Scarica il libro - Donne di Orsola

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Donne Italia
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Il volume “Donne d’Italia” è un contributo al femminile per i 150 anni
dell’Unità d’Italia: ritratti di donne, “dipinte” da un gruppo di docenti dei
licei cittadini.
Gli articoli in esso contenuti volgono lo sguardo al valore delle donne e
a quelle figure che hanno attraversato la Storia d’Italia segnandone le
tappe, in rappresentanza dei moltissimi settori in cui le donne sono state
protagoniste.
Testimonianze d’eccellenza e non, da Nord a Sud, dal 1848 al 1945, un
secolo di emancipazione femminile significativa, che ha visto protagoniste
Donne Venete, Friulane, Lucane, Siciliane, ecc., di straordinaria intelligenza
e determinazione e simbolo dell’impegno di tantissime donne che nel tempo
hanno inciso sulla realtà femminile italiana nei vari campi della vita civile,
perché protagoniste di un lungo cammino, non ancora completato, verso
l’autonomia di genere.
La Provincia di Treviso e l’Assessorato alla Politiche Sociali hanno
sostenuto il ciclo di conferenze “Donne d’Italia”, che si auspica sia un
ulteriore stimolo per favorire i continui mutamenti socio-culturali, che
stanno portando le donne alla piena partecipazione alla vita sociale,
politica, professionale e in generale a tutte le espressioni della vita civile.
Paolo Speranzon
Assessore alle Politiche Sociali
e alle Pari Opportunità della Provincia di Treviso
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RENATA FASSON
Sebben che siamo donne paura non abbiamo
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GIANFRANCA MELISURGO
Risorgimento e donne in Lucania, terra di boschi e di luce
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ALDA PELLEGRINELLI
Elsa Schiaparelli: un’artista dell’alta moda italiana nel primo ‘900
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CLELIA DE VECCHI
Donna Franca Florio e la belle époque palermitana
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ANTONIA PIVA
Maria Montessori, ovvero il bambino al centro
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GLORI CAPPELLO
Antonietta Giacomelli e il modernismo a Treviso
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MARIA SILVIA GRANDI
Eleonora Duse: la vita nell’arte e l’arte nella vita
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IRINA POSSAMAI
Amelia Pincherle Rosselli, duplice memoria del Risorgimento
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GIGLIOLA ROSSINI
Luisa Baccara: la passione di una donna e di un’artista
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presentazione
La presente pubblicazione è stata resa possibile da una sintonia di
interessi che unisce, anche attraverso legami di amicizia, oltre a rapporti
professionali, alcune docenti dei Licei cittadini e della provincia di Treviso.
L’Assessorato alle Politiche Sociali e alle Pari Opportunità della Provincia
di Treviso ha dimostrato una lungimirante sensibilità nel sostenere
l’iniziativa attraverso la pubblicazione degli Atti del ciclo di conferenze
“Donne d’Italia”.
Alla Provincia di Treviso e alla Fondazione Benetton, che per il ciclo di
conferenze ha messo a disposizione la sua prestigiosa sede, il gruppo delle
relatrici da me rappresentato rivolge un sentito ringraziamento.
Il ringraziamento va esteso alle Dirigenti dei Licei cittadini, prof.ssa Antonia
Piva e prof.ssa M.Giuseppina Vincitorio, ma in particolare alle autrici degli
articoli qui pubblicati che, con lavori che sono frutto della loro personale
ricerca, hanno realizzato un ciclo di incontri vivaci e facilmente fruibili, pur
nella rigorosità dei contenuti, coinvolgendo un pubblico prevalentemente
femminile, ma nello stesso vario per fasce d’età ed interessi e proponendo
alla cittadinanza forme di conoscenza e riflessione innovative, grazie all’uso
di immagini, filmati e recitazione dal vivo.
La scelta del titolo “Donne d’Italia”, di cui si dirà ampiamente
nell’introduzione, è ovviamente ispirata alle celebrazioni dei 150 anni
dell’Unità del nostro Paese, concentrandoci prevalentemente sui primi
cinquant’anni, considerati determinanti nel costruire le basi dello Stato, e
proponendo figure femminili di varie realtà regionali e sociali.
Clelia De Vecchi
Coordinatrice del Progetto
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Nel VI secolo a.C., Ipponatte, un poeta greco celebre per i sui giambi
irriverenti, scrisse: Due sono i giorni più belli di una donna: / quando la
si prende in moglie e quando la si porta via morta. L’espressione dava
conto della complessiva misoginia della società arcaica e dell’esclusione
femminile dai processi della storia, fosse essa politica o culturale. La storia
era affare di maschi: era forse per questo che grondava sangue e cinismo?
Comunque, meglio era per la donna non aspirare alla notorietà, che sarebbe
stata distruttiva, ed accontentarsi dell’elogio, quando venisse, delle sue virtù
nascoste.
Bisognava aspettare più di duemilacinquecento anni perché Simone de
Beauvoir decretasse: Una donna libera è il contrario di una donna leggera.
Quello che conta di più, in questa frase, non è la carica di indipendenza
che la anima, ma che a pronunciarla sia, con fierezza, una donna. Tanti
secoli ci sono voluti - e forse il percorso non è ancora compiuto - perché le
donne smettessero di essere emarginate, denigrate o, al massimo, ‘cantate’.
Un lungo inanellarsi di epoche nelle quali individuare il filo rosso della
consapevolezza femminile, del suo specifico non solo biologico, ma anzitutto
psicologico e, così facendo, chiarire quanto la storia civile e intellettuale sia
progredita grazie alle donne.
Con questa idea, nel gennaio 2004, grazie alla vicinanza fattiva della
Provincia di Treviso con l’assessore Paolo Speranzon, decolla il Corso
di Storia delle Donne, riservato in quella annualità al mondo antico, nelle
sue diverse sfaccettature, e successivamente ripreso con le vicende delle
eroine e delle pensatrici medievali. E che a parlare di donne siano altre
donne costituisce davvero un valore aggiunto degli incontri. Tutte occasioni
non solo per puntualizzare il ruolo femminile in diverse fasi dell’umanità,
abbattendo i molti stereotipi di genere, ma anche per dare conto a quante, in
ambito trevigiano e più generalmente veneto, si spendono quotidianamente
nella ricerca educativa e culturale.
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Quest’anno, la ricorrenza - che vogliamo lieta, convinta, foriera di speranza
per il nostro Paese, pur nei suoi travagli economici - dei 150 anni dell’Unità
d’Italia ha fatto nascere il desiderio di parlare ancora una volta di donne,
con l’angolatura prospettica della storia italiana. Già, perché sono tutte
italiane le donne che incontreremo in queste pagine, anche quando vanno a
far fortuna all’estero. La collaborazione tra due licei cittadini - il “Canova”
e il “Duca degli Abruzzi” - e la “Fondazione Benetton”, oltre alla consueta
attenzione della Provincia, hanno reso attuabile questo desiderio, ed oggi
siamo qui a parlare assieme di donne italiane dal secondo Ottocento in poi.
Vicende note e meno note, donne intrepide e donne dolenti, mai comunque
piegate, tutte accomunate dal desiderio di offrire il proprio ‘di più’ di
sensibilità, di coraggio, di talento.
Leggere le loro storie, dolci od amare che siano, fa venir voglia di
andare avanti, di non mollare, impegnandoci su nuovi traguardi di
autodeterminazione - nel mondo della professione al pari della conduzione
familiare -, ed inedite intuizioni artistiche e battaglie sociali, ma anche
con il gusto, finalmente senza remore o sensi di colpa, di quanto fa della
donna un essere inimitabile: una chiacchierata tra amiche di fronte a una
tazza fumante di caffè, una scia di profumo ad anticipare la primavera, una
vibrazione melodica in un mondo altrimenti noioso e prevedibile…
Antonia Piva
Preside Liceo “Duca degli Abruzzi” di Treviso
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INTRODUZIONE
Nel ciclo di conferenze “Donne d’Italia”, che oggi si inaugura, viene ripresa l’idea di
esplorazione della figura femminile nella storia, che già tra il 2004 e il 2005 portò un
gruppo di amiche, colleghe e studiose a sviluppare il ruolo delle donne nell’età antica e
medievale.
La prof.ssa Clelia De Vecchi fu allora, anche attraverso il Centrum Latinitatis Europae,
l’appassionata ideatrice di quel ciclo di conferenze così come lo è stata oggi, insieme alla
Preside prof.ssa Antonia Piva che ha accompagnato, in ogni sua fase, la realizzazione del
progetto.
Oggi abbiamo ritenuto avesse senso parlare di ruolo femminile in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia poiché delle donne sembra esserci poca traccia nella memoria
storica in cui la figura femminile tende a restare “invisibile”.
Ci anima non tanto un intento celebrativo quanto la consapevolezza che molte donne hanno contribuito alla nascita di questo nostro Paese.
Ripensare il ruolo e la presenza delle donne nel percorso storico che ha portato all’unificazione e porre rimedio, attraverso una riflessione di genere, all’omissione della soggettività
femminile, che pure ha contribuito ad indicare, sostenere, realizzare il progetto indipendentista e unitario italiano, è uno dei nostri scopi, ma non il solo.
Vi è infatti anche l’attenzione a specifiche realtà storico-culturali che hanno attraversato il
nostro Paese da Nord a Sud; vi è lo sguardo che dall’età del Risorgimento esplora l’Italia
post-unitaria fino al XX secolo; vi è l’interesse per ambiti specifici della società e della
cultura in cui l’agire delle donne italiane è emerso in modo originale e creativo.
Degli interventi odierni sono protagoniste la prof.ssa Renata Fasson, docente di Storia e
Filosofia, e la prof.ssa Gianfranca Melisurgo, docente di Lettere Italiane e Latine, le cui
personalità hanno dato un forte contributo culturale e pedagogico al Liceo Scientifico “Da
Vinci” e alla nostra città. Discuteranno di “Energie femminili” che agirono nel paese reale,
dall’area veneto-friulana, tra 1848 e 1945, al Risorgimento lucano.
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Ricordo i prossimi incontri dedicati a “Moda e mondanità” con l’estro di Elsa Schiaparelli
e il fascino di Franca Florio, trattati rispettivamente da due docenti del Liceo Classico “A.
Canova”, la prof.ssa Alda Pellegrinelli (Storia dell’Arte) e la prof.ssa Clelia De Vecchi
(Italiano e Latino); l’“Educazione” con le figure di Maria Montessori, medico e pedagogista, e di Antonietta Giacomelli, educatrice e scrittrice, presentate dalla prof.ssa Antonia
Piva (Preside del Liceo “Duca degli Abruzzi”) e dalla prof.ssa Glori Cappello (docente di
Storia e Filosofia al “Canova”) e infine il “Teatro e la musica” con le personalità di Eleonora Duse, Amelia Pincherle Rosselli e Luisa Baccara, delineate da due docenti di Storia
e Filosofia del “Canova”, le prof.sse Silvia Grandi e Gigliola Rossini (Duse e Baccara) e
dalla prof.ssa Irina Possamai del “Verdi” di Valdobbiadene.
Il ciclo di conferenze si chiuderà la sera del 18 Novembre preso l’auditorium del Liceo
“Duca Degli Abruzzi”, con un concerto di Anna Colonna Romano, nipote di Luisa Baccara, e di Stefano Trevisi, dedicato al repertorio della Baccara.
Ringrazio i Licei “Canova” e “Duca degli Abruzzi” nella persona dei loro Dirigenti, Prof.
ssa M.Giuseppina Vincitorio e Prof.ssa Antonia Piva per il sostegno dato al progetto; l’Assessorato alle Pari Opportunità della Provincia di Treviso, nella persona dell’assessore
Paolo Speranzon che ha fortemente sostenuto questa iniziativa e rivolgo un grazie speciale
al Direttore della Fondazione Benetton, dottor Marco Tamaro, che ha offerto l’ospitalità
nella bella sede degli “Spazi Bomben”.
Gigliola Rossini
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RENATA
FASSON
Laureata in Filosofia a Padova nel 1966, dopo l’abilitazione inizia a insegnare Storia e Filosofia
al Liceo Scientifico”Giordano Bruno” di Mestre e quindi, trasferitasi a Treviso, al Liceo Scientifico
“Leonardo da Vinci”, dove rimane dal 1969 al momento del pensionamento nel 2008, dedicando
tutte le sue energie all’insegnamento e alla formazione umana e civile degli studenti.
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RENATA FASSON
Sebben che siamo donne paura non abbiamo
N
ell’immaginario filmico o televisivo, per quanto ho potuto constatare, la donna veneta
è stata rappresentata come donna di servizio, mondina, prostituta, bigotta ipocrita o
amante altrettanto ipocrita, mai come politicamente consapevole, combattiva, coraggiosa.
Anche se risaliamo all’Ottocento, nei manuali abbiamo visto citare alcune donne: Eleonora Pimentel Fonseca, Luisa Sanfelice, Teresa Confalonieri e poi la contessa Maffei,
Cristina di Belgioioso, la Castiglione, Adelaide Cairoli; venete mai. Eppure la contessa
Montalban di Conegliano fu incarcerata, gettata fra le prostitute perché fosse meglio umiliata e le donne venete furono attivamente presenti in tutto il periodo risorgimentale.
Nel 1848, allo scoppio della Rivoluzione, Elisabetta Michiel Giustinian, Antonietta Dal
Cerè Benvenuti e Teresa Mosconi Papadopoli chiesero l’inclusione delle donne nel corpo
militare cittadino con un battaglione femminile. Mi pare evidente che sapessero di poter
contare su un congruo numero di adesioni. Venne anche pubblicato un giornale:“Circolo
delle donne italiane”. Sempre nel ’48 cinquecento donne parteciparono all’insurrezione di
Pier Fortunato Calvi in Cadore.
Nel ’49 le donne venete affrontarono le difficoltà dell’esilio, spronando e sostenendo i
propri mariti, i cui beni venivano confiscati. Sotto il profilo letterario la Pisana di “Le confessioni di un italiano” le rappresenta tutte.
Nel ’60, alle prime avvisaglie della spedizione dei Mille, una giovane donna di Cervarese
Santa Croce, in provincia di Padova alle pendici di Colli Euganei, Antonia Masanello in
Marinello, già esule col marito a Modena, partì con lui per Genova. Si vestì da uomo e,
spacciandosi per il fratello del marito, si imbarcò con lui in una delle spedizioni di rincalzo
e combatté tutta la campagna garibaldina fino al Volturno. Congedata col grado di caporale, andò a vivere col marito a Firenze, dove morì di tisi nel 1862. In suo onore Dall’Ongaro
scrisse:
L’abbiam deposta la garibaldina
all’ombra della torre a San Miniato
con la faccia rivolta alla marina
perché pensi a Venezia, al lido amato.
Era bionda, era bella, era piccina,ma avea
cuor di leone e di soldato.
E se non fosse che era donna
le spalline avria avute e non la gonna
e poserebbe sul funereo letto
con la medaglia del valor sul petto.
Ma che fa la medaglia e tutto il resto?
Pugnò con Garibaldi, e basti questo.
Allora la sua fama giunse fino in America, poi se ne perse la memoria, ricuperata solo
pochi anni fa da una ricerca nel suo paese d’origine e rinverdita in occasione del centocinquantenario anche a Firenze. La sua tomba è nel cimitero di Trespiano insieme a quelle
degli altri garibaldini.
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Al momento dell’unificazione nel 1866 le donne veneziane fecero in Piazza San Marco
una veemente manifestazione, che gli uomini non sapevano come contenere, per rivendicare il diritto di voto.
Furono persuase a inviare una delegazione al reggente per presentare le proprie richieste e
inviarono anche una lettera al Re. Naturalmente non ottennero alcunché.
Venne la Prima Guerra Mondiale e molte donne si impegnarono nelle tradizionali forme
di accudimento e sostegno, ma alcune parteciparono attivamente alla guerra: le Portatrici
Carniche.
Millequattrocentocinquantaquattro (1454) donne e ragazze dell’alta Carnia, alcune quasi
bambine, garantirono i rifornimenti alle trincee d’alta quota, nella zona di frontiera intorno a paesi come Paluzza, portando nelle gerle munizioni, viveri, messaggi, a rischio della
vita, perché bastava inciampare per saltare in aria con i carichi di munizioni ed esse erano
inoltre esposte al fuoco dei cecchini. Infatti alcune furono ferite ed una, Maria Plozner
Mentil, fu uccisa: aveva diversi figli e il marito lontano.
A guerra finita di loro ci si dimenticò e solo nel 1997 il Presidente Scalfaro conferì la medaglia d’oro alla memoria a Maria Plozner Mentil e il cavalierato alle ormai vecchissime
superstiti, mentre erano sempre stati ricordati e onorati, ad esempio, i ragazzi del ’99.
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, dopo l’8 settembre, ci fu una sorta di passaggio del testimone fra le donne del Risorgimento e quelle della Resistenza.
I numeri delle partecipanti in Italia sono approssimativi; vengono considerati attendibili:
35.000donne combattenti, 20.000 di supporto, 60.000 nei gruppi di difesa.
I numeri certi sono 16 medaglie d’oro, 17 d’argento; 683 fucilate o cadute; 1750 ferite;
1890 deportate, alcune delle quali,anche venete, morirono nei lager.
Molte donne venete sia di parte laica e di sinistra, che di parte cattolica parteciparono.
Nelle testimonianze, molte,dell’una e dell’altra parte, dicono di aver agito per una naturale
e spontanea spinta all’aiuto, sperando che anche gli uomini della famiglia militari venissero aiutati; qualcuna per spirito d’avventura; altre per l’educazione ricevuta, sia laica
che cattolica; altre, infine, erano già politicamente consapevoli e miravano a esercitare in
politica un ruolo attivo.
A titolo esemplificativo tratteggeremo le vicende di due di loro, una laica, l’altra cattolica,
che vissero percorsi affini: Noris Guizzo, nome di battaglia Carmen, Ida d’Este, nome di
battaglia Giovanna (d’Arco).
Carmen nacque nel ’18 a Selva del Montello, in una famiglia povera; orfana da bambina
lavorò precocemente per la famiglia e i fratellini. Emigrò quindi a Torino dove lavorò
come domestica. Dopo l’8 settembre entrò nella Resistenza, come staffetta fra Piemonte e
Valle d’Aosta; Ammalatasi nel marzo ’44, dopo un periodo in ospedale rientrò in Veneto
per la convalescenza. Si prese cura di un fratello malato, a sua volta partigiano, venne in
contatto con la Resistenza veneta ed entrò nella Brigata Mazzini. Svolse compiti di staffetta, ma partecipò anche ad azioni di sabotaggio per liberare compagni detenuti e agli
scontri nel solighese in agosto e in Cansiglio in settembre. Per sfuggire ai rastrellamenti la
Brigata si sganciò e scese in pianura. Carmen fu incaricata di tenere i rapporti con il CLN
di Treviso e di Padova.
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Arrestata il 19 novembre subì un crescendo di maltrattamenti, fino alla tortura. Tacque.
Riuscì invece a far filtrare notizie dal carcere sui compagni passati alle Brigate Nere.
Nel gennaio del ’45 venne trasferita a Padova a Palazzo Giusti del Giardino, dove operava
la cosiddetta Banda Carità. Qui subì nuove e più atroci torture (le vennero bruciati con un
ferro rovente clitoride, utero, ovaie), a seguito delle quali racconterà di aver tentato due
volte il suicidio. Continuò a tacere.
Riportata a Treviso ricevette inizialmente assistenza solo da un’ausiliaria RSI, infermiera,
(che per questo suo atto a fine guerra se ne andrà libera), quindi, finalmente, da un medico.
Mandata poi in casa di un capitano fascista come domestica, riuscì a fuggire il 19 aprile,
temendo di essere uccisa.
Finita la guerra Carmen testimoniò in vari processi ai quali furono sottoposti aguzzini e
torturatori. Entrò anche nel PCI, ma nel ’49 emigrò col fratello e il fidanzato in Argentina,
dove si sposò. Delusa dalla situazione italiana e dai compagni di lotta durante un breve
ritorno, rientrata in Argentina si isolò sempre più e morì nel ’66, forse suicida.
Giovanna nacque nel ’17 da una famiglia agiata e colta, nella quale ricevette la tradizionale educazione cattolica, malgrado il padre fosse agnostico. Animata da una fede fervida,
che visse in grande autonomia, in una sorta di francescanesimo, già a quindici anni fece
voto di totale dedizione a Dio e di castità. Appassionata lettrice,in particolare dei grandi
romanzieri russi, si laureò in lingue con una tesi su Pascal,del quale apprezzò particolarmente il rifiuto del principio di autorità in ambito di ricerca. Frequentando la Fuci scoprì
Maritain, che le aprì anche prospettive politiche. Fu peraltro insofferente delle preoccupazioni ecclesiastiche indirizzate solo a garantire purezza e decenza (calcolata in centimetri),
anche in ambito fucino.
Dopo l’8 settembre coinvolse le amiche in autonomi aiuti a soldati prigionieri o in fuga e
compì gesti provocatori come infiorare la tomba di Daniele Manin, ebreo.
Entrò quindi in contatto con il CLN e diventò staffetta di collegamento fra il CLN regionale e quelli di Venezia, Padova, Vicenza e Rovigo e col CMRV.
Scoprendosi pedinata, nell’estate del ’44 entrò in clandestinità a Padova, vivendo un periodo felice, perché libera dai rituali borghesi.
Arrestata il 6 gennaio ’45 e portata a Palazzo Giusti subì a sua volta interrogatori, torture,
umiliazioni, come il denudamento, da parte della Banda Carità, sbeffeggiata anche dalle
donne che ne facevano parte per il suo abbigliamento trascurato e poco giovanile.
Seppe tuttavia reagire e scriverne con grande ironia e, trasferita al lager di Bolzano, imparò la solidarietà con donne “lontane” vuoi per convinzioni politiche, vuoi perché delinquenti comuni o prostitute.
Dopo la guerra si impegnò in politica nella DC, rammaricandosi della frattura instauratasi
fra le forze politiche, che cancellava la precedente solidarietà resistenziale. In effetti Giovanna era entrata nella Resistenza non solo per atto di carità, ma con l’intento di esercitare
un ruolo politico attivo. Fu parlamentare fra il ’53 e il ’58, ma criticata e talora calunniata
per la sua indipendenza di giudizio e il suo impegno per l’uguaglianza delle donne e il
loro diritto al lavoro, fu emarginata e si dedicò all’assistenza di bambine abbandonate, di
ragazze madri e di ex prostitute. Morì nel 1976.
Molte altre donne dell’una e dell’altra parte si potrebbero citare. Vorrei soltanto ricordare qui, in memoria di Lidia, scomparsa pochi giorni fa, le sorelle Martini Teresa, Lidia,
Liliana, partecipi a quella catena di salvezza organizzata dal Padre Cortese, direttore del
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Messaggero di Sant’Antonio e dai capi del CLN padovano, Concetto Marchesi, Silvio
Trentin ed Egidio Meneghetti, che riuscì a far espatriare ricercati, prigionieri di guerra
evasi ed ebrei. Teresa e Liliana finirono a Mauthausen, scampando alla condanna a morte,
Lidia a Bolzano.
Per concludere, delle donne della Resistenza si è continuato a parlare poco fino a tempi
piuttosto recenti, anche perché dopo la fine della guerra la maggior parte di loro rientrò
nel privato, spesso per il timore delle maldicenze e delle calunnie. Come molti reduci dai
lager, non parlarono della loro esperienza, fino a una ventina d’anni fa, quando l’Istresco
cominciò ad occuparsi di loro; iniziarono così a rilasciare testimonianze agli storici e alcune andarono a parlare nelle scuole.
Bibliografia
Donne sulla scena pubblica: società e politica in Veneto fra Sette e Ottocento
a cura di Nadia Maria Filippini Ed. Franco Angeli Storia
Storie di donne in guerra e nella Resistenza a cura di Lisa Tempesta. Istresco - TV
Tra la città di Dio e la città dell’uomo. Donne cattoliche nella Resistenza Veneta
a cura di Luisa Bellina e Maria Teresa Sega. Istresco VE-TV
Carla Liliana Martini Catena di salvezza Ed. Messaggero - PD
GIANFRANCA
MELISURGO
Nata a Potenza, laureata in Lettere Classiche all’Università di Napoli nel 1969, ha insegnato nel
potentino Liceo Classico “O. Flacco” dal 1970 al 1975, quando si trasferisce a Treviso,dove ha
insegnato Italiano e Latino al Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” fino al 2010, curando essenzialmente sotto il profilo didattico i propri interessi e studi, volti a promuovere la formazione
culturale e civile delle nuove generazioni.
Interessata al tema dell’emancipazione femminile, ha tenuto nel 2009 e 2010 - nel quadro di
un’iniziativa della A.I.D.M. trevigiana - una serie di seminari sulla donna-personaggio e sullo
scrittore donna in Letteratura.
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GIANFRANCA MELISURGO
Risorgimento e donne in Lucania, terra di boschi e di luce
N
ella Carta costituzionale della Repubblica italiana questa piccola regione dell’Italia
meridionale che, non fosse per brevi tratti di costa jonica e tirrenica, sarebbe del tutto
interna, è indicata con il nome Basilicata, dopo che nel Ventennio la denominazione era
stata “Lucania”.
Quest’ultimo è, però, il nome che ha sempre esercitato maggior suggestione e l’aggettivo
“lucano” ha, in qualsiasi campo per altro, assoluta preminenza rispetto al pur esistente
“basilicatese”.
L’etimologia di Lucania è controversa: in ambito greco e in quello latino
e lux
la ancorano al concetto di luce, bianca luminosità, mentre ˜
e lucus la configurano
come terra “di boschi”.
Indicando nel titolo la Lucania come “ terra di boschi e di luce”e coniugando le due derivazioni etimologiche, si intende evocare una dimensione metaforica per inquadrare secondo
due realtà distinte e opposte il ruolo delle donne lucane nel Risorgimento: l’ombra dei
boschi, da sempre (e ancora in tempi recenti) luoghi del nascondimento e della latitanza,
vide e ospitò la protesta violenta del brigantaggio, le gesta sanguinose di donne che affiancarono armate i loro uomini; alla luce, invece, come sinonimo di “illuminazione interiore, conquista intellettuale volta al miglioramento della vita civile” vien fatto di collegare
Laura Battista, una poetessa lucana appassionata sostenitrice di idealità eroiche e di quanti
- Garibaldi, Mazzini, Pisacane - le incarnavano.
Con il contrasto luce/ombra si può anche visualizzare la duplicità esistente nel processo storico del Risorgimento: come ufficialmente ci è stato trasmesso, questo fu la lucida e appassionata conquista di menti intellettualmente evolute, che si tradusse in gesta
eroiche,ancorché spesso isolate; ma vi fu anche un anti-Risorgimento, testimoniato dal
fenomeno tutto meridionale del brigantaggio, a cui sarebbe possibile attribuire delle connotazioni di guerra civile (come sostiene Giordano Bruno Guerri ne “Il sangue del Sud”,
saggio puntualmente documentato sotto il profilo storico).
Senza dunque entrare nella polemica (evidente, ad esempio, in molte pagine del saggio
“Viva l’Italia”, di Aldo Cazzullo)1 che vede un Anti-Risorgimento creato ad arte come
controcanto ad un altisonante e retorico Risorgimento ufficiale, si vorrebbe osservare che
un’attenta indagine odierna sullo “stato della nazione” registra purtroppo forze centrifughe meridionaliste uguali e contrarie alle spinte separatiste del Nord.
Ci si trova di fronte a un Movimento Neoborbonico che indice Raduni legittimisti, ad un
Movimento Politico Meridionalista “Terra e Libertà”, ad un continuo incremento di associazioni che si dichiarano schierate “per la vera Storia del Sud” e, rivendicando “l’orgoglio
perduto”, rievocano il “Regno Duosiciliano”, ne magnificano la potenza, lo splendore,
la vocazione pacifista, denunciano il suo sfruttamento e depauperamento da parte di un
“piccolo stato guerriero e indebitato fino al collo” (il Piemonte) il quale, dopo aver invaso
il Sud perseguitando i patrioti meridionali che difendevano il legittimo governo di quelle
terre, sarebbe passato ad una sistematica falsificazione della realtà storica nell’intento di
rieducare il popolo e convincerlo di essere stato liberato dal giogo borbonico.
Nel profondo c’è sicuramente il ricordo di strategie - con cui il nuovo regime si propose e
si affermò nel Sud d’Italia - che lo penalizzarono economicamente e furono violentemente
repressive manu militari quando il fenomeno del brigantaggio si fuse con la reazione legittimista. Su questo ricordo di fondo si innestano, poi, i malumori e gli scompensi odierni.
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Pur senza mettere in discussione l’unità d’Italia, la nazione, lo Stato, si dovrebbe riconoscere che il Risorgimento, una volta nato formalmente il Regno d’Italia, fu un processo disatteso e incompiuto e tale è ancora oggi se viene contestato e perfino irriso, mentre questo
centocinquantesimo anniversario potrebbe e dovrebbe costituire una preziosa occasione di
conoscenza e riflessione, volte non a demolire ma a ricostruire e rinsaldare.
Per quanto riguarda il fronte filo-risorgimentale è certamente innegabile, come ribadisce
Cazzullo,2 che “un’intera generazione di borghesi meridionali – giovani ufficiali, medici,
avvocati, religiosi – appartenenti ad una classe in ascesa ma mortificata dai Borboni” –
entrò in contatto con le idee di Mazzini e fu sensibile, anzi votata, al progetto di un’Italia
unita.
E spesso, in Lucania, accanto ai mariti c’erano le mogli, come Costanza Chiurazzi, appartenente a facoltosa famiglia di Carbone, un piccolo paese a poco più di cento chilometri da
Potenza, morta a soli trent’anni in un assalto di contadini schierati sotto la bandiera borbonica a Castelsaraceno, dove era andata a vivere da sposata; è sicuramente da considerare
patriota Teresa Cirillo di Salandra, che fu colpita da accusa di cospirazione, incarcerata e
graziata con la promulgazione della Sovrana Indulgenza, uno degli ultimi provvedimenti
borbonici poco prima della proclamazione del Regno d’Italia.
Nel convento di Santa Chiara di Genzano, poi, la badessa Maria Teresa Di Pierro custodì
documenti, libri proibiti, subì la detenzione e sfiorò la morte.
Probabilmente vi sono state altre donne lucane che hanno contribuito all’unificazione italiana: ma piuttosto che stilare cataloghi più o meno esaustivi, è preferibile soffermarsi
sulla poco conosciuta Laura Battista che, per quanto non donna d’azione, ha trasfuso nella
propria opera poetica la consapevolezza - importante per il nostro Risorgimento - del carattere dell’identità italiana quale il Manzoni stesso l’avvertiva: appartenenza a nazione
“una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”.
Ma la storia della Lucania – e di altre regioni meridionali – è una storia spaccata. Un
chiaroscuro drammatico corre fra le classi demarcandone lo schieramento: filo-unitari per
ideale adesione alcuni illuminati borghesi e, per camaleontismo utilitaristico, alcuni possidenti; le masse contadine, invece, prigioniere della propria condizione disagiata e dell’
ignoranza, occasionalmente volte al “nuovo vento” che spirava, ma presto ricacciate nelle
braccia della reazione lealista dalla delusione delle proprie attese, legate alla terra che lavoravano ma che non era mai “loro”.
Il filo di tale spaccatura conduce a bipartire il discorso fra la luce intellettuale della cultura
borghese e l’oscurità di una disperata protesta, che fu elemento importante del brigantaggio contadino.
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LA LETTERATA: LAURA BATTISTA
Scrittrice poco conosciuta e, obiettivamente, di modesta rilevanza per le Lettere, mostra
però una personalità notevole per i tempi e i luoghi in cui visse: in particolare appare
coraggiosa nelle sue dichiarazioni poiché, quando si presenta 3 come “figlia della derelitta Basilicata, derelitta per secoli d’ignominioso e degradante servaggio”, adopera parole
molto esplicite a significare la sua condanna dei Borboni, che altrove chiama “tiranni” e
“coronati ignavi”.
Se nel termine illuminismo è racchiuso il concetto che la cultura rischiara l’intelletto, riscatta dallo stato di minorità, restituisce la persona al destino di umanità che le compete,
nel caso di Laura Battista, nata a Potenza il 23.11.1845, essa rende possibile perfino ad
una giovane donna concepire la passione politica e civile, le consente di fare un progetto
di vita, affidare le proprie speranze ad un lavoro che la renda libera nella mente e - seppure
non autonoma perché sposata - la ponga almeno in grado di contribuire alla sussistenza
della famiglia, compromessa nelle finanze da un marito dedito alle donne e al gioco.
Virginia Woolf, in “Una stanza tutta per sé”, afferma che la donna, intellettualmente, non
ha potuto contare su una “stanza”tutta per sé: la scelta della cultura le è stata sempre difficile e sofferta, in una competizione col maschile quasi sempre persa in partenza.
Fu così per Isabella di Morra, odiata e punita con la morte dai fratelli per la sua “diversità”
(consistente nella cultura), ma non fu esattamente così, trecento anni più tardi, per Laura
Battista: era solo un’ adolescente all’epoca dell’avventura unitaria, ma già pienamente
partecipe di essa e ingenuamente “innamorata” di Mazzini e Garibaldi.
Non combatté sulle barricate, come avevano fatto a Messina nel 1848 le siciliane Rosa
Donato e Giuseppina Vadalà.
Non partecipò alla spedizione dei Mille, come la veneta Antonia Masanello ed altre donne
sprezzanti del pericolo – una per tutte Ana Maria del Jesus, meglio conosciuta come Anita
Garibaldi.
Non tenne nel proprio salotto riunioni politico-culturali, come a Mantova la contessa Teresa Arrivabene.
Non ebbe vita avventurosa: la sorte le riserbò un “natio borgo selvaggio”pieno di “gente
zotica, vil”, non tanto la città natale quanto forse il paese di Tricarico dove seguì il marito.
Che non era un giovane patriota, animato da passione liberale, come il marito di Giulia
Calame, chiamata “la gonfaloniera del Friuli”, bensì un individuo umorale e rozzo, incapace di condivisione spirituale.
Non ebbe, infine, morte eroica: la sua incerta salute, causa della sospensione dall’insegnamento e prematuro licenziamento, la portò a morire nel 1884 a Tricarico, ancor giovane,
in sostanziale oscurità.
Le due città di un qualche rilievo in Lucania erano Potenza e Matera.
A Potenza, nel 1809 era stato fondato il Liceo Classico “Q.O.Flacco”, nello spirito di quei
provvedimenti con cui Giuseppe Bonaparte aveva istituito i collegi reali “diretti all’educazione e all’istruzione della gioventù nelle scienze e nelle arti liberali”. 4
A Matera, nel liceo Duni, ebbe l’incarico di docente Giovanni Pascoli: con grande disagio
per l’arretratezza dell’ambiente, che definiva senz’altro “paese di trogloditi” (forse per gli
abituri dei Sassi?) e “Affrica”, svolse il suo insegnamento proprio durante gli ultimi anni
di vita della Battista; ma non sono testimoniati contatti epistolari di Laura con il non ancora affermato poeta che, d’altronde, scriveva solo alle sorelle o all’amico maestro Carducci.
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Raffaele Battista, siciliano di origine, carbonaro in gioventù, segretario del Circolo Costituzionale lucano nel 1848, insegnava latino e greco nel Liceo Classico di Potenza.
Ricordando la propria infanzia e formazione, Laura ha parole di commovente gratitudine
per la famiglia di origine.5
Raffaele, letterato e poeta egli stesso, fu anche padre affettuoso e davvero lungimirante
(considerati i tempi), che instillò nella figlia l’amore della cultura: e Laura fu così una fanciulla - e quindi una donna - che prima lesse e poi scrisse, compiendo quel salto di qualità
che, da fruitori di scrittura, consente di divenirne artefici.
Ma anche la madre, la potentina Caterina Atella, ebbe - nonostante la sua prematura scomparsa - un profondo influsso su Laura: apparteneva ad una famiglia di tradizioni liberali
(aveva avuto un antenato coinvolto nella Rivoluzione Partenopea del 1799) e poteva vantare frequentazioni illuminate.
È interessante, a questo proposito, notare che in Lucania molte furono le donne appartenenti alle case borghesi più in vista (le famiglie Ferri, Petruccelli, Pomarici ed altre
ancora) che, oltre a portare una sostanziosa dote patrimoniale, quando andavano spose,
“trasmettevano quei valori intellettuali liberali che avevano recepito tra le mura domestiche dove abitavano da nubili”. 6
Ci fu, quindi, nel caso dei genitori della Battista, una fortunata combinazione di orientamenti affini: sensibilità per la cultura, interesse per la realtà politico-sociale e conseguente
impegno civile.
Giovanni Caserta 7,attento studioso della Battista, rileva una serie di affinità con la vicenda
umana di Giacomo Leopardi: per esempio la difettosa conformazione fisica, con lo sgradevole aspetto ad essa connesso ed anche la pratica di uno studio “matto e disperatissimo”.
Certo Laura, rimasta orfana di madre troppo presto, trovò negli studi una fonte di consolazione del dolore patito, oltre che una strada infallibile per guadagnarsi l’amore e la stima
del padre professore, che in lei vedeva la sua migliore e più promettente allieva.
Nella vita del Leopardi come in quella di Laura senza dubbio campeggia la figura di un
padre, ma sarebbe interessante rilevare una non trascurabile differenza: mentre Monaldo,
che avviò Giacomo fin da piccolo a studi di vasto respiro e soprattutto lo investì della
propria ambizione, è rimasto comunque il prototipo dell’ottuso e bigotto conservatore papalino, Raffaele Battista educò a spiriti liberali la figlia e l’avviò, ancora bambina, a studi
letterari approfonditi secondo la tradizione classica ma che si allargarono pure, con una
nota di straordinaria modernità, all’ area inglese, francese, tedesca contemporanee. E la
conoscenza diretta di queste lingue da parte della poetessa è documentata dalle traduzioni
di poeti stranieri - più e meno conosciuti - presenti nei “Canti”.
Laura Battista concilia, dunque, un’ eredità classica consapevolmente posseduta sul piano
dell’ intelaiatura formale con un’intensa attenzione al Romanticismo, che le consente tanto di auscultare il proprio io quanto concepire la passione per la patria e il sogno del suo
riscatto, che costituiscono in lei una vena di ispirazione prorompente.
Un sonetto che rientra nel filone dell’autoritratto, così “frequentato” da Alfieri, Foscolo,
Manzoni, ce la ritrae quasi tangibilmente, con i tratti somatici correlati strettamente ai
lineamenti psicologici.
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Neri ho gli occhi e vivaci; ampia la fronte,
pallido il viso, e la persona breve.
Sì l’amistà che l’ira in me son pronte
pari all’impulso che il mio cor riceve.
L’odio e l’amor, qual da inesausta fonte
sgorgano ancora dal mio petto: e neve
sarà un giorno il crin; ma pur le impronte
del prisco incendio cancellar non deve.
Odio i vili, i malvagi, gli oppressori:
amo ogni cosa che sia grande e bella,
dal sole ai bimbi, dalle stelle ai fiori...
Ed ogni alma dolente è a me sorella,
ché nel lungo sentier de miei dolori
sol questo appresi,a non fidar che in quella!
Gli occhi fondi, la fronte ampia suggeriscono intelligenza; il pallore del viso traduce una
sofferta pensosità; sulle orme del Foscolo (ricordiamo il “petto ov’odio e amor mai non
s’addorme”) Laura delinea il proprio temperamento appassionato; alla maniera dell’Alfieri dichiara la propria intolleranza di ogni viltà e vizio, pari all’amore per “ogni cosa che sia
grande e bella”; riecheggiando il manzoniano tema della solidarietà e affinità delle anime
nel dolore (si ricordi il dialogo di Anfrido e Adelchi nella tragedia “Adelchi”), riconosce
“ogn’alma dolente a sé sorella”.
Due le notazioni che si potrebbero definire squisitamente femminili: quel delicato rilievo “e neve sarà un giorno sul crin”, che connota la previsione del tempo della maturità
(purtroppo fallace, vista la prematura scomparsa), e l’entusiasmo quasi fanciullesco che
pervade il verso in cui, per evocare le cose belle, la poetessa enumera il sole, i bimbi, le
stelle e i fiori…
Ma Laura non era solo ripiegata su se stessa; aveva una concezione di vita attiva sia nella
dimensione concreta del lavoro - l’insegnamento, sulle orme paterne - sia in quella del
pensiero, poiché aspirava a lasciare nel mondo un’ impronta che andasse ben oltre i limiti
canonici che il costume riservava alla donna: l’essere moglie, madre, in una parola” angelo del focolare”.
La sua esperienza matrimoniale, per altro, fu funestata da ricorrenti incomprensioni con il
marito e morte prematura di tutti i figli tranne uno: e questa sua travagliata vita la dipinse
con note dolenti nella implorazione rivolta, nel Gennaio 1882, due anni prima di morire,
al Ministro dell’Istruzione Guido Bacci perché le concedesse un posto:
“[…]E fui sposa d’un tal che non comprese
una, sol una di mie grandi idee:
e son sepolta nel più vil paese
ove Italia e virtù scordar si dee!
E son povera ancor! Ché a me fu tolto
il frugal desco del paterno tetto:
e piango indarno, e a Dio dimando ascolto
che provveda ai bei dì d’un figlioletto.
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Deh! m’odi o signor mio!Tu sai ch’io bramo
picciol premio ai miei studi e al lungo affanno;
fa ch’io risorga: e come augello da ramo
me lietamente ricantar vedranno.”
Nell’ambito della produzione di Laura, la parte radicata nell’esperienza soggettiva del dolore e della morte è certamente la più autentica, ma la più funzionale al discorso che qui si
conduce è quella pervasa dalla passione politica e civile: pur connotandosi essenzialmente
come poesia d’occasione e spesso non sfuggendo ad un’agitata retorica, denota tuttavia un
ingenuo quanto caldo entusiasmo per l’unificazione dell’Italia, un amore autentico per una
patria che costa lacrime e sangue.
Da molti si è notato come, in questo centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia,
la figura del conte di Cavour sia rimasta, rispetto ad altri artefici del Risorgimento, piuttosto in ombra.
Invece Laura effonde la propria commozione per la scomparsa dell’alto personaggio (giugno 1861), ponendone in risalto l’elevata statura politica e congiungendone la figura - in
urto con la storia, ma in ossequio al suo mito risorgimentale - con quella di Garibaldi:
Oh tu passasti,
giovine Illustre, e fredda
giace per sempre quella nobil testa
che tanto eccelso racchiudea tesoro
d’opre venture, e tanto onor di forte
vastità di pensiero! E muto è il labbro
da cui calda sgorgava,
propugnatrice eterna de la sacra
itala indipendenza,
la robusta eloquenza! E per te indarno
piange Colui, che l’ira
affrontando dei Regi e la vendetta,
guerrier Scettrato, liberò dai ceppi
di sì diri tiranni
questa famosa Italia!
Ove n’andasti? - Immoto
sul solitario scoglio ove si eleva
la nobile Caprera
siede pallido e muto
Garibaldi, qual uom cui pugna interna
sciagura il core, e fissi
gl’impazienti sguardi
de’ mesti occhi gagliardi
su l’onda azzurra del sopposto mare,
china la fronte e piange! - Oh vieni! Tergi
quelle pupille care!
Squassa il sonno di morte, e riconforta
quest’alma Italia ch’è per voi risorta.
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Questa lirica si presta a molte censure e ridimensionamenti formali, ma appare miracolosa
se si pensa che la componeva una ragazza sedicenne. Non mette conto che il Cavour, morto in età matura, sia chiamato “Giovine illustre” e che proprio Garibaldi - spesso trovatosi
in forte contrasto con il conte piemontese - sia presentato con la fronte china e in lacrime
per la sua morte: oltre la potenza evidente di immagini (“immoto / sul solitario scoglio
ove si eleva / la nobile Caprera/ siede pallido e muto…”, o di alcune intense espressioni
(“squassa il sonno di morte”), colpisce la sensibilità di visione per la quale, negli ultimi
versi, ”…e riconforta/ quest’alma Italia ch’è per voi risorta”, i due Grandi sono riuniti
idealmente nella “missione” che ha segnato le loro vite.
Nei confronti di Garibaldi Laura ha sempre nutrito un’ammirazione fervente, per la straordinaria indomabile forza d’animo che intuisce nel personaggio: né la esalta solo il momento in cui rifulge la sua gloria,quanto invece la commuove e sconvolge il momento della
sventura e della solitudine.
Ne è un esempio la lirica intitolata “Lettera al generale Giuseppe Garibaldi”, nella quale
rivive l’episodio del ferimento dell’eroe in Aspromonte; ma ancor più impressionano la
passione - e lo spirito unitario - con cui, nel Giugno 1862, due sonetti riuniti sotto la dicitura “ Per l’album di dolore sulla tomba del Generale Giuseppe Garibaldi” celebrano la
scomparsa dell’Eroe: fra questi molto importante il secondo, perché nella prima terzina
Laura, donna, indica alle donne l’acquisizione di una consapevolezza politica come unica
loro via di riscatto:
Da Te si spande un’immortal favilla
che sarà faro dell’età ventura,
e come il sol che solitario brilla
l’urna a Caprera splenderà secura.
In ogni volto ardir novo sfavilla
sol che a Te pensi, e d’ogni bassa cura
scevre, per Te saran Mosco e Camilla
Le donne tutte di gentil natura.
Oh, venga alfine il dì che dall’impuro
Levita si discosti alteramente
l’itala donna, e virilmente pensi.
Questi i tuoi sogni più diletti furo,
questi gli alti pensier che avremo in mente,
questi del core i più sublimi sensi!
Nell’isolamento geografico che caratterizzò la sua vita prima e dopo il matrimonio, risultò
per lei fondamentale la corrispondenza epistolare con poeti oggi negletti – Aleardi, Graf,
lo stesso Carducci – ma che allora costituivano per la cultura un punto di riferimento
essenziale. Ad essi inviava le proprie poesie, ricevendone spesso valutazioni e incoraggiamenti lusinghieri; ella d’altronde aveva assorbito i tratti essenziali della loro poetica
nella forma e nel contenuto, come traspare da alcuni componimenti il cui anticlericalismo
riconduce ad un certo Carducci.
Sono del 1882 due “Sonetti improvvisi” intitolati “Il Papa-Re”, in cui Laura si rivolge con
impeto retorico ai propri lettori e apostrofa direttamente Pio IX, con toni violenti e ironia
sferzante che la apparentano a Dante. Uno di essi è il seguente:
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“Oh, lo mirate il successor di Piero,
Piero, quell’uom che nude avea le piante,
quel poveretto pescator, che il vero
sentendo in cor, spargealo a sé dinnante
sol con l’opre d’amore e col pensiero,
fido seguace ognor de l’orme sante
che il Nazaren stampava... Ahi, vitupèro,
che facesti, o Pontefice, di tante
glorie immortali? All’umil povertade
successe il fasto, la mondana boria,
e il trono cinto dalle stranie spade!
Così lo sprezzo oggi ti opprime... Storia
esecranda vergasti, e libertade
cancellarne dovrà fin la memoria.
Profondo e sconcertante il contrasto, su cui sapientemente si regge tutto il sonetto, fra la
povertà ed umiltà del pescatore di anime Pietro e la boria fastosa di Pio IX, a cui però si rivolge anche un rimprovero che nasce da una lucida coscienza politica: l’aver fatto ricorso
ad armi straniere (stranie spade) per puntellare un potere ormai vacillante.
Del secondo sonetto, qui non riportato, appare di particolare rilevanza l’ultima terzina,
che richiama alla mente il famoso versetto di Giovanni “E gli uomini vollero piuttosto le
tenebre che la luce”, con amara antifrasi posto dal Leopardi in apertura a “La Ginestra”;
commentando, infatti, la caduta del potere papale “nella polve”, la poetessa afferma:
“E come ancor sul caosse uscita,
la Ragione dell’uom di sfera in sfera
si confonde alla Mente indefinita”.
