1 STARE – Gv 19,25-27 Introduzione Abbiamo letto poche parole
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1 STARE – Gv 19,25-27 Introduzione Abbiamo letto poche parole
STARE – Gv 19,25-27 Introduzione Abbiamo letto poche parole del Vangelo di Giovanni, appena tre versetti, estremamente densi, con i quali innumerevoli studiosi si sono confrontati, offrendo le interpretazioni più diverse e disparate. Si tratta di versetti cui è stato attribuita una grande rilevanza, dal punto di vista teologico, ecclesiologico e mariologico, essendo questo anche uno dei rari passi scritturistici in cui si fa menzione della madre di Gesù. Il testo ha dato origine anche ad un’estesa rielaborazione iconografica e devozionale, che sviluppa, nell’immagine della Pietà e della Vergine Addolorata, il tema del dolore della Madre di Cristo, entrando in qualche modo nell’immaginario collettivo della cristianità. Tutto ciò rende complesso accostarci ad un brano di questo genere, già radicato in un modo o in un altro, nella sua configurazione e interpretazione, nel nostro bagaglio culturale. Come se non bastasse, dal punto di vista strettamente esegetico il testo presenta numerosi problemi, a cominciare dalla discussione sull’appartenenza del testo al materiale del quarto vangelo, per passare poi alla presenza del discepolo che Gesù amava sotto la croce, e al numero delle donne di cui si parla. Un esegeta autorevole afferma che conviene affrontare questo testo con passi felpati1. Allora, in punta di piedi, cerchiamo di accostarci a queste parole, assumendo come nostra chiave di lettura e taglio interpretativo lo stare. Al di là di tutti i possibili valori e significati del testo, ripetutamente esplorati e approfonditi, è chiara l’immagine cui il testo ci mette davanti, quella di uno “stare”, non uno stare qualunque, ma uno stare nel momento di una drammatica emergenza, forse l’emergenza più paradossale che è possibile immaginare, quella del Dio-uomo che sta morendo. Stare: ma come? “Stavano dall’altra parte”: questo l’incipit del nostro testo, un inizio che rimanda evidentemente ad una scena precedentemente descritta. Le donne, il discepolo amato, evidentemente non sono i soli ad essere sotto la croce. I vv. 23-24 presentano infatti l’altra scena che l’evangelista mette intenzionalmente in relazione e in opposizione con quella appena letta. Quattro soldati sono sotto la croce: dopo aver inchiodato il condannato al patibolo si spartiscono le sue vesti, prendendosi ciò che spettava loro di diritto (ai soldati incaricati dell’esecuzione spettava di diritto – il così detto “diritto sulle spoglie” – quello che il condannato portava addosso2). Questi uomini non fanno niente di particolarmente scandaloso o disdicevole: semplicemente compiono il loro dovere e esercitano il loro diritto. Essi “presero le vesti di Gesù”: non dobbiamo pensare solo al vestito; essi prendono tutto ciò che Gesù portava con sé in quel momento: il mantello, i sandali, la cintura: tutto questo viene spartito. Quelle vesti di cui Gesù si era spogliato liberamente nell’ultima cena per servire, adesso gli vengono tolte e sono spartite. È di nuovo il maestro che serve, nella maniera ultima e definitiva. La tunica (che era quella che stava sotto tutto il resto, a contatto col corpo) è simbolo della persona stessa, una persona che è intera, integra e, benché spogliata, non può essere lacerata. Ecco che i soldati decidono di giocarsela. Una tunica non lacerata che lascia intravvedere la vittoria sulla 1 Cf. X. LEON DUFOUR, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, Cinisello Balsamo 22007, 1102. 2 Cf. R. SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni. Parte terza, Commentario teologico del Nuovo Testamento IV/3, Brescia 1981, 440. 