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Gregg Hurwitz
Il prossimo
sarai tu
Traduzione di
Mauro Boncompagni
e Luca Conti
Titolo originale:
You’re Next
Copyright © 2011 by Gregg Hurwitz
All rights reserved
Progetto grafico di collana: Yoshihito Furuya
Progetto grafico di copertina: Rocío Isabel González
http://narrativa.giunti.it
© 2012, 2014 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: febbraio 2012
Ristampa
Anno
7 6 5 4 3 2 1 0
2018 2017 2016 2015 2014
A Rosie, che mi ha fatto conoscere la parte adulta di me stesso.
E a Natalie, che ha dato un senso a tutto quanto.
Non sarò io quello che resta solo.
Glasvegas, Daddy’s Gone
PROLOGO
Il bambino inizia a muoversi, sdraiato sul sedile posteriore della
station wagon. Ha quattro anni, il corpo è poco più di un fagottino
sotto la coperta che lo avvolge, e ha un fianco indolenzito nel punto
che preme contro l’attacco della cintura di sicurezza.
Si tira su a sedere stropicciandosi gli occhi alla luce del mattino,
poi si guarda attorno, confuso.
L’ auto è ferma lungo il marciapiede con il motore acceso, accanto a una recinzione metallica. Il padre stringe forte il volante,
le braccia tremanti, il sudore che gli cola giù per il collo lasciando
una traccia sulla pelle arrossata.
Il bambino deglutisce, cercando di alleviare l’arsura che ha in
gola. «Dove… dov’è la mamma?»
Il padre respira a fatica e si volta per metà. L’ ispida barba di
un giorno gli scurisce la guancia. «Non è… Non può… Adesso
non c’è.»
Poi china la testa e comincia a piangere. Un pianto fatto di
spasmi, di singhiozzi, proprio come piange qualcuno che non è
abituato a farlo.
Al di là della recinzione, i bambini scorrazzano sull’asfalto
spaccato e si mettono in fila per salire su un’altalena arrugginita.
Un cartello, legato alla rete metallica con del filo di ferro, proclama: «è di nuovo mattino in america: ronald reagan alla
presidenza».
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Il bambino è accaldato. Abbassa lo sguardo e vede che indossa
dei jeans e una maglietta a maniche lunghe, non il pigiamino con
cui era andato a letto. Cerca di dare un senso alle parole del papà,
a quella strada che non gli dice nulla e alla coperta che ora tiene
appallottolata sulle gambe, ma non riesce a concentrarsi su altro
che non sia il senso di vuoto nello stomaco e un fruscio sordo
nelle orecchie.
«Non è colpa tua, campione.» La voce di suo padre ha un tono
più acuto del normale, è strano. «Capisci cosa dico? Ricordati solo
questo… Quel che è successo non è colpa tua.»
Poi cambia la presa sul volante, stringendolo con così tanta
forza che le mani gli diventano bianche. Il polsino della sua camicia
è chiazzato di nero.
Da qualche metro più in là arriva il chiasso delle risate: bambini che si arrampicano e si lasciano penzolare da un ponticello a
pioli, altri che zampettano carponi attorno a un castello di ferro
malridotto.
«Perché? Che ho fatto?» chiede il bambino.
«Ti vogliamo tanto bene, tua madre e io. Più di qualsiasi altra
cosa.»
Le mani del padre continuano ad agitarsi sul volante. Le sposta,
le serra, poi le sposta di nuovo, senza tregua. Finché il polsino non
va a finire sotto la luce diretta del sole, e il bambino si rende conto
che quella chiazza non è affatto nera.
È rosso sangue.
Il padre si curva in avanti, le spalle si sollevano, ma non emette
alcun suono. Poi, con uno sforzo che non è in grado di nascondere,
si raddrizza di nuovo. «Va’ a giocare.»
Il bambino guarda dal finestrino, verso quel cortile che gli è
totalmente estraneo, sconosciuto come i ragazzini che vede correre
e gridare. «Ma dove siamo?»
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«Torno fra qualche ora.»
«Lo giuri?»
Il padre ancora non si volta, ma alza gli occhi verso lo specchietto e solo in quel momento incontra lo sguardo fisso del figlio. Nel
riflesso la bocca è una linea dritta e immobile, gli occhi azzurro
pallido sono limpidi e fermi. «Lo giuro» gli risponde.
Ma il bambino non si muove.
Allora il respiro del padre si fa strano. «Va’…» gli dice «va’ a
giocare.»
Così lui finalmente scivola di lato e scende dall’auto. Oltrepassa
il cancello, e quando si ferma a guardarsi indietro la station wagon
è sparita.
Intanto i bambini sulle altalene sobbalzano allegri, altri invece
si lanciano a rotta di collo giù da una piccola pertica. Sembrano
avere tutti una gran familiarità con quel luogo.
Uno sfreccia verso di lui e gli molla una botta sul braccio. «Preso!» strepita.
Così il bambino gioca a rincorrersi assieme agli altri, si arrampica anche lui sul castelletto, striscia a quattro zampe dentro
il tunnel giallo di plastica e, quando qualcuno dei più grandicelli
gli rifila uno spintone, lui ce la mette tutta per restituirglielo. Finché dall’edificio di fronte non arriva il trillo di una campanella
e allora i ragazzi schizzano tutti via dai giochi per dileguarsi là
dentro.
Il bambino sgattaiola fuori dal tunnel e rimane in piedi, solo,
al centro del cortile. A poco a poco il vento aumenta d’intensità,
le foglie secche sembrano unghie che grattano l’asfalto. Non ha
proprio idea di cosa fare, perciò si siede su una panchina e attende
il ritorno di suo padre, mentre una nuvola passa per un istante a
coprire il sole. Non ha nemmeno un giubbotto. Rimane seduto a
scalciare le foglie ammonticchiate ai piedi della panchina, sotto un
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cielo che si carica di altre nuvole. Resta lì talmente a lungo che il
fondoschiena inizia a fargli male.
Infine da una porta a doppio battente esce una donna, i capelli
castani segnati dai primi fili grigi. Gli viene incontro e si ferma
poco distante, posando le mani sulle ginocchia. «Ehi, ciao.»
Ma lui si guarda in grembo.
«Va bene» dice lei. «D’accordo.»
La donna lancia un’occhiata al cortile deserto e poi oltre la recinzione, osservando i posti auto vuoti lungo il marciapiede.
«Ma tu di chi sei?» gli chiede.
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ORA
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Sdraiato nell’oscurità, Mike fissava il baby monitor piazzato sul
comodino. Tempo tre ore e si sarebbe dovuto alzare, ma come
al solito non riusciva a prendere sonno. Da un po’ un moscone
ronzava a intervalli irregolari nella stanza, come a volerlo tenere
sempre all’erta. Secondo sua madre, la presenza di uno di quegli
insetti in casa voleva dire che il male stava insidiando la famiglia.
Era una delle poche cose che Mike ricordava di lei.
Per un attimo cercò di richiamare alla mente ricordi d’infanzia
meno sgradevoli. Il poco che gli era rimasto impresso si riduceva
a qualche fulminea sensazione. Odore di incenso di salvia in una
cucina piastrellata di giallo. Sua madre che gli faceva il bagno, che
sembrava sempre abbronzata, che sapeva di cannella.
Sul monitor, le tacche rosse schizzarono verso l’alto. Un’interferenza. Oppure Kat aveva iniziato a tossire?