È chiaro che la religione, ormai superstiziosa e degenere, le appare simile al caos su cui, finalmente, si erge vittoriosa la Ragione, grazie a cui l’umanità - quasi ripercorrendo all’opposto l’itinerario della caduta - si èleva fino alla Mente divina e ad essa si ricongiunge.
È interessante vedere come, anche in una zona periferica come la Lucania, una giovane
donna avesse la capacità e la forza intellettuale di formulare concetti che sicuramente
avrebbe espresso per formare le nuove generazioni, se avesse potuto svolgere la sua professione d’insegnante.
Anche per questo motivo è bene concludere il discorso su Laura Battista non citando
un’altra poesia, quanto, invece, ancora una volta ricorrendo ad uno stralcio dal suo discorso di apertura dell’anno scolastico 1883, tenuto alla Scuola Normale Femminile Superiore
di Camerino,8 dove cominciò ad insegnare.
È il passo in cui Laura intende “recuperare” alla cultura la donna in quanto tale e si rivela
un’antesignana della rivendicazione dei diritti femminili, sia pure ancora imbozzolati in
alcune convenzioni proprie del tempo:
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“E veramente la donna, o vilipesa o trascurata presso le nazioni rozze di qualsivoglia età,
non poteva più oltre, nello svolgimento intellettuale e morale dei popoli rimanersi addietro,
quasi non fosse anch’essa creatura di Dio, destinata compagna e coadiutrice dell’uomo,
e capace di aspirare al Vero, al Bello e al Grande. Dirò meglio, quasi non foss’ella madre
dell’uomo, e per conseguenza altrice dei popoli. Se è vero, che i veri germi dell’uomo futuro stanno nelle prime impressioni dell’infanzia, e che tutti siamo d’una stoffa nella quale
la prima piega non scompare mai più, datemi la donna egregia, ed avrete l’uomo degno di
stima; datemi la donna capace d’innalzarsi ad elevati pensieri, a sentimenti nobili e generosi, e avrete l’Eroe. E qui senza noverarvi antiche eroine di tutti i luoghi e della Grecia
in particolare, basterà ch’io vi ricordi il nome venerando di una martire di cui palpitano
ancora le ceneri, Adelaide Bono Cairoli, di cui serbo con venerazione un opuscolo, scritto
da Giacomo Oddo, che trattava dei suoi figli, indirizzato a me di sua mano con affettuosissime e molto lusinghiere parole[…] Io non presumo che le donne in generale debbano,
slanciandosi fuori della modesta e oscura cerchia delle mura domestiche e dei domestici
doveri, agognare a meta sublime, a magistrature o a militari comandi; poiché la natura
ci ha fatte più idonee alla pratica delle virtù proprie del sesso debole, e spiccatamente ad
essere pazienti ed amorevoli educatrici. Ma perciò appunto non cesserò di ripetere col
divino Leopardi: Donne, da voi non poco la Patria aspetta! [...] A senno vostro il saggio
e il forte adopra e pensa.” 9
LE BRIGANTESSE: PRESENZE INQUIETANTI DI UNA “ STORIA NEGATA”?
Laura Battista è rappresentativa del campo, prevalentemente borghese, dell’ adesione al
processo risorgimentale; anche il campo della reazione, del lealismo legittimista, trovò sostenitrici nel ceto borghese lucano ( si potrebbe citare Isabella Centomani, che, coinvolta
nei moti legittimisti dell’ottobre 1861 a Cancellara, subì una dura condanna), ma certo si
avvalse maggiormente dell’appoggio della classe contadina.
In Lucania, come in tutto il centro-sud, la condizione di tale classe non era destinata a
migliorare con l’unità d’Italia, come dimostra - fra le altre ricerche storiche - quella sul
problema della tratta minorile (in direzione di nazioni europee come Francia e Inghilterra,
ma anche del Sudamerica).
Michele Strazza, incaricato all’Università degli Studi di Potenza, esperto di problematiche
politiche economiche e sociali in particolare del Ventennio fascista, ma anche del periodo
post-unitario, ha indagato il triste fenomeno di minori semi-venduti da genitori o parenti,
di cui molto spesso si perdevano le tracce una volta finito il periodo di ingaggio pattuito.
L’analisi ha considerato un numero davvero elevato di paesi lucani: fra gli altri, Viggiano,
Marsicovetere, Corleto Perticara, Laurenzana, Tramutola, Calvello, Picerno.
È, questo, un fenomeno che serve a ritrarre le condizioni d’ indigenza, ignoranza e abbandono sociale in cui versavano le masse contadine; è un elemento in più per comprendere
quale humus ci fosse, nel decennio 1860-70, per ribellioni sia spontanee sia fomentate e
“cavalcate” dalla reazione legittimista borbonica.
Il brigantaggio fu una manifestazione violenta e caotica del ribellismo contadino, che non
riuscì trasformarsi in una rivoluzione agraria. L’impostazione della ricerca storica su di
esso ( e, nel suo ambito, sulla particolarità del coinvolgimento attivo di donne) ha segnato
una decisa inversione di rotta dopo gli anni Sessanta del Novecento: la visione tradizionale, che postulava tout court l’equivalenza fra briganti e delinquenti e considerava le
brigantesse esclusivamente come le loro “drude”, ha ceduto il passo ad una interpretazione
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più attenta, grazie ad un incremento documentario proveniente da atti di intendenze, governatorati e prefetture, uffici di polizia e tribunali.
In particolare Valentino Romano, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno e appassionato di storia del Meridione, ha cercato di riscrivere questa storia. Convinto che la
versione ufficiale dell’annessione del Sud ( che egli preferirebbe chiamare conquista, invasione e occupazione) sia la maschera di una realtà dei fatti dissimulata e proibita, ha
compulsato archivi parlamentari del Senato e del Regno, archivi dei Comuni, delle Curie
Diocesane, quelli giudiziari dei Tribunali e delle Preture e ha dimostrato che la presenza
femminile nel brigantaggio fu numericamente più ampia di quanto attestato dalla storia
ufficiale, ma soprattutto più qualificata quanto ad autonomia e intraprendenza.
Nel ceto contadino e bracciantile, a cui prevalentemente le brigantesse appartennero (se
si eccettuano i casi di donne di ceto possidente sequestrate e poi legatesi ai propri sequestratori), la dura legge del lavoro creava una sorta di parità dei sessi: la condivisione del
lavoro dei campi, della “fatica”quotidiana - diciamo l’ambito della vita materiale rispetto
a quello dello spirito -, è stata una costante nell’esistenza delle donne dei ceti umili: basti
ricordare la novella verghiana “Pane nero” che, nello spirito del verismo incupito delle
“Rusticane ”rispetto a “Vita dei campi”, rappresenta l’orizzonte basso e senza speranza
di una donna (Nena, la “Rossa”), sostanzialmente una bestia da lavoro e da riproduzione,
parificata all’uomo proprio dall’ indigenza della condizione di vita contadina.
Per avvicinarsi alla realtà del brigantaggio torna utile anche la citazione di un’altra novella, inclusa nella raccolta“Vita dei campi”, intitolata “L’amante di Gramigna”: si deve tuttavia precisare che essa parte da un fatto di cronaca e lo elabora poi sul filo della suggestione
popolare, senza assurgere a reale sostanza storica.
L’Italia di allora, specialmente quella meridionale, - scrive Giordano Bruno Guerri 10 - “era
coperta di “boschi, boschi e boschi, quali difficilmente oggi possiamo immaginare. Grandi
come province, il loro intrico di vegetazione allo stato selvatico ne faceva un altro mondo,
in cui i soldati penetravano - raramente - come in uno spazio ignoto e invincibile”.
In questo scenario si muovevano i briganti e le loro donne, pressoché imprendibili: e che
pure - o per errori o per tradimenti - furono prima o poi presi dalle truppe regolari, da essi
indicati come “i piemontesi”: l’esercito di liberazione si era trasformato in esercito di
occupazione.
Prima di parlare delle brigantesse, dalla vita avventurosa e perfino tragica, si impone un’
osservazione: esse sono state vittime di una sorta di duplice “congiura del silenzio”.
Sul versante della storia ufficiale, sia la ponderosa e analitica Relazione Massari, (1863)
sia il saggio storico di Francesco Saverio Nitti intitolato “Eroi e briganti”(1899), forniscono del brigantaggio una radiografia acuta,denunciano i problemi sociali di miseria ed
arretratezza del Mezzogiorno, ma non parlano mai di brigantesse.
Sul versante filo-borbonico, in una specie di diario intitolato “La mia vita fra i briganti ”,
a presenze femminili non accenna (eccetto una scarna nota informativa di morte per fucilazione di una certa Maria Teresa di Genoa, come ritorsione per la presenza di un suo fratello nella banda ) quel José Borjès, definito dagli odierni neoborbonici “eccelso e vilipeso
personaggio”, che, già comandante delle forze carliste in Spagna nel 1840, fu investito
del compito di collegarsi con le bande più organizzate e rinnovare i successi riportati dal
Cardinale Fabrizio Ruffo nei primi anni del secolo.
Non altrimenti si rileva sul versante brigantesco stesso, in un testo che costituisce una
testimonianza originale, l’autobiografia del rionerese Carmine Donatelli detto Crocco
(1830-1905), intitolata “Come divenni brigante “e pubblicata a Melfi nel 1903. Fu scritta,
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in un italiano neppure troppo disprezzabile, nel carcere di Portoferraio dove fu detenuto a
vita dopo la commutazione della pena di morte emessa dal Tribunale di Potenza nel 1874.
Crocco è scrittore molto colorito, si lancia in epiche ricostruzioni di battaglie, ma registra
la presenza delle donne solo una volta e di sfuggita quando, descrivendo i luoghi di accampamento dei briganti scrive “[…] Sul fronte, ai lati, al tergo, tutt’all’in giro della posizione,
vedette avanzate vegliano attente, mentre le spie segrete stanno presso le truppe. I capi
riposano in luogo appartato sotto capanne costruite con fronde d’alberi con terra e paglia
sopra giacigli abbastanza soffici, accompagnati talvolta dalle loro amanti.” 11 Anche Crocco ebbe numerose amanti, ma nessuna ha lasciato traccia nella sua autobiografia.
Per lui le uniche donne importanti sembrano essere la sorella Rosina (per difendere il cui
onore aveva commesso il suo primo delitto) e la madre, come si evince da due passi indipendenti:
della giovanissima sorella dice:“Io ero felice e contento e più di me la mia sorella Rosina
che da piccola massaia mi teneva la casa in ordine perfetto.” 12
Della madre serba un ricordo struggente, se racconta: “Sei ore dopo quel comandante [della Guardia Nazionale del villaggio di Conza] era avvilito ai miei piedi implorando pietà
per la vecchia madre che sarebbe morta di dolore, ed io pensando a mia madre, gli lasciai
salva la vita”]. 13
Nell’ottica del maschio, dunque, sia egli marito o compagno –, se al di fuori della propria
famiglia di origine, le donne sono trascurabili, sono res.
L’autobiografia di Crocco, colorita quanto si vuole, si può, tuttavia, giudicare esemplare
per molti aspetti, ma soprattutto perché consente di evincere il carattere di rivalsa sociale
sotteso al brigantaggio.
Nelle pagine è continuamente riscontrabile l’odio verso una classe di possidenti ottusi e
arroganti o di nobili che, per la prepotenza e il disprezzo verso gli “umili”, paiono veri
eredi del manzoniano don Rodrigo ma che pure, nell’ottica di una possibile restaurazione
dei Borboni, non esitarono in molti casi ad affidarsi al brigantaggio contadino per difendere i propri interessi...
Dalla lettura globale si ritrae l’impressione che, si trattasse del regime borbonico o della
transitoria amministrazione garibaldina - si ricordi la magistrale novella verghiana “La libertà”- o del nascente regime dell’Italia unita, i contadini furono o illusi o repressi, sempre
sostanzialmente “usati”.
Nell’agro apulo-lucano, quello che direttamente ci interessa - come in quello campano
e calabro - si scatenarono bande di contadini che si erano trovati di fronte ad una scelta
obbligata fra darsi alla macchia o emigrare; molti di loro avevano carichi pendenti con la
legge, ma molti approdarono al brigantaggio essendo onesti e incensurati.
Il comportamento aggressivo e distruttivo di quei centri abitati verso cui i briganti si dirigevano per “riconquistarli alla causa borbonica” era a metà fra la delinquenza e l’atto
mirato: infatti devastavano i municipi, incendiavano gli uffici del catasto per distruggere
quelle che a loro apparivano gli emblemi della sopraffazione, le mappe catastali. Le case
dei privati depredate erano generalmente quelle dei “galantuomini”, che i contadini vedevano come i nuovi furbi e avidi profittatori delle terre demaniali (cfr. Crocco, “Come
divenni brigante” pag. 64, ma anche pag. 73). In prima fila, e spesso violente più degli
uomini, c’erano le brigantesse.
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Le donne sono state presenti sia nei moti risorgimentali sia in quelli, diciamo così, antirisorgimentali: ma dalla storia hanno ricevuto diversa valutazione.
Infatti le donne che, in vesti maschili, combatterono fra i garibaldini furono rispettate e
ammirate: dal testo, di recente pubblicazione, “Donne del Risorgimento” (di autrici varie)
emergono figure come quella di Giuseppa Bolognara Calcagno, detta Peppa la Cannoniera, anima della rivolta filo garibaldina a Catania, o la veneta Antonia Masanello, detta “la
Masenella”, che nascondeva i biondi capelli nel berretto celando la sua femminilità nella
camicia rossa dei Mille e morì a ventinove anni, non in battaglia ma per tisi, probabilmente accelerata nel suo decorso dagli stenti e dai rischi corsi. Sul “Daily True Delta”di
New Orleans, il 10 agosto 1862, comparve uno scritto intitolato”The Story of an Italian
Heroine”, di cui un passaggio è riportato nel microsaggio di Simona Tagliavento dedicato
ad Antonia: “Morì umilmente come aveva vissuto nella casa dove aveva lottato fino all’ultimo anno della sua esistenza. Le armi e la camicia rossa garibaldina furono poste sulla sua
bara insieme alle corone di fiori.”
Anche le donne che affiancarono i briganti mostrarono pari audacia nel combattere o nel
mantenere contatti fra le bande, pari capacità di assistenza dei feriti: ma nessuna di esse
ebbe, se non un riconoscimento (d’altronde impossibile), almeno un compianto. Accomunate per lo più sotto la definizione di “drude dei briganti”, hanno lasciato tracce evanescenti sotto il profilo storico: la documentazione che le riguarda è precaria, tanto che
i nomi stessi non ricorrono con esattezza e la loro trascrizione grafica non è concorde,
mentre si notano incongruenze nella ricostruzione delle loro gesta o coincidenze e sovrapposizioni di eventi biografici.
Le testimonianze narrative, costruite sulla base di tradizioni orali, mostrano inevitabilmente deformazioni epiche; tuttavia rappresentano l’altra storia, quella della parte perdente che, alla fine, andrebbe identificata non tanto o non solo nei Borboni, quanto invece
nella gente semplice, la massa rurale: briganti o brigantesse, erano individui che non avevano molto da perdere, si giocavano il tutto per tutto e, inoltre, avevano capito di dover
aggiungere ai nemici di sempre (i “galantuomini” locali) gli esponenti dell’industrialismo
settentrionale (per usare un linguaggio salveminiano).
La Calabria e la Campania, nonché il basso Lazio, si prestano ad una rassegna di figure
femminili di grande impatto epico-tragico: ad esempio Maria Oliverio (compagna di Pietro Monaco) detta Ciccilla in onore di Franceschiello, o la casertana Michelina De Cesare,
(o Di Cesare, compagna di Francesco Guerra), che guidarono bande accanto o in sostituzione del loro uomo.
La prima ispirò uno scrittore famoso, Alessandro Dumas (padre) che, in un racconto, ricostruì la vicenda di “Ciccilla” focalizzando correttamente il brigantaggio come fenomeno
socio-politico, ma riuscendo a rendere anche il fascino oscuro di una donna che l’amore possessivo per il proprio uomo aveva spinto ad uccidere con trenta colpi di scure la
sorella,sotto gli occhi dei figli bambini, (atmosfere che si direbbero da tragedia greca, se
non presentassero tinte da grandguignol) perché era stata oggetto di attenzione del marito,
con il quale poi condivise la latitanza e il resto dell’esistenza da vera brigantessa,sempre
in abiti maschili.
La seconda ha ispirato l’estro del cantautore Edoardo Bennato, che ne “Il sorriso di Michela”, più che delineare una figura storica ha creato una figura mitica, indomita rivendicatrice di libertà per le terre del sud.
Michelina De Cesare ebbe per la propria morte una coreografia da brigante in piena regola:
il suo cadavere, denudato, esposto agli sguardi di tutti per monito, fu fotografato: e l’im-
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magine del suo corpo bianco inerme, di tragica eloquenza, è in contrasto con l’immagine
di lei più conosciuta, quella in cui è ritratta nell’abbigliamento tradizionale delle donne
paesane di allora, con le ciocie, seduta, con un pugnale che occhieggia alla cintola e un
braccio appoggiato al fidato fucile. C’è da precisare, però, che il trattamento riservato
generalmente alle brigantesse era diverso da quello che toccava ai briganti: mentre questi
ultimi venivano fucilati o sul posto (e fotografati accanto al vincitore che li aveva snidati
braccati e uccisi) oppure dopo rapido processo presso i Tribunali speciali, esse difficilmente ricevevano una condanna capitale. Più spesso erano condannate ad una pena di quindici
o venti anni di carcere, talvolta poi ridotta.
Molte di queste donne furono capaci di azioni virili e seppero affrontare la morte, talvolta
la scelsero volontariamente, come la campana Maria Capitanio che, preso il posto del
suo uomo, Agostino Luongo, a suo nome e per vendicarne la morte guidò con incredibile
audacia e crudeltà la banda fino a quando, catturata e incarcerata, si suicidò prima del
processo ingerendo del vetro, nonostante la sua facoltosa famiglia di origine tentasse di
salvarla versando una sostanziosa cauzione.
Non sempre l’esito di una latitanza o di un fiancheggiamento fu cupo: vi fu anche chi riuscì a riprendere in mano le fila della sua vita.
Fu il caso della lucana Maria Rosa Marinelli, nata a Marsicovetere, che finì nelle mani di
Angelantonio Masini, ne divenne l’amante e fu utilizzata come vivandiera e portaordini.
Quando, morto il brigante in uno scontro a fuoco nel 1864, si consegnò, ebbe una condanna mite: forse perché il suo coinvolgimento nelle azioni di guerriglia non era stato particolarmente cruento e perché aveva,appunto, scelto di costituirsi. Scontata la pena, tornò a
vivere nel paese d’origine, pienamente riaccolta dalla comunità.
La medesima cosa avvenne a Maria Lucia Dinella, rapita da Ninco-Nanco e sposata - in un
pagliaio, con rito rusticano - dal fratello Francescantonio. Dopo un’attiva partecipazione
armata alle azioni della banda e la cattura in un conflitto a fuoco, pagò il suo conto con
dieci anni di detenzione (cinque dei quali condonati) e, tornata nel suo paese d’origine,
Avigliano, sposò un contadino del luogo ed ebbe dei figli.
Sono un dato di fatto, d’altronde, la simpatia e il favore popolare che accompagnavano i
briganti, nonostante la violenza delle loro azioni: spiegazione primaria è che la gente comune, umile, vedeva in loro degli uguali costretti ad essere dei diversi.
Una brigantessa lucana, morta a soli ventuno anni, è Serafina Ciminelli. Nata a Francavilla
sul Sinni, apparteneva ad una famiglia di simpatie borboniche, che aveva legato le sue
sorti alla banda di Giuseppe Antonio Franco, “sanguinario e gigantesco capobanda” che
operava fra le asperità del Pollino e comunque nel territorio di Lagonegro (la definizione
è di Maurizio Restivo, autore di “ Ritratti di brigantesse - Il dramma della disperazione”,
Piero Lacaita ed. 1997).
Disponiamo di un’immagine della sorella maggiore Teresa, anch’ella brigantessa, che ce
la rappresenta irrigidita nella posa guardinga, con una fisionomia che sembra scolpita
nella roccia: invece non abbiamo alcuna foto di Serafina e forse anche per questo si può
essere più liberi - sulla base di alcuni particolari noti della sua vita - di ricrearne la figura,
l’essenza.
La ritroviamo come personaggio, tessitrice di memorie, ne “Le memorie di una brigantessa” di Vincenzo Labanca, dalla cui fervida fantasia ricostruttiva sono nati e si sono
moltiplicati numerosi romanzi sui briganti; dal testo in questione è stata ricavata anche una
drammatizzazione sotto forma di monologo, con accompagnamento musicale, proposta
durante la stagione teatrale 2011 nella lucana Grumentum.
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L’autore immagina che Zarafina, dopo vent’anni trascorsi nella prigione di Potenza in cui
è stata rinchiusa, riviva il proprio passato e, in procinto di essere liberata, si apra al futuro
nel nome della ricerca del bimbo nato prima della sua cattura, ma a cui ha dovuto rinunciare e che non ha mai potuto rivedere, una volta in carcere.
Il romanzo, invero, prescinde da quello che fu il reale compimento del destino terreno di
Serafina Ciminelli che, profondamente suggestionata dal Franco, lo aveva seguito senza
esitazioni nelle sue scorribande e nelle sue fughe. A Lagonegro, dove si erano rifugiati nel
tentativo di procurarsi un lasciapassare per l’espatrio, furono traditi dal loro favoreggiatore, bloccati e tradotti a Potenza. Sulla collina di Montereale, oggi parco pubblico della città, il Franco venne sottoposto ad esecuzione capitale, mentre la sua compagna,ventenne,
subì la condanna al carcere,trovando in esso, neppure un anno dopo, la morte per setticemia. Tale fine non era rara per le recluse che spesso, durante la detenzione, subivano abusi
anche sessuali.
Per lungo tempo le brigantesse vennero chiamate drude, ma in realtà alcune erano mogli:
di Rocco Chirichigno detto Coppolone, di qualche anno più giovane di lei, fu moglie
Arcangela Cotugno, nativa di Montescaglioso, appartenente ad una famiglia che non era
stata insensibile al fascino dell’impresa garibaldina ma ben presto, per le consuete ragioni
legate alla terra, ne era rimasta delusa. Arcangela trovò naturale seguire il marito e condividerne la scelta drammatica del brigantaggio di marca filo-borbonica.
In realtà la scelta delle brigantesse fu raramente determinata da autentiche ragioni politiche. Essa fu, sostanzialmente, un’ opportunità da loro colta per sovvertire il destino di
sottomissione e obbedienza alle regole da sempre riservato alle donne e per vivere i loro
affetti, anche la maternità, in modo assolutamente anomalo ma appassionatamente libero
e istintivo.
L’essere amanti e l’essere madri apparivano, a quei tempi, come due realtà inconciliabili
in una donna, tanto che si ipotizzò che molte brigantesse intendessero “usare” la loro maternità ai fini di ottenere una pena più mite in un eventuale processo: la maternità, invece,
in alcune brigantesse fu un sentimento forte e addirittura ferino, come dimostra la storia
di Niccolina Licciardi.
Amante del calabrese Francesco Mozzato soprannominato Bizzarro, ella potrebbe essere
il rovesciamento di Mariagrazia, personaggio protagonista di una novella pirandelliana
poi divenuta atto unico teatrale, (“L’altro figlio”), che conserva nel proprio vissuto un
terribile segreto, una maternità frutto dello stupro subito da un brigante, mai accettata nel
profondo e a cui, ancora dopo decenni, “il sangue si ribella”. La brigantessa, invece, vive
una tragedia di marca opposta: con un bimbo nato da poco, braccata dai “piemontesi” per
le montagne in compagnia del suo uomo, vede il compagno uccidere con le sue mani,
sbattendolo contro la roccia, il figlioletto che, con il suo pianto continuo, metteva a rischio
la riuscita della fuga.
Apparentemente insensibile, nell’immediato, a quanto era accaduto, Niccolina covò invece una terribile vendetta: seppellito il bimbo per sottrarre il cadaverino allo scempio
delle bestie selvatiche, fece saltare le cervella al Bizzarro durante il sonno, spiccò la testa
dal busto, la ravvolse in un panno (quanti ricordi letterari o anche iconografici sorgono da
questi cruenti particolari…) e la consegnò alle forze dell’ordine. Di lei non si seppe, poi,
più nulla.
Il termine brigante - sinonimo di fuori legge, bandito - indica sostanzialmente il delinquente; ma delinquere, nel caso della donna, ha una doppia valenza: oltre che condividere la
sorte del proprio uomo bandito, anche rompere la segregazione dei ruoli, allontanarsi dalla
consuetudine delle attese etiche legate alla condizione femminile.
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In “Donne delinquenti”, l’antropologa Michela Zucca avanza un interessante rilievo circa
l’educazione delle bambine nelle comunità di villaggio, e comunque nelle realtà rurali
isolate: “Le bambine… vengono educate, fin da piccolissime, a sentimenti di solidarietà e
di adesione totale con la comunità di riferimento. L’individualità personale è molto meno
marcata di quanto può essere oggi.” 14
L’autrice rileva che due sono gli atteggiamenti riscontrabili in questo tipo di cultura: il
sentimento di inclusione, se si condividono pienamente le regole del gruppo, e in casi di
emergenza, invece, un sentimento di rivolta e bisogno di una nuova identità. Applicherei
questa riflessione alle brigantesse: l’emergenza fu la crisi politica apertasi con l’Unità, il
brigantaggio l’occasione per una ri-costruzione identitaria.
In effetti, in Lucania come in Puglia o in Terra di lavoro (il Casertano ) e in altre zone, le
donne vissero con i loro uomini una comune sfida di ferocia e determinazione, una scelta
estrema che le gettava in continue peregrinazioni in luoghi impervi, ma anche dava loro
una libertà non facilmente raggiungibile e gestibile da altre donne.
Colpisce, ad esempio, la libertà di costume sessuale che poteva esserci, per le donne, nella
banda in cui operavano: una vera tela di ragno di rapporti legava donne diverse allo stesso
uomo o una stessa donna a più uomini; nella banda di Crocco, che aveva il proprio teatro
d’azione elettivo in Basilicata ma anche sforava in Irpinia e in Puglia, vi fu un intreccio
vischioso - e a volte deleterio - degli interessi, delle passioni e dei rancori di ben tre donne:
Giuseppina Vitale, Maria Giovanna Tito (l’amante ufficiale di Crocco) e Filomena Pennacchio.
È d’obbligo osservare che la riscoperta odierna delle brigantesse,con lo studio delle loro
personalità e gesta, intendendo “risarcirle” di una ipotetica - diciamo pure probabile - ingiustizia storica, rischia però di incorrere in una mitizzazione poco attendibile.
Già inserire il fenomeno del brigantaggio in un’epopea legittimista è operazione delicata;
parlare poi di “brigantesse-partigiane” non sembra accettabile, alla luce proprio di quello
che furono le partigiane nella Resistenza.
La Lucania/Basilicata non può vantare una Resistenza organizzata a livello di quella conosciuta dall’Italia Settentrionale, ma è indubbio che, dopo il ventennale letargo, il bisogno
di partecipazione politica vi nasce proprio nel biennio 1943-45 per poi qualificarsi ulteriormente, anche attraverso attività di partito, nel secondo dopoguerra.15
Il cammino preparatorio di questo “riscatto” vissuto anche dalle donne, comincia da lontano, ma non sembra plausibile possa cominciare dal brigantaggio: le donne di estrazione
contadina vissero, piuttosto, una loro stagione di maturazione politica in occasione della
prima guerra mondiale, del Primo Dopoguerra e del Ventennio. Durante quest’ultimo,
infatti, nonostante molti centri della Lucania venissero scelti come luogo di confino perché l’ignoranza e l’arretratezza li faceva apparire impermeabili ad eventuali fermenti di
opposizione politica, proprio lì si registrarono episodi di ribellismo - nascenti soprattutto
da ragioni economiche - a cui non furono estranee le donne.
Nel brigantaggio non sembra di poter cogliere la forte connotazione etica e il culto della
libertà, che sono stati invece patrimonio della Resistenza: e se, oggi, canzoni, romanzi o
film (cfr. “Li chiamavano briganti”, di P. Squitieri) intravedono e valorizzano nel fosco
contesto del brigantaggio come una luce, il tema della libertà, questo avviene perché i loro
autori proiettano nel passato quell’esigenza di libertà politica e sociale che, come società
civile, abbiamo accolto e nutrito in noi soprattutto per merito della nostra storia recente.
Lo dimostra un passaggio de “Le memorie di una Brigantessa, del già citato V. Labanca16,
uno scritto che mi sembra più intriso delle idealità e delle inquietudini del presente meri-
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dionalismo che non di quelle scaturite da una rigorosa ricostruzione, storicamente attendibile, del fenomeno briganti e brigantesse.
Queste sono alcune delle parole che la fantasia letteraria - interprete infedele, ma suggestiva, della storia - pone sulle labbra del “re dei briganti” Crocco: “...La LIBERTÀ è
un sogno che non deve mai morire perché altrimenti è il popolo che muore! Ed i popoli che per lungo tempo non hanno rispolverato la bandiera della libertà, che ne avranno dimenticato il profumo, quando finalmente la cercheranno, la troveranno marcita!”
Certo sono parole di brigante, la libertà di cui parla è colorata di sangue e violenza, riflette
una scelta di parte in una realtà politico-sociale divisa: ma appunto perciò possono risuonare importanti oggi, in un Paese che può vivere solo se rimane unito e se sa riscoprire il
valore della libertà nella solidarietà.
NOTE
1. Aldo Cazzullo, Viva l’Italia, Mondadori 2011, pag. 46
2. Aldo Cazzullo, op.cit.
3. Laura Battista, Discorso Nell’apertura dell’anno scolastico della Scuola Normale femminile Superiore di Camerino, Dicembre 1883)
4. Maria Teresa Gino, Storia del Liceo Classico “Q.O.Flacco” di Potenza
5. “… dai miei teneri anni fui naturalmente inclinata a conoscere, e mi bastarono pochissime lezioni
elementari, avute in famiglia dai congiunti, per mettermi in grado di superare da me sola ogni ostacolo nel progredire studiando sui libri: né saprei dirvi quanti autori, e in quante materie diverse, abbiano formato oggetto delle mie meditazioni. Ma certo di libri, e di ottimi libri, ero fornita a dovizia,
poiché nacqui, la Dio mercé, figlia ad un non oscuro cultore delle lettere”.
6. Riccardo Riccardi, Le famiglie lucane e il Risorgimento, in “Basilicata Cultura” Pdf
7. Giovanni Caserta, Laura Battista - Seguito dei canti, Giannatelli editore, Matera
8. Riportato in G. Caserta, op.cit. pag.153
9. Nelle nozze della sorella Paolina (di cui alcuni versi isolati sono ben conosciuti, ad es. Virtù viva
sprezziam, lodiamo estinta).
10. Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud, Mondadori 2010, pag. 126
11. Crocco, Come divenni brigante, pag. 85
12. Ibidem, pag. 46
13. Ibidem, pag. 67
14. Michela Zucca, Donne delinquenti, Edizioni Simone 2009, pag. 104
15. Cfr. M.Strazza, Amiche e compagne. Donne e politica in Basilicata nel dopoguerra (1943-50)
C.R.Basilicata, Comm. reg. per la Parità e Pari Opportunità, Finiguerra, Lavello 2008
16. Vincenzo Labanca, Le memorie di una brigantessa, Siris ed. Lagonegro
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BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Donne del Risorgimento, Il Mulino, 2011
J. Borjes: La mia vita fra i briganti, Lacaita, 1964
Giovanni Caserta, Laura Battista - Seguito dei canti, Giannatelli, Matera, 2005
A. Cazzullo,Viva l’Italia, Mondadori, 2011
C. Donatelli Crocco Come divenni brigante Lacaita, 1964
Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud, Mondadori, 2011
F.S. Nitti, Eroi e briganti, Roma-Milano, 1946
T. Pedio, Reazione alla politica piemontese ed origine del brigantaggio in Basilicata (1860-61),
Potenza, 1961.
M. Restivo, Ritratti di brigantesse - Il dramma della disperazione, (Piero Lacaita, 1997)
V. Romano Brigantesse, Controcorrente, 2007
M. Strazza, Lotte contadine nella Lucania del Primo Dopoguerra, in Il Laboratorio, n. 2 /2002
M. Strazza, Amiche e compagne. Donne e politica in Basilicata nel dopoguerra (1943-50)
C. R. Basilicata, Comm. reg. per la Parità e Pari Opportunità, Finiguerra, Lavello, 2008
R. Villari: Il Sud nella storia d’Italia, Laterza, Bari, 1963
M. Zucca, Donne delinquenti, Simone, 2009
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ALDA
PELLEGRINELLI
Laureata in Lettere (Università di Padova) e in Conservazione dei Beni Culturali (Università di
Udine), dal 1992 insegna Storia dell’arte al Liceo “A. Canova” di Treviso.
I suoi interessi di studio privilegiano l’arte medioevale e quella moderna, il rapporto tra arte ed
estetica. Ha pubblicato saggi in volumi di miscellanea, una ricerca sull’Arazzo di Bayeux (2007),
una raccolta di racconti (2006) ed una di poesie (2008).
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ALDA PELLEGRINELLI
Elsa Schiaparelli: un’artista dell’alta moda italiana nel primo ‘900
Q
uello che indossiamo è frutto di una storia, è il risultato di un momento storico; inoltre, in ogni cosa che indossiamo è inclusa una particolare “storia”, quella dei diversi
passaggi dall’idea al prodotto, all’opera finita.
Ha senso allora, quando ci si riferisce ad un certo tipo di moda (non per forza alta moda)
in cui si riconosce chiaro e forte il segno della creatività, parlare di arti minori quando in
realtà l’arte in senso stretto ha lasciato da tempo la strada della tradizione o si è unita al
variegato settore delle arti applicate?
Non è preferibile forse riportare il discorso in un’ottica più ampia nella quale sono compresi tutti i nuovi linguaggi che si sono via via formati e che si mostrano in continua
evoluzione e interazione, in un movimento di reciproco scambio di idee e progettualità,
come è fra l’altro dimostrato dalla presenza di forme dell’arte nelle “forme” della moda e
viceversa.
La moda femminile tra fine Ottocento e inizi Novecento
Se è vero che la moda si è sempre fatta interprete della società, ne ha studiato e assimilato
i cambiamenti a volte in maniera alquanto rapida, facendosene quasi portavoce, il periodo
corrispondente agli inizi del Novecento rappresenta da questo punto di vista uno dei più
emblematici. In particolare, la prima guerra mondiale accelera i cambiamenti da tempo in
atto in diversi aspetti della società e della cultura, è la società stessa a cambiare e con essa
la sua immagine complessiva. Un nuovo stile di vita accompagna l’ascesa di una potente
media borghesia e la crescente emancipazione femminile attua una rottura con il passato1,
imponendo una nuova funzionalità all’abito della donna. Mentre, infatti, la donna lascia
il chiuso delle pareti domestiche per prendere parte con sempre maggiore coinvolgimento
alle attività del mondo esterno, si rende necessario creare per lei un abbigliamento diverso,
più pratico e semplice, lontano dalle fogge rigide e complesse che lo avevano caratterizzato fino ai primi del Novecento.
È un’esigenza di cui prendono atto non soltanto le catene della produzione in serie ma
anche i grandi sarti protagonisti della haute couture ai quali si deve l’indirizzo guida delle
linee e degli stili del tempo, allora come oggi trasmessi al grande pubblico attraverso quegli efficaci mezzi di comunicazione che sono le riviste di moda.
La haute couture parigina, che rappresenta senz’altro l’influenza centrale della moda nella
prima metà del secolo XX, è tra le prime ad utilizzare le immagini e il catalogo di moda
come strumento efficace per mostrare al mondo il lavoro degli stilisti. È così che si diffonde velocemente un modello di donna decisamente diverso rispetto al passato, più disinvolta e dinamica, più vera nelle forme perché liberata dalla schiavitù del corsetto, anche
più sofisticata quando, ad esempio, lascia la veste sportiva per indossare il tailleur da sera.
Questo nuovo modello corrisponde a una bellezza non uniforme, anzi discontinua poiché
si distacca, senza abbandonarla definitivamente, da quella classica, contraddistinta da una
certa uniformità, e al contempo prende a prestito dalla linea maschile diversi inconfondibili clichè, come la giacca dal taglio asciutto, “maschile” appunto, la cravatta, i pantaloni,
il taglio di capelli corto, e così via.
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Tra le figure emergenti del mondo della moda, fa il suo ingresso in questo tempo Elsa
Schiaparelli, la quale, più che entrare, irrompe con una carica incredibile di creatività e
originalità oltre che con la forza della sua eccentricità e stravaganza.
Ed è subito una rivoluzione, non a caso parallela alla Révolution Surréaliste (il primo numero della rivista esce nel 1924), quasi a sancire il binomio moda-arte che sin dagli esordi
segnerà la produzione della stilista, sempre aperta alla sperimentazione soprattutto quando
essa si traduce in un rapporto di collaborazione continuativa e sistematica con alcuni dei
maggiori esponenti delle avanguardie del primo Novecento, Dada, Surrealismo, Futurismo ed Espressionismo.
Il fenomeno, che presto coinvolgerà anche altri stilisti, rappresenta un ulteriore aspetto di
cambiamento e novità nella moda del primo Novecento, in particolare nel periodo tra le
due guerre nel quale essa entra a far parte del campo delle arti figurative, dapprima offrendo al settore dell’arte applicata innumerevoli occasioni di interferenza e poi divenendo
essa stessa una forma d’arte autonoma, se pure considerata minore.
Nel 1927, quando presenta la sua prima collezione “Display n. 1”, la Schiaparelli ha 37
anni, è divorziata con una figlia e vive in un appartamento che funge anche da atelier al 20
di Rue de l’Université, a Parigi (fig.1).
La haute couture parigina è dominata da tre grandi figure di sarti-stilisti: il grande Paul
Poiret, la raffinata Madeleine Vionnet e la più giovane dei tre, la “signorina” Gabrielle
Chanel.
Il primo,2 parigino, anticonformista, ha il grande merito di avere liberato la figura femminile dalla costrizione del corsetto busto. Poiret, poi, riporta il punto vita alla sua posizione
naturale e crea una linea semplice e diritta.
La Vionnet,3 in modo molto discreto, afferma una moderna eleganza, frutto di ricerca ed
esperienza nel taglio e nei drappeggi che costruiscono forme lineari e morbide.
La Chanel,4 alquanto sensibile nei confronti delle problematiche femminili, che vive in
prima persona, e attenta a cogliere il diverso ruolo della donna nella società, dà vita ad uno
stile moderno e semplice nelle linee, ancora oggi sinonimo del suo nome.
Insieme queste tre figure segnano l’abbandono definitivo di tutte le forme e formule che
avevano caratterizzato la moda femminile del vecchio secolo, aprendo l’orizzonte alla
modernità.
Si tratta comunque di un cambiamento non immediato, ma, esattamente come accade per
le avanguardie artistiche, preparato da lontano, preceduto da diverse fasi di passaggio tra
di loro concatenate che riguardano le tecniche, l’uso dei materiali base, la progettazione ed
anche una diversa idea dell’artigianato. Fasi che, a partire grosso modo dalla seconda metà
dell’Ottocento, modificano radicalmente il settore della moda e la produzione dell’abbigliamento in genere e che vale la pena riassumere brevemente.
Nel quadro generale, vanno ricordati i segnali che attorno agli anni Sessanta vengono da
parte di alcuni artisti (i primi gli inglesi William Morris e Edward Burne-Jones) i quali, in
contrapposizione alla massificazione della produzione industriale, esprimono una diversa
valutazione del lavoro artigianale e una visione del tutto diversa del fare artistico che avrà
come diretta conseguenza la fondazione a Londra della “Arts and Crafts Exhibition Society”, terreno ideale delle arti applicate e naturale premessa del successivo Art Nouveau,
con un coinvolgimento complessivo che riguarda, tra l’altro, la produzione tessile e di
conseguenza, quello che qui ci interessa, il campo della moda.
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Altri segnali ancora vale ricordare: l’interazione continua, in questo stesso periodo, di arte,
moda, industria e comunicazione. Attorno alla metà dell’Ottocento, nascono i grandi magazzini (1846 La ménagère; 1852 Au bon marché), che impongono forme, tessuti, colori e
accessori creando un tipo di abbigliamento uniforme per la classe media.
L’abito pronto fa la sua comparsa sempre a Parigi nel 1845, data della prima vendita di
modelli di serie, prodotti in differenti taglie grazie a un complesso sistema di misure graduate e di corpi meccanici conformabili.
D’altro canto, al mondo della confezione e dei grandi magazzini si contrappone l’alta
moda, appannaggio delle classi superiori.
Durante il secondo Impero, Ch. F. Worth, sarto di Eugenia di Montijo, moglie di Napoleone III, presenta per la prima volta modelli indossati da mannequins e introduce un autonomo sistema creativo, l’haute couture appunto, imponendo sempre più rapidi cambiamenti
di gusto e di stile.
Grazie a Worth, dopo il 1870, l’abito femminile recupera la silouette verticale, destinata
a prevalere nel tempo perché più razionale e per la donna viene pensato un abbigliamento
più pratico, fatto di capi adatti per essere indossati in diverse occasioni e in cui si riconoscono formule e modelli mediati dalla moda maschile.
Tanto che nel 1885 il sarto anglo-parigino J.Redfern, ispirandosi proprio all’abbigliamento maschile, crea l’abito tailleur, uno dei capi fondamentali del guardaroba femminile.
Il resto lo fa la cronaca della moda che assume un taglio particolare all’interno di specifiche testate (Vogue, La Gazette du Bon Ton, Femina) la cui funzione è, oltre che divulgativa, propositiva.
Elsa Schiaparelli
La Schiaparelli è una presenza importante e singolare nel mondo della moda. È ritenuta
una delle figure che, assieme a Patou, Molyneux, Lelong, Lanvin, Balenciaga, inaugurano
la tradizione degli ateliers parigini.
È italiana, di nascita e di famiglia, ma vive la maggior parte della sua esperienza professionale e biografica in Francia,5 dove esporta la forza, tutta italiana, dell’estro, della fantasia
e della creatività inarrestabile, che ben rappresentano la cifra inconfondibile del suo stile.
D’altra parte in un tempo in cui la Francia e Parigi in particolare detengono il primato nel
campo dell’arte e della moda, la stilista non è l’unica a lasciare un’impronta di italianità
all’estero.
È sintomatico, ad esempio, che l’unica avanguardia artistica italiana, il Futurismo, abbia
il proprio atto ufficiale di nascita a Parigi ad opera di un altro singolare italiano, Filippo
Tommaso Marinetti.6
A proposito di avanguardie, è interessante che la moda della Schiaparelli s’accompagni
per un buon tratto al loro cammino, esprimendone in larga misura il concetto di fondo,
l’idea cioè di una forma d’arte molto diversa rispetto al passato, un’arte che coinvolge tutti
gli aspetti del vivere, quindi anche il modo di vestire, la moda.
Di fatto negli anni compresi tra le due guerre mondiali, quando si sono affermate o stanno per affermarsi alcune tra le avanguardie artistiche più forti, Futurismo (1909), Der
Blaue Reiter (1912), Dadaismo (1916), Metafisica (1917), Surrealismo (1924), la creatività espressa dalla Schiaparelli è quanto mai originale, si direbbe avanguardia tra le
avanguardie.
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Infatti, nella sua produzione si riflettono e trovano attuazione in diversa misura e forma
molti aspetti che sono propri delle avanguardie, soprattutto Surrealismo e Dadaismo: il
gusto per gli effetti illusori (trompe-l’oeil), lo sperimentalismo nell’uso dei materiali, l’interazione con il pubblico perseguita attraverso campagne pubblicitarie condotte anche in
prima persona, l’idea di moda-spettacolo fatta per colpire, meravigliare, allo stesso modo
che l’arte delle avanguardie intende colpire lo spettatore e provocarne la reazione, il coinvolgimento.
Dunque, per molti versi, moda d’avanguardia e, come tale, riservata a un pubblico ristretto, d’élite, nonostante una buona parte della produzione di Elsa Schiaparelli sia dedicata all’abbigliamento sportivo o comunque a un genere meno esclusivo d’abbigliamento
(pret-a-porter e cash and carry).
Per le stesse ragioni ed anche perché non convenzionale, perché come le avanguardie usa
un linguaggio forte, è moda destinata a non avere lunga durata, piuttosto a resuscitare,
dopo una certa sedimentazione, nella creatività dei migliori stilisti del nostro tempo.
Non a caso tutto ciò che oggi rappresenta nel settore della moda la normalità, per Schiaparelli è oggetto di ricerca e sperimentazione.
Ad esempio, nella realizzazione di un modello, l’uso frequente di materiali diversi rispetto ai tessuti tradizionali come il cellophan, la bachelite, il plexiglas, la maglia metallica;
l’introduzione della cerniera lampo, allora elemento tipico delle tute da lavoro, anche negli
abiti da sera.
O la creazione di una linea sportiva riservata ad una donna dinamica, decisa ad indossare
senza inibizioni i pantaloni, la gonna corta, il costume da bagno; l’abbinamento di cappelli
di forma originale se non eccentrica ai tailleur dalla foggia severa con la giacca dal tipico
taglio maschile; la trasformazione in accessori degli oggetti più impensati, normalmente
non utilizzati nell’abbigliamento.
Nel campo della progettazione la Schiaparelli interrompe la tradizione dei grandi coutourier, veri ingegni creativi solitari, all’apparenza del tutto autonomi nel proprio lavoro, per
dare inizio piuttosto ad una produttività di équipe, la grande squadra che nell’ambiente
d’atelier, ma anche fuori di esso, impegna nella collaborazione più persone con diversi
ruoli e compiti (disegnatore, responsabile della esecuzione dei modelli, maestro di taglio,
ricamatori, responsabile della pubblicità, e così via).
Allora la pratica d’atelier e l’ambiente stesso dell’atelier acquistano una moderna fisionomia: sotto il laboratorio, nel piano che si apre con le vetrine verso l’esterno, si colloca
il negozio-boutique dove le signore possono apprezzare i modelli indossati dalle mannequins e comprare a prezzo vantaggioso quei capi e accessori di collezione che non sono
ancora entrati nel circuito delle vendite esterne.
Soprattutto, dopo Paul Poiret, Schiaparelli è la più decisa nell’indicare la via della collaborazione tra il settore della moda e quello delle arti visive.
Vi è anzi un periodo, circa un decennio compreso tra gli anni trenta e i quaranta, nel quale
lo scambio di idee diviene così frequente che i modelli di Schiaparelli sono arricchiti da
originali elementi che gli artisti stessi conosciuti dalla stilista creano e producono per lei,
oppure sono caratterizzati da richiami a opere dell’arte contemporanea che fanno la loro
comparsa sulle stoffe con le quali gli abiti stessi o gli accessori sono realizzati.
Nell’un caso e nell’altro i due settori dell’arte e della moda si compenetrano, la prima trova una singolare rispondenza nella produzione destinata all’abbigliamento, come d’altra
parte era avvenuto molto prima per le arti minori e l’artigianato; la seconda asseconda il
fenomeno assimilando una particolare creatività che la trasforma velocemente in forma
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d’arte autonoma e in continua evoluzione, riflettente il passaggio delle diverse espressioni
artistiche e al contempo i mutamenti socio-culturali del tempo.
Se riferito al quadro complessivo storico sociale e di costume di quegli anni, tale aspetto
appare, oltre che anticipatore delle tendenze attuali, originale e rivoluzionario quanto lo
era stato per Poiret liberare la figura femminile dalla rigidità del corsetto e proporre forme
fluide avvolte da stoffe morbide contro quelle austere immobilizzate nella complessità dei
drappeggi che le avevano precedute.
Quanto fosse importante questa trasformazione lo può far comprendere il parallelo evolversi del ruolo della donna nella società del tempo da un modello di “angelo del focolare”
o all’opposto di femme fatale verso un modello sicuramente più disinibito e indipendente
(la donna che indossa i pantaloni, che fuma in pubblico, che guida l’automobile o l’aeroplano)7, ormai pronto però per una partecipazione maggiore e consapevole al vivere
sociale.