1 morte, lascia intravvedere che oltre quel momento di spoliazione, di spartizione, c’è un’integrità che non è possibile annullare e che rimane. Mt 27,36 specifica che i soldati, dopo essersi divise le vesti “seduti gli facevano la guardia”. L’essere seduto ha molteplici valenze; in questo caso, essere seduto può indicare l’abitudine, la consuetudine a qualcosa: si sta seduti per fare ciò che si fa abitualmente (come Levi, che sta seduto al banco delle imposte in Mc 5,27, o come Gesù che si siede per insegnare). Ma essere seduti evoca anche rassegnazione (come i fanciulli seduti sulla piazza di Mt 11,16-17: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato il lamento e non avete pianto”), indica l’atteggiamento di chi ha deposto ogni speranza di cambiamento (sono i ciechi a stare seduti lungo la strada a elemosinare, o lo zoppo alla porta del tempio in At 3,2). È significativo al riguardo che le donne staranno sedute di fronte alla pietra del sepolcro (Mt 27,61), ma non ancora! “Gli facevano la guardia”, che tradotto alla lettera suona “lo custodivano là”: è l’atteggiamento del guardiano, del carceriere che custodisce i prigionieri (At 24,23; 25,4.1): siamo in una situazione in cui non c’è più niente da fare, se non attendere che gli eventi facciano il suo corso. La sofferenza, il dramma, per quanto possano colpire e scuotere, hanno anche un potere strano, quello di spingere all’adattamento: ci si può abituare anche all’emergenza, ci si può abituare e semplicemente fare il proprio lavoro. Ci si può rassegnare, semplicemente attendendo seduti che le cose facciano il proprio corso e stare a vedere cosa succede. Si può prendere quello che resta di fratelli, quello che resta di identità lacerate e farlo oggetto del proprio diritto, ma semplicemente per riutilizzarlo, perché altrimenti non sarebbe servito più a nessuno. Ci possono passare per le mani tuniche senza cuciture, quelle identità che resistono fino all’ultimo alla lacerazione, quelle che non si possono strappare, quelle che ci interrogano, perché c’è qualcosa di particolare in esse, perché rimandano ad un oltre, ad una vita che va oltre la morte che abbiamo di fronte. Si può decidere di lasciarsi interrogare, o semplicemente, seduti a testa bassa, di giocarsela a dadi, per vedere a chi tocca. Si può essere semplicemente pagati per stare, come i soldati romani. Riflessione Mi fermo a vedere il mio stare alla luce di queste figure… Stare o passare Ma non è tutto: invece di stare, si può anche passare. Ancora i sinottici offrono altre indicazioni rilevanti: ancora Mt 27,39-43 mette in primo piano gente che “passava di là”; c’è chi passa davanti alla croce. Chi è che passa? Passano “sacerdoti, scribi e anziani”; ancora come in Lc 10,31-32 passano davanti ad un’emergenza, davanti al fratello in difficoltà. Talvolta anch’essi riescono a rallentare l’andatura o addirittura a “stare”, nelle piazze, nelle sinagoghe per essere ammirati dalla gente” (cf. Mt 23,1-7). È lo stesso comportamento del fariseo di Lc 18,11, che sta al tempio enumerando davanti a Dio le sue opere di giustizia, come per ottenere dal Signore una conferma della sua irreprensibilità. Queste persone riescono a stare, spinte dal desiderio di un ritorno personale, dal desiderio di essere ammirati, di essere riconosciuti nella loro rettitudine e giustizia. Ma adesso, quel crocifisso, segno di contraddizione, pur senza che essi ne siano pienamente coscienti, li mette in crisi, non li conferma nella loro giustizia. 2 Di fronte ai condannati a morte, nessuno si gira per ammirare, nessuno ha tempo o voglia di approvare la rettitudine. Di fronte al dramma non ha più senso cercare l’ammirazione, allungare le frange… Ma è anche vero che essi, in fondo, non hanno più bisogno di stare, perché la loro “giustizia” è già stata riconosciuta, avendo ottenuto la crocifissione di Gesù. Ecco che passano e non si fermano. Ma non passano indifferenti: passano “scuotendo il capo”, significando così disprezzo e derisione, un atteggiamento che palesa la propria superiorità (cf. Is 37,22 la figlia di Gerusalemme che scuote il capo dietro gli assiri, sconfitti; Ger 18,16; Sir 13,7). Passano mettendo alla prova: “salva te stesso […] scendi dalla croce”. Più volte nella sua vita pubblica Gesù era stato messo alla prova; le domande che