Ernesto e il profumo dei sogni

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Ernesto e il profumo dei sogni
Ernesto e il profumo dei sogni
di Francesca Carmi
Questa è una fiaba. Un’idea, un bozzetto, un sogno gettato sulla carta, una pennellata di speranza.
Una visione di forti colori, strane creature e magiche musiche che ci trascinano verso un mondo
migliore, dove l’ironia, l’allegria, la speranza, la curiosità, la cultura, la saggezza e un po’ di follia,
disegnano una strada che non possiamo fare a meno di seguire, dove la realtà è quasi irreale e dove
la fantasia diventa vicina, possibile, reale, insomma...una fiaba.
Una fiaba dedicata a chi è capace di sognare e di rincorrere i suoi sogni.
Ernesto e il profumo dei sogni
Genova, inizio primavera, Ernesto è nel piccolo chiostro di San Matteo con la schiena appoggiata a
una colonna e una gamba penzoloni, legge Orwell (‘Senza un soldo a Parigi e Londra’), ogni tanto
posa il libro e sorride, o pensa, o guarda il cielo. Le giornate sono ancora corte, così quando l’ultimo
raggio di sole sparisce dietro ai tetti il vento di tramontana si fa sentire attraverso il giaccone di
velluto. Lui pigramente chiude il libro, raccoglie le sue cose sparse attorno, infila tutto nello zaino
con quel catastrofico disordine che solo i ragazzi sanno rendere elegante e fischiettando si avvia verso
casa.
I capelli perennemente spettinati Ernesto è intelligente e curioso, la cosa che ama di più è leggere e
sognare di quello che ha letto, ha tanti amici con cui scambia i suoi sogni con i loro, studia, gli piace
studiare, lavora anche un po’ nella trattoria di Carlo in vico Caprettari perché tutto costa tanto. Abita
con i genitori e una sorella in Canneto il Lungo, una casa un po’ squinternata e coloratissima, la
porta sempre aperta, piena di libri, di amici, di rumore e di animali, insomma calda, carica di vita. La
mamma, Gianna, è maestra elementare, piccola e magra, positiva e infaticabile, accanita fumatrice
racconta sempre in casa dei suoi alunni, ad ogni ciclo scolastico che finisce piange un po’, ma l’anno
dopo ricomincia con la stessa passione per i nuovi “pulin”; il padre, Luciano, è libraio di bancarella
in Piazza Banchi, è innamorato del suo lavoro ed è orgoglioso di saper trovare gli “introvabili” per
i suoi clienti, è un omone grosso con la barba, parla poco ma spesso scoppia in grandi risate; Lisa la
sorella ha 15 anni, primo anno di superiori, sente musica in continuazione a un volume impossibile,
adora suo fratello ma lo stuzzica sempre, è una ribelle con il cuore grande e con un sorriso con cui
si fa sempre perdonare; poi c’è Cicero il gatto nero, Peo il vecchio cane, tanti uccellini che vanno e
vengono perché nessuno li mette in gabbia, Gap il gabbiano a cui avevano curato un’ala che spesso li
va a trovare e qualcun’altro ancora.
Comunque, ovunque vada, Ernesto ha sempre con sé lo zaino con i libri, la macchina fotografica e la
sua chitarra, è sensibile e molto attento agli altri. Insomma è affascinato dal mondo e continuamente
osserva cercando di capire. È sempre allegro ed entusiasta e sempre cerca il buono in ogni cosa, possiede
un senso dell’ironia innato, coglie il significato profondo anche delle piccole cose. Ma è anche una
persona particolare: spesso gli succede, camminando per strada, di riconoscere l’indole della gente:
uomini rampanti neri e arrabbiati, noiosi intellettualoidi frustrati, politici viscidi e arroganti e lui la
cattiveria, in certi particolari momenti, la vede “fisicamente”, ha dei flash di appiccicose ragnatele,
di veli sporchi e strappati che avvolgono di negatività quelle persone, riconosce anche personaggi
colorati e gentili, vecchi saggi professori, interessanti spazzini, giocosi attori della strada, e allora lui
“vede” vivaci bellissimi arcobaleni che attorniano questi esseri positivi.
La Ragnatela che lui ha vissuto più da vicino sicuramente è stata la Pasotti, insegnante di matematica
del liceo, lo odiava, forse invidiosa della sua età, forse frustrata perché lui amava le materie letterarie,
o forse solo perché trovava piacere nella cattiveria. Seduta alla cattedra, quando lo guardava, era
talmente ricoperta di ragnatele che a Ernesto veniva voglia di scappare, ogni volta che lo interrogava
era talmente terrorizzato che non riusciva a spiccicare parola, la battuta era sempre la stessa: “Montaldo,
sai almeno quanto fa 2+2?” all’ovvia risposta “sì prof, 4” lei con quella smorfia crudele sulla faccia lo
mandava al posto dicendo “questo è il voto che prendi”; così alla fine di ogni anno scolastico Ernesto
aveva il debito di matematica.
Grazie al cielo per ogni Ragnatela c’è un Arcobaleno, in questo caso il suo professore di storia e
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filosofia che Ernesto adorava per la dirittura morale e per il modo sempre coinvolgente che aveva di
insegnare. Alla maturità nessuno potrà mai sapere che cosa si siano detti nella commissione d’esame,
sta di fatto che sul tabellone era scritto: “Montaldo Ernesto: 93\100”, quindi si suppone che qualcuno
abbia fatto stare zitta quella vecchia arpia.
Ma la Pasotti non è certo fra le peggiori, se il mondo va storto è per quelle Ragnatele veramente
spaventose che hanno un potere ben superiore a quello di un’insegnante, quelle potenti che urlano al
mondo: capi di stato che in nome di un loro dio bombardano popoli innocenti che a loro volta hanno
generali che sempre in nome di (un’altro?) dio rispondono facendo saltare case, scuole e ospedali;
quelle sempre abbronzatissime che vogliono farti sentire un fallito se non hai il cellulare a pois perché
quello a righe non usa più o l’auto con cui ogni ragazza ti sorride o il profumo che ti fa diventare un
avvocato di successo o... e allora lui “vede” il loro perfido ghigno apparire da quei falsi sorrisi a 92
denti ripresi dalle telecamere. Ernesto smette di guardare la televisione, “Quella scatola prima o poi
andrà cambiata” si dice.
Conosce tutti nei suoi caruggi che fervono di una vita propria e particolare, lì convivono i “vecchi”
genovesi che sempre mugugnano con i “nuovi” africani e i loro negozi di treccine e le loro macellerie;
gli studenti che cercano i piani alti con i ladri che vivono nei fondi; i robivecchi che fabbricano
nuove latte trattate vendonole agli americani come antiche armature saracene con i cinesi che aprono
sempre più negozi e non vogliono imparare l’italiano; le puzzolenti botteghe di stoccafisso con le
eleganti antiche caffetterie; i rispettatissimi portuali e le loro famiglie con bui uffici dall’aria alquanto
losca; le chiese bianche e nere del romanico genovese con le coloratissime puttane; e poi le “torte
e farinate”, gli artigiani, le gallerie d’arte, i marinai che si ubriacano e i turisti che hanno paura
dei marinai. Dappertutto quell’odore inconfondibile delle antiche città di porto del mediterraneo: un
misto di profumo di mare, aglio e spezie e la puzza di petrolio, rifiuti e sudore. Le sirene delle navi
che arrivano e partono, la biancheria eternamente stesa attraverso i caruggi come la luminaria di un
giorno di festa e quella musica... i richiami nel dialetto genovese che insieme a quelli in mille altre
lingue formano la colonna sonora meravigliosa e unica di tutto il centro storico.
E proprio lì, nel cuore del centro storico, in via dei Giustiniani, c’è la falegnameria di Elio e di suo nipote
Pietro, il migliore amico di Ernesto. Fin da piccolo Pietro passava in quella bottega tutto il tempo libero
e sognava, nel profumo del legno, di diventare presto grande per essere un vero falegname e lavorare
lì. Sapeva riconoscere tutti i tipi di legno: acero, faggio, noce, abete, mogano e castagno; ascoltava
affascinato suo nonno che gli svelava i segreti di quel mestiere antico e meraviglioso, accarezzando
ruvide assi e semplici tronchi che pian piano si trasformavano in forme armoniche e quasi sapienti.
Così, dopo la scuola dell’obbligo e molteplici discussioni a casa perché al giorno d’oggi bisogna
laurearsi, con l’aiuto di Elio, Pietro era entrato in bottega e ora è sempre più bravo, anche perché
sempre osserva i gesti di suo nonno e continuamente scopre qualcosa che ancora non sapeva, qualche
nuovo segreto. Oltre al suo lavoro raccoglie pezzi di legno e contorte radici che il mare abbandona
a riva e con quelli crea strani personaggi, sculture dalle forme assurde e nello stesso tempo talmente
umane che sembrano aspettare un cenno per muoversi e chiacchierare del più e del meno; gli hanno
anche proposto una mostra di quei suoi personaggi, ma lui continua a dire “Vedremo...”. Questa però
è solo la prima vita della falegnameria, la seconda incomincia alla sera, così quando Elio appende la
cappa da lavoro e va verso casa sa che la sua bottega non rimarrà sola. Proprio no. Dopo cena arrivano
alla spicciolata gli amici dei ragazzi che nel retro, da dove saltano fuori cuscini e panche, bicchieri
e vino, una calda abat-jour e un vecchio stereo, parlano del futuro, suonano, discutono, soprattutto
stanno insieme nel profumo del legno e della loro amicizia. Ernesto racconta. Racconta di Ragnatele
e di Arcobaleno e parla sempre in modo talmente appassionato e coinvolgente, ironico e stupefacente
che tutti, ascoltandolo a bocca aperta, aspettano con ansia la prossima storia e, nonostante lui stragiuri
che nulla è inventato, restano convinti della sua innata capacità di romanziere.
Ernesto però spesso sente la voglia di scappare da quel turbine caotico che, come un cuore che non può
fare a meno di battere, incessantemente lo avvolge di troppo amore lì nei suoi caruggi. Lui ha anche
bisogno di restare da solo, di camminare con il naso per aria, di riflettere, di osservare, di annusare, di
immergersi nei suoi libri quasi a scomparire fra le loro pagine, di inseguire alcune note che cercano di
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scappare, di restare da solo con i suoi sogni. Così a volte va giù al Molo Vecchio, che ora si chiama
Porto Antico. Dopo la trasformazione è un po’ meno romantico ma veramente bellissimo e finalmente
riaperto sulla città, si va di nuovo a piedi, senza barriere e senza auto. Da lì si spinge fino al molo
delle chiatte passando sempre a salutare Flint, il pappagallo bianco principe della Biosfera che come
un bambino chiede di giocare. Quando è là, ascoltando lo sciabordio delle onde sotto di lui, Ernesto
guarda a nord verso la città e immagina di essere un grande capitano sul ponte di comando del suo
veliero, ecco che entra nel porto dopo mesi di navigazione in terre lontane e sconosciute... la folla lo
acclama! Tutti aspettano di vedere le cose meravigliose e profumate che escono dalla stiva della sua
bella e gloriosa nave... Sorride tra sé mentre dalla sua chitarra escono dolci note che, loro sì, vengono
da lontano come tutti i pensieri che liberi e leggeri non conoscono confini.
Altre volte, se ha più tempo, arriva fino alla piccola spiaggetta di “Puincia”, nascosta fra Boccadasse e
Capo Santa Chiara. Lì quasi sempre trova Nanni, il vecchio pescatore che ha mille storie da raccontare
e un vecchio gozzo a motore; se il mare è buono vanno al largo e, pescando oppure no, si raccontano
le loro fantastiche storie dondolando sulle onde. Nanni è l’unico che ascolta i racconti di Ernesto
serio, facendo cenni affermativi con la testa, senza mai mettere in dubbio la realtà degli incontri e
la capacità di vedere e sentire le persone buone e quelle cattive, lui che ha passato una vita sul mare
dove i piedi per terra non si possono tenere, dove si parla poco e si ascolta tanto, sa che accadono cose
non sempre spiegabili, ma reali e vere come i pesci o il pane o il sole che scalda. Così si ascoltano e
si capiscono loro due, un vecchio e un ragazzo, con occhi sorridenti, su quel gozzo sgangherato che
pian piano, al tramonto, ritorna ai sassi grigi della riva, verso quel mucchio di case color dell’aurora.
