Gli Stati Uniti di fronte al mondo

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Gli Stati Uniti di fronte al mondo
Gli Stati Uniti
di fronte al mondo
di Peter Beinart
L
Le difficoltà dei progressisti
Il mio libro The Good Fight (La buona battaglia) è stato ispirato da una fonte inattesa:
un’affermazione che George W. Bush ha ripetuto spesso durante la campagna presidenziale
del 2004, e che non credo, peraltro, abbia contribuito alla sua vittoria: «Forse non siete sempre d’accordo con me, ma almeno sapete come la penso io». Era implicito che lo stesso non
si potesse dire di John Carey, dei democratici, o dei progressisti in generale, e ne ero rimasto
colpito a causa delle esperienze negative da me vissute nel corso degli anni parlando con i
miei studenti. Se chiedete a uno studente conservatore: «Secondo te, qual è il libro che
descrive realmente cosa significhi essere conservatori?», vi risponderà citando una serie di
scritti, fra cui quelli di Von Hayek, Russell, Kirk, Friedman, e William F. Buckley, anche se
forse non li ha mai letti, ma ne ha solo sentito parlare. Se chiedete a uno studente progressista: «Secondo te, qual è il libro che descrive realmente cosa significhi essere progressisti?»
non otterrete praticamente nessuna risposta o, al massimo, vi sentirete citare la biografia di
qualcuno, per esempio quella di Martin Luther King. Questo mi ha sempre infastidito, ma il
fastidio è diventato particolarmente forte riguardo alla politica estera dopo l’attacco alle Torri
gemelle, che è diventato il cuore della politica americana, almeno per ora, ma ritengo anche
per il prossimo futuro.
Se si vuole individuare il periodo in cui i progressisti avevano piena coscienza delle loro
opinioni in politica estera, non solo a livello politico ma anche di principio, si deve tornare
indietro di molti anni, a prima della guerra del Vietnam.
I democratici hanno vinto le elezioni presidenziali nel 1976, quando il Paese si era un
po’ chiuso in se stesso dopo il Vietnam, durante il periodo della distensione; secondo i sondaggi dell’epoca, gli americani non mettevano più la sicurezza nazionale al primo posto.
Hanno vinto di nuovo negli anni Novanta, dopo la guerra fredda, un altro periodo di “chiusura” dell’America. Ma per trovare un’elezione presidenziale vinta dai democratici su questioni
di sicurezza nazionale, occorre tornare al periodo precedente la guerra del Vietnam.
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PETER BEINART È REDATTORE DI «NEW REPUBLIC» E AUTORE DEL LIBRO «THE GOOD FIGHT».
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I conservatori e la politica estera
La politica estera di Bush è stata spesso descritta come neoconservatrice. Il neoconservatorismo è un movimento che si è sviluppato all’inizio degli anni Settanta, ma studiando
i pensatori conservatori degli anni Cinquanta, si è colpiti dalla somiglianza fra molte delle loro
preoccupazioni per l’America e quelle dell’amministrazione Bush. Mi riferisco a quella straordinaria costellazione di intellettuali associati alla rivista americana «National Review»: per
esempio, William F. Buckley, Whittaker Chambers e, in particolare, James Burnham, un autore che è stato un po’ dimenticato, ma che probabilmente rimane l’intellettuale conservatore
più importante per quanto riguarda la politica estera dei primi due decenni della guerra fredda. Ciò che colpisce di questi conservatori è che avevano un timore molto particolare: che gli
americani non credessero abbastanza in sé stessi, che tendessero a essere menomati dai
dubbi su di sé. Facendo paragoni con l’atteggiamento dei sovietici, noi americani eravamo
coscienti di disporre di più soldi e più armi di loro, che però avevano una sicurezza fanatica
in sé stessi, un’assoluta convinzione di
rappresentare il bene, mentre noi rappreCiò che colpisce
sentavamo il male. Il nostro sistema
democratico ci ha reso inclini a un relatidi questi conservatori è
vismo morale debilitante, che ci ha portache avevano un timore
to a credere di non essere, dopotutto,
molto particolare: che gli
forse migliori di loro. Questo è il centro
americani non credessero
della nostra debolezza, ed è un grande
abbastanza in sé stessi,
pericolo. Il compito del Governo è sradicare questa insicurezza, questa specie di
che tendessero a
cancro che mina alla base la politica esteessere menomati
ra americana. Se intellettuali conservatori
dai dubbi su di sé.