Una rivoluzione questa che, per forza di cose, riguarda lo stile di vita della donna e, per
naturale conseguenza, lo stile del suo abbigliamento. Se la donna poteva guidare la macchina, gareggiare nello sport, viaggiare, e magari offrire il proprio aiuto negli ospedali,
nei campi di guerra, non poteva che vestire in un modo più pratico, meno formale, in una
parola più libero.
La linea percorsa dalla Schiaparelli va in tale direzione, proponendo nel periodo tra le due
guerre una figura di donna longilinea e dinamica, dalle forme sottili ma non spigolose, talvolta con qualche sfumatura di androginia, eppure sempre molto elegante persino quando
indossa i capi più eccentrici.
Elsa Schiaparelli tra moda e arte
I dati biografici relativi agli anni giovanili della Schiaparelli sono piuttosto scarni.
Elsa nasce a Roma nel settembre del 1890. Appartiene ad una famiglia importante, dell’alta borghesia, è la secondogenita di Maria Luisa e Celestino Schiaparelli, uno stimato arabista 8 di origini piemontesi.
Il fratello del padre, Giovanni Virginio, è un noto astronomo, direttore per circa 40 anni
dell’osservatorio di Brera, a lungo studioso della superficie di Marte (canali) e scopritore
dell’associazione tra gli sciami meteorici con le comete.
L’ambiente in cui Elsa trascorre la giovinezza è quello elegante e privilegiato di palazzo Corsini (attuale sede dell’Accademia Nazionale dei Lincei), dimora della famiglia.
Le frequentazioni e l’agiatezza dei genitori consentono alla giovane di sviluppare presto
l’interesse per i nuovi orizzonti culturali ed artistici che allora si andavano delineando in
Europa; e naturalmente anche il carattere indipendente ed eccentrico che manterrà tutta
la vita e di cui dà una prima prova nel 1911, quando, nonostante la disapprovazione della
famiglia, pubblica un libro di poesie intitolato Arethusa. O quando, nel 1913, raggiunge
a Londra un’amica della sorella per occuparsi dei suoi figli. Durante il viaggio, fa tappa
a Parigi dove partecipa al suo primo ballo indossando un abito disegnato da lei stessa,
dimostrazione della grossa carica di estro e fantasia che possiede, anche se le sue prime
esperienze non sono rivolte al mondo della moda, di cui conosce poco o nulla.
L’anno successivo, il 1914, a Londra, segue le lezioni di un giovane teosofo Wilhelm
Wendt de Kerlor. I due si frequentano e poche settimane dopo si sposano.
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Da questo momento la vita della Schiaparelli si trasforma in una rapida successione di date
ed avvenimenti che curiosamente, quasi fosse un segno del destino che l’aspetta, procede
di pari passo con i fatti che riguardano il campo delle arti visive.
Tra gli avvenimenti ve ne sono alcuni più significativi di altri perché rappresentano davvero una svolta nel corso della vicenda biografica della Schiaparelli e aiutano a inquadrarne
il percorso precedente l’avvio della sua carriera professionale.
Il primo è proprio il matrimonio con Wilhelm Wendt de Kerlor che non sarà l’uomo della
sua vita, ma la porterà per la prima volta, nel 1916, negli Stati Uniti.
È l’anno in cui a Zurigo nasce il movimento artistico e letterario Dada e sulla nave che fa
rotta verso New York, Elsa conosce Gabrielle Picabia, moglie di Francis Picabia, l’artista
che diventerà uno degli esponenti del gruppo Dada in America. L’incontro fortunato le
permette di fare la conoscenza prima di Francis Picabia e poi di altre due figure importanti
del Dada newyorkese, Marcel Duchamp e Man Ray. Si può dire che la via della Schiaparelli sia qui già tracciata.
Inoltre con il matrimonio Elsa ritorna a frequentare il bel mondo e quegli ambienti intellettuali che aveva conosciuto da bambina nella famiglia paterna. Questo le permette
di crearsi una rete di amicizie e contatti che si riveleranno davvero importanti quando in
seguito intraprenderà la professione di stilista.
La seconda tappa significativa della sua vita corrisponde al ritorno in Europa nel 1922,
dopo la nascita dell’unica figlia Gogo e dopo il divorzio dal marito. A Parigi apre il primo
atelier, ricavato dal suo stesso appartamento, in Rue de Seine.
Inizia a disegnare maglie e indumenti sportivi per una piccola casa di mode di un americano e, nello stesso tempo, mantiene i rapporti d’amicizia con Gabrielle Picabia e con i
dadaisti Francis Picabia e Tristan Tzara.
I primi anni dopo il divorzio non sono facili: è una donna sola con una giovanissima figlia
a carico, tanto basta a far comprendere con quanta determinazione Elsa abbia affrontato
il proprio futuro, decisa ad andare avanti nonostante gli ostacoli, incarnando in certo qual
modo il modello di donna indipendente, dinamica e intraprendente che si era da poco delineato all’inizio del Novecento e che aveva costretto ben presto la produzione sartoriale a
mettere a punto modelli di abbigliamento femminile maggiormente rispondenti al mutato
stile di vita.
Nel 1924, nell’anno di nascita del Surrealismo e quando viene pubblicato il primo numero
de La Révolution surréaliste, Elsa conosce di persona il couturier Paul Poiret all’inaugurazione del suo nuovo Salon agli Champs Elysées.
Lo aveva sempre ammirato per la sua arte, alimentata dalla fantasia e dalla capacità di
creare modelli dalle linee sciolte e morbide, di grande raffinatezza ed eleganza.
L’incontro la rende ancor più determinata a intraprendere la strada della moda.
Infatti, poco tempo dopo, nel 1927, la terza tappa importante nel percorso di Elsa Schiaparelli è, nel dicembre 1927, l’apertura di una boutique al numero 4 di Rue de la Paix e
l’arrivo del successo con le maglie caratterizzate dal nodo a farfalla o dal motivo a cravatta
in trompe-l’oeil che la consacrano nel mondo dello styling (fig.1).
Da appena un anno Chanel ha creato il famoso tubino nero che viene definito “fashion’s
Ford” dall’americana Vogue.
Vogue comunque non ignora l’esordiente Schiaparelli e nell’edizione francese pubblica i
suoi sweater.
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È l’inizio del periodo più fortunato della stilista, corrispondente ad una decina d’anni circa, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, anni che vedono il susseguirsi delle
collezioni più fantasiose che la moda di inizio Novecento abbia mai lanciato, tutte uscite
dall’atelier dove alla creatività della Schiaparelli si unisce quella di altre figure di giovani
artisti, allora ancora non conosciuti al grande pubblico: Elsa Triolet, Jean Clement, Man
Ray, Jean Cocteau, Marcel Vertès, Salvador Dalì..., artisti ai quali lei offre l’opportunità
di collaborare.
Si rivela questo un modo intelligente e diretto di mettere in relazione due campi allora così
lontani come quello dell’arte e della moda. Per un breve periodo il tentativo era stato avviato anche da Poiret, senza però mai tradursi in un’attività continuativa. Invece, nell’atelier della Schiaparelli, l’arte in diversa misura lascia la propria impronta su ogni creazione
che, in questo modo, dà forma concreta alle idee scaturite dalla fantasia artistica.
Il 1929, l’anno della crisi, è quello della prima grande collezione della stilista, in occasione
della quale sarà definita “una delle poche personalità creative” del momento.
Ha già lanciato il suo primo profumo, Schiaparelli; ha creato il berretto Mad Cap e un
abito da sera molto elegante in crêpe de chine nero, con gonna lunga diritta, completato da
una giacchina aderente terminante a code sul dietro. Tutte creazioni premiate da un grande
e duraturo successo, in particolare l’abito da sera che costituisce il prototipo di una serie
ininterrotta di modelli simili che, come unica variante, presentano un prezioso decoro a
ricamo sul davanti della giacchina, tanto prezioso a volte da far passare in secondo piano
tutto il rimanente.
È un periodo questo denso di avvenimenti: per la storia della donna, che ha appena conquistato il diritto di voto, prima negli Stati Uniti (1920) e poi in Inghilterra (1928); per la storia
della libertà di alcune grandi nazioni (nel 1930 Gandhi guida la rivolta degli indiani contro
il governo inglese); per l’arte che vede nel 1931 la prima personale di Salvador Dalì alla
galleria Pierre Colle di Parigi e nel 1932 la prima grande mostra surrealista a New York.
Inizia proprio ora la collaborazione continuativa di alcuni artisti (Dalì dal 1930) con l’atelier Schiaparelli, nel quale vengono proposte un gran numero di novità, tutte caratterizzate
da grande fantasia nell’uso e nella definizione dei colori, per i quali vengono utilizzate in
prevalenza le diverse gamme del blu, del rosa, del giallo, del marrone e sperimentati coraggiosi abbinamenti cromatici (rosa e porpora).
All’interno dell’atelier, la stilista allestisce un piccolo negozio in cui sono venduti abiti
pronti da indossare, impermeabili (anche da sera), accessori come guanti, borse, sciarpe,
cappelli, costumi da sci, costumi da tennis, pigiami da spiaggia..., tutti a un prezzo inferiore rispetto a quello del “su misura”. Spesso le stoffe con cui sono realizzati alcuni capi
sono ispirate ai tessuti a mano del Marocco, sono arricchite da pesanti gioielli e da bottoni
metallici.
Nel 1935 un ulteriore salto di qualità: Schiaparelli trasferisce l’atelier da rue de la Paix
a Place Vendôme, un luogo simbolo della Parigi del tempo, frequentato da nomi celebri
dell’alta società (come Wally Simpson), del mondo del cinema e del teatro (come Katherine Hepburn, Marlene Dietrich, Greta Garbo, Arletty).
La prima collezione presentata qui è intitolata “Stop, look and listen” comprende una silouhette raffinata, celestiale, abiti sari e abiti confezionati con stoffe decorate con motivi
persiani.
Nello stesso anno, a maggio apre al Petit Palais l’esposizione d’arte italiana sponsorizzata
da Benito Mussolini. Ma perché anche nel campo della moda l’Italia possa far sentire la
propria voce e conquistarsi una posizione di rilievo, avere insomma centri di produzione e
firme importanti al pari di quelle francesi, bisognerà attendere ancora diversi anni.9
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A luglio del 1935 Schiaparelli visita Vienna e l’Ungheria, stringe accordi con la Swarovsky per usare i famosi cristalli in cappelli e abiti da sera; nella collezione per l’inverno
1935-36, sperimenta la chiusura con cerniera lampo colorata e in plastica nei lunghi cappotti da sera.
Nel 1936 si tiene a Londra la grande mostra internazionale Surrealista. In Marocco, il Generale Franco guida una rivolta armata dando l’avvio alla Guerra civile spagnola. A Parigi
si svolge il secondo Congresso della Federazione Internazionale delle donne d’affari e
delle professioniste.
In un momento così denso di avvenimenti, la collezione proposta dalla Schiaparelli per
l’inverno 1936-37 è ispirata al Surrealismo e in essa sono presentati abiti disegnati da Dalì
con grandi tasche simili a cassetti ripresi da sue celebri opere e guanti su cui sono applicate
finte unghie in pelle di colore rosso o disegnate vene blu.
Compaiono nelle collezioni del ’37 anche modelli realizzati su disegni di Jean Cocteau,
il quale con grande abilità riesce a creare forme diverse da una semplice linea, un profilo
di donna che si nasconde nella forma di un’anfora, un volto che spunta da un mazzo di
rose…(fig. 8). Forme che vengono trasformate in ricami dall’estro di François Lesage e
che vanno a posarsi sul tessuto di una giacchina o di un abito.
Si tratta indubbiamente non di una semplice collaborazione, piuttosto di un modo diretto
per tradurre in forme reali, concrete, l’esperienza del fare arte, per sperimentare insomma
l’arte nella realtà pratica. Che in fondo era l’obiettivo di diverse avanguardie storiche,
anche di quella futurista in cui, attraverso la creatività di Fortunato Depero, ad esempio,
si assiste allo stesso fenomeno: l’arte prende forma negli oggetti del vivere quotidiano e
dona loro quel valore aggiunto che li rende davvero unici, forme d’arte appunto, come
aveva prefigurato William Morris.
È un fenomeno che fortunatamente non si è esaurito nell’esperienza di quegli anni, che
anzi riaffiora a tratti nella moda, anche in quella attuale.
Oltre che segnare l’apice della collaborazione tra la Schiaparelli e i Surrealisti che si concretizza in alcune vere e proprie “follie” come il cappello-scarpa, l’anno 1937 vede nascere una serie di creazioni pensate per una cliente d’eccezione dell’atelier: Wallis Simpson,
futura duchessa di Windsor.
Prima del matrimonio la signora Simpson commissiona alla stilista una ventina di modelli,
tra i quali il famoso abito da sera in organza di seta bianca con una anacronistica aragosta
rosso-arancio dipinta da Dalì sul davanti della lunga gonna (fig. 9).10
Qualche tempo dopo il matrimonio, la duchessa, che continuerà a frequentare l’atelier,
indosserà un severo abito tailleur, ancora una volta ideato appositamente per lei, con le
tipiche tasche-cassetto disegnate da Dalì.
Nel 1938, anno della Esposizione Internazionale del Surrealismo a Parigi, le collezioni, lasciati i modelli ornati con ricami stile Luigi XV o stile cinese, si succedono a ritmo veloce
con fonti d’ispirazione molto diverse fra loro: il Circo equestre (Circus), il Rinascimento
italiano e Botticelli (A Pagan Collection), l’astronomia (Zodiac), la Commedia dell’arte
(in cui compaiono tessuti arlecchino e bottoni a forma di maschera).
E ancora collezioni con abiti ispirati ai dipinti di Matisse, Rouault, Renoir e altri artisti
francesi. È un’esplosione di colore e di colori nuovi a cui la stilista impone nomi particolari, come aveva già fatto con il rosa Shocking: Imperial blue, Calliope red, Monseigneur
purple, Cameo pink, Aerostatic purple, Sooty blue, Salt Water green…
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E i profumi…: dopo Salut, Souci e Schiap (1934) Sleeping e Shocking! (1938), la Schiaparelli crea Snuff (1939) il primissimo profumo per uomo in contemporanea con la collezione Cash and Carry.
Presentato in una originale confezione del tutto simile a una scatola per sigari, Snuff è
contenuto in un prezioso flacone con la forma di pipa (fig. 5). È immediato il rimando al
dipinto di René Magritte La trahison des images (Ceci n’est pas une pipe) del 1928, con
il quale l’artista intende significare che l’oggetto dipinto non è l’oggetto reale. Allo stesso
modo, con un perfetto procedimento mentale surrealista, la scatola per sigari perde la sua
reale funzione dal momento che contiene un flacone per profumo e la bottiglia che contiene il profumo non è una pipa.
La realtà non è mai ciò che appare… Omaggio migliore non poteva essere fatto a Magritte
e al Surrealismo.
Snuff acquista notorietà (mai però quanto il N. 5 della rivale Chanel) nel 1965 grazie al
film Thunderball in cui Emilio Lago, uno dei rivali di James Bond, veniva notato per l’abitudine di mettere qualche goccia di Snuff nel suo fazzoletto da taschino.
Particolare questo che porta il discorso sulla Schiaparelli verso la sua lunga collaborazione, iniziata proprio dagli anni Trenta e durata fino agli anni Cinquanta, con gli ambienti del
teatro e del cinema, per i quali realizza costumi di scena. Fra i tanti lavori, vanno ricordati:
• il guardaroba disegnato nel 1937 per Mae West nel film Every Day’s a Holiday;
• i costumi per Le Diable et le bon Dieu di Jean-Paul Sartre (1951)
• gli abiti realizzati per Moulin Rouge, diretto nel 1953 da John Huston e premiato con
l’Oscar. La Schiaparelli crea i costumi di Zsa Zsa Gabor che interpreta Jane Avril, copiando direttamente i lavori di Henri de Toulouse-Lautrec.
A settembre del 1939, la Germania invade la Polonia, la Francia e l’Inghilterra dichiarano
guerra alla Germania. A novembre, l’Unione Sovietica attacca la Finlandia.
I couturier parigini disegnano abiti che le donne potranno indossare durante i raid aerei.
Elsa Schiaparelli inserisce temi militari nella collezione Cash and Carry, gli abiti hanno
tasche molto grandi, capaci, i completi da pomeriggio, tirando soltanto un nastro nascosto
nella cintura, possono trasformarsi in completi da sera con la gonna lunga. I colori hanno
nomi che scandiscono il tempo della guerra: blu Linea Maginot, marrone Trench, rosso
Legione Straniera, grigio Aeroplano, rosa Fusée…
A maggio del 1940, la Germania invade l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo. A giugno, l’Italia dichiara guerra a Francia e Inghilterra; le truppe tedesche entrano a Parigi (14 giugno).
Schiaparelli si rifugia negli Stati Uniti. In luglio arriva a New York e inizia una serie di
incontri pubblici nei quali parla di “L’abbigliamento e le donne”.
Nel marzo del 1941, anche alcuni artisti del gruppo surrealista lasciano la Francia per gli
Stati Uniti: fra essi vi sono André Breton, Marcel Duchamp, Max Ernst, Yves Tanguy.
Si può dire che la parabola di queste due realtà, della moda e dell’arte delle avanguardie
storiche, si sia ormai conclusa.
Finita la guerra, la Schiaparelli torna in Francia alla guida dell’atelier di Place Vendôme.
Ma il vento della moda cambia rapidamente, accompagna ora i giovani emergenti degli
anni Cinquanta, Hubert de Givenchy, Pierre Cardin (che per qualche tempo avevano collaborato con la stilista11), e soprattutto Christian Dior che lancia il New Look.
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Nel 1947, la Schiaparelli crea il profumo Le Roi-Soleil, con flacone disegnato da Dalì, e
una linea di valigeria adatta al nuovo stile di vita delle donne del dopoguerra; crea anche
cappotti da viaggio con tasche “a valigia” definiti profetici da Vogue.
Nel 1949 la sua nuova collezione fa da copertina a Newsweek. Apre una succursale che
assicura la distribuzione del prêt-à-porter negli Stati Uniti.
Le grosse difficoltà economiche però la portano a ridurre gradatamente la produzione e,
alla fine a chiudere l’atelier nel dicembre del 1954.
L’ultimo segno concreto della eccentrica artista della moda è la biografia Shocking Life,
scritta nello stesso anno.
Nel gennaio 1971, Coco Chanel muore all’Hotel Ritz di Parigi.
Nel novembre 1973, Elsa Schiaparelli muore nella sua casa di Parigi.
Lo stile Schiaparelli
Osservando i modelli presentati nelle collezioni che si succedono dagli anni trenta alla
seconda guerra mondiale, nel periodo più felice della creatività di Schiaparelli, si notano
alcune costanti.
Fatta eccezione per gli sweater e l’abbigliamento “pur le sport”, la vita è stretta, la giacca
o il corpetto, dalle spalle diritte, presentano una linea aderente sulla quale risaltano ampie
tasche applicate; i tessuti in lana o crêpe de chine si accendono di colori o di decorazioni
ideati dalla stilista. Già nelle prime creazioni, in particolar modo gli sweater che l’hanno
resa famosa, compaiono i motivi tipici della sua cifra stilistica, nodi, cravatte, farfalle o
disegni cubisti, giocati con effetti illusori di trompe-l’oeil (fig. 1).
In generale, la linea dell’abito o del cappotto, in particolare nei modelli per la sera, non
modifica la figura, ma la asseconda. È tutto sommato una linea morbida e semplice, di tipo
tradizionale, quasi anonima, che, per questo, passa in secondo piano rispetto alle decorazioni (ricami preziosi, bottoni dalla forma insolita, applicazioni in materiali diversi) o ai
disegni delle stoffe. Quasi che la struttura dell’abito fosse un semplice supporto predisposto soprattutto per ospitare i complessi ricami, molte volte vistosi e di un gusto tendente
al barocco, che arricchiscono cappe, giacche da giorno o da sera, corpetti e cappelli e che
colpiscono subito l’osservatore (fig. 10).12
Nei tailleur da giorno o da sera, invece, la linea domina la struttura del corpo modellando
le spalle, che sono sempre diritte, e la stretta circonferenza della vita dalla quale si allarga
la curvatura dei fianchi che scivola morbidamente lungo la gonna semplice e aderente
quanto la giacca, senza comunque che l’una parte risalti più dell’altra, con un risultato di
sobrietà e raffinata eleganza movimentato soltanto, per le signore più coraggiose, dagli
eccentrici cappelli che completano l’insieme con un tocco di insolita stravaganza (fig. 6).
A questo proposito, un discorso a parte meritano gli accessori per i quali lo stile della
Schiaparelli diventa inconfondibile.
Tra questi, senz’altro i cappelli, occupano il posto d’onore, oltre che eccentrici, surreali e
talvolta davvero inimmaginabili.
Il “Mad-Cap” del 1930, dal gusto vagamente frigio, che raccoglie un grande successo e la
cui immagine viene riportata nel saggio Minotauro scritto da Tristan Tzara, fondatore del
movimento Dada.
I cappelli a forma di tricorno (fig. 7), di gambero, di astice, di cigno, di telescopio,...
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Il famoso “cappello-scarpa” (fig. 2), presentato nella collezione dell’inverno 1937-38, a
completamento di un semplice abito in crêpe satin nero la cui giacchina, dello stesso crêpe,
era decorata da tasche ricamate con un motivo a forma di labbra in rosso brillante.
L’idea di questo cappello era nata da una fotografia che la compagna di Dalì, Gala, aveva
scattato all’artista nel 1933 a Port Lligat: in essa Dalì era ripreso in una delle sue stravaganti pose con una scarpa femminile sulla testa ed un’altra sulla spalla destra. Non è casuale che la collaborazione tra la stilista e Dalì e in genere gli artisti surrealisti abbia registrato
tra il 1936 e il 1937 la fase di maggiore intensità creativa.
I gioielli: braccialetti, spille, collane, realizzati in materiali poveri, plastica, ceramica, metallo smaltato. Ai lunghi fili di perle che danno un tocco inconfondibile ai completi della
rivale Chanel, Schiaparelli contrappone la “collana aspirina” composta di bianche compresse d’aspirina in porcellana, disegnata nel 1930 da Elsa Triolet, compagna di Louis
Aragon; o la “collana insetti”, fatta di un collare-supporto in plastica trasparente su cui si
poggiano insetti dalle diverse forme e colori (fig. 3). Da una certa distanza, l’effetto è che
sul collo di chi la indossa si muovano veri insetti. Il motivo, tipico dell’arte surrealista,
venne ideato da Salvador Dalì.13
Dei veri gioielli, anche se non preziosi, sono molte volte i bottoni, anche questi dalle forme più strane, che si posano su giacche e cappotti. Bottoni a forma di piccola mano che
stringe una rosa (collezione primavera 1938), di cherubini dorati (inverno 1938), di cavalli
da circo (collezione Circus), di minuscole maschere (collezione Commedia dell’arte), di
roselline in ceramica (collezione Zodiaco). Nei completi da sera, il bottone perde la sua
reale funzione per integrare piuttosto i ricami preziosi che ornano il capo; nei completi da
giorno, il bottone, assieme al cappello, esprime un tocco di originalità e fantasia, movimenta insomma la compostezza del capo.
Non meno importanti sono i guanti, a volte coloratissimi, di un verde o di un rosa brillanti,
per staccare in modo deciso sul nero dell’abito e per richiamare lo stesso colore del cappello. E al solito originali, come i guanti neri con le unghie finte in pelle di lucertola rossa
(collezione inverno 1936-37), ripresi da un’idea di Picasso che aveva dipinto le mani di
una modella per farle sembrare ricoperte da guanti veri (1935).
E se il profumo può essere considerato un accessorio, non nel senso materiale del termine,
ma come espressione della persona che lo mette, un accessorio diverso a seconda di quello
che si indossa o della stagione, anche in questo campo la fantasia della Schiaparelli non si
tira indietro.
Nel 1928, poco dopo l’apertura della boutique in rue de la Paix e dopo il successo delle
maglie con il nodo a farfalla e la cravatta in trompe l’oeil, la stilista lancia il primo profumo che porta il suo nome. Al quale seguono i più importanti Shocking, ideato in contemporanea al celebre colore rosa shocking (1937); il primo profumo maschile Snuff (fig.5),
contenuto in una originale confezione a forma di pipa inserita in una scatola per sigari (l’una e l’altra espressione delle idee e dell’arte surreale); Le Roy Soleil (1947) quest’ultimo
contenuto in una elegante bottiglia di cristallo baccarat disegnata da Dalì.
Qualche nota di stravaganza non manca persino nelle calzature.
La Schiaparelli ha un debole per le scarpe a collo alto, possibilmente in pelliccia con abbottonatura laterale, simili alle “polacchine”, che lei stessa volentieri indossa.
Fra le più originali, quelle create nel 1938 da André Perugia, arricchite da un bordo di
pelo di scimmia ricadente fino alla suola (fig. 4). Sembra siano state ispirate da un dipinto
di René Magritte, Amore disarmato (1935), vennero presentate nella collezione Circus e
furono riprodotte in diversi esemplari di colore diverso, anche rosso (Le Modele rouge,
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1939), pubblicizzato da una ditta di Filadelfia con l’immagine di Magritte. Tanto che il
pittore commentò la foggia di tali inusuali scarponcini affermando che essi “dimostravano
quanto, per la forza dell’abitudine, le cose più barbare potessero essere considerate normali”. Grazie a Le Modele rouge, la gente poteva comprendere che “l’unione di un piede
umano con la pelle di animale era un costume mostruoso”.14
In questo precorrendo di molto le idee dei più convinti animalisti degli anni Ottanta.
Solo una stilista?
Viene naturale chiedersi se quella della Schiaparelli sia una creatività tutta al femminile.
All’atto pratico la risposta dovrebbe essere no, in quanto dietro questa signora eccentrica,
dallo sguardo aristocratico, alquanto acuta nell’anticipare i mutamenti del gusto e le esigenze della donna moderna, c’è un gruppo di lavoro prevalentemente maschile, vi sono
artisti - collaboratori del calibro di Dalì, Cocteau, Lesage, Bérard, Vertès, Van Dongen e
fotografi come Horst, Cécil Beaton e Man Ray, le punte insomma dell’arte e della creatività di quegli anni.
Se si valuta però il fenomeno Schiaparelli nel suo complesso, allora si vede che il ruolo di
Elsa domina non solo il lato creativo del fenomeno, ma anche quello imprenditoriale, messo in risalto dal coraggioso convincimento che proprio in quegli anni difficili, segnati dalla
crisi economica e dalla guerra, il mondo, e con il mondo l’arte e la moda, stavano cambiando velocemente ed esigevano apertura mentale e nuova progettualità, e competenze
aggiornate per affrontare esigenze e stili di vita completamente diversi rispetto al passato.
Inoltre, alla distanza, appare alquanto importante il rapporto duraturo che la stilista intrattiene con il gruppo dei surrealisti, ma anche con figure del gruppo Dada o con alcuni
futuristi, come Alberto Giacometti.
Quanto sia stato importante questo rapporto è messo in risalto da Salvador Dalì, il più
prolifico ed estroso fra tutti coloro che collaborarono con la Schiaparelli e colui che più a
lungo prestò la propria fantasia al servizio della moda.
Quando nel suo libro La vita segreta di Salvador Dalì15 l’artista descrive il clima della
Parigi del 1930, riconosce che esso non fu segnato tanto dalle polemiche dei surrealisti al
café di Place Blanche quanto dallo “stabilimento di moda” che la Schiaparelli stava già
allestendo in Place Vendôme. Qui “nuovi fenomeni morfologici stanno accadendo… e
l’essenza delle cose si sta trasformando in sostanza…”.
A parte l’enfasi retorica, tipica del personaggio e delle sue manifestazioni, nelle parole di
Dalì si comprende il valore simbolico riconosciuto alla funzione della moda e in particolare alle creazioni della Schiaparelli, espressione del carattere di un’epoca e della posizione
della stilista nell’ambito dell’avanguardia artistica.
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Glossarietto
Bloomers: pantaloni larghi, chiusi alla caviglia con un’arricciatura. Nel 1851 Amelia Bloomer li disegnò per promuovere una riforma degli abiti femminili, ma vennero accettati
assai poco. Divennero invece popolari come abbigliamento per il ciclismo agonistico nel
1880. Più tardi vennero indossati come tute da ginnastica per le ragazze.
Cardigan: giacca di maglia, aperta sul davanti, che prese il nome da James Thomas Brudenell, conte di Cardigan (1797-1868). Gabrielle Chanel introdusse i suoi celebri completi
con cardigan nel 1920.
Confection: termine francese per prodotto in serie, abbigliamento economico che apparve
alla metà del XIX secolo.
Corset: corpetto aderente con stecche di balena, metallo o legno e chiuso con lacci. Il termine “corsetto” non apparve fino al XIX secolo, ma si riferiva a una sottoveste chiamata
stays in inglese, e corps o corps à baleines (in francese) nel XVIII secolo.
Garçonne: parola francese derivata dal romanzo con titolo omonimo di Victor Margueritte, pubblicato nel 1922. Il nome entra nell’uso dopo la prima guerra mondiale per definire
le donne che si vestivano come ragazzi.
Haute Couture: abbigliamento parigino di alta qualità, derivato da un esclusivo sistema di
creazione. Alla fine del XIX secolo, Sir Charles Frederick Worth, sarto dell’Imperatrice Eugenia, gettò le basi dell’industria della haute couture che si è sviluppata in quella odierna.
New Look: stile introdotto da Christian Dior nel 1974. È uno stile nostalgico ed elegante,
caratterizzato da una vita sottile e da una gonna vaporosa abbastanza lunga.
Vestitino nero apparso negli anni ’20, il “vestitino nero” si basava sulle linee semplici
della camicia da donna. Fu promosso in modo particolare da Gabrielle Chanel ed Edward
Molyneux.
Zip, il primo “fermo separabile” viene ideato nel 1917 da un ingegnere svedese; un sarto
americano la applica per primo alle tasche dei marinai americani. Schiaparelli impiega zip
colorate per la chiusura di tailleur e cappotti da sera.
Fonti consultate
SCHIAPARELLI, E., Skocking Life, New York, 1954
WHITE, P., Elsa Schiaparelli: Empress of Paris Fashion, London, 1995
BAUDOT, F., Elsa Schiaparelli, Firenze, 1998
KOGA, R. (a cura di), La moda, Tokio, 2002
BLUM, DILYS E., Shocking!: the art and fashion of Elsa Schiaparelli, Philadelphia, 2003
http://needleworkslederniercri.blogspot.com
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NOTE
1. Nell’agosto del 1920, viene riconosciuto nella Costituzione degli Stati Uniti d’America il diritto di voto
alle donne; nel 1928, eguale diritto viene riconosciuto in Gran Bretagna; in Francia e in Italia le donne
eserciteranno il diritto di voto solo nel 1946, dopo la seconda guerra mondiale.
2. Poiret, Paul (1879-1944), nato a Parigi, lavora da Doucet e da Worth prima di fondare la sua casa di moda
nel 1903. Nel 1906 presenta un abito dalla linea diritta e dalla vita alta, liberando le donne dalla prigionia
del corsetto. Influenzato dal giapponismo e dai Ballets Russes, crea una successione di stili orientali: il
soprabito kimono, l’abito hobble stretto alle caviglie, lo stile paralume e così via. A causa dei suoi lavori
stravaganti e teatrali con colori forti viene soprannominato “il sultano della moda”. Gli va riconosciuto
il merito di avere colto, all’inizio del XX secolo, le tendenze dell’epoca e di avere condotto la moda in
una nuova direzione. È anche conosciuto come fondatore dell’Ecole Martine, un laboratorio tessile per
giovani ragazze ed è un grande sostenitore di molti giovani artisti come Raoul Dufy. La sua influenza
nella moda declina rapidamente dopo la prima guerra mondiale.
3. Vionnet, Madeleine (1876-1975), nata in Francia, lavora nelle case di moda delle Sorelle Callot e di Doucet prima di aprire la sua casa di moda a Parigi nel 1912. Dopo la prima guerra mondiale inizia ad essere
apprezzata e negli anni Venti la sua casa è tra quelle di maggiore successo. La Vionnet studia il corpo
catturandolo dal suo personale punto di vista, riuscendo a far emergere la bellezza della figura femminile
mediante forme innovative e una inarrivabile abilità nel taglio. Nei primi anni Venti presenta abiti dalla
struttura semplice, influenzati dal kimono giapponese. Più tardi inventa il “taglio sbieco”, una nuova tecnica nella creazione di vestiti. Crea tutti i suoi originali modelli partendo da un drappeggio su un piccolo
manichino. Lascia il disegno nel 1939. I suoi lavori, che rimettono fortemente in discussione il rapporto
tra il corpo e l’abito, esercitano una grandissima influenza sulla moda del XX secolo.
4. Chanel, Gabrielle (1883-1971), nata a Saumur, in Francia, e soprannominata “Coco”. Inizia a lavorare
come modista nel 1909 e nel 1910 apre la sua maison. Si dedica ai capi d’alta moda e nel 1916 presenta
abiti innovativi e funzionali, realizzati in jersey, un materiale poco costoso allora utilizzato per la biancheria intima. Nel 1921 apre un’altra maison in Rue Camion, facendosi promotrice di un nuovo concetto
di eleganza femminile, attivo e funzionale che spesso prendeva a prestito elementi dall’abbigliamento
maschile. Chanel, che era snella e portava i capelli corti, influenza molto la moda alla garçonne seguita
dopo la prima guerra mondiale. Chiusa durante la seconda guerra mondiale la sua maison, ritorna nel
mondo della moda a 71 anni. Il “completo Chanel”, che ha grande successo negli anni Sessanta, la riporta
alla fama e la rende ancora oggi una icona dell’abbigliamento femminile del XX secolo.
5. Nel 1931 la Schiaparelli ottiene la cittadinanza francese.
6. Il manifesto del Futurismo viene pubblicato da Marinetti nel 1909 a Parigi, sulle colonne de Le Figaro.
7. Nel 1928, Amelia Earhart è la prima donna ad attraversare l’Atlantico su un aeroplano. Nel 1936, Amy
Mollison (nata Johnson) stabilisce un record volando da sola dall’Inghilterra fino a Cape Town (Sud Africa) e, cosa singolare, indossa un abbigliamento creato appositamente per lei dalla Schiaparelli.
8. Celestino Schiaparelli fu per molti anni professore di arabo nell’Istituto di studi superiori di Firenze e poi
all’Università di Roma.
9. In Italia, l’industria della moda prende avvio dopo la seconda guerra mondiale; in particolare, il primo
evento significativo del settore è la serie di sfilate che si tiene a Palazzo Pitti (Firenze) nel 1952 e a cui
partecipano firme importanti, come le Sorelle Fontana. Subito dopo si formeranno i grossi centri di produzione, Torino, Milano, la stessa Firenze.
10. L’immagine della futura sposa, scattata da Cecil Beaton nel giardino del Château de Candé, venne inserita tra quelle ufficiali del matrimonio e suscitò qualche commento poco favorevole, poiché era evidente
l’allusione erotica che Dalì intendeva suggerire con l’aragosta.
11. Pierre Cardin, italiano, nato da famiglia di origini venete, nel 1945 lavora nell’atelier Schiaparelli come
assistente designer. Hubert de Givenchy lavora invece dal 1947 nella Boutique di Place Vêndome.
12. Per i ricami, la Schiaparelli si affida all’atelier di François Lesage, che negli anni Trenta è di fatto l’ispiratore di molte fortunate creazioni della stilista. Ancora oggi la Maison Lesage ricama per le collezioni
di alta moda.
13. Nelle opere di Salvador Dalì compaiono spesso piccoli insetti di diverse specie. Il motivo ricorre anche
in alcune sequenze di A chien andalou, cortometraggio surreale prodotto e interpretato da Dalì e Luis
Buñuel nel 1929.
14. Magritte René, La Ligne de vie, 1938
15. Pubblicato nel 1942
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Fig. 1 - Elsa Schiaparelli indossa uno dei suoi
sweater in lana bianca e rossa e finto collo
alla marinaia (1928)
Fig. 2
Il famoso cappello-scarpa
ideato da Gala e Salvador Dalì (1937)
Fig. 3 - La collana con insetti
creata in collaborazione con Dalì
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Fig. 4 - Scarpe con pelliccia di scimmia
(collezione Circus, 1938)
Fig. 5 - La scatola con il
profumo Snuff (1940)
Fig. 6 - Due tailleur da sera che riassumono
la linea Schiaparelli: abito semplice dalla
lunga gonna aderente morbidamente al corpo,
indossato sotto la giacchina sfiancata con
spalle diritte e revers ricamati; immancabile
l’originale cappellino (1930)
Fig. 7 - Elsa Schiaparelli indossa una giacca
da sera in velluto impreziosita da motivi di
grappoli d’uva ricamati; in capo, un cappello
a tricorno (1931)
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Fig. 8 - Il dorso del cappotto da sera ricamato
da F. Lesage su disegno di J. Cocteau (1937)
Fig. 9 - L’abito creato per la futura Duchessa di
Windsor, con motivo di aragosta disegnato da
Salvador Dalì (1937)
Fig. 10 - Giacchina da sera, di taglio semplice,
con importante motivo barocco ricamato solo
sul davanti dall’atelier Lesage. La stoffa, in
pesante crêpe, è di un rosa intenso, di una
nuance più scura rispetto al rosa schoking
dell’abito; i bottoni a forma di sole sono
egualmente in color shocking
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CLELIA
DE VECCHI
Laureata in Lettere a Ca’ Foscari, inizia a insegnare nei licei di Portogruaro, quindi dal 1990 a
Treviso, prima al “Da Vinci” e poi, dal 1995, al “Canova”.
Dall’inizio degli anni 2000 si è interessata alla didattica del Latino; come coordinatrice del Centrum Latinitatis Europae ha organizzato convegni e iniziative culturali in collaborazione con la
Fondazione Cassamarca e con Veneto Banca e, grazie al sostegno della Provincia, i “Corsi di
Storia delle donne” nel mondo antico e nel medioevo.
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CLELIA DE VECCHI
Donna Franca Florio e la belle époque palermitana
L
’unità d’Italia porta con sé molte iniziative finalizzate ad una integrazione fra le varie
parti del paese in molti campi. Fra questi non può mancare quello economico, rappresentato anche dalle Esposizioni Nazionali. Il 5 novembre 1891 si apre a Palermo la quarta
esposizione, dopo quelle di Firenze, Milano e Torino.
Era molto chiaro l’intento di avvicinare l’economia del meridione a quella del nord Italia
e nello stesso tempo attirare visitatori in Sicilia e in particolar modo a Palermo. Gli ideatori dell’evento, Francesco Crispi e Ignazio Florio, per diversi motivi, non raccolsero in
prima persona i frutti del loro progetto. Il primo perché, quando la mostra fu inaugurata,
non era più primo ministro; il secondo perché era morto da poco, lasciando come principale erede il figlio Ignazio (il fratello Vincenzo era ancora molto giovane). E i Florio e le
attività economiche che facevano capo alla loro famiglia furono gli indiscussi promotori
e protagonisti dell’evento.
La famiglia Florio ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’economia siciliana
dell’Italia Unita. Originari della Calabria, i Florio si trasferirono a Palermo alla fine del
‘700, avviando un commercio di spezie e di generi coloniali. L’attività dei due capostipiti, Paolo (1772-1807) e Ignazio (1776-1828), fu continuata da Vincenzo (1799-1868), il
vero fondatore della Casa e delle svariate attività e cioè la Flotta, le Tonnare, il Marsala,
le Zolfare, la Fonderia Oretea, il Settore Tessile. Alla sua morte, nel 1868, Vincenzo Florio era uno degli uonini più importanti del nuovo Regno d’Italia e lasciava un patrimonio
immenso. I vari settori in cui aveva impegnato la propria ricchezza davano lavoro a diverse centinaia di uomini, dai quali era considerato un benefattore. Il figlio, Ignazio Florio(1838-1891), anche lui senatore del Regno, consolidò l’impero economico.
Con Ignazio Florio senior (per distinguerlo dal figlio) la famiglia entra nella sfera dell’aristocrazia palermitana e internazionale, avendo sposato la baronessa Giovanna d’Ondes e
inserendosi così in una dimensione europea, invitato alle corti e ricevendo i reali d’Europa
che si recavano a Palermo. Morì nel 1891, qualche mese prima dell’inaugurazione dell’Esposizione Nazionale.
L’Esposizione fu allestita in quella che allora era un’area nuova della città, fra il Politeama
e piazza Croci, collegate oggi dalla via Libertà. La direzione del progetto fu affidata al
celebre architetto palermitano Ernesto Basile, della cui opera resta traccia nei principali
monumenti cittadini della “belle époque” e soprattutto nel Teatro Massimo, iniziato dal
padre Giovan Battista. Gli edifici dell’Esposizione si ispirarono soprattutto al medioevo
siciliano e cioè l’epoca arabo-normanna. La costruzione fu veramente scenografica; ricordiamo in particolare la sala delle feste, una torre panoramica dotata di ascensori, una fontana luminosa, con congegni idroelettrici considerati superiori a quelli di analoghe Esposizioni Internazionali di Barcellona e Parigi. Uno spazio fu riservato, per volere di Crispi,
al padiglione del Ministero della Guerra e della Marina in cui era allestita, in omaggio alla
politica coloniale dello stesso Crispi, una mostra eritrea.
L’Esposizione fu inaugurata dagli allora sovrani d’Italia Umberto I e Margherita di Savoia,
la cui presenza animò di vita mondana la città. E infatti l’inizio della “belle époque”
palermitana viene fatto risalire all’Esposizione e in particolare alle feste e ai ricevimenti
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allestiti in tale periodo, a partire dal saluto ai sovrani fino alla rappresentazione dell’Otello
di Verdi al Politeama; in Primavera poi alle feste e alle rappresentazioni si affiancarono
gare sportive e perfino una corrida. Tutto ciò mirava anche alla promozione turistica della
Sicilia, con sale in cui una serie di calchi e gessi riproponevano templi e rovine. Inoltre
vennero favoriti gli artisti palermitani, a iniziare dal già citato Ernesto Basile fino a Ernesto
Lojacono, Ettore De Maria Bergler, pittori le cui opere sono ora esposte alla Galleria
d’Arte Moderna di Palermo.
L’Esposizione nazionale segnerà l’esordio produttivo del binomio Florio-Basile, connubio
dal quale nascerà la migliore produzione Liberty del meridione d’Italia.
Dal punto di vista economico invece i risultati dell’Esposizione furono deludenti. Nonostante l’impegno di Ignazio Florio junior, l’economia siciliana non riuscì a decollare,
anche perché la stessa industria italiana era in crisi, in un momento di passaggio fra la fine
della crescita delle ferrovie e l’avvio della ancora futura industria automobilistica.
Nel 1891 Ignazio Florio (d’ora in poi Junior) conosceva già la nobildonna palermitana
Franca Jacona dei baroni di San Giuliano, ma la frequentava di nascosto in quanto il rapporto era osteggiato dal padre. I due quindi erano costretti a vedersi in clandestinità. Il
barone Jacona, nobile ma pieno di debiti, voleva a tutti i costi proteggere quella che, per
una serie di sventure, era l’unica figlia rimasta in vita. E si opponeva al matrimonio con il
Florio non tanto perché era un borghese (tuttavia il più ricco uomo di Sicilia) quanto per la
sua reputazione di “sciupafemmine”. E la storia del matrimonio, celebrato a Livorno nel
febbraio del 1893, fu veramente tormentata. Infatti nel settembre 1891 il barone Jacona si
trasferì con la famiglia a Siracusa, permettendo al fidanzato di vedere la figlia di tanto in
tanto fino alla celebrazione delle nozze.
Con il matrimonio per donna Franca inizia una nuova vita. Il viaggio nuziale si svolse tra
Parigi, dove Ignazio era di casa, e Venezia, dove la coppia soggiornò all’hotel Danieli.
A Palermo si stabilirono nella casa di famiglia all’Olivuzza, nello stesso quartiere in cui
negli anni seguenti Ernesto Basile avrebbe costruito il celebre “Villino Florio”, simbolo
ancor oggi della “belle époque” palermitana.
Donna Franca si inserì nella casa nel momento in cui la famiglia aveva raggiunto l’apice da
un punto di vista economico e mondano, ma nello stesso tempo, anche per responsabilità
dello stesso Ignazio che sosteneva spese enormi, già si intravedevano le prime difficoltà e
i segni del declino.
Nel marzo del 1894 a Palermo viene rappresentata l’opera Manon Lescaut alla presenza
del maestro Giacomo Puccini. Come si era soliti a quei tempi, all’evento segue un fastoso
ricevimento. In questo contesto si colloca l’incontro di donna Franca con il celebre maestro. Nella sua vita ella sarà ammirata da altri artisti celebri: D’Annunzio, Leoncavallo,
Puccini, Caruso, Boldini e De Maria Bergler. Fu quindi una donna molto ammirata per la
sua bellezza, il suo fascino e la sua eleganza. Il Kaiser Guglielmo II, più volte in visita a
Palermo, l’aveva denominata “Stella d’Italia”, D’Annunzio “L’Unica”.
Nell’aprile del 1896 attracca a Palermo lo yacht “Hohenzollern” che portava in visita
privata il Kaiser e la sua famiglia, visita ripetuta nel 1904 e nel 1907. In queste occasioni
un lungo corteo attraversava la via Dante fino alla villa all’Olivuzza, i Florio mettevano
a disposizione le loro carrozze e più tardi le Isotta Fraschini e le Mercedes. Nel 1907
giunsero a Palermo anche i sovrani d’Inghilterra, Edoardo VII e Alessandra, in visita alle
numerose famiglie aristocratiche che si erano trasferite sull’isola, ma soprattutto i Whita-
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ker, dirimpettai dei Florio all’Olivuzza con villa Malfitano. Si susseguivano ricevimenti
e feste, alcuni allietati dai “tableaux vivants”, dove personaggi della nobiltà palermitana
indossavano costumi settecenteschi. Oltre all’ “Hohenzollern” e al “Victoria & Albert”, un
altro yacht era spesso in sosta al porto di Palermo, il “Veglia” di Nathaniel Anselm von
Rothschild, legato ai Florio da vecchia amicizia e da rapporti d’affari.
Nel maggio del 1897 viene inaugurato il Teatro Massimo, progettato da Giovan Battista
Basile e completato alla sua morte dal figlio Ernesto, con la rappresentazione del Falstaff
di Verdi. Donna Franca è veramente la “regina” della serata. Indossa un abito di seta azzurro chiaro, stola di zibellino, vistosi pendenti in brillanti. I gioielli di donna Franca sono
famosi, da monili dell’oreficeria siciliana a creazioni dei più famosi gioiellieri francesi,
primo fra tutti Cartier. Famosa è la collana che donna Franca indossa anche nel ritratto
di Boldini di Villa Igiea. È una collana di 365 perle di calibro straordinario, che solo una
donna con una figura maestosa e collo lungo poteva indossare. Ad un certo punto donna
Franca non indossò più orecchini, dopo che Gabriele D’Annunzio le aveva fatto notare
che qualsiasi gioiello pendente alle sue orecchie avrebbe alterato i lineamenti del suo viso.
I gioielli però rappresentavano anche un dolore che donna Franca dovette affrontare durante tutta la sua vita: i numerosi tradimenti del marito. Un destino questo comune a molte
donne del passato. Riguardo il rapporto coniugale di Ignazio e Franca Florio non mancano testimonianze di un reale rapporto d’amore tra i due, come non mancano quelle delle
numerose avventure di Ignazio e della fedeltà di donna Franca, nonostante i numerosi
ammiratori e corteggiatori.
