sull`economia - Nonsolobanca
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RIFLESSIONI sull’economia NOTIZIARIO Economia-Finanza SERGIO RICOSSA Professore Emerito Facoltà di Economia Università di Torino Che la scienza economica, nonostante la massa straripante di pubblicazioni edite, incida poco sulla cultura generale dell’epoca è dimostrabile in vari modi. Quando ancora facevo lezione (ora sono in pensione) in una facoltà universitaria mi divertivo a sottoporre gli studenti a un esperimento: leggevo citazioni di Adam Smith e di Karl Marx in forma anonima, e invitavo a riconoscere chi dei due fosse l’autore. Ebbene, era comune che un brano di Smith venisse attribuito a Marx e viceversa. Gli studenti stentavano ad ammettere che Marx dedicasse elogi sperticati al capitalismo industriale, mentre Smith lo criticava per le tendenze monopolistiche dei “manifatturieri”. Nessuno aveva mai letto veramente e meditato le opere fondamentali di quegli scrittori. Nessuno, per REFLECTIONS ON THE ECONOMY The mainstay of the economical game in a capitalistic system consists in predicting costs in the hopes of uncertain and risky future profits. Production assumes the aspect of a lottery and the economy brings to mind gambling. The free market is open to experimentation, to those with something advantageous to offer. Innovation means gambling on something which is unusual and of interest. Through its development, capitalism has invented much merchandise that is qualitatively new: keeping the market economy going becomes a matter of creativity. Everything revolves around the production of new, non-essential goods: there cannot be stability in a market of hazardous games. In the Marxist system, the alternative is the end of the economy with the fulfilment of all socially useful needs, according to the definition which it gives political authority. 50 ECONOMIA-FINANZA esempio, sapeva che in Marx esiste una giustificazione valida del profitto (lo stesso Marx sembra dimenticarsene in altre parti della sua opera) per cui esso è una categoria contabile esistente in qualunque economia, insopprimibile, sia nel capitalismo privato e sia nel socialismo più spinto o comunismo che dir si voglia; pertanto prendersela col profitto, denigrarlo, è inutile o sviante. Quando esisteva l’Unione Sovietica, quel Paese contava certamente più capitalisti retribuiti col profitto di quanti ne contassero gli Stati Uniti. E il paradosso è presto spiegato. Nell’Unione Sovietica, tutta la popolazione, lo volesse o no, partecipava all’anticipazione dei costi del prodotto, in vista di ricavi futuri e incerti. E la differenza tra ricavi posticipati e costi anticipati è per l’appunto il profitto (o perdita, se negativa). Negli Stati Uniti, invece, partecipava e partecipa alle anticipazioni solamente chi vuole e può. Anticipare è una funzione volontaria nel capitalismo privato del tipo americano; era una funzione pubblica e obbligatoria nel capitalismo di tipo sovietico. Ma è anche vero che nel capitalismo privato le anticipazioni dei costi sono così frequenti che talvolta diventiamo anticipatori, quindi capitalisti, quindi percettori di profitti, senza neanche accorgercene. Per esempio, se ci abboniamo a un giornale o a una rivista, anticipiamo qualcosa all’editore, il quale ci ringrazia concedendoci uno sconto (un profitto) rispetto a quanto pagheremmo comperando in edicola il giornale o la rivista con esborsi meno anticipati. Gli impiegati che incassano il loro salario a fine mese, anticipano, lavorando gratis per un mese il costo del loro lavoro. Qui si tratta, ovviamente, di una breve anticipazione ma comunque tale da poter dire che gli impiegati sono lavoratori-capitalisti e che ricevono uno stipendio comprensivo di una quota di profitto, anche se nessuno ci bada. Le anticipazioni più importanti riguardano non un mese bensì un anno, un decennio, un secolo. Per produrre bisogna già avere assunto gli operai e gli impiegati, comperato le materie prime e le macchine, costruito lo stabilimento, costruito gli stabilimenti dei fornitori. Si determina una catena di anticipazioni, che forma nel tempo un retrocedere quasi all’infinito. La produzione si sa quando finisce (con un bene di consumo), non si sa quando comincia, tanto sono remote nel passato le sue origini, proprio come non si sa dire se nasce prima l’uovo o la gallina. Che si debbano anticipare i costi (gran parte dei costi) con la speranza di ricavi futuri profittevoli ma incerti e rischiosi, rende qualunque produzione capitalistica simile a una lotteria, in cui prima si compra il biglietto e poi, se siamo fortunati, vinceremo un premio. Tutta l’economia è un gioco d’azzardo, piaccia o non piaccia, anche se vi sono giochi economici più rischiosi e altri meno. È inutile prendersela con gli “speculatori”. Qualcuno è obbligato a sopportare il rischio. Chi non ama il rischio si contenti di attività poco rischiose, se ve ne sono. Nell’Unione Sovietica sovente il rischio era collettivo, legato ad anticipazioni collettive, ma esisteva lo stesso, essendo connesso a ogni attività umana. Nel capitalismo privato le anticipazioni sono individuali, riservate a chi è più tentato a correre il rischio. Questo è un vantaggio. Tuttavia ciò comporta un altro rischio: che persone scorrette riescano a trasferire una perdita, una disavventura, a carico di altri innocenti. E a ben guardare, nel capitalismo pubblico esiste il rischio politico che, similmente, le colpe dei forti (diciamo: i pianificatori) ricadano sui deboli privi di diritti tutelati. Così il discorso cambia: usciamo dall’economia in senso stretto ed entriamo nella politica, nel diritto, nell’etica. Il discorso non sarebbe soddisfacente senza almeno un cenno alla tecnica e all’innovazione anche merceologica. Ciò permette di precisare che in economia non tutto è questione di azzardo. Il mercato capitalistico libero ha la funzione di permettere di sperimentare a chi ritiene di avere qualcosa di nuovo e di conveniente da proporre per sé e per i clienti e i consumatori dei suoi prodotti. Se l’innovatore ha visto giusto e trova una via migliore da percorrere tra costi e ricavi, il vantaggio finirà presto o tardi col diffondersi in tutto il mercato. Ma, appunto, bisogna che abbia visto giusto, nonostante il maggior rischio derivante dal percorrere una via nuova, anziché battere le solite, vecchie strade, che tutti conoscono. Gli allibratori pagano poco o nulla a chi scommette su un cavallo i cui pregi sono noti a tutti. Pagano molto, inizialmente, a chi conosce prima degli altri i pregi di un nuovo campione degli ippodromi. Così l’innovatore nel mercato è spinto a puntare su quanto è inusitato. Può trattarsi di un processo produttivo o di una merce (innovazione merceologica). Il capitalismo privato sarebbe finito da un pezzo se oggi ci limitassimo a produrre le merci (cioè, in ultimo, i beni di consumo) che conoscevamo e si vendevano alla fine dell’Ottocento. Al contrario, per un altro secolo e oltre si sono “inventate” merci nuove qualitativamente: dall’automobile alla radio e alla musica registrata, dal cinematografo alla televisione, eccetera. In termini puramente quantitativi, il capitalismo rischia sempre la sovrapproduzione. Ma il progresso non è solo quantitativo, è soprattutto qualitativo, e può continuare all’infinito, purché la fantasia degli innovatori non venga a mancare nello scoprire modi di soddisfare bisogni nuovi, o vecchi bisogni in forme nuove e appetibili. È una questione di fantasia a tenere in vita l’economia di mercato. Sembra che la grande maggioranza dei consumatori apprezzi tale lato della faccenda. Ma c’è pure chi, almeno a parole, lamenta la deriva dell’economia verso la produzione di nuovi beni “non essenziali”. C’è del vero in questa critica. Tuttavia, ammettiamolo, è la gran massa dei consumatori a dover giudicare se un nuovo bene è superfluo od opportuno. E la gran massa dei consumatori pare d’accordo con Oscar Wilde: «Datemi il superfluo e rinuncerò al neces- sario». Così stando le cose, la fine dell’economia per saturazione dell’offerta, la fine definitiva, è improbabile senza un intervento pubblico coercitivo, che imponga quanto spontaneamente la gente non accetterebbe. Infatti il marxismo si riprometteva la fine dell’economia con la soddisfazione di tutti i bisogni, una volta per sempre, ma sottintendeva: tutti i bisogni “socialmente utili” secondo la definizione di una autorità politica, dotata dei poteri necessari. Ovviamente, ovunque esiste una autorità del genere: perfino nei Paesi più liberali certi consumi sono vietati e certi altri sono obbligatori. Da noi, in Italia, lo spaccio di droghe è vietato e la scuola è obbligatoria. Sono casi eccezionali. In Unione Sovietica l’eccezione era diventata la regola, se non che l’Unione Sovietica infine si disgregò. Est modus in rebus. La nostra natura di esseri umani si direbbe conforme al detto di Oscar Wilde, che è poi connesso al pensiero di parecchi filosofi, da Hume ad Adam Smith e Leopardi. Può darsi che la nostra natura ci inganni, ci spinga a giocare giochi che non valgono la candela, ci induca a compiere sforzi superflui per ingordigia. Ma se l’umanità si fosse sempre contentata del disponibile senza l’urgenza di andare oltre, non avremmo avuto la civiltà come l’intendiamo comunemente. Vivremmo come Diogene e gli altri filosofi “cinici”, cioè appunto ci contenteremmo di una “vita da cani”. E da cani randagi, non da cani curatissimi come talvolta vediamo nelle nostre città, nei concorsi di bellezza. Dunque, riflettere sull’economia porta inevitabilmente alla politica, al diritto, all’etica, alla filosofia, alla storia della cosiddetta civiltà. Però le riflessioni sull’economia occorrono ampie, non ristrette, come ancora oggi in troppi testi per gli studenti, dove si spreca tanta carta per questioni insensate. Un esempio per tutti: le chiacchiere sull’equilibrio economico. Come può esserci equilibrio in un mercato se i giochi sono aleatori e se lo scopo del libero mercato è l’innovazione, e l’innovazione mira a rompere gli eventuali equilibri preesistenti? Forse è per questo che la gran massa della letteratura economica in䡵 cide poco sulla cultura generale. ECONOMIA-FINANZA 51 La Sede del Fondo Monetario Internazionale a Washington. The Headquarters of the International Monetary Fund in Washington. Il ruolo delle ISTITUZIONI INTERNAZIONALI nell’economia mondiale RENATA TARGETTI LENTI Professore Ordinario di Economia Politica e Presidente del corso di laurea triennale “Scienze Sociali per la Cooperazione e lo Sviluppo (CeSV)” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Pavia Nel 1944 a Bretton Wood, cittadina dello Stato del New Hampshire (Usa), i delegati di Stati Uniti, Regno Unito ed altri 42 Paesi si riunirono per creare le istituzioni che avrebbero dovuto instaurare un nuovo ordine economico internazionale. Due istituzioni, in particolare, all’interno del complesso sistema delle Nazioni Unite sono state create con compiti di natura finanziaria. Il Fondo Monetario Internazionale (IMF) è nato per assicurare 52 ECONOMIA-FINANZA la stabilità del sistema economico internazionale; la Banca Mondiale (WB) è sorta per reperire le risorse finanziarie necessarie alla ricostruzione postbellica dei Paesi europei. Nel corso del tempo l’azione di queste due Organizzazioni si è concentrata prevalentemente verso i Paesi in via di sviluppo, con l’obiettivo di promuovere la crescita economica e di prevenire crisi finanziarie locali o internazionali, e si è diretta pure verso le economie socialiste per favorirne la transizione verso l’economia di mercato. Pur appartenendo al sistema delle Nazioni Unite il Fondo Monetario e la Banca Mondiale godono di una totale indipendenza rispetto all’Assemblea Generale. La Banca Mondiale ha un presidente, tradizionalmente un americano (attualmente è James Wolfenshon, il penultimo è stato John Stiglitz). Il Fondo Monetario è diretto da un managing director, solitamente un europeo (attualmente è Horst Koeler). I rappresentanti di ogni Paese (24 executive directors) non appartengono al corpo diplomatico ma vengono designati dai rispettivi ministeri del Tesoro, ed hanno un potere di voto sostanzialmente proporzionale al contributo finanziario del Paese all’organismo e cioè alle cosiddette quote (1). Nella soluzione delle crisi e nelle decisioni di finanziamento finisce così con il prevalere l’interesse dei Paesi economicamente più forti (Stati Uniti, Europa) a scapito di quelli più deboli e cioè dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) (2). Oltre a monitorare il sistema economico internazionale per preservarne la stabilità e favorirne la crescita, il Fondo agisce come un intermediario finanziario raccogliendo fondi nei Paesi industrializzati e concedendo pre- stiti ai Paesi in difficoltà, ed in particolare ai Paesi in via di sviluppo. Il controllo sui flussi finanziari internazionali esercitato dal Fondo è superiore a quanto possa apparire dall’ammontare dei prestiti direttamente gestiti. Infatti anche le linee di credito concesse dalla Banca Mondiale, da altre istituzioni multilaterali e da parte di istituzioni private sono soggette all’approvazione del Fondo (3). L’attività dell’IMF e della WB si è via via concentrata a favore di quei Paesi che accettano di promuovere programmi di riforme e di riduzione della povertà, e che si impegnano a creare istituzioni finanziarie trasparenti, efficienti, solide in grado di stimolare la formazione interna di risparmio. Negli ultimi venti anni la concessione di tali crediti è stata vincolata all’adozione di specifiche politiche di stabilizzazione e/o di aggiustamento strutturale (le cosiddette conditionalities) per assicurare un contesto economico favorevole a politiche sia di riduzione degli squilibri macroeconomici sia di crescita. Queste politiche sono state nel corso del tempo, ed in particolare in questi ultimi anni, oggetto di critiche e attacchi anche aspri, che ne hanno sottolineato la scarsa efficacia e l’inadeguatezza a raggiungere gli obiettivi prefissati. Con particolare riferimento alla Banca Mondiale si può osservare come i suoi interventi si siano modificati nel corso degli anni in relazione non solo ai diversi obiettivi, ma anche in relazione ai modelli ed alle teorie del sottosviluppo che si andavano via via elaborando. Questa istituzione ha progressivamente ampliato i suoi compiti divenendo nel corso del tempo il più importante centro di analisi e di for- mulazione di politiche per promuovere lo sviluppo economico e per ridurre la povertà (4). Negli anni ’60 l’obiettivo principale è stato quello della crescita del reddito pro-capite; negli anni ’70 è diventato la riduzione della povertà ed il soddisfacimento dei bisogni fondamentali; negli anni ’80 e ’90 gli interventi sono stati diretti al cosiddetto aggiustamento strutturale ed alla promozione dell’economia di mercato. Nel primo periodo (anni ’60) l’impostazione seguita dalla Banca Mondiale per la selezione dei progetti da finanziare è quella dei “banchieri” nel senso che viene privilegiato il finanziamento di singoli progetti in relazione anche al tasso di rendimento atteso. La condizione per concedere l’aiuto è che i progetti siano “meritevoli”. In questo periodo la Banca Mondiale diventa una vera e propria agenzia di sviluppo, per l’identificazione, la negoziazione e la supervisione dei progetti. Gli interventi sono diretti prevalentemente nel settore delle infrastrutture e delle public utilities (centrali elettriche e sistemi di trasporto) per favorire lo sviluppo industriale. Essa diventa un “catalizzatore” di progetti e fonte di assistenza tecnica. Una buona parte degli interventi è diretta verso il settore agricolo. A partire dall’inizio degli anni ’70 l’evidenza empirica ed i risultati in termini di crescita e di riduzione della povertà, tuttavia, mostrano ben presto l’inadeguatezza di politiche basate esclusivamente sull’accumulazione del capitale e sulla riduzione del rapporto capitale/prodotto. Gli effetti attesi di sgocciolamento (trickle down) e di diffusione dei benefici a tutto il sistema economico in realtà non si era- 1) Le quote sono versate all’IMF e sono misurate in parte in Diritti Speciali di Prelievo (un SDR =1,32 dollari circa) ed in parte in valuta nazionale. La quota misura anche i massimali che il Paese membro può prendere a prestito dall’IMF a seconda delle diverse linee di credito (di solito un Paese può prendere a prestito dal 300% al 500% della propria quota). 2) Per esempio gli executive directors italiani (che rappresentano anche Malta, Portogallo, Albania, Grecia, San Marino e Cipro) hanno il 4,23% dei voti totali del Board of executive directors. Il rappresentante americano invece, visto che il suo Paese contribuisce in maniera più cospicua, ha oltre il 17% delle quote di vo- to; il Giappone e la Germania poco più del 6%, la Francia e l’Inghilterra poco sopra il 5%. L’intera America Latina arriva solo al 4,5%. 3) I flussi di credito concessi direttamente dall’IMF e dalla WB ai Paesi in via di sviluppo potrebbero apparire modesti in relazione a quelli globali, ma restano molto rilevanti per i Paesi riceventi. Basti ricordare che il flusso di capitali privati verso i PVS è cresciuto nel tempo, anche se circa il 75% è andato solo a 9 Paesi (Cina, Corea, Malesia, Indonesia, Thailandia, India, Messico, Brasile, Argentina). 4) Our dream: a World free of poverty sono le parole con cui si apre oggi il sito della Banca Mondiale. no verificati. Si modifica la natura degli interventi che vengono diretti verso il soddisfacimento dei bisogni di base come la sanità, l’educazione, l’alimentazione (teoria dei basic needs). I due obiettivi prioritari diventano quelli di ridurre la povertà e la diseguaglianza nella distribuzione personale del reddito e di conciliare la redistribuzione del reddito con la crescita. A cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 il mutamento del contesto internazionale costringe ad una modificazione degli obiettivi e delle politiche di intervento. Due shocks petroliferi (nel 1973-74 e nel 1979) hanno prodotto una situazione di “stagflazione” e di elevato indebitamento verso l’estero nei Paesi in via di sviluppo. Vengono messi in discussione i vecchi modelli. Per frenare i processi inflazionistici e per ridurre la domanda aggregata si adottano politiche monetarie restrittive che provocano un rialzo dei tassi di interesse. Gli effetti negativi sui Paesi debitori sono immediati. Aumenta il peso del debito estero contratto dai PVS. Nello stesso tempo il rallentamento del tasso di crescita dei Paesi industrializzati provoca una contrazione nella domanda di materie prime (per molti Paesi debitori la principale fonte di ricavi da esportazione) e di conseguenza diminuiscono i prezzi delle stesse. Cresce il rapporto debito/esportazioni. Molti Paesi, ed in particolare quelli dell’America Latina, che avevano perseguito una strategia di sostituzione delle importazioni, sperimentano serie difficoltà esterne. Alcuni di essi, come il Messico per primo nel 1982, giungono ad una vera e propria crisi di insolvenza. Viene abbandonato il modello protezionistico e di controllo dell’economia da parte del settore pubblico fino ad allora perseguito. Si afferma un nuovo modello basato sulla liberalizzazione del mercato e degli scambi internazionali. Da parte del Fondo Monetario e della Banca Mondiale si suggeriscono politiche di stabilizzazione e di riduzione degli squilibri macroeconomici. L’erogazione dei fondi viene condizionata al fatto che i PVS adottino politiche macroeconomiche virtuose. Si verifica una convergenza negli interventi dell’IMF e della WB. Da una parte il Fondo Monetario si è spostato dagli interventi di ECONOMIA-FINANZA 53 breve a quelli di medio periodo stimolando l’adozione di riforme strutturali. Dall’altra la Banca Mondiale si sposta da strategie a lungo termine a quelle a medio termine. Il Fondo concentra la propria azione sugli aspetti macro (bilancio, moneta, tassi di cambio). La Banca Mondiale concentra la propria azione sugli interventi di natura settoriale (trasporti, energia, commercio, agricoltura). Si afferma il cosiddetto approccio monetario alla bilancia dei pagamenti. L’obiettivo è quello di ridurre il disavanzo nella bilancia dei pagamenti attraverso una politica monetaria restrittiva. La stabilizzazione ed il rialzo nei tassi d’interesse dovrebbe frenare l’uscita di capitali e trattenere le riserve internazionali. Anche la politica fiscale diviene restrittiva al fine di ridurre il disavanzo del settore pubblico. Il primo ed immediato effetto è la crescita della disoccupazione. Questo effetto negativo è aggravato dalle politiche di riduzione delle spese di natura sociale, che hanno immediate conseguenze sui redditi monetari. Un secondo gruppo di politiche suggerite dal Fondo e dalla Banca Mondiale nella seconda metà degli anni ’80 sono quelle note come politiche di aggiustamento strutturale. Esse consistono nella progressiva liberalizzazione di tutti i mercati. In primo luogo si interviene sul mercato estero mediante l’eliminazione delle diverse forme di protezionismo e di una progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale. Privatizzazione dell’apparato produttivo e liberalizzazione dei movimenti di capitale erano e sono scelte quasi necessariamente complementari dal momento che in assenza di un mercato interno sufficientemente vasto bisogna permettere che ad acquistare le azioni sia il capitale straniero. Le politiche di aggiustamento strutturale trovano un riferimento teorico nel cosiddetto Washington Consensus che si sviluppa all’interno della Banca Mondiale come una vera e propria teoria a partire dall’inizio degli anni ’90. Si tratta di una vera e propria svolta rispetto alle politiche per lo svilupppo che erano state perseguite fino a quel momento. Le giustificazioni teoriche di stampo neo-liberista sono formulate da un gruppo di 54 ECONOMIA-FINANZA James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale. James Wolfensohn, President of the World Bank. economisti dello sviluppo che appartengono al cosiddetto “mainstream”. Le ipotesi alla base di questo modello sono che i mercati siano caratterizzati da concorrenza perfetta, che l’informazione sia perfetta, che la distribuzione del reddito e le istituzioni non contino. L’impostazione di fondo si basa sull’ipotesi “forte” che la principale differenza tra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati consista nella diversa dotazione di capitale (fisico ed umano) e che anche nei PVS sussistano condizioni di trasparenza e di concorrenza perfetta nei diversi mercati. Se si adottano politiche che rimuovano i diversi ostacoli di natura strutturale (protezionismo, controlli dei prezzi e dei mercati) sarà possibile avviare un processo di sviluppo del tutto analogo a quello che aveva caratterizzato in passato le economie oggi industrializzate. L’insieme di provvedimenti che costituiscono questa politica possono essere sintetizzati in una rigorosa disciplina fiscale e di spesa pubblica, nella liberalizzazione dei tassi d’interesse e dei tassi di cambio, nella privatizzazione delle industrie statali e nel rafforzamento dei diritti di proprietà. Nel giro di pochi anni ben 80 Paesi adottano politiche di deregulation per favorire la crescita. I prezzi diventano un segnale di scarsità. L’eliminazione della protezione tariffaria e di un cambio sopravalutato conduce ad un aumento della competitività con l’estero, ad un miglioramento nel saldo della bilancia dei pagamenti e ad una progressiva riduzione del debito estero. Le politiche basate sullo Washington Consensus hanno ottenuto buoni risultati dal punto di vista della riduzione degli equilibri macroeconomici. Le conseguenze economiche e sociali, tuttavia, in termini di crescita della diseguaglianza e della povertà sono state molto pesanti. L’esperienza di molti Paesi mostra con evidenza quali siano stati gli effetti recessivi conseguenti alle politiche di aggiustamento strutturale (America Latina) e di gestione delle crisi finanziarie (Russia, Sud-Est asiatico) suggerite dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale. In quasi tutti i Paesi in via di sviluppo la crescita del reddito pro-capite ha subìto, in seguito a queste politiche, un netto rallentamento. Il rallentamento ha colpito prevalentemente i Paesi a più basso livello di reddito. In Russia il Fondo Monetario ha insistito nel mantenere un tasso di cambio sopravalutato favorendo la crescita dei tassi d’interesse, dell’indebitamento verso l’estero ed ha finito con il provocare una bolla speculativa a scapito degli investimenti e dell’economia reale. Lo stesso tipo di politica è stata perseguita in Brasile nel 1998. Si possono citare anche casi opposti e cioè di Paesi che, non avendo seguito i suggerimenti del Fondo, sono stati colpiti dalla crisi in modo più lieve. La Malesia, invece di lasciar crescere il tasso di interesse, ha imposto controlli sui flussi in uscita della propria moneta riuscendo a ridurre progressivamente l’indebitamento nei confronti dell’estero. La crescita del reddito pro-capite è avvenuta solo in quei Paesi che non hanno adottato riforme di stampo liberista come la Cina e l’India. La Cina mantiene un rigido controllo del cambio ed un elevato grado di protezionismo. La recente crisi in Argentina può essere considerata un esempio emblematico degli effetti negativi delle politiche suggerite dal Fondo Monetario e l’effetto finale di una serie di errori compiuti nell’arco di un decennio. Per dirla con Stiglitz non è che l’ultimo di una serie di salvataggi guidati dal Fondo Monetario Internazionale che si sono conclusi con uno sperpero di miliardi di dollari e che non hanno salvato le economie che intendevano aiutare. La stabilizzazione suggerita dal Fondo Monetario ha effettivamente abbassato l’inflazione, ma ha finito con il bloccare la crescita. Secondo Stiglitz è il Fondo Monetario ad aver commesso «il suo errore fatale. Incoraggiando una politica fiscale restrittiva, ha ripercorso la strada già sbagliata nel Sud-Est asiatico, con le stesse disastrose conseguenze. L’austerità fiscale avrebbe dovuto ripristinare la fiducia: qualsiasi economista avrebbe previsto che le politiche restrittive avrebbero provocato un rallentamento dell’economia, e che gli obiettivi di bilancio non sarebbero stati soddisfatti» (5). Sempre secondo Stiglitz le lezioni da trarre oggi sono che in un mondo di tassi variabili, stabilizzare una singola valuta nei confronti del dollaro è rischioso e provoca una progressiva perdita di