Abbassò il volume per non svegliare Annabel, che si mosse
comunque sotto il lenzuolo e disse con voce roca: «Tesoro, se lo
chiamano baby monitor ci sarà un motivo».
«Lo so. Scusa. Mi era sembrato di sentire qualcosa.»
«Ha otto anni. Ed è più matura di noi due. Se le serve qualcosa,
non ci mette niente a venircelo a dire.»
Era una vecchia diatriba e Annabel aveva ragione, così Mike
tolse l’audio e rimase a fissare imbronciato quell’aggeggio, incapace
di spegnerlo. Un piccolo congegno di plastica che racchiudeva le
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peggiori paure di un genitore. Soffocamento. Un malanno. Degli
intrusi.
Di solito i suoni non erano che disturbi o interferenze, come
schiocchi di elettricità nell’aria o il bambino dei vicini che tirava su
col naso. A volte Mike sentiva addirittura delle voci, in quel brusio
di sottofondo. C’erano degli spettri in quell’aggeggio, ci avrebbe
giurato. Sussurri dal passato. Era una porta d’accesso al subconscio,
e quei bisbigli spettrali si potevano interpretare a piacimento.
E se l’avesse spento davvero, e proprio quella notte Kat avesse
avuto bisogno di loro? Se si fosse svegliata in preda al panico, disorientata da un incubo, da un’improvvisa paralisi, dal malvagio incantesimo del moscone, intrappolata nelle sue stesse paure? Come
si decideva quando era arrivato il momento di correre quel rischio?
Nelle prime ore del giorno, pareva che la logica e il buon senso
riuscissero a prendere sonno prima di lui. Tutto sembrava possibile,
e nel modo peggiore.
Stava per assopirsi, quando il moscone decise di compiere un
altro giro attorno alla luce notturna e, un istante più tardi, le tacche
rosse lampeggiarono di nuovo sul monitor privo di volume. Era
Kat che chiamava?
Si tirò su a sedere, passandosi le mani sul viso.
«Guarda che sta bene» bofonchiò Annabel.
«Lo so, lo so» ma finì per alzarsi e dirigersi silenzioso nel
corridoio.
Kat dormiva come un sasso, il braccio esile buttato su un orsacchiotto di peluche e la bocca semiaperta. Il volto serio era incorniciato dai capelli castani. Aveva gli stessi occhi ben distanziati
di sua madre, lo stesso naso sbarazzino e lo stesso labbro inferiore
carnoso. Con quei lineamenti e quel carattere impertinente era
difficile, a volte, capire se Kat fosse una versione bambina di Annabel o se Annabel fosse una versione trentaseienne di Kat. L’ unico
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tratto che la figlia aveva ereditato da Mike era però assai evidente:
un occhio castano e uno color ambra. Eterocromia, la chiamavano.
Ma chissà dove aveva pescato quei riccioli.
Mike si chinò sulla figlia, cercando di sentire il sibilo del suo
respiro. Poi andò a sedersi nell’angolo e si mise a guardarla, provando una fitta d’orgoglio al pensiero dell’infanzia che lui e Annabel
le avevano garantito, al senso di sicurezza che le permetteva di
dormire con tanto gusto.
«Tesoro.» Annabel era in piedi sulla soglia e si scostava dalla
fronte i capelli lisci. Indossava una canottiera Gap e i boxer di Mike,
e così vestita non era meno bella di dieci anni prima, durante la
luna di miele. «Vieni a letto. Domani hai una giornata pesante.»
«Arrivo subito.»
Lei attraversò la stanza. Si baciarono in silenzio, poi Annabel
camminò a fatica verso la camera da letto.
Il movimento della sedia a dondolo era ipnotico, ma i pensieri di Mike continuavano a tornare alla questione non risolta
che avrebbe dovuto affrontare. Dopo un po’ si rese conto che non
avrebbe più dormito e andò in cucina a preparare un bricco di caffè.
Tornato sulla sedia, bevendo soddisfatto dalla tazza, si concentrò
completamente sulle pareti giallo chiaro, sulla gran quantità di
bambole nello scaffale, sulla figlia che dormiva come un angioletto.
L’ unico elemento di disturbo era il saltuario ronzio del moscone,
che l’aveva seguito lungo il corridoio.
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Kat entrò sbandando in cucina, la coda di cavallo allentata e tutta
da una parte. Annabel, davanti alla padella delle omelette, si soffermò a osservare quella cascata di riccioli. «È stato tuo padre, vero?»
La bambina ficcò l’orso bianco nello zainetto per poi arrampicarsi su uno sgabello del bancone, accanto a Mike. Annabel le
rovesciò l’omelette nel piatto e si sporse a sistemare la coda della
figlia con poche mosse ben assestate. Infine immerse la padella
nell’acqua saponata, con un piede spinse un pezzo di scottex sotto
il lavello per tamponare una perdita e tornò a preparare il pranzo
della bambina, tagliando via la crosta dal sandwich al burro d’arachidi, senza gelatina.
Alla sua terza tazza di caffè, che stava bevendo con un certo
fracasso, Mike guardava la moglie e percepiva tutto come al rallentatore. «Stasera lo sistemo io, il lavello» disse, e Annabel gli
rispose sollevando il pollice. Dallo zainetto della figlia spuntava
un braccio bianco e peloso. «Posso chiederti perché stai portando
un orso bianco a scuola?»
«Oggi devo presentare una ricerca.»
«Un’altra? Non sei solo in terza elementare?»
«È per quel corso che seguo dopo le lezioni. Devo parlare del
riscaldamento globale…»
Annabel, sarcastica: «Non mi dire».
«… e questo non è un orso bianco come gli altri.»
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Mike alzò un sopracciglio. «No?»
Kat tolse il peluche dallo zainetto e lo esibì con gesto teatrale.
«Non è più Palla di Neve, Compagno di giochi. Adesso è… è Palla
di Neve, l’Ultimo Orso Bianco.» Poi sfilò dalla custodia gli occhiali da vista, inforcandoli. La montatura rossa e tonda le conferiva
un’espressione seria. Non che ne avesse bisogno. «Sapevate,» disse
«che quando diventerò grande gli orsi bianchi saranno quasi sicuramente estinti?»
«Sì» rispose Mike. «Lo dicevano in quel film di Al Gore. Quello
con lo scioglimento dei ghiacciai e gli orsi che annegano. Hai pianto
per due giorni.»
«Mangia l’omelette» disse Annabel.
Kat ne piluccò il bordo. Mike la prese per la collottola. «Vuoi
che ti accompagni a scuola a piedi?»
«Papà, ho otto anni.»
«Non fai che ricordarmelo.» Mike sfilò dalla tasca il grosso
cellulare e premette il tasto di riselezione. Dopo qualche squillo
rispose il direttore della banca. «Salve, sono ancora Mike Wingate.
È arrivato il bonifico?»
«Solo un attimo signor Wingate.» Rumore di dita sulla tastiera.
Mentre Kat e Annabel trattavano su quante forchettate di omelette andavano mangiate, Mike restò in attesa tamburellando nervoso sul bancone.