Fra le avventure di Ignazio ricordiamo la passione per la cantante lirica Lina Cavalieri, che
nel marzo 1901 giunge a Palermo per interpretare il ruolo di Mimì nella Bohème in cartellone al Teatro Massimo. A questo proposito è tramandato un episodio e cioè che Ignazio
avesse assoldato una claque per applaudire la cantante. Venuta a conoscenza di ciò, donna
Franca organizzò una controffensiva con un gruppo che fischiò l’artista, la quale sospese
la rappresentazione, non volle più riprenderla e se ne andò da Palermo. Donna Franca
avrebbe confidato agli amici che se era disponibile a tollerare i tradimenti del marito fuori
Palermo, non lo era nella sua città. Come si suol dire, quel che è troppo è troppo.
Intanto sotto le feste di Natale del 1900 era stato inaugurato l’albergo Villa Igiea, che inizialmente doveva essere un sanatorio per la cura della tubercolosi. Il progettista è Ernesto
Basile, gli affreschi liberty sono di Ettore De Maria Bergler. Qui nasce la terza figlia dei
Florio, Igiea. Un’ala dell’edificio infatti viene utilizzata dalla famiglia come residenza
ricevendo amici italiani e stranieri. La villa diventa il centro della mondanità siciliana e
internazionale.
Ai turisti Palermo appare una città pulita, le vie del centro vengono lavate ogni mattina,
difficilmente si trova una cicca per terra. È la “città felice”, come l’hanno denominata gli
arabi e come la chiamano gli spagnoli durante l’età dei viceré; “Palermo felicissima” è
il titolo di una fortunata pubblicazione di Nino Basile, personaggio simbolo della “belle
époque”, come si può leggere in una sua biografia: “dopo una giovinezza trascorsa tra
musica e teatri, galanterie e viaggi d’arte, in quell’eclettismo di gusto dannunziano tipico
ai gentiluomini della fine dell’ottocento, aveva conseguito la laurea in giurisprudenza…”
(Accascina). Fu poi segretario presso l’Amministrazione Provinciale di Palermo, ma musica, arti, lettere, poesia costituivano un autentico godimento per il suo spirito. Nelle sue
opere traspare il volto di Palermo prima che le tragiche vicende della guerra incidessero in
modo pesante sui suoi quartieri.
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Nell’aprile del 1901 arriva a Palermo il pittore Giovanni Boldini; Ignazio Florio lo aveva
conosciuto a Saint Moritz e già allora gli aveva chiesto un ritratto della moglie. Il celebre
ritratto, ora conservato a villa Igiea, non è la prima versione, in cui donna Franca era un po’
“meno vestita”. È il marito ad imporre a Boldini dei ritocchi, che il pittore, inizialmente
contrariato, porterà a termine a Parigi. Nel risultato finale donna Franca è ritratta in tutta
la sua sensualità; indossa il celeberrimo filo di perle che il marito le ha regalato per farsi
perdonare la sua simpatia per Lina Cavalieri.
Ma era veramente bella donna Franca? Di lei ci rimangono, oltre ai ritratti di Boldini e
di Ettore De Maria Bergler, il pittore napoletano trasferitosi a Palermo proprio per stare
vicino alla sua principale fonte di ispirazione, numerose fotografie, che la ritraggono dopo
i trent’anni. Il suo aspetto fisico è sicuramente notevole, accompagnato da grazia ed eleganza. Per Palermo diventa un mito, numerosi sono gli aneddoti che mettono in evidenza
il suo fascino. Si vestiva dal sarto parigino Worth, le cronache mondane si occupavano
spesso di lei, delle sue mise e dei suoi gioielli.
Nel maggio del 1902, in occasione dell’Esposizione Agricola Siciliana, sono in visita a
Palermo il re Vittorio Emanuele III e la regina Elena; arrivano in porto a bordo dello yacht
“Trinacria” e alloggiano a Palazzo Reale. In quella occasione Franca Florio viene ufficialmente nominata “Dama di palazzo di Sua Maestà la Regina Elena”, un riconoscimento alle
sue origini nobiliari e alla rappresentatività che la “regina di Palermo” ha ormai assunto in
molti contesti internazionali.
Tuttavia anche la vita di donna Franca ebbe dei momenti difficili, soprattutto come madre;
infatti dovette sopportare la morte, a breve distanza (1902-1903), di due figli in tenera età
e di una neonata subito dopo il parto. Solo due figlie restarono in vita. Particolarmente
dura da accettare fu la morte dell’unico figlio maschio, avvenuta in Francia in circostanze
misteriose. Fra le varie ipotesi, circolò voce anche che la governante avesse esagerato
con un sonnifero che dava al bambino per calmarlo. Donna Franca seppe reagire a queste
sventure, cercando inizialmente la solitudine, che ella trovò a Favignana.
L’angolo di Sicilia che comprende la zona di Marsala e Favignana fu particolarmente
significativo per i Florio. Qui infatti sono situate le tonnare, le distillerie e le sterminate
piantagioni di viti, ossia i prodotti su cui si fonda la vera ricchezza dei Florio e che anche
nel declino offriranno almeno una possibilità di salvataggio. Ignazio Florio chiamò “Aegusa”, l’antico nome di Favignana, il più famoso dei suoi yacht.
Nelle isole Egadi, acquistate dai Florio, furono costruiti stabilimenti di dimensioni ragguardevoli, capaci di trasformare il pescato, che qui fu abbondante per tutto l’800. Inoltre
fu costruita una villa per accogliere padroni e ospiti. A questo periodo va fatto risalire
l’inizio dell’urbanizzazione dell’isola che ebbe il suo primo piano nel 1890 con la costruzione del porto.
Nel 1903 la flotta Florio è composta da 97 navi ed è valutata oltre 40 milioni di lire, tuttavia Ignazio Florio è già molto esposto con le banche. Nel 1904 le difficoltà finanziarie
cominciano a farsi sentire e Ignazio vorrebbe coinvolgere anche il fratello Vincenzo, fino
ad ora lasciato fuori dall’amministrazione delle attività della famiglia. Ma Vincenzo, il cui
nome è legato alla celebra “Targa Florio”, pensa solo ad organizzare eventi sportivi. La
prima manifestazione da lui organizzata è la “Coppa Panormitan”, gara di automobilismo
sul percorso Palermo-Monreale. La prima edizione della “Targa Florio”, tra mille difficoltà, ha il via il 6 maggio del 1906. Il nome di Vincenzo Florio non è legato solo alle corse
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automobilistiche, ma anche ad altre celebri feste palermitane, organizzate con lo scopo di
attirare turisti. All’interno delle “Feste di Palermo” organizza “Le regate internazionali di
Palermo” cui assistono anche i reali d’Italia Vittorio Emanuele III e Elena di Montenegro.
La coppia reale si reca anche a Villa Igiea dove è accolta dai Florio. Per il carnevale del
1907 Vincenzo Florio organizza una sfilata di carri allegorici frutto della fantasia degli
artigiani locali, seguiti da un lungo corteo di maschere. La nobiltà e l’alta borghesia concludono la serata con una festa a villa Igiea. Nel 1908, sempre Vincenzo Florio, lancia la
“Coppa Monte Pellegrino”, una gara automobilistica di velocità.
Nello stesso anno però cominciano a manifestarsi problemi finanziari più seri per i Florio;
il Governo doveva affrontare il problema del rinnovo delle convenzioni marittime. Il primo ministro Giolitti era orientato a rompere il monopolio Florio; le navi erano fatiscenti,
lente, scomode, mal tenute. Altre compagnie erano pronte ad offrire servizi notevolmente
migliori. Però il fallimento dei Florio avrebbe provocato gravi problemi in Sicilia dal
punto di vista occupazionale. In una realtà meridionale già difficile, il fallimento di tutte
le attività che facevano capo all’imprenditore siciliano avrebbe aggravato ancora di più la
situazione. Intervenne la stessa Banca di Italia, ma tutto fu inutile, a poco a poco la “fortuna” della famiglia era destinata alla completa dissoluzione.
Nel 1912 ciò che rimane ai Florio è la gestione delle sale da gioco a Villa Igieia, niente
più appartiene a loro per intero, anche se apparentemente continuano a condurre la stessa
vita. Ignazio con le sue relazioni extra-coniugali, in particolare la relazione con la contessa
veneziana Vera Arrivabene, che lo porterà anche ad essere sfidato a duello dal marito di
lei. Donna Franca invece conduce la sua vita mondana tra gioielli e gioco. Continua ad
attirare l’attenzione di molti ammiratori, dal conte di Montesquiou, conosciuto a Parigi in
casa di Maria Gallese, la moglie abbandonata di D’Annunzio, il quale le dedicò una poesia
paragonandola a un fiore solitario (La fleure inutile), al duca Damaschieri a Tonino Chiaramonte Bordonaro, forse l’unico contraccambiato, che le aveva regalato il portasigarette
di Cartier, contenente un segreto, un doppio fondo in cui era contenuta una polvere bianca
inconfessabile. Anche la regina di Palermo, seppure ancora fiorente nei suoi quarant’anni,
si avvia ad un triste declino a causa della rovina della famiglia. Eppure solo l’anno prima,
nell’ottobre del 1911, su invito dell’ambasciatore italiano in Austria, il duca d’Avarna,
aveva rappresentato l’Italia in costume in un grande ricevimento organizzato a Vienna. In
quell’occasione all’apertura del sipario, avvolta nel tricolore e con la corona turrita, con il
suo apparire denso di femminilità aveva lasciato la platea senza fiato.
La guerra del 15-18 impegnò, in maniera diversa, i coniugi Florio. Ignazio “al fronte”
come autista di autobulanze, Franca come crocerossina all’ospedale di Palermo.
Negli anni del dopoguerra non avvenne quella ripresa che essi speravano. Pur in difficoltà
finanziarie, donna Franca continuò a frequentare i casinò d’Europa, dalla Costa Azzurra
a Saint Moritz, dove perdeva somme ingenti. Fino al 1925 i Florio, nonostante la rovina,
continuarono a ricevere a Villa Igieia i reali d’Europa, come Giorgio V d’Inghilterra e
la regina Maria. Poco dopo avrebbero abbandonato anche quella dimora per trasferirsi a
Roma. Ma Franca ben presto rimase sola perché Ignazio partirà per le Canarie con Vera
Arrivabene, dove cercò di avviare delle tonnare e organizzare delle piantagioni di banane.
La vita di Donna Franca, che sarebbe durata fino al 1950, diventò veramente triste; sfrattata anche dalla casa di Roma che non era stata pagata, continuò a girare per i casinò d’Europa, tra camere d’albergo e appartamenti in affitto. Nel 1935 vennero messi all’asta i suoi
gioielli, che qualche anno prima le erano stati rubati, ma poi erano stati ritrovati.
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L’unica consolazione e l’unica risorsa per i coniugi Florio, nei loro ultimi anni, furono i
fortunati matrimoni delle figlie. Igiea nel 1921 aveva sposato il duca Averardo Salviati e
Giulia nel '39 il marchese Achille Belloso Afan de Rivera. Ed è proprio Costanza Afan de
Rivera, figlia di Giulia, che rappresenta oggi la discendenza di Ignazio e Franca Florio.
Attualmente vive a Roma, ma partecipa spesso a manifestazioni in Sicilia, che, a vario
titolo, sono ispirate alla famiglia Florio.
Che cosa rimane oggi di Donna Franca Florio?
Prima di tutto il celebre ritratto di Boldini, oggi esposto in una sala dell’Hotel Villa
Igiea, acquistato dalla casa d’aste Sothebys per novecentomila euro e riportato a Palermo
dall’ing. Francesco Bellavista Caltagirone, presidente della società dell’Acqua Pia Antica
Marcia. Era stato venduto dalla famiglia Florio ai Rotschild alla fine degli anni ’20.
Ma il mito di Donna Franca è tuttora presente a Palermo. Nel 2007 al Teatro Massimo
di Palermo è stato rappresentato il balletto di Luciano Cannito Franca Florio, regina di
Palermo, in cui si sono rivissuti i fasti della “belle époque”, con Giuseppe Picone, Carla
Fracci (nel ruolo di Franca anziana) e Rossella Brescia (Franca giovane), musica di Lorenzo Ferrero.
Dal 2008 l’associazione “Marisa Bellisario” ha istituito il “Premio Franca Florio” che, con
cerimonia al palazzo dei Normanni, è conferito a professionisti, manager e imprenditori,
quale riconoscimento per il loro ruolo di Ambasciatori della Sicilia.
Se i Florio non hanno ancora ispirato una fiction televisiva, hanno però ispirato un romanzo, “Il leone di Palermo” di Salvatore Requirez, edizioni Flaccovio, in cui sotto i nomi
fittizi dei protagonisti, Leone e Enza, sono riconoscibilissimi Ignazio e Franca Florio.
Inoltre Donna Iacona Franca Florio è presente anche in Facebook, voce consultabile pubblicamente, da cui si può dedurre come la nobildonna siciliana conti ancora molti ammiratori e si senta la necessità di conoscere più cose su di lei.
Lo stesso Leonardo Siascia non nascose che avrebbe voluto dedicarle un racconto, affermando che “Senza di lei la storia dei Florio sarebbe stata una storia verghiana, solitaria e
dolorosa, di accumulazione, di sommessa e inesorabile fatalità; con lei diventa una storia
proustiana, di splendida decadenza, di dolcezza del vivere, di affabile e ineffabile fatalità”.
Una biografia completa di Franca Florio è quella della scrittrice palermitana Anna Pomar,
da poco scomparsa.
Una donna quindi, Franca Florio, che ha rappresentato l’Italia nell’alta società europea
della “belle époque”, una donna sicuramente eccezionale per collocazione sociale e fascino, ma anche una moglie costretta ad accettare i numerosi tradimenti del marito e una madre addolorata per la morte prematura dei figli, e forse sono questi gli aspetti che la fanno
scendere dal piedistallo del mito e rientrare nella quotidianità delle donne del suo tempo.
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Bibliografia
NINO BASILE, Palermo felicissima, nota introduttiva di R. Lo Duca, Vittorietti editore,
Palermo 1978
ANNA POMAR, Donna Franca Florio, Firenze 1986
VINCENZO PRESTIGIACOMO, Vita mondana e Mano Nera nella Palermo della Belle Époque,
Nuova Ipsa Editore, Palermo 2010
SALVATORE REQUIREZ, Il leone di Palermo, Flaccovio, Palermo 2005
SALVATORE REQUIREZ, Storia dei Florio, Flaccovio, Palermo 2007
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ANTONIA
PIVA
Laureata in filologia classica, specializzata in filologia umanistica e in paleografia, è preside del
Liceo “Duca degli Abruzzi” di Treviso. Professore a contratto dell’ateneo veneziano, ha insegnato
didattica del latino nella SISS del Veneto. Dal 1990 lavora con la Direzione Generale del Ministero
a progetti di ricerca e di aggiornamento.
Ha scritto oltre cinquanta tra saggi e volumi (editori La Nuova Italia, Marsilio, Utet, Armando).
Nella città natale di Orazio, ha ricevuto il premio “Venosa Donna 2011”, per la diffusione del
pensiero oraziano in Italia e in Europa.
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ANTONIA PIVA
Maria Montessori, ovvero il bambino al centro
Correvano i primi decenni del secondo secolo dopo Cristo e un poeta latino dai toni mordaci, Giovenale1, riassumeva il senso profondo dell’educazione con parole divenute proverbiali: Maxima debetur puero reverentia (Sat. 14, 47), all’infanzia, cioè, si deve riservare il massimo rispetto. Si può dire che l’intera storia della pedagogia possa riassumersi con
questa formula, nel tentativo non solo e non tanto di individuare metodologie e tecniche
efficaci2, ma soprattutto il senso dell’essere bambino in una società di adulti e la funzione
di questi ultimi nei confronti del primo.
Rispettare il bambino: che significa? Tutta l’opera, la vita, anzi, di Maria Montessori3 danno una risposta chiara ed originale a questa domanda. Per comprenderlo, abbandoniamo
la Roma dei Fori, facciamo un balzo di secoli, e ritroviamoci nella Roma ottocentesca
dei Savoia. Maria nasce cittadina italiana il 31 agosto 1870, a Chiaravalle, in provincia
di Ancona: dieci anni prima, con la battaglia di Castelfidardo ed il successivo assedio di
Ancona, le Marche erano uscite dallo Stato Pontificio, per entrare, grazie al plebiscito del
novembre 1860, nel Regno d’Italia. L’esistenza di questa donna, a ben guardare, si intreccia con vicende importanti della storia italiana: è nata da neppure un mese che l’esercito
italiano entra in Roma, ponendo fine al millenario Stato della Chiesa; quando nel 1952
muore in Olanda, a Noordwijk aan Zee, il 6 maggio 1952, un mese prima la RAI aveva
iniziato, ancora in fase sperimentale, le sue trasmissioni televisive, avviando una nuova,
forse imprevedibile ma certo profonda, unificazione linguistica e culturale d’Italia. Ma
andiamo per gradi.
Il padre di Maria, Alessandro, un ferrarese impiegato di concetto nelle saline di Comacchio, era giunto nelle Marche per lavoro; la madre, Renilde Stoppani, era nipote dell’abate
Antonio, autore del Bel Paese. Quando la famiglia si trasferisce a Roma, la città è capitale
da pochi mesi: Maria è tra le prime studentesse della centralissima “Regia Scuola Tecnica
Femminile” di via degli Annibaldi, fondata nel 1884 con l’ambizione di ammodernare in
chiave europea l’istruzione delle ragazze. Carattere caparbio, ella esula dalla tradizione
edulcorata delle giovinette ottocentesche: sui banchi di scuola, abbandona gli studi di pianoforte che la annoiano, e prova un forte interesse per la biologia. Nell’età delle scienze
positive, dominata dalla fiducia nel progresso trasformatore di civiltà, la giovane Montessori sente prepotente la vocazione alla medicina, contrastando il volere dei genitori, che
aspirano per lei alla professione tradizionalmente femminile di insegnante. Sarà lei stessa,
anni più tardi, a dichiarare al “Globe” di New York che, tra gli ostacoli del ministro Baccelli, solo l’aiuto di Leone XIII la introdusse alla facoltà di Medicina della “Sapienza”,
dove si laurea nel 1896, tra le primissime donne del Paese.
Questi studi imprimeranno il carattere di novità della pedagogia montessoriana: ella giunge al fanciullo non dalla elaborazione teorica della filosofia4, come nella tradizione accademica, né dalla pratica di maestra5, né, ancora, dall’afflato religioso di una missione di
vita6, ma dall’attento metodo scientifico-sperimentale dei medici7. La tesi, discussa il 10
luglio 1896, è intitolata: Contributo clinico allo studio delle allucinazioni a contenuto
antagonistico; ben presto, la Montessori si applica su temi di cerniera tra psichiatria e
antropologia, scienze del tutto nuove per quei tempi, divenendo nel 1904 libero docente
di antropologia. Maria scopre il mondo dei cosiddetti “bambini deficienti” e dei “bambini
selvaggi”, divenuti quasi fenomeno di costume in seguito ad alcuni fatti di cronaca8: quasi
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riavvolgendo un filo d’Arianna culturale, dai casi dei bambini “anormali” arriva alla concreta situazione di tutti i bambini, che ella imposta in modo tanto organico quanto radicale
in termini di liberazione dell’infanzia, “la vera questione sociale del nostro tempo”. Un’affermazione tanto più coraggiosa se si pensa che l’attenzione italiana era invece rivolta a
problemi politico-economici e alla sfortunata epopea abissina: si succedono i governi di
Crispi e di Giolitti, e se il 1896 è anche l’anno della sconfitta di Adua, nel 1904 si verifica
il primo sciopero italiano.
In un periodo in cui il bambino è un essere assolutamente minoritario, concepito come un
“uomo in miniatura” nel quale reprimere i caratteri distintivi di spontaneità per inculcare
l’imitazione dei comportamenti adulti, sinanco nell’abbigliamento, ella concepisce una
immagine inedita e favorevole dei fanciulli, come creature autonome e diverse rispetto ai
grandi, dotate di una loro ricca disponibilità all’apprendimento culturale. È la sua personalissima rivoluzione copernicana, alla quale dedica un surplus di studio, nell’ambito dell’igiene e della pediatria, sinché nel 1907 apre a San Lorenzo la prima “Casa dei Bambini”,
ove applicare la nuova concezione dell’infanzia. Il passo verso la produzione scientifica e
la vasta eco internazionale è breve: nel 1909, mentre Marinetti pubblica a Parigi il Manifesto del Futurismo e Guglielmo Marconi riceve il Nobel per la fisica, ella dà alle stampe a
Città di Castello Il metodo della Pedagogia Scientifica; nel 1913 decolla a Roma il Corso
Internazionale sul cosiddetto “Metodo-Montessori”. Il pensiero di Maria è infatti strutturato in modo organico e sistemico, come un vero metodo: si avvia da presupposti scientifici
ed etici, poggia sulla sperimentazione, chiarifica le strategie e le necessarie strutture, a partire dagli edifici appositamente organizzati in funzione del bambino. Ma con la Montessori si va anche al di là del metodo, poiché da idee tanto trainanti sorge un vero e proprio
Movimento, che si diffonde al di là dei confini nazionali, soprattutto quando, nel 1934,
ella si trasferisce all’estero, in opposizione al fascismo, quello stesso fascismo che aveva
inizialmente appoggiato ed esaltato la nascita, nel 1924, dell’Opera Nazionale Montessori
e, nel 1928, della Scuola Magistrale Montessori di Roma 9. Questo pensiero che si fa subito
azione continua tuttora con numeri imponenti: centinaia in Italia e così pure in Francia, in
Germania, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, negli Stati Uniti sono le scuole montessoriane,
con quella franca peculiarità voluta da una donna coraggiosa ed originale.10
Nello stesso 1913, il “New York Tribune” definisce Maria Montessori the most interesting
woman of Europe, fatto straordinario se rapportato all’angustia del provincialismo italiano, ma consequenziale allo spirito autenticamente femminista della Montessori, che assieme alla condizione dei bambini esplora negli ospedali la sorte di tante donne, condannate
all’emarginazione, alla povertà, alla malattia, ma al tempo stesso avviate a un’inarrestabile
emancipazione, se si pensa che proprio nel 1907, l’anno della “Casa dei Bambini”, la Finlandia concede per prima alle donne il diritto di voto. D’altro canto, un po’ in tutta Europa
- e l’Italia non fa eccezione -, sono anni di dinamismo e di tensione innovativa: il sistema
della fabbrica e del pubblico impiego occupa ormai anche le donne in un lavoro fuori casa,
ed i loro figli devono trovare una sistemazione alternativa all’abbandono per molte ore al
giorno. Questo ruolo vicario all’educazione materna spiega l’impellente necessità organizzativa degli asili per l’infanzia; né si può trascurare il ruolo che lo stato richiama a sé nel
disciplinare il processo educativo, imprimendovi la sua visione sociale, fedele al monito
di D’Azeglio di fare gli Italiani dopo aver fatto l’Italia.
Con gli anni Trenta, il pensiero montessoriano ed il regime fanno esplodere il loro inconciliabile rapporto di fondo: dopo i corsi internazionali di Roma e la conferenza che a
Ginevra ella dedica alla pace11, nel 1934 vengono chiuse tutte le scuole Montessori; nello
stesso anno, anche Hitler ordina la chiusura delle scuole Montessori in Germania e Au-
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stria, mentre nel 1936 il ministro De Vecchi mette la parola fine alla Regia Scuola triennale
del Metodo Montessori, che a Roma preparava le maestre.12 Per la Montessori è l’emarginazione in patria, ma non all’estero e, in particolare, oltreoceano, con la grande attrazione
esercitata dalla sua “liberazione del fanciullo”. Il suo principio pedagogico fondamentale
risiede infatti nella libertà dell’allievo, non solo poiché essa favorisce la creatività del
bambino, ma anche perchè è dalla libertà che deve emergere la disciplina. Interessante, a
questo proposito, conoscere i suggerimenti montessoriani per il bambino che disturba in
classe: egli deve essere messo in disparte, da solo, perchè da questa posizione osservi il
lavoro ordinato dei compagni e ne apprezzi l’alacrità, tanto da desiderare di farvi parte.
Più ampiamente: l’impulso al bene e al male tipici dell’uomo e, soprattutto, del suo libero
arbitrio, sono strettamente connessi alla vita infantile di ciascuno di noi.
Se vogliamo capire la grande novità della Montessori rispetto ai suoi tempi e, soprattutto,
alla situazione italiana, possiamo scegliere due particolari angolature: l’identità del bambino e il ruolo del maestro e, più ampiamente, dell’istruzione.13 Con il secondo possiamo
rifarci alla storia dell’istruzione italiana, con la prima alla letteratura per l’infanzia, considerato che, nell’arco della vita di Maria Montessori, molte sono le opere indimenticabili
pubblicate, ciascuna con una sua profonda valenza educativa: in ultima analisi, anno dopo
anno, la letteratura registra il costante e progressivo percorso di emancipazione se non del
bambino almeno della riflessione sulla sua natura e condizione.
Nel 1868, due anni prima della nascita della pedagogista italiana, vedono la luce le Piccole Donne, della statunitense Luisa May Alcott, con le vicende ora dolci ora amare delle
sorelle March, tra le quali spicca Jo, intrepida e autonoma nelle sue scelte, poi destinata
a diventare educatrice, in nome di una pedagogia dell’attivismo ante-litteram; nel 1876
Mark Twain crea Tom Sawyer, con le avventure di un ragazzino discolo eppure schiettamente leale, che crede all’amicizia e sente il desiderio di crescere, e che pur fuggendo
prova nostalgia per la casa, non sapendo escludere dalla propria vita la famiglia. Si tratta,
in realtà, di un’opera aperta, come chiarisce sagacemente la conclusione: “Qui finiscono le
avventure. Trattandosi della storia di un ragazzo, deve fermarsi qui; non andrebbe troppo
in là senza diventare presto la storia di un uomo. Quando uno scrittore scrive un romanzo
su persone adulte, sa benissimo dove finire, e cioè al matrimonio; ma quando scrive di ragazzi, si ferma dove meglio crede. La gran parte dei personaggi che compaiono in questo
libro vivono ancora, hanno fatto fortuna e vivono felici. Un bel giorno, forse, sarà il caso
di riprendere la storia dei più giovani per vedere che tipi di uomini e di donne sono diventati. Perciò sarà meglio non aggiungere altro, per il momento”.
Del 1880 è il primo romanzo compiutamente ecologista: si tratta di Heidi, della svizzera
Johanna Spyri, nel quale la candida pastorella allevata con tanto amore dal ruvido nonno
in mezzo agli alpeggi e poi catapultata nella vita asfittica di città esalta il ruolo implicitamente educativo della vita a contatto con la natura, con la sua verità imperitura, mentre
l’amicizia con Peter e Klara propone il valore semplice quanto prezioso della generosità
tra bambini; interessante e trattato con ironia è il personaggio della signorina Rottenmeier,
un’istitutrice rigida e piena di pregiudizi, simbolo di un’educazione arretrata, fondamentalmente improduttiva, antitetica ai presupposti della Spyri. Nel 1901 è la volta di Kim,
di Rudyard Kipling, il quale, sullo sfondo dell’India coloniale, ci propone un romanzo di
formazione per far conciliare culture diverse; del 1907 è I ragazzi della via Pál, dell’ungherese Ferenc Molnár, destinato originariamente agli educatori e ai genitori come denuncia della mancanza di spazi per il gioco dei ragazzi, ed intessuto nel suo profondo di una
lezione di dignità e di giustizia solidale.
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In ambito francese abbiamo romanzi importanti, non solo composti espressamente per
l’infanzia, ma che, indirizzati agli adulti, hanno per protagonisti degli adolescenti. Nel
1894, Jules Renard pubblica Pel di carota, la storia a bozzetti, tra amarezza ed ironia, di
un ragazzo di campagna che vive con ribellione l’inserimento in una famiglia gretta; con
grande originalità, il protagonista - nella cui vicenda si ritrae lo scrittore - non è innocente e remissivo, come nel tradizionale patetismo della letteratura infantile, ma egli stesso
egoista e bizzoso, ombroso e invidioso, simbolo comunque dell’estremo desiderio di autonomia e di libertà insito nella crescita, con tutte i suoi contraddittori stimoli. Nel 1900 esce
Claudine a scuola di Colette: ritenuto scandaloso per i temi trattati, in un avvicendarsi di
amori platonici e di pulsioni saffiche, di uomini viziosi e ragazzine impudenti, è un libro
rivolto agli adulti, anche se la tematica permette uno sguardo realistico sul mondo della
scuola tra Otto e Novecento, visto che la protagonista è un’adolescente, ritratta assieme a
compagne ed insegnanti nel suo ultimo anno di scuola. Fra litigi e passioni, sotto la supervisione dispotica della direttrice, giungono infine gli esami di licenza: un rito di passaggio
verso le scelte adulte.
Nel 1912, Louis Pergaud ci consegna la sua vivacissima Guerra dei Bottoni, indimenticabile per la freschezza del linguaggio, colorito e sgrammaticato, come si conviene a ragazzi
che preferiscono i combattimenti tra bande rivali alla scuola, nonostante tutte le cure del
maestro, attento a conculcare le regole grammaticali e i doveri di cittadinanza. Importante
è il rapporto tra generazioni: i ragazzi cercano la felicità costruendosi un piccolo mondo
di cui solo loro hanno il controllo, opponendosi fieramente a tutto quanto sa di adulto e,
dunque, di costrizione, come la chiesa, la scuola, i predicozzi familiari, anche se in un
momento di ribellione verso i genitori qualcuno riflette: “e pensare che un giorno diventeremo bamba quanto loro”. Con l’aviatore-scrittore Antoine de Saint-Exupéry, esce il 6
aprile 1943 uno dei testi più intimamente poetici del XX secolo: è Le Petit Prince che,
nella forma di un racconto fantastico per ragazzi, delinea una compiuta educazione sentimentale, con il primato della dimensione affettiva nella stessa conoscenza.
Due anni dopo, alla conclusione del conflitto mondiale, questo percorso di affrancamento,
almeno letterario, del bambino si compie: il 1945 nasce Pippi Calzelunghe, della svedese
Astrid Lindgren. La protagonista è un’eccentrica bambina che va a vivere da sola in una
grande villa assieme alla sua scimmietta e al suo cavallo bianco a pois neri, e che supera
bizzarre avventure con i suoi amici Tommy e Annika, una coppia di fratellini: un messaggio di speranza anticonformista per la Svezia noiosamente conservatrice del secondo
dopoguerra. Come si vede, tutte le opere citate pongono al centro dei bambini e dei ragazzi, che affermano in modo caparbio la loro persona, dalle svariate caratterizzazioni, e che
traggono dall’esperienza reale e dalla condivisione con i coetanei14 gli insegnamenti più
importanti. Del resto, è proprio nella relazione, col mondo e con gli altri, che si sviluppa
l’intelligenza plastica dei piccoli.
E in Italia? Dopo le Avventure di Pinocchio del 1881,15 con la sua metafora di una vita
che scopre il proprio senso grazie all’errore e alla caduta e che tutto sommato diffida degli insegnamenti verbali altrui, i romanzi per ragazzi di casa nostra portano alla luce una
condizione infantile più angusta, irrigidita dalla precettistica adulta, di fronte alla quale
si aprono due scelte antitetiche: piegarsi o ribellarsi. Esito della prima sarà l’inserimento
proficuo nella società dei grandi, della seconda l’allontanamento. In nessun modo si prevede che l’innovazione pedagogica possa trasformare la società, aprendo nuove piste valoriali. I due segnavia sono rappresentati rispettivamente da Cuore, di Edmondo De Amicis,
del 1886, e da Il Giornalino di Giamburrasca, scritto nel 1907 da Vamba, pseudonimo di
Luigi Bertelli.
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Il primo ci porta nella Torino successiva all’incoronazione di re Umberto I, nel 1878; nella prefazione, l’autore chiarisce che “Questo libro è particolarmente dedicato ai ragazzi
delle scuole elementari, i quali sono tra i 9 e i 13 anni, e si potrebbe intitolare: Storia d’un
anno scolastico, scritta da un alunno di terza d’una scuola municipale d’Italia. - Dicendo
scritta da un alunno di terza, non voglio dire che l’abbia scritta propriamente lui, tal qual
è stampata. Egli notava man mano in un quaderno, come sapeva, quello che aveva visto,
sentito, pensato, nella scuola e fuori; e suo padre, in fin d’anno, scrisse queste pagine su
quelle note, studiandosi di non alterare il pensiero, e di conservare, quanto fosse possibile,
le parole del figliuolo. Il quale poi, 4 anni dopo, essendo già nel Ginnasio, rilesse il manoscritto e v’aggiunse qualcosa di suo, valendosi della memoria ancor fresca delle persone e
delle cose. Ora leggete questo libro, ragazzi: io spero che ne sarete contenti e che vi farà
del bene”.
Per penna di Enrico Bottini, vediamo sfilare alunni di ogni ceto sociale e rappresentanza
geografica, a testimonianza dello sforzo di assimilazione che si assegnava come compito precipuo, accanto all’alfabetizzazione, alla scuola. Vero e proprio scrittore moralista,
come lo definì Benedetto Croce, De Amicis fotografa il ruolo subordinato dell’infanzia
e il valore della scuola come grande apparato educativo, un super-io che tutto permea e
che chiama i ragazzi all’agone con grande disciplina; così, in calce al quaderno del figlio,
annota il padre di Enrico: “Sì, caro Enrico, lo studio ti è duro, come ti dice tua madre, non
ti vedo ancora andare alla scuola con quell’animo risoluto e con quel viso ridente, ch’io
vorrei. Tu fai ancora il restìo. Ma senti: pensa un po’ che misera, spregevole cosa sarebbe
la tua giornata se tu non andassi a scuola! A mani giunte, a capo a una settimana, domanderesti di ritornarci, roso dalla noia e dalla vergogna, stomacato dei tuoi trastulli e della tua
esistenza. […] Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito. I tuoi libri son le
tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, e la vittoria è
la civiltà umana. Non essere un soldato codardo, Enrico mio. TUO PADRE”.
Nel libro, numerosi sono i ritratti di maestri e maestre, contrassegnati dall’abnegazione; l’appello al sentimento costituisce, comunque, una sorta di ricatto latente, come nella
descrizione del maestro Perboni: “Anche il mio nuovo maestro mi piace, dopo questa
mattina. Durante l’entrata, mentre egli era già seduto al suo posto, s’affacciava di tanto
in tanto alla porta della classe qualcuno dei suoi scolari dell’anno scorso, per salutarlo;
s’affacciavano, passando, e lo salutavano: - Buongiorno, signor maestro. - Buon giorno,
signor Perboni; - alcuni entravano, gli toccavan la mano e scappavano. Si vedeva che gli
volevan bene e che avrebbero voluto tornare con lui. Egli rispondeva: - Buon giorno, stringeva le mani che gli porgevano; ma non guardava nessuno, ad ogni saluto rimaneva
serio, con la sua ruga diritta sulla fronte, voltato verso la finestra, e guardava il tetto della
casa di faccia, e invece di rallegrarsi di quei saluti, pareva che ne soffrisse. Poi guardava
noi, l’uno dopo l’altro, attento. Dettando, discese a passeggiare in mezzo ai banchi, e visto
un ragazzo che aveva il viso tutto rosso di bollicine, smise di dettare, gli prese il viso fra
le mani e lo guardò; poi gli domandò che cos’aveva e gli posò una mano sulla fronte per
sentir s’era calda. In quel mentre, un ragazzo dietro di lui si rizzò sul banco e si mise a fare
la marionetta. Egli si voltò tutt’a un tratto; il ragazzo risedette d’un colpo, e restò lì, col
capo basso, ad aspettare il castigo. Il maestro gli pose una mano sul capo e gli disse: - Non
lo far più. - Nient’altro. Tornò al tavolino e finì di dettare. Finito di dettare, ci guardò un
momento in silenzio; poi disse adagio adagio, con la sua voce grossa, ma buona: - Sentite.
Abbiamo un anno da passare insieme. Vediamo di passarlo bene. Studiate e siate buoni.
Io non ho famiglia. La mia famiglia siete voi. Avevo ancora mia madre l’anno scorso: mi
è morta. Son rimasto solo. Non ho più che voi al mondo, non ho più altro affetto, altro
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pensiero che voi. Voi dovete essere i miei figliuoli. Io vi voglio bene, bisogna che vogliate
bene a me. Non voglio aver da punire nessuno. Mostratemi che siete ragazzi di cuore; la
nostra scuola sarà una famiglia e voi sarete la mia consolazione e la mia alterezza. Non
vi domando una promessa a parole; son certo che, nel vostro cuore, m’avete già detto di
sì. E vi ringrazio. - In quel punto entrò il bidello a dare il finis. Uscimmo tutti dai banchi
zitti zitti. Il ragazzo che s’era rizzato sul banco s’accostò al maestro, e gli disse con voce
tremante: - Signor maestro, mi perdoni. - Il maestro lo baciò in fronte e gli disse: - Va’,
figliuol mio”.
E, ancora, osserviamo questa piccola galleria di maestre: “Garoffi stava tutto pauroso,
quest’oggi, ad aspettare una grande risciacquata del maestro; ma il maestro non è comparso, e poiché mancava anche il supplente, è venuta a far scuola la signora Cromi, la più
attempata delle maestre, che ha due figliuoli grandi e ha insegnato a leggere e a scrivere
a parecchie signore che ora vengono ad accompagnare i loro ragazzi alla Sezione Baretti.
Era triste, oggi, perché ha un figliuolo malato. Appena che la videro, cominciarono a fare
il chiasso. Ma essa con voce lenta e tranquilla disse: - Rispettate i miei capelli bianchi: io
non sono soltanto una maestra, sono una madre; - e allora nessuno osò più di parlare, neanche quella faccia di bronzo di Franti, che si contentò di farle le beffe di nascosto. Nella
classe della Cromi fu mandata la Delcati, maestra di mio fratello, e al posto della Delcati,
quella che chiamano «la monachina», perché è sempre vestita di scuro, con un grembiale
nero, e ha un viso piccolo e bianco, i capelli sempre lisci gli occhi chiari chiari, e una voce
sottile, che par sempre che mormori preghiere. E non si capisce, dice mia madre: è così
mite e timida, con quel filo di voce sempre eguale, che appena si sente, e non grida, non
s’adira mai: eppure tiene i ragazzi quieti che non si sentono, i più monelli chinano il capo
solo che li ammonisca col dito, pare una chiesa la sua scuola, e per questo anche chiamano
lei la monachina. Ma ce n’è un’altra che mi piace pure: la maestrina della prima inferiore
numero 3, quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette nelle guancie,
e porta una gran penna rossa sul cappellino e una crocetta di vetro giallo appesa al collo. È sempre allegra, tien la classe allegra, sorride sempre, grida sempre con la sua voce
argentina che par che canti, picchiando la bacchetta sul tavolino e battendo le mani per
impor silenzio; poi quando escono, corre come una bambina dietro all’uno e all’altro, per
rimetterli in fila; e a questo tira su il bavero, a quell’altro abbottona il cappotto perché non
infreddino, li segue fin nella strada perché non s’accapiglino, supplica i parenti che non li
castighino a casa, porta delle pastiglie a quei che han la tosse, impresta il suo manicotto a
quelli che han freddo; ed è tormentata continuamente dai più piccoli che le fanno carezze
e le chiedon dei baci tirandola pel velo e per la mantiglia; ma essa li lascia fare e li bacia
tutti, ridendo, e ogni giorno ritorna a casa arruffata e sgolata, tutta ansante e tutta contenta,
con le sue belle pozzette e la sua penna rossa. È anche maestra di disegno delle ragazze, e
mantiene col proprio lavoro sua madre e suo fratello”.
Maestre che perdono la salute in aule insalubri e che si struggono per racimolare un misero stipendio: di là dal patetismo bozzettistico, De Amicis porta alla luce la condizione
assai difficile di una professione che, soprattutto a fronte di magri guadagni, era andata
femminilizzandosi quasi del tutto. Se nel 1863 gli uomini erano percentualmente un po’
superiori alle donne, nel 1901 la situazione era totalmente capovolta, con oltre il doppio di
femmine (44.561) rispetto ai colleghi maschi (21.176)16. Agli inizi del Novecento si può
notare anche la sperequazione stipendiale tra maschi e femmine: agli esordi di carriera, un
maschio guadagnava 1.760 lire, una maestra 1610; dopo vent’anni un uomo guadagnava
2.906 lire, una donna 2.450. Chi si dedicava alla professione di maestra era solitamente
assai giovane, nubile, di modesta estrazione sociale, in possesso di quella cultura ele-
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mentare sufficiente per superare l’esame di abilitazione. Ci si rivolgeva verso tale lavoro
non tanto per lo stipendio, quanto perché si trattava comunque di un impiego destinato,
con molta buona volontà e adeguata abnegazione, a divenire stabile, in una società nella
quale, ad ogni buon conto, non c’erano molti varchi per la carriera femminile. I fatti di
cronaca testimoniano, per altro, la difficile condizione ambientale delle insegnanti: poiché
la scuola elementare era di appannaggio del comune, la possibilità di pressioni, vessazioni
e persino di violenze fisiche da parte dei sindaci era all’ordine del giorno. Quando venivano mandate a fare le maestre in paesini sperduti, le donne cadevano spesso in balia dei
pregiudizi, dipendendo in tutto e per tutto dagli amministratori, sottoposte all’occhiuto
controllo del parroco locale; eppure in pochi decenni divennero da vittime dei pregiudizi
a pioniere dell’alfabetizzazione in località ancora selvagge, veri e propri presìdi civili e
come tali riconosciute dalla comunità.17 Nel 1911, con la legge Daneo Credaro, finalmente
le scuole elementari furono avocate allo Stato, garantendo i docenti riguardo alle nomine,
sottraendoli all’arbitrio dei comuni, con la stabilità dell’impiego. La legge dichiarò, infine,
le donne eleggibili a tutti i ruoli dell’istruzione, a partire dall’Ispettorato Centrale. È per
altro vero che l’insegnamento femminile, sentito al pari di una missione che tutto assorbiva, fu concepito spesso come alternativo alla possibilità di farsi una famiglia, anche per il
difficile iter da un paesino all’altro.
La stessa Maria Montessori sacrificò ogni cosa al suo mandato, oltre che alle convenzioni
del tempo: nel 1898, dalla relazione con Giuseppe Montesano,18 suo collega alla clinica
psichiatrica di Roma, ebbe il figlio Mario. Poiché non era sposata, fu costretta a darlo in
affido, un’esperienza che la segnerà profondamente, anche se poi Mario diverrà un suo
stretto collaboratore. L’epilogo della dolorosa maternità della Montessori non è dunque
scontato, visto che le strade dei due si ricongiunsero e Mario aiutò la madre nell’organizzare le sue conferenze in tutto il mondo e nel riordino degli scritti, diffondendone, alla sua
morte, il messaggio.
Al pari di Cuore, anche Il giornalino di Giamburrasca adotta la modalità diaristica per
calarci nella vita di un bambino di nove anni: ma ben diverso dal torinese Enrico, il fiorentino Giannino Stoppani è un vero guastafeste e la sua spontaneità sembra fatta apposta
per scompaginare i programmi degli adulti e le regole del vivere borghese, ispirate a un
prudente moralismo. Ecco che il suo punto di vista fa esplodere l’ipocrisia del punto di
vista adulto: è in questa dissonanza che consiste il pregio di scrittura ma anche l’acume
psicologico del libro. La stessa scuola, rappresentata da professori eruditi ma senza alcuna
cognizione della realtà, bersaglio degli scherzi studenteschi, direttrici sadiche e arraffone
contro cui ribellarsi, è lo specchio impietoso di carenze a quanto sembra non infrequenti
nel regio sistema d’istruzione.
E se la Montessori andava propugnando una pedagogia della libertà, ecco una pagina
del nostro Giornalino: “16 ottobre. È appena giorno. Ho preso una grande risoluzione e,
prima di metterla in effetto, voglio confidarla qui nelle pagine di questo mio giornalino
di memorie, dove registro le mie gioie e i miei dispiaceri che sono tanti, benché io sia un
bambino di nove anni. Stanotte, finita la festa, ho sentito un gran bisbigliare all’uscio di
camera mia, ma io ho fatto finta di dormire e non hanno avuto il coraggio di svegliarmi:
ma stamani, quando si alzeranno, mi toccheranno certamente delle altre frustate, mentre
non mi è ancora cessato il dolore di quell’altre che ebbi l’altro giorno dal babbo. Con
questo pensiero, non ho potuto chiudere un occhio in tutta la notte. Non c’è altro scampo,
per me, che quello di scappar di casa prima che i miei genitori e le mie sorelle si sveglino.
Così impareranno che i ragazzi si devono correggere ma senza adoprare il bastone, perché, come ci insegna la storia dove racconta le crudeltà degli Austriaci contro i nostri più
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grandi patriotti quando cospiravano per la libertà, il bastone può straziare la carne ma non
può cancellare l’idea. Perciò mi è venuto l’idea di scappare in campagna, dalla zia Bettina,
dove sono stato un’altra volta. Il treno parte alle sei, e di qui alla stazione in mezz’ora ci
si va benissimo. Sono bell’e pronto per la fuga: ho fatto un involto mettendovi due paia di
calze e una camicia per cambiarmi... In casa tutto è silenzio, ora scenderò piano piano le
scale, e via in campagna, all’aria aperta... Viva la libertà!...”
È alla luce di queste pagine, oltre che dell’indagine sulla condizione e il ruolo dei maestri italiani, che la proposta montessoriana acquista ulteriore rilievo. La sua dimensione
scientifica decolla da un presupposto rigorosamente laboratoriale: i bambini hanno diritto
non solo a essere accuditi ed educati, ma soprattutto ad essere studiati, perchè si comprenda quali meccanismi presiedano all’apprendimento e alla socializzazione. Per questo,
la Montessori si concentra sull’infanzia anziché sull’adolescenza: è nell’infanzia che si
possono rintracciare i processi di maturazione della personalità, che vanno accompagnati
e potenziati, mentre sino a quel momento genitori ed educatori hanno preteso di imporre
metodi e ricette basati sulla propria personale identità. Quanti errori, quante deformazioni
strumentali hanno accompagnato la storia dell’educazione e, più in genere dell’infanzia!:
questo pensiero sorge in lei occupandosi dei bambini selvaggi e dei piccini ritardati rinchiusi negli ospizi, e si amplia a contatto con tutti i bambini. Porre al centro il bambino,
contro i silenzi ed i pregiudizi accumulati nei secoli, richiede uno sforzo coraggioso: impostare la questione educativa abbandonando il punto di vista dell’adulto ed assumendo
quello del fanciullo.
Povero di energie spirituali, irrazionale e dunque inferiore per definizione all’adulto: ecco
chi è il bambino nella tradizione culturale dell’Occidente. Si ignorano le energie creatrici
dell’infanzia, si bollano sbrigativamente per capricci le sue manifestazioni emotive, e per
sciocchezze i suoi estri fantastici; ben poche sono le eccezioni, la più suggestiva delle
quali l’articolo programmatico pascoliano Il Fanciullino, uscito nel 1897: “È dentro noi
un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo
scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli
confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e,
insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e
un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi
un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo
e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di
campanello. […].”
Ma lungi dalla fascinazione metaforica del Pascoli risolta nella poetica dell’irrazionale, la
Montessori guarda alla vita concreta dei bambini: “Cos’è l’infanzia? Un disturbo costante
per l’adulto preoccupato e stancato da occupazioni sempre più assorbenti. Non c’è posto
per l’infanzia nelle più ristrette case della città moderna, dove si accumulano le famiglie.
Non c’è posto per essa nelle vie, perchè i veicoli si moltiplicano e i marciapiedi sono affollati da gente che ha fretta. Gli adulti non hanno tempo per occuparsene perchè i loro
obblighi urgenti li opprimono. Padre e madre sono entrambi costretti a lavorare e quando
il lavoro manca, la miseria opprime e stronca i bambini come gli adulti. Anche nelle migliori condizioni, il bambino resta confinato nella sua stanza, affidato ad estranei salariati.
Deve starsene buono, in silenzio, perchè nulla gli appartiene” (L’infanzia, p. 32). E, dunque, “non è un metodo di educazione che bisogna conoscere, ma la difesa del bambino,
il riconoscimento scientifico della sua natura, la proclamazione sociale dei suoi diritti”
(Formazione dell’uomo, p. 11).