competitività. Adeguamenti nel tempo dei tassi di cambio fanno parte del meccanismo di reazione. Concentrarsi sull’inflazione, senza tenere conto degli effetti delle politiche sulla disoccupazione e sul tasso di crescita, è rischioso. Qualsiasi governo persegua politiche che la- scino larghi strati di popolazione disoccupata o sottoccupata fallisce nella propria missione primaria. La crescita richiede istituzioni finanziarie in grado di finanziare in primo luogo le aziende nazionali. Vendere la proprietà delle banche agli stranieri, senza adeguate misure di salvaguardia, può bloccare la crescita e la stabilità. Raramente si ripristina la fiducia con politiche che provochino situazioni recessive. Le politiche di stabilizzazione possono essere adeguate nel breve periodo, ma finiscono con il produrre effetti perversi qualora siano perseguite troppo a lungo nel tempo. Queste esperienze segnalano quanto sia urgente una riforma sia dell’architettura finanziaria internazionale sia della natura degli interventi e delle politiche delle istituzioni internazionali. Proprio a partire dalla fine degli anni ’90 Stiglitz avvia un processo di revisione critica delle politiche suggerite dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale. In particolare individua nelle politiche liberiste adottate in modo generalizzato, in sistemi economici che non presentavano le caratteristiche proprie del modello neo-classico, nella mancanza di prospettiva storica e nella scarsa considerazione della complessità del processo di sviluppo le cause degli esiti fallimentari delle stesse politiche. Si sviluppa una nuova impostazione nota come Post-Washington Consensus i cui principi dovrebbero essere alla base di politiche di sviluppo più THE ROLE OF INTERNATIONAL INSTITUTIONS IN THE WORLD ECONOMY Much ground has been covered since Bretton Wood created the International Monetary Fund and the World bank in 1944. At that time the aim was to establish a new international order. The “Fund” was then directed towards making loans to Countries in difficulty and in the process of development. The “Bank” has progressively extended its work areas: favouring the growth of pro-capita earnings during the 60’s, reducing poverty in the 70’s, making structural adjustments and promotion of the financial market in the final two decades of the Twentieth century. At times these actions have not produced, even marginally, the hoped for outcomes. In Russia it primes a speculation bubble to the detriment of investments and the real economy. In Argentina an incredible dissipation of billions has certainly not favoured the economic conditions that needed assistance. efficaci e più adeguate alle esigenze dei PVS. Lo sviluppo deve essere considerato come un processo di trasformazione della società da una fondata su relazioni tradizionali ad una moderna, che porti ad una riduzione delle diverse forme di dualismo. Le diverse politiche suggerite devono tenere conto del fatto che i Paesi in via di sviluppo sono sostanzialmente differenti dai Paesi sviluppati, ma anche diversi tra di loro e dunque dovrebbero seguire specifici percorsi di sviluppo. La costituzione di istituzioni economiche (finanziarie e creditizie), di istituzioni politiche e sociali credibili, la formazione di capitale umano e di capitale sociale sono i capisaldi di queste politiche. Il concetto di “capitale sociale”, inteso come la fiducia e le norme che regolano la convivenza civile viene considerato da Stiglitz come una condizione per l’avvio del processo di sviluppo. Concentrare l’attenzione unicamente sull’inflazione e sugli squilibri macroeconomici, come hanno fatto il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, è non solo insufficiente ma può rallentare invece che promuovere lo sviluppo. Una condizione essenziale per l’avvio e la promozione d’ogni processo di sviluppo è la fiducia. Ed è proprio la fiducia che viene a mancare quando si instaurano processi recessivi. I programmi di sviluppo devono essere predisposti con l’obiettivo non solo di accrescere il reddito, ma anche di ridurre la povertà, di tutelare l’ambiente e di promuovere la democrazia. Nel corso degli anni ’90 si individuano anche nuovi criteri guida per la concessione dei prestiti. Alla “condizionalità economica” e cioè all’impegno ad adottare politiche di riforme strutturali si aggiunge la “condizionalità democratica”. Si individua, cioè, un preciso legame tra sviluppo, democrazia e tutela dei diritti umani. La Banca Mondiale introduce la tutela dei diritti umani, la lotta alla corruzione, l’efficienza e la trasparenza nella pubblica amministrazione come principi 䡵 di good governance. 5) Cfr. STIGLITZ J.E., Il Fondo Monetario. Quegli errori che pesano sull’Argentina, Corriere della Sera, gennaio 2002. Si rimanda pure a STIGLITZ J.E., La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi editore, Torino 2002. ECONOMIA-FINANZA 55 ungiornale PER AMICO Un gruppo di amici, alcuni adulti, altri più giovani, ma tutti animati dallo stesso spirito, mi accompagnano nella mia vita quotidiana, domeniche comprese. L’amico delle domeniche è forse quello al quale sono più affezionato e grato. È l’amico che mi parla di filosofia (uno dei miei amori di gioventù), di sociologia, di arti, di cultura varia e, perché no, di gastronomia. E mentre mi informa dei fatti del sabato, mi presenta la sua collezione di lettere che gli pervengono da altri amici sparsi per l’Italia. A questo amico sono grato per avermi fatto scoprire i libri la cui lettura mi ha arricchito nel corso degli anni, così come in gioventù avevano fatto Silvio Romano, Bordin, Cotta, Passerin d’Entreves e gli altri miei docenti universitari. Ma, dicevo, questo è un gruppo di amici, ciascuno dei quali gioca un suo ruolo, nel gruppo. Il più anziano mi accompagna, vorrei dire da sempre, nella mia vita di lavoro e nella gestione dei miei risparmi e, da qualche tempo, ogni sabato mi dedica una seduta speciale, una seduta-plus, nel corso della quale sviluppa argomenti specifici, oltre ad aiutarmi a rimettere in ordine le notizie dalle quali sono stato bombardato nel corso della settimana. Ed ora ci sono anche gli amici più giovani che mi parlano attraverso l’etere in qualsiasi momento della giornata io decida di collegarmi con loro. Mi danno notizie generali, di economia 56 ECONOMIA-FINANZA e finanza, di benessere, di sport e di helzapoppin. Fuori di metafora, gli amici sono i vari bracci operativi del Gruppo Editoriale Il Sole-24 Ore. Non dimentico del fatto che guadagnai il primo argent de poche a 17 anni lavorando per qualche periodico e per un quotidiano, ho deciso di abbandonare il ruolo di intervistato, al quale mi sono abituato quando la mia carriera nel mondo industriale, in particolare in Brasile, me lo ha imposto, per tornare a giocare quello di intervistatore, almeno per un giorno. Gli amici (persone fisiche in questo caso) del Gruppo Il Sole-24 Ore hanno accettato di riunirsi intorno ad “IL SOLE-24 ORE”: A NEWSPAPER AS A FRIEND There are various reasons that make the recent development stage of “Il Sole-24 Ore” totally significant. In particular, as well as a development of qualitative and quantitative nature, it is the philosophy of the communication that has changed. The paper has converted itself from an organ of information to a training tool for an economic culture that has never been more important. It is now the true critical spirit for a Country that is trying, perhaps with difficulty but always with determination to invent, discover, build and grow. And, seeing the results, there can be no doubts that it is performing this mission particularly well. In Italy daily sales of “Il Sole” are double those of the “Financial Times” in England. Economic information on printed paper remains the principal vocation, but currently the group also manages important radio and TV services, as well as conferences and training courses aimed at business operators. FRANCO BENOFFI GAMBAROVA un tavolo con me e rispondere alle mie domande. Alla guida de Il Sole-24 Ore c’è ora Guido Gentili, direttore dal luglio 2001 che si è trovato subito a navigare in uno scenario difficile (pensiamo al G8 di Genova e all’11 settembre) ma che ha, nello stesso tempo, ridato slancio al giornale con significativi aggiornamenti grafici, con il colore in prima pagina, con nuovi collaboratori e rubriche di approfondimento, oltre che con il lancio del settimanale Plus dedicato, al sabato, alla finanza e risparmio. La direzione è completata da Gianfranco Fabi, vicedirettore vicario, che è un po’ il decano dei giornalisti del Sole, avendo percorso all’interno del giornale tutte le tappe della sua carriera, dal ’79 ad oggi, e da Edoardo De Biasi, chiamato alla vicedirezione del Sole all’inizio del 2002 dopo essere stato responsabile della pagine economiche del Corriere della Sera. Un gruppo affiatato e competente che così delinea le realtà e le prospettive de Il Sole-24 Ore. D. Mi pare di poter dire che la famiglia de Il Sole-24 Ore ha avuto, negli ultimi anni, accanto ad uno sviluppo quantitativo e qualitativo in generale, un ampliamento della sua “mission”: da organo di informazione “tecnica” a organo di formazione, di creatore di una cultura (nel senso in cui Lal usa il termine in Unintended Consequences) e che ha destato il mio entusiasmo, perché sono convinto che sia un fattore chiave della vita sociale, oggi come e più di ieri. R. Il Sole-24 Ore è molto cambiato negli ultimi anni. È cresciuto in diffusione, ora è il terzo quotidiano italiano, è cresciuto, come dicono le indagini di mercato, in autorevolezza e credibilità. Crediamo di essere in fondo una positiva anomalia di un Paese che, forse, avrà anche le “pile scariche”, ma che continua ad avere una grande voglia di inventare, scoprire, costruire, crescere, raggiungere nuovi traguardi e, in fondo, un maggiore benessere. Il Sole vuole interpretare e offrire un appoggio critico a questo Paese. Un appoggio approfondendo e migliorando (è sempre possibile migliorare!) la dimensione del servizio al lettore, dell’offrire una guida aggiornata e tempestiva per muoversi nel labirinto di leggi, adempimenti, dichiarazioni e procedure di cui è “ricca” la vita quotidiana delle persone, delle famiglie e soprattutto delle imprese. Un appoggio anche tentando di decifrare una realtà dinamica, in evoluzione, con gli scenari della globalizzazione e di un’Europa sempre più larga che si affiancano a quelli della grande trasformazione di un Paese che non è più “industriale”, ma non è ancora postindustriale. Il Sole-24 Ore vende ogni giorno in Italia il doppio di quanto venda il Financial Times in Gran Bretagna, in proporzione agli abitanti vende più di quanto venda il Wall Street Journal negli Stati Uniti. Siamo uno dei, purtroppo, pochi primati italiani con il cruccio che è un primato che non si può esportare: siamo vincolati al nostro mercato interno, a questa meravigliosa, ma minoritaria lingua italiana. E sarebbe temerario e pericolosamente presuntuoso pensare di uscire all’esterno, in territori sconosciuti. E in fondo c’è ancora molto spazio per crescere in Italia. D. E, nello svolgere questo ruolo più ampio, Voi siete stati più anglosassoni degli anglosassoni, in quanto avete curato in modo anche graficamente inequivoco la separazione fra informazione obiettiva e commenti, cioè opinioni soggettive dal confronto delle quali il lettore può giungere a formarsi la sua. Voglio dire che Cerretelli informatrice non può mai essere confusa con Cerretelli commentatrice autorevole (eccellente nella sua spietatezza costruttiva). Guido Gentili, direttore de Il Sole-24 Ore. R. Il nostro obiettivo è di raggiungere una doppia autorevolezza: l’autorevolezza delle notizie, cioè il dare informazioni corrette basate sulla realtà e non l’interesse di qualcuno o di qualche gruppo economico, e l’autorevolezza dei commenti che vogliono essere un aiuto a inquadrare i fatti e le opinioni nel più vasto scenario economico e politico. In questo i punti fermi devono restare la libertà dei mercati nella convinzione che il mercato è il lato economico della democrazia, ma anche nella prospettiva di una libertà che, da un punto di vista personale, va coniugata con i valori della solidarietà e che, dal punto di vista dell’organizzazione politica, va inserita in un sistema dinamico di regole di inquadramento e di garanzia. D. Alla carta stampata si sono affiancati TV e radio: di VentiquattroreTV sono spettatore nelle prime ore del mattino ed apprezzo i servizi esau- Guido Gentili, editor of Il Sole-24 Ore. stivi e stringati nonché una rassegna stampa che non ha uguali per accuratezza. Di Radio24 sono innamorato per la varietà dei suoi temi in un contesto che ha delle guidelines molto ben definite. Il modello è ormai “a regime” oppure soggetto ad evoluzioni/rivoluzioni, ora che avete un pubblico altamente fidelizzato? R. La missione aziendale è quella di fornire l’informazione economica con tutti i mezzi che il mercato può richiedere. Il giornale, non solo per tradizione ma anche per una precisa scelta strategica, resta al centro, ma intorno si costruisce una galassia capace di valorizzare, attraverso altre forme, le capacità del gruppo di produrre informazione. Ecco quindi la radio, che si sta affermando tra le emittenti di informazione e che rimane peraltro l’unica nell’informazione per l’intero arco di programmazione. Ecco la televisione che in un mercato difficile e affollato si ECONOMIA-FINANZA 57 della radio, della televisione, dell’agenzia di stampa, dell’on-line, della parte editoriale (nel senso dei libri). Ed a proposito di libri è allo studio anche qualche iniziativa particolare su cui tuttavia è bene mantenere ancora le carte coperte. D. Una ulteriore domanda, davvero l’ultima. Oggi siamo europei oltre che italiani. Non ritenete che si debba pensare a dotare il nostro giornale di una pagina che utilizzi l’esperanto-inglese? Lo ha fatto nel 2000 il Giornale di Lecco al servizio degli stranieri presenti nel territorio ed io ben volentieri collaborai all’iniziativa. Ma in questo caso penso a qualcosa di diverso, cioè ad una pagina o ad una mezza colonna ogni pagina (che complica un po’ la vita) con flashes che sintetizzino il contenuto del giornale o della pagina. Così come per Radio24 penso ad uno dei Tg in inglese, soprattutto d’estate quando l’Italia è piena di turisti. Gianfranco Fabi, vicedirettore vicario de Il Sole-24 ore. Gianfranco Fabi, deputy editor of Il Sole-24 ore. sta comunque imponendo per i programmi di informazione e approfondimento contraddistinti dalla qualità (anche in contrapposizione con l’informazione-spettacolo delle grandi reti pubbliche e private). Ma poi ci sono i settimanali e i quindicinali tecnico-tematici: dalla scuola alla sanità, dai trasporti allo sport. E l’agenzia di stampa Il Sole-24 Ore Radiocor per l’informazione finanziaria on-line. E ancora il sito Internet per l’aggiornamento continuo dei temi del quotidiano. E i convegni e i corsi di formazione per un contatto diretto con professionisti e uomini d’impresa. E tante altre iniziative nell’ottica di dare una risposta alle più diverse esigenze di informazione e di approfondimento. geriale mi entusiasmò perché io sono sempre stato un manager imperfetto che prima decide e poi pensa, nel suo “lavorare positivo”). Avete qualche nuova iniziativa nel cassetto, per esempio quella di proporre qualche libro straniero, ben tradotto? Dico ben tradotto perché ricordo alcuni libri, fra i quali uno di Soros che mi ha richiesto lo sforzo di capire “come” il traduttore aveva sbagliato. D. Last but not least, la parte editoriale che, come sa chi di Voi è stato nel mio ufficio, è ben rappresentata alle mie spalle, con “imperfezione manageriale” addirittura sopra Milton Friedman e Mancur Olson (imperfezione mana- 58 ECONOMIA-FINANZA R. In questo 2003 ci sono molte iniziative. Rafforzare il numero del lunedì, dare più visibilità e spazio alla sezione “Norme e tributi”, migliorare l’informazione regionale di pari passo con il crescere delle competenze decentrate. In prospettiva il 2003 si chiuderà con un passaggio importante: il trasferimento di tutti gli uffici milanesi del gruppo in una nuova sede che si sta realizzando, con un progetto di Renzo Piano, in zona piazzale Lotto, tra la Fiera e San Siro. Sarà questo anche un modo di integrare maggiormente tutti i mezzi e in particolare la redazione del quotidiano con quelli R. Direi di no: siamo in un mercato editoriale certamente ampio e anche in Italia arrivano in migliaia di copie i giornali stranieri. Un’informazione necessariamente piccola su di un giornale in una lingua sconosciuta (come sarebbe il Sole per uno straniero che non conoscesse l’italiano) sarebbe difficilmente una motivazione d’acquisto tale da compensare gli sforzi di marketing necessari per far conoscere l’iniziativa. Questo per il giornale, per la radio il discorso è leggermente diverso e probabilmente più interessante. Ma, ripeto, il giornale ha ancora larghi spazi per crescere in qualità e mercato seguendo la strada maestra di dare notizie e commenti veri e utili, il che non è, purtroppo, per nulla scontato almeno a guardare la stampa italiana. La mia conclusione Il Sole-24 Ore è passato nel giro di vent’anni da 130 a 420 mila copie. Per un giornale che non ha cronaca, sport, spettacoli e varietà è un risultato sicuramente apprezzabile. Ma è anche un risultato che indica il fatto che in questo Paese quando si fa qualcosa in senso professionale, e non per ambizioni di potere, si possono creare vere storie di successo. Forse è proprio questo 䡵 fatto che mi fa sentire fra amici. MA LA BORSA È SEMPRE IL MIGLIORE INVESTIMENTO ? GIANCARLO GALLI Opinionista di Avvenire e saggista economico-finanziario In convalescenza dopo quasi tre anni di “male oscuro”, o ancora sotto tenda a ossigeno e con prognosi incerta? È l’interrogativo che assilla (e spesso angoscia) trecento milioni di risparmiatori sparsi per il mondo: quanti hanno investito i propri soldi in Borsa. Direttamente o attraverso i Fondi d’investimento nella “Vecchia” come nella mitizzata “Nuova” economia. In Italia quasi sei milioni. Pur in presenza di un’epidemia planetaria, è pertanto sulla nostra Piazza Affari che intendiamo focalizzare l’attenzione e l’analisi, partendo dal momento della devastante comparsa del virus del ribasso, la primavera del Duemila, in un organismo che pareva esplodere per salute. Al culmiIS THE STOCK EXCHANGE THE BEST INVESTMENT? The Stock Exchange is an organism with perpetually unstable health; it is capable of enormously unpredictable performances and subject to equally unpredictable viruses which threaten its stability. 300 million investors in the world and almost six million in Italy alone have been affected by its condition. In the spring of 2000, the Stock Exchange was struck by the reduction disease: a devastating epidemic which in two years time reduced the quoted companies’ value by half. Despite the financial scandals of the American companies and the tragedy of the Twin Towers, the Stock Exchange held its own and the global bankruptcy that some had predicted, did not occur. In consideration of these contrasts, it is worthwhile to aim at the Stock Exchange for a valid investment provided that good shares are chosen, avoiding the pursuit of excessive profits. ne del boom, la capitalizzazione delle 297 società quotate aveva raggiunto i 900 miliardi di euro, ed ogni giorno si scambiavano titoli per 4-5 miliardi. Impossibile dimenticare le Aem a 8,71; IntesaBci a 5,52; Generali a 43,2; Fiat a 35; Mediobanca a 14,74; Olivetti a 4,50; Telecom a 20,07. Alla fine del 2002, le 295 società iscritte al listino (quasi sempre le stesse) “valevano” 457 miliardi. Ovvero la metà. Tuttavia, la brutale correzione intervenuta, l’esplosione di scandali finanziari a catena specie in Usa, il default dell’Argentina, resi più acuti dalla tragedia dell’11 settembre (l’attacco terroristico alle Twin Towers di New York) non hanno prodotto quel dissesto planetario, la “bancarotta globale”, che qualcuno era andato, nelle ore più cupe, profetizzando. Semmai fra rabbia e disincanto, il risparmiatore-investitore ha constatato a sue spese (e quali spese!), l’esistenza di un preciso rapporto fra le possibilità di guadagnare molto ed il livello di rischio. Riscoprendo un’eterna, immutabile legge della finanza: la sicurezza è legata ai “giusti rendimenti”, alle reali potenzialità delle imprese. Pericoloso dunque lasciarsi incantare dalle sirene: i manager troppo disinvolti, i raider troppo rampanti e cinici, gli analisti troppo con le mani in pasta. Poiché alla fine ci si brucia. Infatti in ogni Piazza Affari, mentre mai crescerà l’albero degli zecchini d’oro, continuano a circolare i gatti e le volpi di collodiana memoria, lesti a gabbare i Pinocchio di passaggio. Stabilito ciò, ovvero l’incidenza dei fenomeni speculativi, resta da capire il motivo, vero e profondo, dello scatenarsi delle crisi economicofinanziarie. Che esplodono all’improvviso, quali temporali estivi in un cielo apparentemente sereno, senza la possibilità di presagire come e quando la tempesta si placherà. Col ritorno dell’arcobaleno, della speranza, degli investimenti: e del Toro in Borsa, in gergo. Autentico mistero, e rimasto tale, quello dei cicli: ogni “quanti” anni? Punto di partenza la Bibbia, con i sette anni delle “vacche grasse” seguiti dai sette delle “vacche magre”, tanto che Giuseppe è “il primo economista per avere intuito i cicli”, secondo lo storico francese Paul Bairoch. Però il buon Giuseppe viveva in epoca preindustriale; con le sorti del progresso umano dipendenti dalle bizzarrie meteorologiche. In una certa misura più prevedibili. Mutano tempi e scenari. L’industria sopravanza l’agricoltura quale fonte di sviluppo, gli scambi si moltiplicano, compaiono nel Seicento le Borse. Un successo ritmato dai periodici crac: quelli dei Tulipani, delle Compagnie dei Mari del Sud, di John Law, il finanziere scozzese inventore della carta moneta, delle azioni al portatore... E sempre ad interrogarsi: come mai? Si cimentarono nelle analisi economisti del peso di Henry Torton (che nell’Ottocento puntò il dito conECONOMIA-FINANZA 59 tro la finanza “degenerata”), seguito da Joseph Schumpeter con le teorie sui cicli quarantennali, contrastato dal Nobel Simon Kuznet (cicli di 14-22 anni), Clement Jugar (cicli di nove anni). Sbagliarono tutti. Nel senso che le intermittenti crisi ebbero sempre un impatto limitato. Non bastasse, il succedersi delle guerre scompaginava le statistiche e relative proiezioni. Finché comparve lo studioso russo Nikolaj Kondrat’ev che, divenuto consigliere economico di Stalin al Cremlino, anticipò il tracollo di Wall Street dell’ottobre 1929. Non seppe però interpretarlo a fondo, in quanto immaginò la fine del capitalismo. Il dittatore gli prestò fede ma l’anno successivo, vedendo che il capitalismo nonostante tutto resisteva, prima destituì Kondrat’ev da responsabile della congiuntura economica dell’Urss, poi lo spedì in un gulag. Dove scomparve. Il pensiero di Kondrat’ev e Schumpeter continua però ad influenzare il mondo del big-business, della politica. Ho ben presente, in un ristorante di New York (eravamo nel 1996), un breve scambio di vedute con Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve. Sosteneva che il Dow Jones arrivato a “quota 6.500” era follia pura; espresse dubbi sulla New Economy, col Nasdaq che aveva superato “quota 2.000”. Poche settimane dopo, pubblicamente manifestò le sue perplessità sulla “irrazionale esuberanza dei mercati”. I quali mercati gli risposero in controrima portando il Dow a 11.500, il Nasdaq a 5.000. L’avessimo ascoltato! Senonché i grilli parlanti sono raramente accetti. Però, guardiamoci anche in faccia: nonostante il ciclone, il Dow continua a veleggiare fra gli otto ed i novemila punti; il Nasdaq pur avendo perso moltissimo, i due terzi, è ancora vivacissimo, la New Economy non è morta. Anzi, pur in una darwiniana selezione, esattamente come in altre circostanze. A metà dell’Ottocento, con le ferrovie: di un migliaio di società presenti nella City londinese, se ne salvarono una dozzina, che poi fecero faville. All’inizio del Novecento, con le automobili: nelle Borse italiane, le Fiat da cento lire di capitale nominale, salite sino a 1.885 lire (1° luglio 1906), precipitano in agosto a 715. 