“Nanni” un giorno Ernesto non si sentiva di tornare “E se, bordesando bordesando, invece che tornare
a riva, facessimo un giro lungo?... Corsica?...” “Bordesando in Corsica non si va” Nanni, quando
voleva, era pragmatico “Io e la mia barca ne abbiamo viste troppe, eppoi la Rosa mi aspetta a casa...
tu farai il tuo ‘giro lungo’, vedrai, e anche molto presto” Ernesto inclina la testa “Io?” Guarda lontano
Nanni e, con le rughe degli occhi che ridono, mormora “Già, tu.” e subito, più brusco, “Dai, puliamo
un po’ di acciughe, che le porti a casa, tua madre sa fare il bagnùn proprio come si deve” “Come lo
sai? “Lo so. E ricorda di tenerne un po’ per Cicero, ne va matto” “Come lo sai? Come sai del nostro
gatto e del suo nome?” “Lo so”. Nanni sorride sornione ma non dice una parola di più, sembra
completamente assorbito dalle acciughe. Risplendono i suoi colori arcobaleno.
Tutto bene? Non proprio. Questa città gli va stretta, questa società dove tutto è finalizzato al denaro
a Ernesto proprio non va giù, e poi lui ha un sogno più grande degli altri, un sogno nato leggendo
racconti che lo trascinano lontano, ascoltando musica che lo fa sognare, danzare e immaginare altri
posti, sfogliando con religione il prezioso libro con le foto di Cartier Bresson.
Il suo sogno è partire, vedere che cosa c’è oltre la porta di casa. Questo sogno da sempre chiuso nel
suo cuore e nel suo zaino, da sempre sembrato irrealizzabile di colpo scoppia e Ernesto decide che
niente è impossibile. Si parte. Senza una lira si parte.
A casa un po’ di scompiglio: “Ernesto, ma come...così di colpo...i tuoi studi...” il padre, “Tutto solo...
avrai freddo...” la mamma, “Che bello, beato te!” la sorella, “Miaooo” il gatto.
Ernesto scova in soffitta il carretto di quando era piccolo, lo carica delle sue cose fondamentali: i libri,
il sacco a pelo, la chitarra e, naturalmente, la sua pianta di roselline; lo zaino in spalla, la macchina
fotografica a tracolla, il sorriso stampato sulla faccia.
È aprile, l’aria è frizzante, il viaggio si fa a piedi per non perdere nulla. Come quando era bambino
sceglie la direzione girando ad occhi chiusi come una trottola, col braccio teso e il dito puntato,
quando si ferma... nord-ovest!
Inizia il suo viaggio seguendo la costa per fare scorta del profumo primaverile del suo mare. Segue
i sentieri che, più tortuosi che lineari, si inerpicano al di sopra dell’Aurelia verso ovest sul versante
sud degli Appennini.
Lungo la strada camminando, fischiettando, pensando, guardando, trova un sacco di gente, di quella
gente Arcobaleno con cui parlare, mangiare, dormire.
A Marsiglia decide che è ora di risalire, siamo a maggio, così passa la Provenza e i suoi profumi,
attraversa quelle famose Alpi Marittime studiate e ristudiate in ogni ciclo scolastico, trova la neve ma
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anche i bucaneve, si ferma quando è troppo bello per partire, riparte proprio per lo stesso motivo.
Sui monti e nei boschi gli animali lo accompagnano per qualche tratto della sua strada raccontandogli
a modo loro la storia di quei posti. Fra loro un cane spettinato e dalle lunghe orecchie, si chiama
Uobbi e non sarà un compagno di viaggio occasionale come gli altri, lui decide di andare con Ernesto,
gli piace questo ragazzo allegro e curioso.
A volte è Ernesto che sceglie la strada, a volte è Uobbi; fra la gente è Ernesto che procura da mangiare
e da dormire lavorando un po’, raccontando le sue magiche storie o cantando con la sua chitarra,
mentre nei boschi è Uobbi che scava, pesca (lui è vegetariano, ma per i pesci fa qualche strappo) e
trova morbidi ripari per la notte. Siamo a fine giugno, Ernesto si rende conto che anche Uobbi, come
lui, vede e riconosce le Ragnatele e gli Arcobaleno, è ancora più facile ora difendersi dalle prime e
trovare nuovi amici fra i secondi.
Vanno avanti, sempre avanti a nord-ovest e verso fine luglio, con un caldo torrido, entrano a Parigi.
Parigi! Ernesto non sa più dove posare gli occhi, si sente avvolto dalla storia, annusa quell’atmosfera
maestosa di eternità, cammina col naso per aria perché a Parigi tutto arriva in alto, gli gira la testa,
inciampa e cade, si rialza e scoppia a ridere dalla felicità. Uobbi lo guarda, scuote le orecchie e sorride
con quella sua buffa faccia da vecchio saggio.
È il tramonto e bisogna cercare un posto per mangiare e per dormire. Si guardano intorno, dove? I
parigini corrono, gli studenti ridono, i turisti guardano. Scotta l’asfalto sotto il rosso del tramonto
e, per giunta, sta arrivando un gendarme piuttosto “ragnateloso” che sicuramente non apprezza né
l’allampanato Ernesto, né il vagabondo Uobbi né, tantomeno, quel cigolante carretto in sosta vietata.
Bisogna muoversi. Allora Ernesto dice: “Ho letto un libro”, Uobbi sa che dietro a questa stupida frase
c’è un’idea e lo guarda in attesa prendendo, per non perdere tempo, in bocca la corda del carretto. “Ho
letto un libro” riprende Ernesto “che parla di una strana famiglia, in una strana casa a Montmartre, un
libraio, un pappagallo, dei ragazzi e la loro madre, un cuoco arabo e un taxista.” Uobbi inclina la testa
e lo guarda, Ernesto sta cercando di ricordare “Rue Ravignan!” esclama “ecco l’indirizzo, andiamo”.
E vanno tranquilli e sicuri verso l’indirizzo letto in un romanzo (“Il teorema del pappagallo” di Denis
Guedj).
Montmartre è tutta in salita e Rue Ravignan è una piccola strada, ecco Mille e una pagina la libreria
di Monsieur Ruche, entrano. “Ho letto il libro” dice Ernesto. “Lo so” risponde Ruche.
Una serata meravigliosa, una cena fantastica, tanti racconti che si intrecciano bevendo e mangiando
intorno al tavolo di quella rumorosa grande cucina. Uobbi ha persino permesso al pappagallo di
addormentarsi sulla sua testa.
Si svegliano all’alba sul sagrato del Sacro Cuore. Che vista! Parigi ai loro piedi, colorata di rosa dal
primo sole li invita a scendere. Non si stupiscono quando, ripassando per Rue Ravignan, trovano
l’atelier di un pittore al posto della libreria; sono rifocillati, riposati e con dei bellissimi ricordi di
quella serata, questo conta.
Passano i giorni a Parigi e non c’è proprio tempo per annoiarsi, è tutto così meraviglioso!
Ed ecco i giorni di Ernesto, trasformati quasi in poesia nella lunga lettera che manda a casa:
Eccomi qua, sono a Parigi.
Parigi la monumentale, la maestosa, la gigantesca. Da Les Invalides a la Tour Eiffel passando per
il Trocadero e l’Arco di Trionfo che con Place de la Concorde e gli Champs Elysees descrive una
linea retta verso Le Grande Arche. Il Grand Palais e il Petit Palais. Napoleonica, dorata e un pò
esagerata.
Parigi la romantica. Delicata e misteriosa, con i gargoyles di Notre Dame e le librerie aperte fino a
mezzanotte. I Bateau Mouches e le passeggiate lungo la Senna. Il quartiere latino e l’Ile de la Cité,
Doisneau e le Jardin du Luxembourg.
Parigi dei fiori del Jardin de Plantes e delle puzze terribili nei dintorni delle stazioni.
Parigi di tutti i colori. Con gli africani di Stalingrad, le loro banane esotiche e le pannocchie
mangiucchiate per terra, con gli arabi dei bagni a vapore della moschea e della loro biblioteca
che regola la luce all’interno attraverso migliaia di occhi metallici che si aprono e si chiudono in
continuazione. Con gli ebrei del Marais e i loro kosher. Con il nostro medioevo. Con gli asiatici di
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rue de la Roquette.
Parigi collinare. Su e giù dalla Mouffetard, una collina di strade che si arrampicano e scendono.
Montmartre con le sue vigne e il Sacre Coeur che domina e di notte offre panorami su tutta la città.
Parigi rivoluzionaria, con la Bastille e le fermate della metropolitana che raccontano la storia della
rivoluzione.
Parigi poetica e bohemienne, con le frasi di Hemingway che disse “ fortunato è chi ha potuto vivere
un anno della sua giovinezza a Parigi. È una festa.” Con la Belleville di Pennac e i bistrot di Brassens,
di Sartre e della Beat.
Parigi arrogante di Mitterand che si crede sola e potente. Con la sua biblioteca e le costruzioni
maestose, poco socialiste molto berlusconiane.
Parigi laica. Che ha la sua chiesa più grande nel Pantheon, tempio pagano di tutti i morti per lo stato
di diritto. Con i suoi monumenti alla resistenza francese. Parigi bruciata, Parigi occupata, Parigi
umiliata, Parigi finalmente libera.
Parigi delle banlieu che scoppiano di violenza repressa, dei suoi ministri conservatori e del suo
orgoglio europeo.
Parigi della fotografia e della letteratura e del cinema con i suoi passages e i suoi misteri, con le
puttane di Pigalle e le signore di St Germain, con il Moulin Rouge e il sesso economico, con le partite
a pallone nelle corti, con Les Halles e i mercati esotici, con i livres de poche lungo la Senna, con il
Cafè Flore e le gallerie Liberty.
Parigi sottoterra e il suo mondo della metropolitana.
Parigi dei musei enormi.
Parigi all’opera. Parigi dei boulevard borghesissimi. Parigi delle Buttes Chaumont. Parigi
nazionalista. Parigi con i suoi sconti studenti. Parigi antiamericana ma con Eurodisney... Parigi!
È domenica, sono le 6,27 ed è appena finita un’alba meravigliosa.
Un abbraccio
Ernesto
Conoscono Thabit, un grasso simpatico magrebino gestore di una brasserie che spesso li sfama;
e poi Simon lo studente di filosofia che ha un piccolo monolocale sui tetti in cui si può dormire
all’occorrenza; poi Micol del Marais, lei vende frittelle e canta con una voce che fa sognare; alla
Bastille c’è Francois, il meccanico lettore di Simenon, che ha rimesso a nuovo il carretto di Ernesto e
la sua ragazza Marguerite, lei dipinge e ritrae chiunque le capiti a tiro; all’angolo fra Rue des Archives
e Rue de la Verrerie c’è Jacques con la sua bancarella di fiori, da lui Ernesto impara tutte le canzoni
di Brassens; conoscono anche Milo lo zingaro con la sua compagnia di suonatori e saltimbanchi, dai
loro violini esce una musica antica che arriva dritta al cuore e fa venire voglia di ballare per sempre; e
poi Marie Louise la matematica (Ah se l’avesse conosciuta ai tempi del liceo), Josephine la panettiera
bretone, Armand l’inventore, Yaacov il vecchio rabbino e anche Jean Paul, il poliziotto che scrive
romanzi d’amore.
Era una mattina di metà agosto al quartiere latino dove avevano dormito, quando Ernesto vede Uobbi
che, annusando per terra, prende deciso per Rue Saint Séverin, “Dove stiamo andando?” Uobbi
sorride, scuote le orecchie, non risponde e gira a sinistra in Rue de la Harpe, poi a destra in Rue de
la Huchette, Ernesto trafelato e stupito di tutta quella fretta lo segue tirandosi dietro il suo carretto.