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Con un percorso lineare e inarrestabile, la Montessori passa allora dalla psichiatria all’antropologia e da questa alla pedagogia e alla filosofia stessa, perchè il suo puerocentrismo
è, in realtà, un nuovo antropocentrismo, incamminandosi “verso una civiltà che dovrà
preparare due ambienti sociali, due mondi distinti: il mondo dell’adulto e quello del bambino” (L’Infanzia, p. 87). Il bambino è infatti un essere completo, capace di sviluppare
energie creative e possessore di disposizioni morali, come l’amore, che l’adulto ha ormai
compresso dentro di sé, rendendole inattive. Si comprendono meglio, allora, i principibase della Montessori: va riposta la massima fiducia nell’interesse spontaneo del bambino,
nel suo impulso naturale ad agire e conoscere; ogni bambino, seguendo il proprio disegno
interiore di sviluppo e i suoi istinti-guida, accende naturalmente l’interesse ad apprendere,
a lavorare, a costruire, a portare a termine le attività iniziate, a sperimentare le proprie forze, a misurarle e controllarle. Nell’autopoiesi in cui la Montessori indirizza i suoi sforzi,
interesse, attività e sforzo sono i caratteri del lavoro spontaneo e autoeducativo nel quale il
bambino si immerge con entusiasmo e amore, rivelando e costruendo le qualità superiori
dell’uomo: proprio per questo la pedagogia è, implicitamente, antropocentrica.
Ne conseguono tre condizioni di base: la predisposizione di un ambiente adatto, visto
che l’ambiente di apprendimento è anche uno spazio fisico, scientificamente organizzato
e preparato; un profilo nuovo della funzione docente commisurato al profilo nuovo del
bambino; la realizzazione di appositi materiali didattici, progettati con progressione psicopedagogica. Quando entriamo in una scuola montessoriana, soprattutto rapportandoci alla
tradizione di un’aula rigidamente disposta rispetto alla cattedra, con degli arredi che inevitabilmente comunicano austerità ed utilitarismo adulto, restiamo colpiti da una leggiadra
quanto profonda diversità: tutto è anche fisicamente a misura di bambino, progettato con
suppellettili proporzionate alle piccole dimensioni dei “padroni di casa” e alle loro svariate
necessità. Se è vero che il ruolo dell’ambiente è secondario rispetto alla capacità di crescita del soggetto, potendo modificare questo processo, ma non determinarlo, è altrettanto
vero che un luogo stimolante e sollecito è quanto di più idoneo alla necessaria liberazione
del potenziale del bambino, che ha bisogno di concentrazione e di confortevolezza. Il fanciullo deve svolgere liberamente le proprie attività per maturare le sue capacità, anche se
tale liberazione non va intesa come spontaneismo, bensì come continuo raffinamento della
volontà, fino ai gradi più alti della vita etica: “i fanciulli conquistatori di se stessi sono pure
conquistatori di libertà, perchè spariscono in essi tante reazioni disordinate e inconsce che
pongono necessariamente i bambini sotto il continuo e rigido controllo dell’adulto” (Educare alla libertà, p. 66).
Nella costruzione di una scuola esplicitamente dedicata al bambino, l’adulto ha un ruolo
strumentale, di mediazione e di facilitazione: suo compito è quello di costruire un ambiente suscitatore degli interessi che via via si manifestano e maturano nel bambino, e
di evitare, con interventi inopportuni, un ruolo di disturbo allo svolgimento del lavoro,
pratico e psichico, a cui ciascun fanciullo va dedicandosi. “Aiutami a fare da solo” non è
uno slogan pedagogico, ma una domanda scientifica posta dalla natura stessa del bambino.
Se il compito dell’educatore è, pertanto, quello di liberare il bambino da ciò che ostacola
il disegno naturale del suo sviluppo, chi è, propriamente, l’educatore? “Lo sforzo del lavoro, dello studio, dell’apprendere è frutto dell’interesse e niente si assimila senza sforzo.
Ma sforzo è ciò che si realizza attivamente usando le proprie energie e ciò a sua volta si
realizza quando esiste interesse. Colui il quale nell’educare cerca di suscitare un interesse
che porti a svolgere un’azione e a seguirla con tutta l’energia, con entusiasmo costruttivo,
ha svegliato l’uomo” (Introduzione a Psicogeometria, p. 4).
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Con una immagine di grande impatto, il bambino è definito “il viaggiatore della vita”:
questa metafora potente e dinamica ci permette di addentrarci meglio nel compito dell’educatore, chiamato ad agevolare gli apprendimenti e ad attenuare con il suo insegnamento
lo sforzo della conoscenza, convertendolo nel godimento della conquista, in un viaggio tra
le cose e le idee, tra gli altri e il mondo. Per converso, “noi siamo i ciceroni di questi viaggiatori”, chiamati a guidare i più piccoli con una cultura efficace, mai pedante, lasciando
rispettosamente al viaggiatore il primato dell’osservazione e del giudizio.
Eccolo, dunque, il bambino che la Montessori ha posto al centro, una creatura intrinsecamente diversa e, altrettanto costitutivamente, atta ad apprendere: da zero a tre anni, la sua
mente è assorbente, con una assimilazione inconscia di quanto l’ambiente imprime, mentre la personalità va forgiandosi. A partire dai tre anni, prende quota la coscientizzazione
della mente, che inizia a mettere ordine nei dati sensibili acquisiti dal contatto con la realtà: per questo è tanto importante l’educazione prescolare, che introduce all’apprendimento
tipico dell’istruzione mediante una gradualità di esercizi scientificamente predisposti. Ma
apprendere non possiede unicamente una caratura cognitiva: l’esercizio di responsabilità
e le altre virtù civili si apprendono altrettanto a scuola. Sotto questo profilo, la pedagogia
è una scienza pratica che ha come postulato la libertà.
È in questo che rintracciamo la grande attualità montessoriana: il merito di aver coniugato, anzitutto sul piano organizzativo e non puramente teorico, la necessità di un’indagine
scientifica sul fanciullo, con l’inesauribile appello alla liberazione del bambino. In ultima
istanza, ella andava delineando la libertà dell’uomo e della società: “La nuova educazione
non consiste solo nel dare i mezzi di sviluppo per le singole azioni, ma anche nel lasciare
al bambino la libertà di disporne. È questo che trasforma il bambino in quel piccolo uomo
pensante e diligente che prende nel segreto del suo cuore decisioni e scelte così diverse
da ciò che avremmo supposto; ovvero che, con la rapidità di un impulso generoso o con
delicato affetto, compie azioni comandate istantaneamente dal suo io interiore. Anche in
ciò, anzi in ciò soprattutto, egli si esercita: così si incammina con sicurezza sorprendente
sulle vie della propria conoscenza” (Educare alla libertà, p. 69).
In anni in cui si moltiplicano le minacce alla libertà creatrice e spirituale dell’infanzia e
dell’adolescenza, con i condizionamenti dei nuovi media e del consumismo, in cui gli spazi scolastici permangono angusti, determinati da principi economici anziché pedagogici,
in cui la virtualità asettica della conoscenza accantona l’esperienza diretta e socializzata,
in cui la formazione degli insegnanti non ha ancora trovato strutture e risorse adeguate e la
loro professione non ha il necessario riconoscimento sociale, in mezzo ad avvilenti sacche
di precariato, la lezione di Maria Montessori acquista il passo profetico di una scuola nuova, anzi, di un mondo nuovo, per il quale svegliarci ogni mattina e riprendere a lavorare,
a scommettere, ad amare, conducendo sulle strade del mondo i nostri piccoli “viaggiatori
della vita”.
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NOTE
1. Naturalmente, per restare in età imperiale romana, non possiamo dimenticare la grande carica di intuizione pedagogica di Quintiliano (35-96 d.C.): temi come la dimensione ludica dell’apprendimento infantile, il rapporto
affettivo tra docente e discente, la necessità di stimoli diversificati e graduali… gli sono già propri, per quanto
subordinati allo scopo ultimo, che è quello di formare il perfetto oratore.
2. Oggetto, questo, della didattica; tuttavia, anche questa disciplina, nata in modo autonomo con Comenius
nell’Evo Moderno, non si ferma qui, ma va oltre, indagando le finalità profonde dell’istruzione, e lo stesso
concetto di insegnabilità.
3. Per conoscere i testi di Maria Montessori, si vada alle Edizioni Opera Nazionale Montessori di Roma e così pure
per l’imponente bibliografia. Si consulti anche il sito www.operanazionalemontessori.it. Un centro studi dedicato alla pedagogista ha sede nella sua casa natale di Chiaravalle (cfr. www.mariamontessori.it/flash/index.html)
4. Per eccellenza, il caso di Giovanni Gentile, per il quale la pedagogia è una branca della filosofia.
5. Come Rosa e Carolina Agazzi - che introducono nella scuola materna italiana il concetto e lo stesso profilo di
educatrice, imponendo una scuola del fare anziché del semplice giocare -, le quali prendono le mosse dal loro
personale lavoro di “maestre giardiniere”.
6. Pensiamo a nomi luminosi di sacerdoti che rivoluzionarono la scuola italiana nell’Otto e Novecento: don Bosco
e don Milani.
7. Come lei, Ovide Decroly e lo psicopedagogista Carl Rogers, con la sua pedagogia non direttiva.
8. Già nel Settecento, la letteratura scientifica francese aveva portato alla luce i casi di bambini abbandonati o
smarritisi in foreste ed allevati da animali, con gli esperimenti rieducativi tentati da Jean Marc Itard (17651835).
9. La Montessori in un primo momento accetta l’appoggio di Mussolini: egli pensava di risolvere il problema
dell’analfabetismo con le Case dei Bambini, ma probabilmente anche di trarre vantaggi personali dal prestigio
internazionale della “Dottoressa”, come veniva chiamata.
10. Di là dall’opposizione del fascismo, il pensiero montessoriano fu contrastato dall’egemonia idealistica della
cultura filosofica e pedagogica italiana, così come il mondo cattolico preferì rifarsi al metodo delle sorelle
Agazzi.
11. Poi raccolta con altri scritti nel volume del 1933 La pace e l’educazione.
12. Di lì a qualche anno, il precipizio della nostra istruzione: il 1937 è la volta della “Carta Bottai” della Scuola,
ispirata fascistamente a una rigida gerarchizzazione della vita sociale e degli stessi apprendimenti, mentre l’anno seguente le vergognose leggi razziali imporranno la cacciata di studenti ed insegnanti ebrei.
13. Cfr. G. Bonetta, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Scuola e processi formativi in Italia dal XVIII
al XX secolo, Firenze, Giunti, 1997; B. Vertecchi, La scuola italiana da Casati a Berlinguer, Milano, Franco
Angeli, 2001; E. Corbi, V. Sarracino, Scuola e politiche educative in Italia dall’Unità a oggi, Napoli, Liguori,
2003; N. D’Amico, Storia e storie della scuola italiana, Bologna, Zanichelli, 2009.
14. Né va dimenticato che nel 1907 abbiamo il primo campo scout, con un gruppo di venti ragazzi inglesi guidati
da Robert Baden-Powell.
15. Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, lo pubblicò due anni più tardi.
16. La legge Casati del 1859-1860 aveva stabilito che lo stipendio delle maestre e dei maestri dipendesse dal livello
della scuola e dal sesso degli alunni. Esistevano infatti scuole di campagna e scuole di città, scuole maschili e
scuole femminili; poiché il sistema prevedeva la rigida distinzione tra i sessi, le maestre dovevano insegnare
alle bambine ed i maestri ai bambini, e le donne erano sempre pagate in misura inferiore. Le maestre furono
assegnate anche alle classi rurali, meno pregiate sotto ogni punto di vista.
17. Nel 1877 il ministro Coppino, autore della celebre inchiesta sull’analfabetismo, orientò l’organizzazione scolastica verso un forte controllo dal centro, grazie ai provveditorati, e stabilì l’obbligo fino ai nove anni del bambino, un piccolo passo in avanti rispetto a Germania ed l’Inghilterra, con otto anni di scuola dell’obbligo. Egli
divise inoltre il corso elementare in un corso inferiore di due anni e in uno superiore di tre, sostituì l’istruzione
religiosa con “le prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino” e introdusse le scuole serali. Anche grazie
alla nuova legge, l’analfabetismo diminuì dal 75% del 1861 al 48% del 1901; al contrario, crebbe il numero
delle scuole, dalle 1700 per 1.700.000 alunni del 1871 alle 2700 per circa 2.700.000 alunni del 1901.
18. Giuseppe Montesano (1868-1951), laureato in medicina a Roma, lavorò prima nell’istituto d’igiene e poi presso
la clinica psichiatrica. Di idee democratiche e liberali, fu tra i firmatari del Manifesto degli Intellettuali redatto
da Benedetto Croce.
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GLORI
CAPPELLO
Si laurea in Filosofia a Padova nel 1971 e per alcuni anni è ricercatrice presso l’Università, periodo in cui pubblica numerosi saggi in Riviste specializzate. Dal 1977 insegna filosofia e storia nei
Licei, impegno che conclude nel 2009. È co-autrice di un manuale per la scuola superiore (Corso
di filosofia, Canova, Treviso 1997, II ed. 2010).
Nel 2006 pubblica una monografia sul pensiero e l’opera di Luigi Stefanini (Luigi Stefanini:
dall’opera e dal carteggio del suo archivio) e nel 2011 cura la miscellanea Luigi Stefanini e l’odierna antropologia filosofica. Con Silvia Grandi è curatrice del volume sul bicentenario del Liceo
Classico Canova.
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GLORI CAPPELLO
Antonietta Giacomelli e il modernismo a Treviso
1. La vita
Antonietta Giacomelli nasce a Treviso il 15 agosto 1857, nel palazzo di famiglia, in via
Tolpada, oggi sede di Unindustria1. È figlia di Angelo e di Maria Rosmini.
La sua è una famiglia nobile, originaria del Friuli. Il nonno di Antonietta, Luigi (17871886), si stabilisce a Treviso nel 1823. Ha importanti incarichi politici, è podestà dal 1852
al 1866, anno in cui riceve in consegna la città nel passaggio tra la dominazione asburgica
e l’annessione al regno d’Italia2. Con i due figli, Angelo e Gianbattista ed il fratello Sante,
mette insieme un notevole patrimonio, costituito da possedimenti terrieri nei pressi di
Ceggia e di Caorle e dalla fonderia a Treviso, in Santa Maria del Rovere.
Nel 1850 acquista la villa Barbaro a Maser allora di proprietà della famiglia Manin, quella
dell’ultimo doge Daniele Manin, e la riporta all’antico splendore tra il 1854 e il 1857. Angelo, nato nel 1816 a Trevignano d’Udine, si diploma alla Scuola Superiore di Commercio
a Vienna (titolo che equivale alla laurea in ingegneria). A Vienna partecipa ai moti insurrezionali quarantotteschi iniziati nella capitale asburgica il 13 marzo 1848. Rientra a Treviso
sin dalla fine di marzo dello stesso anno per schierarsi a fianco degli insorti e combattere
negli scontri tra le formazioni dei corpi franchi, che egli stesso aveva contribuito a reclutare, e l’esercito dell’imperial-regio governo3. Sin da giovanissimo aderisce al programma
di Giuseppe Mazzini e nel 1850 fa parte del comitato mazziniano fondato a Mantova e
presieduto dal Tazzoli. Sotto pressione da parte della polizia asburgica - la casa di Treviso
è perquisita nel 1851 - fugge a Torino attraverso la Svizzera. Torna a casa, forse convinto
dal padre, ma viene arrestato e condotto nella prigione veneziana di S. Severo e amnistiato
nel gennaio 1852. Nello stesso anno è nuovamente arrestato e imprigionato; tradotto nelle
carceri di Mantova è compagno di detenzione di Tito Speri. Può ritornare a Treviso nel
1853, per la sospensione del processo dopo le ‘esemplari’ condanne (i martiri di Belfiore),
ma sempre sotto stretta sorveglianza della polizia.
Nel 1854 Angelo sposa Maria, figlia di Pietro, cugino di Antonio Rosmini; il filosofo roveretano, non potendo celebrare personalmente il matrimonio per veto del governo asburgico, compone Ricordi per Maria che si fa Sposa. Dopo tre anni, il 15 agosto, nasce Antonietta nel contesto di una famiglia di nobili origini, cui non mancano un solido patrimonio,
impegni politici di tutto rilievo in città, frequentazioni importanti, mentalità aperta alle
nuove idee. Sin dai sei-sette anni ha un’istitutrice alsaziana, che le insegna perfettamente
il francese, poi una insegnante tedesca e infine una inglese, il che le consente, poco più che
adolescente, un’ottima conoscenza delle lingue europee. Preparazione eccezionale, per
gli standard del tempo, che, unita alla formazione umanistica (italiano, latino, filosofia e
storia) impartitale da Giovanni Milanese, professore al seminario di Treviso 4, mette Antonietta nelle condizioni di avere ottimi strumenti a disposizione. Si tratta certamente di un
privilegio, riservato alla figlia di una famiglia nobile e facoltosa, che di per sé non spiega
l’eccezionale modernità di Antonietta senza il concorso delle sue doti naturali e dell’impegno profuso che non saranno mai lasciati inattivi nella lunga e operosissima esistenza.
Tra il 1875 ed il 1880 la fortuna dei Giacomelli conosce un rovescio insanabile: la fonderia
di Santa Maria del Rovere fallisce; i Giacomelli decidono di pagare integralmente fornitori
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e debitori. Questo comporta la vendita di tutti i loro averi: la casa di via Tolpada, i terreni,
l’amatissima villa di Maser. A 66 anni, nel 1882, Angelo accetta l’incarico di prefetto a
Cremona e lì si trasferisce con la famiglia. Per Antonietta inizia la peregrinazione in varie
città italiane, seguendo il padre negli incarichi prefettizi: Siena, Reggio Calabria, Piacenza
e infine Roma, dal 1892 al 1898. Questo le consente esperienze umane e culturali varie ed
interessanti che sfrutta adeguatamente. A Cremona conosce il vescovo, monsignor Geremia Bonomelli, esponente di primo piano del riformismo cattolico. A Roma entra in contatto con Paul Sabatier, autore di una Vie de Saint François d’Assise, pubblicata nel 1893
e posta all’Indice l’anno successivo. Con lui intrattiene, in francese, una lunga ed intensa
corrispondenza 5.
Nell’ambiente della capitale, tra scandali bancari, crisi politiche, degrado dei quartieri sorti dalle speculazioni edilizie e rampantismo della borghesia, che aveva fatto fortuna nel periodo crispino e poi nei primi anni giolittiani, Antonietta fa conoscenze che saranno fondamentali per la sua formazione culturale. Nella casa romana dove vive con i genitori, in via
Arenula, tra largo di porta Argentina e ponte Garibaldi, Antonietta, in collaborazione con
un circolo di amici i cui nomi più noti sono quelli di Tommaso Gallarati Scotti, Giovanni
Genocchi, Giovanni Semeria, Romolo Murri, Brizio Casciola, dà vita ad una Unione per il
bene e lavora assiduamente nella redazione del periodico mensile «L’ora presente», diretto
da Giulio Salvadori 6. Il periodico, stampato in migliaia di copie, ha una diffusione notevole, suscita numerose adesioni, soprattutto tra quanti insistono per l’assunzione di nuove
responsabilità morali e ‘civiche’, cioè sociali, da parte dei cattolici. L’iniziativa si ispira
alla Union pour l’action morale fondata in Francia da Paul Desjardins, che dava voce alle
esigenze di rinnovamento morale e di riscossa spirituale. Anche Antonio Fogazzaro, impegnato a Roma al Collegio Romano in una serie di conferenze sull’evoluzionismo, è spesso
ospite del gruppo: la sua amicizia con la Giacomelli sarà molto solida e continuerà sino
alla morte dello scrittore vicentino, che si ispirerà alla figura di don Casciola per il protagonista del Santo e alle riunioni di casa Giacomelli per le riunioni nell’alloggio dei Selva7.
L’Unione per il bene non è un circolo letterario. L’associazione avvia un numero considerevole di opere di assistenza sociale: una cassa di ‘piccolo prestito’ senza interesse, un
asilo infantile, doposcuola, assistenza sanitaria e farmaceutica, un laboratorio di falegnameria, una scuola di cucito. Le iniziative sono rivolte ai bisognosi, in particolare ai residenti nei degradati quartieri, vittime dell’urbanesimo e della crisi edilizia. Si tratta di un
centro fervido di iniziative filantropiche, il cui carattere interclassista e interconfessionale
ha destato l’interesse degli storici, che hanno approfondito le peculiarità di questo vero e
proprio laboratorio democratico8.
Nel 1898 Antonietta si trasferisce a Venezia e, nel 1902, torna a Treviso. Nel Veneto tenta
di riprendere quanto iniziato nel periodo trascorso a Roma; in particolare a Treviso fonda
la «Società per il bene morale», divenuta poi «Protezione della giovane», e la «Scuola
libera popolare», che nel suo programma si prefigge di «raccogliere l’appoggio degli uomini di ogni partito»9, guadagnandosi le simpatie anche degli ambienti laici e socialisti
cittadini, in particolare quelle di Giangiacomo Felissent, sindaco liberal-democratico di
Treviso, di Cleanto Boscolo e di Piero Martignon, fondatori dei primi nuclei socialisti a
Treviso10.
Nel 1908 partecipa al primo Congresso delle donne italiane, a Roma, e l’anno successivo,
a Milano, durante un Congresso nazionale organizzato dall’Unione femminile, tiene una
conferenza molto criticata in ambienti ecclesiastici, dal titolo La donna nella famiglia, poi
pubblicata11.
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In questi primi anni del ’900 inizia il lavoro che porterà alla stesura di Adveniat Regnum
tuum12, libro di preghiere con amplissima scelta di passi scritturali. L’opera prevede quattro volumi, in piccolo formato, di cinque-seicento pagine. L’iniziativa, ideata da p. Genocchi, è dovuta alla Pia Società di San Girolamo, in Roma, nell’ambito di un vasto piano di
diffusione dei testi sacri in edizione popolarissima, su auspicio dello stesso Leone XIII.
L’iniziativa, davvero ‘pionieristica’, anticipa lo spirito del Vaticano II per la diffusione
dei testi scritturali e patristici all’interno delle comunità cattoliche. Dei quattro volumi
previsti, dal 1904 al 1907, ne sono pubblicati tre, anonimi, anche se tutti sanno chi sia
l’autrice13. L’opera, con l’imprimatur del Maestro dei Sacri Palazzi p. Alberto Lepidi14 e
del vicegerente di Roma, patriarca Giuseppe Ceppetelli15, ha una vasta diffusione nelle famiglie e nelle scuole, fino a quando, nel gennaio 1912, viene posta all’Indice. Nel 1913 la
Giacomelli pubblica Per la riscossa cristiana, che appare come una risposta alla condanna; nello stesso 1913 anche quest’opera viene iscritta all’Indice. A Treviso la Giacomelli
si ferma sino alla fine del 1909, anno in cui, a causa delle restrizioni, se non delle palesi
vessazioni che contro di lei furono messe in atto ancor prima della doppia condanna, si
trasferisce a Rovereto.
Molto addolorata e colpita, ma indomita come sempre, nei mesi precedenti il primo conflitto, si avvale di un regolare passaporto per Rovereto, allora territorio asburgico, e porta
lettere per i fuggiaschi dalle terre dell’impero verso l’Italia, lasciapassare e piani militari
cuciti nelle fodere delle vesti. Al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, abbandona
Rovereto e si trasferisce di nuovo a Treviso, dove si dedica alla cura dei feriti e all’assistenza dei bisognosi. Nel 1916, con l’aiuto di Giuseppe Corazzin, grande figura di sindacalista cattolico, e del medico e psichiatra Luigi Zanon del Bo, fonda una Alleanza per la
morale sociale che, pur nella sua breve vita, si occupa dell’infanzia abbandonata, delle
minorenni, delle carcerate.
L’impegno diventa quasi eroico dopo la rotta di Caporetto, nel momento in cui Treviso
diventa città di prima linea, gli uffici e le istituzioni vengono trasferite in altre regioni,
la città bombardata e quasi tutti gli abitanti sfollati in ogni parte d’Italia. Anche lei è obbligata a trasferirsi a Milano, dove entra in contatto con la Croce Rossa per continuare a
prestare soccorso a feriti e sfollati, ma non cessa di recarsi nelle città venete martoriate dai
bombardamenti.
Dopo la guerra si ferma a Rovereto e qui fonda, nel marzo 1920, la «Sezione di Rovereto
delle Giovanette Esploratrici», da lei chiamate «Volontarie», presieduta da Amelia Filzi,
madre di Fabio Filzi, della quale Antonietta si occupa con l’attivismo che la contraddistingue fino al 1927, anno in cui il regime fascista decide per lo scioglimento di tutte le associazioni giovanili che debbono confluire nella GIL. Quella di Rovereto è una delle prime
sezioni dello scoutismo fondate in Italia ed è motivo, anche oggi, di commemorazioni e di
giornate di studio dedicate dai roveretani ad Antonietta Giacomelli16. Nella città del Trentino Antonietta risiede stabilmente fino alla morte, attiva, nonostante i quasi novant’anni,
anche durante tutto il periodo del secondo conflitto mondiale. Basti pensare che, dopo la
spaventosa incursione aerea del 7 aprile 1944, torna a Treviso per aiutare i feriti e i senza tetto. Dopo il ’45, alla fine della guerra, a Rovereto, ospite delle Sorelle della Carità,
si dedica di nuovo allo scoutismo con la costituzione della Federazione Italiana Guide
Esploratrici (gennaio 1946). Nel 1948 è attiva nella fondazione di un’iniziativa «Per un
fronte degli Onesti» e ne scrive il programma. Nel novembre 1949, per le conseguenze di
una caduta, viene ricoverata in ospedale, dove, in seguito ad un’embolia, si spegne il 10
dicembre. È seppellita a Rovereto nel famedio dei roveretani illustri17.
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2. La produzione
La produzione di Antonietta Giacomelli è davvero notevole per qualità e per quantità. Il
Michieli riferisce 75 titoli di pubblicazioni dovute a lei, da un breve racconto comparso
nella «Gazzetta di Treviso» del 1880, resoconto di un viaggio sul monte Grappa, sino
all’ultimo lavoro, una silloge di articoli pubblicati a Trento nel 1949 cinque mesi prima
della morte.
La tipologia di produzione riguarda sostanzialmente: romanzi-diari, quasi romanzi di formazione, largamente autobiografici, molto voluminosi (500-600 pp.), cioè Lungo la via,
Sulla breccia e A raccolta, pubblicati tra il 1889 e il 1899, ai quali si deve aggiungere
Vigilie (1919)18; parecchi articoli apparsi sia nelle riviste di cui era fatta promotrice o a
cui aveva collaborato; articoli patriottici pubblicati durante il primo conflitto mondiale;
numerosi programmi di iniziative che aveva realizzato o promosso nell’arco di quasi sessant’anni di impegno civile e religioso; ricordi di amici; opuscoli dedicati ai genitori e ai
familiari; libri di preghiere come Adveniat Regnum tuum (3 voll. ugualmente di 500-600
pp.) e Per la riscossa cristiana (400 pp.).
A parte una esigua minoranza di pubblicazioni edite a Treviso, le opere più corpose e gli
interventi più significativi, che conobbero più ristampe, sono editi a Roma, a Firenze, a
Milano e, nell’ultimo periodo, a Rovereto oppure a Trento.
Per questo motivo, e per altre ragioni che diremo subito, si può affermare che Antonietta
Giacomelli non è autrice che abbia una collocazione regionale o locale, ma piuttosto che
la sua opera si situa nell’ambito della cultura nazionale. A fronte di un giudizio positivo
di Croce, che ne rileva la personalità più cristiana che cattolica, la fedeltà alle memorie
del risorgimento espresse in opere di commossa partecipazione pur «senza assurgere né
alla trattazione teorica, né all’opera d’arte»19, la storiografia trevigiana poco o nulla si è
occupata di lei20. Al contrario di lei si sono occupati gli studi letterari che la collocano tra le
scrittrici più significative tra ’800 e ’900 in grado di affrontare con sensibilità i temi delle
trasformazioni sociali con particolare attenzione alla condizione femminile21. «I suoi romanzi–diario, risposta laica alla narrativa ciclica di ascendenza verista, furono letti come
opere letterarie che trasgredivano i confini tra i generi avvicinando il mondo interiore della
protagonista al grande tesoro della vita narrata da un personaggio-donna pienamente protagonista nella città moderna»22.
I saggi sul modernismo che sono apparsi a livello nazionale si occupano di lei mettendo
in evidenza gli aspetti più interessanti della sua opera in rapporto ai temi ‘modernisti’. I
giudizi espressi nelle monografie più recenti sono davvero lusinghieri. Riferiamo, a modo
di esempio, quanto dice Maurilio Guasco, storico del modernismo: «Si pensi alle iniziative
e agli scritti di Antonietta Giacomelli, così poco apprezzati dalle autorità del tempo, ma
che dovevano avviare alla comprensione della liturgia intere generazioni di credenti. Una
liturgia vivificata, dove il laicato non fosse solo spettatore di riti compiuti dai sacerdoti,
ma protagonista di una preghiera che doveva coinvolgere tutta la sua vita, e prima di tutto
coinvolgerlo in prima persona nel rito stesso, doveva gradualmente modificare la lex orandi in lex credendi. E la nuova fede che stava germinando implicava anche una visione di
una Chiesa che non si esaurisse soltanto nella gerarchia ed esigeva una ecclesiologia che
non fosse, usando una espressione ben nota di Congar, soltanto una gerarcologia»23.
«Molto più coerente [di altri modernisti] e ansiosa di un’azione riformatrice è invece la
Giacomelli, con la sua instancabile attività. Le sue preoccupazioni spaziano in diversi
campi, così come le sue pubblicazioni. Forse è lei la più ardente fautrice del rinnovamento
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liturgico e del conseguente ritorno al cristocentrismo; è lei che parla di fratelli separati,
che sogna continuamente opere e iniziative a favore del popolo, che immagina e fonda
riviste, che lancia proclami e manifesti»24. Non un’intellettuale o un’erudita chiusa nel suo
mondo, ma “apostola e paladina del bene” come la definisce il Michieli, consapevole che
la vita della Chiesa è quella della comunità, vissuta e consapevole.
3. Il modernismo e la condanna papale
Prima di affrontare il “modernismo” di Antonietta Giacomelli si porrebbe come necessaria
una breve premessa in grado di precisare le principali caratteristiche del complesso movimento. Il condizionale è d’obbligo perché i più importanti storici del periodo sono concordi nel manifestare l’impossibilità dell’impresa25. Fare la storia del modernismo significa in
realtà trattare dei singoli modernisti26.
I temi ricorrenti nelle opere di coloro che vengono indicati come modernisti si possono
così sintetizzare: critica dell’apparato dogmatico, condotta anche tramite l’analisi criticofilologica della Bibbia e avvio di una storia ‘scientifica’ della Chiesa; interpretazione antropologica della dimensione umana di Cristo; visione della religione come esperienza
umana; uso teologico della filosofia moderna, che permetta anche la sostituzione dell’apologetica classica con metodi e considerazioni derivate dalle ricerche filosofiche, esegetiche, teologiche contemporanee; scissione tra ragione e fede in nome del valore della
religiosità dell’esperienza morale; da ultimo forte polemica antiecclesiastica.
Le caratteristiche del movimento sono definite nell’enciclica di Pio X, Pascendi dominici
gregis (8 settembre 1907, pubblicata il 16), che condanna le dottrine, presentandole come
corpus unitario, mentre sino a quel momento le singole espressioni del movimento non
avevano affatto il carattere di una scuola o di un’organizzazione. Il modernismo, seguendo
molto sinteticamente il testo dell’enciclica, è definito come la «sintesi di tutte le eresie».
Questi i capi di imputazione: al concetto tradizionale di Chiesa voluta da Cristo, luogo di
trasmissione della parola di Dio sotto il controllo e la direzione della gerarchia, si contrappone una Chiesa frutto della coscienza collettiva, germinata dal basso; nella comunità
che si organizza l’autorità è solo un servizio e non può intervenire in materia che non sia
espressamente religiosa. Ne deriva quindi una radicale convinzione della democraticità
della Chiesa stessa, una netta separazione tra scienza e fede, tra Stato e Chiesa, autonomi
nei loro rispettivi ambiti. L’origine divina della Chiesa va ricercata nello Spirito che è presente nella coscienza collettiva e che viene elargito a tutti in modo simile, senza privilegi
particolari e attribuisce ai laici ruoli preminenti, pari a quelli della gerarchia. Con tale condanna l’enciclica interviene come un fulmine nella cultura italiana ed europea colpendo
persone e opere, agendo come un farmaco che stronca indifferentemente pericolosi agenti
di infezione e forze vive e vitali.
Ma chi erano i principali ispiratori di un movimento di idee tanto difficile da definire?
Gli studiosi sono abbastanza concordi nell’indicarli in Maurice Blondel, nella sua filosofia dell’azione e nel metodo dell’immanenza, che influenza in particolare il cosiddetto
modernismo filosofico, in George Tyrrel per quanto riguarda la teologia, in Alfred Loisy
per la questione biblica e per gli studi di esegesi. In Italia sono due i centri di diffusione
delle idee: Roma con la presenza di un buon numero di personalità, tra cui spiccano quelle
di Ernesto Buonaiuti e di Romolo Murri, e Milano, in cui i modernisti sembrano trovare
protezione nientemeno che nell’arcivescovo cardinale Andrea Ferrari27. Il modernismo
italiano, rispetto a quello europeo, rivela risvolti nuovi. Se in Francia, Germania, Inghil-
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terra sono soprattutto studiosi, eruditi, docenti universitari ad alimentare il dibattito, «in
Italia vengono coinvolti movimenti e gruppi di diverse categorie sociali, preoccupati non
solo da problemi intellettuali, ma anche pastorali»28. Anche il problema politico, che deve
superare l’ostilità pontificia alla partecipazione dei cattolici alla vita politica con un movimento autonomo, viene posto in primo piano con l’opera di Romolo Murri.
4. Ostilità e ripetute critiche
In tale contesto europeo quale la situazione a Treviso? Nel 1903, a pochi mesi dalla sua
elezione a pontefice, Pio X nomina vescovo di Treviso il giovane ministro provinciale dei
Cappuccini, mons. Andrea Giacinto Longhin, che per tutto il pontificato è in corrispondenza con il Papa e in totale sintonia con le direttive pontificie in fatto di pastorale e di dottrina
cristiana. Già nell’aprile 1906, cioè prima della Pascendi, Longhin così si lamenta con il
segretario di Pio X, il trevigiano Giovanni Bressan: «Anche a Treviso in questi giorni si
è tentato di spargere il seme del modernismo. È venuto qui certo don Brigio Cassiola [sic
per Brizio Casciola], alloggiato presso la Giacomelli, e tenne conferenze clandestine con
socialisti e signorine più o meno isteriche. Ebbe il coraggio di venire insieme alla Giacomelli a farmi visita prima di partire, ma credo che siasi pentito giacché gli feci capire
abbastanza chiaro che a Treviso non sarò mai disposto a permettere nessuna propaganda
di idee nuove, anzi queste le combatterò sempre in virga ferrea»29.
Il modernismo, infatti, ancor prima di essere condannato dalla Pascendi, era stato al centro delle critiche di giornali “integralisti” e “intransigenti” come «La riscossa» dei fratelli
Scotton, che polemizzarono contro il card. Ferrari e «L’Unità cattolica» di Firenze diretta
tra il 1905 e il 1915 da don Alessandro Cavallanti. Gli attacchi al modernismo erano iniziati dunque ben prima dell’enciclica pontificia30. Nel 1900 la Giacomelli era stata attaccata per le sue idee dal gesuita p. Ilario Rinieri che, dalle colonne della «Civiltà Cattolica»,
critica duramente i romanzi Lungo la via, Sulla breccia e A raccolta per le loro idee patriottiche e «per morale larga, religione male intesa, ridotta ad uso liberalesco e quasi protestantico»31. Le critiche di Rinieri erano continuate nel pamphlet Pro Patria. Le amazzoni
del cattolicesimo puro, «testo ben noto agli studiosi del modernismo e volto a stroncare
la doppia presunzione di questo libro [A raccolta]: pericolosità della dottrina proposta e
presunzione femminile nell’entrare nel terreno proibito della discussione religiosa»32.
Riprendendo queste argomentazioni «La difesa», giornale veneziano, calca la mano in un
articolo di mons. Apollonio: «D’uno di questi tipi (che per farla meglio è anche un tipo di
femmina) di cattolici cristiani che appestano ora la borghesia ignorante dei più elementari
principii del catechismo, parla stupendamente, col documento in mano, la Civiltà Cattolica nell’odierno fascicolo, p. 204. Dà una necessaria ramanzina a quella signora Antonietta
Giacomelli, che in libri di forma noiosissima, semina il verbo di una fede e di una morale
che non è cattolica se non nella sua testa, e che trova la parola del disprezzo per il Papa, per
i Vescovi, per tutti i ministri del Signore, tutta gente ignorante che “fraintende” la parola di
Cristo, secondo cotesta novella teologhessa, innamorata del suo Gesù moderno»33.
Proprio questo attacco frontale spinge Antonio Fogazzaro a scrive a Filippo Crispolti,
senatore del Regno, fondatore nel 1896 di «Avvenire d’Italia», pregandolo di prendere
le difese della Giacomelli, in quanto l’articolo, come scrive Fogazzaro, è «indegno di un
prete, di un cattolico, di un cristiano»34.
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Le aggressioni riprendono nell’aprile 1907, nell’«Unità cattolica», che definisce la Giacomelli «cavalieressa dello Spirito Santo, fida compagna di Fogazzaro, Murri, Semeria,
Sabatier e compagnia, autrice di libri pericolosissimi confutati dall’egregio pubblicista p.
Ilario Rinieri nel volumetto Le amazzoni del cattolicesimo puro»35.
Nello stesso 1907 il padre benedettino Mauro Serafini è incaricato di una speciale visita
antimodernista a Treviso, voluta dal vescovo Longhin, approvata da Pio X. La relazione
sulla visita consta di varie parti: una relazione scritta a mano, un riassunto a stampa, un
quadro statistico delle associazioni cattoliche della diocesi, un quadro prospettico della
situazione amministrativa della curia e del seminario e infine un prospetto B che riguarda
Antonietta Giacomelli36. In essa traspaiono le preoccupazioni del Vescovo, volte a minimizzare le influenze della Giacomelli in Treviso, che dallo stesso Longhin in una lettera
viene presentata come un’isolata: «ivi non gode stima, né può fare propaganda, perché
comunemente la si ritiene una povera esaltata. Mesi fa temevo che rovinasse le più buone e
brave giovani della città, a mezzo di un circolo di lettura e di istruzione che aveva fondato.
Per grazia di Dio durò assai poco perché le rispettive mamme non si fidarono di lasciare le
loro figlie in compagnia di quella povera donna, sempre col timore che le possa rovinare
con le sue idee ultramoderniste»37. Longhin si riferisce ad una scuola femminile che la
Giacomelli cercò in ogni modo di realizzare a Treviso, senza riuscirvi, e che oggi suscita
tanta ammirazione nella storiografia38.
Questi i principali attacchi alla Giacomelli da parte della stampa cattolica cosiddetta ‘integralista’ e non mancano vari interventi e strali polemici nella «Vita del Popolo»39. Ma
ormai appare chiaro che ci si avvia a provvedimenti ben più gravi.
Longhin, preoccupato, scrive a Pio X: «Siccome si va dicendo che l’Adveniat corre pericolo di esser posto all’Indice, bramo conoscere per mia norma il desiderio e il pensiero della
Santità Vostra, perché non m’avvenga di prendere una determinazione imprudente»40. Il
Vescovo aveva già cercato una mediazione con la Giacomelli, proponendole di emendare
il testo in vista di una futura edizione: «Considerando lo smercio grande che ebbe finora il
libro, e quindi il male che si impedirebbe se una seconda edizione fosse veramente degna
dell’imprimatur, pensai se non fosse opportuno cogliere la buona disposizione dell’Autrice, e vedere se cerca sinceramente il bene delle anime»41.
La risposta è di mano di Bressan: «Quanto alla sig.na Giacomelli, sua Santità gode assai
che riconosca il suo torto nella pubblicazione dell’Adveniat, ma vede difficile la correzione di quel lavoro, non tanto per lo spirito, che vi aleggia e per le inesattezze, ma assai più
per quello che vi manca, per cui avrebbe bisogno di essere rifatto da capo a fondo. Sarà
poi laborioso trovare chi si occupi per la compilazione»42. Dal che si deduce, come è stato
scritto43, che probabilmente l’opera giunge al vaglio del tribunale dell’Indice per volere
dello stesso Pontefice.
5. La macchina censoria
L’Adveniat arriva sui tavoli della Congregazione dell’Indice il 13 agosto 1911, definito
libercula - tre volumetti sulle cinquecento pagine - e femina quaedam la sua autrice. I
volumi furono affidati al p. Gioacchino Corrado per essere analizzati44.
Significativa l’introduzione all’opera: «Da lungo tempo era desiderato un libro nel quale la
preghiera fosse unita a cenni, storici ed esplicativi, del nostro culto; un libro il quale, alme-
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no in qualche parte e modo, rinnovasse la primitiva unione del popolo fedele, con quelle
letture e que’ canti che son l’eco perenne delle voci antiche, - profetiche, ammonitrici,
oranti nella speranza; un libro il quale, colla meditazione e colla preghiera, assiduamente
richiamasse l’annunzio, la legge, del Maestro divino. Il programma era di troppo superiore
alle forze di chi ha composto il presente volume e i tre che seguono: ma nel “grande amore” ha trovato il coraggio di almeno tentare - coll’aiuto di maestri nella fede, - qualche cosa
di approssimativo, che sproni altri a fare assai meglio. Intanto, possano queste pagine - il
cui maggior numero è tolto alle sacre Carte e alla Liturgia, e sulle quali chi scrive supplice implora le benedizioni di Quegli che non disdegna alcun umile strumento, - essere un
aiuto di più a taluno di coloro i quali sentono in sé, o bramano, il risveglio della coscienza
cristiana; possano essere uno sprone di più a quel progresso degli spiriti e de’ cuori verso
la verità, la giustizia, l’amore, che l’ora presente rischiara di divine speranze»45. L’introduzione richiama esplicitamente l’esigenza di un profondo rinnovamento nel culto e nelle
preghiere che sia segno di un rinnovamento della fede, interiorizzata e consapevole.
La Congregazione dell’Indice si riunisce l’11 gennaio 1912 per decidere della ‘ereticità’
dell’opera. Tutti i padri consultori, con l’eccezione di due, si dichiarano contrari alla condanna dell’Adveniat, propendendo, al massimo, per un richiamo o un’ammonizione all’autrice più che altro a causa di qualche «petulanza» antiecclesiastica presente qua e là. Ma il
parere solo consultivo di questa prima fase ‘istruttoria’ non viene tenuto in considerazione
dalla Congregazione nel momento decisionale che, il 22 dello stesso mese, dichiara i volumi di Adveniat «modernismo undequaque infecta». Il p. Lepidi, che li aveva approvati al
momento della stampa, tenta sino alla fine di difenderli - «quamvis non interrogatus» - ma
i porporati all’unanimità decidono per la condanna. Pio X, due giorni dopo, il 24, approva
il decreto così come era stato formulato dai cardinali46.
Risulta dunque particolarmente interessante analizzare il “voto” del consultore Corrado
che sta a monte della condanna e la giustifica. Quali erano le ragioni per cui Adveniat appariva inficiato di eresia?
Seguendo il testo approntato dal consultore della Sacra Congregazione dell’Indice si evince che la prima accusa fosse quella di aver auspicato «una riforma del culto, che si pretende scaduto e superstizioso, per richiamarlo all’antica Liturgia»47. A queste premesse sullo
‘scadimento’ del culto «s’intona subito la patetica esortazione modernistica per recarvi
rimedio», ossia «ravvivare la fede nei divini misteri, ravvivare lo spirito di fraternità»;
preparare «i trionfi di Cristo, i trionfi della verità nella giustizia e nella carità»; unire «la
navata al presbiterio»; avvicinare il popolo agli altari secondo gli ideali della Chiesa primitiva; «rifare il popolo cristiano»; unirsi al sacerdote nelle preghiere della messa e non
leggere «durante la messa preghiere che troppo spesso dimenticano la liturgia e lo spirito
della Chiesa»; togliere «l’abuso, ormai antico, delle comunioni fatte all’infuori della messa»; combattere «la falsa pietà, egoistica e infeconda» di tante anime, aprendole piuttosto
«all’amore universale cui l’ora presente, tra sforzi e lotte incomposte, aspira senza posa»;
risalire alle origine, all’agape fraterna48. A questo si aggiunga un elenco di tutte le «mende» rituali, presenti in Adveniat: «omissioni nell’ordine rituale dell’amministrazione dei
sacramenti, modi esagerati e nuovi di pregare, traduzioni e interpretazioni forzate di testi
scritturistici»49.
Le contestazioni, almeno per noi che leggiamo dopo il Vaticano II, che accoglie in parte lo
spirito di quanto auspica Antonietta Giacomelli, appaiono poca cosa, anche se è presente
il rischio di utilizzare categorie contemporanee per cercare di capire eventi antecedenti50.
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6. Da Adveniat Regnum tuum a per la Riscossa cristiana
Come è stato ben notato, la Giacomelli aveva di sicuro in mente Le Cinque Piaghe della
santa Chiesa di Antonio Rosmini (che, ricordiamo brevemente, erano: la divisione del
clero dal popolo nel culto pubblico, l’ignoranza del clero, la disunione del Vescovi, la
loro nomina abbandonata al potere temporale, l’asservimento dei beni della Chiesa al
potere politico), ma non recepisce gli atteggiamenti di aspra critica nei confronti del clero
propri dei modernisti dei primi anni del secolo51. Rosmini non era davvero benvisto dalla
censura ecclesiastica. Condannato una prima volta nel 1849, anno in cui venne proibita
la lettura delle Cinque piaghe e della Costituzione secondo la giustizia sociale, occasione
in cui pesarono non poco le ben note vicende del biennio 1848-49 che videro Rosmini
in primo piano52, subisce nuova condanna nel 1888 con il decreto Post obitum. Nel 1888
sono poste all’Indice 40 proposizioni rosminiane estratte dalle opere edite ed inedite. La
«Civiltà Cattolica», voluta da Pio IX nel 1850, dà adeguato spazio alla condanna e alle
polemiche contro Rosmini53. Rosminianesimo e neotomismo appaiono scelte filosofiche
contrapposte, quasi antitetiche, soprattutto dopo la leoniana Aeterni Patris (1879), che
ripropone lo studio di Tommaso e dà luogo, di fatto, alla corrente neotomista degli studi
filosofici italiani ed europei.
Anche Treviso non è immune da polemiche. Nel Seminario vescovile insegna Giovanni Zardo, appassionato cultore del pensiero rosminiano, rimosso dall’insegnamento nel
185854. A questo proposito la pubblicazione di una lettera dell’allora giovane Luigi Bailo
mette in evidenza la campagna denigratoria contro «quel grande e pio che fu Rosmini»,
che doveva portare alle accuse di panteismo, unite a quelle di ontologismo e di traducianesimo. In questo Bailo vide molto lontano55. Dopo il 1888 il vescovo di Treviso, mons.
Giuseppe Apollonio, in più occasioni non mancò di approvare la condanna56. Anche il
vescovo Longhin nel 1905 scrive a Pio X per lamentarsi che «i Rosminiani alzano di nuovo la testa e si fanno forti»57. L’“ombra lunga” di Rosmini si stende anche nella diocesi
trevigiana.