intelligenti come Buckley hanno potuto
seguire Joseph McCarthy, penso che ciò
sia dovuto al fatto che quest’ultimo è stato il primo a tracciare una linea di divisione fra la
libertà americana e il comunismo sovietico. Ancora, dal punto di vista conservatore, l’espansione della società del benessere, cominciata già sotto Franklin Roosevelt, aveva ridotto le
distinzioni fra la libertà americana e il comunismo sovietico, e ci aveva incamminati, come ha
detto Hayek, «sulla strada della schiavitù»; McCarthy è in seguito intervenuto a tracciare una
netta linea di distinzione. Una iterazione di questo fenomeno è accaduta dopo la guerra del
Vietnam, con il grande timore dei conservatori, condiviso anche dal movimento neoconservatore, che gli americani non credessero abbastanza in sé stessi, che pensassero di non avere
niente di valido da offrire al resto del mondo, di non essere, alla fine, migliori dell’Unione
Sovietica. Poi è arrivato al potere Ronald Reagan, e ha pronunciato la frase famosa: «L’era dell’insicurezza è finita». Tutto questo è riaccaduto per la terza volta dopo l’attacco dell’11 settembre: i commenti dei conservatori immediatamente successivi sottolineano che il grande
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pericolo, nella nuova lotta dell’America contro il totalitarismo, è rappresentato dal disarmo
morale degli americani, causato dalla generazione del baby boom, quella di Clinton, che non
sa distinguere il giusto dall’ingiusto e soccombe al relativismo morale. Per esempio, questo
tema è affrontato nel libro di William Bennett, scritto subito dopo l’attacco dell’11 settembre,
Why We Fight (Perché lottiamo). Bush, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2002, ha
usato, riferendosi ai talebani, l’espressione «asse del male», che riecheggia il discorso che
Reagan tenne nel 1983 all’Associazione degli Evangelici, in cui parlò dell’«impero del male».
È interessante notare che si tratta di una citazione di Whittaker Chambers, tratta dal suo libro
Witness (Il testimone), uscito nel 1952. Una costante del conservatorismo americano è quindi la convinzione che, quando l’America è minacciata, il ruolo del Governo deve essere quello di sradicare l’insicurezza in sé stessi, che paralizza, e di rendere l’America forte.
Ritengo che la conseguenza di questa convinzione sia una particolare predisposizione
alla critica secondo la quale gli americani non vivono all’altezza dei propri ideali; se crediamo
che il nostro tallone d’Achille sia l’eccessiva insicurezza in noi stessi, niente è più pericoloso
dell’accusa che l’America non stia vivendo all’altezza dei propri ideali e che non sia il buon
Paese che dice di essere. Così, nonostante le numerose prove del fatto che gli americani abbiano fatto spesso ricorso alla tortura dopo l’11 settembre, Bush ha potuto dichiarare fermamente: «Noi non torturiamo. Gli Stati Uniti non fanno questo.». Quando Amnesty International ha
presentato all’Amministrazione le prove documentarie che invece ciò era avvenuto, il Presidente
ha risposto: «È un’accusa assurda. Tutti sanno che l’America si batte per la libertà in tutto il
mondo», anche se nel mondo sono sempre meno quelli che ci credono.
I progressisti e la politica estera
Penso invece che lo sviluppo delle posizioni progressiste in questo periodo sia stato
opposto o, comunque, molto diverso. Se l’intellettuale conservatore chiave, a mio parere, è
Burnham, quello progressista è Reinhold Niebuhr. Egli affermava che il dubbio su sé stessi,
il tipo “giusto” di dubbio, costituiva in realtà la nostra forza critica rispetto all’Unione
Sovietica. Aggiungeva, inoltre, che la virtù americana non si eredita, non la si può semplicemente asserire, non si nasce dotati di questa qualità. Si tratta di una lotta costante contro la
nostra incapacità di opporsi all’ingiustizia, perché noi americani non siamo certo diversi dagli
altri: odiamo il male tanto quanto gli altri e, tuttavia, proprio il riconoscimento di essere capaci di compierlo ci porta a stabilire dei limiti che ci differenziano dalle potenze predatrici del
passato, e ci danno la possibilità di ispirare il mondo.