Attraversano Rue Saint Jacques, e si trovano in Rue de la Bucherie, davanti al numero 37. Finalmente
Uobbi si ferma “Era ora!” ride Ernesto, ma quando alza gli occhi e guarda oltre Uobbi, quello che
vede è un posto assolutamente straordinario. Shakespeare and Company c’è scritto sull’insegna, Live
for Humanity c’è scritto sul gradino. Entrano “La libreria più fantastica che io abbia mai visto”
mormora Ernesto inoltrandosi in quei cunicoli foderati di libri vecchi e nuovi di ogni argomento e
dimensione, Uobbi sorride ancora.
Il carretto non passa, troppi libri anche per terra, Uobbi prende la corda, trascina il carretto in un
angolo e si sdraia lì vicino, così Ernesto può girare tranquillamente.
Tutti quei libri gli danno alla testa “Felicità è leggerli tutti” pensa. Trova una scala di legno, anch’essa
foderata di libri, sale. In fondo al corridoio, dopo una vecchia Lettera 22 e la macchina per il caffè,
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c’è una grande stanza con la porta aperta, dentro un vecchio che gli sorride, stupendo è l’arcobaleno
che lo avvolge e per la prima volta anche un pulviscolo argenteo fra i colori “...Ngiorno...Ernesto...
ppiacere” balbetta Ernesto, “Benvenuto Ernesto!” gli risponde il vecchio come se lo stesse aspettando.
Lo invita a entrare “il mio nome è George” dice Whitman “Vuoi un caffè?” “Grazie” Ernesto si guarda
intorno “Che incredibile posto è questo?” “Oh, solo un piccolissimo regno di amore per la cultura e
l’umanità” Whitman sorride “Tieni, leggi questo articolo, parla di noi. L’ha scritto un paio di anni fa
uno dei miei ragazzi, un italiano come te” Ernesto prende il giornale e legge...
[vedi allegato “Alla ricerca del libro perduto”]
Arrivato alla fine la bocca di Ernesto è spalancata e lo sguardo sognante, mormora “Non ci sarebbe
bisogno di un aiutante, per caso?” “Certo!” risponde Whitman, “ma non posso pagarti, solo ospitarti
fin quando vuoi”. Affare fatto!
Così si trasferiscono lì e il vagabondare di Ernesto diminuisce perché ha tantissimo da fare: curare i
libri, leggere, spolverarli, leggere, archiviarli, leggere, aiutare i clienti, leggere... Uobbi invece non
perde le vecchie abitudini e a volte sparisce per qualche giorno, ma poi torna sempre: entra, scuote
quelle sue lunghe orecchie, cerca Ernesto, e ogni volta gli porta qualcosa: corde per la chitarra,
spartiti, una frittella, una maglietta quasi nuova, anche solo una poesia trovata per strada e sempre i
doni degli amici che Ernesto divide con gli altri ragazzi della Shakespeare&co.
Dormono insieme sul vecchio sacco a pelo ognuno dei due con i suoi sogni che a volte si intrecciano
e a volte no.
Qui le Ragnatele non entrano, neanche una. Ernesto le intravede dalla vetrina passare per strada, ma
sempre tirano dritto “Strano” pensa “Sono sempre dappertutto!”.
Un giorno, siamo a Settembre inoltrato ed era uno dei periodi in cui Uobbi spariva, cercando il
secondo volume de I Miserabili vede un piccolo corridoio che non aveva mai notato, molto più
polveroso degli altri “Oh, qui dovrò proprio pulire” si dice e continua la sua ricerca. Solo che quando
ritorna per incominciare il lavoro quel piccolo anfratto non c’è più. Ernesto si gratta la testa perplesso
“Sono forse diventato matto?”; ritorna più volte e finalmente eccolo lì di nuovo il suo polveroso
corridoietto, ora lo tiene d’occhio e si accorge di vederlo solo lui, nessuno fra i clienti della libreria
entra o solo fa cenno di accorgersi che ci sia. Raccoglie i suoi arnesi per la pulizia e si mette all’opera,
ma subito, al primo libro che prende in mano si rende conto che quelli sono libri particolari: alcuni
antichissimi, altri più recenti, ma tutti senza il nome dell’autore e senza casa editrice, il nome di un
popolo è scritto sulla copertina, solo quello. La maggior parte sono incomprensibili, scritti in lingue
a lui assolutamente sconosciute “Beh, vanno comunque puliti” si dice e inizia con molta attenzione
il suo lavoro.
È lì, fischiettando Brassens, concentrato nella pulizia di un libro più antico e più pesante degli altri,
quando vede sprigionarsi da quel tomo proprio lo stesso pulviscolo argenteo che aveva notato al
primo incontro con Whitman, non fa in tempo a stupirsi che in un lampo tutto sparisce e lui si trova in
una grande stanza dai muri di pietra, la luce è data dall’argenteo pulviscolo e da migliaia di pennellate
colorate che, come parole, escono ed entrano in continuazione da un grande antichissimo libro le cui
pagine incessantemente si sfogliano. Il Libro è posato su un altare interamente scolpito con migliaia
e migliaia di parole.
Ernesto è talmente incantato da quello spettacolo da non accorgersi della presenza di Whitman che:
“Sei arrivato Ernesto, bravo! Ecco, questo che vedi è il Grande Libro delle Genti” gli dice sorridendo
“Esiste da quando esiste l’umanità. Questo Libro ha raccolto e raccoglie la storia di tutti i popoli
del mondo, anche quelli ormai scomparsi; vedi i colori? Sono i sogni e le speranze delle Genti, ma
guarda bene, purtroppo c’è il Nero che entra ed esce dal Libro, quello è la guerra, è l’ingiustizia e
l’intolleranza, quel nero sono gli uomini assetati di potere che calpestano chi è debole e uccidono chi
è pacifico. Ma sul libro è scritto:
“Noi, le genti tutte possiamo voltare le nere e pesanti pagine dell’intolleranza
e scrivere con il nostro pennello arcobaleno
e far danzare le libere parole
di un libero pensiero
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di un altro nuovo mondo”.
Così sarà e mai le Genti devono perdere la speranza e la forza di girare pagina, per realizzare un
mondo dove si possa tutti vivere in armonia.
Questo Libro si trova in un posto assolutamente sicuro non accessibile a chi nutre pensieri malvagi,
io sono l’attuale guardiano e il mio compito è di essere sempre certo di chi entra qui.
Ora sai. Coraggio! Salta su uno dei colori, qui il Nero non può farti del male, ci vediamo al tuo
ritorno.” E Whitman sparisce nel pulviscolo.
Ernesto è frastornato “Saltare su uno dei colori? Al mio ritorno? Ma da dove?” immerso in questi
pensieri non si accorge di una pennellata rosso e arancio che lo sfiora, gli pare di sentire una risata
venire da lì, “Proviamo!” e senza più pensare salta.
Trasportato da quella pennellata Ernesto si ritrova in un mondo magico e irreale dove tutto è disegno
e acquerello. Nel cielo corrono le pennellate che assumono, a volte, le forme di strani esseri saggi
e sorridenti: rosso, arancio, rosa, giallo... e poi blu cobalto e blu marine, turchese, lilla, verde...
Questo mondo è popolato di piccole strambe creature armoniose, infantili e sapienti, semplici e
ironiche, allegre e curiose che scorrazzano dappertutto come una banda di saltimbanchi e funamboli
incontenibili, intorno a loro un pulviscolo colorato, tutto lo spazio è in continuo fermento.
Ernesto si ritrova su di una lunga pennellata che si muove come un cammino da tracciare, non è più
lui, o meglio è lui, ma è disegnato con un tratto di matita, i capelli sempre spettinati. Ecco lì il suo
carretto con tutte le sue cose, tutto è disegno.
“Ciao Ernesto, era ora che tu arrivassi” Ernesto fa un salto “Chi...” uno strano animale giallo che
parla lo guarda sorridendo, subito lo riconosce “Uobbi!” esclama. “Sono io, sì, ti aspettavo e ti devo
raccontare un sacco di cose, ma prima ti voglio presentare un po’ di amici, alcuni già li conosci, poi ti
spiego...”. Le creaturine, curiose come al solito, gli si affollano intorno chiacchierando rumorosamente
tutte insieme e Uobbi fa le presentazioni: “Ecco Oscar, Tersilia, Bonifacio e Armando, qui c’è Uberto
con Achille e Giustino, quella più timida è Cesira, quella lilla è Palmira, quello lì con il ciuffo è
Gaspare, quel pesce rosso che cammina è Gino...” e così via Ernesto conosce Dorina, Wanda, Aristeo,
Pericle e poi Rosetta, Ugo, Osvaldo, insomma tanti tantissimi nuovi amici, effettivamente qualcuno
aveva un’aria vagamente famigliare.
Uobbi aveva parlato di Ernesto a tutti loro, così subito gli chiesero di prendere la chitarra e di cantare,
“Vanno pazzi per la musica” spiega Uobbi. Ernesto è felice di farlo e canta la Ballata di Salvuzzo e
il mare, sono tutti talmente entusiasti che deve ripeterla tre volte. Per tutta la sera cantano, suonano
e ballano e quando finalmente si fa un po’ di silenzio si sdraiano sulla pennellata più vicina e Uobbi
incomincia a raccontare a Ernesto di questo mondo colorato.
“Devi sapere che questa è la scuola per quelli che tu giustamente hai chiamato gli “Arcobaleno”, qui
si viene a comprendere come può e deve essere il nostro mondo reale. Si impara ad amare le arti e la
cultura, ad esprimere la propria creatività, si impara a vivere e convivere con gli altri in allegria senza
il bisogno di possedere perché tutto è di tutti, e poi si impara anche a osservare e a capire, a raccontare
e a sognare, sono importanti i sogni e stiamo molto attenti che non vadano mai persi perché sempre
c’è qualcuno che ne ha bisogno. Questo e tanto altro ancora si impara sempre divertendoci e senza
fretta, perché anche questo è importante: godere del momento, cogliere ciò che abbiamo intorno.
Ognuno di noi ha un ruolo nel mondo reale da cui andiamo e veniamo per trovare sempre più
Arcobaleno e per aiutare chi non ha ancora capito a seguire la strada dei colori e non quella del
Nero, che è sempre in agguato, pronto a rubare il cuore e il pensiero delle persone con i suoi veli
grigi e appiccicosi. Purtroppo quando incominciano a diventare Ragnatele non c’è più niente da fare
e da loro dobbiamo difenderci e cercare di difendere chi ancora non “vede”, nella storia, lo sai, gli
Arcobaleno hanno sempre lottato per rendere il mondo migliore. A volte hanno vinto, molte altre no.
Quel che conta è non arrendersi mai.
Ti stiamo seguendo da tanto tempo Ernesto, tu sei nato Arcobaleno e al momento giusto dovevamo
portarti qui. Ricordi quell’uccellino rosa che si fermò a casa vostra per qualche tempo e che con il
suo canto ti portò a suonare la chitarra? Era Isolda, non c’è ora, è nel mondo reale. E quel robivecchi
alla fiera di S. Lorenzo che ti regalò la macchina fotografica in cambio di un fumetto? Era Aristeo.
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E ancora, quando decidesti di partire, ricordi quel magico sogno che facesti di posti bellissimi e di
avventure straordinarie? Beh, aveva ragione tua mamma quando diceva “c’è un topolino in questa
casa”, era Ugo che per tutta la notte ti ha parlato nell’orecchio. E quando giravi per cercare la direzione
da prendere, ricordi quel tocco leggero? Era Cicero, il tuo gatto, o meglio Giustino, che doveva
indirizzarti verso la Shakespeare&co. Ah, dimenticavo il vecchio Nanni! Lui, con l’aiuto del mare, ha
coltivato i tuoi sogni e la tua immaginazione.
Poi naturalmente durante il tuo viaggio hai incontrato tanti di noi e avrai tempo per riconoscerli
tutti. Come sai bene, dalle Alpi in poi io sono sempre stato con te per proteggerti e indirizzarti alla
Shakespeare&co, lì eri al sicuro e quando sparivo per qualche giorno era qui che venivo.
