1 STARE – Gv 19,25-27 Introduzione Abbiamo letto poche parole

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1 STARE – Gv 19,25-27 Introduzione Abbiamo letto poche parole
STARE – Gv 19,25-27
Introduzione
Abbiamo letto poche parole del Vangelo di Giovanni, appena tre versetti, estremamente densi,
con i quali innumerevoli studiosi si sono confrontati, offrendo le interpretazioni più diverse e
disparate. Si tratta di versetti cui è stato attribuita una grande rilevanza, dal punto di vista teologico,
ecclesiologico e mariologico, essendo questo anche uno dei rari passi scritturistici in cui si fa
menzione della madre di Gesù.
Il testo ha dato origine anche ad un’estesa rielaborazione iconografica e devozionale, che
sviluppa, nell’immagine della Pietà e della Vergine Addolorata, il tema del dolore della Madre di
Cristo, entrando in qualche modo nell’immaginario collettivo della cristianità. Tutto ciò rende
complesso accostarci ad un brano di questo genere, già radicato in un modo o in un altro, nella sua
configurazione e interpretazione, nel nostro bagaglio culturale.
Come se non bastasse, dal punto di vista strettamente esegetico il testo presenta numerosi
problemi, a cominciare dalla discussione sull’appartenenza del testo al materiale del quarto vangelo,
per passare poi alla presenza del discepolo che Gesù amava sotto la croce, e al numero delle donne
di cui si parla.
Un esegeta autorevole afferma che conviene affrontare questo testo con passi felpati1. Allora,
in punta di piedi, cerchiamo di accostarci a queste parole, assumendo come nostra chiave di lettura e
taglio interpretativo lo stare. Al di là di tutti i possibili valori e significati del testo, ripetutamente
esplorati e approfonditi, è chiara l’immagine cui il testo ci mette davanti, quella di uno “stare”, non
uno stare qualunque, ma uno stare nel momento di una drammatica emergenza, forse l’emergenza
più paradossale che è possibile immaginare, quella del Dio-uomo che sta morendo.
Stare: ma come?
“Stavano dall’altra parte”: questo l’incipit del nostro testo, un inizio che rimanda
evidentemente ad una scena precedentemente descritta. Le donne, il discepolo amato,
evidentemente non sono i soli ad essere sotto la croce. I vv. 23-24 presentano infatti l’altra scena
che l’evangelista mette intenzionalmente in relazione e in opposizione con quella appena letta.
Quattro soldati sono sotto la croce: dopo aver inchiodato il condannato al patibolo si spartiscono le
sue vesti, prendendosi ciò che spettava loro di diritto (ai soldati incaricati dell’esecuzione spettava
di diritto – il così detto “diritto sulle spoglie” – quello che il condannato portava addosso2). Questi
uomini non fanno niente di particolarmente scandaloso o disdicevole: semplicemente compiono il
loro dovere e esercitano il loro diritto. Essi “presero le vesti di Gesù”: non dobbiamo pensare solo al
vestito; essi prendono tutto ciò che Gesù portava con sé in quel momento: il mantello, i sandali, la
cintura: tutto questo viene spartito. Quelle vesti di cui Gesù si era spogliato liberamente nell’ultima
cena per servire, adesso gli vengono tolte e sono spartite. È di nuovo il maestro che serve, nella
maniera ultima e definitiva.
La tunica (che era quella che stava sotto tutto il resto, a contatto col corpo) è simbolo della
persona stessa, una persona che è intera, integra e, benché spogliata, non può essere lacerata. Ecco
che i soldati decidono di giocarsela. Una tunica non lacerata che lascia intravvedere la vittoria sulla
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Cf. X. LEON DUFOUR, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, Cinisello Balsamo 22007, 1102.
2
Cf. R. SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni. Parte terza, Commentario teologico del Nuovo Testamento
IV/3, Brescia 1981, 440.
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morte, lascia intravvedere che oltre quel momento di spoliazione, di spartizione, c’è un’integrità che
non è possibile annullare e che rimane.
Mt 27,36 specifica che i soldati, dopo essersi divise le vesti “seduti gli facevano la guardia”.