60 ECONOMIA-FINANZA L’anno successivo le si ritrova a 40 lire. Scandalo, processi. Ma chi ha nell’azienda assoluta fiducia (Giovanni Agnelli, all’epoca semplice segretario nel Consiglio d’amministrazione), anziché vendere, rastrella, vincendo una scommessa che pareva impossibile. Si ripeterà il miracolo? Se il “sistema” ha tutto sommato retto, il merito principale non va ai grandi azionisti, bensì al sangue freddo mostrato dalla massa dei risparmiatori. Sebbene tosati, hanno tenuto botta, nel convincimento che “dopo il brutto tornerà il bello”, come recita un proverbio contadino attribuito al saggio Bertoldo. Rozzo ma lungimirante. Proviamo infatti ad osservare il trend borsistico di Piazza Affari nell’ultimo decennio. La “fase Toro” (rialzo), ha inizio nel 1993, con un robusto +37,4 per cento, e le 259 società quotate che capitalizzano 128 miliardi di euro. Ad un successivo biennio fiacco, segue un balzo del 13 per cento. Poi l’autentico boom: +58,2 nel 1997; +40,7 nel 1998; +22,5 per cento nel 1999. Quel che for- se più conta, una vertiginosa crescita negli scambi, passati da 212 milioni di euro quotidiani (1993), a 3.412 del Duemila. Gli italiani, si può ben dirlo, hanno “scoperto” la Borsa. Da meno di un milione che erano, si moltiplicano per cinque. Trascinati, certo, dagli exploit di Wall Street, ma anche da motivazioni endogene: la prospettiva dell’euro e di un mercato unico europeo; le massicce privatizzazioni che, complici i pilotati ribassi dei tassi d’interesse, inducono ad abbandonare Bot e Cct; la creazione del Nuovo Mercato incentrato sulle società della New Economy; la prospettiva dei Fondi pensionistici privati; i manager che si distribuiscono le stock-option... Soprattutto, la fiducia (esaltata dai media) in una finanza davvero trasparente che fa da leva alla crescita globale. Parecchio di vero in tali affermazioni, ma anche molti equivoci. Giochi stile “tre tavolette”, o peggio. Tuttavia i dati globali sulla Borsa confortano: nonostante gli alti ed i bassi delle quotazioni, “in media” (ovviamente teorica, poiché nessuno dispone di un portafoglio che abbracci l’intero listino) sono prossimi a quelli del 1998, ma triplicati sul 1993. Il che non è poco: a patto, ovviamente, che il risparmiatore investitore abbia privilegiato le “buone azioni” rispetto ai titoli più speculativi, che non si sia indebitato, che conservi il suo giardinetto. In Italia mancano purtroppo precisi studi al riguardo, e c’è da augurarsi che Mediobanca, estendendo l’ottica del suo prezioso annuario Indici e dati, colmi la lacuna. Ma facendo ricorso alla recentissima edizione della francese Insee (Istituto statistico parigino), sul mercato transalpino la cui evoluzione è pressoché identica a quella di Piazza Affari, sono possibili valutazioni e riflessioni. La prima è che partendo dal 1913, vigilia della Prima Guerra mondiale, ai giorni nostri un articolato ed oculato investimento azionario ha moltiplicato di 31 volte il potere d’acquisto reale del capitale. Che un investimento fatto in azioni nel 1951 ha reso addirittura 81 volte il capitale iniziale, di gran lunga superiore sia a quello delle obbligazioni sia degli immobili o dell’oro. Va da sé che i conteggi sono di una complessità estrema, dovendo tenere conto degli oneri indiretti (per gli immobili le spese di manutenzione), del fisco, dei costi di gestione. La conclusione dell’Insee è peraltro categorica: in un arco temporale superiore ai trent’anni, «non v’è dubbio che la Borsa costituisca il miglior investimento possibile». Con però una triplice avvertenza: 1) tenere costantemente sotto controllo il proprio capitale; 2) ridurre al minimo gli investimenti speculativi poiché “qualunque società” può fallire; 3) fare il possibile per entrare in Borsa nei periodi di debolezza, non esitando a vendere nelle stagioni dell’euforia. Consigli in apparenza banali, in realtà preziosi. Concretamente, tuffandoci nel presente: chi avesse messo piede in Piazza Affari un lustro fa, può dormire fra due guanciali o quasi. Non lo stesso dicasi per quanti si sono lasciati incantare dalle successive sirene. Sebbene il carissimo amico Urbano Aletti mai cessi di ricordarmi, con la saggezza che gli deriva da mezzo secolo di tycoon, di ex presidente della Federazione mondiale degli agenti di cambio: «Per le buone azioni, i prezzi ritornano...». Già. Ma occorre si tratti davvero di “buone azioni”. Quali? Vengono allora alla mente gli insegnamenti di un altro maestro, l’indimenticabile, poliedrico (ed un po’ cinico) Aldo Ravelli: «Le buone azioni? Bisogna cercarle col lanternino... Ma ci sono!». Poi: «Non facciamola lunga. In Borsa si guadagna e si perde... Vincono i bravi, perdono i presuntuosi, i “pirla”...». Dopo aver proposto all’Aldone di precisare meglio, lo sentii replicare: «Hai da capire, in Borsa chi riesce a fare sei operazioni buone su dieci è bravo, sette su dieci è un genio. Se ti dicono otto su dieci, l’è minga vera!». Passando a raccontare crolli di fortune memorabili: Virgillito, Sindona e Calvi, l’Anna Bonomi. Non fosse morto anzitempo, chissà chi altri metterebbe nel mazzo. Personalissima confessione, nella speranza non turbi il lettore. Affascinato dalla Borsa sin dalla più tenera infanzia come ho avuto occasione di narrare in qualche mio libro (il nonno paterno finì in braghe di tela con la crisi del ’29, un precettore mi lasciò in eredità qualche titolo), sono in qualche maniera cresciuto a “pane & listino”, ed il mio sogno, da studente in ragioneria al “Carlo Cattaneo” di Milano era d’approdare alle mitiche corbeilles. Prevalse la suggestione del giornalismo, ma il “primo amore” non lo si dimentica. Così, nelle mie peregrinazioni, finisco sempre lì: a Wall Street, alla City... A Barcellona come a Parigi o Francoforte. Evito ormai di far scommesse (avendo pochi soldi) eppur non so sottrarmi alla suggestione: perché nella Borsa aleggia lo spirito del capitalismo, dell’impossibile che si trasforma in probabile, del risparmio che da inetto si trasforma in dinamico. Lì, deprecabile od esaltante, vi è il “nostro” futuro. Quello dell’Occidente. Che sarebbe di noi senza le Borse? Interrogativo per nulla retorico, e me lo mise sul piatto (metaforicamente ma nemmeno troppo: in un lunch a Manhattan) nientemeno che Warren Buffett. Estate 2001, e già Wall Street barcollava. Disse: «Aspetto che il treno deragli, quindi...». Tutto sommato Warren non si discostava nei “princìpi” dall’Aldone Ravelli: «Comperare quando va giù!». Quasi ritmando la cantilena dell’Urbano Aletti: «I prezzi ritornano...». Quali, resta da capire, da interpretare. A meno che la storia economica di tre secoli sia impazzita (ipotesi da non escludere in assoluto sebbene non trovi riscontri), tutto lascia supporre che le Borse “prima o poi” torneranno a ruggire. Quando, impossibile pronosticare. Tuttavia, di fronte ad un treno fermo e sbuffante in Piazza Affari, che sembra destinato a finire su un binario morto, beh!, chi crede nel capitalismo ci pensi. E ripensi. Vi sono occasioni che si presentano raramente, e questa potrebbe essere una di quelle. Di una cosa essendo certo: che la Borsa non muore mai. Che, al pari della mitica fenice, risorge dalle ceneri. Vero o meno, ci credo. Ciascun lettore di queste righe la prenda poi come preferisce; un altro mio mentore, Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, avendomi insegnato: «Che ciascuno vinca o perda seguendo il suo istinto...». Già: in Borsa, mai dimentichiamolo, si vince e si perde. Ma il “partecipare” è probabilmente una delle più alte espressioni della democrazia. Quella finanziaria. La vera ragione per cui, nonostante le sue tare, originarie o acquisite strada facendo, il capitalismo sia, se non “il meglio”, almeno “il meno peggio” nella so䡵 cietà contemporanea. ECONOMIA-FINANZA 61 IL R AT I N G UNA PAGELLA IN ALESSANDRO BOLOGNESI Do you speak english? Parlate inglese? Nel mondo degli affari, come nelle relazioni umane, e oramai anche nelle scuole dell’obbligo, la lingua inglese è diventata una materia fissa, se è vero che già nelle elementari verrà stabilita una lezione per consentire, fin dai primi anni di istruzione delle scolaresche, di dialogare anche nella lingua anglosassone. Sembra che il parlare inglese sia recepito anche fuori del globo terrestre: tempo addietro, in una trasmissione televisiva si era addirittura indicato, in un paradosso, come dei navigatori di altri mondi, avvicinandosi al nostro pianeta, abbiano intuito di essere in prossimità della Terra, proprio dai messaggi radio diffusi nell’universo, messaggi che si esprimevano evidentemente in lingua inglese. In alcuni settori dell’economia i rapporti d’affari, e personali, avvengono addirittura, se non esclusivamente, RATING, A REPORT WITH LIGHTS AND SHADES The term is one of the many that have been transplanted to our language from English, also and especially in the area of economics. It means “examination” and in practice stands for the judgement given on a company or on an industrial or financial group. It is pointless to stress the significance that this assessment can have as a guide for investors. Rating specialists, in fact, carry out a daily check of the development of a company and the sector in which it operates. Even if the role of rating analysis is fundamental in the stock market, it does not mean that it is always infallible. Also because, if this forecasting skill were truly practicable, the analysts would have enormous power in defining the successes and failures of companies and groups. But the errors, even clamorous ones, prove that the margin of imponderability exists and is consistent. 62 ECONOMIA-FINANZA CHIAROSCURO nell’idioma di sua Maestà britannica; o meglio in quello di Wall Street. Senza parlare della new economy, ove sono stati forgiati termini, dei quali non esiste una traduzione letterale in altre lingue: decoder, server, software, hardware, screensaver, ecc. e tutta quella serie di vocaboli intraducibili in termini già noti in altri idiomi. Per quanto riguarda le Borse ed i mercati finanziari l’assimilazione della lingua inglese è continua e costante. Nello scorrere la relazione di fine 2002 dei vertici di Piazza Affari si possono osservare indicazioni come “business system italiano”, ed ancora “government bonds”, per non parlare delle performances nella “exchange industry”, ecc. Un vocabolo che però assume un ruolo sempre più importante nella dialettica societaria e finanziaria è quello del rating che, nel suo termine di dizionario, vuol dire esame; e che pertanto rappresenta un giudizio su di una società, su di un gruppo industriale o finanziario. Esistono società che svolgono professionalmente questo compito: con analisi del settore in cui l’azienda in esame svolge la sua attività, la struttura economica e produttiva inserita nel contesto del settore, le aziende concorrenti, i mercati di sbocco dei prodotti, ecc. Dopo di che emettono un giudizio, un rating che dovrebbe servire da guida per gli investitori. Un giudizio che ora viene utilizzato da una molteplicità di esperti e di analisti, che operano in banche di affari, studi professionali legati alla Borsa, giornalisti economici, ecc. Oramai i listini azionari, ma anche obbligazionari, sono condizionati da questi giudizi, o rating; per il solo mercato del debito, o meglio precisato, delle obbligazioni, un peso determinante hanno avuto i rating sui debiti di alcuni Paesi dell’America latina; ma, di recente, anche su prestiti di aziende italiane in difficoltà, con quotazioni di queste obbligazioni taglieggiate rispetto ai prezzi di emissione e che, in gergo anglosassone, vengono chiamati junke bond (titoli spazzatura). Oggetto, queste emissioni, di strascichi, ricorsi e polemiche anche da parte di associazioni di risparmiatori. Come vengono dati, e come si esprimono, questi giudizi che, d’ora in poi, indicheremo sempre come rating? Le agenzie di rating seguono, giorno per giorno, l’andamento di una società e del settore in cui opera, accentrando l’interesse sui cicli produttivi e sulla commercializzazione dei prodotti (quando si parla, ovviamente, di una azienda che produce beni o servizi). Mi capita spesso di essere presente in incontri tra i vertici di società quotate e gli analisti finanziari,che spesso sono gli estensori di questi rating. Si tratta, quasi sempre, di dibattiti serrati, di richieste anche tecniche circa le prospettive del settore e dell’azienda che vi opera: insomma, di un esame “in profondità”, dal quale scaturisce il giudizio finale; quale? Da buy a sell (cioè l’indicazione di comperare o vendere quel determinato titolo), che passa però attraverso una serie di altri avvertimenti: accumulate, underperform, in line, market perform, overweight, neutral, equal weight, hold, reduce, per finire a sell. Una serie di avvertimenti che vengono tenuti in considerazione dai gestori di patrimoni e dagli operatori di Borsa. Ma non solo, perché que- sti giudizi servono anche per assicurare il collocamento di emissioni obbligazionarie o la concessione di fidi e di prestiti. In questo caso le formule sono del tutto particolari ed il meglio (cioè l’affidabilità del debitore) viene espresso con una serie di AAA, per finire solitamente con la lettera C, ove lo stesso debitore ha poche possibilità di collocare i propri titoli, se non a condizioni svantaggiose; che porterebbero addirittura a tassi doppi, ma anche tripli rispetto ai debitori più af- fidabili, come lo sono oggi gli Stati dell’Unione europea. Vi sono giornate in cui i listini azionari restano sospesi, in attesa del rating su di una importante società, quotata a Wall Street o su altri listini azionari. E sarà questo rating a condizionare il successivo andamento del titolo di quella società, di altre aziende del settore, se non di tutta la Borsa. Esempi a questo riguardo non sono mancati nel recente passato, specie per quanto riguarda aziende del settore della new economy, il cui andamento ha trovato riscontro, prima ancora dei risultati aziendali, nella quotazione di Borsa. Se il rating venisse utilizzato come l’unico “metro” per misurare lo stato di salute di una azienda, ci sarebbe da preoccuparsi; se non altro perché gli estensori del rating avrebbero in mano un potere enorme: quello di stabilire il futuro andamento delle quotazioni di Borsa, ma anche la stessa sopravvivenza della società. Ed al riguardo bisognerebbe arguire che si tratta di giudizi fatti sì da esperti, ma che pur sempre si tratta di individui che possono essere tratti in errore (errare umanum est); se non addirittura giudizi avventati o, peggio ancora, dolosi. La storia recente, se non la cronaca di questi ultimi anni, ci indica come per alcune grosse compagnie americane, Enron, Worldcom, ecc. fino all’ultimo momento siano stati espressi giudizi (rating) di tutta tranquillità, fino allo scoppio del “caso”. Ovviamente non è misurabile il danno arrecato a milioni di azionisti e risparmiatori per l’entità della bolla speculativa che si è prodotta e che ha portato conseguenze a danno non solo dei risparmiatori, ma di intere economie. Circa la non infallibilità dei rating gli esempi sono molteplici, ma l’esame di ciascuno ci induce a considerazioni che non porterebbero giovamento alla società presa in esame dai rating. C’è stato un importante gruppo italiano sul quale, fino ad un anno fa, veniva espresso un rating positivo, con una quotazione più che doppia rispetto ai livelli attuali: l’abbassamento del rating, e del prezzo, viene ora giustificato con la perdita di valore del portafoglio titoli: giusto, i listini di Borsa hanno subìto perdite notevoli, mentre una grossa partecipazione estera è stata svalutata. Però, evidentemente, in questi giudizi non si è tenuto conto della cospicua rivalutazione del patrimonio immobiliare, contabilizzato, anche per motivi fiscali, oltre che di pratica di bilancio, ai valori di carico; e che riguarda le tre compagnie principali del gruppo; rivalutazione che è sotto gli occhi di tutti, anche se, ovviamente, l’intero patrimonio immobiliare non è smobilizzabile in tempi brevi, o medio brevi (ma qualcosa si sta muovendo a questo riguardo), come sarebbe pos䡵 sibile per un portafoglio titoli. ECONOMIA-FINANZA 63 IMPOSTE TRANSAZIONI E CRESCITA ECONOMICA Per onorare e proseguire una lunga tradizione negli studi economici e giuridici, che data dal 1937, la Rivista di Diritto finanziario e Scienza delle finanze organizza una “Lecture” annuale, intitolata a Ezio Vanoni, illustre collaboratore della Rivista. La prima “Lecture Vanoni” si è svolta nell’Università di Pavia il 16 dicembre 2002, con il contributo della Banca Popolare di Sondrio e di Palladio Finanziaria. Ne è stato protagonista il prof. Vito Tanzi, attualmente Sottosegretario di Stato alle Finanze, studioso di chiara fama, ed in precedenza Direttore del Dipartimento di Finanza pubblica del Fondo Monetario Internazionale, Senior Associate del Carnegie Endowment for International Peace e consulente della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite. Silvia Cipollina VITO TANZI 1. Introduzione Per molti anni, con i loro scritti, esperti di imposte hanno contribuito a definire le caratteristiche che il sistema fiscale di un paese dovrebbe avere per facilitare lo sviluppo economico e per raggiungere un alto livello di benessere della popolazione. Il sistema fiscale dovrebbe avere caratteristiche di neutralità, nel senso che non dovrebbe cambiare i prezzi relativi dei beni e dei servizi che la gente compra, prezzi che dovrebbero essere determinati dall’azione del mercato. Un sistema fiscale che spinge i consumatori a comprare più mele e meno arance, perché le arance sono più tassate delle mele, riduce il livello di benessere del pubblico a meno che non ci siano delle ragioni specifiche che giustifichino la tassazione più alta di arance rispetto a quella delle mele. Una ragione specifica per tassare un prodotto con aliquote più alte può essere l’esistenza di esternalità negative. Queste esternalità esistono quando il consumo di un bene crea dei costi per la società, costi che non sono direttamente sostenuti dai consumatori del prodotto. Per esempio, il consumo di sigarette può: a) danneggiare la salute dei non fumatori (fumatori passivi); b) creare incendi; c) far aumentare le spese sanitarie pubbliche. Questi costi non ricadono sul fumatore, ma su altre persone e sulla 64 ECONOMIA-FINANZA società. Il consumo di bevande alcoliche può produrre più incidenti stradali causando danni a persone che non bevono e costi alla società in generale. Il consumo di carburante da parte di automobili e camion può inquinare l’aria e danneggiare le strade creando necessità di spese che devono essere coperte dalla società. In tutti questi casi può essere giustificato tassare un prodotto o un servizio con aliquote più alte, anche se a prima vista questa azione sembrerebbe essere in contrasto con il principio di neutralità impositiva. Le esternalità negative a volte possono essere causate non dal consumo di un prodotto ma dalla sua produzione. In questi casi le imposte penalizzanti dovrebbero essere poste sulle imprese produttrici e non sui consumatori. Il principio di neutralità ha portato a preferire imposte che non cambiano i prezzi relativi dei beni e dei prodotti, come per esempio l’Iva o l’imposta sulle vendite al dettaglio con aliquota unica. L’eccezione, come già menzionata, è la tassazione con aliquote più alte per l’uso o la produzione di prodotti che generano esternalità negative. Un sistema fiscale dovrebbe avere anche caratteristiche di efficienza economica nel senso che non dovrebbe scoraggiare più del necessario persone che intraprendono sforzi o assumono ri- Per determinare l’entità del pagamento delle imposte sul schi superiori alla norma. Per esempio, in un Paese in cui la giornata lavorativa normale è di otto ore una persona che decidesse reddito e per preparare correttamente la dichiarazione di impodi lavorare dieci ore al giorno non dovrebbe essere penalizzata sta, i cittadini di molti paesi hanno spesso bisogno dell’assistensul suo reddito marginale derivante dalle due ore addizionali. Ciò za di specialisti ben remunerati (tributaristi, dottori commerciasuccede quando il reddito marginale è tassato con aliquote più listi). Senza questa assistenza molti contribuenti non sarebbero alte della media. La teoria dell’imposta ottima (optimal taxation capaci di completare la loro dichiarazione dei redditi; oppure imtheory) tasserebbe questo reddito marginale con una aliquota ze- piegherebbero troppo tempo per farlo o lo farebbero con frero. Al contrario i sistemi tributari che esistono nella maggior par- quenti errori. Negli ultimi anni c’è stata una tendenza da parte delle amte dei Paesi penalizzano questo sforzo addizionale attraverso l’uso di imposte progressive sul reddito. Quando lo sforzo marginale ministrazioni tributarie ad assegnare sempre più responsabilità viene così penalizzato, c’è meno impegno, riducendo così il red- ai contribuenti per cui i costi di adempimento per alcune categorie di contribuenti sono aumentati causando non poche difficoltà dito totale della persona e del Paese. Simili considerazioni si possono fare rispetto ad attività che per i contribuenti. Ciò è specialmente vero per le imprese (4). Un contenimento, o meglio una riduzione, di questi costi di comportano rischi. Per esempio se due attività ricevono compensi diversi, perché una è più rischiosa dell’altra, la tassazione non do- gestione e di adempimento dovrebbe essere un obiettivo imporvrebbe ridurre il compenso addizionale per l’attività più rischiosa, tante delle riforme fiscali. Sistemi fiscali che danno eccessiva attenzione alle caratteristiche particolaperché questo porterebbe a scelte meri di singoli contribuenti (imposte fatno rischiose con possibile danno al bete su misura o taylor made) compornessere economico del Paese. tano inevitabilmente costi di gestione Generalmente imposte molto e di adempimento molto più alti di un progressive sui redditi delle persone sistema fiscale che ignora caratteristifisiche inducono le persone a non inche individuali e che si basa su carattraprendere sforzi addizionali o attiteristiche medie o normali. vità più rischiose (1). Le imposte proAltre caratteristiche che si rigressive probabilmente riducono anchiedono ai sistemi fiscali sono quella che la propensione al risparmio dell’equità e, sempre più frequentequando i redditi finanziari fanno parmente nella letteratura moderna, quelte del reddito globale di una persona la della certezza fiscale. e questo reddito è tassato nella sua Ci sono due aspetti di equità fitotalità con imposte progressive. scale che attirano attenzione: equità Questa è una delle ragioni per cui alverticale ed equità orizzontale. cuni Paesi, come l’Italia, non tassano L’equità verticale, che è quella che il reddito totale di una persona, ma spesso riceve più attenzione, richiede tassano i redditi finanziari differenteche i contribuenti più ricchi paghino mente dai redditi derivanti da attività imposte che in proporzione ai loro normali (2). Un’altra e più recente raredditi siano più alte che per i contrigione per questa differenziazione è buenti meno ricchi (5). La Costituzioche i risparmi possono emigrare verne italiana richiede espressamente so paradisi fiscali, evadendo così le questa caratteristica, ma non specifica imposte nel Paese di origine del conil grado di progressività. Il grado di tribuente. Quest’ultima è una delle raprogressività desiderabile è fonte di gioni per cui la Delega fiscale presengrandi controversie anche perché, cotata al Parlamento nel 2002 dal Go- Lo statista valtellinese Ezio Vanoni. verno Berlusconi ha proposto un’ali- Ezio Vanoni, the statesman from Valtellina. quota del 12,5 per cento per i redditi 1) Per queste ragioni dopo la rivoluzione introdotta dall’economia finanziari, aliquota che è molto più bassa di quelle sui redditi da dell’offerta (supply-side economics) le imposte sui redditi sono diventate lavoro. meno progressive. Le imposte devono essere caratterizzate da bassi costi di ge- 2) Vari autori (Mill, Einaudi, Kaldor) hanno sostenuto che il reddito ristione (administrative costs), per le autorità tributarie, e da bassi sparmiato non dovrebbe essere tassato. Per l’analisi più dettagliata di questi costi si veda il Capitolo 7 di costi di adempimento (compliance costs) per i contribuenti. I co- 3) C., Why Tax Systems Differ, London, Fiscal Publications, 2000 e sti di gestione dovrebbero costituire una piccola proporzione del SSANDFORD ANDFORD C., Administrative and Compliance Cost of Taxation, London, Fiscal gettito fiscale che il governo riceve. Negli Stati Uniti, ad esempio, Publications, 2000. Per una discussione di questi costi per l’Italia si veda: i costi di gestione sono al di sotto dell’uno per cento del gettito Allegato n. 11 “Costo di Gestione dei Tributi” in CNEL, Ipotesi di riordinatotale. In altri Paesi, per varie ragioni, questi costi sono spesso mento dell’attuale apparato normativo in materia fiscale, Allegati, Roma, 1994. 4) Per esempio il sistema di trattenuta alla fonte e il dovere di fornire molto più alti. Mentre i costi di gestione hanno ricevuto attenzione nella alle amministrazioni fiscali varie informazioni su redditi pagati come per i redditi finanziari, hanno aumentato i costi di adempimento per le imprese letteratura tributaria, i costi di adempimento ne hanno ricevuto ma possono aver ridotto questi costi per le persone fisiche. molto meno (3). Questi costi sono stati spesso ignorati da tribu- 5) Bisogna ricordare che l’idea che le imposte sul reddito devono estaristi e da economisti che si occupano di imposte. Ma l’eviden- sere progressive non è universalmente accettata. Per esempio Antonio de za indica che questi costi possono essere molto alti anche se la Viti de Marco e James Buchanan hanno espresso scetticismo a riguardo loro quantificazione è difficile. Per esempio in alcuni Paesi, il pa- delle imposte progressive sul reddito. De Viti de Marco menzionava che gamento delle imposte fondiarie o di registro richiede la presen- persino la Rivoluzione francese, con tutto il suo radicalismo, aveva legiferato un sistema di tassazione proporzionale. Si veda DE VITI DE MARCO A., za fisica del contribuente e la necessità di stare in fila per ore. In First Principles of Public Finance, London, Jonathan Cape, 1936, p. 184. Ma alcuni casi ed in alcuni periodi (Brasile) questo costo diventò tal- uno dei massimi esponenti di quella rivoluzione, Maximilien Robespierre mente alto da provocare delle dimostrazioni, occasionalmente era chiaramente a favore di imposte progressive. Vedi, ROBESPIERRE M., La Rivoluzione Giacobina, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992, p. 115. anche violente, da parte dei contribuenti. ECONOMIA-FINANZA 65 me già detto, più progressive sono le imposte, più disincentivi creano. C’e quindi un inevitabile trade-off tra giustizia sociale ed efficienza economica. Il grado di progressività è stato uno dei temi che hanno ricevuto più attenzione nella discussione della Delega fiscale in Italia (6). L’equità orizzontale richiede che due contribuenti con uguale reddito paghino le stesse imposte. Diventa difficile soddisfare questo obiettivo quando il sistema fiscale riconosce molte circostanze che possono giustificare un trattamento speciale per vari gruppi o varie persone. È anche difficile soddisfare il criterio di equità orizzontale quando le possibilità di evasione sono differenziate tra i gruppi di contribuenti (per esempio tra lavoratori dipendenti e autonomi). Ciò ha giustificato in alcuni Paesi aliquote o deduzioni diverse per differenti tipi di reddito (7). La certezza fiscale è considerata un elemento fondamentale da molta letteratura recente e specialmente dalla letteratura teorica che assume il concetto di razionalità da parte degli agenti economici. Nelle economie moderne molte imprese, ma anche molte persone, hanno bisogno di prendere delle decisioni su spese o investimenti che determineranno i loro redditi per molti anni futuri. Nei loro calcoli hanno quindi bisogno di assumere quale sarà il trattamento fiscale dei loro redditi futuri. Questa previsione è necessaria per poter fare delle anticipazioni sulla redditività futura degli investimenti, compresi, per le persone fisiche, gli investimenti in istruzione. Se il sistema fiscale cambia spesso, creando incertezza permanente e possibilità di politiche fiscali caratterizzate da inconsistenza intertemporanea (time inconsistency), come è spesso successo in Italia, è probabile che si faranno meno investimenti e si prenderanno meno decisioni che nel tempo avrebbero potuto far crescere l’economia (8). In questo saggio l’attenzione viene rivolta ad una caratteristica del sistema fiscale che, secondo l’autore, non ha ricevuto l’attenzione che merita; cioè il ruolo che possono avere le imposte nell’ostacolare le transazioni. La tesi principale è che se le imposte ostacolano le transazioni o gli scambi tra agenti economici, esse ostacoleranno anche la crescita economica del Paese. Conseguentemente imposte che sono dirette specificamente a transazioni e specialmente ad alcuni tipi di transazioni, che sono particolarmente importanti per la crescita economica, dovrebbero essere eliminate. Ovviamente, molte imposte hanno come fatto imponibile una qualche transazione. Per questa ragione è necessario identificare i tipi di transazione che si ritengono particolarmente desiderabili altrimenti si rischia di eliminare la gran parte delle imposte. In conclusione, un sistema fiscale di buona qualità dovrebbe ostacolare il meno possibile gli scambi o le transazioni tra coloro che operano nell’economia. 