Un’ultima cosa: tu hai una capacità rarissima, riesci a “far vivere” i libri all’occorrenza. Ricordi
Monsieur Ruche appena arrivati a Parigi? Sei l’unico che io conosca tranne Esmeralda e naturalmente
Whitman” “Chi è Esmeralda?” chiese Ernesto “Oh, Esmeralda! lei sa. È molto giovane, ma è incredibilmente capace di intuire ciò che è giusto fare, tutti noi quando abbiamo un dubbio facciamo
due chiacchiere con lei e le idee si chiariscono. Esmeralda è una forza della natura, sta ferma solo
quando dorme e quando legge, è sempre allegra e sempre disponibile, è con noi da quando era una
bambina molto piccola, anche lei è nata Arcobaleno e quando è rimasta orfana Beniamino l’ha presa
con se nella foresta, non potevamo certo lasciare quel fiorellino solo al mondo alle terribili Ragnatele
dell’orfanotrofio...” “L’avete rapita? E Beniamino chi è?” Ernesto seguiva il racconto con attenzione
“Già, Beniamino. Lui è un guardaboschi e abita in una grande foresta, lì vive anche Nando, l’orso
bruno, insieme hanno nascosto, curato e fatto crescere quella bambina con tanto tantissimo amore.
In quanto al rapimento, non è proprio così perché lei li conosceva (la sua mamma, Arcobaleno anche
lei, l’aveva portata nella foresta da Beniamino e Nando) e andò con loro felice. Certo in quell’occasione non abbiamo proprio rispettato la legge, cosa alquanto deplorevole, ma la legge degli uomini
spesso è talmente ingiusta che una piccola trasgressione diventa indispensabile per salvare una giusta
causa. Sei scandalizzato?” Ernesto scoppia a ridere “No, no, io una volta ho rubato un cagnolino da
un negozio di animali, era chiuso in una piccola gabbia e piangeva da due giorni, è lo stesso, no?
...Senti Uobbi, io sono pieno di dubbi, sempre. Che cosa ne dici di andare a trovare Esmeralda?” “Che
dubbi hai?” Oh, tanti... poi li metto in ordine... allora, andiamo?” Ernesto era vago, Uobbi sorrise fra
se “Andiamo allora, chiediamo in giro di Esmeralda, vediamo se qualcuno sa dov’è”. Le creature
parlavano tutte insieme, tutti volevano aiutare, Cesira sembra la più informata: “L’ho vista ieri, stava
trasportando un sogno insieme a Vincenzo, andate verso il verde, quello a puntini gialli”. Ernesto
prende il carretto e si incamminano sulla pennellata che traccia il cammino. Gino, Rosetta e Osvaldo
vanno con loro. Di nuovo in viaggio.
Anche se Ernesto è impaziente di conoscere Esmeralda camminano senza fretta fra silenzi e risate,
parlando di qualche pensiero o di qualche intuizione, Osvaldo per esempio chiede: “Non vi sembra
che quel Cartesio fosse un po’ troppo schematico?” Ernesto riflette a lungo prima di rispondere:
“Forse hai ragione, non ci avevo mai pensato”.
Se ne hanno voglia si fermano a cantare, a leggere, o solo a guardare il cielo.
Quando arrivano al posto indicato da Cesira scoprono che Esmeralda è ripartita poco prima verso est.
“Ha dimenticato questo libro” Oscar l’aveva conservato per lei “Potete restituirglielo voi?” Ernesto
lo prende: “Poesie” di Pablo Neruda, profuma di lavanda. Lo mette nello zaino e si rimettono in
cammino, inseguendola di tappa in tappa senza mai trovarla, di lei rimane a volte quel profumo di
erbe selvatiche. Ernesto sente sempre più forte il bisogno di conoscerla e di farsene un’immagine “Di
che colore sono i suoi occhi?” chiede, oppure “Come sono i suoi capelli?” e anche “Come muove le
sue mani?” A Uobbi scappa da ridere, ma saggiamente risponde alle sue domande con molta serietà;
Gino e Osvaldo invece attizzano sempre di più la sua curiosità dicendogli di quanto Esmeralda sia
bellissima e magica e stupenda in ogni sua cosa, Rosetta sorride con aria materna.
Durante il viaggio si fermano a visitare la “Grande Biblioteca dei Sogni”, lì vengono conservati
tutti i sogni belli (di quelli brutti non c’è proprio bisogno) che non sono stati utilizzati, vengono poi
distribuiti a chi non riesce a farne, a chi non riesce a trovare la strada, a chi è triste o scoraggiato, o
negativo, o non riesce a reagire; “Ognuno di noi” spiega Uobbi “ha un sacchetto con sé sempre pieno
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di sogni da regalare, è la cosa più importante da custodire e bisogna stare attenti perché i sogni sono
come bambini, si rincorrono, si allontanano e poi non li trovi più”.
Ernesto è assolutamente affascinato da quel posto: tutti i sogni in continuo movimento, di tutti i colori,
che ridono, scherzano e si rincorrono all’interno di grandi pennellate verticali. Una gran quantità di
creature si muove lì intorno spostandoli, aggiungendone di nuovi, scaricando i “treni-pennellata”
carichi che arrivano in continuazione, riempiendo i sacchetti di chi deve partire, tutto ciò come se
fosse un grande armonico balletto.
Ma ora è tempo per Ernesto di tornare nel mondo reale, la sua pennellata da trasporto lo sta aspettando,
gli viene consegnato il suo sacchetto di sogni che lui lega con cura alla cintura, uuiiiiish, si torna alla
Shakespeare&co. Ha inizio così la sua nuova vita tra i due mondi.
Ottobre, di colpo decide di laurearsi, quando era partito da casa gli mancava solo la tesi (antropologia),
allora non gli sembrava importante, ma ora sa che argomento trattare: La saggezza delle Genti antiche
“Con tutte le cose belle che mi stanno capitando è il minimo che io possa fare” si dice “E poi uno
dei modi per combattere le Ragnatele è avere più cultura e più sapere”. Whitman lo incoraggia, gli
presta testi sconosciuti ai più, gli consiglia una ricerca alla biblioteca araba per imparare ciò che da
noi a scuola non si studia, gli toglie più volte di mano lo straccio per la polvere “Ora pensa a studiare
Ernesto, i libri stanno bene anche un po’ polverosi”.
Uobbi gli sta vicino il più possibile, i suoi amici di Parigi, che lo coccolano sempre, come lui vanno e
vengono fra i due mondi. In questo periodo fa delle foto meravigliose che vende per comprare i libri
dell’Università.
Naturalmente non perde occasione per regalare un sogno a chi si sente perso e ne ha davvero bisogno:
un bambino triste con i genitori sempre assenti che guarda troppo la televisione, a lui il sogno di
giocare e correre all’aria aperta; a una vecchia alcolizzata e sola regala il sogno di aiutare i suoi vicini
e avere la casa piena di amici; tanti e tanti ragazzi che non riescono a credere nel domani, a ognuno di
loro il sogno di costruire il proprio futuro, tutti sogni diversi perché ogni persona è diversa da un’altra.
Era bello vedere come spesso un sogno poteva cambiare la strada di una persona, avere una meta,
un’obiettivo da raggiungere dava gioia e cambiava la vita.
Un giorno riceve una telefonata da casa, sua mamma: “Ciao Neno, come stai?” era l’unica a
chiamarlo così “Bene, benissimo mamma, e voi? Perché hai quella voce?” sua madre non era una
che si lamentasse, soprattutto per telefono “Niente, niente tutto bene, ma sai... tua sorella...insomma
non è mai contenta, è sempre nervosa e la sento piangere, non capisco... ha tanti amici ma non li vede
quasi più, l’unico che accetta sempre è Cicero e pensavo... non potresti sentirla? Forse con te parla
un po’...”. Mentre sua madre parlava nella mente di Ernesto mille pensieri: “Corro, prendo un treno
e vado a casa...” e “Ho i sogni, adesso ne porto uno enorme alla mia sorellina...” poi “Cicero! Ma
certo Cicero è Giustino e le è vicino, se non si preoccupa vuole dire che tutto va bene, anche lui ha il
sacchetto, e poi Lisa è amata, ha tanti amici ed è in grado di costruire da sola i suoi sogni”; e il saggio
Ernesto capisce che non tutti i mali si possono guarire con i sogni, che ci sono momenti della vita in
cui fa bene anche soffrire perché bisogna crescere e così risponde a sua madre: “Non ti preoccupare
mamma, Lisa ha 16 anni, è la sua adolescenza, deve capire chi è, che cosa fare... senti, fai le tue
meravigliose frittelle di mele per lei e, per piacere, dai a Cicero un po’ del tuo bagnùn d’acciughe,
ne va matto! Io comunque la chiamerò, ma tu stai tranquilla, tutto va bene” “bagnùn a Cicero?” sua
madre incomincia a sorridere “Ernesto sei unico! Tu comunque tutte queste crisi dell’adolescenza non
le hai mai avute...” Ernesto interrompe: “Chi te l’ha detto? Ognuno è fatto a modo suo...” la mamma
riprende “Ti voglio bene Neno mio, mi hai fatto ridere, hai ragione, lei deve crescere e forse anche le
frittelle servono. E darò le acciughe a Cicero. Un abbraccio anche da papà, ciao tesoro, a presto”.
Passa un mese fra i due mondi. Di qui comincia a fare freddo, di là no. Spesso, quando è solo, Ernesto
prende in mano quel libro profumato, lo annusa, sospira, poi lo ripone nello zaino.
Ogni volta che arriva nel mondo acquerello Ernesto chiede di Esmeralda, e appena può prende la
direzione che ha preso lei, ma sempre arriva quando lei è appena ripartita. Ogni volta annusa l’aria
come un segugio, sempre più forte sente il bisogno di vederla e, per la prima volta in vita sua, sente
una fitta al cuore, un certo mal di stomaco, un vuoto che non riesce a colmare.
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Tutti tranne lui si accorgono che si sta perdutamente innamorando , ma come è possibile innamorarsi
di una ragazza che non si è mai vista? “Bah” taglia corto Uobbi “Ernesto è Ernesto!”.
Non che lui sia diventato triste, tutt’altro, è il solito Ernesto che appena può canta, cammina sulla
pennellata che traccia il cammino con il suo carretto oppure con il treno dei sogni che è il suo compito
preferito. Cercare, acchiappare i sogni, sistemarli su quel leggero, alto treno di pennellate, sentire il
loro chiacchiericcio mentre li trasporta fino alla Grande Biblioteca è una cosa che lo fa sentire felice...
quasi felice.
È novembre, le giornate sono corte, Ernesto è alla vecchia scrivania della Shakespeare&co con
l’abat-jour che fa un cerchio di luce gialla sul libro da cui sta prendendo appunti, Uobbi è accoccolato
lì vicino che sonnecchia. Dopo aver a lungo giocherellato con la matita chiede: “Dove abita Esmeralda
nel mondo reale?” Uobbi apre un occhio, lo guarda, inclina la testa, decide che farà un’eccezione per
Ernesto (i cani non parlano nel mondo reale) “Lei vive nella foresta di Brocéliande naturalmente,
con Beniamino e Nando” “E dov’è questa foresta?” Uobbi sorride “la Foresta di Brocéliande è
nell’alta Bretagna, è quello che resta dell’antica Foresta Armoricana che copriva tutta la Bretagna.
Ricordi Mago Merlino? Beh, era la foresta del suo amore con Vivian, la dama del Lago, e lì è stato
sepolto sotto a un albero di agrifoglio che esiste tutt’ora” Ernesto ricorda quella saga “Mi era piaciuta
tantissimo la leggenda di Mago Merlino, cominciava dalla sua infanzia, tutti libri bellissimi, tranne
l’ultimo, quando muore per colpa di Vivian. Mi ero anche molto arrabbiato con gli Angli e i Sassoni
che lì distrussero la grande civiltà dei Celti, ma...”lei”, che cosa fa lì?” Uobbi capisce che sarà una
lunga serata “Esmeralda non è mai andata nelle scuole normali, non ha potuto farsi vedere in giro fino
alla maggiore età, così Beniamino le ha insegnato le lettere e le scienze e l’ha mandata a scuola “di
foresta” da Albine la vecchia guaritrice che le ha insegnato tutto sulle erbe e di come guarire con esse.
