fine di costituire una
casta dominante non sono dissimili. Il loro furore tecnologico, i loro linguaggi, o piuttosto il loro gergo, servono a creare intorno a essi una barriera di impenetrabilità e
di mistero che contraddice l’origine scientifica e razionale delle tecniche di cui tendono ad abusare
92 ELZEVIRI
alanteria. Certamente la
galanteria fa parte di
un’epoca lontana, è un atteggiamento maschile, un comportamento legato a un cerimoniale caduto in disuso. Il femminismo ha reso la parola assolutamente impronunciabile, l’ha cancellata definitivamente dal vocabolario relegandola nel cimitero
delle parole fuori corso. Dire oggi
che un uomo è “galante” non è
nemmeno un insulto, è soltanto
l’evocazione di un fantasma linguistico ormai destituito di ogni
corrispondenza reale.
L
’aggettivo. Nel 1917 mentre
infuriava la rivoluzione, nel Circolo Linguistico di Mosca si
tenne un seminario sulla questione dei limiti degli “epitheta ornantia” e degli aggettivi di uso comune nel campo della poesia lirica. Vi
partecipava il grande linguista Roman Jakobson.
Il Circolo Linguistico di Mosca
venne in seguito chiuso dai rivoluzionari, da Stalin, eppure vi si faceva letteratura rivoluzionaria mentre la letteratura ufficiale, il realismo socialista che imperversò per
alcuni decenni, è letteratura reazionaria, nemmeno funzionale agli
scopi della rivoluzione proprio perché in massima parte cattiva letteratura.
C
omico e angoscia. La giovane ospite austriaca viene a
interrogarmi per una tesi di
laurea sui miei libri. Il tema è “comico e angoscia”. Purtroppo sulla
mia faccia non si vede né l’uno né
l’altra. C’è un certo imbarazzo da
parte mia e una chiara delusione
nella giovane austriaca.
P
aesaggio con firma. La lunga
diga che attraversa il lago di
Hangzhou è percorsa da una
strada fiancheggiata da due file di
salici piangenti che si riflettono
graziosamente sull’acqua. I cinesi
intervengono con disinvoltura sul
paesaggio secondo immagini e
A
modelli presi a prestito dalla pittura. Anche il canale navigabile che
da Pechino arriva alla residenza
imperiale del Palazzo d’Estate è
fiancheggiato per tutta la sua lunghezza da due doppie file di salici
piangenti che ricopiano un motivo
ricorrente nella pittura cinese, la
quale a sua volta si sarà ispirata
allo stesso motivo dei salici piangenti incontrato in natura. Anche
da noi di fronte a certi paesaggi
particolarmente armonici possiamo esclamare “sembra dipinto”.
Saul Steinberg confessò un giorno
che ogni volta che si trova di fronte a un paesaggio particolarmente
bello il suo sguardo corre istintivamente in basso a destra a cercare la firma.
A
lcuino. Fra tante fantasiose sentenze date dal retore Alcuino alle domande di
Pipino intorno ai misteri del linguaggio ce n’è una che vale la pena di riportare come totale esercizio di pedanteria. Alla domanda
che cos’è la parola risponde Alcuino: «È il tradimento del pensiero». Sulla menzogna letteraria si
potrà ancora invocare Oscar Wilde
e la sua teoria della letteratura come menzogna. «La rivelazione finale è che la menzogna, il racconto di cose belle e irreali, è lo
scopo vero dell’Arte».
rchetipi. Ogni epoca può
produrre archetipi, non si
può dare il privilegio della
loro creazione unicamente alle stagioni remote dell’umanità. Ma gli
archetipi si riconoscono come tali
quando la loro produzione si sia allontanata nel tempo e siano stati
assimilati e filtrati dalla memoria
collettiva. A questo punto ci si può
domandare quali saranno gli archetipi creati dalla nostra epoca,
quali fatti sono destinati a diventare emblemi, o ossessioni, o miraggi, per l’umanità futura. La maggior parte dei contrassegni del nostro tempo, come i collettivismi, il
fascismo e il nazismo, non superano l’ambito di una socialità pervertita e nella loro sostanza sono
fenomeni già antichi. La psicanalisi è dottrina troppo complessa e
articolata per diventare produttrice
di nuovi miti. Forse il terrorismo
culminato con la distruzione delle
Torri Gemelle a New York ha impresso nella memoria collettiva
l’immagine di un orrore nuovo già
proiettato nel futuro. Ma non si intravede, come marchio della nostra epoca da consegnare alla futura memoria, nulla che raggiunga
il bagliore sinistro dell’atomica nel
cielo di Hiroshima nell’agosto del
1945. Più ancora dei lager, della
follia genocida, il bagliore del fungo atomico è già entrato nell’orrida mitologia del nostro secolo, è
già sceso negli abissi ereditari delle nostre coscienze alimentato dal
ronzio inquietante delle centrali nucleari. Esse rappresentano la “normalizzazione” di un disastro collettivo, la assimilazione di una tragedia recuperata in nome di un sogno progressista.
I
Crociati
bolliti. Si
racconta
che i Crociati
per spedire in
patria i resti
delle vittime
più illustri
avessero
adottato un
singolare accorgimento
per evitare la
corruzione dei
corpi durante i lunghi viaggi per terra e per mare. Prendevano i cadaveri e li facevano bollire fino a
quando potevano spolpare le ossa
che, ben ripulite e seccate, mettevano in viaggio dentro pregiate
cassette. I cronisti, che con molta
discrezione parlano di questa
usanza, non dicono se la carne
bollita fosse abbandonata in pasto agli uccelli o ottenesse sepoltura, se questa sepoltura della carne bollita senza ossa meritasse
l’onore di una croce e di una vera
tomba o se fosse considerata carne anonima. Del resto non è chiaro se potessero chiamarsi “resti
mortali” la sola carne senza le ossa. Pare comunque che l’onore
della tomba e del nome fosse riservato alle ossa, che forse vanno
considerate la parte nobile del corpo, quella meno corruttibile. E poi
non è vero che si dice “la carne è
debole” di fronte al peccato? Allora è la carne che pecca, non le ossa. Tutto sommato sono resti mortali a maggior diritto le ossa più
che la cenere del corpo mandato
alla cremazione. Come si usa al
tempo presente.
D
iete. Una signora dice che
la dieta migliore per dimagrire è
mangiare poco, ma c’è un
limite perché
non mangiando nulla non
si può sopravvivere e aggiunge: o almeno questa
è la mia opinione.
䡵
Veduta sulla Valtellina dall’Alpe Poverzone sopra Sondrio