Ci aveva messo tredici anni per passare da manovale a carpentiere a caposquadra e, infine, ad appaltatore. E adesso stava per
chiudere il suo primo contratto da costruttore. Per arrivare fin
lì aveva rischiato più volte l’ulcera, offrendo in garanzia la propria casa per ottenere una serie di prestiti che gli consentissero di
acquistare una parte del canyon, ancora intatto, al confine della
città. Lost Hills, una comunità della Valley cinquanta chilometri a
nord-ovest del centro di Los Angeles, offriva una serie di vantaggi,
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il più importante dei quali era il prezzo alto ma non indecente delle
proprietà immobiliari. Mike aveva suddiviso il terreno in quaranta
ampie parcelle e costruito una serie di case ecologiche da lui stesso
battezzate, con ben poca inventiva, Green Valley. Non che fosse un
maniaco della difesa dell’ecosistema, solo che fin da piccola Kat
aveva mostrato interesse per la tutela dell’ambiente, e lui stesso
era stato costretto ad ammettere che quelle futuristiche immagini
di Manhattan allagata per l’innalzamento del livello del mare, pur
essendo realizzate al computer, l’avevano spaventato a morte.
I contributi statali per le costruzioni ecologiche erano serviti a
vendere in fretta le case, e il bonifico per le ultime trattative concluse sarebbe dovuto arrivare quella stessa mattina dalla società
incaricata di gestire i passaggi di proprietà. Soldi che l’avrebbero
tolto dalle grinfie della banca, una volta per tutte, dopo tre anni e
mezzo, permettendogli finalmente di non dover guardare l’estratto
conto per decidere se andare o no a cena fuori.
Il respiro del direttore della banca sibilò sulla linea. Il ticchettio
della tastiera si interruppe. «Ancora niente, signor Wingate.»
Mike lo ringraziò, chiuse il cellulare e si terse il sudore dalla
fronte con la base del palmo. Sentì di nuovo quella vocina insistente: e se, dopo tutta quella fatica, qualcosa fosse davvero andato
storto?
Si accorse che Annabel lo stava guardando. «Non avrei dovuto
comprarlo, quello stupido pickup. Non ancora» disse.
«E poi?» rispose sua moglie. «Cos’è, la trasmissione di quello
vecchio la tenevi unita col nastro isolante? Ce la passiamo bene.
Mica siamo al verde. Hai lavorato sodo. Eccome. Se ti togli qualche
piccola soddisfazione, non c’è niente di male.»
«E certo non avevo bisogno di spendere ottocento dollari per
un abito.»
«Devi farti fotografare col governatore, tesoro. Mica vorrai an20
darci coi jeans strappati? E comunque puoi metterlo di nuovo alla
premiazione. Ecco, vedi?» Schioccò le dita. «Stamattina, dopo le
lezioni, devo passare a ritirarlo dal sarto. Oggi Kat ha la visita medica, quella del rientro a scuola. Puoi portarcela tu? E ci vediamo
qui a pranzo?»
Nell’ultimo anno i loro impegni erano stati sempre più difficili
da conciliare. Appena era diventato chiaro che Kat se la cavava benissimo a scuola, Annabel aveva deciso di iscriversi di nuovo alla
Northridge University per ottenere l’abilitazione all’insegnamento.
La retta di un’università statale era sostenibile, a patto di forzare
qua e là il budget famigliare.
Mike riaprì il cellulare e dette un’occhiata allo schermo, casomai avesse perso una telefonata dalla banca con buone notizie. Poi
si massaggiò il collo indolenzito. Lo stress non mollava la presa.
«Cos’aveva che non andava la mia vecchia giacca sportiva?»
«Papà, guarda che nessuno si mette più le giacche scozzesi.»
«Non è scozzese. È a scacchi.»
Annabel fece un cenno con la testa alla figlia, ripetendo scozzese
col solo movimento delle labbra.
Mike fu costretto a sorridere. Respirò a fondo. Tentò di espirare
tutta l’aria che aveva in corpo. La società immobiliare aveva già i
soldi. Cosa poteva andare storto?
Annabel terminò di sistemare il lavello, si tolse gli anelli e si
cosparse le mani di crema idratante. Quello di fidanzamento, un
piccolissimo diamante giallo paglierino che a Mike era costato, con
gran fatica, due intere buste paga, mandò un debole luccichio. Gli
piaceva quell’anello, così come gli piaceva la loro bella casetta. Il
sogno americano distillato in due camere da letto e un centinaio di
metri quadri. Sarebbe stato fantastico avere dei soldi in più, certo,
ma lui e la sua famiglia avevano sempre saputo di dover essere grati,
di dover apprezzare la loro buona sorte.
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Annabel tese le mani a cercare le sue. «Vieni qui, ho messo
troppa crema.» La luce della finestra la investiva da sopra le spalle
e dava un alone bronzeo ai suoi capelli scuri. Gli occhi, che riflettevano l’azzurro ghiaccio della sua camicia, sembravano traslucidi.
Lui alzò il telefono, inquadrò la moglie nel mirino della fotocamera incorporata e scattò. «Come mai?» chiese Annabel.
«I tuoi capelli. I tuoi occhi.»
Annabel intrecciò le dita alle sue.
«Dio santo» disse Kat. «Forza, baciatevi e fatela finita.»
La Ford F-450 scintillava nel garage come un carro armato tirato
a lucido a forza di olio di gomito. Quel pickup di quattro tonnellate beveva abbastanza gasolio da vanificare qualunque vantaggio
offerto da Green Valley all’ambiente, ma Mike non poteva certo
trasportare materiale da costruzione sui cantieri a bordo di una
Prius. Era un veicolo antieconomico, un acquisto irresponsabile,
eppure il suo proprietario aveva dovuto confessare a se stesso che
il giorno precedente l’aveva ritirato dalla concessionaria con un
piacere superiore al lecito.
Kat saltò sul sedile posteriore ficcando subito il naso dentro un
libro, come ogni mattina.
Nell’uscire dal vialetto, Mike indicò con un gesto il monitor tvlettore dvd appeso al tettuccio. «Smetti di leggere. Da’ un’occhiata
alla tv. Ha le cuffie senza fili. Isolano dal rumore esterno.»
Sembrava che leggesse dal depliant pubblicitario, ma non riu­
sciva a trattenersi. Quell’odore di macchina nuova gli dava alla
testa.
Kat si infilò le cuffie, iniziando a cambiare i canali. «Sì!» disse
urlando, visto che il volume era alto. «Hannah Montana.»
Mike percorse a bassa velocità le tranquille strade suburbane,
abbassando l’aletta parasole e pensando a come lo rendesse nervoso e
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allo stesso tempo eccitato il servizio fotografico a cui avrebbe dovuto
sottoporsi in giornata assieme al governatore. Passarono davanti a
una gioielleria. Lanciò un’occhiata alle scintillanti pietre preziose in
vetrina e pensò che, non appena fosse arrivato il bonifico, magari
avrebbe potuto farci un salto e comprare un regalo per Annabel.
Nell’avvicinarsi allo studio della dottoressa Obuchi, Kat si incupì in volto e si sfilò le cuffie. «Niente punture» disse.
«Niente punture. È solo una visita di controllo. Non ti agitare.»
«Non mi agito, basta solo che non salti fuori un ago.» Poi tese la
mano con una formalità ben superiore ai suoi anni. «Affare fatto?»
Mike si voltò parzialmente per stringerle solennemente la mano. «Affare fatto.»
«Non ti credo» disse lei.
«Ho mai infranto una promessa, con te?»
«No,» rispose Kat «ma c’è sempre una prima volta.»
«Bel rapporto di fiducia che ho costruito.»
«Ho otto anni. Ho il diritto di pensarla come mi pare.»
Poi rimase a bocca chiusa per tutto il resto del tragitto e fin
dentro l’ambulatorio, dove continuò a muoversi avanti e indietro
sul lettino facendo scricchiolare sotto di sé il lenzuolo di carta,
mentre la dottoressa Obuchi le controllava i riflessi.