Adesso è lei che raccoglie le erbe nella giusta stagione, le fa seccare e aiuta Albine a preparare gli
intrugli che servono a guarire gli animali della foresta e gli Arcobaleno che ne hanno bisogno, non la
gente normale e le Ragnatele che andrebbero con telecamere, frotte di turisti, professoroni indignati e
distruggerebbero tutto. Il loro posto è segreto e ti assicuro che Nando fa buona guardia”.
Il silenzio avvolge i libri, ma per poco, la matita fra le mani di Ernesto è proprio malridotta: “Tu
sai dov’è?” Uobbi sospira cambiando posizione “Io non ci sono mai stato, ma basta chiedere ai
tantissimi Arcobaleno che sono andati... che cosa stai pensando Ernesto?” “Io devo andare da lei
Uobbi.” “Ernesto, ti rendi conto che siamo a novembre? Nell’alta Bretagna fa un freddo cane, la
foresta sarà coperta di neve...” “Bene” risponde Ernesto “Andrò in treno” Uobbi ride “Che cosa credi,
che in mezzo alla foresta ci siano le stazioni? Senti, l’unica possibilità è andare in macchina, forse
qualcuno ce la presta...” ecco aveva parlato al plurale, si era fregato, ma non poteva certo abbandonare
quel ragazzo innamorato da solo fra i monti della Bretagna in inverno, lo guarda e si accorge che sul
viso di Ernesto c’è una lacrima “io nnon ho la ppatente...”.
Viene da piangere anche a Uobbi, ma fa il duro e dice: “Avanti, soffiati quel naso, vedrai, una soluzione
la troviamo. Ora però ho un certo languorino, che ne dici di qualche frittella di Micol?” Escono nella
Parigi della nebbiolina autunnale dirigendosi al Marais.
Dopo poco incontrano Jacques “Vengo con voi” dice “Ho bisogno di scaldarmi, devo proprio
decidermi a chiudere la bancarella in inverno, tanto nessuno compra fiori... magari se trovassi da
cantare in qualche bistrot...almeno starei al caldo!” Ridono.
Da Micol c’è una festa: è nata una nipotina, li accoglie a braccia aperte e...altro che frittelle, c’è
di tutto in abbondanza. Naturalmente Ernesto e Jacques, accompagnandosi con la chitarra, cantano
Brassens e Micol le sue gighe d’amore, ma Ernesto è pensieroso, sbocconcella svogliato, non insiste
come al solito per un’altra canzone. “Hei, ma che cos’ha?” chiede Jacques a Uobbi “È innamorato
come una pera cotta”. E così gli raccontano tutta la storia e di come sia impossibile andare nella
foresta in inverno senza macchina... “Tutto qui?” sbotta Jacques ridendo “Ve l’ho detto che ho troppo
freddo in quella bancarella, prendiamo il mio Peugeot e andiamo! A me piace guidare, mi piace la
foresta e mi piaci tu, Ernesto” “Grazie eh” dice Uobbi fingendosi risentito.
Ah l’amore! Ernesto incomincia a saltare, a far capriole, a ballare, a urlare dalla gioia. Arriva Micol
stupita, Ernesto la prende per mano, le fa fare una giravolta, la lancia in alto, la riprende, l’abbraccia,
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poi stremato si lascia cadere e rimane lì, le gambe stese, le mani appoggiate per terra, tutto sudato con
un sorriso ebete. Tutta la sala, che era rimasta attonita, scoppia in un grande fragoroso applauso.
Il giorno dopo Ernesto saluta Whitman che lo guarda con grande dolcezza, forse pensando ai suoi
amori di tanto tempo fa, gli chiede: “E la tesi Ernesto?” “Tutto a posto, non si preoccupi, sono a buon
punto e quando torno studierò il doppio, comunque porterò via i libri più importanti e mentre Jacques
guida io posso studiare” “Beh speriamo, buon viaggio Ernesto, a presto e tieni la testa sul collo!”
“Tornerò presto Maestro, stia tranquillo, andrà tutto bene”.
Arriva il vecchio furgoncino rimesso a nuovo da Francois che è un meccanico veramente eccezionale,
ha trovato persino le catene per la neve quasi nuove. Jacques è buffissimo con quel cappotto d’altri
tempi dal collo di pelliccia, il berretto dell’Armata Rossa con il paraorecchi, tre maglioni e gli stivali
imbottiti di suo fratello che abita a Helsinki; scappa da ridere a tutti, e lui: “Ridete, ridete pure, con
il freddo bisogna premunirsi, ne so qualcosa io... comunque ho portato indumenti pesanti anche per
voi spiritosoni! Nella foresta mi ringrazierete”. Caricano il Peugeot con grandi sacchi di cibarie che
Thabit aveva mandato, qualche bottiglia di buon vino, il carretto di Ernesto con la rosellina in alto
perché prenda aria e la mappa per arrivare al rifugio di Esmeralda, trasformata per non correre rischi
in un romanzetto d’avventure da quattro soldi.
Partono. La direzione è ovest verso l’Atlantico, bisogna arrivare a Rennes, circa 350 km.
Naturalmente niente autostrada, come al solito vogliono godere di tutti i cambiamenti di paesaggio e
scoprire i particolari dei nuovi posti che incontrano. Il viaggio è piacevole, dentro al furgone un bel
calduccio “Grazie Francois...” pensa Jacques sfilandosi un paio di maglioni fra i sorrisi sornioni degli
altri due. Mettono un po’ di musica con quel piccolo aggeggio di Ernesto sul quale Simon, che aveva
il computer, gli scaricava tutti i pezzi musicali più belli, quello era l’unico vero lusso di Ernesto e ora,
con le ultime foto vendute si era comperato anche le casse.
A Chartres si fermano per visitare quella sua Cattedrale piena di misteri e di antiche leggende e lì
Ernesto “sente” le voci dei Galli e dei Celti, “vede” i magici Druidi e le Genti di prima ancora, quelle
che ersero un Dolmen dalla potente energia risanatrice “Non è possibile” si dice “Sto sognando” e
quasi senza che lui se ne accorga l’occhio corre all’obiettivo della macchina fotografica e clik, clik,
clik scatta le sue foto. Ripartono restando in silenzio, ognuno con i suoi pensieri fino a Laval, dove
mangiano qualcosa e passano la notte.
Al mattino, dopo un’ora di viaggio arrivano a Rennes, da qui prendono la direzione di Paimpont, il paese
che si trova al centro della foresta. Sono posti piuttosto turistici, ma non certo a fine novembre.
Tutto è immobile e innevato, il cielo è azzurro come può esserlo solo d’inverno in una giornata di
sole, è ora di prendere la mappa.
Parcheggiano il Peugeot appena fuori dal paese e proseguono a piedi con il carretto, partendo dal
sentiero che porta alla tomba di Merlino. Non è facile individuare i segnali indicati sulla mappa con
tutta quella neve, ma sempre c’è qualche animale del bosco che li aiuta: uno scoiattolo che si ferma
alla pietra celtica sotto alle felci, un gufo che “Huu huu” svolazza sull’albero torto, un merlo che li
guarda pulendo il suo becco giallo sul ghiaccio accanto alla fonte dei sassi verdi, e così tappa dopo
tappa arrivano davanti a una parete rocciosa in parte coperta dalla fitta vegetazione. Da lì sembra
impossibile proseguire, ma la mappa dice “In basso, dietro alle piante di rosa canina, intagliato nella
roccia c’è un piccolo labirinto, premete sul centro”. Uobbi si infila nei cespugli, scava nella neve
“Eccolo!” esclama con il naso dolorante dalle spine di rosa, Ernesto preme sul centro e la parete,
come nelle fiabe, si apre per farli passare.
Al di là c’è l’orso Nando che li aspetta “Eccovi, benvenuti!” Nando è proprio un orso strano...
“umano” si direbbe quasi. “Ma non sono in letargo gli orsi in inverno?” pensa Ernesto. L’orso Nando
come leggendogli nella mente “Non vado più in letargo” dice “Mi perderei la cucina di Beniamino, la
neve, le canzoni davanti al camino... e poi quella caverna tutto da solo... No, no! “ Richiude con cura
la pietra d’accesso “Ecco da qui siamo nell’antica foresta che non esiste più”. Oramai Ernesto non si
stupisce più di nulla, ma questa poi... “Se non esiste più...” mormora timidamente “Incamminiamoci”
Nando da buon orso è di poche parole “Possiamo parlare lungo la strada”.
Questa foresta è magnifica, assolutamente incontaminata, filtra qualche raggio di sole attraverso i
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rami degli alberi che si riflette sulla neve formando stupendi giochi di luce.
Camminando Nando racconta: ”Questa è l’unica foresta al mondo che continua a vivere anche se è
stata distrutta dagli uomini secoli e secoli fa. È rimasta impregnata della magia dei druidi e Merlino
ha costruito le difese e la porta d’accesso, per questo è morto, è stata troppo grande per lui l’energia
magica che quest’impresa ha richiesto, tutta la storia di Vivian e dei suoi incantesimi è falsa, un
falso finale per difendere la foresta...” Ernesto: “Lo sapevo! quell’ultimo libro proprio non mi è mai
piaciuto!”.
Camminano ascoltando il racconto di Nando quando di colpo si ritrovano in una grande radura piena
di conigli selvatici, al centro scorre un ruscello, sulle sue rive alcune basse case bretoni col tetto di
paglia che arriva fino a terra, “Siamo arrivati” dice Nando che con la grossa zampa saluta qualcuno:
è Beniamino che li aspetta sulla piccola porta della sua casa, tutto intorno una musica che sembra
arrivare dalla casa più grande. Ernesto l’aveva immaginato completamente diverso: grande e grosso
con la camicia a scacchi e l’aria burbera. Quello che lo saluta con dolcezza, invece, è il Babbo Natale
dei suoi libri dell’infanzia solo che è vestito da marinaio: non alto e un po’ cicciotto, rubicondo, con la
barba bianca e degli occhialini tondi sul naso, un berretto di lana blu e un maglione a collo alto dello
stesso colore, solo la stretta della mano è ferrea come se l’aspettava.
Entrano in casa dove c’è un meraviglioso profumino che sale da alcune pentole sulla stufa “Pasticcio
di patate con carciofi e zuppa di cipolle” dice Beniamino “Avete fame?” “Altroché” rispondono in
coro.
In quel momento si apre pian piano la porta ed entra una vecchiettina piccola piccola con il sorriso
più dolce che si possa immaginare, lo sguardo curioso e ridente, i capelli color della neve raccolti in
una crocchia e un vecchio grembiule a righe con grandi tasche “Ho sentito che abbiamo ospiti” dice
posando sulla tavola un vassoio di dolci appena sfornati. “Vieni Albine” la saluta Beniamino “Stiamo
per andare a tavola, suona la campanella” Albine tira ripetutamente un anello: “Din din... din din...”
si sente fuori.
Accompagnata da un allegro vociare si tuffa in casa una frotta di ragazzini festosi e affamati che a
Ernesto ricorda la banda dei “Bimbi sperduti” di Peter Pan; dietro di loro alcuni adulti che scherzano
con loro. Beniamino fa le presentazioni e spiega che nella casa più grande si svolgono le lezioni e
le attività: botanica, veterinaria, musica, lettura, falegnameria e altro ancora. Quelli sono i bambini
che, quando è possibile, vengono strappati all’orfanotrofio, stanno qui fino alla maggiore età, poi
possono scegliere se rimanere e insegnare ai più piccoli, oppure tornare nel mondo reale con le loro
conoscenze.