sadducei, scribi e farisei fanno a Gesù per metterlo alla prova (Mt 16,1; 19,3 etc.) non sono mai vedere richieste; chi mette alla prova lo fa perché sa già tutto, perché ha già le risposte. Chi mette alla prova ha già il suo giudizio e va in cerca solo di una conferma. Anche adesso questi uomini, davanti alla croce passano mettendo alla prova Gesù, perché sanno già cosa sta accadendo e non c’è niente da imparare: “Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora se gli vuol bene. Ha detto infatti: «Sono figlio di Dio»” (v. 43). Si passa perché si ha in testa un ragionamento logico che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Ecco che si passa davanti al dramma con una parola in bocca, una parola che non lascia spazio per l’ascolto; non c’è né tempo né voglia di fermarsi in silenzio, un silenzio di attesa che forse avrebbe permesso di udire o di vedere qualcosa. Riflessione Quando di fronte al dramma del fratello scelgo di passare… Quando scelgo di non fermarmi e di non tacere… Stavano: la madre Ma il quarto Vangelo ci mostra qualcosa di diverso: “Stavano in piedi accanto alla croce”. Si può stare seduti, si può passare, ma si può anche stare in piedi. Il verbo greco qui impiegato (i[sthmi) ha una molteplicità di sfumature di significato, alcune delle quali possono essere utili per comprendere il nostro contesto. Stare è contrapposto a “cadere” (cf. ad es. Rm 14,4; 1Cor 10,12), evocando così la capacità di resistenza. In 1Cor 10,12-13 l’immagine dello stare contrapposto al cadere evoca proprio la resistenza nella prova. Tenendo questo sullo sfondo, nel contesto della passione di Cristo, lo stare delle donne evoca dunque fedeltà nella prova, una fedeltà che si contrappone alla fuga di tutti gli altri, che hanno abbandonato il Signore, l’hanno tradito o rinnegato. Stare è dunque espressione di fedeltà, una fedeltà messa alla prova, ma una fedeltà che dice comunione, non solo con Gesù, ma anche tra loro: “stavano”; non si può stare in solitudine, si può stare solo nella comunione, c’è una comunione nello stare. Le donne stanno “accanto alla croce”, espressione particolare, dal momento che la preposizione “accanto” (para. + dat.) qui usata con il sost. “croce” è sempre usata altrove per le persone, non per le cose. E non è un caso allora che Giovanni precisi “accanto alla croce di Gesù” (espressione che fa riferimento al mistero della morte di Cristo), e che la parola Gesù ricorra tre volte nel giro di due frasi. Quindi, non si sta accanto a qualcosa, ma accanto ad una persona nel suo mistero, si sta accanto ad una persona, magari sfigurata dalla sofferenza, ma accanto ad una persona che è ancora “protagonista”, che ha ancora molto da dire, che ha ancora tutto da rivelare (non è un 3 caso che per Giovanni, la croce di Cristo è manifestazione della sua gloria). Si sta accanto ad una persona, non ad un evento, non semplicemente ad un dramma. Chi è che sa stare accanto alla croce di Gesù? Non tutti, come abbiamo visto, e questo ci rivela che lo “stare” non si improvvisa, ma è frutto di un passato, di una storia, di un vissuto nel quotidiano. “Stavano […] sua madre”: potremmo pensare che è scontato che una madre riesca a stare accanto al figlio nella sofferenza, ma non è così. Ce lo insegna Agar, scacciata dal suo padrone Abramo, assieme al loro figlio Ismaele: durante il cammino nel deserto, quando il figlio sta per morire di sete, la madre si allontana, perché disse: “non voglio vedere morire il ragazzo” (Gen 21,16). Non è solo l’essere madre che automaticamente ti da la forza di stare. C’è qualcosa in più. Non sappiamo molto della madre di Gesù, ed è bello che Maria rimanga nell’ombra, rivelandoci che colei che sta, è una donna che è rimasta sostanzialmente nascosta, è la donna normale, che ha vissuto il suo quotidiano di madre, senza particolari strani o meravigliosi. Maria è colei che ha donato la vita al figlio, colei che l’ha accompagnato nel quotidiano, che l’ha educato. Ma credo che ci sia una particolare attitudine della madre, che emerge