Al termine della visita, il medico consultò la cartella clinica della bambina. «Ah. Non ha mai fatto la seconda trivalente. Annabel
voleva che distanziassi le vaccinazioni.» Poi si tirò su una ciocca
di capelli neri e lucidi. «Siamo in ritardo» disse, frugando in un
cassetto alla ricerca di una fiala e una siringa.
Kat sbarrò gli occhi, si irrigidì sul lettino e lanciò a Mike uno
sguardo implorante. «Papà, avevi giurato!»
«Vorrebbe prepararsi psicologicamente, per le iniezioni»
disse Mike. «Preferisce saperlo per tempo. Possiamo tornare in
settimana?»
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«Siamo a settembre. Iniziano le scuole. Può immaginare come
sono messa.» La dottoressa Obuchi registrò l’occhiataccia di Kat.
Irremovibile. «Potrei avere un attimo venerdì mattina.»
Mike strinse i denti per la frustrazione. Kat lo teneva d’occhio.
Posò le mani sulle ginocchia ossute della figlia. «Tesoro, venerdì ho
una giornata piena di impegni, e la mamma deve andare a lezione.
È il mio giorno peggiore. Facciamolo ora e togliamoci il pensiero.»
Kat avvampò in viso.
«È soltanto una punzecchiatura» disse la dottoressa Obuchi. «Il
tempo di sentirla, ed è già tutto finito.»
Kat distolse con forza lo sguardo da Mike per fissare il muro,
col respiro che le aumentava di velocità e il braccio pallido quasi
come il laccio emostatico che lo stringeva. La dottoressa Obuchi
tamponò con dell’alcol il bicipite della bambina e mise l’ago in
posizione.
Mike rimase a osservare, sempre più a disagio. Kat continuò a
distogliere lo sguardo.
Mentre la punta di acciaio inossidabile si abbassava, il padre
allungò una mano per fermare con delicatezza quella del medico.
«Mi organizzo io per venerdì» disse.
Mike guidava masticando una Juicy Fruit, e tentava di mettersi
in contatto per la quarta volta nel corso della mattinata col direttore
della banca. Nell’avvicinarsi alla scuola di Kat, abbassò il finestrino
e sputò fuori la gomma.
«Papà.»
«Cosa?»
«Non è giusto per l’ambiente.»
«Tipo che un’aquila ci si potrebbe strozzare?»
Kat si accigliò.
«Okay, va bene» disse lui. «Non sputerò più la gomma dal
finestrino.»
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«Palla di Neve, l’Ultimo Orso Bianco, ti ringrazia.»
Poi Mike accostò davanti alla scuola, ma Kat rimase sul sedile
posteriore continuando a tastare le cuffie che aveva in grembo.
«Devi ricevere non so che premio per le case ecologiche, vero?»
chiese. «Da parte del governatore?»
«Mi danno un riconoscimento, sì.»
«So che la natura e tutte quelle cose ti interessano, ma non è
che, insomma, ci sei proprio dentro. Allora perché le hai costruite,
quelle case?»
«Davvero non lo sai?» Mike sistemò lo specchietto così da poterle osservare il viso.
Lei scosse la testa.
«Per te» rispose lui.
Kat aprì leggermente la bocca, per poi voltarsi e sorridere tra
sé. Quindi si spostò rapida sul sedile e scese dal pickup, e Mike si
accorse – anche quando la bambina aveva già attraversato metà del
cortile – che il viso della figlia era ancora rosso di gioia.
Lasciò entrare la brezza dal finestrino abbassato e si concentrò
su quel che vedeva. Alcuni insegnanti stavano sorvegliando il cortile della ricreazione. I genitori si raggruppavano tra le macchine
in sosta, fissando appuntamenti per il gioco pomeridiano, organizzando trasporti collettivi, pianificando gite d’istruzione. I bambini
scorrazzavano ululando e rincorrendosi sull’erba.
Era la vita che lui aveva sempre sognato, ma che non aveva osato
sperare di ottenere. E invece eccola lì.
Compose il numero e si portò all’orecchio il cellulare. Il direttore della banca sembrava un po’ irritato. «Sì, signor Wingate.
Stavo per chiamarla. Sono lieto di confermarle che il bonifico è
appena arrivato.»
Per un istante Mike rimase senza parole. Il telefono gli stava
scivolando dalla mano sudata. Domandò di quanto si trattasse,
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poi chiese al direttore di ripetere l’importo, tanto per accertarsi
che fosse vero.
«Così adesso il prestito è estinto, giusto?» disse, anche se sapeva di aver ricevuto quanto bastava per saldarlo cinque volte.
«Completamente?»
Un lieve tono divertito, nella voce del suo interlocutore. «Lei
non ha più alcuna pendenza con noi, signor Wingate.»
Mike si sentì serrare la gola, e si limitò quindi a ringraziare il
direttore e chiudere la comunicazione. Poi si coprì il viso con la
mano e rimase in quella posizione per un po’, limitandosi a respirare, preoccupato di poter perdere la testa proprio lì, nel bel mezzo
del parcheggio della scuola elementare di Lost Hills. Era per via dei
soldi, certo, ma anche per qualcos’altro, ben più importante. Per il
sollievo e l’orgoglio, per la consapevolezza di aver portato avanti
un’impresa rischiosa dedicandole quattro anni di fatica ininterrotta. E adesso sua moglie e sua figlia non avrebbero più dovuto
preoccuparsi di avere un tetto sopra la testa o del frigorifero vuoto
o della retta universitaria scaduta e nascosta nel sottomano della
scrivania.
Dalla parte opposta del cortile, l’immagine di sua figlia era sezionata dai fili della recinzione metallica. Kat si arrampicò in cima
a una pertica, toccando con un pugno la barra che la sovrastava.
Vederla gli fece stringere il cuore. Il suo piccolo mondo protetto,
fatto di piccole sfide, vasti orizzonti e un affetto senza limiti.
Già in ritardo per il lavoro, rimase a guardarla giocare.
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3
Gli operai si radunarono attorno al pickup di Mike che era appena
entrato nel cantiere.
«Wow!!!»
«Il capo si è fatto la macchina nuova.»
«Quanto ti è costato, questo scherzetto?»
Mike scese, respingendo le domande con un cenno della mano
per nascondere il disagio. Non si era mai abituato a essere il capo,
e gli mancava il disinvolto cameratismo che nasceva dal lavorare
fianco a fianco e giorno dopo giorno con i colleghi. «Meno di quel
che pensate.»
Jimmy si appoggiò al cofano con entrambe le mani. Impugnava
un cacciavite.
«Occhio ai graffi» disse Mike, e subito si pentì di aver aperto
bocca.
Jimmy alzò le mani al cielo, come in una rapina, e gli altri scoppiarono a ridere.
«Va bene, va bene» ammise Mike. «Me lo sono meritato. Dov’è
Andrés?»
Il suo irascibile caposquadra si fece avanti strascicando i piedi.
Mescolava l’interno di una zucca con una cannuccia di acciaio. Era
piena di yerba mate e la cannuccia – si chiamava bombilla – serviva
a filtrare le foglioline, così che Andrés potesse succhiare a giornate
intere quell’infuso amaro senza dover sputare i rametti. Poi l’uomo
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fece sfollare gli operai. «Be’, cosa aspettate? I topi ballano quando
il gatto manca, non quando si fa vedere.»
Gli operai si dispersero, e Andrés posò la zucca sul paraurti del
pickup. «All’arrembaggio» disse in tono piatto.