Mangiano proprio volentieri, quel pranzo li riscalda e quella cucina così accogliente tutta di legno
li conforta. “Così tu saresti Ernesto eh?”Albine sembra quasi parlare fra se e se “Bravo, bravo...
bene, bene... molto, molto bene.” Ernesto non sa che cosa rispondere. In realtà quello che vorrebbe è
chiedere di Esmeralda, perché non è li? Dove sarà? In suo aiuto, come al solito viene Uobbi: “Dov’è
Esmeralda?” chiede “Oh, Esmeralda è andata con Caciù a raccogliere le bacche” dice Beniamino
“Questa è la stagione, torna domani, stanotte si fermava a dormire alla Grotta del Cervo per fare scorta
del lichene che si trova solo lì”. Ernesto scopre la gelosia, quasi grida “Cchi è Caciù?!?” poi diventa
rosso perché tutti lo guardano stupiti “ È un lupo naturalmente!” rispondono, e Beniamino: “Ha un
caratteraccio Caciù, ma se si tratta delle sue bambine... E ora diteci, come mai siete venuti fin qui con
tutta questa neve? C’è forse qualcuno che ha bisogno di cure?” Jacques non ce la fa proprio più, è un
pezzo che cerca di trattenere una risata “Sì lui” dice con le lacrime agli occhi dal gran ridere indicando
Ernesto; è contagioso, tutti si mettono a ridere tranne Ernesto che ha voglia di piangere e Albine che
gli va vicino, gli versa un bicchiere di buon vino e accarezzandogli i capelli dice: “Non dar retta a
questi spiritosoni, copriti bene e raggiungi Esmeralda, ho proprio bisogno di felce rossa e mi sono
dimenticata di metterla nella lista che le ho dato, potrebbe accompagnarti Bibi, lei conosce benissimo
la strada” parlando con Ernesto lancia un’occhiataccia agli altri che ammutoliscono imbarazzati.
Ernesto sembra rinato “Sì, subito, vado subito! Il libro! Devo portarle il libro che ha dimenticato.
Vado! Ma dov’è il mio zaino? Ah eccolo, va beh, ciao eh, io vado...” e scappa fuori, incomincia a
correre, si ferma di botto, si ricorda di non conoscere la strada, “Bibi!” grida, “Ma chi è Bibi?”. “Sono
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qui, perché urli?” una vocina dal basso. Guarda in giù e vede una deliziosa bambina sui 6 anni che
gli sorride “Andiamo allora?”.
Il cammino sarebbe lungo e non è facile con tutta quella neve, ma loro sembra abbiano le ali. Bibi è
velocissima per natura, Ernesto per volontà.
“Ecco ci siamo” e Bibi si ferma di colpo. Ernesto non era preparato e inciampa nel tentativo di
fermarsi, vola su qualcosa di peloso che grida “Accc, ma che diavolo...un po’ d’attenzione per favore”
è Caciù “Scusa” dice Ernesto che sente provenire da un po’ più in là una risata cristallina, guarda in
quella direzione e... eccola lì Esmeralda che ride come una matta rischiando di rovesciare i cesti pieni
di bacche.
Ernesto è folgorato, ancora più bella di come se l’era immaginata.
Imbacuccata in una grande giacca di velluto con una sciarpa tutta colorata e un berretto di lana verde
sformato come quello degli elfi, Esmeralda è un filino di ragazza alta e magra con lunghi capelli
castani ricci che escono dal berretto, occhi di un azzurro\verde mai visto e quel sorriso! Se il sole non
fosse già qui sarebbe arrivato sentendola ridere.
Gli corre incontro tutta allegra “Ciao, scusa se rido ma il tuo volo su Caciù... io sono Esmeralda, e
tu?” Ernesto si alza da terra scuotendosi la neve dal giaccone “...Eernesto...” la guarda senza riuscire
a dire altro.
Bibi che nel frattempo giocava con Caciù interviene: “È arrivato da noi stamattina insieme ad altri
due amici, l’ho accompagnato qui perché me l’ha chiesto Albine, a proposito ha detto che ha bisogno
di felce rossa, ma io ne ho visto un mucchio in laboratorio, mah...” poi “Caciù, mi fai fare una
cavalcata nel bosco?” e ride felice quando lui l’accontenta, così Esmeralda e Ernesto si ritrovano soli
“Ti ho riportato un tuo libro” dice Ernesto cercandolo nello zaino “Grazie mille! L’ho tanto cercato,
questo libro mi fa sognare e lo tengo sempre con me” poi “Per oggi ho raccolto bacche in abbondanza,
sediamoci e mangiamo qualcosa, vuoi?”. Si siedono su di un vecchio tronco, Esmeralda prende dalla
sua tracolla una torta, mangiano in silenzio guardandosi per un po’. Poi, come sempre succede in
questi casi, prendono a parlare tutt’e due insieme, scoppiano a ridere, finalmente si scioglie il ghiaccio
dal cuore di Ernesto.
Non quello della foresta però, il sole sta tramontando, così Esmeralda richiama Caciù e Bibi, raccoglie
i cesti di bacche e propone di spostarsi alla Grotta del Cervo dove avrebbero potuto accendere un bel
fuoco.
Arrivano dopo un’ora di cammino. La grotta è proprio confortevole, c’è una sorgente d’acqua, la
paglia pulita per dormire, una catasta di legna e alcune lampade per fare luce. Si sistemano attorno al
fuoco con un bel minestrone bollente “Incredibile” pensa Ernesto “Neanche l’odore del fumo riesce
a coprire il suo profumo” prende la sua chitarra e suona un dolce motivo tzigano.
Bibi si addormenta quasi subito e Caciù le si sdraia vicino per tenerle caldo.
Ernesto e Esmeralda passano la notte a parlare raccontandosi le loro storie e i loro viaggi, dicendosi
quanto sono fortunati ad avere tanti amici, ridendo di alcune delle creature più buffe del mondo
acquerello, chiacchierando dei sogni più belli, consigliandosi i libri da leggere.
L’alba li trova ancora lì. Quando il primo raggio di sole entra nella grotta Caciù apre un occhio,
sorride, si stiracchia e esce a cercare Marta la capretta per un po’ di latte; lei era proprio lì vicino e
vedendo quel sorriso sulla faccia del lupo chiede: “Che hai Caciù stamattina? Non ti fai vedere spesso
a sorridere” “Amore in vista...” risponde lui, e poi “Dai vieni dentro, così facciamo colazione” lei
lo segue curiosa lasciando che Caciù prepari quattro tazze con il suo latte e accettando in cambio
qualche bacca di rosa. “Buongiorno a tutti, la colazione è servita” grida Caciù.
Tutti insieme riordinano la grotta e seguono Esmeralda che conosce i posti dove cresce il lichene che
guarisce dal mal di pancia.
Sulla strada del ritorno Bibi chiacchiera in continuazione, Caciù si carica più cesti del normale,
Esmeralda sbadiglia sorridendo, Ernesto sorride sbadigliando.
Arrivati a casa Bibi corre nella grande casa dove è già iniziata la lezione che più le piace, la cura dei
cuccioli e gli altri portano il raccolto nel laboratorio di erbe dove c’è Albine che li accoglie affettuosamente, li guarda e “Bene bene, mooolto bene...” Caciù inclina la testa, la guarda e sa che lei sa.
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Passa qualche giorno, Ernesto cammina sempre più fra le nuvole, Uobbi e Jacques si danno da fare
per aiutare gli altri e tutti insieme, cercando di non farsene accorgere, seguono inteneriti e anche un
po’ pettegoli quel che succede fra i due ragazzi.
Esmeralda è sempre molto indaffarata con Albine e solo alla sera dopo cena Ernesto può averla per
sé, le chiede di passeggiare o di parlargli della foresta, oppure le racconta le sue bellissime storie o le
canta qualche canzone. Vorrebbe gridarle il suo amore ma non osa, la vede sempre così allegra, così
autonoma, gli sembra che lei non provi lo stesso suo bisogno di stare da soli. D’altro canto non può
più nemmeno immaginare di passare una vita senza di lei.
Effettivamente Esmeralda, che ha sempre un consiglio per gli altri, non capisce bene che cosa stia
capitando a se stessa, sente sempre un languore, una specie di allegra malinconia, si ritrova distratta,
legge sempre più poesie d’amore ma, siccome è fatta come è fatta, rifiuta di guardarsi troppo addosso
“Passerà” si dice.
Bibi non sa perché Ernesto a volte è così triste, gli va vicino e lo prende per mano, gli chiede una
storia, gli porta un cucciolo, cerca di tenerlo allegro come può, lui le sorride, la accontenta, ma poi
ritorna ai suoi pensieri. Uobbi ad un certo punto scuote le orecchie e decide di chiedere consiglio ad
Albine: “Che cosa possiamo fare? Quel ragazzo morirà d’amore” stupito guarda Albine che si fa una
bella risata “Oh, come siete sciocchi tutti quanti, nessuno è mai morto d’amore, d’amore si vive! Voi
non conoscete Esmeralda, lei non conosce l’amore e ora rifiuta di credere a ciò che le sta succedendo,
ha bisogno di tempo non di essere pressata, altrimenti finisce che scappa, ma io lo vedo dai suoi occhi,
quel ragazzo le sta entrando nel cuore. Ora se volete il mio parere dovete andarvene, tornate a Parigi,
portatevi via “Signorino Sospiro” e lasciate quella bambina a maturare come si fa con le nespole.
Anche a Beniamino dovrò fare un bel discorsetto, gli piace quel ragazzo e crede di poter giocare
al gioco delle coppie, roba da matti! Fra qualche tempo vedrai ci sentiremo” e con ciò torna ai suoi
intrugli e non lo degna più di un’occhiata.
Uobbi non si era mai sentito le orecchie così lunghe “E chi glie lo dice adesso che dobbiamo partire?”
ma in fondo sa che è la cosa giusta, parla con Jacques e insieme affrontano l’argomento con Ernesto
“È ora di tornare a casa Ernesto, tu hai la tesi e in questi giorni non hai aperto un libro, Whitman ti
aspetta, i sogni da trasportare...” Jacques fa quello che può “Sai devo vendere la bancarella...” con
loro sorpresa Ernesto non ha nulla da obiettare “Avete ragione” dice col nodo alla gola “Tanto...”.
Radunano le loro cose e salutano tutta la tribù della foresta. Esmeralda è stupita “Ma come, te ne vai?
Non stavi bene qui con noi?” Ernesto la guarda rischiando di piangere “Esmeralda, io...” ci pensa
Nando che spingendo il carretto verso Ernesto fa il duro “Coraggio andiamo, la strada bisogna farla
con la luce e voi dovete arrivare fino al parcheggio”.
Si incamminano cercando di impedire a Ernesto di continuare a voltarsi, finalmente entrano nella
foresta.
La strada sembra molto più lunga che all’andata e il viaggio fino a Parigi è il più triste che abbiano
mai fatto.
A un tratto Ernesto esclama “Il mio libro! Ho dimenticato Opinioni di un clown, bisogna tornare
indietro!” Jacques sta già accostando a destra ma Uobbi lo ferma “Andiamo avanti Jacques. Ma
insomma Ernesto! Adesso basta, cerca di rimettere i piedi per terra! Alla Shakespeare ce ne saranno
4 o 5 copie di quel libro e il tuo, vedrai, qualcuno te lo riporterà” Ernesto si sente uno stupido, è la
prima volta che vede Uobbi arrabbiato “Va bene, hai ragione, scusami, sono proprio pesante in questi
giorni” risponde e si ripromette di essere meno egoista.
Arrivano alla Shakespeare&co il mattino dopo accompagnati da una fitta nevicata, è il primo di
dicembre, davanti alla libreria i ragazzi stanno spalando la neve dal marciapiede.
Scaricano i bagagli, e salutano Jacques che riparte verso casa con il suo vecchio Peugeot.
Whitman è lassù nel suo ufficio intento nel compito che più odia: i conti. È quindi felice di
interromperlo per chiacchierare con loro di tutte le reciproche novità, fa finta di non accorgersi della
tristezza di Ernesto ma guarda Uobbi con aria interrogativa, lui gli risponde con la faccia del “Bah”.
Bevono un caffè bollente “Ora Ernesto buttati nello studio” lui sa che in questi casi tenersi occupati
è fondamentale “La tesi è importante, e poi c’è bisogno di te per il trasporto dei sogni, mi dicono che
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sono più tranquilli quando li porti tu... Ah, mi dimenticavo chiama casa, ti hanno cercato in questi
giorni” Ernesto pensa “Hanno ragione, non mi faccio mai vivo” Whitman intanto: ”Senti Uobbi come
russa! Vai a farti un pisolino anche tu, poi ti metti sotto con tutto...a proposito sono arrivate due casse
di vecchi libri dall’Irlanda che credo ti interesseranno molto, poi dagli un’occhiata così li archiviamo”
Ernesto indugia “Maestro...” il Vecchio che stava riprendendo il suo lavoro si gira “Sì?” “Niente,
niente, vado, a dopo” Whitman sorride.