Quest’idea ha avuto forti implicazioni nei primi anni della guerra fredda. Nel 1945-46
l’America rappresentava il 50% del Pil mondiale. Si pensi all’enorme potere, virtualmente illimitato, che l’America ha potuto esercitare all’inizio della guerra fredda, in un periodo in cui
sia l’Europa occidentale che gran parte dell’Asia orientale erano in ginocchio. Le amministrazioni Truman e Roosevelt hanno creato tutta una serie di istituti internazionali: le Nazioni
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Unite, la Nato, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio. Ciò è stato in parte dovuto al riconoscimento, al contrario di Bush, che
i problemi che affliggono il mondo sono per la maggior parte troppo grandi perché possano
essere risolti solo dall’America, come pure, e penso sia un punto ancora più importante, al
fatto che l’America vuole un potere legittimato e non illimitato. A Kennan piaceva sostenere
che l’Unione Sovietica era un impero, diverso da quello britannico o da quello francese, ma
pur sempre un impero, che controllava l’Europa dell’Est attraverso la coercizione e la forza: e
si sa che gli imperi crollano sempre a partire dalle loro zone periferiche. L’America invece è
riuscita a sviluppare un sistema di alleanze, in particolare nell’Europa occidentale, fondato
sulla legittimità, la persuasione e il consenso, e non sulla forza, che è durato, e durerà a lungo,
anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Quest’idea che la virtù morale americana non si
erediti, ma comporti una lotta costante contro la nostra capacità di commettere ingiustizie, e
che debba essere riguadagnata da ogni generazione, riconoscendo, ogni volta, che potremmo
tradire la nostra storia, ha avuto un grosso impatto sulla politica interna americana.
Penso che molti progressisti americani siano rimasti un po’ confusi su come rispondere alla retorica di Bush sulla democrazia. A partire dal suo secondo discorso inaugurale, egli
ha cominciato a delineare, un po’ sul modello di Wilson, il ruolo che l’America dovrebbe avere
per il raggiungimento della libertà e della democrazia nel mondo: la democrazia americana
sarebbe un traguardo già raggiunto e ora, guardando al resto del mondo, particolarmente a
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quello islamico, noi americani dovremmo sollecitarlo a darsi da fare per venire dalla nostra
parte, dove si trova la libertà. Ma i progressisti anticomunisti di cui ho scritto non parlano
della nostra democrazia come di un traguardo già raggiunto con successo. Essi ritengono,
piuttosto, che si tratti di una lotta continua, contro la nostra stessa capacità di commettere
ingiustizie, per diventare un Paese migliore. Ecco perché per Truman, Hubert Humphrey e gli
intellettuali che li circondavano era così importante collegare i diritti civili e l’anticomunismo:
perché riconoscevano che ciò che avrebbe eventualmente ispirato il mondo a seguire
l’America, sarebbe stato vedere il nostro Paese avvalersi di metodi democratici per diventare
una nazione migliore. Chester Bowles, vicesegretario di stato di Kennedy, disse: «Il mondo non
ci vedrà migliori di quanto siamo in realtà» e questo vale ancora di più oggi, in un mondo globalizzato, in cui si ha più accesso a quello che succede all’interno dell’America e delle sue
prigioni.
Una politica estera americana per il futuro
Concludendo, vorrei spiegare meglio il significato di quanto ho scritto. I progressisti
della guerra fredda di cui parlo nel mio libro, come, per esempio, Niebuhr, Schlesinger,
Humphrey, John Kenneth Galbraith, riconoscevano l’interdipendenza dell’America con il resto
del mondo. Avevano visto l’America durante gli anni Venti, dopo l’esperienza deludente della
prima guerra mondiale, cercare di isolarsi, per poi accorgersi
che gli oceani non la proteggevano dalle patologie emergenti
in Europa, come la depressione economica e il nazi-fascismo,
Se l’America
che anzi attraversavano i mari e minacciavano gli Stati Uniti.
vuole far rispettare
Tale interdipendenza è ancor più marcata oggi, in un mondo
globalizzato in cui le patologie che emergono in altri Paesi
ad altri Paesi standard
possono minacciare gli Stati Uniti più rapidamente di prima.
di comportamento più
Questo non accade solo per quanto succede in un Paese molto
elevati, deve anch’essa
forte e al cento del sistema internazionale come la Germania:
osservarli al proprio
per esempio, chi in America il 10 settembre 2001 avrebbe
mai pensato che fatti accaduti in un Paese remoto e arretrato
interno.
come l’Afghanistan avrebbero potuto coinvolgere gli Stati
Uniti? O che un paesino in Cina sarebbe stato l’incubatrice di
un’influenza aviaria che si può diffondere rapidamente in tutto il mondo, minacciando di
diventare un’epidemia? O che il sistema bancario tailandese potesse crollare nel 1988, facendo scattare una reazione a catena che stava per causare una recessione mondiale?