«All’arrembaggio?»
«Oggi è la Giornata Nazionale del Linguaggio da Pirati. Che
razza di paese. Tutte ’ste feste. La Giornata per Portare Tuo Figlio
al Lavoro. La Giornata di Martin Yuther King.»
Immigrato dall’Uruguay, Andrés si era finalmente deciso a fare
domanda di naturalizzazione ed era diventato un magazzino ambulante di astruse banalità americane.
«L’ ho sentito chiamare Martin Luther King» rispose Mike.
«E io che ho detto, amico?»
Risalirono il pendio che conduceva al cuore della comunità
in costruzione. Le quaranta case, disposte a cornice attorno a una
distesa erbosa, una specie di giardino comune nell’avvallamento
del canyon, erano distribuite su entrambi i lati del pendio. Quelle
situate più in alto avevano prezzi più elevati. A prima vista sembravano case come tutte le altre, ma un esame più attento rivelava
scarichi biologici per il flusso delle acque piovane, tetti composti
da cellule fotovoltaiche e coperti da uno strato di vegetazione, condutture di argilla vetrificata al posto del pvc, che era un materiale
non biodegradabile e soggetto a tossicità. Nonostante tutti questi
accorgimenti, le costruzioni avevano a stento ottenuto l’ambita
certificazione leed, assegnata ai progetti che si distinguevano in
campo ecologico e ambientale. Ma ce l’avevano fatta, e ormai – a
parte le rifiniture all’impianto elettrico e qualche ritocco estetico,
oltre che puramente ornamentale – il lavoro poteva dirsi concluso.
Valicarono la sommità del pendio per poi scendere verso il
giardino. Era la parte di Green Valley che Mike preferiva, piazzata
com’era al centro della comunità, così da permettere ai genitori di
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tenere d’occhio, dalla finestra della cucina, i loro figli impegnati
a giocare. Secondo il progetto ci sarebbero state ancora due aree
edificabili, ma Mike non se l’era sentita di costruire anche lì.
Si diressero verso la buca scavata all’estremità più lontana del
giardino, che in poco tempo avrebbe accolto le fondamenta del
barbecue comune. «Cosa stiamo aspettando?» domandò Mike.
«Quel cemento ecologico ci mette di più, a formarsi» rispose
Andrés. «Ma il mio capo è così maniaco del controllo da non farmi
usare quello standard.»
Era la loro classica routine: una vecchia coppia, astiosa ed esasperata, ma unita fino all’ultimo.
«La certificazione leed è troppo rigida. Non abbiamo margini
di manovra.» Mike fece una smorfia e si passò una mano sul viso.
«Cristo, e chi poteva immaginarsi tutto questo casino?»
Andrés succhiò di nuovo la sua bombilla. «Cosa dobbiamo tirare su, dopo?»
«Una fabbrica di carbone.»
L’ uomo fece un risolino e affondò la cannuccia nella zucca. «Te
l’avevo detto, senza ’sto prato, ci saremmo beccati un altro venti
per cento di profitti. Allora sì che il pickup nuovo ce lo potevamo
permettere tutti.»
Nel vederli avvicinare, Jimmy fece un cenno di saluto e iniziò
a spingere una betoniera verso la fossa del barbecue. Andrés alzò
un braccio in segno di risposta, mentre la bombilla gli volava dalla
zucca per cadere nella buca. Lui abbassò lo sguardo, incupito, come
se fosse soltanto l’ultimo dei dispiaceri della giornata. «Al diavolo.
Ne comprerò un’altra.»
Mike fissò la sottile cannuccia di acciaio infilata nel fango e si
sentì risuonare in testa la voce di Kat, che chiacchierava di rifiuti
e disgregazione dei metalli. La sua coscienza riemerse in maniera
fastidiosa.
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Jimmy stava per rovesciare il cemento, quando Mike gli gridò
qualcosa, puntando un dito. L’ altro alzò gli occhi al cielo, scostandosi per accendere una sigaretta, mentre Mike saltava giù. La fossa
era di circa un metro e mezzo, con le pareti perpendicolari. Avevano scavato in profondità per le tubature del gas. Nel chinarsi a
raccogliere la cannuccia, Mike scorse un pezzo di tubo a gomito
che spuntava dalla parete di terriccio. La conduttura principale
dell’acqua.
Rimase come paralizzato.
Si sentì stringere lo stomaco, e la cannuccia gli cadde dalla mano. L’ odore muscoso di terra umida e di radici lo inondò, intasandogli i polmoni.
Inizialmente pensò di essersi sbagliato. Poi si mise a tastare il
terriccio friabile, e allo shock subentrò la paura.
La conduttura non era fatta di quell’argilla vetrificata che gli
era costata una piccola fortuna.
Era di pvc.
«Quanto ne è stato usato?» Adesso Mike era in piedi sull’orlo della
fossa assieme ad Andrés, e cercava di non far filtrare il panico nella
voce. Aveva mandato via gli altri operai.
«Non lo so» rispose il caposquadra.
«Porta qui il furgone» disse Mike. «Voglio far scendere delle
telecamere nei tubi di scarico.»
«Quel camion ci costa, al giorno…»
«Me ne frego.»
Mike afferrò una pala ficcata in un mucchio di pietre decorative,
saltò nella fossa e si mise a scrostare la parete. Aveva ancora il fisico
del manovale – avambracci muscolosi, mani forti, torace ampio – e
avanzò in fretta col lavoro, anche se la terra compatta non cedeva
sotto i suoi colpi come avrebbe fatto qualche anno prima. Andrés
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chiamò il furgone, poi rimase immobile a braccia conserte mordicchiandosi l’interno di una guancia, osservando Mike e ascoltando
i suoi grugniti che salivano dalla fossa.
Qualche istante dopo, afferrò a sua volta una vanga, lasciandosi
cadere nella buca.
Il furgone degli idraulici era fermo in mezzo alla strada, a motore
acceso, mentre una videocamera da condutture usciva dai portelloni posteriori per poi infilarsi in un pozzetto. Malgrado l’ora, i manovali – a parte Jimmy – erano stati spediti a casa. Fatta eccezione
per qualche uccello di passaggio, una calma innaturale aleggiava
sull’agglomerato di case, nuove e luccicanti. Sotto il sole della tarda mattinata Green Valley sembrava una città finta in attesa della
deflagrazione di un test nucleare.
All’interno del furgone, stretti dietro il rotolo del tubo, con gli
abiti incrostati di fango e i visi sporchi di terriccio, Mike e Andrés
scrutavano in diretta un piccolo schermo in bianco e nero, su cui
appariva la sgranata visuale endoscopica di condutture buie. Accanto alle loro teste, il rotolo continuò a girare con un ronzio sordo,
mentre la videocamera proseguiva nella sua discesa sotterranea,
trasmettendo immagini talmente costanti da sembrare in loop.
Metri e metri di tubature in pvc, che si allungavano sotto il fianco
della collina, sotto le strade, sotto le colate di cemento delle case.
Dallo schermo, una luce brillò sui visi dei due uomini, la cui
espressione spenta non accennò a mutare.
Strisciando, Jimmy riemerse dal pozzetto, la pelle scura luccicante di sudore, e sbirciò dai portelloni del furgone. «Abbiamo
finito?»
Mike annuì, lo sguardo perso nel vuoto. Era a malapena in
grado di afferrare le parole. «Grazie, Jimmy. Adesso puoi andare.»