Ernesto dà da bere alla sua rosellina e con un sospiro si addormenta sul suo sacco a pelo.
Appena sveglio telefona a Genova “Pronto?” è Lisa a rispondere e grida: “Ernesto! È Ernesto!
Finalmente ti fai vivo! Veniamo tutti a trovarti e...” mamma Gianna prende il telefono “Ciao Neno,
come stai? Non dar retta a tua sorella, era un’idea... pensavamo di venire qualche giorno approfittando
delle feste di Natale, è così tanto che non ci vediamo... ma solo se tu sei d’accordo...insomma che
cosa ne pensi? Si riesce a trovare una stanza che costi poco?” “Sarebbe fantastico!” risponde subito
Ernesto “Anch’io ho tanta voglia di vedervi e voglio portarvi in giro per Parigi e farvi vedere tutte le
cose meravigliose che ho scoperto, e per la stanza non vi preoccupate ho un sacco di amici qui, allora
quando arrivate?” Gianna cerca di immaginare il suo Ernesto al di là di quel lungo cavo telefonico
“Guarda, le scuole finiscono il 22, potremmo partire il 23...senti quando arriva a casa papà ne parliamo
e ti facciamo sapere, un bacio, a dopo”.
Ernesto è veramente contento e subito corre da Uobbi che si stava stiracchiando al calduccio vicino
alla stufa, insieme già studiano un programma di visita della città.
A sera chiama papà Luciano, come al solito poche parole “Hei Ernesto, tutto bene? Allora, arriviamo
il 24 in mattinata, dove ci troviamo? Riesci a trovare un albergo che accetti gli animali?” Ernesto ci
pensa un attimo “Penso io a tutto papà, troviamoci all’uscita del metrò di ‘La Bastille’ c’è un’edicola.
Fammi sapere a che ora e mi troverò lì, così vi guido a scaricare i bagagli, parcheggiamo e poi a piedi,
va bene?” Luciano è piacevolmente stupito dell’efficienza di suo figlio “Benissimo, a presto allora”.
Nei giorni seguenti Ernesto si immerge nello studio e porta due treni di sogni fino alla Grande
Biblioteca, conosce sempre più creature del mondo acquerello che da tutto il mondo vanno e vengono
per acchiappare sogni di là e distribuirli di qua “Proprio pochi dagli Stati Uniti” riflette “Che sia per
la loro così scarsa storia? O per le loro troppe armi? Per il loro bisogno di possedere il ‘verbo divino’
o perché proprio sono troppo superficiali? Bisogna che ne parli con il Maestro”. Anche di altri
dubbi voleva parlargli: aveva molto riflettuto sul fanatismo religioso e proprio non riusciva a capire
il meccanismo mentale di quegli uomini che uccidono altri uomini in nome di Dio, che differenza c’è
fra quel Dio e quell’altro? Con lo studio stava apprendendo moltissimo sulle antiche religioni, stava
studiando anche le origini del monoteismo e sapeva che i popoli che ora nel mondo si annientano a
vicenda traggono le loro origini religiose da un unico libro, poi...”questioni di potere credo, allora
come adesso” e ancora: perché è uso definire tutti gli uomini che non sono bianchi “di colore”? Forse
non siamo tutti colorati? Solo che in modo differente? Pensieri e pensieri che Ernesto annota nella
sua agenda e nella sua mente, pensieri che, insieme ai suoi dolori, stanno facendo di lui un uomo, un
vero uomo giusto.
I primi 20 giorni di dicembre passano in fretta, Ernesto è sempre occupato. Solo alla sera sul suo
soppalco piange in silenzio pensando a Esmeralda “Non ho più neanche il libro di Neruda, non posso
neanche sentire il suo profumo...” come ricordo solo due bacche di rosa rimaste in fondo allo zaino.
Uobbi cerca di dormire con lui il più possibile e allora, con la sua zampona gli fa ‘pat pat’ sulla
schiena e gli dà il suo calore. Di colpo una notte gli viene in mente il suo rullino, quello che aveva
nella macchina durante viaggio alla foresta, si alza di botto, lo estrae dalla macchina fotografica e
passa il resto della notte in camera oscura.
Esce frastornato alle 4 di mattina e corre da Uobbi: uno stupendo primo piano di Esmeralda che ride
imbacuccata nei suoi vestiti da folletto “É stupenda vero? Adesso lei è un po’ qui con me” poi di colpo
si fa serio e tira fuori le altre foto “Ricordi Chartres? vedi anche tu quello che vedo io?” in alcune
foto la cattedrale si vedeva come un’ombra sovrapposta a un grande Dolmen e a vari altri templi
pagani dove antichi sacerdoti celebravano i loro riti, in altre si assisteva alla costruzione della chiesa
da parte di bianchi cavalieri che combattevano per difenderla, in altre ancora veniva eretto il Dolmen
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da genti antichissime e sconosciute che sollevavano gli immensi blocchi di pietra con macchinari
assolutamente moderni, poi labirinti e simboli magici che Ernesto non ricordava di aver fotografato.
A Uobbi non bastava più scuotere le orecchie “Andiamo da Whitman, subito!”. salgono la scaletta
con le foto ancora bagnate dallo sviluppo, la luce è accesa nello studio del Maestro “Ma quando
dorme?” si chiede Ernesto.
Whitman, che stava leggendo sprofondato nella sua vecchia poltrona, posa il libro e guarda le foto,
con calma, una dopo l’altra. Un grande sorriso si allarga sulla sua vecchia faccia “Lo sapevo! È
proprio così! È fantastico, meraviglioso, È...” Ernesto e Uobbi si guardano, lo guardano, si riguardano,
aspettano. George Whitman piano piano si gira verso di loro “Sedetevi, è arrivato il momento di
parlare” si accende la pipa e si versa un bicchiere di Jameson “volete?” Ernesto preferisce un po’ di
vino, Uobbi si accoccola sul tappeto e curioso aspetta che finiscano gli umani riti.
Si avverte un’aria di attesa e di cospirazione nel disordine del vecchio studio, fra le volute di fumo e
la calda delicata luce dell’abat-jour.
“Io non sono eterno” dice Whitman alzando una mano per zittire le loro proteste “nessuno è eterno,
ma io ho un problema in più: ogni Guardiano del Libro deve in tempo trovare il suo successore,
è una grande indispensabile responsabilità. Ho tanto cercato, sono stato assalito da mille dubbi e
uno dopo l’altro finora ho scartato tutti i possibili futuri Guardiani. Tutti fino a che sei arrivato tu
Ernesto” il silenzio è totale solo il tim tum del cuore di Ernesto che batte all’impazzata “Uobbi già
ti ha detto che ti seguivamo da tanto, qui hai dimostrato di avere tutte le capacità necessarie e con
qualche anno ancora di studio e di preparazione saresti stato pronto, te ne avrei parlato più avanti, con
calma. Ma...queste foto! questo è ancora qualcosa di più, qualcosa di rarissimo e meraviglioso, questa
tua capacità ci apre la porta della conoscenza visiva, capisci l’importanza Ernesto? Ora possiamo
“vedere” le antiche genti, non solo leggerle sui loro libri, possiamo finalmente conoscere tante cose
rimaste oscure” guardando lontano tace un attimo, poi “Io non ho questa dote. So che alcuni dei
precedenti Guardiani la possedevano, ma non esistevano i mezzi per trattenere le immagini, così
hanno scritto sui libri. Ora tu l’hai scoperto per caso, dovrai molto esercitarti, rendere questa tua
capacità totalmente governabile e anche assolutamente segreta, pensa che cosa potrebbe succedere
se queste foto cadessero in mano alle Ragnatele che governano la terra! Ti darebbero la caccia e
la darebbero anche a tutti gli Arcobaleno. Quelle Ragnatele non potrebbero mai permettere che si
scoprano e si possano provare le loro nefandezze del passato. Sai? sono felice Ernesto”
Whitman tace e sorseggia il suo Whiskey guardando un punto oltre il muro che solo lui vede.
Uobbi è immobile, sembra parte del tappeto, non scuote le orecchie per non disturbare, aspetta, non
tocca a lui parlare.
Ernesto è scioccato e confuso, pensa “Guardiano? Io? ma se a volte non riesco neanche a guardare
me stesso...” mille domande nella sua testa, lancia una muta domanda a Uobbi che alza una palpebra
“Il Maestro è così saggio e sapiente, io sto solo imparando, mi stupisco di tutto, non so niente...”
finalmente guarda Whitman e fa per parlare, ma lui lo precede “Certo che sai guardare te stesso. E io
sono saggio e sapiente perché sono vecchio e ho studiato, osservato e cercato per tutta la vita” ride
“Non guardarmi con quella faccia Ernesto, qualche dote ce l’ho anch’io. Comunque non ti preoccupare,
non uso intrufolarmi nei pensieri degli altri quando non è necessario”. La sua faccia allegra allenta
la tensione. Uobbi finalmente può grattarsi il naso, Ernesto smette quell’aria imbambolata e accenna
un timido sorriso “Maestro, io...io non sono sicuro di essere in grado, cioè, una responsabilità così
grande...e poi...e poi...” deve dirlo “E poi, E SE MI RUBANO IL LIBRO?!?” ecco l’ha urlato ed è
così spaventato che gli altri due scoppiano a ridere.
Oramai è mattina, Whitman prepara il caffè “Che buono il primo caffè del mattino” dice, e poi:
“Nessuno ti ruberà il Libro Ernesto, saprai tutto a suo tempo, stai tranquillo. Sappi che io non ho
nessuna intenzione di morire tanto presto, così abbiamo parecchi anni davanti a noi per affrontare tutti
i problemi e la tua preparazione. Ora và, riponi le foto con i negativi nel corridoietto che tu sai e... a
proposito, ricordi quei libri irlandesi di cui ti ho parlato? Beh sono sulle origini delle genti celtiche,
scritti anticamente dal druido Cathbad che è stato un Guardiano e “vedeva” come te. Che dici, è ora di
prenderli in mano?” ammiccava con aria sorniona Whitman, l’interesse negli occhi di Ernesto “Certo
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che è ora! Vado Maestro... accidenti sono le 9, apro la libreria e... a dopo”.
Ernesto passa due giorni sprofondato nelle casse dei libri irlandesi con i pensieri in altre epoche e in
altri mondi. La foto di Esmeralda è lassù sul soppalco, appesa vicino al cuscino, con una cornice di
fiori secchi che Jacques ha fatto appositamente.
Arriva il 24 mattina. Place de la Bastille. Ernesto è lì infreddolito vicino all’edicola, non vede l’ora di
abbracciare tutti i suoi. Ecco il Ducato rosso, Ernesto agita le braccia per farsi vedere, dall’emozione
papà Luciano rischia di schiantarsi contro un palo, finalmente si ferma e tira il freno a mano. Tutti
schizzano fuori contemporaneamente e il Ducato sembra un fiore che di colpo sboccia: Lisa, mamma
Gianna, Peo, Cicero, Gap e papà Luciano sommergono Ernesto di abbracci, baci, leccate, manate e
zampate, parlano tutti insieme: “Neno, come sei cresciuto, come sei bello!” la mamma felice “Dove ci
porti? Che cosa facciamo? Usciamo insieme stasera?” Lisa entusiasta “Come avete viaggiato? Avete
fame? Ho tante cose da farvi vedere!” Ernesto “C’è un vigile, sarà meglio portare via il furgone”
papà Luciano sempre concreto. Salgono tutti sul Ducato, Luciano mette in moto “Dove devo andare?
Dov’è l’albergo?” Ernesto scoppia a ridere “Ma quale albergo papà? Armand, il mio amico inventore,
ha una casa molto grande e vi ospiterà per tutto il tempo che rimarrete qui” Gianna sgrana gli occhi
“E gli animali? Non possiamo portarglieli in casa...” Ernesto la tranquillizza “Tutti i miei amici qui
amano gli animali, non c’è nessun problema” si gira e fa l’occhiolino a Cicero/Giustino.