L’essere seduto ha molteplici valenze; in questo caso, essere seduto può indicare l’abitudine, la
consuetudine a qualcosa: si sta seduti per fare ciò che si fa abitualmente (come Levi, che sta seduto
al banco delle imposte in Mc 5,27, o come Gesù che si siede per insegnare). Ma essere seduti evoca
anche rassegnazione (come i fanciulli seduti sulla piazza di Mt 11,16-17: “Vi abbiamo suonato il
flauto e non avete ballato, abbiamo cantato il lamento e non avete pianto”), indica l’atteggiamento
di chi ha deposto ogni speranza di cambiamento (sono i ciechi a stare seduti lungo la strada a
elemosinare, o lo zoppo alla porta del tempio in At 3,2). È significativo al riguardo che le donne
staranno sedute di fronte alla pietra del sepolcro (Mt 27,61), ma non ancora!
“Gli facevano la guardia”, che tradotto alla lettera suona “lo custodivano là”: è
l’atteggiamento del guardiano, del carceriere che custodisce i prigionieri (At 24,23; 25,4.1): siamo
in una situazione in cui non c’è più niente da fare, se non attendere che gli eventi facciano il suo
corso.
La sofferenza, il dramma, per quanto possano colpire e scuotere, hanno anche un potere
strano, quello di spingere all’adattamento: ci si può abituare anche all’emergenza, ci si può abituare
e semplicemente fare il proprio lavoro. Ci si può rassegnare, semplicemente attendendo seduti che
le cose facciano il proprio corso e stare a vedere cosa succede.
Si può prendere quello che resta di fratelli, quello che resta di identità lacerate e farlo oggetto
del proprio diritto, ma semplicemente per riutilizzarlo, perché altrimenti non sarebbe servito più a
nessuno. Ci possono passare per le mani tuniche senza cuciture, quelle identità che resistono fino
all’ultimo alla lacerazione, quelle che non si possono strappare, quelle che ci interrogano, perché
c’è qualcosa di particolare in esse, perché rimandano ad un oltre, ad una vita che va oltre la morte
che abbiamo di fronte. Si può decidere di lasciarsi interrogare, o semplicemente, seduti a testa
bassa, di giocarsela a dadi, per vedere a chi tocca. Si può essere semplicemente pagati per stare,
come i soldati romani.
Riflessione
 Mi fermo a vedere il mio stare alla luce di queste figure…
Stare o passare
Ma non è tutto: invece di stare, si può anche passare. Ancora i sinottici offrono altre
indicazioni rilevanti: ancora Mt 27,39-43 mette in primo piano gente che “passava di là”; c’è chi
passa davanti alla croce.
Chi è che passa? Passano “sacerdoti, scribi e anziani”; ancora come in Lc 10,31-32 passano
davanti ad un’emergenza, davanti al fratello in difficoltà. Talvolta anch’essi riescono a rallentare
l’andatura o addirittura a “stare”, nelle piazze, nelle sinagoghe per essere ammirati dalla gente” (cf.
Mt 23,1-7). È lo stesso comportamento del fariseo di Lc 18,11, che sta al tempio enumerando
davanti a Dio le sue opere di giustizia, come per ottenere dal Signore una conferma della sua
irreprensibilità. Queste persone riescono a stare, spinte dal desiderio di un ritorno personale, dal
desiderio di essere ammirati, di essere riconosciuti nella loro rettitudine e giustizia. Ma adesso, quel
crocifisso, segno di contraddizione, pur senza che essi ne siano pienamente coscienti, li mette in
crisi, non li conferma nella loro giustizia.
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Di fronte ai condannati a morte, nessuno si gira per ammirare, nessuno ha tempo o voglia di
approvare la rettitudine. Di fronte al dramma non ha più senso cercare l’ammirazione, allungare le
frange… Ma è anche vero che essi, in fondo, non hanno più bisogno di stare, perché la loro
“giustizia” è già stata riconosciuta, avendo ottenuto la crocifissione di Gesù.