Il manovale si allontanò. Un istante più tardi un motore emise
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un rombo familiare, e Mike e Andrés sentirono Jimmy che se ne
andava a bordo del vecchio pickup scoppiettante del capo.
E quando Mike si decise a parlare, lo fece con voce rotta. «Il
pvc è la cosa peggiore. Le sostanze chimiche penetrano nel terreno.
Quella robaccia va in giro e si ritrova perfino nel grasso di balena.
Nel latte delle donne Inuit, Cristo santo.»
Andrés si sporse all’indietro, appoggiando la testa contro la
fiancata del furgone.
«Quanto potrebbe costare?» domandò Mike.
«Starai scherzando, eh?»
«Rimettere a posto le cose. Sostituirlo con argilla vetrificata.»
«Non è solamente sotto la strada. È sotto il cemento, sotto le
case.»
«Lo conosco, il percorso delle tubature.»
Andrés sospirò infastidito e guardò altrove.
Mike avvertì un dolore sordo alla mascella e si accorse che stava
serrando i denti. Smantellare le case sarebbe stato un incubo. Un
gran numero di famiglie aveva già venduto le vecchie abitazioni.
Tutta gente dal reddito medio, che non disponeva certo dei soldi
per un affitto temporaneo o un prolungato soggiorno in albergo.
Cristo, aiutare le famiglie a possedere una casa di un certo pregio era stato uno degli stimoli principali. Molte proprietà Mike
le aveva vendute non al maggiore offerente, ma alla gente che ne
aveva davvero bisogno: ragazze madri, coppie di operai, famiglie
che meritavano un’opportunità.
«Com’è che non te ne sei accorto?» domandò Mike.
«Io? L’ hai scelto tu, il subappaltatore. Vic Manhan. Quel tipo
che è arrivato con trenta operai e ha fatto tutto durante le vacanze
di Natale. Ricordi? Non ti era sembrato vero.»
Mike guardò la sua Ford con risentimento e avversione. Un
pickup da 55.000 dollari: ma che cazzo si era messo in testa? Chissà
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se la concessionaria l’avrebbe preso indietro. All’attacco d’ira seguì
la rabbia vera e propria. «Hai mica il fisso di Manhan?» chiese.
Andrés fece scorrere la rubrica del suo cellulare, premette il
tasto di chiamata e gli allungò il telefono.
Mentre il cellulare squillava, Mike si passò una mano tra i capelli sudati, tentando di respirare con meno affanno. «Spero per
lui che quel coglione sia assicurato bene, perché non m’importa
quanto potrà costare. Ho intenzione di sommergerlo di cause, e…»
«Siamo spiacenti ma il numero da lei chiamato non è più attivo…»
Mike sentì che il suo cuore stava reagendo in modo strano.
Chiuse la chiamata. Si mise a rovistare nel telefonino di Andrés.
Provò a comporre il numero del cellulare di Manhan.
«L’ abbonato Nextel da lei chiamato non è più…»
Mike lanciò il telefono contro la fiancata del furgone. Andrés lo
guardò per poi chinarsi lentamente, recuperare il cellulare e dare
un’occhiata allo schermo per vedere se funzionava ancora.
Mike ansimava. «L’ ho verificata di persona, la sua cazzo di
licenza.»
«Meglio se la controlli di nuovo» disse Andrés.
La camicia appiccicata al corpo, Mike fece una serie di telefonate, scrivendo ogni nuovo numero sul retro di una busta. Il quadro
si chiarì in fretta. La licenza di Manhan era scaduta da cinque mesi,
poco dopo il termine del suo lavoro per Mike. In precedenza, Manhan aveva lasciato scadere la propria assicurazione, che quindi non
era attiva al momento in cui la sua ditta aveva posato le tubature in
pvc. La documentazione che aveva consegnato era fasulla. Tutto
questo, con ogni probabilità, significava che non esistevano fondi
per un risarcimento danni.
Per la prima volta da moltissimo tempo, il pensiero di Mike
si rivolse alla violenza, allo schianto di nocche contro cartilagini
nasali. “Come si fa presto a tornare indietro” si disse. Poi abbassò
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la testa e strinse i capelli nei pugni fino a provare dolore. Il respiro
gli risaliva caldo su per le guance.
«Perché ti stupisci così tanto di aver trovato il pvc?» disse
Andrés.
«Ma che cazzo di discorsi sono? Mi stupisco eccome.»
«Andiamo. L’ argilla vetrificata è più pesante della ghisa. Più
costosa da fabbricare, da caricare, da installare. Allora com’è che
il preventivo di Manhan era più basso del trenta per cento rispetto
agli altri?» La pelle scura sulle tempie di Andrés si raggrinzì. «Sarà
che non hai voluto accorgertene?»
Mike si guardò le mani ruvide.
«Hai quaranta famiglie che stanno per trasferirsi qui» disse Andrés. «In settimana. Anche se tu volessi spendere tutti i tuoi soldi
per sostituire le tubature, mi dici come faresti? Gli distruggi le case,
le strade a colpi di martello pneumatico?»
«Sì.»
Andrés sollevò un sopracciglio. «Per sostituire le tubature?»
«C’è il mio nome, su quei contratti» rispose Mike. «Ho garantito
di aver usato condutture di argilla vetrificata e non di pvc. Col
mio nome.»
«Non hai fatto niente di male, tu. È quel tipo che ci ha fregato.»
La voce di Mike si era fatta rauca. «Quelle case sono costruite
su una menzogna.»
Andrés scosse la testa con fare stanco, poi scese dal furgone
con un gemito. Un istante dopo, Mike lo seguì. Si sentiva i muscoli
rigidi, come atrofizzati.
Si misero l’uno di fronte all’altro in mezzo alla strada, sbattendo gli occhi come neonati davanti all’improvviso bagliore,
col canyon che si stendeva di fronte a loro, splendido e ripido e
costellato di artemisia. L’ aria, secca e pungente, sapeva di eucalipto. Il verde dei tetti si intonava a quello del sommacco sulla
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collina e, quando Mike socchiuse gli occhi, li vide fondersi per
diventare un solo colore.
«Non lo saprà nessuno» disse Andrés. Poi annuì una sola volta,
come in un gesto di conferma, e si avviò verso la macchina.
«Io sì» rispose Mike.
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Seduto sul bordo del caminetto, le spalle rivolte alla parete della
camera da letto, Mike fissava il cordless che aveva in grembo, rimuginando tra sé. Infine compose un numero che conosceva bene.
Una voce robusta, arrochita dall’età. «Hank Danville, investigazioni private.»
«Sono Mike» disse lui. «Wingate.»
«Mike, non so cos’altro dirle. L’ avrei chiamata, se avessi scoperto qualcosa, ma non so più dove cercare.»
«No, non mi riferivo a quello. Un’altra faccenda. Ho bisogno
di rintracciare un tizio.»
«Spero che questa volta si tratti di un lavoro che posso portare
a termine.»
«È un subappaltatore che mi ha imbrogliato.» Poi gli espose
una breve sintesi della faccenda. Dall’altro capo della linea giungeva il leggero sibilo del respiro di Hank che prendeva appunti.
«Ho bisogno di sapere dov’è finito. Dire che è una cosa urgente
sarebbe poco.»
«Di quanto l’ha lasciata scoperta?» domandò Hank.
Mike glielo disse.
Hank fece partire un fischio. «Vedrò cosa posso fare» rispose,
e riappese.
Mike era abituato a cercare informazioni che forse sarebbe stato
meglio non conoscere, ma questo non rendeva più lieve l’attesa.