Dopo un breve percorso, dopo aver scaricato i bagagli e dopo cinque piani di scale a piedi arrivano
a casa di Armand. C’è un bel calduccio e una montagna di croissant che li aspetta sul tavolo della
cucina. Tutto intorno strani marchingegni, pezzi vari di ogni materiale, lampade che si accendono e si
spengono da sole, monitor e computer... attrezzature ultramoderne fra mobili confortevoli e vecchiotti
da “bric à brac”, sulle pareti fra i quadri e gli appunti neanche un pezzettino di muro libero. Armand
è alto e dinoccolato, con tanti capelli ricci più bianchi che neri, un vecchio maglione beige e un bel
sorriso fra i baffi e la barba “Ben arrivati sui tetti di Parigi!” butta la testa idietro e ride “La casa è a
vostra completa disposizione, fate solo attenzione ai miei macchinari, alcuni sono molto delicati”.
Sono commossi da tanta generosità e mamma Gianna d’istinto lo abbraccia “Grazie” dice Luciano “A
Genova tu hai una casa, lo sai?” “Verrò” promette Armand.
Mentre mamma Gianna mette in frigo tutte le cose buone portate da casa, prepara i letti e fa bere
gli animali, Ernesto e suo padre vanno a parcheggiare il furgone nella rimessa di Francois “Mamma
torniamo fra poco a prenderti, così vi porto a mangiare e vi faccio vedere...tutto!” È felice e fiero
Ernesto “Va bene” risponde la mamma, poi “Lisa non potresti aiutarmi?” e lei “No dai mamma! Vado
con loro, ti prego...” Gianna dentro di sé “Ma se già conosco la risposta perché diavolo non sto zitta?”
e a voce alta “Va bene, va bene, a dopo” e apre la finestra a Gap che vuole volare.
Arrivano affamati nella cucina di Thabit che serve loro i Kafta (spiedini di carne macinata, cipolla e
spezie, cotti alla brace) posati sul khubz arabi, il sottile pane arabo, e conditi con una serie di salse
saporitissime. Quando ha un attimo di tempo Thabit si siede al loro tavolo “Domani è Natale, per me è
un giorno come un altro, ma ne approfitto per tenere chiuso il locale. Anche quest’anno, come sempre,
ci ritroviamo tutti qui da me, uniamo i tavoli e ognuno porta qualcosa, insomma facciamo festa.
Venite anche voi?” Ernesto guarda i suoi “Che cosa ne dite?” mamma e papà Montaldo sono sempre
più felicemente stupiti e commossi da questa Parigi del loro Ernesto “Allora io devo cucinare! Ho
portato da Genova le cose che ti piacciono di più” mamma Gianna guarda Ernesto con tenerezza “Ma
se è per domani devo incominciare e... troverò un mortaio?” Thabit interviene “Cucina genovese?
Fantastico! Piccola bella signora, la mia cucina è a sua completa disposizione!” “Io ti aiuto” dice
Luciano “Lo sai che il cappon magro lo faccio meglio di te!” diventa un po’ rosso guardando i suoi
figli che si danno di gomito ridacchiando “Bene” Ernesto si alza “Allora oggi voi sgobbate e io vado
a fare qualche foto a Montmartre sotto alla neve, Lisa vieni con me?” neanche a dirlo, lei è già pronta
con cappotto, berretto e sciarpa. Luciano e Gianna guardano i loro figli che si allontanano ridendo
e scherzando “Eh sì, qualcosa di veramente bello l’abbiamo fatto nella vita” Luciano stringe la sua
compagna che gli risponde in silenzio con una carezza.
Ecco Natale, questo Natale, chi potrà mai dimenticarlo?
Già dal mattino presto la porta sul retro di Thabit non ha pace, tutti che entrano posando grandi teglie
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avvolte in colorate tovaglie, enormi profumate casseruole, casse di vino, pacchi e scatole di tutte le
dimensioni. Tutto intorno le voci e le risa di quella strana moltitudine di quella particolare Parigi di
quell’incredibile mattina di Natale.
Francoise e Marguerite, che proprio non sanno cucinare, hanno preparato tutti gli addobbi dipinti
a mano; Marie Louise arriva carica di due casse di Bordeaux e due di Borgogna “State tranquilli,
guadagno bene io!” dice sempre; Armand ha al guinzaglio un un animale metallico che lo segue
trasportando i suoi pacchi; Josephine arriva profumata dal suo pane fresco; Jan Paul ha fatto stampare
il suo ultimo romanzo d’amore e ne dona una copia a ciascuno... ecco che arriva Jacques nascosto da
tutti i suoi centrotavola di fiori intrecciati con la chitarra in spalla, e Simon che porta una poesia.
Sblam! Si spalanca la porta e fanno irruzione Milo con i suoi facendo capriole e giravolte e atterrando
con eleganza sui tavoli con un inchino “Monsieurs, è arrivata la musica!” scroscia un applauso.
Persino il vecchio rabbino Yaacov, appena arrivato con Micol, ride di gusto aprendo il suo regalo, una
bandiera della pace. Entra Whitman insieme a Uobbi, lui verso sera racconterà una favola, intanto
posa sul tavolo più vicino due bottiglie di Jameson, “Se si mangia bisogna anche digerire” dice.
Man mano Ernesto presenta tutti ai suoi genitori. Mamma Gianna tutta rossa dai fornelli continua a
stringere mani, papà Luciano, che sta appendendo gli addobbi, da in cima alla scala agita la mano e
fa un sorriso, tutt’e due sono felici e perfettamente a loro agio. Lisa pende dalle labbra di suo fratello
e non lo molla un secondo, Uobbi vicino alla stufa chiacchiera con Giustino “Ma guardali” pensa
Gianna osservando quei due“Sembra quasi che stiano parlando”. “Ma guardali” pensa Whitman
osservando i Montaldo “Sono Arcobaleno e non lo sanno ancora, bisogna provvedere”.
Finalmente si va a tavola “Tutti seduti” tuona Thabit con tono autoritario “È il mio lavoro portare i
piatti” “Neanche per sogno!” è Gianna che si avvia a passo di marcia verso la cucina “La pasta col
pesto va servita bollente e qui solo io so come condirla per bene”, Thabit guarda Luciano “Ha un bel
caratterino la piccola signora...” “Lo so bene” risponde lui ridendo.
Ernesto ha le lacrime agli occhi dal piacere mangiando le trenette al pesto con fagiolini e patate
della sua mamma, ora si accorge di quanto gli erano mancate. Arrivano le verdure ripiene genovesi
e il cappon magro “Si chiama così” spiega papà Luciano “Perché a Natale i poveri non potevano
permettersi il cappone, così si sono inventati questo piatto di pesce da zuppa, verdure e patate” Thabit
lo assaggia ed esclama “Mmmm, è delizioso! mi dai la ricetta? Intanto tu assaggia queste” e serve le
sue falafel, morbide dentro e croccanti fuori, la zuppa di fave e il couscous ai sette legumi; Josephine,
oltre al pane, ha preparato il baccalà alla biscaïenne che si scioglie in bocca e fa sospirare dalla
bontà; Micol ha superato se stessa con la tenazione di Esaù (polpettine con pomodoro e lenticchie)
e naturalmente le sue famose frittelle; le triglie al pomodoro e le frittate di patate e cipolla arrivano
dagli altri amici del Marais.
Sono sazi e ci vuole un bel caffè “Arabo, francese o italiano?” chiede Thabit “Tutt’e tre!” risponde
la sala in coro, Milo guarda i suoi, contemporaneamente prendono i violini e saltano sui tavoli
ora liberi dalle pietanze. Prima lenta, poi sempre più veloce parte la musica tzigana, le loro donne
accompagnano sbattendo i tantissimi braccialetti e si mettono a ballare. Come si fa a stare fermi?
Qualcuno incomincia battendo i piedi al ritmo, poi le mani, le braccia si alzano, le gambe si muovono
quasi da sole... eccoli trascinati nella sfrenata antica danza degli zingari. Perfino il vecchio rabbino
accenna qualche passo invitando Lisa con un inchino. Quando tutti sono esausti, anche i suonatori,
Ernesto e Jacques prendono le chitarre e dolcemente suonano cantando Brassens, Aznavour, Yves
Montand.
“Siamo ancora in tempo?” nessuno aveva sentito la porta aprirsi, ma il faccione rosso dal freddo di
Beniamino è lì fra i battenti. Entra, ed entra Caciù che è arrivato fin lì travestito da cane, ed entra
Esmeralda imbacuccata come al solito nei suoi strati di lana colorata. “Abbiamo fame, c’è ancora
qualcosa? Abbiamo portato i bisc...” si ferma Beniamino, e si fermano tutti.
Come se un’incantesimo li avesse colpiti tutti tacciono di colpo guardando Ernesto che, sull’ultima
nota suonata posa la chitarra, si alza e come in sogno va verso Esmeralda che immobile, sulla porta
ancora aperta lo aspetta.
Ernesto è lì davanti a lei, il suo viso caldo vicinissimo a quello di lei ancora fresco dal viaggio “Ti
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ho riportato il tuo libro” gli sussurra lei “Grazie, lo leggo dopo” mormora lui. Come cosa naturale si
abbracciano stretti annusandosi l’uno con l’altro, e sempre stretti danzano, accompagnati dal violino di
Milo dal quale escono note melodiose che parlano d’amore. Sempre danzando escono nell’imbrunire,
loro due, da soli.
A questo punto la nostra storia sarebbe finita... ma come facciamo ad andar via così, senza guardare
le facce di tutti i nostri amici? Senza salutarli come si deve?
Allora abbandoniamo i due ragazzi al loro amore, che lì per discrezione ora non possiamo andare, e
fermiamoci ancora un poco da Thabit.
Mamma Gianna afferra il giaccone di Ernesto e fa per inseguirlo “Neno, avrai fredd...” Thabit la
afferra per un braccio “Torna indietro piccola signora, non avrà freddo il tuo ragazzo, vieni, siediti
con noi” poi porta da mangiare a Caciù e a Beniamino, il quale riflettendo, fra un boccone e l’altro,
dice “Albine! lei sapeva tutto. Ci ha costretto a venire nonostante la stagione, dicendo che dovevamo
assolutamente portarvi i biscotti, dicendo che eravate senza tisane, incaricandoci di comperarle della
liquirizia che assolutamente le serviva in un certo negozio di Pigalle... strega di un’Albine!” Whitman
ridendo “Te ne sei accorto adesso?” “No, ma mi ha fregato ancora una volta. Perché le donne capiscono
sempre prima?” le donne si guardano e si strizzano l’occhio, per tutte loro parla Sara la vecchia
zingara “Perché noi siamo da sempre abituate ad usare la testa e voi le mani. Ma non disperate, potete
farcela!” un attimo di silenzio “Proprio così” dice Micol ridendo “Ma non vi abbattete, vi amiamo lo
stesso, un brindisi all’amore!” ognuno propone un brindisi “A Ernesto e Esmeralda!” “Ai cuochi!”
“Alla vita!” “Agli Arcobaleno!” “chi sono gli Arcobaleno?” chiede Gianna “È proprio una cosa di cui
volevo parlarvi” Whitman si siede fra lei e Luciano “Dovete sapere...”
Milo riprende il violino. Musica!
Uobbi sorride e scuote le orecchie, “Il futuro sarà meraviglioso” pensa e si addormenta felice.
“Hei, Uobbi svegliati, adesso la storia è proprio finita?” lui apre gli occhi e mi guarda “Certo che no,
questa storia finirà solo quando il mondo sarà un unico arcobaleno. Il bello deve ancora arrivare, tu
che cosa dici?” “Dico che ora devo proprio andare, ciao amico mio, a presto allora e...abbi cura di
Ernesto” Uobbi alza una zampa “Lui è al sicuro, attenti voi là fuori” e si rimette a dormire.
Allontanandomi sento bofonchiare “A presto, ti aspetto”.
“Ma come” mi ha detto qualcuno “E i colpi di scena? E il cattivo che uccide? Il sangue, i morti e
tutto il resto, dove sono? Qui sono tutti buoni!”
Già son tutti buoni. Questa è solo una fiaba. Per trovare il sangue, i morti, il cattivo che uccide e tutto
il resto basta accendere il televisore. Ancora per qualche tempo.
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