Dopo queste brevi osservazioni su Rosmini, che rivelano molto di tensioni interne alla cultura cattolica, è spontaneo chiedersi come reagisse la Giacomelli ai continui attacchi alle
sue posizioni e poi alla condanna definitiva di Adveniat. Bisogna dire che non si piega alle
decisione del Santo Uffizio progettando, per sé e per gli amici, un distacco dalla Chiesa
Cattolica e pensa di dare origine ad una «Chiesa Cattolica Apostolica Evangelica». Stende
anche un manifesto programmatico, «rivolto a quanti sentono giunta l’ora di scegliere tra
il Vaticano e Cristo»58. «I nostri preti ripristinerebbero, assieme a noi, l’antica Assemblea,
il banchetto eucaristico tornerebbe ad essere il convito fraterno; la predicazione non sarebbe vana retorica, ma predica commento del Vangelo, e sostituirebbe pure il catechismo.
Eleggeremmo fra gli anziani un vescovo il quale ordinerebbe i nuovi sacerdoti, che crescerebbero non in seminari, ma intorno ai preti in cura di anime. La nostra Chiesa - oltre
alla riforma dei costumi e dei principi sociali - dovrebbe effettuare nel proprio seno tutte
le riforme del culto che lo spirito cristiano chiedeva alla Chiesa ufficiale»59. Nello stesso
manifesto afferma ancora: «Noi quindi non intendiamo essere né eretici né scismatici,
giacché più che mai ci sentiamo parte della Chiesa di Cristo, in comunicazione con i suoi
Apostoli, obbedienti - almeno nell’intenzione che è assai migliore di noi - al Vangelo»60.
Affermazioni forti: quel che appare ad una lettura attenta è la certezza che l’autentico
cristianesimo si debba vivere in comunione col Cristo con ma non in funzione delle istituzioni e il desiderio di percorrere fino in fondo la strada intrapresa61. Come è stato detto
non è facile per la Giacomelli giungere ad una decisione - lo scisma - che sembra in aperto
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contrasto con il comportamento tenuto fino ad allora. Non si sa se nella decisione abbia
pesato di più l’utopismo o l’ingenuità politica di lei, che sempre l’avevano contraddistinta; è certo che ambedue gli aspetti spiegano il fallimento dell’iniziativa. Furono tuttavia
gli amici a fermarla, da don Brizio, a Salvadori, a Sabatier, a Genocchi che, interpellato,
le rispose telegraficamente: «È un’illusione. Praticamente sarebbe un fiasco. Dogmaticamente un assurdo»62. Anche Fogazzaro si dichiara contrario, nonostante sia incorso
nelle condanne papali63. È ben nota l’iscrizione all’Indice del Santo, pubblicato nel 1906 e
condannato pochi mesi dopo, e di Leila, pubblicato nel novembre 1910 e condannato nei
primi mesi dell’anno successivo, fatti che amareggiarono profondamente e intimamente
gli ultimi anni di vita dello scrittore vicentino, mancato nel marzo 191164.
Antonietta soffre molto dei dispiaceri dell’amico, ma Fogazzaro non esita a rispondere duramente al progetto di distacco dalla Chiesa in una lettera pubblicata di recente e che non
compare negli usuali epistolari: «Gli errori dell’attuale governo della Chiesa, infinitesima
frazione della somma di errori che quel governo poté commettere da Cristo in poi, non
può farmi dimenticare che noi viviamo un atomo di tempo nella vita della Chiesa, ma non
può togliermi la fede profonda»65. È l’atteggiamento di sconforto che domina nel periodo
successivo a quello della Pascendi e dei primi provvedimenti censori, quando, secondo
Scoppola, «ogni giorno di più si impone ai modernisti la scelta fra la ribellione aperta o la
sottomissione e il silenzio»66.
Se la Giacomelli, dissuasa dagli amici, abbandona il progettato distacco dalla Chiesa, la sua
scelta non è del silenzio tout court, ma quella di rispondere alla condanna con Per la riscossa cristiana, pubblicato a Milano (Libreria Editrice Milanese) nel 1913. La macchina della
censura si mette subito in moto un’altra volta e il p. Enrico Rosa, gesuita, collaboratore e
poi direttore della «Civiltà Cattolica», viene incaricato di elaborare il “voto”, cioè l’analisi
censoria del testo67. Anche questo scritto, nell’unico volume pubblicato di quattrocento pagine, è una raccolta di passi tratti da testi sacri e da autori di varia provenienza, come Dante,
Pascal, Sorel, Rosmini, Mazzini, sino alle citazioni esplicite degli autori ‘modernisti’, tra i
molti altri Tyrrel, Paul Sabatier, Gallarati Scotti, Semeria e lo stesso Fogazzaro68.
La macchina censoria, che in questo secondo caso si è messa in movimento subito dopo la
pubblicazione del libro, una volta presentato il documento del p. Rosa il 16 agosto, conclude i suoi lavori con la messa all’Indice del volume il 13 novembre 1913 69.
Se per Adveniat ci potevano essere dubbi a proposito dell’ortodossia dello scritto, per la
Riscossa appaiono più tenui e il libro, pubblicato senza imprimatur e composto proprio per
rispondere alla condanna del primo, mostra subito «tutto il veleno del modernismo, di cui
l’autrice è una nota maestra e paladina»70.
Questi, in sintesi, i capi di accusa71. Per la censura con riscossa cristiana si intende quella
del modernismo; per ottenerla si esalta questo movimento e la schiera dei suoi ‘fedeli’;
si riconoscono in esso delle deviazioni, ma per attribuirle agli stessi mezzi tentati per arrestarlo; si scredita e si riprova, persino con invettive, la condanna che ne fece la Chiesa,
la repressione che ne ordinò, i rimedi che dispose, come il giuramento contro gli errori
modernisti; si mira a togliere ogni fiducia nella Chiesa ufficiale, cioè nella gerarchia; si
lodano e si citano eretici, razionalisti, nemici della Chiesa come ad esempio Mazzini; si
esalta la bandiera di una “libera democrazia cristiana”, già condannata; si travisa come
blasfema l’interpretazione del Tu es Petrus quasi interpretazione di deificazione dell’autorità; si difende lo spirito di ribellione, con disprezzo anche della scomunica; si fomenta
la confusione delle idee, l’errore e l’aperta eresia con la citazione di autori eterodossi ed
eretici72. La condanna è senza appello e definitiva in meno di tre mesi.
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7. Treviso e Antonietta Giacomelli
I provvedimenti nei confronti della Giacomelli, tuttavia, non sono soltanto quelli, gravi, di
iscrizione all’Indice delle due opere. Nel 1909, a Treviso, le viene impedito di entrare in
chiesa e di accostarsi ai Sacramenti.
Il motivo è quello di aver partecipato, il 19 settembre, a Venezia al convegno della Lega
Nazionale Democratica alla presenza di Romolo Murri, «scomunicato vitando», sospeso
a divinis nel 1907 e scomunicato nel 1909 perché eletto deputato nelle file del partito che
aveva fondato, cioè la Lega Nazionale Democratica73. Pio X scrive a Longhin: «Mi duole
nell’animo che la Signorina Giacomelli trovi chi le apre la via alla S. Comunione, dopo
che si è dimostrata in intima relazione con lo scomunicato vitando; ma spero che Voi lo
potrete prudentemente impedire anche per togliere il grave scandalo»74. Tre giorni dopo
Longhin comunica a Pio X che «in seguito agli ultimi atti deplorevolissimi della Signorina
Giacomelli i sacerdoti della città hanno deliberato di negarle i sacramenti»75. Pio X risponde: «Non posso che approvare la determinazione presa dai buoni Sacerdoti di Treviso a
chi in modo così ributtante fa pompa di modernismo. Speriamo che rientri in sé, e faccia
ammenda con una conversione sincera»76.
Il 22 novembre dello stesso anno Murri è a Treviso per tenere una conferenza al teatro
Garibaldi, invitato dalla locale Lega Operaia socialista77. Scrive Longhin a mons. Bressan:
«Ieri dunque l’infelice Murri ha tenuta in Teatro Garibaldi la sua conferenza con enorme
concorso di curiosi. […] Dimorò presso la solita Giacomelli la quale, in seguito alla specie
di scomunica che le venne inflitta dal clero di Treviso, ha pensato bene di emigrare altrove.
Andrà a Rovereto all’ombra del monumento del suo parente Rosmini»78.
L’amicizia con Murri si romperà in occasione del congresso di Imola del 1910 e il distacco
durerà trent’anni79.
Alla fine di quel 1909 la Giacomelli viene trascinata anche in una dolorosa polemica a
proposito di un suo articolo, composto in occasione della morte del suo antico maestro,
Giovanni Milanese, dove aveva scritto: «L’ultima volta che ci eravamo visti per via, Egli
[mons. Milanese] mi aveva detto: “Io non capisco più altro che Cristo, Cristo solo”»80. Il
Capitolo della Cattedrale la accusa pubblicamente di aver travisato le parole del vecchio
sacerdote, quasi per farlo apparire in contrasto con la gerarchia e di non aver reso pubblico
il contenuto di una lettera in cui Milanese precisava il senso delle sue affermazioni. Antonietta risponde con un altro articolo - Nessun equivoco - in cui precisa che la lettera che
le era stata indirizzata da mons. Milanese era la risposta ad una sua lettera, «nella quale
- sapendo il mio amato maestro dolente per la mia attuale posizione di fronte all’autorità
ecclesiastica - gli avevo esposto i motivi di coscienza della mia resistenza all’autorità, motivi che sono quegli stessi di don Romolo Murri e di quanti altri si trovano nel nostro
campo. È vero che avevo cominciato la lettera ripetendo quelle parole di Lui: ma non si
tratta di una interpretazione, la quale sarebbe stata impossibile da parte di chi ben conosceva l’ossequio professato da Mons. Milanese all’autorità del Papa. Si trattava invece di una
applicazione mia per dire che, ove si senta - sia pure erroneamente - lo spirito e la legge
di Cristo in contrasto con una data direzione del Papa, credo si debba agire secondo detta
la propria coscienza»81.
Con questo articolo, che suscita immediatamente reazioni sia nella stampa laica che in
quella integralista, la Giacomelli intende rendere pubblica la sua adesione alle idee di
Murri e rivendicare l’autonomia di giudizio della sua coscienza per scegliere tra la legge
di Cristo e quella del Papa.
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Al centro di polemiche velenose e di attacchi continui, mai difesa da alcuno, nemmeno
dagli ambienti laici e socialisti che pure frequentava, sceglie di andarsene da Treviso.
Il 21 dicembre 1909 Longhin scrive a Pio X: «La Signorina Giacomelli se ne va, dopo aver
fatta professione aperta di modernismo e dopo aver manifestato idee profondamente eretiche. Si vede che le censure della Chiesa e la privazione dei S.S. sacramenti hanno sempre
l’antica efficacia. Si ritira nel paese nativo di sua mamma, a Rovereto»82. E Pio X risponde
subito: «Ho letto con piacere che la Signorina Giacomelli abbia deciso di abbandonare
Treviso: è tanto di guadagnato e preghiamo Iddio, che raddrizzi quella povera testolina»83.
Nel 1916 Antonietta Giacomelli fece atto di sottomissione alla Chiesa e di ritrattazione
dei suoi libri davanti a mons. Longhin84, che cercò di aiutarla a ripubblicare Adveniat, opportunamente emendato, come le aveva già proposto negli anni ‘caldi’ delle condanne85.
Grazie all’interessamento di alcuni amici che riescono a far mutare l’atteggiamento delle
autorità ecclesiastiche e dello stesso Santo Uffizio, con le modifiche richieste, in un solo
volume e con il titolo In Regno Christi, Adveniat viene riedito nel 1942 86. L’avvenimento,
caso unico tra le opere già condannate, appare alla Giacomelli «quasi come un miracolo»87
e chiude definitivamente una vexatissima quaestio.
8. Ragioni di una condanna
Perché ci si accanisce tanto nei confronti della Giacomelli? Perché la macchina censoria
si mette in moto quasi subito nei suoi confronti? Va precisato che provvedimenti censorii
e disciplinari furono adottati nei confronti di tutti i modernisti e molti di essi scelsero la
via dell’esilio. Per la Giacomelli, tuttavia, sembra che motivo non lieve e non secondario
sia stato il fatto di essere donna. Da teologhessa, ad amazzone, a femina quaendam del
censore, alle signorine più meno isteriche, povera esaltata e povera donna di Longhin,
alla povera testolina di Pio X i numerosi commenti malevoli di cui fu gratificata insistono
molto sulla sua condizione femminile. La misoginia della società italiana dei primi del
Novecento è nota e anche quella delle gerarchie ecclesiastiche del tempo, per le quali il
paolino mulieres in Ecclesia taceant (1 Cor., XIV, 33-36) è sempre sottinteso. Lei stessa
l’aveva messo in conto e previsto già prima di iniziare la compilazione di Adveniat, cui
era stata sollecitata e incoraggiata da tutti, manifestando le sue perplessità al proposito.
Scrive il Michieli: «Vedeva le difficoltà del lavoro, si sentiva incapace e non nascondeva
(ricordo) il timore che la sua qualità di donna… potesse suscitare diffidenze e dispetti»88.
Ecco come, a trent’anni di distanza, nelle sue Ultime Pagine 89 la Giacomelli ricorda i
fatti drammatici della Pascendi e delle condanne che ne derivarono: «Qualcuno, leggendo
questi miei ricordi del passato, penserà che io non possa dimenticare quelle vicende che
furono parte sì dolorosa della mia vita, ma l’argomento è troppo delicato, specie per chi
ha dichiarato piena sottomissione al Capo della Chiesa. Inoltre ho tutto - doverosamente perdonato, anche quanto di enorme e di inverosimile è stato pubblicamente detto e scritto
contro di me e specialmente contro gli scritti miei. E ricordare è pericoloso. Del resto, i più
si sono ormai pienamente ricreduti. M’è poi caro dare qui un’equa e grata testimonianza
al mio buon Vescovo di Treviso, Mons. Andrea Giacinto Longhin, e a Monsignor Celestino Endrici, Principe Arcivescovo di Trento. Ad una cosa sola tengo: a distinguere e far
distinguere fra gli errori degli uomini e la divina autorità della Chiesa. E tengo pure a dire
che, se ho potuto, per un breve periodo, errare, - non nel campo della fede, ma in quello
della disciplina - è stato unicamente per il grande amore alla religione cattolica e il gran
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desiderio di attirarvi i lontani o trattenervi i pericolanti; sì che potei ben dire al Signore:
“Lo zelo della tua casa mi ha divorata” (Salmo 68)»90.
Il «grande amore» per la religione, una fede schietta corroborata da impegno quotidiano
nelle opere di assistenza e di carità, permettono alla Giacomelli di riflettere così su quel
periodo travagliato: «Ripenso il tempo in cui nel campo cattolico è sorto il movimento
che fu chiamato modernismo. A questo nome, certamente, hanno dato origine coloro che
improvvidamente tendevano a modernizzare il cattolicesimo; mentre per altri si trattava di
ricondurlo all’antico, riavvicinandolo ai primi secoli. Amica com’ero di anime nobilissime
e di eletti ingegni (rimasti nel grembo della Chiesa) i quali a questa parte del modernismo
lavoravano con un intento di elevazione della Fede che, in pari tempo, la rendesse più
accessibile ai lontani, e animata io stessa da questo ideale - nel quale s’è approfondita e
corroborata la mia fede cattolica - rammento quanto, in quegli anni, si sia sofferto e come
la ferrea repressione sembrasse improvvida. Ma poi, quando si vide che per molti il movimento era divenuto una via sdrucciolevole, sì che già andavano varcando i confini del
Cristianesimo, mentre in altri, ai motivi puri se ne fossero aggiunti di impuri, si comprese
come quella repressione fosse stata necessaria. Il rationabile ossequium vestrum di Paolo
non significa indisciplina in quella Chiesa ch’egli, con Pietro, ha fondata e che Cristo
raffigurò in se stesso, alla vigna della quale noi siamo i tralci, che, da essa staccati, non
possono dar frutto (Giov., XI, 5)»91.
Vorrei concludere riferendo due testimonianze, fra le tante, che, a pochi giorni dalla sua
morte, le dedicarono due personalità tra loro molto diverse: Ernesta Battisti, la vedova
dell’irredentista Cesare Battisti, laica, che sul «Corriere Tridentino» del 15 dicembre
scrive: «La penna avevi agile, efficace, eloquente ma ogni tuo scritto, fosse di rampogna o
di plauso, di narrazione o di educazione, fu sempre una battaglia; una battaglia di carità, di
una carità che proclamavi sempre e fermamente cristiana. La tua fede? Della fede cristiana
e cattolica la tua mente ereditò ed acquisì nell’educazione i principi come intangibili,
in un’unità intangibile. Non sfiorò la tua mente una critica (la turbò forse un giorno un
dubbio?). Ma la religione fu pascolo al tuo ardore di carità, ne suggesti dolcezza di mistico
abbandono, e ad essa un giorno ti umiliasti per non discuterla, per non perderla. Erano gli
anni del movimento cattolico “modernista”»92.
La seconda è di un prete ‘cristiano’, don Primo Mazzolari: «Era schietta, trasparente e
salda come un diamante, sceglieva sempre la via più diritta e la più aspra; conosceva il sì
e il no, usandolo senza diplomazia, senza riguardo di persone, pronta però a ricredersi con
generosa umiltà appena s’accorgeva d’aver sbagliato o fatto soffrire. Pari alla schiettezza e
alla volontà ebbe l’ingegno ch’ella seppe mettere a servizio della religione e della patria, in
lei mirabilmente congiunte. Molte idee e molte iniziative che sembrano oggi una scoperta,
ricordo di averle lette quarant’anni fa in certe sue pagine. […] Antonietta Giacomelli è la
donna più forte che io abbia conosciuto, la più distaccata e la più ferma, la più umile e la
più fiera, la più operosa e la più povera. Non le mancarono incomprensioni, accuse, prove
e dolori di ogni genere, da vicini e da lontani, che ella superò virilmente e virtuosamente:
i farisei con l’intrepidezza della sua fede; gl’indifferenti con l’ardore della sua parola; i
lontani con la luce della sua carità; gli avversari con la sua aristocratica magnanimità»93.
Il tempo e le mutate circostanze delle vicende umane hanno restituito alla Giacomelli
quello che provvedimenti censori, critiche astiose e ingenerose, attacchi palesi le avevano
tolto, anche se a distanza di parecchi decenni. «La fama postuma - come dice molto bene
la Arendt a proposito di Walter Benjamin - è un dono raro e tra i meno ambiti, anche se è
meno casuale e spesso più solida delle altre poiché solo raramente si fonda sul semplice
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fattore commerciale. Colui al quale la fama dovrebbe procurare maggior profitto è morto
e quindi non si lascia comprare»94. Non so se per Antonietta Giacomelli si possa parlare di
«fama postuma» vera e propria o meglio di ampia ripresa e rivalutazione delle sue esigenze, delle sue tematiche, dei suoi progetti: certamente non si è mai «lasciata comprare» e di
lei ci rimangono, attualissime, l’opera vigorosa e la condotta esemplare.
NOTE
1. Tutte le notizie sulla vita di Antonietta Giacomelli sono tratte da: A.A. MICHIELI, Una Paladina del Bene Antonietta
Giacomelli (1857-1949), a cura dell’Accademia degli Agiati di Rovereto, Arti Grafiche Manfrini, Rovereto 1954 (da
cui deduco anche le informazioni sulla sua famiglia); C. BREZZI, sub voce, in Dizionario storico del Movimento
cattolico in Italia, 1860-1980, Marietti, Torino 1981-84, con relativi aggiornamenti (per la Giacomelli vol. II, I
protagonisti, pp. 233-240); A. PROIETTI, sub voce, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 54, pp. 129-132;
R. BINOTTO, sub voce, in Personaggi illustri della Marca Trevigiana. Dizionario bio-bibliografico. Dalle origini
al 1996, presentazione di G. SIMIONATO, G. NETTO, E. BRUNETTA, Edizioni Fondazione Cassamarca, Treviso
1996 e S. CHEMOTTI, Ritratto di Antonietta Giacomelli, in La terra in tasca. Esperienze di scrittura nel Veneto
contemporaneo, Il Poligrafo, Padova 2003, pp. 113-138.
2. Come scrive il Netto: «Anche se giuridicamente il regno lombardo-veneto fu creato solamente il 7-4-1815, la dominazione austriaca ebbe inizio a Treviso già il 2 novembre 1813, per terminare il 13 luglio 1866, quando l’ultimo I.R.
Delegato provinciale convocò il podestà di Treviso Luigi Giacomelli per consegnargli la città. Fu la prima ed unica
volta che un podestà di Treviso ebbe ad esercitare sia pure per pochi giorni funzioni di stato» (G. NETTO, I reggitori
di Treviso, Treviso 1995, pp. 68-69). Dagli ottantant’anni ai novantanove Giacomelli fu consigliere provinciale.
3. Lo stesso Angelo Giacomelli fa un resoconto della sua attività politica in Reminiscenze della mia vita politica negli
anni 1848-1893, Barbera, Firenze 1893. Alla sua morte Antonietta gli dedica A mio padre (Tip. Turazza, Treviso
1907) che riprende in Angelo Giacomelli – Maria Rosmini Giacomelli, Editrice Tridentina, Trento 1929.
4. Sulla figura di Giovanni Milanese cfr.: L. RONZANI, Mons. Giovanni Milanese, in Sitientes venite ad aquas. Nel giubileo sacerdotale di Mons. Antonio Mistrorigo, Edizioni «La Vita del Popolo», Treviso 1985; I. TOLOMIO, Alle origini del neotomismo a Treviso, in Vetera novis augere. Studi in onore di Carlo Giacon, La Goliardica Editrice, 1982, pp.
35-58 cui rinvio per la relativa bibliografia. Ormai anziano viene coinvolto in una polemica con l’allieva (cfr. infra),
da cui prende le distanze perché le accuse di modernismo nei confronti di lei sono ormai pesanti: cfr. I. TOLOMIO,
Dimenticare l’antimodernismo. Filosofia e cultura censoria nell’età di Pio X, CLEUP, Padova 2007, pp. 205-217.
5. C. BREZZI, Carteggio Giacomelli-Sabatier, «Fonti e documenti», II, 1973, pp. 296-473.
6. Per tutte le indicazioni sugli esponenti del modernismo rinvio a: Dizionario storico del movimento cattolico in Italia,
1860-1980, direttori F. TRANIELLO - G. CAMPANINI, Marietti, Torino 1981-1984, voll. 3 in 5 tomi, aggiornamento 1980-1995, Torino 1997; Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1960 ss.;
Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano 1948-1954, voll.
12; Enciclopedia Filosofica, ristampa aggiornata della seconda edizione, Edipem, Roma 1979, voll. 8.; recentemente
riprodotta Bompiani, Milano 2010.
7. Lettere di Antonietta Giacomelli ad Antonio Fogazzaro, a cura di D. ALESI, Accademia Olimpica, Vicenza 2008.
8. P. GABRIELLI, Emancipazione, socialiste e femministe a Roma: frammenti per una possibile storia, in «Rivista
storica del Lazio», 13-14, 2000-2001, pp. 307-329.
9. Scuola libera popolare di Treviso. Relazione-programma, Istituto Turazza, Treviso 1905.
10. L. URETTINI, Antonietta Giacomelli nella documentazione curiale, in «Studi urbinati», XLIX, 1975, 2, pp. 453504. Il saggio contiene il carteggio Longhin-Pio X a proposito del modernismo a Treviso e delle vicende che riguardano in particolare la Giacomelli. Per l’avvocato Martignon Antonietta Giacomelli nel 1924 scriverà Pagine
commemorative di Piero Martignon, In Memoria di Piero Martignon, a cura dell’Università popolare di Treviso,
Longo e Zoppelli, Treviso 1924, pp. 40-56.
11. La donna nella famiglia. Relazione al primo Congresso di attività pratica femminile, Milano 1908, Società Tipografica Editrice, Città di Castello 1908.
12. Adveniat Regnum tuum, Pia Società san Girolamo per la diffusione dei Santi Vangeli Editrice, Roma-Milano 19041907. I tre volumi pubblicati si intitolano: Letture e preghiere cristiane, Rituale del cristiano, L’anno liturgico; il
quarto, non pubblicato, La vita cristiana.
13. MICHIELI, Antonietta Giacomelli, p. 64. Era stata la stessa Giacomelli a non volere che un libro di preghiere fosse
da attribuirsi ad uno specifico autore, «perché i nomi sui libri di preghiere mi sembrano una stonatura, quasi una profanazione» (cfr. BREZZI, sub voce, p. 243, Brezzi si riferisce ad una lettera della Giacomelli a Egilberto Martire). Il
quarto volume di Adveniat fu perduto da don Casciola, in treno, nei giorni successivi alla rotta di Caporetto e non fu
più ritrovato, così come gli ultimi due volumi di Per la riscossa cristiana (cfr. MICHIELI, Antonietta Giacomelli, pp.
124-125).
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14. Alberto Lepidi (1838-1922) è autore di un poderoso Elementa philosophiae christianae, Parigi-Lovanio 1875-79, (3
voll.), docente alla Minerva, poi Ateneo Angelicum, poi Università di S. Tommaso. Nel cuore della crisi modernista
a lui si rivolgono dotti di tutta Europa, tra i quali Maurice Blondel.
15. Giuseppe Ceppetelli, vescovo vicegerente di Roma, viene nominato commissario per il culto divino e la vita apostolica nel
1912 (Cfr. F. IOZZELLI, Roma religiosa all’inizio del Novecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1985, p. 107).
16. Wwwtrentoblog.it; wwwcngeirovereto.it; wwwbaden.powell.it/storia.
17. La sua salma è stata traslata nel Famedio nel febbraio 2010; nello stesso anno alcune giornate di studio vengono a
lei dedicate come “protagonista tra due secoli”, pioniera e figura di primo piano dello scoutismo nazionale ed internazionale. La decisione della traslazione della salma dalla tomba di famiglia dei Rosmini al Famedio era stata presa
all’unanimità dalla giunta comunale roveretana nell’ottobre 2009, in occasione del sessantesimo anniversario della
morte della Giacomelli. Nell’ottobre 2010, in occasione del centesimo anniversario dello scoutismo femminile, la
Giacomelli ebbe anche l’onore di un annullo filatelico (cfr. i siti citati nella nota precedente).
18. La Giacomelli non voleva che questi scritti venissero definiti “romanzi” come precisa in esergo a Sulla breccia.
19. B. CROCE, La letteratura della Nuova Italia, Laterza, Bari 1945, vol. VI, p. 81.
20. Il saggio di Michieli, già citato, commissionato dalla Accademia degli Agiati di Rovereto, e lì pubblicato, e il saggio
di Urettini citato alla nota 10 sono unici esempi.
21. Cfr. infra nota 38.
22. D. ALESI, Introduzione a Lettere di Antonietta Giacomelli ad Antonio Fogazzaro, p. 40. Cfr. anche La voce e la
parola. Alcuni modelli della narrativa femminile nel Novecento, in La galassia sommersa. Suggestioni sulla scrittura
femminile italiana, a cura di A. ARSLAN e S. CHEMOTTI, Il Poligrafo, Padova 208, pp. 15-43; Verso una presenza
femminile: Antonietta Giacomelli, in Donne in-fedeli. Testi modelli, interpretazioni della religiosità femminile, a cura
di A. CALAPAJ BURLINI e S. CHEMOTTI, Il Poligrafo, Padova 2005, pp. 191-212.
23. M. GUASCO, Dal Modernismo al Vaticano II, Franco Angeli, Milano 1991, p. 58.
24. M. GUASCO, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, p. 132.
25. La letteratura critica sul movimento è vasta e complessa. Segnalo solo i testi che mi sono parsi utili e significativi
ai fini di questa ricerca. Oltre ai due volumi già citati di Maurilio Guasco, cui rinvio anche per ulteriori indicazioni
bibliografiche, è utilissimo l’ormai classico P. SCOPPOLA, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia,
Il Mulino, Bologna 1961 e G. VERRUCCI, L’eresia del Novecento. La chiesa e la repressione del modernismo in
Italia, Einaudi, Torino 2010 oltre agli studi, davvero fondamentali, di Lorenzo Bedeschi e Camillo Brezzi segnalati
in nota. A G. COLOMBO, La questione del modernismo italiano, in «La Scuola Cattolica», marzo aprile 1973, pp.
140-159 rinvio per la discussione, da parte cattolica, della storiografia sul modernismo italiano.
26. «Gli storici sono quasi d’accordo sul fatto che un movimento modernista vero e proprio, con degli ispiratori, dei teorizzatori, dei seguaci, non sia mai esistito. Sono esistite persone, tendenze, ricerche e scritti che possono in qualche
modo giustificare l’enciclica: e vale forse la pena di ricordarne alcuni dei più rappresentativi. Anche loro non si sono
mai sentiti una scuola, non sono mai riusciti, nonostante qualche timido tentativo, a dare corpo ad un’organizzazione,
a dei legami organici, a riviste che non fossero solo espressione di qualcuno, ma di un gruppo». Cfr. GUASCO, Dal
modernismo al Vaticano II, p. 53.
27. Per ogni altra precisazione cfr. SCOPPOLA, Crisi modernista, pp. 211-217 e GUASCO, Modernismo, citati.
28. GUASCO, Modernismo, p. 127.
29. TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, p.131 e P. GIOVANNUCCI, Dimenticare l’antimodernismo?, in «Studia
Patavina», LV, 2008, pp. 799-827; L. BEDESCHI, L’antimodernismo in Italia. Accusatori, polemisti, fanatici, San
Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000; R. DE MATTEI, Modernismo e antimodernismo nell’epoca di Pio X, Jaca Book,
Milano 2002.
30. Le Riviste furono roccaforte degli attacchi antimodernisti ancora per anni, tanto che nel 1911 (27 febbraio) Pio X
scrive a Longhin: «Quei benedetti Scotton non hanno ancora capito che si fa di tutto per finire La Riscossa e l’Unità
che sono un pruno nell’occhio dei modernisti» (L. URETTINI, La diocesi del Papa. Dieci anni di corrispondenza
con il vescovo di Treviso A.G. Longhin, in «Venetica. Rivista di Storia delle Venezie», n. 7, gennaio-giugno 1987, pp.
30-126, p. 93). Per le lettere di Pio X cfr. anche A.M. DIEGUEZ, L’archivio particolare di Pio X. Cenni storici e inventario, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2003. Anche cattolici moderati, come il trevigiano Giuseppe
Toniolo confidava al Goyau di aver trovato Pio X e «molti altri in Roma preoccupatissimi delle questioni filosofiche
fra i cattolici, specialmente in Francia», riferendosi alla cosiddetta «apologetica moderna» promossa da Léon OlléLaprune e divulgata da Georges Fonsegrive ed al «pragmatismo religioso» di Maurice Blondel (P. PECORARI,
Giuseppe Toniolo e le premesse culturali della “Pascendi”, in Sitientes, pp. 333-346).
31. I. RINIERI, Pensieri di una «cattolica cristiana», in «La Civiltà Cattolica», 21 aprile 1900, pp. 204-209.
32. R. FOSSATI, La casa editrice Cogliati di Milano e la cultura femminile, in «Cultura, religione, editoria nell’Italia
del primo Novecento. Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 16, La Scuola, Brescia 2009,
pp. 95-104. Roberta Fossati sottolinea come alcune opere della Giacomelli, Lungo la via, Sulla breccia e Adveniat
Regnum tuum, «che si diffondevano a macchia d’olio soprattutto fra il pubblico cattolico giovanile» (p. 100), fossero
stati ristampati dalla casa editrice milanese Cogliati, la quale, indirettamente, subì attacchi per la loro pubblicazione.
Per le invettive di Rinieri contro la Giacomelli cfr. anche MICHIELI, Antonietta Giacomelli, p. 65 e TOLOMIO,
Dimenticare l’antimodernismo, p. 139.
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Cit. in URETTINI, Antonietta Giacomelli, pp. 482-483.
Ibidem. La lettera in questione è citata da BREZZI, p. 362.
Cfr. MICHIELI, Antonietta Giacomelli, p. 65 e TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, p. 139.
G. SOVERNIGO, Il Movimento Cattolico a Treviso nel primo decennio del ’900 (1900-1910) (tesi di laurea, relatore
G. Mantese, anno acc.1970-71), p. 175.
Ivi, documento 2.
R. MURRI, Movimento femminile cristiano, in «Cultura sociale», 1902 ora ripubblicato in Femminismo cristiano, a
cura di F. CECCHINI, Editori riuniti, Roma 1979; F. PIERONI BORTOLOTTI, Alle origini del movimento femminile
in Italia, Einaudi, Torino 1975; P. GAIOTTI DE BIASE, Le origini del movimento cattolico femminile, Morcelliana,
Brescia 2003; EAD., Protagonismo religioso ed emancipazione delle donne: una storia di lungo periodo, in Per le
strade del mondo. Laiche e religiose fra Otto e Novecento, a cura di S. BARTOLONI, Il Mulino, Bologna 2007.
URETTINI, Antonietta Giacomelli, p. 465.
Cit. in TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, p. 140.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, 141.
P. Gioacchino Corrado (1835-1925) dei Chierici Regolari della Madre di Dio, di cui divenne Rettore generale nel
1917, è figura di primo piano negli ambienti curiali della Roma dei primi decenni del secolo, nominato consultore in
ben quattro Congregazioni (Propaganda Fide, Concilio, Vescovi e Regolari, Indice) e teologo della Dataria Apostolica (Ivi, p. 147).
Adveniat, pp. III-IV.
Ivi, p. 144.
La messa all’indice del manuale liturgico Adveniat Regnum tuum di Antonietta Giacomelli. Il “voto” del consultore
Gioacchino Corrado, in TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, pp. 253-274.
Ivi, pp. 151-152.
Ivi, p. 153.
«Certe posizioni, duramente rimproverate ai modernisti, sono ora pacifica acquisizione in ambito teologico» (GUASCO, Modernismo, p. 15).
TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, p. 153.
Sulla condanna del 1849 cfr. Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice, a cura di L. MALUSA, Edizioni rosminiane, Stresa 1999 (con la pubblicazione dei testi degli archivi vaticani) ed anche Carteggio Alessandro Manzoni Antonio Rosmini, introduzione di L. MALUSA, testi a cura di P. DE LUCIA, Centro nazionale studi manzoniani, Milano
2003 (si tratta del vol. ventottesimo dell’Edizione Nazionale delle opere manzoniane che ben documenta i rapporti
epistolari tra i due grandi della cultura italiana dell’Ottocento). Sul decreto post obitum L. MALUSA, L’ultima fase
della questione rosminiana e il decreto “Post obitum”, Libreria editoriale Sodalitas, Stresa 1989.
TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, p. 73 e l’intero cap. III.
Su di lui cfr. J. ZARDO (1823-1875), Carmina omnia latina, curavit ac primum edidit Ae. PIOVESAN, Ex officina
«La tipografica», Tarvisii MCMLXVII (nell’introduzione linee biografiche fondamentali).
Ivi, pp. 63-87.
Ibidem.
URETTINI, La diocesi del Papa, p. 55.
CHEMOTTI, Introduzione a Sulla breccia, pp. 30-32 e BREZZI, sub voce (p. 236).
Ibidem.
Ivi, p. 237.
Ibidem.
Ibidem.
TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, p. 158.
Ivi, pp. 107-128 e pp. 219-252 per la pubblicazione dei documenti di condanna dei due romanzi.
Ivi, pp. 158-159. La lettera è datata Vicenza, 9 giugno 1909 ed è conservata alla Biblioteca Ambrosiana, Fondo “Carte
Fogazzaro”, dell’Archivio Gallarati Scotti. Vale la pena riportarla per intero: «Cara amica, il mio giudizio sull’opportunità e legittimità del suo atto non è mutato. Il terremoto di Messina e Reggio, infinitesima frazione del dolore
inesplicabile che si è manifestato sulla terra dall’origine dell’uomo in poi, non ha potuto farmi dubitare della bontà
di Dio. Gli errori dell’attuale governo della Chiesa infinitesima frazione della somma di errori che quel governo poté
commettere da Cristo in poi non può farmi dimenticare che noi viviamo un atomo di tempo nella vita della Chiesa;
non può togliermi la fede profonda che pure restando noi cittadini di questa Patria, l’opera nostra pubblica e privata
di cittadini obbedienti all’Autorità ma propagatori dei doni divini del Vangelo, continuata dalle generazioni che
verranno finirà quando che sia col porre l’autorità nelle mani di chi pensa come noi. Sarà lontanissimo quel giorno?
Ebbene che importa? Saremo noi degli egoisti che vogliono lavorare per aver subito il frutto? Non avrete neanche
la consolazione del martirio. Vi scomunicheranno, sì; ma poi non si occuperanno più di voi, nella soddisfazione loro
di essersi liberati della vostra incomoda presenza. Una società non vive senza l’istituto sociale dei suoi membri. E
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l’istituto sociale consiste nel rispetto all’autorità anche quando ella vi offenda, restando nei soci il diritto di promuovere nei modi loro consentiti dallo Statuto sociale il cambiamento delle persone che sono depositarie dell’autorità. Ci
è lecito desiderare riforme, abbiamo anzi il dovere di promuovere quelle che in coscienza crediamo necessarie; ma
le possiamo promuovere solamente lavorando nei modi leciti il terreno dal quale continuamente rinnovandosi sorge
l’autorità. Ho detto. Trasmetto lettere e bozze alla B. senza aggiungere parola che possa influire sul suo giudizio.
Saluti cordiali. Suo Antonio Fogazzaro».
SCOPPOLA, Crisi modernista, p. 328.
Sul gesuita Enrico Rosa (1870-1938) abbiamo la monografia di A.M. FIOCCHI, Enrico Rosa S.J., scrittore della
“Civiltà Cattolica”. Il suo pensiero nelle controversie religiose e politiche del suo tempo, Edizioni «La Civiltà Cattolica», Roma 1957. Per i rapporti tra Rosa ed Ernesto Buonaiuti, esponente di primo piano del modernismo, in più
riprese condannato sino alla scomunica definitiva, cfr.: A. ZAMBARBIERI, Il cattolicesimo tra crisi e rinnovamento:
Ernesto Buonaiuti ed Enrico Rosa nella prima fase della polemica modernista, Morcelliana, Brescia 1979. P. Rosa fu
collaboratore di Gentile nei lavori per l’Enciclopedia Italiana, incaricato di raccogliere le «notizie delle origini e della
storia dell’Ordine della Compagnia di Gesù» e di coordinare gli interventi dei gesuiti in tal senso. P. Rosa, inoltre,
dichiarerà di essere stato personalmente in grado di ottenere da Pio XI il permesso per i cattolici di collaborare alla
Enciclopedia «a cui [Pio XI] era piuttosto avverso» (G. TURI, Il mecenate, il filosofo, il gesuita. L’“Enciclopedia
Italiana”, specchio della nazione, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 83 e 87-88).
TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, pp. 286-298.
Ivi, p. 163.
La frase è tratta dal testo di censura di E. Rosa (TOLOMIO, p. 275).
Il documento è pubblicato per intero: La condanna della Riscossa cristiana (Milano 1913) di Antonietta Giacomelli.
Il testo di censura del consultore Enrico Rosa, in TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, pp. 275-298.
TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo, p. 162.
Sui difficili rapporti tra Murri e l’autorità ecclesiastica cfr. M. GUASCO, Il caso Murri dalla sospensione alla scomunica, Argalia, Urbino 1978 (negli ultimi mesi della sua vita si riconcilia con la Chiesa, nel 1943 Pio XII ritira la
scomunica e nel 1944 muore). «La rivendicazione dell’autonomia politica dei cattolici comporta di conseguenza la
ricerca di nuove premesse dottrinali: fra queste, l’analisi del rapporto tra autonomia politica e autonomia religiosa,
del ruolo e del significato dell’azione del laicato nella Chiesa, del rapporto tra società religiosa e società civile prima,
tra Chiesa e Stato in seguito. La Chiesa gerarchica, secondo Murri, si è dimostrata incapace di promuovere e gestire il
movimento sociale dei cattolici; tale movimento, d’altronde, non può reggersi se non su un rinnovato spirito religioso, e i cattolici dovranno “conquistarsi contro le pretese del Vaticano, il diritto di agire liberamente nella vita pubblica
italiana”» (cfr. GUASCO, Modernismo, p. 140).
URETTINI, Antonietta Giacomelli, p. 466 (lettera dell’11 ottobre 1909, doc. n.4).
Ibidem.
URETTINI, La diocesi del Papa, p. 77 (lettera a Longhin, 17 ottobre 1909, doc. n. 6).
URETTINI, Antonietta Giacomelli, pp. 466-467.
URETTINI, La diocesi del Papa, p. 77 (la lettera è del 23 novembre 1909, doc. n. 7).
Il riferimento è in A. FOGAZZARO-R. MURRI, Carteggio (1885-1910), a cura di P. MARANGON, Accademia
Olimpica, Vicenza 2004. Per il movimento cattolico cfr. C. BREZZI, Il cattolicesimo politico in Italia nel ’900, Teti,
Milano 1979.
Cfr. nota 4; URETTINI, Antonietta Giacomelli, p. 469.
Ivi, pp. 470-471.
Ivi, p. 79.
Ivi, pp. 79-80.
VERRUCCI, L’eresia del Novecento, p. 59. A queste dolorose e sofferte ritrattazioni fanno cenno anche le testimonianze di Amalia Filzi e di don Primo Mazzolari riferite infra.
Cfr. nota 41 e la relativa lettera di mons. Longhin.
In Regno Christi, Vicenza, Soc. Tipografica 1942. Aveva per sottotitolo: Manuale di devozione liturgica: per la Fede
cristiana, per la Vita cristiana, per l’Anno cristiano, per la Coscienza cristiana, con approvazione ecclesiastica; ha
per motto Instaurare omnia in Christo. Il vescovo Longhin era mancato nel 1936.
BREZZI, sub voce, p. 239.
MICHIELI, Antonietta Giacomelli, p. 65.
Ultime pagine, Bietti, Milano 1938.
MICHIELI, Antonietta Giacomelli, pp. 66-67.
Ivi, pp. 67-68.
Cit. da CHEMOTTI, Ritratto di Antonietta Giacomelli, p. 14.
Ibidem.
H. ARENDT, Il futuro alle spalle, tr. it. Il Mulino, Bologna 1996, p. 43.
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MARIA SILVIA
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Ha conseguito la maturità classica presso il Liceo A. Canova di Treviso. Laureatasi in Filosofia
presso l’Università di Venezia, per alcuni anni ha collaborato a un progetto di ricerca CNR sotto
la guida del prof. Gaetano Cozzi.
In tale ambito ha pubblicato alcuni articoli e saggi in volumi miscellanei. Dopo un lungo periodo
presso il Liceo scientifico G. Marconi di Conegliano, dal 2001 è docente al Liceo classico A. Canova di Treviso.
Con Glori Cappello ha curato il volume “1807-2007. Il Liceo classico Antonio Canova, due secoli
di storia di una istituzione scolastica”.
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MARIA SILVIA GRANDI
Eleonora Duse: la vita nell’arte e l’arte nella vita
A
ffrontare un tema quale è quello relativo alla vita e all’arte di Eleonora Duse non è
compito agevole, tanto nota è la sua figura, non è agevole anche perché della Duse
è stato scritto molto, perché ella stessa ha scritto molto di sé; difficile risulta sintetizzare
un materiale consistente che parla dell’attrice ma anche della donna. Complesso inoltre
perché tante sono le sfaccettature di una personalità vivace, interessante, poliedrica. Chi
scrive ha cercato di avvicinarsi alla Duse senza essere una esperta di storia del teatro, di
accostarsi da donna a Eleonora come donna, da appassionata di storia a colei che è stata
protagonista e testimone di un’epoca di cambiamento, quella tra la fine del XIX secolo e
l’inizio del XX, un’epoca complessa con elementi di forte novità, elementi di cui Eleonora
Duse è stata spettatrice e protagonista. L’impressione forte che si riceve leggendo ciò che
parla di Eleonora è che questa abbia messo la sua personalità in molte delle cose che ha
vissuto; diceva che l’arte è vita e ha messo la vita nell’arte e l’arte nella vita, sosteneva che
l’arte è come l’amore, insaziabile e di amore e di arte non si è saziata vivendo entrambe
fino in fondo, soffrendo con consapevolezza lucida della sua sofferenza.
L’obiettivo di questo saggio è quello di riuscire a presentare Eleonora come donna attraverso l’analisi del rapporto che ella ebbe con i molteplici ambiti in cui si trovò impegnata;
il teatro, la realtà storica che le stava attorno, il mondo degli affetti. Sicuramente nella
inevitabile sintesi qualcosa della ricchezza di Eleonora verrà sacrificato.
In un bel volume che è il catalogo di una recente mostra sull’attrice, mostra tenuta a Roma
al Vittoriano, Maurizio Scaparro sottolinea che la vita di Eleonora può essere considerata
come una lunga tournée iniziata in un albergo a Vigevano, il 3 ottobre del 1858, e finita
in uno di Pittsburg, negli Stati Uniti, il 21 aprile del 1924, e sottolinea come “la gioia e
la fatica di vivere, la curiosità e l’ansia di conoscere” abbiano caratterizzato la sua arte1.
Effettivamente il desiderio di sperimentare, di trovare nuove strade ha dato forma alla
esperienza teatrale di Eleonora, grande innovatrice; la sua recitazione era caratterizzata dal
suo vivere i personaggi, dal reinterpretarli senza mai ripetersi; sosteneva di mettere nella
recitazione quello che viveva nel momento in cui recitava, sottolineava di saper entrare
nei personaggi proprio grazie alla propria vita di emozioni e di passioni: “non recito parti
ma soffro con gli esseri che rappresento” sosteneva. “Recitare è essere” ribadiva nel suo
bisogno di sottolineare il legame imprescindibile tra vita e arte. Modificò il modo di muoversi sulla scena rifiutando spesso di assumere pose statiche femminili 2. Ritenne che fosse
importante per chi esercitava il mestiere dell’attore assimilare, tramite letture, una vasta
conoscenza e lei, autodidatta, fu lettrice accanita di opere di letteratura, e non solo, oltre
che ovviamente di teatro; quanto alla produzione per il teatro fu costantemente attenta anche ai nuovi autori e alle nuove autrici, sempre alla ricerca come era di testi che potessero
rinnovare l’orizzonte testuale della sua recitazione.
I suoi contemporanei, spettatori spesso affascinati ed entusiasti dello stile, della umanità
e passionalità della sua recitazione, furono consapevoli di tali novità e dell’effetto di esse.
Intellettuali e artisti assistettero alle sue rappresentazioni con la consapevolezza di aver
partecipato a qualcosa di unico. Accadde al giovane J. Joyce nel 1900 a Londra, accadde a
C. Chaplin negli Stati Uniti nel 1924 3, era accaduto a G. Bernard Shaw che nel 1895 aveva
scritto, in qualità di critico teatrale per “The Saturday Review”, un articolo in cui poneva
a confronto il modo di essere attrice dell’altra grande donna del teatro europeo, Sarah
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Bernhardt, con quello di Eleonora Duse. Ecco alcuni passaggi di quello scritto, diventato
un vero saggio sull’arte dell’attore:
“La signora Bernhardt ha il fascino di una vivace maturità… essa si pittura le orecchie di
rosso permettendo loro di fare incantevolmente capolino… ogni fossetta ha il suo tocco
di rosa… le sue labbra sembrano una cassetta postale dipinta di fresco; le guance hanno la
freschezza e la morbidezza di una pesca; la signora Bernhardt è bella della bellezza della
sua scuola, del tutto disumana ed incredibile… il costume, il titolo della commedia, l’ordine delle parole può cambiare… ma la donna è sempre la stessa. La signora Bernhardt non
si mette nei panni del personaggio, a esso si sostituisce.