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Si ficcò sotto la doccia, appoggiandosi alle piastrelle e lasciandosi
inondare da un getto caldissimo, nel tentativo di eliminare lo stress
con la pressione dell’acqua. Mentre si stava asciugando, squillò il
telefono. Col telo da bagno attorno ai fianchi, prese l’apparecchio,
si mise a sedere sul letto e si preparò alle brutte notizie.
«Le ultime tracce lasciate da Vic Manhan lo danno a St. Croix»
disse Hank. «Un assegno scoperto rifilato a un bar due mesi fa.
Dio solo sa dov’è adesso. Sua moglie l’ha piantato, aveva davanti
un divorzio molto costoso eccetera eccetera. Forse ha pensato che
procurarsi un ultimo lavoro e sparire coi soldi fosse la cosa migliore da fare. Non ho ancora capito com’è riuscito a falsificare i
documenti dell’assicurazione, ma è certo che quando ha lavorato
per lei non aveva la minima copertura.»
Mike chiuse gli occhi e tirò un respiro. «E adesso non riesce a
scoprire dov’è?»
«Quel tipo sta scappando dagli sbirri e dagli avvocati della moglie. Può essere che a quest’ora sia finito ad Haiti. Risulta
irreperibile.»
Mike sentiva una sapore amaro alla base della lingua. «Ma andiamo. Mica è Jason Bourne.»
«Si rivolga pure a qualcun altro, se crede. Mi sembra di essermela cavata più che bene, in un quarto d’ora.»
«È l’ennesimo vicolo cieco, Hank. A quanto pare, non facciamo
che sbatterci la testa.»
La voce di Hank si acuì di indignazione. «Ah, ancora questa
storia? Gliel’ho detto la prima volta che è venuto qui: le sue richieste sono quasi impossibili. Non le ho mai garantito dei risultati.»
«No, certo che no.»
«Capisco che la realtà dei fatti possa darle fastidio, ma io sono
troppo vecchio per accettare queste critiche. Passi pure in ufficio
a ritirare il suo fascicolo. Chiudiamola qui.»
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Mike rimase col telefono all’orecchio ascoltando il suono assordante della linea caduta, e si sentì sommergere da un sentimento di
rammarico. Si era comportato come un coglione, pur di scaricare
la colpa su qualcuno, e doveva delle scuse a Hank. Ma non fece in
tempo a richiamare. Sentì la porta del garage che si apriva e, dopo
un po’, Annabel che entrava rapida in cucina. Gettò il telefono sul
letto un istante prima che sua moglie piombasse in camera con
l’abito appena ritirato dal sarto sulla spalla.
«Scusa, ho fatto tardi. Aveva sbagliato a stirare i pantaloni, sembravano un paio di jeans. Vieni qui. Prendi una camicia. Metti questa.» Ruotò l’orologio attorno al polso fino a vederne il quadrante.
«Possiamo ancora farti arrivare in tempo.»
Il servizio fotografico. Giusto.
Mike obbedì, muovendosi come un automa. Non sapeva come
fare a fermarsi e dire tutto a sua moglie.
Annabel gli girava attorno, sistemandogli il bavero della giacca
e raddrizzando le maniche. «No, quella cravatta no. Qualcosa di
più scuro.»
«Un tempo le cravatte le sceglievo da solo» sussurrò lui. «Da
quand’è che sono diventato un buono a nulla?»
«Lo sei sempre stato, tesoro. Solo che prima non c’ero io a fartelo notare.» Annabel si mise in punta di piedi e gli diede un bacio lieve sulla guancia. «Hai un aspetto fantastico. Farai colpo sul
governatore. Magari ci proverà con te. Sai lo scandalo?» fece un
passo indietro per valutare l’insieme. «Sempre meglio di quella
giacca scozzese.»
«A scacchi» rispose fiacco Mike. «Ascolta…»
«Santo cielo.» Annabel aveva visto i suoi abiti da lavoro buttati sul pavimento del bagno. «Cos’hai fatto? Hai strisciato in una
fogna?» Andò a recuperare gli indumenti sporchi. Dalla tasca dei
jeans cadde una scatoletta marrone, che rimbalzò sul linoleum per
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poi lasciar uscire un anello: il diamante da due carati che Mike era
andato a scegliere in gioielleria dopo aver lasciato Kat a scuola. Gli
era passato di mente.
Annabel si portò la mano alla bocca. Poi si chinò a raccogliere
l’anello, con fare ossequioso. Gli occhi le scintillavano di lacrime.
«Sono arrivati i soldi!» Scoppiò a ridere e corse ad abbracciare il
marito. «Te l’avevo detto che sarebbe andato tutto bene. E quest’anello… Ma insomma, Mike, stai scherzando?» Lo infilò alla mano
destra, allargando le dita per ammirare la pietra. In viso sfoggiava
una felicità così assoluta che Mike si sentì un groppo in gola al
pensiero di dover rompere quell’incantesimo. Non riusciva quasi
a respirare.
Con dolcezza, le posò le mani sulle spalle. Le ossa di Annabel
erano fragili e delicate.
Lei alzò lo sguardo. Poi aguzzò gli occhi. «Cosa c’è che non va?»
Eccolo lì, nel loro minuscolo guardaroba, in giacca, camicia e
senza pantaloni. «Le condutture. Ricordi le condutture?»
«Argilla vetrificata. Un occhio della testa. Ma certo.»
«Il subappaltatore ci ha fregato ben bene ed è scappato. L’ ho
appena scoperto. Tutto quello che spunta dalle gettate di cemento è
argilla vetrificata. Per questo abbiamo superato l’ispezione ambientale.» Si inumidì le labbra. «Ma tutto quello che c’è sotto è pvc.»
Il lampo che le passò sul volto fu un chiaro segno che aveva
capito. «Quanto costa? Sistemare le cose?»
«Più di quel che tiriamo su da questo lavoro.»
Annabel fece un passo indietro e andò a sedersi sul letto a mani
strette, gli occhi fissi su quel grosso diamante che brillava anche alla
luce fioca della camera da letto. Per un po’, entrambi respirarono
in silenzio.
«L’ anello vecchio mi piace lo stesso» disse infine lei. «È quello
con cui mi hai sposato.»
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Mike avvertì sciogliersi qualcosa in petto, e di colpo si sentì
molto più vecchio dei suoi trentacinque anni.
«Siamo solo io e te» disse Annabel. «E Kat. Non ci servono altri
soldi. Posso sospendere l’università, trovarmi un lavoro temporaneo. Fino a quando… insomma, hai capito. Ce la faremo, coi conti
di casa. Possiamo togliere Kat da quel doposcuola. Andremo a stare
in un condominio. Non m’importa.»
Mike si infilò i pantaloni, lentamente, le gambe pesanti e insensibili come se non facessero parte di lui. Non osava incrociare lo
sguardo di Annabel perché aveva paura di come si sarebbe sentito.
«Sei sempre stato una persona leale» disse lei. Si sfilò l’anello da
due carati, posandolo accanto a sé sul copriletto, e riuscì a sorridere.
«Rimetti a posto questa cosa, in qualunque modo.»
Mike non aveva mai visto una suite così grande come quella del
Beverly Hills Hotel. Bill Garner era seduto dietro uno scrittoio
d’antiquariato e si adagiava pensoso contro una poltrona di pelle
che sembrava fatta apposta per meditare. Continuò a esaminare
l’immagine, una stampata in cui si vedeva una tubatura in pvc
spuntare dalla fossa.