2. Transazioni e crescita economica La letteratura sulla crescita economica è relativamente recente, essendo per la gran parte un prodotto degli ultimi 50 anni. Prima della Seconda Guerra mondiale pochissimi economisti si erano occupati della crescita. Infatti gli unici economisti importanti di quel periodo che avevano un modello, anche se implicito, di crescita economica erano Adam Smith e specialmente Joseph Alois Schumpeter (9). I primi modelli di crescita economica che apparvero dopo la Seconda Guerra mondiale davano particolare importanza al fattore capitale e quindi agli investimenti. Non importava se gli investimenti fossero pubblici o privati. L’idea principale era che gli investimenti generano l’accumulazione di capitale; e più capitale c’è in una economia, più produzione ci sarà. Un Governo che aumentava la pressione fiscale, senza aumentare la spesa pubblica corrente, poteva aumentare gli investimenti pubblici e così poteva far crescere l’economia. Questo spiega perché negli anni 1950 e 1960 c’era molto interesse sulla possibilità di aumentare la pressione fiscale e molta letteratura sui fattori che la determinavano. 66 ECONOMIA-FINANZA Il ministro professor Giulio Tremonti. Queste teorie della crescita economica erano legate ai nomi di Harrod, Domar, Rostow ed altri importanti economisti di quel periodo. Col passare del tempo l’importanza del capitale fisico nella crescita economica fu molto ridimensionata dagli economisti perché ci si rese conto che spesso l’aumento degli investimenti e del capitale non produceva l’effetto sperato sulla crescita. Si cominciò a dare più peso al “capitale umano” che, nella letteratura economica, diventò il fattore determinante della crescita. Questo ripensamento cominciò con Simon Kuznets e Robert Solow. In questo periodo si credeva che il capitale umano si poteva aumentare principalmente aumentando la spesa per l’istruzione e quella per la ricerca e lo sviluppo. Negli anni più recenti l’idea centrale del classico libro di Schumpeter sulla “Teoria dello Sviluppo Economico” – che metteva al centro dello sviluppo economico l’uso piuttosto che la quantità dei fattori di produzione (capitale e lavoro) e quindi implicitamente sottolineava l’importanza degli scambi tra agenti economici – ha acquistato una posizione fondamentale, sebbene non esplicitamente riconosciuta, nella “New Growth Theory” o “Nuova Teoria della Crescita” che ora domina la letteratura economica sulla crescita. Il libro di Schumpeter è straordinario perché fu scritto quasi un secolo fa. Rimane uno dei libri più importanti nella letteratura sulla crescita economica. Vale la pena citare uno dei suoi passaggi più rilevanti per il presente saggio: Il lento e continuo aumento nel tempo nell’offerta dei fattori nazionali di produzione e dei risparmi è ovviamen- È chiaro che per poter usare in modo diverso le risorse esistenti non ci devono essere ostacoli al loro nuovo uso da parte di coloro che sono in grado di usarle efficientemente. Nel mondo moderno nuove idee con potenziale valore economico appaiono continuamente. Alcune vengono dall’estero; altre hanno origine domestica. Alcune vengono dai laboratori scientifici delle grandi imprese; altre dalle università o dalle attività dilettantistiche di inventori di fine settimana che spesso usano i loro garage come piccoli laboratori di ricerca. Per alcune idee è possibile ottenere un brevetto. Per molte non è possibile. Alcune delle idee tendono a ridurre i costi di produzione di ciò che già si produce. Altre creano nuovi prodotti o spesso nuove versioni di prodotti che già esistono. Alcune si riferiscono principalmente ad aspetti organizzativi. Ma l’uso di queste idee richiede o la creazione di nuove imprese o qualche riorganizzazione delle attività o dei centri di produzione già esistenti. Queste nuove creazioni o riorganizzazioni spesso richiedono autorizzazioni da parte di enti pubblici e la ricombinazione di fattori di produzione cioè di lavoratori, capannoni, macchinari, terreni e fabbricati, e capitale finanziario. Lavoratori, terreni, fabbricati, macchinari devono cambiare uso e la scadenza del capitale finanziario ottenuto in credito deve anche cambiare. Se un Paese impedisce o ostacola queste ricombinazioni perché: a) è difficile, o richiede troppo tempo, ottenere nuove autorizzazioni o nuovi permessi dagli enti pubblici; b) un mercato del lavoro rigido non permette il facile spostamento di lavoratori da attività in declino ad attività nuove; c) il mercato finanziario non ha la flessibilità necessaria nel finanziare attività nuove ed a più alto rischio o che possono richiedere un lungo periodo di gestione prima di diventare redditizie; d) il sistema fiscale impedisce o rende costosa la ricombinazione; e) il sistema giudiziario è incapace di proteggere i diritti di proprietà o nel garantire la santità dei contratti, allora la disponibilità di nuove idee non risulterà in attività economiche che faranno crescere il Paese. Specialmente quando la produzione di nuove idee aumenta, come per esempio è succes- so negli anni Novanta quando nuove tecnologie sono diventate disponibili, gli ostacoli menzionati diventano più importanti. In queste fasi i Paesi con meno ostacoli cresceranno di più. Secondo la “Nuova Teoria della Crescita”, le economie dei Paesi si sviluppano specialmente quando il capitale intangibile -costituito da nuove idee, nuove tecnologie, nuovi modi di organizzare i processi di produzione, nuovi modi di canalizzare i risparmi verso attività produttive, nuovi modi di usare le risorse lavorative disponibili e così via, -- aumenta. La Nuova Teoria della Crescita rimuove dal centro del fenomeno della crescita economica l’aumento di fattori reali (capitale e lavoro) e lo sostituisce almeno in parte con l’aumento di fattori intangibili (10). La Nuova Teoria della Crescita dà implicitamente molta importanza alla facilità, da parte di coloro che operano nell’economia, di poter combinare in modi diversi tutte le risorse disponibili sia tangibili sia intangibili e quindi, implicitamente, alla facilità di scambio ed alla quantità di transazioni. Se ostacoli di varia natura, inclusi ostacoli fiscali o burocratici, non permettono la ricombinazione a basso costo di questi fattori in modo diverso dal passato, la crescita economica ne soffrirà. In questo contesto ogni ostacolo burocratico, amministrativo o fiscale può diventare importante nel ridurre la crescita. In questo paper l’attenzione è sugli ostacoli fiscali ma ovviamente altri ostacoli (mercato del lavoro rigido, burocrazia intrusiva, ecc.) sono ugualmente importanti o possono anche essere più importanti. Una differenza fondamentale tra le società del passato e quelle moderne è il numero di transazioni o, se si vuole, di contratti impliciti o espliciti che hanno luogo. Mentre nelle economie del passato (e non solo in quelle di sussistenza) c’erano poche transazioni tra i cittadini, perché c’era poca specializzazione e molte attività di sussistenza, nelle economie moderne il livello di specializzazione è molto più alto e le transazioni tra i partecipanti di queste economie molto più frequenti (11). Per apprezzare pienamente il ruolo delle transazioni in una economia moderna conviene partire dalla posizione di un individuo che vive solo e senza possibilità di contatti con altri individui. È in altre parole la situazione in cui si trovava Robinson Crusoe, il famoso marinaio inglese che naufragò in un’isola deserta. Dopo il naufragio, il suo tenore di vita, cioè il suo reddito, dipendeva dalle risorse naturali nell’ambiente in cui viveva (frutti degli alberi, pesci nel mare, animali commestibili della foresta), dalla tecnologia a sua immediata disposizione (coltelli, ecc.), dalla sua abilità, e dallo sforzo che era disposto a sostenere, misurato da numero di ore lavorative e dalla intensità dello sforzo. Per Robinson Crusoe non c’era vantaggio nella specializzazione perché non c’era possibilità di scambi. Se raccoglieva più frutta di quanto voleva consumare, non poteva scambiarla con pesci pescati da un’altra persona. Il fatto di non potersi specializzare implicava che 6) Si veda per esempio, BALDINI M., La riforma dell’imposta sul reddito: aspetti di equità e di efficienza, in Politica Economica, 3/2002, pp. 303-340. 7) Ancora una volta si può ricordare la posizione di Antonio de Viti de Marco che giustificava le aliquote differenziate sui redditi provenienti da fonti diverse in base alle differenti possibilità di evasione. Gli aspetti connessi all’equità orizzontale sono stati analizzati in molte pubblicazioni da Peter Lambert, un economista inglese. Si veda anche, PATRIZI V., Equità verticale e orizzontale: I problemi dell’Irpef, in I Centogiorni e Oltre: verso una rifondazione del Rapporto Fisco-Economia, a cura di LONGOBARDI E., De Agostini professionale, 2002, pp. 363-380. 8) Questo aspetto è legato alla letteratura su “optimal value of waiting” specialmente discussa da Avinash Dixit. Si veda DIXIT A., Investiment and Hysteresis, in Journal of Economic Perspectives, Vol. 6, Number 1, pp. 107132. La sostanza di questa teoria è che quando c’è incertezza può essere più conveniente aspettare prima di fare un investimento. Può essere più costoso investire troppo presto che con ritardo. Ci sono casi di inconsistenza intertemporale quando per esempio un investimento viene fatto in base ad un incentivo fiscale esistente ma, dopo aver incoraggiato l’investimento, l’incentivo viene eliminato per aumentare il gettito. 9) SMITH A., An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776; SCHUMPETER J. A., The Theory of Economic Development, New York, Oxford University Press, 1961. La prima versione del libro di Schumpeter risale all’inizio del secolo passato. 10) Per questa ragione le istituzioni di un Paese che ne rappresentano l’infrastruttura sociale diventano estremamente importanti e per questa ragione stanno ricevendo sempre più attenzione nella letteratura economica. Buone istituzioni permettono e facilitano la ricombinazione dei vari fattori e risorse che producono l’aumento del prodotto interno lordo. Queste istituzioni assicurano altri che i guadagni andranno a coloro che sono stati all’origine di questi cambiamenti. Una eccellente introduzione alla teoria moderna della crescita è: JONES C. I., Introduction to Economic Growth, second edition, New York e Londra, W.W. Nortond Company, 2002. 11) Si ricordi che nel mondo di oggi più di 1.000 miliardi di euro al giorno sono scambiati da una moneta all’altra. Le transazioni che hanno luogo nelle Borse sono anche enormi. Ostacoli a queste transazioni diminuiscono la capitalizzazione delle Borse. Naturalmente alcune di queste transazioni possono essere di tipo speculativo e possono così contribuire meno o niente affatto alla crescita. te un fattore importante nella spiegazione della storia economica attraverso i secoli, ma è di gran lunga meno importante del fatto che lo sviluppo economico consiste principalmente nell’impiegare le risorse esistenti in modi diversi, nel fare nuove cose con queste risorse, non importa se queste risorse aumentano o no. JOSEPH A. SCHUMPETER, The Theory of Economic Development, Oxford University Press, 1961, p. 68. Traduzione dell’autore. ECONOMIA-FINANZA 67 la sua produttività rimaneva bassa ed il suo tenore di vita non poteva migliorare. Supponiamo ora che un giorno Robinson Crusoe scopra un altro individuo nell’isola, forse un altro naufrago. Questa scoperta apre la possibilità di scambio tra i due e quindi la possibilità di specializzazione. Magari Robinson Crusoe è più bravo a pescare, mentre l’altro è più bravo a raccogliere frutta. La specializzazione nell’attività in cui ciascuno ha un vantaggio comparato può aumentare la produttività e attraverso gli scambi ambedue possono aumentare il loro tenore di vita. Allo stesso tempo ognuno dei due può usare le idee dell’altro e così, possibilmente, aumentare la propria capacità produttiva. Una economia moderna è caratterizzata da milioni di individui e di imprese ciascuno specializzato in qualche particolare attività e ciascuno potenzialmente capace di produrre nuove idee. Questi individui ed imprese operano in diverse regioni e in diversi Paesi. Il mercato nazionale che è sempre più globalizzato porta le loro attività in contatto e garantisce che le loro azioni sono dirette in qualche modo alla massimizzazione del bene comune. In questo contesto il famoso esempio di Adam Smith, della produzione di spille, acquista significato ed importanza. Una persona (o una impresa) che si specializza diventa più efficiente nel produrre ciò che produce. Ma, naturalmente, si presenta la necessità di scambiare l’eccesso di ciò che produce (oltre a ciò che si può usare direttamente) con beni utili, ma prodotti da altre persone o altre imprese. Anche i Paesi si possono specializzare in alcuni prodotti, come è il caso della Finlandia con i telefonini o della Corea e la Malesia con componenti di prodotti elettronici. Quando, seguendo il principio del vantaggio comparato, un Paese si specializza, il Paese ha bisogno di esportare, importando da altri Paesi prodotti nella produzione dei quali esso stesso è meno efficiente. Molta letteratura ha criticato gli ostacoli fiscali alle importazioni ed alle esportazioni, cioè agli scambi tra Paesi, e durante gli anni recenti nella gran parte dei Paesi le imposte alle importazioni sono state molto ridotte, mentre quelle alle esportazioni sono quasi scomparse. Ci si è resi conto che queste imposte producono molte distorsioni ed inefficienze e riducono il benessere economico. Naturalmente il commercio mondiale è ancora lontano dall’essere completamente libero da ostacoli, inclusi quelli di carattere fiscale. Imposte sulle importazioni continuano ad esistere ed a creare situazioni in cui alcuni beni vengono prodotti domesticamente da produttori meno efficienti ed a costi molti alti, mentre questi beni potrebbero essere comprati a prezzi più bassi da produttori stranieri. Queste imposte penalizzano i consumatori domestici e dirigono le scarse risorse di un Paese verso attività meno produttive ma protette. Al contrario le imposte sulle esportazioni penalizzano la produzione domestica, mentre incentivano il consumo domestico del prodotto la cui esportazione è tassata. Queste imposte riducono l’esportazione. Nel passato sia le imposte alle importazioni sia quelle alle esportazioni erano molto comuni e contribuivano in proporzioni TAXES, TRANSACTIONS AND ECONOMIC GROWTH There are several criteria for giving value to taxes in the economic dynamic. Managed according to various scenarios, they can increase or depress the development level of society. In general, if taxes impede the transactions or exchanges between brokers, they also automatically block the economic growth of the Country. A good quality economic system should therefore constrain these economic relationships as little as possible. The first economic growth models appeared after the Second World War. In this context, specialist literature has often criticised the fiscal obstacles facing imports and exports, namely exchanges between various Countries. We have become aware that they create distortions and inefficiency and reduce economic well-being. In Italy it would be advisable to increasingly modify the taxes on transactions still in force, such as registration dues and stamp duty. 68 ECONOMIA-FINANZA importanti al gettito fiscale di molti Paesi. Per esempio nel XIX secolo il Governo degli Stati Uniti riceveva quasi il 50 per cento del suo gettito fiscale da imposte sulle importazioni, mentre nel XX secolo l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, la Costa d’Avorio ed altri Paesi hanno tassato con aliquote alte (e ricevuto gettito importante da) alcune delle loro esportazioni (carne, caffè, cacao). In una economia di mercato il sistema dei prezzi è fondamentale per l’esistenza di un mercato efficiente. I prezzi determinano ciò che gli agenti economici dovranno pagare per comprare un bene o che riceveranno dalla vendita di un bene. In un mercato efficiente, caratterizzato da mancanza di monopoli e da completa trasparenza, e quindi dalla disponibilità della stessa informazione per chi compra e chi vende, le transazioni tra i partecipanti, eseguite a prezzi di mercato, portano ad un equilibrio che (se alcune circostanze sono soddisfatte) è, nel gergo degli economisti, Pareto-efficiente. Cioè, non è possibile migliorare la situazione di alcuni agenti senza peggiorare quella di altri. Nell’economia di mercato descritta sopra, se non ci sono ostacoli alle transazioni e non ci sono problemi di informazione asimmetrica (come per esempio nel caso in cui chi vende o chi compra ha più informazione sulla qualità del prodotto dell’altra parte), ogni persona che volontariamente partecipa delle transazioni migliora la propria situazione. Se vendo X per comprare Y, vuol dire che Y ha più valore per me di X. Se ciò non fosse vero, lo scambio non avverrebbe. Quindi, o nelle vesti di consumatori o in quelle di produttori, i partecipanti alle attività di mercato (come compratori o venditori) sono continuamente alla ricerca dei vantaggi che si possono ottenere attraverso lo scambio di ciò che si ha per ciò che si desidera. Questi scambi sono o informali (come l’acquisto di un cappuccino) o formali (come l’acquisto di un’ automobile o di una casa). Tutti comunque implicano dei contratti, alcuni impliciti altri espliciti (12). Si può affermare che, se gli scambi migliorano le condizioni di benessere di coloro che vi partecipano come consumatori, o migliorano la produttività di altri, che partecipano come produttori e che attraverso gli scambi possono trasformare nuove idee in possibilità con conseguenze economiche, più scambi ci sono, più alto sarà, ceteris paribus, il benessere economico di un Paese. La ricerca continua di migliori combinazioni, incentivata da innovazioni di carattere manageriale, tecnologiche, stilistiche o finanziarie, porterà alla crescita economica. Nei Paesi dell’Est, prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica, a causa della pianificazione economica e del ruolo limitato dei prezzi di mercato, c’erano pochi scambi e poco benessere economico. Nei Paesi ricchi ci sono molte transazioni e più benessere. La nostra tesi è che le transazioni contribuiscono in misura consistente alla crescita economica di un Paese. Nella nostra discussione ignoreremo situazioni o condizioni che possono a volte invalidare le conclusioni sopra raggiunte. Alcune di queste condizioni, e specialmente quelle che trattano il problema di informazione asimmetrica, sono state discusse nella letteratura economica ed alcuni economisti (Akerlof, Stiglitz, Spence) hanno ricevuto il premio Nobel in economia per aver contribuito a questa letteratura. In alcuni settori dell’economia di mercato, come per esempio nella vendita di automobili usate, o in alcuni aspetti dei mercati finanziari o dei mercati di capitale o di assicurazioni, l’esistenza di “informazione asimmetrica” (cioè quando un lato della transazione ha migliore informazione su ciò che si sta scambiando dell’altro lato) può portare a situazioni in cui una transazione non migliora il benessere di tutti e due i partecipanti. In alcuni casi una transazione non è spontanea ma forzata per cui il risultato è non ottimale per alcuni partecipanti (13). A queste eccezioni si potrebbero aggiungere anche quelle che coinvolgono transazioni di carattere puramente speculativo. Infatti, circa 20 anni fa, queste transazioni avevano spinto James Tobin Nella foto, da sinistra a destra: il professor Adalberto Majocchi, il professor Roberto Schmid, Magnifico Rettore dell’Università di Pavia, il professor Vito Tanzi e il professor Emilio Gerelli. In the photo, from left to right: Professor Adalberto Majocchi, Professor Roberto Schmid, Magnificent Rector of the University of Pavia, Professor Vito Taniz and Professor Emilio Gerelli. a proporre un’imposta, la ormai famosa Tobin Tax, che si pone l’obiettivo di ridurre queste transazioni (14). Questi aspetti possono essere importanti in alcuni settori o in alcune situazioni, ma restano eccezioni che non invalidano la conclusione generale che la gran parte delle transazioni migliora il benessere economico dei partecipanti e fa crescere l’economia. Se i partecipanti sono razionali, hanno piena informazione e hanno la libertà di azione avranno sempre la scelta di non partecipare ad una transazione. Come già detto il sistema dei prezzi dipende dalle transazioni. Ma le transazioni non sono senza costo. In alcuni casi, le transazioni richiedono informazione e ottenere informazione può essere costoso. Per questo un’economia di mercato ha anche bisogno di regole che assicurino la più grande trasparenza possibile e che in vari casi riducano o eliminino, per i partecipanti, la necessità di ottenere informazioni (15). Nella prossima sezione la nostra attenzione sarà diretta ad ostacoli creati dal governo, e specialmente a quelli relativi ad imposte che colpiscono le transazioni. Ostacoli burocratici o che derivano da regolamenti particolari, inclusi quelli creati dai sindacati sul mercato del lavoro, non sono discussi, sebbene questi ostacoli siano spesso molto importanti. che hanno bisogno di meno lavoratori, o di lavoratori con specializzazioni diverse, devono poter adattare, senza ostacoli, la loro forza lavorativa alle nuove necessità. Terreni, fabbricati, capannoni, e risorse finanziarie vincolate in alcuni usi devono potersi svincolare da attività in declino ed essere canalizzati verso altri usi in cui si possono anticipare rendimenti più elevati, e devono poterlo fare senza costi eccessivi. La crescita economica richiede la ricerca continua di questi rendimenti più alti e la riorganizzazione frequente dei fattori di produzione. Sarebbe ideale se tutto questo potesse accadere senza frizioni e senza ostacoli. Ovviamente, questo non è possibile perché ci sono spesso ostacoli naturali o artificiali che impediscono queste riorganizzazioni. Per esempio, piani regolatori spesso impediscono cambi nell’uso dei terreni. L’evidenza indica che questi ostacoli sono molto più rigidi in alcuni Paesi rispetto ad altri. I Paesi dove questi ostacoli sono meno rigidi, come gli Stati Uniti, generalmente crescono più rapidamente (16). In questa sezione discuteremo principalmente di ostacoli di natura fiscale. 3. Imposte e transazioni Nella sezione precedente si è sostenuto che le transazioni sono l’olio che lubrifica l’economia di un Paese e che le permette di svilupparsi e di crescere. Quando le transazioni non crescono, generalmente la crescita si ferma. Questa era la situazione nel periodo prima della rivoluzione industriale. Come già detto, la crescita economica richiede riorganizzazioni continue ed usi diversi dei fattori di produzione per sfruttare nuove idee e nuove tecnologie. È così che le innovazioni ed i nuovi processi di produzione vengono introdotti nel sistema produttivo. Se queste riorganizzazioni e cambi di uso sono ostacolati da impedimenti burocratici o fiscali ci sarà sabbia nel meccanismo e la crescita economica sarà meno rapida. Lavoratori impegnati in attività che sono divenute meno produttive e meno competitive devono potersi trasferire senza troppi ostacoli nelle nuove attività. Imprese 12) Nella teoria economica vi è stato molto sviluppo negli ultimi anni sulla “teoria dei contratti”. 13) Come può succedere quando organizzazioni mafiose forzano una persona a vendere una proprietà od un’impresa ad un prezzo chiaramente al di sotto del prezzo di mercato. 14) Per una discussione di questa imposta si veda CIPOLLINA S., Profilo della De-Tax, nella Rivista di Diritto finanziario e Scienza delle finanze, 2002, I, 2, pp. 244-267. 15) Per esempio regole sulla contabilità delle imprese che costringono le imprese a dare informazioni corrette sui profitti sono necessarie se l’acquisto di azioni di quelle imprese non produrrà risultati negativi per gli investitori. Il caso Enron è chiaramente rilevante e molti attribuiscono la caduta del valore delle Borse negli ultimi mesi al fatto che molti investitori hanno ora meno fiducia nell’informazione data dalle imprese. Anche regole che richiedono la certificazione per praticare alcune attività (per esempio nel campo medico) riducono o eliminano, per chi compra servizi da queste attività, la necessità di informarsi. 