dalle pagine del Vangelo e che è la più vicina a quella che ella mostra qui, accanto alla croce del figlio. Maria è colei che ha sempre trovato la via, la forza e l’umiltà per rimanere davanti al mistero del figlio, accettando di non capire, accogliendo un’alterità che continuamente la superava. Due immagini ci dicono chiaramente questa attitudine della madre; la prima è dell’infanzia: ella “custodiva nel suo cuore” le cose che non capiva, quelle che non aveva compreso (cf. Lc 2,51 dopo il ritrovamento nel tempio). La seconda, della vita adulta: Mc 3,20-21 ci narra come nel pieno del suo ministero Gesù venga ritenuto pazzo; di fronte a questa situazione i suoi parenti si muovono per andarlo a prendere e riportarlo a casa. Tra di loro anche Maria, la madre, che giunta dal figlio non entra in casa, laddove egli stava predicando, ma rimane fuori. Di fronte al mistero del figlio, alla non comprensione ella ancora una volta si ferma su una soglia, non oltrepassandola. Nel quotidiano Maria ha coltivato uno stare, un fermarsi di fronte al mistero dell’altro, uno stare di fronte all’alterità senza prevaricazioni, accogliendo di non comprendere, lasciando spazio all’altro. Ecco che ora sul Golgota sta là in piedi. Riflessione È necessario abituarsi nel quotidiano a stare di fronte all’alterità, a non prevaricarla, accettando di non rinchiuderla nello spazio angusto della nostra comprensione… Chi sa stare di fronte al mistero dell’altro, può stare accanto a lui nel momento del dramma, con lo stesso rispetto, con la stessa delicatezza e attenzione, senza false vicinanze compassionevoli… Stavano: le donne e il discepolo Vicino alla madre, sta poi una sorella (“la sorella di sua madre”), sorella che non compare mai altrove nei Vangeli, ma è una sorella: è la relazione di fraternità che in questo caso permette di stare. Stavano poi altre donne, Maria di Cleofa e Maria la Maddalena, quest’ultima specialista nello “stare”, la troveremo infatti stare anche davanti al sepolcro drammaticamente vuoto al mattino di Pasqua (Gv 20,11). Anche se l’identità delle donne non concorda completamente con i dati dei vangeli sinottici, tuttavia questi ci possono venire in aiuto per illuminare alcune caratteristiche di queste donne. Tanto Mt 27,55-56 così come Lc 23,49 ci parlano di loro come di donne che avevano 4 “seguito” il maestro dalla Galilea. E non solo: Mc 15,41 ci dice anche che esse lo “servivano”. Questa quotidianità delle donne al seguito del maestro è descritta da Lc 8,2-3, da quell’evangelista che sottolinea la libertà impensabile all’epoca di donne che lasciano la casa per mettersi sui passi di Gesù, che a sua volta le chiama discepole, riferendo a loro la stessa espressione “essere con lui” che è riferita ai Dodici. Ecco che il servire delle donne non è da leggere solo come un’ospitalità e un aiuto nei lavori domestici e nemmeno solo come un aiuto finanziario. Si tratta piuttosto di una parte attiva nell’organizzazione della comunità, forse anche di un aiuto nella predicazione del regno3, di un carisma messo interamente a disposizione della comunità4. Coloro che erano abituate a stare con il maestro, coloro che mettevano ciò che avevano a servizio della comunità, che nel quotidiano avevano investito risorse, talenti dietro al nazareno, adesso sono capaci di stare. Ma c’è un’altra figura che stava accanto alla croce di Gesù: il discepolo che Gesù amava. Ecco colui che nel quotidiano della sua relazione con il maestro aveva fatto l’esperienza di essere amato, di un amore particolare, non generico. Attraverso quest’amore ricevuto il discepolo ha raggiunto un’intimità profonda con il maestro, evocata dall’immagine di Gv 13,25 della testa appoggiata sul cuore del maestro. Puoi stare adesso perché qualcuno ti ha amato e ti ama ancora; puoi trovare la forza di stare, di rimanere in piedi di fronte al dramma perché nel quotidiano si è sperimentato l’amore, perché si è fatto esperienza e si è coltivata una relazione profonda, di intimità. Riflessione Stare nel momento del dramma della