Ecco che passano e non si fermano. Ma non passano indifferenti: passano “scuotendo il
capo”, significando così disprezzo e derisione, un atteggiamento che palesa la propria superiorità
(cf. Is 37,22 la figlia di Gerusalemme che scuote il capo dietro gli assiri, sconfitti; Ger 18,16; Sir
13,7). Passano mettendo alla prova: “salva te stesso […] scendi dalla croce”. Più volte nella sua vita
pubblica Gesù era stato messo alla prova; le domande che sadducei, scribi e farisei fanno a Gesù per
metterlo alla prova (Mt 16,1; 19,3 etc.) non sono mai vedere richieste; chi mette alla prova lo fa
perché sa già tutto, perché ha già le risposte. Chi mette alla prova ha già il suo giudizio e va in cerca
solo di una conferma. Anche adesso questi uomini, davanti alla croce passano mettendo alla prova
Gesù, perché sanno già cosa sta accadendo e non c’è niente da imparare: “Ha confidato in Dio; lo
liberi lui ora se gli vuol bene. Ha detto infatti: «Sono figlio di Dio»” (v. 43). Si passa perché si ha in
testa un ragionamento logico che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
Ecco che si passa davanti al dramma con una parola in bocca, una parola che non lascia
spazio per l’ascolto; non c’è né tempo né voglia di fermarsi in silenzio, un silenzio di attesa che
forse avrebbe permesso di udire o di vedere qualcosa.
Riflessione
 Quando di fronte al dramma del fratello scelgo di passare…
 Quando scelgo di non fermarmi e di non tacere…
Stavano: la madre
Ma il quarto Vangelo ci mostra qualcosa di diverso: “Stavano in piedi accanto alla croce”. Si
può stare seduti, si può passare, ma si può anche stare in piedi. Il verbo greco qui impiegato
(i[sthmi) ha una molteplicità di sfumature di significato, alcune delle quali possono essere utili per
comprendere il nostro contesto. Stare è contrapposto a “cadere” (cf. ad es. Rm 14,4; 1Cor 10,12),
evocando così la capacità di resistenza. In 1Cor 10,12-13 l’immagine dello stare contrapposto al
cadere evoca proprio la resistenza nella prova. Tenendo questo sullo sfondo, nel contesto della
passione di Cristo, lo stare delle donne evoca dunque fedeltà nella prova, una fedeltà che si
contrappone alla fuga di tutti gli altri, che hanno abbandonato il Signore, l’hanno tradito o
rinnegato.
Stare è dunque espressione di fedeltà, una fedeltà messa alla prova, ma una fedeltà che dice
comunione, non solo con Gesù, ma anche tra loro: “stavano”; non si può stare in solitudine, si può
stare solo nella comunione, c’è una comunione nello stare.
Le donne stanno “accanto alla croce”, espressione particolare, dal momento che la
preposizione “accanto” (para. + dat.) qui usata con il sost. “croce” è sempre usata altrove per le
persone, non per le cose. E non è un caso allora che Giovanni precisi “accanto alla croce di Gesù”
(espressione che fa riferimento al mistero della morte di Cristo), e che la parola Gesù ricorra tre
volte nel giro di due frasi. Quindi, non si sta accanto a qualcosa, ma accanto ad una persona nel suo
mistero, si sta accanto ad una persona, magari sfigurata dalla sofferenza, ma accanto ad una persona
che è ancora “protagonista”, che ha ancora molto da dire, che ha ancora tutto da rivelare (non è un
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caso che per Giovanni, la croce di Cristo è manifestazione della sua gloria). Si sta accanto ad una
persona, non ad un evento, non semplicemente ad un dramma.
Chi è che sa stare accanto alla croce di Gesù? Non tutti, come abbiamo visto, e questo ci
rivela che lo “stare” non si improvvisa, ma è frutto di un passato, di una storia, di un vissuto nel
quotidiano.
“Stavano […] sua madre”: potremmo pensare che è scontato che una madre riesca a stare
accanto al figlio nella sofferenza, ma non è così. Ce lo insegna Agar, scacciata dal suo padrone
Abramo, assieme al loro figlio Ismaele: durante il cammino nel deserto, quando il figlio sta per
morire di sete, la madre si allontana, perché disse: “non voglio vedere morire il ragazzo” (Gen
21,16). Non è solo l’essere madre che automaticamente ti da la forza di stare. C’è qualcosa in più.
Non sappiamo molto della madre di Gesù, ed è bello che Maria rimanga nell’ombra,
rivelandoci che colei che sta, è una donna che è rimasta sostanzialmente nascosta, è la donna
normale, che ha vissuto il suo quotidiano di madre, senza particolari strani o meravigliosi. Maria è
colei che ha donato la vita al figlio, colei che l’ha accompagnato nel quotidiano, che l’ha educato.