16) Molti rapporti preparati da centri di ricerca o da organismi internazionali indicano che questi ostacoli sono più grandi in Italia che in molti altri Paesi industrializzati. ECONOMIA-FINANZA 69 Nelle pagine precedenti sono state presentate varie considerazioni che portano alla conclusione che i governi dovrebbero fare il possibile per non ostacolare transazioni volontarie e legittime tra coloro che operano nel mercato. Il governo dovrebbe facilitare queste transazioni attraverso regole sulla trasparenza e attraverso attività di certificazione quando le transazioni coinvolgono l’acquisto di servizi che richiedono abilità o addestramento particolari (medici, farmacisti, piloti, avvocati, ecc). Naturalmente ci sono situazioni in cui, per varie e valide ragioni, il governo vorrebbe impedire che alcune transazioni abbiano luogo. Ciò sicuramente riguarda le attività che comportano crimini. Scambi che coinvolgono sostanze pericolose (droghe, armi, ecc.) devono essere proibite. Altre attività che non comportano crimini, ma che sono considerate dannose all’economia o all’ambiente possono non essere proibite ma intenzionalmente scoraggiate. Questo potrebbe accadere per attività di carattere fondamentalmente speculative (17). Infatti, come già detto, la Tobin Tax è stata giustificata e difesa dai suoi sostenitori in parte perché, presumibilmente, scoraggerebbe o rallenterebbe movimenti da Paese a Paese di capitali di carattere speculativo. Ritornando ora alle transazioni legittime, in un sistema fiscale efficiente si dovrebbe fare il possibile per non ostacolare queste transazioni. Bisogna riconoscere che, se si interpreta il significato di transazione in un modo ampio, molte imposte colpiscono qualche transazione. Sicuramente questo è il caso delle imposte sulle vendite che richiedono un contratto, esplicito o implicito, ed uno scambio di denaro per ottenere un oggetto o un servizio. Lo stesso si può dire per le imposte sul reddito che si basano su uno scambio tra l’uso del tempo a disposizione di un lavoratore contro un salario. In linea di principio una persona rinuncia al tempo a disposizione (leisure time) per avere accesso a dei beni e servizi necessari per la sua esistenza o per il suo benessere. Quindi in sostanza scambia prima il tempo libero per un salario e poi il salario per dei beni. Imposte con aliquote alte sul reddito guadagnato possono indurre un lavoratore a lavorare meno (18), o un’imposta con aliquota alta sul consumo può indurre un consumatore a risparmiare di più. In generale si può affermare che imposte con aliquote “non eccessive” (19) e proporzionali sul reddito non causano reazioni significative da parte dei lavoratori. Imposte “non eccessive” con aliquota unica sul consumo (come nel caso dell’Iva ad aliquota unica) non causano reazioni significative da parte dei consumatori. Un sistema fiscale basato principalmente su imposte sul reddito con aliquote proporzionali o anche con moderata progressività (20) e su imposte sulle vendite o sul consumo con aliquota unica, soddisferebbe fondamentalmente il criterio di libertà fiscale delle transazioni legittime. Questo sistema potrebbe anche permettere l’uso di imposte più alte per attività che creano esternalità negative o nella produzione o nel consumo. Quindi accise sul tabacco, sull’alcool, sulla benzina e su altri simili prodotti, ed imposte ambientali su imprese che creano inquinamento farebbero parte di questo sistema fiscale. La discussione precedente non ci fornisce una guida su come tassare i redditi finanziari. Questi redditi potrebbero essere tassati con la stessa aliquota proporzionale con cui vengono tassati i redditi da lavoro dipendente; o, prendendo in considerazione la mobilità potenziale di questi redditi verso paradisi fiscali, i redditi finanziari potrebbero essere tassati con aliquote più basse. Ci sono altre imposte che meritano attenzione perché scoraggiano alcune transazioni che possono essere particolarmente importanti nel migliorare l’efficienza dell’economia. Consideriamo alcuni esempi pratici. Supponiamo che il signor Rossi viva in una cittadina della Calabria e sia o disoccupato o abbia un lavoro poco remunerato. 70 ECONOMIA-FINANZA Gli viene offerto un lavoro più remunerato a Verona in una attività che vorrebbe sfruttare una nuova idea o una nuova tecnologia. Il signor Rossi vive in una casa di sua proprietà che potrebbe vendere prima di spostarsi a Verona ed usare il capitale ottenuto per comprare un alloggio a Verona. Se la vendita della casa in Calabria e l’acquisto di una casa a Verona comportano delle imposte, il signor Rossi potrebbe rinunciare allo spostamento con effetti negativi sia sull’occupazione sia sull’economia. Il signor Rossi ed il signor Bianchi vivono a Roma ai due lati opposti della città in due appartamenti di loro proprietà. Il lavoro del signor Rossi è vicino alla casa del signor Bianchi, mentre quello del signor Bianchi è vicino alla casa del signor Rossi. Entrambi impiegano molto tempo e sostengono spese per raggiungere il proprio posto di lavoro. Sarebbe conveniente per entrambi e per l’economia se Rossi vendesse il suo appartamento a Bianchi e viceversa così che entrambi possano abitare vicino al proprio luogo di lavoro. Imposte alte su queste transazioni possono scoraggiare lo scambio. Così ciascuno di essi continuerà a spendere tempo e denaro per arrivare al lavoro mantenendo più bassa l’efficienza dell’economia. Il signor Rossi ha vissuto e lavorato a Milano per molti anni. Ha raggiunto l’età pensionabile e vorrebbe vendere la sua casa e ritornare al suo paese nativo in Sicilia. Se ci sono imposte elevate sulla vendita e sul possibile acquisto in Sicilia, forse non lo farà riducendo l’offerta potenziale di case a Milano, riduzione che contribuirà a mantenere alti gli affitti a Milano impedendo ad altri lavoratori di spostarsi verso Milano. Il signor Bianchi ha comprato delle azioni in un’impresa, ma pensa che il futuro di questa impresa non sia roseo. Quindi vorrebbe vendere le azioni e reinvestire il denaro ottenuto nelle azioni di un’altra impresa. Non lo fa perché le transazioni verrebbero colpite da imposte elevate. Quindi rimarrà vincolato nell’investimento originale riducendo il meccanismo che rende dinamico il mercato finanziario e che canalizza il capitale verso le imprese più efficienti. Il signor Rossi ha creato un’impresa che ha avuto successo. Vorrebbe venderla e dedicarsi ad un’altra attività creando una nuova impresa che svilupperebbe una nuova idea o userebbe una nuova tecnologia. Le imposte che si applicano a queste transazioni di “uscita” da un’attività (exit taxes) sono importanti per le decisioni di alcuni imprenditori (21). La ragione è che in alcuni Paesi, e specialmente negli Stati Uniti, c’è ora un tipo di imprenditore che si specializza nel creare nuove imprese o nel ristrutturare imprese esistenti con l’esplicita intenzione di venderle non appena queste imprese si affermano sul mercato. Per queste attività, spesso finanziate da “venture capital”, e dirette da professionisti delle imprese, le “imposte all’uscita”, incluse quelle sui capital gains, sono molto importanti. Il signor Rossi ha una idea per una nuova attività e vorrebbe creare una nuova impresa. La creazione dell’impresa comporta molti costi di carattere fiscale (registro, bollo) che fanno aumentare le necessità finanziarie di cui ha bisogno. Per questa ragione, l’idea non si realizza e l’economia ne soffre le conseguenze. Questi sono solo alcuni esempi di attività che possono essere scoraggiate da imposte sulle transazioni. Sarebbe facile aggiungerne degli altri. Queste imposte possono prendere varie forme. Possono colpire il trasferimento di proprietà o di impresa, i capital gains, la registrazione di attività, o vari altri aspetti. Alcuni di questi costi possono essere costi di adempimento e non solo costi pecuniari. Per le imposte di registro questi costi di adempimento sono particolarmente alti. La conseguenza è la stessa: queste imposte mettono sabbia nel meccanismo delle transazioni e nel funzionamento del mercato impedendo o rallentando il movimento di risorse economiche da attività in declino verso attività più redditizie. IMPOSTE SUGLI AFFARI (1997-2201) Registro Bollo Ipotecaria e catastale Concessioni governative Successioni e donazioni Invim Totale 1997 1998 1999 2000* 2001* 3.166 4.551 1.213 2.639 734 1.267 3.421 4.297 1.405 1.187 784 1.064 3.930 3.849 1.575 1.063 807 1.274 7.446 7.429 1.566 1.044 885 969 1.545 1.108 904 792 13.570 12.158 12.498 11.910 11.778 Importi in milioni di euro (*) Per gli anni 2000 e 2001 non è ancora disponibile il dato disaggregato tra l’imposta di registro e l’imposta di bollo. L’imposta catastale è stata stimata in base ai dati del 1998 e 1999, mentre l’imposta ipotecaria è dedotta dalla Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese 2001. 4. Imposte sulle transazioni in Italia Dall’insieme delle imposte indirette, è possibile isolare quelle che in Italia colpiscono parte delle transazioni economiche oppure atti connessi allo svolgimento di attività. Nella Tabella sono state evidenziate le seguenti imposte: imposta di registro, ipotecaria, catastale, imposta di bollo e sulle concessioni governative. La Tabella mostra una serie storica del gettito per il periodo 1997-2001. Circa l’1% del Pil è fornito da queste imposte al fisco italiano. Questa è una percentuale molto alta a livello internazionale e per di più nasconde i costi di gestione e di adempimento che per queste imposte sono molto alti (22). L’imposta di registro viene pagata ogni qualvolta si ha un trasferimento di bene mobile o immobile. È una imposta che sicuramente scoraggia i trasferimenti. Il gettito prevalente è attribuibile ai trasferimenti di beni immobili. L’imposta di registro si paga anche quando si registra un contratto di affitto. La misura di tale imposta è proporzionale ed in funzione del tipo di bene trasferito: 3%, se immobile adibito a prima abitazione; 7% per le seconde abitazioni; 8% per gli altri tipi di immobili; 8% o 15% per terreni agricoli. Per la registrazione dei contratti di affitto, invece, la percentuale è del 2,5% da applicare annualmente al valore del canone indicato nel contratto. Sempre legate al mercato immobiliare si hanno le imposte ipotecarie e catastali le quali vengono pagate ogni qualvolta si ha una trascrizione nei registri immobiliari dovuta ad un trasferimento di immobili, sia a titolo gratuito sia oneroso. L’imposta di bollo, invece, è dovuta per gli atti rogati ricevuti o autenticati da notai o da altri pubblici ufficiali. Essa è dovuta anche per gli estratti di qualunque atto o per le copie di esso. L’imposta è dovuta, in genere, su qualsiasi atto che viene presentato alla registrazione presso gli uffici unici delle entrate. Il bollo si paga, anche, per le scritture private contenenti indicazioni 17) Sfortunatamente non è facile determinare quando una attività è fondamentalmente speculativa. 18) In teoria potrebbero indurre il lavoratore a lavorare anche di più se l’effetto reddito predomina sull’effetto sostituzione ma questa alternativa è considerata meno probabile. 19) Naturalmente il significato di “non eccessive” può essere soggetto a differenti interpretazioni. 20) Per esempio una “linear income tax”, con una parte del reddito esente e con il resto tassato con un’aliquota proporzionale, sarebbe tecnicamente progressiva ma rispetterebbe ancora i criteri descritti sopra. 21) Queste “exit taxes” possono prendere varie forme. 22) Il rapporto del CNEL, Ipotesi di riordinamento dell’attuale apparato normativo in materia fiscale, Roma, 1994, riferisce a questi tributi come “tributi che non rendono o che rendono meno di quello che costano”. circa i rapporti giuridici di ogni specie e per una serie di documenti che vanno dalle carte di credito alle fatture. L’imposta di bollo può essere riscossa in modo ordinario, mediante carta bollata; in modo straordinario, mediante marche da bollo, bollo a vista o a punzone; in modo virtuale, direttamente dagli uffici o mediante il pagamento di un bollettino di conto corrente postale. Le Concessioni governative, prima del 1996, venivano pagate per una lunga serie di provvedimenti. A partire dal 1° gennaio 1998, con la Legge n. 549/95 (art. 3, co 138), sono state soppresse le CC.GG. sugli atti concernenti la registrazione delle persone giuridiche e le modificazioni dei relativi atti costitutivi e degli statuti nonché l’iscrizione nel registro delle imprese. Gli unici atti su cui ancora sono dovute le Concessioni governative sono quelli relativi al passaporto, al porto d’armi, alle case da gioco, alle attività relative ai metalli preziosi, alla pesca professionale marittima, alle proprietà industriali ed intellettuali (brevetti), alle patenti nautiche, alle radio diffusioni e al servizio radiomobile pubblico terrestre. Un commento a parte meritano le imposte di successione e donazione e l’Invim. Le prime due sono state completamente riformulate a partire dal 1° gennaio 2001 e poi completamente abolite da ottobre 2001. In luogo dell’imposta delle donazioni, viene pagata, solamente per la quota spettante al donatario oltre i 180.759,91 € e se il grado di parentela è oltre il sesto, l’imposta tipica del bene che viene trasferito a titolo gratuito. Dal 2002 le uniche entrate imputabili alle imposte di successione e donazione saranno quelle derivanti da successioni aperte e da donazioni registrate in data antecedente alle riforme sopra richiamate. L’Invim è l’imposta che veniva pagata al momento della vendita di un immobile sull’incremento di valore registrato dall’immobile stesso nel periodo intercorso tra la data di acquisto e quella di vendita. A partire dal 1° gennaio 2002, tale imposta è stata abolita. La Tabella mostra che le imposte di transazione o sugli affari sono molto importanti in Italia, sebbene ci sia stata una certa riduzione negli ultimi anni. Questi costi ignorano i costi di gestione e di adempimento che per queste imposte sono molto alti. Queste imposte sicuramente riducono le transazioni ed inoltre spingono i contribuenti a dichiarare valori arbitrari mettendo così in moto una contabilità non corretta e non trasparente che ha un effetto corrosivo sulle relazioni economiche. Conclusioni L’obiettivo di questo paper è stato quello di dirigere l’attenzione di economisti e di tributaristi verso alcune imposte che colpiscono principalmente transazioni che sono importanti per il funzionamento dell’economia. Queste imposte hanno ricevuto relativamente poca attenzione, specialmente dagli economisti. Il paper ha presentato argomenti derivati principalmente da sviluppi recenti della teoria della crescita economica. Questi argomenti suggeriscono che queste imposte dovrebbero essere ridotte o ancor meglio abolite. Queste imposte sono ancora in vigore in Italia sebbene la loro importanza in termini di gettito si sia ridotta negli ultimi anni con l’abolizione, tra l’altro, dell’imposta sulle successioni. Se le argomentazioni di questo paper sono valide, le riforme fiscali dei prossimi anni dovrebbero prevedere l’eliminazione di queste imposte. 䡵 La “Lecture Vanoni 2002” è pubblicata sul fascicolo n. 1/2003 della Rivista di Diritto finanziario e Scienza delle finanze. Si pubblica per gentile concessione della Casa editrice Giuffrè. ECONOMIA-FINANZA 71 PER UNA storia ANDREA SILVESTRI Professore ordinario di Sistemi elettrici per l’energia al Politecnico di Milano, dove insegna anche Storia della tecnica SALUTO DEL RETTORE DEL POLITECNICO DI MILANO Da questo numero comincia a collaborare alla rivista il Politecnico di Milano, con articoli che vogliono gettare luce su aspetti particolarmente significativi dei suoi contributi didattici e di ricerca all’innovazione nel nostro Paese e non soltanto. Ho voluto che la serie fosse aperta da una sintetica rievocazione della storia del Politecnico, affidata pertinentemente all’amico e collega Andrea Silvestri, che ha fondato e dirige il Centro per la Storia dell’Ateneo. Per un prossimo fascicolo spero di potere io stesso illustrare ai lettori del “Notiziario della Banca Popolare di Sondrio” le novità, i progetti e le sfide attuali del Politecnico Giulio Ballio 72 ECONOMIA-FINANZA del di POLITECNICO Milano L’attenzione per la propria storia è stata una costante del Politecnico di Milano, con riflessioni sia a vasto raggio (1) sia via via più specifiche (di cui si darà qualche esempio in nota). Qui si forniranno sinteticamente i lineamenti di un’istituzione che nel 2013 celebrerà i suoi centocinquant’anni, che è stata la prima a livello universitario milanese, e che ha sempre avuto rapporti profondi con il mondo produttivo nazionale e non soltanto. Infine, un breve cenno sarà dedicato ad alcuni contatti tra Politecnico e provincia di Sondrio. Gli antefatti Milano e la Lombardia erano da secoli interessate al contributo determinante di ingegneri, architetti, geometri, idraulici, agrimensori, nell’edilizia pubblica e privata, nella gestione delle acque, nella conduzione di proprietà immobiliari e agricole, nella responsabilità in manifatture e opifici che nella prima metà dell’Ottocento sempre più ricorrevano – oltreché al- La sede del Politecnico a Città degli Studi, in una foto di fine anni Venti. The site of the Polytechnic at Città degli Studi, in a photo from the late twenties. le ruote idrauliche – alle moderne macchine a vapore messe a disposizione dalla prima rivoluzione industriale. Il contesto era anche di grande attenzione per i temi del ruolo e della formazione dell’ingegnere, ma più in generale della preparazione tecnico-professionale come elemento propulsore dello sviluppo economico. Attraverso le eredità dell’illuminismo (la riforma teresiana degli studi, le innovazioni del catasto, delle strade, dell’agricoltura) e poi della rivoluzione francese (l’istruzione dell’ingegnere incanalata anch’essa nelle università, prima del tirocinio pratico), questa lunga storia era giunta ormai, molto vicino alla nascita del Politecnico, alla maturazione di grandi dibattiti e proposte. Si pensi innanzitutto all’impegno di Carlo Cattaneo e della sua rivista Il Politecnico, per la valorizzazione delle «arti utili» accanto alle «arti belle», con lo scopo di diffondere ogni innovazione attinente lo sviluppo tecnico-scientifico e più in generale civile. Ma Cattaneo e la sua rivista non erano soli. Nel 1838, ad esempio, per iniziativa di industriali e commercianti milanesi, poi via via con il sostegno dei ceti colti e produttivi, era nata la Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri, con la finalità di «migliorare le arti utili e le manifatture», e presto attiva – pur con alterne vicende – nell’avviare scuole tecniche, laboratori, pubbliche lezioni, premi. Per parte sua l’Istituto lombardo di Scienze e Lettere, che patrocinava concorsi per «utili scoperte» e aveva un gabinetto tecnologico aperto alla città, nel 1848 promuoveva un progetto di riforma di tutto il sistema scolastico, in particolare di quello formativo degli ingegneri, che ebbe come relatore lo stesso Cattaneo, già peraltro coinvolto nella Società d’Incoraggiamento. L’anno dopo, anche Antonio Bordoni – direttore dello Studio matematico dell’Università di Pavia – elaborava una proposta di riordino della sua Facoltà che non ebbe séguito, ma che voleva fondare la professione di Ingegnere civile su un percorso più armonicamente teorico-pratico. La nascita del Politecnico Alla vigilia dell’Unità, la legge Casati del 1859 riformava l’intero sistema scolastico italiano, e in ambito tecnico-scientifico istituiva due organismi d’istruzione superiore: il Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano (RITS), e la Scuola di applicazione per ingegneri di Torino. Il Politecnico, come ben presto venne indicato il RITS, fu in realtà inaugurato nel 1863, con la grossa novità – frutto del diretto coinvolgimento del fondatore Francesco Brio- schi (2) (matematico di fama internazionale e direttore del Politecnico fino alla morte nel 1897) nell’elaborazione della legge Casati e negli orientamenti scolastici dei primi governi postunitari – di tre distinte sezioni: per ingegneri civili, per ingegneri meccanici, e per futuri insegnanti di materie scientifiche nelle scuole superiori (sezione, quest’ultima, di poco successo, spenta nel 1923). I docenti erano perlopiù menti tecnici per le costruzioni con quelli artistici già presenti all’Accademia di belle arti di Brera: il personaggio più eminente ne fu Camillo Boito. Gli allievi accedevano al Politecnico iscrivendosi al triennio di specializzazione, avendo avuto la loro formazione di base nei bienni delle Facoltà di scienze matematiche e fisiche di un’Università del Regno. Solo nel 1875 Brioschi otterrà l’istituzione au- Da sinistra: Francesco Brioschi fondatore del Politecnico e Giuseppe Colombo suo collaboratore e successore. From left: Francesco Brioschi, founder of the Polytechnic, and Giuseppe Colombo, his collaborator and successor. provenienti dall’Università di Pavia, come lo stesso Brioschi e il suo più stretto collaboratore e poi successore Giuseppe Colombo. Una quarta sezione sorgerà nel 1865, quella per architetti civili, che collegava gli insegna- Il Palazzo della Canonica, sede del Politecnico dal 1866 al 1927. Palazzo della Canonica, site of the Polytechnic from 1866 to 1927. tonoma al Politecnico di un biennio di scuola preparatoria, con un insegnamento delle discipline matematiche, fisiche, chimiche già funzionale allo specifico indirizzo tecnico-scientifico. Il Politecnico fino al 1866 occupò alcuni spazi del palazzo del Senato, con lezioni, esercitazioni e laboratori che si svolgevano in parte presso Enti (che collaboravano anche con personale e attrezzature) quali la Società d’Incoraggiamento o il Museo Civico di Storia naturale; la nuova sede sarà il Palazzo della Canonica di piazza Cavour, fino al trasferimento a piazza Leonardo da Vinci in Città Studi (1927). 1) Cfr. almeno: F. LORI, Storia del Politecnico di Milano, CORDANI, Milano 1941; Il Politecnico di Milano 1863-1914, ELECTA, Milano 1981 (dove si veda l’acuto e documentato profilo generale di C.G. Lacaita); Il Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), 2 voll., CARIPLO LATERZA, Milano 1988. 2) Cfr. Francesco Brioschi e il suo tempo (1824-1897), a cura di C. LACAITA e A. SILVESTRI, Franco Angeli, Milano 2000. ECONOMIA-FINANZA 73 Politecnico e industria L’avvio della Scuola è contemporaneo e sinergico con l’ascesa dell’industria italiana, e vede scambi di competenze e personalità fortemente significativi. Tra i primi laureati al Politecnico (oltre a coloro che avrebbero proseguito a lavorarvi come docenti, tra cui Cesare Saldini, Ettore Paladini, Giuseppe Ponzio) si contano nomi poi notissimi, come quelli di Giovanni Battista Pirelli o Alberto Riva, ma anche altri personaggi di rilievo quali nel mondo elettromeccanico Bartolomeo Cabella del Tecnomasio, o nel settore tessile-cotoniero i fratelli Gavazzi e Pio Borghi, o come Aristide Rubini proprietario delle ferriere poi acquisite dall’ingegnere alsaziano Giorgio Enrico Falck. Il movimento dell’imprenditoria a favore del Politecnico è documentato almeno dalle donazioni dell’industriale cotoniero Eugenio Cantoni per creare un corso di economia industriale (1871) e dell’industriale farmaceutico Carlo Erba per fondare (1886) quella che sarebbe stata l’Istituzione Elettrotecnica Carlo Erba. Le applicazioni industriali dell’elettromagnetismo, a partire dalle fondamentali invenzioni di Edison, avevano già toc- Giacinto Motta (il quinto da sinistra) durante una gita d’istruzione con alcuni studenti. Tra di essi Maria Artini, la prima laureata in elettrotecnica d’Italia. - Sotto: veduta aerea della sede di Bovisa del Politecnico. Giacinto Motta (fifth from the left) during a training trip with several students. They include Maria Artini, the first female electrotechnics graduate in Italy – Below: aerial view of the Polytechnic site at Bovisa. cato Milano con la creazione (1881) da parte di Colombo della Società Edison, destinata a grandi successi anche internazionali, e con la realizzazione della pionieristica centrale termoelettrica a corrente continua di S. Radegonda (1883); per conoscere poi – con l’affermazione della corrente alternata, con le accresciute possibilità di trasmissione a grande distanza grazie an- che all’invenzione del trasformatore, con la diffusione degli impieghi per forza motrice oltreché per l’illuminazione, con la nascita a fine secolo dell’Associazione Elettrotecnica Italiana (3), con lo sfruttamento tra i due secoli delle ricche disponibilità idriche italiane per produrre energia elettrica – grandiosi risultati che allineavano l’Italia tra le nazioni protagoniste della seconda rivoluzione industriale. Nell’ambito della quale non sono irrilevanti anche nel nostro Paese i progressi della chimica: e al Politecnico nel 1902 nasce, con cospicui finanziamenti della Cariplo, la Scuola di elettrochimica Principessa Jolanda per sostenere la ricerca applicata in questo settore. Nel 1913 si laurea la prima donna ingegnere civile a Milano, Gaetanina Calvi, mentre nel 1918 Maria Artini (figlia di Ettore, professore di Mineralogia allo stesso Politecnico) è la prima italiana laureata ingegnere elettricista, poi in posizione di rilievo alla Edison. Due vedute della nuova sede di Bovisa. Le donne ingegnere (4) a Milano resteranno a lungo poco numerose (ancora alla fine degli anni Ottanta del Novecento erano circa il 4% degli immatricolati), e non solo a Milano, per crescere poi rapidamente. Dalle guerre mondiali alla ricostruzione La prima guerra mondiale, evidenziando carenze industriali e produttive, aveva portato alla ribalta la necessità di uno sviluppo tecnicoscientifico maggiore e più indipendente dall’estero, in un clima sempre più marcatamente nazionalista, fino all’espansionismo coloniale e al fascismo. Il Politecnico è partecipe di questo potenziamento, accentuando le attività di ricerca anche per conto terzi rispetto alle precedenti e prevalenti finalità didattiche, aprendo nuovi laboratori, fruendo di sostegni anche eco- Two views of the new site at Bovisa. nomici da parte del mondo industriale: per esempio la Fondazione politecnica italiana nasce nel 1925 grazie a Giacinto Motta, laureato e poi docente al Politecnico, che dalla sua posizione ai vertici della Edison aveva vo- luto «promuovere gli studi, gli insegnamenti e le ricerche in tutti i campi dell’ingegneria». In questo clima la sezione industriale si specializza negli indirizzi meccanico (il più frequentato tra le due guerre), elettrotecnico (che sarà invece prevalente negli anni 195060) e chimico; nel 1933 la sezione di Architettura (che nel 1928 aveva laureato le prime donne, Carla Maria Bassi e Elvira Luisa Morassi) dà luogo all’omonima Facoltà, distinta da quella di Ingegneria. In epoca fascista, il contributo dei tecnici è funzionale agli obiettivi economico-militari del regime, ma contemporaneamente e contraddittoriamente perdura la supremazia della tradizione umanistica. Significativa a questo proposito l’esperienza di Giuseppe Belluzzo, professore al Politecnico e poi ministro dell’economia nazionale e successivamente della pubblica istruzione, che dovette ridimensionare i suoi ambiziosi progetti a favore dell’istruzione professionale-tecnicoscientifica per la contrarietà di Giovanni Gentile, già autore (1923) di una nota riforma scolastica. L’opposizione al fascismo nel Politecnico era latente, ma le leggi del 1938, e l’allontanamento per motivi razziali di docenti anche fedeli, turbarono persino il rettore fascista Gaudenzio Fantoli, idraulico insigne. Finché nel 1943 i professori elessero democraticamente rettore il noto topografo Gino Cassinis, che sarebbe stato il rettore della Liberazione e della ricostruzione post-bellica (5), oltreché – più tardi – il primo sindaco milanese di una coalizione che anticipava l’esperienza nazionale del centro-sinistra. Verso l’attualità Il secondo dopoguerra pose anche al Politecnico gravissimi problemi, non tanto per le distruzioni belliche, quanto per la duplice esigenza (affrontata sotto la vigile guida di Cassinis) di riavviare i laboratori e le ricerche, e di rinnovare le strutture didattiche. Al proposito si possono ri3) Cfr. Galileo Ferraris e l’AEI, a cura di A. SILVESTRI, Scheiwiller, Milano 1998. 