sofferenza, nasce da uno stare con l’altro nel quotidiano, mettendo in gioco risorse, offrendo talenti, condividendo un cammino…è necessario coltivare le relazioni nel quotidiano… questo può trasformarsi in stare…Talvolta il nostro stare è semplicemente improvvisato… Fare l’esperienza di essere amati, sperimentare l’amore, l’intimità… chi ha toccato questo con mano può stare… Lo sguardo e la parola “Gesù vedendo la madre e il discepolo che amava stare lì accanto disse”: ecco che si apre la via della relazione attraverso uno sguardo e una parola. E l’atteggiamento che porta alla relazione con chi è nel dramma, nella sofferenza estrema è proprio stare, uno stare in silenzio, uno stare accanto che lascia spazio all’iniziativa dell’altro. È chi è nell’emergenza a cercare la relazione con chi sta, prima con lo sguardo, uno sguardo che accerta la vicinanza, uno sguardo che accerta che l’altro è lì. L’evangelista, significativamente, non ci dice che chi sta accanto alla croce guarda Gesù: è piuttosto il contrario. Talvolta ci sono drammi difficili, se non impossibili da sostenere con lo sguardo; di fronte a questi si sta a occhi bassi, consapevoli della propria impotenza, del proprio limite. Stare significa allora lasciare che sia l’altro a posare il suo sguardo su di te, accettare di essere visto, piuttosto che vedere, atteggiamento che evoca di fronte all’emergenza una rinuncia al controllo su tutto. 3 4 Cf. N. CALDUCH BENAGES, Il profumo del Vangelo. Gesù incontra le donne, 79. Cf. F. BOVON, Luca 1, 469. 5 Ma la parola di Gesù ci rivela anche un’altra sfumatura dello stare: il silenzio. Gesù non aveva risposto alle provocazioni di chi passava parlando, manifestano le proprie convinzioni; egli adesso può parlare perché c’è qualcuno che sta in silenzio, un silenzio disposto ad accogliere ciò che può venire dall’altro. C’è una particolarità nella parola di Gesù, precisamente quella di essere una doppia parola: egli si rivolge prima alla madre, poi al figlio; sarebbe bastata una parola sola visto che erano vicini. Perché allora ripetersi? La risposta è dibattuta e controversa, ma possiamo sottolineare un aspetto: si tratta di una parola che interpella personalmente, non una parola generica, ma una parola rivolta ad un tu. La relazione cui apre lo stare, la relazione che chi è nella sofferenza cerca non è una relazione generica, quanto piuttosto una relazione personale, non con un “voi”, ma con un “tu”. Ma c’è il rovescio del discorso: stare accanto ad un dramma significa lasciarsi interpellare personalmente, significa correre il rischio di una parola che ci scuote, che ci chiama in causa in prima persona. Stare porta con sé l’essere messi in questione, essere interpellati singolarmente: chi non è disposto a correre questo rischio non può stare. “Donna”: la madre è chiamata donna, con un modo che stona, che può urtare la sensibilità del lettore. È noto e chiaro che l’appellativo fa riferimento a Gv 2,4, alle Nozze di Cana, dove Maria è la donna in attesa, il nuovo Israele che aspetta la salvezza dal Cristo. L’appellativo “donna” porta allora in primo piano un’altra sfumatura dello stare: quella dell’attesa. La donna che sta, è colei che è in attesa della salvezza e che rimane in questa attesa pur vedendo le sue “attese di salvezza” (cf. annunciazione) inchiodate a un legno. Ciò nonostante sta, in attesa… Riflessione Stare come atteggiamento che apre alla relazione: a volte mi preoccupo più che altro di fare, di parlare… lasciando da parte ciò che può aprire l’altro alla relazione, lasciando anche che qualcosa ci sfugga dal controllo… stare è anche avere il coraggio dell’impotenza di fronte al fratello… Il silenzio dello stare…. a volte nella sofferenza risuonano molte, troppe parole… Stare per lasciarsi interpellare, correre il rischio di essere questionati…troppo spesso stiamo con la nostra corazza, con il nostro bagaglio di certezze e risposte… Stare e attendere… Risignificare le relazioni È in questa attesa che si riceve una nuova rivelazione: “ecco tuo figlio”. Non