Ma credo che ci sia una particolare attitudine della madre, che emerge dalle pagine del Vangelo e
che è la più vicina a quella che ella mostra qui, accanto alla croce del figlio. Maria è colei che ha
sempre trovato la via, la forza e l’umiltà per rimanere davanti al mistero del figlio, accettando di
non capire, accogliendo un’alterità che continuamente la superava. Due immagini ci dicono
chiaramente questa attitudine della madre; la prima è dell’infanzia: ella “custodiva nel suo cuore” le
cose che non capiva, quelle che non aveva compreso (cf. Lc 2,51 dopo il ritrovamento nel tempio).
La seconda, della vita adulta: Mc 3,20-21 ci narra come nel pieno del suo ministero Gesù venga
ritenuto pazzo; di fronte a questa situazione i suoi parenti si muovono per andarlo a prendere e
riportarlo a casa. Tra di loro anche Maria, la madre, che giunta dal figlio non entra in casa, laddove
egli stava predicando, ma rimane fuori. Di fronte al mistero del figlio, alla non comprensione ella
ancora una volta si ferma su una soglia, non oltrepassandola. Nel quotidiano Maria ha coltivato uno
stare, un fermarsi di fronte al mistero dell’altro, uno stare di fronte all’alterità senza prevaricazioni,
accogliendo di non comprendere, lasciando spazio all’altro. Ecco che ora sul Golgota sta là in piedi.
Riflessione
 È necessario abituarsi nel quotidiano a stare di fronte all’alterità, a non prevaricarla,
accettando di non rinchiuderla nello spazio angusto della nostra comprensione…
 Chi sa stare di fronte al mistero dell’altro, può stare accanto a lui nel momento del
dramma, con lo stesso rispetto, con la stessa delicatezza e attenzione, senza false
vicinanze compassionevoli…
Stavano: le donne e il discepolo
Vicino alla madre, sta poi una sorella (“la sorella di sua madre”), sorella che non compare mai
altrove nei Vangeli, ma è una sorella: è la relazione di fraternità che in questo caso permette di
stare.
Stavano poi altre donne, Maria di Cleofa e Maria la Maddalena, quest’ultima specialista nello
“stare”, la troveremo infatti stare anche davanti al sepolcro drammaticamente vuoto al mattino di
Pasqua (Gv 20,11). Anche se l’identità delle donne non concorda completamente con i dati dei
vangeli sinottici, tuttavia questi ci possono venire in aiuto per illuminare alcune caratteristiche di
queste donne. Tanto Mt 27,55-56 così come Lc 23,49 ci parlano di loro come di donne che avevano
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“seguito” il maestro dalla Galilea. E non solo: Mc 15,41 ci dice anche che esse lo “servivano”.
Questa quotidianità delle donne al seguito del maestro è descritta da Lc 8,2-3, da quell’evangelista
che sottolinea la libertà impensabile all’epoca di donne che lasciano la casa per mettersi sui passi di
Gesù, che a sua volta le chiama discepole, riferendo a loro la stessa espressione “essere con lui” che
è riferita ai Dodici. Ecco che il servire delle donne non è da leggere solo come un’ospitalità e un
aiuto nei lavori domestici e nemmeno solo come un aiuto finanziario. Si tratta piuttosto di una parte
attiva nell’organizzazione della comunità, forse anche di un aiuto nella predicazione del regno3, di
un carisma messo interamente a disposizione della comunità4.
Coloro che erano abituate a stare con il maestro, coloro che mettevano ciò che avevano a
servizio della comunità, che nel quotidiano avevano investito risorse, talenti dietro al nazareno,
adesso sono capaci di stare.
Ma c’è un’altra figura che stava accanto alla croce di Gesù: il discepolo che Gesù amava.
Ecco colui che nel quotidiano della sua relazione con il maestro aveva fatto l’esperienza di essere
amato, di un amore particolare, non generico. Attraverso quest’amore ricevuto il discepolo ha
raggiunto un’intimità profonda con il maestro, evocata dall’immagine di Gv 13,25 della testa
appoggiata sul cuore del maestro. Puoi stare adesso perché qualcuno ti ha amato e ti ama ancora;
puoi trovare la forza di stare, di rimanere in piedi di fronte al dramma perché nel quotidiano si è
sperimentato l’amore, perché si è fatto esperienza e si è coltivata una relazione profonda, di
intimità.