4) Cfr. Donne politecniche, a cura di A. GALBANI, Scheiwiller, Milano 2001. 5) Cfr. Il ruolo del Politecnico di Milano nel periodo della Liberazione, a cura di A. SILVESTRI, Scheiwiller, Milano 1996. ECONOMIA-FINANZA 75 La sala macchine della Centrale idroelettrica dell’AEM a Grosotto. The machine room of the AEM hydroelectric Power Station at Grosotto. cordare, solo a mo’ d’esempi, il caso del primo calcolatore elettronico importato al Politecnico dall’America nell’ambito del Piano Marshall (1954) e il conseguente avvio del settore elettronico e informatico; l’inizio degli studi nucleari e la realizzazione di un reattore atomico nello stesso 1954; il premio Nobel per la chimica a Giulio Natta nel 1963; la nascita dell’ingegneria aeronautica e di programmi di ricerca sulle comunicazioni spaziali; fino al riassetto di alcuni indirizzi (con le lauree in ingegneria civile, edile, per l’ambiente e il territorio), alle nuove lauree in ingegneria gestionale, biomedica, dei materiali, in disegno industriale, in architettura civile, e alle recentissime in ingegneria matematica e in ingegneria fisica. La crescente presenza studentesca (anche quella femminile, soprattutto ad architettura) ha reso progressivamente insufficiente la sede di piazza Leonardo da Vinci, consigliando negli anni ’90 lo spostamento di alcune facoltà alla nuova sede di Bovisa, in una significativa area industriale dismessa, rivitalizzata da questi insediamenti universitari. Ma contemporaneamente è partito il grandioso progetto del Politecnico-rete, con la creazione di nuovi poli a Como, Lecco, Cremona, Mantova, e – persino fuori di Lombardia – Piacenza. 76 ECONOMIA-FINANZA Il Politecnico e la provincia di Sondrio La presenza del Politecnico fu soprattutto determinante nella pionieristica impresa della centrale idroelettrica dell’AEM a Grosotto. Alla fine del 1903 il Consiglio comunale di Milano aveva deciso – con l’ostilità della Edison – la costituzione di un’Azienda Elettrica Municipale (AEM). Nel 1906 Milano acquisisce la concessione per lo sfruttamento della forza idraulica dell’Adda in Alta ValTomaso Buzzi in un ritratto di Gio Ponti. Tomaso Buzzi in a portrait by Gio Ponti. tellina, essendo assessore ai lavori pubblici il professore del Politecnico Giuseppe Ponzio; il quale elabora il relativo progetto tecnico-finanziario, mentre quello idraulico è affidato a Gaudenzio Fantoli, e quello meccanico ed elettrico a due laureati del Politecnico, Carlo Mina e Giacinto Motta (che più tardi sarebbe arrivato, come è già stato detto, ai vertici della Edison). L’impianto di Grosotto utilizzava un salto idraulico di 320 m e aveva una potenza di 20 MW, che era trasportata a Milano con una linea di 150 km a 65 kV: soluzioni tecniche tutte estremamente innovative. Si citano infine i numerosi architetti del Politecnico che hanno lasciato importanti tracce in provincia di Sondrio, soprattutto nella realizzazione di altre centrali idroelettriche; almeno tre nomi di grande rilievo, tutti milanesi di nascita: Piero Portaluppi (centrale del Roasco); Giovanni Muzio (le centrali di Lanzada e di Sondrio, oltreché – prima, in epoca fascista – il palazzo del Governo e della Provincia nel capoluogo); Gio Ponti (le centrali di Prata Camportaccio, di Gordona, di Isolato a Madesimo e di Prestone). Mentre un altro estroso protagonista dell’architettura milanese del Novecento, Tomaso Buzzi (laureato architetto nel 1923 al Politecnico, dove poi insegnò Disegno dal vero), è nato e vissuto a lungo a Sondrio, ma – nonostante numerosi progetti – non vi ha lasciato nessuna realizzazione. 䡵 FOR A HISTORY OF MILAN POLYTECHNIC The Polytechnic has now been part of the history of Milan for almost 150 years. The city’s interest and commitment to technology reinforced during the Illuminist period and mainly through the lessons of Carlo Cattaneo. The Casati Law, on the eve of Unity, instituted the Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano (RITS) [Royal Upper Technical Institute of Milan], now Polytechnic of Milan, that started activity in 1863 with three separate sections: for civil engineers, mechanical engineers and teachers of scientific subjects in the high schools. In 1875 the Polytechnic completed the study cycle with two initial preparatory years. It was only in 1927 that the location was transferred to Piazza Leonardo da Vinci in the Città Studi.The paper documentes the close cooperation between the Polytechnic and the Lombard entrepreneurial environment. It focuses on the research and industrial development culminating with the great innovations of our time our days (for example new degrees and premises). il CLUB della NOTIZIARIO cortesia Elzeviri LUCA GOLDONI Tempo fa, sul Corriere della Sera, scrissi d’essere preoccupato, più che della società multi-etnica di domani, della società mono-cafona di oggi. Ed elencavo i diversi atteggiamenti dei cittadini screanzati (una minoranza, per fortuna, ma incombente). Quelli che parcheggiano in seconda fila e ti bloccano l’auto (e non sono entrati un momento al bar, no: sono andati dal dentista). Quelli che il cieco si arrangi, se il fuoristrada è posteggiato sul marciapiede. Quelle che scuotono la polvere dal davanzale. Quelli che in autobus ti costringono all’apnea, perché non usano lo stick; e che, scesi alla fermata, buttano il biglietto in terra anche se c’è il cestino rifiuti. Quelli che, appena saliti sull’aereo, pretendono di sistemare il bagaglio con la massima calma obbligando la fila a sostare sulla scaletta. Quelli che d’estate al mare ti svegliano a notte fonda con gli ululati delle loro moto smarmittate. E tanti altri eccetera. Concludevo con un invito: difendiamoci con un club della cortesia. La mia proposta ha avuto successo e mi sono giunte montagne di lettere di adesione. Tante e così appassionate da crearmi un leggero imbarazzo. La mia idea si riferiva infatti a un club virtuale, poiché fondarne uno reale è impresa disperata (quantomeno nella burocratica Italia): richieste in carta bollata, documentazioni, timbri, intermina- bili attese di concessione. E quindi la prassi regolamentare: assemblea per eleggere il consiglio, riunioni per nominare presidente, revisori, probiviri, ricerca di una sede, delle attrezzature, del personale. Senza contare i finanziamenti, i registri, i bilanci. Altro problema: anche nel club più innocente esistono dei ruoli, delle cariche e, fatalmente, delle ambizioni, delle rivalità, delle manovre di corridoio. Il club della cortesia rischierebbe dunque di naufragare fra sgarbi e sgambetti. Gli italiani sono fatti così: singolarmente brav’uomini, ma basta un’assemblea condominiale e si mettono a litigare anche per lo zerbino in fondo alle scale. Amici miei, la morale è una sola: comunichiamoci la cortesia con gesti civili (e con l’esempio forse potremo anche convertire qualche cafone folgorato sulla via di Damasco o in via Garibaldi). Attraverso i nostri comportamenti finiremo per riconoscerci fra noi, prendere un caffè insieme, scambiarci gli indirizzi. Ma per carità, rinunciamo alle tessere e alle assemblee. La cortesia te䡵 niamocela nell’anima. ELZEVIRI 77 THE COURTESY CLUB The displays of rudeness which everyday experience forces us to put up with are frequent, too frequent. It is not always easy to be able to resist the temptation of showing healthy indignation. One solution could be that of a courtesy club. Clearly you must think of a purely virtual association, without any pretensions to official stamped paper for registration, members’ meetings or company obligations. Indeed today both negative and positive excesses are very evident. You also cannot run the risk that, in safeguarding courtesy, the cure may be worse than the disease. As with all virtues courtesy is fed by healthy discretion. Simple everyday behaviour can and must decide at least membership of the courtesy club for all those who truly have at heart a life guided by politeness. il FAUST dopo GOETHE Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) in una incisione di J. Stiller. Johann Wolfgang Goethe (1749-1832). Engraving by J. Stiller. CLAUDIO MAGRIS Germanista e critico; Professore Ordinario presso il Dipartimento di Letteratura e Civiltà Anglo-Germaniche - Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste Il personaggio di Faust – come Ulisse, Antigone, Don Giovanni e altri – è una di quelle figure divenute, scriveva Paul Valéry, «strumenti dello spirito universale: esse vanno di là da ciò che furono nell’opera del loro autore. Egli ha dato loro “funzioni”, più che parti; le ha consacrate per sempre all’espressione di taluni estremi dell’umano e dell’inumano; e, quindi, svincolate da ogni avventura particolare». Il Faust per antonomasia, certo, è quello di Goethe. Ma per rendersi conto di ciò che significa il Faust di Goethe credo sia utile ripercorrere la storia di quello che è successo dopo il grandissimo Faust goethiano nei centosettant’anni che ci dividono dalla morte di Goethe e dunque dalla conclusione del suo capolavoro “incommensurabile”, com’egli lo de- 78 ELZEVIRI finiva pochi giorni prima di morire. Proprio per capire cosa significa oggi per noi il Faust può essere fecondo ricordarci di ciò che è avvenuto in questi centosettant’anni, di ciò che il capolavoro di Goethe ha significato per la civiltà europea e mondiale in questo secolo e mezzo e più, di come è stato accolto o rifiutato, capito o frainteso; di come è divenuto un punto di riferimento per ogni generazione e per ogni grande evento storico. Si potrebbe dire che quasi tutta questa storia, in questi centosettant’anni, è, molto spesso, la storia di un fraintendimento o di un rifiuto del Faust di Goethe, di un allontanamento, di un no, proferito magari con rispetto ma insistente. Tante volte si è cercato di allontanarsi dal Faust di Goethe, di scavalcarlo, di tornare indietro alle radici faustiane della leggenda e del vecchio libro popolare; si è cercato non dico di ignorare, perché è impossibile, ma in qualche modo di mettere da parte il capolavoro goethiano. Il tema faustiano, che rielabora pure tradizioni antiche come il mito di Prometeo o la leggenda di Simon Mago, trova la sua espressione canonica nel Volksbuch, nell’anonimo libro popolare tedesco del 1587, che racconta – condannandola da una cupa prospettiva medioevaleggiante e luterana – la sete di sapere, di piacere e di dominio di un uomo che vuole impadronirsi dei segreti della natura e della vita. Anche Il mago prodigioso di Calderòn, un capolavoro poetico, è una variazione del mito di Faust, con un forte accento posto – secondo una visione classica e cattolica – sulla dialettica fra il condizionamento fisico, sensuale degli impulsi e la libertà morale delle azioni. Un titano demonico e possente, disperato e grande nella sua colpevole disperazione e inevitabile dannazione, è il Faust della stupenda tragedia di Marlowe. Una speranza di salvezza si profila invece, secondo la fede illuminista nella ragione e nella libertà della ricerca, al personaggio faustiano abbozzato dal grande Lessing. Ma il fascino che il tema faustiano emana sui contemporanei guarda alla tradizione precedente a Goethe e implica una distanza dal capolavoro di quest’ultimo, che è anche distanza dalla fede nel progresso. Per tutte queste ragioni, oggi noi ci dobbiamo porre, nei confronti del Faust, le domande fondamentali, simili alla famosa “Gretchenfrage”, la domanda che Margherita rivolge a Faust quando gli chiede se crede in Dio. Così noi oggi dobbiamo chiederci se crediamo nel Faust e dobbiamo anche chiederci cosa significa, oggi, credere nel Faust. Proprio per questo è utile vedere come le generazioni passate, e i loro grandi rappresentanti, si sono confrontati con questa domanda. Potremmo partire da molti episodi, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Un esordio significativo e scherzoso potrebbe essere l’incontro fra Goethe e il giovane Heine, allora ancora sconosciuto, il quale si reca, pieno di reverenza, a visitare Goethe nel 1824, quando Goethe è già il grandissimo poeta riconosciuto in tutta Europa, il vegliardo rispettato e venerato come un nume, la cui casa di Weimar è una meta per le più grandi figure di tutta Europa. Alla fine dell’udienza, quando Goethe domanda a Heine a che cosa stia lavorando, il giovane risponde con sfrontatezza: «A un Faust, eccellenza», sapendo che questa risposta costituisce una improntitudine, quasi una espressione di sfacciata familiarità. È molto significativo che protagonista di questo episodio sia Heine, proprio perché è stato Heine, più tardi, a dire che con la morte di Goethe si chiudeva “l’età artistica” ovvero un grandissimo periodo della civiltà tedesca ed europea, in cui la poesia aveva potuto essere non soltanto creazione di grandi opere d’arte, ma soprattutto creazione di opere che rispondevano alle grandi domande della vita e della civiltà, che davano il senso della totalità e dell’unità della vita e ne afferravano il significato – opere quindi il cui valore, nella realtà degli individui e della società, andava anche ben al di là della stessa perfezione artistica. Il Faust è in questo senso un’opera suprema, una sintesi di tutta una civiltà, che raccoglie tutta l’eredità del passato e si protende verso il futuro, un’opera che sarà appunto letta non solo come un capolavoro poetico, ma anche come un vangelo dell’esistenza moderna. Lo stesso Heine, che da giovane proclama di lavorare a un Faust e che lo scriverà veramente, pochi anni dopo dà malinconicamente il congedo all’epoca del Faust, all’epoca in cui era possibile scrivere dei capolavori come Faust, e si considera scrittore di un’altra epoca, un’epoca moderna ed epigonale, frantumata ed ironica, che secondo lui stesso non permette più la creazione di simili opere d’arte, di opere d’arte come il Faust, e non per mancanza di talento dell’uno o dell’altro scrittore, ma proprio perché l’esistenza frantumata, non più classica, non per- mette più la creazione di grandi opere, di grandi sintesi classiche della vita e della storia, quali appunto il Faust di Goethe. Interrogando la figura di Faust, ogni generazione si interroga sul significato della vita e della storia e anche sul significato di se stessa. Io cercherò di parlare in modo molto rapido, e quindi fatalmente superficiale e incompleto, di queste domande che sono state poste al Faust negli ultimi centosettant’anni, cercando solo di dare un’immagine, certo inadeguata, di questo grandioso capitolo della storia della cultura. La prima grande domanda riguarda soprattutto il secondo Faust, il finale: Faust si salva o non si salva? e se si salva, perché, grazie a che cosa? Goethe, elusivo e reticente come sempre, ha posto per primo le fondamenta di questa incertezza e di questa oscillazione, di questa ardua domanda che sembra sfidare ogni risposta definitiva. Egli ha parlato di una soluzione al cinquanta per cento, come se Faust si salvasse metà per merito suo, grazie allo Streben, al suo incessante anelito che avrebbe dunque in sé, perfino nei suoi errori e nelle sue colpe, la propria giustificazione, e per metà grazie a qualcosa d’altro, qualcosa che Goethe si guarda bene dal definire e lascia appunto indefinibile, indicando solo in qualche modo che l’uomo ha bisogno anche di qualcosa d’altro, esterno a lui, insomma di una qualche grazia, anche se Goethe è lontanissimo da ogni professione o fede religiosa. La domanda fondamentale dunque, che si ritrova continuamente con le risposte più contrastanti, riguarda il significato del faustismo ossia dello Streben, dell’anelito, della tensione faustiana. È una domanda tipicamente moderna, perché il mondo antico non conosce e non può conoscere nessun Faust e nessun faustismo: il mondo antico ignora il problema dello Streben; se Faust desidera l’attimo e sogna la possibilità di poter dire all’attimo di fermarsi, di trovare un attimo degno di questa invocazione, il mon- do classico antico non conosceva questa inquietudine, proprio perché conosceva il possesso dell’attimo e abitava serenamente nel presente. Per gli eroi classici sono innumerevoli gli attimi cui si potrebbe dire di fermarsi, tutta la vita ha questa autosufficienza pervasa di significato; l’individuo della classicità, direbbe il nostro Michelstaedter, conosceva la persuasione. Per Michelstaedter, come egli scrive nel suo capolavoro La persuasione e la rettorica (1918), la persuasione significa il possesso presente della propria vita, la capacità di vivere l’attimo, ogni attimo e non solo quelli privilegiati ed eccezionali, senza sacrificarlo al futuro, senza considerarlo semplicemente un momento da far passare presto per raggiungere qualcosa d’altro. Quasi sempre, nella nostra esistenza, abbiamo troppe ragioni per sperare che essa passi il più rapidamente possibile, che il presente diventi presto futuro, che il domani arrivi quanto prima, perché attendiamo con ansia il responso del medico, l’inizio delle vacanze, il risultato di un’attività e così viviamo non per vivere, ma per essere già vissuti, per essere già morti. L’epoca contemporanea ha accelerato questo processo; l’ansiosa velocità con cui il presente ci viene strappato e veniamo scagliati nel futuro. Faust non conosce la persuasione, il sereno sostare nell’attimo e nel presente; brucia invece tutta la vita, ogni attimo e ogni presente nel suo Streben. Questa prima grande domanda, che le generazioni successive pongono al faustismo, riguarda dunque l’essenza di quest’ultimo: per taluni, soprattutto per coloro che credono nella operosa e fattiva civiltà moderna e nel suo progresso, il faustismo è un’incessante azione che redime e giustifica la vita; per altri invece il faustismo, la febbrile e inquieta smania di agire, sarà invece inquietudine, nevrosi, assillo, angoscia – sarà la Cura, la Sorge di cui tanto parlerà l’esistenzialismo e che compare anche nel Faust di Goethe, a insinuare appunto l’angoscia. ELZEVIRI 79 Faust. Disegno a china di Harry Clarke per il Faust di J. W. Goethe, edizione del 1925. Il dottor Faust, ringiovanito, è raffigurato insieme a Mefistofele. Faust. India ink drawing by Harry Clarke for J. W. Goethe’s Faust, 1925 edition. A rejuvenated Dr. Faust, depicted with Mephistopheles. La seconda grande domanda, che ci si comincia a porre subito dopo la morte di Goethe (ma talora anche prima), riguarda soprattutto il secondo Faust, nel quale talora Goethe sembra cambiare direzione di marcia rispetto al primo e soprattutto rispetto alla sua “faustiana” fede nell’incessante forza creatrice della natura. Nel secondo Faust Goethe mette in scena anche e soprattutto il trionfo dell’artificio, rappresenta l’esistenza e la storia anche come una specie di Café Chantant; esprime inquietanti presagi del carattere sempre più artefatto, posticcio, della vita e della civiltà. Goethe esprime una gran- 80 ELZEVIRI de crisi, la grande crisi della classicità e della fede classica nella forza della natura, di quella natura fuori dalla quale, per il Goethe giovane, non si poteva invece cadere e che presiedeva, sfingica e ironica, anche alle manifestazioni che sembrano negarla. Nel secondo Faust Goethe mette in crisi questa fede nella autenticità naturale, nella organicità della vita, nella vitalità stessa; il secondo Faust è anche il poema drammatico della vita artificiale, della società che sostituisce la natura, come rivelano tanti episodi – basti pensare alla creazione di Homunculus, l’uomo creato in labo- ratorio, o al grottesco carnevale in cui la natura viene sopraffatta dalla moda e la poesia dal danaro, allo stesso episodio di Elena, che si dissolve in una mera parvenza. Ci si è chiesti se Goethe abbia voluto esprimere la crisi di un’epoca, della sua epoca, conservando tuttavia la sua fede nell’eterna capacità della natura di rinnovarsi oltre ogni crisi, e conservando quindi anche la fede nella storia e pure nell’arte classica, la fede nella possibilità che, dopo ogni crisi storica, ci si possa riaccostare all’universale-umano e creare opere classiche che lo rappresentino. Ma ci si è chiesti anche se Goethe invece non abbia, nel secondo Faust, dato in qualche modo un tragico addio definitivo ad ogni classicità, ad ogni fiducia nella vita e nella storia, ad ogni fede nell’eterna capacità di rinnovarsi della natura. In questo caso, la crisi che Goethe rappresenta nel secondo Faust non sarebbe un’eclissi, ma un tramonto definitivo dell’universale-umano classico. È chiaro che, a seconda della risposta che si dà a queste domande, cambia completamente non soltanto il giudizio sul significato del Faust, ma cambia anche il senso con cui si vivono la propria vita e la propria stagione storica. Ecco perché ogni discorso sul Faust, ogni rappresentazione, ogni confronto col Faust investono in qualche modo le cose ultime. Goethe stesso ha potuto assistere all’inizio di questa crisi del Faust, perché già nel 1791, un anno dopo il suo Fragment faustiano, uno scrittore dello Sturm und Drang, Klinger, scrive un romanzo in cui il protagonista è Faust ed è votato al nichilismo, al non-senso, alla perdizione. Uno scrittore che Goethe amava moltissimo, che amava in modo profondo e inquietante anche se era così lontano da lui, ossia Byron, ha scritto, quando Goethe era vivo (del resto Goethe gli è sopravvissuto), un suo Faust, il Manfred, pervaso anch’esso di disperazione nichilista, di inquietudine irresoluta, un’opera in cui certo il faustismo non tro- va salvezza, anche se conserva una grandezza demonica. Gli esempi sono moltissimi, soltanto il loro mero elenco ci porterebbe al di là dei limiti di tempo di questa chiacchierata. Ancora prima della morte di Goethe, uno scrittore teatrale tedesco di scomposto ma grande talento, Grabbe, scrive nel 1829 un dramma interessantissimo, Don Juan und Faust. Anche questa è un’opera estremamente malinconica, che rappresenta amaramente un faustismo in crisi: nel mondo degradato in cui Grabbe sente di vivere – appunto nel mondo che non conosce più la possibilità di grandi e forti sentimenti, di speranze storico-politiche e di opere che le rappresentino – la vitalità di Don Giovanni, sia pure spogliata dei suoi significati metafisici, conserva il suo significato, la sua brada e quasi animale ma eroica vitalità, mentre Faust, con i suoi tormenti filosofici, diventa quasi una marionetta, una figura patetica di dotto tedesco inadeguato alla vita e alla realtà, tragico proprio perché patetico. Molti decenni più tardi, Nietzsche vedrà in Faust l'incarnazione di una incapacità molto tedesca di vivere la vita, di una tedesca passione cerebrale e interiore incapace di tradursi in realtà, e ironizzerà questa figura; dirà di ridere di Faust. Nel mondo messo in scena da Grabbe, che è un mondo senza significato, la figura di Faust è destinata a una caduta, sia pure nobile e grande, a una condanna, sia pure alta. Faust è già un personaggio non più da tragedia, ma quasi da commedia, nel senso usato da Marx, quando diceva che le figure della storia universale, che per la prima volta sono comparse in forma di tragedia, nella loro fase finale ricompaiono ma in forma degradata di commedia, in forma di parodia. Anche nel Doktor Faustus Thomas Mann farà della parodia la chiave essenziale del suo faustismo. Nelle tante critiche rivolte al Faust di Goethe, critiche che all’inizio trovano consenzienti quasi tutti, conservatori e progressisti, con- cordano pure molti teologi sia cattolici sia protestanti. I cattolici danno la colpa ai protestanti, vedono nel faustismo un fenomeno tipicamente protestante, e i protestanti vedono invece nel Faust qualcosa di cattolico e rimproverano soprattutto a Goethe il finale cattolicheggiante. Criticano il Faust di Goethe anche gli intellettuali progressisti, gli scrittori della Giovane Germania: le accuse sono quelle di non avere capito la rinascita della Germania e le sue trasformazioni sociali, di essere stato insensibile nei confronti del proprio Paese e soprattutto di essersi concentrati su una grande figura individuale strappata dal suo contesto sociale umano e più ampio. Anche filosofi notevoli e degni di tutto rispetto rimprovereranno a Goethe di aver mancato la possibilità di fare del suo Faust un’opera classica e universale proprio per averlo avulso dal grande contesto dello sviluppo storico corale e collettivo. Una delle accuse più curiose e frequenti, avanzata dalle parti più diverse e anche ideologicamente più lontane, sarà quella che rinfaccerà a Goethe di non aver capito Faust, suggerendo implicitamente che Faust è più di Goethe, come se il vecchio tema popolare, tardomedioevale e rinascimentale che vedeva Faust finire dannato contenesse alcune verità essenziali, che Goethe poi non avrebbe capito. Infatti molti proporranno di ritornare alle origini pre-goethiane del Faust, come se, nel mondo della crisi contemporanea che non conosce più le grandi speranze e le grandi fedi del progressismo moderno (quello che induce a celebrare il Faust di Goethe come un “Vangelo” dell’azione), bisognasse tornare al Faust pre-moderno. Questo Faust pre-moderno, che si danna e che non crede più nella armoniosa evoluzione dell’umanità, ci sarebbe più vicino, nella nostra sensibilità contemporanea, del Faust di Goethe, del Faust che si salva. Insomma un Faust veramente attuale sarebbe il Faust in cui è il diavolo a vincere la sua scommessa. Infatti non è un caso che quasi tutti i Faust (sono mol- tissimi, potrò solo citarne qualcuno) successivi a quello goethiano finiscano dannati, perdano la loro scommessa. Molte di queste critiche contengono anche degli spunti estremamente acuti. Un importante filone di critica antifaustiana proviene dall’Austria absburgica, cioè dalla cultura austriaca barocco-cattolica, a cominciare dagli anni tra il 1830 e il 1840; questa cultura accusa il faustismo, la smania soggettivistica di azione senza scopo – ossia lo Streben – di essere un tipico fenomeno moderno, una prevaricazione soggettiva dell’individuo che pretende di proclamarsi un titano e in tal modo perde le sue radici nell’Essere e cade preda dell’angoscia, della cura. Questa critica vuole difendere l’Essere, la vita dalle prevaricazioni e dai