entriamo volutamente nel merito della questione del senso teologico del testo, che ci condurrebbe fuori dalla nostra lettura. Sottolineiamo però alcuni aspetti. Alcuni commentatori accostano questa formula alle formule di rivelazione presenti all’inizio del Vangelo di Giovanni (1,29 “Ecco l’Agnello di Dio”; 1,47 “Ecco un israelita in cui non c’è falsità”), momenti in cui si porta alla luce qualcosa che non è immediatamente percepibile, qualcosa di nascosto: il fatto che quell’uomo che passa è l’Agnello di Dio, o la personalità nascosta di Natanale (“ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità”). Stare conduce ad una nuova rivelazione, una rivelazione che passa attraverso un’ “apertura” degli occhi, potremmo dire. Abbiamo detto che non si fa menzione dello sguardo delle donne, adesso però Gesù stesso invita a guardare: “Guarda! Tuo figlio” così suona il testo greco alla lettera. È come un invito ad un nuovo 6 sguardo, uno sguardo che si posa sul fratello che ti sta accanto, uno sguardo che ti fa vedere colui che ti è vicino in una luce nuova. Stare porta ad una nuova visione sul fratello che abbiamo accanto e, ancora di più, porta a risignificare e ristrutturare le relazioni. Si tratta ora di relazioni nuove, che colui che è capace di stare riceve in dono. In particolare, stare provoca una dilatazione nella maternità: è ciò che è significato dal passaggio che il testo presenta da “sua madre” a “la madre” a “tua madre”. Usando un immagine potremmo dire che stare provoca una dilatazione del grembo, che accresce la sua capacità di accoglienza, la sua possibilità di donare la vita. Ma questa nuova relazione di maternità deve essere letta con ciò che segue: “E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé”, o più precisamente “l’accolse tra le sue cose più care”. Assieme ad una dilatazione di maternità c’è anche la capacità di lasciarsi accogliere. Chi ha sperimentato il proprio limite, la propria impotenza nello stare, chi è stato messo in questione nel suo stare, chi si è lasciato guardare nel suo stare, scopre che ha bisogno di essere accolto, cioè non è autosufficiente… Ma ancora: Maria in quanto donna che rappresenta la figlia di Sion in attesa dell’adempimento delle promesse, è colei che accolta dal discepolo (depositario dell’insegnamento di Gesù) riconosce in lui proprio il compimento delle sue attese. Non solo, allora lasciarsi accogliere, ma assieme riconoscere nell’altro e nella relazione con lui il compimento di un’attesa del cuore. In sintesi: stare porta a ricevere il dono di una nuova rivelazione, porta ad aprire gli occhi e risignificare le relazioni con chi abbiamo accanto, posando uno sguardo nuovo sul fratello. Stare porta ad una dilatazione della capacità materna, capacità di accoglienza, di generazione, ma allo stessa tempo porta con sé la capacità di lasciarsi accogliere, con la consapevolezza che il compimento delle nostre attese è là nella relazione con il fratello, una relazione caratterizzata da un reciproco riconoscimento. Riflessione I doni dello stare: stare nell’emergenza per dare un nuovo senso alle relazioni con i fratelli… questo è un dono che si riceve nello stare… Stare come dilatazione della maternità… ci si trova più capaci di accogliere… Stare come lasciarsi accogliere… Conclusioni Abbiamo visto uno stare che affonda le sue radici nel quotidiano, uno stare che non si improvvisa, uno stare che costringe ad aprire gli occhi e il cuore per risignificare le relazioni con i fratelli che abbiamo accanto. Uno stare che dona un nuovo sguardo, uno sguardo che è in grado di ribaltare la vita: è lo sguardo del centurione, che anche lui stava sotto la croce; un uomo “pagano” che ha avuto il coraggio di guardare negli occhi quell’uomo che stava morendo davanti a lui. Il coraggio di stare gli ha aperto gli occhi, e gli ha permesso di cogliere la realtà che quelli “preparati” avevano rifiutato, l’ha spinto a riconoscere che quel condannato appeso, sfigurato dal dolore, ormai morto: “davvero era Figlio di Dio” (Mc 15,39). 7