Dalla porta aperta, che dava sul salottino, arrivavano flussi
di risate, frammenti di conversazione e il saltuario flash di macchine fotografiche. I destinatari del riconoscimento che stavano
per assegnare socializzavano in attesa di sottoporsi agli scatti dei
fotografi: pubbliche relazioni che servivano a preparare i media
alla cerimonia ufficiale della domenica sera. Fatta eccezione per
il governatore, che – a giudicare dal coro di saluti – aveva appena
fatto il suo ingresso, Mike era stato l’ultimo ad arrivare.
Garner si alzò, per poi attraversare la stanza e ficcare la testa
oltre la soglia. «Tutto pronto per le foto? Ok, dateci ancora un
minuto.» Richiuse la porta e tornò dietro lo scrittoio. Il suo viso,
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liscio come quello di un adolescente, non lasciava intuire altro che
un garbato ottimismo, com’era stato per tutto il tempo in cui Mike
aveva spiegato il suo problema.
Garner si portò le dita alle tempie. «Ha intenzione di pagare
lei la sostituzione?»
«Sono pronto a farlo» rispose Mike.
«Dove crede che andranno a finire quelle condutture in pvc
dopo che le avrà tirate fuori?»
«Non è stato il primo dei miei pensieri.»
«In una discarica, presumo. Così lei vorrebbe spostare le condutture da un terreno a un altro? E compiere quest’operazione
utilizzando una gran quantità di macchinari ad alto consumo di
gasolio?» Garner sorrise con aria affabile. «Non le sembra un po’
sciocco?»
Di colpo, Mike si rese conto di indossare il suo abito nuovo. «Sì.
Ma almeno è un comportamento onesto.»
«Quelle case che lei ha costruito rispettano l’ambiente al novantanove per cento. Ha molto di cui essere orgoglioso.»
Mike lo scrutò per un istante, cercando di interpretare la sua
espressione. «Io non la vedo così.» Poi cambiò posizione sulla poltrona imbottita, a disagio in quel completo formale. «E non so se
riesco a seguire la piega che sta prendendo questa conversazione.»
«Il governatore ha sposato questo progetto, Mike. Lei sa quanto
stia puntando sulla difesa dell’ambiente. E il suo complesso residenziale, grazie anche al nostro finanziamento pilota di contributi
statali, dimostra che un modello di tutela dell’ambiente può funzionare non solo per i ricchi stronzi, ma ha una logica anche per
i lavoratori. Green Valley è la creatura del governatore. Sono mesi
che ne sta parlando con la stampa.»
«Mi rendo conto dell’imbarazzo che può provocare questa cosa» disse Mike. «E mi dispiace.»
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«I contributi rappresentano un finanziamento pilota, tutt’altro
che consolidato. Il governatore è sotto il tiro di entrambe le parti
politiche. Se non esibiamo in pompa magna – e alla svelta – un
modello abitativo in grado di mostrare i benefici del risparmio
energetico quei contributi finiranno nel nulla. Lei sa che tra un
mese ci sono le elezioni? Il governatore si è esposto per una lunga
serie di iniziative elettorali, ed è per questo che abbiamo organizzato per domenica la conferenza stampa, il servizio fotografico e
la premiazione.» Garner strinse le labbra. «Quanto tempo le serve,
per sostituire quelle condutture?»
Per il disagio lo stomaco di Mike si strinse, poi anche la gola.
«Mesi.»
«E il suo premio per essersi distinto all’interno della
comunità…»
«Ovviamente dovrete cancellarlo.»
«Vede qual è il problema?» disse Garner. «Niente cerimonia di
premiazione, niente stampa. Niente stampa, niente sostegno pubblico. Niente sostegno pubblico, niente contributi statali per gli
acquirenti di quelle case.»
La bocca di Mike si inaridì.
«A quanto ammontano i contributi?» domandò Garner. «Trecentomila dollari a famiglia?»
«Duecentosettantacinque» rispose flebile Mike.
«E le famiglie che sta facendo traslocare appartengono tutte alla
classe media. Voglio dire, il punto era proprio questo. E adesso lei
ha intenzione di dire a quelle famiglie che non solo non potranno
traslocare nelle loro nuove case prima di qualche mese, ma che i
contributi sui quali hanno basato la loro pianificazione economica
non saranno più disponibili?» Garner sorrise amareggiato. «Che
dovranno tirare fuori quasi trecentomila dollari in più a testa? Oppure stava pensando di metterceli lei?»
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Mike deglutì per inumidirsi la gola. «A una cifra del genere non
ci arrivo neanche vicino.»
«Allora è proprio sicuro di voler passare la patata bollente a
quelle famiglie?»
Per la prima volta, Mike non ebbe una risposta pronta.
Garner posò un dito ben curato sulla foto e la fece scivolare
lontana da sé, sul piano dello scrittoio antico.
Mike abbassò gli occhi a fissarla.
Bussarono alla porta con fare impaziente. Un giovane assistente
si sporse dalla soglia. «Lui ci serve subito» disse. «Il fotografo si
sta agitando, e io devo rimettere il governatore sull’aereo per Sacramento.» Alle spalle del giovanotto, Mike riusciva a distinguere
la sagoma del governatore che raccontava una barzelletta, con le
tipiche vocali sparate, quasi violente, del suo accento austriaco.
Garner sollevò un dito. L’ assistente tirò un sospiro. «Trenta secondi» disse, e scomparve.
Mike e Garner si guardarono in faccia, il silenzio rotto solo
dal ticchettio di una pendola e dalla conversazione attutita che
giungeva dal salottino.
«Allora, cosa dice?» Garner si sporse sullo scrittoio, lasciando
scorgere un lembo di pelle dal taglio della manica della camicia.
«Per il bene di quaranta famiglie, crede di poter sorridere davanti
a qualche macchina fotografica?»
Poi fece un gesto in direzione del salottino. Il gemello d’oro al
polsino mandò un bagliore.
In ginocchio, Mike si mise a fissare il tremolio del fuoco nel camino, che ammantava d’arancione il suo viso, la moquette e il copriletto bianco. In mano stringeva la foto che mostrava il gomito
traditore di pvc. In maniera del tutto ridicola, gli venne in mente
che la sua postura era la stessa di un samurai disonorato.
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Alle sue spalle, Annabel era in piedi e cercava di rendersi conto della situazione. Kat, per fortuna, era nella sua stanza a porta
chiusa, impegnata a fare i compiti.
La moglie non aveva aperto bocca da quando Mike era entrato
con passo pesante, si era tolto la giacca e aveva preso posto sul
pavimento. Non ce n’era bisogno. Sapeva già tutto, e stava solo
aspettando che fosse lui a raccontarglielo.
«Non vogliono ritardi» disse Mike. «Hanno bisogno della pubblicità legata alla cerimonia di premiazione. Hanno minacciato di
togliere i contributi alle famiglie.»
«Allora toccherà a noi farcene carico» disse Annabel. «Di quanto si tratta? Oltre al costo della sostituzione dei tubi.»
«Undici milioni di dollari.»
La sentì restare senza fiato.
«Quindi cosa… cosa facciamo?» domandò lei.
Mike allungò la mano, lasciando cadere la foto tra le fiamme.
L’ immagine iniziò ad accartocciarsi e a diventare nera.
«Okay.» La voce di Annabel era flebile e avvilita. «Penso che mi
comprerò un vestito nuovo.»
La porta del bagno si chiuse con uno scatto alle sue spalle. Mike
guardò fisso il fuoco, chiedendosi a cosa avrebbe potuto portare
una menzogna del genere.
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