turbamenti della Sorge, della Cura e quindi dallo Streben. Un teologo danese, Martensen, avanzerà questa critica nei confronti del Faust di Goethe e vedrà un Faust più autentico in quello di Lenau, grande poeta lirico austroslavo-ungherese morto pazzo, il quale nel suo poema faustiano mostra un Faust negativo e straziato, lacerato, incapace anche di godere e afferrare la vita e che alla fine si uccide perché pensa di essere soltanto un sogno inquietante di Dio. L’opera di Lenau è un’opera poeticamente bellissima, nella quale tuttavia non a caso ogni unità epica e anche ogni tensione drammatica si dissolvono in una liricizzazione, in una frantumazione lirica. Se il Faust di Goethe ha una sua epicità, un senso fortissimo dell’unità della vita nonostante i drammi di cui essa è costellata, il Faust di Lenau, come quasi tutti gli altri Faust dannati, è volutamente privo di questa unità epica e di questa tensione drammatica. È un’espressione del Weltschmerz, del dolore cosmico; Martensen vedeva in Lenau la giusta rappresentazione di un male moderno. Dalla scuola viennese, che si rifà soprattutto alle lezioni faustiane o antifaustiane di Enk von der Burg, usciranno degli anti-Faust ELZEVIRI 81 che opporranno il primato dell’Essere allo smanioso fare moderno; il più recente è un curioso romanzo uscito nel 1969, Die Fabel von der Freundschaft (La favola dell’amicizia) di Albert Paris Gütersloh, una curiosa e bizzarra figura di romanziere e pittore, un’opera antititanica nella quale è Faust a sedurre il diavolo. In genere, si rimprovererà spesso a Goethe di aver riconosciuto troppo poco potere al diavolo, di avere avuto una eccessiva fiducia nella dialettica della storia: non a caso nel Faust di Goethe Mefistofele dice di essere colui che vuole il male ma che, suo malgrado, è costretto a fare il bene, a svolgere una funzione che ha un senso nel disegno della storia, che è anche positiva. Alla coscienza contemporanea verrà sempre più spesso a mancare proprio questa fiducia nella dialettica, nella capacità della storia di integrare il negativo e il male. Anche un grande poeta lirico romantico tedesco, Eichendorff, autore di tanti incantevoli Lieder musicati da Schumann e da Schubert, rimprovererà Goethe di aver dato troppo poca realtà al diavolo, ossia al negativo; gli rimprovererà la hybris tipicamente moderna del soggetto che si autodivinizza, titanicamente, e in tal modo perde il proprio rapporto armonioso col mondo e anche con se stesso. Invece i critici legati a concezioni positive della storia, che credono nel progresso storico, celebreranno proprio il Faust goethiano come simbolo di questo progresso: da Karl Rosenkranz, per il quale il Faust di Goethe è il Vangelo moderno della civiltà che si redime nell’azione, sino a Lukács, per il quale, nella sua concezione dialettica marxista, il Faust di Goethe è il grande poema drammatico di una umanità che procede e avanza, nonostante tutti gli errori, le colpe, le ricadute e le sconfitte, verso mete e realizzazioni sempre più alte. Altri scrittori, intellettuali e filosofi progressisti saranno invece piuttosto negativi o comunque critici nei confronti del capolavoro 82 ELZEVIRI goethiano. Uno di questi è Friedrich Theodor Vischer, il geniale filosofo autore di una celebre teoria del comico e soprattutto inventore o scopritore della “perfidia dell’oggetto”, del disagio dell’uomo contemporaneo fra gli oggetti e nella realtà, e degli aspetti tragicomici di questo disagio, che emergeranno ad esempio più tardi nei film di Buster Keaton o di Chaplin. Per Vischer, Goethe non avrebbe mostrato l’emancipazione politica del suo eroe in connessione con il suo mondo; un autentico Faust avrebbe dovuto essere anche un rivoluzionario sociale. Al Faust di Goethe, per Vischer, manca il “Bauernkrieg”, la grande guerra dei contadini del secolo in cui è vissuto Faust ossia lo sfondo sociale. Il Faust sarebbe oppresso da una seriosità tipicamente tedesca, contro la quale Vischer, come Nietzsche, invoca una risata aristofanesca, proprio per liberare Goethe dal falso culto che lo mummifica. Vischer stesso scrisse una parodia del secondo Faust, una specie di terzo Faust, anche scurrile. Molte critiche rifiutano il secondo Faust, misconoscendolo nella sua grandezza e accusandolo di astrazione, di cerebralismo, di allegorismo. Critiche che arriveranno fino a Benedetto Croce e che misconoscono proprio la grandezza suprema del secondo Faust, che racconta già la nostra storia; il poema che porta Faust e tutti noi nel “grande mondo”. Un’opera, il secondo Faust, forse troppo in anticipo sul proprio tempo per poter essere compresa. Perfino Mazzini, che in un saggio giovanile esalta il primo Faust di Goethe, dice che l’eroe goethiano è l’eroe del tempo intermedio, della crisi tra il vecchio mondo e il nuovo che non è ancora sorto e che dovrà avere un altro eroe; Mazzini afferma, alla fine di questo saggio, che non ci sarà un secondo Faust. Quando invece Goethe, più tardi, scrisse questo secondo Faust, Mazzini si mostrò cautamente indeciso, ma sostanzialmente lontano anch’egli da quell’opera, avverso al suo carattere pretesamente allegorico e medioevale. Il primo grande storico della letteratura tedesca, Gervinus, accusa Goethe di non saper superare la dimensione privata e di esser privo di un sentimento nazionalprogressivo, accusa ribadita da un altro notevole storico della letteratura, Julian Schmidt, e da un romanziere come Friedrich Spielhagen, per il quale i Faust sono degli individui morbosamente incapaci di agire; lo Streben non appare più come l’azione, ma soltanto come una smania inquieta che impedisce una vera azione. L’aggettivo “faustiano” è spesso usato in un senso negativo; in una lettera, il padre di Marx rimprovera al figlio atteggiamenti o idee “faustiane” ovvero negativamente inconcludenti. Questa inattività sarà una costante accusa rivolta all’eroe di Goethe; dopo la seconda guerra mondiale, Eisler scriverà un’opera musicale sul Faust, nella quale Faust appare il simbolo dell’intellettuale umanista egoista che non sa unirsi al popolo nella guerra dei contadini – Eisler scrive il suo testo nei primi anni del secondo dopoguerra, nella Repubblica Democratica Tedesca, in un momento di ortodossia marxista di uno dei più ortodossi regimi marxisti, dei quali egli è fautore. Pochi anni dopo la morte di Goethe, Heine scrive il suo Faust e ne fa un balletto: Mefistofele diventa una seducentissima Mefistofela, ballerina in calzamaglia, e tutta la storia faustiana diventa una parodia dolorosa e beffarda, un malinconico e addolorato congedo che Heine rivolge al senso faustiano della vita, un congedo alla grande stagione della grande poesia dato da uno dei più grandi poeti tedeschi. Estremamente interessanti sono anche le annotazioni di Schopenhauer, per il quale lo Streben diventa la manifestazione dell’ingannevole volontà di vivere e l’eroina del poema diventa Margherita, proprio perché sa soffocare in sé la volontà di vivere, la dolorosa illusione di vivere, e sa così raggiungere la verità. Bisognerebbe parlare anche dei numerosi Faust che nascono in terra non tedesca, da quello di Pu- skin del 1826 al racconto di Turgeniev, dal dramma dell’ungherese Imre Madách all’italiano Boito, ai Faust dell’America Latina, che spesso prendono lo spunto dall’opera di Gounod e pongono l’accento soprattutto sulla funzione redentrice del personaggio femminile. Come ha osservato Borges a proposito di un Faust argentino di Estanislao Del Campo, anche in questo caso si ritorna spesso all’antico motivo pre-goethiano. Nel 1871, con la fondazione del Reich, ci sono invece molte celebrazioni entusiaste ed esaltate del Faust, nelle quali il faustismo e lo Streben faustiano diventano il simbolo dell’espansionismo dell’impero tedesco che deve andare verso l’illimitato, diventano espressione di una pretesa essenza faustiana dello spirito tedesco, diventano la quintessenza del germanesimo. Tutto ciò va, ovviamente, contro lo spirito di Goethe, cosmopolita e universale e proprio per questo spesso rimproverato di scarsa tedeschità dai tedeschi; spesso dunque anche in questa esaltazione dello spirito faustiano (di un Faust che diventa quasi una specie di Sigfrido), si assiste a una dissociazione fra Goethe e il Faust. Naturalmente stiamo parlando di grandi fenomeni, di atteggiamenti culturali dell’epoca, e non della vera e propria critica letteraria, che continua a dare delle interpretazioni fedeli, accurate e acute del capolavoro goethiano. Più tardi ancora, questa esaltazione del faustismo come essenza del germanesimo e della sua tensione all’illimitato viene esasperata, ma al contempo cambia di significato. Fra i tanti esem- pi, basti ricordare quello che li riassume tutti ossia quello di Spengler, l’autore del celeberrimo Tramonto dell’Occidente. Per Spengler l’anima faustiana è l’anima occidentale ossia l’anima tedesca, lo spirito che non ha mai requie ed è sempre destinato ad agire, a lottare, ad avanzare, a conquistare ma per il nulla; non, come per i teorici patriottardi dell’impero guglielmino, per creare un grande mondo tedesco, ma piuttosto per andare incontro alla catastrofe e alle distruzioni con lo spirito tedesco di amore della fatalità e anche della propria distruzione. Questo faustismo di Spengler, ovviamente, non ha nulla in comune con quello di Goethe e nemmeno con quello della tradizione precedente. Anche tra i Faust non tedeschi si diffonde una profonda inquietudine, un senso dolorosissimo che l’avventura di Faust è l’avventura suprema, ma – in un mondo come quello contemporaneo – comincia a scricchiolare. Il senso del Faust (della scommessa, della domanda di Margherita sulla fede o no in Dio, della salvezza o della perdizione) esiste soltanto quando c’è la fede in un individuo in qualche modo forte, finché si pensa che esista un individuo, magari infelice, tragico, percosso dalle sofferenze ma dotato di una precisa e forte individualità, in grado dunque di porre il problema della propria salvezza o della propria dannazione, sia che la si intenda sul piano religioso sia che la si intenda su quello storico-politico-sociale. Quando invece una gran parte della cultura moderna, negli ultimi decenni del XIX secolo, comincia a dubitare che esista l’individuo e comincia a credere che l’individuo sia soltanto un provvisorio e labile insieme di pulsioni e contraddizioni, un’“anarchia di atomi”, come diranno Nietzsche e Musil, un “flatus vocis” non più reale di una giacca che ci si mette addosso, allora il problema del faustismo comincia a entrare in una grande crisi e nascono grandi Faust che vivono proprio di questa angoscia. ELZEVIRI 83 Faust e Margherita in giardino. Cromolitografia da un’illustrazione di Eugen Klimsch, 1903. Faust and Margaret in the garden. A chromolithograph from a Eugen Klimsch illustration, 1903. Una scena del Faust di Gounod messo in scena al Bastille Opera di Parigi nel 2001. A scene from Gounod’s Faust as performed at the Bastille Opera of Paris in 2001. Se non esiste più l’individuo, se l’individuo si dissolve nel magma delle sue pulsioni, come afferma tanta cultura del secolo scorso, da Nietzsche a tante filosofie analitiche, allora Faust non può essere se non una dolorosa parodia dello Streben faustiano, che è la quintessenza dell’individualismo. Infatti nelle culture in cui esiste ancora – magari nella tragedia – una forte fede in quello che San Paolo chiama “il buon combattimento” della vita, c’è anche la fede nel Faust: Bulgakov scrive per decenni Il Maestro e Margherita, in una delle situazioni più difficili e tragiche della storia, ma scrive un’opera in cui trapela una fede nella scommessa faustiana, nel problema della salvezza o non salvezza, proprio perché Bulgakov vive in una cultura animata dal senso che la vita, anche nella tragedia, è costituita dai grandi interrogativi, e dal senso che gli individui, magari travolti e stritolati, sono individui la cui esistenza ha un significato. La cultura occidentale appare invece spesso permeata dal senso del niente, da uno svuotamento della fede nell’individuo. Il famoso monologo iniziale faustiano sulla vanità dello studio diventa, in Flaubert, la comica, grandiosa e grandiosamente imbecille enciclopedia di Bouvard e Pécuchet; nel 1924 Michel de Ghelderode scrive una Mort du Docteur Faust, in cui Faust non è più vivo ma monologa facendo la parodia di se stesso; la storia del Faust diventa la storia delle complicazioni tra i veri personaggi del mito faustiano e gli attori che interpretano la loro parte, in un pandemonio di equivoci che declassa la vicenda faustiana a grottesca e pagliaccesca insensatezza; solo il diavolo conserva una sua dignità e rifiuta l’anima di Faust, senza neanche dirgli se ne abbia una o no. Una delle più grandi pagine sullo svuotamento del Faust l’ha scritta Svevo. Si tratta di uno dei più grandi Faust anche se è un apologo brevissimo, una mezza pagina scritta sul retro di uno degli ultimi racconti incompiuti e chia- 84 ELZEVIRI mata convenzionalmente “L’ora di Mefistofele”. Svevo immagina che il protagonista – il quale è sempre un vecchio, dovrebbe essere il vecchio Zeno che continua a vivere dopo aver scritto La coscienza di Zeno – stia andando a letto. È mezzanotte, la moglie sta dormendo e russando pesantemente, come la descrive Svevo con scarsa galanteria coniugale, e il vecchio che si sta spogliando pensa: è mezzanotte, quindi è l’ora in cui potrebbe venire Mefistofele e propormi il vecchio patto. E da uomo secolarizzato, completamente polverizzato dalla secolarizzazione come è lui, pensa: certo che gli darei l’anima, subito, ma per cosa? Per la giovinezza? Per carità, la gio- vinezza è dolorosa e piena d’inquietudini e di malinconia, anche se la vecchiaia non diventa per questo più allegra. Per l’immortalità? È un’idea terribile questa di non poter morire mai, non per niente Gesù nella leggenda ha condannato l’ebreo errante a una vita eterna, ma non per questo la morte diventa meno orribile. E il vecchio s’accorge che non ha niente da domandare. E a questa terribile immagine, una delle spiagge estreme del nichilismo occidentale, si sovrappone un’altra immagine: il vecchio si figura Mefistofele che nell’inferno si gratta perplesso la barba, come un viaggiatore di commercio di una ditta i cui prodotti sono scarsamente ri- ca contemporanea. È significativo che pure un grande scrittore classico e vicino a Goethe come Thomas Mann, forse l’unico scrittore contemporaneo veramente vicino a Goethe, abbia sentito il bisogno, per accostarsi a Faust, di riandare indietro, di risalire alla fase precedente a quella goethiana. Potrei fare ancora molti altri esempi, di più o meno recenti Faust tedeschi e non tedeschi. Ricorderò soltanto, fra le diagnosi sulla fine del Faust, la famosa battuta di Günther Anders, secondo il quale nell’era della bomba atomica, di una catastrofe completamente sottratta alle possibilità della responsabilità individuale, Faust è morto, non è più possibile. Ricorderò ancora il Faust croato di Snaider, un Faust ambientato durante la seconda guerra mondiale, che si rifà a un reale episodio della guerra e della resistenza in Jugoslavia e che intreccia la rappresentazione del Faust di Goethe alla vicenda che coinvolge gli attori di questa rappresentazione nella resistenza e nella lotta contro i nazisti e gli ustascia (Margherita ad esempio viene torturata dagli ustascia e così via). Si tratta di una attualizzazione e dunque, a differenza degli esempi precedenti, di un atto comunque di fede nel Faust o nel faustismo. Ma il più grande atto di fede faustiano relativamente recente si trova in un capolavoro della narrativa universale, nel Grande Sertâo di Jôao Guimâraes Rosa, un Faust brasiliano che non soltanto costituisce uno dei vertici della narrativa mondiale, ma anche recupera quella dimensione epica che è necessaria ad ogni autentico confronto con il tema faustiano. Il protagonista, una notte, va ad attendere il diavolo e il diavolo non viene, perché il diavolo è proprio il nulla, colui che non c’è, colui che non viene. Il diavolo è appunto il terribile gorgo del nulla, la massima tentazione; il più grande pericolo che corre il protagonista è quello di cedere a questa rivelazione del niente, di credere a ciò che vede e cioè di non credere a niente. È una pagina breve, ma a ˆ chiesti. A questa immagine del diavolo come viaggiatore di commercio in crisi, egli ride forte, con una delle più terribili risate, veramente nietzscheane, che siano echeggiate nella letteratura. Mentre ride, s’infila fra le coperte, e la moglie, mezza svegliata, gli dice che lui è ben fortunato ad aver voglia di ridere anche a mezzanotte, e si volta e continua a russare dall’altra parte. Qualche anno più tardi, nel Mon Faust di Paul Valéry, scritto fra il 1941 e il 1945, Mefistofele non si raccapezza più e nemmeno Faust sa bene se esiste o no, crede di esistere soltanto perché esiste in un libro; la crisi dell’identità faustiana comporta la crisi di ogni individualità, si può soltanto tirare a sorte per sapere chi uno sia stato. Un niente vertiginoso pervade anche il Faust di Pessoa; Tommaso Landolfi mostra nel suo Faust (’67) un Faust che non vuole diventare personaggio; diversamente dal personaggio pirandelliano che preme perché il drammaturgo gli dia vita, questo è un personaggio che non vuole nascere e trova in questa sua volontà di non essere il suo unico significato. Nel Votre Faust di Butor-Posseur, una pièce scritta fra il ’60 e il ’68 in varie stesure, con l’ambizione di creare una pièce variabile, dalla quale ogni spettatore possa scegliere la sua parte, come in un testo mobile, si immagina un direttore di teatro che commissiona un Faust a un drammaturgo. La tentazione sarebbe appunto quella di scrivere il Faust, con tutte le implicazioni politiche, sociali ed esistenziali; alla fine il protagonista, il drammaturgo, si salva proprio perché si rifiuta di scrivere un Faust. Il più grande esempio di ritorno alle origini pre-goethiane del Faust è ovviamente il Doktor Faust di Thomas Mann, nel quale il mito faustiano diventa l’essenza sia della catastrofe dell’intera storia tedesca sia della tragedia dell’arte contemporanea, con tutte le implicazioni e le note polemiche insite in questa concezione dell’arte e soprattutto della musi- mio avviso una delle più grandi pagine faustiane, di tutta la storia del faustismo. Nonostante la terribile notte (notte canonica della tradizione faustiana dell’evocazione del diavolo) al mattino il protagonista risale a cavallo, rigenerato anch’egli nel rosso dell’aurora come il Faust di Goethe, e riprende la sua vita, si rituffa, com’egli dice, nell’andirivieni, ossia nella vita, pieno di turbamento ma non senza destino. È una delle rare proposte contemporanee in cui lo Streben continua, sia pure in altre forme, ad avere un significato. Ho abusato del tempo che mi è stato concesso, anche se ho tralasciato tante, troppe cose, e senza soffermarmi, come avrei dovuto e dovrei, sui grandi testi di critica letteraria che hanno tracciato egregiamente la storia del Faust e del faustismo e ai quali è debitrice anche questa chiacchierata. Ho cercato di passare in rassegna uno stato d’animo che dura da un secolo e mezzo. Una domanda che ci dobbiamo porre è anche quella che parecchi anni fa ho posto a Giorgio Strehler in occasione della sua traduzione, messinscena e interpretazione dell’intero Faust goethiano I e II al Piccolo di Milano e che è questa: la storia del faustismo, un grande capitolo di storia, è la storia di una crisi. Si tratta di una crisi storicamente provvisoria o assoluta, definitiva? Che cosa significa oggi rappresentare il Faust? Quando un grande uomo d’arte si pone davanti al Faust, naturalmente ben consapevole di tutto ciò che è accaduto col faustismo e anche della crisi che lo ha investito nell’ultimo secolo e mezzo, come fa a salvare quel senso classico, universale-umano del Faust, senza ignorare la crisi contemporanea e anche il suo scetticismo nei confronti del Faust, ma attraversando a fondo questa crisi, per superarla? È anche questo un Faust, un’impresa davvero “incommensurabile”, come Goethe diceva del Faust? Forse, come aveva più o meno detto Strehler, lo Streben di tante inesauribili riprese e messinscene è 䡵 già una risposta. ELZEVIRI 85 FAUST AFTER GOETHE The figure of Faust is so significantly symbolic that each generation which confronts it must ponder the meaning of life, history and itself. The fundamental question is whether Faust can save himself, mainly thanks to his inner yearning to live fully the passing moment. The truth is that high calibre authors such as F. Nietzsche and T. Mann gave many facets to this character. G. Mazzini depicted him as the hero of the conflict between the old and new world that has yet to appear. With the foundation of the Reich in 1871, Faustism was celebrated as the symbol of the expansionism of the German empire which must seek the infinite. Svevo too challenges Faust, giving rise to a definitive crisis of identity and individuality. DANTE POETA delle stelle ANNA BORDONI DI TRAPANI Docente di Letteratura italiana DANTE, POET OF THE STARS The stars are a fundamental symbol in Dantean poetry: they are the imaginary destination in his other-worldly journey towards God. The definitions of Inferno as “a starless sky” or rather “a place of muted light” are certainly not coincidental. And when the journey’s trials among the damned come to an end, Dante will “once again see the stars”. The night’s starry vault is often a source of comfort to the poet. After the less enthralling interlude in Purgatory, the light symbology is further embellished in Paradise: the movement of the celestial spheres is represented as harmonious music and unrestricted light. The greatest joy of the blessed souls is defined as bringing greater contributions of light. The centrality of the “holy light” theme is further evidenced by the fact that the word “star” reconfirms all three of the Comedy’s cantos: a choice that goes beyond the simple bonds of medieval symbology. Dante è il poeta italiano che con maggiore intensità e rapimento ha rivolto gli occhi al cielo stellato. Solo Leopardi può stargli a fianco, ma molto diverse furono in lui la sensibilità e le motivazioni che lo inducevano a “ragionar” con le stelle “sul paterno giardino scintillanti”. Qui ci dedichiamo a Dante, e ci proponiamo di fermare la nostra attenzione soprattutto sugli esiti più intensamente lirici di quel suo straordinario interesse per i fenomeni celesti, a cui si devono anche le numerosissime descrizioni astronomiche e cosmologiche che impreziosiscono il tessuto della Divina Commedia. Ma esse sono spesso così difficili da interpretare, per la loro complessa elaborazione stilistica e concettuale, e così lontane dal nostro gusto moderno, che certo non si prestano ad una fruizione immediata, né noi intendiamo qui approfittare troppo della pazienza dei lettori. Non ci cimenteremo perciò, come facevamo sui banchi di scuola, con tutte quelle raffinate e circostanziate perifrasi astronomiche, né con i loro importanti risvolti scientifici, filosofici, allegorici e religiosi, ma ci limiteremo a sfogliare il testo un po’ svagatamente, per soffermarci su alcune immagini celesti di grande potenza rappresentativa, su certi indimenticabili squarci contemplativi, capaci di evocare e rinnovare in noi l’emozione e il coinvolgimento che la lettura della Commedia ci ha altre volte regalato. Per Dante le stelle sono anzitutto la meta reale e ideale del suo epico e simbolico viaggio ultraterreno: significativamente la parola in rima “stelle” suggella tutte e tre le cantiche della Com86 ELZEVIRI media, né si tratta di una pura simmetria di gusto medievale, ma di un motivo che percorre e lega tutto il poema. Nella cosmologia dantesca infatti le stelle sono “luci sante”, attraverso le quali risplende la luce divina, e l’influenza che esse esercitano sul mondo e sugli uomini si iscrive appunto entro il piano provvidenziale di Dio. La sua avventura ha inizio con il drammatico smarrimento in una “selva selvaggia e aspra e forte”, e soprattutto immersa nel buio di una notte “oscura”. Dante è terrorizzato, ma quando, guardando in alto, scorge finalmente le pendici di un colle “vestite già de’ raggi del pianeta, / che mena dritto altrui per ogni calle”, ne è molto rincuorato e spera ancora di uscirne sano e salvo. Il sole è fonte di ogni luce (nel sistema cosmologico dantesco anche le stelle brillano della sua luce riflessa) ed è, nella simbologia del poema, l’immagine primaria di Dio. Anche l’ora mattutina e la congiunzione del sole con la costellazione primaverile dell’Ariete sembrano di buon auspicio al pellegrino, che spera perciò di poter respingere le tre belve che gli si oppongono all’uscita dalla selva e di salire quanto prima “il dilettoso colle”: Temp’era dal principio del mattino, e ’l sol montava in su con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino mosse di prima quelle cose belle sì ch’a bene sperar m’era cagione... (INF. I, 37-41) Speranza mal riposta, perché ben altro viaggio hanno predisposto per lui i disegni imper- scrutabili di Dio. A farglieli conoscere sarà Virgilio, l’inviato speciale della Provvidenza, accorso in suo aiuto; ma per indurre Dante a seguirlo in un viaggio nell’aldilà, egli dovrà far ricorso a tutte le risorse dell’arte della persuasione. Quando Dante, con molta perplessità, finalmente si accinge a seguire la sua guida, il cielo si andava ormai oscurando sulla terra: Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno toglieva li animai che sono in terra da le fatiche loro; e io sol uno m’apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sì della pietate che ritrarrà la mente che non erra. (INF. II, 1-6) Lo attendono infatti “l’aere sanza stelle” dell’Inferno, la “valle d’abisso dolorosa” che subito si mostra al pellegrino non appena Virgilio lo introduce “giù nel cieco mondo”. Nel buio fondo dell’Inferno, in quel “loco d’ogni luce muto”, non c’è cielo, non ci sono stelle, se non nelle parole di Virgilio, che in quell’“aura sanza tempo tinta”, si preoccupa di tenere via via informato Dante dello scorrere del tempo: ...già ogne stella cade che saliva quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta. (INF. VII 98-99) È dunque circa la mezzanotte. E dopo una breve sosta notturna, il maestro sollecita il discepolo a riprendere il cammino: Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,... (INF. XI, 112-113) Breve perifrasi astronomica per indicare che si avvicina l’alba (i Pesci precedono immediatamente l’Ariete, che ora è in congiunzione col sole): incomincia così per Dante la seconda giornata di discesa nell’Inferno. Solo dopo averlo tutto dolorosamente attraversato, egli potrà “riveder le belle stelle”, come gli augureranno nostalgicamente tre illustri fiorentini dannati fra i sodomiti. Ma lungo il viaggio Virgilio continua a fornire, di tanto in tanto, le coordinate astronomiche, perché Dante non smarrisca, in quel buio d’inferno, la nozione del tempo che scorre: E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n’è concesso, e altro è da veder che tu non vedi. (INF. XXIX, 10-12) Sono cioè circa le tredici e al tramonto bisognerà iniziare la lunga risalita. Virgilio è una guida assolutamente puntuale e, giunta l’ora stabilita, non transige: Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto. (INF. XXXIV, 68-69) E così il pellegrino e la sua guida si mettono in cammino, risalendo faticosamente dalla profonda notte infernale. Quando Dante finalmente giungerà all’estremo della cavità che lo riporta “nel chiaro mondo”, subito il suo sguardo istintivamente correrà, attraverso un’apertura tonda, a “le cose belle, che porta ’l ciel” e finalmente potrà sbucar fuori all’aperto e tornare “a riveder le stelle” (INF. XXXIV,139). E qual piacere è per lui, appena uscito “fuor de l’aura morta” poter contemplare, dall’isola del Purgatorio, il “dolce color d’oriental zaffiro” che si diffonde nel sereno puro del cielo mattutino, ancora trapunto di stelle! Lo bel pianeto che d’amar conforta faceva tutto rider l’oriente, velando i Pesci ch’erano in sua scorta. I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente. Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle; (PURG. I, 17-25) Allo spettacolo degli astri splendenti il viandante si riconforta e volge intorno lo sguardo a godere del paesaggio che l’alba ormai lascia chiaramente intravedere: L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano ELZEVIRI 87 William Blake, La Divina Commedia, Bibliotéque de l’Image, Paris, 2000. Inseguito da tre fiere, Dante viene salvato da Virgilio. William Blake, The Divine Comedy, Bibliotéque de l’Image, Paris, 2000. Pursued by three wild animals, Dante is saved by Virgil. William Blake, La Divina Commedia, Bibliotéque de l’Image, Paris, 2000. Dante e Stazio dormono mentre Virgilio veglia. William Blake, The Divine Comedy, Bibliotéque de l’Image, Dante and Statius sleep while Virgil keeps watch. conobbi il tremolar de la marina. (PURG. I, 115-117) D’ora in poi il viaggio di Dante si svolgerà sotto la volta confortante del cielo; egli spesso volgerà lo sguardo verso l’alto per contemplarla, e anche per definire, attraverso le rivoluzioni degli astri, le coordinate spaziali e temporali della sua ascesa. Più frequente si fa perciò la poesia dell’astronomia, con l’effetto di collocare l’avventura ultraterrena dell’umile “viator” sullo sfondo sconfinato dei fenomeni celesti. I due pellegrini si mettono dunque in cammino, costeggiando la riva del mare, perché per ora le ripide pareti del monte appaiono inaccessibili: già Catone, il custode del Purgatorio, era intervenuto a rassicurarli: lo sol vi mostrerà, che surge omai, prendere il monte a più lieve salita. (PURG. I, 107-108) E nel frattempo, il colore del cielo che già era passato dal bianco dell’alba al rosso dell’aurora, 88 ELZEVIRI si va stingendo in un giallo dorato: sì che le bianche e le vermiglie guance, là dov’ i’ era, de la bella Aurora per troppa etate divenivan rance. (PURG. II, 7-9) Sta spuntando il sole che in breve tempo saetterà la sua luce in tutte le direzioni. Ora Dante e Virgilio camminano lungo la parete rocciosa, col sole alle spalle “che dietro fiammeggiava roggio” e Dante drizza gli occhi alla grande mole del monte “che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga”: potranno iniziarne la scalata solo quando finalmente troveranno un luogo dove il ripido pendio si faccia più accessibile, “sì che possa salir chi va sanz’ala”. Soltanto allora incomincia la salita del Purgatorio: Virgilio davanti, e Dante affannosamente “carpando appresso lui”. Qualche breve pausa i due pellegrini se la concedono, per parlare con le anime che incontrano, ma sempre Virgilio incalza il discepolo a riprendere il cammino, “ché perder tempo a chi più sa più spiace”. Quando ormai “il poggio l’ombra getta” e scende la sera, essi sono però costretti a fermarsi in una valletta verde per ritemprare le forze e aspettare che sorga il nuovo giorno. E intanto nel cielo australe appaiono le stelle: Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur là dove le stelle son più tarde, sì come rota più presso a lo stelo. E ’l duca mio: «Figliuol, che là su guarde?» E io a lui: «A quelle tre facelle di che ’l polo di qua tutto quanto arde». Ond’elli a me: «Le quattro chiare stelle che vedevi staman, son di là basse, e queste son salite ov’eran quelle» (PURG. VIII, 85-93) Trascorse quasi tre ore dall’inizio della notte, Dante, “vinto dal sonno” e dalla stanchezza, si addormenta profondamente sull’erba fiorita. Si sveglierà tardi, quando “’l sole er’alto già più che due ore” e si troverà accanto il maestro che affettuosamente lo rassicura. Assieme riprendono la salita, trattenendosi e dialogando con le anime che incontrano di cornice in cornice. Un’altra intera giornata di cammino, perché la saggia guida non concede di interrompere la salita prima che scenda l’ombra della sera: procacciam di salir pria che s’abbui, ché poi non si poria, se ’l dì non riede. (PURG. XVII 62-63) Ma poco dopo il sole tramonta e Dante si sente ormai “la possa de le gambe posta in triegue”. Non è più possibile andare avanti: nell’ombra del crepuscolo cominciano ad apparire in cielo le prime stelle: Già eran sovra noi tanto levati li ultimi raggi che la notte segue, che le stelle apparivan da più lati. (PURG. XVII, 70-72) Questa volta Virgilio, per trarre “buon frutto” dalla sosta, intrattiene il suo discepolo in dotte disquisizioni sull’amore e la libertà. Dante ascolta interessato e pone domande, ma, terminata la lezione del maestro, corre ancora una volta con lo sguardo al cielo, dove la luna, col suo brillante chiarore ramato, fa impallidire le stelle: La luna, quasi a mezzanotte tarda, facea le stelle a noi parer più rade, fatta come un secchion che tuttor arda; (PURG. XVIII, 76-78) Dante, immerso in questo suggestivo e rassicurante paesaggio notturno, passa di pensiero in pensiero, “com’om che sonnolento vana”, finché piano piano il “pensamento” si tramuta in sogno. Dormirà a lungo, sprofondato in un drammatico sogno simbolico, tanto che si farà chiamare ben tre volte da Virgilio, prima di destarsi. E perciò il sole era già alto sull’orizzonte, quando i due viandanti si incamminano “col sol novo alle reni”. Inizia così un’altra giornata, fitta di incontri e di slanci affettivi e quando i pellegrini arrivano all’ultimo girone, ormai il giorno sta declinando: per anni il sole in sull’omero destro, che già, raggiando, tutto l’occidente mutava in bianco aspetto di cilestro. (PURG. XXVI, 4-6) Sullo sfondo luminoso del tramonto si svolge il colloquio di Dante con Guido Guinizzelli, ani- mato da grande slancio affettivo, ed intensa gratitudine. Questa volta sarà un angelo ad esortare i viandanti perché sfruttino al meglio il tempo a disposizione per la salita: «Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera; non v’arrestate, ma studiate il passo, mentre che l’occidente non s’annera». (PURG. XXVII, 61-63) Ma il sole “era già basso”, tanto che stendeva una lunga ombra davanti a Dante. Perciò i pellegrini fanno appena in tempo a salire alcuni gradini che il sole tramonta alle loro spalle. La sosta è ormai obbligata e, prima che il cielo diventi di un unico colore e la notte nasconda tutto nelle sue tenebre, essi si coricano ciascuno su un gradino dell’erta scala, scavata nella roccia. Di lì Dante, chiuso fra le pareti rocciose, poco può vedere della volta celeste, ma, per quel poco, vedea io le stelle di lor solere e più chiare e maggiori (PURG. XXVII, 89-90) Ormai la cima del Purgatorio è vicina e, contemplate da quell’alta specola, più vicine sembrano a Dante anche le stelle. Nel silenzio di questa pausa contemplativa, egli scivola lentamente nel sonno: Sì ruminando e sì mirando in quelle mi prese sonno... (PURG. XXVII, 91-92) e saranno, questa volta, sonni tranquilli, attraversati da un sogno profetico e rassicurante. L’indomani il risveglio sarà puntuale all’alba: a svegliarlo saranno “li splendori antelucani”: le tenebre fuggian di tutti lati e ’l sonno mio con esse; ond’io leva’mi, (PURG. XXVII, 112-113) I due viandanti si rimettono dunque in cammino: ormai manca poco alla meta del Paradiso terrestre, dove Dante è atteso da “li occhi belli” di Beatrice. Virgilio affettuosamente glielo ricorda ed egli si riempie di gioia e di alacrità: Tanto voler sopra voler mi venne de l’esser su, ch’ad ogne passo poi al volo mi sentia crescer le penne. (PURG. XXVII, 121-123) Ed infatti i gradini della ripida scala che ancora lo separano dalla meta agognata voleranno via sotto i suoi piedi. Qui Virgilio si accomiata da lui, perché ormai Dante non ha più bisogno della la sua guida: “Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce”, gli dice per rassicurarlo dell’ormai recuperato stato di grazia. Nel Paradiso terrestre Dante troverà una Beatrice altera e risentita, ma decisa comunque a salvare “quei che l’amò tanto”, e lei sa bene attraverso quali rimedi e riti purificatori potrà renderlo finalmente “puro e disposto a salire a le stelle” (PURG. XXXIII, 145). Il viaggio di Dante e Beatrice dalla cima del Purgatorio verso l’Empireo inizia significativaELZEVIRI 89 Silografia di una rarissima edizione del 1544, accompagnata dal commento di Landino e Vellutello. Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai. Woodcut of a very rare edition of 1544, accompanied by the comment of Landino and Vellutello. Bergamo, Angelo Mai Civic Library. William Blake, La Divina Commedia, Bibliotéque de l’Image, Paris, 2000. Dante e Beatrice nella costellazione dei Gemelli. William Blake, The Divine Comedy, Bibliotéque de l’Image, Dante and Beatrice in the constellation of the Gemini. mente sotto il sole di mezzogiorno, come precisa subito Dante, attraverso una solenne e circostanziata perifrasi astronomica, tesa a fornire, secondo il gusto medioevale, le coordinate spazio-temporali dell’eccezionale evento. Egli vede Beatrice tutta rivolta a “riguardar nel sole” e non gli resta che imitarla: ...e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso. (PAR. I, 54) Ma subito dopo aggiunge : Io nol soffersi molto, né sì poco, ch’io nol vedessi sfavillar dintorno com’ferro che bogliente esce del foco; e di subito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d’un altro sole adorno. Beatrice tutta ne l’etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là su rimote. (PAR. I, 58-66) Con lei Dante sta attraversando, più veloce di un fulmine, la sfera del fuoco, che nella cosmologia aristotelica è l’estremo confine del mondo sublunare. Da questo momento Beatrice sarà la sua “dolce guida e cara” e, grazie a lei “ch’a l’alto volo gli vestì le piume”, Dante potrà compiere la sua vertiginosa scalata al cielo, fino a vedere, nel profondo dell’essenza di Dio, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna. (PAR. XXXIII, 86-87) Il pellegrino celeste salirà di pianeta in pianeta, dal cielo della Luna, che è “la prima stella” al cielo di Saturno, che è il “settimo splendore”, e su ancora, fino al cielo delle stelle fisse, “’l ciel cui tanti lumi fanno bello”, e di lì al primo mobile, il “cielo velocissimo” che, trasparente e uniforme, imprime il movimento a tutti gli altri cieli, ed infine all’Empireo, il “ciel ch’è pura luce” e che immateriale e immobile racchiude e muove tutto l’universo. Nel Paradiso gli scenari celesti che si schiudono all’alto volo di Dante sono ben diversi dalle 90 ELZEVIRI suggestive notti stellate che il pellegrino contemplava con rapito stupore salendo il monte del Purgatorio. Qui nessuna magia di cieli notturni, non luminosità di tramonti, né “splendori antelucani”, qui il moto rotante delle sfere celesti si manifesta a Dante esclusivamente come musica armoniosa e luce dilagante. I pianeti sono “corpi levi” incastonati nella materia diafana dei cieli, che Dante via via attraversa penetrandoli. E con quanta esaltazione egli entrerà nel cielo del sole! lo ministro maggior de la natura, che del valor del ciel lo mondo imprenta e col suo lume il tempo ne misura ... e io era con lui; (PAR. X, 28-30; 34) Il motivo della luce, che diventa sempre più intensa e radiosa man mano che si sale, fa parte della struttura stessa del Paradiso. La diversa intensità luminosa dei cieli è il segno delle peculiari virtù dei “santi giri”: ciascuno di essi provvidenzialmente esercita specifiche influenze sulla terra e sulla vita umana, imprimendo il proprio “suggello a la cera mortale”. Anche le costellazioni con le quali il sole si trova via via congiunto nel corso dell’anno, sono sapientemente predisposte dai disegni divini lungo la fascia dello zodiaco per drizzare “ciascun seme ad alcun fine, / secondo che le stelle son compagne”. E – segno tangibile della grazia divina che lo assiste nella sua esaltante ascesa celeste – Dante, quando giungerà nel cielo delle stelle fisse, si verrà a trovare proprio nei Gemelli, la costellazione che l’ha visto nascere, la sua “stella”, grazie alla quale già il suo maestro, Brunetto Latini, giù nel buio inferno, gli aveva predetto: Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben m’accorsi ne la vita bella. (INF. XV, 55-57) Ora, tutto immerso proprio nella costellazione dei Gemelli, il pellegrino celeste innalza commosso una vibrante preghiera di ringraziamento: O gloriose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, con voi nasceva e s’ascondeva vosco quelli ch’è padre d’ogni mortal vita, quand’io senti’ di prima l’aere tosco; e poi, quando mi fu grazia largita d’entrar ne l’alta rota che vi gira, la vostra region mi fu sortita. (PAR. XXII, 112-120) A questo punto Dante è ormai “sì presso a l’ultima salute”, che Beatrice lo esorta a guardare in giù, un’ultima volta, perché si renda conto del cammino compiuto: Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante; ... E tutti e sette mi si dimostraro quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo. L’aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom’io con li etterni Gemelli, tutta m’apparve da’ colli a le foci; poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. (PAR. XXII, 133-135; 148-154) Man mano che Dante sale, la sua vista va intensificandosi e i cieli si smaterializzano sempre più ai suoi occhi, diventano immensi laghi di luce. Anche le anime dei beati vanno “vie più lucendo” e se nel cielo della luna conservano ancora l’aspetto di “specchiati sembianti”, già a partire dal cielo di Mercurio esse si presentano come “splendori” che si accendono “del lume che per tutto il ciel si spazia”, e per il loro fulgore sono inafferrabili alla vista. Il tema della luce, che cresce in corrispondenza della maggior letizia delle anime, diventa ormai il filo conduttore nella rappresentazione degli spiriti beati: essi risplendono “come in fiamma favilla”, sono “ardenti soli” la cui luminosità supera quella solare, sono “sempiterne fiamme” che si dispongono in vere e proprie “costellazioni”, in forma di tre corone concentriche, di croce luminosa che spicca sullo sfondo rosso del cielo, di grande aquila araldica “ con l’ali aperte”. Le “luci sante” sembrano “lucidi lapilli”, “fuochi” scintillanti come le stelle, brillanti come rubini e Dante li contempla affascinato: parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse si acceso, che ne’ miei occhi rifrangesse lui. (PAR. XIX, 4-6) Nei momenti di maggior rapimento contemplativo, lo spettacolo ineffabile che le “vive luci” gli offrono, sempre evoca alla mente di Dante la sua esperienza terrestre di attento osservatore dei fenomeni celesti: Quando colui che tutto ’l mondo alluma de l’emisperio nostro sì discende, che ’l giorno d’ogne parte si consuma, lo ciel, che sol di lui prima s’accende, subitamente si rifà parvente per molte luci, in che una risplende; e questo atto del ciel mi venne a mente,... (PAR. XX, 1-7) Siamo nel cielo di Giove: è il momento magico in cui l’aquila celeste cessa di parlare e al suo silenzio succede il canto melodioso delle anime che la compongono. Nel loro coro la voce dell’aquila si articola in tante voci singole, come nelle stelle si moltiplica la luce del sole che è calato dietro l’orizzonte. E più su, quando Dante si appresta a descrivere il trionfo di Cristo con tutti i beati dei sette cieli, è ancora lo spettacolo di una notte serena di plenilunio, trapuntata di stelle, ad offrirsi come possibile termine di paragone all’ineffabile visione: Quale ne’ plenilunii sereni Trivia ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid’i’ sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l’accendea, come fa ’l nostro le viste superne; (PAR. XXIII, 25-30) Anche il primo canto dell’Empireo si apre con un affresco naturalistico di grande suggestione lirica: un cielo stellato che si illumina gradualmente all’alba, quando avanzando l’aurora, messaggera del sole, a poco a poco si spengono le stelle, prima le meno luminose, e poi via via anche le più splendenti. ...quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch’alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così ’l ciel si chiude di vista in vista infino alla più bella. (PAR. XXX, 5-9) “Non altrimenti”, – dice Dante per chiarire la funzione comparativa della descrizione –, scompaiono progressivamente ai suoi occhi incantati le gerarchie angeliche trionfanti che salgono verso l’Empireo. Lo spettacolo del cielo stellato, che, coi suoi crepuscoli e tramonti, con le sue albe ed aurore, ha ispirato le pagine più suggestive del Purgatorio, si affaccia nel Paradiso alla memoria del poeta come inesauribile campo metaforico. Ad esso l’“alta fantasia” attinge i correlati oggettivi di un’esperienza ultraterrena assolutamente ineffabile, nel tentativo di conferire, per via analogica, una qualche concretezza empirica alla descrizione dei prodigiosi scenari paradisiaci, materiati di pura luce, dilagante in una immensità senza confini e senza tempo. Fino a perdersi nella folgorante visione mistica di Dio: l’amor che move il sole e l’altre stelle. (PAR. XXXIII, 145) 䡵 ELZEVIRI 91 “Quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo”... “While in the depth of heaven”... DIARIO LUIGI MALERBA delle delusioni G per ragioni ancora una volta di potere. Il tentativo è chiaramente quello di creare un nuovo culto, quello dell’atomo, in sostituzione delle religioni antiche e ormai logore. Ma talvolta avviene un clinamen che rimette in gioco l’impenetrabilità e il mistero della tecnologia e si liberano nel cielo gli atomi impazziti, gli invisibili chernobyls. A DIARY OF DISAPPOINTMENTS Invisible poisons are the most devious and toxic. “Nuclear” supporters have repeatedly tried to hide the objective contraindications of this type of energy, and have also given such cryptic technological explanations as to seem the secret code of a sect of conspirators. But then lies and trivia come to the surface. At one time the gallantry of a man when presented to a woman was considered a style to be recommended; today, with aggressive feminism, it stands the risk of being taken for unacceptable provocation. At times one is lucky enough to be confronted by landscapes so well-tended and harmonious that they seem to be the work of a skilled painter; some also reach the exaggerated point of looking for the signature of the painter of the landscape by glancing at the bottom right. N emico invisibile. Esistono i veleni colorati come l’E 123 denominato amaranto, bel nome elegante, e altri veleni che si sprigionano in fumi e nuvole e schiume, ma i più temibili sono quelli invisibili. Le radiazioni atomiche sono invisibili. L’invisibilità al servizio delle forze distruttive è tanto più temibile in quanto sfugge non solo alla vista ma al tatto, all’olfatto, a tutti i sensi. È il nemico che i teologi pazzi dell’atomo credono di controllare, sul quale fondano la loro potenza come gli antichi sacerdoti fondavano la loro sulle oscure forze del Male. Le formule e i riti scientifici di oggi sono manipolati dai tecnocrati con la stessa aura esclusiva degli antichi sacerdoti, e il fine di costituire una casta dominante non sono dissimili. Il loro furore tecnologico, i loro linguaggi, o piuttosto il loro gergo, servono a creare intorno a essi una barriera di impenetrabilità e di mistero che contraddice l’origine scientifica e razionale delle tecniche di cui tendono ad abusare 92 ELZEVIRI alanteria. Certamente la galanteria fa parte di un’epoca lontana, è un atteggiamento maschile, un comportamento legato a un cerimoniale caduto in disuso. Il femminismo ha reso la parola assolutamente impronunciabile, l’ha cancellata definitivamente dal vocabolario relegandola nel cimitero delle parole fuori corso. Dire oggi che un uomo è “galante” non è nemmeno un insulto, è soltanto l’evocazione di un fantasma linguistico ormai destituito di ogni corrispondenza reale. L ’aggettivo. Nel 1917 mentre infuriava la rivoluzione, nel Circolo Linguistico di Mosca si tenne un seminario sulla questione dei limiti degli “epitheta ornantia” e degli aggettivi di uso comune nel campo della poesia lirica. Vi partecipava il grande linguista Roman Jakobson. Il Circolo Linguistico di Mosca venne in seguito chiuso dai rivoluzionari, da Stalin, eppure vi si faceva letteratura rivoluzionaria mentre la letteratura ufficiale, il realismo socialista che imperversò per alcuni decenni, è letteratura reazionaria, nemmeno funzionale agli scopi della rivoluzione proprio perché in massima parte cattiva letteratura. C omico e angoscia. La giovane ospite austriaca viene a interrogarmi per una tesi di laurea sui miei libri. Il tema è “comico e angoscia”. Purtroppo sulla mia faccia non si vede né l’uno né l’altra. C’è un certo imbarazzo da parte mia e una chiara delusione nella giovane austriaca. P aesaggio con firma. La lunga diga che attraversa il lago di Hangzhou è percorsa da una strada fiancheggiata da due file di salici piangenti che si riflettono graziosamente sull’acqua. I cinesi intervengono con disinvoltura sul paesaggio secondo immagini e A modelli presi a prestito dalla pittura. Anche il canale navigabile che da Pechino arriva alla residenza imperiale del Palazzo d’Estate è fiancheggiato per tutta la sua lunghezza da due doppie file di salici piangenti che ricopiano un motivo ricorrente nella pittura cinese, la quale a sua volta si sarà ispirata allo stesso motivo dei salici piangenti incontrato in natura. Anche da noi di fronte a certi paesaggi particolarmente armonici possiamo esclamare “sembra dipinto”. Saul Steinberg confessò un giorno che ogni volta che si trova di fronte a un paesaggio particolarmente bello il suo sguardo corre istintivamente in basso a destra a cercare la firma. A lcuino. Fra tante fantasiose sentenze date dal retore Alcuino alle domande di Pipino intorno ai misteri del linguaggio ce n’è una che vale la pena di riportare come totale esercizio di pedanteria. Alla domanda che cos’è la parola risponde Alcuino: «È il tradimento del pensiero». Sulla menzogna letteraria si potrà ancora invocare Oscar Wilde e la sua teoria della letteratura come menzogna. «La rivelazione finale è che la menzogna, il racconto di cose belle e irreali, è lo scopo vero dell’Arte». rchetipi. Ogni epoca può produrre archetipi, non si può dare il privilegio della loro creazione unicamente alle stagioni remote dell’umanità. Ma gli archetipi si riconoscono come tali quando la loro produzione si sia allontanata nel tempo e siano stati assimilati e filtrati dalla memoria collettiva. A questo punto ci si può domandare quali saranno gli archetipi creati dalla nostra epoca, quali fatti sono destinati a diventare emblemi, o ossessioni, o miraggi, per l’umanità futura. La maggior parte dei contrassegni del nostro tempo, come i collettivismi, il fascismo e il nazismo, non superano l’ambito di una socialità pervertita e nella loro sostanza sono fenomeni già antichi. La psicanalisi è dottrina troppo complessa e articolata per diventare produttrice di nuovi miti. Forse il terrorismo culminato con la distruzione delle Torri Gemelle a New York ha impresso nella memoria collettiva l’immagine di un orrore nuovo già proiettato nel futuro. Ma non si intravede, come marchio della nostra epoca da consegnare alla futura memoria, nulla che raggiunga il bagliore sinistro dell’atomica nel cielo di Hiroshima nell’agosto del 1945. Più ancora dei lager, della follia genocida, il bagliore del fungo atomico è già entrato nell’orrida mitologia del nostro secolo, è già sceso negli abissi ereditari delle nostre coscienze alimentato dal ronzio inquietante delle centrali nucleari. Esse rappresentano la “normalizzazione” di un disastro collettivo, la assimilazione di una tragedia recuperata in nome di un sogno progressista. I Crociati bolliti. Si racconta che i Crociati per spedire in patria i resti delle vittime più illustri avessero adottato un singolare accorgimento per evitare la corruzione dei corpi durante i lunghi viaggi per terra e per mare. Prendevano i cadaveri e li facevano bollire fino a quando potevano spolpare le ossa che, ben ripulite e seccate, mettevano in viaggio dentro pregiate cassette. I cronisti, che con molta discrezione parlano di questa usanza, non dicono se la carne bollita fosse abbandonata in pasto agli uccelli o ottenesse sepoltura, se questa sepoltura della carne bollita senza ossa meritasse l’onore di una croce e di una vera tomba o se fosse considerata carne anonima. Del resto non è chiaro se potessero chiamarsi “resti mortali” la sola carne senza le ossa. Pare comunque che l’onore della tomba e del nome fosse riservato alle ossa, che forse vanno considerate la parte nobile del corpo, quella meno corruttibile. E poi non è vero che si dice “la carne è debole” di fronte al peccato? Allora è la carne che pecca, non le ossa. Tutto sommato sono resti mortali a maggior diritto le ossa più che la cenere del corpo mandato alla cremazione. Come si usa al tempo presente. D iete. Una signora dice che la dieta migliore per dimagrire è mangiare poco, ma c’è un limite perché non mangiando nulla non si può sopravvivere e aggiunge: o almeno questa è la mia opinione. 䡵 Veduta sulla Valtellina dall’Alpe Poverzone sopra Sondrio