In un mondo globalizzato, l’America ha più interesse che mai al modo in cui gli altri
Paesi si governano, perché questi possono rispettare i diritti umani se sono in grado di assicurare un sistema sanitario pubblico, di mantenere la regolamentazione del sistema finanziario, se non causano un forte degrado dell’ambiente, se tengono al sicuro armi di distruzione
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di massa. Ma se l’America, e questa è la grande intuizione di Niebuhr, cercherà di incaricarsi da sola di questa missione, finirà con l’imporre ad altri Paesi come governarsi in base a una
legge morale da essa stessa definita, cadendo nella trappola temuta da Kennan: comincerà a
dare l’impressione di essere un impero. Non solo ci manca la capacità di farlo in modo efficace, come è stato tragicamente dimostrato dall’Iran, ma se cominciamo ad assomigliare a un
impero ci sarà bisogno di un governo globale, sotto il quale ciascun Paese dovrà rispettare uno
standard più alto di comportamenti al proprio interno, così da non costituire una minaccia per
le nazioni confinanti. Il solo modo in cui l’America può guidare positivamente questo impero
consiste nel riconoscimento che ci sono dei principi, prima di tutto i diritti umani, ma anche
quelli riguardanti l’ambiente o il traffico d’armi, che trascendono le nostre azioni. Occorre cioè
accettare che i diritti umani non corrispondono a qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti, solo
perché l’America è, per definizione, libertà. I diritti umani sono una legge morale per cui lottiamo insieme al resto del mondo, combattendo anche la nostra capacità di commettere ingiustizie. Lottiamo insieme per raggiungere una legge morale che esiste al di sopra, e oltre, le
nostre azioni. Questo è il motivo per cui i progressisti degli anni Quaranta credevano tanto
nelle istituzioni nazionali: perché si rendevano conto che il progresso morale necessita di un
certo grado di reciprocità morale, e che se l’America vuole far rispettare ad altri Paesi standard di comportamento più elevati, deve anch’essa osservarli al proprio interno. Questa
coscienza è tragicamente mancata nella politica estera conservatrice degli ultimi anni, e ciò
ha contribuito a diffondere nel mondo un forte cinismo circa la retorica americana sulla democrazia e la libertà, proprio in un periodo in cui era più necessaria.
Considerando la politica estera conservatrice degli anni Quaranta, si può osservare che
essa oscilla fra un neoimperialismo che assocerei a Burnham e a Dick Cheney, e l’isolazionismo. Negli anni Quaranta i conservatori erano isolazionisti e lo sono diventati ancora negli
anni Novanta. Vi ricordate la campagna presidenziale di Pat Buchanan? Non mi sorprenderebbe se i conservatori tornassero all’isolazionismo, specialmente se perdessero il potere.
Penso che il panico dei repubblicani sulla questione dell’immigrazione abbia molto a che fare
con questa sensazione che i nostri sforzi di trasformare il mondo siano falliti. Facciamo allora in modo che il resto del mondo non trasformi l’America. Ritengo che starà ai progressisti
opporsi a questo fenomeno quando, come penso accadrà, i democratici saliranno al governo.
C’è un’opinione diffusa fra gli americani, secondo la quale, dopo l’attentato dell’11 settembre, gli Stati Uniti hanno fatto i maggiori tentativi per creare un mondo migliore. Abbiamo
portato il nostro idealismo in molte parti arretrate del mondo, scoprendo, però, che lì non desideravano ricevere niente da noi. Ora più che mai i progressisti dovranno dire agli americani
che il mondo non ci sta dicendo: «Non vogliamo niente da voi», ma, piuttosto: «Quando
l’America tornerà quella di prima? Un Paese che, lottando per diventare migliore, ha ispirato
persone provenienti da tutto il mondo a tornare nei propri Paesi per fare lo stesso?». Sono convinto che in questo consistano l’opportunità e la sfida per i progressisti negli anni futuri.
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