Riflessione
 Stare nel momento del dramma della sofferenza, nasce da uno stare con l’altro nel
quotidiano, mettendo in gioco risorse, offrendo talenti, condividendo un cammino…è
necessario coltivare le relazioni nel quotidiano… questo può trasformarsi in
stare…Talvolta il nostro stare è semplicemente improvvisato…
 Fare l’esperienza di essere amati, sperimentare l’amore, l’intimità… chi ha toccato
questo con mano può stare…
Lo sguardo e la parola
“Gesù vedendo la madre e il discepolo che amava stare lì accanto disse”: ecco che si apre la
via della relazione attraverso uno sguardo e una parola. E l’atteggiamento che porta alla relazione
con chi è nel dramma, nella sofferenza estrema è proprio stare, uno stare in silenzio, uno stare
accanto che lascia spazio all’iniziativa dell’altro. È chi è nell’emergenza a cercare la relazione con
chi sta, prima con lo sguardo, uno sguardo che accerta la vicinanza, uno sguardo che accerta che
l’altro è lì. L’evangelista, significativamente, non ci dice che chi sta accanto alla croce guarda Gesù:
è piuttosto il contrario. Talvolta ci sono drammi difficili, se non impossibili da sostenere con lo
sguardo; di fronte a questi si sta a occhi bassi, consapevoli della propria impotenza, del proprio
limite. Stare significa allora lasciare che sia l’altro a posare il suo sguardo su di te, accettare di
essere visto, piuttosto che vedere, atteggiamento che evoca di fronte all’emergenza una rinuncia al
controllo su tutto.
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Cf. N. CALDUCH BENAGES, Il profumo del Vangelo. Gesù incontra le donne, 79.
Cf. F. BOVON, Luca 1, 469.
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Ma la parola di Gesù ci rivela anche un’altra sfumatura dello stare: il silenzio. Gesù non aveva
risposto alle provocazioni di chi passava parlando, manifestano le proprie convinzioni; egli adesso
può parlare perché c’è qualcuno che sta in silenzio, un silenzio disposto ad accogliere ciò che può
venire dall’altro.
C’è una particolarità nella parola di Gesù, precisamente quella di essere una doppia parola:
egli si rivolge prima alla madre, poi al figlio; sarebbe bastata una parola sola visto che erano vicini.
Perché allora ripetersi? La risposta è dibattuta e controversa, ma possiamo sottolineare un aspetto: si
tratta di una parola che interpella personalmente, non una parola generica, ma una parola rivolta ad
un tu. La relazione cui apre lo stare, la relazione che chi è nella sofferenza cerca non è una relazione
generica, quanto piuttosto una relazione personale, non con un “voi”, ma con un “tu”. Ma c’è il
rovescio del discorso: stare accanto ad un dramma significa lasciarsi interpellare personalmente,
significa correre il rischio di una parola che ci scuote, che ci chiama in causa in prima persona.
Stare porta con sé l’essere messi in questione, essere interpellati singolarmente: chi non è disposto a
correre questo rischio non può stare.
“Donna”: la madre è chiamata donna, con un modo che stona, che può urtare la sensibilità del
lettore. È noto e chiaro che l’appellativo fa riferimento a Gv 2,4, alle Nozze di Cana, dove Maria è
la donna in attesa, il nuovo Israele che aspetta la salvezza dal Cristo. L’appellativo “donna” porta
allora in primo piano un’altra sfumatura dello stare: quella dell’attesa. La donna che sta, è colei che
è in attesa della salvezza e che rimane in questa attesa pur vedendo le sue “attese di salvezza” (cf.
annunciazione) inchiodate a un legno. Ciò nonostante sta, in attesa…
Riflessione
 Stare come atteggiamento che apre alla relazione: a volte mi preoccupo più che altro
di fare, di parlare… lasciando da parte ciò che può aprire l’altro alla relazione,
lasciando anche che qualcosa ci sfugga dal controllo… stare è anche avere il coraggio
dell’impotenza di fronte al fratello…
 Il silenzio dello stare…. a volte nella sofferenza risuonano molte, troppe parole…
 Stare per lasciarsi interpellare, correre il rischio di essere questionati…troppo spesso
stiamo con la nostra corazza, con il nostro bagaglio di certezze e risposte…
 Stare e attendere…
Risignificare le relazioni
È in questa attesa che si riceve una nuova rivelazione: “ecco tuo figlio”. Non entriamo
volutamente nel merito della questione del senso teologico del testo, che ci condurrebbe fuori dalla
nostra lettura. Sottolineiamo però alcuni aspetti.