È appunto tutto questo, quanto non si verifica nel caso della Duse, ogni parte della quale
è una creazione a sé. Quando essa si fa sul proscenio, conviene dar mano al binocolo e
contare le rughe che il tempo e le preoccupazioni hanno lasciato su di lei. Sono le credenziali della sua umanità e lei si guarda bene dal cancellare quella significativa grafia
sotto uno strato di belletto… Le ombre sul suo volto sono grigie… le sue labbra in certi
momenti sono anch’esse quasi grigie… ma la Duse con un tremito delle labbra che sentite
più che vedere… ti tocca direttamente il cuore e non c’è ruga sul suo volto, non c’è tono
freddo nell’ombra grigia, che non conferisca pregnanza a quel tremore… Ogni idea, ogni
accenno a un pensiero e a uno stato d’animo si espone allo sguardo con discrezione ma
intensamente.” 4
Eleonora fu imprenditrice in teatro e non solo attrice; capocomica con una sua compagnia
già alla metà degli anni ottanta, la Compagnia della città di Roma; in quella veste fu determinata, gestì in prima persona tournée in tutto il mondo, attenta agli aspetti finanziari,
pronta a competere in un mondo di uomini dove le donne erano solitamente attrici o mogli
dei capocomici. Lavorò poi in compagnie di altri o in compagnie dirette con altri ma mano
a mano che la sua fama aumentava fu sempre più perno delle compagnie, regista o coregista, attenta alla scelta dei testi, alla costruzione di scenografie, disponibile per i primi
e per le seconde ad accogliere nuove proposte, dedicava tempo a seguire la recitazione
degli altri, specie dei giovani, esigente , severa e critica ma pronta a gratificare, spesso con
un gesto affettuoso, i miglioramenti dei suoi attori dai quali comunque esigeva di essere
chiamata ‘Signora’5.
La curiosità verso il nuovo, il desiderio di sperimentazione la portarono verso la nuova
arte, il cinema, quella che lei definì “l’arte del silenzio”. Nel 1916 fu realizzato il suo
unico film “Cenere” tratto da un romanzo di Grazia Deledda e tradotto dalla stessa Duse
in copione cinematografico. Le lettere di quel periodo parlano dell’entusiasmo con cui
Eleonora si accostò all’arte del silenzio attraverso un testo che parlava di amore materno
verso un figlio. Si preparò a questa realizzazione frequentando assiduamente le sale cinematografiche, fu poi il primo pubblico di se stessa, rivedendo le scene girate per valutarne
l’efficacia.
Erano gli anni delle lontananza dal teatro (dal 1909 al 1921 Eleonora non recitò), erano gli
anni di una guerra che fu una presenza drammatica anche nella vita della Duse.
Il teatro portò Eleonora a contatto con personalità della cultura europea da Giovanni Verga
a Gabriele D’Annunzio, da Arrigo Boito a Alexandre Dumas figlio, da Marco Praga a Luigi
Pirandello, da Rainer Maria Rilke a Alexandre Wolkoff, da Camille Mallarmé, nipote del
poeta, a George Bernard Shaw, da Ada Negri a Grazia Deledda da Matilde Serao a Isadora
Duncan, per citarne alcuni.
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La sua sensibilità di donna libera ed evoluta, colta di una cultura fatta di letture e di contatti, quelli appunto appena ricordati, la portò ad essere ben presto consapevole dei grandi
problemi del suo tempo. Alla questione femminile Eleonora dedicò particolare attenzione;
il fallimento di un matrimonio, l’esperienza di affetti forti e di grandi passioni lungo il
percorso della sua vita ma anche lo sguardo attento alla realtà femminile del suo tempo, la
portarono a riflessioni sulla condizione della donna, nel rapporto coniugale per esempio;
riflessioni che tendevano a sottolineare la necessità di vivere nel matrimonio una condivisione di esperienze e di pensieri che permettesse di garantire parità alla donna. La stessa
sensibilità e la stessa attenzione spinsero Eleonora ad elaborare un interessante progetto
che attuò nel 1914. La Biblioteca delle Attrici fu voluta e realizzata a Roma in una villetta
in via Nomentana; era stata da lei pensata come un luogo in cui le attrici trovassero rifugio,
una sorta di centro culturale che permettesse loro riposo e lettura; tanti libri erano pronti
per questo scopo. L’ideazione e la realizzazione di tale progetto impegnarono Eleonora,
sostenuta da amiche come Maria Osti e Desirée Wertheimstein. Il mondo del femminismo
italiano guardò con attenzione a questo progetto. Dall’ambiente della cultura più in generale provennero molti consensi ma anche critiche. La Biblioteca della Attrici fu inaugurata il 27 maggio del 1914. L’inizio della prima guerra mondiale spazzò presto via anche
questa piccola ma significativa realizzazione ed Eleonora regalò tutti i libri, che aveva
acquistato vendendo anche alcuni dei suoi gioielli, a scuole della capitale6.
La grande guerra fu l’altro evento nei confronti del quale la Duse prese ben presto posizione,
lo fece firmando una petizione a favore dell’ingresso in guerra nel periodo in cui il paese e
il parlamento erano divisi drammaticamente tra interventismo e neutralismo, lo fece negli
anni seguenti, quelli della guerra di logoramento che tutti toccò. Nelle numerosissime
lettere che Eleonora scrisse alla figlia in Inghilterra, tra il 1915 e il 1918, il conflitto
mondiale è una presenza costante; la guerra la angosciava davvero ma la guerra suscitava
in lei anche sentimenti patriottici forti che esprimeva attraverso il ritorno a quello che
considerava come il grande interprete e sostenitore dell’Italia e del suo popolo, Giuseppe
Mazzini. Nel momento dell’intervento in guerra dell’Italia Eleonora scriveva alla figlia:
“Questa guerra mi dà una lucidità terribile della necessità delle cose… ma anche la convinzione che, pur deprecando la guerra, l’inazione non serva e prevalga in lei un forte
spirito patrio… oggi è il primo giorno di guerra, niente parole inutili, siamo nel mondo,
tutti stretti alla stessa speranza e ognuno di noi farà il suo dovere. Queste giornate le ho
passate in silenzio e sola in casa: un solo libro mi ha aiutata: Mazzini. La sua luce e la sua
fede scenda in ogni core !” 7
In una lettera del 17 dicembre 1917, dopo la disfatta di Caporetto, Eleonora scriveva ad
Enrichetta:
“Devo dirti che ho deciso, un po’ tardi ma in tempo, di scriverti in italiano. Le ragioni che
ci scriviamo in francese da anni sono varie… Poiché siamo in guerra, perché ogni popolo
abbia il suo pezzettino di terra, vediamo di scriverci parlando la lingua di nostra terra. … È
tempo che ognuno abbia quel tanto che è suo… Te lo scrivo non tanto per capriccio dello
spirito o per tardo risveglio di coscienza ma per fervore e augurio alla nostra terra natale,
in quest’ora tremenda! È onore, nascer di terra d’Italia, per varie prove del passato, per
molta onta e vergogna passate, per tanto dolore e espiazione e risveglio dell’oggi! “Se Dio
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è popolo, chi può contro Dio ?” E così Mazzini, sarà indulgente per me e per te, se abbiamo finora sempre scritto in francese… Non posso scriverti di più. Vorrei approfittare d’un
momento che non mi sento triste e far qualcosa. Agire! Agire! Agire! Fra tante ansietà!..
Per darti coraggio e fiducia rileggi qualche lettera di Mazzini e vedrai che tenacità… Cara,
non ho trovato altro conforto, all’invasione durante questi 45 o 50 giorni che leggendo lui
che ha dato l’anima di oggi all’Italia!” 8
Ma la guerra comportava anche il senso di angoscia che Eleonora provava e descriveva
con lucidità alla figlia:
“Pupa, mammà vorrebbe scriverti tante cose ma mammà non sa più né scrivere né parlare.
La vita tutta ha cambiato tanto, tutti i valori apparenti e fondamentali che, al di fuori
dell’azione del momento, pare non poter parlare di niente. E la guerra è da per tutto, e chi
osa più parlare di nessun altra cosa ?… Le giornate qualche giorno mi sembrano fatte di
angoscia, e noi , dopo qualche ora, l’esame delle cose, la valutazione calma, e indulgente,
la pienezza di energia che turba la terra, le speranze, le preghiere, le ferocie, infine la
parola guerra, per ogni casa, e parlare di cose proprie non si può più, si vive di giorno in
giorno aspettando un’avanzata di cose, che l’equilibrio del mondo ne abbia una scossa.
Ma quando ?” 9
Tra quanto si legge in queste lettere risaltano la volontà d’azione, il desiderio di impegnarsi agendo, perché col cuore Eleonora era già coinvolta in un evento tanto tragico. Le venne
chiesto di recitare al fronte per i militari; la sua biografa Helen Sheehy sottolinea il motivo
del rifiuto della Duse: le sembrava grottesco recitare davanti a giovani che soffrivano e
morivano, scelse piuttosto di fare visite al fronte ai feriti e ai soldati, ascoltò le loro parole
che riportò alle loro madri e alle loro mogli, scrisse lettere e invio pacchi a quegli uomini
provati; con uno di questi, il giovane ufficiale siciliano, diciannovenne, Luciano Nicastro
avviò una corrispondenza, lo seguì da lontano chiamandolo a volte “figlio” e facendosi
a volte chiamare “mamma”10. Il rapporto con un figlio, un maschio, le era stato negato
quando, giovanissima, aveva perso il figlio che era da poco nato dalla sua relazione con il
giornalista napoletano Martino Cafiero.
Il riferimento al figlio perduto e alla sofferenza a questo evento legata apre le porte alla
analisi di un ultimo ma fondamentale spazio della vita di Eleonora, quello delle relazioni
interpersonali nei suoi molteplici aspetti ed elementi: il rapporto con gli amici, con donne
amiche in particolare, quello con la figlia Enrichetta ed infine quello con gli uomini ai
quali si legò incapace di vivere senza amore come lo era di vivere senza arte.
Leggendo di Eleonora si scopre man mano che si segue l’evolversi della sua esistenza
tutto un mondo di persone che le furono accanto, più o meno vicine; con alcune di queste
Eleonora allacciò rapporti significativi di amicizia, in qualche caso duratura, con altre le
relazioni intense di frequentazione furono legate a periodi circoscritti; qualcuno sostiene
che la Duse in qualche caso utilizzò i contatti con alcuni come strumento per ottenere vantaggio nella professione, in particolare quando queste persone permisero il suo inserimento in contesti non italiani, in contesti internazionali; accadde durante i viaggi in Europa
o in America; accadde in Italia quando la consuetudine con amici e amiche non italiane
permise ad Eleonora il contatto con ambienti cosmopoliti. È altrettanto sicuramente vero
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che non mancò chi utilizzò l’amicizia con la Duse, vista la fama di questa, per ottenere, a
sua volta, vantaggi. Tanti i nomi che si potrebbero ricordare in questo mondo gremito di
persone con cui Eleonora si relazionava, spesso intensamente, ma si preferisce qui fare riferimento ai rapporti significativi con amiche donne perché davvero il mondo di Eleonora
fu costellato di presenze femminili; alcune di queste seguirono la Duse per periodi lunghi
con amicizia e dedizione, affascinate dalla sua personalità, pronte ad aiutarla e a prendersi
cura di lei nei momenti di difficoltà, nei momenti, frequenti, in cui la salute veniva meno.
Un nome e una persona rappresenta bene la sfera delle amicizie più durature e importanti,
quello di Matilde Serao, l’amica di una vita si potrebbe definire. Matilde aiutò Eleonora
all’inizio della sua carriera di attrice in ambiente napoletano, e non l’abbandonò più; le fu
vicina in tutto il corso della vita pronta a raggiungere l’amica quando questa si trovava in
momenti di fragilità personale, pronta a prenderne le difese scrivendo di lei per i giornali
quando vi era il rischio che alcune notizie sulla vita della Duse si diffondessero travisando
eventi e ledendo l’immagine dell’attrice e della donna.
Matilde Serao, dice Helen Sheehy, sostituì la madre di Eleonora, Angelica, attrice essa
stessa, una madre affettuosa con la quale Eleonora aveva avuto un rapporto grande e intenso; diceva di essere venuta “da un povero grande cuore di donna”, quello della madre
che, dopo aver perso un primo figlio, aveva avuto lei e l’aveva protetta ma anche sostenuta
e stimolata nelle qualità particolari che da madre attenta e attrice, aveva riconosciuto ben
presto nella figlia11.
I biografi della Duse sottolineano come Eleonora non riuscì ad instaurare con la propria
figlia Enrichetta lo stesso intenso rapporto che la madre Angelica aveva avuto con lei.
Nata dal matrimonio con l’attore Tebaldo Checchi, Enrichetta venne cresciuta lontano
dalle scene, dalle tournèe, dalla professione della madre; per scelta, più che per necessità,
Eleonora volle per la figlia una formazione che non avesse nulla a che fare con il teatro; una
formazione culturale di alto livello che le garantì in importanti collegi a Torino, Dresda e
infine in Inghilterra dove poi Enrichetta rimase, avendo sposato un docente dell’università
di Cambridge.
Il rapporto delle Duse con la figlia appare in effetti complesso; Enrichetta fu sporadicamente con la madre, raramente la accompagnò in tournèe, più spesso fu con lei nei momenti di vacanza; Eleonora ha in qualche occasione testimoniato nelle sue lettere ad amici
come la vicinanza della figlia suscitasse in lei sentimenti ed emozioni contrastanti, come a
volte la bambina o ragazzina fosse per lei motivo di insofferenza; forse quella insofferenza
era dovuta ad una fatica nel comprendersi reciprocamente per l’assenza di consuetudine,
di condivisione costanti. Eleonora fu molto orgogliosa della figlia per quella formazione
culturale che quest’ultima ebbe e che nell’Europa del tempo era garantita solo a fanciulle
di elevata condizione sociale.
Elementi che rivelano la complessità del rapporto tra madre e figlia risultano anche evidenti nei testi delle lettere che l’attrice rivolse ad Enrichetta; queste manifestano il bisogno di Eleonora di mantenere un rapporto epistolare costante con la figlia, l’esigenza di
commentare con lei grandi eventi circostanti, sue scelte professionali ma rivelano anche
qualcosa di più profondo come il senso di colpa di Eleonora madre che è evidente nella
presenza del tema dell’abbandono12. Maria Ida Biggi nella prefazione del volume da lei
curato che raccoglie le lettere della Duse alla figlia sostiene che il rapporto tra le due
può essere considerato come un “rapporto ribaltato”, “alla vita avventurosa e in continuo
movimento della madre” corrispose la “vita strutturata e pacata della figlia”13. Ecco due
passaggi delle lettere di Eleonora. Nel primo compare il tema dell’abbandono:
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“Forse, certamente, hai sofferto prima di incontrare tuo marito ma se guardo dentro il mio
cuore di un tempo, la mia pena di vivere una vita lontana dalle persone che amavo, è stata
non meno crudele della tua… È il passato, non parliamone più…” 14
Nel secondo passaggio è presente il tema della soddisfazione per la vita normale bene
impostata della figlia e dei nipoti, oltre che il bisogno di presenze di affetti:
“Pupa, mammà ti dice grazie di tutto cuore per le belle fotografie dei bambini. Sono rimasta a guardarle e riguardarle, tutta l’infanzia loro ritorna nel nostro cuore quando si guarda
con l’anima. E son così bambini quei tuoi bambini. Niente di aggiustato e di artefatto, la
buona educazione e l’ambiente traspaiono dal sano aspetto dei piccoli. Ti dico grazie con
tutto il cuore. Tengo le buste delle tue lettere appoggiate al grande orologio che tengo accanto al letto e quando suonano le ore c’è qualcosa di vivo tra il contenuto delle lettere, le
ore, che se pur lente, passano. Grazie!” 15
Enrichetta era nata dall’unico matrimonio di Eleonora, un’unione triste e fallita rapidamente.
Molte le presenze maschili nella vita della Duse sin dagli anni della giovinezza; con
alcuni di questi uomini Eleonora visse momenti più o meno lunghi di intensa passionalità.
Molti uomini, spesso più giovani di lei, furono affascinati, dalla femminilità di Eleonora,
catturati dalla sua voce, dalla sua intensità, la accompagnarono per un tratto della sua
vita sostenendola anche nella gestione di questioni pratiche; accadde al poeta Rainer
Maria Rilke a Venezia, all’attore e regista Aurélien Lugné-Poe a Parigi ma è anche il
caso di uomini più anziani della attrice come l’aristocratico russo Aleksander Wolkoff e
il banchiere tedesco Robert von Mendelssohn. Nelle biografie si legge che Eleonora non
riusciva a vivere senza una presenza maschile e che era alla ricerca di una personalità forte
che la sostenesse, di un uomo con cui condividere amore, vita e arte.
I rapporti più importanti Eleonora li ebbe sicuramente con due uomini, dalla personalità
spiccata, molto diversi tra loro; il primo fu Arrigo Boito, librettista e scrittore, di 17 anni più
vecchio dell’attrice, fu un punto di riferimento per oltre vent’anni nella vita di Eleonora;
all’inizio della loro relazione l’attrice si dichiarò sinceramente disposta a lasciare il teatro
per Arrigo, convinta che con lui avrebbe potuto costruire una solida unione familiare anche
per Enrichetta ma Boito rifiutò questa ipotesi, manifestando a tratti una certa insofferenza
per le richieste pressanti della Duse. Volle essere per lei amante e guida, maestro e lo fu
di fatto perché Eleonora continuò a frequentarlo anche quanto la parte più intensa del loro
amore si era esaurita, lo fece anche mentre contemporaneamente aveva allacciato relazioni
con altri uomini. Accadde anche all’inizio del suo rapporto con Gabriele D’Annunzio;
D’Annunzio rappresenta, come ben si sa, la seconda grande amorosa passione di Eleonora.
Con Boito non era riuscita a condividere l’arte drammatica perché questi rimase fedele
allo scrivere per la musica, per Verdi in particolare. Con D’Annunzio la relazione, che
durò dal 1894 sino al 1904, fu caratterizzata da una forte condivisione di amore e arte.
Eleonora disse che incontrando Gabriele, o Gabri come lo chiamava, aveva “incontrato la
sua anima e scoperto la propria”. Fu passione amorosa e fu sintonia artistica, D’Annunzio
vide in Eleonora la propria interprete ideale ed Eleonora in D’Annunzio il proprio ideale
autore. Lei spinse lui a scrivere per il teatro e rappresentò in teatro le opere che lui
produsse; nacquero così e vennero portate sul palco “Il sogno di un mattino di primavera”,
“La gloria”, “La Gioconda”, “Il fuoco”, “La città morta”,“Francesca da Rimini”; opere
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che videro il successo personale dell’interprete Eleonora Duse ma raccolsero critiche
fortemente negative per l’autore, Gabriele D’Annunzio; opere portate in scena grazie alla
fiducia e all’impegno, anche economico, di lei.
Eleonora credeva molto in quello che chiamava il “genio” di D’Annunzio, continuò a
definirlo tale negli anni in cui la relazione era ormai naufragata così come continuò a preoccuparsi del suo ex-amante negli anni della guerra quando questi si impegnò in imprese
rischiose. Nello stesso modo D’Annunzio continuò a definire Eleonora come la donna che
più lo aveva amato e tenne al Vittoriale sulla sua scrivania la foto della Duse accanto a
quella della madre16.
Ai tempi della relazione i due avevano condiviso grandi progetti, quello della creazione
di un teatro all’aperto, ad Albano, in cui la Duse avrebbe portato in scena il teatro dannunziano, e quello della creazione di un teatro nazionale di cui lamentavano in Italia la
mancanza, un teatro come luogo istituzionalizzato dell’arte italiana.
Il rapporto tra i due, di collaborazione artistica e d’amore finì nel 1904 appunto quando
D’Annunzio avviò una relazione importante con una giovane aristocratica romana, Alessandra di Rudinì, e, completata la stesura de “La figlio di Iorio”, affidò la parte di Mila
alla Duse ma contemporaneamente cercò altra compagnia a cui affidarne la realizzazione
teatrale. Nelle intenzioni di D’Annunzio la Duse avrebbe dovuto impegnarsi nelle prime
rappresentazioni per lasciare poi il posto alla giovane collega Irma Grammatica più adatta
per età al ruolo. La Duse non partecipò alla prima, chiusa in un albergo malata; manifestò
la sua sofferenza per quello che sentì anche professionalmente come un tradimento in una
serie consistente di lettere e di telegrammi rivolti a D’Annunzio come quello del 3 marzo
1904, giorno successivo alla prima di “La figlia di Iorio” che fu, detto per inciso, la più
trionfale di tutte le prime della carriera di autore teatrale.
“Favola dice così: Strumento per lavoro ammalò. allora guardando dentro strumento videro corda - si chiamava vita - chiese soccorso - trovarono assurda domanda e risero - allora
strumento per dolore di quella corda ammalò sempre più - non poté essere più utile allora.
Fu buttato via, come cane, come cavalla pertinace… ma Isa non muore guarisce Favola
sciocca.” 17
Usata, tradita, gettata così si sentiva Eleonora quando scrisse questo telegramma. Ma tradita non tanto per “La Figlia di Iorio” quanto per un insieme di eventi che in quel periodo
spezzarono l’intesa e la complicità tra i due.
La fine dell’”incantesimo”, come lo aveva definito D’Annunzio, è dimostrato dalla decisione delle Duse, presa all’inizio dell’estate del 1904, di escludere i testi dannunziani dal
programma della successiva stagione teatrale.
La risposta di Gabriele è contenuta in una lunga lettera con la quale manifestava la tristezza per la scelta di Eleonora descrivendo nel contempo quello che aveva caratterizzato la
loro unione:
“Tu hai vissuto accanto a me per anni ed anni. Mi parve talvolta che tu guardassi nella
profondità della mia natura e che tu sentissi talvolta in me quel “candore” del quale non
posso parlare anche a coloro che si dicono fraterni, senza ch’essi ne sorridano con incre-
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dulità beffarda! Tu mi guardavi come guardavi gli alberi; e spesso io mi sentivo vivere nel
tuo sguardo come nell’aria, con una perfetta trasparenza. E veramente dunque, dopo tanta
vita e diversa, tu giungi verso di me a questa parola: “orribile”?…
Il bisogno imperioso della vita violenta, della vita carnale, del piacere, del pericolo fisico,
dell’allegrezza, mi ha tratto lontano. E tu, che talvolta ti sei commossa fino alle lacrime
dinnanzi a un mio movimento istintivo come ti commuovi dinnanzi alla fame di un animale o dinnanzi allo sforzo d’una pianta per superare un muro triste, tu puoi farmi onta di
questo mio bisogno?
Ma dalla mattina in cui ebbi la gioia d’incontrarti, fino a questa ora desolata, io non ho
avuto in me un pensiero e un sentimento che non fossero e che non sieno di devozione,
di ammirazione, di riconoscenza, d’infinita tenerezza verso l’anima tua. Tu invece mi hai
sospettato di continuo e mi hai abbassato e mi hai creduto un nemico scaltro!…
Con che divina dolcezza tu hai protetto la mia fatica! Tutto ho nella memoria. A ogni momento, il ricordo mi punge. E lo sforzo del creare sembra un castigo, tanto è angoscioso!”18
Della risposta a questa lettera esiste una minuta, ed è una risposta, quella di Eleonora, che
non lascia spazio a repliche: “Non ti difendere figlio perché io non ti accuso, non parlarmi
dell’Impero della ragione, della tua vita carnale, della tua sete di vita gioiosa. Sono sazia
di queste parole! Da anni riascolto dirle… Parto di qui domani. A questa mia non c’è risposta”19. L’incantesimo d’amore e d’arte era irrimediabilmente finito.
Nel 1921 Eleonora decise di tornare a recitare, riprese a viaggiare per portare la sua arte
in Italia, in Europa e infine nel 1923 negli Stati Uniti, dove l’ennesimo attacco del male da
cui era afflitta la condusse alla morte nella primavera del 1924.
Pare assumere un significato simbolico il fatto che una vita, quella di Eleonora Duse, fosse iniziata durante una tournée dei suoi genitori e sia finita nel pieno di un ultimo lungo
viaggio da attrice.
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NOTE
1. M. SCAPARRO, Prefazione, in M. I. BIGGI (a cura di), Eleonora Duse. Viaggio intorno al mondo, Milano,
Skira, 2001, pp.5-6
2. Alcune delle frasi attribuite ad Eleonora Duse in questo saggio sono state reperite in una puntuale e ricca biografia scritta da una esperta americana di storia del teatro , Helen Sheehy. Cfr. H. SHEEHY, Eleonora Duse,La
donna, le passioni, la leggenda, Milano, Arnoldo Mondatori, 2005.
3. Per quanto concerne i giudizi entusiasti dei due, cfr. Ivi, p. 190 e pp. 315-316. In particolare C. Chaplin . come sostiene H. Sheey, con la sua “sensibilità di attore” affermava: “Eleonora Duse è l’artista
più grande che abbia mai visto. La sua tecnica è così splendidamente rifinita da non essere più una
tecnica… Naturalmente, la somma di questi elementi è l’artista perfetta: la semplicità, diretta anima
del bambino, l’esperienza tecnica dell’artigiano, il cuore che ha imparato la lezione dell’umana
compassione e l’incisivo cervello analitico dello psicologo.”
4. Ivi, pp. 134-135.
5. Per quanto riguarda l’arte teatrale di Eleonora Duse vasta appare la bibliografia; si rimanda qui ad
alcuni saggi contenuti in due volumi miscellanei. In particolare si vedano i lavori di M. Zannoni, M.
Schino, F. Simoncini per quanto concerne la dimensione teatrale in generale e quelli di F. Perrelli,
M.P.Pagani, G. Altamura, A.I. Urziza e P. Bertolone relativi alla fisionomia internazionale dell’arte
di Eleonora; tutti contenuti in M.I. BIGGI (a cura di), op. cit. Si vedano anche i saggi di C. Alberti, P.
Bertolone, M.I. Biggi D. Davanzo Poli, G. Paladini, H. Sheehy presenti nel volume AA.VV., Divina
Eleonora, Eleonora Duse nella vita e nell’arte, Venezia, Marsilio, 2001. Il volume accompagnava
una importante mostra tenutasi presso la Fondazione Giorgio Cini a Venezia. Tra i fondi documentari custoditi presso la Fondazione Cini è presente una ricca raccolta di testimonianze dusiane: fotografie, ritratti, carteggi, copioni, costumi di scena, oggetti legati all’arte di Eleonora.
6. Alcune tra le lettere che Eleonora Duse scrisse alla figlia Enrichetta in questo periodo testimoniano
l’impegno che Eleonora mise in questa iniziativa e la delusione per la fine rapida della stessa. Cfr. M.
I. BIGGI (a cura di), Ma Pupa, Henriette, Le lettere di Eleonora Duse alla figlia, Venezia, Marsilio,
2010, in particolare pp. 21- 38.
7. Ivi, p. 49, lettera da Firenze del 24 maggio 1915.
8. Ivi, pp.232-234, lettera da Firenze del 17 dicembre 1917.
9. Ivi, p. 57, lettera da Viareggio del 2 luglio 1915.
10. Cfr. H. SHEEHY, op. cit., pp. 273-274.
11. H. SHEEHY, op. cit., p. 12.
12. L’importanza del tema dell’abbandono nella esperienza personale di Eleonora è confermata non
solo in alcune sue lettere ma trova spazio in altri momenti della sua vita, anche di attrice. Il tema
dell’abbandono è presente in maniera forte, assieme a quello dell’amore drammatico per un figlio,
nel romanzo Cenere di Grazia Deledda, opera che la Duse scelse per l’unico film a cui lavorò.
13. M. I. BIGGI, Ma Pupa… cit., p. XX. Il rapporto complesso tra madre e figlia ebbe in qualche maniera ripercussioni anche sulla conservazione dell’epistolario; una grossa parte delle lettere di Eleonora
sono state trascritte dalla figlia, tagliate e censurate, Sostiene la Biggi: “Non è facile cercare risposte
e giustificazioni psicologiche a quanto ha fatto la figlia nei lunghi anni che separarono la morte della
madre dalla sua scomparsa. Probabilmente i “Quaderni di Enrichetta” sono il risultato del tentativo
operato dalla figlia di ricostruire una figura materna, oltre che una personalità di artista e di donna,
inattaccabile”. Va precisato che nella raccolta delle lettere della madre che Enrichetta curò in molti
casi gli originali non ci sono.
14. Ivi, p. 242, lettera da Milano del 7 gennaio 1918.
15. Ivi, p. 53, lettera da Viareggio del 23 giugno 1915.
16. H. SHEEHY, op. cit., p. 326. È Enrichetta, dopo una visita a D’Annunzio al Vittoriale nel 1934 a
ricordare di aver visto nella stanza in cui il poeta lavorava due fotografie: “una era di mia madre”.
17. H. SHEEHY, op. cit., p. 214.
18. F. MINNUCCI, Eleonora Duse, La fine dell’incantesimo, Ianieri editore, Pescara, 2010, pp. 151 - 159.
19. Ivi, p. 159.
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IRINA
POSSAMAI
Laureata in Lettere e Filosofia a Venezia, ha conseguito un dottorato di ricerca a Parigi.
Ha pubblicato numerosi articoli in Italia e in Francia sul teatro, la musica e la poesia nel XIX e
XX secolo.
Ha insegnato in varie università francesi e attualmente è docente di lettere all’ISISS “Verdi” di
Valdobbiadene. Autrice e regista del libretto di Midea (Ricordi), musica di Oscar Strasnoy, premio
Orpheus, dell’audiolibro Corpi Radianti (Eidos) e della pièce Mira.
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IRINA POSSAMAI
Amelia Pincherle Rosselli, duplice memoria del Risorgimento
A
melia Pincherle Moravia Rosselli, scrittrice e autrice di teatro, viene talvolta erroneamente confusa con la nipote omonima, Amelia Rosselli, chiamata in famiglia, affettuosamente, Melina proprio per distinguerla dalla nonna. Melina, figlia di Carlo Rosselli1,
compositrice e poetessa apolide e poliglotta, è stata una delle figure più significative, e
forse meno fortunate, nel panorama della poesia italiana del Novecento.2
Chi era stata dunque Amelia Pincherle Rosselli, nonna di Melina e zia di Alberto Moravia?
In che modo aveva contribuito a fare la storia politica e letteraria dell’Italia post-unitaria?
O meglio quale era stato il contribuito della famiglia Rosselli e in quale rapporto di continuità rispetto al Risorgimento italiano e in particolare alla Repubblica veneta del 1848-49?
Il suo teatro come aveva interagito con la storia, in particolare con la questione femminile
di cui si era fatta portavoce? Queste sono state le mie prime domande.
1. Nel segno della testimonianza
a. Ricordi risorgimentali e valori da trasmettere
«Sotto l’ala di quella bandiera, per difendere quella bandiera, pochi mesi dopo uno dei tre
figli doveva cadere! E mentre li guardavo, all’improvviso un’altra visione si sovrapponeva
a quella: il balcone della mia casa di bimba sul Canal Grande, a Venezia: mio padre che
metteva fuori la bandiera a quel balcone, nelle grandi solennità nazionali. E, quella, non
era nuova fiammante come questa, bensì vecchia e scolorita troppo a lungo era stata esposta al sole nel ’49. Io l’adoravo. Mi aveva insegnato ad adorarla”.3
Nelle sue Memorie Amelia Pincherle Rosselli rievoca ripetutamente gli aspetti della sua
vita che costituiscono una memoria del Risorgimento: i ricordi di bambina nella casa sul
Canal Grande, gli insegnamenti morali e patriottici ricevuti e trasmessi dai genitori, gli
oggetti presenti nella casa e correlati a tali valori e infine il destino che le è riservato di
diventare una madre della patria.
Il padre Giacomo Pincherle accanto al suo letto teneva, sospesa alla parete, una sciabola
di combattente.4 “A volte chiedevo alla mamma, - scrive Amelia Rosselli - Di chi sono
queste spade? - Del papà - Perché non le adopera ? - Le portava quand’era nella Guardia
Nazionale, nel ’48, che c’erano a Venezia gli Austriaci - E adesso non ci sono più? - Li
abbiamo mandati via. - Li ha mandati via il papà con queste sciabole?”5
La sciabola era considerata sacra, allo stesso modo di un sasso grigio, grosso come una
noce che si trovava in un grande armadio che serviva al genitore da ripostiglio. Era un
pezzo del pane raffermo che si mangiava durante l’assedio di Venezia. Amelia, bambina,
chiedeva spesso al padre di mostrarglielo come si trattasse di una reliquia sacra, era una
testimonianza concreta della resistenza veneziana.6
Nelle Memorie Amelia Rosselli ricorda a più riprese “i giorni nei quali il Canal Grande era
tutto uno sventolio, un fremito tricolore”7. Ricorda di aver respirato, sin da bambina, nella
città natale, un sentimento patriottico, simbolicamente rappresentata dalla bandiera tricolore. Della volontà di riunificare l’Italia e di liberare Venezia dal dominio austro-ungarico,
il governo provvisorio di Daniele Manin nel 1848-49 era stato una significativa azione
politica ed una grande prova di coraggio e resistenza da parte della popolazione veneziana.
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Quel “fatidico e irreale” 1849 - scrive Amelia Rosselli - era dunque in casa Pincherle “un
patrimonio spirituale”, correlato da oggetti precisi: due sciabolotti sospesi nella camera da
letto del padre, un pezzo di pane raffermo riposto e due delle otto stampe appese alle pareti
della sala da pranzo che rappresentavano episodi dell’assedio. Una raffigurava il corteo
di cittadini, popolani per la maggior parte, recanti oggetti d’oro e d’argento per l’offerta
alla patria, per prolungare quello che gli storici avrebbero chiamato poi “l’assurdo eroico
assedio di Venezia”. In un’altra si poteva vedere un ponte battuto dal tempestare del fuoco
nemico; nembi di polvere e di fumo: sotto il ponte confusione di barche e di rematori,
figure di donne, di uomini, di bambini disperati e sotto le parole di Arnaldo Fusinato: “il
morbo infuria / il pan ci manca. / Sul ponte sventola / bandiera bianca”.8
A tali oggetti si sommava in casa il ricordo dello zio del padre, Leone Pincherle che veniva
spesso nominato dai genitori. Amico intimo di Daniele Manin, aveva fatto parte del governo provvisorio di Venezia 9. Qualche volta veniva ricordato anche il fratello della madre
Emilia, Giacomo Capon, che, avendo partecipato alla difesa di Venezia, nel 1848, era stato
costretto a fuggire in Francia, con altri esuli, fra cui lo stesso Manin.10
I ricordi risorgimentali della scrittrice veneziana sono dunque associati ai valori della sua
famiglia di origine. E Amelia Rosselli, donna dall’onestà brutale e risoluta, cercherà sempre, durante tutta la sua vita, di trasmetterli ai figli. Lo farà con forza straordinaria, educandoli ad una volontà forte, a un “fortissimamente volli” 11. Non per caso il figlio Nello
Rosselli diventerà uno storico dell’Ottocento che amava esser chiamato “uomo del Risorgimento” anche se “nato troppo tardi”12. Dopo la sua morte la madre diventerà la custode
vigile di ogni sua pubblicazione postuma.
Da ultimo, Amelia Rosselli sposerà il musicista Joe Rosselli, di famiglia impegnata da
sempre a difendere i valori risorgimentali, i cui parenti Ernesto Nathan e Virginia Mieli,
ferventi mazziniani, erano diventati molto amici di Mazzini in esilio a Londra. Proprio a
Pisa, in una casa della famiglia Nathan, Mazzini visse gli ultimi anni della sua vita sotto il
falso nome di Mr Brown 13.
b. Una madre ebrea della patria
Come il marito, Amelia Rosselli proviene da un’importante famiglia ebrea veneziana e di
tale appartenza scrive: “Eravamo ebrei sì, ma prima di tutto italiani”14.
Gli Ebrei a Venezia, alla fine dell’Ottocento, in pieno periodo di assimilazione, erano per
lo più illuminati. Amelia Rosselli cresce in quell’ambiente “profondamente italiano e liberale” che della religione ebraica serba unicamente l’insegnamento morale15.
Nel solco della tradizione ebraica che valorizza la figura della madre in seno alla famiglia,
è senza dubbio il suo assurgere a ottocentesca madre della patria.
È madre del primogenito Aldo, morto alla fine della prima guerra mondiale e di Carlo
e Nello, ricordiamo fondatori del movimento “Giustizia e Libertà”, trucidati nel 1937 a
Bagnoles-de-l’Orne.
Amelia Rosselli descrive in termini enfatici, caratteristici della retorica risorgimentale
post-unitaria, il suo sentirsi madre “unita indissolubilmente alle madri italiane, per loro, in
loro”, “in uno stesso soffrire, in una stessa speranza” 16.
Da una parte la consapevolezza dell’“atroce dolore” di una madre che perde il figlio e
dall’altra un sentimento materno collettivo e patriottico, la spingerà a scrivere nel 1919 il
volumetto in prosa Fratelli minori,17 rivolgendosi a “tutti i giovanissimi, tutti i minori fratelli di quei loro grandi fratelli morti a difesa di un ideale (che questi più non sentivano)”.18
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Evidenziate le contraddizioni del conflitto mondiale, alla madre “patriottica” è affidato il
compito di comprendere il significato di patria e di proiettarlo nell’Italia a venire.
Proprio in un frammento significativo di Fratelli minori, Amelia Rosselli definisce infatti
tale concetto intendendo affidare un messaggio alle generazioni future. La riflessione mostra tutta la modernità del pensiero sostanzialmente cosmopolita della scrittrice veneziana,
pensiero destinato a ripercuotersi nell’opera poetica della nipote Amelia-Melina.
“Bisogna ormai allargare il concetto di patria. Procedere storicamente. Un tempo la patria
era rinchiusa fra le mura della propria città. Poi questo concetto fu superato, e patria divenne la regione. Ora ci troviamo di fronte a una terza tappa della concezione patriottica.
Patria è, per un certo numero di esseri, lo spazio di terra su cui si parla una stessa lingua.
Bisogna sorpassare anche questa concezione. Ostinarsi a mantenere barriere fra popolo
e popolo vuol dire fermarsi sul cammino della civiltà. Smentire la storia. Che l’Italia sia
piccola o grande, il giorno che patria sarà, come dev’essere, il mondo, non è di alcuna
importanza” 19.
2. Il teatro della memoria
a. La prima autrice di teatro italiana
Scrittrice e intellettuale riconosciuta all’inizio del ventesimo secolo, Amelia Rosselli è la
prima donna a scrivere per il teatro dopo l’unità d’Italia.
Nel 1898, appena ventottenne, ottiene un grande successo con il dramma Anima 20, ispirato
a Casa di bambola21 (1879) di Henrik Ibsen e contrapposto esplicitamente a Diritti dell’anima (1894)22 di Giuseppe Giacosa. Pubblica poi il dramma Illusione23 e due commedie in
dialetto veneziano El Rèfolo (1909)24 e El socio del papà (1912)25. Da ultimo scrive i suoi
due drammi storici: San Marco (1912-1913)26 e Emma Liona (Lady Hamilton).27 Traduce
dal francese la favola drammatica di Maurice Maeterlinck: L’oiseau bleu28 influenzata dalla celebre messinscena del testo a Mosca di Konstantin Stanivlaskij (1908). Nel racconto,
due bambini partono alla ricerca dell’uccellino azzurro che simboleggia la felicità. Lo cercano lontano ed invece l’uccellino si trova nella loro casa. La scrittrice aveva affrontato lo
stesso tema, con esiti opposti, nel testo autobiografico in prosa Felicità perduta (1901)29.
I suoi testi teatrali, non ancora riediti, affrontano temi quali: lo scontro tra generazioni, il
confronto tra “vecchi e giovani” (El Rèfolo e El socio del papà), la violenza carnale, la
libertà nazionale e l’emancipazione della donna (Anima e San Marco). In Emma Liona
l’autrice riconsidera il mito classico della donna tradita e abbandonata che si vendica contro l’umanità intera.
Fra le promotrici della questione femminile, in questi anni si distingue Eleonora Duse,
interprete “eccelsa”30 dell’ibseniano Casa di bambola di cui intuisce per prima il valore.
Amelia Rosselli conosce l’attrice nel salotto letterario dell’amica Laura Orvieto ma all’incontro accenna, solo brevemente, nelle Memorie.31
b. San Marco (1913), dramma storico?
La drammaturgia di Amelia Rosselli percorre il solco della tradizione del teatro dialettale
veneziano (Goldoni, Gallina, Selvatico e Simoni). Se anche nella commedia Serenissima
di Giacinto Gallina ritroviamo i personaggi di Vicenzo e Lisa, diverso è lo sviluppo dram-
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matico di San Marco che l’autrice intende collocare nel contesto, volutamente mitizzato,
della gloriosa Repubblica veneta32 del 1848-49. Nel dramma in tre atti il ritmo dei dialoghi
ben orchestrati è serrato e vivace, come nelle commedie di Goldoni e di Gallina le cui
rappresentazioni, in questi anni, abbondano nei teatri veneti.33 La struttura non è però un
orologio perfetto, dal punto di vista drammaturgico il primo atto risulta più efficace degli
altri due.
San Marco, redatto nel 1913, poco più di un anno dalla morte del marito, segna l’ingresso
teatrale di Amelia Rosselli nella Storia. In una presentazione del suo testo teatrale pubblicata nel “Marzocco”34, Amelia Rosselli riferisce infatti di essersi ispirata alla Storia dello
assedio di Venezia35 dello storico combattente Carlo Alberto Radaelli36. L’esplicito riferimento storico e la scelta del dialetto mirano a “riflettere i fatti eroici nazionali, dei quali
fu protagonista il popolo”37 e rendono peculiare il testo drammatico di Amelia Rosselli.
“Sta di fatto che il San Marco si stacca dal tipo più comune del teatro dialettale, specialmente veneziano, fatto generalmente di piccole e deliziose cose [...], se ne stacca nel senso
che questa intima e familiare poesia ha per sfondo, nel mio lavoro, la grande eroica vicenda di avvenimenti dei quali fu protagonista nel 1848-49, il popolo veneziano, sublime di
ardore e di amore.”38
Se in questi stessi anni i manifesti e le sintesi futuriste stanno innovando radicalmente le
forme del teatro contemporaneo, la lingua e il contenuto storico di San Marco, iscrivono il
dramma fra i grandi europei della fine dell’Ottocento. Apparentemente i due stili di teatro
sembrano collocarsi agli antipodi, sono invece entrambi caratterizzati da un unico intento
(certo meno dichiarato in Amelia Rosselli): promuovere l’entrata in guerra dell’Italia.
In quanto donna di teatro Amelia Rosselli ama i contrasti, le contrapposizioni di cui i
dialoghi teatrali sono latori. In San Marco viene rappresentato il confronto-scontro tra un
giovane, Alvise e suo padre, Zuane Barbarigo, testimone vivente del “tradimento”39 di
Venezia ad opera di Napoleone Bonaparte (trattato di Campoformio 1797). Deluso dalla
causa politica, il vecchio nobile veneziano si è ridotto a fare il gansèr 40 in un traghetto41.
Il figlio invece partecipa attivamente alla rivolta del 1848.
Lo spazio scenico riproduce l’interno di un palazzo veneziano, il che ci ricorda molte scene analoghe nella drammaturgia di Carlo Goldoni.
Il primo atto si svolge nel marzo del 1848 quando i veneziani liberano Daniele Manin di
prigione e prendono il potere a Venezia; il secondo e il terzo atto un anno dopo, nell’aprile del 1849 quando il governo di Manin e Tommaseo è in difficoltà e per la popolazione
resistere all’assedio è diventata oramai una sfida durissima. A partire dal secondo atto riconosciamo un secondary plot, che ha come protagonista Lisa, figlia di Alvise e fidanzata
di Vicenzo, “un arsenalotto”. Come la protagonista di Anima, Lisa viene violentata in casa
da un inquilino, Ernesto, nipote di un ambiguo signor Vacherel che si rivelerà essere una
spia del governo austriaco. La violenza carnale non è altro che un pretesto per ricattare
politicamente l’intera famiglia Barbarigo che si trova così di fronte ad una decisione da
prendere: o cedere al ricatto di Vacherel, abbandonare il campo e salvare l’onore di Lisa
con un matrimonio riparatore o rinunciarvi per difendere, fino allo stremo delle forze, l’ideale politico del governo provvisorio. La famiglia-microsocietà deve risolvere il conflitto
tra i propri valori aristocratico-borghesi e quelli della lotta politica per la libertà nazionale.
Infine sarà l’onore di Lisa ad essere sacrificato.
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Il dramma di Venezia, che resiste all’assedio, viene compreso grazie alle azioni quotidiane
di una famiglia aristocratica che della storia diventa specchio e cassa di risonanza. Il
dramma storico è amplificato dalle ripercussioni che provoca in seno a una famiglia
del patriziato veneziano.42 I protagonisti che sostengono l’operato di Manin e resistono
strenuamente all’assedio, sono obbligati a razionare il cibo, il pane, devono rinunciare a un
impiego se al servizio degli occupanti ed affrontare il conflitto in famiglia su questi temi.
Sono tutti coralmente coinvolti e coscienti della missione che la Storia ha affidato loro.
Se la famiglia Barbarigo è la protagonista di San Marco, nel dramma irrompe a più riprese
il personaggio storico di Daniele Manin, mentre Niccolò Tommaseo è del tutto assente.43
L’avvocato ebreo Daniele Manin è descritto come un uomo di bassa statura, intelligentissimo e grande oratore44. L’accento è posto sulla sua natura di giurista e di tribuno, e in questo
Amelia Rosselli risponde ad un criterio di fedeltà storica: Manin si batte per un diritto
veneziano contro i soprusi austriaci, infatti, in quanto autore di una Storia della legislazione veneta,45 diventerà ministro della Giustizia della Repubblica veneta. Viene liberato
di prigione dalla folla come nel dipinto coevo del pittore veneziano Napoleone Nani dove
l’eroe è portato in trionfo.46 Dopo la liberazione, fomenta la presa dell’Arsenale, simbolo
del potere marittimo di Venezia e viene posto alla guida della rivolta veneziana, dando
prova di un grande carisma politico.
Nell’Italia post-unitaria il testo drammatico di Amelia Rosselli contribuisce, in questo
modo, alla celebrazione commemorativa di Daniele Manin, cui fa eco la pittura contemporanea. Tale costruzione progressiva di un vero e proprio culto del personaggio storico
alimenta, di fatto e parallelamente, l’elaborazione di nuovo mito di Venezia.47
Nell’articolo L’assedio di Venezia sulla scena dialettale 48, facendo riferimento a San Marco, Amelia Rosselli scrive: «non si tratta di un lavoro storico nel senso che si dà comunemente a questa parola: storico è soltanto il momento, perché per il resto il dramma si
svolge in un modesto ambiente familiare» .
Sebbene la scrittrice non consideri San Marco un vero e proprio dramma storico, si tratta
in realtà di una metafora efficace della volontà irredentista degli italiani nel 1913 e interventista di una gran parte l’anno dopo.
Amelia Rosselli scrive infatti: « In quel fatidico anno 1914 , eravamo, noi e i nostri amici,
tutti interventisti. […] Era difficile sottostare a quella cappa di piombo della neutralità che
pesava allora sull’Italia: l’atmosfera era troppo carica di passione»49
L’impianto metaforico di San Marco è al servizio della causa interventista, pur nella consapevolezza della gravità dell’evento storico che si sta prefigurando.
In merito alla questione sollevata, nell’agosto del 1914, il drammaturgo veneziano Domenico Varagnolo scrive ad Amelia Rosselli per chiederle una copia del suo dramma e la
scrittrice, sentendo di dover sottolineare il primato della storia su quello dell’arte, si schermisce: “Ella avrà compreso la ragione per la quale non le ho mandato finora il volume:
mi vergognavo, proprio, e sentivo l’impossibilità di pensare a far pensare cose letterarie
in un momento così tragico. Nessuna finzione drammatica, per quanto sentita, per quanto
direi quasi vissuta, può apparire sotto altra forma che di finzione meschinissima di fronte
al dramma spaventevole che ci offre oggi la realtà quotidiana”50. Aggiunge poi che la commedia “forse non è del tutto in disarmonia coi pensieri, coi sentimenti che si agitano tutti
in questo momento: e questo sia di scusa a un invio che potrebbe sembrare fuori luogo”.51
Varagnolo dissente dalla Rosselli e dice di voler entrare proprio nel clima della prima
guerra mondiale già iniziata fuori d’Italia “leggendo subito il suo lavoro”52, il cui titolo gli
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è caro. In effetti fra gli autori veneti del tempo Varagnolo, come Amelia Rosselli, ambienta
in laguna i suoi testi dialettali.