Alcuni commentatori accostano questa formula alle formule di rivelazione presenti all’inizio
del Vangelo di Giovanni (1,29 “Ecco l’Agnello di Dio”; 1,47 “Ecco un israelita in cui non c’è
falsità”), momenti in cui si porta alla luce qualcosa che non è immediatamente percepibile, qualcosa
di nascosto: il fatto che quell’uomo che passa è l’Agnello di Dio, o la personalità nascosta di
Natanale (“ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità”). Stare conduce ad una nuova
rivelazione, una rivelazione che passa attraverso un’ “apertura” degli occhi, potremmo dire.
Abbiamo detto che non si fa menzione dello sguardo delle donne, adesso però Gesù stesso invita a
guardare: “Guarda! Tuo figlio” così suona il testo greco alla lettera. È come un invito ad un nuovo
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sguardo, uno sguardo che si posa sul fratello che ti sta accanto, uno sguardo che ti fa vedere colui
che ti è vicino in una luce nuova.
Stare porta ad una nuova visione sul fratello che abbiamo accanto e, ancora di più, porta a
risignificare e ristrutturare le relazioni. Si tratta ora di relazioni nuove, che colui che è capace di
stare riceve in dono. In particolare, stare provoca una dilatazione nella maternità: è ciò che è
significato dal passaggio che il testo presenta da “sua madre” a “la madre” a “tua madre”. Usando
un immagine potremmo dire che stare provoca una dilatazione del grembo, che accresce la sua
capacità di accoglienza, la sua possibilità di donare la vita.
Ma questa nuova relazione di maternità deve essere letta con ciò che segue: “E da quell’ora il
discepolo l’accolse con sé”, o più precisamente “l’accolse tra le sue cose più care”. Assieme ad una
dilatazione di maternità c’è anche la capacità di lasciarsi accogliere. Chi ha sperimentato il proprio
limite, la propria impotenza nello stare, chi è stato messo in questione nel suo stare, chi si è lasciato
guardare nel suo stare, scopre che ha bisogno di essere accolto, cioè non è autosufficiente…
Ma ancora: Maria in quanto donna che rappresenta la figlia di Sion in attesa
dell’adempimento delle promesse, è colei che accolta dal discepolo (depositario dell’insegnamento
di Gesù) riconosce in lui proprio il compimento delle sue attese. Non solo, allora lasciarsi
accogliere, ma assieme riconoscere nell’altro e nella relazione con lui il compimento di un’attesa
del cuore.
In sintesi: stare porta a ricevere il dono di una nuova rivelazione, porta ad aprire gli occhi e
risignificare le relazioni con chi abbiamo accanto, posando uno sguardo nuovo sul fratello. Stare
porta ad una dilatazione della capacità materna, capacità di accoglienza, di generazione, ma allo
stessa tempo porta con sé la capacità di lasciarsi accogliere, con la consapevolezza che il
compimento delle nostre attese è là nella relazione con il fratello, una relazione caratterizzata da un
reciproco riconoscimento.
Riflessione
 I doni dello stare: stare nell’emergenza per dare un nuovo senso alle relazioni con i
fratelli… questo è un dono che si riceve nello stare…
 Stare come dilatazione della maternità… ci si trova più capaci di accogliere…
 Stare come lasciarsi accogliere…
Conclusioni
Abbiamo visto uno stare che affonda le sue radici nel quotidiano, uno stare che non si
improvvisa, uno stare che costringe ad aprire gli occhi e il cuore per risignificare le relazioni con i
fratelli che abbiamo accanto. Uno stare che dona un nuovo sguardo, uno sguardo che è in grado di
ribaltare la vita: è lo sguardo del centurione, che anche lui stava sotto la croce; un uomo “pagano”
che ha avuto il coraggio di guardare negli occhi quell’uomo che stava morendo davanti a lui. Il
coraggio di stare gli ha aperto gli occhi, e gli ha permesso di cogliere la realtà che quelli “preparati”
avevano rifiutato, l’ha spinto a riconoscere che quel condannato appeso, sfigurato dal dolore, ormai
morto: “davvero era Figlio di Dio” (Mc 15,39).
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