In San Marco, il resoconto storico della Repubblica veneta viene dunque presentato nel
contesto di luci e di ombre dell’Italia del 1912 e 1913. Ribadendo la centralità del personaggio di Lisa, della violenza carnale e delle laceranti ripercussioni sul suo animo sensibile, viene riaperta, sebbene con esiti diversi, la questione delle donne di cui Amelia Rosselli
si era fatta portavoce nel dramma Anima. La presa di posizione politica e il tema della
violenza si ricollegano alla più ampia questione femminile che in questi anni si traduce
nella difesa del voto delle donne.
Infatti, nei numeri di novembre 1913 del «Marzocco» escono numerosi articoli e lettere
sulla questione del suffragio femminile, tra questi l’articolo di Amelia Rosselli: Propaganda elettorale femminile53 in cui l’autrice si pronuncia a favore del suffragio delle donne,
anteponendo comunque sempre il suo inossidabile patriottismo. Afferma di voler difendere la causa in quanto “donna italiana anzitutto non come donna soltanto”54 e, donna
“cosciente” di poter guidare ed organizzare altre donne, una “massa”,55 diventando una
sorta di intellettuale organico ante litteram. In questi primi anni del Novecento si ricordi
la funzione dirompente ch’ebbe, in questo senso, la pubblicazione del romanzo protofemminista Una donna 56 di Sibilla Aleramo.
Da ultimo osserviamo in San Marco la presenza della musica e di canzoni patriottiche che
accompagnano gli eventi, sempre dal punto di vista degli attori della Storia. Alla fine della
pièce, Amelia Rosselli pubblica una Villota57, canto veneto-friulano, caro al primo Pasolini
delle letture poetiche a Casarsa, ove si incita alla battaglia. Il tema della guerra viene esplicitato nel canto di una donna che accetta la partenza per il fronte dell’innamorato: “El mio
moroso m’ha mandato a dire ch’el va sui forti a vinzer o morire”58. La scelta musicale di
Amelia Rosselli59, risulta in sintonia con l’approccio “popolare” al teatro e alla storia che
caratterizza il dramma San Marco.
Come nella tragedia fortemente simbolica di Gabriele D’Annunzio La nave, rappresentata
proprio a Venezia nel 1908 il giorno del patrono, nel dramma San Marco di Amelia Rosselli si riconoscono alcuni stereotipi della “venezianità”, presentati nell’ottica nazionalista
del Risorgimento, stereotipi che servono di fatto, è necessario ribadirlo, la causa interventista dell’Italia nella prima guerra mondiale60. In breve:
- Daniele Manin focalizza l’attenzione politica sull’Arsenale, simbolo del potere militare
e marittimo di Venezia61 perché deve essere ribadito il ruolo di Venezia dominatrice del
mediterraneo.
- I francesi sono chiamati “stramaledeti”, a più riprese “barbari”62, e ladri mentre i veneziani risultano implicitamente i romani civilizzati e civilizzatori.
- Alla “parola magica”63 San Marco viene associato il leone alato, simbolo anch’esso,
della potente, invincibile ed eterna Repubblica di Venezia.
- Viene descritta la folla che libera Daniele Manin di prigione e assiste poi, partecipe, alla
sua orazione politica sopra un tavolo del caffé Florian in piazza San Marco.64 Amelia
Rosselli sottolinea infatti che nel dramma: “la folla, il popolo dovevano dominare con
tutta la forza e violenza possibile”65. La presenza della folla gli conferisce un ampio respiro di cui la messinscena di Ferruccio Benini66, secondo l’autrice, sembra non rendere
conto, lesinando il numero delle comparse.67
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c. Il problema della messinscena
Il 19 maggio 1913 San Marco è messo in scena al teatro Manzoni dalla compagnia dialettale di Ferruccio Benini.68 Anche i suoi “ragazzi”, Carlo e Nello, si erano “vivamente
interessati alle fortunose vicende del San Marco”69 così come l’adorato fratello di Amelia
Rosselli, Gabriele Pincherle 70 che, nell’ottobre dello stesso anno, viene eletto senatore del
Regno d’Italia.
La rappresentazione non ottiene però un successo di critica. In una recensione nel “Corriere della sera”71, il giornalista, per giustificare l’insuccesso del dramma, dice il contrario di
quello che scrive Amelia Rosselli nelle note che costituiscono le sue Memorie dello spettacolo. Il critico attribuisce tale insuccesso all’inefficacia drammaturgica, la scrittrice lo fa
dipendere invece dal contesto storico e geografico e dalla blanda recitazione del Benini.
Annota infatti:
“recò danno alla “efficace rappresentazione del mio San Marco, il fatto ch’essa coincise
stranamente coi moti popolari, o meglio studenteschi, anti-austriaci scoppiati allora un
po’ dovunque alla vigilia della grande guerra europea. Tanto che il lavoro a Venezia, dove
avrebbe dovuto aver luogo la prima rappresentazione, fu proibito dalle autorità e le prove,
già molto avviate, dovettero essere interrotte. Poiché San Marco era già stato annunziato
sui giornali e manifesti, si fece un gran parlare, a Venezia, di quella proibizione. A quel
tempo, tuttora alleati dell’Austria, le autorità avevano gran paura di fare alcunché che
potesse urtarla, e temevano che la rappresentazione del lavoro si sarebbe prestata a dimostrazioni di piazza”.
In seguito alle proteste di Amelia Rosselli, la Prefettura autorizza finalmente la rappresentazione del San Marco, ma riconsegna il copione con tali, tanti e grotteschi tagli, che il
lavoro ne risulta mutilato. “Rifiutai - scrive Amelia Rosselli - di darlo a quel modo e le prove furono definitivamente interrotte: credo con molto sollievo del povero caro Benini, già
allarmatissimo (non era il suo un cuor di leone!). [...] Del San Marco, alcuni mesi dopo, fu
data la prima rappresentazione a Roma72, (e qui Amelia probabilmente si confonde o nella
ricostruzione filologica delle Memorie manca un foglio) dove quella Prefettura, più presso
al Governo e quindi meno esposta politicamente, aveva più coraggio di quella di Venezia.
E poi l’ambiente era ben diverso: il San Marco a Roma era fuori dell’ambiente per cui
era stato creato. E questo nocque molto al successo del lavoro, che infatti fu assai tiepido.
Inoltre Benini, maestro insuperabile nei mezzi toni, dette del San Marco una realizzazione
tutta in sordina, che tolse al lavoro gran parte dell’efficacia e dell’impeto che conteneva.”73
Scartabellando gli appunti sparsi e redatti in epoche diverse delle sue Memorie e decidendo forse di pubblicarli, Amelia Rosselli avrebbe forse sfumato il feroce giudizio nei confronti del capocomico veneto che aveva di fatto promosso e sostenuto la sua drammaturgia
nei primi decenni del Novecento.
***
Per concludere, nel dramma San Marco si colgono le preoccupazioni del Risorgimento,
le ripercussioni e il prolungamento di quel periodo nella causa interventista all’alba della
prima guerra mondiale. Inoltre, il dramma, che potremmo definire patriottico, alimenta
il culto di Daniele Manin e forgia il mito di Venezia, riprendendo alcuni stereotipi della
venezianità in un’ottica nazionalista.
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In San Marco si coglie la volontà politica forte di una scrittrice che patrocina ed esige una
rappresentanza politica per tutte le donne, un’autrice che si sente anzitutto italiana ma
scrive in dialetto veneziano per dare voce al popolo, perché il Novecento è oramai segnato
dal socialismo e la scelta dialettale intende ‘servire’ la Storia. La questione femminile è
sollevata in un rapporto di continuità oltre che di rottura col passato. In Amelia Rosselli
la battaglia per l’emancipazione delle donne e la conquista di diritti civili va di pari passo
con un forte senso della famiglia.
La storia, nella fattispecie della Repubblica veneta, è attraversata con garbo e delicatezza,
attingendo a un tempo alla tradizione del teatro dialettale e discostandosi da questa. È
vissuta e trasmessa alle giovani generazioni tramite la descrizione minuta e sensibile delle
vicissitudini di un’emblematica famiglia veneziana.
Del resto lo stile ottocentesco dei romanzi di Elsa Morante non ha mai adombrato l’eccezionalità della sua opera narrativa.
Amelia Rosselli, autrice più conosciuta all’estero che nel nostro paese, andrebbe riscoperta e le sue opere teatrali andrebbero, a mio parere, ripubblicate.
Lettera manoscritta
di Amelia Pincherle Rosselli
a Domenico Varagnolo Macugnaga,
27 agosto 1914
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NOTE
1. Carlo Rosselli fondò col fratello Nello il noto movimento antifascista “Giustizia e libertà”. Furono
trucidati entrambi in Normandia nel 1937 dalla Cagoule, gruppo profascista francese.
2. Si ricordi in questa sede almeno il volume: La furia dei venti contrari. Variazioni Amelia Rosselli.
Con testi inediti e dispersi dell’autrice, a cura di Andrea Cortellessa, Firenze, Le Lettere, 2007.
3. Amelia ROSSELLI, Memorie, a cura di Marina Calloni, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 140-141.
4. ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 127. Nel romanzo “in miniatura” di Fred Uhlman L’amico ritrovato, il padre del giovane protagonista Hans, medico ebreo assimilato nella Germania oppressa dalle
leggi razziali, inscena nel suo studio l’ultima protesta contro il nazionalsocialismo discriminante.
Indossa la sua uniforme di soldato che ha partecipato alla prima guerra mondiale per mostrare ai pazienti, a cui è stato vietato di rivolgersi a un medico ebreo, il suo forte legame con la nazione tedesca.
Mediante tale azione emblematica rifiuta, parallelamente, di prendere coscienza degli esiti estremi a
cui si sta preparando l’antigiudaismo hitleriano.
5. ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 127
6. Ivi, p. 50, 51.
7. Ivi, p. 51.
8. ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 55.
9. Ivi, p. 53.
10. Lì divenne un celebre giornalista prendendo il nome di Jacques Caponi detto il “Folchetto” (ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 106).
11. Nella scena unica L’idea fissa con due personaggi Giuseppina e Luigi, Amelia Rosselli, dopo aver
citato il “volli, e volli sempre, e fortissimamente volli” di Vittorio Alfieri, ironizza su quella che può
essere considerata una malattia della volontà. “LUIGI: [...] Volli, volli, fortissimamente volli. Mah!
E pensare che ce ne son tanti come me, poveretti, preda di questa malattia della volontà che li fa
soffrire come cani, che li conduce ad atti disperati (piccola pausa, movimento degli occhi verso la
finestra) mentre basta un niente per guarirne! [...]” (Amelia ROSSELLI, Illusione. Commedia in tre
atti. L’idea fissa. L’amica. Scene, Roma-Torino, Roux e Viarengo, 1906, p. 121).
12. ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 213.
13. Ivi, p. 109.
14. Ivi, p. 128.
15. ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 128-129. Gli ebrei a Venezia non erano più costretti a vivere nel
ghetto dal 1797 (trattato di Campoformio). Nel 1866 molte delle famiglie ebraiche più abbienti fra
cui Capon, Pincherle-Moravia e Levi-Errera, vivevano fuori dal suo perimetro (Ivi, p. 106).
16. Ivi, p. 256.
17. Amelia ROSSELLI, Fratelli minori, Firenze, Bemporad, 1921, p. 51.
18. ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 164.
19. ROSSELLI, Fratelli minori, op. cit., p. 51.
20. Amelia ROSSELLI, Anima. Dramma in tre atti, Roma, Salerno, 1997.
21. Casa di bambola viene rappresentato per la prima volta in Italia nel 1891 dalla compagnia di Eleonora Duse che aveva compreso l’importanza della conclusione originale del dramma, diversamente
da Luigi Capuana traduttore del testo e da Arrigo Boito suo consulente letterario in quel periodo.
22. Giuseppe GIACOSA, Teatro, vol. II, Milano, Mondadori, 1968.
23. Amelia ROSSELLI, Illusione. Commedia in tre atti. L’idea fissa. L’amica. Scene, Roma-Torino,
Roux e Viarengo, 1906. Viene rappresentato al teatro Carignano di Torino nel 1901 con Teresa
Mariani.
24. Amelia ROSSELLI, El Rèfolo, Venezia, Filippi, 1981. Messo in scena per la prima volta dalla compagnia di Ferruccio Benini al Teatro Quirino di Roma nel 1911, a guerra finita è tradotto da Julie
Darsenne e rappresentato con il titolo Le Coup de vent al teatro dell’Odéon di Parigi nel 1920.
25. Amelia ROSSELLI, El socio del papà. Commedia in tre atti, Milano, Treves, 1912. Viene rappresentato al teatro Goldoni di Venezia nel 1911 da Ferruccio Benini.
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26. Amelia ROSSELLI, San Marco; Milano, Treves, 1914. Il dramma viene rappresentato al teatro
Manzoni di Milano il 19 maggio 1913 come è attestato nel suddetto volume di Treves e in uno studio sul teatro italiano dell’anno precedente (AA.VV., Il teatro italiano nel 1913, Milano, F. Vallardi,
1914, pp. 150-151).
27. Amelia ROSSELLI, Emma Liona. Dramma in quattro episodi, Firenze, Bemporad, 1924. Il dramma
non è mai stato rappresentato.
28. Maurice Maeterlinck, L’uccellino azzurro. Fiaba in sei atti e dodici quadri, traduzione di Amelia
Rosselli, Firenze, Le Monnier, 1922.
29. A. ROSSELLI, Felicità perduta, Livorno, Belforte e C., 1901. Amelia Rosselli è anche scrittrice
per l’infanzia essendo tale letteratura, nell’Italia post-unitaria, veicolo importante di patriottismo e
genere privilegiato dalle autrici che si sentivano legittimate socialmente dall’essere madri e educatrici (Cfr. Cuore di E. De Amicis, 1886). Pubblica due volumetti: Topinino. Storia di un bambino
(1905) e Topinino, garzone di bottega (1908). Le vicende dello svogliato studente protagonista, che
viene mandato dai genitori a lavorare come apprendista da un falegname, ricordano quelle del noto
personaggio di Gianburrasca.
30. A. Rosselli include Eleonora Duse tra i “molti eccelsi nell’arte e nella letteratura” che conosce
appunto a casa di Laura e Angiolo Orvieto. Angiolo Orvieto aveva fondato, col fratello Adolfo, la
rivista “Il Marzocco” dove la scrittrice pubblica più di un articolo (Cfr. ROSSELLI, Memorie, op.
cit., pp. 120-121).
31. Ivi, p. 120. A. Rosselli sente il bisogno di dichiarare la sua ammirazione e gratitudine all’attrice che
aveva suscitato in lei un’emozione estetica fortissima interpretando Donna del mare (Lettera di A.
Rosselli a E. Duse, in data 31-01-1922, Archivio Duse, Fondazione Giorgio Cini, Venezia)
32. Gli storici distinguono il tempo in cui Venezia era denominata Serenissima da quello della Repubblica veneta.
33. Cfr. AA.VV., Il teatro italiano..., op. cit. p. 13.
34. Amelia ROSSELLI, L’assedio di Venezia sulla scena dialettale, « Il Marzocco », 20 aprile 1913, p. 1.
35. Carlo Alberto RADAELLI, Storia dello assedio di Venezia negli anni 1848 e 1849, Napoli, Tip.
Del Giornale di Napoli, 1965. Ricordiamo che il buon teatro di narrazione del secondo Novecento
prende spunto, nella maggior parte dei casi, da importanti testi storici o giornalistici.
36. Storico combattente originario di Roncade (Treviso) divenuto poi colonnello dell’esercito italiano.
37. “Si dice un po’ troppo che il dialetto si presta soltanto a esprimere pensieri e piccole passioni” (ROSSELLI, L’assedio di..., art. cit, p. 1). Amelia Rosselli aveva pubblicato una raccolta di novelle Gente
oscura ispirata alle vicissitudini e ai sogni delle persone comuni (Amelia ROSSELLI, Gente oscura,
Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1903).
38. ROSSELLI, L’assedio di..., art. cit., p. 1.
39. Il termine “tradimento” è di foscoliana memoria.
40. In dialetto veneziano gansèr, significa addetto al ganso; è il marinaio che in un vaporetto si occupa
delle manovre di attracco.
41. Oltre che una reminiscenza del testo teatrale Serenissima di Giacinto Gallina, si tratta della rielaborazione letteraria di un ricordo d’infanzia della scrittrice. Domenico, ex-gondoliere sordo di casa
Rosselli, “si ridusse a fare il gansèr in un traghetto” (ROSSELLI, Memorie, op. cit., pp. 36-37).
42. Cfr. ARISTOTELE, Poetica, traduzione e introduzione di Guido Paduano, Bari, Laterza, 1998.
43. Nella pièce compare solo un accenno a Tommaseo quando il personaggio di Zuane Barbarigo, per
difendere le proprie convinzioni e contrapporsi al figlio, recita un proverbio veneziano: “Soto i veneziani, vin de dies’ani; soto Manin e Tomaseo, aqua e aseo” (ROSSELLI, San Marco, op. cit., p. 64).
44. ROSSELLI, San Marco, op. cit., p. 10.
45. Fu pubblicato nel volume Venezia e le sue lagune in occasione del nono congresso degli accademici
italiani del 1847.
46. Napoleone Nani (Venezia 1841- Verona 1899) direttore della scuola di belle arti a Verona; coltivò
soprattutto la pittura di genere e il ritratto. Furono suoi allievi Luigi Nono e Giacomo Favretto.
47. Cfr. Laura FOURNIER, Daniele Manin et la réflexion sur le destin national de Venise après 1848,
in AA. VV., Le mythe de Venise au XIXe siècle, a cura di Christian Del Vento e Xavier Tabet, Caen,
PUC, 2006, pp. 113-126.
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48. Amelia ROSSELLI, L’assedio di Venezia sulla scena dialettale, art. cit., p. 1.
49. ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 139.
50. Le due lettere citate sono conservate nella Biblioteca di Casa Goldoni di Venezia, all’interno di una
busta della “Biennale Venezia” quale “Dono Varagnolo”. La lettera di A. Rosselli a D. Varagnolo, è
stata spedita dal Grand hôtel di Macugnaga in data 27 agosto 1914
51. Ibidem.
52. Ibidem.
53. Amelia ROSSELLI, Propaganda elettorale femminile, «Il Marzocco», 16 novembre 1913, p. 3.
54. “deve cioè imparare che a ogni suo più geloso, più sacro diritto sovrasta il diritto della nazione a cui
appartiene”(ROSSELLI, Propaganda elettorale..., art. cit., p. 3).
55. Ibidem.
56. Sibilla ALERAMO, Una donna, Firenze, Roux e Viarengo, 1906. Il romanzo, redatto tra il 1901 e il
1904, è accettato solo da Roux e Viarengo nel 1906, anno in cui la casa editrice pubblica Illusione di
Amelia Rosselli. Sibilla Aleramo scrive una lettera ad A. Rosselli il 10 aprile 1916 (Archivio della
famiglia Rosselli, Torino).
57. La Villotta, forma musicale polifonica a tre o quattro voci, costituita da ottonari a rima alternata, in
origine era tramandata oralmente. Nel XV secolo acquisisce una forma scritta e diventa la risposta
popolare al madrigale colto.
58. Amelia ROSSELLI, San Marco, Milano, Treves, 1914, p. 133.
59. L’inserto musicale rappresenta forse un omaggio al marito musicista prematuramente scomparso.
60. Gabriele D’Annunzio è in quel periodo il più importante drammaturgo italiano e durante la prima
guerra mondiale Venezia diventa una base per le operazioni di propaganda militare del poeta-vate.
61. Amelia ROSSELLI, San Marco, op. cit., pp. 14-15, 22-23.
62. Ivi, p. 6-7.
63. Ivi, p. 39
64. Ivi, p. 10.
65. ROSSELLI, Memorie, op. cit., p. 135.
66. Nei volumi di critica teatrale dell’epoca la compagnia dialettale di Ferruccio Benini viene presentata
in termini encomiastici (Cfr. AA.VV., Il teatro italiano..., op. cit. pp. 42, 81-82 e Renato SIMONI,
Trent’anni di cronaca drammatica (1911-1923), Vol I, Torino, Società Editrice Torinese, (1951)
1975, pp. XXVIII-XXXVI). Invece la scena del teatro delle donne, tra le quali A. Rosselli, raggiunge, per la critica e il pubblico, risultati al massimo mediocri. “Per ora il teatro, come il fondamento,
sembra chiuso all’attività femminile” (AA.VV., Il teatro italiano..., op. cit. p. 147). Si osservi un’esplicita dichiarazione misogina del critico Carlo Weidlich in un articolo del 1925 su A. Rosselli.
“Una donna che scrive non ci piace per principio: ma poi nella pratica siamo pronti a fare delle
eccezioni, poche eccezioni, una delle quali è appunto costituita dalla scrittrice di cui ci occupiamo”.
Nel suo ritratto letterario di A. Rosselli, il critico definisce San Marco dramma storico “fortemente
patriottico”(Carlo WEIDLICH, Amelia Rosselli, in “Fascino letterario”, Milano, 23 luglio 1925.
L’articolo si trova nella Miscellanea Musatti, Biblioteca di casa Goldoni di Venezia, Quaderno di
autori drammatici, n. 8, pp. 46-47).
67. Ivi, p. 135.
68. Per Ferruccio Benini, attore di Conegliano formatosi alla scuola di Giacinto Gallina, Luigi Chiarelli,
precursore del teatro grottesco, scrive sempre nel 1913 una commedia, La portantina.
69. Ivi, p. 136
70. Si evince dalla lettura delle numerose lettere di A. Rosselli al fratello di questi anni (Archivio della
famiglia Rosselli, Torino).
71. Giovanni POZZA, San Marco, “Corriere della sera”3., 20 maggio 1913.
72. Nelle Memorie A. Rosselli non parla della rappresentazione milanese del dramma e le richerche fino
a qui condotte non hanno provato l’esistenza di una messinscena romana.
73. ROSSELLI, Memorie, op. cit., pp. 135-136.
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GIGLIOLA
ROSSINI
Laureata in Filosofia a Perugia, ricercatrice alla Yale Graduate School, ha conseguito il dottorato
di ricerca in Scienze Politiche e Sociali dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze discutendo
una tesi sulla filosofia politica di Thomas Hobbes, pubblicata come saggio da Il Mulino.
Su Hobbes ha pubblicato articoli e saggi in volumi miscellanei anche per la Cambridge University Press. Insegna storia e filosofia dal 1987, prima al Liceo Scientifico “G. Berto” di Mogliano
Veneto poi al Liceo Scientifico “Da Vinci” di Treviso e quindi, dal 1998, al Liceo Classico “A.
Canova”.
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GIGLIOLA ROSSINI
Luisa Baccara: la passione di una donna e di un’artista
P
erché Luisa Baccara? 1
La “dama del Vittoriale”, la donna che rinunciò a una carriera musicale di pianista per
seguire Gabriele D’Annunzio e che fu al suo fianco dall’impresa di Fiume fino alla morte
di lui avvenuta nel 1938, non appare una donna moderna.
Non può apparire moderna una donna, intelligente e colta, che ritenga di esprimere l’autentica propria personalità tutta nel vivere accanto ad un uomo, quell’uomo, “Gabriel”,
il poeta, il letterato, l’amante, l’eroe, uno che aveva costruito la propria immagine come
un’opera d’arte, ai tempi un mito. E la disperazione, l’indomabile gelosia, la paura di lei,
di Luisa, all’idea di perdere lui, quell’unico scopo eletto a fine assoluto della propria vita: è
moderna, è saggia, è intelligente, può affascinarci, piacerci una donna così pervicacemente
determinata a vivere per quel solo uomo, rimanendo lei stessa “nessuno” nonostante lo
straordinario tocco al pianoforte che aveva avuto in dono?
Eppure Luisa Baccara era una donna di fascino. Un fascino che stento a definire di donna
“normale”, laddove normale sia usato come sinonimo di comune, poiché non comune è la
pazienza, rara è la mitezza di Luisa, decisa ad essere la compagna fedele di un seduttore.
L’avanzare degli anni rese il seduttore sensibile alle qualità del carattere più che a quelle
estetiche e D’Annunzio impedì sempre che Luisa fosse allontanata dal Vittoriale.
Lei sopravviverà a lui per ben 47 anni, sempre discreta, in disparte, mantenendo il riserbo
più assoluto fino al 1984. Allora la “signora del Vittoriale” va in onda in una trasmissione
televisiva.
Intervistata da Gianni Minoli, niente risentimenti, niente indiscrezioni; l’anziana signora
dice di volere ricordare:
“solo le cose belle, mai quelle che possono avermi recato dispiacere”
Un anno dopo muore nel suo palazzo veneziano di San Polo.
Dignitosa fino all’ultimo, la Baccara parlando del suo rapporto con il Vate aveva certo
usato un eufemismo: non furono infatti “dispiaceri” quelli sofferti nei lunghi anni trascorsi
al Vittoriale, quanto veri e propri drammi.2
Luisa Baccara è una figura profondamente drammatica, forse definibile da tragedia greca.
Chi sa di storie d’amore credo proverà più che un po’ di commozione per la sua storia.3
Di carteggi, biglietti, diari, epistolari e corrispondenze di Gabriele D’Annunzio - uno dei
“peggiori” grafomani della nostra storia letteraria - si potrebbero riempire interi scaffali
di una libreria.
Il Befano alla Befana, curato da Paola Sorge ed edito da Garzanti nel 2003, è il titolo con
cui è stato pubblicato l’insieme di circa duemila documenti epistolari emersi dall’Archivio
del Vittoriale: lettere e messaggi che d’ Annunzio ha inviato a Luisa Baccara dal 1919 al
1938 e lettere, di straordinaria intensità, che Luisa Baccara invia all’uomo che le ha radicalmente cambiato la vita.
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Una precisa volontà testamentaria ha vincolato quei documenti. L’ultima compagna del
Vate ha preteso che trascorressero quindici anni dalla sua morte, avvenuta il 29 gennaio
1985, prima che si rendesse pubblico il fittissimo carteggio.
Ma chi era Luisa Baccara?
Teatro di Murano, domenica 2 marzo 1902, alle ore 8 e un quarto pomeridiane, la Società
filodrammatica muranese rappresenterà “Il Padrone delle ferriere”… e negli intermezzi
la brava ragazzina decenne LUIGINA BACCARA eseguirà al pianoforte i seguenti pezzi:
Gavotte Stephanie di Czibulka
Edelweiss Idylle di Gustav Lange.
“La Perseveranza”, quotidiano di Milano, martedì 27 marzo 1917
“…la signorina Baccara ci fece passare ieri sera attraverso tutti gli stili: da un austero
Preludio e Fuga per organo di Bach… alla briosa Sonata di Turini, a due pezzi di Scarlatti,
poi ad un bellissimo Racconto di Martucci, a tre preludi di Debussy, squisitamente miniati
e poetizzati dalla concertista e finalmente alla seconda ballata di Chopin, che pochissimi
pianisti osano affrontare perché terribilmente ardua come esecuzione e interpretazione.
La signorina Baccara ha fatto emergere la bellezza di questo fantastico poema… come
mai avevamo apprezzato prima d’ora” 4.
18 aprile 1919: Luisa suona a Venezia, a casa di Olga Levi Brunner, amante di D’Annunzio. Allora la giovanissima concertista è già nota in Italia, a Parigi, a Vienna e, tra un
concerto e l’altro, raggiunge la sua famiglia nella casa di San Tomà: il padre, un colonnello
di riserva, la madre, una bellissima donna dotata di grande vivacità, e la sorella Jole, violinista assai nota anche lei.
I due si conoscono: lei ha 27 anni, lui 56 e la seduce già nell’autunno del 1919.
“Alta, snella, i capelli nerissimi, con una piccola ciocca d’argento, il ‘viso stretto’ e occhi
enigmatici, Luisella attira subito il poeta. È la donna giusta per quel momento di eroismo
e di gloria: con i suoi inni patriottici infiamma gli animi dei legionari, con i suoi concerti
dà lustro a Fiume, appena conquistata da D’Annunzio. Le lettere di questi anni rispecchiano tutto il trasporto amoroso del poeta per lei, per l’ardente Rosafosca, che gli allieta
le notti fiumane. Ma i contrasti non mancano. D’Annunzio è insolitamente sospettoso nei
confronti di Luisella. Gli basta una sua ‘assenza ingiustificata’, come un suo soggiorno a
Roma nell’aprile del 1920, per pensare a intrighi. ‘Quale nuova trama è ordita, quale nuova menzogna è tesa?’, domanda in quella occasione. Non capisce, non ammette che Luisa
abbia delle esitazioni prima di sacrificare la sua carriera di artista a lui” 5.
L’11 settembre 1919 Gabriele D’Annunzio aveva guidato l’azione nota come “marcia di
Ronchi”, dal nome della località del Goriziano dalla quale mossero i reparti militari e di
“legionari” che occuparono Fiume, proclamandone unilateralmente l’annessione all’Italia,
in contrasto con le conclusioni delle cancellerie politiche delle potenze occidentali alla
fine della prima guerra mondiale6.
Luisa Baccara segue il Comandante D’Annunzio come legionaria, condivide con lui le
giornate di lotta e gli entusiasmi, siede al piano per il legionari.
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Per entrambi sono momenti di passione mentale e carnale.
Ascoltiamoli. Lei intensa ma riservata:
“chi ha vissuto quelle giornate non può più chiedere altro alla vita”
E lui:
“Buongiorno! Sono rimasto con la delusione di stanotte, e con la maschera misteriosa.
Il tuo corpo nudo sotto la seta mi bruciava più che mai. E la carezza terribile mi estenuò
ma non mi placò. Attendo la notte prossima, che sarà lunga e breve. Cerco i profumi per
la pelle conciata dal demonio”.
Ariel, il 17 febbraio 1920 7.
“Piccola, che cosa crudele! Sono andato a letto dopo le tre, e alle sette mi hanno svegliato.
Avrei avuto bisogno di dormire almeno dieci ore per rifare tutta la vita che tu mi hai presa
stanotte.
Che follia! Come siamo vivi dopo tanto spasimo?
Eppure, nell’accompagnarti, mi sentivo tanto leggero. Ti ricordi?
Per le scale, volavamo.
Riposati.
Guai se una linea del tuo corpo adorabile si mutasse!
Arrivederci, più tardi.
Ti ritroverò.
Ti amo”.
Ariel, 21 maggio 1920 8.
Nel gennaio 1921 D’Annunzio lascia Fiume. Luisa lo segue, dapprima a Venezia, dove
forse sapeva che avrebbe potuto andarsene e riappropriarsi della propria vita, ma, in aperta
lotta con la sua famiglia che aveva sognato per lei tutt’altro legame amoroso, decide di
seguirlo a Villa Cargnacco a Gardone Riviera 9.
Lì, al Vittoriale dove tutto ruota intorno alle passioni e alle manie del Vate, finisce per
essere uno degli “oggetti” della Stanza della Musica.
La passione progressivamente si assopisce e lascia il posto, per Luisa, a tanta tristezza e
solitudine.
Gabriel e Smikrà - piccolina, come anche lui la chiama - pur vivendo sotto lo stesso tetto
finiscono per parlarsi attraverso i biglietti che lei gli scrive all’alba e che lui indirizza a lei
tardi la sera, come un gufo a una colomba.
Spesso è lontana, non di rado allontanata, in villeggiatura soprattutto a Cortina.
“Mio Ariel
Sono più triste che mai; tutto mi fa male: ho dovuto vincere la riluttanza che sempre ho di
vedere gente. Voglio venir via; non ne posso più d’esserti lontana, voglio vederti! In questi
ultimi tre giorni ho avuto anche la consolazione di una lettera anonima!
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Perché non mi scrivi? Perché non telegrafi? Proprio dimentichi Smikrà che ti ha sempre
in cuore, che vive di te, che soffre?
Dimmi piccolo che non è così, dimmi che ancora non puoi dimenticare né rompere ciò che
ci lega per la vita e per la morte.
Come domani un anno fa. Smikrà aveva giurato a se stessa di donarti la sua vita. Oggi te
la dono nuovamente. Non c’è più ragione di vivere. Almeno avessi il coraggio di dire la
verità. Dimmi se posso ritornare. Siimi dolce. Ho tanta malinconia”.
12 sera
(12 agosto 1923)
“Strana creatura Luisa Baccara, dolce e aggressiva al tempo stesso, solo apparentemente
debole, solo apparentemente fredda, tanto da risultare antipatica ai più. Giovanni Comisso, che era stato a Fiume, la definisce ‘la musa perversa che consumava il Comandante
in estenuanti giochi d’amore’; i legionari la odiano letteralmente; quando sanno che si è
sistemata in pianta stabile al Vittoriale, progettano addirittura di rapirla”. 10
La passione che li ha uniti, anche in virtù dell’amore per la musica, si trasforma col tempo
in un rapporto di tipo coniugale.
Lui continua a coprirla di fiori e di regali. La chiama Rosafosca, Smikrà, ma le dà anche un
altro soprannome - Barbarella - che è quello di un’ antica fiamma, Barbara Leoni, la bella
amante degli anni romani. Come Barbara anche Luisa è bruna e slanciata, di una bellezza
quasi androgina 11.
Con la Baccara d’Annunzio sembra riuscire in un intento nel quale ha sempre fallito. La
persuade a condividere, anche se più spesso sembra a subire, una complicità libera, dove
siano consentiti gli esperimenti che arricchiscono la sua fantasia d’artista e soprattutto gli
approfondimenti di quella che lui chiama la più alta delle scienze:
“la donna è una scienza, non è un piacere. Di tutte le creature terrene è quella che più
profondamente può da noi essere appresa”.
Molte lettere di D’Annunzio alla Baccara contengono i dettami di una singolare e sperimentale ars amatoria dove si chiede a Luisa non la piccola virtù della tolleranza, ma l’alta
comprensione di un vivere che dovrà essere sino all’ ultimo “inimitabile”.
Il carteggio Il Befano alla Befana non ci autorizza ad illazionare che Luisa Baccara sia
stata condiscendente o addirittura complice di una sorta di ménages à trois: i suoi messaggi
strazianti sono i riflessi di una lancinante gelosia. 12
Dall’ Albergo Cristallo di Cortina - 11 settembre 1924
“Mio Ariel caro
Malinconia, malinconia in ogni angolo in ogni momento; la giornata è finita senza pace
e senza conforto. Ché i ricordi non confortano ma rendono più cupa, più dolorosa la solitudine. Oggi più che mai mi sento tutta sola. A me chiedi indulgenza, comprensione e non
fai nulla per aiutarmi, mentre ad altra ti concedi senza tregua e la sostieni (sia pure per
pietà) come tu dici. So di dirti parole amare ma oggi sento tutta la crudeltà del destino,
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oggi giornata di tanti ricordi e di tante illusioni. Del resto credi Ariel, non te ne voglio. Ho
rinnegato famiglia, mondo, me stessa e lo farei nuovamente per te; a te tutto è concesso,
anche di ridere quando qualcuno piange. E tu non ti domandi mai quanto possa soffrire la
compagna che si accontenta di veder amare. Così finisce il quinto anniversario di Ronchi,
sola e lontana. Dalle notizie di numerosi telegrammi capisco che non leggi le lettere; hai
ragione non ho nulla di nuovo da dirti. Fai quello che desideri per le scarpine e le altre
cose; da buona legionaria attendo ordini ed obbedisco.
Luisa 13
L’altra è la bella Angèl Lager detta “Jouvence”. Dopo un primo ritorno in Francia, dovuto
in parte alla gelosia della Baccara, Angèl tornò a Gardone nel maggio del 1925 e vi rimase
fino alla fine del 1926.
D’Annunzio, ogni volta, fa credere a Luisa quello che vuole.
“Cara piccola,
come sbagli nel credere che il Vittoriale sia roseo di delizie!
Per l’orrore e il furore, ho un accesso di licantropia. Sono, in gabbia, un lupo-mannaro
senza urlo!
Da due giorni, inoltre, sono assediato dalle “medaglie d’oro”.
(…) Jouvence partì ieri, con la sorella. E la giornata fu molto triste. La poverina è gracilissima, e non so qual destino le sia serbato.
Ti accludo altre 5.000 lire, nel caso che le altre 20.000 non bastino a saldare i conti.
Ti accludo anche, per te e per Joiò, una scatola dolce.
E vi abbraccio, mentre i grilli modulano alla luna i motivi più ascosi della mia malinconia”.
Gabriel
Il Vittoriale: 1 settembre 1925 14
Joiò è Jolanda Baccara, sorella minore di Luisa e valente violinista.
Al Vittoriale Luisa è costretta ad assistere all’opera di seduzione di “prede” sempre nuove.
Il piccolo appartamento verde a lei riservato è a pochi passi dalla “Stanza delle Ospiti”
dedicata alle “belle di notte” che lì si truccano, si profumano, indossano una delle “vesti
magiche”, estremamente sexy, tuttora conservate al Vittoriale. Finisce per ammalarsi, soffre di nevralgie e di dolori articolari proprio alle mani che le servono per la tastiera. Cerca
rifugio nei ricordi del passato.15
Il 13 agosto 1922 alle ore 23 circa, Gabriele D’Annunzio cade da una finestra del Vittoriale. Se non ci fosse stato l’incidente il 15 agosto, in una villa toscana, si sarebbero
dovuti incontrare D’Annunzio, Mussolini e Nitti per mettere a punto un progetto politico
che avrebbe potuto consentire la nascita di un governo di largo respiro, capace di attirare
la maggioranza dei consensi e di fronteggiare le sinistre.16 La sera del 13 agosto, D’Annunzio, in pigiama e pantofole, cade dunque dalla finestra della Sala della Musica. Un
incidente banale ed un salto di sette metri. La notizia viene diffusa il giorno seguente,
dando all’episodio una versione accidentale: il Comandante, in ascolto della pianista Luisa
Baccara ed avendo a fianco la di lei sorella Jolanda, aveva perso l’equilibrio mentre era
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appoggiato allo stipite della finestra ed era quindi precipitato a terra. Scrive Ugo Ojetti sul
“Corriere della Sera”, in forma iperbolica: “dopo la caduta D’Annunzio rantolava, aveva
la metà del viso nera e sangue e materia cerebrale gli colava dal naso”. Sull’episodio
tacciono le due Baccara. Anzi Luisa fa di più e, dopo aver resistito ad ogni tentazione giornalistica, quando consegnerà al Vittoriale il carteggio con Gabriele lo avrà privato delle
lettere scambiate nel periodo appena successivo all’incidente. Nasce l’ipotesi che Luisa
Baccara sia quasi la carceriera del Comandante; che sia una spia di Nitti o una fascista
celata, ma anche che abbia lo scopo finale di uccidere D’Annunzio per toglierlo di mezzo,
posto che egli sia diventato ingombrante per i suoi atteggiamenti ora cordiali ora distaccati
nei confronti del Duce del fascismo.
Tuttavia l’ipotesi formulata dall’incaricato delle indagini all’epoca, tal Dosi, sembra confermata dalla pubblicazione del Carteggio D’Annunzio - Baccara. Luisa soppresse tutte le
lettere di quel periodo, ma in una, datata 1° settembre 1924, c’è qualcosa sfuggito al passato da coprire. Si parla di un “colpo di tirebouchon” di Jolanda che può essere la semplice
chiave del mistero. Nell’epistolario ricorre con frequenza il ricordo del “Volo dell’Arcangelo” in coincidenza con la data dell’accadimento ed è ricordato con mestizia, non scevra
da un diffuso senso di colpa da parte di lei.17 La Baccara nutriva un amore possessivo per
D’Annunzio e ne era totalmente presa. Ben difficilmente avrebbe potuto tramare contro
di lui. Aveva ire personali ma sempre motivate solo da gelosia e D’Annunzio anteponeva
al suo piacere tutto, anche il dolore di chi lo adorava. Quella sera lui era stato particolarmente cattivo ed aveva preso a corteggiare Jolanda per sfregio a sua sorella. Jolanda deve
averlo respinto per rispetto a Luisa e per vergogna della situazione; nel parapiglia che ne è
deriva, il Vate perde l’equilibrio e cade a causa dell’ultima spinta di Joiò, appunto il “colpo
di tirebouchon”.
Negli anni a seguire la relazione con Luisa fluirà più intima, più casta, più vera, inevitabilmente più lamentosa a causa degli anni che passano, mitigata da senso di stanchezza e
da maggiore introspezione. Nelle lettere non inviate, scritte a matita, D’Annunzio si fa più
sincero e profondo, e recupera memorie del passato ancora vive. Come ad esempio nella
missiva datata 16 ottobre 1931:
“Cara Smikra, non so dire perché il mio primo romanzo ‘Il Piacere’ tanto imperfetto mi
tenga da ieri nel suo fascino giovanile. Ho letto ora il capitolo terzo del libro secondo,
con un turbamento profondo. E, in ogni pagina, trovo un segno di me, un ricordo di me,
vivo. Io fui Andrea Sperelli, compiutamente. E, nel fondo, nei gusti, nella mutevolezza,
nella grazia, nella malinconia, non sono mutato. Me ne addoloro e me ne vergogno, me
ne compiaccio e me ne rammarico. A ogni modo, ho l’anima lacera e convulsa; e penso a
quel che è diventata Roma, in paragone alla mia Roma vista dalla Trinità de’ Monti. È il
primo libro d’un giovine scellerato, ma riconosco che è pieno zeppo d’ingegno...” 18
Da parte di Luisa, invece, le oltre 60 lettere da lei vergate disegnano una parabola sentimentale vissuta con intensità e passione, all’ombra del Vate, ma con la forza di una personalità e di un carattere mai dimesso.
I messaggi che invia all’uomo che le ha cambiato radicalmente la vita sono spesso accompagnati, in modo patetico, da ciocche di capelli o da fiori.
Al Vittoriale, avvolta nel suo scialle, va a passeggiare nel parco, attraversa il Ponte dei
Desideri seguendo la valle del Rio Torto fino al laghetto della danze, sempre pensando a
lui, al suo Ariel. 19
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“Ariel, mio caro, stamattina ho cantato per te nel bosco, ho detto alla foresta, alla natura,
agli insetti la dolce mia malinconia. Pensi A Smikrà?”
4 agosto, 1923 20
Ogni sera spera che lui venga a salutarla alla fine della giornata, a darle la buonanotte.
Passa continuamente dalla rassegnazione alla ribellione, ma solo raramente dà sfogo alla
sua amarezza:
“Voglio saper la verità. Voglio conoscere la mia sorte, non voglio né la compassione né la
carità... voglio la parola sincera...” 21
Luisa Baccara lasciò il Vittoriale immediatamente dopo la morte di Gabriele D’Annunzio,
avvenuta il 1° marzo 1938. Lo lasciò in tutta fretta e tornò a Venezia dove scelse la solitudine, tranne pochissimi amici cari e fedeli tra cui Nino Rota, l’autore di numerose colonne
sonore di film di Fellini.
Luisa aveva, nel 1938, 46 anni e a Venezia riprese ad impartire lezioni di pianoforte.
“Quando lasciò il Vittoriale prese con sé i gioielli di Buccellati che le aveva donato il suo
Gabriel, ma lasciò nel suo appartamento le preziose custodie, scatole e scatoline di velluto, vuote, aperte, con le dediche di D’Annunzio scritte sulla fodera di raso dell’interno:
il Befano alla Befana”. 22
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NOTE
1. Il testo qui trascritto è quello della presentazione offerta presso gli Spazi Bomben della “Fondazione
Benetton” il 16.11.2011. In quella occasione il Carteggio.D’Annunzio - Baccara è stato interpretato
da Sivia Trentin (Luisa Baccara), Valerio Milan (Gabriele d’Annunzio), Maria Pia Scattareggia (narratore); la preparazione degli interpreti è stata curata da Federica Rosellini.
2. Questa l’interpretazione offerta da Paola Sorge nella bella “Introduzione” al carteggio: Gabriele
D’Annunzio Il Befano alla Befana: l’epistolario con Luisa Baccara, Milano, 2003, p. 8.
3. Modifico qui il senso di un’affermazione di Antonella Federici, autrice del saggio Luisa Baccara,
Vicenza, 1994, la quale scrive:“Chi non sa più di storie d’amore troverà in sé solo un po’ di commozione per questa storia di Luisa Baccara, e forse irritazione per quei nomignoli; chi ancora crede
nell’amore… Non lo so”, p. 11. Credo che, pur figlia del suo tempo e del mito dannunziano, Luisa
sia figura insolita e intensa nel suo vissuto amoroso; non donna pubblica eppure grande figura di
docente di pianoforte, Luisa formò e curò generazioni di allievi. Il concerto tenutosi il 18.11.2011
presso l’Aula Magna del Liceo “Duca degli Abruzzi” di Treviso, nell’interpretazione di Anna Colonna Romano e Stefano Trevisi, ha riproposto all’attenzione del pubblico alcune delle sonate a
quattro mani di Mozart, che facevano parte di un repertorio molto amato da Luisa e spesso da lei
eseguito con gli allievi prediletti.
4. Numerose recensioni riferite ai concerti di Luisa Baccara sono riportate da Antonella Federici nel
saggio Luisa Baccara, op. cit.
5. Cf. P. Sorge, op.cit., p. 9
6. D’Annunzio espresse, a conclusione del primo conflitto mondiale, la posizione di chi era irrealisticamente arroccato sulla formula “Patto di Londra più Fiume”. Una dettagliata ricostruzione dell’impresa di D’Annunzio è Fiume di Mimmo Franzinelli e Paolo Cavassini, Milano, 2009; a pag. 80 di
questo lavoro il Comandante è ritratto con la sua amante “legionaria” Luisa Baccara.
7. Questa e le altre lettere riportate sono presenti in P. Sorge , op.cit.
8. P. Sorge, op.cit., pp. 64-65
9. Per questa valutazione si fa riferimento a A. Federici, op.cit., p. 73.
10. P. Sorge, op.cit., p. 9
11. Cf. Gabriele D’Annunzio, Lettere a Barbara Leoni (1887-1892), Lanciano, 2008.
12. P. Sorge, op.cit., p.15
13. A. Federici, op.cit.,p.90; cf. anche P. Sorge, op.cit., p. 103.
14. P. Sorge, op.cit., p. 108
15. P. Sorge, op.cit., p. 8
16. Ci sono, relativamente a questo incontro, molti antefatti politici che andrebbero presi in considerazione, non ultimo: perché Nitti? L’ex Presidente del Consiglio che, attribuendogli il nomignolo
volgare di Cagoia, D’Annunzio aveva sbeffeggiato fu il promotore dell’incontro in rappresentanza
di un versante liberale moderato che intendeva trovare un compromesso con il nascente fascismo.
Nell’estate del 1922 i fascisti erano in gran fermento, il paese viveva confusione e tensione sociali,
le elezioni del 1921 non erano andate poi così bene per Mussolini, che guardava da tempo a D’Annunzio come ad un’icona in grado di rafforzare, con la sua grande popolarità, l’idea fascista. Il lavoro fondamentale con il quale confrontarsi per ricostruire i rapporti tra D’Annunzio e il fascismo è:
Renzo De Felice, D’Annunzio politico, Bari, 1978. Si veda anche Giordano Bruno Guerri, L’amante
guerriero, Milano, 2008. Tra gli articoli, Maria Rosa Giacon, I voli dell’arcangelo. Studi su D’Annunzio, Venezia ed altro; inoltre Carlo Selmi in www.gabrieledannunzio.it
17. P. Sorge, op.cit., p. 9
18. La lettera è citata da Luigi Mascheroni ne Il Giornale, 5.VI.2009, in un articolo intitolato Il tormentato ed erotico D’Annunzio: ecco le lettere all’amante Luisa Baccara.
19. P. Sorge, op.cit., p. 12
20. In A. Federici , op. cit., p. 90
21. P. Sorge, op.cit., p. 13
22. P. Sorge, op.cit., p. 16
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S TA M P E R I A - M A G G I O 2 0 1 2